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Marcello Marcellini L'Umbria e la Guerra di Libia (1911-1912)
in appendi ce:
Gerarchia di potenza, navi, colonie e mezzi aerei di Basilio Di Martino
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Il mio interesse per la Libia risale al 1991 quando nel maggio di quell'anno ci andai per turismo con la mia moto passando per la Tunisia lungo l'antica strada costiera romana che univa le Colonne d'Ercole a Alessandria. La mia meta era Luxor, in Egitto, che raggiunsi dopo aver percorso oltre quattromila chilometri di cui circa milleottocento in Libia. Si trattò di un viaggio un po' rischioso; era appena terminata la Guerra del Golfo e non sapevo quale accoglienza avrei ricevuto in questi paesi. Ma l'anno prima con la mia moto ero stato in Algeria ed ero rimasto affascinato dal deserto e dai costumi dei popoli che avevo conosciuto e così decisi di partire ugualmente dopo averne parlato con il direttore di "Motociclismo", Guido Re, mio caro amico, che mi assi curò il suo interessamento. 1
In Tripolitania la polizia libica, nonostante avessi tutti i documenti in regola, tra cui il richiesto carnet de passages en douane, mi trattò con una certa arroganza: perquisizione delle borse e molte domande in arabo da parte di poliziotti che con una mano sfogliavano il passaporto e con l'altra mi puntavano contro il mitra. A Tripoli dalla finestra del mio albergo vidi ancorata nel porto una nave italiana di un bel colore bianco e giallo. Era la Dora Riparia. Mi sentii rassicurato nel vedere a poche centinaia di metri una nave italiana, ma quando mi recai al consolato, dove avrei dovuto segnalare il mio passaggio (così era previsto nel mio visto), seppi che la Dora Riparia era stata sequestrata dai libici perché dai documenti risultava che era passata per Haifa. Gli italiani che incontrai nel consolato erano una piccola comunità molto affiatata e solidale. In quel momento si stavano dando da fare non solo per far dissequestrare la nave ma anche per far restituire ad uno di loro l'appartamento che una famiglia di libici aveva occupato mentre quello era andato in Italia per una vacanza di alcuni giorni. Un fatto, mi dissero, che accadeva molto spesso .
I Il raccon to di questo viaggio è stato pubblicato sul numero specia le de l luglio 1992 d i "Motoc icl ismo", Ed ispo r t Editoriale SpA, Milano 1992, con il t i tolo Solo contro il deserto.
Per uscire da Tripoli mi guidò l'istinto e il mio senso di orientamento. Non vi erano cartelli bilingue e comunque sarebbe stato impossibile decifrarli perché le scritte arabe erano state ricoperte con una spessa vernice verde. In un piccolo ristorante di Sirte dove mi fermai per una sosta conobbi un marchigiano, un rappresentante di commercio che faceva la spola tra Tripoli e Bengasi, il quale mi riferì che le scritte dei cartelli stradali erano state rese incomprensibili per disorientare i commandos israeliani di cui si temeva un attacco imminente. Visitai Leptis Magna e conobbi gli archeologi italiani che avevano tirato fuori dalla sabbia il grande arco di trionfo di Settimio Severo. Erano orgogliosi del loro lavoro e vivevano senza dare nell'occhio (e senza ostentare le abitudini occidentali) in alcuni edifici scalcinati nei pressi delle rovine che stavano in piedi dai tempi di Balbo.
Dicevano che Gheddafi era imprevedibile e che sarebbe bastato poco per essere cacciati via dalla Libia e perdere il lavoro.
In quel momento capii quanto fosse difficile essere italiani in un paese retto da un dittatore che, tra l'altro, pretendeva ancora il risarcimento per le vittime e i danni provocati dal nostro esercito nella guerra del 1911-1912.
Mi stavo facendo una pessima idea della Libia ma in Cirenaica, passata Bengasi, dovetti ricredermi. La gente si dimostrò così ospitale che né gli addetti ai distributori né i proprietari dei rari ristoranti , una volta saputo che ero italiano, volevano accettare i miei soldi. La cosa mi meravigliò e mi incuriosì molto anche perché sapevo che proprio in Cirenaica le truppe di Graziani non avevano certo lasciato un buon ricordo.
Arrivato a Soloum, al confine con l'Egitto, non trovai nessun posto di dogana né di polizia . Era accaduto che, mentre ero in viaggio, Gheddafi, come mi spiegarono poi i poliziotti egiziani, aveva avuto la stravagante idea di pensare di unire la Libia all'Egitto eliminando i controlli alla frontiera. Naturalmente gli egiziani si guardarono bene dal fare altrettanto.
Più volte durante l'attraversamento della Libia mi venne da pensare ai soldati italiani, per gran parte contadini (c'era anche il fratello di mio nonno, Marsilio Marcellini, di Massa Martana, bersagliere, classe 1888) mandati un secolo prima a conquistare quello che, secondo Gaetano Salvemini, non era altro che uno "scatolone di sabbia".
Dall'Umbria ne partirono alcuni migliaia, molti dei quali appartenevano ai reggimenti 51 ° e 52° acquartierati a Perugia e Spoleto. Non sapevano nulla del paese dove andavano a combattere e non avevano mai visto il deserto. Si erano sentiti dire che sarebbe stata una passeggiata ma non fu così perché i turchi e gli insorti arabi, sebbene inferiori di numero e male armati, diedero loro del filo da torcere.
La guerra di Libia provocò un'ondata di antimilitarismo che durò a lungo e trovò la sua massima espressione a ridosso della Grande Guerra, nella c. d. "Settimana Rossa" del giugno 1914, durante la quale anarchici, sindacalisti rivoluzionari, repubblicani intransigenti e socialisti mas- simalisti tentarono di sovvertire le istituzioni. Per due anni l'antimilitarismo fu la loro bandiera e il gesto dell' anarchico Masetti, il coscritto che, in procinto di partire per la Libia, sparò al suo colonnello, fu talmente esaltato da convincere Errico Malatesta a lasciare Londra e a tornare in Italia per mettersi alla guida di una rivoluzione che sembrava imminente.
Q}iesto studio ha lo scopo di raccontare come reagì l'Umbria quando Giolitti decise di organizzare la spedizione tripolina e quali furono le reazioni delle forze politiche e della stampa locale alle notizie che mano a mano giungevano dalla Libia durante i dodici mesi della durata del conflitto.
Le mie ricerche presso gli Archivi di Stato di Perugia, Temi, Viterbo e, in particolare, presso la Sezione di Archivio di Stato di Spoleto e la Biblioteca Comunale di Temi, sono state agevolate e, vorrei aggiungere, rese anche piacevoli dalla professionalità e dalla cortesia dei funzionari di questi uffici. Pertanto, nel licenziare questo volume sento il dovere di ringraziarli sentitamente.
2 Sarebbe stato più corretto definire quel conflitto Guerra Italo - Turca e non Guerra di Libia, poiché all' epoca non esisteva nelle carte geografiche la Libia (come venne successivamente chiamato dagli italian i il territorio costituito dalle regioni della Tripolitania, del Fezzan e della Cirenaica), ma poiché è invalso nel lingu aggio corrente definirlo Guerra di Libia, ho ritenu to opportuno adottare quest'ultima espressione.
BEL SUOL D'AMORE?
Il 2 ottobre 1911 una squadra della flotta italiana al comando del vice ammiraglio Luigi Faravelli, composta da dodici navi da battaglia, per gran parte dotate di corazze e cannoni costruiti nelle Acciaierie di Temi, gettò le ancore davanti al porto di Tripoli. Ad un ufficiale della torpediniera Albatros fu dato incarico dal vice ammiraglio Thaon di Revel di sbarcare e di consegnare alle autorità turche una intimazione di resa che fu di fatto respinta. Pertanto alle 15,30 del giorno successivo le navi italiane cominciarono a bombardare i forti Sultaniè e Hamidiè, la batteria del Faro e il forte del Molo posti a difesa della città. Fu una battaglia impari perché, come ricorda Sergio Romano, le nostre navi sparavano da 7.000 metri e raggiungevano il bersaglio mentre i proiettili dei cannoni turchi cadevano in acqua a 4.000 metri dalla riva.3
Nel primo pomeriggio del 5 ottobre circa 1. 700 marinai al comando del capitano di vascello Umberto Cagni, il compagno del duca degli Abruzzi nella avventurosa spedizione polare del 1899, sbarcarono a Tripoli che i turchi nel frattempo avevano abbandonato .
Cagni, in attesa dell'arrivo del corpo di spedizione, predispose, con le scarse forze disponibili, una sottile linea di difesa lunga 5 chilometri intorno alla città e per ingannare gli arabi e i turchi circa la reale consistenza delle sue forze diede ordine ai marinai di sfilare in continuazione per le vie di Tripoli. Contemporaneamente fece diffondere la voce tra la popolazione che il comandante italiano avrebbe pagato due talleri a chiunque gli avesse consegnato entro la mezzanotte un fucile. Gli arabi ne consegnarono circa 1.400. In quel primo giorno, grazie anche all'intraprendenza e all'astuzia di Cagni, tutto filò liscio e Tripoli fu occupata dai marinai italiani senza spargimento di sangue. Contemporaneamente, in Cirenaica, anche T obruk e Derna venivano occupate dai marinai italiani senza dover combattere. La facilità con cui avv ennero questi sbarchi fece pensare che effettivamente, come alcuni avevano sostenuto, gli arabi avrebbero accolto il nostro corpo di spedizione in modo amichevole e che l'Italia si sarebbe impadronita della Tripolitania e della Cirenaica senza colpo ferire ma, come vedremo, le cose andarono diversamente. Tra l'altro, gli arabi, qualche giorno prima dell 'arrivo di Cagni, avevano ricevuto via mare da Costantinopoli un importante carico di armi (20 mila fucili Mauser e 2 milioni di cartucce) e, sotto la guida di ufficiali turchi , si stavano organizzando per attaccare gli invasori.
L'edizione di Perugia de "L'Unione Liberale" del 7 ottobre pubblicò in prima pagina un lungo articolo dal titolo: Il tricolore è sulla città bianca con cui si dava la notizia dello sbarco a Tripoli dei nostri marinai con queste solenni parole:
"Q!iello che era il diritto e il dovere d'Italia è compiuto. Da ieri il tricolore nostro sventola su un'altra sponda del Mediterraneo affermando al cospetto del mondo la riconquista alla civiltà, al progresso, alla luce, all'indefinito divenire delle Nazioni e dei Popoli, di questo lembo di terra africana che aveva conosciuto le glorie di Roma e ancora ne serbava le testimonianze vive, conservate attraverso i lunghi secoli di barbarie, di ignoranza, di miserie senza nome".
Ad eccezione di pochi giornali di diffusione nazionale come l' "Avanti!", socialista, "L'Internazionale", sindacalista rivoluzionario e "Il Secolo", radicale, tutti gli altri, sia laici che cattolici, come "La Stampa", il "Corriere della Sera", "Il Messaggero", "Il Giorn ale d'Italia", "L'Avvenire d'Italia", il " Corriere di Sicilia", "Il Resto del Carlino" ecc. avevano incoraggiato la spedizione. I nazionalisti, per sollecitare "la ripresa dell'espansionismo coloniale" avevano anche fondato a Roma, il 1 marzo 1911, anniversario della sconfitta di Adua, un giornale, "L'Idea Nazionale" e si battevano contro l'internazionalismo, il pacifismo e il socialismo .4
In Umbria uno dei periodici che aveva manifestato il più grande entusiasmo era stata l'edizione ternana de "L'Unione Liberale" con l'articolo di Steno dal titolo Ciò che incombe in quest'ora pubblicato a Terni domenica 1° ottobre 1911, mentre la flotta italiana navigava verso T ripoli dopo la scadenza dell'ultimatum dell'Italia alla Turchi a.s Secondo il giornalista, la flotta che "ardita e sicura" solcava il Mediterraneo avrebbe dovuto "vendicare le atroci offese" recate dai turchi alla "nazione italiana" e "difendere la vita minacciata dei fratelli" residenti in Libia. 6
4 Cfr. A. De l Boca, Gli italiani in Libia, Mondadori, Milano 2015, pp. 51-52. (Pr i ma Edizione: Mondadori Oscar Storia 1993).
5 Steno era lo pseudon im o dell'avvocato Stefano Lazzari, direttore dell'edizione ternana del giornale che ven iva pubbl icato ogni domenica anche a Perugia. " L'Unione Liberale" si definiva Gazzetta politica, settimanale, letteraria e commerciale dell'Umbria. In iz iò le pubblicazioni nel 1880 e le cessò nel 1925. Con l'ultima t um del 27 settembre l' I talia comunicava al governo im periale turco che aveva deciso di occupare militarmente la Tripoli tania e la Cirenaica e che entro 24 ore detto governo avrebbe dovuto emanare ordini per consentire l'occupaz ione "senza opposizione".
6 Probabilmente Lazzari si r iferiva alla uccisione di un frate france-
La spedizione tripo lina ve ni va giustificata anche con i l fatto che quei territori una volta facevano parte dell'Impero Romano; che Settimio Severo er a na to in Tripolitania; che la Cirenaica era stata una colonia romana con il nome di Flavia ecc ...
Forse l'editoriale di Steno voleva anche essere una risposta a quello di Alessandro Romagnoli , che i l 16 settembre, sul giornale ternano da lui diretto, "Il Grido degli Oppressi", organo dei Sindacalisti e dei Giovani Socialisti Umbri, aveva ammonito il re e il governo Giolitti con queste parole:
"Tripoli, come l'Eritr ea, costerà sacr ifici all'Italia che di utile non ricave r à altro che fumo. Il primo esperimento africano avrebbe dovuto insegnar e qualcosa . Il sogno imperialistico del buon Um berto I è costato milioni, vite umane e ... beffe. La grandezza d'Italia e il suo va lor e militare ne uscirono rimpic cioliti e il raggiungimento dell'imperiale sogno costò la vita al re Sabaudo... " 7
In Umbria i socialisti d i Perugi a e di Terni av evano condannato unanimemente l' imminente decis ion e del governo di dichiarare guerra alla Turchi a . "La Battaglia", l'organo della sezion e socia lista di Perugia, in u n editoriale del 23 settemb re l' aveva definita "un quarto d ' ora di follia che passa sull'Italia." E dopo aver affermato che l'impr esa sarebbe costata almeno 400 milioni, aveva rivolto al governo questa domanda: "Ora, quando si pensi che nel Mezzogiorno c'è tanta T ri politani a che ha bisogno di vie, di scano, pad re G iustino, per mano di fanatici arab i avvenuta a D erna nel ma rzo del 1908 e di quella di un giovane residente italiano, di Tr ipo l i, Gastone Terreni, ucciso a giugno dello stesso anno alle porte della città, per motivi restati sconosc i ut i. ferrovie, di acqua, di scuole, di risanamento, di rimboschimento, di una coltura più razionale, viene spontanea la domanda: ma vale proprio la pena di andare a profondere tanti milioni in Africa quando noi abbiamo tanta parte di Africa proprio in Italia?"S
7 Alessandro Romagnoli, classe 1881, farmacista, esponente ternano dei sindacalisti rivoluzionari, era all'epoca direttore de "Il Grido degli Oppressi".
Effettivamente era illusorio pensare che quelle terre avrebbero potuto rappresentare una grande opportunità per i nostri contadini del sud e che inoltre gli arabi, come veniva da più parti sostenuto, ci avrebbero accolto a braccia aperte. Uno dei quadri più esatti di quello che ci aspettava in T ripolitania e in Cirenaica lo tratteggiò un anonimo giornalista in un articolo pubblicato su "La Scintilla", il giornale socialista di Ferrara, e riportato il 30 settembre su "Il Grido degli Oppressi":
"Quand'anche ci impossessassimo delle terre della Tripolitania, per nove decimi infeconde, aride, tristi, che cosa avremmo conquistato? Dove invieremo i nostri emigranti? Nelle sabbie forse? Che cosa ne ricaveremmo? [... ]
I migliori terreni sono già occupati. Gli arabi sono i legittimi possessori delle parti coltivate della T ripolitania, parti divise in piccoli numerosissimi poderi. Se solo si tentasse di cacciarli via scoppierebbe una rivolta terribile e generale. Gli arabi vengono giudicati [... ] un pericoloso avversario [.. .] e lo possono dire gli Spagnoli e i Francesi che sanno quanto costa di vite e di denaro una guerra di imboscate e di estenuanti sorprese. [.. .]. Terra fertile e libera da distribuire non esiste più in Tripolitania. La terra coltivabile è proprietà privata e noi abbiamo visto come gli arabi saprebbero difenderla." 9
8 Secondo gli storici S. Cilibrizzi e A. D'Alessandro, citati da S. Romano nel vo lume La Qµarta Sponda (cfr . pp. 254 e 265 ) la guerra costò non meno di un miliardo.
9 L'articolo fu probabi l mente scritto da Michele Bianch i, classe 1882,
Anche "Il Popolo", il settimanale repubblicano che si stampava a Perugia, in un polemico editoriale del 30 settembre aveva preso posizione contro la spedizione con questi argomenti: "Ma poniamoci il quesito: quanto ci costerà quest'impresa? Abbiamo noi tale esuberanza di capitali da andarli a profondere in Africa? Andare a Tripoli solo per piantarvi una bandiera nazionale [... ] ed avere la soddisfazione di dire che abbiamo una colonia, sarebbe un programma da bambini. [...] Mezzo miliardo sottratto ai bisogni di un paese povero come il nostro non costituisce già un delitto? Ma, ci rispondono i nazionalisti guerrafondai, l'Italia troverà uno sbocco ai suoi lavoratori e le crisi di disoccupazione saranno risolte. In che modo? Distribuendo la terra alle famiglie degli agricoltori? Ma quelle terre sono proprietà degli Arabi: l'Italia non potrà, come i barbari di Attila, spogliarne i legittimi possessori."
Timidamente a favore della guerra si era dichiarato "La Democrazia", quotidiano della provincia dell'Umbria, che comunque aveva previsto una facile vittoria dell'Italia considerando che "la Turchia, non potendo fare assegnamento sull'aiuto di altri Stati, non può non considerare una follia cimentarsi con un nemico incomparabilmente più forte" ,10
"La Turbina", l'organo della sezione socialista di Terni "Luigi Riccardi" e della federazione socialista umbra, aveva preso decisamente posizione contro la spedizione: "Una seconda sciagura eritrea si sta preparando dai briganti della banca: l'Impresa Tripolina. Un gruppo di finanzieri clerico- che nel 191 1 era socialista e antimi litarista. Successivamente con lo scoppi o della Prima guerra Mondiale divenne interventista e partì volontario. Al ritorno aderì al Fascismo e fu uno dei quadrunviri alla Marcia su Roma. Durante il Ventennio rivestì la carica di se gretario nazionale del PNF e nel 1929 fu ministro dei Lavori Pubblici. liberali e di affaristi monta l'opin ione pubblica per spingere la nazione ad una impresa che sarà fonte di nuove speculazioni per i trust e di nuove spese e di nuovi sacrifici per il proletariato. Operai! È tempo di insorgere contro queste PATRIOTTICHE PIRATERIE. [... ] Se l'Italia militarista dei trust vi sospinge a Tripoli voi scendete nelle piazze! La logica delle parole ceda a quella più persuasiva dei fatti." 11
IO Cfr. "La Democrazia" del 3 otrobre 19 11.
Il leader di opinione di questa campagna di opposizione alla guerra era Gaetano Salvemini al quale i giornali umbri come "Il Grido degli Oppressi", "La Turbina" , " La Battaglia" e "Il Popolo" facevano spesso riferimento.
Il Cfr. "La Turbina" del 23 settembre 1911.