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Un solo oceano un solo futuro

di Sabina De Innocentiis

Dall’ONU e dal mondo della scienza qualche buona notizia per gli oceani (e per la terra tutta) ma è tempo di accelerare.

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Lo scorso 4 marzo 2023 è stato finalmente approvato dall’ONU il primo Trattato Internazionale sulla Protezione degli Oceani, dopo 15 anni di discussione fra gli stati membri e ben 48 ore di dibattito finale nel Palazzo di Vetro a New York. Si tratta di un accordo storico, perché riguarda il cosiddetto “alto mare” ovvero quelle acque al di là delle 200 miglia nautiche dalla costa e che tecnicamente e legislativamente non ricadono nelle giurisdizioni nazionali, ma che di fatto rappresentano oltre i due terzi degli oceani e costituiscono un patrimonio insostituibile per la biodiversità e per i servizi ecosistemici che essi ci forniscono: primi fra tutti la maggior parte dell’ossigeno che respiriamo e l’assorbimento di anidride carbonica, ma anche le sempre più sovrasfruttate risorse ittiche e i sempre più appetibili giacimenti minerari sottomarini. Insomma, qualcosa che non è proprio più possibile che rimanga terra di nessuno e fuori dalle regole. L’accordo, che per diventare effettivo dovrà essere ratificato da un numero sufficiente di Paesi, riguarda l’equa spartizione delle risorse genetiche marine, le procedure per identificare e creare le aree marine protette internazionali, la valutazione degli impatti ambientali, ma anche come risolvere le controversie e come potenziare le capacità di tutti i diversi paesi rispetto il trasferimento tecnologico in ambito marino, creando inoltre un fondo per la riabilitazione e il ripristino degli ecosistemi oceanici. L’iter è quindi ancora in divenire, ma rappresenta un grosso passo avanti verso il necessario superamento di alcuni ostacoli che più di altri impedivano il raggiungimento dell’obiettivo di proteggere il 30% delle acque del pianeta entro il 2030, come sancito da un altro accordo storico delle Nazioni Unite, il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework (KM-GBF), raggiunto appena pochi mesi fa, il 19 dicembre scorso, nell’ambito della COP15. Un accordo, quest’ultimo, che non era scontato si riuscisse a siglare e che, sebbene piuttosto deludente su alcuni aspetti, su altri è decisamente innovativo, ad esempio sul creare per la prima volta strumenti di inclusività che mettono al centro delle decisioni la rappresentanza dei popoli indigeni e delle comunità locali, le conoscenze tradizionali, specialmente quelle ritenute dalle donne, e soprattutto il principio di intergenerazionalità per garantire un pianeta sano e non depauperato alle generazioni future.

Esattamente nel mezzo, dal punto di vista temporale, fra questi due eventi si è collocato invece l’IMPAC5, ovvero la Conferenza Mondiale sulle Aree Marine Protette che si è tenuta a Vancouver nella prima settimana di febbraio e che ha visto riunirsi e confrontarsi scienziati, rappresentanti delle comunità indigene, ed esperti di scienze sociali proprio sul come darsi da fare per riuscire a proteggere in maniera efficace il 30% dei mari del pianeta entro i prossimi 7 anni. Là ero presente anche io e devo dire che rispetto a tanti altri convegni a cui ho partecipato, mai come stavolta vi è stata integrazione fra i diversi approcci per trovare soluzioni comuni ai tanti problemi, nella consapevolezza che nel mare, ancora più che sulla terra tutto è connesso: geograficamente, culturalmente ed ecologicamente.

• Si è dibattuto su come unificare e rendere sempre più efficaci e stringenti le regole in vigore nelle varie aree marine protette sparse nel pianeta, di come ingrandire quelle già esistenti e di dove progettarne altre, e soprattutto di come mettere a frutto le conoscenze tradizionali rendendo partecipi le comunità locali in tutto il processo;

• si è discusso (animatamente) dei criteri tecnici per rendere sostenibile la pesca e di come proteggere gli stock ittici tutelando al tempo stesso i piccoli pescatori artigianali, soprattutto nei paesi invia di sviluppo, le cui testimonianze dirette sono state davvero preziosissime;

• ci si è accorti dell’urgenza di porre limiti allo sfruttamento minerario dei fondali oceanici: un mondo ancora sconosciuto ma che è silenziosamente oggetto di una industria in rapidissima quanto sregolata espansione;

• si sono esplorati i meccanismi e le conseguenze dei cambiamenti climatici, ascoltato chi queste conseguenze le vive già sulla propria pelle, analizzato la portata antropologica e psicologica della crisi climatica, portato piccoli ma incoraggianti esempi di recupero degli ecosistemi;

• e si è convenuto che il tempo ormai è scarsissimo e la chiave per raggiungere gli obiettivi previsti e mettere in piedi soluzioni efficaci e credibili è nella consapevolezza dell’opinione pubblica e nel cambiamento radicale di mentalità.

Da cristiana mi sento di dire che la Chiesa Cattolica sta avendo e potrà sempre più avere un ruolo cruciale in quest’ultimo punto, con la sua visione di ecologia integrale promulgata nell’enciclica Laudati Si’ che predica tra i suoi fedeli la conversione ecologica e punta il dito contro un sistema economico ormai insostenibile fonte di ingiustizie sociali ed ambientali, ponendo invece al centro del processo per il “risanamento delle ferite delle terra e la cura della casa comune” l’ascolto della voce dei poveri, della voce dei giovani, della voce della scienza e della voce dei popoli.

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