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Valeria Lazzaroli e Mariangela Rosano Opening speaker

On-line Speakers Valeria Lazzaroli e Mariangela Rosano

Valeria Lazzaroli, a capo dello spinoff universitario Arisk, insieme alla ricercatrice Mariangela Rosano del Politecnico di Torino, hanno animato la prima edizione di Richmond Risk Manager Forum on-line parlando di un argomento sotto i riflettori: l’intelligenza artificiale. Lazzaroli è partita dalla constatazione di una grande espansione delle applicazioni di artificial intelligence in diversi settori, e dell’importanza di conoscere opportunità e rischi dell’impatto dell'AI nelle attività di un Risk manager. In questa valutazione la tecnologia viene trattata come se fosse un essere umano, con competenze tipiche delle persone. Forse questo non aiuta a comprendere il cambiamento radicale sia del quotidiano che del lavoro a cui stiamo andando incontro. La tecnologia AI, a prescindere dal fatto che disponiamo di molti più dati che in passato, ha spazi di sviluppo quasi illimitati. Intorno all’AI ci sono dei pregiudizi sul piano etico e dell’uguaglianza dei diritti. La preoccupazione è che l’essere umano, demandando alla macchina la valutazione, possa discriminare a priori. Se verrà gestita in modo adeguato e con principi ferrei, secondo Lazzaroli, non diventerà una black box. Anche perché quella umana è la miglior forma possibile in assoluto di intelligenza, ed è poco replicabile: al limite si può imitarla, come succede con il deep learning. Come si definisce l’apprendimento automatico? Come metodologia per implementazione di algoritmo e

Nel 2010 arriva la vera rivoluzione del deep learning.

Le macchine che pensano come noi

Come l'AI sta entrando nel mondo del Risk management

modelli statistici senza istruzioni esplicite alle macchine ma attraverso l’esperienza. Il deep learning è un sottocampo dell’apprendimento automatico che riguarda gli algoritmi ispirati alla natura e alla struttura del cervello. Questa metodologia imita le reti neurali del cervello che si attivano nei processi decisionali. Il vero passo avanti dell’AI è l’elaborazione del linguaggio umano, sia parlato che del testo. Di AI se ne parla dal 1950, quando Alan Turing misurava l’abilità delle macchine. Allora ci fu un eccessivo ottimismo. Nel 1980 ci fu un boom, seguito però da un secondo inverno.

È nel 2010 che arriva la vera rivoluzione del deep learning, supportata dalla potenza dei computer di oggi e dalla loro capacità di raccolta dati. I dati di milioni di dispositivi interconnessi vengono incrociati e generano un’enorme massa di dati, che chiamiamo big data. I dati sono la chiave che spiegano il boom dell’AI. Se non c’è il dato, non c’è nemmeno l’AI. Se i dati non sono tanti e non sono buoni, non c’è l’AI. Che cosa si intende per buoni? Si chiamano le cinque V e sono state definite le chiavi dei Big Data: Volume, Velocity, Variety, Veracity and Value. Soddisfatte queste condizioni, l’algoritmo può lavorare bene. In particolare sono le prime due a determinare l’ecosistema, il volume e la velocità. Quando un’organizzazione o un’azienda hanno accesso ai dati, devono dotarsi di infrastrutture e assetti idonei per l’AI. In altre parole, non ha senso introdurre AI in un’azienda non ancora digitalizzata.

In tema di analisi di risk management, è indispensabile disporre di una modellazione di processi che rispondano a una serie di domande. Che cosa è successo? Che cosa succederà? Come facciamo a farlo succedere? Quali domande dobbiamo farci? E anche, l’AI può diventare essa stessa area di rischio da studiare? La risposta è sì, comporta alcuni rischi. Avendo un impatto nella governance, nella cultura, nella strategia, nella performance, nella review, nell’informazione e nella comunicazione, va studiata e valutata. Ma quali sono i rischi principali dell’AI? Sostanzialmente due: i rischi ambientali e l’aspetto strategico legato alla governance. L’AI inquina poiché richiede un dispendio di energia elettrica importante. Il possesso di una mole enorme di dati rende responsabili dell’uso analitico che se ne vuole generare. In parallelo, si pone il tema della discrezionalità. Se si fa decidere una macchina, si rinuncia alla discrezionalità umana delle decisioni. L’AI può aiutare molto l’imprenditore, ma può anche deviare il suo lavoro. E poi ci sono i rischi operativi e quelli legati alla violazione dei dati. La presenza di persone esperte che conoscono il linguaggio dell'AI è garanzia di poter rettificare i fattori di rischio. L’AI è prima di tutto un data mining. Si passa all’AI quando l’azienda è pronta per un certo tipo di logica.

I benefici per il Risk manager sono quattro. Migliorare la gestione dei dati (data processing). Migliorare l’efficienza (improving efficiency). Lavorare in tempo reale ed essere predittivi (real time and predictive). Essere d’aiuto nelle decisioni (business decision). Aumento dei consigli preventivi per contenere i rischi, tempi di risposta più rapidi e miglioramento dei processi decisionali si osservano in tutti i settori. Vale la regola che il board dell’azienda deve sposare questa visione. Ma qual è il vero vantaggio dell’AI? Che i rischi si assumono non basandosi sul sesto senso o sulla ‘pancia’, che spesso non funzionano, ma su decisioni legate ad approcci sistematici e ai dati. approcci sistematici e basati sui dati. Gli algoritmi sono addestrati a compiere operazioni definite e pensate strategicamente, in am-

I rischi si assumono non basandosi sul sesto senso, bensì su approcci sistematici e sui dati.

bienti digitalizzati e con adeguati assetti organizzativi. Grazie all’AI, il Risk manager potrà intervenire in modo più incisivo.

Mariangela Rosano ha proseguito, ricordando che la tecnologia informatica sta rivoluzionando i modi di interagire uomo-macchina e macchina-macchina. Le definizioni dell'AI non sono univoche ma resta come fattore distintivo la vicinanza e la somiglianza ai modelli di comportamento umano. Attività onerose e ripetitive affidate alla macchina possono aiutare il Risk manager, in particolare le sue capacità predittive in tempo reale. Come si è visto, i big data possono essere visti come un capitale improduttivo che grazie all’aumento del potere computazionale diventa produttivo. Allora si affermano modelli data driven, e i dati fanno da volano nei processi. L’area che trae maggior beneficio dall’AI è l’analisi predittiva, in cui si impiegano tecniche di progressione lineare. Si impostano i data set e i dati di input, e si rilevano pattern con un punteggio predittivo. Le aziende stanno riconoscendo l’utilità dell’AI grazie soprattutto alle analisi in anticipo sulle performance aziendali. La raccolta dei dati può essere affetta

Per capire la rischiosità dell’impresa, occorre avere sempre più una visione olistica di sistema.

da rumori, errori o dati mancanti. Per questo ogni volta che si è fatta un’analisi occorre ripulire il data set per analisi successive. Si chiama “maledizione della dimensionalità”. Per esempio, nelle analisi sui feature, grandi quantità di feature da analizzare fanno aumentare esponenzialità e problemi di gestione. In questi casi, occorre selezionare solo le feature migliori.

Quando si lavora con l’AI, occorre sapersi orientare fra i diversi modelli: alberi decisionali/Random forest, SVM Support Vector Machine, Reti neurali, XGBoost ecc. Un tema molto attuale è la Business interruption. Nel 2021 la Banca d’Italia ha dato una nuova definizione di default, che è andata a modificare anche il codice civile. Per capire la rischiosità dell’impresa, occorre avere sempre più una visione olistica di sistema. Gli strumenti statistici tradizionali sono accurati ma non vanno oltre i dodici mesi e sono molto dipendenti dal mercato di riferimento, non funzionano bene su grandi serie di dati o in caso di dati mancanti. Inoltre, hanno dimostrato scarsa capacità di adattarsi a cambi nello stato dell’economia: la teoria del valor medio rende difficile comprendere relazioni complesse.

L’applicazione dell'AI e del machine learning possono ovviare a questo e offrire un overlooking a sessanta mesi, anche se offrono minore trasparenza perché associati a black book. Il modello Random forest è arrivato a fornire previsioni all’88%, ed è il più trasparente rispetto a come prende decisioni. Una ricerca ex ante/ex post con utilizzo di analisi predittiva forward looking commissionata dalla Regione Piemonte sulla resilienza su un campione di 329 aziende ha consentito di mettere a fuoco l’entità oggettiva dei rischi e delle necessarie azioni proattive per aumentare la resilienza dal 30% a oltre il 60%.

Gruppo Balletta Direttore risorse umane

“Cambiare gioco e adattarsi alle circostanze: cosa mi ha insegnato lo sport”

FFin da piccolo il calcio fu la mia grande passione. Vi giocavo anche piuttosto bene: a otto anni ero già nei pulcini del Napoli. Purtroppo però, un giorno avvertì un forte dolore alle ginocchia durante una partita e rimasi completamente bloccato. Si pensava a terribili malattie, mentre dopo vari accertamenti si scoprì che il problema era legato allo sviluppo precoce e alla calcificazione delle ossa. A dodici anni ero già alto un metro e settantacinque. Non potei più calciare il pallone e smisi di giocare. Tuttavia, dopo qualche tempo trovai una nuova passione. All'epoca mio padre prendeva lezioni di tennis, io lo accompagnavo e facevo il raccattapalle. Il suo maestro un giorno mi invitò a giocare, mettendomi la racchetta in mano. Riuscì a fare alcuni buoni tiri, così mi disse: “Perché non inizi a giocare?”. Nonostante la mia precedente esperienza non fosse andata a buon fine, mio padre mi incitò a lanciarmi in questo nuovo sport e così iniziò la mia avventura con il tennis. Essendo già molto alto, per me era semplice vincere contro con i bambini della mia stessa età.

A quindici anni, però, cambiò tutto di nuovo: gli avversari diventarono alti come me e iniziai a perdere. Non riuscendo più a vincere una partita, nel corso del tempo imparai a adattarmi: capii che dovevo tirare meno forte e trovare delle alternative. A diciasette anni mi rimisi in sesto con due tornei internazionali: ovviamente persi la prima partita, ma feci comunque le qualificazioni. In seguito, anche mia sorella iniziò a giocare a tennis e io mi dedicai a fare da sparring e coach.

Conl'inizio degli studi universitari lasciai tutto, finché a venticinque anni non mi ritrovai di nuovo in campo assieme a dei ragazzi appena conosciuti a Sharm El Sheik. Da quel momento ripresi con il tennis, facendo il capitano e allenando i ragazzi più giovani. L’esperienza sportiva per me è stata rivelatoria: mi ha portato a scoprire il valore dell’allenamento e della perseveranza. Nel corso del tempo ho applicato le metodologie sportive anche in ufficio, facendo della formazione sul lavoro, il mio allenamento nel tennis. Durante la mia carriera professio-

"Ho incamerato una bella serie di sconfitte, fino a quando per necessità ho cambiato il mio modo di giocare, adattandomi alle circostanze"

Questa attività, che porto avanti tutt’oggi, continua a riservarmi emozioni fortissime, specialmente quando riesco a trasmettere a un ragazzino didodici anni in difficoltà che la partita finisce solo quando stringi la mano all'avversario. Mai mollare: questa è la cosa più importante.

"Il mio allenamento nel tennis è stata la mia formazione nel lavoro"

nale ho preso delle decisioni che mi hanno portato fuori dalla zona di comfort, ma alle quali sono grato, poiché mi hanno reso il professionista che sono oggi. Una di queste fu nel 2001: dopo tre anni di esperienza in Cid Software Studio, dove mi stavo facendo strada tra tante difficoltà, ricevetti da mio padre la proposta di entrare a far parte della sua azienda. Sarebbe stato l’inizio di un percorso che mi avrebbe portato nel tempo a diventarne il legale rappresentante.

"Scelsi di fare la gavetta e di fortificarmi"

Nonostante la proposta fosse allettante, scelsi di fare la gavetta e fortificarmi in un’impresa dove non avessi un canale preferenziale. Continuai il mio percorso fino a diventare il responsabile delle risorse umane in Cid Software Studio. Nel 2012 invece pensai che per costruire una figura professionale più completa occorresse cambiare settore, così decisi di “fare un passo indietro” ed accettare la posizione di HR controller in Gruppo Balletta, mettendomi in gioco in un contesto completamente diverso. Gruppo Balletta è una holding che controlla sei società in ambito retail e due industrie, una sulla lavorazione delle carni e un’altra sulla detergenza industriale. Il gruppo si occupa diamministrazione, finanza e parato ad ascoltare e dare i giusti feedback. Il confronto con il team è quotidiano e puntiamo molto sul concetto di “squadra”. In azienda ripeto sempre che “Io sono il più bravo a sbagliare”: ammettere i propri errori in prima persona porta il team a sentirsi più responsabile e soprattutto, più coinvolto.

Trasferire la passione poi, è il modo migliore per coinvolgere le persone, che si tratti dei miei colleghi o dei bambini ai quali insegno a giocare a tennis. Il punto è far si che ognuno possa mettere la propria impronta nel progetto e sentirsi utile. I risultati arriveranno da sé. A volte la diffidenza regna sovrana in tanti aspetti della nostra vita, ma se ci concediamo al massimo anche gli altri si apriranno con noi. Ho avuto modo di appurarlo nell'ambito lavorativo, dove è bene avere equilibrio e non alimentare le polemiche.

C’è sempre un perché se qualcuno non riesce a rendere al 100%, non siamo tutti uguali. Ricordo ancora con affetto ciò che mi disse la mia professoressa di fisica dell’università: “Ognuno ha i propri tempi, ma tutti ci possono riuscire”.Ai miei allievi di tennis o ai miei collaboratori cerco di trasmettere proprio questo.

controllo per tutte le società, che operano principalmente nell’ambito food, arredamento e abbigliamento. Per forza di cose devi saperti adattare: abbiamo target di collaboratori completamente diversi. Per stare vicino a tutti, e soprattutto al business, devi cambiare approccio a seconda del tuo interlocutore.

“Oggi lavoro con le persone e con loro ho imparato ad ascoltare e dare i giusti feedback"

Fu così che ricominciai a studiare e formarmi per capirne il business, conoscere i lavoratori e ritagliarmi in punta di piedi il mio spazio. Questa esperienza fu particolarmente interessante per me perché mi insegnò a lavorare con le persone, anziché i numeri. Per ricoprire questo ruolo, infatti, ci vuole equilibrio e un grandespirito di adattamento, proprio come nello sport. Dopo un mese in Gruppo Balletta io “mi tolsi la cravatta" allo scopo di essere più vicino alle persone e far sì che loro si fidassero di me. Nel 2016 fui promosso a direttore delle risorse umane del gruppo, ruolo che tutt’oggi rivesto. Sono particolarmente grato al mio team dell’ufficio risorse umane, perché ha reso la mia vita lavorativa più appassionante e motivante. Lavorando con le persone ho im-

*Il commento dei B.Liver*

Nello sport come nella vita per ottenere risultati è necessario un allenamento costante. Questa storia permette di vedere ciò che si può costruire in ogni ambito con costanza, disciplina e lavoro di squadra. Alessandra Parrino

Alberto Macciani e le sue analisi. alberto.macciani@icloud.com

La moneta digitale cambierà il mondo?

Dopo vent’anni di lavoro nel largo consumo per la multinazionale Unilever, il mio percorso professionale mi ha portato a occuparmi di un mondo totalmente diverso, il Fintech e la moneta digitale. Ho pensato molto a cosa potesse accomunare questi mondi all’apparenza così diversi, e in effetti ci sono delle radici comuni interessanti, legate al ruolo “trasformativo” che ciascuna industria ha avuto nel suo momento storico di massimo sviluppo. Unilever è un gigante del largo consumo, ed è interessante vedere quante somiglianze si possano trovare fra l’impatto dei detersivi nel dopoguerra e ciò che sta accadendo oggi nel Fintech.

Possiamo dire che il Fintech è il nuovo detersivo? Battute a parte, ho deciso di lavorare per Paysend (azienda globale di pagamenti digitali nata nel 2017) con una visione precisa: importare il modello di crescita del largo consumo in un nuovo settore dominato dalla tecnologia. Partiamo da un assunto di base. La tecnologia è preziosa quando aiuta a risolvere un problema vero, e proprio questo è il motore di una marca di successo: la capacità di identificare un problema, e di costruire una soluzione che sia unica e distintiva. Una marca è infatti un sistema di valori, in cui la tecnologia del prodotto è solo uno dei valori messi in sequenza. Esistono un valore funzionale, un valore emotivo e, molto importante, un valore sociale.

I detersivi avevano creato una rivoluzione nella vita delle persone, riducendo il tempo che le donne dedicavano ai lavori di pulizia di tutti i giorni e fornendo una gigantesca spinta all’uguaglianza di genere. William Lever, il fondatore di Unilever, era figlio di un droghiere di Manchester. Ebbe l’idea di creare la saponetta ma soprattutto di posizionarla come un oggetto di rivoluzione sociale. Con il suo prodotto non prometteva soltanto di rimuovere lo sporco, ma anche di “rendere la pulizia quotidiana” diminuendo il carico di lavoro per le donne. Bisogna ricordare che nella metà del XIX secolo morivano più donne facendo il bucato che uomini in miniera a causa dei prodotti estremamente aggressivi utilizzati nei lavori di casa pesanti. William Lever portava avanti la sua battaglia contro le condizioni di semi schiavitù di milioni di donne. Costruì un impero del sapone basato su tre pilastri: un prodotto di qualità, una fabbrica efficiente e una comunicazione convincente. Tutti e tre questi fattori sono determinanti, allora come oggi, nella creazione di una marca di successo.

Stiamo attraversando, oggi, una delle più grandi crisi di sempre, ma anche una fase di grandi opportunità, e sta a noi cercare di non lasciarcele sfuggire. La moneta digitale può essere un potente motore di crescita sociale ed economica. Con l’esplosione del mercato dei pagamenti digitali, che vale trilioni di dollari e cresce a un ritmo del 30% l’anno, possiamo ragionevolmente aspettarci che il Fintech sia destinato a diventare una delle forze trainanti dell’economia mondiale. Ma allargando l’angolo della riflessione, sappiamo che il processo avrà un esito positivo solo se saremo in grado di rendere questa crescita sostenibile e inclusiva.

Nei prossimi anni dovremo affrontare tre grandi sfide. Prima sfida: il tema dei dati, il sacro Graal del mondo digitale. Infatti, anche se già oggi trilioni di punti dati generano un flusso di informazioni straordinario, dobbiamo essere consapevoli del pregiudizio che le macchine possono suscitare. Il

numero di crediti deteriorati durante la crisi finanziaria del 2009 è raddoppiato rispetto ai livelli pre-crisi. La pandemia ha accelerato il processo a livelli sbalorditivi. Alla fine del 2020 gli Stati Uniti hanno dovuto contabilizzare quasi 128 miliardi di dollari di crediti deteriorati rispetto ai 95 di fine 2019, mentre l’Europa ha dovuto far fronte a un’ondata di 401 miliardi di euro di nuovi prestiti in rosso. Nel corso del 2021 questi numeri si tradurranno in una pressione non indifferente sulle banche. Nello stesso tempo, gli attuali metodi di recupero crediti sono in gran parte guidati da operatori umani. Gli sforzi dei call center non sono sempre efficaci, visto che le persone contattate al telefono si disorientano e addirittura restano sconvolte, influenzando il comportamento e le decisioni degli stessi operatori.

Gli algoritmi possono essere utilizzati per valutare e identificare rapidamente i modelli comportamentali di questi clienti in base alle chiamate precedenti e ai dati emotivi osservati durante una chiamata. Ciò consente di velocizzare la fase di assegnazione delle telefonate agli operatori del Servizio clienti, e soprattutto di abbinare cliente e operatore in base alle loro attitudini e reazioni distintive.

Seconda sfida: il ruolo della fiducia e della regolamentazione. Nell’adozione della moneta digitale, la fiducia è l’elemento catalizzatore. Ma proprio questo è il punto: la maggior parte dei clienti, soprattutto in età avanzata, non riesce a dare fiducia. Quasi 7 baby boomer su 10 hanno detto che preferirebbero usare contanti o una carta per saldare una fattura di 1.000 dollari, mentre solo 1 su 10 di loro ha dichiarato che vorrebbe usare il telefono. Lo stesso vale per le cripto valute, che hanno iniziato a perdere la prospettiva sinistra che le caratterizzava agli occhi della maggioranza delle persone, stanno diventando una norma quotidiana in molti contesti e si apprestano a diventare un’alternativa vera alle monete tradizionali, purché regolamentate in modo efficace.

Istruzione e regolamentazione saranno fondamentali per garantire che l’adozione avvenga in modo rapido e corretto. In questo passaggio, la comunicazione è fondamentale per educare i consumatori alla sperimentazione e all’uso della moneta digitale. E può affiancare con efficacia le risorse tecnologiche applicando modelli basati sulle best practice dei consumi di massa.

Terza sfida: il ruolo della Brand purpose. Il denaro, come il sangue, collega le diverse funzioni del corpo assicurando che lavorino tutte correttamente. È una potente forza di connessione, e la sua efficienza è fondamentale per il lavoro del corpo del mondo. Efficienza del denaro significa efficienza del mondo, ma questo non può accadere semplicemente da un punto di vista finanziario, deve esserlo anche da un punto di vista economico e sociale. Il denaro deve essere utilizzato per l’unità delle persone, abbassando le barriere, creando connessioni, sostenendo l’imprenditorialità e la lotta alla povertà.

Nel mondo ci sono 300 milioni di lavoratori stranieri che vivono lontano dalle loro famiglie e lavorano solo per mandare soldi a casa. Queste persone devono essere sostenute. In un sistema tradizionale cash-to-cash possono perdere fino a un’ora di tempo e oltre il 7% del loro denaro per completare la transazione. Con la moneta digitale possono farlo istantaneamente, e con un costo del 2%.

In ultima analisi, il mondo può crescere solo se i benefici economici e sociali vanno di comune accordo e sono condivisi fra le persone. La moneta digitale è un nuovo modo di democratizzare la ricchezza e può davvero avere un impatto globale come la saponetta che William Lever inventò nel 1850 per cambiare il mondo. Pagare e inviare denaro istantaneamente in tutto il mondo potrà diventare realtà molto prima di quanto pensiamo.

Komatsu Italia Manufacturing Production senior manager

“Chiamale, se vuoi, coincidenze”

Qualcuno le chiama “coincidenze”. Qualcuno “corsi e ricorsi della vita”. In effetti, a guardare la mia vita un po’ da vicino, pare di intravedere un copione preciso. Fino a vent’anni ero un ragazzo estroverso, vorrei dire esplosivo. Poi, a ventun'anni, è intervenuto un fatto che mi ha cambiato per sempre: mio padre è morto all’improvviso per un aneurisma cardiaco. Mi sono venuti a chiamare: “Vieni, Massimo, tuo padre sta morendo”. Mi è morto fra le braccia. Quel momento è sempre vivo nella mia memoria, non posso dimenticarlo. Io vengo da una famiglia umile di agricoltori di Lozzo Atestino, in Veneto. Sono stato tirato su a pane e valori, valori veri come il rispetto, il lavoro, la serietà. Di soldi non ne giravano tanti, ahimé, in compenso ho ricevuto in dote un telaio robusto e adeguato con le istruzioni per l’uso della vita.

Era il lontano 1980 e avevo sedici anni quando ho iniziato a lavorare come apprendista in una fabbrica metalmeccanica. Ho imparato a saldare, a verniciare e a stare sulle macchine utensili. Dopo sei

“Da lì, ho allargato la mia curiosità allo zen e alla ricerca dell’equilibrio e del benessere interiore” “La tradizione industriale giapponese ha sempre dato molta importanza alla crescita delle persone nel loro contesto lavorativo”

anni, in un momento di crisi finanziaria dell’azienda che non riusciva a pagare gli stipendi, ho trovato un nuovo posto di lavoro. Purtroppo la mia felicità è stata offuscata dalla perdita di mio padre, avvenuta esattamente una settimana dopo. Nei due-tre anni successivi ho attraversato un periodo piuttosto duro. Io sono il terzo di quattro fratelli, e rispetto ai due più grandi mi sono sempre sentito un po’ come un figlio unico: diverso, indipendente, certamente più chiuso di loro. Non riuscivo ad aprirmi e così ho imparato subito ad affrontare i problemi in prima persona.

Fu allora che mi sono avvicinato alla filosofia orientale, un ambito che assecondava la mia introspezione. Ho letto molto. Sono partito da Siddharta di Hermann Hesse, un libro che fra l’altro ho riletto proprio di recente. Mi ha stregato, lo percepivo come un punto di orientamento: si sa come sono i giovani, hanno bisogno di avere dei riferimenti, specialmente se positivi. Da lì, ho allargato la mia curiosità allo zen e alla ricerca dell’equilibrio e del benessere interiore. Ma certamente non mi sono staccato dalla realtà. In fabbrica iniziavo alle sette del mattino, e lavoravo per dieci ore. Quando l’azienda chiedeva straordinari, non ero il tipo da fare passi indietro.

Nel 1986 ero entrato come saldatore nell’azienda in cui lavoro ancora oggi, Komatsu; solo che allora si chiamava Fai. L’azienda era florida, i volumi aumentavano e le opportunità di crescita non mancavano. Dopo un anno sono passato al reparto montaggio in uno stabilimento nuovo. Lì ho iniziato il mio percorso di crescita professionale che, grazie anche ai tanti corsi di formazione, mi ha permesso di diventare quello che sono ora. E questo senza abbandonare il mio percorso di crescita personale, leggendo molto e ascoltando tanta musica.

Sono in pochi, credo, a volere che il proprio figlio o la propria figlia facciano gli operai in fabbrica. Eppure nei luoghi di lavoro la figura dell’operaio è cambiata molto. Oggi gli operai governano macchine molto complesse, hanno nozioni di informatica e dispongono di competenze molto robuste. La tradizione industriale giapponese ha sempre dato molta importanza alla crescita delle persone nel loro contesto lavorativo. Lo chiamano Gemba, ed è il luogo in cui si costruisce il vero valore dell’azienda. E un’altra nozione teorico-pratica che viene

dal Paese del Sol Levante, il Kaizen (che significa miglioramento continuo), prescrive alle persone che progettano le macchine di parlare con le persone che usano le macchine, perché loro sanno dove si annidano i problemi. La qualità non la fa chi controlla, ma chi lavora. E lo stesso vale per la sicurezza: non la fa chi controlla, ma chi lavora.

“Mi ha insegnato ad analizzare le priorità, a usare i sette strumenti della Qualità, e infine mi ha promosso team leader”

All’interno delle aziende, i percorsi diventano interessanti quando si “incrociano” figure che ti danno la cosa più preziosa che si possa dare: la fiducia. Io, nella mia parabola professionale, devo molto a due persone. Posso dire che mi hanno formato a livello manageriale, consentendomi di arrivare dove sono ora. La prima è l’ingegnere Claudio Gallana. Nel 2000 lui era Direttore di Produzione, mentre io ero Capolinea. Lui ha applicato in modo convinto la visione giapponese della fabbrica, e godeva il pieno appoggio dei capi giapponesi. Con lui si è instaurato subito un buon rapporto, mi ricordo che si passava molto tempo a discutere insieme dei processi di produzione, li si analizzava, si cercava di capire come migliorarli. Gallana è stato per me un vero mentore. Mi ha insegnato ad analizzare le priorità, a usare i sette strumenti della Qualità (diagramma di Pareto, Carte di controllo, istogrammi ecc.), e infine mi ha promosso team leader. Allora la fabbrica era un luogo di sperimentazione, e lo era già da parecchio tempo, bisogna tenere presente che in Italia si è cominciato a parlare di just in time almeno dagli anni ’80. Gallana era una persona squisita, oltre che innegabilmente bravo nella professione. Nel 2005 ha lasciato l’azienda, ma ancora oggi ci sentiamo regolarmente.

“Lui ti portava ad andare in profondità nei problemi, capitava che ti tenesse lì quattro ore di fila per sviscerare un errore”

La seconda persona importante sul mio cammino è stata Kenichi Furuse, Vice Presidente con la delega alle Operations. Con lui all’inizio è stato più difficile instaurare un rapporto di fiducia, ci è voluto tempo. All’inizio avvertivamo reciprocamente come una resistenza. Lui mi sembrava un samurai dagli occhi di ghiaccio. Se devo pensare oggi alla cosa più importante che mi ha insegnato è che l’errore esiste, chi dice che non sbaglia mai dice una bugia. La cosa importante dopo un errore è fermarsi e chiedersi che cosa è accaduto, chiedersi perché è accaduto e soprattutto fare in modo che non accada più. Furuse è stato un vero maestro, mi ha insegnato molto, e se oggi sono un dirigente per buona parte è merito suo. Lui ti portava ad andare in profondità nei problemi, capitava che ti tenesse lì quattro ore di fila per sviscerare un errore. Aveva un modo di farsi capire molto efficace, come se parlasse a dei bambini. Usava spesso il metodo dei cinque Why. Insomma, sembrava più un coach che un capo. Dopo un po’ ho capito la ragione della sua apparente freddezza: non si fidava di nessuno, a prescindere!

Il rapporto fiduciario fra noi ha co-

minciato a crearsi quando lui ha iniziato a selezionare persone del mio staff e a spostarle in altri reparti. Mi diceva così: “Tu hai il lago dei pesci d’oro.” Voleva dire che riuscivo meglio di altri a formare le persone e renderle autonome ed efficaci, con una visione coerente a quella dell’azienda. Nella mentalità giapponese, l’allineamento con il pensiero del gruppo è molto importante. Il collettivo viene prima dell’individuo. Quando sono andato in Giappone per la prima volta nel 2006, le persone indossavano le mascherine sul volto. Io pensavo che fosse per l’inquinamento, ma i miei colleghi giapponesi mi hanno detto era per per proteggere gli altri dai propri germi. È una questione di rispetto del prossimo, che noi occidentali abbiamo realmente compreso solo ora durante la pandemia del Covid-19.

Komatsu produce macchine per la movimentazione della terra. Ha sessantaduemila dipendenti e siti produttivi sparsi in tutto il mondo. Io sono molto legato all’azienda, penso di aver acquisito una mentalità giapponese e non mi pesa l’idea di non cambiare posto di lavoro. Gioca prima di tutto il fattore riconoscenza per aver creduto in me. Ma probabilmente anche il fattore comodità, visto che la mia sede di lavoro è a un chilometro da casa. Al lavoro ho ricevuto molti insegnamenti, ho coltivato il rispetto delle persone e del lavoro stesso, ma soprattutto ho ritrovato quel pensiero orientale che già avevo amato da giovane e a cui ero arrivato da solo. Un incastro perfetto. Me lo ripeto spesso, che incredibile coincidenza, sembra che i miei fattori astrali si siano messi d’accordo!

“Le giornate volano, gli stimoli sono tanti. È lo stesso passo di intensità che avvertivo in gioventù”

Nello stabilimento Komatsu di Este ci lavorano circa seicento persone, è la principale realtà industriale del territorio. Edifici e capannoni hanno fatto il loro tempo, si era pensato a un nuovo insediamento, ma proprio per l’attaccamento che esiste nella cultura industriale giapponese alle identità del territorio, si è deciso di restare. Grazie alle competenze acquisite nel corso del tempo, ogni anno tengo un ciclo di dieci lezioni presso l’ITIS di Este, in cui illustro a grandi linee i principi della Lean Manufacturing. Anche questo è un segno di attenzione al contesto umano in cui operiamo.

Komatsu è un’azienda viva, in costante mutamento. Il miglioramento continuo è un pensiero assorbito in tutte le fibre dell’organizzazione. Lavorarci è piacevole perché il management giapponese ama fare un passo indietro: interpreta il suo ruolo più come quello di advisor, non c’è l’intenzione di annullare l’identità italiana. C’è invece l’intenzione di mantenere alto il livello della competizione. Le giornate volano, gli stimoli sono tanti. È lo stesso passo di intensità che avvertivo in gioventù.

Quando torno dal lavoro, ho la mia raccolta di seimila cd, i miei libri, i miei concerti di musica classica da organizzare e i miei quadri da dipingere. In famiglia mi prendono in giro perché, a fronte della mia raccolta sterminata di CD, ascolto quasi sempre i Pink Floyd. Si ribellano, dicono che è una mania assurda, che sono rimasto bloccato nel mio passato e levano gli occhi al cielo. Nessuno è perfetto, ai gusti musicali non si comanda. Beh, mi dico, tutti questi stimoli saranno pure serviti a qualcosa se mia figlia Anja Leda Trevisan ha pubblicato Ada brucia, il suo romanzo d’esordio. Con questo libro, a soli 22 anni, quest’anno ha vinto il Premio Opera Prima della Fondazione Mondadori.

*Il commento dei B.Liver*

"Gli stimoli sono tanti". È proprio vero che stimoli e fiducia sono ciò che porta a dare il massimo di noi stessi: in ogni ambito si possono fare passi da gigante, crescere al meglio e arricchirsi. Alessia Franceschini

Agio/Disagio (2018) Eclipse (2019)

The dark side of me P2 (2018) Parallel Lines (2020) The dark side of me P3 (2018)

The other side of freedom (2020)

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