Deportazione e internamento. Note introduttive
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fatti prigionieri all’8 settembre, subito sottoposti a un trattamento brutale e umiliante e pur capaci di difendere la loro dignità di uomini e di soldati. Caso unico nella storia della prigionia e della deportazione, costoro ebbero la possibilità di uscire dai lager in cambio dell’adesione alla Repubblica di Mussolini e in forte maggioranza la rifiutarono, optando per la fame e il lavoro forzato. La loro resistenza al nazifascismo fu resa possibile dai legami di solidarietà che si crearono in tutti i lager, pur attraverso crisi e debolezze individuali.1 Una vicenda assai diversa da quella degli ebrei e degli antifascisti avviati alla morte e dei civili deportati per il lavoro coatto, ma che attesta la sopravvivenza di valori e rapporti umani anche nell’inferno dei lager. Sono molto diverse anche le dimensioni della deportazione. Circa 44-45.000 deportati per morire nei lager (dove infatti caddero per il 90 per cento), di cui 7.000 ebrei, gli altri antifascisti attivi nell’organizzazione della resistenza, per metà partigiani non fucilati dopo la cattura. Circa 650.000 militari giunti nei lager dei Reich dopo l’8 settembre, di cui scelsero la repubblica di Mussolini forse il 10 per cento dei soldati e il 30 per cento dei 30.000 ufficiali, come risulta dalle accurate ricerche di Claudio Sommaruga. Non ho invece dati sui civili rastrellati per il lavoro coatto in Germania, una categoria praticamente dimenticata. Ritroviamo un elemento comune a tutte queste vicende nella difficoltà del ritorno, l’incapacità dei reduci di riuscire a comunicare la tragica esperienza dei lager e insieme la delusione per la scarsa attenzione del paese per le loro sofferenze. Le differenze tornano invece se guardiamo ai decenni successivi; la memoria della deportazione razziale e politica ha acquisito una forza e una diffusione notevoli, anche se oggi il carattere internazionale e le dimensioni terrificanti del genocidio ebraico portano a lasciare in secondo piano le sorti della deportazione degli antifascisti. L’attenzione per i 650.000 militari nei lager è stata scarsa fino agli anni ‘80, poi ha conosciuto una forte ripresa di studi, memorie e
1 Come indicazione per difficili ricerche comparative, si può ricordare che i 600.000 militari italiani prigionieri di austriaci e tedeschi nella prima guerra mondiale in condizioni durissime ebbero perdite assai più alte dei prigionieri nei lager nazisti in condizioni altrettanto dure (100.000 morti contro 40.000). Si può supporre che sulla mortalità del 1915-1918 incidesse la crisi morale di prigionieri dimenticati e ripudiati dalla patria, che non potevano difendere una loro dignità di uomini e di soldati come i prigionieri del 1943-1945? Un interrogativo non facile da risolvere.