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indice
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questo numero [a.s.] RICONOSCERE / RICONOSCERSI
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l’ira e le lacrime di angelo semeraro spaesamento e riconoscimento di mimmo pesare ritornare a parmenide? di nello barile virtualità e crisi della rappresentanza di carlo formenti adam smith: la sympathy nelle relazioni industriali di guglielmo forges davanzati lo sguardo e l’immaginario di giovanni fiorentino van gogh e gauguin: colori sonori di anna gentile RESET
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scienze della comunicazione: riconoscimenti e risentimenti di stefano cristante istruire, educare, comunicare di antonio santoni rugiu GLOCALI
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meraviglie occidentali per giovanotti mondani di città di livio romano italian sud est di alessio pepe adolescenze: dodici scuole rispondono sull’aggressività di stefano mangia TESSITURE
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letti da: semeraro: benasayag, schmitt / passioni tristi; carnevali / romanticismo & risentimento; veca / amore infinito; bauman / amore liquido; marchesini, posthuman / anima appeal; eco / misteriosa fiamma duma: icke /alice; heinein / fanteria dello spazio; anais nin / mistica del sesso, caccia / david linch fiorentino: chambers / ad limina mundi; temple grandin / pensare in immagini; lurija / mondo perduto/ritrovato caputo: sebeck / signs. introduction to semiotics; peirce / opere barile: gibson / accademia dei sogni una giornata di desiderio [g. f.] a margine di un convegno: Adorno a Lecce [a. s.]
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i laureati del corso triennale di Scienze della Comunicazione
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gli autori
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Stampato presso Grafiche Panico – Galatina (Le) nel mese di Gennaio 2005 per conto di BESA editrice
C. Pavese, Del mito, del simbolo e altro. Letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1990
questo numero
Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo.
I saggi contenuti in questo Quaderno, in continuità col precedente dedicato al desiderio, si collocano nello spazio di una pre-
Quaderno di COMUNICazione
questo numero
Non siamo così sicuri, come invece sembrano essere alcuni recenti osservatori, che una nuova speranza possa accendersi in questi nostri tempi segnati da guerre ubique. Ed essendo lontani gli orizzonti di pace, l’hegeliana lotta per il riconoscimento si trova ora a dover rinegoziare uno spazio etico-politico per arginare le conseguenze funeste del furore guerriero, in attesa che possa nuovamente affermarsi quel kantiano rispetto di sé che non può darsi senza il rispetto e l’onore dell’altro, anche quando nemico. Un’etica del conflitto, in attesa che maturino le condizioni per un’etica del riconoscimento, non può che esigere relazioni giuridiche in grado di lenire la perdita dei più alti valori di civiltà che pure l’umanità ha conosciuto non solo nello spazio del moderno, ma anche nel fondo più arcaico della sua storia. Ma l’evoluzione del diritto e la conquista di un agire etico richiedono un’elevazione culturale della comunità globale e la trasformazione dei modelli sociali. Richiederebbe una Umbildung trasformativa che al dominio opponga mutualità (Eisler 1996). Si accede a una superiore civiltà di mutualità attraverso il riconoscimento dei torti inflitti a tre quarti dell’umanità che sostiene l’agio di un terzo; riconoscimento del volto di un dio diverso dal nostro; riconoscimento delle responsabilità storiche dell’occidente… Dobbiamo insomma apprendere a riconoscere per riconoscerci. E questa è la sola via per dar tregua alle armi.
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questo numero
comprensione ermeneutica: pre-testi per una nuova tessitura dell’eterno dilemma dell’alterità. Il mito achilleo che riproponiamo in questa stagione di rinascita multimediale di Omero e il Parmenide riletto da Barile ci aiutano a uscire da quello spaesamento tratteggiato da Pésare nella terra di confine tra il moderno e il suo post. Emuli di Rousseau, cerchiamo nel gesto antico le possibilità smarrite per riposizionarci in un presente avaro di futuro. Il valore delle differenze da riconoscere è l’altra faccia della medaglia di quella smithiana sympathy che Forges Davanzati considera un generatore delle relazioni industriali, e il virtuale di Formenti ci fa riflettere su quel transfert di fiducia che dalle persone passa ai sistemi, e sulla crescente diffidenza nei confronti delle persone che agiscono da “terminali sistemici”. L’occhio fotografico di Fiorentino infine cataloga il tragico del Novecento, e Anna Gentile ritrova, di Van Gogh e Gauguin, la sonorità dei colori. Figure e momenti dunque della seconda modernità che diversamente si muovono e reagiscono all’inquietudine del tempo nuovo e diversamente interpretano lo spartito del ri-conoscersi. In Reset, che rende bene il bisogno di un “riposizionarsi”, Cristante argomenta sulla incapacità dell’istituzione a riconoscere le nuove domande di formazione giovanili. In questo senso si spiega le difficoltà in cui versano i corsi di Comunicazione nelle Facoltà di più antica tradizione. Santoni Rugiu cerca invece il profilo identitario dell’educational, da cui la comunicazione è inglobata e che a sua volta ingloba. Problemi di epistéme, ma anche di gestione politica della transizione culturale tra vecchi e nuovi modelli, old e new education. A definire lo spazio identitario ci pensa in gran parte il Glocale, e la terza sezione di questo fascicolo è animata dalla scrittura negroamara di Livio Romano e da due temi suggeriti dai neo laureati del corso triennale di Comunicazione, Pepe e Mangia, che muovono alla scoperta di un Salento in movimento, che si interroga sullo stato di salute delle giovani generazioni. Tessiture infine si presenta al consueto appuntamento con autori e libri con cui ci piace dialogare. [ a. s. ]
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Quaderno di COMUNICazione
riconoscere / riconoscersi
Guerriero che si arma. Illustrazione riportata nell’Iliade nella versione di Vincenzo Monti de La Nuova Italia, ediz. 1950
angelo semeraro l’ira e le lacrime
Le storie sono armi e il mito è un campo di battaglia WU MING, Giap!, Torino, Einaudi, 2003
Quaderno di COMUNICazione
riconoscere / riconoscersi
Se la storia è talvolta prodiga di déja vu luttuosi e non riesce a farci intravedere vie d’uscita, ecco a disposizione il mito, materia da sempre duttile e creativa, addolcitore del presente dispotico e del futuro-minaccia, pronto a corrispondere alle nostre domande sempre nuove eppure le stesse di ogni tempo. Quelle almeno che con la complicità, l’arbitrarietà e la divina insolenza del vecchio olimpo popolato di dèi, possono ancora sfidare il monoteismo del principio unico, dell’unica spiegazione, dell’unico dio nel nome del quale l’umanità continua a infliggersi infiniti lutti. Come curare il fanatismo e difendere una cultura della vita contro quella della morte in questo tempo di paci spezzate e di guerre fuori controllo? Il ricorso al mito è forse una via dulcis per riapprendere la tolleranza contro il fanatismo, un compromesso contro i fondamentalismi. È molto vero quel verso del poeta israeliano Amichai: “dove siamo integerrimi non cresce nessun fiore”. Contro il fanatismo non abbiamo altra scelta che comprometterci (Oz 2004, p. 50), che potremmo tradurre come capacità di metterci in comunicazione utilizzando le antiche risorse che il mondo mitico continua a offrirci. Perché il mito sa rispondere alle richieste d’ogni tempo, d’ogni luogo, d’ogni ciascuno. È lì, disponibile ad offrirci occasioni di un più ricco riconoscimento dell’accaduto, nel gioco ad libitum delle similitudini e delle analogie. Conserva una sua forza e gode di un discreto fascino educativo nel presentare varie facce della realtà, le sue sfumature, le pieghe deleuziane degli intravisti e degli imprevisti d’ogni sguardo audace.
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Già Platone ammetteva che sarebbe stato difficile trovare una forma di educazione migliore di quella impartita dagli uomini del passato, di un insegnamento fondato sull’apprendimento dei mythoi (Repubblica 2,376d/e). Il cui tratto distintivo risiede soprattutto nella funzione comunicativa che il mito conserva nell’ambito della vita sociale dilatata dall’occhio dei media. La sua verità sta innanzitutto nella sua efficacia comunicativa, nel potere di seduzione e di persuasione. Va usato perciò come un integratore dei desideri svuotati dal tempo del tutto già visto e tutto già consumato: un metalinguaggio per rivestire di senso una realtà insensata; un travestimento seduttivo (poetico) – per dirla con Cerri – della riflessione filosofica (Cerri 1991,15, sg.).
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Nei tempi di guerra infinita (Gresh 2004) ecco rifiorire l’antico racconto dell’Iliade. Proprio quando una scriteriata controriforma scolastica riduce drasticamente i tempi dell’incontro delle nuove generazioni con la prima storia e le vecchie fabulae dell’umanità, Omero torna a parlarci, alle prime luci di un secolo/millennio in cui le armi sono tornate ad occupare tutta la scena del pensiero, col suo antico racconto di coraggio e di pietà. Perché è un pensiero guerriero quello che si è lentamente ma inesorabilmente introdotto nelle scienze sociali, o quanto meno un pensiero riflessivo che con i teatri globali di guerra, con i ritorni delle pratiche di tortura dei corpi, si trova inevitabilmente coinvolto in una interrogazione profonda sul proprio destino; sulla sua capacità di saper lenire ancora la smania funesta dei nuovi coloni globali con l’antica pietas e la forza del diritto conquistato dal vecchio continente da almeno tre secoli in qua. Omero torna come cantore di una civiltà che ha ancora molto da dirci nell’epoca in cui riaffiorano le passioni tristi, come direbbe Spinoza, che non si riferiva tanto alla tristezza che soffochiamo nel pianto, quanto a quella sofferenza generazionale provocata dall’impotenza, dalla delusione (letteralmente dalla uscita dai giochi), dalla perdita di fiducia, dalla caduta di ogni codice d’onore tra i belligeranti, di ogni ritegno dei governanti. Se l’Iliade torna a stregare l’Occidente, e assistiamo a una nuova fioritura narrativa dei due poemi omerici, deve pur essercene qualche ragione. Sarà forse il fascino che esercitano i racconti di civiltà che nascono, scompaiono e vichianamente si ripresentano ogni volta nuovi eppur sempre identici, o perché, come qualcuno ora suggerisce, l’Iliade c’est nous; ci abita dentro con l’umana,
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riconoscere / riconoscersi
interminabile commedia delle passioni contrastanti e devastanti, mai vinte al giogo della ragione nel millenario suo sgomitolarsi. La guerra di Troia fu la prima guerra tra Occidente e Oriente, quattro-cinquecento anni prima che Omero col suo racconto risvegliasse l’onore dei suoi contemporanei. Ieri come oggi, come sempre, fu un pretesto a scatenarla. Così, volendo giocare il gioco ardito delle similitudine dei diversi, Elena (“il bel male”) starebbe alle presunte armi chimiche di Saddam, come pretesto di una guerra dagli esiti incerti, e Agamennone si reincarna in Rumsfeld nella strategia di guerra preventiva – quelle cara a Paul Wolfowitz e al suo enturage. La guerra per espugnare Troia fu prevalentemente un assedio lungo dieci anni, ma non mancano episodi in cui gli Achei sono a loro volta assediati attorno alle veloci navi da guerra. Come nell’avventura afghana e poi irachena non si sa esattamente chi assedia chi: se siano gli eserciti occidentali a stringere d’assedio il potere orientale o se, viceversa, sia questo a organizzare la più spaventosa strategia terroristica che stringe d’assedio l’intero occidente. Così, come la distruzione di Troia non avrebbe portato al controllo dell’Asia, i dopoguerra afghano e iracheno non solo non hanno portato quelle aree al controllo occidentale, ma hanno destabilizzato l’intero pianeta, rendendo vulnerabile il sistema di sicurezza dei paesi accorsi in aiuto dell’amministrazione americana. Un’altra sorprendente analogia, dal momento che anche quella coalizione traballante messa in piedi da Agamennone, si sarebbe poi dissolta nel dopoguerra troiano. Non dalla vittoria, ma dalle ceneri di Troia, sarebbero poi nati altri imperi che avrebbero sfidato i millenni. L’amministrazione americana non ha ancora deciso, segnalano gli osservatori, che volto assumere: se sentirsi eredi troiani, per emulare attraverso il pio Enea il mito della Roma imperiale, o se identificarsi negli Achei. Nel primo caso li attende un destino di dissoluzione; se poi si sentono emuli degli Achei, li attende una fuga rovinosa dopo aver tanto distrutto senza ottenere ciò per cui hanno combattuto. Un destino, nell’uno e nell’altra caso, di perenne belligeranza. Con tutte le beffarde conseguenze richiamate dalla memoria degli eventi iliaci. Sono le acute simmetrie segnalate dal generale Fabio Mini (2003).
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L’ira…
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Il poema di fondazione della cultura greca si apre con l’ira (menis) di Achille e il suo furore guerriero (menos) contro il sopruso subìto. Un fine conoscitore della psicologia greca (Vegetti 1995) ha spiegato come l’Iliade faccia del massacro di nemici il momento in cui il signore dell’epica si mette alla prova e legittima il suo potere. Vegetti ci spiega come l’ira sia parte costitutiva ed essenziale nella costruzione della soggettività antica, proprio per l’importanza che il concetto di libertà assumeva in una società che aveva quotidiana consuetudine con il mondo degli schiavi e dei semiliberi. L’ira è un privilegio (time) del signore, che gode in pienezza della propria libertà. Il V secolo avrebbe riconosciuto come “libero” solo il tiranno, che al pari di Zeus poteva incessantemente infrangere le leggi e la giustizia. Curiosamente poi Savinio spiegherà, col suo estro senza confini, che il tiranno era originariamente colui che distribuiva i formaggi, facendone risalire il termine (turós = formaggio) alle prime società pastorali dove, evidentemente, la distribuzione dei formaggi era funzione amministrativa esercitata con il (necessario) dispotismo. Si pensi alle lunghe marce delle popolazioni nomadi o ai tempi di carestia. La giustizia di Zeus del resto non era che arbitrio, potere di scorazzare per la pianure umane prendendo e stuprando a suo piacimento. Anche gli eroi umani partecipavano del divino, appropriandosi di qualche scampolo di quell’arbitrio (Calasso 1988). Il dispotismo insomma discendeva giù per li rami...
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Dunque l’ira, che protegge dalla minaccia dell’asservimento e dalle passioni tristi della vendetta e della rivalsa, resta un’attribuzione signorile; reintegratore anzi indicatore della libertà del signore. Al contrario di Platone che collocava il furore guerriero nella zona irrazionale dell’anima, consapevole tuttavia che spegnere quel furore poteva equivalere a “recidere i nervi dell’anima” o a tagliare la corda d’arco che dà energia al dardo (Repubblica 3, 411b), il mite Aristotele dirà espressamente che il sopportare di essere oltraggiati, o permettere che lo siano i propri congiunti, è cosa da schiavi (Ethica a Nicomaco, 11). Schiavi sono coloro che non s’indignano! per la semplice ragione che la condizione di sottomissione non riserva spazi di libertà. Essi, gli umili, debbono solo sviluppare per tempo il riconoscimento delle prerogative del potere;
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sviluppare una paideia di occultamento/assorbimento del contrasto. La povera Lucia dei Promessi sposi deve tenere a bada le intemperanze di Renzo, che aspira evidentemente a uscire dalla sua condizione di paria, ma i poveri non hanno diritto al menos, né tantomeno al thymós; la loro indignazione non potrà che canalizzarsi in una educazione alla sopportazione. Non potendo accedere al potere-conoscenza (la manzoniana Provvidenza che disegna un ordine dell’universo a cui il conoscimento umano non ha accesso) non gli resta che riconoscere le gerarchie che l’architettura divina ha disegnato per l’amministrazione delle cose umane e dei loro destini.
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L’affermazione signorile del soggetto attraverso l’ira sarebbe poi entrata in crisi con i limiti politici imposti dalla costruzione democratica della polis. Ma la questione sarebbe stata posta dagli stoici e – più tardi, in epoca moderna – da Hobbes, Rousseau ed Hegel, in quanto conatus al riconoscimento nella situazione di competizione che si apre in una società di uguali. La stessa antropologia kantiana si sarebbe più tardi ispirata alla minuta tassonomia stoica del III secolo. Ma per Omero, che rappresenta ancora intatta una società arcaica, Achille è l’eroe centrale di tutto il poema. Sul nome dell’eroe Savinio segnala un doppio significato: Achilleus: “colui che scaglia il dolore”, e Achileus, “il cordoglio d’Ilio”: un nome comunque segnato da un destino di produzione del dolore, perché Achille esercita la libertà di opporsi al sopruso. Egli è un combattente per vocazione, ma nell’Iliade è pure quello che trova le parole più forti contro la guerra. Il mito si affanna a dirci come si sarebbe volentieri sottratto all’assedio di Troia, e come solo l’astuzia di Ulisse (Odysseus) – un altro nome tragicamente negativo, legato a un odio delle origini (odyssomai) – riuscì a scoprirlo sotto mentite vesti femminili. Anche Odisseo del resto aveva tentato di sottrarsi alla spedizione voluta da Agamennone per lavare l’offe-
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sa subìta da Menelao. Tentò anche lui di farla franca fingendosi pazzo. E fu Palamede a smascherarlo ponendo innanzi all’aratro del finto contadino il piccolo Telemaco ancora in fasce. Tutti quei valorosi capitani insomma, chiamati a raccolta da Agamennone, avevano fatto il loro bravo tentativo di smarcarsi da quella guerra che si annunciava incerta e infinita. Achille, pur portando quel nome di destino ci fu tirato dentro da un troiano rinnegato, Calcante, sacerdote di Apollo, il quale aveva predetto che Troia non sarebbe caduta se fosse mancato il suo braccio valoroso. Il riconoscimento pubblico delle sue virtù guerriere fu insomma il catalizzatore della meglio gioventù achea reclutata da Agamennone per lavare l’onore perduto da Menelao. Più ancora del rinnegato Calcante fu comunque il torto subìto da Agamennone il detonatore che fece esplodere l’ira funesta. Per rifarsi della perdita di Criseide, figlia di un altro sacerdote d’Apollo, il comandante in capo aveva fatto sottrarre Briseide, la fanciulla con cui il Pelíde trascorreva il tempo del riposo e dell’amore, diviso con l’addestramento militare dell’amico Patroclo. Nell’Iliade, insomma, irrompe fin dai primi versi quell’irrazionale dei greci, acutamente studiato da Dodds in un saggio che rompeva gli schemi della Grecia come culla della razionalità occidentale (Snell 1951): un comandante (Agamennone) che si giustifica innanzi a un eroe di guerra (Achille), che evidentemente riconosce nel suo valore di combattente (senza di lui non si poteva né vincere né convincere), asserendo che erano state potenze divine a infondere nella sua mente l’insania.
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E che potevo io fare? È un dio che manda a termine tutte le cose. Così si discolpa Agamennone, che aveva sottratto ad Achille la bruna Briseide per rifarsi della perdita della bionda Criseide. Non è solo Elena-il bel-male la sola posta in palio di quella lunga guerra; altre figure femminili entrano in gioco: Criseide, bionda, sottile, piccola di statura, e Briseide, alta, bruna, bianca di carnagione ed elegante nel portamento; due tra le tipologie più diffuse di bellezza mediterranea. Via via l’Iliade s’infoltirà di altre presenze femminili, che non sono solo le comparse addette alla cura dei corpi caduti o del pianto domestico, ma figure di dignità, poste in bell’evidenza dallo studio della Monsacré (1984).
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Privandolo di Briseide, Agamennone ha ferito senza rimedio Achille nel suo onore guerriero. Lo ha privato della parte più bella del geras, il bottino di guerra riservato ai migliori. E se il re si è poi rassegnato a restituire Criseide a Crise, sacerdote di Apollo, ora esige a sua volta il suo geras sovrano. E lo esige proprio da Achille che lo aveva accusato pubblicamente. È qui che esplode l’ira funesta. Il figlio di Peleo non intende pareggiare il suo valore guerriero col prestigio del sovrano. Un sovrano che non combatte come lui in prima linea, ma se ne sta acquattato nelle sue tende; non mette in gioco ogni volta la sua vita nelle prove d’onore della competizione sul campo. Lui è il migliore, e tutti glielo riconoscono. La vita che ogni volta mette a repentaglio appartiene a un ordine di valori che non è misurabile con un bottino di guerra. Una volta uscita dai denti, la vita non torna più indietro. Dice Achille: Buoi e grassi montoni si possono comprare, ma la vita di un uomo non si ritrova, né la si può rubare o comprare, dal momento in cui è uscita dalla chiostra dei suoi denti.
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Né Ulisse, né Aiace, né il suo vecchio precettore Fenice, che ama Achille come può amarlo un vecchio balio sul cui petto l’eroe bambino rigurgitava il vino, riusciranno a smuoverlo. Nell’animo di Achille – afferma Vernant – si delinea una netta separazione tra due glorie, due onori: c’è la lode dell’opinione pubblica, pronta a celebrarlo e compensarlo a condizione che ceda, e c’è l’altra, la gloria che gli riserva il suo destino se rimane coerente con se stesso; uguale a ciò che è sempre stato. Nel respingere l’offerta di Agamennone, che vorrebbe restituirgli Briseide e riempirlo di bottino di ori e bronzi, e nel respingere le suppliche degli ambasciatori, Achille mostra insomma di tenere al riconoscimento più che alla vita stessa (Vernant, 1989, p. 42 e passim). L’essere per gli altri svolge nell’epica greca un ruolo educativo di grande attrazione: codice civile e militare insieme.
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…e le lacrime
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Al tempo dei poemi omerici, prima dell’avvento della Grecia classica del V secolo, agli eroi è ancora dato di poter piangere allo stesso modo delle donne, e anche Achille piange copiosamente e rabbiosamente per l’affronto subìto nella sottrazione di Briseide, per l’amico perduto, e per la fine precoce a cui sa di andare incontro. Un pianto abbondante e fragoroso, che allena la rivalsa e rigenera il thymòs guerriero, misterioso eccesso di energia vitale che ha sede nel fegato. Simon Weil rigettava l’Iliade per quella sua forza schiacciante e accecante che oggi sembra invece affascinare chi vi coglie una sua inconfondibile intensità. I guerrieri del poema – sosteneva Weil – hanno tutti un destino di morte “professionale”. Ma se è vero che in Omero scorrono fiumi di sangue, è pur vero che sotto la pelle di quell’orrore guerriero insistono ancora la mitezza dei costumi, la dolcezza della convivenza, l’amore della vita. E le lacrime di Achille rendono molto più sopportabile il teatro di guerra se confrontato alle guerre globali del XXI secolo. Riconoscere il significato del pianto non è facile. Le ultime pagine del testo di Monsacré ci offrono perciò preziose informazioni. Sostiene l’autrice che il pianto investe e attraversa diversi campi semantici ed è legato alla natura di genere (maschi/femmine), dei luoghi (interni/esterni) e del gesto. Gli uomini piangono all’esterno: Achille e i loro compagni bagnano la sabbia e le armi coi loro singhiozzi. Così pure i figli di Priamo nella corte del palazzo dopo la morte di Ettore; Ulisse, nell’Odissea, piange tra gli scogli nell’isola di Calipso. Omero dunque sembra utilizzare le lacrime dei suoi eroi per ricongiungerli all’essenziale della loro natura eroica. In tempo di pace, il pianto che sgorga dal canto poetico e dal racconto è come un prolungamento della loro capacità di combattere in tempo di guerra. Lontano dalla guerra per il noto risentimento contro Agamennone, Achille si diletta a suonare la cetra e a cantare nella sua tenda le imprese degli eroi. Diverso invece il luogo, il tempo e il gesto del pianto nelle donne, che piangono quasi esclusivamente negli interni dell’oikos, per lo più sui loro letti nuziali. Le loro lacrime hanno effetti analoghi a quelli che la guerra ha sugli uomini: consumano nel dolore, dissolvono. Elena piange pensando alla umiliazione inflitta a Menelao; piange per un senso di colpa e di vergogna, ma piange anche su se stes-
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sa, sui dolori che la sua passione ha provocato. Geme sulla sua condizione di donna senza più comunicazione umana. Ella è detta; non dice e non è ascoltata (e l’ascolto è essenziale all’esistere); lamenta il suo errore e le sue conseguenze (Politelli 2004). Una difesa di Elena, sotto forma di Elogio, è in Platone, dove con fine argomentazione Gorgia sottolinea che la colpa sta in chi non ha saputo parlare con lei; di chi non ha instaurato un rapporto che ogni giorno si deve rinnovare attraverso la parola; in un sapersi fare insieme che è anche un gioco di affetti che gesti e parole rinnovano e alimentano. L’Iliade si chiude col suo grido di dolore: In tutta Troia io non ho più chi m’ami o compatisca, tutti m’hanno in orrore (XXIV, 980). Nel Faust di Goethe sarà Achille l’ultimo che si unirà a lei (Io idolo a lui mi congiunsi che era idolo. Fu un sogno… Ecco, svanisco e idolo divento oramai a me stessa). Idolo, dal greco eidolon, sta per immagine. Elena diventerà icona di corruttrice d’uomini, di un loro fugace passaggio. Vivrà nella memoria l’immagine che gli altri si sono fatti di lei (Wolf 1983, p. 158 e passim). Tornerà infine a Sparta, da dove Paride l’aveva rapita, ripresa da Menelao e il Faust goethiano ce la rappresenta come un vuoto simulacro oramai di se stessa. Fui io tutto ciò? Sono memorie o fu follia quella che mi assalì? Sarò in avvenire il fantasma di una devastatrice?
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Le lacrime hanno nell’Iliade, come nell’Odissea, una loro fecondità e una loro economia, perché secrete dall’occhio, che è anche il luogo della generazione. Le figure femminili dei poemi omerici che qui rievochiamo non hanno lacrime. Non piange Elena e neppure Penelope; né Pentesilea, né Cassandra. Per Aristotele il pianto, generato nella regione degli occhi, che è quella che fornisce la maggiore quantità di sperma, partecipa di un principio vitale, e va perciò inscritta nel campo semantico della fecondità. Le lacrime degli eroi sono una secrezione vitale, pari alla linfa dei vegetali. La morte di un guerriero del resto è considerata come la morte di un albero o di un fiore. Da qui la ricerca della bella morte (Vernant 1989). Tocca ad Achille incarnare tutta la sofferenza dell’Iliade, ed è
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tra le figure omeriche la più dolorosa (Monsacré 1984, p. 137) e l’Iliade è appunto il canto del suo dolore. Al giovane di bell’aspetto, che rappresenta lo splendore della forza e della bellezza, il guerriero insomma per eccellenza, è affidato l’umano destino di gestire la trasformazione della collera (l’ira funesta) in dolore. A lui è assegnato il ruolo di imprimere quell’intensità che Baricco ora attribuisce all’intero poema. Quando piange, l’eroe appartiene interamente al suo dolore, come se questo lo isolasse dal resto della vita e dei viventi. Non prende più parte alla vita comunitaria e rifiuta il cibo. Omero lo dice esplicitamente: il cibo è incompatibile con le lacrime e con la lotta. La sua sofferenza per l’amico abbattuto lo isola dal resto dell’esercito e gli fa perdere il contatto con la comunità achea. Solo dopo aver abbattuto Ettore, Achille potrà reintegrarsi nella norma del cibo-comunità. Ma – simmetricamente – come Achille non riesce a prender sonno né cibo prima dei funerali di Patroclo, così Priamo non può né mangiare né dormire prima di aver ottenuto il corpo di Ettore. Entrambi con-dividono un dolore. Il riconoscimento può darsi solo nella con-divisione. Se non si con-divide, l’Altro non si disvela a noi come prossimo e simile. L’eroe acheo lo invita a condividere con lui il pasto, ma Priamo potrà accettare l’invito solo dopo aver ottenuto il riscatto del corpo del figlio. Solo allora potrà sedersi alla stessa mensa dell’avversario e spezzare con lui il pane. L’uno e l’altro, sazi di lacrime, potranno ora saziarsi di cibo. Solo in quella reciprocità, innescata dalla condivisione Achille riconosce Priamo e in Priamo il diritto a poter onorare il corpo del figlio che egli ha abbattuto e umiliato, così come il vecchio re riconosce in Achille un gesto che va al di là del codice guerriero di poter disporre del proprio bottino di guerra e farne ciò che vuole. In entrambi il risentimento lascia il posto al riconoscimento. In una civiltà epica non vi è posto per gli orrori della tortura, fisica o psicologica che sia. I corpi abbattuti vengono onorati. Omero ci introduce in una civiltà superiore dei rapporti tra diversi; un codice d’onore militare che le guerre del XXI sec. hanno travolto. La fine del lutto di Achille, con cui si spiana la strada alla definitiva conquista di Troia, si manifesta nel riconoscimento della propria comunità. Dopo aver onorato il corpo di Patroclo e restituito quello di Ettore, egli può nuovamente spezzare il pane e pren-
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der parte a un banchetto. A voler rincorrere le analogie, vi è in questo lampo di arcaicità omerica lo stesso gesto che Cristo compie a Emmaus, nell’atto di spezzare il pane ai discepoli che non lo avevano riconosciuto, ma lo riconoscono ora in quel gesto di condivisione del pane (Resta 2003). Il Messia dell’episodio di Emmaus non è il Salvatore della tradizione cristiana che trionfa sulla morte ma, ebraicamente, è lo straniero e lo sconosciuto, il clandestino, l’ospite/ostile; l’Altro nella sua irriducibilie alterità. Sentirsi stranieri, nemici e ostaggi non è un’esperienza straordinaria, assegnata al mondo arcaico dell’epica, ma un’esperienza che ci raggiunge mediaticamente dai martoriati deserti dell’oriente o che personalmente guerreggiamo nella vita di ogni giorno, in patria, negli spazi della città e dell’oikos domestico. Il poema omerico di fatto può chiudersi solo dopo che Achille avrà riconosciuto quel diritto al padre di un avversario di dare onorata sepoltura ai resti del figlio. Dopo la tumulazione dell’amico e i funerali di Ettore, un atto simmetrico di pietà di due eserciti in lotta, Achille potrà tagliarsi i capelli e purificarsi, e concedersi al sonno al fianco di Briseide. Per lui la guerra è finita. Toccherà ad altri ora, all’Ulisse di metis astuta, escogitare l’espediente per varcare le mura troiane.
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Ben diversamente sarebbero andate le cose di Achille con la regina Pentesilea, episodio che l’Iliade non riporta, elaborato successivamente nella tragedia di Eschilo e ripreso nell’Ottocento romantico da von Kleist. Lì il riconoscimento non c’è stato. Sono scattati solo meccanismi di rivalsa competitiva: il dilaniante meccanismo dell’attrazione /invidia/ gelosia. La lotta di Achille e Pentesilea è spietata perché ciascuno vuol vedere riconosciuto il proprio valore e la sua superiorità nei confronti dell’altro. I due
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si sono intravisti in battaglia; hanno ammirato l’uno il coraggio dell’altra. Il coraggio di Achille, l’impulso ad avanzare “come un leone”, non va oltre il suo ruolo guerriero, che è pur sempre un ruolo di caccia al nemico, di vittoria incondizionata sulla sua forza. Una volta predata, probabilmente avrebbe preso alla bella regina ciò che si prende ad ogni ostaggio femminile anche quando non goda dello statuto di regalità. Non trovò insomma Achille in Pentesilea un movente così forte come quello – urlato dalle sue viscere – di vendicare l’amico abbattuto da mano nemica. Né sboccia nel cuore di Pentesilea, mossa da un’attrazione da competizione, quell’amore che è invece sempre la necessità di riconoscere un volto: un ri-conoscere tutt’altro che quieto e felice, che porta con sé “oltre la gioia, tutto il dolore del mondo” (Fusini 2003). Così, il riconoscimento negato la trascina in una tragedia cannibalica. I discepoli di Emmaus riconoscono il loro Messia solo nel momento in cui diventa invisibile ai loro occhi e Pentesilea deve passare per quella invisibilità per poter essere riconosciuta. Veste divisa di guerra, mimetica perciò neutra; neutra perciò mimetica, che le nega ogni differenza. Ella vuol essere riconosciuta solo per la singolarità del suo coraggio e dei suoi gesti di guerra; il corpo è negato. Ma la negazione del corpo impedisce il riconoscimento. Il mimetismo uccide l’attrazione. Achille la trafigge come un qualsiasi altro, e solo dopo, dallo squarcio prodotto dalla lancia nella corazza, lei rivela a lui, nella luce di un corpo verginale, la sua vera identità. Solo dopo averla uccisa Achille può riconoscerla e nuovamente desiderarla. Sul versante tragico aperto da von Kleist il riconoscimento di Pentesilea non avviene. La regina non accede a quell’altro livello di conoscenza che ogni riconoscimento richiede. Ella è ancora divorata dall’ira che non si scioglie in lacrime. Nel rituale femminile le lacrime assolvono alla funzione di lasciare uscir fuori; ma Pentesilea non consuma il dolore, non si ritira all’interno della sua cerchia femminile ad elaborare il suo lutto; non trae forza dalla coralità del suo in-comune. Vuol trattenere tutto per sé il dolore e nasconde il sentimento del suo amore inconfessato agli occhi della comunità a lei più prossima. Perciò il suo gesto sarà più tragico, pari a quello che, prima dell’elaborazione, Achille aveva immaginato di voler fare col corpo di Ettore: divorarlo. Pentesilea non ha con-diviso con Achille né un desco né un talamo, e non può riconoscere perché non lo ha mai davvero conosciu-
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to. Le resta il risentimento di un sé incomunicante. Il riconoscimento invece è risveglio, appartiene alle aderenze dell’io, come direbbe Valéry. Riconoscere è guardare qualcosa che già si conosce con sguardo diverso, con diversa disposizione dell’animo (eteros dumós), ben diverso dal semplice dumós, che letteralmente è il sentire vagamente qualcosa, un’emozione solitaria e fuggevole. Il riconoscimento è invece un intensificatore di conoscenza; una sua estensione (Snell 1951, p. 38, 43): un fatto di educazione prima che di comunicazione.
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Non si può dire che queste figure mitiche guerriere manchino di comunicazione: con i loro dèi protettori comunicano anzi intensamente, ma tutti i problemi nascono dall’ambiguità degli dèi che non dicono apertamente, ma lasciano spazio a infinite interpretazioni del detto e non-detto. Dicono e si contraddicono. La decisione, essenziale nell’azione del guerriero, non richiede che un atto di esclusiva comunicazione con se stessi; ma in quella responsabilità terribile gioca tutto il peso dell’educazione ricevuta ed elaborata. L’educazione è essa stessa un fatto di comunicazione che coinvolge lo sguardo (le idee hanno radice greca nel vedere; “sapere” (eidénai) è un “aver visto”, ma il verbo greco indica un inizio, una nascita: conoscere (ghighnosco) ha radice in gighnomai (= nascere). Il conoscere è solo un inizio; solo nel ri-conoscere la prima conoscenza s’affina; lo sguardo si fa penetrante più d’ogni lancia per aprirsi un varco nella verità dei corpi e delle anime. Una educazione al ri-conoscere è perciò un modo di vedere qualcosa che sta al di là della funzione del vedere e conferisce valore all’oggetto veduto o ai sentimenti che accompagnano il vedere. Bruno Snell ci dice come Omero abbia posto in campo modi verbali diversi per designare di volta in volta particolari modi di vedere e il significato di ciascuna forma verbale viene per lo più dall’atteggiamento che accompagna il vedere. C’è il vedere di Ulisse con sguardo carico di nostalgia; il guardare lontano con sguardo libero e fiero (leússo), e il più recente teoréîn che non vuol significare un modo determinato di vedere ma un’intensificazione della sua funzione; una capacità che innesca l’óssestai del prevedere (Snell 1951, pp. 24-26). L’educazione si dà sì nell’ermeneutica dell’accaduto, ma richiede soprattutto capacità di presentire e prevedere ciò che può accadere: un prevedere fondato sull’aver visto. La pre-visione è
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esercizio che attiene alla Umbildung trasformativa; una conoscenza che procede riconoscendo la prassi alienata e producendo nuova prassi, mettendo a frutto tutta la doxa narrativa e l’episteme storica che l’umanità ha elaborato nel suo lungo viaggio. Una comunicazione senza un Olimpo di riferimento – come ci suggerisce ora Troy, il colossal un po’ macchiettistico di Wolfang Petersen – se da una parte rende più povero il mito popolato da vecchi dèi simili a noi, dall’altra offre il vantaggio di restituirci tutta intera la verità/ tragedia di quella invincibile banalità del male che il potere di pura metis, incapace di previsione, produce e riproduce nel macchinismo infinito di ogni guerra, siano quelle di espansione di cui Troia rappresenta il primo tentativo narrato, siano quelle mediaticamente inenarrabili del tempo globale.
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Nell’Iliade la figura di Achille si costituisce come modello di virtus guerriera per tutta la gioventù greca dei secoli a venire. Il Pelíde è il solo eroe di cui Omero ci offre informazioni precise sull’educazione ricevuta. Nel corso dell’ambasceria alla sua tenda, dove quello è intento a soffocare il risentimento nel canto accompagnato dalla cetra, Fenice cerca di convincerlo a desistere dai suoi propositi di disimpegno dalla guerra. Achille è molto affezionato a Fenice, che gli è stato precettore ma gli ha fatto pure da nutrice, e quello ricorre ai ricordi della “difficile infanzia”, quando tenendolo sulle ginocchia lo nutriva di carne e di vino, addestrandolo all’uso abile delle parole e alle pratiche dei fatti. Per smuoverlo dai suoi propositi, Fenice gli chiede di rimuovere la passione triste del risentimento che si chiude alle parole. Manacorda ha segnalato in un suo studio di trent’anni fa come nel mondo omerico vi fosse il protocollo di una paideia guerriera: parole (épea) e fatti (érga) esprimevano infatti l’ideale di un’aristocrazia che esercitava il suo dominio sulla capacità di maneggiare le armi in guerra e fare politica in tempi di pace, ossia capacità di previsione degli esiti dell’agire (Manacorda 1971). Arte della politica e arte della guerra sono del resto i motivi ricorrenti nel poema. Achille, acceso d’ira, non si reca più all’assemblea né alla guerra, e così consuma il suo cuore. Ed è un bel guaio per Agamennone, che da Zeus ha ricevuto solo la metà dei suoi doni:
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sì lo scettro del comando ma non il valore, che è forza più grande. Scettro e valore, al pari di atti e parole, atletica e retorica, consiglio e forza, guerra e politica sono tuttavia termini indissociabili nella paideia rievocata in tutta l’Iliade. Platone avrebbe ironizzato sul fatto che Omero abbia potuto ispirare l’educazione di tutta la Grecia e tuttavia anche lui nella Repubblica, avrebbe desiderato che i filosofi, posti al vertice dello Stato, venissero dalle file dei guerrieri. Ma per quanto Platone volesse ironizzare, épea ed érga, capacità di base richieste a ciascun cittadino per discutere dello Stato nelle assemblee e difenderlo con le armi in guerra, ebbero un forte radicamento nella paideia greca che si caratterizzò nel tenere insieme fatti e parole, offrendo una soluzione a quell’eterno gioco del doppio e dell’opposto che dobbiamo oggi riapprendere a tenere insieme, dal momento che i fatti, senza le parole (per dirli e spiegarli) si risolvono sempre in destini funesti. La guerra, ogni guerra, del resto, non è che una incapacità delle parole; una sconfitta della comunicazione. Achille seppe trovare le parole giuste nel libro VI per dire il danno della guerra, di ogni guerra inflitta o subìta (Baricco 2004) e quelle gli valsero la gloria più di ogni suo gesto guerriero. Mancano all’appello le parole di tutti quei senza-nome inghiottiti dalle guerre senza lasciar traccia di sé. Quelle che nessun poeta potrebbe trasfigurare in immagini di morte bella e gloriosa.
Riferimenti
bibliografici
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Jacques Derrida, Spettri di Marx, 1993
Heimlich e Unheimlich: i “segreti della casa”
mimmo pesare spaesamento e riconoscimento
Unheimlich è la parola della irriducibile hantise.1 Il più familiare diventa il più inquietante. L’essere “a casa propria”(…) diventa paura. Si sente occupato, nel segreto del suo interno, dal più estraneo, il lontano, il minaccioso.
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“Ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” sosteneva Wittgenstein nella parte finale del suo Trattato logico-filosofico. Ma cosa intendeva dire? Come è possibile che un filosofo di formazione apparentemente “analitica”, il quale è arrivato a sostenere che il linguaggio è la raffigurazione logica del mondo – e quindi il mondo stesso sarebbe costituito da fatti – concepisca l’esistenza di un cono d’ombra, all’interno dello spazio del razionale, capace di sottrarsi all’essere “incastonato” nel linguaggio? Come è possibile che ci sia qualcosa di inesprimibile? Probabilmente la risposta dello stesso Wittgenstein a questa imbarazzante questione risiede nel chiarimento secondo il quale le proposizioni logiche (il linguaggio) manifesterebbero il come del mondo, non il che; in altre parole tutto ciò che riguarda il senso più profondo dell’esistenza non potrebbe trovare una risposta perché, secondo il filosofo viennese, non sarebbe neppure una domanda! Al di là del provocatorio riproporre interpretazioni di una delle più enigmatiche teorie “sospese” della storia della filosofia contemporanea, appare indicativo come nell’immaginario (finanche scientifico) di uno dei pensatori più radicati nella lettura fàtica del mondo, si possa ritagliare un cantuccio per “ciò che non si può dire”. Esso ha i tratti sfumati di una strana entità che fluttua identificandosi, di volta in volta, in concetti quali l’indefinibilità, la
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reticenza, il segreto, il silenzio, la paura di svelare ciò che è nascosto. Allora la faccenda sarebbe: cos’è ciò che non si può dire? E se c’è, perché non si può dire? Perché deve rimanere nascosto? La risposta a una domanda così polisemica e ricca di valenze sicuramente non può essere né unitaria, né organica in quanto implica tutta una serie di premesse e di coordinate limitative a seconda che le si voglia rispondere adottando un metodo e una teoria, piuttosto che un’altra. Mi propongo, pertanto, di isolare una delle possibili linee ermeneutiche all’interno di una delle possibili letture che dell’indicibile, come “meta-concetto”, si possono fornire. Se si decide di pensare ciò che non si può dire come ciò che non si può dire perché è nascosto, pare interessante seguire la pista che pensatori quali Freud e Heidegger (ma anche Lacan e Derrida)2 hanno disegnato, sebbene partendo da ipotesi differenti, per tentare di rendere la complessità semantica dell’aggettivo tedesco unheimlich. Nella traduzione italiana delle opere di Freud (Bollati Boringhieri) il termine è reso come perturbante, che in qualche modo restituisce bene – ma solo dopo uno scarto di significato perifrastico rispetto al lemma originale – il carattere fosco e inquietante del concetto tedesco di Unheimlichkeit,3 sebbene semanticamente non renda fedeltà alla gamma molto vasta di sfumature che esso offre. In realtà è possibile trasferire il senso dell’unheimlich solo se lo si mette in relazione al suo opposto: heimlich, che significa “tranquillo”, “comodo perché familiare” (da Heim, casa, ma anche Heimat, patria) perciò, apparentemente “rassicurante”. Ma talvolta, spiega Freud, lo stesso aggettivo viene anche usato per indicare qualcosa di “sospettoso”, “nascosto”, “segreto”, identificandosi dunque col suo contrario: unheimlich. È come se l’intimità di ciò che è familiare possa diventare inquietante qualora invece di essere custodita (nella casa), venisse manifestata. Nel saggio Das Unheimlich (1919) possiamo apprezzare un Freud nell’insolita veste di filologo che illustra proprio questa doppia valenza semantica dell’aggettivo heimlich, il quale, a seconda del contesto in cui viene usato può indicare qualcosa di appartenente alla casa, quindi di fidato, familiare, intimo (nelle definizioni del dizionario della lingua tedesca Daniel-Sanders: un posticino heimlich/intimo; un luogo heimlich/familiare; sentirsi heimlich/tran-
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quilli nella propria famiglia; avere un amico heimlich/fidato; pascolare un animale heimlich/domestico) o, al contrario, qualcosa di nascosto, tenuto celato e di cui, per una serie di ragioni, non si può far sapere nulla in proposito, né del motivo per cui lo si vuole nascondere, perché susciterebbe sentimenti d’imbarazzo, inquietudine o scacco (le parti heimlich/intime; la stanza heimlich/la latrina; aggirarsi di notte con fare heimlich/furtivo; appuntamenti heimlich/segreti; l’arte heimlich/la magia; provare Heimlichkeit/orrore; apparire heimlich/come uno spettro; capitare in una nebbia heimlich/angosciante). Come dire, ciò che appartiene alla propria casa è sì confortevole poiché “sicuro”, “recintato”, ma proprio a causa di questa “chiusura” ad occhi esterni esso è anche segreto, perciò nascosto; da questo alla considerazione successiva, secondo la quale ciò che è nascosto diventa angosciante e genera paura, perché in ombra e mal padroneggiabile dai sensi, il passo è breve. Caso strano, dunque, quello dell’aggettivo tedesco: l’heimlich si trasfigura in unheimlich; un termine si fa equivalente del suo contrario; il familiare diventa raccapricciante. Quali segreti nasconde allora la propria Casa, il più sicuro dei ripari? Come è possibile che qualcosa di heimish, di familiare, divenga terrificante? Forse perché all’interno della nostra casa si “annida” un estraneo, sembra insinuare Freud! Casa è appunto la parola chiave per comprendere la semantica simbolica dell’Unheimliche: è proprio la casa, infatti, che si rivela intaccata da ciò che, per suo statuto interno, dovrebbe escludere, ovvero l’estraneo/esterno/altro. Insomma, se la condizione di Unheimlichkeit si presenta quando non ci si sente “padroni in casa propria” in quanto, nonostante essa sia per antonomasia il luogo dell’intimo, la si sente inquinata da altro, abitata da estranei nascosti, passaggio ulteriore e definitivo perché la situazione diventi davvero unheimlich è il senso di attrazione-repulsione nel voler scoprire chi è questo estraneo in casa nostra. Questo Altro, spiega Freud, è qualcosa del nostro Io che sebbene faccia parte di noi stessi dalla nascita, non riconosciamo più come nostro; qualcosa che si è modificato e adesso ci minaccia. Allora ecco che il perturbante appare come “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci
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è familiare” (Freud, 1919: 82), che poi altro non sarebbe (come più tardi, nelle pagine di Al di là del principio di piacere, Freud spiegherà) che il ritorno alla coscienza di elementi angosciosi rimossi. Se il rimosso ha a che fare con qualcosa che attrae e che respinge, con qualcosa da cui l’io è sedotto e turbato, allora l’angoscia denuncia la sua causa nella familiarità estranea, cioè in qualcosa di sé che nello stesso tempo non si ri-conosce più. Il perturbante non è quindi l’estraneo esteriore al soggetto, ma è ciò che gli fu un tempo interiore e familiare, e che ora non può esserlo più. “L’angoscia è la percezione della permanenza del rimosso e della sua prossimità all’io, o, comunque, dell’estrema vicinanza all’io di qualcosa che deve rimanere nascosto, poiché ne minaccia l’organizzazione e la stabilità” (Berto, 1999: 86). In altre parole, l’Unheimliche è un riaffiorare alla parte cosciente della nostra mente di qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto nelle profondità psichiche/emotive e che, perciò, ci fa sentire “spaesati”, non in armonia con il luogo – psicogeografico – del nostro abitare: il prefisso un- non cancella, ma manifesta, svela il segreto dell’heimisch, dell’intimo, frugando tra la paccottiglia impolverata e pericolosa dell’Heimat, il luogo natio. Il problema è quello di tenere nascosto a noi un qualcosa di noi stessi, un qualcosa di cui quindi dobbiamo disfarci o che dobbiamo tenere a distanza. Nel momento in cui questa operazione non funziona, quando ciò che era familiare e poi occultato torna alla luce e ad esso non ci si può sottrarre, allora viene messo in gioco lo statuto stesso dell’io, spiega Freud. Allo stesso modo le diversità di razza, di religione, di ceto sociale, di abitudini culturali, di modalità di comunicazione, di scelte politiche, diventano le categorie che sfuggono alla padronanza dell’io, i “fantasmi” che determinano i comportamenti del soggetto forzando l’io verso l’irrigidimento e la chiusura da parte dell’identità originaria, e quindi verso gli integralismi culturali. Chi non viene riconosciuto come uno di casa non viene accettato (ma la casa non sempre basta a farsi riconoscere, sembrano suggerire oggi le tragedie dettate dai fondamentalismi terroristici). Se, dunque, volendo accogliere un concetto della teoria psicanalitica per chiarire – come si è ipotizzato precedentemente – una delle possibili accezioni del sentimento di spaesamento che provoca l’affacciarsi sulla soglia di ciò che è nascosto (e che non si può
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dire), esso ruota intorno alla tema della rimozione. La rimozione comporta un nascondimento e non un annientamento di ciò che non ri-conosciamo più di noi; in questo nascondimento che di tanto in tanto da segno di sé, cova l’humus in cui le radici dell’angoscia affondano. È proprio il dis-velamento di quell’Altro-da-noi che deve rimanere nascosto in casa, ovvero la sensazione di entrangeté a se stessi, che inquieta: “non solo l’Io non è padrone a casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse nozioni riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua psiche” (Freud, 1976, vol. VIII: 446) Ecco quindi che spaesamento e riconoscimento danzano agli estremi di una lotta per la padronanza dell’io, o meglio per la riappropriazione del luogo in cui l’io abita. Il luogo dell’abitare è il proprio e la difesa del proprio dall’altro – finanche l’altro da noi stessi – è il meccanismo dell’auto-riconoscimento, la cui mancanza o il cui stallo producono angoscia; esemplificando, come scrive Derrida “il proprio è la tendenza ad appropriarsi”, cioè a ri-conoscersi. La dimora di Hestia
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Anche Heidegger, in maniera rapsodica, ha trattato il tema dell’unheimlich. L’aggettivo tedesco viene usato dal filosofo (1942) per tradurre il termine greco to deìnon,4 presente nella parte iniziale del primo Coro dell’Antigone di Sofocle e che indica una ambigua dimensione di inquietudine, difficilmente precisabile, che si avverte quando si ha di fronte qualcosa che allo stesso tempo suscita timore e venerazione, che respinge ed attrae ma che, in ogni caso, turba e disorienta lo spirito. Il deinon/unheimlich sarebbe, insomma, per Heidegger qualcosa che rompe la normalità, che in qualche modo la “eccede” e per questo fa paura ma affascina allo stesso tempo. Tuttavia l’Unheimliche, che nella interpreta-
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zione di Heidegger è spiegabile solo mettendo insieme tre radici semantiche, ovvero lo spaventoso/venerabile (das Furchtbare), il potente/violento (das Gewaltige) e l’insolito/straordinario (das Ungewöhnliche), in Introduzione alla metafisica viene descritto anche come ciò che «estromette dalla “tranquillità”, ovverosia dal nostro elemento (Heimischen), dall’abituale, dal familiare» (1954: 189), quindi qualcosa che spinge il soggetto dalla dimensione che egli riconosce come più aderente alla propria familiarità, qualcosa che getta il soggetto fuori di casa con violenza (il secondo tema: Gewaltige). Come se, proditoriamente, i confini della propria casa non potessero più contenere chi la abitava. Alla luce di questa spiegazione, allora, l’Unheimliche sarebbe quell’entità enormemente potente che strappa alla familiarità, alla comodità tranquillizzante della propria casa. Ma se si pretendesse da Heidegger una risposta univoca alla natura e la struttura reale dell’unheimlich, probabilmente la si potrebbe trovare in Essere e tempo (1927), in cui lo spaesamento (Unheimlichkeit) viene descritto come un non-sentirsi-a-casa-propria (das Nicht-zuhause-sein). Ci si sente spaesati, dice Heidegger, quando non si riconosce più la casa come propria, quando ci si sente gettati in strada e si teme di non poter più tornare in possesso della propria dimora: il senso dello spaesamento, insomma, sarebbe dato come risultato del mancato riconoscimento di un luogo (fisico, emotivo) come heimisch, familiare (in senso sia letterale che metaforico). “Questa condizione è innanzitutto la manifestazione dell’estraneità a sé, dell’alterità del proprio. (…) Lo spaesamento non prelude al ritrovamento di una nuova casa, la cui familiarità sia più autentica ” scrive la Berto (1999: 151), cogliendo perfettamente il messaggio nella bottiglia di Heidegger: probabilmente il senso del ritrovamento di una identità in “crisi di alloggio” deve trovare soluzione nel vivere appieno questo spaesamento; unheimlich, in altre parole, indica sia la situazione di stallo che la soggettività vive quando si trova di fronte a un cambiamento che impedisce di ri-conoscere la vita precedente come autentica, sia la chance per riconciliarsi con quel luogo del sé che per qualche ragione si è perduto. E questo luogo è dentro noi stessi. Non per nulla Heidegger stesso sembra avvicinarsi a temperie freudiane quando, sempre in Essere e tempo identifica l’angoscia – che allo spaesamento risulta indissolubilmente legata come cau-
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sa-effetto – con l’apertura al mondo da parte dell’Esser-ci, proponendo una lettura dell’emozione angoscia sdrammatizzante rispetto a tutto ciò che il termine ci può far venire in mente. Psico-pedagogia nella comunicazione, ovvero il dialogo con l’altro
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Forse è proprio quando ci si perde che ci si chiede per la prima volta in maniera consapevole quale strada si è percorsa e quale si dovrà percorrere per uscire dall’empasse, sembrano suggerire Freud e Heidegger; forse, e paradossalmente, alla Geborgenheit, la sicurezza/ri-appaesamento si arriva attraverso la Geworfenheit, l’essere-gettato nel mondo, sia anche senza perenni ancore di salvataggio nei fondali della nostra soggettività. L’antitesi spaesamento-riconoscimento, allora, sembra giocarsi “nella casa”, nel luogo dell’abitare delle identità che da originarie divengono complesse, ibridandosi con l’altro-da-sé. Solo dopo questo passaggio è possibile ogni tipo di riconoscimento. Qual è dunque il percorso che dallo spaesamento porta al riconoscimento? Cosa dobbiamo ri-conoscere per ri-conoscerci? Secondo un celebre assunto di Hegel, un soggetto diviene tale solo attraverso il riconoscimento dell’altro. Ricapitolando: – nell’esperienza dello spaesamento accade che l’elemento familiare più sepolto torna a galla come l’estraneo e determina angoscia poiché rivela al soggetto il suo portare dentro di sé la contraddizione insanabile ma ineluttabile tra in e out, tra la sicurezza della casa e l’insicurezza del fuori; – l’angoscia nasce dal sentire che paradossalmente il luogo del proprio confine, anziché motivo di sicurezza, è luogo di incertezza e di spaesamento; – l’unheimlich, da “perdita della bussola” del sé, diventa, a questo punto, un volgere il capo al cielo per orientarsi con le stelle: l’auto-costituirsi della soggettività, cioè, si realizza per la prima volta misurandoci con l’esterno, riconoscendoci nell’alterità. Dunque proprio il misurarsi con l’altro sembra essere la chiave di volta per trasformare lo spaesamento in riconoscimento; il focolare di Hestia, dea protettrice della dimora, non avrebbe senso se attorno a esso non si ci riunisse insieme per parlare. Ecco allora che “in”, la paro-
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la della dimora, si trasforma in “con”, la parola dello scambio, del dialogo, dell’ospitalità, della comunicazione. Sembra, ancora una volta, di sentire in lontananza le parole di Heidegger: “la casa dell’Essere è il linguaggio (Sprache)”. Il linguaggio, dunque, il comunicare. Ma il comunicare implica l’altro. È l’altro che sostiene e nutre l’io, fornendogli l’esperienza del riconoscimento. Se ogni soggetto non può che istituirsi nell’apertura all’altro, allora è solo nella consapevolezza della impossibilità di ritornare ad una totalità egocentrata, nella consapevolezza della ineluttabilità di doversi aprire all’alterità, che può trovarsi l’unità del soggetto ed il suo ricollocarsi nella dimensione dell’agire, ma capovolgendo l’universo da egocentrico in altero-centrico. La questione è di pensare al soggetto proprio nel compito di esporsi verso l’altro senza però volerlo contenere, ma piuttosto nel compito di riuscire ad ascoltare, ad accogliere, a condividere per fondare un’autentica relazione (come in Buber e in Lévinas e in generale, nelle filosofie del dialogo), e di riuscire a trovare il luogo della reciprocità, dell’abbandono di quella chiusura che caratterizza l’io quando cerca di essere padrone assoluto in casa propria. Unheimlich è allora ciò che mette in crisi il soggetto stesso, perché mette in discussione la stessa possibilità di definire l’identità escludendo la diversità, e le nozioni di “proprio”, “identità”, “origine”, che su di esso si reggono finiscono per rovesciarsi nel loro opposto, nell’alterità, nella casa dell’altro, all’interno della quale l’io deve confrontarsi e da cui non può sfuggire, e i cui abitanti non può né tenere lontano, né rendere assimilabili, né escludere, ma neppure colonizzare. Il compito demandato agli educatori delle società complesse, allora, sembra essere quello di “insegnare l’empatia” (nell’accezione di Kohut), di tracciare i selciati lungo i quali il riconoscimento del sé avviene attraverso una sorta di spaesamento preventivo nell’alterità, nella casa del diverso, dell’estraneo, dell’altro da noi, comunicando con il quale ci mettiamo in gioco “fuori” dalla nostra casa. Ritrovandoci forse più disorientati e raminghi… ma più attenti alle diversità. La casa, infatti, non avrebbe senso se non avesse porte e finestre, canali di comunicazione ante litteram col “fuori”: la chiusura non sarebbe sicurezza se non apparisse in relazione all’esterno e alla comunicazione con l’esterno, riconoscendo il quale, diventa più chiaro e distinto anche l’interno.
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Del resto, per dirla con Hilmann, non esisterebbe Hermes senza Hestia, e viceversa.
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nello barile ritornare a parmenide?
Riferimenti
bibliografici
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Note
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1 Ossessione, ndr. 2 Cfr. Berto, 1999. 3 “Inquietante estraneità”, nella traduzione di Marie Bonaparte (1933). 4 Alla voce deivnoı il vocabolario greco-italiano L. Rocci indica i seguenti ambiti di significato: 1) che desta terrore, spavento, timore, sia nel senso di venerando, rispettabile,sia nel senso di malefico, angoscioso, intollerabile; 2) che impressiona come straordinario nel suo genere, potente, veemente, grande, oppure, strano, singolare, straordinario. L’aggettivo è poi messo in rapporto con il verbo deivdw (lt. vereor), che significa insieme “temo” e “venero”.
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Per quali motivi può farsi opportuno un ritorno a Parmenide (Severino 1972) nelle dinamiche culturali e comunicative che investono il corpo martoriato della società globale? Filosofo e politico vissuto nel V secolo A. C. a Elea (oggi Velia), fiorente cittadina del meridione italico, Parmenide elaborò un modello epistemico che oggi può tornare utile per guidarci nel caos della contemporaneità. Nei decenni passati l’esigenza di un ripensamento delle logiche della modernità, dello scientismo e della sua dipendenza tecnologica ha condotto verso due percorsi fondamentali: uno che – portando all’estremo alcune delle sue premesse – ha cercato di decostruire tali discorsi dall’interno per mostrarne l’assenza di fondamento (all’incrocio tra ermeneutica e postmodernismo), l’altro, più esotico, si è rivolto ad altri sistemi di pensiero (la filosofia orientale) al fine di curare la sclerosi della nostra ferrea logica (Capra 1984; Kosko 1995) dinnanzi alla crescita di complessità del reale. In questo breve saggio seguiremo una linea diversa: ritornare all’origine, allo stadio in cui le grandi dicotomie che dilaniano oggi le nostre coscienze erano ancora fuse in un magma iniziale (la logomassa), per ripensare l’occidente dal suo interno e pervenire a una concettualizzazione agonistica, capace cioè di competere con la velocità e la paradossalità del proprio oggetto. Posto che quello di globalizzazione è l’ultimo grande concetto-contenitore a nostra disposizione per l’inquadramento e la spiegazione di una serie composita di fenomeni, possiamo considerare quello di Parmenide come il primo modello teorico e pragmatico che ne ha tracciato il percorso e ne ha illuminato l’approdo. Come nota Franco Volpi, in una recensione dell’ultimo testo di Carlo Galli L’età moderna e l’età globale, la globalizzazione prende piede già nell’antica Grecia come concetto e come forma politica.1 Parmenide è descritto come il primo pensatore della globalizzazione la cui visione plasma la struttura dello spazio greco che diviene un ecumene: una prefigurazione prima teorica e poi pratica di quella sfericità che sarà esperita territorialmente dalle scoperte geografiche fondanti la cultura, l’economia e la politica moderna. Quasi che in quel pensiero si celasse allo stato embrionale l’idea di una comunità espansa, di una tensione verso la totalità che ha ispirato nel ‘900 il pensiero politico di intellettuali quali Junger con il sogno di uno stato mondiale. Nel libro di Carlo Galli, si ricostruisce l’epopea politica dello spazio che si compie con
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l’approdo alla dimensione globale. Tale descrizione muove dall’idea centrale di “sconfinamento”2 che superando le progressive delimitazioni geopolitiche perviene a uno spazio aperto frutto della convergenza tra i mondi un tempo paralleli delle diverse culture.3 Lo spazio globale assume differenti morfologie. È liscio e omogeneo in alcuni casi: nella dimensione formale del diritto o in alcune applicazioni della tecnologia. È striato e increspato quando viene a contatto con le forze centripete e puntiformi delle varietà etniche, ideologiche, psicologiche che lo deformano e lo convertono attraverso i loro usi. Anche se resta discutibile la tesi che vede le culture perdere la loro autoctonia in tale processo, è invece plausibile l’idea che, a prescindere dalle forze in campo, la globalizzazione inauguri un nuovo spazio di incontro/scontro, frutto dell’apertura progressiva e dell’evanescenza dei confini nazionali. Un “puro interno senza alcun esterno”4 che caratterizza la globalizzazione come la condizione di avvicinamento alla pura immanenza. Questa idea è in effetti la trasposizione sul piano della politica mondiale di quella che vede il progresso tecnologico ripiegarsi su se stesso; un processo che esordisce col tramonto dell’epopea spaziale al quale segue il potenziamento dei nuovi spazi “interni” creati dal digitale. La metafora dello spazio liscio della globalizzazione è il prodotto di una cultura dell’Hi-Tech, che ha coltivato l’idea di una assimilazione del diverso grazie a procedure di ripulitura simbolica e di stereotipizzazione comunicativa dell’alterità, dunque sulla logica del riconoscimento intesa come accettazione del sacrificio dei pezzi più problematici della propria identità. Ma come nella sfera dell’immaginario la fascinazione Hi-Tech produce la logica culturale del Lo-Fi, così sul piano politico-cuturale la globalizzazione, in special modo negli anni novanta, recupera il punto di vista dell’alterità e il suo portato problematico.5 Per questo motivo occorre pensare nei termini di una metafora che concili l’uniformità del processo superficiale della globalizzazione con il suo sommovimento profondo, la singolarità di un orizzonte accentrato e universalizzante con la dispersione dei punti di vista etnici, la contiguità e la prossimità delle culture con la frattura radicale che le fa divergere. “Il solido cuore della ben rotonda verità” rappresenta sia un percorso mentale – un paradigma – sia un percorso concreto – una fenomenologia – e indica al contempo
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la struttura del nuovo mondo e lo schema cognitivo che risulta indispensabile per la sua comprensione. L’essere di Parmenide esprime una tensione quasi animata verso l’unità che da aspirazione ideale si concretizza sotto i nostri occhi in una realtà effettiva. Ma il desiderio di cogliere la totalità del mondo si problematizza rispetto al presupposto che “lo stesso è il pensare e l’essere”. La tecnologia è uno degli agenti che concretizza storicamente questa tensione verso l’unità e la totalità del mondo, riscontrabile nell’evoluzione stessa dei processi globali. Come sostiene John Tomlinson (2001, p. 23) “[...] dobbiamo riconoscere una certa tensione verso l’unitario, sia nel concetto di globalizzazione, sia nei processi che esso descrive”.6 La metafora spaziale della sfera comunica archetipicamente il bisogno di una convergenza nella generale dispersione della realtà evenemenziale, di un ricongiungimento con ciò che la dinamica storica ha drammaticamente disgiunto. La sfera in quanto luogo d’incontro e di risoluzione del conflitto è una metafora positiva, che però nasconde anche un pericolo: lo slittamento dal livello dell’unicità a quello dell’uniformità.7 Se nella definizione di globalizzazione è già racchiuso il senso di un processo, la sua qualità e il suo fine, occorre riflettere sul suo effettivo manifestarsi a livello storico-fenomenico per evitare la fallacia di una associazione con altri attributi che “suonano” nello stesso modo ma che ne trasformano la semantica in un senso pericoloso. Nel possibile slittamento dall’unicità all’uniformità e all’unità di un fenomeno che invece è poliedrico e meticcio, si annidano tutte le possibili incomprensioni tra gli apologeti dei processi globalizzanti e i loro oppositori. Tale misconoscimento è alla base del cosiddetto pensiero unico8 che intende le fratture tra il progetto teorico della globalizzazione e le differenze reali che questo incontra, come un semplice problema tecnico, temporale e quantitativo. In altre parole si pensa che la (minacciosa) tendenza all’unità, supportata da un’adeguata capacità tecnologica possa produrre una società mondiale omogenea e standardizzata sulla falsariga del sogno jungeriano. Anche se è lecito pensare che la tecnolo-
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gia abbia modificato le strutture della vita quotidiana e il loro carattere centripeto verso una apertura progressiva e reciproca delle culture – dunque la tecnologia come strumento di inveramento e di realizzazione della tensione all’unità – non è possibile intendere le differenze culturali che infrangono il cuore unitario del globalismo, come frutto di un deficit economico e tecnologico superabile grazie a una crescita degli apparati tecnici e della loro efficienza. Tale miraggio si ribalta effettualmente in una pletora di usi e riconfigurazioni dello strumento tecnologico che moltiplica all’infinito le già molteplici forme di vita, alimentando nei casi più estremi la frattura e l’huntingtoniano scontro delle civiltà (il conflitto primariamente mediale innescato dagli attentati di New York segue esattamente questa linea). Ciò dimostra quanto sia relativamente ingenua la visione leviathanica di un sistema sovradeterminante e iperteconologico d’inclusione e controllo che gestisce l’aleatorio, riduce il complesso e annette il diverso sotto il nuovo marchio dell’Impero.9 Tale visione sopravvaluta e sottovaluta al tempo stesso il nemico che va costruendo. Lo sopravvaluta perché l’apparato è in realtà – specularmente alla moltitudine rispetto alla quale si edifica – meno unito, meno organizzato e meno coerente o omogeneo di quanto lo si dipinga; lo sottovaluta perché esso non interviene semplicemente a riparare i guasti del sistema ma, in molti casi, produce tali guasti come unica possibilità di automantenimento. Se il controllo totale non può esistere perché altrimenti verrebbe meno la sua stessa funzione,10 allora esso deve necessariamente produrre l’incidente per garantire la propria legittimazione. L’incorporazione del molteplice nell’uno resta un atto spasmodico e per niente lineare nel quale le parti nemiche si possono riconoscere come attori di un medesimo dramma. Gli ostacoli posti da una lettura parziale dei frammenti parmenidei corrispondono a quelli che incontrano coloro che semplificano e appiattiscono la multidimensionalità del fenomeno. Coloro che hanno esaltato l’aspetto standardizzante, universalistico, imperialistico dell’apertura al mondo, sono equiparabili agli esegeti che hanno visto in Parmenide un metafisico dallo sguardo rivolto verso la contemplazione dell’idea (dunque un protoplatonico). Ma lo Sfero di Parmenide ha sempre accolto nel suo “solido cuore” la frattura di ciò che è singolare e irriducibile alla totalità, della molteplicità alla base della realtà effettuale e delle opinioni che su di
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essa i mortali si fanno. Solo chi è in grado di cogliere ambedue i processi possiede lo sguardo “di colui che in tutti i sensi tutto indaga”. L’effetto di prossimità tra la dimensione locale e quella globale e le interferenze che questa prossimità produce, dimostrano come la globalizzazione sia un processo aperto che manchi ancora di un progetto (Tomlinson 2001). Anche senza prendere in considerazione la differenza culturale nel mondo, già la stessa uniformità culturale dell’occidente può essere scomposta in un universalismo illuminista, alla base del globalismo, e un particolarismo romantico (Barile 2004), che caratterizza la chiusura delle comunità radicate sul territorio. Pare impossibile oggi trovare un linea di fuga dalle incongruenze del nuovo sistema globale, dove la chiave di lettura dialettica non risolve in alcun modo il problema. Se per dialettica si intende un semplice rapporto di “dialogo” di scambio, di relazione tra una dimensione e l’altra il concetto è plausibile ma vuoto di indicazioni utili.11 Se invece per dialettica si volesse illustrare un via di risoluzione del rapporto tra gli apparati astratti e la sfera dell’agire individuale (Giddens 1994) in funzione di un possibile superamento, cioè in termini eminentemente hegeliani di una sintesi, tale ragionamento potrebbe riproporre il fantasma di una storia che si svolge verso l’assoluta perfezione. Una lettura hegeliana della globalizzazione è, ripetiamolo, altrettanto ideologica di un’interpretazione idealistica della teoria di Parmenide. Nella istanza di superamento difatti, l’antitesi, ovvero la diversità culturale, rappresenta l’attrito che deve essere superato per il raggiungimento di una condizione universale. Si tratta del solito universalismo che dall’illuminismo in poi soggiace a ogni pratica politica, etica e comunicativa. Lo stesso avviene nella lettura che Hegel ci offre del parmenidismo – che il grande filosofo tedesco conosce tramite Platone – “Parmenide s’innalza (Erhebung) al regno dell’idea, e con lui quindi comincia il vero e proprio filosofare [...]. A questo si collega la dialettica” (Hegel 1973, p. 244). Ma oggi la dialettica ha perso il suo valore euristico e il pensiero di Parmenide risulta di gran lunga più complesso dello sviluppo triadico, essendo pertanto più utile per chi voglia affrontare l’indeterminazione dei fatti del presente. Il generale processo di globalizzazione, descritto per problemi vari, come unitario, è in realtà profondamente discordante
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dall’idea della sintesi hegeliana: lo stemperarsi delle differenze nell’immaginario occidentalizzante dei media, il permanere di queste nella prassi effettiva del vivere d’ogni giorno, l’inasprirsi delle singolarità e delle contraddizioni che conduce alle immani catastrofiche del nostro tempo. Ciò nonostante, dimenticato l’orrore e l’estasi della catastrofe, il quotidiano torna a mostrare il suo potere omeostatico. Allo stesso modo il pensiero di Parmenide non sottomette il molteplice all’Uno (Severino 1971), ma lo produce come un campo di forze che governa il molteplice. Nella lettura innovativa offerta da Reiner Schurmann il rapporto tra Uno e molteplice, che ha stimolato l’immaginazione dei filosofi nella storia e che costituisce una materia prima della filosofia, in Parmenide è rinvenibile almeno su tre livelli compresenti.12 Pertanto risulta forviante la tendenza ad affrontare la complessità del reale affidandosi a una logica dicotomica che ha assecondato la nascita, il successo e il declino della ragione occidentale. Occorre un pensiero che sia capace di competere con la frammentazione del reale senza rinunciare alla sua coerenza interna. Occorre apprendere e fare nostro l’insegnamento della Dea.
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La Dea pone l’Uno in opera. Separa gli usi che si possono fare degli opposti: 1) L’uso assurdo di ciò che è contraddittorio (contradictories), 2) l’uso a doppia testa (double-headed) dei contrari, 3) l’uso unitario dei contrari (Schurmann 1998, p. 14).
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I tre livelli sono ovviamente separati ma autoimplicati. L’essere, in quanto totalità “smembrata”,13 comprende almeno queste tre modalità: 3) quella dell’irriducibilità tragica di ciò che è contraddittorio, di ciò la cui esistenza nega quella dell’altro; 2) quella della opponibilità idiosincratica di ciò che è contrario – che essendo diverso nel genere può attivare il conflitto; 1) quella della sintesi o della sussunzione del diverso sotto la marca dell’uno, che impone un iter di purificazione e di incorporazione per accedere al cuore del sistema mondo. Ribaltando l’ordine possiamo equiparare le tre vie ai tre principali percorsi intrapresi dalle nuove soggettività abitanti il nostro mondo-totale. Queste forme sono: 1) l’universalismo;
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2) il multiculturalismo; 3) il terrorismo.
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1) Il concetto di universalismo è fondamentale per una discussione sulla globalizzazione. Esso non è peculiarmente un discorso illuminista e giuridico in quanto già nelle grandi religioni mondiali si consolidano posizioni che prefigurano tale linea di pensiero.14 La sua costruzione storica è anche essenziale per la comprensione dello stesso multiculturalismo. L’universalismo moderno nasce con l’illuminismo e fondamentalmente segna il passaggio dal valore dell’onore a quello della dignità (Taylor 1993). In questo passaggio si formalizza lo schema che vede la società come un insieme di soggetti astratti che sono fonti impersonali del diritto. Per Immanuel Wallerstein la narrazione universalista costituisce il prodotto ideologico dell’economia-mondo capitalista.15 Wallerstein analizza un sistema di rapporti tra universalismo e razzismo in base al quale l’uno è funzionale all’altro e ambedue lo sono per la sopravvivenza del sistema-mondo.16 L’applicazione dei precetti universalistici alla totalità del sistema-mondo manifesta il lato oscuro di questo ideale. Il passaggio dalla fase strutturale a quella sistemica, cioè dalla costituzione della “macchina” alla sua messa in funzione, è breve, e con essa prende vita un’attitudine che pare essere, almeno terminologicamente, discordante. L’imperialismo nasce in seno alle grandi nazioni europee come segno di una crisi germinale e latente: l’impossibilità di accogliere il “diverso” nel proprio sistema senza patirne le controindicazioni, l’impossibilità di esportare un modello di sviluppo senza denigrare ed eliminare gli elementi culturali irriducibili a tale modello sotto la vulgata della modernizzazione tout court.17 L’imperialismo culturale si fonda sull’evidenza del primato scientifico, politico-militare ed economico-tecnologico, ma raggiunge la sua forma più sofisticata nella gestione del ludico grazie all’espansione mondiale dell’industria culturale americana.18 La tesi dell’imperialismo culturale, formulata verso la fine degli anni sessanta da Herbert Schiller descrive il sistema dei media statunitense come una macchina infallibile, una struttura tentacolare che sottomette il pubblico mondiale ai dettami della produzione economica. Questa visione è ormai sorpassata in quanto “l’invasione elettronica dei film e dei programmi televisivi americani potrebbe
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servire a estendere e consolidare un nuovo sistema imperiale solo se si potesse assumere con qualche ragione che i destinatari di tali programmi interiorizzano i valori consumistici che si presume essi esprimano; ma è proprio questa assunzione che dobbiamo mettere in dubbio (Thompson 1998, p. 24)”. In un certo senso l’imperialismo culturale si destruttura dal suo interno sia per mezzo della trasformazione dell’economia multinazionale che tramite il postfordismo decentra e disarticola i suoi processi, sia da un punto di vista culturale in quanto l’autenticità del locale diventa un prodotto “scarso”, difficilmente riproducibile e dunque enormemente competitivo.19 La fusione planetaria possiede costitutivamente nel suo progetto, la divisione culturale e territoriale. In questo modello il conflitto, l’alea, l’errore, la morte, non sono elementi di disturbo o di pericolo, bensì rappresentano il bene primario, il carburante culturale ed economico di un sistema che altrimenti collasserebbe su se stesso. Per questo, paradossalmente, la produzione di eventi da parte di chi attacca il sistema è la linfa vitale dell’industria culturale mondiale.
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2) Il multiculturalismo,20 rappresenta un nodo cruciale per l’antropologia ed è il frutto di un ripensamento della compresenza delle culture, il cui nodo cruciale non è tanto il rapporto tra le culture, quanto piuttosto la compatibilità degli schemi interpretativi di una cultura, la nostra, con le “altre”. Tale problema è puramente occidentale, in quanto fondato su un dualismo che in effetti non sussiste se non nella sua dimensione logica.21 Charles Taylor ha affrontato in tempi non sospetti il problema teorico legato al multiculturalismo.22 La sua soluzione coincide con l’idea gadameriana della “fusione di orizzonti” (Ibidem p. 25), il cui spirito utopico si è andato consumando inesorabilmente nel corso del decennio e che, teoricamente, si è arenato sul piano della scissione tra i diritti universali e il valore altrettanto universale della singolarità culturale. Traspare chiaramente da questo discorso il tentativo ambizioso di produrre una sintesi “mobile”, che non è solo quella del più forte ma che slitta continuamente dalla maggioranza egemonica alle minoranze minoritarie, dall’artificiosità del diritto universale all’autenticità di una cultura particolare. Attualmente il problema non mostra un via di risoluzione, anzi pare enormemente complicato dalla traiettoria degli eventi di oggi. Questo perché
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3) Il terrorismo è l’esperienza della rottura di ogni forma di dialogo. Questa frattura radicale nel cuore del mondo globalizzato dimostra come tutto l’insieme di micronarrazioni che vedevano un progresso tecnologico seguire un progresso etico e sociale culmi-
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l’unica via, immaginata dall’occidente, era quella di una estensione mondiale degli ideali liberali che sono alla base di una idea arcaica di globalizzazione. Se l’occidente è l’avanguardia culturale del pianeta che ha superato lo stadio primitivo e tradizionale per inaugurare la modernità, allora bisogna solo attendere che – oppure operare affinché – le culture altre raggiungano questo stadio.23 Dopo la critica radicale mossa dall’interno del sistema-mondo capitalista, che ne ha frantumato ogni fondamento epistemico, diviene oggi difficile pensare sia la giustizia di un gesto impositivo e pedagogico dell’occidente sulle culture altre, sia la stessa bonarietà e debolezza di queste che invece espongono violentemente il lato oscuro di un razzismo antirazzista. È certo che l’occidente ha costruito questa dimensione delle culture native sin dalla sua nascita. L’ideale universalistico nasce insieme a quello del “buon selvaggio”. La stessa autenticità dei sistemi valoriali esotici, come anche di quelli sottoculturali interni agli stati-nazione, è oggi messa in seria discussione e appare sempre più come una creazione artificiale.24 Siamo ancora una volta di fronte a una crescita di complessità inaudita dei problemi riguardanti il rapporto tra forme di legittimazione del potere e forme di legittimazione delle diversità e delle soggettività. Lo scarto tra i due livelli, che voleva essere colmato dall’individualismo universalista liberale, si acuisce. I soggetti astratti della vulgata democratica si scontrano con quelli concreti che compongono la moltitudine.25 Il relativismo non garantisce più una adeguata comprensione e gestione di questi fatti. La volontà di garantire il diritto alla parola del “diverso” si indebolisce dinnanzi a un problema di non-corrispondenza dei codici. L’incomunicabilità tra le culture – nonostante ormai decenni di profusione comunicativa e di stereotipizzazione reciproca – si comunica con il solo linguaggio della violenza. La stessa scomparsa del soggetto forte moderno, che avrebbe dovuto qualche anno fa ridurre e smussare i conflitti, ha inaugurato una nuova stagione di “barbarie” che culmina nella condivisione mondiale di un nuovo fantasma.
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nante nel melting pot o nel villaggio globale si infrangono bruscamente contro la parete della violenza e dell’incomunicabilità tra le culture. Esiste una singolarità irriducibile, un luogo nullo e liminare in cui le regole di funzionamento del sistema o si interrompono oppure mostrano la loro profonda essenza. Il terrorismo, segno evidente del male, svela la crisi di un sistema che si era pensato come contrario al male ma che con esso ha tentato di dialogare.26 Ma nell’atto terroristico la rottura è talmente accesa da poter coincidere, paradossalmente, con l’interesse stesso della controparte. Tale scontro è definibile come un gioco a somma positiva e negativa al contempo: nel gesto terroristico, le singolarità oppositive perdono e guadagnano simultaneamente. Il terrorismo è storicamente la manifestazione della crisi dell’umanesimo e del progetto universalistico delle democrazie avanzate: un bug di programmazione nel sistema democratico. La sua forza sta proprio nella capacità di “lavorare” seguendo logiche aliene a quelle democratiche. Dove il pensiero delle istituzioni finisce, lì comincia il delirio del terrore. È impossibile, nonostante i dibattiti sterminati, comprendere un gesto di così radicale e irrazionale violenza. Il terrorismo è un punto discreto nel continuum del logos politico, si tratta di un’entità che riassume in sé la genesi e il tramonto del sistema. Le sue più diverse configurazioni rappresentano il luogo della interruzione del dialogo e dunque della produzione di senso. Trionfa la minaccia del silenzio che solitamente “predispone all’ascolto e alla comprensione (Fiorentino 2003, p. 70)” mentre ora incrinano ogni possibilità di confronto. Se una manifestazione (anche violenta) resta ancora contraria al regime e s’inscrive nell’ordinaria dialettica politica, l’atto terroristico è il puro contraddittorio che frantuma ogni possibile dialettica. In quanto puro contraddittorio, in quanto antimateria del politico, il terrorismo mantiene con tale sistema un rapporto di prossimità, di comunanza di scopi che risulta – dalla strategia del terrore alle più recenti catastrofi – sempre più palese. Come si è detto il suo obiettivo finale, che è distruggere il sistema, spesso è funzionale al suo mantenimento. Così, pur essendo alieno alla dialettica politica, la riproduce follemente come uno specchio deformante. In particolare l’umanesimo al quale resta avverso, rientra paradossalmente nelle sue logiche ma viene declinato in forme parossistiche. Nel caso delle Br l’ideologia – cioè un amore disperato per il genere
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umano – indirizzava le azioni eliminando qualsiasi scampolo d’umanità: si trattava in un certo senso di un umanesimo canceroso, degenerato e paradossale che inseguiva comunque una forma di universalismo con mezzi “alternativi”. Nel caso del terrorismo islamico invece il problema uomo non si pone; soppiantato dalla forte identificazione con la comunità, nel caso della Palestina, e dalla ricompensa ultraterrena nel caso delle altre forme di jihad. La sua stessa minaccia è la sublimazione del concetto di angoscia inteso come paura della stessa paura che prescinde da un oggetto delimitabile. A tal proposito la retorica del sistema che incentiva a non arrendersi contro tale minaccia – come se il terrore potesse invadere uno stato, assoggettare i suoi cittadini, e governarne attraverso chissà quale forma le sorti – induce alla radicalizzazione nello scontro delle civiltà, suggerendo quello slittamento metonimico dal terrorista all’islam, che ha già scatenato l’attacco all’Iraq. Le varie tipologie nominate mantengono un aspetto condiviso: una tensione trascendente verso uno scopo, che è spesso la trasformazione o il miglioramento di un insieme di condizioni di vita. Su tale tensione si intesse un fitto reticolo fatto di interessi economici, collusioni con poteri (occulti o meno) doppiogiochismi ecc.. Ma il riflusso terroristico, che pare inaugurare una nuova “stagione di fuoco”, non viene dal nulla, anzi è quasi preparato dall’esaurimento del “carburante” culturale che ha alimentato l’utopia della comunicazione. La globalizzazione segna in un certo senso il tramonto dell’epoca d’oro della comunicazione e di tutto il suo contenuto utopico. Nonostante essa rimanga fondamentale in qualsiasi definizione del fenomeno, oggi la comunicazione è un territorio attraversato da postsoggettività che moltiplicano le rotture e i conflitti, piuttosto che l’ideale positivo, originariamente messo in piedi dai pionieri della cibernetica (Breton 1995). Su questa linea triadica conviene persino Impero, affrontando, in uno di quei passi di particolare luminosità analitica, i differenti livelli di intervento che la macchina imperiale implementa per gestire efficientemente l’alterità. Si tratta di un ragionamento speculare a quello poc’anzi sviluppato, che muove chiaramente da una prospettiva “dal basso” ossia dal punto di vista delle forze che a esso si oppongono. Il primo livello è quello della “accoglienza” e manifesta la tendenza inclusiva dell’Impero, che, ereditando i tratti fondamentali
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della narrazione liberale, è tenuto a estendere l’universalità dei diritti civili a tutte le popolazioni. Ovviamente tale funzione non possiede solo il carattere positivo della solidarietà, ma già opera come un depuratore culturale che premette – anche se solo teoricamente – l’integrazione. Il secondo è quello differenziale che segue lo slittamento dal relativismo astratto e universalistico dei diritti impersonali, all’accettazione problematica delle singolarità culturali: dunque il relativismo culturale. Tali differenze che producono conflitti mobili e in un certo modo controllabili, non costituiscono una minaccia per l’Impero, quanto una forza rigenerante capace di rinnovarne continuamente la dialettica. “Si tratta di differenze non conflittuali: il genere di differenze che, quando è necessario, possiamo anche metter da parte” (Negri e Hardt 2001, p. 188). Nel terzo caso l’Impero opera una sorta di miniaturizzazione del controllo delle differenze culturali che non è più standardizzata come quella del vecchio mondo coloniale, ma è modulare, cioè insegue il suo oggetto e ad esso si applica come uno stampo che cambia continuamente forma. Questo perché, come la logica produttiva postfordista, deve affrontare un nemico mobile, le cui mutazioni, di tipo virale, lo rendono sfuggente e irriconoscibile. Il terrorismo, come si intuirà, può essere inteso come proiezione invertita – ma intimamente imbricata – a questa forma di controllo. Ancora una volta, dopo una buona dose di suggestioni postmoderniste e foucaultiane, il ragionamento sul fantasma dell’Impero, conduce a una serie di evidenze e di classificazioni circa la natura e l’esatta configurazione degli attori di questo incredibile gioco, che sono descritti come due nemici frontali, schierati e ben distinti, mentre la complessità del sistema sociale determina la loro crescente collusione. Per tale motivo occorre oggi sviluppare un pensiero che sia in grado di cogliere contemporaneamente la totalità e i suoi frammenti, l’aspirazione all’ideale con una pratica circostanziale.27 La synechia parmenidea, questa capacità di accogliere in un modello unitario la profonda dispersione del reale senza mai dimenticarne il portato tragico, è un monito da seguire durante il nostro cammino nel nuovo mondo. Come si è detto, a differenza di quella ideologia esotista o new age – che sulla scia di una interpretazione superficiale delle ricchezze antropologica, ha esaltato e subito gli aspetti più inquietanti dell’alterità culturale nella sua fuga dal male d’occidente – occorre oggi tenere ben presente i
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principi del pensiero di Parmenide per affrontare tanto la disgiunzione dei flussi culturali (Appadurai 2001) quanto la loro omogeneizzazione, senza rimuovere la loro potenziale irriducibilità. È questo un grande merito dell’eleata, aver fornito sia uno schema teorico sia un esempio pratico di condotta che noi dovremmo adottare nell’intraprendere il viaggio nel sistema esperenziale e cognitivo della globalizzazione. Il viaggiatore ottiene quel genere di conoscenza che in un dizionario più tardi verrebbe chiamata sia teorica che pratica: egli apprende come esti tiene insieme gli onta contrari. Ma lui stesso apprende come tenere insieme i contrari. Ogni qual vota sente che una data entità di forze è stata nominata, dovrebbe percepire, in essa e con essa, il nome contrario, il nome di ciò che rimane assente (Schurmann 1998, p. 14).
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Il suo pensiero è un vademecum che può orientarci nella complessità del presente. Tenere insieme ciò che è inconciliabile, sentire sempre l’eco del contrario e del contraddittorio che circonda ciò che oggi è familiare. L’eccesso di vocazione logica, critica, ermeneutica, centrata sulla molteplicità di letture, interpretazioni e punti di vista, è alla base di quell’impasse gnoseologico che ha segnato la nostra epoca come l’epoca del relativismo. Ma il relativismo, anche quello originariamente classico, è il frutto di una data serie di trasformazioni socioeconomiche contingenti.28 Rispetto a tale tradizione oramai in chiaro declino, sarebbe più utile pensare a un nuovo paradigma capace di riflettere sul suo stesso limite e di comprendere i margini di applicabilità della propria logica. Un metarelativismo, ancora tutto da inventare, potrebbe mantenere un rapporto privilegiato con la cifra del nostro presente e favorire tanto il riconoscimento dell’altro quanto, soprattutto, il nostro auto-riconoscimento.29
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Riferimenti
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Note 1 Il fenomeno odierno è a ben guardare, solo l’ultimo spettacolare capitolo di una storia che prende avvio con i Greci. Per primi essi cominciarono a raffigurare la terra, su cui l’uomo abita e vive, come un corpo rotondo, dischos o sphairos. Per Parmenide l’Essere intero è una sfera. E dalla globalizzazione metafisico-cosmologica passarono poi a quella politico-amministrativa: parlarono di oikoumene, “ecumene” per dire “la terra abitata” nel suo insieme (Volpi 2001). 2 La globalizzazione infatti è essenzialmente sconfinamento, sfondamento di
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confini, deformazione di geometrie politiche (Galli 2001, p. 133). 3 L’evanescenza di ogni possibile rappresentazione di spazi chiusi fa emergere un comune destino mondiale: si forma quindi una società transnazionale o mondiale non necessariamente omogenea ma unitaria, almeno nel senso che non consente più ad alcuna cultura di resistere nella propria tradizionale purezza o “autoctonia”. Ne risulta una cultura globale che è vista ora come banalità occidentalizzante, ora come universo culturale passibile di interna autodifferenziazione in “culture”, ora, appunto come omologazione che in quanto spegne o contamina le storie e le memorie, le identità e le speranze, risulta in realtà il vero nemico da battere (Ibidem, p. 141). 4 Toni Negri in una presentazione di Impero (2001) parla di questa dimensione puramente rivolta all’interno del sistema globale. 5 In quest’ottica la frontiera cessa di essere la rigida fissazione della figura politica dello spazio, contorno di un’identità già data, e viene a indicare ciò che rende possibile la contiguità e la prossimità; non ciò che separa ma ciò che unisce pur senza in realtà unificare e lasciando piuttosto sussistere le singolarità che nella loro esistenza frattale, aleatoria, irregolare, costituiscono una sorta di universale policromo, una “esposizione” dei “colori”[...] che va al dì la della logica universale/particolare (Galli 2001, p. 163). 6 Lo stesso termine “globale” evoca fortemente l’interezza e la comprensività che derivano dal suo uso metaforico (globale in quanto totale) sia dalla pura semantica della forma geometrica: per esempio nella connessione di termini quali “onnicomprensiva” [encompassing, che circonda] come la forma sferica della terra (Tomlinson 2001, p. 23). 7 Il concetto di globalizzazione, dunque, possiede sicuramente l’attributo “tendente all’unità”, e se la condizione empirica della connettività che abbiamo identificato non avesse tali implicazioni, dovremmo semplicemente concludere che, con “globalizzazione” tutti noi avremmo trovato la parola sbagliata! Quello che occorre è un modo di pensare le implicazioni dell’unicità che non sfoci in altre confusioni concettuali: lo sfumare dell’unicità, nell’uniformità o nell’unità (Ibidem p. 163). 8 Che cos’è il pensiero unico? È la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale; ed è stato, per così dire, formulato e definito fin dal 1944 in occasione degli accordi di Bretton Woods […] la Commissione europea, le banche centrali ecc., attraverso i loro finanziamenti arruolano al servizio delle loro idee, sull’intero pianeta, numerosi centri di ricerca, università e fondazioni, chiamate ad affinare e a diffondere la buona parola (Ramonet 1995). 9 L’Impero appare, così, come una vera e propria macchina high tech: è virtuale, è costruita per controllare eventi marginali, è organizzata per dominare e, se necessario, per intervenire nei punti di rottura del sistema (coerentemente con le più avanzate tecnologie della produzione robotica). La virtualità e discontinuità della sovranità imperiale, tuttavia, non devono far dimenticare l’efficacia della sua forza. Al contrario, quelle caratteristiche hanno la funzione di rafforzare il suo apparato, di dimostrare la sua efficacia nel contesto storico contemporaneo e la sua forza legittimata a risolvere i problemi mondiali in ultima istanza (Negri e Hardt, 2001, p. 53). 10 A tal proposito ancora una volta il visionario Burroughs ci ricorda si può controllare integralmente un magnetofono, non un uomo, sottolineando il fatto che “il controllo è sempre parziale”. 11 È centrale nello studio di Giddens (1994) e nella critica ad esso apportata da
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Tomlinson (2001), questa idea che la globalizzazione debba considerarsi come dialettica tra il livello globale e quello locale. 12 Se ora si considera brevemente la condotta che secondo Parmenide caratterizza i mortali, sarà legittimo parlare non di una via, né di due, ma di tre vie. Apparirà inoltre come queste tre vie, formino insieme la struttura con cui il parmenideo ‘è’ opera in qualità di legge delle leggi, e come esso legittimi ogni legge (Schurmann 1998, p. 12). 13 A tal proposito è particolarmente illuminanate lo studio di Giorgio Galli in cui il filosofo riflette sull’origine orfica della dottrina eleatica rinvenibile nel mito dello “smembramento di Dioniso” da parte dei Titani che prefigura la nascita degli uomini come moltiplicazione dell’unità dionisiaca (Colli 1998). 14 Per una disamina del rapporto tra universalismo teologico e globalizzazione si veda ancora Tomlinson (2001). 15 Oggi abbiamo una rete di strutture delle Nazioni unite, basate in teoria sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che difende l’esistenza sia di una legge internazionale sia di valori dell’umanità intera. Abbiamo una unità di misura universale per il tempo e lo spazio. Abbiamo una comunità scientifica che emana leggi universali: e non è un fenomeno relativo unicamente al XX secolo (Wallerstein 1996, p. 105). 16 Ho precedentemente affermato che le due principali teorie ideologiche emerse nella storia dell’economia mondo capitalista – cioè da una parte l’universalismo, dall’altra il razzismo e il sessismo – non sono opposte ma simbiotiche e un “giusto dosaggio” di entrambe ha reso possibile il funzionamento del sistema, che prende la forma di un continuo zig zag ideologico (Ibidem p. 101). 17 La civiltà occidentale si è sviluppata nella modernità; le altre civiltà no. Inevitabilmente quindi, se qualcuno voleva essere “moderno” in qualche modo doveva essere culturalmente “occidentale”: egli doveva adottare, se non la religione, almeno il linguaggio occidentale. Se non il linguaggio, doveva come minimo accettare la tecnologia occidentale, che si considerava basata sui principi universali della scienza (Ibidem p. 108). 18 Da decenni ormai la critica di stampo marxista – che in passato aveva considerato l’imperialismo come fase decadente del capitalismo – ha denunciato la tendenza della cinematografia hollywoodiana a produrre un “realismo astratto”. Il determinismo testuale per gli autori di “Screen” è la capacità del linguaggio di produrre, forgiare e posizionare le soggettività in un dato ordine. Nella fruizione del film di “grido” hollywoodiano lo spettatore è immerso in un sistema di pseudo realismo che ne forgia al contempo la soggettività. Tel posizione sarà, già agli inizi degli anni settanta, criticata dal Stuart Hall, che produrrà un modello più realistico e meno ideologico, di descrizione della fruizione mediale (Moorse 1998). 19 [...] in queste note assumiamo l’imperialismo culturale come forma generale di quei processi di socializzazione in cui il rapporto di subordinazione di un sistema produttivo rispetto ad un altro costituisce un mezzo di produzione [...] Ma il capitale multinazionale fa saltare questo stesso schema: persino l’imperialismo americano “classico” deve confrontarsi con un più alto livello di contraddizioni tra interessi del capitale e interessi nazionali, territoriali, personali. Tutto ciò porta alla sua astrazione ultima l’impero del capitale che può e deve, di volta in volta, entrare in conflitto con qualsiasi stato nazionale. Ciò può voler dire anche che l’impero del capitale non è la somma e il possesso dei singoli regni ma l’uso dei loro conflitti. La logica delle multinazionali porta molto più alla divisione territoriale che alla fusione planetaria (Abruzzese 2001, p. 54). 20 Quello che Schrumann chiama “double headed” corrisponde storicamente alla critica mossa da Parmenide ai sofisti e probabilmente all’homo mensura di
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Protagora. È certo che tale relativismo non può coincidere esattamente con l’odierno relativismo culturale ma è forse intermedio tra questo ed il relativismo universalistico illuminista. 21 Giacomo Marramao in un recente ciclo di lezioni su Filosofia e Globalizzazione, ha centrato il suo intervento sull’idea che le altre culture non vedono una frattura netta tra oriente e occidente, tale frattura è tutta nella mente di quest’ultimo e occorre sottolineare che l’islam sotto alcuni è aspetti profondamente occidentale. 22 La politica dell’uguale dignità si basa sull’idea che tutti gli esseri umani siano ugualmente degni di rispetto [...]. Il valore che qui viene identificatoè dunque una potenzialità umana universale. Una capacità comune a tutti gli umani. [...] Anche per la politica delle differenze potremmo dire che alla sua base c’è una potenzialità universale, quella di formare e definire la propria identità, non solo come individuo ma anche come cultura; e questa potenzialità deve essere rispettata allo stesso modo in tutti [...] E così questi due modi di fare politica, basati entrambi sulla nozione di uguale rispetto, entrano i conflitto. Per un il principio dell’uguale rispetto impone di trattare gli esseri umani in modo cieco alle differenze. Per l’altro dobbiamo riconoscere la particolarità e addirittura coltivarla (Taylor 1993, pp. 62-63). 23 Qui si mostra significativa la comparazione che fa Robertson tra l’idea di globalizzazione e la disciplina sociologica in special modo quella positivista e comtiana (Robertson 1999). 24 Ma anche questa pluralità di culture è problematica: infatti, la tesi dei multiculturalisti che il conflitto di culture sia la nuova cifra del presente, capace di sostituire la lotta di classe marxista e il contratto liberale come momento genetico dell’ordine dello spazio politico, e che la vera questione politica oggi consista nel consentire la coesistenza di una pluralità di identità culturalmente determinate spazialmente qualificate entro uno spazio politico libero da effetti monopolizzazione e di esclusione, non tiene abbastanza conto né del fatto che queste
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carlo formenti virtualità e crisi della rappresentanza
“culture” sono a loro volta per nulla “naturali”, ma pesantemente modificate dalle contraddizioni sociali che le attraversano, né dell’evidenza tutt’altro che rara che l’identità del singolo possa determinarsi contro di esse e non grazie ad esse (Galli 2001, p. 140). 25 Allo spazio liscio e planare implicito nella Teoria della giustizia di Rawls, abitato da soggetti “teorici”, monoculturali, politicamente uguali ed equivalenti quanto a progettualità, si è contrapposto uno spazio politico complesso, organizzato in molteplici “sfere”, abitato da sé radicati nella storia, in diverse appartenenza, concezioni del Bene e progetti di vita (Ibidem p. 158). 26 Il punto cruciale si situa appunto qui: nel compromesso totale della filosofia occidentale, quella dei Lumi, circa il rapporto del Bene e del Male. Noi crediamo ingenuamente che il progresso del bene, la sua crescita di potenza in tutti gli ambiti (scienze, tecniche, democrazia, diritti dell’uomo), corrisponda a una di-sfatta del Male. Nessuno sembra aver capito che il Bene e il Male crescono in potenza contemporaneamente e secondo lo stesso movimento. Il trionfo dell’uno non comporta l’annientamento dell’altro, anzi. Si considera il Male, metafisicamente, come un sbavatura accidentale, ma questo assioma, da cui derivano tutte le forme manichee di lotta del Bene contro il Male, è illusorio. Il Bene non riduce il Male, e non è vero neppure il contrario: Bene e Male sono irriducibili l’uno all’altro e il loro rapporto è inestricabile […] Quindi niente supremazia dell’uno sull’altro. Questo bilanciarsi si spezza a partire dal momento in cui si ha estrapolazione totale del bene (egemonia del positivo su qualsiasi forma di negatività, esclusione della morte, di ogni forza avversa in potenza –trionfo dei valori del bene su tuta la linea) (Baudrillard 2002, pp. 18, 20). 27 Il tema, si è già detto, è quello di raggiungere un universalismo delle differenze, inteso come un insieme di singolarità irriducibili. E il pensiero critico è al lavoro, consapevole che non siano sufficienti né le buone idee dell’illuminismo kantiano di una repubblica cosmopolita protesa a dare universalità trascendentale all’individuo di qualsivoglia tempo e appartenenza, né le politiche che declinano il pluralismo come logica dei ghetti contigui. Gli effetti prodotti dal mercato globalizzato dividono nel giudizio: ma il problema che il pensiero trasformativo ha davanti è di dover suggerire soluzioni per colmare le contraddizioni introdotte dal mondo mercantile che pur accogliendo una dimensione della vita, non produce di per sé né identità né insieme, accentuando semmai le disuguaglianze e le divisioni del mondo (Semeraro 2003, pp. 129-130). 28 Illuminante è, a tal riguardo, l’analisi comparativa sviluppata da Mannheim in quando descrive il relativismo filosofico greco come frutto del successo sociale dei commercianti e della concomitante crisi della vecchia monarchia. (K. Mannehim, 1965). 29 Per un’epoca che più d’ogni altra è diventata consapevole della frammentazione e della dispersione che regnano nell’ordine delle cose, può l’Uno, così come
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viene proposto da Parmenide, assicurare una fondazione senza incrinatura? Se risulta che la sua originaria e sintetica intuizione include simultaneamente una strategia concettuale che ne contraddice dall’interno l’atto fondazionale, ne può derivare che in e dopo Parmenide la filosofia ha avuto la umile funzione di conservare, piuttosto che di soddisfare, gli interrogativi dell’uomo per ciò che è fondamentale. Avvezzo ai molti, il nostro secolo può allora non considerare come semplice barbarie la tendenza volta a distruggere l’intera nobile tradizione consacrata all’Uno (Schurmann 1998, p. 6).
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Analizzando i processi di disaggregazione che i legami sociali tradizionali subiscono nella modernità, Anthony Giddens1 sostiene, fra l’altro – a proposito della produzione di fiducia come prestazione del sistema sociale – che nel mondo moderno la fiducia non viene accordata agli individui bensì alle capacità astratte (sistemi esperti). Mentre i saperi premoderni attingono autorità/credibilità dal fatto che essi appaiono doppiamente “incarnati” (da un lato, nei sistemi di parentela, nella comunità locale, nelle istituzioni religiose, ecc, dall’altro negli individui che concretizzano la presenza nello spazio e nel tempo di tali sistemi), i saperi moderni si presentano viceversa come entità astratte, disincarnate, come saperi mediati. La nostra fiducia nei confronti dei professionisti di ogni tipo non riguarda le persone, bensì la validità del sapere esperto che esse applicano, perciò il sapere che di volta in volta riconosciamo è sempre assente. Un esempio: la credibilità del medico condotto – iscritta nella comunità locale – presenta ancora una certa analogia con quella dello stregone e del sacerdote, viceversa il moderno medico specialista ci appare come il “terminale” di un sottosistema funzionale, altamente complesso e differenziato, che opera in un “altrove” di cui ignoriamo quasi tutto. Il che spiega perché la fiducia moderna – in quanto corrispettivo di una condizione di ignoranza – non è mai esente da un’aura di scetticismo: un alone di sospetto circonda le professioni che, rivendicando il proprio sapere specialistico, si situano in un regno inaccessibile caratterizzato da terminologie esoteriche che confondono il profano. Riassumendo, potremmo dire che i moderni meccanismi di disaggregazione sociale: 1) spostano l’ambito di applicazione della fiducia dalle relazioni faccia a faccia alle relazioni a distanza; 2) trasferiscono la fiducia dalle persone ai sistemi esperti; 3) accrescono lo scetticismo e la diffidenza nei confronti delle persone che agiscono da “terminali” di tali sistemi. Le pagine che seguono contengono un primo abbozzo di riflessione in merito ai nuovi problemi che l’avvento delle reti di computer introduce in questa cornice teorica. In particolare, si tratta di capire in quale misura Internet abbia contribuito a riconfigurare il binomio fiducia/scetticismo che governa la relazione fra individui e sistemi esperti. Il compito verrà affrontato lungo due direttrici di analisi, la prima, relativa al ruolo che le reti di computer svolgono nello sviluppo di controtendenze ai processi di disaggregazione-dislocazione sociale, attraverso lo sviluppo di comunità
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virtuali che incorporano relazioni sociali in parte analoghe a quelle vigenti nelle tradizionali comunità locali, in parte del tutto inedite; la seconda, legata alla forte suggestione esercitata dalla “utopia della democratizzazione” (della conoscenza, dell’economia, della politica, ecc) da sempre associata alla comunicazione mediata dal computer. Per introdurre questi due temi torna utile ricordare un episodio – riferito dal “New York Times” in un articolo del 15 luglio 20012 – che avevo già citato in un precedente lavoro.3 L’articolo esordisce ricostruendo la storia di AskMe.com, una delle più note comunità di scambio-condivisione dei saperi generate da Internet. Il sito in questione è nato all’interno di una grande impresa che si proponeva di promuovere pratiche di “consulenza incrociata” fra i propri dipendenti: si trattava, in buona sostanza, di costruire una sorta di “banca dei saperi” autogestita, dove gli “esperti”– per cultura professionale, per hobby o per passione sostenuta da percorsi autodidattici – in determinati argomenti venivano invitati ad offrire – su base gratuita e volontaria – i propri consigli e pareri ai colleghi che ne avessero fatto richiesta. Avendo ottenuto uno straordinario successo, l’iniziativa si è successivamente autonomizzata dall’ambito aziendale in cui ha avuto inizio, trasformandosi in comunità on line aperta al pubblico e conquistando in breve tempo dieci milioni di utenti. Le domande degli utenti, come avviene in altre analoghe comunità di servizi autogestiti, si distribuiscono in modo ineguale, premiando i consulenti ritenuti più attendibili attraverso il meccanismo del passa parola (quello che gli americani chiamano “world of mouse”: di mouse in mouse come di bocca in bocca) fra i membri della comunità. In questo modo nascono delle vere e proprie “star”, che si conquistano la fiducia degli utenti – e quindi valanghe di domande di consulenza – in questo o quel particolare settore. Finché, nel caso in questione, si viene a scoprire che dietro il nickname4 di uno di questi superesperti, che aveva scalato le classifiche di attendibilità nel settore della consulenza legale, si nasconde un ragazzino di colore poco più che adolescente, figlio di immigrati del Belize trapiantati a Los Angeles. Lo “scandalo” scoppia non appena Marcus Arnold (questo il vero nome del ragazzo), resosi conto che le proprie risposte possono incidere pesantemente sulla vita di molte persone, confessa pubblicamente la sua giovanissima età e la vera fonte delle sue conoscenze: non ha acquisito i suoi saperi dalla lettura dei codici, nelle aule univer-
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sitarie né, tanto meno, in quelle dei tribunali, ma, molto più banalmente, dalle centinaia di ore trascorse a guardare sceneggiati alla Perry Mason o a navigare fra i siti specializzati in materie legali. In altre parole, la sua competenza, “certificata” dal riconoscimento di centinaia di utenti di AskMe.com, è il frutto della cura con cui gli sceneggiatori televisivi americani ricostruiscono procedure legali, dibattiti in aula, cavilli, ecc. Ma l’aspetto più sorprendente della vicenda è un altro: passata la bufera di insulti e minacce di denuncia (accantonate perché il ragazzo non ha mai pubblicamente dichiarato di essere un avvocato), racconta l’articolista del “New York Times”, molti utenti sono tornati a chiedere i pareri legali di Marcus Arnold, considerandoli comunque più attendibili di quelli di molti membri “patentati” della casta professionale, preoccupati di sfruttare la comunità virtuale come serbatoio di potenziali clienti più che di contribuire alla sua funzione di luogo di libero scambio e condivisione delle conoscenze. Dissipiamo il dubbio che possa trattarsi di un caso eccezionale, ricordando come questo meccanismo incrociato, da un lato, di delegittimazione dei saperi “ufficiali” certificati da ordini professionali, corporazioni accademiche, istituzioni scientifiche, dall’altro, di legittimazione di saperi “autocertificati” dal riconoscimento ottenuto grazie agli “indici di gradimento” tributati da una o più comunità online, appaia assolutamente tipico, tanto da essere all’origine di alcuni dei fenomeni più noti e studiati della fenomenologia di Internet. Ricordiamo, in proposito, lo straordinario successo del fenomeno del blogging, che ha visto milioni di navigatori improvvisarsi giornalisti on line, “rubando il mestiere” ai giornalisti di professione. Alcuni di questi Weblog – nati come semplici “diari” in cui l’autore annotava commenti e osservazioni sulle pagine Web visitate e suggeriva i relativi link ai visitatori del sito, ma progressivamente evoluti in veri e propri giornali ricchi di notizie, informazioni e commenti – hanno conquistato decine di migliaia di lettori, mentre la “Blogsfera” (il circuito di migliaia di Weblog interconnessi grazie a una fittissima trama di link incrociati) si è dimostrata capace di competere con il circuito dei media ufficiali (giornali, network televisivi e versioni online delle grandi testate), condizionandone in varie occasioni il palinsesto (notevole è apparso il ruolo politico dei blogger americani nell’influenzare l’opinione pubblica sui temi della guerra in Irak e della campagna presidenziale). Non meno interessante, anche se più ”di nicchia”, la
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rivoluzione che Internet ha scatenato nel settore della comunicazione scientifica: dando a migliaia di ricercatori di tutto il mondo (anche a quelli che vivono e operano in aree “marginali”, prive di risorse economiche e canali editoriali) la possibilità di pubblicare i propri lavori a costo zero, e rendendoli virtualmente accessibili all’intera comunità scientifica mondiale, la Rete ha messo in crisi il monopolio che l’editoria scientifica tradizionale e le riviste accademiche esercitavano da sempre sulla diffusione di informazioni, teorie e conoscenze – situazione che alimentava un circolo vizioso per cui solo l’appartenenza a comunità e istituzioni potenti e riconosciute garantiva l’accesso ai canali editoriali specialistici. I due esempi appena citati, sembrerebbero molto diversi dal caso di Marcus Arnold: mentre costui era un outsider, un ragazzino privo di qualsiasi formazione legale che si era autoeletto avvocato, la gran parte dei protagonisti del fenomeno del blogging, pur non essendo giornalisti professionisti (anche se non pochi blogger lo sono, e sfruttano questo canale per usufruire di margini di libertà che sono loro negati nell’ambito della “normale” attività professionale) appaiono dotati di competenze tecnologiche e culturali più che adeguate a svolgere il ruolo di comunicatori online; mentre nel caso della comunicazione scientifica il meccanismo incrociato di legittimazione/delegittimazione è tutto interno alla comunità professionale (al sapere esperto, per usare la terminologia di Giddens), per cui la “rivoluzione” riguarda i meccanismi di controllo sul flusso comunicativo più che una radicale ridefinizione delle sue “leggi”. In realtà le analogie fra i tre casi sono più significative delle differenze. In particolare, occorre sottolineare come le modalità con cui il blogger-giornalista e lo scienziatopubblicista sottopongono i loro prodotti al giudizio delle rispettive comunità siano identiche alle modalità con cui Marcus Arnold sottopone i suoi consigli legali al giudizio degli utenti del sito-comunità AskMe.com: l’appartenenza a una categoria professionale (o nel caso della comunicazione scientifica, l’appartenenza alla èlite riconosciuta di una categoria) non costituiscono più, di per sé, il prerequisito per una attribuzione di competenza; a decidere della competenza – ad attribuire fiducia alla validità delle conoscenze messe a disposizione – è in ultima istanza la comunità degli utenti. A questo punto, siamo già in grado di avanzare alcune prime osservazioni sul ruolo delle comunità virtuali come agenti di con-
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trotendenza ai processi di disaggregazione sociale innescati dalla modernità. Si è visto che Giddens sostiene che nel mondo moderno la fiducia non viene accordata agli individui bensì alle capacità astratte (sistemi esperti). Se gli esempi sin qui analizzati di generazione della fiducia nelle comunità virtuali possono essere considerati “tipici” (e il parere di chi scrive è che sia così), è indubbio che ci troviamo di fonte a una inversione di tendenza, nel senso di un controtrasferimento della fiducia dai sistemi esperti agli individui: in rete il sapere viene attribuito e riconosciuto al singolo in quanto tale (per come si presenta e per ciò che dice, comunica e “fa”) e non in relazione alla sua appartenenza a un orizzonte di capacità astratte e predefinite. Al tempo stesso, non avrebbe senso parlare di un “ritorno” dei meccanismi di aggregazione sociale premoderni (una tentazione ricorrente nel dibattito teorico sulla postmodernità). Infatti l’individuo che diviene così soggetto di sapere (reale o presunto, comunque riconosciuto) non “incarna”, come avveniva nel mondo premoderno, il prestigio di una tradizione istituzionalizzata in varie forme (sistemi di parentela, chiesa, comunità locale, ecc.), ma rappresenta un sapere ancora più astratto e “disincarnato” di quello dei sistemi esperti, nella misura in cui, rispetto ad essi, appare ancora più “mediato”, iscritto in un flusso comunicativo che si trasmette fra soggetti che non condividono lo stesso orizzonte spaziotemporale. Un ulteriore paradosso coincide infine con il fatto che alla “delocalizzazione” sul piano geografico corrisponde una sorta di “rilocalizzazione” sul piano della forza dei legami sociali, per cui il sapere che viene scambiato e condiviso in una comunità virtuale appare meno esposto all’aura di scetticismo che circonda quello veicolato dai sistemi esperti (i quali, come abbiamo visto, divengono viceversa oggetto di scetticismo). Per passare al tema dell’utopia di Internet come strumento di democratizzazione, occorre introdurre una ulteriore considerazione: i tre esempi di cui ci siamo fin qui occupati presentano una evidente analogia strutturale con le procedure di valutazione su cui si fonda il funzionamento delle comunità virtuali implicate nella sfera del commercio elettronico. Pensiamo, ad esempio, alle comunità di utenti-clienti che si sono sviluppate attorno al sito d’aste eBay e alla libreria virtuale Amazon.com; eBay rappresenta uno dei fenomeni più originali e innovativi partorito dalla Net Economy. L’idea su cui si fonda il progetto è quella di mettere a
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disposizione degli utenti del sito un’interfaccia software che consente a chiunque di vendere e acquistare tutto ciò che desidera. La maggior parte dei profitti non provengono dunque dalla vendita diretta di prodotti da parte di eBay, bensì dalla percentuale che l’azienda trattiene sulle transazioni che gli utenti del sito conducono autonomamente fra loro. Ma la vera “invenzione” è consistita nell’aver delegato alla comunità degli utenti il compito di gestire direttamente il meccanismo di produzione della fiducia, compito tanto più delicato in quanto l’asta online è un modello commerciale esposto ai rischi di imbrogli e truffe di ogni tipo (falsificazione delle caratteristiche del prodotto, mancato rispetto dei tempi di consegna, vendita di prodotti inesistenti, ecc.). Il problema è stato risolto studiando un meccanismo di rating che consente – attraverso valutazioni incrociate che venditore e acquirente si attribuiscono reciprocamente, e che concorrono ad aggiornare costantemente il “voto” associato a ogni utente registrato – di penalizzare chi si comporta scorrettamente e premiare chi mantiene i propri impegni. Pur non essendo esente da pecche (le truffe non hanno potuto essere eliminate del tutto), il sistema offre un deterrente sufficiente a garantire un elevato indice statistico di affidabilità delle transazioni. A sua volta Amazon.com delega alla comunità dei lettori-clienti il compito di recensire le novità editoriali che vengono messe in vendita sul sito. In questo modo, da un lato, abbiamo un meccanismo di certificazione di qualità del prodotto non dissimile da quello messo in atto da eBay, dall’altro, come avviene nel caso dei Weblog, il giudizio diretto del lettore soppianta il sapere degli esperti (i recensori di professione), sospettati di subire l’influenza delle case editrici. Insomma: che si tratti di capire se un giovane autodidatta fanatico degli sceneggiati alla Perry Mason ha acquisito una competenza tale da sfidare quella di un avvocato di professione; di costruire un network di produzione e distribuzione di informazioni on line fondato sulla cooperazione competitiva di milioni di giornalisti dilettanti e capace di reggere il confronto con i media mainstream; di strappare alle corporazioni accademiche e a un pugno di editori specializzati il monopolio sulla comunicazione scientifica; di consentire lo svolgimento di complesse operazioni di compravendita fra milioni di persone che pur non sapendo nulla le une delle altre sanno di operare in un contesto altamente affidabile; di scegliere un libro sapendo che molte altre persone lo hanno già letto trovandolo piacevole o interessante: in tutti questi casi è
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all’opera un dispositivo di produzione sociale di fiducia fondato su quelle che il massimo teorico delle comunità virtuali, Howard Rheingold, chiama Smart Mobs, “folle intelligenti”.5 Un termine che allude alle prestazioni cognitive fornite da masse di soggetti interconnessi attraverso tecnologie che permettono, non solo di scambiare informazioni e conoscenze istantaneamente e a qualsiasi distanza, ma anche e soprattutto di generare una sorta di “cervello collettivo”, la cui intelligenza totale trascende quella delle sue singole cellule viventi. Riassumendo, ci troviamo di fronte a un doppio movimento che, da un lato, restituisce al singolo individuo il ruolo di “attrattore” della fiducia, dall’altro “automatizza” il meccanismo di produzione sociale di fiducia, trasferendone l’onere dai sistemi esperti a un dispositivo mediale che mobilita, al tempo stesso, le relazioni sociali “virtualizzate” e le tecnologie (interfacce software) che rendono possibili tali relazioni. A questo punto, è difficile non notare come questo doppio meccanismo presenti notevoli assonanze con l’utopia smithiana del “mercato perfetto”. Non a caso, i teorici del marketing online insistono ossessivamente sui meccanismi di “empowerment” del consumatore che entrerebbero in azione nella Net Economy. Meccanismi che sarebbero in grado, in linea di principio, di azzerare i vantaggi competitivi di cui le grandi imprese godono grazie al prestigio del marchio, alle economie di scala garantite dalle dimensioni delle loro strutture produttive e commerciali, e al controllo oligopolistico acquisito su determinati settori di mercato. Nella misura in cui neutralizza i vincoli spaziotemporali che caratterizzano i mercati tradizionali, Internet mette ogni prodotto “ad un click di distanza” da tutti gli altri, offrendo al consumatore la possibilità di informarsi a fondo su tutte le alternative possibili e di scegliere un prodotto esclusivamente in relazione al rapporto qualità/prezzo. Così Bill Gates ha potuto parlare di “Friction Free Capitalism”: “Nel 1776, descrivendo il concetto di mercato, Adam Smith teorizzò che se ogni acquirente conoscesse il prezzo richiesto da ogni venditore, e se ogni venditore sapesse quanto è disposto a pagare ogni acquirente, chiunque operi sul mercato sarebbe in grado di prendere decisioni sulla base di informazioni complete, e le risorse sociali sarebbero distribuite con efficacia”.6 Come si vede, siamo di fronte a un modello ricorsivo: così come ogni membro di una comunità virtuale può liberamente valutare – disponendo di tutte le informazioni necessarie – le offerte (economiche,
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culturali, informative, ricreative, ecc) di ogni altro membro, e sottoporre a sua volta le proprie offerte alla valutazione di tutti gli altri, allo stesso modo venditori e compratori (considerati per definizione intercambiabili) possono assumere liberamente – sulla base di informazioni complete – le proprie decisioni sul mercato; e così come le classifiche di attendibilità – che ogni comunità virtuale elabora attraverso i meccanismi del passa parola o del rating – incorporano la “saggezza” (Smart Mobs) iscritta nei meccanismi automatici di interazione gestiti dal software, allo stesso modo i prezzi incorporano la “saggezza” del mercato e delle sue leggi. Per alcuni ciò spiegherebbe anche il potenziale di democratizzazione politica iscritto nella Rete: dalla democratizzazione del mercato e dalla democratizzazione delle conoscenze deriva la possibilità che tutti i cittadini – in linea di principio – vengano messi nella condizione di disporre delle stesse informazioni di cui dispongono i detentori del potere. Ma nel momento in cui ciò dovesse verificarsi, i vecchi meccanismi di governo – nella misura in cui erano fondati sul differenziale di conoscenza fra governanti e governati – non potrebbero più funzionare. Ciò sarebbe confermato dal fatto che già l’attuale livello di diffusione delle conoscenze, ancorché limitato rispetto all’infinito potenziale della Rete, è apparso già sufficiente a ridurre drasticamente il rispetto di cui tradizionalmente godeva il principio di autorità. Insomma: nell’anarcocapitalismo americano (libera informazione, più libero mercato, più stato minimo, più autogestione dal basso delle comunità) sarebbe iscritta la formula della democrazia a venire.7 Questa concezione si fonda su un presupposto, vale a dire sulla convinzione che Internet attribuisca – almeno in linea di principio – le stesse opportunità di acquisire e/o diffondere informazioni a ogni individuo, azienda, organizzazione politica, associazione culturale, ecc. Ma la Rete è davvero – tanto in senso letterale quanto in senso metaforico – un mercato perfetto? Prima di rispondere, occorre sciogliere un nodo preliminare. Dal momento che il doppio meccanismo fondato, da un lato, sull’imputazione della fiducia al singolo individuo, dall’altro sulla fiducia come “qualità emergente” in un sistema complesso fondato su automatismi tecnologici e interazioni di massa fra utenti, rappresenta una sorta di ossimoro teorico, dobbiamo chiederci: chi è, in ultima istanza, il soggetto della fiducia, l’individuo o la comunità intesa come insieme di relazioni mediate dalle tecnologie di comunicazione? Si tratta di un
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argomento che implicherebbe un’ampia riflessione sul paradigma epistemologico della complessità, per cui qui ci limitiamo a rinviare al concetto di “individualismo in rete” elaborato da Manuel Castells: “L’individualismo in rete, scrive Castells, è un modello sociale, non è una raccolta di individui isolati. Piuttosto, gli individui costruiscono i loro network, online e offline, sulla base dei loro interessi, valori, affinità e progetti”.8 In altre parole, potremmo dire che gli individui sono attrattori di fiducia in quanto partecipi di network che essi stessi creano, e che i network sono garanti della fiducia in quanto incarnano una “intelligenza collettiva” che supera in potenza la somma delle intelligenze dei singoli nodi che compongono il network. Questa concezione del soggetto contemporaneo come individuo in rete, tuttavia, è rimasta estranea non solo alle argomentazioni dei teorici della nuova democrazia come anarcocapitalismo, ma all’intero dibattito fra critici e sostenitori dell’utopia della democrazia internettiana. Dai padri nobili di Internet9 – come quel Licklider che già alla fine degli anni ‘60, mentre dirigeva il progetto Arpanet, fu fra i primi a coltivare l’ideale di agorà elettronica – agli odierni teorici della Rete come nuovo orizzonte della democrazia ricorre, sia pure con varianti, l’immagine di una “rivoluzione” concepita come un’estensione delle opportunità di partecipazione dal basso che non intacca principi e procedure della democrazia “classica”. L’idea di fondo è quella di Internet come uno “strumento” che, da un lato, consente – in via di principio – ai singoli individui di esprimere con continuità, e non solo in occasione di scadenze elettorali, la propria opinione sui temi dell’agenda politica, dall’altro, grazie alla sua natura di media interattivo, offre loro la possibilità di partecipare attivamente al processo decisionale in ogni suo momento. Più che di democrazia diretta, sarebbe dunque corretto parlare di procedure di consultazione e sondaggio permanente, che farebbero evolvere l’organizzazione del processo democratico in una direzione simile a quella che ha visto i media cartacei, a mano a mano che andavano online, abbandonare il rigido formato del “periodico” per diventare distributori di notizie in tempo reale. Analogamente, sul versante critico – citiamo per tutte le riflessioni di un Tomas Maldonado10 – l’utopia è stata rigettata soprattutto in relazione 1) al carattere elitario del mezzo – dal cui uso appare tuttora esclusa la schiacciante maggioranza dell’umanità – 2) ai rischi di deriva plebiscitaria legati
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all’istituzione di meccanismi di referendum permanente per sancire le decisioni di un potere politico che, malgrado tutto, continua a di-sporre di molte più informazioni dei propri “sudditi”. In entrambi i punti di vista manca completamente una riflessione sulla specificità della Rete in quanto “ambiente” – e non mero canale di comunicazione, strumento tecnologico – di un nuovo tipo di relazioni sociali, un ambiente che rimette in discussione sia la struttura di tali relazioni sia la natura dei “nodi” che ne costituiscono la trama. Non è dunque un caso se una delle più stimolanti riflessioni critiche in merito alla presunta “democraticità” di Internet non ci arriva da un sociologo né da un politologo, bensì da un fisico teorico di origine ungherese, Albert-Laszlo Barabasi, il quale, pur essendosi occupato di teoria delle reti da un punto di vista statistico-matematico,11 ha offerto un contributo fondamentale per lo sviluppo di una teoria politica del Web. L’analisi di Barabasi – ispirata ai paradigmi della teoria della complessità – assimila la struttura e le dinamiche evolutive di Internet a quelle di altre reti complesse di origine naturale (soprattutto di tipo biologico). La tesi di fondo dell’autore è che le reti di computer, che siamo spontaneamente portati a ritenere come creazioni interamente umane, siano viceversa divenute nel corso del tempo sempre più simili a organismi o ecosistemi. In altre parole, le proprietà emergenti di una rete che è venuta assemblandosi attraverso le interazioni spontanee fra milioni di macchine, programmi ed esseri umani motivati da finalità e regole di comportamento le più diverse fra loro (al di fuori del controllo consapevole e intenzionale di governi o di altri centri unificati di controllo tecnologico ed economico), sono analoghe a quelle che compaiono, per esempio, nelle catene alimentari di un ecosistema o nella rete di molecole presente all’interno di una cellula. E una delle più significative di tali proprietà è la tendenza verso la “clusterizzazione” delle reti, nel senso che una rete è fatta al tempo stesso di legami forti e deboli, esattamente come avviene all’interno delle società umane che appaiono strutturate, da un lato, in cerchie ristrette di amici dove tutti si conoscono (cluster-legami forti), dall’altro dai legami deboli che connettono fra loro questi cluster attraverso le ragnatele di conoscenze dei singoli membri del cluster, che funzionano da “ponte verso l’esterno”. È solo grazie ai legami deboli che ogni nodo di una rete può essere messo in connessione con tutti gli altri:
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ai tempi di Arpanet, esistevano solo pochi nodi universitari che formavano un unico cluster, poi altri cluster (reti governative, BBS, Usenet, ecc) sono nati e si sono messi in connessione gli uni con gli altri, fino a dare vita a quell’unico cluster gigante che è l’attuale World Wide Web. Una seconda peculiare proprietà delle reti, è quella di essere “mondi piccoli”: la società mondiale, per esempio, è una rete di sei miliardi di nodi dove si è calcolato che la distanza media fra un nodo e l’altro (il numero di persone che in teoria occorre contattare per arrivare a conoscere qualsiasi altra persona nel mondo) non è superiore ai sei “link”, mentre in Internet, malgrado la mostruosa mole di documenti presenti sul Web, si calcola che il grado di separazione media fra due documenti sia di diciannove link. Ma per arrivare infine al punto che qui più ci interessa – esiste una relazione fra la struttura di Internet e il suo carattere “democratico”? – dobbiamo concentrarci su un terzo aspetto delle reti complesse, legato al ruolo determinante che in esse svolgono i “connettori” (hub). Per spiegare la differenza fra reti causali e reti governate da una legge di potenza (caratterizzate, rispettivamente, dall’assenza e dalla presenza di connettori al proprio interno), Barabasi ricorre a un esempio geografico, invitandoci a confrontare una cartina stradale con la mappa delle linee aeree di uno stesso Paese. La cartina stradale si presenta piuttosto uniforme: ogni grande città ha almeno un collegamento con il sistema autostradale e non ci sono città servite da centinaia di strade. La mappa aerea appare del tutto diversa: se i nodi sono gli aeroporti e i link i voli diretti che li collegano, notiamo immediatamente l’esistenza di pochi hub dai quali si dipartono voli per quasi tutti gli altri aeroporti, mentre la maggioranza di questi ultimi appaiono piccoli, con pochi link puntati verso uno o più hub. Quelle senza hub sono reti casuali e, scrive Barabasi, si tratta in generale di reti statiche, in cui il numero di nodi resta invariato o varia di poco e lentamente, viceversa l’esistenza di hub è un segnale evidente di autorganizzazione e del fatto che la rete risponde a leggi di potenza (un tipico esempio di legge di potenza è il celeberrimo principio 80/20, enunciato da Pareto, in ragione del quale i redditi tendono a concentrarsi nelle mani di pochi mentre il resto della popolazione guadagna poco), leggi che emergono fondamentalmente per due ragioni: perché ci troviamo di fronte a una rete che cresce nel tempo (i nodi più vecchi sono avvantaggiati), e perché i collegamenti non
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avvengono a caso ma privilegiano alcuni nodi dotati di un forte potere differenziale di attrazione. I connettori (opinion leader in un sistema sociale, siti più linkati nel Web, ecc) sono quelli che svolgono un ruolo determinante per la diffusione di idee, mode, innovazioni, ecc. Se le cose stanno così, è evidente che solo le reti casuali potrebbero favorire modelli sociali democratici (nel senso classico del termine): se infatti la natura (o un ambiente creato dall’uomo che si comporta “come se” fosse naturale) distribuisce i suoi link alla cieca, nel lungo periodo nessun nodo appare favorito rispetto agli altri. Come si è appena visto, tuttavia, Internet non è una rete casuale, bensì una rete governata da leggi di potenza, in cui quindi non esistono affatto democrazia, equità e valori ugualitari: l’architettura del Web è dominata da pochissimi nodi altamente connessi, mentre tutti gli altri, dotati di pochissimi link e quindi “invisibili”, sono tenuti insieme da quei pochi connettori. Dobbiamo dunque invalidare gli esempi di democratizzazione della conoscenza presentati nella prima parte dell’articolo? Dobbiamo scartare come falsa l’idea secondo cui, grazie ad Internet, ognuno di noi (a condizione che disponga di una connessione) può pubblicare le proprie opinioni e renderle virtualmente accessibili a tutti? No, obietta Barabasi, è vero che tutti possiamo pubblicare, ma è altrettanto vero che il punto non è se posso pubblicarle, bensì se qualcuno le leggerà. Come faccio a farmi leggere? Devo poter fare in modo che molti link puntino sulla mia pagina (devo cioè tentare di diventare un connettore). La dura legge del Web – l’autosoffocamento per inflazione della comunicazione, che fa sì che i motori di ricerca riescano a indicizzare solo una minima parte delle pagine disponibili – è spietatamente incarnata dagli algoritmi di Google: se digitate una richiesta, in cima alle risposte troverete le pagine che calamitano più link da altre pagine, mentre le seconde scelte (decine, centinaia o migliaia, a seconda della richiesta) sfumeranno nell’abisso di un interminabile elenco che nessuno consulterà mai fino in fondo. Ai primi posti si piazza chi gode di due vantaggi competitivi: chi è in rete da più tempo, per cui ha avuto maggiori opportunità di acquisire link, e chi riesce a esercitare più attrattiva. Cioè, per tornare alle riflessioni della prima parte, chi riesce a conquistare la fiducia e il riconoscimento dagli altri nodi della (o delle) comunità di cui fa parte: i Marcus Arnold, i venditori “onesti” di eBay, gli autori più recensiti di Amazon, i blogger più “autorevoli”, i ricercatori che pubblicano i
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lavori più innovativi. Per progredire ulteriormente, occorre tornare ad approfondire il concetto di individuo in rete: senza comunità niente riconoscimento, ma come cambia il meccanismo del riconoscimento a mano a mano che esso si trasferisce dai sistemi esperti alle comunità? Prima di rispondere, occorre sciogliere un dubbio preliminare: in che misura le comunità riescono effettivamente ad appropriarsi del ruolo dei sistemi esperti? Se infatti è vero che Internet, rispetto ai media tradizionali, riduce il differenziale di potenza comunicativa fra grandi imprese, governi, accademie, istituzioni, ecc e tutti gli altri soggetti “non patentati”, è altrettanto vero che questo differenziale resta pur sempre enorme. Se l’anzianità di presenza in rete conta, non c’è dubbio che i big player abbiano occupato posizioni strategiche fin dai primi mesi di esistenza del Web. Così come non vi è dubbio che i marchi – i navigatori non cessano di guardare la tv e leggere i giornali – continuino ad esercitare una formidabile potenza di attrazione, in barba alle chiacchiere sul fatto che il consumatore può accedere più facilmente a informazioni su prodotti meno noti ma altrettanto validi di quelli “corporate”. E infatti sono proprio questi gli argomenti dei critici “classici” del mito della democratizzazione: Internet funziona, in ultima istanza, come tutti gli altri media, per cui è solo questione di tempo affinché i rappresentati dei “vecchi” poteri occupino senza residui tutto lo spazio degli hub, concedendo agli altri solo briciole. Ma perché, allora, digitando certe richieste su Google può capitare che un Weblog compaia prima del New York Times, che il sito di un ricercatore indipendente scalzi una pagina del MIT, che una piccola softwarehouse compaia prima di Microsoft? A rispondere è ancora Barabasi che, mentre da un lato dissipa le illusioni in merito al presunto egualitarismo di Internet, dall’altro ci spiega perché i vecchi poteri non saranno mai in grado di scalzare quella straordinaria macchina di autoproduzione di fiducia e riconoscimento che sono le comunità online (con i loro meccanismi di clustering, rating, ecc.). Il fatto è che l’idea che Internet sia governabile dall’alto non è meno illusoria del mito del suo egualitarismo, in quanto è fondata sul presupposto che la rete sia fatta essenzialmente di codice (di software, interfacce, procedure, ecc.): il tentativo di governare politicamente i comportamenti del cyberspazio controllandone il codice, si scontra con il fatto che la rete è sì determinata dal codice, ma anche dalla sua architettura (il softwa-
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re o codice è l’insieme dei mattoni, l’architettura è ciò che costruiamo con i mattoni): il codice può limitare il comportamento condizionando l’architettura, ma non può determinarla, perché essa è fatta sia dal codice che dalle azioni umane collettive da esso regolate. Il primo può essere stabilito da tribunali, governo e aziende, il secondo non può essere modellato da nessuna istituzione o singolo utente, perché il Web non ha progetto centrale, è autorganizzato. “Le leggi vanno e vengono, la topologia è fissa”.12 Siamo al punto: fiducia e riconoscimento non possono essere governati né dalle istituzioni, né dal singolo individuo, bensì dall’individuo in rete, o, se si vuole, dalle Smart Mobs di cui parla Rheingold. A questo punto il nostro interrogativo va riformulato: non dobbiamo chiederci se la struttura di Internet sia democratica, ma piuttosto che tipo di democrazia corrisponda alla struttura della rete. Si è già detto che l’utopia dell’e-democracy è nata assieme a Internet: fin dai tempi di Arpanet si diceva che, grazie alla diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, i cittadini avrebbero potuto far pesare la propria opinione su tutte le decisioni politiche attraverso sondaggi elettronici. Nella pratica, non è mai successo nulla di tutto ciò. Politici di professione, partiti e istituzioni si sono rivelati refrattari a sfruttare il potenziale interattivo dei nuovi media per attivare meccanismi di feedback che registrassero “in tempo reale” la valutazione del loro operare. Le ragioni di tale rifiuto sono evidenti: attivare meccanismi di democrazia diretta fondati sulla consultazione permanente della cittadinanza significherebbe mettere in crisi il principio stesso della democrazia rappresentativa, fondato sulla delega attraverso il voto: come potrebbe mantenere la propria legittimità nel tempo un mandato politico esposto continuamente alla possibilità di contestazione? Un meccanismo del genere renderebbe revocabile (e quindi illegittimo) – di fatto se non di diritto – il mandato. Per rifarci alle categorie di Giddens, potremmo dire che il sistema politico preferisce conservare a qualsiasi costo – anche al prezzo di andare incontro al crescente scetticismo dei “profani” – la fiducia che gli spetta di diritto in quanto “sistema esperto”, piuttosto che esporsi alle nuove modalità di produzione di fiducia che si sviluppano all’interno delle comunità virtuali. Ecco perché i siti di partiti, istituzioni, sindacati e singoli uomini politici funzionano quasi esclusivamente come “vetrine” progettate allo scopo di promuovere l’immagine dei soggetti che li realizzano, e non come interfacce di uno scam-
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bio interattivo con l’utenza. Ed ecco perché l’uso delle nuove tecnologie da parte delle Pubbliche Amministrazioni ha sempre manifestato una spiccata propensione per l’e-governance piuttosto che per l’e-democracy, privilegiando obiettivi di “modernizzazione” della cosa pubblica: semplificazione delle procedure burocratiche, standardizzazione dei linguaggi, riduzione dei costi di produzione e aumento dell’efficienza dei servizi pubblici, nonché “personalizzazione” degli stessi tramite analisi delle esigenze di un utente concepito come “cliente” (customer satisfaction) più che come cittadino. A fronte di questa resistenza del sistema politico, la società di Internet – gli individui in rete di cui parla Castells – ha sempre operato come un formidabile incubatore di nuove forme di partecipazione dal basso alla politica (ma anche alla cultura, all’economia, ecc.) che, per le loro modalità di funzionamento, appaiono in progressivo allontanamento da quelle della tradizionale democrazia rappresentativa. Così le comunità virtuali hanno potentemente contribuito a indebolire il potere dello stato nazione, sia accelerando e amplificando i processi di deterritorializzazione già innescati dai flussi finanziari e di scambio commerciale, sia promovendo nuove modalità di aggregazione sociale che non si fondano sull’appartenenza a contesti geopolitici o sulla condivisione di “radici” etniche, linguistiche e religiose, ma sulla associazionecooperazione volontaria fra individui che condividono determinati interessi, passioni e valori. Gli esempi presentati nella prima parte dell’articolo offrono solo un piccolo assaggio dell’enorme potere politico, culturale ed economico che le comunità virtuali sono in grado di concentrare: esse partecipano attivamente alla formazione del mercato globale determinandone le stratificazioni (attraverso la creazione di nicchie di mercato articolate per età, genere, hobby condivisi, ecc.); alimentano il consumo di servizi e prodotti che esse stesse “inventano”, contribuendo in modo determinante allo sviluppo delle imprese a rete che ne sfruttano l’intelligenza collettiva (vedi gli esempi di eBay e Amazon); danno vita a reti di controinformazione che condizionano l’agenda dei media mainstream; offrono l’infrastruttura organizzativa di potenti movimenti sociali (dalla rete di sostegno al movimento Zapatista, a quella che ha coordinato i grandi eventi messi in scena dai movimenti No Global, a quelle dei consumatori che hanno indotto alcune grandi corporation a rinunciare allo sfruttamento del lavoro minorile e a
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ritirare il loro sostegno finanziario ai regimi totalitari, ecc.). I teorici della democrazia elettronica insistono sulla natura pluralista e decentralizzata dei movimenti che sfruttano la rete come principale strumento di dibattito, organizzazione e mobilitazione. In particolare, l’attenzione si concentra sull’esperienza No Global, che è venuta configurandosi (in alternativa alle forme organizzative dei movimenti dei decenni precedenti) come una galassia federativa di gruppi, culture e progetti anche molto diversi fra loro. Ma mentre questa annotazione è ampiamente condivisibile, del tutto fuorviante appare l’idea secondo cui la cultura dei movimenti in rete andrebbe nella direzione dell’egualitarismo. Come teorizza Barabasi, e come gli esempi della prima parte dell’articolo hanno contribuito a dimostrare, la democrazia in rete può funzionare solo grazie al ruolo dei “connettori” che mettono in relazione fra loro le diverse componenti della galassia che, altrimenti, resterebbe semplicemente un’accozzaglia di atomi individuali. Non c’è dubbio che l’ideologia delle comunità virtuali (soprattutto di quelle più vicine all’originario modello americano) accrediti l’immagine di una rete fatta di “individualità sovrane”, che rifiutano per principio qualsiasi rapporto di subordinazione gerarchica, ma nei fatti questi “atomi” si comportano come individui in rete, come nodi di una rete sociale che funziona grazie al fatto che alcuni nodi (i connettori) sono “più uguali” degli altri. Torniamo, dunque, alle vecchie regole della rappresentanza e della delega (sia pure rivisitate e de-formalizzate)? No. Sia perché la fiducia e il riconoscimento sociali di cui godono gli “hub” non sono istituzionalizzati, bensì il prodotto di meccanismi di valutazione iscritti nella dinamica stessa delle relazioni comunitarie e delle interfacce tecnologiche che le gestiscono. Sia e soprattutto perché fiducia e riconoscimento, in quanto permanentemente esposti all’aggiornamento “in tempo reale” delle valutazioni, appaiono per loro stessa natura effimeri e revocabili in qualsiasi momento. E con questo siamo approdati all’interrogativo finale: siamo in grado di immaginare le forme istituzionali di una democrazia a venire fondata su meccanismi del genere? Il percorso fin qui tratteggiato si proponeva in primo luogo di arrivare a formulare con chiarezza la domanda, evidenziandone al tempo stesso l’urgenza, perciò le righe che seguono non pretendono di offrire una risposta, ma solo di rilanciare alcune suggestioni che ci vengono in questo senso da tre autori.
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Ulrich Beck13 invita a riflettere sullo scenario di una democrazia, al tempo stesso, cosmopolita e postparlamentare. Beck muove dalla constatazione secondo cui il monopolio statale della politica appare drammaticamente eroso dal governo di organizzazioni sovranazionali prive di qualsiasi legittimazione democratica. La soluzione non consiste, sostiene Beck, nel progredire ulteriormente sulla strada della deregulation (privatizzando e transnazionalizzando ancor più la produzione di diritto), bensì nell’attivare nuove forme di democrazia associativa:13 bis si tratta, da un lato, di rendere trasparenti le decisioni delle organizzazioni transnazionali per tutti i gruppi coinvolti, dall’altro, di fare in modo che tali organizzazioni vengano integrate e controllate da istanze indipendenti, composte pluralisticamente. Non molto distante da questa visione appare il concetto di Costituzione dell’Impero, elaborato da Antonio Negri e Michael Hardt.14 L’attuale piramide del potere mondiale, sostengono questi due autori, vede al vertice la superpotenza americana, subito sotto il gruppo degli stati nazione e delle grandi imprese che controllano gli strumenti monetari e le grandi agenzie internazionali (ONU, FMI, WTO, Banca Mondiale), mentre alla base troviamo le varie forme associative di nuovo tipo che rappresentano il “forum” della società civile globale. Negri e Hardt, parlano, a proposito di questo modello, di “costituzione mista”: al vertice il “potere monarchico” che detiene il monopolio della forza, subito sotto il “potere aristocratico” incarnato dal concerto degli stati nazione e delle imprese multinazionali, alla base il “potere democratico” delle associazioni che rappresentano la società civile internazionale. È evidente che, in questa prospettiva, la democratizzazione consiste – per usare il linguaggio di Beck – nel rendere trasparenti le decisioni dei livelli superiori e nell’attribuire al livello inferiore reali poteri di controllo. Citiamo infine lo scenario teorico in cui Manuel Castells15 inquadra il processo di unificazione europea. Da un lato, ci troviamo di fronte al “deficit democratico” che affligge istituzioni come il Consiglio Europeo, la Commissione e la Banca Centrale d’Europa, le quali assumono decisioni sulle quali i cittadini non possono esercitare alcuna influenza. Dall’altro, il governo europeo è costretto, proprio a causa di tale deficit democratico, a recuperare legittimità attraverso il principio di sussidiarietà che delega alle istituzioni regionali e locali una quantità crescente di decisioni. In questo contesto le tecnologie di rete vengono usate, sia per accentrare il flusso
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guglielmo forges davanzati* adam smith: la sympathy nelle relazioni industriali
delle informazioni nelle mani dei vertici tecnocratici, sia per ridistribuirlo a livello regionale, facilitando la partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche delle istituzioni locali. Abbiamo così l’embrione di uno “stato a rete” che si fonda sulla condivisione dell’autorità da parte di una serie di “nodi” (che potremmo chiamare connettori, secondo l’indicazione di Barabasi) ognuno dei quali ha peso e dimensioni diverse, e fra i quali di sviluppano quindi relazioni asimmetriche. Ma è appunto questa stratificazione di una pluralità di poteri sovrapposti e in competizione reciproca (Castells parla in proposito di neomedievalismo istituzionale, definizione che si attaglia perfettamente anche ai modelli proposti da Beck e dalla coppia Negri-Hardt) a generare legami d’interdipendenza che configurano la possibilità di garantire trasparenza (dall’alto verso il basso) e controllo (dal basso verso l’alto). Tutti e tre i modelli, pur non tematizzando esplicitamente il problema del rapporto fra democrazia e nuovi media, presuppongano architetture istituzionali che presentano evidenti analogie formali con i modelli di relazioni sociali in rete analizzati in questo articolo.
1 Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna 1994. Vedi anche Il mondo che cambia, il Mulino, Bologna 2000. 2 Cfr. Michael Lewis, Faking It: The Internet Revolution Has Nothing to Do With the Nasdaq, “The New York Times”, 15 luglio 2001. 3 Cfr. Carlo Formenti, Mercanti di futuro, Einaudi, Torino 2002. 4 Lo pseudonimo con cui il membro di una comunità virtuale è conosciuto da tutti gli altri appartenenti alla comunità. 5 Cfr. Howard Rheingold, Smart Mobs, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.
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6 Citato in E. Pedemonte, Personal media. Storia e futuro di un’utopia, Boringhieri, Torino 1998. Ho già discusso dell’utopia del Friction Free Capitalism in Incantati dalla Rete, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000. 7 Cfr. le tesi avanzate da K. Kelly in Out of Control, Apogeo, Milano 1996 e in Nuove regole per un mondo nuovo, Ponte alla Grazie, Firenze 1999. Vedi anche JD Davidson, W. Rees-Mogg, The Sovereign Individual, Simon & Shuster, New York 1997. Del concetto di anarcocapitalismo ho discusso in Incantati… op. cit. 8 M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002, p. 129. 9 In merito alle origini dell’utopia politica della e-democracy, cfr, fra gli altri, K. Hafner, M. Lyon, La storia del futuro. Le origini di Internet, Feltrinelli, Milano 1996 e S. Levy, Hackers, Shake, Milano 1996. 10 Cfr. T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1997. Per una posizione più equilibrata, per quanto ancora inquadrata in una prospettiva teorica “tradizionale”, vedi S. Rodotà, Tecnopolitica, Laterza, Bari 1997. 11 Cfr. A-L Barabasi, Link. La scienza delle reti, Einaudi, Torino 2004. 12 Ivi, p. 185. 13 Cfr. U. Beck, Una società cosmopolita. Prospettive dell’epoca postnazionale, il Mulino, Bologna 2003. 13 bis Un esempio di democrazia associativa potrebbe essere quello che ci viene offerto dal World Wide Web Consortium (W3C). Si tratta di una istituzione transnazionale che ha il compito di sviluppare, testare e approvare gli standard tecnologici su cui si fonda la struttura di Internet, operando come sofisticata “camera di compensazione” fra interessi in conflitto: corporation high tech, governi, utenti-consumatori, centri di ricerca universitari, categorie professionali, ecc. Al suo interno trovano mediazione gli interessi del software proprietario, che mira a trasformare in “standard” i suoi prodotti, e quelli delle comunità di ricerca che mirano a sviluppare standard “aperti” che garantiscano adeguati livelli di interoperatività fra tecnologie differenti o in competizione; così come trovano mediazione i conflitti fra governi, interessati a controllare infrastrutture e contenuti della Rete, e utenti- consumatori, interessati a conservare ampi margini di libertà e di privacy. Praticando forme di mediazione fra interessi corporativi non dissimili da quelle sperimentate nelle libere città medievali, il W3C ci offre un esempio di governance di soggetti in conflitto reciproco, ma motivati alla cooperazione dalla comune esigenza di tutelare l’ecoambiente tecnologico della Rete 14 Cfr. M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2002. 15 Castells si occupa dello stato a rete Europeo nel quinto capitolo del terzo volume della sua monumentale trilogia dedicata alla società dell’informazione (Volgere di millennio, Università Bocconi Editore, Milano 2003).
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2 – Può apparire alquanto strano che tante energie siano state spese per affermare l’ovvio, e non è questa la sede per cercare di individuarne i motivi. Ma merita di essere rilevato che una proposizione così contraria al senso comune (il lavoro è una merce) è un
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1 – La teoria economica mainstream, di ispirazione neoclassica, propone un’analisi del funzionamento del mercato del lavoro fondata sulle seguenti ipotesi: a) il lavoro è una merce ed è esclusivamente fonte di disutilità; b) il salario è determinato dalle libere fluttuazioni della domanda e dell’offerta di lavoro, consentendo il raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego in assenza di interventi esterni. Il corollario di politica economica che da ciò segue risiede nella prescrizione del non intervento: l’azione sindacale e/o l’intervento pubblico costituiscono “interferenze esterne” che, nella misura in cui garantiscono un incremento del salario unitario, determinano disoccupazione. Questa raffigurazione è stata oggetto di numerose critiche, da un lato, e di non irrilevanti perfezionamenti, dall’altro. Le critiche fanno riferimento prevalentemente all’opera di John Maynard Keynes e attengono in primis alla mancata considerazione della “natura duale” del salario: costo di produzione ma anche componente della domanda effettiva per il tramite dei consumi. In tale prospettiva, non è l’aumento dei salari, bensì la loro riduzione, a determinare – attraverso il calo della domanda di beni e servizi rivolta alle imprese – l’insorgere della disoccupazione (v. Keynes, 1973 [1936]). Le nuove teorie del mercato del lavoro, pensate come perfezionamento dell’analisi neoclassica, muovono dalle specificità del contratto di lavoro e, non da ultimo, dalle peculiarità della merce lavoro. Si evidenzia, in tal senso, che – per numerose ragioni (v. Akerlof and Yellen, 1986) – può essere conveniente per datori di lavoro e lavoratori accordarsi su livelli salariali superiori a quelli determinati dal mercato e che, conseguentemente, la rigidità salariale ha natura endogena, ovvero è tendenzialmente indipendente da interventi esterni. A ciò si aggiunge una ulteriore e rilevante considerazione: a differenza degli altri mercati, nel mercato del lavoro la relazione fra le parti non si esaurisce nel momento dello scambio. Conseguentemente, l’impresa si trova nella condizione di doversi garantire il continuo consenso del soggetto di intenzionalità e, seguendo questo percorso, perde senso l’idea che il lavoro sia equiparabile a una merce (cfr. Solow, 1994).
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prodotto relativamente recente nella Storia delle teorie economiche, così come è relativamente recente l’idea (oggi, a dire il vero, da più parti rimessa in discussione) che la dimensione etica sia totalmente estranea al discorso economico e, dunque, anche all’analisi scientifica della contrattazione salariale e, più in generale, delle relazioni industriali. Adam Smith – da alcuni ritenuto il “fondatore” della scienza economica (ove mai il fondatore di una scienza possa essere individuato) – affrontava il tema di cui qui si discute da un angolo visuale ben diverso; ed è a partire dalla sua riflessione che andremo articolando il discorso. Centrale, nella dottrina smithiana, è la nozione di sympathy, elaborata nella Teoria dei sentimenti morali, e sostanzialmente riconducibile all’idea secondo la quale ciò che fondamentalmente muove il nostro agire sociale è la ricerca dell’approvazione altrui, o – nei termini più generali – “our fellow-feeling with any passion whatever” (Smith, 1976b, p. 10). Ciascuno desidera essere benvoluto dagli altri e, quindi, ciascuno fa proprio l’obiettivo di non recar danno agli individui con i quali interagisce: l’uomo è, cioè, incline a condividere i sentimenti altrui e a giudicare le proprie azioni anche sulla base degli effetti che esse producono sul benessere altrui. Ciascuno desidera riconoscimento, nel senso che desidera approvazione. Muovendo da questa tesi, si intende dare risposta a questo interrogativo: in che modo la sympathy può influenzare le dinamiche del mercato del lavoro, con particolare riferimento alle relazioni industriali e alla contrattazione salariale?
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3 – Il modello neoclassico contempla la possibilità che il salario di equilibrio (corrispondente al pieno impiego della forza-lavoro) assuma qualunque valore e sia cioè del tutto indipendente da qualunque considerazione relativa alla sussistenza dei lavoratori. La sussistenza, a sua volta, non può che avere una connotazione storico-sociale: se è vero che si può sopravvivere anche senza un televisore, è anche vero che, nell’Italia di oggi, il “comune sentire morale” ritiene non dignitosa una retribuzione che renda impossibile l’acquisto di un televisore. Per quale ragione i lavoratori italiani possono consentirsi l’acquisto di un televisore?1 La domanda – che può apparire di sconcertante banalità – acquista rilievo alla luce delle considerazioni poste sopra. La risposta “ortodossa” – sul piano teorico – potrebbe porsi in questi termini: ciò accade perché
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il livello salariale medio è tale da consentirlo. Una possibile contro-obiezione è: se il salario fluttua liberamente in relazioni a variazioni della domanda e dell’offerta di lavoro, cosa fa sì che il televisore sia stabilmente nel paniere di consumo dei lavoratori? Non potrebbe, cioè, darsi il caso nel quale un drastico calo della domanda di lavoro porti il salario a un livello tale da non consentire l’acquisto di un televisore?2 Chiamiamo in causa Smith. Il salario, sostiene, è determinato dalla contrattazione fra lavoratori e imprese in un contesto di asimmetria dei poteri contrattuali. Fondamentalmente per il fatto che i datori di lavoro possono aspettare più di quanto possano farlo i lavoratori per giungere a un accordo, disponendo i primi di un capitale di sostentamento del quale i secondi non dispongono, i datori di lavoro possono comprimere i salari, fissandoli a un livello tale da garantire la sopravvivenza e la capacità lavorativa dei loro dipendenti (vincolo) e da ottenere i massimi profitti (obiettivo). Ma, continua Smith, la gran parte degli imprenditori non adotta questa strategia. Perché?
“The liberal reward of labour, as it encourages the propagation, so it increases the industry of the common people. The wages of labour are the encouragement of industry, which, like every other human quality, improves in proportion to the encouragement it receives... Where wages are high, accordingly, we shall always find the workmen more active, diligent and expeditious, than where they are low” (ibid., p. 99).
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4 – La comunità dei master fa propri codici di comportamento che prescrivono l’erogazione di un salario dignitoso (decent wage). D’altra parte, una percezione condivisa di ciò che è un tenore di vita dignitoso esiste anche al di fuori di tale comunità e attiene agli stessi lavoratori. Si rilevano, allora, due meccanismi che rendono non conveniente la massima compressione delle retribuzioni. All’interno della comunità degli imprenditori, la sanzione associata a una politica di bassi salari è l’ostracismo, la perdita di reputazione.3 Nel rapporto fra datori di lavoro e lavoratori, Smith (1976a [1776]) rileva che gli alti salari, per ragioni biologiche e motivazionali, incentivano il rendimento dei lavoratori:
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L’argomentazione dà, allora, il seguente esito. La sympathy spinge i datori di lavoro a non competere al ribasso sulle retribuzioni, non per ragioni di stretta convenienza economica, ma per la naturale inclinazione umana a cercare l’approvazione altrui. D’altra parte, l’azione imprenditoriale guidata dalla sympathy – sebbene inintenzionalmente – nella misura in cui dà luogo a incrementi di produttività e di profitti, genera risultati positivi per l’impresa stessa. Il salario che risulta da questa tipologia di contrattazione è tale da rispettare standard di dignità (attinenti al tenore di vita dei lavoratori), che si ritengono stabiliti ex-ante, ovvero prima della contrattazione. E i lavoratori, fornendo riconoscimento ai propri datori di lavoro, adeguano il proprio rendimento (aumentandolo) all’aumento del salario.
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5 – Il fondamento filosofico (e poi economico) della tesi di Smith è nell’idea secondo la quale l’uomo ha bisogno di riconoscimento e ne ha tanto più bisogno quanto più “prossimo” è colui con il quale si confronta. L’agire in base alla sympathy non può essere riguardato come un vincolo etico, essendo piuttosto il risultato della risposta (non strettamente razionale) a un bisogno in larga misura naturale. In ambito economico, tale bisogno può porsi in termini di trade-off rispetto all’obiettivo del perseguimento del profitto; ed è ciò che, secondo Smith, di fatto accade quando l’imprenditore non è un prudent man. Come scrive Pesciarelli (1991), “The prudent man unconsciously promotes the interest of society because he consciously sets limits on the pursuit of his interests” (Pesciarelli, 1991, p. 216). La volontaria limitazione del perseguimento del self-interest diventa, in questa prospettiva, la necessaria precondizione per il massimo benessere collettivo. La notorietà di Smith, almeno nella sua vulgata, si deve al c.d. teorema della “mano invisibile”, in base al quale il perseguimento dell’interesse personale genera inintenzionalmente effetti sociali benefici. Questa proposizione è, ancora oggi, alla base del pensiero liberista e delle più recenti teorizzazioni dell’ordine spontaneo e ha indotto alcuni – non senza incorrere in interpretazioni superficiali – a vedere Smith come apologeta del nascente capitalismo.4 In base alla ricostruzione fin qui proposta, sembrerebbe prima facie di trovarsi di fronte a tesi contraddittorie e, dunque, al “doppio Smith” (l’uno filosofo morale, l’altro economista) che una lunga tradizione di pensiero – di matrice soprattutto germanica e
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ottocentesca – ci ha consegnato. La contraddizione può ammettere soluzione se ci si interroga sulla concezione smithiana di selfinterest. Seguendo Cremaschi (1984, p. 121), si rileva che, per Smith, “l’interesse viene visto come una valvola di sfogo per energie che potrebbero esprimersi in passioni ben più dannose perché non calme e non governabili. Quindi la ricerca del guadagno e della ricchezza, anche se non moralmente giustificabile, è da incoraggiare come rimedio a mali peggiori”. Stando a questa concezione, il self-interest smithiano differisce dalla concezione contemporanea sulla razionalità strumentale (intesa come ottenimento del massimo beneficio dati i costi) sotto almeno un duplice profilo: (i) non si ammette, in Smith, che la ricerca del proprio tornaconto sia limitata dai soli vincoli che il singolo operatore fronteggia, ovvero – e più semplicemente – la ricerca del proprio tornaconto è (e deve essere) “moderata”; (ii) non si dà, in Smith, la raffigurazione di un homo oeconomicus che agisce in un vacuum sociale e istituzionale. In tal senso, il desiderio di riconoscimento è pensabile come un vincolo – specifico della natura umana – all’esercizio delle libertà individuali.
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6 – Axel Honneth (2002, p. 190) ha posto in rilievo uno snodo centrale nella riflessione sul riconoscimento in ambito filosofico (con riferimento soprattutto alla tradizione hegeliana e marxista), ovvero “il nesso tra misconoscimento morale e lotta sociale”. L’idea è che il conflitto sociale trovi la propria legittimazione nel non-riconoscimento della dignità dei soggetti deboli e, segnatamente, dei lavoratori; ed è tale la “logica morale dei conflitti sociali”. La sympathy smithiana apre una prospettiva diversa; diversa tanto dalle tesi conflittualiste, quanto dalle tesi neoliberiste. Quanto alle prime: il conflitto sociale si manifesta (ed è moralmente accettabile che si manifesti) perché è violata – non riconosciuta – la dignità dei soggetti deboli. Il paradigma smithiano esclude questa soluzione a ragione del fatto che, come argomentato sopra, la ricerca dell’approvazione altrui anche da parte dei soggetti forti induce a stabilire modalità relazionali, in primis nella contrattazione salariale, di tipo cooperativo.5 Quanto alla seconda: la teoria economica dominante esclude il conflitto assumendo che i contraenti siano perfettamente informati ex-ante sulle variabili rilevanti e che stipulino contratti su basi esclusivamente volonta-
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rie. In tal senso, non vi sono “sorprese” e, ancor di più, il tempo (logico e soprattutto storico) è fondamentalmente irrilevante (v. Basile e Casavola, 1992, p. 10). Anche in questo caso, vi è una profonda distanza rispetto alle tesi di Smith: mentre per Smith è il riconoscimento a svolgere il ruolo di freno all’esercizio del conflitto, la realtà economica descritta dalla teoria economica oggi dominante è una realtà nella quale non esiste conflitto soltanto in quanto gli agenti sono perfettamente informati e posti in condizione di effettuare liberamente le proprie scelte: in altri termini, poiché l’homo oeconomicus agisce indipendentemente dagli altri, venendo meno la dimensione intersoggettiva, viene conseguentemente meno il desiderio di riconoscimento.
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R iferimenti
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bibliografici
Akerlof G.A. and Yellen J.Y. (1986), Efficiency wage models of the labor market, Cambridge University Press, Cambridge. Basile L. e Casavola P. (1992), The firm as an institution: recent evolution in the contractual perspective, “Quaderni del Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali”, Università di Napoli Federico “II”. Cremaschi S. (1984), Il sistema della ricchezza. Economia politica e problema del metodo in Adam Smith, Angeli, Milano. Honnet A. (2002) [1992], Lotta per il riconoscimento, Il Saggiatore, Milano. Keynes J.M. (1973) [1936], The General Theory of Employment, Interest and Money, Cambridge University Press, Cambridge. Pesciarelli E. (1991), Smith, Bentham and the development of contrasting ideas on enterpreneurship in M.Blaug (ed.), Adam Smith (17231790), Elgar, Aldershot, vol.I, pp. 203-218; also in History of Political Economy, 21:3, 1989. Smith A. (1976a) [1776], An inquiry into the Nature and the Causes of the Wealth of the Nations. Oxford University Press, London. Smith A. (1976b) [1759], The Theory of Moral Sentiments. ed. by Frontespizio dell’Iliade nell’edizione di Vincenzo Monti, La Nuova Italia, 1952 D.D.Raphael and A.L.Macfie, Clarendon Press, Oxford. Solow R. (1994), Il mercato del lavoro come istituzione sociale, Il Mulino, Bologna.
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giovanni fiorentino lo sguardo e l’immaginario
N ote
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* Università di Lecce. E-mail: forges@cds.unina.it; g.forges@ sesia. unile.it. Non è obiettivo di questa nota fornire un contributo innovativo in merito all’interpretazione dell’opera di Smith e tanto meno sulla vexata quaestio della presunta dicotomia fra lo Smith filosofo e lo Smith economista. La bibliografia su Smith è vastissima. Una ricostruzione pressoché completa del suo pensiero è contenuta, fra le altre opere, nei due fascicoli monografici della rivista History of economic ideas (1996, IV, 1-2). Un’acuta rivisitazione del suo metodo, e degli intrecci fra filosofia morale ed economia politica, si deve a Cremaschi (1984). In questa sede, ci si soffermerà esclusivamente sul tema del riconoscimento, con considerazioni sul ruolo che esso può rivestire sul piano economico e con particolare riferimento alla contrattazione salariale. Anche in considerazione di ciò, la bibliografia è volutamente contenuta 1 O anche: per quale ragione possono consentirsi di non venderlo o finanche di acquistarne uno nuovo? 2 Ovvero la vendita del proprio televisore, nel caso in cui il salario scenda a tal punto da rendere necessario cedere risorse in proprio possesso per acquistare beni ritenuti maggiormente necessari. 3 Nelle economie contemporanee, l’ostracismo può manifestarsi come non accettazione di forme di cooperazione (anche in sede di rappresentanza) con imprenditori giudicati disonesti. Su questa linea, si può avanzare l’idea che gli imprenditori che operano nell’economia c.d. sommersa siano soggetti a disapprovazione da parte degli imprenditori dell’economia regolare (così come dallo Stato e dalla gran parte della collettività), non solo per la concorrenza “sleale” alla quale danno luogo, ma anche per il mancato rispetto di codici di comportamento socialmente ritenuti fair. 4 Questione a questa collaterale è se Smith sia stato effettivamente consapevole della trasformazione (rivoluzione) industriale in atto e se abbia, conseguentemente, inteso analizzare un’economia che oggi definiremmo capitalistica. 5 Ferma restando l’esistenza – da più parti vista da Smith – di imprenditori che non rispettano tali codici.
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La fotografia si cristallizza nella memoria. L’immagine singola, il fotogramma, il fermo immagine, più facilmente, si ferma. Istante, eterocronia, unicità. Uno stupore lancinante, una “percezione sincopata”. Il punctum dell’occhio che coincide con il dettaglio offerto all’infinito. La vita che vive più forte del normale. La televisione introduce il fermo immagine, scompone se stessa, ripropone la fotografia, analogica o digitale. Il flusso si attarda sull’istante, scalfisce e si ferma, le sequenze video vengono scomposte in immagini fisse, esecuzioni, violenze, sgozzamenti, catture, sequestri, liberazioni, torture, anche lo sputo di Totti agli Europei di calcio del 2004 viene segmentato e fissato in sguardi fissi, riproposto iterativamente al consumo di massa. Le immagini fisse vengono restituite sulle prime pagine dei giornali, all’interno dei periodici, durante i telegiornali, assumono lunga vita in rete. Se la scelta delle televisioni occidentali è di non mostrare il video dei prigionieri realizzato dai terroristi, le fotografie dei rapiti appaiono dappertutto, li rendono familiari. Dall’esposizione pubblica dell’edicole metropolitane li trasportano direttamente nelle nostre case. Le gigantografie fotografiche dei giornalisti francesi rapiti in Iraq nell’agosto 2004 campeggiano sulla facciata dell’Hotel de Ville a Parigi, quelle di Simona Torretta e Simona Pari sono rimaste affisse al Campidoglio fino al momento della liberazione. Fermo immagine del Novecento (AA.VV. 1999; Robin 1999): foto uno, foto due, foto tre, foto quattro. Ricostruzioni artificiose o testimonianze in presa diretta, non è in discussione lo statuto di testimonianza, l’etica della trasparenza, conta l’introduzione nell’immaginario del consumatore (Abruzzese 1994), la costruzione identificativa, la possibilità del riconoscimento collettivo. Ritratti universali, prima di tutto: Hitler, Mussolini, Lenin, Stalin, Mao, Kennedy, Che Guevara, Ghandi. Poi, la guerra. - 1936, un miliziano spagnolo con il fucile tra le mani colpito da una pallottola vola, Robert Capa. - 1943, un bimbo avanza con le mani alzate nel Ghetto di Varsavia, Jurgen Stroop. - 1944, D-Day, i soldati americani sbarcano nelle acque della Normandia sotto il fuoco nemico, ancora Capa. - 1945, l’orrore di Bergen Belsen
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fotografato da George Rodger. - 1945, sei marine plasticamente conficcano al suolo la bandiera americana che batte al vento sul monte Suribachi a Iwo Jima, Joe Rosenthal. - 1952, atollo di Eniwetok, esplode la prima bomba all’idrogeno, il fungo atomico. - 1960, il ritratto di Che Guevara di Alberto Korda diventa l’icona della rivoluzione. - 1967, di fronte al Pentagono una giovane ragazza porge fiori ai soldati che puntano le baionette contro di lei, Marc Riboud. - 1968, il 20 agosto Praga è invasa dai sovietici, gli studenti sono davanti ai carrarmati in piazza San Venceslao, Josef Koudelka. - 1968, Vietnam, il capo della polizia sud vietnamita Nguyen Ngoc Loan punta una pistola alla tempia di un prigioniero nel cuore di Saigon, Edward T.Adams. - Vietnam 1972, una bambina nuda corre terrorizzata, con le mani alzate, il corpo sfigurato, irrorata al napalm, Huynh Cong Ut. - 1984, il ritratto dell’adolescente afgana Sharbat Gula fotografato da Steve McCurry nel campo profughi di Nasir Bagh in Pakistan. - 1989, Pechino, protesta dei giovani contro il governo, un ragazzo blocca il cammino di una fila di carri armati sulla via della Pace Eterna. - 1998, la vera finta madonna d’Algeri si piega in un urlo di dolore, Hocine. - 1999, gli occhi e le facce di Besijana e Sabreta, bambini kosovari vittime di un bombardamento Nato. - 2001, New York, il profilo di un aereo si conficca nel fianco di un grattacielo. - 2003, il cristo incappucciato in bilico sulla cassetta di Abu Ghraib. - 2004, i resti dei treni e dei corpi esplosi a Madrid, i ritratti dei prigionieri dei terroristi iracheni, i bambini ossezi spogliati e insanguinati nelle braccia dei soldati russi. Lo sguardo fotografico implica scelta, taglio, limite, selezione, esclusione, una grande parzialità, una sintesi e un’apertura. Passaggi, da un occhio all’altro, dall’occhio del produttore all’occhio del consumatore. Attraversamento di un circuito, da un medium all’altro, da una cornice all’altra, da un contesto all’altro. È parte. Oltre lo spazio contingente, il tempo determinato, si proietta sempre altrove.
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Perché non sono in grado di riconoscere il fungo atomico di Hiroshima fotografato dal giapponese Seizo Yamada? Mancano al mio immaginario visivo più aggiornato, il Caucaso e la Cecenia martoriati dai soldati di Putin oppure la guerra tra Talebani e Mujaidin del Nord in Afghanistan prima dell’undici settembre 2001. Sono gli innumerevoli passaggi mediali, una circolazione sterminata, reiterata nel corso del tempo, a fermare poche immagini nell’immaginario dell’uomo e determinare la possibilità del riconoscimento. La fotografia vive il suo incontro con l’occhio di massa come segmento di un percorso comunicativo. L’immagine fissa è solo un tratto particolare, e come tale viene fruito, entrando nel vissuto della gente e perdendo la sua centralità, per assestarsi in una straordinaria, illustre marginalità. L’autore dello scatto scompare. Marginalità catalizzatrice, da intendersi territorialmente, come porzione particolare di spazio, in un immaginario complesso dove le nuove forme di consumo culturale difficilmente consentono priorità assolute, ma nemmeno creano esclusioni. La fotografia, inserita nei circuiti ufficiali della contemplazione, conquista una ulteriore esistenza in un luogo deputato alla fruizione estetica rinforzando intensamente gli altri segmenti della comunicazione (Bolter, Grusin 1999).
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Della dialettica vita istante, flusso e tempo tagliato, video immagine fissa, ci rende qualcosa il rapporto fondante cinema fotografia. La fotografia entra continuamente nel flusso della vita come una sovrapproduzione densa, pregna di senso. Entra nella vita per esserne parte e allo stesso modo entra all’interno di una qualsiasi storia cinematografica. Vi scivola dentro, entra nei fotogrammi ed è fotogramma, definendo così un rapporto che non può essere che “intrinsecamente ingannevole”. “Il mondo fotografato – scrive ancora la Sontag – ha con il mondo reale il medesimo rapporto, sostanzialmente impreciso, che hanno i fotogrammi con i film. La vita non è fatta di particolari significanti, non è illuminata da un flash, non è fissata per sempre. Le fotografie si” (Sontag 1973, p. 72). La matrice genera la vita, l’istante genera il flusso, la fotografia genera il cinema. E il figlio sublime
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della lanterna magica e della camera oscura, che non può trascurare la straordinaria progenie dell’emulsione sensibile dei sali d’argento, contravviene immediatamente la natura della fotografia. Dal foglio di carta si passa alla trasparenza dello schermo. Dalla percezione personale all’allucinazione collettiva. Dall’occhio – celebrato dalla Camera chiara di Barthes – che indugia sul punctumparticolare si arriva alla “pratica ipnogogica” della sala cinematografica (Virilio 1989, pp. 47-49). “La posa viene travolta e negata dal continuo susseguirsi delle immagini” (Barthes 1980, p. 79). L’istante, che esorcizza il tempo, lo ferma e lo immobilizza, si anima, riprende a scorrere guidato dai ritmi del montaggio, diventa “cronofotografia reversibile, accelleratore cinematico, vettore del movimento” (Virilio 1989, p. 42) che trascina con sé lo spettatore immerso nel buio. Figlio degenere il cinema, ma riconoscente, che ritorna continuamente sul luogo primigenio del delitto, che sa accogliere la fotografia nelle sue storie e sulla fotografia dell’immagine gioca parte della sua seduzione. Gioco, provocazione, infrazione e relazione costitutiva fotografia-fotogramma nelle sperimentazioni cinematografiche delle Avanguardie storiche, almeno quelle di Man Ray (Le retour à la raison, 1923 e Emak Bakia 1926), e di Duchamp (Anémic Cinéma, 1925). Rivelazione, inconscio tecnologico, industria culturale, società di massa, in Buster Keaton (Il Cameraman, 1928). Retorica borghese, esemplificazione sociale e socializzante nella metropoli otto novecentesca, in Friedrich Murnau (Aurora, 1932). Straordinario testimone della vocazione allo sguardo del xx secolo, in Hitchcock (La finestra sul cortile, 1954). Micidiale protesi omicida, ne L’occhio che uccide di Powell (1960). Presenza aggressiva e invadente (siamo ai paparazzi di Federico Fellini in La dolce vita, 1960) e ancora debordante presenza femminile, essenza erotico-onirica, manifesto fotopubblicitario, in Le tentazioni del dott. Antonio sempre di Fellini (1962). Strumento indiziario e di falsificazione, per Blow up di Michelangelo Antonioni (1966). Linguaggio mistificante da decodificare, è il caso di Une lettre à Jane di Godard e Gorin (1972). Oggetto di culto e pseudopresenza, come nella Camera verde di Truffaut (1978). Se poi si guarda agli ultimi quindici anni di produzione cinematografica, si indaga la relazione tempo spazio, vero falso, vita morte, simulacro virtualità, realtà narrazione, finzione storia. Occhio indiscreto di Howard Franklin (1992), Schindler’s list di Steven Spielberg (1993), Prima
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della pioggia di Malco Manchewski (1994), Fino alla fine del mondo di Wim Wenders (1991), Smoke di Wayne Wang (1995), Cast Away di Robert Zemeckis (2000), Memento di Chris Nolan (2000), Il Favoloso Mondo di Amelìe di Jean-Pierre Jeunet (2000), The Others, di Alejandro Amenàbar (2001), One hour photo di Mark Romanek (2002). E l’elenco potrebbe diventare sterminato senza potere e volere in questa sede approfondire le complesse analisi che ogni film propone del mezzo fotografico e delle sue relazioni con il reale. Naturalmente il rapporto “intrinsecamente ingannevole” è aperto. Basti ricordare semplicemente che il cinema per entrare nella vita quotidiana, ha bisogno di istanti, frammenti, cornici di carta. La fotografia si insinua immediatamente nelle strutture dell’industria cinematografica, per affiancare fin dai primi anni Venti, in diverse modalità e tempi, la produzione e la distribuzione del film. Diventa fotografia di cinema, fotografia di scena, fotoritrattistica per attori e attrici, fotografia pubblicitaria per la cartellonistica e per la stampa. Strumento di promozione per il cinema, veicolo per la costruzione dello star system hollywoodiano. Almeno inesauribile catalogo documentario e testimonianza.
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Lo scrittore argentino Julio Cortazar, tra i pochi ad esplorare consapevolmente il rapporto tra fotografia e letteratura, nel saggio Alcuni aspetti del racconto (1962), mette a confronto il racconto breve e l’istantanea. La sua riflessione parte dal concetto di limite: è intorno a tale nozione che lo scrittore fonda il parallelo racconto e fotografia, che si avvale, nella distinzione, dell’analogia cinema romanzo. “Il romanzo e il racconto si possono paragonare analogicamente al cinema e alla fotografia, nel senso che un film è innanzitutto un “ordine aperto”, romanzesco, mentre una fotografia riuscita presuppone una rigorosa limitazione previa, imposta in parte dal campo ridotto che l’obiettivo comprende e inoltre dal modo in cui il fotografo utilizza esteticamente tale limitazione” (p. 1315). La fotografia lavora sul limite, sulla porzione, selezione e esclusione determinata dal mezzo di comu-
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nicazione e dall’occhio del fotografo. Cortazar porta ad esempio Cartier-Bresson o Brassai che ragionano sulla fotografia come un apparente paradosso. “Quello di ritagliare un frammento della realtà fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un’esplosione che apra su una realtà molto più ampia, come una visione dinamica che trascende spiritualmente il campo compreso dall’obbiettivo. Mentre nel cinema, come nel romanzo, la percezione di tale realtà più ampia e multiforme si ottiene mediante lo sviluppo di elementi parziali, accumulativi, che non escludono, naturalmente, una sintesi che dia il “climax” dell’opera, in una fotografia o in un racconto di grande qualità si procede in modo inverso, ovvero il fotografo o lo scrittore di racconti si vedono obbligati a scegliere e a circoscrivere un’immagine o un avvenimento che siano “significativi”, che non valgano solamente per se stessi, ma che siano capaci di agire sullo spettatore o sul lettore come una specie di “apertura”, di fermento che proietti l’intelligenza e la sensibilità verso qualcosa che va molto oltre l’aneddoto visivo o letterario contenuti nella foto o nel racconto” (ib.). La fotografia incornicia una parte del reale, la espone, la moltiplica e la riespone, oltre il punto di vista stra-ordinario di autori come Bresson o Brassai, il dettaglio, il frammento visivo di realtà, storicamente entra in scena nella metropoli ottocentesca, l’immagine diventa presenza quotidiana, il particolare assolutamente anonimo che la scansione fotografica mette in rilievo diventa eccezionale, l’occhio dello scrittore si spinge a inquadrare i dettagli della realtà, fissa piccole cose e le fa esplodere. Il tema di un buon racconto – spiega Cortazar – è sempre eccezionale, che non vuol dire fuori del comune. Anzi, magari attinge al perfettamente triviale e quotidiano. Il racconto fa vedere, intensamente. L’occhio diventa azione. Lo sguardo esercita e libera l’occhio sui particolari: l’estasi del particolare, del frammento, del transitorio, del contingente che offre senso al generale. È il contingente di Baudelaire che è anche eterno e immutabile della modernità. È l’osservazione micrologica di Walter Benjamin che riscontra “nell’analisi del piccolo momento particolare il cristallo dell’accadere totale”. È il racconto che nel migliore dei casi contiene, a volte senza che l’autore ne abbia coscienza, “quella favolosa apertura dal piccolo verso il grande, dall’individuale e circoscritto all’essenza stessa della condizione
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umana” (Cortazar 1962, p. 1319). Si è aperta una prospettiva fotografica del mondo. L’occhio dello scrittore e traduttore Julio Cortazar si identifica esplicitamente con l’occhio del fotografo nel racconto Le bave del diavolo che ispira Michelangelo Antonioni per Blow-up nel 1966. Al centro del racconto una fotografia, riprodotta e ingrandita, l’occhio del protagonista diventa quello dell’utente, racconto e fotografia presentano una situazione e ne richiamano altre, manifestano una intensità e una tensione che appartengono al consumatore di sguardi, la permanenza di una fugacità si sfalda e le immagini diventano il reale. Il racconto, come la fotografia, non lavora per accumulo, ma in profondità, di intensità e di tensione. Anche Italo Calvino si interessa a più riprese della fotografia, affrontandola sia con la narrazione che con la scrittura saggistica. L’esattezza è uno degli argomenti delle sue Lezioni americane. L’esattezza è associata alla predilezione per le short stories, alla fedeltà “all’idea di limite” (1988, p. 67). Exactitude per Calvino, ma non è difficile estenderlo alla sua modalità di procedere nella scrittura. Oscillando tra una storia e le possibili infinite storie che restano escluse, Calvino adopera un metodo che è affine alla sensibilità di Cortazar: “…cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un’altra vertigine, quella del dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato dall’infinitesimo, dall’infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell’infinitamente vasto” (pp. 67-68). L’estasi del particolare in Calvino vive una singolare sintonia con le ipotesi dello scrittore argentino. Il particolare si fa vertigine, l’intento è “di dissolvere e rovesciare l’estensione dell’infinito nella densità dell’infinitesimo” (ib.). Ancora un riferimento letterario, questa volta esplicitamente narrativo. C’è un personaggio di Alessandro Baricco, Mormy che appare in Castelli di rabbia (1991), una storia ambientata nell’Ottocento industriale della fotografia e della locomotiva, del Crystal Palace e dei manifesti. Mormy incarna l’“intensi-
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ficazione della vita nervosa” di Simmel (1903), l’“ipertrofia del vedere e del sentire” che se nell’Ottocento ha “il profilo, e il sapore, della malattia” nel Novecento si fa realtà ordinaria. Mormy vede e ferma, blocca la realtà con gli occhi e la mente, esplode la tensione del singolo fermo immagine, la sua è una percezione intermittente. Mormy è in grado di fissare e riconoscere una sequela di immagini fisse, una sorta di “mozziconi di cose perdute”. La sua è una vera e propria “percezione sincopata” (pp. 113-117).
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“L’incessante susseguirsi delle immagini (televisione, streaming video, film) domina il nostro ambiente, ma quando si tratta di ricordare la fotografia è più incisiva. La memoria ricorre al fermoimmagine; la sua unità di base è l’immagine singola. In un’epoca di sovraccarico di informazioni, le fotografie forniscono un modo rapido per apprendere e una forma compatta per memorizzare. Una fotografia è simile a una citazione, a una massima o a un proverbio. Ognuno di noi ne immagazzina centinaia nella propria mente, e può ricordare all’istante”. Cosi Susan Sontag (2003, p. 18). Non credo sia proprio così. O meglio, la considerazione della Sontag può valere per la memoria, la costruzione identitaria della sfera privata, familiare, affettiva. Diversamente è per la fruizione mediale di massa. Quando sono troppe le immagini non fai in tempo a ricordarne una. La costruzione dell’immaginario di massa ha bisogno di innumerevoli passaggi dell’immagine nel sistema mediale e per tempi considerevoli. I giorni che sono seguiti all’undici settembre 2001 o al 3 settembre 2004 ci hanno consegnato una sterminata messe di fotogrammi singoli, una immagine per una storia, ogni storia appesa a una singola fotografia. Per ogni storia un dramma doloroso. Ognuno di noi ha consumato storie e immagini di dolore. Poi, più o meno rapidamente, secondo i casi, devi elaborare, rimuovere, dimenticare. Almeno la puntualità della storia e dell’immagine. Il più delle volte si ferma un dettaglio, metafora e simbolo. A un certo punto del suo terzo libro, Temple Grandin, autistica, professoressa di scienze del comportamento animale, scrive: “Io non vorrei perdere la mia capacità di pensare visivamente”. Capacità del tutto singolari, modalità peculiari di percezione sensoriale, di pensiero e di relazione. “Tutto il mio pensiero – scrive ancora – è in immagini visive” (1995, p. 60).
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Immagini. Noi ricordiamo immagini vaghe e generali, poche singole immagini, loro – gli autistici – conservano tante immagini, ognuna rigorosa, specifica, cronologica. Noi abbiamo bisogno di esonerarci dalla quantità e dall’analiticità dell’informazione visiva, loro fanno il pieno fino alla saturazione. Noi fermiamo pochi punti nel vuoto, riteniamo poche e singole immagini e solo per i tratti salienti, viste, riviste, riproposte, immagini che appartengono e si distinguono all’interno del nostro album dei ricordi, fotografie che circuitano nel sistema dei media con uno sterminato numero di passaggi. Loro passano allo scanner l’immagine, punto per punto, sistemano tutte le immagini nell’archivio mentale, in taluni casi riescono a lavorare con una singolare memoria scorrevole e la controllano. Nel caso della persona autistica, le gerarchie di conoscenza e tradizione occidentale, iscritta nel mondo della scrittura gutenberghiana saltano completamente, l’organizzazione del pensiero segue decisamente altre strade allontanandosi da tutti coloro che utilizzano il linguaggio verbale come strumento principale di connessione e relazione. Gli schemi di pensiero di Temple Grandin sono fortemente associativi. “Il mio schema di pensiero inizia sempre dallo specifico per passare al generale con modalità associative e non sequenziali”. Visualizzare e vedere il mondo in immagini vuol dire per lei riuscire a vedere nella mente un’immagine di un progetto concluso prima di avviarlo. Avere un videoregistratore negli occhi e poterne controllare completamente i comandi, il che certo non è delle persone autistiche più gravi. “Uno dei più grandi misteri dell’autismo è la straordinaria capacità della maggior parte delle persone autistiche di eccellere nelle abilità visuospaziali, fornendo invece prestazioni estremamente scadenti nelle abilità verbali” (p. 23). Il che, per esempio ricorda anche le grandi potenzialità visuospaziali di chi non può sentire e usa il linguaggio dei Segni. Ancora Temple Grandin: “Essendo autistica, io non assimilo spontaneamente le informazioni che molte persone danno per scontate. Diversamente, immagazzino informazioni nella mia testa come fosse un CD-ROM. Quando rievoco qualcosa che ho imparato, faccio partire il video nella mia immaginazione. I video che ho in memoria sono sempre specifici (…). Posso far scorrere queste immagini più e più volte (…). Le persone con autismo più grave hanno difficoltà a interrompere queste infinite associazioni. Io sono capace di fermarle e di riportare i miei pensieri in carreggiata” (p. 28).
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Per agire nel mondo, occorre morire a se stessi (…) L’uomo non sta sulla terra solo per essere felice, neppure per essere semplicemente onesto. Vi si trova per realizzare grandi cose per la società, per raggiungere la nobiltà d’animo e andare oltre la volgarità in cui si trascina l’esistenza di quasi tutti gli individui. Vincent Van Gogh I miei colori devono suscitare sensazioni e pensieri paragonabili a quelli creati dalla musica.
Non è un flusso di immagini a fermarsi nell’immaginario dell’uomo comune. È la forma sintetica che si fa spazio nell’immaginario, riconoscimento tra i pochi simboli che si devono cristallizzare e fermare nella mente. Anche dell’unità di un sogno si fa enorme fatica a recuperare l’integrità, rimangono spesso solo poche tracce, singole immagini. Le due ore del film scorrono rapidamente e il nostro tempo con loro, alla fine ci vogliono i titoli di coda con i fermo immagine a ricordare e fermare, ad attivare la possibilità interattiva dello sguardo che esplora e riconosce. Il dolore degli altri si fa, per Mormy come per noi, immagine sintetica e taglio, discontinuità, con il passato e il futuro, con lo scorrere spazio temporale immediato, con gli spazi e i tempi più complessi e articolati della storia. Difficile ricordare le facce stravolte dei pompieri che lavorano tra le macerie delle Twin Towers. Impossibile attivare un catalogo sterminato e raccapricciante di volti, sofferenze, rovine, che ricorda quello di troppi orrori. Staccando appena l’ombra da terra c’è una testa di spillo che si è conficcata tra la memoria e l’immaginazione del viaggiatore della tarda modernità. È la fotografia del profilo sottile, televisivo, di un Boeing 767 che si conficca nel fianco di un grattacielo. L’undici settembre 2001 materializza il sabotaggio e la
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catastrofe più volte annunciata e consumata spettacolarmente sugli schermi cinematografici, segnando per sempre uno spartiacque storico e le vicende dell’immaginario collettivo. Sono gli scarti di un lampo a costruire ferite visibili, cicatrici indelebili nell’immaginario ordinario che dà sostanza e organizza consapevolmente, o inconsapevolmente, la vita quotidiana di ogni consumatore.
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Riferimenti
bibliografici
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1. Vincent Van Gogh: una pittura che sia dell’anima
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Van Gogh è certamente uno degli artisti contemporanei più amati e che più hanno solleticato la fantasia del pubblico. La sua pittura, così unica ed emotiva, lo rende riconoscibile anche a chi non ha specifiche conoscenze in materia artistica. La sua vita inquieta e il tragico suicidio lo hanno poi reso una vera e propria icona della modernità, simbolo del disagio esistenziale che affligge l’uomo a partire dal momento storico che segue la rivoluzione industriale, con una vita scandita da ritmi sempre più frenetici e da una crescente alienazione. Con Van Gogh comincia il dramma dell’artista che si sente escluso da una società che non riconosce il suo lavoro: una società pragmatistica che assegna al lavoro il solo fine del profitto non può che respingere chi, pensoso della condizione e del destino dell’umanità, smaschera la sua cattiva coscienza. Il posto di Van Gogh è accanto a Dostoevskij: come costui s’interroga, pieno d’angoscia, sul significato dell’esistenza, del proprio essere-nelmondo. E, naturalmente, si pone dalla parte dei diseredati, delle vittime: i lavoratori sfruttati, i contadini a cui l’industria, con la terra ed il pane, toglie il sentimento dell’eticità e della religiosità del lavoro. Non è pittore per vocazione, ma per disperazione. Egli nel 1882 così scrive al fratello Theo: “Caro fratello, (...) Che io stia bene o meno, riprenderò a disegnare, regolarmente, dal mattino alla sera. (...) Voglio che tu capisca bene la mia concezione dell’arte. Bisogna lavorare a lungo e duramente per afferrarne l’essenza. Quello a cui miro è maledettamente difficile, eppure non penso di mirare troppo in alto. Voglio fare dei disegni che vadano al cuore della gente. (....) Sia nelle figure che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia sentimentale ma il dolore vero. In breve, voglio fare tali progressi che la gente possa dire delle mie opere: “Sente profondamente, sente con tenerezza”, malgrado la mia cosiddetta rozzezza e forse perfino a causa di essa. (...) Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole – qualcuno che non ha posizione sociale né potrà averne mai una; in breve, l’infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno. (...) È vero che spesso mi trovo nello stato più
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miserando, ma resta sempre un’armonia calma e pura, una musica dentro di me. Vedo disegni e dipinti nelle capanne più povere, nell’angolo più lurido. E la mia mente è attratta da queste cose come da una forza irresistibile. (...) Per quanto riguarda quel che mi dici sulla possibilità che io diventi un completo isolato, non dico che ciò non debba accadere, non mi aspetto altro, e sarò contento se soltanto la vita rimarrà per me possibile e sopportabile. Però ti dico che questo non lo considererei un destino meritato perché in fin dei conti penso di non aver fatto, né farò mai, cose tali da farmi perdere il diritto di sentirmi tutt’uno con le altre creature umane. (...) L’isolamento è già abbastanza duro, è una sorta di prigione. Quanto a me, preferisco stare con quelli che il mondo neppure lo conoscono, come ad esempio, contadini, tessitori e così via, piuttosto che stare con chi appartiene a un mondo più civile. Il che è per me una fortuna.” Vincent è stato un uomo che ha vissuto in solitudine fino a morirne. È come se gli fosse stato imposto di fare la sua parte insostenibile e farla bene, affinché noi ci si possa pascere di cultura. Affinché musei e dizionari conservino una traccia: la traccia della sofferenza impensabile, quotidiana, di un uomo che si dibatteva con tutta la forza che aveva dentro, ma con tanta innocenza. (Viviane Forrester) Nei quadri degli Impressionisti Van Gogh avvertì l’iniziale frattura che si andava stabilendo fra arte e vita. Così la sua pittura si distinse nettamente da quella degli Impressionisti, risultando molto più moderna: per la prima volta l’opera d’arte servì per esprimere sentimenti estremi, di pietà o di terrore, non per comunicare una generica sensazione di piacere o i frutti di una ricerca formale. La combinazione dei colori complementari, in particolare il rosso e il giallo-arancio sullo sfondo in contrasto con verdi e blu, diventò, a partire da Van Gogh, effetto d’opposizione e di tensione. Il processo fondamentale del suo dipingere, lo stesso dell’Espressionismo, è descritto in una lettera al fratello Theo: “Invece di sforzarmi a riprodurre ciò che mi sta davanti agli occhi, io uso il colore in modo arbitrario per esprimermi con forza”. Deformando e semplificando le figure, alterando e rendendo tesi i rapporti cromatici, il pittore annullava la realtà visiva, per la ricerca di una realtà più profonda. Van Gogh si sentiva disperatamente solo e abbandonato quando,
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2. Paul Gauguin: il colore si illumina e diventa musica Nel novembre del 1887, quando Gauguin fa ritorno in Francia
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il 27 Luglio 1890, si sparò un colpo di pistola che due giorni dopo lo portò alla morte. Viveva di poco con i centocinquanta franchi al mese che gli passava il fratello Theo, ma si è suicidato perché non è riuscito a trovare presso gli uomini del suo tempo quel riconoscimento che gli era dovuto. Egli ha venduto nella sua vita un solo quadro (Il vigneto rosso1) e viveva con l’angoscia di essere di peso per suo fratello che lo manteneva. Oggi i dipinti di Van Gogh sono quelli più costosi che siano mai stati battuti da un martelletto dell’asta (un esempio: Il dipinto Il ritratto del dottor Gachet2 è venduto dalla casa d’aste Christie’s, nel 1990 al centenario della sua morte per quasi cento miliardi di lire). Ma come si è formato questo “mito Van Gogh” che certamente sta a monte di questo desiderio di acquisto? Il giornalista Arturo Quintavalle così cerca di interpretare questo fenomeno: “…in Van Gogh la gente sente qualcosa oltre l’artista: la fine disperata, il ricovero in manicomio, la fine solitaria acquistano un senso cosmico, globale (...), ed è questo che determina nel nostro inconscio un profondo senso di colpa. Gioca qui forse anche un aspetto dello “stile” neogiapponese di Van Gogh e la sua possibile lettura come ingenuo, infantile: per questo Vincent diventa il ragazzo buono che tutti noi abbiamo contribuito ad uccidere. Rimedio, espiazione unica possibile? Comprare, comprare, comprare. E venerare. Insomma compriamo Van Gogh perché lo leggiamo come il figlio delle nostre colpe, quelle di una società troppo ricca per sapere dare a chi ha realmente bisogno. (...) D’altro canto noi non vogliamo aiutare i poveri veri e, per salvarci l’anima, compriamo i quadri che ne simboleggiano il mito: per questo quei poveri, quegli esclusi che ci assediano e circondano per le strade e che ci chiudono l’animo di angoscia vivono, transfert assurdo, nei quadri di Van Gogh o nei manifesti acquistati al botteghino delle mostre, o sulle magliette con stampato sopra in bei colori un allucinato autoritratto. Così si risolve il conflitto, e si opera il transfert.”
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dalla Martinica a che cosa sta pensando? Forse alla moglie ed ai cinque figli che è stato costretto a lasciare a causa della miseria, a quella famiglia di cui non ha più notizie ma a cui spera di riunirsi quando arriverà il successo. Ma, sicuramente pensa, anche, alla sua arte della quale non dubita mai e che sente che si sta impadronendo interamente di lui. Egli ha sempre cercato nella vita, e non solo nell’arte, l’evasione. Già dal suo primo soggiorno a Pont-Aven in Bretagna nel 1886, aveva intuito che la ricerca più avanzata del momento nell’arte andava in direzione del primitivo. Gauguin, prima di ogni altro, ha inteso la pittura come strumento della natura, in una ricerca della verità delle cose e dei sentimenti. La sua pittura è un eterno invito a sognare il quotidiano, o meglio a trasformarlo alla luce del desiderio. La sua concezione dell’arte gli impone la ricerca di una verità da scoprire nello stesso momento sulla tela e nella vita. La continua ricerca di mondi incontaminati, esotici e primitivi, porta l’artista a svariati soggiorni a Tahiti dove può vivere pienamente, in armonia con la sua esistenza ormai mutata. “Parto per starmene tranquillo, libero dalla civiltà. Voglio fare dell’arte semplice, molto semplice; per questo ho bisogno di trovare le mie forze a contatto con la natura ancora vergine, di vedere solo selvaggi e vivere la loro vita, senz’altra preoccupazione che tradurre con la semplicità di un bambino le fantasie della mente con gli unici mezzi veri ed efficaci: quelli dell’arte primitiva.” La maggiore delusione del pittore fu di scoprire che la religione e i manufatti veramente tahitiani non esistevano più; infatti, quale colonia francese, Tahiti era stata sottoposta ad un processo di europeizzazione. Inoltre in quest’isola non era mai esistita una tradizione scultorea monumentale. Quindi, Gauguin dovette reinventare una forma di credo religioso del passato basandosi sulle letture, sui racconti orali della tradizione religiosa. Il desiderio di rappresentare-reinventare l’ambiente dell’isola prima dell’avvento deleterio dei colonizzatori europei, utilizzando la mitologia e le leggende maori, appare evidente nel quadro MATA MUA (C’era una volta),3 dove il pittore forgia un immagine del passato in un paesaggio del presente per rappresentare una serie di ricche simbologie. Durante il primo viaggio a Tahiti la tavolozza di Gauguin si schia-
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rì e si ampliò accogliendo nuove gamme cromatiche. Ispirato dai lussureggianti paesaggi tropicali e dalla luce intensa, il pittore creò nuove armonie di colori anche mediante accostamenti audaci ma efficaci, come il ricorrente accordo rosa-giallo-malva-rosso come in FATATA TE MITI (In riva al mare).4 Quando ritorna a Parigi, nonostante il giudizio positivo di Mallarmè: “(…) è incredibile che qualcuno riesca a mettere tanto mistero in tanto splendore”, la maggior parte del pubblico e della critica non riconosce la sua arte e rimane scettica ed insensibile. Era venuto in Europa pieno di speranze e pronto a giocare il gioco della magia dell’ambiente esotico che qui era di moda, ma dovette riconoscere di non essere in grado di farlo come si attendeva da lui il pubblico, in quanto ci teneva troppo alle sue vedute sui tropici. L’artista se ne ritornò deluso in Polinesia da cui non fece più ritorno. Ma Gauguin desiderava rivolgere al mondo ancora un’ambasciata, lasciargli un testamento per mostrare a tutti coloro che lo deridevano e schermivano che cosa avrebbero perso tra breve con la sua morte. Egli mobilitò tutte le sue forze e creò il quadro: (Donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?).5 L’artista ha inteso interpretare qui la vita come un grande segreto. L’incomprensione del mondo trova riscontro in questo suo mettere in risalto l’impenetrabile. Gauguin sta già oltre la storia.
Nel settembre del 1888 Van Gogh propose il suo progetto di scambiare opere con i colleghi con cui intratteneva rapporti amichevoli, secondo l’esempio degli incisori giapponesi. Chiese quindi a Gauguin e ad Emile Bernard che si ritrassero a vicenda, ma entrambi scelsero di dipingere un autoritratto. Per accontentarlo, comunque, inserirono tutti e due nei loro autoritratti un ritratto schematico dell’altro. Gauguin si dipinse nelle vesti di Jean Valjean, il protagonista di “I Miserabili” di Victor Hugo. In una lettera a Van Gogh, egli paragonava l’eroe di questo romanzo, emarginato dalla società ma
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3. Autoritratti
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ricco d’amore e forza interiore, agli artisti non compresi come Van Gogh e se stesso. “Mio caro Vincent, abbiamo esaudito il vostro desiderio, pur se in un altro modo; ma che importa, se poi il risultato è lo stesso? I nostri due ritratti. Sento il bisogno di spiegare quel che ho inteso fare non perché voi non siate in grado di percepirlo da solo, ma perché non credo d’essere riuscito nel mio intento. La maschera di brigante malvestito e possente come Jean Valjean, che ha una sua nobiltà e dolcezza interiore. Il sangue in fregola inonda il volto, e i toni da fuoco di fucina che contornano gli occhi indicano la lava incandescente che accende la nostra anima di pittori.(…) E quel Jean Valjean perseguitato dalla società, messo fuori legge, col suo amore e la sua forza, non è anche l’immagine di un impressionista odierno? Dandogli i miei tratti, voi avete la mia immagine personale come pure il ritratto di tutti noi, povere vittime della società, che ci vendichiamo facendo del bene. Ah, mio caro Vincent, avreste di che divertirvi a vedere tutti i pittori di qui impregnati della loro mediocrità come tanti cetrioli sott’aceto! Hanno un bell’essere grossi, lunghi e torti e bitorzoluti... sono e saranno sempre dei cetrioli. Tolta l’arte, che sporca esistenza: valeva davvero la pena che Gesú morisse per tutti questi rozzi fantocci? In quanto artista, sì; in quanto riformatore, non credo.” In cambio dell’autoritratto ricevuto da Gauguin, Van Gogh invia un autoritratto in cui si raffigura a testa rasa su un fondo verde-blu di grande impatto, con l’aspetto di un bonzo, un seguace di Buddha, “come un giapponese”, per dirla con le sue parole: “Mio caro Gauguin, ho un mio ritratto, tutto cinereo – quel color cinerino che si ottiene mescolando del veronese con la mina arancione – su fondo veronese chiaro, in giacca color rosso bruno. Ma, esaltando anch’io la mia personalità, cercavo piuttosto il carattere di un bonzo, semplice adoratore del Budda eterno. M’è costato fatica, ma occorrerà ch’io lo rifaccia interamente, se voglio riuscire a esprimere la cosa. Dovrò anche guarire un altro po’ dall’abbrutimento convenzionale della nostra cosiddetta condizione civile al fine di avere un miglior modello per un quadro migliore…” Come l’autoritratto di Gauguin era stato ispirato dalla lettura dei Miserabili, quello di Vincent si ispira alla lettura di un articolo di E. Burnouf6 “Il Buddismo in Occidente”. Questo studio sottoli-
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nea l’evidente rapporto della morale buddista con quella evangelica di cui Vincent si è fatto una volta per tutte apostolo, egli così scrive a Burnouf: “Come non esiste un dio personale, non esiste santo sacrificio, non esiste intermediario. Quel Budda non è un dio che si implora, fu un uomo che giunse ad un grado supremo della saggezza e della virtù. Il buddista non lo prega, egli medita sulla tomba del maestro, depone qualche fiore davanti alla sua immagine.Tale è il culto buddista in tutta la sua semplicità”. 4. Un tentativo di collaborazione
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Fra le pagine più intense ed emozionanti della storia dell’arte contemporanea sicuramente un posto di riguardo spetta all’incontro fra Vincent Van Gogh e Paul Gauguin. I due pittori vissero per un breve periodo assieme ad Arles, nella famosa “casa gialla” che Van Gogh affittò nel 1888, proprio per condividere insieme ad altri artisti il tortuoso sentiero della pittura. Vincent arredò la casa pensando all’arrivo dell’amico; sistemò lo studio con l’intenzione di condividerlo in ogni momento con Gauguin, decorò le pareti con dodici grandi tele di girasoli: Tutto sarà una sinfonia in blu e in giallo, affermò il pittore con la speranza di creare una collaborazione che non avrebbe più avuto eguali nella storia dell’arte. Da qui si intuisce quanto forte fosse l’emozione che permeava l’aspettativa dell’arrivo di Gauguin ad Arles da parte di Vincent. Gauguin rappresentò nell’immaginario di Van Gogh l’artista per eccellenza: ne ammirò le opere, condivise con lui la forza che l’arte donava alle loro esistenze di “frontiera” e nello stesso tempo gli invidiò la capacità anche di vivere una vita vera, fatta di affetti familiari, di viaggi. Paul Gauguin fu insomma per Vincent Van Gogh una sorta di
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musa ispiratrice, un modello di arte e di vita che mai sarebbe dovuto tramontare. “…Credo che se fin d’ora voi cominciaste a sentirvi il capo di questo atelier, che noi cercheremo a poco a poco di adibire a rifugio per molti a mano a mano che il nostro accanito lavoro ci fornirà i mezzi per portare a buon fine il progetto, io credo dunque che allora vi sentirete relativamente consolato delle disgrazie attuali dovute alla miseria e alla malattia, considerando che probabilmente noi stiamo dando la nostra vita per una generazione di pittori che durerà nel tempo. Per la stanza in cui alloggerete ho fatto appositamente una decorazione, ‘il giardino di un poeta’. Il banale giardino pubblico ospita piante e arbusti che fanno pensare ai paesaggi in cui spesso ci si immagina di vedere Botticelli, Giotto, Petrarca, Dante e Boccaccio. Avrei voluto dipingere quel giardino in modo tale da far pensare insieme al vecchio poeta (di Avignone), Petrarca, e al nuovo poeta di qui: Paul Gauguin. Per maldestro che sia questo tentativo, probabilmente vedrete comunque da esso che ho pensato a voi preparando il vostro atelier con grandissima emozione. Confidiamo nella riuscita della nostra impresa, e voi continuate a sentirvi a casa vostra qui. Sono piú che convinto che tutto ciò durerà nel tempo. Vi stringo forte la mano e credetemi Vostro Vincent.” Una lettura ha influenzato Vincent in questa seconda parte della lettera. Si tratta di un articolo dedicato da Henri Cochin a Boccaccio, che mette in evidenza l’enorme influenza di Petrarca su Boccaccio e canta l’amicizia che unisce questi due geni del Rinascimento: La loro amicizia fu sempre basata, come loro desideravano, sull’amore della virtù, della scienza, sul comune desiderio di salvezza delle loro anime. È un raro e meraviglioso spettacolo, uno dei più belli che ci possa offrire il XIV secolo. Il sentimento che lega due uomini tanto diversi, ciascuno così assoluto nelle sue opinioni e nei suoi pregiudizi, ciascuno così appassionato e fra i più nobili che possa concepire l’umanità. Una schiettezza coraggiosa e perfino brutale, una dedizione continua, una delicatezza meravigliosa ed una toccante indulgenza reciproca hanno innalzato Petrarca e Boccaccio al di sopra del tempo e di loro stessi: “l’ami-
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Van Gogh e Gauguin rappresentano un riferimento fondamentale nella percezione e nella esaltazione del colore, tanto che le loro
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cizia è la prima cosa al mondo dopo la virtù” aveva detto Petrarca. Commosso da questo testo, ed un po’ nella speranza di una simile amicizia che Vincent attende ora Gauguin. E molto presto l’incanto di un incontro duraturo e fecondo finì: dopo appena sessanta giorni di convivenza l’urto tremendo delle due vulcaniche personalità procurò uno scontro che non si sarebbe mai più sanato e fu proprio Gauguin il primo ad accorgersene: “Tra i due esseri, lui e me, l’uno un vulcano, l’altro anche in ebollizione, c’era in qualche modo, all’interno una lotta in preparazione. Anzitutto trovai in tutto e dovunque un disordine che mi urtava. La scatola dei colori era appena sufficiente a contenere tutti i suoi tubi mai richiusi, e malgrado tutto questo disordine, questo pasticcio, un tutto brillava sulla tela”. Fra i due pittori vi erano delle divergenze inconciliabili. Le loro concezioni sull’arte apparivano più lontane di quanto loro stessi potessero immaginare ma non meno incisero sul traumatico distacco le loro forti e complesse personalità. Forse i due dipinti che meglio rappresentano questo difficile rapporto fra i due grandi artisti sono: la sedia di Vincent7 (Fig. 1) e la sedia di Gauguin8 (Fig. 2). Un dittico affascinante che è più di una natura morta, perché evoca e simboleggia gli esseri umani a cui questi oggetti appartennero. Le sedie si guardano, invitano al colloquio e parlano di fiducia. Erano il punto d’incontro quotidiano di Vincent e del suo ospite. I due pittori si sedevano per conversare sull’arte e sul mondo. Nei due dipinti Vincent implora un’amicizia: la sua sedia dimessa con l’amata pipa sul sedile e quella più ricercata e confortevole per Gauguin. Andandosene, Gauguin aveva distrutto le speranze di creare nel Sud una comunità di artisti: “Lo sai, mi è sempre sembrato stupido che i pittori vivano da soli per sé. Ci si perde sempre quando si è concentrati su se stessi” (Vincent Van Gogh) Insieme, i due dipinti, suscitano amicizia ed armonia, separati, parlano dell’impossibilità di una gioia dell’essere, definiscono le contrapposizioni del giorno e della notte.
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sofferte ricerche sono state a lungo utilizzate da molta pittura del XX secolo.
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5. Il riconoscimento nell’arte e il contributo delle nuove tecnologie
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Uno studio che voglia aiutare ad una comprensione la più approfondita possibile di un artista e della sua opera d’arte deve far leva su di un potenziamento e una armonizzazione delle capacità percettive del fruitore. Infatti, quello che conta rispetto alla conoscenza, è la funzione preminente attribuita in tutte le tradizioni alla facoltà dell’udito e della vista ed all’effetto pervadente sulla persona nei termini di un “assaporamento” che coincide con lo stesso sapere (dal latino “sàpere” = gustare). La stretta relazione tra vista ed udito risale, infatti, ad una coincidenza semantica antica. Per esempio, in Sancrito suono e luce sono indicati con un unico termine “svar”. È da questo concetto di legame tra udito e vista, tra suono ed immagine che vogliamo, attraverso questa cultura iconico-orale dei nuovi linguaggi audio-visivi delle nuove tecnologie, essenzialmente partecipativa, sinestetica, legata al mondo dei sensi e delle emozioni, proporre un altro modo di studio dell’opera d’arte che non è solo teoretico o solo estetico o solo simbolico, ma armonico ed ampio. La multimedialità sta diventando un modo di essere trasversale che mette insieme diverse tecniche di linguaggio che coesistono e si integrano vicendevolmente, e si configura anche, in maniera figurativa, per abbracciare stratificazioni omogenee ma discontinue all’interno di percorsi espressivi. Partendo dal presupposto che l’apprendimento di qualunque materia e, quindi, anche per l’opera d’arte deve essere centrato sui casi piuttosto che sulla conoscenza astratta, stiamo proponendo progetti teatrali multimediali (Arti visive e Musica) dove diversi elementi, recitazione, musica dal vivo e proiezione di un ipertesto multimediale creato allo scopo creano un ambiente immersivo in cui lo spettatore riesce a percepire sensazioni nuove. È noto che un ipertesto ben progettato e ben implementato ha la forte validità culturale di permettere a chi lo usa di seguire un proprio percorso, il che sembrerebbe in contrasto con il teatro
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dove, in genere, il percorso è già definito. Ma se pensiamo alla molteplicità di percorsi dell’ipertesto, vediamo come esso può cambiare adattandosi facilmente a diverse performance, a diverso pubblico, a diversi contenuti culturali da veicolare. Lo spettacolo è realizzato con l’attore che recita, i musicisti che creano l’ambiente sonoro e l’ipertesto multimediale che realizza l’ambiente visivo. Spesso non si prendono in considerazione i processi che si attuano nel fruitore e che coinvolgono le sue emozioni e la sua attività cognitiva tanto da realizzare una reciproca integrazione tra questi due aspetti della personalità: “… nell’esperienza estetica le emozioni funzionano cognitivamente” ed i sentimenti e le sensazioni possono essere guide preziose all’interpretazione. Descriviamo a livello esemplicativo alcuni progetti realizzati in questo ambito: – Spettacolo: “Vincent Van Gogh incontra John Coltrane” In questo spettacolo si è voluto mettere in risalto la vita e le opere di due grandi artisti: il grande pittore olandese Vincent Van Gogh ed il grande musicista afro-americano John Coltrane, entrambi artisti dalla grandissima sensibilità e dalla geniale creatività. Nello spettacolo multimediale, si ha la possibilità di scoprire l’uomo-pittore Van Gogh nella sua globalità: un uomo religioso che va scalzo come San Francesco e vive povero in mezzo ai minatori del Borinage, un Van Gogh battagliero che pilota gli scioperi e chiede ai padroni delle miniere di ridurre i propri utili e di distribuirli ai minatori. O si rimane impressionati nello scoprire uno stacanovista capace di produrre nel periodo di Auvers, in 60 giorni, ben 70 quadri. Si superano i luoghi comuni che vedono Van Gogh dipingere spinto dall’emotività o dalla sua pazzia per scoprire un pittore che prepara le sue opere con assoluto rigore scientifico. E così, continuando a navigare fra i quadri dell’olandese, le lettere scritte al fratello Theo lette dalla voce narrante, le cronache della vita, i testi dei critici, e da qui saltando ai documenti fotografici, la casa nel Borinage, l’ospedale di Arles, la camera da letto con la sedia di paglia, si arriva con il fare conoscenza con suoi compagni d’avventura, Gauguin o il dottor Gachet. Nello stesso tempo, attraverso la musica dal vivo, le immagini ed il commento della voce narrante, si può anche fare conoscenza
Lecce, palazzo Marrese, particolare di Cariatidi (foto Ronny Leva)
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stefano cristante scienze della comunicazione: riconoscimenti e risentimenti
Prima che la comunità scientifico-accademica accolga al proprio interno una nuova disciplina si verificano due fatti tipici: a) le discipline tradizionali, dopo aspri dibattimenti, accettano il nuovo possibile specialismo, che ha già dimostrato la propria efficacia al di fuori dei recinti accademici; b) la nuova disciplina ricerca una “formula scientifica” che consenta di essere assimilata alla tradizione. Il primo comportamento (a) implica conseguenze quasi certe: l’accademia assimila per disinnescare, quindi accetta “sub iudice” il nuovo ingresso, limitando gli investimenti didattici e di ricerca e tentando di circoscrivere gli effetti dei nuovi curricula scientifici. Il secondo comportamento (b) implica l’adattarsi della nuova disciplina ai metodi e agli strumenti interpretativi delle discipline tradizionali. Anche le “scienze della comunicazione” sono segnate da questo percorso. Dopo che negli anni ’70 e ’80 il volume mediatico complessivo è cresciuto impetuosamente nel pianeta, le università si sono aperte a nuovi corsi di laurea aventi per oggetto teorico la comunicazione. Tuttavia, scandagliando i piani di studio e le denominazioni disciplinari, ci accorgiamo della scarsa autonomia del nuovo campo scientifico: abbondano le sociologie e le psicologie, le economie e le storie. “Della comunicazione”, si aggiunge in modo talvolta spregiudicato. Intendiamoci, non è certo un male se le discipline tradizionali delle scienze sociali si confrontano con la comunicazione. Eppure spesso la sensazione è che si tratti di una sostituzione e non di un accompagnamento del nuovo orizzonte tematico: ogni disciplina frammenta il proprio insegnamento in una serie di micro-impianti (elementi di storia della comunicazione, effetti sociali dei media, elementi di economia dei media, relazione tra nuovi media e globalizzazione, eccetera) che non
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consentono un’esplorazione in profondità. Le stesse “tecniche”, che in questo settore sono fondamentali, vivono uno status quasi laboratoriale, quindi ottimo, sulla carta: si rivelano invece quasi sempre dei surrogati delle discipline già citate, con tanto di schemini teorici sempre più portati alla estrema riduzione di complessità. Così i tanti corsi di laurea in scienze della comunicazione possono rivelarsi inconsapevoli operazioni di riciclaggio per interpretazioni già assestate, prive del valore euristico di cui la ramificazione mediale postmoderna ha urgente necessità. Sono solo degli esempi, e in più assolutamente generali, per definire l’amalgama prodotto da “Scienze della comunicazione” ancora insufficiente. Riacciuffare alcuni nodi teorici sulle comunicazioni e sui media potrebbe rivelarsi di qualche interesse per fare il punto sul grado di riconoscimento (e non solo di riconoscibilità) che il nostro campo di studi possiede in questo momento storico.
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“I media non sono buoni o cattivi di per sé, dipende dall’uso che se ne fa”. Non è certo un caso che McLuhan si sia rifiutato di condividere questo pensiero di buon senso, diffuso nella sua epoca come nella nostra. McLuhan chiede “a che servono i media”, così come ci si può interrogare su un oggetto qualsiasi, su una pistola o su una torta alla panna. Naturalmente si può usare il calcio di una pistola per piantare un chiodo, e si può usare una torta alla panna per tirarla in faccia a qualcuno, ma di norma la pistola serve per sparare e la torta per dare gioia alle papille gustative degli apprezzatori. Per McLuhan i media servono per estendere i nostri sensi, cioè i nostri ricettori cognitivi ed esperienziali. Non è perciò indispensabile soffermarsi unicamente sui contenuti (messaggi) mediali quanto piuttosto sulle forme che i media assumono. E la forma più complessa e compiuta dei media contemporanei è il loro impatto ambientale, dove per ambiente si intende soprattutto quello mentale, la sede dei processi di perenne movimento dell’individuo postmoderno.
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In questo senso l’affermazione estrema che le comunicazioni di massa hanno creato la società di massa diviene più realistica. Per molti accademici è facile accusare di determinismo i portatori di questa interpretazione. E perciò depotenziarne la visione, ridurla a una parodia di ricerca scientifica, svillaneggiarla. Provo a dirla in un altro modo: Leni Riefensthal ha inventato il nazismo. È più chiaro? Solo chi ha rappresentato audiovisivamente il nazismo, chi ha colto la necessità delle coreografie di massa negli anni ’30, chi ha fotografo l’individuo “ariano”, le esuberanze fisiche, l’ordine, la compattezza sociale, la potenza d’urto delle tecnologie e degli eserciti è riuscito a dare infine vita a quel tipo di razionalizzazione totalitaria della politica. Il potere di chi sta rappresentando un’epoca è il potere specifico dei media. Ecco perché si può parlare dell’opera della Riefensthal come delle fondamenta teoriche del regime nazista. La regista ha dato vita all’espressione potenziata dell’ideologia nazista, saldando nell’immaginario collettivo le tessere sparpagliate del credo hitleriano (già a sua volta collage disordinato di altre ideologie, come indica la stessa denominazione di nazional-socialismo).
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Possiamo immaginare per un momento che i media di massa non fossero ancora attivi durante il nazismo? Non credo. Una visione del totalitarismo nazista senza la radio onnipresente, senza il cinema e i roboanti cinegiornali, senza adunate di massa propagandate dalla stampa sarebbe semplicemente impossibile. Fin dalle prime battute, il nazismo al potere implica la completa occupazione mediatica e l’uso continuo e sistematico dei media nella promozione ideologica quotidiana a scopi organizzativi e rappresentativi. Ciò implica un uso nuovo di mezzi all’epoca nuovi, nonché investimenti produttivi e creazione di specialismi tecnici. Da strumento puro e semplice, i primi media di massa (radio e cinema) divengono ambiente tecnologico indispensabile, propaga-
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tori di comportamenti direttivi, ammirata esegesi della hitleriana volontà di potenza, di cui il Furher è vivo corpo mediatico, sacerdote e tramite tra l’ideologia mediatizzata e le masse mobilitate. Ecco come i media dovrebbero innanzitutto entrare nell’interpretazione filosofica del ‘900: attraverso la loro costituzione tecnologica. I media sono strumenti che funzionano grazie a macchine che usano energia elettrica, la materia prima della contemporaneità. La tecnologia che riguarda i media vive in una rete di connettività universale: rappresenta un nuovo standard tecnico ma lo fa vivere nella densità del contatto planetario. Inoltre i media propongono nuove tecniche, a cominciare da quelle di trasmissione per finire a quelle di confezionamento del prodotto mediale finito. Il marketing è una disciplina che senza i media non avrebbe semplicemente senso. L’essenza tecnica dei media e la loro costante inventività linguistica flirtano con la Tecnica, protagonista di tanta parte del pensiero filosofico novecentesco.
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Questo versante ontologico – dove l’ontologia riguarda l’accadere della piena Modernità nel mondo, l’esserci heideggeriano – è stato misconosciuto dagli intellettuali del secolo scorso. L’improvviso risveglio di interesse dei filosofi nei confronti dei media (si pensi al caso Popper) è tutto da un’altra parte. I media vengono affrontati come strumenti di in-cultura, di blocco della conoscenza autentica. È tutta una generazione intellettuale – in blocco, senza troppe distinzioni ideologico-politiche – che prende il vicolo cieco del dotto censore. Frattanto, mentre Popper, Bourdieu, Sartori ed emuli si scagliavano contro la tv cattiva maestra nasceva l’Internet e il world wide web.
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La filosofia, fino ad ora, non ha degnato i media di uno sguardo se non ipercritico, quasi malevolo. Le altre scienze sociali invece, a tutta prima sembrano prende-
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re sul serio i mezzi di comunicazione. La sociologia e la psicologia vedono con chiarezza che i media sono agenti di cambiamento sociale e cominciano a studiarli. Lo fanno come sono capaci, definendo, analizzando e classificandone i contenuti, esibendo ricorrenze e inferenze statistiche nate dalle inchieste con questionario e dando vita a una molteplicità di esperimenti di laboratorio. Nel giro di vent’anni i sociologi passano dalla certezza che i nuovi mezzi di comunicazione possano dirigere a piacimento gli individui esposti ai loro messaggi a una concezione di influenza assai più ridotta. Poi, attraverso itinerari di studio sempre più sofisticati, la ricerca sui media ha incontrato approcci antropologici, etnografici e semiotici. Si è scoperta la relazione quotidiana tra pubblici e media, si è riconosciuta progressivamente l’autonomia dei pubblici dalla pervasività dei messaggi e si è fatto spazio a un uso non scontato dei media da parte dei pubblici. Passi in avanti, certo, ma allora perché la sensazione dominante è che le scienze sociali arranchino dietro a spiegazioni deboli, troppo deboli? Perché, nonostante la ricerca abbia giustamente abbandonato la deriva delle indagini puramente quantitative (questionari strutturati, sondaggi, eccetera) e abbia sperimentato tecniche qualitative utili per un’indagine in profondità (interviste, focus group, storie di vita, ecc.), la sensazione è che se ne sappia ancora poco su come viviamo il nostro rapporto con i media?
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Gran parte delle difficoltà contemporanee relative allo studio dei media deriva dal fatto che i media stessi svolgono due funzioni sociali in una sola epifania. I media sono insieme lo scenario degli avvenimenti planetari e uno degli attori principali degli stessi. Scenario e attore. Palcoscenico e voce narrante. La televisione (intesa come insieme di canali articolati in specifiche emissioni) è il palcoscenico di un conflitto (politico, sindacale, civile, ecc.), ma il modo in cui la tv rappresenta il conflitto influisce sul conflitto stesso. Questa compresenza di scenario e di attorialità rende complesso lo studio della comunicazione mediatica. Non c’è quindi molto da stupirsi se le scienze sociali tradiziona-
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li si sono trovate di frequente in vicoli ciechi interpretativi ed euristici.
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L’homo sapiens comunica con i suoi simili, ma si può parlare di comunicazione anche nel regno animale. In tutte le organizzazioni viventi terrestri si può documentare l’esistenza di una funzione specifica che consente alle specie di comunicare all’interno e all’esterno, cioè quantomeno di emettere, ricevere e decodificare segnali e messaggi. Il genere umano ha enormemente perfezionato le tecnologie della comunicazione, inventando il linguaggio, la scrittura e l’elaborazione visiva e audiovisiva. L’homo sapiens postindustriale parla, scrive, fotografa e riprende con la telecamera. Intorno all’epoca del solo linguaggio orale esistono ricostruzioni unicamente ipotetiche. Sulle altre, con l’eccezione degli albori della scrittura – ancora avvolti nel mistero – esistono precisi documenti, che ci raccontano il rapporto tra le forme comunicative e gli sviluppi delle conoscenze. Attraverso la scrittura, per esempio, gli individui hanno documentato fondamenti, metodi e tecniche delle scienze fisico-matematiche e di tutte le altre. Sempre scrivendo, gli individui hanno formalizzato la disciplina storica, che da allora fornisce i repertori interpretativi del nostro passato. Inoltre dalla fotografia a Internet la quantità di immagini viste e incamerate dal cervello umano è cresciuta a dismisura: l’esperienza visiva di un comune terrestre del XXI secolo è imparagonabile a quella di un terrestre di un paio di secoli fa, tanto la prima è così incommensurabilmente più vasta. Perché allora – considerato il peso della comunicazione in sé nell’organizzazione umana e soprattutto nei tempi recenti – perché allora la comunicazione risulta nel corso del tempo così poco studiata dai terrestri?
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Propendo per la tesi che è più facile studiare un contenuto che un contenitore, un’azione che un ambiente, una mappa che un territorio. Il territorio non si fa leggere come una mappa. Il territorio confonde l’osservatore, perché chi osserva potrà
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rispondere solo sulla porzione di spazio che gli è fisicamente a disposizione. Immersi come siamo nella comunicazione, la sentiamo senza riuscire a leggerla. Sentiamo le nostre insufficienze in maniera drammatica proprio ora, nella nostra epoca, perché viviamo una trasformazione ed un’estensione impressionanti delle tecnologie e delle possibilità comunicative. È chiaro ormai a molti che la via digitale al trattamento dei dati (nell’accezione più vasta possibile) segna un nuovo confine tra Modernità e Postmodernità: le tecnologie sono connesse tra loro e connettono infinite combinazioni concettuali e configurazioni tecniche, dando vita a infiniti prodotti digitali. L’antica idea dei corsi e ricorsi storici di Giovanbattista Vico potrebbe essere rivisitata, ipotizzando che le ricorrenze storiche possano valere almeno nella successione di fasi dei diversi livelli dell’organizzazione umana. Vale a dire che la società industriale, per esempio, ha avuto una fase antica, medievale e moderna. E così anche la nostra società postindustriale. Ci troveremmo perciò oggi in una sorta di antichità postindustriale, segnata da un’enorme difficoltà ad affrontare la globalizzazione senza smantellare lo stato sociale, il Welfare, costruito durante gli ultimi scossoni della tarda età industriale. La connettività (digitale) globale è l’espressione più fantasmagorica della nostra antichità postindustriale. I media sono protagonisti di questa fase: progettano, attuano e dirigono la connettività globale.
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McLuhan ha descritto una fisiologia dei media, indicandoli come estensioni sensoriali. Un certo numero di pensatori (da Morin ad Abruzzese) ha sottolineato la potenza evocatrice dei media nella fondazione dell’immaginario moderno e postmoderno. Se questi sono i due vettori principali di avvio della ricerca sui media, due sono anche le principali dichiarazioni di principio. La prima è che lo studio dei media nasce come “utopia del comunicare”: sostiene in sostanza che gli individui, aumentando l’interesse e l’intensità dello studio della comunicazione, possano accresce-
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re il bagaglio (tecnico e umanistico insieme) dell’homo sapiens. Tale versante implica – in linea teorica – l’aumento di interesse nei confronti dell’atteggiamento umano cooperativo, con una crescita del volume degli scambi cognitivi e una riduzione progressiva del conflitto non fisicamente violento. Nella pratica quotidiana l’utopia del comunicare è viva solo a tratti, giacché è ben presente ai decisori postindustriali che i media sono – anche – apparati tecnici e narrativi da usare come armi a fianco delle armi propriamente dette, padroneggiati da individui specializzati tecnicamente, abili nella sovrapposizione dei linguaggi e nel mettere in scena una narrazione principale. Ma i media non sono – solo – macchine: sono ambienti di interazione umana, e come tali tendono a definire un flusso di produzioni e consumi, innestandosi nel sistema sociale e forzandone le coordinate perché si tratta di ambienti permeabili dall’insieme degli eventi. Si può sperare di controllare completamente i media, ma i media sono porosi, lasciano passare informazioni anche non gradite o non previste, si interfacciano tra loro (internet parla ormai direttamente agli operatori dei media generalisti, per esempio) e rilanciano i contenuti universalizzandoli ed emotivizzandoli. Ciò che resta della dichiarazione utopica del comunicare è la certezza della porosità dei media. Sembra poco e invece è molto, basti pensare alle immagini non previste della guerra anglo-americana in Iraq.
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La seconda dichiarazione di principio della ricerca sui media è che essi, costituendo un nuovo ambiente dell’organizzazione umana, possono essere studiati con profitto solo immergendosi profondamente al loro interno. Accettando il fatto che l’ambiente mediale raccoglie gli individui in un continuo flusso di emozioni che definisce comportamenti sentimentali, più complessi da analizzare di quelli logico-razionali. Forse anche le emozioni sono frutto di elaborazione logicorazionale, talmente veloce da sfuggire al controllo individuale e talvolta collettivo, capace di creare un surplus reattivo che chiamiamo – in mancanza di migliore definizione – impulso. La nostra reazione a una determinata narrazione mediale può essere considerata razionale oppure no. Studiare i media vuol dire accettare la
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sfida di nuove razionalità che si presentano sotto forma di flussi emotivi, e saper distinguere tra le strategie di narrazione che puntano al puro sentimento (per esempio la fiction) e quelle che puntano all’organizzazione del consenso attraverso il sentimento. Le scienze della comunicazione possono dunque avere per oggetto le emozioni, intese come manifestazione decisiva del sentire contemporaneo, ambito che si presenta fondamentale per cogliere i caratteri dell’odierno mutamento sociale. Emozioni e opinioni sono territori confinanti. Opinioni e atteggiamenti sono territori confinanti. E dagli atteggiamenti all’espressione specifica sotto forma di comportamenti individuali e collettivi (politici, culturali, estetici, eccetera) la strada è breve. Se è vero che uno degli ambiti principali nello studio dei media è quello emozionale, le metodologie e le tecniche di indagine dovranno rendere praticabile una Erlebnis (esperienza vissuta) da parte del ricercatore che non ha eguali nelle altre discipline, e a cui solo l’empatia etnografica sembra avvicinarsi. Ogni studioso di media è partecipe (almeno) come spettatore del suo oggetto di studio. Non solo non deve abbandonare questo ruolo – e anzi, diversamente dagli altri scienziati, rivendicarlo – ma deve ritenersi costantemente disponibile a un monitoraggio della propria esperienza mediale mentre esamina e riflette sulle esperienze mediali collettive. C’è quella bella citazione di Edgar Morin ne Lo spirito del tempo (1962), che non invecchia: “Importa inoltre che l’osservatore partecipi all’oggetto della sua osservazione; occorre in certo senso amare il cinema, aver piacere a introdurre una moneta in un juke-box, divertirsi con le macchine a gettone, seguire gli incontri sportivi alla radio e alla televisione, canticchiare l’ultima canzonetta (…). Occorre conoscere il mondo senza sentirvisi estranei: divertirsi a vagabondare (flaner) sui grandi boulevard della cultura di massa”.
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Se guardiamo la televisione del XXI secolo ritroviamo quasi sempre questi tre macro-formati: individui che giocano (quiz, sport, reality show, eccetera), individui che confliggono e che muoiono (Tg, Gr, informazione in genere) e individui che parlano (talk show, infotainment).
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Questi macro-format sono altrettante aree di rappresentazione dell’uomo mediatico, cui si affiancano con grande potenza i nuovi media interattivi che sono portatori di una nuova pragmatica dell’interazione (interfaccia). Sono i nuovi media che consentono un nuovo tipo di interazione tra individui e tra individui ed eventi, e questi fenomeni sono sottolineati dal nuovo ruolo – sempre più tracimante – del pubblico generalista all’interno dei media tradizionali (elemento fondamentale per capire il successo dei reality show animati da sconosciuti). Gioco, conflitto e opinione formano un trittico identificativo dei consumi dell’individuo contemporaneo. È possibile che questo trittico diventi obsoleto nel momento in cui il consumo potrà essere facilmente personalizzato (dai canali satellitari al digitale terrestre a chissà cos’altro), e in cui ciascuno costruirà un proprio palinsesto in completa autonomia. È però presumibile che gioco-conflitto-opinione continueranno per del tempo a rappresentarsi attraverso i media generalisti, canale di trasmissione sottoposto al lavoro ai fianchi dei media interattivi ma dotato di una organizzazione gerarchica che semplifica i controlli e che ha sedimentato una memoria di tecniche, apparati, linguaggi.
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La forma più insidiosa, melliflua e frustante della tv generalista dei nostri giorni (neotelevisione) è l’infotainment, che raccoglie il gioco, il conflitto e l’opinione. Studi neurologici testimonierebbero che l’attenzione del pubblico verso i programmi televisivi sarebbe di poco superiore all’attività cerebrale durante il sonno. Mi riesce difficile crederlo. L’infotainment eccita gli spettatori, e un vorticoso snodarsi di spettacoli, rissose divergenze e testimonianze a volte toccanti spingono a prendere parte a una socializzazione intensificata, ma sterile. L’infotainment è frustrante perché stimola a partecipare e prendere posizione, a dire la propria opinione, solo che nessuno la richiede. Molti degli argomenti trattati in questo format troverebbero l’audience in possesso di opzioni di-scorsive, di opinioni. Ma le opinioni richiedono di essere espresse, oppure restano a livello di atteggiamenti impliciti. La partecipazione si misura così in maniera indiretta, attraverso gli indici Auditel o eventuali lettere ed e-mail successivamente pervenute in redazione.
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Invece la prosecuzione della tv, o almeno di questa tipologia di emissioni, spinge alla città, alla discussione pubblica, allo spazio collettivo condiviso. Ma questo spazio non c’è, l’organizzazione dell’esterno non-televisivo ha regole diverse dall’interno televisivo, ma non per questo meno complesse. Partecipare, essere affiliati a una struttura che garantisce discussione e iniziativa, non è un’azione sociale semplice. E soprattutto non c’è un continuum tra nonluogo televisivo (pur collocato nello spazio domestico) e luoghi dell’aggregazione. Tuttavia imputare questo iato alla tv è inutile, oltre che ingiusto. La responsabilità della frequente amarezza collettiva di fronte alla frustrazione da infotainment va come minimo condivisa anche dalle organizzazioni della vita associativa (in primis quelle tradizionali, partiti, sindacati, corporazioni) che progressivamente si sono dimostrate incapaci di rinnovarsi nelle forme e nei modi della comunicazione, e che hanno silenziosamente assecondato la riduzione della base di massa a vantaggio di burocrazie di specialisti che rispondono prevalentemente a se stessi.
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Tuttavia è anche vero che nelle ultime stagioni si sono presentati sulla scena della comunicazione politica nuovi interlocutori dei media e dei tradizionali apparati partitici. Di cosa si tratta? Direi di una curiosa insorgenza di minoranze attive, a base intellettuale, e che si dilatano verso un bacino di massa in concomitanza con momenti fortemente promossi e pubblicizzati (soprattutto cortei e/o manifestazioni a base di comizi e musica). La base intellettuale varia molto a seconda del segmento analizzato: la presenza di uomini della cultura, dello spettacolo e dell’accademia era molto evidente nel movimento tutto italiano dei “girotondi”, mentre nel movimento no global (poi variamente ridenominato) le influenze intellettuali sono cosmopolite e giungono sganciate dal governo quotidiano del movimento, in genere affidato ad attivisti che tentano una disperata differenziazione dal vecchio archetipo del militante ideologico, non sempre riuscendoci. Variamente portate avanti, le battaglie di questi movimenti – fondati su minoranze e insieme di massa, fenomeno che potrebbe rappresentare una costante dell’era delle moltitudini – incontrano fatalmente la dimensione mediatica. Ne emergono esperienze diverse: i girotondi si sono dimostrati abilissimi nella regia delle
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proprie mosse comunicative indirizzate ai media generalisti (d’altronde hanno potuto sfoggiare personaggi molto popolari – a cominciare da Nanni Moretti – perfettamente a proprio agio nel suscitare l’interesse dei grandi media), mentre il movimento no global appare in grado, almeno da Genova 2001 in poi, di costruire la propria credibilità su un uso massiccio e intelligente dei nuovi media e sulla dotazione mediattivistica di molti partecipanti al movimento. Fotografie e filmati generati dall’interno del movimento (dal “sentire” del movimento) sono diventate icone mediatiche a tutto tondo. Le stesse versioni dei fatti da parte delle forze dell’ordine incontrano sempre più di frequente smentite inoppugnabili dai mediattivisti: le piccole telecamere digitali o i telefonini che scattano foto diventano qualcosa di più di uno strumento. Un intero ambiente di difesa documentaria. Rispetto a questo atteggiamento del movimento (ottima tenuta in ambiente Internet più mediattivismo) i media generalisti sono in difficoltà: riprendono vigore solo in prossimità di scadenze dimostrative e simboliche dai toni forti (le manifestazioni contro la presenza di Bush in Italia nel giugno 2004, per esempio). Quanto a far intravedere una possibile escalation di violenza da segni magari piccoli se non insignificanti i media generalisti sono bravissimi. E, almeno fino ad ora, non debbono neppure pagare il prezzo di aver costruito un panico ingiustificato. È sufficiente una nuova scadenza, infatti, e il gioco può ricominciare da capo. D’altronde il cittadino-moltitudine preferisce non rischiare: il modello dell’agenda setting si dimostra ancora efficace, anche se sempre più vistosamente orientato verso una “presa d’atto” che verso una conversazione, che dai media dovrebbe scivolare tranquilla negli spazi privati. I media ci danno le loro priorità, ad esempio i rischi di degenerazione violenta delle manifestazioni antiBush. Noi magari non ne facciamo motivo di grande conversazione con amici e parenti: però le strade di Roma, in quei giorni di giugno, sono rimaste più deserte che a Ferragosto.
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Si tratta del dialogo asimmetrico tra tv e moltitudini: il feed back è mentale (e poi comportamentale), non necessariamente verbalizzato. È un modo di funzionare che ha insegnato la pubblicità, la vera ragion d’essere nell’economia politica dei media audiovisivi. Non è
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un caso che la pubblicità, addestratasi da mezzo secolo a diventare la regina dello spazio audiovisivo, viri sempre più precisamente verso l’arte e la visione: quando l’informazione vibra nelle nuove tecnologie, la penetrazione è simile a una simpatia telepatica, che è dotata di meccanismi automatici per de-zippare segni e simboli dell’universo-consumo. Direttamente nella mente del consumatore.
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La politica è stata cambiata dai media, prima di tutto avvicinandola al territorio dello spettacolo. Gli scontri tra candidati sono diventati duelli, le tribune politiche talk-show più o meno indiavolati, le interviste a leader politici pubblicizzate come rivelazioni di super-star. Questi fenomeni si sono espressi al massimo grado negli Stati Uniti, mentre da noi sembrano aver incontrato ostacoli nel gradimento o, per meglio dire, da noi si continua a discutere se il livello di spettacolarizzazione attuale sia negoziabile con una immersione nella vera politica, quella che si esprime nel territorio reale. Ma lo stare alla base di una piramide comunicativa non è più soddisfacente che starne al vertice: la base di una struttura così costituita è immersa già nel frame dello spettacolo, ne riproduce mestamente le tappe e il percorso. Non credo che lo spettacolo possa essere sostituito dalla realtà: credo piuttosto che possa essere scalzato da un nuovo tipo di spettacolo, che non si serve se non di rado dei duelli, del talk show e degli altri modi di essere televisione. Non so come chiamarlo, ma penso a una modalità in cui le minoranze attive si raccontano secondo modelli che possono anche essere distanti da quelli della televisione novecentesca. Chi meglio di Emergency potrebbe raccontare le iniziative di Emergency nel vivo dell’azione? Non penso che funzionerebbe un modo di comunicare che prescindesse da momenti generalisti (verticali e insieme per tutti). Penso che un mondo di moltitudini possa in realtà essere considerato un mondo di migliaia di minoranze attive, reticolo di gruppi che, prima o poi, porranno il problema di una propria (completa) mediatizzazione e di un consumo complesso e polimorfico. Ciò significa anche un’estensione dei ruoli comunicativi all’in-
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terno dei gruppi: minoranze attive come quelle menzionate debbono costitutivamente dedicare tempo ed energie alla raccolta di materiale informativo e documentario, oltre che attrezzarsi al dialogo (o al conflitto) con i media generalisti e con gli eventuali apparati d’informazione delle forze dell’ordine. Non basta più il “portavoce”: occorre che la logica stessa del gruppo sia “portare voce”.
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Ecco comunque un problema strategico già quasi confezionato: se una gran parte delle azioni sociali della contemporaneità è fatta di comunicazione, non si sta forse sostenendo che il puro agire va ridimensionato sulla indispensabilità dell’agire comunicativo? Bisogna fare attenzione, a questo riguardo: dotare di un ufficio stampa o di qualsiasi altra “macchina” per l’informazione una nuova intrapresa non significa necessariamente agire nella comunicazione. Significa piuttosto subire l’ennesimo imprimatur del presente, la traduzione aziendalese del comunicare a prescindere da un nucleo forte di comunicazione. È un paradosso solo apparente: quando si gettano le basi dell’elaborazione di un prodotto che possa interessare gruppi, individui e moltitudini non si può pensare di appiccicare, in conclusione di processo ideativo e produttivo, la comunicazione al resto del progetto. È meglio riflettere seriamente – prima – sulla necessità che una nuova progettualità debba andare in una direzione marcatamente collettiva e pubblica. Ci sono progetti – azioni sociali – che non hanno bisogno di un volume promozionale inaudito, e che anzi riescono meglio all’interno di un riserbo comunicativo. Oppure scivolando all’interno del mare magnum della comunicazione telematica, trovando gli interlocutori adatti, senza urla di autosegnalazione. D’altronde la sirena che ha cantato maggiormente in questa fase è quella del marketing: non è la comunicazione in sé che interessa, ma è la circolazione (di un’azione, di un servizio, di un prodotto). La circolazione ha bisogno di definire rigidamente i target e tutte le condizioni in cui poter svolgere una vendita la più vantaggiosa possibile. La comunicazione no, o almeno non necessariamente. La comunicazione realizza la propria essenza filosofica quando punta a un progetto che non ha target definito: per esempio innalzare la qualità della vita. Voglio dire che la comunicazione è, spogliata di ogni orpello trendy, ciò che a tutti
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interessa sapere. Realizzare una plusvalenza comunicativa in un gruppo ci riporta, in prima e non in ultima analisi, di nuovo alla relazione tra cooperazione e comunicazione, dove comunicare è – senza alcuna enfasi o ideologia – mettere in comune se stessi nell’azione. “Mettetela in isolamento fin da ora” tagliò corto Runciter. “Meglio sentirsi soli che non esistere del tutto.” “Sua moglie esiste” lo corresse von Vogelsang. “Soltanto non può comunicare con lei. È diverso.” Runciter disse: “Una differenza metafisica che per me non significa nulla.” (Philip Dick, Ubik)
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Non poter comunicare con la moglie, nonostante lei esista, equivale per Runciter a una distinzione inutile. Non poter comunicare = non esiste colui a cui vorrei rivolgermi. Decontestualizzando la frase dal romanzo di Philip Dick – dove la moglie di Runciter è in realtà in una sorta di stato di ibernazione chiamato “semi-vita”, che tuttavia consente un dialogo telepatico con il “semi-vivo”, che inoltre si presenta dotato di estrema lucidità e preveggenza – potremmo affermare che la nuova uguaglianza stabilita diviene il manifesto di un estremismo comunicativo che nega l’assioma della pragmatica della comunicazione umana (Watzklawick), secondo la quale “non si può non comunicare”. “Riconoscere” la comunicazione da parte delle scienze sociali significa rinunciare all’atteggiamento di Runciter che si rivolge alla moglie nello stato di ibernazione. L’azione di Runciter è razionale, perché nello stato di “quasi-vita” le facoltà predittive dell’individuo si affinano. Ma l’incontro avviene solo in fase di difficoltà, come i personaggi politici pronti ad assumere nuovi spin-doctor in un momento critico della campagna elettorale. Un rapporto strumentale con le scienze della comunicazione significherebbe un boomerang cognitivo, in attesa di aprire una borsa degli attrezzi della comunicazione che in realtà non c’è, perché la vera competenza è il frutto di attente ricombinazioni degli strumenti delle scienze sociali. La comunicazione è una variabile strutturale dell’agire umano, e va trattata come una forma dell’accadere sociale degli individui
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nel mondo. L’uomo è (innanzitutto?) un animale comunicativo. Ma dovrebbe essere studiato come animale sociale e politico, intersecando le energie delle tradizionali scienze sociali nel focus delle forme della comunicazione. A cominciare da questa proposizione (o proposito, per meglio dire): posso riuscire a non-comunicare con soggetti perfettamente esistenti, anche qualora questi soggetti siano esposti alla trasmissione mediale. Se le istituzioni non arrivano a incontrare un’audience ricettiva il problema non risiede necessariamente nella scarsa ricettività dell’audience. Più plausibilmente il problema risiederà nel linguaggio, nell’articolazione, nell’emozionalità del messaggio. Moltissimi prodotti comunicativi non hanno caratteristiche adatte per partire efficacemente da un emittente e arrivare efficacemente a un ricevente. E anche quando le caratteristiche di efficacia sono rispettate, non è detto che sia avvenuto uno scambio comunicativo, che andrebbe preparato a monte del messaggio: se si vuole, costruire il terreno per uno scambio è un evento che va articolato attraverso decine di micro-eventi, tutti convergenti verso la creazione di uno spazio di conversazione. Non dimentichiamo che la sfera emotiva ha un suo iniziale primato: si comunica pienamente quando riconosciamo in noi stessi un interesse che non devia dall’argomento, quando l’adrenalina scorre nel nostro corpo-mente accendendo di interesse la concatenazione logica e senza interrompere il flusso emotivo, quello stesso che ha consentito l’inizio del nostro interessamento. Intendo dire che il passaggio non può essere “prima l’emozione” e “poi la ragione”, ma un continuo interscambio (psico-fisico) tra emozione e ragione, senza soluzione di continuità.
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Ritorno alla questione iniziale. Le scienze della comunicazione hanno ricevuto un riconoscimento da parte delle autorità accademiche e, metaforicamente, dalle altre discipline umanistiche e da quelle delle “hard sciences”. Questo evento si è tradotto, in Italia, in una settantina di corsi di laurea intitolati alle scienze della comunicazione. È un risultato per certi aspetti clamoroso, voluto principalmente dal desiderio di formazione delle nuove generazioni in questo campo. Se i giovani non avessero aderito in modo così massiccio ai nuovi
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corsi essi si sarebbero rivelati fugaci meteore. Il riconoscimento ufficiale ha – burocraticamente – finito il suo iter (specie da quando è stata creata la prima Facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza di Roma). Ma è davvero mai cominciato un riconoscimento non ufficiale ma sostanziale? Riconoscere significa in questo contesto non certo tributare onori e dispensare elogi, quanto rendere operative nuove pratiche di ricerca. Come sappiamo, questo è uno dei principali punti dolenti dei corsi in comunicazione. Le diverse discipline che li compongono non hanno una comune cassetta degli attrezzi, e non hanno predisposto avamposti interdisciplinari per investigare la realtà comunicativa della nostra epoca. Le scienze della comunicazione sono come una roulotte, al cui interno sono accatastate le valigie con gli attrezzi delle discipline specifiche: ogni volta che c’è un problema si chiede soccorso a una disciplina, senza “aprire” le competenze degli altri, sperando che il problema si risolva e che il viaggio continui. Una sorta di sistema di turnazione, utile – forse – per una didattica semplificata ma certo inutile per fare ricerca sul campo e giungere a considerazioni condivise su problemi complessi da parte della comunità scientifica. Inoltre questa difficoltà impedisce anche a eventuali committenti (sia pubblici che privati) di rivolgersi alle università che hanno fatto partire corsi in comunicazione per appaltare lavori significativi di ricerca: non ricevendo sollecitazioni dall’ambiente accademico, istituzioni e aziende non riconoscono il possibile valore di un investimento nei nostri confronti. Ignorando ciò che facciamo, e non svolgendo noi ricerca attraverso le apposite strutture universitarie che solo in rari casi si sono aperti alla comunicazione (mi riferisco ai dipartimenti), il riconoscimento è inficiato in partenza.
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Un secondo tipo di riconoscimento riguarda da vicino lo strutturarsi di un lavoro di ricerca teorico sui mezzi di comunicazione. I media non esauriscono il campo della comunicazione, eppure sono un aspetto fondamentale della sua articolazione. Una nuova disciplina che vada a fondo in questa direzione ancora non c’è, anche se si sussurra un nome non particolarmente eufonico ma nemmeno impronunciabile: mediologia.
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Penso che sia possibile recuperare da Harold Innis la capacità di studiare l’impatto dei mezzi di comunicazione nelle società storiche, anche precedenti la modernità (l’impero romano comunicava in modo strepitoso attraverso le sue strade consiliari e il suo sistema di scrittura su carta arrotolata); da Marshall McLuhan l’idea del prolungamento sensoriale attraverso i media e la resa comunicativa di oggetti altrimenti dislocati come l’abbigliamento, l’automobile e il denaro; da Georg Simmel e Walter Benjamin l’emozione della città che crea il proprio intreccio comunicativo e trasporta gli stimoli estetizzanti fino al cuore dei media e della loro riproducibilità; dagli studiosi di Chicago (la Chicago sociologico-urbana) e di Birmingham un’attenzione forte alle pratiche mediali degli individui e dei gruppi contro e subculturali; da Edgar Morin e Alberto Abruzzese la coscienza delle mutazioni antropologiche vissute dentro l’industria culturale e dentro i consumi. Ho fatto alcuni nomi, se ne potrebbero fare altri. Si tratta in tutti i casi di pensatori che riescono ad arrivare alla sfera emotiva, annunciatrice di una delle caratteristiche più importanti dello studio dei media: il riconoscimento che l’invenzione e l’uso dei media stessi è parte integrante della storia dell’umanità, e non solo di quella a noi prossima. La mediologia (in una accezione che la distanzia dalla omonima disciplina coniata da Regis Debray in Francia) dota il corredo delle scienze della comunicazione di un nuovo ambito. Ci vorrà ancora del tempo, ma credo che la mediologia potrà puntare a un riconoscimento anche da parte degli storici dell’antichità, e non solo dei sociologi e degli antropologi. L’indicazione di fondo è il rapporto tra media e società, ma anche le eventuali fratture tra media e società e naturalmente le forme d’uso dei media da parte dei pubblici. Un terreno di ricerca che ha bisogno di essere considerato con cura, di essere cioè riconosciuto. La sensibilità da parte di studiosi di altri campi – ancorché contigui – sarebbe particolarmente apprezzata qualora si spingesse al di là delle consuetudini accademiche: per favore basta con le osservazioni sulla asistematicità di McLuhan e sul suo determinismo tecnologico. Si abbia l’umiltà di rileggere Understanding media e Galassia Gutenberg. Perché non invecchiano? Perché non ammettere che il loro terreno di coltura è essenzialmente filosofico?
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Perché non riconoscerli? Il rapporto tra due o più cose si chiama relazione. La comunicazione vive solo in ambiente relazionale, dove qualcuno vuole avere a che fare con qualcun altro su qualche cosa. In questo momento sembrano poche le chance di riconoscimento del lavoro colossale che la comunicazione svolge nel mondo contemporaneo, connettendo costellazioni che viceversa danzerebbero solitarie nella propria orbita intorno al sole dello specialismo. Eppure si tratta di una intensificazione utopica che vale la pena proporre, almeno sotto forma di auspicio: la comunicazione sarà la sostanza del desiderio di sapere e della pratica della conoscenza quando l’insieme del mondo scientifico riconoscerà la propria azione comune (o “comune azione”). Pierre Levy parla di cosmopedia, dando anche un compito all’incessante lavorio compiuto dagli individui connessi telematicamente, cioè una nuova enciclopedia in sempre velocissimo aggiornamento grazie al metodo cooperativo. La comunicazione, quindi, non è di nessuno, nemmeno di coloro che la studiano. La comunicazione è il nome che gli uomini hanno scelto per chiamare la propria necessità di stabilire relazioni e di creare reti discorsive: in una sola espressione, di riconoscersi. E chi oggi intende declassificare la comunicazione a sapere incerto, superficiale e subalterno dimostra non solo una forma di snobismo mal impiegato, ma anche un misconoscimento del contributo propedeutico che la comunicazione svolge per conto di ogni sapere. A monte di ogni conoscenza formalizzata c’è comunicazione. A fianco di ogni conoscenza che comincia a muoversi nel mondo c’è comunicazione. E, a meno che non si consideri questo fenomeno un istinto innato dell’homo sapiens, vale infine la pena di investire il futuro di questa chance cooperativa. Verrà un tempo in cui università e comunità vorranno dire la stessa cosa.
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antonio santoni rugiu istruire, educare, comunicare
1. Ci mancava solo “comunicazione” ad aumentare le confusioni, la fungibilità, l’ambiguità e altro tra le varie locuzioni nel nostro lessico di stampo pedagogico. In testa a tutte queste, spicca educazione, usata sempre più spesso come sinonimo di formazione, senza distinguo di sorta. Il pasticcio tra educazione, formazione e magari istruzione e qualche altra locuzione affine è stato poi non poco accresciuto negli ultimi decenni dalla crescente colonizzazione del nostro vocabolario da parte della lingua inglese (per meglio dire dell’angloamericano) che, ad esempio, usa education per dire specificamente istruzione, mentre la nostra educazione è in quella lingua espressa da altri lemmi. Tale confusione fra quei termini e l’incertezza della loro definizione lasciano campo a interpretazioni soggettive quanto mai disparate e frequentemente contraddittorie. In realtà proprio in campo pedagogico quel processo di angloamericanizzazione dei vocaboli si può far risalire a quasi sessant’anni fa, ai primi traduttori italiani dei tanti volumi di John Dewey, i quali all’inizio dell’ultimo dopoguerra, senza rompersi la testa per trovare la versione italiana più appropriata, tradussero dal testo originale education del tutto impropriamente con educazione, mentre si sarebbe dovuto tener conto che education trova la sua corretta traduzione italiana in istruzione. Tale errata traduzione è poi stata all’origine anche di parecchi fraintendimenti del pensiero del nordamericano e seguaci, che però fermarci ad analizzare qui ci porterebbe assai fuori strada. C’è poi il citato pasticcio fra educazione e formazione che certe volte appaiono interamente sinonimi e altre invece distinti intendendo formazione = “istruzione e educazione professionale”. Non parliamo poi dell’intercambialità assoluta fra educazione e istruzione, la più frequente. E così il discorso pedagogico da noi va avanti giocando su tale perdurante pasticcio, col tempo sempre gonfiatosi e quindi divenuto pasticciaccio, per cui va a finire non di rado che nella buia notte tutti i gatti risultano bigi o – hegelia-
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namente parlando – nere tutte le vacche. È questo uno dei motivi che hanno contribuito a non riqualificare gli studi pedagogici, anzi ad abbassarne ulteriormente la valutazione da parte di studiosi di campi apparentemente affini che quasi sempre disdegnano di accoglierli fra le moderne scienze umane, cioè fra la filosofia, la sociologia, la psicologia e l’antropologia. Saranno anche degli spocchiosi, ma in verità come si può accreditare del minimo rigore necessario un settore in cui i termini più consueti e funzionali al proprio discorso si nascondono l’uno dentro l’altro, giocando a travestirsi reciprocamente come non a volersi mai identificare ? Ora che nel lessico pedagogico ai termini finora citati si è necessariamente aggiunto anche comunicazione, il bailamme si è fatto anche più fitto. Infatti comunicazione a sua volta ingloba ed è inglobato dagli stessi vocaboli citati. Anzi, a mio avviso è quello dotato della maggiore capacità di inglobare gli altri. Come si può infatti pensare a una comunicazione che di per sé non produca, pochi o molti, sensibili o meno, effetti educativi? E come distinguere questi dagli effetti formativi? E, al contrario, come concepire una trasmissione di modelli culturali (nell’ampio senso antropologico) non prodotta attraverso una forma o più forme comunicative, materiali, intellettuali, emotive o altro, determinanti al punto che variando quelle forme si possono avere esiti formativi differenti? Di affine al gruppo delle locuzioni di cui sopra, comunicazione ha anche in comune con quel gruppo che trasmette, diciamo così, su più canali. È anzi una locuzione polisemantica molto più delle precedenti perché il suo significato concettuale svaria da aree disparate di significato. Il fascismo aveva creato, per dirne una, il Ministero delle Comunicazioni che presiedeva ai trasporti terrestri (quelli marittimi appartenevano rispettivamente ai due distinti ministeri per la marina mercantile e per quella militare) quali ferrovie, linee automobilistiche, telefoni, aeronautica civile, navigazione lacustre e fluviale, e così via. Per un certo tempo presiedeva anche alle Poste e Telegrafi nonché all’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, dopo il 1944 divenuto RAI, Radio Audizioni Italia). In definitiva comprendeva tutti i vettori materiali e immateriali che
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permettevano di stabilire rapporti diversi fra gli uomini: dislocazione rapida delle persone per terra per mare e per cielo, invio di messaggi scritti anch’essi rapidi, poi telefonati o “radiofonati”, anche a grandi distanze (il primo cavo di comunicazione telegrafica dall’Europa con gli Stati Uniti fu gettato poco dopo la metà dell’Ottocento). La televisione era ancora di là da venire e non aveva ancora sconvolto gli antichi modelli culturali. Tutte queste forme di comunicazione, nelle loro linee essenziali nate in certo senso con l’uomo, di pochissimo mutate da tempo immemorabile, erano ritenute al massimo suscettibili di essere migliorate ma non certo sottoposte a uno sconvolgente salto di qualità. I velieri del XVIII secolo avevano certo guadagnato molto in velocità rispetto alle imbarcazioni dell’antichità, così come le diligenze a cavalli che si vedono nei film western erano certo più rapide e assicuravano collegamenti di ben più lunga percorrenza rispetto ai carri medioevali. Ma se si restava con la navigazione a vela e con la trazione animale. era sempre più difficile migliorare ancora per ottenere gran che di nuovo e di meglio. Quel gran salto di qualità si produsse nell’Ottocento, grazie a molteplici sensazionali invenzioni e scoperte scientifiche e alla non meno sensazionale realizzazione tecnologica di scoperte e invenzioni dello stesso secolo e dei precedenti. Noi che ci siamo stupiti delle immagini dell’uomo sulla luna del 1969 e delle più recenti comunicazioni in rete consentite dal web, abbiamo motivo di pensare che ancora maggiore dovette essere lo stupore dei vecchi contadini che potevano leggere un messaggio telegrafico ricevuto dall’Argentina o dal Canada dal figlio emigrato, cui era possibile rispondere su due piedi sapendo che il figlio avrebbe ricevuta la riposta altrettanto rapidamente. Idem lo stupore di ricevere la dagherrotipia del ragazzo che era andato militare a mille chilometri di distanza e poterla conservare fra le cose care di famiglia come i nobili e i ricconi facevano con i ritratti dei propri cari nelle gallerie di famiglia.. La Nouvelle histoire e Braudel in particolare ci hanno mostrato come la velocità di comunicazione abbia la proprietà di modificare una percezione psicologica della distanza. Cioè che il senso di lontana o vicinanza – fatto coessenziale alle comunicazioni – sia nel vissuto non meno determinante della misura della distanza stessa espressa in chilometri o in miglia. Se il tempo, diceva Sant’Agostino, è una distensione dell’animo, lo spazio non lo è di meno. E Walter
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Benjamin ci aveva già fatto osservare quanti e quali mutamenti nel vissuto individuale e sociale si siano inaspettatamente verificati per effetto della riproducibilità tecnica senza limiti di copie delle immagini di persone e cose, prima di quelle statiche e poi anche di quelle in movimento grazie al cinema dei fratelli Lumière. Identica notazione si potrebbe fare per la riproduzione e per la registrazione su cilindro, su disco, su nastro, su CD e infine su DVD dei suoni, delle voci e della musica, moltiplicate in misura incredibile grazie al fonografo, alla radio e in ultimo alla televisione, all’informatica, al digitale. Così, se agli inizi del secolo XIX eravamo ancora con la diligenza a cavalli, cento anni dopo vantavamo già i treni direttissimi che sfrecciavano a oltre 120 km. orari e le prime macchine volanti che solcavano il cielo sopra i mari (anche se sulle prime era solo il breve tratto della Manica). Lo sviluppo delle varie forme di comunicazione negli ultimi due secoli ha avuto poi cospicui effetti diretti e indiretti sulla modifica dei rapporti fra gli uomini in genere e fra le classi sociali in particolare, sulla rappresentazione operante della lontananza fisica e psicologica. Come dire insomma che l’evolversi della comunicazione materiale e immateriale è da iscriversi fra i più influenti educatori del periodo. Fra i più rivoluzionari fattori di progresso nel bene e nel male.
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2. Si può obiettare: “Ma perché dare tanti meriti all’Ottocento? non esistevano già i giornali e la stampa, non esistevano la pittura e le altre arti belle (musica e canto compresi) per comunicare al popolo informazioni, suggestioni ed emozioni?” Sì, c’erano, ma la loro funzione era limitata ad alcune occasioni o destinata ad alcuni livelli di stratificazione sociale e non ad altri. Si trattava perciò di una comunicazione non ancora di massa, quanto mai circoscritta. Il popolo in chiesa e fuori partecipava con fedeli di ogni classe sociale alla comunicazione, per esempio, dei canti o delle rappresentazione artistiche di santi o di eventi religiosi. Infatti fino all’età contemporanea le funzioni di culto erano una delle poche occasioni di comunicazione che potremmo dire tendenzialmente democratica, perché ammettevano un partecipazione popolare. La stampa libraria, quotidiana o periodica era fruita dalle classi sociali istruite, il che allora equivaleva a dire privilegiate. Beneficiarie delle invenzioni e scoperte della metà Ottocento, per la prima
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volta cominciano a essere invece anche le masse popolari, libere di salire sullo stesso treno con i padroni, con la differenza – quanto rilevante al momento fruitivo? – che questi ultimi sedevano nella carrozze di prima classe su comode poltrone imbottite e con il poggiatesta ricamato, mentre il popolo doveva, quando aveva i soldi per biglietto, arrangiarsi sulle dure panche di legno o addirittura in vagoni che sembrano fatti più per bestiame che per passeggeri. Del resto lo stesso avveniva in chiesa, con i banchi dei signori senza distinzione di sesso in prima fila e dietro il popolo, in banchi invece distinti fra maschi e femmine, o in teatro dove attori e cantanti recitavano allo stesso modo per i palchi e per la piccionaia. Ma il treno faceva lo stesso percorso per i ricchi e per i poveri e così il prete diceva il suo latinorum identico per le prime e per le ultime file, e dal palcoscenico si recitava e cantava in un unico modo. Non diversamente la fotografia che democratizzava la diffusione della fissazione delle immagini. Prima della fotografia il privilegio di ridurre e poi lasciare ai posteri la propria immagine era riservata a chi fosse in grado di pagare un pittore o uno scultore perché questi producessero un quadro o un mezzo busto. Nessuno del popolo un tempo poteva permettersi e nemmeno desiderarlo, mentre l’obiettivo della camera fotografica, da allora in poi, darà a tutti la stessa (o quasi) possibilità di venire ritratti. Per questo, grazie a questa dilatata presa sociale di quei prodotti si può a mio avviso parlare di mezzi di comunicazione di massa, non prima. La comunicazione non è stata inventata neppure dai moderni mass media. È ovvio che si leggeva e si studiava anche prima della diffusione della stampa a caratteri mobili, dei libri, dei giornali, degli opuscoli e così via, e si scambiavano messaggi anche prima del telegrafo, sia pure in tempi meno rapidi e a distanze meno consistenti, non però irrisorie. Si dice che la notizia della sconfitta di Napoleone a Waterloo per merito di Wellington sia giunta a Londra portata da un messaggio legato al collo dei colombi viaggiatori. In tempo reale? Sì, in certo senso reale, dato che il concetto di velocità era diverso da quello di oggi, e anche se per quei pennuti ci erano volute circa un paio di ore per volare dalla distanza della località belga alla City, la comunicazione parve fulminea, e la borsa londinese – cui i colombi erano stati indirizzati – interessatissima ad avere notizie della battaglia prima di ogni altro,
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conobbe una giornata di scambi favolosa grazie al rialzo improvviso delle quotazioni dei titoli inglesi e il crollo di quelli legati alla politica napoleonica. Quei colombi però portavano un messaggio, magari cifrato a scanso di contrattempi, non alle masse bensì riservato al sancta sanctorum della finanza mondiale di allora. Né il telefono, comunicazione da individuo a individuo (lo scambio telefonico “a conferenza” di più interlocutori è molto recente) e nemmeno la stessa radio, finché fu limitata ad uso militare o di supporto al telegrafo, poterono dirsi mass media. La radio lo diverrà solo una volta superato anche il periodo della ricezione tramite apparecchi a cuffia, dopo che nei primi anni ‘30 entrarono in funzione gli altoparlanti in grado di trasmettere ovunque e ad elevato numero di decibel e così permettere l’ascolto contemporaneo prima di decine, poi di centinaia di migliaia e infine di milioni di ascoltatori. La potenzialità del mass media è poi esplosa con il trionfo della tv, fenomeno troppo attuale per discorrerne qui.
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3. A pensarci bene, nemmeno l’oratoria antica di fronte a centinaia e perfino alle migliaia di gente lì ad ascoltare (o tentare di ascoltare) può considerarsi come effettivamente udita da quella ingente massa di ascoltatori. L’oratoria diverrà vero mezzo di comunicazione di massa soltanto quando – l’ho già detto – i potenti altoparlanti radio consentiranno di trasportare a distanza la voce dell’oratore con un volume tale da renderne percettibile il discorso anche per lunghe distanze a folle di vaste proporzioni. Per questo, in mano alle dittature della prima metà del Novecento, la radio è stato un vettore propagandistico fondamentale per espandere e mantenere il consenso o l’acquiescenza popolare. Mussolini senza i potenti altoparlanti Magneti Marelli non solo mai avrebbe potuto farsi ascoltare dai milioni di italiani radunati nelle piazze perfino dei borghi sperduti, ma nemmeno dalle migliaia di romani radunati sotto lo storico balcone di palazzo Venezia da cui il Duce pronunciava quei discorsi. Né Hitler senza i nuovi grandiosi impianti della Radio Telefunken avrebbe potuto metter su le grandiose parate delle camicie brune cantanti inni nazisti, che si concludevano sempre con un suo discorso. Gli oratori greci e romani del lontano passato riuscivano a farsi intendere, quando andava bene, solo dalle prime file di ascoltato-
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ri. Cicerone, per dirne una, probabilmente deve la sua fama di oratore supremo al fatto che la sua oratoria non era quella dei generali, dei capopopolo o dei tribuni, piuttosto quella adatta al chiuso delle aule senatorie o giudiziarie, dove tutti o quasi gli astanti potevano distintamente udire. All’aperto a Roma, anche pensando a giornate senza un alito di vento, nei grandi spazi riservati alle vaste assemblee di popolo, per esempio nel Foro Boario, quanti avranno potuto udire le parole di un Caio Gracco o di un Antonio? Un numero irrisorio di fronte alla folla degli astanti. Non a caso già all’epoca repubblicana era invalsa, copiata come al solito dai greci, un tipo di oratoria da comizio ricorrendo in buona parte alla mimica, alla marcata gestualità che trasformava la tribuna in una sorta di palcoscenico, allo scopo di rendere intelligibile almeno nelle linee essenziali e nei tratti più emozionanti il proprio messaggio verbale anche ai tanti che di certo non potevano udirlo. Se è difficile comunicare una riflessione a chi non ode le parole, è facile dimostrare rabbia, dolore, angustia, affetto e quanto altro con gesti appropriati. La comunicazione emotiva può fare a meno del vettore verbale, non la ragione, tutta condizionata da codici verbali. E tuttavia anche quella eloquenza parlata-mimata era a suo modo una comunicazione efficiente, certo più affidata alle suggestioni ambientali che non al senso delle parole, alla suasione del ragionamento. Insomma, più all’emotività che alla riflessione. Così dicasi dei discorsi dei grandi condottieri che arringavano le truppe prima della battaglia, che per percepire le parole dei loro generali si trovavano in condizioni ancora peggiori degli antichi romani riuniti a Campo Marzio. Eppure si è sempre detto di Scipione, Cesare, Napoleone e altri celebri condottieri che risultavano vittoriosi perché preventivamente avevano saputo infiammare gli eserciti con la loro parola. In altri termini, la comunicazione non consiste solo nel contenuto del vettore principale di trasmissione, verbale o altro, ma anche negli elementi e vettori ambientali della situazione, secondari e concomitanti, dotati reattivamente di una propria indipendenza, spinta in certi casi fino alla divergenza rispetto all’intenzionalità e alla consapevole destinazione del comunicatore.
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4. Quando parliamo di effetti subliminali mi pare lecito includervi anche quelli non legati a marchingegni tecnico-percettivi, che si accompagnano, anche inconsapevolmente e certo impercettibilmente ma non per questo non efficacemente, a interferenze e/o distorsioni, ma anche al “fondo assuntivo” della psicologia di ciascuno, cioè dal composito schema reattivo personale. In breve, condizionamenti o arrangiamenti generatori diretti di suggestioni o provocatori indiretti di auto-suggestioni. Del resto non è dovuta alla differenza di suggestione ciò che crea la differenza di esposizione psicologica tra un teleascoltatore e uno spettatore che assiste in teatro ad un dramma? Se insegnare vuol dire “lasciare il segno”, questo è la stessa cosa di “fare apprendere”? Ma apprendere in che senso? Solo nel senso intellettuale, o meglio intellettualistico, secondo la nostra tradizione scolastica? Secondo alcuni, vero apprendimento è ciò che genera una modificazione duratura del comportamento mentale o operativo di vario tipo. Un apprendimento di questo tipo non è però ottenibile unicamente con l’insegnamento “formale” ristretto agli input verbali della parola dell’insegnante o del contenuto dei libri. “Lo stile è l’uomo” aveva detto Jean Luis Buffon circa due secoli e mezzo fa, con una visione organicistica e evoluzionistica ante litteram della natura. Lo stile è quell’attitudine che accompagna gli esseri viventi nelle loro manifestazioni più varie. Se si accoglie l’interpretazione buffoniana, almeno nel suo significato più generale, si può anche concedere che ciò che interessa comunicare a fini educativi sia prima di tutto una sorta di stile comportamentale che alla fine si instaura nel profondo della personalità di ognuno, ispirando poi in misura maggiore o minore atti, pensieri e sentimenti. In questa comunicazione c’entra anche l’istruzione, nel senso circoscritto che ancora oggi le attribuiamo. Ma il contenuto dell’istruzione incide nella misura in cui esso sia congeniale e compatibile con le principali idee portanti, in certo senso con lo stile del momento. Un tempo per i poveri analfabeti il sillabario fu il simbolo di quel minimo di cultura che i propri figli era necessario conseguissero per sperare di acquisire una promozione socio-economica. Aspirazioni popolari e progetti dei potenti correvano, almeno sulla carta, sullo stesso binario e miravano allo stesso scopo. Anche se noi oggi critichiamo i legislatori del 1859 che tracciarono i fini e l’ordinamento dell’intero nostro sistema di istruzione, bisogna
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riconoscere che essi ebbero il coraggio di seguire linee in ordine con i tempi, per esempio di istituzionalizzare l’istruzione tecnica, dandole perfino – sia pure a condizioni delimitanti – uno sbocco agli studi universitari. L’istruzione, simbolizzata dal sillabario delle elementari e dei figli degli operai che potevano progettare di diventare ingegneri o letterati, comunicava non solo nozioni e regole ma anche la speranza di un futuro migliore, motivazione formidabile per sacrificarsi e procedere. Per cui s’imparava a parlare e a scrivere a scuola, lì si affinava poi la sintassi, si ampliava la misura e il gusto dell’espressione. Il libro, dal sillabario dell’istruzione obbligatoria al trattato di diritto o di medicina per l’università, in quanto strumento scolastico dell’educazione formale tradizionalmente impartita nella scuola, era l’unica fonte di ciò che si doveva sapere, del come si doveva parlare e scrivere. I nostri predecessori ottocenteschi arrivarono ad affermare che l’istruzione scolastica era il vello d’oro che avrebbe consentito ogni impresa, la realizzazione di ogni progetto. Era un sogno dell’ottimismo ottocentesco, poi dalle classi dirigenti realizzato con il contagocce per il timore che divenisse un grimaldello che consentisse al popolo di far saltare l’ordine sociale e abolire la gerarchia fra le classi. Ma a parte queste esagerazioni, un tempo la scuola e il libro scolastico furono grandi comunicatori. Insomma, l’istruzione può insegnare certi comportamenti mentali e operativi tanto più quanto essa sia congrua allo stile complessivo prevalente. Altrimenti si debilita fortemente. Oggi questo stile complessivo è trasmesso dalle esperienze vitali individuali e collettive più frequenti e comuni. La tv è ormai il vettore principe di tali esperienze, il creatore della dimensione del virtuale (compresa la più recente reality) quindi è il più seguito maestro di stile, il modello più imitato. Per emettere e per ricevere il tipo di comunicazione televisiva nel suo continuo incalzare, quasi senza respiro, non è richiesto alcun livello o tipo di istruzione né si presuppone un insegnamento sistematico di alcun tipo. Anzi, le esigenze della pubblicità, ormai sempre più misura di tutte le cose che sono e di quelle che non sono, impongono sempre più di schiacciare il livello della comunicazione per far sì che il messaggio, ogni giorno di più spottizzato, raggiunga il maggior numero di teleutenti così da garantire una proficua ricaduta in termine di espansione dei consumi. Ergo, lo stile prevalente oggi è l’opposto di quanto a casa, a
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scuola e nel vivere sociale si insegnava un giorno, quando si insegnava la virtù del risparmio. Oggi – al contrario – si induce a consumare il più possibile anche al di sopra delle proprie risorse; un tempo si insegnavano le virtù della riservatezza e il pudore, oggi invece davanti alla camera tv si dicono i pensieri più intimi e i sentimenti più trasgressivi; un tempo si insegnava a reprimere certi impulsi e a vivere di quotidiane rinunce, oggi tutto al rovescio: un tempo si educavano i giovani a mirare a un lavoro, magari modesto ma stabile, quasi il mito dello “impiego fisso” per cui solo dopo averlo ottenuto un giovane si sentiva “sistemato”. Maestri e professori nelle scuole continuano a insegnare in gran parte le stesse cose di un tempo, anche la grammatica e la sintassi, ma un popolo di teleutenti apprende fin dalla più tenera età a parlare e a muoversi come i telepresentatori e le telepresentatrici. La natura del ruolo docente ad ogni livello si è trasformata dalla funzione di istruttore di singole discipline a educatore della personalità, alla formazione dell’uomo e del cittadino, come ricorda la legge istituiva della scuola media dell’obbligo del 1962. Come dire che all’insegnante non basta più la conoscenza delle propria materia e – se e quando c’era – la capacità di essere chiaro e poi di giudicare l’alunno in base al suo effettivo rendimento didattico. Oggi gli si richiederebbe anche di plasmare i quadri mentali, espressivi e operativi, relazionali e cioè sociali coerentemente a un certo stile. Un compito assai più impegnativo perché richiede dalla cattedra (si fa per dire) attitudini e abilità funzionali che nessuno si è mai preoccupato di sviluppare e verificare in lui (e dubito molto che gli attuali corsi SISS progrediscano in questa direzione). Paradossalmente questa maggiore attribuzione di rilievo formativo oltre che puramente istruttivo (educational dicono le lingue colonizzate) si pretenderebbe proprio nel momento in cui ogni insegnante si trova via via deprivato dell’influenza di cui disponeva prima attraverso il contatto con i contenuti “formali” delle rispettive materie d’insegnamento. In conclusione, il docente educatore educa meno di quando era solo un istruttore. Comunica meno di prima efficaci modelli culturali, in parte per l’arretratezza dei contenuti didattici, ma sopratutto perché i canali formativi sono ormai monopolizzati dai media, come ormai vedono anche i ciechi. Così in casa e nel vivere sociale, circonfuso dalla morale pubbli-
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citaria, si riproducono modelli verbali e operativi ricalcati da quelli televisivi, altro che dalla scuola. Un tempo si usava a risparmiare gli aggettivi, oggi si insegna ad abbondare di aggettivi, meglio se enfatici. Insomma, il mondo alla rovescia: la scuola invano cerca – nel modo peggiore – di adeguarsi ai tempi, di ridiventare trendy e nell’illusione di tornare gradita ha abbandonato del tutto la selettività. L’istruzione è un consumo come un altro e bisogna perciò diventare esecutori della filosofia economico-politica che domina la civiltà dei consumi: agevolazioni, rateizzazioni e pagamenti posticipati senza (apparenti) interessi, offerte speciali, e via dicendo. Così però l’istruzione finisce per comunicare il peggio del peggio.
reset
Murale a Lecce
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Luna M, particolare di un murale - Rimini (foto di Ottavia Luciani)
Giuseppe Caliceti
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È rilevabile ictu oculi dall’osservazione del palinsesto odierno dell’offerta radiofonica della Rai, come, se si escludono i canali tematici (siano essi trasmessi on line o via etere) e tutta la produzione riconducibile a Rai Educational, i canali generalisti della radiofonia pubblica italiana abbiano assunto ciascuno un’identità propria che non muta, o muta modestamente, al variare delle maggioranze politiche che si alternano alla guida del paese. Pur senza disporre di analisi statistico-sociologiche pertinenti, non si farà della facile profezia se si segnala che le trasmissioni di Radio Uno sono avvertite dal pubblico come complessivamente orientate a riflessioni e approfondimenti di temi d’attualità e di politica – sia essa trattata come “schieramenti ideologici in campo” ovvero come vita quotidiana della polis. Il corpo della programmazione di Radio Tre è invece generalmente vissuto come verboso, elitario, orientato a soddisfare un pubblico colto, ricco di approfondimenti scientifici, letterari e filosofici. In particolar modo Radio Tre, fin dalla sua nascita, è comunemente percepita come la “Radio della musica classica”, genere musicale cui negli anni si è aggiunto il jazz e poi il grande rock. Non senza una propensione spiccatamente
livio romano meraviglie occidentali per giovanotti mondani di città. (ovvero come un’identità collettiva in mutazione si riconosce in un programma radiofonico)
“…comunicare comunicare non importa c….. comunichi l’importante è comunicare…”
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pedagogica se non snobistica, questa scelta della Rai di riservare la musica alta in un solo canale ha comunque permesso a generazioni di estimatori di crearsi nel corso degli anni veri e propri archivi di esecuzioni magistrali della musica classica d’ogni tempo. E pur tuttavia, assecondando la propria insopprimibile verve didascalica mutuata dalla complessiva Gestalt del canale stesso, gli speaker oggidì indugiano in presentazioni prolisse e pleonastiche che alla lunga avviliscono, come spesso fa notare Piero Ottone su «la Repubblica», anche i più affezionati ascoltatori e trasformano la “colonna sonora su paesaggi” (Abruzzese, 2003) in “cicaleccio su paesaggio” che l’eventuale automobilista in corsa verso un tramonto fra le colline della Val del Chianti sostituirebbe volentieri con quello che Giovanni Fiorentino definisce “il tempo eterno degli dei, molteplice e uno, umbratile e numinoso”: il silenzio (Fiorentino, 2003). Nell’accostarsi alla musica moderna, poi, Radio Tre predilige le grandi star del rock’n’roll, le narrazioni mitopoietiche connessevi, la letterarietà dei testi delle canzoni, il loro carattere fortemente evocativo e, spesso, ideologico. C’è una tensione interna, quasi drammatica nel narrare della terza rete radiofonica italiana. La stessa tensione che in Manhattan fa dire a Woody Allen, nel pieno di una conversazione tragica in cui il protagonista è appena stato lasciato dalla fidanzata e nel pieno del climax della storia: “Sembra di stare in un film italiano degli anni ’50, qualcuno dovrebbe cominciare a servire dei Martini”.
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La programmazione di Radio Due è invece orientata a dare conto della frantumazione dei segni e dei codici che il nuovo secolo porta con sé. Dalle parti del secondo canale della radiofonia pubblica italiana, insomma, ci si è resi conto, per dirla con Lyotard, che le grandi metanarrazioni che avevano caratterizzato il XX secolo, nel cui alveo ciascun artista aveva iscritto la propria microstoria, son definitivamente tramontate per lasciare il posto a quel mare magnum della condizione postmoderna in cui le leggende del Novecento sono amori da cui ci si congeda a bordo di un “vascello fantasma”, un’“astronave” che viaggia “verso un altro mondo cessando di mandare segnali”, per citare Roland Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso. E, sempre con il semiologo francese, questo distacco, questo “vagamento ha dei lati comici: sembra un balletto più o meno agile a seconda della velocità del
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soggetto infedele [le Grandi Narrazioni Novecentesche]”. È proprio la comicità intelligente, fatta di calembour e paradossi sapidi, di satira sociale e politica, di humour nero, la principale cifra stilistica di tre fra i più popolari programmi radiofonici italiani: Il ruggito del coniglio, Caterpillar e Fabio e Fiamma e la trave nell’occhio. La radio che gioca con la sua stessa aureferenzialità, che non si prende sul serio, poiché, per cantarla con Sergio Caputo, “prendersi sul serio mica è facile, la maturità si fa sempre più in là a rimorchio di un miraggio futuribile”. (Propriamente comico risulta spesso anche il virgulto De Iaco con i suoi sermoni moralistici e le sue interviste in ginocchio al “grandissimo” ministro Buttiglione). Sulla stessa scia si colloca il quotidiano Dispenser, distributore automatico di stimoli quotidiani: varietà che ogni comunicatore dovrebbe ascoltare poiché, con un inconfondibile stile da birignao da avanspettacolo raffreddato da musica di sottofondo presa in prestito da colonne sonore di B movies e intervalli circensi mescolata a lounge, dispensa ogni giorno con ironia e vitalità un campionario assolutamente arbitrario di micromiti occidentali della cultura di massa, prodotti alti e low-brow della peggiore specie, oggetti bizzarri dell’industria giapponese e americana e cinema d’autore, pratiche e mode d’ogni risma e misconosciute soul band del delta del Mississipi, subcelebrità regionali e Stockhousen, bare personalizzate e fumetti underground, riviste letterarie e musicali e bevande (un’intera puntata è stata recentemente dedicata al fan-club del Chinotto).
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“Che cosa avevo di fronte? Non si trattava di elaborazioni sistematiche, piuttosto di spunti, di linee di ricerca. L’estrema libertà accordata nella scelta dell’oggetto culturale, inoltre, valorizzava la pluralità e anche l’apparente incongruenza delle opposizioni messe l’una di fila all’altra”, scrive Stefano Cristante nell’introduzione di Enciclopedia momentanea, 150 voci della cultura di massa contemporanea. Anche Dispenser è un’enciclopedia momentanea dell’immaginario occidentale all’inizio del secolo. Un’enciclopedia in fieri, che si fa e si disfa con la stessa rapidità con cui scorrono le puntate nel corso della settimana. Trasmissione che va in onda alle 20,35, quando i new preppies metropolitani, quelli che vivono “per l’oggi, in gran fretta, in modo irresponsabile” (così Nietzsche
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nel Crepuscolo degli idoli) stanno raggiungendo in fretta le loro palestre o i loro figli unici. In tre quarti d’ora di trasmissione, la band di Dispenser, darà loro conto di cosa si muove nella sterminata prateria dell’Occidente tribalizzato, come vuole Maffesoli, attraversato da venti di guerra infinita che da tempo sempre più numerosi economisti statunitensi bollano come “sintomo dello sviluppo di uno stato autoritario con alle redini l’apparato militare in stretta consultazione con Wall Street” (Chossudovsky, 2002). Già nel 1990 Pier Vittorio Tondelli definì il postmodernismo un nuovo ellenismo in cui – mentre replicanti galattici bussano minacciosi alle porte del pianeta – la fauna risponderà in sublime souplesse: “Arriva la fine e ho tutto da mettermi”. Noi italiani potremo allora dire che avremo avuto ben chiaro, grazie a Dispenser, le estensioni dermiche, gli accessori, la colonna sonora e gli effetti speciali più in auge e trendy per aspettare tutti insieme l’Apocalisse.
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Logopatia
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La breve esegesi che seguirà metterà in risalto le aree tematiche di cui il programma radiofonico in questione si occupa quotidianamente, e sarà un’analisi, come recentemente ha scritto il critico letterario Michele Trecca, la quale è “contigua e non incommensurabile rispetto al proprio oggetto. Essa, cioè, non può (fingere di) parlare il linguaggio unidimensionale della ragione, è ora che valorizzi la componente emotiva dei propri discorsi fino a conseguire quella tonalità logopatica che (sola) può risollevarla da certo grigiore depressivo. Ammetterne il fondamento passionale non sminuisce l’attendibilità di scelte, ipotesi e valutazioni” (Trecca, 2004). Quest’approccio, del resto, mostra l’influsso degli stessi autori di Dispenser i quali non fanno nulla per nascondere la gioia ludica e fanciullesca che provano innanzi alle tante merci e ai tanti prodotti ra-presentati (scrive Deleuze nell’incipit di “L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia”: “…tutto è produzione: produzione di produzioni, di azioni e di passioni; produzioni di registrazioni, di distribuzioni e di punti di riferimento; produzioni di consumi, di voluttà, d’angosce e di dolori. Tutto è a tal punto produzione che le registrazioni sono immediatamente consumate, consunte, e i
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consumi direttamente riprodotti”). Il Dispensatore non è puro emittente, pura Mouth beckettiana, metonimica, voce blaterante senza un inizio né una fine, depersonalizzata come la miriade di emittenti commerciali che ripetono ad libitum battute e slogan consunti come una bocca impazzita e de-realizzata. Il materiale emesso da Dispenser è materiale per un pubblico che vi si riconosca e mostri segnali di feedback. Così come nell’opera beckettiana Vladimir ed Estragon si cercano e si evitano alternativamente, e Mouth, nella sua identificazione totale con la prima persona singolare sembrerebbe bramare un rapporto di attrazione-repulsione verso l’altro da sé in un rapporto io-loro in cui “loro” altri non è che il pubblico della piece: allo stesso modo il format in esame ricerca un’abdicazione alla propria referenzialità mediatica in questa epifanica offerta all’uditorio di munera, se pur di quella particolare specie che sono i doni per qualcuno “avvelenati” dell’industria culturale di massa. Come poche altri format televisivi o radiofonici, Dispenser trae beneficio dalla penna felice di autori che, indipendentemente dalla carriera nel broadcasting, sono già affermati nella società letteraria come scrittori validi (e proficui per le imprese editoriali che li hanno sotto contratto). A tutto vantaggio della comunità virtuale di homini postdemocratici di cui parla Formenti, l’intero corpus dei testi del programma da che va in onda (1999) è fornito on line agli utenti di Internet. La cura del programma è affidata a Fabrizia Boiardi, la conduzione a Matteo Bordone e agli speakers Antonella Colletta e Ivan Lenni. Dispenser è scritto da La Geegee, Alberto Forni, l’autore feltrinelliano Matteo B. Bianchi, lo stesso conduttore. Dopo la lettura del sommario, Matteo Bordone introduce la prima rubrica del programma, quella solitamente dedicata a oggetti, mode, modi, new media, programmi radiofonici o televisivi. Il tono dei testi è quasi sempre calvinianamente leggero, imperniato da quello che Eligio Resta definisce “universalismo piccolo” per dire di cantucci, nicchie, tribù che possono trovare composizione soft in valori momentaneamente ma universalmente condivisi. Gli speaker ci raccontano di “Blair witch projects” made in Friuli e del dilagare dei Life coaches, di scarpe anti cellulite basate sulla Masai Barefoot Technology (tecnologia del masai a piede
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nudo) e di Barbies hard, e all’ascoltatore pare che questi altri mondi siano dietro l’angolo di casa, pronti per essere calpestati e poi dimenticati alla ricerca di altre routes ovvero per essere interiorizzati nelle nostre roots (Semeraro, 2004 citando James Clifford). La musica che gira intorno
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Grande spazio viene dedicato, dagli autori di Dispenser, alla musica pop. Il jingle-tormentone che scorre sottotraccia alla voce degli speakers si interrompe sovente per lasciar posto alle band underground rock britanniche e d’oltreoceano così come ai musicisti post-ambient (di Sakamoto e Sylvian dicono, nella puntata del 19 maggio 2004: “Citizen of the world, un’espressione talmente rigonfia di amorproprio che si usa ormai solo in modo ironico. Beh, loro non se ne sono accorti e ci hanno fatto un pezzo serio. Un pezzo serio che ha un grande stile, e per questo trasmettiamo, ma che ha un testo ribollito a mollo nelle banalità e nei luoghi comuni. Era anni che nessuno cercava di insegnare cose sul mondo con aria preoccupata, nei tre minuti di una canzone. David Sylvian e Ryuichi Sakamoto hanno fatto qualcosa insieme”, e la regia fa partire il pezzo “preoccupato” che appare da subito armonie e melodie ben distanti dall’universo triviale delle playlist imposte dai colossi discografici alle radio commerciali.
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Nella puntata del 17 luglio 2003 i “Mattei”, come scherzano Matteo B. Bianchi e Matteo Bordone stessi, propongono agli ascoltatori un nuovo gruppo che, nell’immensa varietà di offerta musicale del programma, ci pare rappresentare un paradigma delle scelte artistiche operate dal nostro quotidiano Dispensatore di stimoli culturali. Si tratta dei Beatallica, gruppo anonimo che, servendosi esclusivamente della Rete (http://www.beatallica.org), diffonde una perfetta rivisitazione del pop edulcolorato dei Beatles suonato come lo avrebbero fatto i Metallica e stravolgendone i testi con gli stilemi delle band heavy metal di San Francisco. La ragione di questo nascondimento risiede ovviamente in questioni di diritto industriale (gli avvocati che gestiscono i diritti d’autore di entrambi i gruppi avrebbero di che gongolare e lavorare). Eppure l’effetto è godibilissimo, come sosterrebbero i dj di radio 105, e
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“Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, diventata “Sgt. Hetfield Motorbreath Pub Band”, è stata arricchita di riff con lo wah-wah e tutto quanto faccia Metallica. “Hard Day’s Night” è diventata una cavalcata Trash Metal di tutto rispetto, e via discorrendo”, come scrive e racconta Matteo Bordone. Musica obliqua, lontana dai circuiti della grande distribuzione internazionale, creolizzata, congiuntiva, come direbbe Angelo Semeraro (2004). Cultural studies
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Forse in sintonia con Raymond Williams e Richard Hoggart, il Distributore radiofonico della Rai emette anche analisi partecipate e ironiche, sagaci e dotte senza essere pedanti su grandi e piccoli prodotti della cultura “bassa”. Film d’ogni genere (un esempio per tutti: il documentario prodotto nel 2002 dall’Indipendent Film Channel e diretto da Isaac Julien sulla “blaxploitation”, la cui definizione ufficiale recita “film anni settanta di taglio commerciale pensati per un’audience di colore”, e raccontata nel documentario “BaadAsssss cinema”, in onda sui canali satellitari del nostro paese). Fumetti di tutte le epoche e tutte le latitudini (“se, cresciuti con i fumetti e svezzati dal cinema, credete che al mondo ci sia sempre posto per novelli paladini in calzamaglia, allora è giunto il momento di dare il vostro apporto, magari creando voi stessi un Super Eroe nuovo di zecca. Che aspettate? Armatevi di mouse e collegatevi ad internet dove troverete “The Heromachine”, la prima “macchina sforna eroi” a disposizione dell’intera umanità!”, Dispenser, puntata del 31 marzo 2003). E riviste letterarie, musicali, culinarie, buddiste, massmediologiche (“Journal of the mental environment” – il giornale dell’ambiente mentale – è invece il sottotitolo della rivista “Adbusters”, che sulle proprie pagine ospita esempi di contro-campagne pubblicitarie realizzate dagli stessi lettori e offre spunti di meditazione su tematiche sociali troppo poco approfondite dai media. Il numero 41 per esempio, intitolato “Mad world”, era dedicato alle testimonianze verbali o creative di coloro che hanno trascorso periodi più o meno lunghi di ricovero in istituti psichiatrici.”, puntata del 25 ottobre 2002).
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Di cosa parliamo quando parliamo di libri
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Il tratto distintivo più caratteristico del contenitore radiofonico in analisi è probabilmente la rubrica dedicata alla recensione dei libri durante la quale si leggono anche ampi stralci dell’opera stessa ad opera dei bravi attori-speakers. A differenza della televisione, la radio pubblica italiana ha continuato a ospitare rubriche e interi programmi dedicati ai libri, alla lettura, alla letteratura. Radio Tre, soprattutto durante il programma-contenitore “Fahrenait”, ospita spesso scrittori e ricercatori che raccontano in diretta i loro libri. E servizi di questo genere sono presenti anche in Radio Uno e in altri programmi della stessa Radio Due. Ci interessa poco, in questa sede, l’attività meritoria di Radio Tre poiché indirizzata, come si precisava sopra, a un pubblico selezionato e già avvertito di suo. Radio Tre, insomma, è un riuscito esperimento di radio on demand propagato via etere e non criptato. Le presentazioni librarie di Radio Tre, inoltre, seguono uno schema piuttosto convenzionale, ancorché efficace, di domandarisposta all’autore, recensione codificata sugli stilemi della critica letteraria militante (sul modello delle riviste patinate), intervento del pubblico. Parlare di libri sui media elettrici in Italia, è d’altro canto un tema assai dibattuto che deriva dalla scarsa penetrazione commerciale del prodotto “libro” un po’ in tutte le fasce della popolazione. Come incentivare la lettura? Come porsi nei confronti del pubblico generalista per rendere il libro attrattivo? Occorre davvero rendere il libro attrattivo? (Quest’ultimo quesito è d’obbligo per chi non pensi, come l’apocalittico Philip Cannistraro, che “è proprio di uno Stato totalitario che la radio assolva al compito di stringere un popolo, mediante comuni ideali e una comune esperienza culturale, in una nazione, così come si proponeva il Regime Fascista italiano”, Cannistraro, 1975). Un recente convegno dal titolo Libri e tv: un matrimonio impossibile? Nel corso del quale sono intervenuti Aldo Grasso, Angelo Guglielmi, Gabriele Vacis, Marcello Veneziani, Massimiliano Fasoli e Giovanna Zucconi, ha tentato di fare il punto della situazione e di avanzare delle proposte. Dai primi tentativi come Uomini e Libri (in onda per tre anni dal 1959), Libri per tutti (dal 1962) a cura di Luigi Silori, L’Approdo curata da Leone Piccioni e nata nel 1963,
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per finire a Tuttilibri, venti serie dall’ottobre 1967 al novembre 1973 a cura di Giulio Nascimbeni, tutti visti con una certa diffidenza dagli intellettuali e legati dal comune denominatore della forma delle riviste letterarie di carta e dallo scarso adattamento al linguaggio televisivo: la strada percorsa nel corso degli anni Ottanta e Novanta è stata pochissima ed episodica. Babele, di Corrado Augias, si proponeva l’ambiziosa aspirazione a diventare la risposta italiana alla leggendaria Apostrophes di Bernard Pivot (diventata poi Bouillon de culture). Ma anche quello fu un programma piuttosto ingessato il quale si rivolgeva a coloro i quali già erano lettori, spettatori colti e preparati, e falliva nel suo compito di acquisire nuovi lettori. Il vero salto, secondo Guglielmi, venne con Pickwick, “grazie alle grandi potenzialità di Alessandro Baricco, prima già testato in televisione con un programma dedicato al melodramma”. Questa volta la trasmissione veniva seguita non solo dai lettori, ma anche dai giovani. Purtroppo dopo dieci puntate chiuse i battenti. L’approccio ai libri di Dispenser è da ricercare proprio nella talentuosa e teatrale esperienza di Alessandro Baricco nella conduzione di Pickwick. Il telespettore era guidato con sapienza e slancio emotivo alla scoperta di una grande o piccola storia contenuta in un’opera di fiction. I “pezzi” confezionati da Dispenser per l’occorrenza non utilizzano mai lessico gergale o idioletti critici. Sono, come si dice, alla portata di tutti i preppies in ascolto così come del portiere d’albergo capitato per caso su Radio Due. Il tono è generalmente celebrativo. Il radioascoltatore percepisce che lo speaker si è davvero entusiasmato a leggere quella storia, che il libro stesso ha prodotto in lui, o lei, un’insight tale da fargli pronunciare le parole encomiastiche con cui consiglia l’acquisto e la lettura del romanzo. La scelta dei libri da proporre cade poi fatalmente su voci narrative piuttosto oscure, pescate dal sottobosco creativo italiano e internazionale, edite da piccole e agguerrite case editrici come la Minimum Fax di Roma o Fernandel di Ravenna. Voci che altrimenti non troverebbero riverbero nei media nazionali, impegnate in personali percorsi di ricerca stilistica e poco assimilabili alle tendenze modaiole proposte dalle majors.
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Questioni delicate che ho affrontato dall’analista di Matthew Klam, casa editrice minimum fax. Da Matthew Klam in persona (è
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stato a presentare il libro in primavera) sappiamo che non è amico di Stephen King, che nella sua vita l’ha visto una sera ad una festa. Il fatto straordinario è che uno scrittore emergente abbia una segnalazione del suo libro nelle pagine di un libro dello scrittore più letto al mondo. Questo è l’incipit del pezzo che Matteo Bordone ha scritto e letto nella puntata del 18 marzo 2001. A seguire, come da ferreo copione che l’ascoltatore abituale conosce e apprezza, un ampio stralcio letto con sottofondo sonoro che non tradisce, neppure nel caso di brani drammatici, il tono giocoso e circense dei commenti musicali usuali di Dispenser. È un modo per mettere a proprio agio ciascun ascoltatore. Finora ti ho parlato della moda giapponese dello sferruzzare e dei cento anni del borotalco: continuo a intrattenerti raccontandoti questa storia che ho appena letto.
Lecce, Palazzo Parlangeli, murales studenteschi
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A favore di questo mood gioca, immediatamente dopo, la lettu-
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alessio pepe italian sud est*
ra di un commento di Bordone: Una situazione da affrontare dall’analista potrebbe essere quella di Richard Aschcorft, ex leader dei Verve, che ha toccato il successo poco prima che il gruppo si sfasciasse e adesso ci sta riprovando ormai da un po’ di tempo. Ha pubblicato un primo disco solista qualche anno fa, passato, almeno fuori dal Regno Unito, abbastanza inosservato. Adesso ci riprova e anche questa volta dimostra di averne a pacchi di talento. Sentiamo il primo singolo estratto dal suo nuovo album, un brano di cui esiste un videoclip splendido e terrificante. Il pezzo si chiama Check the meaning, lui è Richard Ashcroft.
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E parte il pezzo di Ashcroft e si ha la sensazione che i libri parlino di storie di uomini in carne e ossa, di cantanti in crisi, dei nostri eroi-oggetto di identificazione e riconoscimento.
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* Estratto della tesi di laurea triennale
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Riferimenti
bibliografici
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 1979. Samuel Beckett, Aspettando Godot e Mouth, Garzanti, 1995. Philip Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, 1975. Michel Chossodovsky, Guerra e globalizzazione, Ega, 2002. Stefano Cristante, a cura di, Enciclopedia momentanea, Arcana, 2002. Giovanni Fiorentino, Il valore del silenzio, Meltemi, 2003. Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Adelphi, 1983. Eligio Resta, La certezza e la speranza, Laterza, 1992. Angelo Semeraro, Lo stupore dell’altro, Palomar, 2004. Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno, Bompiani, 1990. Michele Trecca, L’albergo delle storie, Palomar, 2004. http://www.dispenseronline.it http://www.alice.it http://guide.supereva.it/gu/libri_autori/recensioni/
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Chi ha sentito parlare di Italian Sud Est avrà quasi sicuramente canalizzato la sua immaginazione sulle linee di una calda, mielosa e folkloristica salentinità; la riscoperta delle lontane tradizioni e dei ritmi sanguigni della sua musica. Un film. In questo caso però, la memoria è una questione di stile. Propositività di linguaggi e intenti che destabilizzano l’ormai abusata etichettatura di un cinema “pugliese” e “salentino”, che ha portato alla definizione di meriti e format cinematografici scialbi, ripetitivi, sagomati sulle aspettative di chi vuole sentire e vedere tutto quello in cui già crede. Ma questa volta c’è aria di beffa. Storie crude e veraci sulle linee di frontiera che disegnano percorsi e profili a trama fitta e irregolare. Involuzioni croniche e assurde nella geografia fisica delle “classi”, delle mentalità e dei luoghi comuni. Salento come terra di frontiera non solo per una cartina politica, ma come complesso di matrici-molecole entropiche costituite da una struttura alternata di sopraffazione/emarginazione, portatrici di incoerenze nelle gerarchie e nell’organizzazione territoriale delle storie e della condizione della gente più disparata. Salento/Albania, entroterra/coste, città/paese, paese/ quartiere, una serie di relazioni e rapporti costruiti su un unico brevetto iterato e re-iterato di una “meccanica” struttura economica e politica fondata sulla dicotomia centro/periferia. Un termine, “periferia” appunto, da riconsiderare in un contesto caotico, fulgido ed effimero, avviato sulla crosta di una ferita sempre più sanguinante fatta di disadattamento, di giovani allo sbando e casi di suicidio, di velocità globalizzate da cronometrare su “percorsi” e “sentieri” di una terra dai tempi umani, ricca comunque di rapporti esoterici, erotici e artistici con una Natura ancora influente e amabilmente lontana dai “circuiti del vento” di camicie “emorepellenti” di atti avidi e impuniti.
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Ed ecco che un’esperimento di cinema, uno sfogo artistico ed emotivo di un giovane, disilluso ma “u-topico”. Collettivo senza pretese, scava, sventra e poi rende pubblico un quadro sconveniente e sconfortante, ma allo stesso tempo propositivo di risorse e ricchezze nuove e mai considerate.
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Fluid Video Crew è una realtà di produzione audiovisiva indipendente nata tra Roma e il Salento nel 1995. Sotto le mentite spoglie del Sig. Fluid e della sua schizofrenica filosofia artistica, sfuggono
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quattro giovani componenti trentenni: Davide Barletti (Lecce 1972), Edoardo Cicchetti (Roma 1973), Lorenzo Conte (Roma 1974), Mattia Mariani (Roma 1973). Una psicologia artistica, schizofrenica, anarchica, nomade di esperienze e dimore, che dal ‘95 stressa d’incesti e innesti la “macchina cinematografica”, divenuta ancor più tradizionale dal momento in cui questo “collettivo” apuloromano ha cominciato ad operare. Ad oggi, più di una cinquantina di lavori realizzati: news di contro-informazione per il circuito dei centri sociali con i “TG del movimento”, documentazione della scena contro-culturale internazionale, numerose video installazioni (vere e proprie esperienze psico-attive), documentari sul lavoro nero e minorile e sui temi dell’immigrazione, sulle bande giovanili e gli spazi metropolitani, fino ai lavori più recenti con i popoli indiani dell’Alaska, dell’Albania, sui pescatori del sud Italia e sul mondo del calcio. Sgomberi, proteste, concerti. Cresciuti e vitaminizzati con scaglie e infezioni televisive negli anni ‘80-‘90 e frustrati nella monotonia degli schemi pubblicitari e dei “prodotti” cangianti della voluttuosa società romana dell’”apparire vendibili”, sfogano una “reazione allergica” da disadattamento puntando dall’alto o dal basso di originali punti di vista (sui tetti, dagli alberi e da rocce mitiche di Roma) i propri “obiettivi” tra cavi, monitor e telecamere consumer. Overdose di televisione e impulsi audiovisivi “tagliati male”, ancor prima che giovani “salutisti” nelle sale da Cinema di una Roma tra le città più belle del mondo e dell’immobilismo, dove l’arroganza sguazzava in ogni mattone. Nel ’97 all’interno del “Festival Off”, nel Forte Prenestino, danno vita a “Off Line Tv”, la televisione comunitaria romana via cavo che trasmetteva un palinsesto folle e dissacrante nei confronti di tutti, anche verso “l’estrema sinistra bacchettona”. Un flusso inarrestabile di immagini e suoni per uno dei primi esperimenti di televisione auogestita, domestica e inventiva. La “nipotina” della storica radio Alice di Bologna. Un laboratorio permanente e diffuso pronto a rielaborare in presa diretta gli stimoli del sociale, ad indagare negli angoli meno esplorati dei nuovi comportamenti urbani, traducendo il tutto in “eventi” audiovisivi ad alto tasso emotivo. Niente a che vedere con la sintassi opaca della tv ufficiale. Si cercava di mettere in piedi un coordinamento nazionale delle strutture video dei centri sociali che fosse in grado di mandare in circuito, nel giro di tre o quattro giorni, la documentazione video di un fatto appena accaduto, con codici espressivi e
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mezzi tecnici necessariamente ridotti all’osso. Una specie di Woodstok in salsa romana, un’esperienza unica, complessa e contraddittoria. Le porte del Forte Prenestino (storico centro sociale della capitale) si aprirono alla contaminazione e alla sperimentazione, tralasciando e mettendo da parte quel pizzico di autoreferenzialismo e di ortodossia militante che, un po’, hanno sempre caratterizzato gli ambienti della sinistra extraparlamentare. Si voleva ripetere l’esperienza di Tele Biella, la prima televisione italiana privata che venne subito oscurata ma che aprì la strada a futuri e simili tentativi, compresi quelli di Berlusconi. Una televisione comunitaria che non aveva onde fisse, ma che si sintonizzava ovunque lo ritenesse opportuno: nelle strade di periferia o in un centro sociale, sulle televisioni di stato o su quelle commerciali, ovunque si potessero inserire un po’ di cellule cancerogene nel corpo della comunicazione visuale. Il nostro obiettivo, dicono i Fluid, era fissare e condividere i momenti e i movimenti neutrali del vivere di gente comune e dell’essere marginali per uscire allo scoperto e sporcare le tessiture del sistema intellettuale, utilitaristico e parassitario con una forma di democrazia ed un impianto corale genuino e spontaneo. Un “overground”, più che un “underground”. Un muoversi sopra le righe salendo dai sotterranei della quotidianità per irrompere nello show (reality) dei piani alti. Partendo da un’originaria attività culturale e politica dall’incedere ibrido e “omeopatico”, costituita da un gioco di forze e “mediche” dosi infinitesimali come cura e antidoto contro il proliferare di “forme morbose e infettate” della società capitalista e mercenaria, arrivano ad un primo confronto con l’ingranaggio produttivo nell’industria dell’immaginario cinematografico dei tempi lunghi, automuniti di arnesi umili e “artigianali” frutto di una “tecnica avanguardista” e accessibile. La scrittura e la visione filmica mettono a dura prova le loro attitudini anarchiche e autarchiche. Nasce così Italian Sud Est, ancora convalescente e segnato da anticorpi contro-culturali e contro-informazionali pungenti e “coscienziali”, “letali” amplificatori in soggetti riceventi già portatori sani o ben predisposti alla follia di un linguaggio schizofrenico dai contenuti aspri o ironicamente agrodolci. Con questo film gli autori non dimenticano, ma rammentano come il Salento sia ancora una terra bigotta, e la frase “riprendiamoci i binari” è un dichiarato messaggio politico contro le istituzioni, anche religiose, che dominano le coscienze e negano
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un originario stato di “non-appartenenza”. Storie, visi, leggende e racconti, un modo differente di intendere “la vita come una forma d’arte”, un superomismo di saltimbanco tipicamente salentini. La bizzarria di queste figure, come d’altronde era per Fellini, è anche la spia di una nevrosi, di un disadattamento all’ambiente e ai suoi valori, di persone assediate da una cattiva modernità. Il processo di immedesimazione è bloccato dal momento in cui l’interpretazione diventa una confessione, un’accusa con gli occhi e gli indici puntati nell’obiettivo; uno scisma “psicologico-religioso” tra spettatore e personaggio che brucia l’eros del momento cinematografico nell’utero della sala e produce disagio, disapprovazione e distanza nel destinatario del messaggio. “Storia” e ricordi interiorizzati ed escrescenti riaffiorano nell’acume critico-pratico dei personaggi-persone scavalcando il “tasso di cronaca” di un documentario per restituire cocci limpidi di Storia consumata, particolarizzata e attendibile, in una terra che stenta a riconoscere il nuovo nell’antico, come recita l’epigrafe di Fellini, ma che rimane custodita nelle pieghe umane più marginali. Binari e trenini galleggiano senza gravità tra ulivi e cieli mobili e piuttosto che partire per andare, quello che si può fare è semplicemente affacciarsi da una giostra e lasciarsi “circolare”. La loro strada ferrata è stata intercettata da linee misteriose, ma reali, dai percorsi millenari dei Menhir, la modernità è stata metabolizzata e superata in un postmoderno che avvicina questa terra a tanti altri spazi. Gli autori, coinvolti negli umori dei personaggi e incapaci di plasmarli, sembrano perdersi come fossero essi stessi passeggeri curiosi e senza progetto. Caterina Tortosa, giornalista e sociologa che ha contribuito al film anche in veste di protagonista, dice: “Si va e si ritorna da New York al Salento con la stessa “falcata” pagando, naturalmente, qualche alterazione nel jet lag; ma in questa terra il fuso orario ti dura parecchio! E proprio in questo stato, in questo momento transitorio di benessere, che diventi creativo”. Laddove le maglie della previsione si slabbrano e la precisione diventa solo un suggerimento di massima, lì nasce la possibilità di raccontare e di ascoltare delle storie. I treni puntuali fanno arrivare in orario, ma non hanno niente da dire. Qui il mezzo non è neutrale. I treni della Sud Est arrivano sempre o troppo presto o troppo tardi per limitarsi alla semplice funzione di trasferire i corpi. “Questi non sono i treni di Pirandello e neanche quelli di
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Vittorio Bodini che portano via…”, dice Silvana Silvestri; “qui si va e si ritorna allo stesso posto; sono una presenza circolare al pari delle volute barocche”. Nasco in terra d’Otranto, nel sud del sud dei santi. Tutta la terra d’Otranto è fuor di sé. Se ne è andata chissà dove.
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È una terra nomade, gira su se stessa. A vuoto.
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La citazione di Carmelo Bene, fatta dagli autori, è un messaggio verso un territorio dove per lungo tempo si è assistito ad uno scollamento fra tessuto politico-sociale e protagonisti che non sono stati riconosciuti nella loro importanza e nel loro vigore espressivo e culturale. Una terra piena di sogni, miti, leggende e devozioni che ha spesso dimenticato i suoi sognatori. Scrive Mauro Marino del Fondo Verri: “Non è la memoria che reinterpreta una sostanza mitica e popolare; è la contemporaneità che trova legittimazione, in un approccio pienamente valorizzante delle sue vocazioni, quelle singolari follie artistiche capaci di trasformare in linguaggio il loro disagio esistenziale. Una scrittura filmica che assorbe l’esperienza sintetica del corto, il ritmo della clip musicale e le tensioni del realismo documentario, fondendole con la surrealtà visionaria dei personaggi e con quella ispirata dai luoghi, dalle stratificazioni della storia e del senso. È un’opera intensa, intrisa di urti politici, visioni e ultravisioni non alla portata di tutti che è conferma di quella attitudine creativa, laterale più che underground, motore del risveglio e della rinascenza”. È il gusto per la bellezza, l’artisticità, l’oralità, la fantasia cangiante e feconda nel disegnare la vita o solo delle leggende. La mediterranetà, la salentinità è in tutto questo. Trascritti su carta questi sogni non avrebbero più lo stesso senso, la stessa forza. Adesso, più che mai, la cosa più interessante è raccontare il “cinema del reale” e questo perché la quotidianità può avere un racconto narrativo ed evocativo molto forte. Dicono i Fluid: Noi amiamo fare cinema politico e oggi più che mai, parlare di quotidianità è schierarsi da un punto di vista ben definito. Se nel film c’è una linea politica sottintesa è fatta di un senso di grande disadattamento che poi può prendere differenti
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strade; quella della pazzia, dell’emarginazione, della ribellione, dell’estrosità, dell’adattamento e quindi del conformismo. “Sud” è ciò che viene torturato ad ogni latitudine dal sistema e dalla cultura dominante. Le Sud Est sono una struttura di un secolo passato che fatica a confrontarsi con la contemporaneità, con delle dinamiche allargate, con orari dei treni che risalgono all’800 quando tutti i traffici più importanti avvenivano sulle rotaie. Il nostro è un film del secolo scorso, non è un film attuale. Il Salento è per noi una rete di luoghi pulsanti e Lecce è solo un punto sonnolento rispetto alla provincia e alle periferie, il giardino vuoto delle belle statuine, è ancora un piccolo gioiellino imbalsamato e per questo abbiamo preferito entrare nelle pieghe e nei punti più nascosti e vitali. A volte esistono parole e visi che il tempo non cancella, esistono “vecchi pazzi” che raccontano storie che non
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stefano mangia adolescenze: dodici scuole rispondono sull’aggressività*
sono scritte da nessuna parte; nessun libro, nessuno storico, nessun nome di via ne ricorda le gesta. Il nostro film è un omaggio a chi ancora oggi sputa energia vitale. Qualcuno si è mai chiesto perché nelle periferie della provincia tantissimi giovani si trovano coinvolti in un fenomeno che sta tagliando le gambe a buona parte delle loro energie creative? Ci riferiamo alla Sacra Corona Unita, alle tensioni del periodo dei maxi processi e dei processi sommari. Periodi di una vita che è stata scelta o è stata data ai nostri giovani. Vogliamo dire che il Salento è uscito alla ribalta non per merito suo, ma per tragedie altre ovvero la caduta del muro, l’arrivo dei profughi? Quale è stata la prima cosa che ha fatto parlare di Salento? In parte è merito di chi ha operato culturamente, sicuramente, ma è anche frutto di eventi, tragedie che si sono susseguite. Entità nomadi e chirurgiche per ogni localismo critico snobbato dai locali, su un treno che per fortuna è passato e continua ad attraversare “anche” le anime nobili come le luride realtà mafiose, i cimiteri adriatici e marginali del nostro quieto, solare ed “etichettato” Salento. Allucinogene coreografie stanche ed assetate dal sale essiccato sulla pelle-pellicola dei loro racconti. Dicono i Fluid: Abbiamo provato a fare del caos una risorsa, non per questioni di stile, ma perché era l’unica maniera per raccontare questa terra. Come diceva Eugenio Fascetti: “…vince chi sa organizzare meglio il casino” e da questa frase abbiamo trovato lo spunto per lavorare. Scrive Camerino nel saggio introduttivo di Sguardi Inquieti che nell’attuale esplosione “digital-diffusiva” di private ri-formulazioni di status coscienziali e personali sussulti culturali, il corredo inventivo, ausiliato dalla persistenza delle scoperte, è riuscito a moltiplicare le tonalità del linguaggio e delle onnicomprensive “disub-
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bidienze” e a tradurre in “coscienza e azione” uno spirito comunque bisognoso di un armamentario dottrinale e di un elettrocardiogramma politico per non essere ridotto in funzione subalterna dai contenitori di tecnologie che possono imporre su altre scale metriche l’amministrazione del pensiero”. I Fluid Video Crew sono una speranza in questo senso. La dimostrazione che dall’”underground” sovra-popolato ed esuberante di una straordinaria e caotica “mensa” cognitiva talvolta becera, può sollevarsi, collettivamente, un “pugno” rappresentativo e fecondato dallo stesso formicare di una evoluzione pseudo-culturale e claustrofobica. Ma se dovessimo tracciare la psicologia del Signor Fluid avremmo un profilo fondamentalmente schizofrenico, fatto di quattro personalità molto differenti tra loro che allo stesso momento sono la sua ricchezza e la sua stessa condanna. “Il signor Fluid è destinato a perire proprio perché schizofrenico, e siccome in questo mondo non c’è spazio per la schizofrenia, prima o poi morirà” confessano. Italian Sud Est è stato un momento di riflessione “democratico e corale” nel presente discorso più consapevole e distaccato su “sezioni e momenti storici del vivere umano” che, allo stesso modo di trasposizioni del reale in entità visionarie, oniriche, fictive e menzognere, si accorpa al tessuto sociale e storico divenendone parte costitutiva e leggittimata. Un’etica dignitosa del documentario e della conoscenza altrui basata sulla “reciprocità”, sulla “comunicazione” (azione comune) e sulla dialettica interpersonale. Un occhio umano e disponibile verso le frontiere, contro il perpetuato atto simbolico della conquista dell’altro, dal vorace gesto di prima modernità che realizzò Colombo “assimilando” le Americhe e che oggi si ripete invisibile nei rapporti più scontati. Una nuova creatività, giovanile, intellettuale, popolare e critica, sulla via di un nuovo sentire etico, di altre vie d’uscita. Un debito reciproco di civiltà nel libero scambio di doni per un “Cinema Vivo” desideroso di contatti e confronti.
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* Abstract della tesi di laurea triennale
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Definizioni di campo/metodologia di ricerca L’Osservatorio interdipartimentale sulle Infanzie e le Adolescenze dell’Università degli Studi di Lecce ha avviato, tra il 2003 e il 2004, un’indagine sull’aggressività degli adolescenti con l’intento di valutare la percezione che i più giovani hanno del fenomeno, delle possibili cause, della capacità di “coltivare”, “introitare”, “veicolare” i valori su cui si fonda l’aggregato familiare o al contrario dell’atteggiamento di “rifiuto” e “reazione” alla loro imposizione; delle pericolose “forme di emulazione”, “effetti imitativi” provocati da nuovi media. Un’analisi etimologica ha dimostrato che molte sono le incertezze ascrivibili intorno ai diversi significati dei lemmi “aggredior” o “adverto”, e che ancora tante sono le definizioni assunte da differenti approcci scientifici, gli stessi che intorno al fenomeno
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conducono ad una dialettica tra natura e cultura, tra innatismo e ambientalismo. Una complessa “investigazione” si dipana così tra i molteplici contributi forniti dalle teorie etologiche di K. Lorenz,1 le teorie cognitivo-evoluzioniste di Liotti e al.2, l’approccio della sociobiologia wilsoniana,3 la teorie psicanalitiche di Freud4 e le teorie comportamentiste5 di Watson, Bandura, Berkowitz e al. (Ingrascì e Picozzi 2002). L’adulescentia era distinta dall’infantia e dalla pueritia, da un
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lato, e dalla iuventus dall’altro, ma copriva un arco di età molto esteso, che andava press’a poco dai 15 ai 30 anni (Butturini 1984, p. 16); di conseguenza anche noi in questo testo prescinderemo da rigorose categorizzazioni degli stadi di età, assumendo il termine “adolescenza” con un accezione molto elastica, volendo affiancare lo stesso ad espressioni quali “persone in formazione”, “giovani”, “soggetti in età evolutiva”.
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Confluiti intorno allo stesso tavolo promosso dall’Osservatorio, psicologi e psichiatri, sociologi e pedagogisti, dirigenti scolastici e magistrati minorili volevano indagare sul fenomeno della violenza giovanile. La formulazione del questionario è frutto quindi di molte mediazioni tra interessi diversi d’indagine. Accantonata l’idea che si potessero direttamente interrogare gli adolescenti sulle loro pulsioni violente, si è preferito virare in modo più soft sull’aggressività, ponendo domande indirette. Dopo una prima (lunga) fase di taratura, dodici scuole salentine6 hanno accettato di somministrarlo ai propri studenti. Questa si è svolta per tutto il mese di Marzo 2004, vedendo coinvolti, quali “soggetti di ricerca”, gli studenti frequentanti le classi terze e quarte degli studi superiori, individuate dai docenti dei rispettivi Istituti di appartenenza. Due classi per Istituto costituiscono un campione statisticamente significativo di circa 500 studenti tra i 16 e i 18 anni. Ragazzi e ragazze sono stati messi di fronte alla corposità del questionario, il quale ha chiesto loro di partecipare alla sua compilazione in forma anonima e di rispondere nella maniera più immediata possibile a ben 55 domande nel tempo limite di 50 minuti. È bene far presente che qui vengono prese in esame solo alcune domande; quelle cioè che sembra abbiano catturato maggiormente l’interesse dei ragazzi, permettendoci di considerare le loro risposte con un margine di veridicità relativamente maggiore.7 Pertanto, dopo questa fase introduttiva, tesa a carpire le radici dell’indagine, a delineare alcune definizioni di campo e a chiarire la metodologia di ricerca, prenderemo in atto la prima parte del questionario, la quale è tesa ad individuare l’Istituto, la classe e la sezione di riferimento, la provenienza geografica, il livello culturale e la condizione occupazionale-professionale dei genitori dell’intervistato. La fenomenologia dell’aggressività impone l’imperativo di son-
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dare, nello specifico, l’ambiente relazionale/affettivo, la qualità e tipologia delle relazioni interpersonali nell’ambito del proprio ambiente familiare. Agli intervistati sono state poi rivolte domande inerenti la correlazione tra aggressività e l’uso/abuso di sostanze psicoattive; e in fine tra aggressività e media. Le caratteristiche del campione8 L’universo di riferimento risulta costituito da 504 ragazzi provenienti da 95 territori differenti, compresi quelli di alcuni Comuni della provincia di Brindisi. Tenendo conto che i Comuni della provincia di Lecce sono 98,9 si può sostenere la buona distribuzione degli studenti. È bene sottolineare che questi non costituiscono il campione rappresentativo di tutto l’universo giovanile della provincia di Lecce, bensì rappresentano solo quella parte di giovani che continuano la carriera scolastica dopo aver conseguito la licenza media. Presenza leggermente più importante è quella che registra il 54% dei ragazzi a fronte del 46% delle ragazze (v. tab. 1). Tabella 1
La fascia di età è quella compresa fra i 16 e i 18 anni: la maggioranza è di diciassettenni (46,6%), seguiti da sedicenni (30,7%), e infine da diciottenni (18,7%). Ma certo non mancano casi isolati: ragazzi, cioè, fuori fascia di età (19, 20 e 24 anni). Il dato interessante è che quest’utimi prevalgono negli Istituti Alberghieri (v. tab. 2).
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Tabella 2
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Le tesi che qui sosteniamo non analizzano problematiche cliniche, ma resta il fatto di trovarsi di fronte ad un fenomeno multidimensionale, il quale tiene conto e dei fattori di carattere biologico e di quelli di rilevanza sociale. Così, elemento da non sottovalutare è la zona di residenza degli intervistati. Si tratterebbe di un fattore importante, in quanto secondo la teoria dell’apprendimento sociale sviluppata da Bandura, la persona e il comportamento del soggetto interagiscono e sono interdipendenti con l’ambiente: scolastico, familiare, socio-culturale (è ciò che lui definisce con il nome di “determinismo recipro-
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co”) (Bandura 1973). Ecco l’importanza di porre in rilievo che la maggior parte degli
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studenti risiede nelle zone periferiche delle città (57%); e che ben il 40,6% vive nelle zone “centro”; che solo il 2,4% è delle zone isolate. Una ricerca pubblicata dall’Office of Juvenile and Delinquency Prevention10 (2000), rivela che i fattori di predizione alla violenza giovanile sono molteplici: individuali, familiari, scolastici, correlati al gruppo di frequentazione, all’ambiente economico-sociale. Quest’ultima fonte dimostra quanto il livello culturale della/in famiglia, lo stesso che nella maggioranza dei casi decreta il “ceto sociale” di appartenenza, influisca sui modelli e stili di vita, sulle frequentazioni amicali e sulle modalità e tipologia delle relazioni interpersonali. La nostra ricerca attualmente registra il 33,9% di madri con licenza media inferiore, distribuendo il 26,5% tra quelle che hanno conseguito la laurea breve e il 12,4% tra le laureate. Inoltre si nota che nelle famiglie in cui il padre è laureato, è molto probabile che sia laureata o diplomata anche la madre. Per i padri la situazione è la seguente: il 27,1% ha la licenza media inferiore, il 30,3% il diploma e l’11,8% la laurea. Le percentuali relative alla condizione occupazionale-professionale descrivono una situazione abbastanza variegata; segno di un campione di ragazzi con famiglie per lo più di discrete, a volte buone, condizioni economiche, e quindi, per ipotesi, con attese di vita medio-alte. Ecco fin qui fotografata l’immagine dei fattori socio-anagrafico-culturali del nostro campione di studenti salentini.
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La ricerca empirica prosegue per cogliere nel suo dipanarsi molte delle infinite sfumature circa le sfide della “generazione invisibile”.
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La famiglia/I valori11
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Iniziare con la definizione di “famiglia” sarebbe un’impresa al quanto ardua, che potrebbe condurci nell’ombroso vicolo di astratte concettualizzazioni. Adottiamo dunque il termine famiglia non come “concetto”, ma come “fenomeno”: prescindendo da qualsivoglia tradizione culturale di matrice ideologicamente schierata e ci sottrarremo anche dall’esporre linee d’interpretazione filo-conservatrici o filo-progressiste. Questo perché, la percezione della famiglia che se ne ricaverà dal campione, non si attiene a impostazioni ideologiche, ma a reti di relazioni poggianti sulla stabilità dei sentimenti. Alla domanda “ti piace vivere con i tuoi genitori?”, la maggior parte delle risposte si concentra nel “sì, anche se non ci comprendiamo perfettamente”, distribuendosi per il 26,2% tra i ragazzi a fronte del 21,9% della ragazze; “sì, perché li trovo molto aperti” è la seconda risposta che registra più attenzione tra il 19,1% dei ragazzi e il 15,9% delle ragazze. La risposta “non molto, perché non mi capiscono”, già denuncia un calo (2,4% delle ragazze e il 3,2% dei ragazzi); così come anche “no, perché non vedo l’ora di andarmene di casa” segnala bassi valori percentuali, con il prevalere del 3,2% delle ragazze sul 2,4% dei ragazzi.
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Questi dati numerici descrivono in sostanza una situazione segno di un clima relazionale/affettivo abbastanza positivo. Ciò che sembra essere costante è che il piacere di vivere con i propri genitori è maggiormente riscontrabile tra i ragazzi che non tra le ragazze (v. graf. 1): sembrerebbe che nel territorio salentino persista (con più probabilità nelle famiglie di livello culturale medio-basso) la difficoltà ad abbandonare vecchi stereotipi che vedono una libertà concessa in misura inferiore al sesso femminile, volendo riconoscere a quest’ultimo esclusivamente la funzione “generativa/accuditrice”, considerando di conseguenza in modo fortemente relativo, il valore dell’identità personologica.
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Grafico 1
Ma c’è da porre subito in rilievo che ben pochi hanno risposto “non saprei, ci ignoriamo reciprocamente”(e precisamente lo 0,4% delle ragazze e lo 0,8% dei ragazzi). Di conseguenza si può indurre che, benchè sia difficile la convivenza genitori-figli, questa non risulta essere una “indifferente” circostanza situazionale nell’arco della vita di un individuo. In tal modo, i dati non registrano né un orientamento “modellistico”, né “behavioristico”,12 né tanto meno “comunicazionistico”,13 confermando piuttosto l’idea di includere il “fenomeno” famiglia nella definizione di tipi sociologici e pertanto lontani da modelli universali: difatti non c’e un’evoluzione uniforme. “Come consideri il clima affettivo nella tua famiglia?” L’aggressività, secondo Dollard e collaboratori, è una conseguenza diretta del senso di frustrazione, determinata dalla sofferenza per una meta non ottenuta, dalle numerose situazioni di impedimento al raggiungimento di un obiettivo, al soddisfacimento di un desiderio.14 Maslow (1941) sottolinea anche la fondamentale importanza, nell’analisi dell’aggressività e della frustrazione, del personale significato, introiezione, che le persone attribuiscono agli eventi ed alle esperienze vissute.15 Frustrazioni, figlie primogenite dell’irresponsabilità, le quali il più delle volte nascono per prime in famiglia: ecco come emerge l’importanza di sondare nell’ambito del clima affettivo. Ma alcune percentuali hanno già precedentemente dato riscontri positivi in merito. E nello specifico si registra un “molto buono” per il 55,4% delle ragazze e 42,5% dei ragazzi (v. graf. 2).
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Grafico 2
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Per una volta vogliamo guardare ai piccoli numeri, i quali, data la delicata e vitale importanza che riveste il tema “clima affettivo”, si sottraggono alla concretezza e certezza matematica per astrarsi e divenire incredibilmente più grandi di quelli che sono. Il “clima familiare risulta “cattivo” per lo 0,9% delle ragazze e lo 0,7% dei ragazzi; “molto cattivo” per lo 0,4% sia dei ragazzi che delle ragazze.
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Forse nelle famiglie di alcuni di questi ragazzi, da parte dei loro genitori, c’è una forte resistenza ad abbandonare atteggiamenti autoritari per non fare spazio all’educazione dell’autorevolezza. Una differenza che per molti non esiste, ma a noi induce a riflettere su quanto in alcune famiglie bisognerebbe puntare prima all’educazione dell’adulto: impresa estremamente difficile. “Quanto sono importanti i seguenti valori?”
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Molte ricerche sugli adolescenti dimostrano quanto l’analisi dei valori costituisca un’area tanto importante da attrarre l’attenzione di numerosi studiosi.16 Mi preme sottolineare che si prescinderà dal delineare considerazioni di natura epifenomenica, per caratterizzare l’orientamento valoriale degli studenti salentini su determinanti socio-culturali e affettive. La graduatoria che i giovani del campione compongono, vede ai primi posti tra i valori considerati “molto importanti”, innanzitutto il “rispetto per gli altri” (95,6%), l’“avere una famiglia” (94%), e “avere un buon lavoro” (93,6%). Alte percentuali che ruotano intorno a più del 90%, e che attribuiscono agli affetti primari un’importanza pari a quella attribuita al mondo della sicurezza materiale ed economica. Questa prima panoramica pone in rilievo il precedere di valori individuali rispetto a quelli sociali, facendo di tale divario un elemento specifico e caratterizzante la condizione giovanile in questione. Di fatti valori quali “giustizia”, “uguaglianza”, “solidarietà”, “tolleranza”, scalano rispettivamente dal dodicesimo al quindicesimo posto. Mondo interno e mondo esterno, codici interni e codici esterni, morale sociale e morale individuale, denunciano un rapporto tra se stessi e gli altri caratterizzato da complessità e scambi simbolici che contrassegnano la disequilibrata posizione individuale rispetto al mondo esterno. E in contrasto con la attuale avvolgente “cultura del narcisismo”, sembrano scalare agli ultimi posti valori quali “essere bello/a” (46,7%), “avere un fidanzato/a” (44,8%), “avere molti soldi” (44,1%). Il quadro complessivo sembra far emergere un orientamento di valori dei ragazzi salentini caratterizzato da bisogni di sicurezza fisica, sociale ed economica, simbolicamente rappresentati da valori
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quali famiglia e lavoro, in uno scenario in cui agli ideali di giustizia, solidarietà, uguaglianza, si preferiscono ambiti maggiormente ancorati all’essenzialità, alla quotidianità. In definitiva quello che si evince è che il “centro tolemaico” della realtà giovanile salentina sembra essere prima di tutto la famiglia intesa come luogo di sicurezza affettiva e materiale, e poi il lavoro inteso come àncora per il proprio futuro, vedendo nel nostro contesto socio-culturale, maggiormente spostato l’asse dei valori dal sociale all’individuale, il quale si realizza prevalentemente nella dimensione privata-individuale.
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Sostanze psicoattive17
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Birra, vino, superalcolici, spinelli, anfetamine, ecstasy, cocaina, eroina, sono sostanze “psicoattive”, e cioè sostanze che agiscono sul cervello influenzando le funzioni psichiche; sostanze che se ingerite in quantità da abuso per un medio e/o lungo termine, possono danneggiare il tessuto cerebrale.18 Molti ricercatori ritengono che l’uso/abuso di tali sostanze sia direttamente o indirettamente correlato con condotte aggressive. A tal proposito sono significative le teorie di Wagner, nelle quali lo stesso illustra schematicamente, una panoramica di modelli teoretici (Wagner 1996):19 “modello 1”,20 “modello 2”,21 “modello reciproco”,22 “modello della causa comune”.23 Differente da questi ultimi è invece la percezione che i giovani intervistati sembrerebbero avere circa la possibile correlazione fra i due fenomeni. Considerando i valori percentuali inerenti la risposta “moltissimo”, riferita alla domanda “ritieni che l’aggressività abbia a che fare con l’assunzione di sostanze?”, si evince un quadro di riferimento abbastanza esplicativo. Secondo il nostro campione l’aggressività ha a che fare con l’uso di eroina per il 48,5%, di cocaina per il 43,5%, di ecstasy per il 34,7%, di anfetamine per il 21,2%, di spinelli per il 16,8%, di superalcolici per il 10,4%, di vino per il 2,6%, di birra per il 2,2%. E da considerare sono anche i valori percentuali secondo la risposta “abbastanza”: ad associare l’aggressività con l’eroina è l’8,9%; con la cocaina il 10,6%; con l’ecstasy il 16,2%; con le anfetamine il 23,4%; con gli spinelli il 25,3%; con i superalcolici il 31,7%; con il vino il 16,2%; con la birra il 13%. Pertanto, la percezione degli intervistati è piuttosto affiancabile al quinto “modello” teorizzato da Wagner: Il “modello da causa indi-
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pendente” ipotizza che l’utilizzo si sostanze psicoattive e le condotte aggressive siano fenomeni indipendenti e con influenze differenti; di conseguenza, c’è una correlazione ma in realtà i due fenomeni compaiono per cause differenti. Non meno interessanti sono i dati che emergono dalle risposte date alla domanda: “oltre quale limite le sostanze indicate, a tuo avviso, possono provocare aggressività?” Molto alta è la percentuale delle “non-risposte”; percentuale che tende maggiormente a crescere quando il campo si restringe alle droghe pesanti. Ciò lascerebbe dedurre che solo pochi intervistati riescono a riconoscere le quantità limite relative all’assunzione importante di alcune sostanze psicoattive. Inoltre, quel piccolo numero di ragazzi che risponde lascia intravedere come la soglia del limite ammesso, vada via via crescendo per spinelli e alcolici. Segno forse, questo, di un atteggiamento implicitamente teso a giustificare un uso (e delle volte forse anche abuso) delle stesse. Infatti, si rilevano percentuali bassissime circa la correlazione tra comportamenti aggressivi e l’assunzione in particolare di vino, birra, superalcolici e spinelli. Queste considerazioni mettono in evidenza come vi potrebbe essere un uso quasi abitudinario di queste ultime sostanze, e ciò lascerebbe supporre che da parte degli adolescenti, vi sia anche una ricerca esasperata di stimoli intensi, sensazioni forti, sì da ovviare ad un forte disagio mentale o comportamentale o sociale. Atteggiamenti nei confronti dei media
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Media, un lemma che inquadra immediatamente il tema affrontato e non distinto dalla sua complessità, la quale, oggi più che mai, è oggetto di copiose dispute nelle quali i contendenti nell’arena dell’opinionismo, combattono ferocemente i munera, per ottenere il favore del “pubblico-imperatore”, ma, il più delle volte, senza riflettere sul valore “responsabilità”. È bene chiarire subito che qui non parleremo delle potenzialità di ampliamento della capacità cognitiva che alcuni di codesti artefatti offrono all’uomo, quanto proprio delle rappresentazioni simboliche che gli stessi veicolano con il possibile rischio di distorsione della realtà. La rappresentazione attraverso le immagini, fa spesso ricorso ad una messa-in-scena seducente, coinvolgente e, come sostiene
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Tisseron,24 si caratterizza per le sue principali funzioni: avvolgimento e trasformazione. Le immagini ci inglobano in un continuo piacere, trasformando le nostre percezioni. Ma ciò comporta due conseguenze: da un lato, la fascinazione, dalla quale ne deriverebbe il gioco delle suggestioni che spesso possono rinforzare predisposizioni latenti; dall’altra, la de-sensibilizzazione, assuefazione, banalizzazione della violenza. La tv, il computer, i videogiochi, Internet, sono funzionali modelli d’interazione sociale, pensati anche per influenzare la conoscenza, gli atteggiamenti e i comportamenti degli individui. Altri dati (qui non riportati) hanno messo in risalto quanto la tv e internet siano nelle preferenze prioritarie degli studenti, rispetto ai videogiochi e alla lettura. Ma letti in tal modo, risultano essere alquanto relativi se sottratti alla tipologia dei contenuti fruiti in un determinato lasso di tempo. Così, per molti ricercatori, tra media e aggressività c’è una forte correlazione la quale è spesso studiata secondo disparati modelli: sperimentali, osservazionali e longitudinali, nei quali molte sono le prospettive teoretiche. Secondo la prospettiva dell’apprendimento sociale, il comportamento aggressivo si deve attribuire al “modeling”: le condotte aggressive vengono assimilate e rinforzate mediante l’emulazione delle figure parentali, dei coetanei, delle scene filmiche o televisive in genere; i soggetti apprendono le condotte aggressive attraverso l’osservazione e l’imitazione di modelli relazionali e ambientali (Bandura 1986).25 La teoria socio-cognitiva vede il soggetto come un elaboratore di informazioni che lo guidano nel comportamento sociale (Huesman e Miller 1994).26 E ancora, Anderson e Dill (2000)27 ragionano su un approccio che propone un’integrazione di differenti aspetti delle teorie esistenti, chiamato “General Affective Aggression Model” (GAAM): si tratta di un processo multistadio, attraverso cui variabili legate alla persona e alla situazione, conducono all’aggressività. I mezzi di comunicazione hanno differenze fondamentali che decretano le relative caratteristiche di unicità. Il film diretto da Oliver Stone, “Natural Born Killers” (nella versione italiana “Assassini nati”), è uno tra i più emblematici nel sottolineare la pericolosa sovrapposizione tra realtà e rappresentazione, che la tv onnipresente può provocare in fruitori già tristemente predisposti a condotte aggressive perché nati e cresciuti in ambienti
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frustrati e frustranti. I videogiochi, con i quali il nostro campione dichiara di avere poco a che fare, hanno caratteristiche diverse dalla tv, in quanto emerge una più forte identificazione con i personaggi, il coinvolgimento attivo, la pratica sensomotoria, il controllo sulle decisioni e sulle conseguenze. “Ritieni che l’aggressività possa essere associata alla navigazione in Internet?”. A questa domanda le percentuali subiscono leggere modifiche: il 64,9% risponde “per niente”; l’11,7% “poco”, il 7,3% “abbastanza”; il 2% molto e l’1,6% “moltissimo.
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Tra i siti più segnalati, registra percentuali altissime il sito http:// www.rotten.com, uno dei tanti indirizzi che allarmano in maniera impressionante i ragazzi salentini, potenziali fruitori di immagini scabrose, propaganda di violenza gratuita.28
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Questo impone l’imperativo di riflettere sul valore di “responsabilità”, lo stesso che per le caratteristiche logico-funzionali e strutturali della rete, sembra difficile da far appartenere a questo nuovo mezzo di comunicazione. Per alcuni autori, in alcuni casi, anche la musica comunica messaggi potenzialmente pericolosi e può rappresentare una minaccia alla salute e alla crescita degli adolescenti (Strasburger 1995). Ciò non documenta una effettiva relazione causa-effetto tra i contenuti dei brani musicali e le condotte aggressive. Ma come per Internet, anche per la musica le opinioni dei ragazzi si distribuiscono per il 60,1% secondo la risposta “per niente”; il 10,5% “poco”, il 6,2% “abbastanza”; il 2,4% “molto” e “moltissimo”. Dunque, il quadro complessivo vede da parte degli studenti salentini, porre l’accento su “Aggressività” non in tutti i media allo stesso modo. Relativamente poco si riconosce la relazione del fenomeno con la tv, i fumetti, i videogiochi, la musica. Più propensi, invece, ad additare Internet come principale fonte del fenomeno, forse perché, probabilmente, in questo media è più difficile che si realizzino i processi di identificazione e orientamento, due momenti importanti del particolare periodo di sviluppo biologico-cognitivo dei soggetti adolescenziali. Alcuni studiosi, tra i quali Feshbach (1971), avanzano l’ipotesi che l’esposizione alla violenza crei un effetto liberatorio, catartico, di sfogo delle emozioni e tensioni represse. E a considerare l’aggressività esposta in tv in quanto “valvola di sfogo” è il 4,8% degli intervistati; esposta nei videogiochi, il 6%; nelle riviste, il 6,9%; in Internet, il 3,6%; nella musica, il 14,7%. Pertanto, i dati interessanti per i media considerati sono quelli che per una grossa fetta degli studenti salentini negano la presenza di effetti significativi sul comportamento in relazione all’esposizione di immagini violente.
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Considerazioni non conclusive
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Ricerche dal profilo empirico come la nostra, evidenziano chiari limiti da tener presente. Innanzitutto i dati a disposizione non devono essere considerati come “oggettivi”, in quanto filtrati dalla “soggettività” degli intervistati. La ricerca si avvale di opinioni, valutazioni, percezioni, atteggiamenti che lasciano poca certezza all’attendibilità delle risposte
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date. Un secondo limite sta sicuramente nel fatto che il campione non è rappresentante l’intero l’universo giovanile del Salento, ma una fetta decisamente parziale. Guardando alla condizione affettiva all’interno dell’aggregato familiare degli intervistati, il quadro complessivo che se ne ricava è abbastanza positivo e non emerge dunque una situazione allarmante. Ma questo è dovuto alla tipologia del campione, alle sue caratteristiche. Per questo non si espongono considerazioni conclusive proprio perché la situazione fotografata non dimostra l’inesistenza della problematica in questione, anzi al contrario: il “fenomeno” potrebbe essere più diffuso di quello che pare. “Non conclusive”, anche perché le diverse interpretazioni sull’aggressività mancano ancora di una discussione in grado di intersecare le parti del questionario, ed è bene lasciare la porta aperta alla pluralità dei diversi approcci teorici. Ma potrebbe essere proprio questo un terzo limite della ricerca, in quanto si può incorrere nel rischio di non definire bene quel limite che intercorre tra pluri-disciplinarietà e inter-disciplinarietà, confondendosi inconsapevolmente in una riduttiva sovrapposizione di specialismi, i quali sfiorandosi leggermente tra loro possono solo apportare linee teoriche fin troppo differenziate. Quello che si evince in conclusione, è che la realtà giovanile del Salento non sembra portatrice di un modello di atteggiamento e di comportamento ben definiti, ma si pone come una realtà diversificata e flessibile. I valori di questa generazione sembrano adattarsi al mutamento politico-sociale conducendoli a dare importanza alla famiglia ma anche al lavoro; e il ripiegamento sul privato li conduce a porsi mete a medio e piccolo raggio e/o comunque attinenti alla realizzazione quotidiana di istanze personali.
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Per quanto riguarda il fenomeno dell’aggressività si dovrebbe pensare che esso è in parte a carico di caratteristiche personali; in parte a carico di squilibri della dis-organizzazione sociale: nel Salento, più che altrove, per quanto concerne la disparità degli accessi alla sicurezza del lavoro e del benessere. E a tal proposito non possiamo esimerci dall’evidenziare quanto alcune teorie vedono le condotte aggressive frutto di inclinazioni personali, ma non meno di relazioni interpersonali frustrate per le quali numerosi modelli sociali suggeriscono di reagire legittimando i
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comportamenti aggressivi. Da qualche parte si è detto che noi giovani chiediamo implicitamente “nuovi bisogni e nuove politiche sociali”: un’àncora di salvezza per alzare le soglie di resistenza collettiva nei confronti del ricorso alla violenza e soprattutto, nel particolare periodo storico che stiamo vivendo, quella nei confronti delle istituzioni e dei suoi rappresentanti. Gli Istituti salentini che hanno aderito al progetto di ricerca
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* I “collaboratori” sono studenti del Corso di Laurea di Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce coordinati dall’assegnista Alessandra De Giovanni.
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Note 1 Konrad Lorenz, uno degli etologi che più hanno influenzato il pensiero contemporaneo, sostiene che gli istinti sono in grado di scatenarsi anche in assenza di stimoli esterni in quanto impulsi e schemi non appresi e quindi ereditari (G. Ingrascì e M. Picozzi, Giovani e crimini violenti, McGraw-Hill, Milano 2002, p. 26). 2 Alla base dell’approccio cognitivo-evoluzionista vi è l’assunto secondo cui l’uomo è dotato, sin dalla nascita, di un ordine di disposizioni innate, forme di attività mentali e comportamenti diretti a mete, che sono il risultato della storia dell’evoluzione dei primati (Ivi, p. 28). 3 E. O. Wilson ricorre al concetto di coevoluzione-culturale, definita come “un’interazione complicata, affascinante, nella quale la cultura è generata e formata dagli imperativi biologici, mentre i tratti biologici vengono contemporaneamente modificati dall’evoluzione genetica, in risposta alle innovazioni culturali” (Ivi, p. 30). 4 Nella produzione freudiana è possibile rintracciare e seguire lo sviluppo di tre ipotesi: l’ipotesi di un’aggressività primaria, l’ipotesi di un’aggressività reattiva a un’esperienza di frustrazione e, infine, l’ipotesi dell’esistenza di una pulsione di morte (Ivi, p. 17). 5 Il comportamentismo, in contrapposizione all’introspezionismo, si concentra sullo studio del comportamento, abbandonando l’idea di studiare la mente, la coscienza, tutto ciò che di “psicologico” nell’uomo non è misurabile, assumendo una metodologia di ricerca rigorosa, tipiche delle scienze fisiche (Ivi, p. 31). 6 Vd. “Allegato n°1”. 7 Nel particolare, le domande oggetto di questa tesi sono: dalla n°1 alla n°13; la n°21, 23, 30 e 31; e dalla n°40 fino alla fine, escluse le risposte aperte. 8 Elaborazione dei dati dalla domanda n°1 alla domanda n°8. 9 Cfr. (http://www.provincia.le.it/ssi/statistica, p. 6). 10 Cfr. Il sito web dell’ US Department of Justice: (http://www.ncjrs.org). 11 Elaborazione dei dati relativi alla domanda n° 21, 23, 31. 12 Il behaviorismo riduce a considerare la famiglia una prassi, una “convivenza di fatto”; individui che per un periodo del “corso della vita” si trovano “situazionalmente” assieme. Si tratterebbe di una ideologia comportamentista di derivazione nord-americana che sopprime la realtà sovra-individuale e sovra-funzionale della relazione familiare (P. Donati, La famiglia tra coinvolgimento e distacco, in E. Scabini e P. Donati (a cura di), Identità adulte e relazioni familiari, Vita e pensiero, Milano 1991). 13 Questo risulta essere l’esasperazione delle teorie funzionaliste, le quali pensano alla famiglia come consistente di comunicazioni e solo di comunicazioni; non
di persone e neanche di “relazioni” tra persone (Luhmann 1988). Qui si perde di vista l’assunto della famiglia intesa come fenomeno, per considerarla esclusiva-
mente in qualità di sistema. Un teoria che induce a pensare alla famiglia come
Murales a Lecce
“auto-poietica”, e cioè chiusa non nelle relazioni, ma nel fatto di essere auto-
“maschilismo”, accusato di rialzare la cresta quando rivendichi più cura (femminile), attraverso un riconoscimento sociale del lavoro domestico; più attenzione per bambini che mostrano sempre più preoccupanti e diffusi disturbi di comportamento, evidentemente prodotti dagli squilibri della vita familiare, dalla confusione dei ruoli genitoriali (madre omnipotens e accomodante; padre-amico, non più riferimento di autorità), con la inevitabile caduta di divieti, frustrazioni e autorità pur necessari a temprare le più giovani generazioni nell’epoca delle passioni tristi e del futuro-minaccia. Benasayag è nato in Argentina, è entrato giovanissimo nei movimenti studenteschi operando in clandestinità contro la giunta di Videla e come tante altre migliaia di desaparecidos è stato torturato e salvato poi in extremis per un fortunato concorso di circostanze. A Parigi fa ora lo psicanalista e insieme a Gèrard Schmitt, che ha avuto evidentemente una vita più tranquilla, insegna psichiatria infantile a Reims e segue
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Intervistati da un settimanale femminile distribuito ogni sabato da uno dei quotidiani più diffusi (a proposito: ma perché le riviste femminili sono più interessanti di quelle rivolte a un pubblico maschile?), Miguel Benasayag e Gérard Schmitt sono apparsi il giusto rimedio – giornalisticamente “la spalla” – di una rivista rivolta a donne di orientamento progressivo per scacciare i fantasmi evocati da altri due psichiatri, Robert Shaw e Aldo Naouri (americano il primo, francese il secondo) che hanno fatto rumore in America e ora in Europa. I due hanno denunciato, dati alla mano, i disagi psichici provocati su un’intera generazione di bambini e adolescenti dai c.d. genitori-amici, quelli che debbono sempre farsi perdonare le loro disattenzioni e non di rado l’abbandono, il disinvestimento. The Epidemic – questo il titolo che ha scatenato in America una furibonda polemica, degenerata poi in luoghi comuni di comodo (da cui neppure “La Repubblica delle Donne” a. 9, n. 413 del 7 agosto 2004 riesce per la verità a sottrarsi) con la inevitabile caccia al
letti da semeraro
Miguel Benasayag, Gérard Schmitt, Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale; L’epoca delle passioni tristi, tr. it. di Eleonora Missana, Feltrinelli, Milano, pp. 129, € 15,00
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da anni l’evoluzione dell’infanzia e dell’adolescenza francese, ci spiega in poco più di un centinaio di pagine da bersi d’un fiato, su come si possa gestire una clinica del legame da opporre alle tante sparse cliniche del sintomo: quelle, per intendersi, gradite alle grandi imprese farmaceutiche, pronte a produrre ogni sorta di panacea chimica per aggredire ogni sintomo-bersaglio diligentemente rubricato nel Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali, uno strumento creato e proposto dall’APA, potente associazione degli psichiatri americani. La medicina della classificazione dei sintomi dispone di risposte amfetaminiche a portata di tutti: dal collaudato Valium (“la pillola della felicità”) al Ritalin (la “pillola dell’obbedienza”), per mettere a norma i bamboli perché si comportino secondo le aspettative di una società che nei fatti si dimostrata incerta nel seguire in modo soddisfacente il loro sviluppo. Su queste pratiche di “cancellazione” per tempo del sintomo, che allontana i più giovani dall’immaginario ideale imposto dalla società adulta, i due autori sferrano la loro civilissima battaglia culturale. I problemi psichici – affermano – non possono essere affrontati in un contesto di astrazione ideologica, e si tratterebbe sem-
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mai di ricostruire relazioni e situazioni che appartengano in modo costitutivo agli adolescenti (p. 112). Essi sostengono che la imprevedibilità del futuro sociale dovrebbe indurci a riflettere sulle insufficienze del sapere accumulato, anche se dall’interno di quell’accumulo riusciamo a tirar fuori qualche linea di fuga e di salvezza. Ciò vale anche per la pratica psichiatrica, dove il tutto di una persona, al di là dei suoi sintomi, può emergere solo in uno spazio di non-sapere e quindi di ricerca e di scoperta condivisa nella relazione terapeurica. Servirebbe insomma la riconquista di uno spazio simbolico che eviti di ridurre le persone alla visione unidimensionale del loro problema. Ma la cornice sociale in cui si svolgono le pratiche di cura vive invece nello spazio del divieto. Gli amministratori della nostra vita sociale più che indurci a desiderare e sognare un mondo e modi diversi di abitarlo, non sanno esprimere che divieti e sanzioni. Ma si dà il caso che ogni enunciato che ponga la minaccia in primo piano può solo provocare, paradossalmente, un aumento del pericolo. Consideriamo per un attimo le campagne di Pubblicità Progresso promosse dal ministro della Sanità Sirchia. Pensate che quel quel minaccioso “IL FUMO UCCIDE” possa farmi desistere dal piacere
fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro (p. 63). Come ha scritto Debord, se le persone non trovano quel che desiderano finiscono col desiderare quello che trovano (e allora si fanno investimenti sbagliati). Per gli Autori infatti “la grande sfida lanciata alla nostra civiltà è di promuovere spazi e forme di socializzazione animate dal desiderio”; pratiche che riescano ad avere la meglio sugli individualismi spietati dell’homo oeconomicus. La minaccia di futuro, non meno dell’ansia del presente, rompe invece tutti i legami che uniscono le persone. Ma amarli – i giovani – non significa proteggerli e “armarli”, bensì sviluppare quelle altre possibilità da cui pretenderemmo di metterli al riparo; aiutarli a scoprire l’utilità dell’inutile: della vita, dell’amore, del desiderio. Perché è questo diseconomico “inutile” che produce ciò che è poi davvero utile. Nel trattamento psichiatrico viene perciò indicato un passaggio decisivo che sta oltre la diagnostica classificatoria dell’associazione psichiatrica americana: qualcosa che attiene alla cura educativa, intesa come somministrazione di vaccini contro la
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di tirarmi fino in fondo il mezzo toscano, il sigaro più saporito del mondo, per almeno quattro/cinque volte al giorno? Che prezzi pagherei e farei pagare al prossimo mio se dovessi soccombere a quella minaccia e decidermi di smetterla? Le campagne antiqualcosa non hanno mai prodotto alcun effetto. Semmai è accaduto (e accade) il contrario. I professionisti delle campagne pubblicitarie che lavorano sulla prevenzione dell’AIDS ad es. sono in grandi difficoltà, perché qualunque messaggio che colleghi la morte al sesso o alla velocità: “se fai l’amore muori”; “se acceleri ti schianti” cade nel vuoto giovanile. Ogni messaggio che evochi idee di assoluto finisce nella disattenzione o rende più desiderabile ed intensa l’azione inibita. La kantiana fiducia nella ragione come strumento per evitare morte, dolore e sofferenza non tiene conto che spesso agiamo contro il nostro stesso impulso vitale, in una sfida continua al limite. Così, il solo messaggio che il mondo adulto sa inviare è semplicemente questo: che la nostra è tutt’altro che un’epoca propizia al desiderio; che occorra occuparsi della sopravvivenza; per tutto ciò che riguarda il desiderio e la vita, si vedrà poi. E si tratta evidentemente di una trappola
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bruttezza e le brutture del mondo. Si tratta per lo più di stili di vita poietici, che eccitano la sfera estetica del comportamento. Evitare il cammino della tristezza, quello di un sapere normalizzatore che imprigiona l’altro nella sua “etichetta”; sviluppare le altre possibilità non attivate, altro non sono che rimedi spinoziani. Spinoza le chiamava passioni gioiose, e avevano qualcosa a che vedere col corpo, la sensibilità, le sensazioni primarie. Il principio fondante dell’Etica spinoziana è che non sai mai ciò che può un corpo, e questo “non sapere” non rappresenta un’ignoranza, ma “favorisce il dispiegarsi di tutti i saperi e di tutti i desideri, perché non condanna l’altro al suo sintomo-etichetta” (p. 90). Anche se non è mai citato, c’è molto Foucault in queste pagine dei due psichiatri-filosofi. La “cura” non può partire da una classificazione del sintomo-bersaglio; meno che mai da un giusto dosaggio amfitaminico affidato alla clinica del sintomo, ma investe un orizzonte più largo, in cui il “paziente” è spinto a esercitare quell’ermeneutica del sé, che è un pensiero in cammino utile al lavoro di disvelamento sui poteri e i limiti delle proprie facoltà, e le modalità del proprio rapporto col mondo. La lotta per la soggettività si esprime come
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diritto alla variazione, alla metamorfosi, insomma alla trasformazione, perché agire sulle persone, anziché sugli individui, significa assumerne il carico della molteplicità dei volti e delle storie. La filosofia psichiatrica o meglio la psichiatria che voglia operare in uno spazio in cui l’agire sociale e politico non è lasciato fuori dagli studi e dalle cliniche, si fa dunque tecnica di problematizzazione. Non possono sfuggire, in questa apertura dello spazio rieducativo a misura di persone, i tanti spunti utili a una rifondazione pedagogica che voglia assumere l’antiutilitarismo come premessa, e la responsabilità come fine di una cura rivolta alle persone. La cura psichiatrica, in questa ipotesi di clinica della situazione avverte l’obbligo di adoperarsi per la ricostruzione del legame sociale, travolto dai modelli di individualismo dominanti. Era da tempo, semmai un tempo c’è mai stato, che non si sentiva dialogare la psichiatria con questo più ampio raggio di orizzonti sociali a cui gli autori fanno riferimento, senza negarsi al versante maudite della contemporaneità filosofica. E queste pagine risarciscono di tante censure e autocensure dei curatori di psiche sui crinali del pensiero moderno. (a. s.)
Carnevali, B. Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 291, € 22,50. fine lettore di Hegel, una humanitas ha luogo solo laddove e allorquando il desiderio biologico della conservazione “si asservisce al desiderio dell’approvazione” (Kojéve 1996). Tutti desiderano ottenerla – l’approvazione –, costi quel che deve costare!, solo che per quest’autore, ciò che è specificamente umano non è l’amore, ma la guerra, guerre di affermazione, a volte lunghe e sanguinarie, combattute per il prestigio. Dal momento che tutti desiderano distinzione, non disposti a concedere ad altri il riconoscimento che richiedono per se stessi, l’unico esito possibile non può che essere la guerra di tutti contro tutti. Una posizione che rinvia ancora a Rousseau, il quale chiarì bene questo brusco passaggio dall’amore alla guerra, introducendoci nei meccanismi dei rapporti ugualitari. Gli individui – spiegava il ginevrino – reagiscono all’egualitarismo deviando sui propri simili/rivali le tensioni interdette dall’organizzazione sociale. E il rivale con cui ci misuriamo è proprio il più prossimo a noi; un pari grado: amico, partner; ed è questa simmetria ad
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Fu Rousseau a drammatizzare la scena del riconoscimento spostandolo dal suo asse gnoseologico a vantaggio di una politica delle relazioni. Attraverso la scissione dell’amore di sè dall’amor proprio egli introdusse nella coscienza moderna la ben nota distinzione tra essere e apparire. Se l’amoure de soi è un più proprio io degno di essere amato e stimato (gli uomini non vogliono solo essere lodati, ma lodevoli; non solo essere stimati, ma amati), la dimensione dell’alterità diventa rilevante, perché ciò a cui teniamo sopra ogni cosa è che qualcuno ci riconosca (e ci accetti). E ciò che più c’impegna a tempo pieno nell’arco dell’intera esistenza è la ricerca delle prove e conferme del riconoscimento e dell’accettazione. La mancanza di stima e amore degli altri fa crollare l’autoconsiderazione che abbiamo di noi stessi, chiudendoci alla comunicazione. L’amour de soi ha vitale bisogno dell’amore offertoci da altri, e quell’altro sembra proprio che debba amarci prima che noi iniziamo ad amare noi stessi, perché è il suo sguardo che ci fonda e ci plasma. Per Kojéve,
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esasperare la necessità di una distinzione, anche in forma violenta. Le democrazie, non meno dei totalitarismi, tendono a indifferenziare, rendendo così più acuta l’esigenza di separare e gerarchizzare. Mimesi e distinzione; attrazione e repulsione: un gioco di dinamiche che nel rapporto ugualitario rende gli individui tutti interscambiabili e al tempo stesso tutti desiderosi di affermare la propria distinzione. Un problema tutto moderno, ignoto al mondo classico e arcaico, a cui pure Rousseau deve fare riferimento per riscattare nella relazione il di-sinteresse e la virtù civile; un problema destinato a irretirsi col crescere delle rivendicazioni di parità nel gioco aperto delle geopolitiche globali, dove il riconoscimento diventa lotta per la conquista di un’identità (cfr. ora Crespi, Bauman, Oz 2004), non più assegnata dalla comunità, ma costruita attraverso un percorso conflittuale dell’individuo con i suoi pari.
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Hobbes e Smith. Lo studio di Barbara Carnevali li legge in filigrana. Pur partendo da punti di vista differenti entrambi posero nel reciproco riconoscimento il fondamento del legame sociale. E proprio la rovinosa caduta del legame, che
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minaccia ora senza rimedio le politiche sociali che si reggono sul riconoscimento, rende necessario un riesame degli aspetti devastanti dell’amour propre contemporaneo, dove aggressività e mimetismo dilagano. Torna utile perciò questa riflessione sul ruolo che l’opinione pubblica gioca nella costruzione personale. Rousseau disponeva, com’è noto, di una sua via romantica al riconoscimento attraverso cui tentare il recupero dell’io autentico: una carta debole tuttavia, un abbrivio per viandanti solitari. Come sarebbe stato possibile nel dispendio mondano del suo secolo, dilatato per noi dall’occhio dei media, non lasciarsi condizionare dal giudizio degli altri? Non a tutti è concesso il privilegio di ritagliarsi uno spazio estetico per un farsi trasparente della coscienza individuale. Alcuni ci provano, e tutt’intorno è un fiorire di memorie biografiche mature, che tentano di ricostruire il difficile rapporto con un’alterità sepolta tra una memoria debole e l’oblio rimosso. Un estremo rifugio estetico, che deve operare una rigorosa selezione dei suoi interlocutori remoti perché il sé ne esca gratificato. Un rapporto dunque che ha bisogno evidentemente di trovare un’altra e
da difendere; l’appartenenza si è indebolita e deformata insieme, e l’emulazione virtuosa si è convertita in una gara per l’accrescimento della ricchezza, dei lussi, del dispotismo. Ma è forse da questa inclinazione alla vanità, che gli stessi rappresentanti delle istituzioni moderne s’incaricano di contagiare, modellando mediaticamente i governati a loro immagine, che può nascere una nuova speranza. Se i contemporanei, non meno degli antichi, hanno bisogno della stima dei propri simili, c’è forse ancora da scommettere qualcosa per la ripresa di un’etica pubblica. Se un po’ tutti avvertiamo un bisogno di riconoscimento, si tratterebbe – qui è il Rousseau politico che parla – di suscitare il desiderio; di facilitare il mezzo di “attrarre con la virtù la stessa ammirazione che oggi riusciamo a procurarci soltanto con la ricchezza” (Frammenti politici, p. 501). Una bella sfida per la controinformazione e una comunicazione costruita dal basso. Opporre all’arroganza l’intelligenza, alla smaniosità la compostezza, al così fan tutti la distinzione, alla corruzione la resistenza morale, alla vanità dei governanti la diligenza e competenza dell’officium, all’interesse privato la cura del pubblico: ecco un bel program-
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diversa soluzione nello spazio del presente delle vite (e dei viventi). Esiste un uso buono dell’amour propre funzionale a un progetto politico che si proponga di rifondare un ethos civile. In Rousseau non si dà alternativa tra solitudine o comunità – per dirla con il felice titolo di Baczko (Baczo1974). La scelta della scomunicazione è una perdita della comunità. E tanto nell’aurea monografia di Todorov (1985) che nel più recente studio della Carnevali è dato il giusto rilievo a quella ricerca all’indietro che Rousseau compie in quelle epoche della storia dell’umanità in cui la lotta per la distinzione ha rappresentato un fenomeno positivo, stimolatore di azioni eroiche. Nello sguardo retrospettivo, tra le pieghe dell’arcaico, si incontrano ideali di virtù che conciliano il bisogno di riconoscimento con i valori comunitari. Nelle prime poleis si rivaleggiava non meno e più efferatamente di oggi, ma la passione individuale aveva un suo ruolo definito per il vantaggio dell’insieme. L’eroe, anche quando solitario, era riconosciuto dalla sua comunità. Il suo patire era sentito e condiviso nella comunicazione dell’insieme. Quel tempo tuttavia si è chiuso e concluso: non vi sono vere patrie
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ma di resurrezione che attende nuove bandiere e rappresentanza politica! Sono le idee di un Rousseau consapevole del suo radicalismo, che non concedeva spazio a una società intersoggettiva ripiegata (rifugiata?) nel privato familiare e “coniugale”, nell’amicizia ristretta, intesi come beni-rifugio. Tanto nell’Émile che nella Nouvelle Héloïse Rousseau provò a costruire una mediazione tra gli estremi dell’io assoluto e della comunità assoluta (Carnevali, cit., p. 57). Ma una reciprocità non si dà senza antagonismo. Solo nella società eroica il capo è il “primo tra i migliori”. Non si dà – oggi – se non a patto di rinuncia all’amour passion, a vantaggio del più composto amore coniugale (Pulcini 1990), la cui trama coesiva, tessuta sulla reciproca convenienza dei par-tner, va estesa a tutti i sodalizi legati da patti di fedeltà in cambio di fedeltà; non si dà se non a patto che i furori della passione, il piacere di essere scelti e preferiti per le proprie qualità e i propri meriti, cedano innanzi alle ragioni indiscusse del più forte (anche se la fedeltà – avrebbe poi scritto de Rougemont (1977) – è assurda almeno quanto la passione). Rousseau insomma restò un
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po’ imbrigliato nelle sue distinzioni. L’unico ambito in cui gli riuscì di far coincidere i due amori (di sè e dell’opinione) è, come si è detto, quello politico: un passo indietro rispetto ad Hobbes, che ragionando in una prospettiva naturalista e materialista, riuscì ad evitare la dolorosa scissione tra il sé e l’insieme, evitando il double bind del ginevrino. Seppe evitarla perché ammise la liceità del desiderio e delle passioni, pur tenendo distinte in due particolari categorie quelle materiali, che ricercano il piacere sensibile e appartengono all’utile, e quelle mentali, che offrono un godimento esclusivamente spirituale (l’estetica, l’arte disinteressata, il kantiano amore per il sublime): piaceri dell’anima. Tra i due ambiti, entrambi mossi da uno stesso conatus che spinge all’oltre, travolgendo ogni ostacolo che ne impedisca lo sbocco, la qualità dei piaceri si gerarchizza. Hobbes non si sarebbe lasciato influenzare dalla minuta nosografia stoica a cui si dedicò prevalentemente, nel III d.C. Diogene Laerzio (col concorso poi dello Pseudo-Andronico), che descriveva e gerarchizzava con minuziosa precisione i piaceri, nell’intento di amputare radicalmente le “esaltazioni
costituzione umana (Carnevali, cit., p. 39). L’uomo hobbesiano vive pienamente i suoi bisogni fisici dettati da un istinto conservativo insieme a quelli spirituali, psicologici, morali. L’istinto di conservazione gli fa temere le offese, le umiliazioni, l’onore ferito, il desiderio di vendetta con la stessa forza con cui persegue le passioni spirituali della stima, del prestigio, dell’ammirazione e distinzione. Anche l’inquietudine è un marcatore di passioni negative: condanna la coscienza a dipendere sempre dal giudizio degli altri e a sbandare innanzi a ogni minima perturbazione, precipitandola nella permalosità e nella chiusura. Il bisogno di riconoscimento è insaziabile, si amplia all’infinito con l’estendersi esponenziale del sistema di comparazione, senza mai fermarsi. Ma è da queste passioni “naturali” che Hobbes fa derivare quelle mentali. Sono le passioni mimetiche di cui parla Girard, che innescano un conflitto dagli esiti incerti, impedendo le aperture, ma anche le chiusure definitive. In quanto modello, l’altro è anche il mio maggiore rivale, perché “sta sempre dove vorremmo essere noi”. Nel desiderio imitativo Girard ha posto le radici della violenza, che rito e mito
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irrazionali” delle passioni e quelle “tensioni irrazionali verso il piacere” costituite dai desideri, perché l’io umano possa costruirsi secondo “norma di natura” che lo vuole “razionale” (questa era stata la sfida stoica). Si limitò, coraggiosamente, a cogliere tutte le possibili corrispondenze e interferenze tra le passioni materiali e i piaceri dell’anima. Così, se a livello materiale il conatus si esprime nell’illimitato desiderio di possesso, per i piaceri mentali si tratta di una illimitata bramosia di superiorità sugli altri: glory, pride, vanity, i corrispettivi di quell’amour propre combattuto da Rousseau. Ogni piacere e ogni ardore dell’animo consiste nel trovare qualcuno con il quale confrontandoci, possiamo trarre un più alto sentimento di noi stessi (De Cive, 1, 5, p. 163). L’alterità entra così costitutivamente in gioco nella costruzione riflessiva, e opportunamente Carnevali fa osservare che mentre la distinzione di Rousseau tra amore di sè e opinione vuole stabilire un diverso trattamento tra ciò che è natura e ciò che è prodotto dall’uomo e dalla società, entrambi si trovano invece mescolati nella prospettiva materialista hobbesiana, che parte dal presupposto dell’assoluta “innocenza” della
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imbrigliano e disciplinano. Fuori dal mito e dal rito, che evidentemente posseggono una forza comunicativa fondata sul potere di persuasione (e sono perciò una potente leva educativa, come fu già chiaro a Platone (Repubblica, 2, 376d e sgg.), si cade in preda a quelle passioni tristi, come le definiva Spinoza; tra le preoccupazioni che diversamente Hobbes e Rousseau tentarono di superare. Quando Hobbes infatti dichiara l’assoluta innocenza della costituzione umana, considerando tutte le passioni, compreso il risentimento – appendicolo dell’orgoglio –, come effetto naturale della ricerca di potere, Rousseau si affretta a stigmatizzare con un certa supponenza lui e i suoi seguaci: “Parlavano dell’uomo selvaggio, e dipingevano l’uomo civile” (Second Discours, pp. 141-142). In effetti la “condizione naturale” che prende corpo nel Leviatano si riferisce tanto agli antichi che ai moderni. La radice d’ogni guerra, tra i singoli come tra Stati, nazioni o sovranazioni, sta nel fatto che tutti reclamano una distinzione, ma che nessuno è poi disposto a concedere ad altri il privilegio che riserva a se stesso. Tutto già scritto nel Leviatano dunque (XIII, p. 185). Una corsa
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senza traguardi per stare sempre innanzi agli altri. I buoni Padri della Compagnia non addestravano i giovanetti a gareggiare per i primi posti per poter poi da grandi essere sempre primi? Un rovesciamento dei valori evangelici forse, ma a tutto vantaggio della realpolitik di una società competitiva. Il bisogno di riconoscimento e di supremazia prende così il comando dell’anima e diventa la passione dominante. Riferimenti
bibliografici
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(a. s.)
Veca, Il filosofo e l’amore, ricerca senza fine, in Reset, n. 80 (nov.-dic.2003). Zigmunt Bauman, Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, Polity Pfress, Cambridge, e Blackwell Publishing Ltd, Oxforf, 2003; Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, tr.it. di Sergio Minucci, Bari, Laterza, maggio 2004, Bari, pp. 220, € 16,00 mistero che li attrae e li fonde. Ci ha pensato Reset di recente a riaprire i giochi teorici, dal momento che di Eros i filosofi non hanno mai smesso di discutere (ma non del piacere erotico, come sostiene la psicanalista-filosofa francese Anne Dufourmantelle nel suo recente Sesso e filosofia. Appuntamento al buio). Nozik, Nussbaum, Cacciari, Natoli, Veca se ne sono fatti indagatori acuti e punti di riferimento per cercare di capire qualcosa, cercando di rispondere alle domande su cui continuiamo a interpellare la filosofia. Per amore del remoto (direbbe Nietzsche), ma anche del sicuro, aggiungiamo più modestamente noi, sullo sfondo dei loro discorsi resta l’idea platonica dell’ascesa erotica (Simposio), che Veca in Reset riprende per rifare una di quelle domande ancora senza risposta: perché innamorarsi? E perché di quella persona e non di un’altra?, e che cos’è che veramente
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Si direbbe che attorno al sentire amoroso vi sia una rifioritura di attenzioni, meditazioni, a metà strada tra rivisitazioni dei classici del pensiero aurorale e sociologia del tempo che ci appartiene. Tempo di incertezze, come sappiamo, di instabilità e paure che raggiungono le persone anche in quel benerifugio a tutti disponibile che è l’amore. Ma proprio tutti? E già questa è una bella domanda, perché per più di qualcuno l’amore si rivela un lusso dispendioso che succhia energie e rende più inquieti. Anche il volto di Cupido è cambiato, e il tempo della comunicazione illimitata lo rende di più facile ricerca purché nella necessaria distanza di sicurezza del web. Eppure la pulsione amorosa, a dispetto di tutto il frammentarismo che gli analisti della contemporaneità ritengono un vero e proprio paradigma ineludibile dell’agire sociale, vive e continua ad accendersi nella presenza del due dei corpi e del
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amiamo in quella persona? E prova a risponderci con l’evidenza di ogni esperienza amorosa, ossia che l’innamoramento richiede qualcosa di unico, di speciale, che rende quella persona che mi attrae unica e speciale. Se anche ci accade di innamorarci di particolari caratteristiche di una persona, non sono quelle che prendiamo a desiderare, ma la persona tutta intera che in sé le raccoglie. Quelle stesse caratteristiche del resto possiamo incontrarle o abbiamo già incontrato in numerose persone, ma è la loro combine, il modo in cui quella persona – e non un’altra – le indossa che ci attrae. Se Paride avesse visto Elena come una qualsiasi altra bella, che certamente non sarà mancata nei giardini dell’Egeo, non avremmo avuto né Iliade né Odissea (e saremmo tutti molto più poveri di immaginario). Eppure Elena è “il bel male” agli occhi dei più, e lo stesso Omero – per non dire della più recente proposta cinematografica di Troy – non ci aiuta a immaginarla ornata di tanta sublime bellezza da meritare gli infiniti lutti di una lunga e feroce guerra di assedio. Seconda (facile) osservazione: il desiderio manifestato dal desiderante risveglia ed eccita il desiderio del desiderato: si stabilisce subito una trama di
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attese e di risposte che implementano tanto il Sé del desiderante che il Sé del desideratonon-ancora-desiderante. Martha Nussbaum ci spiega a sua volta in che senso dovendo parlare d’amore, l’Alcibiade platonico sceglie di sottrarsi a definizioni e spiegazioni e prende a parlare di un amore particolare per un individuo particolare. Platone pare abbia voluto dirci che vi sono verità sull’amore che possono essere apprese soltanto sperimentando la propria particolare passione. (“Si insegna – se davvero qualcosa si può insegnare – solo narrando”). Perciò nel Simposio Alcibiade parla d’amore, raccontando la sua esperienza di essere desiderante, e il suo elogio di amore altro non è che elogio dell’amato, della sua vita esaminata. Sembrerebbe dunque che Platone non prenda molto sul serio la tensione duale del rapporto: Diotima, osserva con finezza Veca, sembra voler neutralizzare la tensione del desiderio distogliendolo dalle persone contingenti e fissandolo sulle qualità di cui esse sono adornate. Ma questa pretesa, aggiunge Veca, può solo aiutarci a prendere atto della “nostra persistente incertezza cognitiva” a proposito delle cose d’amore. Scindere i due aspetti – la verità
rato. Il contributo che al dibattito offre ora Zygmund in quest’appendice di riflessione sulla modernità liquida (Laterza 2002), che aggiornava l’analisi degli effetti prodotti sulle persone dalla società dell’incertezza (Il Mulino 1999), è in linea di continuità con gli autori più avanti citati. Riprendendo il discorso dove lo ha portato Volli, sostiene che il desiderio si rivela alla storia come impulso di distruzione, conato assimilativo: un vero e proprio motore centripeto; mentre l’amore sarebbe impulso centrifugo: spinta a espandere il soggetto oltre se stesso. Esso vuol trapiantare l’io in un Altro, aggiungendovi qualcosa e aggiungendo così qualcosa al mondo. L’io amante si espande attraverso il proprio donarsi e comporta un “mettersi al servizio”; uno “stare a disposizione”; un “attendere ordini” (Ricoeur: “Dove sei?” “Eccomi!”), ma potrebbe anche significare espropriazione e sequestro di responsabilità, dominio (attraverso la richiesta implicita di una resa senza condizioni), perché se il desiderio vuol consumare, l’amore vuol possedere. L’amore che cresce diventa poi desiderio di stanzialità, stabilità.
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su di noi, a cui l’altro ci consente di accedere, e quella dell’altro, che a noi accede attraverso il passaggio molto esclusivo che l’intimità apre – non è privo di costi. È il pedaggio da pagare ogniqualvolta dall’amore parlato, platonico, algido e irraggiungibile nella sua pretesa di assoluta perfezione, si precipita nella irrefrenabilità dei corpi che s’incontrano e si riconoscono, accendendosi e dischiudendosi nel desiderio. Una questione di corpi, prima che di anime e delle loro qualità. Il primo oggetto del desiderio è un corpo. Un corpo ha coinvolto nel proprio movimento un altro corpo: la definizione che gli Enciclopedisti dettero alla comunicazione, nasceva da osservazioni fisico-meccaniche, ma anche l’umano, mosso dal desiderio, ha il potere di porre in moto, trasmettere energia, risvegliare dal letargo fàtico. Dunque l’amore come sede della comunicazione e la comunicazione come atto amoroso; energia che un corpo trasmette ad un altro e accelerazione di movimento dell’insieme. Volli sposta a sua volta il discorso sul desiderio, che è brama di consumare; impulso a spogliare l’alterità della sua diversità; pulsione a colmare la distanza dall’Altro/sconosciuto che seduce con le promesse dell’inesplo-
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Sottoposti all’esame dell’analista della complessità contemporanea il desiderio e l’amore si presentano come moti contrapposti. L’amore è una rete gettata sull’eternità per immortalizzarci (non vorrebbe Calypso rendere immortale Ulisse per legarlo eternamente a sé?). Fedele alla sua natura, vuole dunque perpetuare il desiderio, mentre questo vuole sfuggire alla prigione a cui quello vorrebbe destinarlo. Amore si manifesta in un particolare desiderio di cura, protezione, nutrimento: una catena di doni anche avvelenati: vuole, vorrebbe insomma preservare e difendere gelosamente, e in tal modo isola e imprigiona. Al pari del desiderio, che tende a distruggere il proprio oggetto consumandolo, anche l’amore – sostiene Bauman – si presenta con un volto minaccioso. Una minaccia che viene proprio dalla costruzione di una rete protettiva tessuta più o meno amorevolmente, con cui l’amante imprigiona (e schiavizza) l’amato. Amore-cattura insomma, che fa di ogni amato un prigioniero sotto custodia; “un arresto per proteggere l’arrestato”. Ma Ulisse non vuole, non può rinunciare alla sua libertà di navigazione nei mari del desiderio (qualcuno ha scritto che
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Itaca è nello stesso flusso marino, nel viaggio infinito della conoscenza). E Calypso, lo sa, perciò lo aiuta ad allontanarsi da lei, vincendo la cattiva passione del risentimento. Ma Calypso partecipava in qualche modo della saggezza divina; per gli umani le cose vanno un po’ diversamente e chi non compie questo passaggio rimane intrappolato in pulsioni autodistruttive. Una serie di domande si aprono su queste premesse a portata di tutti. Che farne dell’amore nel tempo in cui la separazione tra comunicazione e relazione sembra essersi compiutamente realizzata grazie(?) anche al nascondimento nei giochi di rete e nello sciame elettronico dei cellulari che dispensano dagli inconvenienti del faccia a faccia? È il problema della scissione maudit tra comunicazione e relazione; del mutamento veloce delle forme di comunicazione, che alterano i linguaggi e le modalità del rapportarsi. Lampi di desiderio sono preferibili ad amori stanziali? Peutêtre. Chi non ha mai cercato di salvarsi con approdi in piccoli isolotti protetti, scagli la sua pietra! Le relazioni “tascabili” sono dolci se di breve durata. Debbono essere intraprese con piena coscienza e con giudizio, mantenerle a temperatura
pensiero compiuto da Platone a noi, le cose pratiche della vita si giocano senza il conforto del pensiero pensato. E a ciascuno rimane la libertà di scegliere lo stadio amoroso che più gli dia conforto. La vera novità anzi sta nella capacità di passare da uno all’altro godendo dei vantaggi dell’uno, dell’altro, e dell’altro ancora. Fare insomma dell’amore, come sembra suggerire l’autore, un problema di comunicazione aperto, dal momento che “il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento della comunicazione” (p. 24). Qualche pillola di autoaiuto insomma Bauman la mette a disposizione per chi voglia saperne di più, come quando afferma che esistono due perversioni contrapposte nella dialettica amorosa: quella di compiacersi l’un l’altro senza mai affrontare le questioni e quella, se possibile ancora più perversa, di “voler cambiare” l’altro. Perversioni da cui vaccinarsi per tempo, affidandosi al tempo per guarirne. E senza amore, si può vivere, sperare, migliorare? Risponde: “Coloro che vivono senza amore sono sfortunati, certo, ma indiscutibilmente sono esseri umani. L’amore non è necessario né alla conservazione della vita né a quella dell’esistenza, che
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costante. Tutto il piacere sta nel traffico; la circolazione dei messaggi sono il messaggio. Qui sembrerebbe importante disporre di un dispositivo di sicurezza da tenere sempre a portata di mano per uscirne incolumi o almeno con poche ammaccature, perché al contrario della fissità dell’oikos, dove appartenenza si dà finché si parla, a prescindere da ciò di cui si parla, nelle relazioni senza recinti le parole assumono invece un ruolo di rilievo, continuamente esposte a correnti e perturbazioni; più che rafforzare intese sembrano sapersi prodigare per alimentare malintesi. Ciò che sembra certo, o almeno certificabile insomma nell’incedere amoroso, è che la stabilità uccide il desiderio, ma questo, invincibile e indominabile, rimane eternamente attivo. Così almeno nel regno dei mortali, col solo vantaggio che penìa-mancanza è poieticòs, stimola e sfida, lascia aperto un portale creativo all’immaginazione e alla sublimazione artistica; poros è invece piuttosto pantofolaio. L’amore liquido di Bauman vorrebbe essere, come si sarà capito, una terza via, tra lo stadio solido e quello vaporoso, che si affida all’impalpabilità elettronico-virtuale. Ma a dispetto di tutto lo sforzo di
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nasce dal riconoscimento e non dall’amore”. E qui si riaprono le voragini (roussauiane) dell’amour de soi e dell’amourpropre, dell’io naturale e dell’io sociale, dell’amour-passion e dell’amore coniugale (su cui è opportuno rinviare al bel saggio di Elena Pulcini, 1990). Due opposte costellazioni dell’Io insomma: l’una tesa alla estrinsecazione del desiderio, con tutto quello che c’è da pagare nell’amour-passion, l’altra alla ‘autoconservazione che trova più sicuro rifugio in un oikos
pantofolaio: un conflitto acutamente avvertito nello spazio moderno, dove – per dirla con Beck – tutti cerchiamo spesso soluzioni biografiche ai problemi posti dalla società. E ha buon gioco Bauman ad avvertirci che “quando non c’è niente che duri, è (solo) la rapidità dei cambiamenti che può redimerti” (p. 81). (a. s.)
Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza. Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 577, € 32,00
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Roberto Marchesini, Karin Andersen, Animal Appeal. Uno studio sul teriomorfismo, Hybris, Bologna 2003, pp. 432, € 17,00
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Ci sono e ci saranno sempre sfide nuove nel frastagliato arcipelago della comunicazione, e se dalla cronache estive apprendiamo che Google viene quotata in borsa sopra i 100 dollari, la crescente letteratura teriomorfica ci pone innanzi a nuove provocazioni concettuali, a mutazioni di paradigmi che sfidano la moriniana complessi-
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tà umana. I movimenti di opinione trans e post-human si nutrono di un milieu culturale che va ben oltre le aperture di credito alle tecnologie di punta, dichiarando apertamente la fine dell’antropocentrismo, ossia di quella visione dell’uomo fine dell’universo, mensura rerum che fu propria del Rinascimentale. Il vitruviano
rare l’omologazione di specie, l’unicità del progetto umano, attraverso interventi di riprogettazione genetica. L’avvento di alcune acquisizioni di avanguardia come le nanotecnologie, l’ingegneria proteica, la bio-computing; l’utilizzo delle cellule staminali, ecc. rendono ibrido il profilo umano, in continua e incessante trasformazione e ridefinizione. E tra le tante sofferenze dell’umanità, lo sviluppo delle microtecnologie vi aggiunge anche quella di non poter utilizzare al meglio l’accumulo cognitivo della specie; del non riuscire a estendere la memoria – il vero punto dolente del sistemauomo – a causa dei limiti della sua conformazione morfologica. Da qui la necessità degli innesti artificiali. Scenari da Spielberg, che continua a stupirci con i poteri degli informorfi, creature che hanno superato ogni divisione tra naturale e artificiale e sono in grado di attivare nella mente schermata la memoria stratificata della specie. Nel più recente Minority report Spielberg aggiorna l’architettura sociale delle metropoli con creature speciali in grado di preconizzare il futuro. I precog sono tenuti in semiveglia in un liquido amniotico-plasmatico, a servizio della prevenzione del crimine.
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uomo di Leonardo, fondativo del paradigma autoreferenziale, ha arrecato gravi danni allo sviluppo di un pensiero organico riferito all’alterità, che resta il vero mistero da svelare ogni volta, per ogni altro. Così la pensa Marchesini, uno studioso di zooantropologia e di epistemologia, bibliograficamente attivo dalla seconda metà degli anni Novanta, per il quale l’universo digitale è un pluriverso di contaminazioni e ibridazioni. La visione dell’uomo come fine dell’universo – sostiene – ha recato danno allo sviluppo di un pensiero organico riferito all’alterità. Molti dei teorici del c.d. trans-human vorrebbero far convivere la piena accettazione dell’invasione tecnologica con la pretesa di mantenere il pieno “potere” umano di indirizzare, orientare e controllare la propria esistenza. Ma fino a quando? Perché intanto la ibridazione avanza, e non più di quella macchinica del cyborg si tratta, quella introdotta sperimentalmente dal corpo tecnologico (il terzo braccio di de Kerchkove, ecc.), o nell’azzeramento dello spazio di interfaccia tra carne e metallo (Ballard cit. in Marchesini, Post human, p. 498). Quando si parla di integrazione parliamo oramai della possibilità di coniugare tra loro Biosfera e Tecnosfera, e di supe-
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Spilberg, Kubrick, Cronenberg ci hanno saputo rappresentare attraverso un efficace e accattivante linguaggio filmico, le sperimentazioni in corso nei laboratori NASA; ipotesi scientifiche spregiudicate, come quelle del performer australiano Stelarc o di Eric Drexler, che lascia intravedere la possibilità di sfidare e vincere la morte. L’idea di immortalità è ad es. sostenuta (da tempo e con convinzione) da Daniel Hillis, mentre Hans Moravec si limita (!) a progettare forme di traslazione della mente su piattaforme artificiali: in altri termini, la costruzione del doppio virtuale, la reincarnazione elettronica. In subordine si daranno possibilità di ibernazioni periodiche, con riemersioni e rinascite a tempo. Ci stiamo insomma avviando, avverte Marchesini, verso una nuova stagione della poiesi umana che modifica radicalmente il concetto di hybris: non più atto offensivo dell’equilibrio umano, ma attività centrale della stessa ontogensi. Come si affronta questo futuro? Non certo con le solite dispute rissose tra tecnofili (i Techies che promuoverebbero volentieri la tecnica a fine) e tecnofobi (gli Humis, fautori di un umanesimo sconfitto il più delle volte da una sublime ignoranza delle
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realtà dei nuovi strumenti tecnici). Una versione aggiornata insomma della più nota divisione tra apocalittici e integrati. Entrambi gli schieramenti incarnano, da punti di vista diversi, una nuova utopia. I primi proiettano le loro speranze nell’infosfera e sono convinti che una nuova salvezza verrà dal cielo e sarà macchinica, magari di macchine luminose per trasferirci su altri pianeti, come avviene negli affascinanti incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg. Un’utopia tecnologica pura, sostenuta dai potenti apparati militari che sanno fare buone operazioni di propaganda mediatica per ottenere ingenti risorse finanziarie nel settore aereonautico. I secondi denunciano l’intrusività tecnologica e l’oggettivizzazione del pensiero scientifico, rifacendosi ai padri nobili del Novecento: Heidegger (la tecnica come causa di un generale processo di disumanizzazione) e si affidano a Morin per salvare una prospettiva umanistica per il (buon) governo della complessità. Foucault, con Le parole e le cose annunciava, nel 1996, la morte dell’uomo semantico, incapace di costruire corrispondenza tra i suoi strumenti concettuali e il mondo. L’ampia e documentata ricerca di Marchesini, ci colloca in un altro
problema e ci rende avvertiti di una nuova scissione: quella tra il maneggio di strumenti sempre più utili al miglioramento dell’habitat umano, che prende impulso dall’inarrestabile moto di progresso nelle tecnologie, e la capacità di gestire questo nuovo fuoco degli dèi, regolamentandolo a fini non distruttivi per l’umanità, rendendolo possibilmente disponibile a molti.
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La sostanziale incompiutezza denunciata in Post-human come limite umano, si conferma nell’interessante saggio che Marchesini scrive con Karin Andersen, Animal appeal, uno studio sul teriomorfismo, dove si dimostra tutto il debito che l’umanità ha accumulato nell’arco della sua lunga esistenza nei confronti del regno animale. Ed è alla zoopoiesi che l’autore si affida per superare quella tradizione umanistica che ci ha consegnato un’immagine dell’animale come ricettacolo di impurità da cui emanciparsi. Per raggiungere una soglia confortevole di estraneità all’animale (da cui l’uomo ha saputo trarre e trae ancora tutti i vantaggi possibili) occorreva procedere lungo due direttrici: da una parte esasperarne le differenze, dall’altra appiattire la
diversità (animale) in un unicum di specie, indifferenziato e svalutativo, ponendo poi quell’unicità in contrasto con la propria rationalis natura. Un cammino di occultamento e contraffazione che si avvia sull’asse del pensiero platonicoaristotelico per rafforzarsi nel paesaggio del pensiero moderno, da Cartesio a noi. Il risultato è una insopportabile falsificazione antropocentrica che oscura la ricchezza e la profondità della comunicazione tra uomo e animale, nel quale è presente uno smisurato repertorio di approcci, interferenze, reciprocità sussidiarie, che escono dalla documentazione letteraria e si attivano nelle nuove forme di ibridazione. La ricerca documentata nelle iconografie in evoluzione di Karin Andersen ne offre un piccolo ma significativo campione e occupa la seconda parte del volume. Le componenti di una zoomimesi vengono raccolte da Marchesini nella capacità osmotiche dei due regni: nel confronto, nel dialogo, nella partnership e – infine – nell’ibridazione. È soprattutto il confronto con l’animale che ci permette una ricognizione funzionale dei nostri apparati percettivi, cognitivi, operativi, mentre il dialogo con l’alterità animale ci allena
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ad ogni incontro altro, attivando un più ricco repertorio di segni e tracce che sfuggono al puro esercizio di controllo razionale sulla sensibilità. Così, mentre una partnership collaborativa ha da sempre arrecato grandi vantaggi all’uomo, è nella ibridazione che i vantaggi si moltiplicano, a partire proprio da quel necessario allenamento al mutamento veloce dei paradigmi a cui l’età tecnologica ci costringe. L’Autore sostiene che la zoomimesi, modificando le nostre categorie interpretative,
sposta la soglia epistemica dell’uomo permettendogli performance controintuitive: “aspettative, congetture, modelli esplicativi, creatività,…”, che gli consentono di allargare il dominio angusto degli a priori” (p. 88). Un teriomorfismo epistemologico che sta dunque a fondamento di ogni confidenza col cyborg macchinico a cui ci stiamo abituando. (a. s.)
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Umberto Eco, La misteriosa fiamma della regina Loana. Romanzo illustrato, Bompiani, Rcs libri, Milano, giugno 2004, pp. 451, € 19,00
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Quanto ha venduto il romanzo illustrato di Eco dal suo ingresso in libreria nel maggio scorso? Mi è capitato di chiederlo a mezza estate a un libraio leccese che invoglia le fasce giovanili con discreti sconti sul prezzo di copertina. Il romanzo se la cava maluccio: nessun confronto con Il nome della rosa, e comunque meno del previsto e prevedibile, mentre svetta da molte settimane nella classifica dei più vendu-
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ti il Codice di Leonardo, un thriller di Dan Brown. Il gusto del lettore estivo, senza sesso e senza età, si va decisamente orientando sul genere leggero. Il fatto è che quel mondo che Eco evoca nell’ultimo suo romanzo sfugge oggi ai più e solo la memoria multimediale dell’autore riesce a renderlo gustoso per una fascia di età che non stia rigorosamente sotto i cinquanta/sessanta.
tavolo da ping-pong e qualche volta anche di un film domenicale conquistato per merito distinto. Attraverso Loana (che fu poi il titolo di un album della fortunata serie di avventure di Cino e Franco, come si scopre alla pag. 249), Eco-Yambo si racconta nella situazione di chi avendo smarrito la memoria biografica, ma non quella semantica, che gli consente di recitare tutti i versi mandati a memoria tra i banchi di scuola, recupera lentamente il passato nel buen retiro della casa di campagna, tra austeri scaffali di libri appartenuti agli avi e oggetti che ai più, agli under sixtieth appunto, non resuscitano emozioni, per il semplice fatto che non hanno avuto tra le mani quei fumetti, quelle collezioni di francobolli, quei libri d’infanzia; non hanno conosciuto i calendari profumati del barbiere, i 75 giri in vinile, le radio a valvole, ecc. ecc. Proprio la scelta multimediale dà originalità al romanzo: l’orbis pictus che accompagna ogni passaggio di scrittura via via che la memoria si sgomitola. Riscopri così le vecchie copertine della Sanzogno (Il conte di Montecristo, I tre moschettieri) e altri capolavori del romanticismo popolare; ti torna l’odore degli almanacchi incipriati di
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Il mistero di quel titolo me lo ha sciolto Scalfari, che dalle pagine de “la Repubblica” ha dedicato alla misteriosa fiamma e al suo Autore le considerazioni che Eco e quest’ultimo suo romanzo meritano. Dunque regina Loana era uno dei nomi tipici delle ragazze che lavoravano nei bordelli. Gli under eighteen di allora non lo avrebbero mai saputo. E infatti nella mia memoria over sixtieth non c’è traccia di simili struggenze, un po’ perché i casini furono oggetto di una campagna igienico-politica, al punto da chiuderli da lì a poco con la legge Merlin, un po’ perché per la generazione pacelliana l’Azione cattolica era un potente dissuasore per ogni sorta di “atti impuri”. Il panottico divino (l’occhio che ovunque ti segue e ti scruta nei pensieri) era un sicuro profilattico educativo per prevenire dalle incognite dei desideri, e le tentazioni della carne proprio non ce la facevano a penetrare le robuste corazze ideologiche degli arruolati nella “falange di Cristo redentore”. Parrocchie e oratori funzionavano a tutto vapore ed erano gli unici centri sociali a disposizione di una generazione povera di mezzi per esprimersi, quella che in cambio di qualche prestazione religiosa poteva disporre dei campetti, di un
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Valsecchi e Morosetti che il barbiere regalava al babbo col taglio di Natale, le copertine di Vogue e di altre riviste di moda degli anni Venti; gli spartiti che le cugine inforcavano suonando e cantando nelle serate speciali dedicate alle feste di famiglia; gli scatoli illustrati di sigari e sigaretti con le introvabili “Macedonia” lire 3.00, le figurine del Feroce Saladino, ecc. ecc. Come in un grande bazar dei tempi andati la memoria scioglie lentamente le nebbie di un trentennio, tra i Venti e i Cinquanta, riempiendola di oggetti d’uso della vita quotidiana, non tutti accessibili ai più, ma che comunque facevano parte dell’immaginario nazionale. E ci trovi di tutto in questa apertura di scatole mentali, da cui alla rinfusa escono ricordi pronti ad infiammarsi di nostós: i libri piccini, Le avventure di Ciuffettino, il Pinocchio con le illustrazioni di Attilio Mussino: l’elegante (per i tempi) collezione della “Biblioteca dei miei ragazzi” della Salani, insieme al “Giornale illustrato dei Viaggi”: una vera miniera per ogni viaggiatore di fantasia, e poi via con Fantomas, Il Corriere dei piccoli, Il Vittorioso. Scatola dopo scatola, tutto questo mondo perduto sfida la memoria smarrita di Yambo (e quella nostra). Un rammentare che
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non consente più a quella l’arbitrario andare dove, come e quando vuole, ma si disciplina nel bisogno di ricostruirsi, di legare tra loro le sequenze della vita, gli anni che dall’infanzia portano all’adolescenza e poi alla giovinezza e alla coscienza della maturità adulta. C’è materiale buono per il collezionista antiquario come per lo storico e il sociologo della comunicazione e dell’educazione, ma anche per chi, più semplicemente e senza pretesa di disciplinare le cose in funzione di un senso, voglia letterariamente godersi un pezzo di quel piccolo mondo antico dove, sotto lo stesso ombrello concordatario, Fascismo e Chiesa si contendevano nella scuola e nelle palestre le anime tenerelle dei pargoli. Ma i bamboli, scrive deliziosamente Eco-Yambo, sono “paraculi”, e sanno sempre come farla franca, come sottrarsi o inserirsi, fuggire o acquattarsi, vuoi per glissare le marcette del sabato balilla, vuoi nel ritagliarsi un qualche angolo di resistenza al comune senso del pudore familiare, vuoi ancora nell’affrontare la pedanteria scolastica con le risorse dell’extrascuola, con le avventure iniziatiche nel branco. Così, tra lampi di memoria si accende quella che avremmo
appreso a chiamare “passione civile”, di cui la meglio gioventù si accese quasi per caso, nelle schermaglie tra i nativi per il governo del territorio, nelle prove iniziatiche al guado di un vallone scosceso. E quasi per caso emerge tra un pacco e l’altro di baluginii multimediali la coscienza resistente di Yambo nell’avventura del vallone, metafora di riscatto di una generazione dorée che consumava di tutto, dai libri scolastici del Balilla al Vittorioso di Jacovitti, con tenue coscienza della violenza degli opposti. A parte quindi la godibilità del romanzo, la genialità architettonica dell’autore che sa utilizzare tutte le muse in un ammiotico multiculturale soft, capacità indiscussa di Eco, avvezzo a sovrintendere ogni cantiere aperto alle interazioni tra linguaggi comunicativi diversi (il che fa di questo romanzo – com’è stato osservato – una vera e propria storia della comunicazione dell’ultimo mezzo secolo), la memoria ritrovata è tutto sommato una memoria estetica, prepolitica. La meglio gioventù degli anni tra i Venti e i Trenta ne esce fuori con le sue discrete virtù, discretamente
avviata al lume di ragione (e di libertà) con le risorse delle buone biblioteche di famiglia che l’estetica liberty teneva in penombra, lasciando al riparo gli interni borghesi dai tumulti della Grande Storia. L’altra, quella pasolinianamente disperata che sarebbe sopravvenuta, si sarebbe trovata tutti i lasciti delle macerie provocate anche da chi rimase crocianamente indistinto in quel ‘48 italiano che avrebbe polarizzato in blocchi sociali la vita dello spirito. La materiale povertà dei più non conobbe le ebbrezze della cioccolata Perugina, ma il latte in polvere che si acquistava con le AM-lire americane insieme alla razione quotidiana di pane fatto con la crusca. Quell’altra gioventù insomma ha una memoria diversa, straziata dal rimorso di non averla saputa trasmettere alla feroce net generation che sarebbe sopravvenuta, prima che venisse del tutto rimossa.
(a. s.)
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David Icke, Alice nel Paese delle Meraviglie e il Disastro delle Torri Gemelle, Macro Edizioni, Diegaro di Cesena (FC) 2003, pp. 688, € 22,00
David Icke è uno dei casi più controversi del mondo culturale anglosassone degli ultimi anni. Sovente censurato, attaccato violentemente, ostracizzato da stampa e canali televisivi e oggetto di minacce di morte, l’autore appartiene a quella fitta schiera di ‘teorici della cospirazione’ decisamente numerosa in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Tuttavia, a differenza dei suoi colleghi, Icke è senz’altro l’autore più coraggioso; e non solo perché nei suoi testi non si esime dal fare spesso e volentieri nomi e cognomi (e come vedremo, non si tratta di nomi da poco), ma anche perché i suoi libri sono un miscuglio bizzarro e affascinante di giornalismo d’assalto, saggio storico e trattato di esoterismo che lascia spiazzato il lettore, indipendentemente dal fatto che si creda o no a ciò che l’autore scrive. Ma come si può restare indifferenti quando Icke, per esempio, accusa la Famiglia Reale britannica di essere responsabile della morte di Lady Diana? (nel volume Il Segreto Più Nascosto, 2001). O
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quando, come nel caso del presente libro, sostiene che l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’undici settembre è il frutto della mente perversa di uomini vicini al governo americano e non certo di Osama Bin Laden, come siamo stati portati a credere? La tesi di Icke, affermata con forza in tutti i suoi libri, è questa: esiste da secoli una società segreta, definita degli Illuminati, che da sempre domina il mondo con propri infiltrati nei ranghi della politica, dell’economia, della finanza, dello spettacolo, della cultura e di ogni altro settore della società. Scopo degli Illuminati, secondo Icke, è quello di soggiogare e controllare il genere umano con quella che Icke definisce ‘equazione PROBLEMAREAZIONE-SOLUZIONE’. Cioè, si crea un problema in grado di spaventare le masse (per esempio, un attentato come quello dell’undici settembre che provoca la psicosi collettiva del terrorismo); per reazione, le masse chiederanno una soluzione; e la soluzione sarà un generalizzato controllo, un vero e proprio stato di polizia ormai
sotto gli occhi di tutti. Follia? Paranoia? Può darsi; tuttavia, per più di seicento pagine, Icke dimostra, con dati alla mano, dichiarazioni di personaggi coinvolti, fotografie, ecc., che ciò che sappiamo dell’11 settembre è, se non una menzogna, il frutto di una sapiente manipolazione. È questo che ho trovato interessante: la riflessione sul sistema informativo e mediatico che è parte integrante delle nostre vite. E mi sono chiesto: cosa sappiamo davvero di questo attentato? Quali sono i veri legami esistenti tra i Bush, i Bin Laden e la Casa Reale saudita, per esempio? Perché le dichiarazioni di George W. Bush, di Rumsfeld o di Colin Powell sono, come dimostra l’autore, assurde e contraddittorie? Come è possibile che il NORAD non sia riuscito a rilevare gli aerei dirottati? Perché i soccorsi sono arrivati nel luogo dell’attentato con un incomprensibile ritardo? Perché alcuni dei presunti dirottatori morti negli aerei avevano nomi che appartenevano a uomini vivi e vegeti che con il terrorismo non avevano niente a che vedere? E gli aerei furono veramente pilotati da qualcuno o furono telecomandati? E i filmati di Osama Bin Laden sono
autentici? E qual è stato il ruolo dei servizi segreti statunitensi? Forse per qualcuno saranno domande oziose. Ma leggendo il libro di Icke mi sono comunque posto molti quesiti sul mondo dell’informazione. Certo, spesso Icke pretende molto dal lettore, man mano che le notizie da lui riportate diventano sempre più scioccanti (il nonno di George W. Bush che finanziava i nazisti; Bush padre descritto come un maniaco pedofilo dedito al consumo di droga; Clinton, Prodi, Berlusconi, Blair e Putin accusati di essere burattini al soldo degli Illuminati, e così via), ma si deve certamente riconoscere il coraggio di un autore che non si limita a ripetere le solite versioni ufficiali sull’undici settembre ma va oltre, dando al lettore un diverso punto di vista che giornali e televisioni si sono ben guardati dal divulgare. Una voce ‘contro’, quindi, che non mancherà di suscitare l’interesse di coloro che si occupano di informazione e di comunicazione. (s. d.)
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Robert A. Heinlein, Fanteria dello Spazio, Mondadori, Milano 2004, pp. 364, € 4,90
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Questi sono tempi di guerra e basta assistere a un notiziario qualsiasi per comprendere come le immagini belliche sembrino uscite da un film di fantascienza. La science-fiction, in effetti, spesso ha anticipato le tensioni della società odierna e lo stesso attentato alle Torri Gemelle dell’undici settembre potrebbe benissimo essere stato partorito dalla fervida immaginazione di uno scrittore cyberpunk. E se la guerra è ormai entrata a far parte del nostro inconscio collettivo, specie negli ultimi tempi, è significativo leggere questo romanzo di Robert A. Heinlein, Starship Troopers (Fanteria dello Spazio), uscito negli Stati Uniti nel 1959 ma in un certo senso ancora terribilmente attuale. Prima di tutto, chi è Robert A. Heinlein (1907-1988)? Per i suoi lettori, Heinlein è sinonimo di fantascienza, molto più di Asimov o di Bradbury e l’autore ha prodotto un numero impressionante di romanzi e racconti che costituiscono la base dell’immaginario fantascientifico statunitense. Nessuno come Heinlein, inoltre, ha suscitato così tante polemiche; basti pensare a un altro suo celebre
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romanzo, Stranger in A Strange Land (Straniero in Terra Straniera, 1961), il libro preferito di Charles Manson, che scandalizzò il pubblico dell’epoca per la sua audace analisi del sesso, inserita in un genere narrativo fino a quel momento considerato di semplice evasione. E anche il presente Fanteria dello Spazio, adattato sullo schermo nel 1998 da Paul Verhoeven, che però non ne ha rispettato lo spirito, recentemente riproposto da Mondadori, non passò inosservato. Dopo la sua pubblicazione, Heinlein fu definito ‘fascista’ da molti critici e lettori di sinistra; un appellativo che, purtroppo, ha perseguitato fino alla morte l’autore. Va detto che Heinlein era di sicuro un conservatore e non vedeva di buon occhio il comunismo e le contestazioni studentesche nei campus americani. Era certamente un militarista, strenuo sostenitore della supremazia bellica degli Stati Uniti; ma non era un reazionario come molti vorrebbero e oggi non avrebbe approvato la guerra globale al terrorismo voluta da George W. Bush. Più semplicemente, Heinlein credeva nello strumento militare
come arma di difesa e in un sistema meritocratico e capitalistico che premiava i migliori: coloro, cioè, che si erano guadagnati il diritto di vivere nella felicità e nella prosperità esclusivamente grazie alle loro forze. Credeva inoltre nella disciplina che il mondo militare può impartire a un giovane, trasformandolo in un vero uomo. Opinioni conservatrici, sicuramente; ma è eccessivo definire Heinlein ‘fascista’. Certo, una delle idee espresse in questo romanzo è senz’altro discutibile: il fatto, per esempio, che solo i militari hanno il diritto di voto, come se i civili, per definizione, non possano essere considerati cittadini responsabili. Ma questo passa in secondo piano quando rileviamo la grande perizia narrativa di Heinlein, che utilizza uno stile di scrittura secco e quasi giornalistico, per narrare le peripezie di un giovane che, dopo il diploma, decide di arruolarsi, diventando un fante dello spazio. Heinlein descrive con dovizia di particolari gli allenamenti, le marce, le esercitazioni, la durezza dei superiori, con
un realismo incredibile. E in effetti, al di là del labile sfondo fantascientifico, il romanzo potrebbe proprio essere considerato realista, tanto convincente è la presentazione della vita militare. Oltre a ciò, è interessante anche la descrizione delle armi e delle speciali tute che i soldati sono costretti a indossare durante le missioni, anticipazioni dell’armamentario sofisticato che i soldati americani utilizzano oggi. Ecco perché, a mio avviso, è interessante leggere (o rileggere) l’opera di Heinlein: paradossalmente, assomiglia alla cronaca dei nostri giorni. E che un libro di fantascienza scritto negli anni cinquanta del secolo scorso offra, suo malgrado, una vivida analisi della nostra epoca da guerra infinita, è un fatto che, personalmente, trovo inquietante. E dopo aver chiuso il libro mi sono chiesto: ma la fantascienza esiste ancora? Oppure la vita attuale è già fantascienza? (s. d.)
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Anais Nin, Mistica del Sesso, Fazi, Roma 2004, pp. 108, € 9,00
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Anais Nin (1903-1977) è una figura leggendaria del panorama letterario e artistico del Novecento. Conosciuta soprattutto per le sue trasgressioni e le scelte di vita anticonvenzionali, è stata spesso considerata anticipatrice dei movimenti di liberazione sessuale e femminile degli anni sessanta. Ma come accade di solito con gli scrittori che sono anche ‘personaggi’, Anais Nin è stata sovente giudicata in maniera superficiale, più una erotomane che una scrittrice; la definizione ‘amante di Henry Miller’ l’ha perseguitata per molto tempo, anche se fu il celebre scrittore americano ad essere aiutato e influenzato da lei e non viceversa, come molti ancora si ostinano ad affermare. I detrattori hanno condannato i suoi racconti pornografici, in verità scritti per ragioni economiche, certo non rappresentativi della sua vasta produzione, e hanno invece trascurato le opere surrealiste che non ebbero fortuna negli Stati Uniti (il surrealismo è sempre stato di fatto un fenomeno francese e più in generale europeo) ma che rivelavano un talento non comune, che valse alla Nin l’ammirazione di celebri scrit-
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tori come Paul Bowles o Truman Capote. Le cose cambiarono nei tardi anni sessanta, quando la Nin si decise a pubblicare il suo monumentale ‘Diario’ in sei volumi, un capolavoro di introspezione psicologica. Va inoltre detto che la Nin non si è limitata a lasciare un segno indelebile nel campo della scrittura, ma si è anche occupata di psicoanalisi, collaborando con Otto Rank, di musica, e di cinema (celebri le partecipazioni ai film underground del controverso regista Kenneth Anger). E non bisogna nemmeno trascurare la sua attività di saggista, prova della vastità e della varietà di interessi di questa complessa scrittrice, e della acuta capacità di analisi dei molteplici aspetti della società contemporanea. Lodevole è quindi la traduzione del suo The Mystic of Sex and Other Writings, 1930-1974 (1995), con il titolo Mistica del Sesso, da parte di Fazi Editore. Curato da Gunther Stuhlmann, esecutore testamentario e letterario della Nin, il libro presenta alcuni saggi scritti in diverse occasioni che evidenziano, come se ce ne fosse ancora bisogno, il talento e la profonda intelligenza dell’autrice. La
prima parte del libro è dedicata alla donna del futuro; una donna, cioè, che, secondo la Nin, ha la capacità di prendere in mano le redini del proprio destino, in un mondo essenzialmente maschile. In verità, parlando della donna del futuro, la Nin parla di sé stessa, esaminando in maniera impietosa la sua attività di scrittura e le motivazioni profonde che l’hanno spinta a scrivere, con una lucidità che lascia spiazzati. In seguito la Nin analizza personalità femminili che l’hanno colpita o influenzata, per esempio Lou Andreas-Salomè, Colette, numerose scrittrici surrealiste, musiciste e pittrici. Altri due saggi presenti nel libro, ‘Lo Scrittore e i Simboli’ e ‘Realismo e Realtà’, rivelano l’influenza del surrealismo e della psicoanalisi, che tanta parte hanno avuto nella sua formazione. Lo stesso vale per ‘Sullo Scrivere’, ‘L’Importanza di Otto Rank’ e ‘Lo Scrittore e L’Inconscio’. Da segnalare anche il saggio che dà il titolo al libro, ‘Mistica del
Sesso’, coraggiosamente dedicato a D.H. Lawrence, scritto infatti in un’epoca in cui il celebre autore britannico era considerato poco più di un semplice pornografo. La Nin, invece, ne riconoscerà la grandezza, e sarà proprio Lawrence il soggetto del suo primo libro, D.H.Lawrence, appunto, scritto nel 1932, che costituirà il primo stadio del processo di riabilitazione dello scrittore. Ciò che colpisce di questi saggi è anche l’assoluta leggerezza e musicalità dello stile e la leggibilità. Caratteristiche rese evidenti anche da un paio di racconti surrealisti inclusi nel volume e da alcuni brevi stralci del suo ‘Diario’. Consiglio, quindi, il libro a coloro che ancora non conoscono la Nin e che vogliono magari accostarsi all’universo affascinante e suggestivo di una donna fortemente decisa a diventare un mito del suo tempo. (s. d.)
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Riccardo Caccia, David Lynch, Editrice Il Castoro, Milano 2004, pp. 160, € 11,90
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Giunge alla terza edizione, riveduta e aggiornata, il volume che Riccardo Caccia, docente di discipline cinematografiche presso le Università Bocconi e Iulm di Milano e presso lo Ied Comunicazioni, ha dedicato all’americano David Lynch, uno dei registi più discussi e controversi degli ultimi decenni. Lynch è nato a Missoula, nel Montana, e da sempre è stato considerato un artista anomalo nell’ambito della cinematografia statunitense. Anche se indiscutibilmente americano nelle tematiche e nella sensibilità, Lynch ha spesso rivelato influenze artistiche europee. Il surrealismo, in modo particolare, è una delle basi della sua estetica. Ma non sono trascurabili la profonda ispirazione noir di molta parte della sua produzione e una struttura narrativa che rimanda al post-modernismo. Lynch nasce artisticamente come pittore e solo dopo una serie di cortometraggi sperimentali realizza il suo sconvolgente e inclassificabile film d’esordio, Eraserhead (1976), che diventerà un’opera di culto nei circuiti underground americani. Con The Elephant Man (1980) Lynch si fa conoscere in tutto il mondo,
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realizzando uno dei suoi primi capolavori. Dopo l’infelice parentesi di Dune (1984), un ambizioso film di fantascienza, una classica produzione da ‘studios’ che non ottiene grande successo, il ‘caso Lynch’ esplode con Blue Velvet (1986), da molti considerato il suo film più importante, un esempio perfetto di noir contemporaneo, estremo e violento, che suscita un grande scandalo, a causa della nudità di Isabella Rossellini, all’epoca compagna del regista, e delle terribili perversioni messe in scena da un agghiacciante Dennis Hopper. Da vero artista ‘contaminato’ e multimediale, Lynch non si esime dal ‘corrompere’ con la sua sensibilità trasgressiva anche il mondo dei serial televisivi americani, con il celebre Twin Peaks (19891990), una serie ancora oggi considerata rivoluzionaria, esempio di ibridazione di diversi generi narrativi, con una struttura frammentaria e complicata che, in un certo senso, anticipa buona parte dei prodotti televisivi americani attuali. Con Wild at Heart (1990), un altro film violento e spiazzante, Lynch vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes, entrando
quindi nel novero degli ‘autori’ propriamente detti. Dopo un film che rivisita Twin Peaks in una luce surrealista e sperimentale, Twin Peaks: Fire Walk With Me (1992), Lynch realizza un altro film controverso, Lost Highway (1996), un noir stavolta sottoposto a un trattamento Avant-Pop che farà discutere pubblico e critica, soprattutto per quello che riguarda la struttura circolare della trama. The Straight Story (1999), è una parentesi idilliaca e serena, ennesima prova della imprevedibilità dell’ispirazione lynchiana, una toccante vicenda ambientata nell’entroterra americano, un film che farà gridare molti al miracolo. E lo stesso è avvenuto con il recente Mulholland Drive (2000), che ha segnato la definitiva consacrazione artistica di Lynch, e che può essere considerato la ‘summa’ delle sue ossessioni, ambientato nel mondo magico e inquietante di Hollywood, sospeso tra sogno e realtà, con una trama complessa. Riccardo
Caccia analizza con abilità e competenza l’intera produzione di Lynch, delineando un quadro completo di una delle personalità artistiche più intriganti del cinema contemporaneo. Ma l’autore non trascura le attività collaterali dell’autore, come la fotografia, la musica o i fumetti; Lynch, infatti, appartiene a quella schiera di artisti che gli americani, in particolare, definiscono ‘rinascimentali’, impegnati, cioè, in molteplici forme espressive. Il geniale cineasta del Montana è dunque, secondo Caccia, un vero e proprio rappresentante della ‘contaminazione’ che caratterizza le odierne forme di comunicazione. Questo volume è perciò, a mio avviso, consigliabile agli appassionati del ‘James Stewart venuto da Marte’, come Lynch fu definito da Mel Brooks, e agli studiosi di cinema in generale. (s. d.)
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Iain Chambers, Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente, Meltemi, Roma, 2004, pp. 249, € 20,00
Iain Chambers, a lungo animatore dei Cultural Studies di Birmingham, da tempo vive a Napoli, esposto al gioco delle differenze. Chambers per tradizione di ricerca si muove tra alto e basso, letteratura e folklore, rock e filosofia, storia e teoria culturale. Il suo lavoro attinge ad altri ordini di senso per mettere in discussione le sicurezze occidentali e riscrivere il mondo, stabilendo un filo rosso che salda estetica ed etica, cultura e politica, progetto e desiderio. E il cuore del suo discorso, l’approdo o il ripartire, diventa spesso Napoli, la città straniera, incontro e scontro fra lingue, ragioni e storie diverse, il cuore del margine o il margine del centro, in qualche modo una sorta di allegoria della precarietà della modernità. Vivere “altrove”, situazione personalmente sperimentata da Chambers, significa trovarsi continuamente parte di una conversazione in cui identità diverse si offrono la possibilità di riconoscersi, si scambiano e si mischiano, senza scomparire. Qui le differenze non fungono necessariamente da barriere, ma piuttosto da segnali di com-
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plessità. Essere uno straniero in terra straniera, essere spaesato nel senso letterale di “senza paese” è forse la condizione tipica della vita contemporanea. Alle migrazioni indotte di schiavi, contadini, poveri, all’ex mondo coloniale che costituisce tante delle storie nascoste della modernità, possiamo aggiungere anche il crescente nomadismo del pensiero moderno. Di fronte alla perdita di radici e al conseguente indebolimento della grammatica dell’“autenticità” ci trasferiamo in un paesaggio più vasto. Il nostro senso di appartenenza, la nostra lingua e i miti che ci portiamo dentro rimangono, ma non più come “origini” o segni di “autenticità”, capaci di garantire un senso alla nostra vita. Permangono come tracce, voci, memorie e mormorii mescolati ad altre storie, ad altri episodi, ad altri incontri. Così Chambers ragiona ad esempio sul lavoro dell’artista indiano Anish Kapoor rintracciando nelle sue installazioni “l’altrove dell’Occidente”. Nel senso che i linguaggi dell’occidente – le sue culture, le sue tecniche, le sue estetiche – ormai non sono i suoi, viaggiano nel mondo senza il permesso
tutti e due i casi, la purezza di una tradizione è stata scomposta per rivelare una serie di percorsi estetici ed etici (l’insistenza sulla complessità mortale evocata nella visione della vita, sia come artista del Seicento sia come musicista nera degli anni Sessanta) che hanno ricomposto i linguaggi dei loro tempi, lasciando una eredità sconvolgente, mai veramente digerita e quindi ancora inquietante, provocatoria. Il suo ultimo libro è denso di passaggi napoletani, Sulla soglia del mondo prende le mosse dalla Repubblica Napoletana del 1799, suggerendo di estrapolare dall’evento storico le energie per rielaborare il presente e mettere in discussione il destino. Chambers attinge ai romanzi di Salman Rushdie quando racconta come la novità emerge nel mondo dalle possibilità (e non dal nulla), dai racconti che sono già in circolazione. Si tratta, della ri-scrittura, e con ciò della ripetizione e ri-articolazione del passato attraverso la storiografia, per esempio, facendo emergere prospettive finora nascoste e rimosse. Come il Disk Jockey che prende in prestito dei suoni già incisi, tale ripetizione permette l’elaborazione dei suoni e dei ritmi mai sentiti prima. La “ri-memorazione” della storia di Napoli invita a
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dell’Occidente. Tali linguaggi vengono abitati da altre storie, altre culture, e ritornano, come il ritorno del rimosso, per narrare altri modi di essere nel mondo, nella modernità, in un linguaggio che siamo abituati a considerare il nostro. In questa maniera la modernità si rivela e si riconosce – nonostante la potenza politica-economica esercitata dal monoteismo occidentale – come composita, ibrida e multipla. È il “ritorno” che Chambers trova non solo nelle sculture di Anish Kapoor, ma anche nella poesia di Derek Walcott, nei romanzi di Assia Djebar e Toni Morrison che rivelano la profondità inaspettata che corre lungo le superfici dei nostri linguaggi dando voce al silenzio storico su cui la modernità stessa è stato elaborata. È un percorso in cui l’estetica si sovrappone all’etica, la pittura di Caravaggio richiama la chitarra di Jimi Hendrix, l’architettura barocca evoca la psichedelia del musicista di Seattle. Pittore e rockstar partono dai margini disprezzati dei loro linguaggi, dagli angoli oscuri della tela per Caravaggio, dai suoni subalterni per Hendrix, per realizzare delle prospettive trasgressive ed innovative che ci hanno invitato a riconsiderare in modo radicale i linguaggi che danno forme alle nostre esperienze del mondo. In
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comporre frammenti e tracce arrivate fino a noi in una nuova costellazione in grado di gettare luce critica sul passato, e con ciò, sull’attuale configurazione del presente. Si tratta di ascoltare il silenzio del passato: il silenzio che registra le vite, le culture e le storie di coloro che sono stati espulsi dalla narrazione istituzionale che cerca di indirizzare la storia verso una conclusione unilaterale. Il frammento, la voce dimenticata, i corpi negati, indicano, anche se non sono in grado di essere rappresentati, il disturbo e l’interrogazione che interrompe quella versione che depositata nella storia che ci ha portata fin qui. Napoli come riflesso di un progetto urbano assolutamente non lineare, cosmopolita come Londra, ai limiti dell’urbanesimo moderno come Milano, apparentemente vicina allo scompiglio civico del Cairo o di Città del Messico, manifesta in suoni, strade e corpi. La dimensione globalizzata di Napoli si inserisce su una cartografia molta più estesa, città del Mediterraneo, con la complessità della sua storia specifica, con i suoi ritmi e tonalità culturali, ci aiuta a capire i limiti della cartografia occidentale. Quello che emerge dalla mappa a questo punto è un terreno ruvido che può deviare e interrompere la logica lineare
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del progresso. I contesti fluttuanti di linguaggi e desideri infrangono la logica della cartografia e traboccano oltre i limiti del suo spazio tabulare, tassonomico. Si esce fuori dai confini imposti dalla modernità del razionalismo umanistico che pensa di essere in grado di ridurre il mondo, in tutto la sua complessità, alla sua logica. La città oggetto fisso di progettazione (architettura, commercio, urbanistica, amministrazione statale) e al tempo stesso plastica e mutevole, sede di eventi transitori, movimenti, memorie. Con la sua violenta mescolanza di antiquati riti di strada e di progetti del capitalismo globale, Napoli si presenta come un enigma. Le sue qualità di Sfinge, il suo restituirci il riflesso di quello che speriamo e temiamo di vedere, rivelano una matrice instabile attraversata da culture e ritmi storici diversi. L’organizzazione razionale dello spazio urbano, della produzione, del lavoro e del profitto viene spesso interrotta, decomposta e deviata da innumerevoli sacche di mercantilismo, baratto, corruzione e criminalità. È questo il sottobosco intricato di un’altra città e di una formazione culturale che perde i fili nel labirinto di parentele, cultura di strada, identità locali, memoria popolare e folklore urbano.
segno fluttuante che erra fra centinaia di interpretazioni, migliaia di storie. A Napoli si ha la continua consapevolezza di vivere non semplicemente un’esperienza urbana, ma la vita urbana come problema, come interrogazione, come provocazione. Questa città, nonostante i suoi particolari specifici e le sue rivendicazioni di insularità, non può fare a meno di assumere una parte in altre storie, altri idiomi, altre possibilità. Si trasforma ineluttabilmente da monumento che celebra se stesso a intersezione, momento di incontro, luogo di passaggio nell’ambito di una rete più ampia. Mollati gli ormeggi la città comincia ad andare alla deriva, entra in altri racconti. L’approccio provinciale alla realtà è compromesso da forze economiche e culturali narrate altrove: in un’economia globale che è contemporaneamente presente sia sul mercato azionario mondiale sia sul mercato mondiale della droga. A proprio agio nel motivo barocco della rovina, posta all’estremo margine d’Europa, sulla soglia del disastro e del declino, Napoli forse diventa l’emblema della città in crisi, della città in quanto crisi, fino a formare l’interrogativo profondamente metropolitano dell’enigma di quella che Heidegger chiama la nebulosità
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Essere aperti a questa dimensione, alla narrazione collettiva di identità e scambi di memorie che vanno sotto il nome di “Napoli”, chiaramente significa rinunciare alla possibilità di ricomporre tutti i pezzi in un canale unico, in un solo racconto capace di spiegare tutti i particolari. Naturalmente possiamo usare termini come “sviluppo disomogeneo” e fare riferimento alle concatenazioni locali, nazionali e internazionali di temporalità miste, di disuguaglianze strutturali, e alle peculiarità delle formazioni storiche e politiche del Mezzogiorno, ma in queste categorie la sintassi particolare di queste condizioni, il mix “napoletano” può trovare solo spiegazioni parziali. Dunque non c’è progetto globale o disegno unificante in grado di coprire interamente l’esperienza napoletana. È una storia che si può cogliere soltanto nei frammenti, nell’economia del disordine, nella penombra mitica di una decadenza immaginata. Il valore di Napoli, sia dal punto di vista sociale che estetico è nella capacità di disperdersi, di perdersi e in tal modo di sfuggire alla prevedibilità. La città non rappresenta un referente unico, razionale, saldo, ma scivola attraverso schemi prevedibili per diventare un
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Temple Grandin, Pensare in immagini e altre testimonianze della mia vita di autistica, Erickson, Trento, 2001, pp. 200, € 16,80
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della vita.
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A un certo punto del suo terzo libro, Temple Grandin, autistica, professoressa di scienze del comportamento animale e progettista di attrezzature per la zootecnia, scrive: “Io non vorrei perdere la mia capacità di pensare visivamente”. E si tratta di capacità del tutto singolari rispetto a qualsiasi normodotato, modalità peculiari di percezione sensoriale, di pensiero e di relazione. “Tutto il mio pensiero, scrive ancora, è in immagini visive”. Già, immagini. Noi, alfabetizzati dei consumi multimediali ricordiamo immagini vaghe e generali, loro conservano immagini rigorose, cronologiche, specifiche. Noi abbiamo bisogno di esonerarci dalla quantità e dall’analiticità dell’informazione visiva, loro fanno il pieno fino alla saturazione. Noi fermiamo pochi punti nel vuoto, riteniamo poche immagini, viste, riviste, riproposte e solo per i tratti salienti, loro scannerizzano l’immagine punto per punto, sistemano ogni immagine nell’archivio mentale, lavorano con una singolare memoria scorrevole. Gerarchie di conoscenza e
tradizione occidentale iscritta nel mondo della scrittura gutenberghiana saltano completamente, l’organizzazione del pensiero segue decisamente altre strade allontanandosi da tutti coloro che utilizzano il linguaggio verbale come strumento principale di connessione e relazione. Gli schemi di pensiero dell’autrice si distinguono per essere fortemente associativi. “Il mio schema di pensiero inizia sempre dallo specifico per passare al generale con modalità associative e non sequenziali”. Le abilità visuospaziali possono diventare un punto di forza su cui approntare e affrontare programmi educativi a partire dai primi anni di vita. Visualizzare e vedere il mondo in immagini vuol dire per la Grandin riuscire a vedere nella mente un progetto concluso prima di avviarlo. Avere un
videoregistratore negli occhi e poterne controllare completamente i comandi, il che non è delle persone autistiche più gravi. La sua grande capacità di progettista zootecnica è, spiega lei, nella sua facilità ad immaginare il punto di vista degli animali e osservare le cose attraverso i loro occhi. La vita di autistica di Temple Grandin ha i limiti del caso, con la grande consapevolezza di chi ha voluto conoscere e studiare profondamente la sua malattia, e con il grande privilegio di raccontare in prima persona la tenacia nel cercare le strategie per affrontare tutte le difficoltà del problema. Il suo è un documento che apre una finestra a trecentossessanta gradi sulla vita cognitiva ed emotiva di una persona autistica. Consapevole di un’esperienza frutto anche di una rara combi-
Aleksandr Lurija, Un mondo perduto e ritrovato, Editori Riuniti, Roma, pp. 186, € 10,33 dati della letteratura scientifica, e ragiona spiegando il singolare mondo emozionale delle persone autistiche, presentan-
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nazione di livelli elevati di intelligenza, comprensione e educazione, l’autrice raccoglie esperienze di molti altri autistici e i
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do il disturbo in un’ottica nuova e più comprensibile. La prospettiva getta nuova luce sull’argomento, offre più di un’opportunità al miglioramento della qualità della vita, offre una sponda diversa a genitori, insegnanti, psicologi, educatori e tutti coloro che sono a contatto con l’autismo. Ma soprattutto invita a spostare il punto di vista, guardare altrove e secondo altre modalità di percepire, sentire, pensare, essere, forse primitiva, barbara nella accezione mcluhaniana, sicuramente non patologica. Che talvolta – e la Grandin dedica ampio spazio a entrambi i casi – si può accostare da una parte agli animali, in particolare il punto di vista esplorato è quello di una mucca, dall’altra ai grandi geni della modernità, da Van Gogh a Wittgenstein e Eistein. (g. f.)
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Tra i principali esponenti della psicologia sovietica, Aleksandr Lurija, alla scienza classica, analitica e riduzionista, interessata alle formulazioni astratte di leggi generali, oppone “una scienza romantica”, interessata ai casi singoli, orientata ad accogliere tutta la ricchezza degli eventi reali. Un mondo perduto e ritrovato è, come scrive l’autore, “il racconto di una lotta cui non arrise la vittoria e di una vittoria che non fece cessare la lotta”, non un caso clinico, ma la storia di Zasetskij, una persona che con tutta la sua interezza e umanità affronta la sua malattia. Durante la seconda guerra mondiale Zasetskij è ferito da una scheggia che gli penetra nel cervello e, deteriorandone irreparabilmente una parte, gli restituisce un mondo disintegrato, in frantumi. Egli ha la memoria gravemente danneggiata e non riesce a compiere semplici gesti della vita quotidiana come sedersi su una sedia o stringere la mano per salutare. Ha perduto completamente le capacità visuospaziali e non riesce più a vedere correttamente le forme. Non vede interamente nemmeno un solo oggetto, non una cosa sola. Deve continuamente immaginare cose, oggetti, scene, tutto ciò che vive. Del cucchiaio vede
Sapevo già che nel mio corpo c’è un orifizio per la fuoruscita dell’urina, ma avevo bisogno di qualche altra cosa. Il ventre premeva su un altro orifizio ma io avevo dimenticato a cosa servisse”. E si ritrova analfabeta. Ha perduto qualsiasi cognizione. Studente del quarto anno di corso presso l’istituto di meccanica, non riconosce le lettere della sua lingua che gli appaiono lettere di una lingua straniera. Scoprirsi privato della possibilità-incantesimo di leggere, non poter accedere allo strumento che consente di “farsi un’idea del mondo circostante in una luce più semplice e comprensibile”, di vedere “tutto ciò che non potrebbe mai vedere, sentire, comprendere” per Zatseskij è come aver perso l’essenza dell’umano. Qui si apre una nuova partita nella storia dell’uomo. Riapprendere ad apprendere, studiare senza sapere come si fa. Le lezioni sono difficili, ma presto ricomincia a leggere: una lettera per volta, una parola per volta, temendo che sparisca la lettera appena letta e sia dimenticata la parola appena finita di leggere. Scrivere all’inizio è altrettanto difficile che leggere: per riconoscere ciascuna lettera e individuarne la forma deve recitare tutto l’al-
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solo una parte, l’estremità, ne ha perfino paura quando gli cade nella zuppa. Tutti gli oggetti diventano a lui incomprensibili. Non capisce il rapporto tra il filo, il tessuto e l’ago che tiene in mano. Pur avendoli di fronte non sa e non riesce a trovare chiodi e martello per aggiustare una porta e quando finalmente glieli mettono in mano non li sa usare. Se prova a muoversi gli accadono delle “stranezze spaziali”, non vede la parte destra di ciò che gli sta intorno, non vede e non percepisce nemmeno il suo lato destro. Non può fare niente, nemmeno giocare. Prima del ferimento era bravissimo a giocare a scacchi, ma ora non sa più contare e non riesce a ricordare e memorizzare nemmeno uno schema. A volte non è in grado di svolgere azioni che perfino un bambino, addirittura un neonato sa compiere: “Stanotte mi sono improvvisamente svegliato ed ho sentito una specie di pressione al ventre. Sì, qualcosa si imbrogliava nella mia pancia, ma non avevo voglia di urinare. Eppure avevo voglia di fare qualcosa. Ma cosa? Non riuscivo assolutamente a capire. E la pressione al ventre aumentava. Decisi allora di andare al gabinetto e per lungo tempo mi arrovellai per ricordare come si facesse a defecare.
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Thomas A. Sebeok, Signs: An Introduction to Semiotics, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo- London 2001, tr. it. di Susan Petrilli, Segni. Una introduzione alla semiotica, Carocci, Roma 2003, pp. 218, € 17,50
fabeto, ma viene consolato dalla scoperta sensazionale che può scrivere. La scheggia gli ha distrutto le capacità visuospaziali, non quelle visuomotorie, mantenutesi integre. Se scrive meccanicamente, senza staccare il dito dalla carta, non ha bisogno di ricorrere al sistema lettera per lettera. Può scrivere, e scrive. Della scrittura fa la ragione della propria vita. Decide di raccontare tutto quello che gli è successo senza tralasciare alcun particolare. Vuole fornire ai medici tutte le informazioni utili a trovare una cura per la sua malattia, per ritornare ad essere ciò che era prima del ferimento. Non guarisce, i danni al cervello sono irreversibili, ma la scrittura gli consente di comporre tutti i pezzi della sua vita e quindi di riappropriarsi di se stesso. Attraverso la sua impresa titanica, scrive più di tremila pagine in più quaderni con una grafia minuta, Zasetskij riacquista il senso della propria vita colorandola più intensamente
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di umano. Osserva infatti Oliver Sacks nella prefazione al libro che, come prima Socrate, Freud e Proust, anche Zasetskij ci insegna che “una vita umana non è una vita fino a quando non è esaminata; che non è una vita fino a quando non è ricordata e assimilata; e che questo ricordo non è qualcosa di passivo, ma attivo, la costruzione attiva e creativa della vita di un individuo, la scoperta e la narrazione della vera vita di un individuo”. (g. f.)
La comunicazione (non verbale) è considerata da Sebeok come il carattere che distingue l’animato dall’inanimato, ed è quindi prerogativa di tutto il mondo vivente. Dove c’è vita c’è semiosi e viceversa, tanto che di un’entità che è morta si dice che ‘non dà più segni di vita’. Il linguaggio, che non è un congegno comunicativo, è invece il tratto distintivo dell’umano ed è inteso, si badi, come capacità sintattica, ovvero capacità di produrre, per montaggio e smontaggio, mondi diversi, ipotesi, utopie, invenzioni narrative e ogni altra forma di creazione. Si tratta del gioco del fantasticare, espressione che dà il titolo ad un altro libro di Sebeok. Non si può dunque usare “linguaggio” con riferimento soltanto al verbale. Per Sebeok è “linguaggio” e “linguistico” sia il segnico verbale sia quello non verbale del solo mondo umano, mentre è “non linguaggio” e “non linguistico” il segnico del vivente in generale (di cui è parte l’umano), ossia i vari sistemi di comunicazione iconici, indicali, chimicofisici, tattili, acustici, visivi, olfattivi, gustativi, ecc., dalla bio all’antroposemiotica. L’umano (è questa la sua peculiarità) possiede pertanto sia il segnico linguistico sia il segnico
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Thomas A. Sebeok, nato a Budapest il 9 novembre 1920 e morto il 21 dicembre 2001 a Bloomington, è stato uno dei massimi teorici della semiotica contemporanea. Emigrato negli Stati Uniti nel 1937, ha insegnato Linguistica e Semiotica nonché Antropologia e Folklore all’Indiana University di Bloomington. Allievo di Charles Morris e di Roman Jakobson e continuatore della semiotica di Charles S. Peirce, ha portato su percorsi nuovi la ricerca sui segni, estendendone il campo al di là dei segni prodotti dall’uomo. La sua “semiotica globale”, infatti, fa coincidere la “semiosfera” (Lotman) con la biosfera (Vernadskij), stabilendo un’identificazione fra vita e processo segnico o semiosi. La scienza dei segni diviene una branca della scienza della vita. I segni sono presenti ovunque c’è vita. Sebeok, che si definisce un biologo mancato, allarga il campo d’indagine alla “biosemiosi” e a tutti i settori in cui si riscontrano funzioni vitali, ivi compreso l’interscambio fra uomo e macchine (come nel caso dell’innesto di organi artificiali in un essere vivente), o cibersimbiosi che origina la “cibersemiosi”. Decisiva in tal senso è la distinzione fra comunicazione, linguaggio e parlare.
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non linguistico, per cui forme di comunicazione non verbale come la moda, la fotografia, le merci, ecc., possono essere chiamate linguaggi; e giustamente si dice ‘linguaggio della moda’, linguaggio della fotografia’, ‘linguaggio delle merci’. Negli animali non umani troviamo icone, indici, simboli, segnali, nomi, dice Sebeok, ma non la sintattica, motivo per il quale il loro mondo rimane fisso, e la loro modellazione del mondo è capace soltanto di un rapporto isomorfico col mondo che raffigura. Ciò dice della continuità/discontinuità fra il vivente non umano e il vivente umano, che reimposta su basi diverse il rapporto fra natura e cultura. Il parlare è il linguaggio canalizzato nel verbale. Esso presuppone il linguaggio e non viceversa; è un congegno di comunicazione e uno fra tanti disponibili. Il bambino e il sordomuto non parlano ma comunicano con altri mezzi, il che non significa che non hanno una conoscenza (un modello) del mondo che li circonda. All’animale non umano non manca solo la parola, manca soprattutto il linguaggio, mentre all’infante o al sordomuto manca solo la parola. Sebeok propone la semiotica come la “branca centrale di una
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scienza integrata della comunicazione” (p. 72). In questo libro, pensato soprattutto come un manuale, egli delinea “una tipologia di sei basilari ‘specie’ di segno, che rispecchia i tipi di segni così come sono generalmente identificati e comunemente impiegati dai semiotici” (p. 82), ma opera anche un ampliamento di prospettiva, procedendo oltre l’antroposemiosi e inglobando la biosemiosi e la zoosemiosi, “per dimostrare che nessuno dei segni qui trattati è criteriale o unico rispetto alla specie umana” (p. 85). Punto di partenza è la classificazione dei segni di Peirce. Le sei specie di segni che “sembrano ricorrere più di frequente nella semiotica contemporanea” sono il segnale, il sintomo, l’icona, l’indice, il simbolo e il nome. In realtà – avverte Sebeok – “non sono i segni a essere classificati, ma più precisamente gli aspetti dei segni; in altre parole un determinato segno può presentare – e il più delle volte, di fatto, presenta – più di un aspetto […]. Ad esempio, un simbolo verbale, come un imperativo, è comunemente dotato anche del valore di segnale. […] Un segno prevalentemente indicale, come un orologio, assume un contenuto aggiuntivo chiaramente simboli-
segni fanno parte di una fitta rete, o di un sistema omeostatico autoregolantesi chiamato Gaia. La semiosi (vita) agisce come cooperazione fra un segno, il suo oggetto e il suo interpretante. In questo processo occorre anche il segnale: “un segno che innesca meccanicamente (naturalmente) o convenzionalmente (artificialmente) una reazione da parte di un ricevente” (ibidem). Anche nel segnale, in altri termini, c’è mediazione o terzità. Tutti gli animali, infatti, sono capaci di utilizzare e rispondere a segnali specie-specifici ai fini della loro sopravvivenza, ma ciò non significa che “i segnali animali non siano soggetti a fattori ambientali o di adattamento” (p. 56) e quindi a una ulteriore specificazione/interpretazione. Come è noto, icona, indice e simbolo sono tratti dalla tipologia di Peirce, che Sebeok approfondisce ulteriormente, superando l’antroposemiosi. Egli porta la dimensione iconica della semiosi al livello della materia vivente e riconosce in René Thom colui che ha arricchito l’eredità di Peirce. Mostrando l’iconicità della genesi della vita, così scrive: “Un essere vivente L fabbrica, dopo un intervallo temporale, un altro essere vivente L’, isomorfico con L. L’ presto sop-
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co se per caso si tratta del Big Ben” (ibidem). I segni sono dunque “degenerati” (Peirce) perché in reciproca opposizione di partecipazione. Gli aspetti di un segno “necessariamente si presentano insieme, in una gerarchia sensibile all’ambiente. Dal momento che naturalmente tutti i segni entrano in complessi rapporti di contrasto e di opposizione, sintagmatici e paradigmatici, il posto da essi occupato nel tessuto di un testo concreto e nella rete di un sistema astratto assume un ruolo decisivo nella determinazione di quale aspetto predominerà in un dato contesto e in un particolare momento; un fatto che porta direttamente al problema dei livelli, così familiare alla linguistica – essendo un presupposto fondamentale di ogni tipologia – ma per ora ben lungi dall’essere sviluppato nelle altre branche della semiotica. […] Il segno è legittimamente, anche se vagamente, definito secondo l’aspetto che ha un posto predominante” (p. 86). Una topologia del segno che evoca quella concezione localista o spaziale, legata alla sublogica del semiosico, che si ritrova negli scritti di Louis Hjelmslev degli anni Trenta. Nella prospettiva globale o ecumenica di Sebeok tutti i
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pianterà L. Secondo Thom la caratteristica della plasticità attiva il codice genetico dando luogo a un sistema molecolare mutabile e autoriproducentesi, sensibile anche all’ambiente” (p. 144). Si tratta della crescita e differenziazione “di una struttura isomorfica con il genitore in virtù di un’operazione di traduzione spazio-temporale”: una ‘dinamica irreversibile’ in cui “un modello si ramifica in una replica isomorfica con esso” (p. 145). In questo processo morfogenetico e topologico la modellazione comunicativa biosemiotica rimane costante pur nelle sue traduzioni. Si prospetta un’opposizione partecipativa del tipo globale/locale, dove il globale è appunto l’estensione della modellazione biosemiotica quale criterio originario della vita in tutte le sue specificazioni o localizzazioni, vale a dire in tutti i vari corpi viventi. La semiosi (la vita) è traduzione e il segno vive nella traduzione: “il significato genera il significante in un eterno processo di ramificazione. Ma il significante ri-genera il significato ogni volta che interpretiamo il segno. In termini biologici, ciò vuol dire che il discendente come significante può diventare genitore in quanto significato, dato il decorso di una generazione” (ibidem).
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Nella dimensione indicale un segno significa in virtù della sua connessione diretta con il suo oggetto. L’indicalità costituisce il momento individuale e individuante della semiosi. Ogni cosa che focalizza l’attenzione o ci fa trasalire è un indice (v. Peirce, Opere, Milano, Bompiani, 2003, p. 168; 2. 285). “Il corpo di qualsiasi vertebrato – rimarca Sebeok –, compreso l’umano, è composto di un vero armamentario di contrassegni indicali più o meno palpabili dell’ipseità nella sua unicità” (p. 129). Sull’indicalità sono incentrate la chiromanzia, la frenologia, la grafologia, la fisiognomica, la semiochimica (un campo che ingloba lo studio degli odori) (v. pp. 129-131). L’indicalità espone il segno all’irruzione della materia semiotica più di ogni altra dimensione della semiosi. Sono segni di tipo indicale i sintomi, che mostrano un nesso di contiguità e di causalità fra l’interpretato e l’interpretante; ad esempio: ‘macchie sulla pelle’ (interpretato) allora ‘malattia epatica’ (interpretante). Il sintomo è manifestato da una struttura anatomica. “I corpi di tutti gli animali – dice Sebeok – producono sintomi come segni di avvertimento, ma ciò che essi indicano dipenderà dalla specie. […] Gli animali con
anatomie largamente divergenti non manifesteranno praticamente alcuna sintomatologia in comune” (p. 56). Nel focalizzare l’attenzione sulla sintomatologia, Sebeok fa emergere l’antichissima radice della semiotica, quella medica: la semiotica come semeiotica, sviluppatasi con lo specifico interesse per la diagnosi, l’anamnesi e la prognosi. Ma la funzione di sintomo è legata
anche a situazioni di normalità e non soltanto a stati patologici. Marx, ad esempio, studia la macchina automatica come sintomo della metamorfosi del lavoro nel capitalismo, mentre Adam Schaff considera l’odierna disoccupazione intellettuale come sintomo della fine del capitalismo. Sebeok rileva che si usa estensivamente “sintomo” per fare riferimento a fenomeni che “conseguono da
Charles S. Peirce, Opere, a cura di Massimo A. Bonfantini, Bompiani, Milano 2003, pp. XIII + 1297, € 33,00 denotata è soltanto di tipo convenzionale, e quando il segno ha come designatum una classe intenzionale” (p. 97). La convenzionalità distingue il simbolo dall’icona e dall’indice, “mentre il tratto ‘intensione’ è necessario per distinguerlo dal nome” (un segno che “ha una classe estensionale per il suo designatum”) (pp. 97, 100). Un nome è un vuoto a meno che e finché non si singolarizza il suo denotatum, come quando, per esempio, degli individui denotati da un nome proprio come ‘Veronica’ se ne specifica uno con un cognome, un nomignolo (v. pp. 58, 100). Appartengono ai segni simboli l’allegoria, il
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cause considerate come analoghe ai processi fisici” (ibidem). Segni indicali sono inoltre gli indizi, in cui il rapporto fra interpretato e interpretante è di causalità non attuale, ovvero dice della presenza (latte nel seno di una donna) di un’assenza (parto), o ancora: dice di una possibile causalità, come nel caso del nesso fra il cielo nuvoloso e la pioggia, occorrenza in cui si può parlare anche di traccia: una certa orma dice del possibile o presunto passaggio di un certo animale. “Un segno è chiamato simbolo quando è senza similarità e contiguità, quando la relazione tra il suo significante e i suoi
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marchio, il distintivo, lo stemma, l’emblema, le insegne. Tirando un po’ le somme, si potrebbe dire che nell’icona la semiosi si mostra prevalentemente come senso, significanza, dire; nell’indice si mostra come fisicità, biologicità; nel simbolo si mostra come abito, teoria, metalinguaggio, come società, ideologia. Nessuna di queste occorrenze semiotiche, però, si dà senza la partecipazione, seppur in maniera minimale, delle altre due. Sebeok insiste sulla complementarità piuttosto che sull’antagonismo di queste categorie semiotiche, facendo vedere quella che, glossematicamente, possiamo chiamare sublogica del segnico, che dice del sincretismo che caratterizza la semiosi. (c. c.)
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Oltre che uno dei massimi filosofi americani, maestro di epistemologia e di logica, Peirce (1839-1914) è uno dei padri fondatori della semiotica contemporanea. Il non aver pubblicato in vita nessuna opera di sintesi ma solo tanti articoli su riviste e l’aver lasciato tante lezioni inedite hanno a lungo frenato la sua fortuna. Oggi, però, dopo l’amplissima raccolta dei Collected Papers e il più recente lavoro di risistemazione cronologica della sua produzione, viene emergendo sempre più lo spessore e l’ineludibilità del suo pensiero ed è possibile una scelta più sicura e rappresentativa della sua produzione. Questa antologia “contiene i 45 testi di Peirce più importanti e decisivi – scrive Bonfantini nella Presentazione (p. IX) –, scelti e disposti in modo da favorire gli approfondimenti e i rimandi e di evitare le ripetizioni”. Essa risulta suddivisa in quattro sezioni, dedicate, nell’ordine, alla semiotica, all’epistemologia, alla logica e alla metafisica, e corredate di introduzioni e note. Peirce è l’inventore o il reinventore di parole come pragmatismo, abduzione, semiotica. “Perciò è forse il pensatore più decisivo e seminale fra quanti introducono alla contempora-
228). “Un segno dunque è un oggetto in relazione con il suo oggetto da una parte e con un interpretante dall’altra, in modo tale da mettere l’interpretante in una relazione con l’oggetto, corrispondente alla sua propria relazione con l’oggetto” (p. 191, cors. ns.; 8. 332). Qui Peirce accenna non a una generica relazionalità, o a un generico ‘stare per’, secondo la concezione popolare e ingenua del segno, ma a specifiche relazioni che scandiscono le varie modalità della semiosi e le varie tipologie semiotiche. Un segno può essere considerato in se stesso, prescindendo dal suo rapporto con l’oggetto e con l’interpretante. Si avrà allora un qualisegno, quando il segno è una qualità considerata a prescindere dalla sua occorrenza effettiva, quindi come un possibile; un sinsegno, quando il segno è una occorrenza effettiva e singolare; e un legisegno, quando il segno è una legge o una convenzione. Considerato in rapporto con l’oggetto, il segno può essere icona, quando si riferisce all’oggetto “in virtù di caratteri suoi propri” (p. 153; 2. 247), ovvero in virtù della sua forma, sia che tale oggetto esista sia che non esista, facendo emergere una somiglianza che non dipende da una comparazione con un origi-
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neità”, scrive ancora Bonfantini (ibidem). Tralasciamo in questo resoconto gli aspetti epistemologici, logici e metafisici della riflessione peirceana per soffermarci sugli aspetti semiotici, vedendo Peirce come segno interpretato e come segno interpretante. Bonfantini, nell’introduzione (“La semiotica cognitiva di Peirce”) alla prima sezione del volume, dice che Peirce “usa sempre Sign, Segno, intendendolo implicitamente quale unità di espressione e contenuto. È solo in tale accezione infatti che il segno può mediare fra oggetto e interpretante. Forzando un poco il senso del Representamen di Peirce possiamo intenderlo come l’espressione del Sign o Segno, il cui contenuto secondo la nostra analisi si identifica con l’Oggetto Immediato” (p. 22). Il segno media, mette in contatto un oggetto e un interpretante, partecipando ed essendo partecipato da entrambi; esso è cioè oggetto e interpretante, o meglio: è una forma dell’oggetto e una forma dell’interpretante in quanto non li coglie per intero ma sotto certi aspetti, o in base a una certa idea, suscitando altre interpretazioni, o altri segni oggetto e altri segni interpretanti, equivalenti o più sviluppati (v. pp. 147-148; 2.
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nale ma dipende dallo stesso darsi della relazione segnica: l’icona è an-archica (senza archè), è cioè senza originale, significa per se stessa, è orienza performativa. Ancora in rapporto con l’oggetto il segno può essere indice quando c’è una connessione fisica, una contiguità con l’oggetto, che determina “qualche qualità in comune con l’Oggetto […]. L’Indice, perciò, implica una specie di Icona, sebbene un’Icona di tipo peculiare; non è la pura somiglianza al suo Oggetto che lo rende segno, ma è l’effettiva modificazione subita da parte dell’Oggetto che lo rende tale” (p. 153; 2. 248). Il segno può, infine, avere una relazionalità simbolica con l’oggetto. “Un Simbolo è un segno che si riferisce all’Oggetto che esso denota in virtù di una legge, di solito un’associazione di idee generali, che opera in modo che il Simbolo sia interpretato come riferentesi a quell’Oggetto. È insomma esso stesso un tipo generale di legge, cioè è un Legisegno”. E generale è anche l’oggetto al quale si riferisce. “Ora, ciò che è generale ha la sua esistenza nelle occorrenze da esso determinate. Quindi devono esservi occorrenze esistenti di ciò che il Simbolo denota […]. Così il Simbolo implicherà una sorta di
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Indice” (pp. 153-154; 2. 249). Considerato in rapporto con l’interpretante il segno può essere rema (espressione di marche semantiche, di qualità di un oggetto possibile), dicisegno, o segno dicente (espressione di qualità di oggetti determinati, esistenti), e argomento (espressione di una legge o di una argomentazione) (v. p. 154; 2. 250-2. 252). Queste specifiche relazioni costituiscono la forma o struttura del segno e la pertinenza della semiotica: “scienza cenoscopica dei segni”, dice Peirce (p. 194; 8. 343). La semiotica, in altri termini, ha per oggetto le relazioni tipiche, costanti e costitutive dei segni, i loro caratteri comuni. Dal versante linguistico della semiotica contemporanea è la teoria del linguaggio di Louis Hjelmslev ad essere focalizzata sulla struttura del segno, occupandosi tanto delle costanti della semiosi quanto delle sue variabili. Una semiotica generale tendenzialmente globale. Prima di procedere a questa suddivisione dei segni, Peirce fa “notare che un segno ha due oggetti: l’oggetto come è rappresentato [“Oggetto Immediato”] e l’oggetto in se stesso [“Oggetto Dinamico, o Oggetto realmente efficiente, ma non immediatamente presente”]. Il segno ha
anche tre interpretanti: l’interpretante come è rappresentato [o come è significato nel segno: “Interpretante Immediato”] o come si vuole che venga inteso, l’interpretante come è prodotto [“dal Segno sulla mente”]: “Interpretante Dinamico”, e l’interpretante in se stesso [“Interpretante Normale”, o effetto prodotto “sulla mente dal Segno dopo un sufficiente sviluppo di pensiero”] (p. 191; 8. 333; pp. 194-195; 8. 343). L’Oggetto Dinamico e l’Interpretante Dinamico sono spinte esterne a una mira interpretativa, sostengono e accompagnano una o più correnti del fiume semiosico; non sono pertanto esterne ad esso o alla semiosi, ma ne sono parte integrante. Nella prospettiva di Hjelmslev sarebbero il fuori del segno, “la materia, il senso, il pensiero stesso” (I fondamenti della teoria del linguaggio, tr. it. Torino,
Einaudi, 1968, p. 55), mentre l’Oggetto Immediato e l’Interpretante Immediato sarebbero sostanze del contenuto (o del pensiero), interpretanti dell’Oggetto e dell’Interpretante Dinamici, che manifestano altri interpretanti: le forme del contenuto. Viene così a specificarsi una doppia materialità: una materialità fisico-biologica e una materialità fenomenologica, correlate secondo un rapporto di partecipazione e non di esclusione. Ciò vuol dire che nella semiotica glossematica la materialità sta nel segno, dealgebrizza la forma, contrariamente a quanto si legge in certa “vulgata” del pensiero hjelmsleviano. Bisogna infatti tener conto delle riflessioni di Hjelmslev degli anni Trenta, volte ad evidenziare il funzionamento della “legge di partecipazione” (A/A + non A) nelle correlazioni linguistiche e che
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William Gibson, L’accademia dei sogni, Mondadori, Milano 2004, pp. 300, € 15,00
La narrativa contemporanea ha spesso anticipato, in altri casi ha istituzionalizzato il valore dell’innovazione culturale. Il fatto che un autore come William Gibson, padre del cyberpunk, abbia lievemente sacrificato la sua vocazione per le estetiche digitali in favore di un acceso interesse per le mutazioni del marketing e della moda, dovrebbe far riflettere in molti. Pattern Recognition, pubblicato in Italia con il titolo meno suggestivo di L’accademia dei sogni, ha come protagonista una ‘caccciatrice di tendenze’, a riprova dell’importanza istituzionale assunta da tale attività, che va oltre le semplici logiche interne al fashion system. Cayce Pollard è appunto una cool hunter, una figura professionale che nel testo assume contorni poco delineati a metà strada tra la consulente d’immagine e l’esperta di marketing. Cayce è infallibile nel capire con netto anticipo i trend del mercato e si muove nelle strade delle metropoli mondiali alla ricerca dei frammenti di un video che la condurranno verso un finale in stile noir. Ma la peculiarità che
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contraddistingue questa giovane free lance dai comuni operatori del marketing è un’insolita patologia che si manifesta come ripugnanza psicosomatica al sistema dei marchi globali, motivata non tanto dall’esternalità che è propria dei movimenti antagonisti, quanto piuttosto dall’elevato grado di confidenza che ad essi la lega. La potenza evocativa del logo e dei canali attraverso cui comunica la marca invade lo spazio psicologico della protagonista che rifugge istintivamente dai luoghi ad alta concentrazione di marchi, dunque dalle strade più famose delle capitali del mondo. Il “motore semiotico” che genera i mondi ordinati e confortevoli delle marche, produce una crisi di rigetto dovuta a un problema sempre più cruciale per il marketing della moda: l’inautenticità. Tale termine pone il duplice problema della distanza dalla fonte creativa originaria – l’aura artistica – e della distanza dalla fonte effettiva del bisogno vestimentario: la vita quotidiana. Per tale ragione Cayce elabora un’immagine di sé che rifiuta la logica della moda per sposare quella più intima dello
stile. Un’operazione che mette in evidenza la sua estrema perizia in fatto di storia dell’abbigliamento nonché la sua vena creativa che le consente di rielaborare, attingendo da materiale sparso, uno stile personale alla stregua del bricolage delle sottoculture spettacolari. La cosiddetta uniforme UCP (uniforme Cayce Pollard) è il grado zero della moda indotto dall’eccesso di passione per questo campo e dunque il tentativo di salvare il valore delle pratiche vestimentarie dalle logiche coatte dell’obsolescenza programmata e dagli investimenti d’immagine dei marchi internazionali. Un ambivalenza che al giorno d’oggi coinvolge ampie fasce di popolazione giovanile determinando un “doppio vincolo” che, sulla traccia di quello batesoniano, fa evolvere i conflitti comunicativi tra giovani e brand system. In altri termini la protagonista soffre di una scissione psichica tra il sentimento di affiliazione e quello di avversione alla moda, una lieve schizofrenia dovuta alla stessa liminarità di questa professione che è sempre sulla
linea di confine tra due sistemi culturali: quello del fashion system e quello della strada. Le tappe che scandiscono la vicenda sono difatti strade, in particolare londinesi. Non è un caso che la vicenda narrata da Gibson s’intrecci con una spy story e si concluda naturalmente con un fotogramma delle torri colpite. Questo perché la problematica dello stile ha assunto una centralità decisiva all’interno delle dinamiche della globalizzazione. Così una professione effimera e prevalentemente ludica come quella del cool hunter è divenuta il perno sul quale si articolano due movimenti opposti: da una parte quello delle multinazionali che si armano per attingere idee dal giacimento dell’autenticità subculturale, dall’altra quello di contestazione dei marchi su scala globale, tra cui spicca il culture Jamming, che invece ingaggiano da tempo una “guerriglia semiotica” contro gli strapoteri del brand system. (n b.)
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12 ottobre, Seminario con Ugo Volli e Alberto Abruzzese Desiderio di comunicare/Comunicazione di desiderio, “Quaderni di comunicazione”, n.3, Manni.
Disseminare tracce di desiderio partendo da specifiche matrici disciplinari, ma che non si stancano di aprire nuove porte, infrangere confini precostituiti, confrontarsi e qualche volta persino incontrarsi su territori di frontiera. È questa la sensazione raccolta nel seminario tenuto il 12 ottobre nelle aule di Scienze della comunicazione dell’Università di Lecce, per ragionare intorno al numero monografico (il terzo) dei Quaderni di comunicazione, dedicato al ‘Desiderio’. La sensazione che gli studenti intervenuti avranno modo e tempo per ritornare sulle idee e le prospettive emerse nel corso di una intera e densa mattinata. Di fatti è difficile operare una sintesi degli interventi, quello di Angelo Semeraro, come quelli di Alberto Abruzzese e Ugo Volli, appunto matrici disciplinari di appartenenza diversa, la pedagogia per il primo, la sociologia per il secondo, la semiologia per il terzo. Eppure tutti e tre inclini alla contaminazione, alla frequentazione della filosofia, della letteratura, della storia, della mitologia. Tutti e tre attingono alla storia e alla storia del pensiero. Tutti e tre pronti a ragionare sulle grandi distanze o piccole sfumature che separano le diverse prospettive e predisposti ad aprire una serie infinita di domande, più che offrire sicurezze in cui riconoscersi, tutti e tre pronti a ripartire da una microfisica dei poteri. Sfumature si diceva: Ugo Volli ragiona su un desiderio che si muove tra parte e tutto, tra Oriente e Occidente, tra soddisfazione del contingente e privazione per l’assoluto, un percorso che parte dalla filosofia greca, da Aristotele e Platone, stoici ed epicureici, passando naturalmente per Foucault, e per registrare la legittimità del desiderio delle parti nella modernità – Volli cita la costituzione degli Stati Uniti, Mill e i percorsi che portano alle teorizzazione
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dell’edonismo, come momento fondante. Il giro è complesso e articolato, porta a una critica dell’etnocentrismo, come del cronocentrismo, fino a sostenere che se c’è un rapporto tra comunicazione e desiderio non può che essere politico. La società che privilegia il desiderio individuale – sostiene Volli – applica al desiderio quelle “tecnologie dopanti se non drogate”, come ad esempio la pubblicità. La comunicazione è per il semiologo il principale strumento di addomesticazione/sfruttamento del desiderio nella nostra società: “è vero che il desiderio è personale, ma è manipolabile attraverso la comunicazione, non è strumento di conoscenza ma trasferimento di valori. Le tecnologie più importanti ‘attizzano’ il desiderio in un certo modo piuttosto che in un altro. La nostra è una strana società afrodisiaca, ma afrodisiaca in senso feticistico”. Uno sguardo crudo sul desiderio in tempo di guerra mostra a Volli, nella materialità dello scontro, numeri molto più contenuti rispetto alle grandi guerre del XX secolo. Ma il punto è che – ragiona Abruzzese – il silenzio ha circondato molte guerre del Novecento, durante le stesse e immediatamente dopo. Basta pensare al silenzio in cui al principio è sprofondato l’olocausto. Senza andare molto indietro basti pensare anche alle guerre invisibili di Algeria o delle Falkland. Oggi la guerra ritorna a farsi vedere, con le sue tecniche sporche. È vero che a partire dall’undici settembre essa si gioca su logiche simboliche, ma è anche vero che avere una percezione forte di tali logiche simboliche implica, in termine di un uso strategico, un riavvicinamento alla realtà. Il desiderio per Abruzzese non è fuori della guerra ma dentro, dentro Buchenwald come dentro Abu Ghraib. E Foucault riecheggia anche nelle sue parole, “le grandi strategie – dice – usano una microfisica del potere applicata su un corpo desiderante, le grandi strategie non fanno altro che usare questa materia sostanzialmente identica di cui siamo fatti che è un corpo desiderante”. La riflessione di Abruzzese lavora tra micro e macrofisica del potere, tra globale e locale, il globale delle grandi astrazioni, e il locale dove viene messo in gioco il corpo. E allora si può ripartire dalla dimensione del sacro, del mito, dell’arcano per approdare alla società delle merci e dei consumi. Proprio quella società dei consumi che ha in qualche modo realizzato e metabolizzato il fatto che la morte di guerra fa male. Si può ragionare sull’idea di bellezza che la grande cultura di massa ha affermato come valore
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universale addirittura autoritario e totalitarista, arrivando alla orizzontalità delle reti che può anche mettere in discussione la stessa. Ecco ritornare una duplice dimensione della comunicazione, Semeraro opta per un distinguo forte tra la comunicazione industriale, le comunicazioni di massa, e una comunicazione di relazione, dove il desiderio non può e non deve mancare. Questa comunicazione si alimenta del desiderio, la dimensione del tu si nutre dell’himeros: qualcosa che ha a che fare con il fuoco dell’eros. È un desiderio che è sfida: sovversivo, vitale, irriducibile, potente. Un desiderio che reagisce a una mancanza, che lotta con il nuovo immaginario di guerra costruito nelle menti bambine (“gli adulti che abiteranno il XXI sec.”). “Il nostro più forte desiderio – dice Angelo Semeraro – in questo lungo presente storico che fa scempio dei nostri desideri più profondi, è qui e ora una elevazione e sollevazione culturale dell’umanità. Opporre al rumore delle armi una ragione più forte: dobbiamo imparare a riconoscere per riconoscerci: il tema di questo Quaderno.
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[g. f.]
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a margine di un convegno:
adorno a lecce
Si è svolto a Lecce, il 22 e 23 ottobre, un convegno nazionale di studi su Theodor Adorno (1903-2003). L’estetica, l’etica, l’industria culturale, curato dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, in collaborazione con la Società italiana di Estetica. Due giorni ricchi di riflessione, a cui hanno partecipato Sergio Moravia, Elio Matassi, Francesca Di Lorenzo Ajello, Sara Zurletti, Maria Failla, Luigi Russo, Giuseppe Di Giacomo, Elena Tavani, Mario Signore, Paolo Pellegrino, e Stefano Cristante. Le loro relazioni verranno raccolte nella rivista Idee diretta da Mario Signore.
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A che punto siamo con l’emancipazione? Ci sembra una domanda del tutto opportuna parlando di Adorno, dal momento che l’obiettivo della critica sociale, ma più in generale dei francofortesi, si muove dentro il solco di una illimitata fiducia nelle capacità di autodeterminazione e autorealizzazione degli individui: quella Umbildung trasformativa che ancora deve guadagnarsi un suo spazio condiviso nelle politiche formative. L’emancipazione, obiettivo finale della critica sociale, si scontra con la mostruosa resistenza dell’industria culturale, ma anche con la pressione della moltitudine, le cui brame quella promette di gratificare (e ingannevolmente ci riesce). “Il mondo vuol essere ingannato” è l’amaro verdetto di Adorno. E non può, né deve attendersi gratitudine chi voglia svegliarlo dalle sue illusioni. Ulisse, che sveglia i suoi compagni di viaggio dall’incantesimo della maga Circe, che li ha trasformati in maiali, restituendoli alla loro prima natura, deve sopportare le loro rampogne. Essi piangono per aver perduto la liberta dalla libertà. Come dire che il pubblico non ha solo un debole per la frode, ma desidera l’inganno. Freud avrebbe poi aggiunto che la massa desidera essere governata da una forza illimitata e ha una passione estrema per l’autorità e l’obbedienza. Per Adorno ciò che è vero e ciò che è opinione, è deciso dal potere sociale, e il limite tra un’opinione sana e una
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patogena, tra una giusta o verosimile e una clamorosamente sbagliata, è tracciato dall’autorità prevalente, che è anche quella che ha a disposizione più strumenti di diffusione. Cosa resta da fare allora ai guardiani delle speranze e delle promesse inesaudite del passato? La risposta di Adorno è espressa dall’immagine del messaggio nella bottiglia. Ma la metafora del messaggio implica che vi sia un messaggio che valga la pena scrivere. Il successivo pensiero radicale si sarebbe poi rifiutato di impegnarsi in quella negoziazione dei significati che è la sostanza del teorizzare critico. Dai critical models a noi è esplosa la società dello spettacolo. Nella Dialettica negativa Adorno parla di “disincanto del concetto”, ma oggi dobbiamo darci spiegazioni del “reincanto”; del ritorno del tragico nell’istante eterno senza più sguardi di futuro (Maffesoli), mentre Bourdieu ha rafforzato il concetto di perdita di presa sul presente e Neill Postman ci ha a sua volta spiegato cosa sia diventato il discorso pubblico nell’era dello spettacolo, avvertendoci sulla problematicità della comunicazione che richiede cura e manutenzione perché diventi responsabile. Una manutenzione dell’infocomunicazione richiede una ricerca delle forme più efficaci per trasmettere senso (quell’ascolto responsabile e quella responsabilità del dire posti in evidenza nella relazione di Francesca Di Lorenzo). Sono forse questi i territori nuovi dell’emancipazione: liberare la comunicazione dalle sue ridondanze e dai suoi trucchi retorici; renderla amica delle idee, sollecitatrice di problematicità. È proprio l’Adorno dei Minima moralia a ricordarci che nessun pensiero è immune dalla sua comunicazione “e basta formularlo in senso equivoco per minare la sua verità” (p. 25). Per avere una loro incidenza, i messaggi di emancipazione debbono essere leggibili dai marinai di tutti i mari. E se da una parte gli elementi che Di Giacomo coglie come costitutivi essenziali della forma artistica (forma come “contenuto sedimentato”) dislocano la comunicazione in un ordine di discorso non lontano, ma assolutamente contiguo al patico estetico, dall’altra la investono della responsabilità di riferirsi a quegli “universali” che non si sono esauriti nel lungo corso della modernità. Sullo sfondo rimane quella kantiana allgemeine Wereinigung der Menschheit (federazione generale dell’umanità), che Mattelart aggiorna e traduce nell’istanza di una repubblica ecomondiale, e che Habermas, erede della prima scuola francofortese, a sua volta traduce
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nell’agire comunicativo delle “sfere pubbliche relazionali”. Sono le radici planetarie del messaggio emancipativo che i guardiani delle speranze non possono smettere di coltivare, consapevoli del fatto che la nuova sovranità del consumatore spiazza con mosse nuove la sovranità civica. Una lotta impari e titanica! La fiducia – ci dicono Giddens e altri osservatori – si va trasferendo dalle persone alle capacità astratte, ai sistemi “esperti”, mentre crescono diffidenza e scetticismo nei confronti delle persone che agiscono come “terminali dei sistemi” (Formenti, Quaderno di Comunicazione/4). La teoria critica si deve ora misurare con le nuove forme della comunicazione che avanzano: Blogsfera, Open source, software libero; e folle intelligenti (le smart mobs di Rheingold) che si ispirano a economie di dono, dove tutti prendono e tutti danno secondo le loro capacità, spinti da un bisogno partecipativo/emancipativo. Sono sfere vitali, orizzontali e spinte dal basso che attendono di essere riconosciute nel loro intrinseco valore emancipativo. Sottosistemi, produttori di nuove, luhmaniane, risonanze; capaci tuttavia di contagiare altri sottosistemi per un finale di partita con l’intero sistema della infocomunicazione. Parlando di comunicazione parliamo dell’agire comune, e dunque della comunità che cambia pelle, continuamente tentata a radicarsi, laddove la socialità è immersa nel flusso di una spazialità illimitata. Né ridere, né piangere, ma capire che questi sono i nuovi territori emancipativi del riconoscersi; frontiere dove è possibile la riconquista di quel giusto agire etico più potentemente veicolato nelle nuove generazioni per via estetica, perché il “reincanto” è guidato dall’esplosione delle forme, delle potenze teriomorfiche del virtuale, che sono poi – a volerle ben vedere – la ricerca di un non ancora di desiderio che, scardinando canoni e regole, vive la quotidianità delle speranze. [a. s.]
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Simboli di riconoscimento sui trulli di Alberobello (BA). Foto di Ronny Leva
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I LAUREATI DEL CORSO TRIENNALE DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE NELL’UNIVERSITÀ DI LECCE Sessione invernale - dicembre 2003
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i laureati
1 ARALLA GERMANA Politiche di marketing delle piccole e medie imprese nei mercati esteri. Il caso dell’olio d’oliva. 2 AVANTAGGIATO ANDREA Media di massa e guerra. 3 CATALDO VALENTINA Il suicidio. Interpretazioni sociologiche nell’era dei media. 4 D’AMATO DANIELE Comunickare, non luoghi, non persone. 5 DE IACO PIERA Relazioni sociali e rapporti interperso- nali nel dibattito sociologico contem poraneo. 6 GAETANI LUIGI Mobbing e bossing. Conflitti e vessazioni nell’ambiente di lavoro. 7 GIGANTE ILEANA Magdalene, il film della discordia. 8 GRAVANTE TOMMASO Ideazione e progettazione di una cineteca comunale a Lecce. 9 LA TORRE RAFFAELLA Contro il logorio della vita moderna... Vent’anni di Carosello. 10 LONGO ANTONELLA Crisi della famiglia e teorie sociologiche. 11 MARGIOTTA TIZIANO MARIA La società dei cattivi. Il ruolo dei media nella ristrutturazione del l’identità sociale. 12 MARIANO MIRYAM Educazione al desiderio tra etica ed estetica. 13 QUARTA ORNELLA La comunicazione politica in contesti di interazione strategica. Sessione invernale - marzo 2004 1 ARGENTIERI MARIA GRAZIA Cultura Jamming. 2 BLASI ANNALISA Il marketing delle differenze. 3 BONUSO DANILO Il percorso etico-politico del cinema di Marco Bechis. 4 BUCCELLATO SILVIA Il linguaggio silenzioso. 5 CARLUCCIO GIANNA Il cinema etnico del regista Edoardo Winspeare. 6 CONTE LOREDANA Comunicazione e informazione come eventi della vita. 7 CONTINO FRANCESCO Immagini & comunicazione.
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8 CONZA ELISABETTA Una tipografia nel Salento tra cultura ed imprenditoria. 9 DE FRANCHIS MADDALENA Dall’agorà al centro commerciale. Per un’indagine sociologica dei luoghi di aggregazione urbani. 10 DE GIORGI VALERIA LOREDANA Cinema e giornalismo. 11 DE IUDICIBUS VINCENZA L’11settembre 2003 nell’analisi de “La Repubblica”. 12 DE MITRI SILVIA RITA Politiche di comunicazione nel marketing urbano. 13 DE PINTO MARIA LAURA La comunicazione pubblicitaria e l’impatto di internet. 14 DE SIMONE ANGELA Il mestiere di Calvino presso la “Edizioni Einaudi”. 15 DONNO VALENTINA Le metafore della rete. Mito e tecnoscienza nell’immaginario post moderno. 16 EPIFANIO ANTONELLA La comunicazione nella grande distribuzione commerciale. 17 GALASSO ORNELLA Valore e ruolo della marca. 18 GALLETTA GIUSEPPA La gestione ed il marketing nel settore della moda. 19 GRAVILI SILVIA Stevenson’s comunicative strategies in “The strange case of dr Jekyll and mr Hyde”. 20 INGROSSO MAURO “Indipendenti” del Salento. Promozioni ed autoproduzioni indigene. 21 KWIATKOWSKI ALESSANDRA Il marketing dei prodotti tipici agroalimentari. 22 LOTTERIA SARA Sociologia della comunicazione. Cultura popolare e media. 23 LUSSO ANTONIO Comunicazione d’impresa nel sistema moda. 24 MANGIALARDO LAURA Il social forum a Lecce. 25 MARTI ELEONORA Giornalismo e new media. La circolazione delle notizie nella società digitale. 26 MASSAFRA MAURO Il potere del linguaggio nel linguaggio del potere. 27 MELE MARILENE Il marketing del turismo congressuale. 28 MELISSANO SIMONA Le riviste letterarie militanti, oggi, tra cultura e mercato.
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29 MICELLI MARTA L’evoluzione della telefonia mobile dal TACS all’UMTS. Cos’è cambiato nel modo di comunicare. 30 MICELLI MATTEO Ecologismo e Globalizzazione tra moviementi e istituzioni internazionali. 31 MONTINARO MANUEL La generazione del pollice. La rivoluzione degli sms nel linguaggio contemporaneo. 32 NUCITA LAURA Campagne elettorali e “strategie comunicative”. La mediatizzazione e la personalizzazione del sistema politico. 33 PERRONE TONIA Comunicazioni sociali a confronto. 34 PIRRI GIOVANNI Il fenomeno hacker. Una prospettiva sociologica. 35 SERGIO ALESSIO E-commerce e file-sharing. I due volti di internet. 36 SILVESTRI FRANCESCA Mass-media e censura nel fascismo italiano. Il caso di Radio Bari. 37 TRAFICANTE SIMONA Il lavoro delle donne nella società contemporanea. Per un approccio sociologico. 38 URSO VINCENZO Virtualità reale e protocolli di significato. Sessione estiva - luglio 2004 Cinema e pittura. Due realtà artistiche in divenire poetico-conoscitivo. Una rivista di comunicazione. Le strategie di comunicazione dei telegiornali italiani. La comunicazione istituzionale in impresa. Cambia la società cambia la pubblicità. Il pubblico televisivo e gli spot trasgressivi. Gli archivi della Comunità Europea. Il problema delle scorie nucleari. Il caso italiano di Scanzano Ionico. Le case editrici nel Salento leccese oggi. Rene Magritte - “Ceci n’est pas une
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i laureati
1 BERTOLAMI MARIA 2 BUONSANTO MARIA 3 CAIULO MATTIA 4 CALO’ ROSSETTI ANNA 5 CAPPELLO SIMONA 6 CARONE CARMEN 7 CASULLI VALERIA 8 CHIRIATTI GIOVANNI 9 CORDELLA GIUSEPPE
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i laureati 236
pipe” - Lettura semiotica. 10 D’ATTIS CLAUDIO Il talk show. Prospettiva qualitativa in Porta a Porta e Ballarò. Ricerca e resoconto del tirocinio RAI. 11 DE VITA IRMA La lingua della moda a cavallo delle rivoluzioni giovanili (1968-1977). 12 DIANA MARCO L’influenza della televisione nel calcio. Cambiamenti e trasformazioni dallo sport al business. 13 ERROI STEFANIA The Dreamers del ‘68 secondo G. Adair e B. Bertolucci. Nel segno della cinefilia e del discorso amoroso. 14 FAVALE ANDREA Persuasione e inganno nella comunica zione pubblicitaria. Aspetti etico educativi e tutela del consumatore. 15 FISTETTO ANDREA Il mercato, la mela, il peccato A bit of apple. 16 GALLO MARIA VITTORIA Terrorismo e media. 17 GARZIA FLAVIA Magia. 18 GIAFFREDA STEFANIA Vittorini e Calvino editori. 19 GRECO FRANCESCO Innovazione senza fili - L’impatto sociale, culturale ed economico delle reti wireless. 20 GUERRIERI PIERPAOLO Il paradigma dell’emigrante-straniero nella globalizzazione. 21 GUIDO LAURA La promozione globale dei prodotti locali. 22 INGROSSO FABIO La nuova politica estera dell’Unione Europea nel progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa. 23 INTINO GIOVANNA Sviluppi recenti nella tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento europeo. 24 LABRIOLA VINCENZA GIULIANA Sviluppo turistico di Taranto e provincia. 25 LAGNA YLENIA Fast-food Slow-food. L’alimentazione come forma di comunicazione. 26 LEONE ALESSANDRA L’evoluzione della comunicazione pubblica alla luce della legge 150/200. 27 LUPRANO GRAZIA Il divismo femminile nel cinema. Greta, Marlene, Ava, Rita e... affettuosamente le altre. 28 MACCHIA ILARIA Forme e strutture della comunica zione politica per strada.
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Una riappropriazione ideologica e pratica dello spazio urbano di massa. Protagonismo senza protagonisti. Andrea De Carlo. La trasgressione nella pubblicità. La tutela delle libertà civili negli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Il Patriot Act e altri interventi legislativi. La comunicazione educativa nella pubblicità progresso. Marketing politico e decisione di voto. Interpretazioni sull’aggressività negli adolescenti salentini. Fuori gioco millimetro. Per una descrizione del lessico calcistico. Digital divide. Tecnologie per la riduzione del divario digitale. Donne e mercato del lavoro Sostiene Pereira. Il romanzo, il film. Packard e Debord. Controllo e disvelamento nei media. I sistemi turistici locali e il sistema turistico Italia. Oceano mare. Editoria per ragazzi. Altruismo, sviluppo economico e scambi. Il dibattito sulla deregolamentazione del mercato del lavoro. Il fuoco e l’acqua. Saggio di letteratura semiotica di un annuncio pubblicitario. Italian sud-est. Sui binari di un collettivo caotico e indipendente. I muri che parlano. Cartelloni pubblicitari nell’era dei new media. La comunicazione nella propaganda elettorale. La promozione del territorio. I neologismi nella comunicazione politica e nel linguaggio dell’e-journal. Marketing e comunicazione delle
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i laureati
29 MACI ROBERTA 30 MAGLIOLA ADAMARIA 31 MANCARELLA ELENA 32 MANCARELLA GAETANO 33 MANCINI LOREDANA 34 MANCO MARIA GRAZIA 35 MANGIA STEFANO 36 MARTINA ENRICO 37 MARTINA PIERFAUSTO 38 MERCURI ANTONELLA 39 MICOCCIO CHIARA 40 MONTEFIORE ISABELLA 41 MONTEFUSCO ELISENA 42 MUSCA EMANUELA 43 MY DENISE MARIA 44 NOVEMBRE VALENTINA 45 ORSINI DANIELE 46 PAPPADA’ SIMONA 47 PEPE ALESSIO 48 PERRONE AMEDEO LUCA 49 PICHIERRI IMMACOLATA 50 PISCONTI GIOVANNI 51 POTENZA DANILO 52 POTI’ VALERIA
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i laureati
società calcistiche. 53 PRETE BARBARA Tra fantaparole e tecnicismi. 54 PROTOPAPA ADDOLORATA Le risorse umane e la funzione dire zionale. 55 RAMPINO MARIA FEDERICA La firma digitale come strategia comunicativa. 56 RATTA ANNA LISA Libertà di espressione in Turchia. Analisi di tre casi di libertà violata. 57 RIZZO VALERIA La comunicazione aziendale strumento del vantaggio competitivo. 58 ROBBE GIORGIANA Hyperfiction. Narrativa elettronica e poetica ipertestuale. Verso un nuovo spazio della scrittura. 59 SALVO FABIO La democrazia partecipativa nel pro getto di costituzione Europea. 60 SARDANO FRANCESCA Creazione d’impresa giovanile nel Mezzogiorno d’Italia. 61 SPAGNULO ANGELA Il cinema mutilato. 62 SPONSIELLO MARTA Digito ergo comunico. Come la rete modifica scrittura e comunicazione. 63 STRAFINO VALENTINA Big media o information Grass-Rout, il futuro dell’informazione. 64 TRISCIUZZI SARA Fortunato Depero 65 URSO STEFANIA Filiera territoriale e sviluppo turistico sostenibile di Castro. 66 VANTAGGIATO LORYOLGA Il tabacco nel Salento 67 VERGARO VALENTINA Città digitali. Reti, processi comunicativi, democrazia. Sessione autunnale - novembre 2004
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1 ABBRACCIAVENTO PAOLA 2 BARBERIO GIUSEPPE 3 BISCEGLIE FRANCESCA 4 BORELLI ALFREDO 5 CAGGIULA LIDIA 6 CANDITA GRAZIA ANNA 7 CAPODIECI CARMELO M. 8 CAVALERA ORIANA 9 CENTONZE FABIOLA
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Percorso critico su Bauman. Bambini di celluloide, l’infanzia nel cinema (1998-2004). Televisione digitale. Il terrorismo mediatico terrorismo.com. Comunicazione globale. La politica per strada. I colori del noir dalla letteratura al grande schermo. I musei d’impresa. Il visual merchandising nella comunicazione aziendale.
La cooperazione amministrativa nel Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa. La produzione letteraria e cinematografica negli anni del neo-realismo. A lezione di sport in tv. Dall’agonismo allo spettacolo televisivo passando per la funzione educativa dello sport. Marguerite Duras. La parola azione nell’opera di Gabriele D’Annunzio. Geopolitica: Huntington teorizzatore di uno scontro tra civiltà. Concezione e progettazione di uno spot per il Salento. Il processo di innovazione della P.A. L’incomunicabilità nel teatro di Edoardo De Filippo. Il calcio da grande. Spettacolo e grande industria. Innovazione tecnologica, lavoro, creatività. La lingua della moda a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. La televisione che cambia. Il digitale terrestre nelle tv locali. Le “Spunnulate” di Torre Castiglione (Porto Cesareo - Lecce), un bene culturale ed un’opportunità di sviluppo culturale. Deregolamentazione del mercato del lavoro ed economia sommersa. Televisione, mass-media e politica. Riflessioni sociologiche. La guerra in diretta. Com’è cambiata l’informazione di guerra. Hackers. Comunicare la qualità all’interno e all’esterno dell’azienda. William Seward Burroughs La comunicazione creativa. Un’emozione chiamata libro. Ombre cinesi della comunicazione
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i laureati
10 CONGEDI FRANCESCA 11 CORRADO MARIA CHIARA 12 CORVINO ANTONELLA 13 DE CARLO SERENA 14 DE MATTEIS FILIPPO 15 DE VITIS MARIA VINCENZA 16 DELL’ANNA MICHELE 17 DELLA BONA KATIA 18 DI DATO MARIANNA 19 DILAURO GREGORI L. 20 FATTIZZO MARIKA 21 FIESOLE DENISE 22 FORESIO PAOLO 23 FORTUNATO GABRIELLA 24 GALATI MARIA ELENA 25 GRANIERI GIUSEPPE 26 IAIA LUCIA 27 INGROSSO ANDREA 28 LEGGIERI CHRISTIAN 29 MANCINO PAOLO GIUSEPPE 30 MANNI LOREDANA 31 MARASCO GIANLUCA
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i laureati 240
32 MARCUCCI MARIA GRAZIA 33 MELE PAOLO 34 MELLE DANIELA 35 MELPIGNANO GABRIELLA 36 MESSINA DANIELE 37 MUTASCI FRANCESCA 38 NESCA ANNALISA 39 NICOLI’ VALENTINA 40 PACE ANNA 41 PACE ROSARIA 42 PAPA SALVATORE 43 PASCUZZO PAMELA 44 PATICCHIO PAOLA ANNARITA 45 PERSANO ELENA 46 PUCE MAURIZIA 47 PULPITO FRANCESCO MARIA 48 RESTA LUCIA 49 RIZZELLO ELISA 50 SCHIROSI LUISA 51 SERRA MATTEO 52 SPAGNOLO ANGELA 53 STENDARDO MARCO 54 TORNESE SMERALDA 55 TORRETTI ANTONIO 56 VAGLIO FEDERICO
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politica - Elezioni provinciali. Promuovere Otranto. La cultura vista dal basso, i media dal mezzo. Corpi comunicanti. La Comunità Europea nel progetto Erasmus. La narrativa di Anais Nin e il cinema. Letteratura e cinema contemporanei Margaret Mazzantini - Non ti muovere. La comunicazione pubblica sul territorio. La divulgazione scientifica sul “Corriere della sera”. Analisi del linguaggio politico Parole di guerra. Lo stato di attuazione della L. 150/2000 sulla comunicazione pubblica ed istituzionale. L’estetica rivoluzionaria nelle sinfonie visive di Glauber Rocha. Una casa editrice pugliese e nazionale Donald Norman. La neologia dell’italiano nei settimanali d’opinione. La comunicazione giovanile nell’espressione musicale. Lo spettacolo tele-sportivo. Lo sport da elemento del rituale religioso a evento mediatico. Il libro dalla stampa alla libreria. La comunicazione commerciale nelle strategie d’impresa. Multimedialità cyborg, aspetti trasformativi della corporeità. Educazione degli adulti nel cinema. Blog. Metamorfosi dei corpi tra pratiche e immaginario. Il musical in Italia. Analisi linguistica di Rugantino. Analisi in chiave post-moderna di alcuni fenomeni del rock e della popu-
gli autori
Nello Barile è dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione presso “La Sapienza” di Roma. Insegna Teoria e tecnica della pubblicità presso la Link-campus University of Malta e Sociologia della comunicazione presso lo Ied di Roma. È autore di Fenomenologia del consumo globale, Edizioni Interculturali, 2004 e dirige la rivista C:Cube. Cultura. Consumo. Comunicazione. Cosimo Caputo è professore a contratto di Semiotica all’Università di Lecce. I suoi studi sono rivolti alla semiotica strutturale di Hjelmslev. Tra le pubblicazioni: Su Hjelmslev. La nuvola di Amleto: segno, senso e filosofia del linguaggio, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993; Materia signata. Sulle tracce di Hjelmslev, Humboldt e Rossi-Landi, Levante Editori, 1996.
Stefano Cristante è professore associato di Sociologia della Comunicazione e Sociologia delle Comunicazioni di massa all’Università di Lecce. Si occupa prevalentemente di sociologia dell’opinione pubblica e dei consumi culturali. Tra le ultime pubblicazioni: L’onda anonima (a cura di), Meltemi, 2004; Breve storia degli eventi culturali, Bevivino, 2004. Sergio L. Duma è professore a contratto di Lingua e Traduzione Inglese nel Corso di Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce. Si occupa prevalentemente di letteratura inglese e americana. Suoi saggi sono apparsi nel volume ‘Maturandosi’ (Alberto Santoro Editore, 1994) e ‘Commonwealth Literary Cultures – New Voices New Approaches (Edizioni del Grifo, 1996). Giovanni Fiorentino è ricercatore in Media Education all’Università di Lecce e Sociologia della Comunicazione all’Università della Tuscia. Si occupa del rapporto tra nuovi media e apprendimento. Tra le ultime pubblicazioni Il bambino nella rete, Marsilio, 2000; Il valore del silenzio, Meltemi, 2004.
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gli autori
Guglielmo Forges Davanzati è professore associato di Storia del pensiero economico ed Economia politica all’Università di Lecce. I suoi interessi riguardano le teorie del mercato del lavoro, in prospettiva storica e nel dibattito contemporaneo. Tra le ultime pubblicazioni: 2004 (with R. Realfonzo), Labour market deregulation and unemployment in a monetary economy, in R.Arena and N.Salvadori (eds.), Money, credit and the role of the State. Essays in honour of Augusto Graziani, Ashgate, 2003; Il dibattito sulla “flessibilità” del mercato del lavoro: una rassegna critica, in S. De Rubertis e A.Trono (a cura di), Flessibilità e sommerso, Adriatica Editrce Salentina.
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Carlo Formenti è professore a contratto di Storia e Tecnica dei nuovi media all’Università di Lecce, saggista e giornalista de “Il Corriere della Sera”. Tra le ultime pubblicazioni: Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, 2002; Incantati dalla Rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, 2000. Anna Gentile è professore a contratto di Laboratorio di comunicazione digitale e multimediale presso il Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce. Stefano Mangia è laureato in Scienze della Comunicazione (laurea triennale, sessione invernale 2004 - Università di Lecce). Alessio Pepe è laureato in Scienze della Comunicazione (laurea triennale, sessione invernale 2004 - Università di Lecce). Mimmo Pesare è dottorando di ricerca in “Etica e Antropologia” presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Lecce. Si occupa e ha scritto della interpretazione del concetto di abitare nel confronto tra la filosofia contemporanea e l’analisi antropologica e sociologica dei nuovi media. Livio Romano, scrittore, ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi Mistandivò, Einaudi, 2000 e Porto di mare, Sironi, 2002. Antonio Santoni Rugiu è ordinario di Storia dell’educazione all’Università di Firenze. Pubblicazioni più recenti: Il buio della libertà. Storia di don Milani, De Donato-Lerici, 2003; La pedagogia del consumismo, Anicia, 2003; (a cura di), Raffaele Laporta. Epitome, Anicia, 2004.
gli autori
Angelo Semeraro è ordinario di Pedagogia Sociale all’Università di Lecce e Presidente del Corso di Laurea di Scienze della Comunicazione. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Calypso la nasconditrice, Manni, 2003; Lo stupore dell’altro, Pàlomar, 2004.
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Stampato presso le Grafiche Panico galatina (le)