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questo numero (a.s.) COMUNICAZIONE DI DESIDERIO / DESIDERIO DI COMUNICAZIONE
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regine cannibali, passioni scomunicanti di angelo semeraro Sehnsucht e comunicazione di mimmo pesare donne e pastasciutta di luigi a. armando doct. faust e don giovanni di myriam mariano narrazioni cyberpunk di valentina donno GEOSOFIE
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geografia del desiderio di paolo pellegrino società di conoscenza/società di desiderio di albarosa macrì tronci le emozioni dell’oeconomicus di guglielmo forges davanzati l’america non desidera guerre di sergio duma spagna, 11 marzo: voglia di verità di stefano cristante NUOVE GENERAZIONI
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bambini in mediaset tra cartoni e spot pubblicitari di egle becchi globali o locali? media e giovani di carlo gelosi il piacere di sondare di l.s. glocale musicale di mauro ingrosso TESSITURE
205 giovanni fiorentino legge: ortoleva e scaramucci/ radio, calefato/lusso, reinghold/smart mobs, abruzzese/lessico, semeraro/calypso, robins & webster/tecnoculture, sorrentino/giornalismo, pinto minerva&gallelli/pedagogia posthuman, ferri/fine dei media, ardizzone, rivoltella, galliani, maragliano/e-larning, c:cube/annata 2003 218 angelo semeraro legge: nancy/ascolto, fiorentino/silenzio, perniola/controcom, mattelart/utopie, maffesoli/tragico, dahrendorf/libertà, damasio/spinoza 229 carlo formenti legge: castells/reti 235 tra memoria e progetto: un convegno a Fisciano di albarosa macrì tronci 240 bianco & nero su giallo: obiettivo sul salento di ronny leva di giovanni fiorentino 241 abstract di tesi delle lauree triennali dell’a.a.2003-2004
Quaderno di COMUNICazione
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questo numero
Emozioni, sentimenti, passioni invadono le scienze sociali e chiedono attenzioni e investimenti teorici. La comunicazione che di desiderio si alimenta non può ignorarli. Cos’altro del resto è comunicazione se non desiderio, movimento verso, attraversamento, nella speranza che qualcuno accolga e rilanci? Cos’altro trasmette se non propensione partecipativa? Questa rivista lavora sugli aspetti borderline della comunicazione: sull’energia donativa che della comunicazione munus costituisce il nucleo vitale. E può farlo attingendo alla storia del territorio su cui il Corso di studi agisce, un’area –la salentina– di contatti, accoglienze, in cui le differenze si contagiano e sviluppano capacità a trattare i desideri, favorendo la comprensione, lo scambio, il progetto. Una cultura del contatto libera la metis dal destino occidentale del profittevole, aprendola ai linguaggi esclusi; consentendo di problematizzare quel sensibile che vive in una sfera separata il suo destino di precarietà e illusorietà. Su questi temi discute in questo fascicolo tematico la comunità di studio raccolta attorno alla riflessione sui fatti comunicativi. Coscienza, ancor prima che scienza della comunicazione, dei suoi limiti e poteri a fronte del lungo arco storico che sta tra l’archeologia platonico-aristotelica e il macchinismo edipico (e antiedipico) in cui il desiderio è irretito. Lo slancio teorico racchiuso nei diversi contributi trova un suo asse di lettura nel desiderio di cogliere –del desiderio– la forza trasformativa dell’umbildung, in grado forse di indicare altre possibilità al mondo globalizzato nel disordine dell’oeconomicus, portatore di una incontrastata neoideologia dei (falsi) bisogni.
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comunicazione di desiderio / desiderio di comunicazioine
Stampato presso Valerio Grafiche - San Cesario di Lecce nel maggio 2004 per conto di Piero Manni s.r.l.
È educabile il desiderio perché non diventi bramosia distruttiva? È ricondicibile il glutinum mundi dell’oeconomicus a proporzioni e ruoli più ragionevoli rispetto alle altre sfere delle attività umane? Su questo, da diverse angolazioni, si interrogano e discutono i professori e i primi laureati di una laurea triennale raccolti nella koiné comunicativa leccese. Dalle amazzoni riproposte dallo stilista
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comunicazione di desiderio / desiderio di comunicazioine
Pentesilea, regina delle Amazzoni, è figlia di Ares, dio della guerra (figlio a sua volta di Zeus e di Era) e di Otrera. Dopo la morte di Ettore va in soccorso di Priamo sotto le mura troiane. Si distingue in battaglia uccidendo molti greci. Più di una volta respinse Achille, ma dopo molti assalti l’eroe greco la trafisse al seno destro (particolare riportato solo da Pierre Grimal nel Dizionario di Mitologia, Garzanti 1990). Per Robert Graves invece Achille afferrò per i capelli Pentesilea e la tirò giù di sella, e mentre quella giaceva a terra morente, i soldati greci gridavano: “Getta in pasto ai cani quella virago affinché sia punita per aver forzato la natura femminile!” (Graves 1963, p.634). Achille si innamorò del suo corpo e si macchiò di necrofilia (Ivi, p.627). Avrebbe poi ucciso Tersite (“il più brutto”), che aveva schernito la sua passione smisurata.
Heinrich von Kleist (1808) capovolse gli esiti di quell’attrazione fatale che fulminò sotto le mura di Troia i due guerrieri, esaltando, nella tensione romantica del suo secolo, i diritti della passione femminile. La regina venuta dalla Tracia in soccorso di Priamo prese ad amare Achille, ma fraintendendo le sue intenzioni –una distorsione propria di ogni asimmetria comunicativa che solo Proust seppe apprezzare come vantaggio–, lo uccise e fece scempio del suo corpo a gara con i cani: i baci si fecero morsi e il corpo venne voracemente divorato. Parola per parola (Wort für Wort), ella fece ciò che gli amanti di
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… il disfacimento delle istituzioni sociali (…) lascia gli individui soli con i loro desideri di trasgressione, le loro smanie di potere, l’infinita brama di consumo, il tutto orientato da un modello di soddisfazione immediata. M.CASTELLS, 2000 (2003), p.182.
angelo semeraro regine cannibali, passioni scomunicanti
Gaultier, furie devastatrici di passioni cannibaliche, al desiderio smarrito dell’Achille soldato di ogni guerra, ostaggio della sua stessa sofferta indifferenza: dal mito all’analisi filosofica, alle geografie delle emozioni, ai loro trattamenti nelle piattaforme digitali; dal desiderio di comunicare alla comunicazione di desiderio: pedagogia, etica ed estetica di un desiderio rivolto alla realizzazione, all’autosviluppo della persona. Doppio movimento tra l’estetica degli stili comunicativi e sfera etico-politica dell’agire pubblico. Un modo insomma per dire che la comunicazione non è nemica delle idee e che queste debbono semmai trovare il modo di incontrare il ricevente nelle condizioni di in cui gli è dato –oggi– di poterle ricevere. a. s.
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ogni tempo, nel culmine della dismisura erotica, dicono di voler fare: mangiarsi!
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Pentesilea continua a vivere in molte narrazioni: nel teatro di Peter Steiner (Urbisaglia, 2003) e nel più recente adattamento di Jean-Marie Chevret, in cartello al Théâtre Rive Gauche di Parigi; nel film La marchesa d’O… di Eric Rhomer (1976) e nella collezione di moda presentata a Parigi da Jean Paul Gaultier, stilista tra i più geniali e creativi. La donna della nuova collezione Hermes è un’amazzone. Perché questa amazzonics renaissance, che evoca uno dei più potenti miti di passione, nel tempo del desiderio negato? Nella stessa pagina con cui “La Repubblica” del 7 marzo 2004 commenta l’evento parigino di Gaultier, l’Eurispes annuncia i funerali del desiderio femminile: le italiane si dichiarano al 64% insoddisfatte della loro vita sessuale. Più di mille donne tra i 18 e i 40 anni, intervistate da 105 psicologi in 95 città italiane, mostrano di avere con il loro corpo un rapporto ambivalente. L’attenzione al loro fisico è solo esteriore, pilotata dai supercorpi dell’industria pubblicitaria. Hanno scarso interesse per il sesso, che diventa strumentale al buon funzionamento della vita di coppia. Nell’assoluta ignoranza-indifferenza di Achille, occupato in faccende militari.
La comunicazione è dono di rivalità, desiderio di impossibile, perché è quanto meno difficile, se non impossibile, incontrarsi in significati coincidenti. Il mittente spera sempre in una consonanza col destinatario, ma quest’ultimo ha bisogno di guadagnare fiducia per farsi raggiungere da quella speranza. È solo la tua adesione, il tuo sì che consente di attivare comunicazione, che fa venire altro. Accoglierlo è possibile solo se è attivo il desiderio trasformativo, che consente alla forma di deragliare per altre possibilità. Il desiderio trasformativo è trattenuto dalle chiusure di sicurezza dell’io-forma che si avverte ogni volta minacciato e indifeso rispetto all’ignoto-informe. C’è chi spende i suoi giorni nel costruirsi corazze di difesa; chi ha perso fiducia nell’improbabile, e si nega all’impossibile. Anche l’impossibile tuttavia reca con sé un nucleo attivo di possibilità; nessuna materia è del tutto invulnerabile in natura, meno che mai l’homo contaminatus, e l’imprevedibile può sempre raggiungerti, con grazia o con furia devastatrice, dove, quando e come vuole, con o contro di te. Halb Furie, Halb Grazie, metà furia, metà grazia, così Achille sente Pentesilea, che irrompe inattesa nella sua vita di guerriero inviolato (violabile solo in un punto segreto e fuorisguardo): qualcosa di temibile nella sua doppia movenza. Le armi sono prerogativa maschile e Achille, nel mattatoio di quella lunga guerra subìta, attende riluttante al quotidiano lavoro di macelleria militare. Lei, ragione-Furia di desiderio, imprevista e imprevedibile sotto le mura troiane, ha preso ad amare a distanza il suo nemico forte e bello, e il suo amore le cresce incontrollato nell’ammirazione del coraggio dell’eroe invitto. Non saprebbe esprimergli quell’ammirazione con seduzioni di pace. Achille, nell’originario mito odisseo, ha preso ad ammirare la coraggiosa e luminosa regina amazzone strana e straniera, una donna diversa, così lontana dal malakòs delle donne di Grecia, e il suo amore per lei è cresciuto nel racconto delle sue gesta e della sua bellezza. Ma saprà prenderla soltanto nel rigor mortis, violandola. Destini di guerra, d’ogni tempo. Dovrebbe dirci qualcosa questo amore che si strazia nel non più. Capace di resuscitare ombre dopo aver annientato presenze. Allude
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Pentesilea divoratrice porta avanti con Kleist il destino della non rassegnazione, pagando tutto ciò che c’era da pagare per una comunicazione esclusiva, che tuttavia la scomunicava per sempre dal suo popolo. Il feroce pasto del corpo abbattuto di Achille non è un temporaneo offuscarsi della ragione, ma uno stadio di cosciente delirio generato dalla passione della identificazione totale. Vi è una connotazione moderna nella passione di Pentesilea, scrisse Ferruccio Masini. Nella sua via passionis sta infatti la via moderna di accesso alla conoscenza, che non può più sottrarsi alla colpa originaria di aver escluso e di essersi esclusi dalla comunione (Masini 1986, p.24).
1. impatti
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Tornano i discorsi sul desiderio in quest’ora. L’essere di desiderio è eccesso e nondimeno accesso, tensione a raggiungere e farsi raggiungere. Chiede compiutezza nell’Umbildung trasformativo della comunione, che esprime l’infinita disponibilità ad esserci per altro, ma assume anche il volto devastante di Dioniso; tramutandosi in eccesso laddove trovi ostacoli all’appagamento. C’è un qualcosa di erotico –avverte Bataille– nel movimento duale della rivalità, che la rende appassionata e dolente (Bataille 1976). Eros non è medium: ciò che in esso si comunica è la stessa comunicazione di una comunione; il suo puro aver luogo. Il suo desiderio è innesco continuo di altro desiderio, proprio come il dono innesca la spirale infinita dell’obbligo. Eros è squilibrio. Solo l’unione stabile, forma maggiore di comunicazione per Bataille, mette fine al circuito folle e perverso del desiderio. Ma l’interruzione dello stupore che si dà nella stabilità stanziale rende fàtica la comunicazione, la riduce a ordine di servizio, consegnandola a una tonalità minore, standard; una comunicazione senza più intrigo, priva di discrezione. Non si danno eventi nella stabilità; fuori dall’esperienza del rischio, di/dell’Altro; senza la condivisione di un luogo agonistico. Un’etica e un’educazione del/al desiderio vanno prendendo il posto delle etiche e delle pedagogie del dovere e dell’utile. Desiderare il desiderio è l’indicazione di una pedagogia che gioca le sue carte sull’insight, affrancandosi dai gioghi degli ammaestratori libertini, quelli che si spendono per la doverosità (altrui) con l’arbitrio della (propria) licenziosità (sul libertinaggio degli intellettualipedagoghi, sul loro lorianismo, scrisse parole di fuoco Antonio Gramsci nell’esilio di un carcere). Ma è possibile un’etica e una Bildung di desiderio? Seguirlo –il desiderio senza riserve nel suo andante ondulante non significa rinunciare a ogni controllo sulla hybris, rifiutare i principi morali e le regole dell’in-comune?
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Trionfano tutt’attorno comportamenti di immunitas smaniosa e guerriera: forme di comunicazione incomunicanti e scomunicanti; l’homo novus del post sembra rinascere dalla capacità di andare oltre, ignorare i limiti; di condonare e condonarsi per ogni violazione, piccola o grande che sia. Il paradosso di quest’etica (e di questa Bildung) sta nell’adottare come criterio l’assenza d’ogni criterio, svincolando la libertà dagli obblighi dell’in-comune (Esposito 2002). Così il desiderio si trova a navigare tra banalizzazioni e illusorietà: da quelle di mercato (lo shopping del consumatore accompagnato con mano sapiente nei supermercati dell’accessibile) alla soddisfazione effimera del virtuale, luogo di semiotiche applicate. Ciò che guida le scelte è una imago plasmata dalla seduzione, instabilmente e volubilmente rivolta a un benessere effimero e merceologico, volatile ed evasivo, avulso dal bisogno: il desiderio del consumatore. Ma esso è certamente qualcosa di più serio e profondo. Educare/educarsi al desiderio è esercizio che allena ad attribuire un valore e una gerarchia alle scelte; tensione verso qualcosa; sopportazione della distanza che ce ne separa; conatus. Per perdurare nel godimento si richiede una dimensione progettuale; la tensione a un fine; un percorso da penìa-mancanza a poros-pienezza. Non è facile sapere esattamente ciò che desideriamo. Bandito dal presente, lo ricerchiamo nel passato, nella felicità delle prime favole, nelle emozioni dell’arcaico, del primordiale e del tribale (Maffesoli 1997). Il revival del mito deve pur significare qualcosa. Nessuno può aiutarci a conoscere qual è il vero oggetto delle nostre domande, nascoste dietro il mascheramento delle forme banali che il desiderio assume, inducendoci a risposte che ci lasciano ogni volta delusi. Il fondo oscuro dell’insoddisfazione è inevitabile, e viene dalla coscienza dello scarto esistente tra potenzialità e realizzazione; poteri dell’uomo e suoi limiti oggettivi. La conoscenza, via via che si incrementa, nient’altro ci aggiunge che maggiore consapevolezza del limite. L’esperienza più comune è perciò quella della incompiutezza. La impossibilità del compimento che si dà nell’incompiutezza
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a una abituale condizione della vita di comunicazione che è stupore e paura dell’altro; che si distanzia in presentia e vorrebbe trattenere l’assente; a una incapacità di stabilirsi nel qui e ora, e inseguirla nell’evanescenza del non più. Una incapacità, insomma, a gestire il presente di ogni relazione, opponendo alla preferenza per un possibile, la deferenza del distacco.
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centro. Una freccia sola sul bersaglio mobile del desiderio è un difficile azzardo, e verrebbe perfino da assolvere l’innocente desiderio meridiano di Volli, chiamato in causa, indifferentemente orientato tra femmine e pastasciutta. In realtà è l’oggetto del desiderio a dare forza al desiderio. È il fuori, l’altro, nell’intensità delle diverse sue modulazioni, a renderci possibili, e a rendere possibile lo stesso desiderio di conoscenza. Senza altro, un Altro, si può, si potrebbe, ma l’io si contrae in un ripiegamento difensivo. Non sarebbe mai un io protagonista, capace di rischiare, sfidare, e dunque affermarsi a se stesso.
Se desiderare è sentire una mancanza, è davvero così ovvio che questo significhi doverla riempire? E se si trattasse invece di intensificare questa sensazione o questo ascolto, di lasciare spazio all’alterità che lì si affaccia, nella sua resistenza all’identificazione e all’assimilazione? (Berto 2003, p.46).
Se agli occhi di Gaultier la donna di questo inizio di millennio è amazzone, è perché ne legge lo spirito di determinazione spregiudicata, di volitività aggressiva. L’amazzone si è disfatta di tutta la ricchezza onerosa dell’ordine simbolico: prende senza comprendere e vince senza convincere. Non più la donna-potere di unire (Pulcini 2003), il glutinum mundi che ha tenuto insieme il maschile antagonista dell’oikos domestico a prezzo del proprio diniego, ma quella che va all’assalto e disarciona l’achille occidentale dalle funzioni sue proprie di combattente coatto (per ragioni che non conosce e non ha mai scelto). Vuole assegnare alla lotta un’altra ragione e c’è solo da preoccuparsi che voglia farlo con le stesse armature che Vulcano forgia per i soldati d’ogni guerra nella fucina degli inferi. La qual cosa la destinerebbe a una ineluttabile fine pentesileica. Una tortura gestita per mano femminile è un sintomo certo di degrado simbolico del femminile. La soldatessa Lynndie è un pugno nello stomaco dell’occidente. Il britannico Indipendent ha commentato la foto del prigioniero iracheno al guinzaglio dell’amazzone americana con un titolo senza scampo: “La distruzione della morale”. Il problema che Armando pone nelle pagine che seguono è quello che pone ogni ricerca di identità nel momento in cui la bella forma assiale di aristotelica dignità e la bella paideia jaegeriana è assediata e assaltata dal post. Ha ancora un senso insistere sull’identità nell’età del desiderio negato e stravolto? Il “disegno loro”, machiavelliano, che Armando traduce in una ”immagine
Berto suggerisce uno snodo alla questione educativa. Nell’educarsi al desiderio il premio è l’alterità che ogni altro annuncia, ossia le nostre altre possibilità. Da qui la necessità di non ridurre il sogno a calcolo, a uso e abuso dell’altro. È la cancellazione dell’altro la colpa che la modernità si trova ancora a dover saldare con la Storia (Severino 2003). Decostruire il terrorismo, come cercano ora Habermas e Derrida (Borradori 2003) ci porta sul ciglio di una comunicazione nutrita di desiderio per la conoscenza, ma è una conoscenza povera di interessi per il simile umano. L’appagamento fu inscindibile dalla distruzione-genocidio dell’altro-diverso, sorpreso, preso e distrutto. La storia dell’occidente ha un suo incipit cannibalico, di distruzione-assimilazione che continua ad agire come coazione-pulsione a ripetere. Certo, è possibile leggerlo in altro modo l’incipit del Moderno, come suggerisce L.A. Armando, che in questo stesso fascicolo ci richiama la presenza di Leonardo e Machiavelli (Armando 2004) e l’apologo aristotelico dell’arciere. Pagine acribiche, che se da una parte dislocano il suo desiderio su un’altra fenditura del Moderno, ricca di trans-formazioni per la conoscenza e la sua scienza, dall’altra lo costringono ad operare un lavoro di rimozione-annullamento su ampie arcate della modernità matura, da Heidegger a Lacan, da Nietzsche a Foucault, Marcuse e Deleuze Guattari; forse anche Marx, e sicuramente Freud. Innanzi a tanto scempio gli restano ben pochi dardi nella faretra, ed è difficile pensare che con un solo passaggio dell’Aristotele perduto, si possa far
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può spiegare la mobilità del desiderio; la sua instabilità; può spiegarne il suo rilancio infinito; la sua inafferrabilità e l’incessante slittamento, dal momento che la realtà s’imbeve di possibilità che non ci sono, ma potrebbero realizzarsi (Volli, Ibid., p.11). Lacan aveva già osservato che il desiderio non lo si afferra facilmente in una definizione: vuol dire sempre altro da ciò che si esplicita nella domanda. Ma l’alterità pone sempre in essere una irriducibilità: qualcosa insomma che non si lascia facilmente trattenere. La messa in scena dell’altro acuisce l’assenza di soluzione. Scrive ora Graziella Berto:
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2. stragismi Che farne insomma di questa forza che è il desiderio che continua ad alimentare tanto la “coscienza individuale” che le compulsioni neotribali? Lasciarlo attivo o soffocarlo, perché non ci procuri conseguenze imprevedibili? Se lo chiede con insistenza una crescente letteratura (Girard 1976, Vigna, 1990, Nussbaum 2001, Volli 2003, e altri). Soffocarlo, negarlo, sarebbe una risposta avara dell’io. Scacciato da una parte, rispunterebbe sempre da un’altra. Tanto vale prenderselo in carico, provare a orientarlo in una Umbildung trasformativa; lasciarsi agire da quel movimento che non comprendo e non controllo; lasciare attivo uno spazio di attesa; consentire che quel qualcosa di estraneo mi attraversi, evitando di scambiare il vuoto dell’assenza come privazione senza rimedio. In culture lontane-vicine dalla nostra (la Cina è vicina!) il vuoto è un non-luogo che consente alle cose di manifestarsi, uno spazio di attesa in un processo che va dall’invisibile al visibile, dove l’invisibile è ciò che ancora non ha avuto luogo. Il saggio in quelle culture è colui che non prende posizione rispetto alle forme già date, ma si lascia docilmente sedurre da quelle in trans-formazione (cfr. ora Jullien 2004). Se seguiamo per un attimo Lacan cogliamo –del desiderio– la sua attitudine a girare intorno, più che accedere immediatamente all’altro. L’etica e l’educazione del desiderio non possono che essere un’etica e un’educazione attorno a ciò che ancora si sottrae e sfugge al significato; non vuole afferrarlo e controllarlo a tutti i costi. Il desiderio perciò non è tendenza all’appropriazione, ma apertura alle possibilità. Proprio perché ha a che fare con una distanza, con una differenza o un’estraneità, con una inconoscibilità dell’altro-che-viene, non si lascia assorbire in un solo sapere. Non negarne le pretese ci aiuta a non rinunciare alla singolarità tutta-intera che ci costituisce; a quel tratto indefinibile di noi stessi che è tutt’altro dall’identità, e si connota piuttosto come qualcosa che sfugge all’identificazione. La pienezza del godimento a cui pure il desiderio dà luogo è
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interna”, capace di stabilire un rapporto esatto con la realtà, è davvero possibile? Cos’è un “rapporto esatto” con la realtà, oltre a una suggestiva ambizione di mathesis della mente? E che pedagogia è in grado di suggerire, oltre il deja vu cognitivo (che tanta confusione ha generato nella riforma della “formazione”); oltre il fatale “errore di Cartesio” che ancora ipoteca ogni possibilità di rimuovere e superare la scissione? Non potremmo insomma infrangere questo specchio deformato della forma-fissità di aristotelica autorità, il vero ostacolo forse a impedirci di “porre la mira assai più alta”, a gettare oltre lo sguardo? Non sarebbe tempo di affacciarsi sulla realtà, la nostra realtà policroma, velocizzata dai tempi della comunicazione, come una intensità che nessuna “immagine interna” è più capace di fissare? Se fosse proprio nello scarto tra il desiderio e la sua (im)possibile soddisfazione il nostro più vero idem? L’ossessione identitaria si rafforza disperatamente nella crisi del pensiero universalistico, e quando insiste sul primato dell’“immagine interna”, ossia su un primato dell’io giudicante è qualcosa di strettamente connesso alla violenza, con la variante che al vecchio paradigma razzistico ne subentra uno più civile, culturalistico, come quello che Armando suggerisce, in aperta opposizione-rifiuto al del tutto nuovo del post. La domanda di una nuova dislocazione della metis occidentaleuniversalistica rispetto alle sfide del tragico non implica affatto l’abdicazione della metis, ma andrebbe abbassata ogni sua pretesa a porsi, spoglia di ogni desiderio che non sia bramosia distruttiva, come capace a guidarci e orientarci. Ci attende –forse– il compito di una eduzione estrattiva della ragione sensibile (Maffesoli 1996), quella che si forma nell’incontro, nell’investimento affettivo, nell’amicizia, nel sottile –sub-tilis– di ogni contatto di pelle. L’identità invece tende a trasformare il noi in un io imperiale e imperialistico e gli altri, tutti gli altri, in soggetti-nemici, che costituiscono una minaccia per il solo essere altri. Al più se ne potrebbe ricavare quell’orgia maffesoliana di passioni condivise in microcomunità neo tribali, o quella comunità “guardaroba” della “modernità” liquida che costruisce una (fittizia) empatia sociale attorno agli eventi che promuove (Bauman 2000). Torna perciò la domanda: abbiamo proprio bisogno di questo Totem identitario? Chi lo sta riproponendo e perché accettarlo?
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uno spazio liminare in cui l’altro, nella sua fragilità, si lascia incontrare, introducendoci nel suo mistero. Le parole non servono. Serve semmai un orecchio (e un occhio interiore). Il viandante stava in ascolto e il cuore gli si gonfiava di tenerezza. (Kleist, Pentesilea, scena XXIII).
Il desiderio occultato o represso degenera in stragismo, come in Pentesilea, metafora dell’antropofagia del desiderio negato, i cui baci diventano morsi divoranti.
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Il feroce scempio che la regina amazzone consuma, a gara con i cani, sul corpo abbattuto di Achille, non è lo smarrimento temporaneo del lume di ragione; un’irruzione di barbarie estranea al sentimento amoroso. Ella non si è limitata ad assecondare la passione, ma si trasfigura in passione stessa: umano e ferino si mescolano al punto da scolpirla come evento fuori norma. L’assoluto della passione esige questo trascendimento: smarrimento nell’amato e smarrimento di sé, dice l’età romantica, e nella tragedia di von Kleist, Pentesilea non si ucciderà, dopo aver sbranato Achille, per punirsi o per sfuggire all’insostenibilità della propria abiezione; si lascerà cadere in se stessa e nella profondità del sé, perché lì è l’amato, e lì può ricongiungersi a lui (Masini 1986, p.19 e passim). Una scomunicazione dal mondo (ella “tace”), per una comunione esclusiva del due che vuol essere restituito all’uno principiale, che Platone affida, nel Fedro, al racconto di Aristofane sui primi androgini. L’altro, accesso alla gioia, è pure morte, perché solo questa costituisce la rivendicazione di assoluto del desiderio e può consentire il ricongiungimento senza minaccia di separazione. Nel breve sonetto 147 di Shakespeare, tradotto da Edoardo
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MEROE (Scena XXIII). Con il dardo gli trapassa la gola Egli cade…E piomba, piomba addosso a lui, o Diana! con tutta la canea. L’afferra per il cimiero, come una cagna in mezzo al branco… Lui, voltolandosi nel proprio sangue purpureo, tocca il dolce viso e le dice: Che mi fai? Sarebbe questa la festa delle rose che mi promettesti? Ma lei… gli strappa la corazza, affonda i denti in quel petto bianco, a gara con la muta, Tigri e Sfinge a destra, lei a sinistra. Quando arrivai, il sangue le sgocciolava dalla bocca e dalle mani. Ora è là silenziosa, presso la salma che la muta annusa, e, l’arco vittorioso sulle spalle, guarda fisso nel vuoto e tace. Le chiediamo, con i capelli irti dal terrore, che cosa abbia fatto. Tace.
Sanguineti in un bel volume manniano di recente pubblicato, c’è questa anticipazione del clima romantico: l’eros febbrile del poeta inglese (My love is a feber) si drammatizza all’improvviso in un solo verso “Desire is Death”, desiderio è morte (Sanguineti 2004). La morte appartiene alle determinazioni antropologiche della vita e se i personaggi secondari di ogni storia muoiono nella indifferenza perché abbattuti, i protagonisti debbono morire interiormente, maturarsi in solitudine il proprio destino; consumare in se stessi la maturazione della loro morte (Simmel 1918, p.103). La passione ha reso possibile a Pentesilea la cancellazione del confine tra vita e morte nello scempio perpetrato sulle spoglie dell’amato straziato. Scambio fatale dei baci coi morsi (Küsse-Bisse), ossia rottura del principio di realtà, irruzione della dismisura della passione che si combina col tragico. Nel cammino dell’anima romantica lo sterminio stragista è la premessa di nuove nascite, di nuova Bildung: “attraverso l’amore e la coscienza dell’amore l’uomo diventa uomo” (Schlegel 1970, p.98). E sarebbero molte le considerazioni su questa Bildung occidentale dell’anima romantica, di cui Kleist nutre la sua eroina e la stessa Welthanschauung del secolo dell’ incontrastata ascesa della borghesia. Andrebbe anzitutto rilevata quella esaltazione della scomunicazione, che sembrerebbe un pedaggio obbligato per accedere a una più autentica comunicazione (Jacobelli 2003). Un paradosso, tra tanti, comune al desiderio come alla comunicazione, e a maggior ragione a una comunicazione di desiderio. È in gioco infatti la comunità, che per Pentesilea, mossa da passione, diventa ostacolo a una comunicazione più esclusiva. Kleist sottolinea il fastidio che lentamente s’insinua nella regina per la sua gente, le principesse e le sacerdotesse amazzoni che sono al seguito e le guerriere al suo comando. Perde progressivamente interesse per loro, per il suo incomune, man mano che la passione la divora. Il secondo passaggio, marcato nella tragedia di Kleist, è il crollo dell’identità. Comunità e identità intrattengono un rapporto complesso e controverso, incerto e compromissorio nella dialettica comunicativa. Questo sintomo febbrile la borghesia europea in ascesa l’avverte nel secolo di Kleist non meno di quanto oggi non l’avvertano gli abitanti della comunicazione-mondo, irretiti dalla potenza dell’infocom che lusinga e minaccia, dischiude e include. Ma esclude pure, con immateriale insolenza.
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Privo dei divieti del rito, il desiderio si apre, e con esso la scelta illimitata, anche se proprio in questa illimitatezza scattano trappole di illusorietà e frustrazioni. L’ampiezza del desiderio, i suoi sconfini, dilatano il campo di proiezione del possibile, che fissa méte sempre più vaghe e lontane. La caduta delle differenze giuridico-formali delle democrazie liberali abbatte oggi ogni discriminazione tra chi può e chi non può, e ci consegna docilmente al mercato, che amplifica a dismisura gli oggetti di desiderio, offrendo insieme la possibilità di soddisfarli. Desiderare e realizzare i propri desideri diventa anzi il criterio su cui in generale si basa la valutazione del successo personale, il modello etico dominante. I sistemi democratici che volessero prendere sul serio il principio di uguaglianza si troverebbero a dover gestire le conseguenze di una perdita delle differenze, in cui ciascuno si costituisce come modello e rivale al contempo; campo perciò di infiniti risentimenti, di una “disposizione attiva e mimetica” che per Girard può assumere forme diverse. Del risentimento Girard fa una chiave d’interpretazione della modernità, descrivendone tre tipologie: l’individuo solipsista, l’anticonformista e il minimalista. Nel primo il risentimento è rivolto verso la società, accusata di non accogliere le legittime ambizioni individuali: il non-riconoscimento del mio ruolo, valore, status, ecc. Entra in scena lo sguardo: la vista, perché sempre il desiderio è connesso al vedere qualcosa. Il solipsista sceglie la solitudine, ma ciò che davvero gli preme è esser visto. Nell’anticonformista invece, il risentimento nasce dal vedere gli altri come rivali che ci umiliano e offendono. Trasformando l’altro in ostacolo, alimentiamo in lui il rivale e in noi il risentimento. Nel terzo caso –il mimetismo– il tentativo di negazione dell’altro approda all’autodistruzione, nella disperata anoressia, un disturbo tragicamente diffuso. Una tendenza che ha contaminato l’estetica e la cultura della modernità (Girard 1976). Nell’arte, come nella scrittura, il minimalismo si esprime nella ricerca del ‘sempre meno’ (Tomelleri, in Girard 1999, p.16). In ognuna delle tre tipologie in cui Girard analizza il dispiegarsi di questo virus dell’anima che è il risentimento, si nasconde una volontà negata di comunicare il proprio desiderio di essere desiderati. E altre tipologie si potrebbero introdurre: ognuno potrebbe interrogarsi sul proprio tallone d’Achille, ma ciò che è certo è che il
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3. risentimenti Ma per ottenere il possibile è proprio necessario dover passare attraverso l’impossibile? Così pare: almeno nel reame del desiderio, l’impossibile sembra la condizione stessa di ogni possibilità, forma sformata dall’intravedere, che prepara il disvelamento e dunque l’apertura all’irrompere di forme altre, liberate. C’è uno scatto creativo della forma, del resto, ogniqualvolta l’impossibile ci lusinga; un’impennata della volontà: voluntas ipsa voluptas. Ma non è nella stasi dello stand by che le cose accadono, quanto in tutto il vitale che attende solo una nostra determinazione di volontà per agire nelle movenze dell’essere. Quand’anche volessimo escluderci dalla comunicazione, ossia scomunicarci nel silenzio provvisorio –o anche definitivo, come nelle voci di dentro di Edoardo, dove il saggio parla oramai solo con segni sonori e luminosi, petardi e stelle filanti–, essa può sempre nuovamente riaccendersi, in ogni momento, lacerando col suo imprevisto risveglio la tela del silenzio-nascondimento. C’è un qualcosa che impedisce le aperture, ma anche le chiusure definitive, e quel qualcosa ha spesso a che vedere col risentimento che Renè Girard definisce “lo scacco del desiderio” Per spiegarlo, Girard ha messo in campo la triangolarità di ogni relazione di desiderio: il soggetto, il modello, e l’oggetto che gli dà forma, dove l’oggetto può essere cosa o persona, simbolo o status; il terzo –insomma– che ai miei occhi acquista valore perché desiderato da chi ho eletto a mio modello. In quanto modello, l’altro è anche il mio maggiore rivale, perché “sta sempre dove vorremmo essere noi”. Si chiama effetto di mimesi, o desiderio mimetico (ossia di essere per Altro) questa imitazione che diventa principio attivo; “danza creativa” delle relazioni umane. Nel desiderio imitativo Girard ha posto le radici della violenza, che rito e mito imbrigliano e disciplinano. Lì stanno le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Nel mito, la violenza sulla vittima sacrificale limita sempre una violenza maggiore: attraverso il suo sacrificio la vittima viene inscritta nella sfera del sacro. Tutto funziona nell’ordine simbolico, almeno fino a quando un dio non si fa carne: Cristo non accetta il sacrificio, ma proclama la sua innocenza e insieme l’innocenza di ogni vittima sacrificale. Il suo messaggio fa uscire di scena il vecchio Testamento e avvia un processo di secolarizzazione: liberato dalla schiavitù dei miti e dei riti sacrificali, l’uomo moderno si ritrova attore delle proprie relazioni.
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Nella comunicazione fàtica (da phatizo = affermato, detto, ma senza prove) si danno parole che non sono segno se non di se stesse, del proprio evento. È un prolungamento della chiacchiera, che rappresenta bene la condizione di estraneità del Moderno. Una comunicazione fine a se stessa (glossolalìa) insignificante, di pura abitudine o convenienza, dove non si comunica nulla oltre al fatto che c’è un contatto. Il contenuto degli scambi di parole importa poco. Lévinas la definisce “intrigo della prossimità”. Eppure, a ben pensarci, nelle condizioni in cui la vita di relazione si svolge, nei suoi minimalismi terminali, ciò che conta è che almeno una parola abbia luogo, perché essa comunque ci offre un luogo comune, che se anche effimero, è pur sempre uno spazio di convivialità. La comunicazione, nei suoi più pieni obiettivi, esigerebbe altro. Non si accontenta di un parlare qualunque, minimalista e dissipativo; aspira a quella reciprocità obbligante che si viene a instaurare nella relazione umana, dove la parola si caratterizza nel circuito del dono, scandito dal tempo dell’offerta, del debito di gratitudine e del controdono. In prima istanza si riferisce a una preliminare esposizione all’altro che ci vincola in una “comunione”. Tutto quello che la comunicazione comunica, si svolge sul presupposto di un “intrigo etico”. Diamo importanza alla capacità del comunicare, ma ci sfiora poco il dubbio che scarseggiano le idee da comunicare (Bosetti 2003, Perniola 2004). Siamo purtroppo avvezzi a un tipo di comunicazione dissipativa e fàtica che invece di comunicare qualcosa, comunica se stessa. Questo tipo di comunicazione tuttavia è rivalutato dall’ antropologia al pari del dono. Per Malinowski la funzione fàtica appartiene all’ordine delle origini: si dà tra gli animali (gli uccelli parlanti); tra i primitivi; nel bambino. Lo stesso dono del resto che avrebbe un
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valore eminentemente fàtico, orientato al contatto, rafforzerebbe l’intrigo che mi lega all’altro, innescando un controdono ancora dono e nuovo debito, che per Godbout è una tensione di debito reciproco; un moto sociale perpetuo Dono/Evento; Dono/legame sociale; Dono/dispendio (Godbout 1996). La contestazione radicale del principio del dono ha fatto emergere nella modernità una nuova figura di soggettività non più definita dal debito della gratitudine, non più caratterizzata dalla passività, ma libera e autonoma, ab-soluta dal legame. Il munus di ogni comunicazione, relegato ai margini della vita economica in forme di sopravvivenza insignificante, è ciò che rimane affidato alla megamacchina del mercato. La scomparsa dei comportamenti donativi rende la comunicazione vuota, effimera, barocca; posizionale e promozionale del sé, in una exraterritorialità desertificata del desiderio, muto di pathos, diseducato al sentire; educato a prendere senza richiesta e senza attesa. Ignara del valore della discrezione. Trionfo del fàtico. fi Morte del desiderio. fi Indifferenza fi Cinismo stragista. 4. antropofagie Il cannibalismo è in primo luogo un ricordo d’infanzia, sostiene Augé, di quell’infanzia culturale su cui si esercita il fascino delle fiabe e dei racconti per bambini, straordinariamente crudeli e mostruosi (Augé 1977, p.535).
Doppio ricordo (e doppio uso) dell’infanzia: quella dell’umanità e quella dell’individuo, a conferma –semmai ve ne fosse bisogno– che quando parliamo d’infanzia riusciamo sempre a collocarla oltre se stessa.
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ressentiment non è fenomeno circoscritto, ma un rivelatore della condizione delle nostre società dello sguardo. La sovversività del desiderio si spunta così in una vasta tipologia di comunicazione risentita, che va dalla scomunicazione alla comunicazione fàtica che è anche un po’ o afasica del dire cioè senza dir niente. Una comunicazione priva di desiderio è sempre una comunicazione aggressiva. Contiene sempre un fondo di bramosia cannibalica pronta a emergere e aggredire.
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dalla distruzione ciò che è degno del suo amore. Esalta la sua passione nel momento stesso in cui si consustanzia con l’eroe che non avrebbe mai potuto trattenere tutto per sé. Una serie di considerazioni si aprono su questa traccia cannibalica, ossessivamente presente nei fatti di acculturazione non esclusivo delle condizioni tribaliche (Arens 1979). Di atti di cannibalismo vi sono tracce ancora più recenti. Croce e Venturi sono fonti attendibili sui comportamenti delle plebi napoletane tra Masaniello e la rivoluzione del ‘99, e il Mozzillo ci riferisce dei comportamenti delle plebi sanfediste, capeggiate dal cardinale Ruffo, dedite alla vendita al minuto di parti del corpo dei patrizi illuminati e della esposizione dei loro corpi semicotti nelle piazze e per le vie di Napoli. Ma questa è altra storia, a cui qui si accenna per dire solo della persistenza del fenomeno cannibalico fino ad epoca recentissima (La Capria 1999). Nella rete delle reti del resto l’attività cannibalica naviga indisturbata: è possibile incontrare messaggi di persone disposte a farsi mangiare. La trasmissione L’alieno, condotta da Giordano su una rete Mediaset, ha di recente dedicato largo spazio alla riemersione del fenomeno. Nel processo che si è svolto nel dicembre del 2003 a Rotenburg, un paese dell’Assia centrale, l’imputato Melwes, un quarantenne accusato di aver ucciso e divorato un uomo, dichiara: “Fin da bambino sognavo di mangiare un altro essere umano, e il mio desiderio iniziò ad avverarsi quando scoprii che migliaia di persone sono in linea con il mio irresistibile istinto: divorare i nostri simili o essere da loro divorati”. Tutto parte da un annuncio su Internet. “Rispose un uomo che si diceva felice di essere mangiato da me. Io l’ho accontentato regalandogli un piacere enorme, che anche io non ho potuto fare a meno di provare” (Tosti 2003). Siamo qui ben lontani tanto dall’eros socratico, un’attività inconsapevolmente cannibalica che si dà ogni volta che il discepolo s’impossessa e fa proprio il sapere (la virtus) del suo maestro (nessun progresso nella conoscenza sarebbe del resto possibile senza una
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Fuori dal mito, la letteratura psicanalitica e quella antropologica assegnano il cannibalismo a una preistoria collettiva e alla prima storia individuale. Nella psicanalisi è insieme desiderio di conservare e timore di distruggere, e Freud in Totem e tabù avanzò l’ipotesi dell’”orda primitiva” interpretando il parricidio cannibalico nella pulsione identificativa col modello paterno. Ma anche Cronos divora i suoi figli per conservare il potere. Il cannibalismo originario insomma attesta una doppia realtà ed un solo principio: ogni civiltà, ogni storia nasce dalla violenza. L’uccisione del padre o dei figli e il loro consumo sono il punto di partenza, e il rimorso dell’umanità. Questo rimorso tuttavia è anche motore della storia: il pasto totemico continua in un eterno movimento di rovesciamento, e di restaurazione insieme, di sempre nuovi re-padri. Nel noto saggio sui cannibali, Montaigne andò ad indagare proprio sulle funzioni rituali connesse al cannibalismo degli indi dell’Amazzonia (Montaigne 1579): l’integrazione-adozione del prigioniero nella comunità, in sostituzione di membri del clan caduti in battaglia; il differimento nel tempo del rito cannibalico; la ripartizione minuziosa dei pezzi di corpo pattuita per tempo dalla comunità; la mutilazione delle membra, offerti pezzo per pezzo rispettando le gerarchie del clan (cervello e lingua agli adolescenti e organi genitali alle donne): una strategia lucida della vendetta consumata sui prigionieri che ritenevano a loro volta infamante e vergognosa l’idea di fuggire e attendevano agli obblighi legati al loro stato di cattività in attesa dell’ora in cui sarebbero stati bolliti o arrostiti (il bollito per la famiglia, l’arrosto per le occasioni di convivialità), e si trattava di attese, a volte, di anni. Morte differita che diventa morte reale in un simbolismo che annulla o quanto meno ne attenua l’atrocità. Nel villaggio tupinanbà R.Girard colse, in un suo studio del 1972, la logica più ampia della rappresentazione cannibalica: quella di una ideologia d’ordine (Girard 1972). Ristabilire un ordine dopo il disordine della violenza; riprendersi la forza che consente al prigioniero di sopraffare un membro del proprio clan. Il gesto di Pentesilea sfugge alle dinamiche del risarcimento simbolico, pur conservando –del simbolico– l’elemento più archetipico, ossia la introiezione delle qualità dell’eroe sopraffatto, il suo kaloskagatòs. Così, con l’incorporazione, la regina cannibale salva
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continua attività assimilativa-imitativa), che dalla bramosia di cui Fagioli chiarisce gli aspetti degenerativi rispetto al desiderio; l’esito –anzi– di una frustrazione del desiderio. (Fagioli 1974, p.97). La critica corrosiva dell’Autore a Freud (e ai freudiani) gli offre altri spazi di riflessione. “L’uomo esibizionista –afferma– si costituisce come annullamento del desiderio in quanto è realtà senza contenuto che possa essere preso. Il desiderio diventa pazzia, delirio, allucinazione” (Ibid., passim). La dimensione cannibalica si configura in Fagioli come una verità che ne nasconde un’altra: ossia “la dimensione umana di avidità della sostanza e di investimento sessuale della realtà” e “la ricerca del perché si formi e si costituisca la dimensione umana cannibalica nel rapporto dell’uomo con la realtà”. A quelle pagine, che pongono in campo altri aspetti connessi al desiderio frustrato, si rimanda per cogliere tutta l’immensa sciagura del desiderio represso.
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Più avanti Fagioli ha spiegato come il desiderio altrui possa anche spaventare; come la materialità del desiderio, “la cecità di esso” imponga “una lotta contro i fantasmi dell’essere succhiato o di succhiare il pene-seno del desiderante”.
5. chiaroveggenze Latouche ha denunciato con più coraggio di quanto non abbiano mostrato molti pedagogisti che “la critica utilitaristica ha compiuto e compie troppi danni ai nostri sistemi educativi” (Latouche 1999, p.15).
Il desiderio, tolto dalla sua morte, rende l’uomo desideroso di soddisfazione che, frustrato, diventa violento. Riportare il desiderio nell’uomo e l’uomo al desiderio significa risuscitare il selvaggio. L’uomo del desiderio è l’uomo che soddisfa il desiderio senza la “ragione”, il selvaggio della libertà sessuale che se non è soddisfatto, uccide e divora. La società si illude di fermare, con le sue leggi, l’omicidio e il cannibalismo; in verità è la bramosia, l’identificazione, l’odio trasformato in invidia che rendono l’uomo civilizzato (Ibid., p.162).
Il logos, la ragione, divenendo esclusivo dell’agòn, la propensione alla rivalità, e della métis, l’astuzia, fa trionfare la razionalità occidentale puramente strumentale. Questa svaluta la saggezza del ragionevole, la phrònesis, per istituire l’impero del razionale (che diventa poi ragione calcolistica) (Ibid., p.50).
La conclusione di questa pista d’indagine è che al desiderio-avidità, invidia, bramosia, investimento, annullamento, non è ancora stata data una più certa fisionomia, “essendo sempre stati mascherati l’uno con l’altro e mistificati alla nostra osservazione e comprensione” (Ibid., p.163).
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La strada che egli batte è diversa, ma si congiunge a quella del desiderio educato, laddove ci invita a costruire una nuova prudenza (il Caute! spinoziano) sulla codificazione millenaria del ragionevole, presente-assente alla tradizione mediterranea: la finezza cinese del ragionevole, la palabre africana del compatibile, la phrònesis femminile: una saggezza non fallocratica, coinvolta nel debito che la misura deve ogni volta recuperare dalla dismisura donativa. Dirà Protoe rivolgendosi ad Achille:
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Il bambino e l’allievo diventano aggressivi, invidiosi e rabbiosi allorché vengano respinti e lasciati nell’inedia, allorché il senomaestro pretenda un guardare senza soddisfazione del desiderio (Ibid., p.99).
Il disvelamento, in chiave analitica, passa attraverso l’ammissione del piacere introiettivo di sostanza fisica del partner, sublimato –nel rapporto col sapere– dal desiderio della sostanza psichica di chi ci apre allo stupore intellettuale. Occorre guadagnare uno scatto, ci suggerisce Fagioli, nell’ordine simbolico. L’ammirazione, che in greco antico si esprimeva col termine agalma, include apprezzamento, sorpresa ma anche invidia. Agamai (che dà nome a un altro eroe omerico, Agamennone) ha tre significati: meravigliarsi-stupirsi, ammirare e portare invidia-rancore. L’ammirazione che accende il desiderio ha giocato e gioca un ruolo importante nell’economia della cultura. Solo l’estetica, in quanto teoria generale dei valori simbolici, può prendere forse in carico anche gli aspetti negativi connessi all’ammirazione-stupore, ossia l’invidia (che sempre è un voler impedire il desiderio dell’altro), elaborandoli non solo nelle arti, ma anche in tutte le attività che implicano per definizione libertà e autonomia, ossia quei rapporti che includono relazionalità: familiari, educativi, di amicizia e di amore, considerati da sempre come indipendenti da contrattazioni controllate (Perniola 2004, p. 96).
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Un’occasione insomma per riconsiderare il disvalore di ogni hybristés narcisa, che ha condannato l’occidente dis-misurato all’esilio della bellezza (che è poi capacità a saper vedere prevedendo e saper pensare con pre-sentimento). “Al sentimento, che nulla ha a che fare con l’effusione emozionale e patetica, appartiene una sorta di rigorosa, muta, assoluta chiaroveggenza” (Masini 1986, p.25). Propongo insomma una via dulcis alla riappropriazione, e all’ addomesticamento della hybris favorita da una pedagogia capace di incoraggiare quel cammino della conoscenza che ci disvela i falsi bisogni; una eduzione che non rifiuta né asseconda lo spazio del desiderio, ma aiuta ad affrancarci dalle sue servitù, tenendoci tuttavia aperti al suo insight. Desiderare è richiesta di divenire e di futuro. In questo senso si annuncia sempre con un volto guerriero: “sovversivo, antiprovvidenziale, ateistico” (Volli 2002, p.43): il volto di Pentesilea, regina delle amazzoni. Non si tratta di una pedagogia pacifica; di un addolcitore di contraddizioni, ma di quell’engagement mondano che si affida al compatimento, nel significato suo proprio di un patire-con partecipativo per le prove che ci riserva l’arena sociale. Desiderio di rialzarsi dopo ogni caduta e riprendere con più determinazione il proprio posto di combattimento. La pedagogia della “montagna di Pestalozzi”, la montagna desolata di Stans, in Svizzera (Hartmann 1989), dove l’eroe sanguigno della emancipazione popolare (Gian Maria Volonté in un film omonimo di Peter von Gunten, mai distribuito in Italia) apre alla speranza, attraverso l’alfabeto, una folla di bambini senza futuro. Desiderio di spendersi espandendo il desiderio, senza compenso di ri-conoscimento. La sofferenza e il dolore rappresentano l’educazione del genere umano, la sua autoeducazione, in quanto attribuiscono valore a ciò che viene vissuto. Questa è l’autoeducazione o ‘eduzione’ di cui parlo e a cui invito. Il tempo che ci è stato assegnato esalta la bellezza dei corpi. Eppure la bellezza non ha mai vissuto la sua deriva come la vive oggi, nell’incertezza estetica che segna questo gran finale di partita affidata esclusivamente allo sguardo. Bellezza come bisogno, per la nostra rigenerazione continua; bellezza come fuoco del-
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l’emotivo, perché quando essa non risplende, quando si spegne tra rovine e macerie, la vita diventa intollerabile e le nostre forme si immobilizzano e sclerotizzano, imprimendo nel nostro stesso sguardo i segni della sua mancanza. Bellezza infine che “distrae e governa la società” (Abruzzese 1998, p.16 e passim). Non avremmo i marmi di Prassitele senza Frine che posò per lui, e di recente la ragazza con l’orecchino di perla si è materializzata nelle pagine di Tracy Chevalier, raggiungendo il grande schermo, dove oltre a dare sembianze all’innocenza di una serva che ispirò i pennelli di Vermeer, ci rammenta che bellezza non ha condizione, fiorisce dove vuole, e gode di una speciale sua immunitas statutaria, socialmente riconosciuta. Quando Frine viene condotta in tribunale, accusata di prostituzione, il suo avvocato la disvela innanzi alla corte e i giudici l’assolvono, riconoscendo nella bellezza una virtù. Le modelle escono dagli atelier e vanno in passerella: raccontano gli strazi di corpi oggettivati nella serialità della finzione mediatica. Le emozioni del turbamento (si veda La belle noiseuse di Rivette è del 1991) si patina nella pop art dei calendari, dei fumetti (di cui Milo Manara è stato l’ultimo arbiter elegantiarum) e dispensano erotismo satellitare a bassa definizione. La passione della bellezza che ha scatenato guerre mitiche, ma ha anche riappacificato eroi e popoli, ha il potere di distogliere dal bisogno e dalla necessità: La Semiramide di Abruzzese è pin-up, velina, amazzone infibulata dalla genialità stilistica di Gaultier. Consegnata alla globalizzazione tecnica, la bellezza vive come simulacro nella geografia del consumo a distanza; scalda corpi separati nell’onanismo percettivo diffuso, al sicuro dalle emozioni e le compromissioni di ogni contatto. Nella sua irraggiungibilità, si dissolve in stereotipie seriali; si consegna all’industria modellatrice, alla chirurgia estetica, al teriomorfismo, alla cosmesi, al contagio virtuale. Ci salverà l’estetica dagli effetti perversi di una comunicazione bramosa e fagocitante? Ci prova ora Perniola, che reagisce alla violenza massmediatica con un pamphlet contro la comunicazione, responsabile di condurci a una “catastrofe dell’ordine simbolico”. Ai suoi effetti perversi –ci suggerisce– si sfugge cercando un’alternativa nel “sentimento estetico” delle cose, non troppo distante dai bisogni e dalle aspettative reali degli individui, ma neppure vittima dell’idolatria del successo ad ogni costo. La sfera estetica è un
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Un cuore femminile custodisce infinite cose che non sono fatte per la luce del giorno (scena XVIII).
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Da dove trarre le forze per rigenerare le forme, e come rinvigorirle per un cammino eduttivo che si affida essenzialmente al precetto del prendersi cura? Non v’è dubbio che la bellezza sia un forte generatore di energia. Semiramide “che libito fè licito in sua legge”, precipitata nell’Inferno dantesco tra i lussuriosi in compagnia vorticosa di Didone, Cleopatra, Elena e Francesca, è riabilitata in virtù della sua bellezza, e Abruzzese la vede trionfare ancora nelle sale cinematografiche; reincarnarsi nella riproducibilità dell’opera d’arte, nella cura degli spazi pubblici, dei luoghi di transito, nella spazialità ben ordinata delle piazze, dei musei all’aperto; la insegue nella geografia estetica della vita quotidiana. Nel cinema –e nella poesia, scrittura di immagini al pari del pennello o dello scalpello– Semiramide si riproduce ogni volta, esercitando sulle folle il suo fascino indiscusso col suo solo apparire, in virtù della sola sua radiosità spoglia di orna-
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menti. Un rovesciamento –ogni volta– del giudizio etico (il Villani nelle sue Cronache giudicò lapidariamente la regina “la più crudele e dissoluta femmina del mondo”) in favore e a vantaggio dell’arte, officina del bello, e della sua più diretta e immediata capacità di smuoverci, placarci, risarcirci, guarirci, avvicinarsi allo splendore della verità, al sinolo unitario del kalokagathòs; suggeritore di una paideia attiva, di una ricerca volta al giusto e al bello, kalon e agathon. Il bello suscita ammirazione e l’ammirazione è la passione per eccellenza, perché nasce dall’apprezzamento di ciò che è raro, straordinario, e dalla consapevolezza della propria distanza. Prodigio e timore insieme. Connessa all’ammirazione è la problematica del riconoscimento, e la lotta per ottenerlo. Su questo punto cruciale, su questa incapacità di reciproco riconoscimento si svolge l’attrazione luttuosa di Pentesilea e Achille. L’eroe soldato è abbagliato, ma ha paura di quel corpo amazzone e maschera la paura nell’indifferenza. Anche la morale giudeo-cristiana ha odiato corpi di donna, sublimando il desiderio nella colpa, e il piacere nella sofferenza. Il corpo è sfida continua, fin dal pensiero delle origini, che ne colse il gioco delle ambivalenze negli aspetti simbolici, nella stessa semiologia dei suoi segni (Galimberti 1983). Corpi esposti o nascosti; opachi o trasparenti, desiderabili, inospitali, innocenti, sfidanti; scrutati, mutilati, violati, desaparecidos. Il corpo è costruzione culturale che sempre contiene una concezione particolare del pudore, del dolore, della paura (nell’attesa che un’etica del desiderio e un diritto alla gioia ne liberino la bellezza). In un pretenzioso film inglese del Sessantotto, Karel Reisz mette in scena Isadora, la vita della grande ballerina americana Isadora Duncan (protagonista il corpo
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unguento salutare per guarire dalla sensologia, una dilatazione nell’osceno dello sguardo opaco e seriale. Qualità come il disinteresse, la discrezione, la moderazione sono le cornici della sobrietà, il buon gusto, la riservatezza: qualità che appartengono alle civiltà estetiche, del tutto estranee alla comunicazione che conosciamo. È proprio la trasparenza, che invano cerchiamo in un ordine etico della comunicazione e siamo costretti a dislocare tra le utopie, a richiederci discrezione. Anche nelle relazioni più coinvolgenti dell’amicizia e dell’amore si richiedono moderazione e discrezione, perché la loro corruzione –come già fu ben chiaro a Simmel– sta proprio nell’esaurirsi delle risorse dell’incanto, della sorpresa e dello stupore. Discrezione è discernimento, capacità di cogliere le differenze; moderazione nel fare e nel chiedere. Nella comunicazione invece si agita, dispotica, la hy, con le sue dismisure. Il bisogno di vincere comunque, senza curarsi di aver convinto. Per via estetica guadagniamo la dimensione di un interesse disinteressato delle cose, tipica delle economie di dono; quella consapevolezza che se da una parte ci guarisce dal risentimento, vincolato al desiderio di riconoscimento, dall’altra produce benefici effetti sulla sfera cognitiva col dislocarci sui beni simbolici che sono beni “durevoli”. Nella sfera estetica ritroviamo quegli stessi valori in disuso dell’etica kantiana: grazia e dignità, magnificenza, discrezione; lotta per il riconoscimento, come diritto al rispetto e alla considerazione, alla dignità, alla stima sociale.
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scultoreo di Vanessa Redgrave) che rivoluzionò la danza ispirandosi alla Grecia classica, e la cui arte è alla base della danza moderna. “Il mio corpo è libero, è meraviglioso” grida Vanessa al pubblico americano che si allontana dalla sala, spaventato da quella danza che annulla in nome dell’arte le distanze con il suo nemico di turno, l’Unione sovietica (il film è ambientato negli anni Venti). Nel finale la tragedia di una morte assurda, ma in dissolvenza vi sono corpi danzanti di un paese puritano, a cui il corpo di Vanessa è riuscito a imprimere il ritmo di movimenti liberi.
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Non sempre amiamo chi ci ammira o chi ammiriamo. Pentesilea ammira Achille. Ne eccita il desiderio col suo stesso linguaggio di guerra. Vuole dimostrargli di saper combattere con più coraggio; di non essergli da meno nella capacità di sterminio. Ma i suoi successi, se per un verso suscitano ammirazione, per un altro spaventano il miles invitto. Non è concesso a un corpo di donna, educato alla grazia e alla cura dell’oikos, maggiore ardimento di un corpo soldato, addestrato nel duro esercizio delle palestre militari. La passività emotiva di Achille è tuttavia una sfida per la regina amazzone. Non la scoraggia, semmai la provoca ed eccita. Entrambi agiscono nello stesso teatro di guerra: i loro sguardi sono costretti ad incontrarsi, incrociarsi, ed è lo sguardo a decidere del desiderio. Ma il sentimento, che dà colore e compimento alle emozioni, è pronto a volgersi in risentimento impotente quando non incontri corrispondenza. Il desiderio di Pentesilea si muove ora tra le ombre delle sue fantasie; non è riuscita ad accendere un desiderio simmetrico nell’eroe greco, e per questo ne pagherà il prezzo. Nel secolo dello Sturm und Drang, Kleist non sa, né può vederla diversamente che in sembianze di Furia che trovando chiusa e preclusa la strada
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Questo (e altro) ci suggerisce la collezione Hermes di Gaultier, la messa in scena della sensologia bellicista amazzone, Halb Furie, Halb Grazie!. Rivincita di corpi in movimento sulle immagini in dissolvimento per rarefazione-assuefazione. Ma la rivincita della fashion sui media elettrici sarà sufficiente a salvarci dalla distruzione del desiderio? Nuovi prodotti multimediali dilateranno ancora oltre ogni eccesso la libido videndi, e il digitale è pronto a rimediare e rimodulare i media, dilatando le offerte del vecchio schermo (Ferri 2004). Rimodulati su nuove piattaforme mobili e pervasive, i media non potranno tuttavia sfuggire alla domanda di una loro profonda trasformazione, dopo la saturazione-uccisione del desiderio, di cui portano in qualche misura la loro parte di responsabilità.
riferimenti bibliografici Abruzzese, A., 1998, La bellezza per te e per me, Milano, Bompiani. Adorno,T.W.,1951, Minima moralia, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, tr.it.1954, Torino, Einaudi. Arens,W.E., 1979, The Man-Eating Myth. Anthropology & Anthropophagy, New York, University Press, tr.it. Il mito del cannibale. Antropologia e antropofagia, Torino, Bollati Boringhieri, 1980 (n.ed. 2001). Armando, L.A., 2004, Prìncipi senza padri. Una lettura di Machiavelli, Lecce, Manni Augé, M., 1977, voce Cannibalismo, in “Enciclopedia”, vol. II, Torino, Einaudi, pp.535-547.
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Achille ha paura di Pentesilea. La desidera ma non sa dirlo, né chiederlo. Non può ammetterlo neppure a se stesso. Da tempo ha seppellito il panico per l’universo femminile nell’indifferenza e nella philìa di Patroclo. L’imprevisto di quel corpo regale spoglio dalla corazza di guerra, lo coglie alla sprovvista e fuori tempo massimo. Il resto, lo stupro su un corpo oramai inerte nel rigor mortis, dopo averne cavato gli occhi con punta di lancia (non trascurabile particolare di accanimento contro il veicolo dello sguardo) –sta a dirci la tragedia dell’impotenza, la devastazione maschile innanzi a ciò che si preclude.
alla soddisfazione abbatterà e devasterà quel corpo che non si è mai acceso di vero desiderio per lei. Vedendo sbarrato l’accesso alla soddisfazione a lei non resta che portarselo dentro, assumerne l’energia, succhiarne il flusso vitale; straziarlo nelle membra per farlo rivivere tutto intero dentro di lei. Una cosa un po’ diversa dalla realizzazione (romantica) dell’Io-passione e un po’ più vicina alla nostra condizione neotribale. La Furia delle amazzoni, cresciuta sulla passiva distrazione del maschile, è rivolta contro i corpi inerti dell’homo oeconomicus e technologicus. Inerzia panica che spinge a lidi di desideri lontani e sconosciuti, da soddisfare con simulacri femminili virtuali, dopo aver modellato per secoli un femminile docile, intimo e privato, altruista e pacificante.
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l’Occidente e le cose. La tradizione filosofica occidentale ha esternato, dalle prime mosse della ragione moderna alle tendenze più recenti del pensiero contemporaneo, l’urgenza di uno stretto rapporto dell’uomo con le cose. In qualche modo, infatti, il carattere di immanenza che la distingue dall’etereo modo di sentire il reale che è proprio del pensiero orientale, probabilmente rintraccia la sua eziologia nella pregnanza che l’altro-da-me possiede rispetto all’introspezione centripeta –e per certi versi onanistica– dell’Oriente. Persino l’antidoto storico-culturale della tendenza alla reificazione dell’Occidente, ovvero il rapporto col sacro, iconizzato dal Cristianesimo, non possiede l’assoluta trascendenza della rappresentazione simbolica del reale (considerata da Durkheim una delle caratteristiche ante litteram delle grandi religioni), per assumere, al contrario, i tratti della kénosis –come osserva Lévinas e, per altri aspetti, Vattimo– cioè della discesa che un dio forse più interessato
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«Avere desiderio è come fumare sigarette o mangiare würstell: molto piacevole ma poco salutare.» (Woody Allen2)
mimmo pesare sehnsucht e comunicazione
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«Che la realtà umana sia mancanza basterebbe a provarlo l’esistenza del desiderio come fatto umano… Perché il desiderio sia desiderio a se stesso, bisogna che sia mancanza, ma non una mancanza-oggetto, una mancanza subita… bisogna che sia la sua propria mancanza di… Il desiderio è mancanza d’essere, è sollecitato nel suo più intimo essere dall’essere di cui è desiderio. Così testimonia l’esistenza di una mancanza nell’essere della realtà umana» (Jean Paul Sartre, L’Essere e il Nulla1).
il desiderio del desiderio nell’epoca della sua riproducibilità icastica
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poco importa) o, al contrario, della sua assoluta autonomia rispetto a quest’ultimo, risultano essere in qualche modo consequenziali e saldate alla decisione di quanto l’uomo possa “bastare a se stesso” in nome della propria autocentrata solitudine esistenziale. Poiché, dunque, la storia culturale dell’Occidente è proprio caratterizzata dall’anànke umana, dalla non autosufficienza trascendente dello spirito, e dunque dallo slancio, dagli appetiti, dalla smania, dalla bramosia, dalla curiosità –senza le quali, peraltro, non ci sarebbe produzione di cultura, né di civiltà– potremmo accettare per buona l’ipotesi operativa secondo la quale il vettore della volontà umana verso l’esterno, cioè il desiderio, possa a ragione essere considerato un fattore imprescindibile per l’interpretazione della genesi dei processi culturali. La ineluttabile tensione dell’uomo occidentale verso colui-cheio-non-sono (l’infinitamente altro di Lévinas, ma anche il Tu di Buber) o verso ciò-che-io-non-sono (il non-io di Fichte), è alla base del tema del desiderare che, a dispetto dell’etimo –(guardare) alle stelle o (parlare) circa le stelle, e quindi “fantasticare”– si configurerebbe, appunto, come una sorta di concreto vettore antropologico della volontà verso l’esterno, sia in positivo, come nel caso della brama o dell’amore, sia in negativo, come nel caso della nostalgia (in greco nostos = ritorno e algos = dolore). Se il desiderio è, dunque, un vettore della sensibilità umana, vettoriale sarà anche la sua fenomenologia, la quale si fonda principalmente sulla legittimità o meno dell’attribuzione del significato di “mancanza” al concetto di desiderio. Probabilmente, una lettura più fruttuosa e stimolante di quest’ultimo, applicata alle scienze umane e della comunicazione, è possibile privando il termine della comune accezione di “integrazione di una incompletezza”. Occorrerebbe cioè concepire il desiderio non come un’assenza, bensì cogliervi una pienezza. La cordata che da Platone a Freud, passando per il cristianesimo, ha voluto interpretarlo come testimonianza della incompiutezza dell’essere, piuttosto che come ricerca dell’unità perduta o come erranza, o insoddisfazione, o vacuità, non tiene conto, ai fini del nostro discorso, della potenza creatrice di valori e immagini che esso possiede. Al contrario, in Spinoza (Etica, Parte V, proposizione III)6, il desi-
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al terreno che allo spirituale, ha barattato con la propria incolumità divina. La cenosi e la crocifissione, dunque, come simboli di un diouomo perfettamente occidentalizzato, quasi secolarizzato, il quale ha consumato nella maniera più tragica il desiderio di appartenenza a una comunità3 e ha risolto la sua uscita di scena “aderendo alle cose”, come direbbe Drieu La Rochelle. Dall’altra parte, un panciuto e forse più simpatico dio orientale che risolve la propria missione in maniera incruenta, solipsista, aniconica, e sorride senza soluzione di continuità dagli intermundia, libero dalla grave responsabilità di redimere o salvare chicchessia e privo del coraggio di un dono sacrificale, ma solo pago del personalissimo raggiungimento del nirvana. Ad alimentare i tropoi della dicotomia Oriente/introiezione Vs. Occidente/esternazione, può anche aiutare il ricorso alle suggestioni della letteratura contemporanea. Paradigmatica, in questo senso, la parabola di due antieroi per eccellenza del male di vivere novecentesco: Alain, protagonista in Fuoco fatuo (titolo originale Le feu folett, la cui prima edizione fu edita nel 1931), romanzo del francese Pierre Drieu La Rochelle e Isao, il cadetto dell’esercito nel racconto Cavalli in fuga (Runaway Horses, 1957), del giapponese Yukio Mishima. Entrambi hanno ribrezzo della vita che li circonda, entrambi soffrono per la mancanza di valori “eroici”, entrambi porranno fine ai propri tormentati giorni col suicidio, ma Alain lo farà per sfuggire alla menzogna e alla irrealtà della condizione umana e quindi per «aderire, finalmente, alle cose»4 con il passaggio del proiettile esploso dalla rivoltella attraverso il proprio corpo, mentre l’ufficiale di Mishima si ucciderà con il nobile rito samurai del seppuku5, per ritornare puro spirito in un tempo gravemente appesantito dalla volgare concretezza quotidiana e dal capitalismo europeo, principale artefice dell’abbrutimento e dello svilimento della tradizione imperiale nipponica. Due decadance, dunque, due espressioni dello stesso Zeitgeist, ma quella europea risolve la propria autodistruzione in maniera centrifuga, mentre quella asiatica lo fa in maniera centripeta: la propulsione verso l’esterno contro l’autochiusura purista, per inciso, il desiderio contro la rinuncia. Come dire, la forza della spinta nei confronti della materializzazione dell’altro-da-me (che sia animato o inanimato, persona o res,
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Appaiono definite in tal modo le tappe del percorso che Deleuze individua come processo epigenetico del desiderio: dalla perdita dell’Io, attraverso le forze del corpo, verso una trasmutazione che emancipi dalla soggettività (classico tema del poststrutturalismo francese) e porti a una dimensione totalizzante, un tutto non gerarchico ma in continuo divenire all’insegna della differenza (altro leit-motiv post-strutturalista e decostruzionista)11, un concetto, insomma, dal sapore vagamente hegeliano… di un hegelismo eterodosso!
comunicare, desiderare, vedere. Se il desiderio costituisce la genesi della produzione culturale in quanto la sua fertilità è garantita dal fatto di non paventare una mancanza ma di esternare l’urgenza di continua poiesis, quale diventa il suo ruolo all’interno di un’epoca, quella della comunicazione illimitata, caratterizzata proprio da una spropositata produzione di segni, immagini e informazioni? Il profluvio di immagine, di colore, di rappresentazione, di simulazione e inganno ottico che le tecnologie digitali della comunicazione visuale emanano, in qualche modo pretende una amplificazione degli organi di senso, i quali rappresentano i canali stessi attraverso cui l’onda del desiderio passa. Come acutamente nota Mario Perniola, i meccanismi di formazione del desiderio debbono essere interpretati in relazione al vedere e al fare, non al sentire, poiché, se dalla contemplazione e dall’azione si arrivasse anche alla sensazione, il desiderio stesso sarebbe soddisfatto e svanirebbe12. «se la mia mente e il mio corpo sono pieni delle immagini del corpo che desidero, se le forme del mio corpo riempiono la mente e l’occhio di chi mi desidera, si resta in una tonalità emozionale caratterizzata dalla mancanza, dall’assenza, dalla privazione, che è proprio il contrario della disponibilità illimitata che il mondo delle cose ci spalanca»13. Alla luce di questa visione, l’iperestesia degli organi di senso surriscaldati, come direbbe McLuhan, la quale (in maniera quasi evoluzionistica) si accresce di generazione in generazione, sembra quasi aver trasformato i piani di consistenza deleuziani in specie di agglomerati desideranti inorganici. Verosimilmente, infatti, il desiderio giace in una sorta di epoché
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derio indica una produzione e una creazione, non una mancanza: tema riattualizzato da Deleuze e Guattari in L’Antiedipo (1972) e in Mille Piani (1980), all’interno dei quali la pratica desiderativa esprime ed indica creazione continua di processi vitali, di saggezza pratica, di autopoiesi del general intellect e soprattutto contiene, in nuce, il preludio del concetto di corpo senza organi. «Trovate il vostro corpo senz’organi, sappiatelo fare, è una questione di vita o di morte, di giovinezza e di vecchiaia, di tristezza e di allegria. Ed è qui che tutto si gioca»7 Creare un corpo senza organi significa trasformare se stessi da realtà signoreggiata dall’Io, gerarchicamente suddivisa, in una sorta di orizzonte piano, ovvero di situazione epistemica caratterizzata dalla confusione tra la propria coscienza individuale e una coscienza collettiva soggetta a continuo divenire. Principio di individuazione senza soggetto, dunque, e trasformazione in aggregati umani di differenze senza la mediazione dell’Io, perché «il CsO fa passare delle intensità, le produce e le distribuisce in uno spatium anch’esso intensivo, inesteso»8. In che modo è possibile attivare la trasformazione e divenire CsO (corpo senza organi)? La risposta di Deleuze è proprio: con il desiderio. Esso è una forza positiva, da non interrompere attraverso lo svilimento che porta a considerarlo mancanza, bisogno, né, tanto meno, da saturare attraverso l’appagamento dei sensi, perché «il piacere è già una maniera di interromperlo, di scaricarlo all’istante, di liberarsi di esso»9. Per il filosofo francese il desiderio è una specie di sospensione della volontà di potenza (paradossalmente!) e possiede una gioia immanente, un’energia che trae alimento dall’inappagamento e dalla mancata estrinsecazione del piacere stesso; attraverso tale permanenza in una condizione desiderante si può accedere al corpo senza organi, il quale, si precisa, non equivale a una dimensione solipsistica, ma si proietta verso la collettività attraverso la mediazione di quel peculiarissimo modo d’essere che Deleuze chiama piano di consistenza, ovvero la sommatoria delle infosfere di tutti i CsO, una molteplicità gestaltica che va a comporre un tutto moltiplicandone a livello intersoggettivo le forze individuali. Come dire, una sorta di interfaccia corporea e concreta del concetto di intelligenza collettiva di Pierre Lévy10!
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luogo, fruendone i servizi e lasciando una traccia del suo passaggio; ma il nostro corpo non è “passato” da nessuno spazio. O meglio, lo spazio di transito è quello che sul piano sociologico Manuel Castells chiama spazio dei flussi14, e per altri aspetti Pierre Lévy chiama spazio antropologico del sapere, vale a dire un sistema di “prossimità” (spazio), proprio del mondo umano (antropologico), e dunque dipendente dalle tecniche, dai significati, dal linguaggio, dalla cultura, dalle rappresentazioni e dalle emozioni umane, che ci caratterizza per ciò che sappiamo, per ciò che sappiamo fare e per la maniera di relazionarci con gli altri (del sapere). Lo spazio del sapere, è concettualmente “immateriale”. In senso etimologico esso è una u-topia, un non-luogo, poiché la sua collocazione spaziale giace nella virtualità del web e delle reti telematiche e il suo oggetto è costituito proprio da quella cosmopedia che anima l’assetto, continuamente dinamico, degli intellettuali collettivi (l’evoluzione glocale di quelli che Nicolas Negroponte definisce soggetti digitali); mentre il canale di passaggio di questo particolarissimo spazio antropologico si identifica con il cosiddetto policosmo, ossia con l’insieme strutturato della molteplicità delle identità sapienziali on-line15. Tornando, perciò, alla semantica del desiderio come dimensione visiva e fattiva ma non senziente della sensibilità umana, si potrebbe dire che essa, applicata al cyberspazio e alle entità inorganiche che lo popolano, subisce una sorta di “doppia rappresentazione simbolica”. Se infatti ogni forma di immagine (come oggetto culturale) è già il trasferimento e la decodifica di un significato condiviso nell’immaginario collettivo, la sua proiezione mediata dal web rappresenta un doppio significato, composto dal significato stesso dell’immagine e dal rimando digitale –link– che quell’immagine presuppone. Nel caso della navigazione in internet, un esempio per tutti può essere la foto in formato jpeg (immateriale) di una modella –primo significato–, cliccando sulla quale si accede alla homepage della modella stessa o, meglio ancora, si opera il download del suo book fotografico –secondo significato–. Secondo la teoria platonica delle forme (esposta nel decimo libro della Repubblica) ogni entità ha tre componenti: la forma (che è l’idea originale), l’apparenza (la realizzazione materiale dell’idea) e l’arte (che imita l’apparenza); nella proposta di Wendy Griswold16, applican-
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performativa (la cui performance è la permanenza del desiderio stesso), cioè in un rifiuto della dimensione “senziente” a vantaggio di quella voyeuristica dei sensi “primari”. Detto questo, ben si comprende, senza necessariamente passare per esegesi situazioniste o baudrillardiane –del resto già ampiamente consolidate– come questa condizione si inserisca a meraviglia nella cornice di inorganicità multimediale della nuova produzione culturale supportata da internet e dai new media. Se, infatti, già negli anni Sessanta Althusser e (specialmente) Debord denunciavano come all’interno dell’analisi di Marx sulla differenza tra valore d’uso e valore di scambio della merce, si fosse verificata una esplosione di significato del secondo ai danni del primo e quindi il potere di circolazione dello scambio avesse trasformato la merce in una astrazione incarnata dallo spettacolo e dalle immagini, oggi la visual production e il merchandising immateriale della rete ne costituiscono la potenza esponenziale. Se la produzione culturale dagli anni Sessanta agli anni Ottanta aveva consacrato i “primi” oggetti del desiderio inorganici delle società postmoderne, quali la rappresentazione multimediale della cultura tramite radio, televisione/videoclips, cinema, informatica e visual art, gli attuali oggetti del desiderio degli internauti sono divenuti, se possibile, ancora più “leggeri”: si desiderano mp3, DivX, software, videogames, e-book, si da una testimonianza della propria esistenza in rete tramite la sottoscrizione ad account per l’abilitazione di indirizzi e-mail, si abitano spazi “immateriali”, “inorganici”: comunità virtuali, newsgroups, chatrooms; si fa sesso al telefono o tramite webcam, senza toccarsi; si lavora insieme, ma in spazi non unitari (con le videoconferenze) e non reali (con il telelavoro su terminale); ci si “fa una cultura” senza spostarsi da casa con l’e-learning; si compra e si vende semplicemente scegliendo ciò che ci piace sul monitor del nostro computer e “cliccandoci” sopra, si pubblica tutto ciò che si scrive nei blog, dribblando la figura dell’editore, si appartiene a gruppi di consumo culturale sotto l’egida di nickname e identità collettive incarnate da computer remoti, con le banche dati e i siti peer to peer (Napster e successivamente Audiogalaxy, GNUtella, Kazaa e E-Mule), si entra a far parte della “matrix” digitale con i sistemi operativi open source (Linux in testa). In tutti questi esempi il nostro desiderio passa attraverso un
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Sucht, che significa esso stesso “desiderio”. Quindi la Sehnsucht si configurerebbe come «un desiderio innalzato alla seconda potenza, un desiderio del desiderio e quindi un desiderare che si esaurisce in sé per il piacere del desiderio»17. È curioso, a questo punto, notare come l’antico lemma del verbo sehnen, desiderare, sia pressoché identico a quello del verbo sehen, guardare, vedere. Come dire, i concetti del desiderare e del vedere sono come legati da una linea semantica ancestrale che sembra suggerirne l’interdipendenza reciproca e accomunarne gli esiti all’interno della etimologia del termine “spettacolo”. Spettacolo –spectaculum– è ciò che deve essere visto, ma anche ciò che deve essere “consumato”, quindi desiderato. Il desiderio, dunque, è un “guardare alle stelle” che nell’era della comunicazione raddoppia la propria intensità visiva-desiderativa: la totale immersione nel medium che noi oggi viviamo si esplicita in una indifferenziazione tra il desiderare immaterialmente e visivamente un oggetto e il desiderarlo concretamente. Ma se il desiderio, oggi, alberga in una condizione che Cronemberg definirebbe di videodromia assoluta, sdoppiandosi in una Sehnsucht postmoderna, non per questo esso perde la propria caratteristica di giacimento naturale della poiesis e di ricettacolo di energia culturale: a esso bisognerebbe consegnarsi senza remore e sensi di colpa praticando una Gelassenheit, per usare un termine-chiave di Heidegger, un “abbandono”, uno atto di abdicazione nei confronti del suo continuo fluire di processi vitali all’interno dei quali potrebbe essere in gioco il senso della nostra stessa esistenza, un senso che, a dispetto della condizione di ibridazione tra reale e virtuale che viviamo oggi, contiene forse, ancora, un significato umano, troppo umano!
Note J.P. Sartre (1943), L’ essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1978, pag.142. intervista al John Lettermann Show, 1991. 3 attraverso un munus, appunto, un dono concreto, carnale. 1 2
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do tale teoria alla sociologia dei processi culturali si potrebbe inferire che un oggetto culturale è formato dall’idea, dalla concretizzazione dell’idea e dall’espressione simbolica e culturale dell’idea. Ma la conseguenza di questa struttura a tre piani era, per Platone, uno svilimento del terzo termine, l’arte (o, nel nostro caso, la rappresentazione simbolica dell’idea), che essendo imitazione dell’imitazione (cioè imitazione dell’apparenza materiale) era doppiamente lontana dalla forma originale. Aristotele “correggerà” questa aporia della mimesi platonica, affermando che l’arte non imita il regno delle idee, ma le verità universali dell’esistenza umana. In questo modo egli riportava dignità al mondo della cultura la quale, nella lezione platonica, imitando la vita doveva essere meno “fondamentale” di essa. Bene, probabilmente è proprio alla luce della correzione del platonismo da parte di Aristotele che si dovrebbe interpretare la doppia rappresentazione simbolica di internet e dei new media, lontano dal lamento apocalittico di chi sostiene che la mimesi del cyberspazio e della realtà virtuale e immateriale del web produca un distacco dalla realtà o, peggio, “uccida” la vita reale stessa. “Ciò che è razionale è reale”, scriveva Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. Ma con la caduta del metaracconto idealista anche questa proposizione potrebbe essere aggiornata in chiave cyber-antropologica, diventando “ciò che è razionale è irreale”, immateriale, inorganico, non per questo perdendo la propria razionalità! All’interno di questa diaspora del valore ultimo e auratico della produzione di senso e di cultura al tempo della comunicazione illimitata anche il vettore antropologico della volontà umana (o postumana?) verso l’esterno, ovvero il desiderio, muta di paradigma, seguendo il destino dell’oggetto del proprio desiderare. Alla stregua della produzione di immagini e simboli, che come si è visto nel cyberspazio diviene rappresentazione della rappresentazione, il desiderio, per seguirne la pista, si manifesta come desiderio del desiderio, come Sehnsucht. Il termine tedesco, mutuato dalla temperie del Romanticismo ottocentesco, che nell’immaginifico serbatoio letterario di Hölderlin, di Goethe, di Schlegel e di Novalis aveva il senso di “aspirazione struggente”, “brama appassionata”, in realtà avrebbe una soluzione semantica proprio nella spiegazione dell’etimo: un composto del verbo sehnen, che vuol dire “desiderare” e del sostantivo
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Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo, Einaudi, Torino, 1969, pag. 185. comunemente conosciuto come harakiri, cioè la pratica di darsi la morte squarciandosi il ventre con un pugnale; la pratica, del resto, che seguirà lo stesso Mishima per compiere il proprio suicidio, avvenuto pubblicamente a Tokio il 25 novembre 1970. 6 B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, UTET, Torino, 1988. 7 G. Deleuze, Millepiani, sez.2, Castelvecchi, Roma, 1996, pag. 7. 8 ibidem, pag.10. 9 ibidem, pag. 12. 10 P. Lévy, L’intelligence collective. Pour une anthropologie du cyberspace, La Découverte, Parigi, 1994, trad. it. L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996. 11 È interessante registrare come con la pubblicazione di L’AntiEdipo, anche nelle sfere della sinistra culturale antagonista si cominciò a passare dalla marxiana Teoria dei Bisogni ad una postfreudiana teorizzazione dell’inconscio come Macchina Desiderante. Essa veniva descritta come estensione nomadica e inafferrabile, caratterizzata da natura ontologicamente trasgressiva, in quanto ribelle ed eversiva nei confronti di qualsivoglia regola o istituzione politica, sociale e culturale. La macchina desiderante era quindi, per Deleuze e Guattari, una vera e propria protesi per riaprire i link dell’ideologia occidentale alla reintroduzione di valori palesemente utopici –nel senso filosofico del termine–, nel momento stesso in cui andava in crisi il progetto della rivoluzione (non a caso il sottotitolo del saggio è Capitalismo e schizofrenia). 12 cfr. M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino, 1994. 13 Il sex appeal dell’inorganico, op. cit., pag. 123. 14 «(…) ho asserito che la nostra società è costruita intorno a flussi: flussi di capitali, flussi di informazione, flussi di tecnologia, flussi d’interazione organizzativa, flussi di immagini, suoni e simboli. I flussi non sono solo un elemento dell’organizzazione sociale: sono l’espressione dei processi che dominano la nostra vita economica, politica e simbolica. Se ciò è vero, allora il supporto materiale dei processi dominanti nelle nostre società sarà l’insieme degli elementi che supportano tali flussi e che rendono materialmente possibile la loro articolazione in tempo simultaneo. Propongo quindi l’idea dell’esistenza di una nuova forma spaziale propria delle pratiche sociali che dominano e plasmano la società in rete: lo spazio dei flussi. Lo spazio dei flussi è l’organizzazione materiale delle pratiche sociali di condivisione del tempo che operano mediante flussi. Per flussi intendo sequenze di scambio e interazione finalizzate, ripetitive e programmabili tra posizioni fisicamente disgiunte occupate dagli attori sociali nelle strutture economiche, politiche e simboliche della società» (CASTELLS M., The rise of the network society, Blackwell Pubblishers, Oxford, 1996, trad.it. La nascita della società in rete, EGEAUniversità Bocconi Editore, 2002, pag. 472-473). 15 cfr. L’intelligenza collettiva, op. cit. 16 cfr. W. Griswold, Sociologia della cultura, Il Mulino, Bologna, 1997. 17 L. Mittner, Ambivalenze romantiche, D’Anna, Messina-Firenze, 1954, pag. 275, nota. 4
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una nota sul concetto di desiderio
luigi antonello armando donne e pastasciutta:
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2. Aristotele, come è noto, presenta due volti. Scrisse il Protrettico, ma anche le Categorie; legò desiderare conoscere e vedere, ma perseguì altrove una conoscenza senza desiderio volta a realtà inerti (Veggetti 1979) e legata all’esercizio del più nobile dei cinque sensi che però non è un vedere, ma un guardare. W. Jaeger ci ha insegnato a distinguere nei testi questi due volti e a parlare di un Aristotele platonico e di uno poi non più tale; anche se quello che egli chiama platonico, quello della frase citata, sembra qualcosa d’altro e forse di più, in quanto Platone, pur parlando di un conoscere legato al vedere, non lo lega al desiderio, ma a un’ascesi rispetto a qualcosa che può essere confuso con il desiderio. Platonico o no, il volto dell’Aristotele che ci stupisce allorché lega desiderare conoscere vedere e propone questo legame come universale specifico e originario, è quello di molto minoritario nel
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1. Il primo libro della Metafisica di Aristotele si apre con una frase che lascia in chi la incontra una traccia indelebile quanto quella di una promessa non ⊃ ⊃ ´ νττες ανθρωποι ´ τõυ ει δε´ ναι ancora mantenuta: Πα ⊃ ορε´ γονται φυ´σει Potremmo tradurre “tutti gli uomini hanno un originario desiderio di conoscere”, ma non renderemmo a pieno il senso di queste parole. Situate quasi all’inizio del pensiero occidentale esse rivolgono una sfida contro il suo successivo percorso nella misura in cui questo si può identificare con lo sviluppo di una conoscenza scissa dal desiderio: dicono infatti che questa vi è radicata e legano conoscenza e desiderio a un vedere che non si rivolge agli oggetti del mondo fisico, ma a forme, immagini, idee, e che non è un guardare, ma neppure un vedere qualcosa che non c’è o, in qualcosa, quello che non c’è; dicono inoltre non solo che questo nesso tra desiderare, conoscere e vedere è proprio di tutti gli uomini, ovvero universale e specifico, ma anche che è tale perché situato nella loro origine.
conto dell’audience, è il volto di quello che è stato felicemente detto l’«Aristotele perduto». In molte traduzioni infatti il senso delle parole che ho riportate è ⊃ sparito. Quella di Russo (1973), ad esempio, rende ορε´ γονται con uno scialbo «tendono a» inteso forse a evitare di suggerire la possibilità di uno slittamento dal desiderio che spinge al conoscere vedere, verso qualcosa che spinge all’orgia delle Baccanti e poi delle streghe. Per questo suo carattere, quella traduzione può servire a rappresentare il punto di arrivo di una lunga storia, quella appunto dell’Aristotele perduto che dice della storia del nesso perduto tra desiderare, conoscere e un vedere che, pur sorto dal guardare, non è guardare. È una storia che va oltre il personale percorso di Aristotele e della fortuna della sua opera; la ritroviamo, ad esempio, nella storia della fortuna dei miti. Il mito di Amore e Psiche tramandato da Apuleio parla della stretta connessione tra il desiderio, la conoscenza e un vedere forse sorto, ma non esercitato, dal senso della vista che anzi, dice quel mito, nell’asservirsi a un movimento di sfiducia e possesso, e nel diventare guardare, fa perdere desiderio e conoscenza. Ma oggi il mito di Amore e Psiche fatica a presentarsi altrimenti che, attraverso lo sfruttamento delle immagini di Canova, come vuoto strumento di qualche pubblicità; fatica addirittura ad essere letto se c’è chi ha detto che lo scrigno di Psiche, che in realtà conservava una possibilità di conoscere vedere, permette, una volta aperto, di guardare pezzi di carne (Bodei). Molto più ascolto hanno avuto il mito biblico nel quale il desiderio è legato al mangiare e al morire e, negli ultimi cento anni, la sua versione moderna costituita, più che dal mito di Edipo, da quello dell’omonimo complesso (Freud 1905) ove di nuovo il desiderio è legato alla morte e la conoscenza diventa consapevole contemplazione di questo legame suggerendo astinenza o controllo. Così, il mito di Pentesilea, rievocato da A. Semeraro in questa stessa rivista, può avere più fortuna nella sua versione ottocentesca che dice di un desiderio che è ormai orgia, anziché nel suo accennare a un desiderio ferito dall’altrui non conoscere, non vedere, non desiderare, decaduto e perduto in qualcosa che desiderio più non è, e non è neppure “trascendimento”, casomai perversione, del desiderio.
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dei consumi e delle comunicazioni di massa, appaiono insistenti tentativi di revisionare una concezione del conoscere che pone il suo ideale e trova la sua condizione nell’estraniazione dal desiderio, come a riscattare quest’ultimo, insieme al suo nesso aristotelico con la conoscenza e il vedere, da una «sepoltura secolare» (Fagioli 1974). Mi riferisco ai tentativi, per portare solo qualche esempio, di ripercorrere la sapienza greca in cerca delle tracce di un’attenzione al desiderio (Nussbaum 1996, 2003, ma già prima Dodds 1959 ristampato in Italia di recente 2003); di riscoprirne la funzionalità neurofisiologica e il valore conoscitivo (Damasio 2003); di constatare il suo ritorno nella società attuale tanto da definirla come «società del desiderio» (Volli 2002); di presentare come prioritaria l’esigenza di un’«educazione al desiderio» (Semeraro 2003, 2004). 4. Quest’ultima espressione esprime bene il fine implicito nei tentativi citati, ma, lasciata a se stessa, è ambigua e impraticabile ed esprime anche l’ambiguità e l’impraticabilità loro: ambigua, perché da un lato intende significare un nuovo atteggiamento rispetto al desiderio e dall’altro non differisce formalmente dalle formule proprie di una tradizione pedagogica strutturatasi sull’assunto della naturalità del nesso tra desiderare, mangiare e distruggere; impraticabile, perché monca di un preliminare necessario chiarimento sull’oggetto cui si tratterebbe di educare, ovvero sul desiderio. Forse, ritrovare l’Aristotele perduto comporta anche scorgere qualcos’altro ancora nella prima riga della sua Metafisica: come se essa non dicesse solo di un conoscere vedere mosso dal desiderio, ma anche orientato ad esso; dicesse cioè che la conoscenza mossa dal desiderio deve anche essere conoscenza del desiderio. Non pretendo di proporre questa conoscenza, necessaria premessa alla trasparenza e praticabilità della formula dell’«educazione al desiderio» e dei suddetti tentativi che in essa risultano; voglio solo segnalare due punti rispetto ai quali mi sembra più evidente la necessità di un chiarimento teorico sul concetto di desiderio. ⊃ ⊃ Ορε´ γω, ορε´ γοµαι, prima che “desidero”, “tendo le mani verso”. Il desiderio è una realtà compresa e delimitata da due termini, è un movimento che va definito attraverso l’identificazione del suo fine e della sua fonte, dell’oggetto cui si rivolge e del soggetto che lo esprime; e proprio questi, il fine e la fonte, l’oggetto e il soggetto,
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3. È difficile sintetizzare i motivi per i quali l’Aristotele dell’inizio ⊃ della Metafisica andò perduto sia nel senso per cui ορε´ γονται impallidisce nel «tendono a», sia nel più vasto senso per cui Aristotele stesso preferì al conoscere legato al desiderio un conoscere che presuppone la soppressione nei suoi oggetti della vitalità e quindi di ogni possibilità di chi intende conoscere di volgersi ad essi con desiderio; è difficile dire i motivi che molti secoli dopo condussero a rinnovare quell’antica scelta imponendo un metodo che escludeva ancor più categoricamente il desiderio dal conoscere; i motivi per cui il significato di conoscenza del mito di Amore e Psiche è stato offuscato dall’audience ottenuta dall’altro mito, quello del complesso di Edipo, che dice di una conoscenza che si costruisce sulla criminalizzazione del desiderio. Qui è possibile solo accennare al fatto ovvio che tali motivi sono connessi al problema del visionarismo. Il nesso tra desiderare conoscere vedere è reso difficile dalla possibile incontinenza del vedere, dal possibile passaggio da un vedere quello che c’è ma è invisibile al credere di vedere qualcosa che non c’è, una sorta di allucinazione individuale e/o collettiva. La possibilità, la necessità, di vedere cose invisibili talora opposte a ciò che è possibile guardare e stabilire se porle o non come oggetto di desiderio è inscritta nell’etimo stesso della parola greca per verità con il suo noto riferimento a quanto è nascosto. Posso e debbo vedere che quella donna che mi sorride in realtà mi odia, o che quella che mi sfugge in realtà aspetta solo di potermi sorridere. Ma la storia è piena anche di tragedie derivanti dall’aver creduto di vedere diavoli dove c’erano uomini o uomini dove c’erano diavoli. Di fronte a ciò la degradazione del vedere a un mero guardare significa riparo in un porto apparentemente sicuro. Prescindendo dunque dal soffermarci oltre sui motivi, due sono le cose che qui è possibile dire e che sono certe. La prima è che c’è stato un passaggio ripetuto nel tempo per il quale quello che oggi sembra un dato di natura, ovvero l’equivalenza tra desiderare mangiare distruggere e, per converso, l’equivalenza tra conoscere e astenersi dal desiderio, o al più fruirne moderatamente, è in realtà una costruzione storica. La seconda è che si tratta di un passaggio che non sembra essere dato per irreversibile. Oggi infatti, imposti anche dai problemi e dai rischi connessi alla degradazione del vedere nel guardare e dalle dimensioni che quest’ultimo ha assunto nella società
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mine costrittivo di una definizione del desiderio, e cioè la sua fonte: non c’è desiderio senza oggetto, ma neppure senza soggetto. Il richiamo al desiderio come ciò che, in quanto implica una soggettività, pone un argine alla massificazione e alla globalizzazione attuali è forte e ripetuto, e in questa prospettiva felice è l’accostamento dell’educazione al desiderio al discorso dell’educare come «e-ducere» (Semeraro 2003), come processo che fa appello e perno non su modelli identificatori, ma sul soggetto; solo che questo soggetto resta indefinito, o assente, o identificato con tutt’altro che con qualcosa che può fondare un’«educazione al desiderio». Infatti è attiva e influente sotto un altro rispetto o, per così dire, in un’opposta direzione, una sovrapposizione di piani di discorso analoga a quella indicata poco sopra. Il movimento del desiderio non implica solo una transitoria mancanza di oggetto, implica altre´ ρος, cui tende sì una debolezza del soggetto, la ricchezza, il πο implica πενι´ α in chi lo esprime: ma questa mancanza, che in realtà è anch’essa transitoria e comunque può essere letta come espressione di un qualche essere del soggetto che l’avverte, è intesa come definitiva e come assenza totale di questo essere. Un’assenza che viene poi faticosamente coperta con il pensiero, impossibile perché senza inizio, di un soggetto che si formerebbe attraverso la sublimazione di un cannibalismo costituzionale nell’incorporazione allucinatoria di oggetti, cannibalismo la cui esistenza sarebbe debitamente certificata dalla scienza antropologica. Impossibilitato a definirsi e ad esistere altrimenti che attraverso la definizione e l’esistenza dell’oggetto cui si volge e del soggetto che lo esprime, compreso, tra, da un lato, un’indiscriminata molteplicità di oggetti e un’assenza di oggetto e, dall’altro, un’assenza di soggetto, il desiderio non può essere che vaga e vuota disponibilità a cadere in un vuoto di oggetti o ad assorbire oggetti in un vuoto di soggetto. Nessuna “educazione al desiderio” è su questa base possibile se non come astinenza o licenza. 5. Che vi sia una differenza tra le donne e la pastasciutta è un dato indubbio che sicuramente, in un modo o nell’altro, non sfugge neppure a chi prospetta invece il contrario; è perciò anche indubbio che il movimento che porta verso l’uno o l’altro oggetto non può essere uno e lo stesso, e non può essergli dato uno stesso nome.
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sono i due punti rispetto ai quali oggi è più evidente la necessità di un chiarimento. Per quanto riguarda l’oggetto, due confusioni accompagnano gli attuali discorsi sul desiderio. La prima sorge dal fatto che, dopo avere svolta la critica del solipsismo, dell’autismo, dell’autoreferenzialità, e indicato l’oggetto del desiderio come “altro-diverso”, questo “altro-diverso” viene determinato in realtà palesemente eterogenee e opposte. Un esempio di questo fenomeno può essere tratto da un recente libro ove, nel corso di una precisazione della definizione del desiderio come mancanza, incontriamo queste parole: «La mancanza non è semplice assenza, come si vede per esempio dal fatto che moltissime cose assenti non mi mancano (quella donna che non si affaccia sulla porta del mio studio non mi manca e non desidero che venga davvero; e così quel piatto fumante di pastasciutta che non vedo sul mio tavolo da lavoro)» (Volli 2002 pp.46-47). L’esempio può essere esteso. Vediamo indiscriminatamente indicati come oggetti del desiderio «quel panorama turistico», «quell’abito sofisticato», «le mille cose della pubblicità», leggiamo di un «desiderio del drogato». Oggetti reali, oggetti della fantasia, oggetti della credenza, oggetti dell’allucinazione, oggetti virtuali; oggetti che fanno vivere, oggetti che fanno sopravivere e oggetti che uccidono. Oggetti comunque talmente eterogenei e inconciliabili tra loro da rendere impossibile una definizione unitaria e coerente del movimento che indirizza vero di loro. Sulla base di questo discorso sull’oggetto, la proposizione dell’«educare al desiderio», se non ha il tradizionale senso dell’astinenza o della licenza, non ha alcun senso. La seconda confusione si presenta come opposta a quella appena considerata. Se la prima dice che l’oggetto del desiderio può essere tutto, questa dice che è niente e poi che è nulla. Essa sorge da una sovrapposizione di piani. La critica all’autoreferenzialità si svolge inizialmente nella possibilità di connettere quanto detto desiderio a una situazione di mancanza e di rapporto con un indefinito; il che è corretto, ma accade poi che una definizione corretta rispetto a una dimensione affettiva che volge verso l’oggetto venga attribuita a questo e che la mancanza che volge verso l’oggetto venga tradotta in mancanza di oggetto: l’indefinito, ciò che manca e verso cui si tende, diventa nulla e l’oggetto del desiderio diventa nulla. Un’analoga necessità di approfondimento investe il secondo ter-
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Soprattutto Freud non solo per la larghissima audience di cui ha goduto, ma anche perché la crescente e irreversibile consapevolezza, pur in parte non ancora avvertita ed ammessa, dell’interna contraddittorietà e della dipendenza della sua costruzione teorica dalla sistematica falsificazione di dati clinici e storici (Masson 1981, Freeman 1979), può costituire il punto da cui muovere verso la revisione del passaggio che ha reso perduto l’Aristotele dell’inizio della Metafisica. L’attuale crisi di quella costruzione (Armando 1997 e Armando 2000) permette di cominciare a pensare che forse quello che egli, sul suggerimento del mito biblico, ha chiamato “desiderio”, e che così, su suo suggerimento, chiamano e intendono altri, non è desiderio, è qualcosa d’altro cui conviene perciò dare, ed è stato dato (Fagioli 1972), un altro nome, ad esempio “bramosia”; che forse questa non è originaria, non è il primo atto di un’impossibile ed impensabile costruzione di un soggetto; che forse bisogna pensare un passaggio dal desiderio alla bramosia. La storia può orientaci su questo passaggio e sulla possibilità della sua revisione. In una prospettiva che implica quella di tale revisione, diversi autori, il più noto dei quali è S. Todorov (1984) si sono rivolti «allo spazio della prima modernità», al momento della «scoperta delle Americhe: una pagina di comunicazione potere, di conquista assimilazione (…). Una brutta pagina che ha condizionato tutta la storia dell’occidente moderno di cui [quella storia] è oggi chiamata a pagare i costi contratti nella distruzione di antiche civiltà, di guerre di religione, di caccia al diverso, di eccidi ed inquisizioni, di gulag e olocausti che per cinque secoli di modernità hanno bagnato di sangue il pianeta» (Semeraro 2002 p.12). All’inizio della storia dell’occidente moderno non ci furono però solo scoperte che divennero istantaneamente conquiste, incontri con altri diversi possibili oggetti di desiderio immediatamente annullati-mangiati, ci fu anche Leonardo con il suo temerario desiderio di rappresentare il non finito, di dare forma a ciò che non si vede e che non ha forma, ci fu Machiavelli. In un passo de Il principe si incontra una metafora, quella degli arcieri prudenti: «Debbe uno uomo prudente (…) fare come gli arcieri prudenti, a’quali parendo el luogo dove desegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco,
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Allora perché si parla di donne e di pastasciutta come se potessero essere oggetti di un identico movimento pur sapendo per certo che non è così? Perché, nel libro citato, anziché costruire, o anche solo appoggiare, un discorso su un dato certo, lo si costruisce o appoggia su un dato di cui si ha la certezza che è tutt’altro che certo? Le difficoltà che oggi si oppongono alla distinzione tra ciò che può e ciò che non può essere chiamato desiderio, allo sviluppo del nesso tra desiderare conoscere e vedere, alla revisione del passaggio dal desiderare conoscere vedere al desiderare mangiare morire, non sono le stesse che determinarono quel passaggio. Sono in grande misura interdizioni poste da abitudini di pensiero, presupposti mentali sorti e accreditatisi negli anni della sepoltura, e che ora impediscono la ricerca pur avvertita come necessaria. Abituati a pensare il desiderio nei termini in cui veniva pensato quando era sepolto, lo si vorrebbe disseppellire con gli stessi concetti che lo avevano sepolto, confuso con altro e reso assente. Ciò che oggi rende impossibile svolgere il pensiero aristotelico di una conoscenza del desiderio sono le ideologie. Sono, non dirò i cattivi maestri, preferisco dire i maestri obsoleti, quelli di un tempo, quelli che, avendo seguito percorsi impraticabili, ci arricchiscono della conoscenza di tale impraticabilità e non lasciano altra scelta che cercare altrove. Gli eroi caduti di una guerra che altri debbono vincere per loro, nonostante loro. Sono Heidegger e Lacan in quanto ci dicono che il nulla è l’essere, l’oggetto e la fonte; Nietzsche in quanto, prima che altri suggerissero l’identità di donne e pastasciutta, invece di abbracciare una donna abbracciò un cavallo; Foucault in quanto ci dice che l’altro è qualsiasi cosa, il folle e l’artista, l’omosessuale e la donna per l’uomo o l’uomo per la donna, il drogato e lo straniero; Marcuse e con lui Deleuze, Guattari e gli ideologi del’68 con la loro idealizzazione di una licenziosità che non ha garantito né fantasia né desiderio; forse Marx per il suo troppo limitato e troppo borghese concetto del proletariato. Ma senz’altro e soprattutto Freud in quanto ha scritto che non solo il desiderio, ma il primo desiderio, è mordere e mangiare, che poi diventa violentare e uccidere, che la sessualità è al fondo solo lo strumento di un istinto di morte come coazione a ripetere nella prospettiva del ritorno all’acquietante normalità del nulla (Freud 1919).
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re, di conoscere, di vedere. Scorgiamo nel segreto del vetro color rubino l’oggetto di un desiderio che non può essere perseguito con il senso della vista. Ci colpisce in questa storia il nesso che si stabilisce nella mente del giovane proprietario della vetreria tra il vetro rubino e la giovane donna. Possiamo intendere che il segreto del vetro rubino è il segreto della bellezza e del movimento della giovane donna, il suo contenuto nascosto di vitalità; ma è qui più importante sottolineare il passaggio, che rende pazza quella mente, dal desiderio che ha per oggetto quel segreto a qualcosa di completamente diverso che crede di potersi soddisfare sopprimendo quel contenuto e rivolgendosi positivisticamente a qualcosa che può essere guardato e illusoriamente posseduto. Infine la conclusione: se non è vero che conoscere sia guardare possedere, non è neppure vero che sia solo contemplare la tragedia che segue ogni tentativo di conoscenza dell’oggetto del desiderio. Chi desidera il conoscere vedere non può essere accostato al pazzo e chiuso nella sua stessa prigione. L’immagine degli uomini che affrontano il mare aperto alla ricerca di una conoscenza che permetta di riconoscere l’oggetto del desiderio, che non visto confonde la donna con la pastasciutta, ovvero vede il corpo come oggetto da uccidere e sa concepire solo il sangue come suo contenuto, ha il senso di una sfida epica alla nota immagine kantiana dell’oceano tempestoso impossibile da varcare che suggella la certezza dell’imprescindibilità della scissione tra desiderio e conoscenza e l’impossibilità di una conoscenza del desiderio. Un’immagine, quella del film, che ben dice della possibilità della revisione del passaggio che rende perduto l’Aristotele della prima riga della Metafisica, che porta dal desiderio alla bramosia. 7. È una revisione non solo non impossibile, ma anche necessaria e non solo a fronte dei problemi posti dalla società della globalizzazione e del virtuale all’integrità del soggetto, ma anche per altri cui voglio accennare nel concludere questa breve nota, sollecitato a ciò da un recente drammatico episodio in rapporto al quale è comparsa la parola “desiderio”. Nel messaggio con cui un gruppo di integralisti islamici rivendicava e motivava l’attentato compiuto a Madrid l’11 maggio 2004, spiccava una frase: «Voi desiderate la vita, noi desideriamo la morte».
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pongono la mira assai più alta che el luogo destinato, non per aggiungere con la lor freccia a tanta altezza, ma per poter con l’aiuto di si alta mira pervenire al disegno loro». La metafora degli arcieri, momento di un più ampio discorso sulla formazione della mente come formazione al rapporto con il nuovo, ci dice anch’essa di un nesso tra desiderare, conoscere e un vedere che non è guardare, e di un soggetto sostanziato da un “disegno suo”, da un’immagine interna che stabilisce un rapporto esatto con la realtà (Armando 2004). Ciò che «ha condizionato tutta la storia dell’occidente moderno» non è allora la conquista, ma un passaggio, un’inconscia scelta. La certezza degli arcieri di Machiavelli parve forse troppo sovversiva, forse troppo difficile e precaria, e fu violentemente avversata ed accantonata. Nondimeno essa resta a dire di un inizio sul quale la revisione di quel passaggio può orientarsi e che può riprendere e svolgere. Un film di W. Herzog, Cuore di vetro, richiama i temi del passaggio dal conoscere, vedere, desiderare al guardare, bramare, distruggere e della sua revisione possibile. Esso racconta di quanto accade in un piccolo villaggio della Baviera preindustriale la cui unica fonte di sussistenza era una vetreria di proprietà di un nobile signore paralitico e del suo giovane figlio. È morto un maestro vetraio, portando con sé nella tomba il segreto della fabbricazione del vetro rosso rubino. La ricerca della sua formula da parte del giovane padrone preoccupato per la sussistenza e bramoso di guadagni si perde nell’illusione positivistica ed orribile che il suo segreto stia nascosto nel rosso sangue nascosto nel corpo di una giovane e bella fanciulla e la uccide per conoscerlo. Tra gli abitanti del villaggio si distingue un mandriano, Hias, un visionario. Egli prevede tutto quanto si avvererà fra poco, dall’uccisione della fanciulla all’incendio della vetreria provocato dalla follia del giovane signore. Le sue apocalittiche profezie risultano minacciose per tutti tanto che, accusato di portare il male e non solo di prevederlo, verrà rinchiuso in carcere con il giovane pazzo. Egli però riuscirà ad evadere e a tornare sulle sue montagne ove avrà un’altra visione: quella di alcuni uomini che, dubitando di una conoscenza che, fondandosi su ciò che si può guardare, dice che la terra è piatta, si avventurano su una fragile barchetta nel mare tempestoso alla ricerca di un’altra conoscenza. È un altro mito, questa volta moderno. Esso ci parla di desidera-
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Questa frase, destinata anch’essa a restare indelebile in chi l’ha incontrata, contiene anch’essa una sfida agli sviluppi del pensiero occidentale successivi all’incipit aristotelico; non a caso essa ha fortemente colpito l’attenzione di molti provocando una diffusa reazione di esecrazione e scandalo: solo cuori evidentemente barbari possono parlare di desiderio di morte. Solo loro? Non dicono essi forse ciò che abbiamo pensato, teorizzato e insegnato quando è stato detto che desiderare è uccidere, che si accompagna con uccidere e morire e quando è stato detto che morire ci salva da un desiderio che è uccidere e morire? Le parole che Kant, il maggior teorico dell’estraniazione della conoscenza dal desiderare e dal vedere, scrisse in occasione della morte di un giovane potrebbero ben figurare come estremo saluto a un martire della Jhiad: «Questo fortunato, che una morte prematura ha portato via con sé in un momento felice, é così sfuggito a tutte le tentazioni che cominciavano già a presentarsi per corrompere una virtù non ancora infiacchita ed a tutte le miserie e delusioni che minacciavano il suo avvenire» (Kant 1760). Può l’occidente moderno affrontare le minacce che incombono su di lui dall’interno e dall’esterno senza rivedere una storia di teorie e di linguaggi che fa la presenza in lui di una confusione sul desiderio che, riflessa nei suoi oppositori, anima le loro azioni e in esse si esprime? Come gli arcieri prudenti di Machiavelli, i protagonisti di oggi di tale storia sembrano non avere altra scelta che quella di “mirare alto”.
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Secoli di pensiero, non hanno esaurito –e neanche sufficientemente trovato– la giusta chiave di lettura per semplici ed inquietanti interrogativi.Sono le piccole e silenziose onde ad erodere i più forti massi, con un “fare” continuo, costante, persino “invisibile” nell’attimo, sconcertante nel tempo. È il tempo poi che s’incarica di creare la “dimora” di un pensiero, a cambiarlo e modellarlo nel flusso attivo del “movimento”. È dal sanscrito vanah (desiderio) che prende nome Venere, madre della bellezza, sovrana indiscussa della grazia, “generatrice” di desiderio. La bellezza crea desiderio, l’amore induce al desiderio nelle sue forme più svariate, bramosia, eros, cupidigia, sogno. È la radice wen a racchiudere il “desiderare”. Gli assiri avevano un verbo: erasu (to desire) corrispondente al greco eraomai, (desidero, amo). L’accadico eresu (desire, wish, eros) evolve il significato fino ad arrivare ad eristu ( wish - object of desire), vero e proprio oggetto del desiderio (G.Semerano, 19841994). Tante analogie, piccoli legami di senso, suggerimenti nascosti in lingue lontane. Qui ha origine il desiderio. “Piccolissimo e potentissimo dominatore” direbbe Gorgia, che nel corso del tempo, prendendo tempo, ha dilatato o ridotto lo stesso, giocandoci, servendosene, adattandosi, venendone –ovviamente– modificato. Dall’aura incantata della mitologia agli infidi e persuasivi meccanismi della società del desiderio, dove tutto –o quasi– è strumento, ed è strumentalizzato. Dove nulla è per caso, neanche un silenzio. Il desiderio signoreggia tra pubblicità e filosofia, letteratura e mercato, globalizzazione ed etnie. Diventa mito, rito, dono, comunicazione, illusione, seduzione, manipolazione, sempre e comunque storia, la nostra storia, racconto, narrazione di soggetti desideranti e dei loro oggetti desiderati, continua osmosi, “silenziosa erosione”, ma cosa si distrugge? Cosa si trasforma?
radici classiche Posto che non esista un oggetto identificabile col termine desiderio, uno e uno solo,ritroviamo frammenti di significato nell’etimologia del termine. La latinità, concreta ed empirica, parla di un allontanamento dalle stelle (de-sidera), che disorienta e confonde marinai in viaggio verso la propria meta. Più mitologica la radice greca. Presenza di penìa e pòros in ìmeros, –come risulta dal celebre discorso di Diotima nel Simposio (202a sgg.), perfetta armonia di assenza e pienezza, tensione costante, energia in movimento. La mancanza, l’insufficienza d’essere –caratteristica essenziale della condizione umana–, è il suo tratto distintivo. Si desidera sempre qualcosa che non si ha o qualcosa che non c’è, ma che vive in qualche parte del nostro preconscio-inconscio e diventa bisogno, necessità. Desiderio, anche, di qualcosa che non ho più, mancanza che vive nel ricordo e nel sentimento di nostalgia Ciò che cerco, col desiderio, è essenzialmente Altro, perché tale, diverso da me, altro da me; ciò che-di me-mi manca, nota di disgiunzione fra ciò che sono e non sono (ma vorrei essere). Il processo innescato dal desiderio ha una dimensione progettuale, la tensione a un fine, una spinta alla realizzazione, un percorso che va dalla privazione alla pienezza (G. Berto 2003, p. 44). Il desiderio è sempre e comunque un salto. Non riguarda mai le cose come sono, ma solo come non sono. È l’esperienza dell’incompiutezza che sollecita nel desiderante la possibilità di desiderare: una mancanza che va colmata, un vuoto che deve essere riempito, ristabilendo una condizione di pienezza perduta oppure ancora mai raggiunta. Entrano in gioco i miei personaggi, punto di riferimento e confronto costante nell’analisi del concetto. Che tipo di assenza si ritrova in Faust, e quale nel Don Giovanni? Il Dottor Faust manca dello scire assoluto, nella sua totalità; quel tipo di conoscenza che consente di essere “padrone del mondo”, vera e proprio libido del sapere (Dumouliè 2002, p. 82). Faust ricerca il sapere per realizzare il suo sogno di “onnipotenza”, per “essere del mondo Imperatore” ed eguagliarsi a Dio. Malgrado i servigi resigli da Mefistofele, nulla riesce a “saziare l’ardore del suo profondo desiderio” verrà perciò dannato per l’eternità, incapace di pentirsi.
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bisogno/piacere/godimento Il desiderio mette in gioco la volontà. Figlia della volontà è la scelta. Ma ogni scelta è anche una rinuncia. Faust sceglie di desiderare, perché non ha bisogno di tutto il sapere per vivere, ma desidera d’aver bisogno di tutto lo scibile per poter morire. Faust sceglie di morire. È consapevole sin dall’inizio del patto che lo lega a Mefistofele, ma il desiderio diventa bisogno spasmodico, viscerale, fisico, e porta alla distruzione. Discorso analogo per Don Giovanni. Il desiderio del piacere diventa bisogno femminile, da catturare, soggiogare per poi abbandonare. È la dinamica del seduttore. Vi è una contrapposizione di valore fra desiderio e bisogno –in cui il secondo sarebbe autentico perché materiale e il primo superfluo perché culturale–. Il vuoto del desiderio è incolmabile, perché nasce da sé senza cause e necessità: per questo produttivo, creativo, infinitamente aperto al futuro. Il bisogno, poiché rimediabile, chiede di essere soddisfatto, e ne ha diritto. Il bisogno ha fretta, è urgente. Concavo e convesso, eccedente e mancante, esposto ed incolmabile; per questo senza diritto. Si conserva e cresce proprio per la sua insoddisfacibilità; godimento dell’inesauribile. Non basteranno tutto il sapere e l’amore delle donne esistenti a placare gli animi insaziabili dei due eroi tragici. È uno sguardo verticale a dare spessore ai desideri di Faust e Don Giovanni. Mirano alle stelle attraverso un desiderio che può definirsi “passivo” in quanto si dirige verso l’annullamento di chi
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lo prova, verso l’uscita da sé (ek-stasis), la depersonalizzazione, nella forma del perdersi o dell’identificarsi col proprio Oggetto. Don Giovanni è un eroe del desiderio perché non si ferma ai limiti né del piacere né del possesso degli oggetti desiderabili. Egli è animato, al contrario, da una volontà di godimento che lo obbliga a una fatale trasgressione della legge. Supera il piacere agendo in termini che vanno al di là della proprietà dei beni, e si muove nella dimensione dell’esproprio e dello spreco: l’eccesso, la “dépense” di Bataille, esperienza del desiderio come eccesso. L’eroe è consapevole, tuttavia, che ciò che lo aspetta è “la più crudele delle rovine” e la più amara delle gioie. Il desiderio, infatti, è vissuto come sacrificio, per lui e per le donne. La morte volontaria che incontrerà, allo stesso modo di Faust, è nata dall’unione del sacrificio e del limite, frontiera della Cosa. Tra l’estasi sognata di un “eterno aldilà del desiderio” e quella “angoscia segreta che serpeggia in ogni voluttà”, non c’è altro tempo se non quello di una sincope (Dumouliè 2002, p. 237). È il Don Giovanni di Lenau ad obbedire ad un’autentica etica del desiderio, che rasenta il mistico. Ma il desiderio del protagonista si spegne all’improvviso, perciò Don Giovanni decide di morire. Di questo scacco finale Lenau dà un’interpretazione romantica: Don Giovanni ha scoperto in Anna l’amore ideale, ma non può possederla senza insozzarla, né realizzare il suo ultimo sogno sacrificale, che, abbracciando il corpo di Anna, equivarrebbe a “distruggerlo divinizzandolo e morire in quell’abbraccio identificando(si) con lei”. Ciò che rende ancor più desiderabile il godimento è la sua prossimità. È poco lontano da me, per questo mi manca di più. Conoscendo sempre più, Faust gode, ma il limite del raggiungibile avanza di volta in volta più in là. Possedendo più donne Don Giovanni gode soprattutto nel tentativo di raggiungerle, non quando ormai le ha raggiunte. Desideriamo sempre più siffatto desiderio proprio per questa sua assenza vicina, così ingombrante che non ci permette mai di scordarlo. È presente come ideale, giacchè ci manca e lo desideriamo. Ideale è essere rappresentato come desiderabile. L’ideale ha una sua visibilità intrinseca ( il verbo greco eidein significa, appunto, vedere). Don Giovanni e Faust desiderano il raggiungimento dell’ideale –che nella loro mente hanno già visualizzato– per riuscire ad ottenere un piacere eterno del godimento. Bisogno, desiderio, piacere, godi-
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Don Giovanni non manca di nulla in realtà, o forse manca di tutte le donne contemporaneamente. L’assenza che detesta, e che lo invade, è assenza di piacere allo stato puro. Assenza, tuttavia, mai del tutto colmata, ma che lo illude di momentanea sazietà all’interno del gioco (in lusio), “gioco che gioca” all’infinito per paura di uscirne e restare deluso. L’assoluto di cui Don Giovanni necessita, è dato dalla sensualità sola, in ogni donna particolare, verso la femminilità universale. Faust e Don Giovanni cercano di colmare l’incolmabile. Se il primo, però, gioca tutto vendendo l’anima, il secondo –nel suo dimenarsi di piacere in piacere– la perde di volta in volta. Entrambi, quando ormai è troppo tardi, si accorgono dell’errore commesso, incapaci –però– di porvi rimedio. L’assenza è il motore.
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etica/colpa/pedagogia Al piacere segue spesso la colpa, nella tradizione cristiana, perché il piacere, essendo ora, distrae dall’altro mondo (1 Pietro 2,11; Matteo 24,43). Il senso di colpa stringe Faust e Don Giovanni quando ormai è troppo tardi per potersi redimere. Faust rivendica la libertà dell’uomo e la rivolta della creatura contro il creatore. Per quanto Goethe lo salvi in virtù dell’amore, Faust vive il suo tormento e la sua punizione nella sua avventura diabolica, perché è la violenza stessa del desiderio, di per sé, un tormento e una punizione.
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Più del personaggio di Marlowe, il quale si compiaceva dei piaceri grossolani, quello di Goethe è consapevole del carattere disumano del proprio desiderio –avverte la colpa– e di come il desiderio dell’uomo, contrariamente al desiderio dell’Essere, conduca al di là del principio di piacere. Qual è la colpa, dunque? Ancora una volta il godimento. La follia di Faust, che il diavolo non comprende, è quella del desiderio dell’uomo vissuto con l’eroica determinazione di chi deve infrangere i limiti dell’umano per essere uomo, e realizzare un atto contro natura per rispondere alla natura del suo desiderio. La tragedia del desiderio faustiano si congiunge così con quella del desiderio edipico, che la psicoanalisi sostiene essere il fondamento del desiderio dell’uomo. Una pagina di Nietzsche associa, attorno alla figura di Edipo, i tre aspetti del desiderio trasgressivo: del potere (Edipo è un tiranno che ha ucciso il padre), del sapere (ha risolto l’enigma della Sfinge), del piacere (ha commesso la trasgressione sessuale per eccellenza, l’incesto). Tutto consiste in una “mostruosa trasgressione della natura” da parte di colui che vuole violarne i segreti e sottometterla a sé. “La sapienza è un delitto contro la natura”, ecco la lezione della tragedia di Edipo, ma anche il cuore della tragedia faustiana. Solo il miracolo dell’amore e il patto col diavolo, garantito dalla parola divina, hanno salvato il Faust di Goethe da tale dissoluzione. (Dumouliè 2002, p. 85). Il discorso della colpa assume un significato diverso con Don Giovanni. Con la sua analisi del mito di Don Giovanni, Kierkegaard fu uno dei primi a fare entrare il desiderio dell’uomo nella storia della filosofia. E i suoi “stadi erotici immediati” costituiscono la prima dialettica antiplatonica del desiderio, in quanto retta da quello che l’idealismo platonico elimina come un immondo rifiuto: il rapporto del desiderio con il suo oggetto. Colpa nei confronti dell’oggetto, colpa a causa dell’oggetto, colpa attraverso l’oggetto. Quella “spontaneità” di cui parla Kierkegaard può essere espressa
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mento, declinazioni diverse di una stessa situazione di partenza. La mancanza, come sapeva Socrate, è condizione del desiderio. Desiderio e piacere sono il punto d’attacco del soggetto nella realtà. Immaginiamo per un solo istante un Faust che non riesca a “sapere”, per un contrattempo con Mefistofele; o un Don Giovanni che fosse rifiutato da una delle sue innumerevoli vittime e perciò non “godesse”. Non ci sarebbe storia. Il desiderio ha sempre delle aspettative, spesso indotte. Spesso accade che si provi desiderio di qualcosa o qualcuno, perché vediamo il piacere degli altri nell’averlo. Il piacere è contagioso, per via del potente meccanismo dell’invidia. Don Giovanni desidera le donne desiderate da altri. È l’invidia a spingerlo, ed è talmente forte da giustificarne i comportamenti moralmente condannabili. Faust legge, probabilmente, negli occhi dell’intellighentia elisabettiana, quel piacere che il sapere, come conoscenza, regala a chi lo possiede seppur in minima parte. Da qui l’avidità nel volerlo racchiudere tutto. Un piacere all’ennesima potenza: godimento. Che ruolo ha la libertà in tutto questo? Faust è libero di desiderare, è libero di provar piacere, muore per il godimento. Don Giovanni parte già da una condizione di svantaggio “desiderando la donna d’altri”. Egli oltrepassa i confini della legge sin dall’inizio il suo desiderio, il suo piacere e il suo godimento sono un progressivo condannarsi. È la libertà illimitata a negare il valore stesso della libertà medesima. Don Giovanni pecca di selettività nel desiderio. È, il suo, un desiderio sbagliato alla radice. Don Giovanni gioca, vive la sua vita con la capacità di agire secondo desiderio, ma resta vittima dello stesso. Esiste dunque un lato negativo del desiderio.
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per il fatto che tu lo desideri). Don Giovanni ama con l’inganno donne che sono amate da altri: è proprio in questa trasgressione il “gusto” patologico del suo desiderio. Oppure desidera essere desiderato dalle donne d’altri, solo per il fatto che non desiderano lui, ma altri. In questo modo il desiderio viene ancor più rafforzato. Il desiderio esige la verità della sua rappresentazione (Volli 2002, p. 148). Faust vuole la verità dal sapere rappresentato. Don Giovanni il vero godimento in molteplici rappresentazioni. La loro verità deve essere credibile e, soprattutto, desiderabile. Godono entrambi di una fama riconosciuta. Essi non credono di pensare o di fare –atteggiamento ricorrente nel regno della doxa– bensì credono e, di conseguenza, fanno. Il loro desiderio esige di realizzarsi, l’onnipotenza del desiderio agisce in ogni momento e fra le sue condizioni vi è quella di rifiutare qualunque prezzo. La realizzazione del desiderio, perché si possa dire tale, deve essere –o almeno apparire– gratuita. La logica del desiderio è intollerante di contrattazioni e contraccambi. (Volli 2002, p. 154) Se Faust e Don Giovanni si fossero fermati al desiderio, probabilmente questo discorso sarebbe valso anche per loro. Lo scarto è nel superamento del desiderio, che con il godimento perde la sua gratuità, divenendo baratto. Faust vende l’anima, Don Giovanni –anche se non ufficialmente– è consapevole di aver volontariamente venduto la vita.
tempo/durata Il desiderio ha una sua temporalità, una dimensione narrativa. Si tende a pensare che ogni desiderio sia desiderio di una cosa. Desiderare, in sostanza, significherebbe possedere qualcosa, o al massimo volerla assimilare. Ma il pensiero oggettivante del desiderio non convince. Ogni desiderio, in realtà, e desiderio per una storia, ogni storia –difatti– è definita da desideri e dal conflitto che essi innescano fra loro e coi fatti. Il desiderio è sempre riferito implicitamente a una storia, dove per lo più il soggetto dell’enunciazione (del desiderio) è anche il soggetto dell’enunciato. Desiderare è innanzi tutto raccontare una bella storia su di sé; in particolare è volere che ci accadano certe cose, in un certo ordine, secondo una certa logica (Volli 2002, p. 159). Un desiderio è una narrazione, è una trasformazione narrativa.
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solo dalla musica. E Kierkegaard trova in Mozart il prototipo musicale che incarna ogni singolo stadio. Il primo stadio è rappresentato dal paggio de Le nozze di Figaro, Cherubino. Egli è il “desiderio sognante”, ancora unito al suo oggetto. Il secondo stadio è determinato, ne Il flauto magico, da Papageno. Questi è a sua volta il “desiderio cercante”, che, risvegliato dal suo sogno, scopre la separazione dall’oggetto e lo cerca, ansante, nella moltitudine di oggetti che gli si offre.Il terzo stadio, che unisce i due precedenti, è infine rappresentato da Don Giovanni. Questo desiderio, che “ha trovato il suo oggetto assoluto e lo desidera in maniera assoluta”, –l’assoluto è già una colpa perché dimensione del godimento– questo desiderio “vero, vittorioso, trionfante, irresistibile e demoniaco” è, per Kierkegaard, il “desiderio desiderante”. Nella misura in cui “il suo oggetto è la sensualità, ed essa sola”, esso non poteva che nascere dal cristianesimo, erede dell’assolutezza di tale principio. E in quanto è assoluto, esso desidera, in ogni donna particolare, la femminilità universale. Il daimon pagano precipita nell’inferno cristiano della demonizzazione del desiderio. Don Juan Tenorio ha tutto per piacere: è giovane, seducente, intrepido e allegro. Rappresenta l’uomo barocco nel suo splendore e nella sua incostanza, in una parola, nel suo genio.. Individuo anonimo, si presenta come “un uomo senza nome”, penetra dovunque e prende il posto di qualsiasi amante, salta dai balconi più alti senza nemmeno farsi un graffio, quasi avesse le ali, e si ride di tutte le armi umane. La pièce di Tirso da Molina funziona anche come una specie di sermone sulla grazia: Don Juan ha troppo preteso –ecco la colpa– dalla grazia divina e subisce la sorte del peccatore incallito. È ancora difficile trovare una via di mezzo nella società del desiderio, che è essenzialmente la società della doxa: opinione, come desiderio virtuale, come primato della rappresentazione sulla discussione, come regola dell’agire collettivo. Il desiderio è sintetizzato in una tautologia: vuole ciò che vuole –non quel che dovrebbe volere–. Il desiderio di Faust, come quello di Don Giovanni, chiede la sua soddisfazione e non ne accetta alcuna altra. Non esistono opinioni che allontanino i due protagonisti dal perseverare nel conseguimento del loro desiderio. Non accettano un temperamento del desiderio, né alcun tipo di compromesso o regola. Più che altro ritrovo nel desiderio dei due una sfumatura mimetica o riflessiva. Io desidero il tuo desiderio (ciò che tu desideri, solo
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Fermare il tempo, per quanto impossibile, non avrebbe senso, perché l’istante gelato, per quanto “tanto”, sarebbe sempre troppo poco rispetto a quanto altro potrebbero. I due eroi non guardano al passato, almeno fino alla fine. Il passato si può costituire nei termini del rimpianto, come consapevolezza che il cambiamento del mondo è irrevocabile e le sue conseguenze sono diverse da quel che si desiderava. Ma i protagonisti non vogliono un ritorno al passato quanto una somma dei tempi, una durata infinita, un’eternità fuori dal tempo umano.
amore/ seduzione Se l’amore di Faust è rivolto al sapere dal quale è sedotto, Don Giovanni incarna nella sua figura l’immagine del desiderio amoroso. Ma in modo del tutto singolare. Si desidera ciò che dà senso: ciò che dà senso è quel che si desidera, anche se tutto questo, a volte, può sembrare senza senso! Mi domando allora cosa possa esser mancato, in realtà, a Don Giovanni e Faust per desiderare l’eccesso. Il sapere e il piacere a cosa hanno dato senso? Autostima, affermazione, probabilmente erano solo soggetti insicuri, incapaci di credere in ciò che volevano. Poiché l’eccesso li ha portati ad essere altro da quel che erano. Per “restaurare” un’unità, bisogna che essa ci sia stata prima, sia andata in qualche modo perduta e ora si riesca a ricrearla. Cos’erano, dunque, prima? L’amore, come il desiderio, è narrazione, prima che rapporto con un oggetto. In questa narrazione si può, se si vuole, “portar via”, “condurre altrove”: sedurre. Don Giovanni porta con sé altro altrove. Il gesto “normale” di appropriazione sarebbe di trarre a me chi amo, di ricomprenderlo dove sono, di “mangiarlo” (ritornano i bacimorsi di Penthesilea). La novità della seduzione, la sua genialità, consiste nell’inventare un altrove che è tale tanto rispetto al seduttore che al sedotto: la novità, però, si consuma presto e alla seduzione segue spesso la delusione. L’altrove della seduzione è un’utopia che si finge accessibile: esso è l’immagine dello spazio dell’attesa: la soglia. Né dentro né fuori. Guardare il riflesso dell’interno, indovinando una presenza che non si presenta. Essere fuori senza potersi allontanare. Le soglie disegnano contorni, ma non permettono di definire (Volli 2002, p. 176). Ogni seduzione dipende da un
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Il desiderio è sempre nel tempo. Il desiderio è temporale e il tempo stesso si lega al desiderio. Il tempo vissuto (la “durata” di Bergson) è costituito dal desiderio, ed è questo rapporto col desiderio che dà durate diverse alla fame, alla sete, all’amore, alla lontananza, oppure all’assenza di tutto ciò, alla noia che rende insopportabile il tempo uniforme e matematico. Il tempo ha senso per il fatto di separarci dalla realizzazione, o dalla delusione, di un desiderio. Non è la realizzazione del desiderio a dare spessore ed importanza alla temporalità dello stesso. Quel che si desidera non è l’avvenuta soddisfazione del desiderio, ma la durata, il tempo in cui il desiderio si realizza. Nella durata vive e gode il desiderio. La costruzione dell’attesa, la dilatazione del tempo, è il desiderio che crea il tempo. La distanza tra il soggetto e l’oggetto di desiderio determina il tempo dell’inseguimento, quello “star dietro” che si estende fino a che ciò che si desidera, si cattura, quindi si ha. “Ma non siamo noi a correre con il tempo (…) bensì è il tempo che corre con noi. Una volta che l’oggetto di cui si ha bisogno è raggiunto, il tempo cessa di scorrere: il bambino soddisfatto dorme ed è –fuori del tempo–. “Per chi è felice il tempo non c’è.” (G. Anders in AA.VV. 1998, p. 36). Il godimento di Don Giovanni si consuma nel continuo rincorrere, catturare, possedere e abbandonare la donna prescelta. Non gioisce una volta che l’abbia avuta. Il punto d’arrivo coincide con un nuovo inizio. Archè e tèlos, alfa e omega di un gioco senza fine, un tempo di sola “durata”, in cui i momenti “in coppia” sono solo pause nell’eterna sfida dell’eroe. Il gusto è nell’attesa, nella conquista. Il raggiungimento è la fine del gioco. La fine del gioco è la morte. Don Giovanni sfida la morte per una conquista eterna, per un eccesso continuo, per il semplice godimento. Ed è il tempo impiegato a conoscere tutto lo scibile esistente a colorare di vita il desiderio di Faust. Il tempo di Faust è imprigionato in una clessidra. Più conosco, meno tempo mi resta. Un sapere in più, un granello di sabbia in meno. La durata in Faust è inversamente proporzionale. Godo nell’imparare, non nel sapere, perché quando so, muoio. Don Giovanni e Faust lottano contro il tempo. Il momento è loro complice, l’attimo nella sua istantaneità. È una forbice che si chiude, e loro ci sono dentro. Isolarsi nel cambiamento è impresa disperante.
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cazione, prendendosi cura dell’altro. Don Juan consacra le sue energie nell’attimo, prendendosi gioco dell’altro. Oserei dire che risenta di una vena narcisistica che sfocia in un inappagabile desiderio di sé, –o più correttamente– desiderio di una conferma di sé, attraverso il confronto con gli altri. Il seduttore è già sempre a sua volta sedotto, poiché nella sua passione almeno vi è una sincerità momentanea ma divorante, Don Giovanni ha certamente qualcosa di eroico, capace com’è di vedere la bellezza dappertutto e di farsene sempre trascinare: folle d’amore. La parola è il suo strumento d’azione: “Andiam!”. Chiamata diretta del sesso, sex appeal.
struttura multipla del desiderio Desiderio d’altri, desiderio del desiderio altrui, desiderio d’essere desiderati. Non vi è nulla di più desiderabile del desiderio. Il desiderio scopre in se stesso il bisogno d’astuzia e da immediato si fa strategico (Freud 1929; Marcuse 1954). Stabilisce obiettivi intermedi e “rende ogni desiderio la tappa di un altro desiderio successivo” (Hobbes 1651,I,11). La strategia del desiderio non può, di solito, raggiungere semplicemente il suo scopo se non sminuzzando la distanza. È un pensiero a “cipolla”, afferma Volli. Si decompone strato per strato. Si pensa così a una macchina del desiderio che aiuta a far conoscere i gesti possibili che portano più vicino a quel che si vuole. La fuga, l’assenza, l’intuizione del desiderio altrui, conoscerlo, vederlo dentro l’altro senza essere visti. Di centrale importanza è il conoscersi, il conoscere se stessi che consente di vedersi attraverso l’altro, vedersi nell’altro, vedersi come altro (Ricoeur 1990). Il principio secondo cui il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro richiama all’idea che il desiderio è essenzialmente una forma di gelosia. La prospettiva socio-psicologica di Renè Girard per spiegare gli smarrimenti del desiderio, si regge su una tesi molto semplice: il desiderio è violenza, e la violenza è il sacro. Ritrovo Don Giovanni nella dinamica di un Io desiderante, un Io Mancante, carente, nell’eterna ricerca di un oggetto con cui realizzarsi (o meglio e più tragicamente: attraverso la cui distruzione realizzarsi). Un Io che non riesce mai a esaurire il suo desiderio, che trova lo scacco proprio nella sua realizzazione. È nella distru-
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desiderio. Il seduttore è colui che sa vedere e creare un valore dove altri non lo vedono. Don Giovanni nutre, però, desiderio –e quindi vede valore– nello stesso modo in ogni donna. La sua “arte” di seduzione non è completa, perché non guarda davvero l’altro in faccia, non lo riguarda, ignora la sua trascendenza. L’altrove dei seduttori è un al di là del tempo, una promessa di ricompensa (Don Giovanni assicura a Zerlina: “muterò tuo stato…”). Faust porta a sé (sui-ducere) il sapere perché sedotto dallo stesso. Un gioco strano, una doppia seduzione che si ritorce contro, trasformando il soggetto desiderante in vittima del suo stesso desiderio seducente, dal quale resta irrimediabilmente sedotto fino ad esserne annullato. Diverso il discorso con i due seduttori per antonomasia, Casanova e don Juan, che giocano ruoli diversi nell’esercitare il loro potere persuasivo. Casanova “ama delle donne il piacere che dona a ciascuna. Non è un seduttore strategico; non pianifica e non calcola. Tecniche e segreti della sua capacità di sedurre sono nel suo stesso piacere. Vive nell’istante ed è completamente asservito dalle sue pulsioni che non è in grado di contenere. Seduce donandosi senza riserve; non ha che da lasciarsi andare alle sue febbri passionali ed esse lavoreranno per lui. Le donne si lasciano possedere perché sanno di essere loro a possederlo. Don Giovanni è l’alter ego, quello demoniaco. È un seduttore che trova piacere nella serialità ripetitiva. Per lui l’accesso al femminile rappresenta l’avventura della conquista. Egli dimostra più interesse per quelle donne che oppongono resistenza alle sue avances ripetute, e avanza di vittoria in vittoria senza mai farsi coinvolgere. Non stabilisce relazioni intime con nessuna, e rende a ciascuna gli omaggi e i tributi di cui la natura fa obbligo. Se Casanova si dona, don Juan prende ciò che nelle donne è più prezioso: il loro onore. Non può essere fedele a nessuna, perché ciò comporterebbe una consegna delle armi. Le donne sono il nemico e lo strumento del peccato. Al contrario di Casanova, don Juan preferisce la seduzione alle donne. Il suo trofeo è la conquista, e una volta raggiunto il suo scopo migra per altri lidi. Vìola ogni promessa, è bugiardo e spergiuro. Rappresenta perciò l’incostanza, colui che è sempre in movimento e non si ferma innanzi ad alcun diniego. (Semeraro 2002, p. 52). Casanova è più umano, fa entrare l’altro nel suo gioco, mentre don Juan “gioca il gioco” per se stesso. Casanova sa prender tempo, guarda alla durata della comuni-
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Riconoscersi come soggetto desiderante comporta una doppia meta: il raggiungimento intimistico di un appagamento per l’incompletezza riscontrata nel soggetto desiderante –perciò mancante–, e un secondo arrivo, rappresentato dal movimento continuo di “inclusione” d’altro proveniente dalla tensione verso l’altro. Osmosi d’interno ed esterno per un piacere-bene (soggettivo-collettivo) che sovverte la staticità dell’”accontentarsi”, verso e attraverso l’alterità e il cambiamento.
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La conoscenza, oltre ad essere riconoscimento, è anche e-ducazione: se so, porto alla luce quello che ho. Desiderio visto come dono che mi faccio per oltrepassare l’incompiutezza, che faccio all’altro nel mio tendere verso di lui, e che mi viene fatto nel momento in cui sono aiutato da qualcuno (guida) a raggiungerlo. Triplice matrice donativa che si sperimenta vivendo l’esperienza del desiderio. La stessa “erfahrung” (esperienza) di verità che modifica chi la fa, e, insieme, l’oggetto stesso di un rapporto di relazione e conoscenza. L’esperienza del desiderio, o del desiderare, produce cambiamento in chi la vive e in chi la fa vivere. Faust la vive in una dimensione del tutto intima e personale: non altera lo stato delle cose e persone circostanti, vive e sperimenta il suo desiderio direttamente con l’altro (Mefistofele) per altro (il sapere). Donatore-dono-ricevente: il triangolo si chiude. Diversa è l’esperienza per Don Giovanni, come dissimile è il cambiamento che crea. È il dolce insinuarsi della forza della sua seduzione a stravolgere il mondo che gli è attorno, coinvolgendo infiniti oggetti di desiderio fatti persona. L’amante-l’amata-l’amatore. Si modifica ulteriormente il discorso, ad esempio, con Casanova. Avventuriero per eccellenza e “dongiovanni” –in funzione predicativa– di natura, esercita seduzione tanto “amorosa” quanto “carismatico-intellettuale”, allo stesso modo sulle donne e sulle masse di una Parigi rivoluzionaria. Casanova cambia il rapporto duale e il collettivo, facendo uso della stessa arma: la seduzione. Conduce a sé l’altro per portarlo con sé nella sua esperienza di desiderio, trasformandolo nell’oggetto di desiderio. Esperienza che investe, con la sua aura di fascinazione seduttiva, l’altro personale e l’altro sociale, parimenti. Casanova, in questo modo, gode a tutto tondo. Non c’è un limite, una sfera esclusiva: la seduzione arriva dovunque e trascino con sé tutto ciò che incontra.
non cedere sul desiderio La famosa formula lacaniana risuona un po’ come un augurio, un po’ come avvertimento, un po’ come imperativo. Il soggetto, storico, mitologico, fantastico, dei nostri giorni, è attraversato dal desiderio ma non è padrone del desiderio. Il desiderio è qualcosa che ci spinge in modo inconscio. La pubblicità ne è una prova lampante.
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zione della dignità delle donne che incontra il gusto che lo anima. Egli è un io che si definisce per un desiderio, perciò è un io mancante, bisognoso: un io che avverte e rinnova di continuo il proprio limite. Il desiderio, in questo caso, è una brama, un appetito, una voglia di appropriazione che ha natura assoluta e distruttiva, che tende a consumare il proprio oggetto per affermarsi. Vi è dunque un intreccio complesso, una danza di attrazione e distruzione che lega l’io al suo alter ego. Se per Paolo e Francesca, Giulietta e Romeo il desiderarsi è reciproco, e trova compimento nella morte –ufficializzando quell’intima unione che fa di eros e thanatos un’unica cosa–, il desiderio con Don Giovanni diviene conflittuale. Kierkegaard trova in Don Giovanni il “seduttore sensuale”, colui che agisce “con la semplice forza dell’istinto e la spontaneità di una sensualità primitiva”. Il seduttore intellettuale è cinico come Don Giovanni, fugge come lui dopo aver catturato la sua preda. Ma quel che desidera non è il semplice piacere di cui si “accontenta” costui. Il suo è –secondo la terminologia lacaniana– un diverso e più pericoloso godimento, il quale consiste esattamente nell’“essere desiderato”, nella vertigine astratta del potere sulla volontà dell’altro. Il desiderio del desiderio altrui, ovvero la volontà di essere scelto, è la radice dell’ambizione: il desiderio altrui è il corrispettivo di ogni potere. Il desiderio del potere diventa così il “correlato soggettivo” del carisma. “La storia umana è storia dei Desideri desiderati” (Kojève). Lacan suggerisce (1973) che “ogni desiderio è desiderio dell’Altro”. Il desiderio: non tanto una relazione con un oggetto, quanto una relazione intersoggettiva, è sempre “il desiderio di fare riconoscere il proprio desiderio” (ibid., p. 337), “il desiderio è desiderio di desiderio, desiderio dell’Altro”.
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riforma della forma per poter educarci al desiderio ed allevare esseri desideranti (Semeraro 2003, p. 60). Mi sembra interessante, anche se bizzarro, ritrovare il “modello” pubblicitario conforme alla strategia di Don Giovanni e di Faust, guardando la più immeditata “offerta” televisiva che ci viene quotidianamente propinata. Don Giovanni è il desiderio che spinge ad acquistare la tazza rossa del Nescafè. È l’assaporare quel caffè nero fumante assieme agli amici del liceo, per festeggiare la realizzazione di un sogno comune; è desiderio di “stare insieme”, è il gusto dello stare insieme gustando il caffè in quella tazza rossa, perché solo in questo modo ricreo l’atmosfera giusta e posso “godere”. E se questa volta è l’oggetto rosso ad offrirmi la possibilità di un godimento raggiungibile, domani sarà quello bianco del Ciobar, sorseggiato in compagnia mentre fuori piove, a regalare lo stesso calore, la stessa magia, la stessa possibilità di scelta che consente sempre nuovi desideri per un piacere insaziabile. È la forma dell’oggetto-icona che seduce, il suo design, la scelta del colore (non a caso rosso fuoco), il connubio parallelo gusto/cibo- gusto/compagnia. Il tutto ha senso solo in quella realtà che faccio rivivere a casa mia, con la mia fantasia, nel momento in cui ho in mano quello stesso oggetto che ha fatto sorridere e godere coetanei in tv. È il possesso di un qualcosa a cui, attribuendo valore, conferisco il diritto di darmi un nuovo nome, una nuova identità, di farmi sentire uguale e capace di godere perché nella possibilità di farlo. È il piacere che vedo negli occhi degli altri a farmi provare desiderio. E sarà così ogni volta con qualcosa di diverso, perché non è l’oggetto, come non è la donna il vero desiderio, ma è il raggiungere entrambi a far godere tanto l’eroe quanto il telespettatore. Se il “modello” di Don Giovanni risponde alla dinamica “usa e getta”, quello faustiano ha il carattere di una “permanenza” totalizzatrice. Faust è il desiderio che Leo Gullotta prova nel voler gustare non uno, ma tutti i torroncini del cavalier Condorelli. Non è il singolo ad avere valore, né a creare godimento, ma il tutto nella sua totalità: non un solo sapere, ma tutto il sapere. È la permanenza nel desiderare uno stesso oggetto, facendolo mio completamente. Non è l’orologio Swatch appena uscito a farmi sentire “grande”, ma è l’intera collezione che ha un non-so-che di intrinseco capace di darmi piacere, piacere comunque infinito, perché ci sarà sempre un nuovo orologio da aggiun-
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Siamo indotti al desiderio, anticipatiti nel desiderio, catapultati in un meccanismo che si concentra nei punti chiave dello spot: soggetto, oggetto, desiderio e godimento. “La pubblicità mette in scena una sorta di corto circuito tra desiderio e godimento” (P. Barone 2003, p. 18). Tutto ci parla di desiderio, ed è quanto mai semplice ritrovare negli occhi di chi ci circonda lo sguardo del seduttore o la sete di sapere, che sono un po’ stati gli spiriti-guida del mio cammino. Un po’ di loro in noi, un po’ di noi in loro. Feticci, icone, imperativi, universi paralleli filtrati da un ventiquattro pollici. È il regno del desiderio. E noi siamo la società del desiderio. I paradisi artificiali nei quali veniamo proiettati si insinuano nella nostra mente come ossessione costante e il messaggio di ciò che ci appare è: “Desidera anche tu come sto desiderando io”. Il sé resta inchiodato al suo altro, stregato da lui e dalla sua promessa antropo-ontologica. Il sé e l’altro ci coappartengono nella reciprocità del desiderio che li lega e non sembrano poter fare a meno l’uno dell’altro. (G. Scibilia 2003, p. 71). La pubblicità cerca di farsi fenomenologia illimitata di desideri, tutti i desideri, così che ogni possibile desiderio possa aver diritto di esistenza, spazio e quindi mercato – e nessun desiderio possa pretendere a un’altra spazialità e a un’altra esistenza, non pubblicitaria e non mercantile perché personale o pubblica in qualsiasi altro senso. L‘imperativo di base è: “Sii un oggetto desiderante” Sii un oggetto desiderante, ma godi della cosa xy, realizza il tuo desiderio in un feticcio. Sii un oggetto desiderante, ma ricomincia a desiderare, sostituisci alla cosa xy la cosa yz. (S. Borutti 2003, p. 87) Probabilmente la grande differenza che c’è fra noi e un Don Giovanni o un Faust è che, almeno, per loro c’era libertà di desiderio. Non avevano imperativi che nelle loro pulsioni. I loro desideri sono desideri a trecentosessanta gradi. Liberi nel bisogno, nel desiderio, nel piacere, nel godimento, nella scelta e nella volontà. Liberi e consapevoli d’esserlo. Non hanno paura del desiderio, né di desiderare. La loro spazialità, temporalità, la loro dimensione d’essere soggetti desideranti è assoluta –sciolta da ogni vincolo, o legame–, libera da quella stessa libertà che oggi,per noi, si veste d’utopia. Il nostro appare più un viaggio senza fine, nel quale si cerca la
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gere alla collezione, come un nuovo torroncino, e così, anche, un nuovo sapere da imparare. Un’osmosi la mia analisi, di un desiderio che ieri costituiva la realtà, oggi si piega al principio di realtà poiché assai poco il nostro tempo promuove il desiderio (Pasini 1997). Giochi di risonanze tra passato e presente che bisbigliano un desiderio di altre aurore, capaci di volgere e declinare al congiuntivo (Semeraro 2002) altre possibilità di desiderio.
(Estratto della tesi di laurea di primo livello Educazione al desiderio tra etica ed estetica: dottor faust e don giovanni. Relatore A.Semeraro; correlatore G.Fiorentino).
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Stelarc non è il tipico cyborg da science fiction all’americana. Né un ballerino schizofrenico preso da raptus tecnofilo. Docente all’università Carnegie Mellon, Stelarc è considerato da molti critici come il massimo esponente teorico dell’estetica “postumana”, noto, da qualche decennio, per le sue performance, per la «battaglia», come scrive Formenti, ingaggiata col «fossile biologico» del suo corpo, allo scopo di imporgli «un’evoluzione accelerata» e di liberarlo «dai vincoli che ne limitano la capacità di godimento»2. Profeta e icona del postmoderno, l’australiano Stelarc sposa quella strada postumanistica o transumanistica che persegue un modello di partnership fra uomo e alterità referenziale, tecnologica in primis. Sceglie di mettere in gioco, non l’autenticità del corpo, ma la sua capacità d’essere spurio, infettato, brulicante d’alterità. Si propone di fuggire oltre i domini percettivi per entrare in uno «stato di fusione erotica col “fuori” tecnologico» (Formenti, 2000). Pare voler mettere in scena la sussunzione dell’evoluzione biologica da parte dell’evoluzione tecnologica e, soprattutto, con le parole di Michael Heim, sembra suggerire una sorta di «ontologia erotica del ciberspazio»3. Stelarc è figlio di un epoca, quella attuale, in cui si guarda con interesse ad ogni forma di meticciamento, organico o culturale che sia; in cui si affermano “figure chiave” come quella del virus, entità cioè capaci di modificare, transitare, sconvolgere le strutture definite; ed in cui non manca chi, come Joel De Rosnay, profetizza la
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Piccolo ma robusto, il corpo seminudo ben piantato sulle gambe, coperto di elettrodi e avvolto di cavi elettrici, la “terza mano” meccanica montata sul braccio destro (…) La performance prevede che Stelarc si colleghi ad una trentina di siti web in modo alquanto insolito: un server calcola i differenziali nel numero di accesso ai siti, li traduce in stimoli elettrici e li trasmette ai muscoli dell’artista attraverso una serie di elettrodi. Queste scosse ispirano una “danza” che dura un’ora, ritmata dal frastuono di un sintetizzatore che cattura tutti i movimenti del ballerino –compresi quelli di un braccio artificiale che egli guida contraendo i muscoli della gamba destra– convertendoli in suoni elettronici 1.
possibile compenetrazione fra computer, macchine, centri informatici, uomini e città, in un unico organismo platenario, un macroorganismo ibrido, biologico, elettronico e meccanico al tempo stesso: il “cybionte” (Rosnay, 1997). Un’epoca che sembrerebbe dunque in transizione verso quelli che Marchesini definisce «nuovi modelli di esistenza»,4 direttamente partoriti, a partire dagli anni ’80, dall’assedio del tecnologico. Il performer è dunque figlio di questo tempo. E la cronaca dei suoi esperimenti di «antropopoiesi tecnomediata» (Marchesini, 2002) non è affatto reperibile fra le pagine di un romanzo fantascientifico. Anche se, l’immagine del suo corpo innervato da elettrodi o il motivo dell’invasione dell’umano da parte del “macchinico”, che sottende ogni sua esibizione, è metafora ricorrente in molta letteratura e cinematografia cyberpunk. È un genere di fantascienza, il cyberpunk, nato in America proprio negli anni ’80, la cui ideologia di fondo, parafrasando N. Spinrad, è «l’accettazione dell’evoluzione tecnologica e dell’alterazione della nostra definizione d’umanità, la romantica ammissione della modificazione tecnologica della nostra specie»5. Il paesaggio tecnico è riconosciuto dal cyberpunk come una “seconda natura” cui associare quell’attività emotiva e mistica un tempo associata dall’uomo al paesaggio naturale. Il futuro descritto è un misto di tecnologia e di degrado6, di potere e miseria, di controllo, oppressione, e di lotta per la libertà espressiva e comunicativa. Nervatura teorica di tutta la scena cyberpunk è la chiara consapevolezza che esistono forti poteri che dominano e orientano i media e le risorse tecnologiche. È suggerita pertanto come necessaria un’azione antagonista per la socializzazione del sapere tecnico, contro ogni interesse di natura politica, militare o economica. Secondo una procedura tipicamente postmoderna il cyberpunk rielabora a fondo materiali provenienti da altri media e si presta ad esser pensato come un fenomeno, un modo di vita, una letteratura fra le più significative dell’ultimo scorcio di fine millennio. Autentica filosofia dei nostri giorni, la fantascienza cyberpunk propone una visione del tutto nuova della tecnologia. Una visione che non sia apocalittica, che non teorizzi cioè soltanto l’orrore delle scoperte tecnologiche, né integrata, che accetti acriticamente le logiche dell’impresa capitalistica, ma che piuttosto resti aperta all’ambiguità congenita in ogni mezzo tecnologico. La tecnica è rap-
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Di seguito si offre un ensemble delle immagini proposte da alcuni romanzieri cyberpunk, come William Gibson, Pat Cadigan, Neal Stephenson, Greg Egan, a cui volutamente si sceglie di non abbinare alcuna interpretazione o valutazione di sorta. Un ensemble di narrazioni cyberpunk utile per cogliere la natura della mutazione che l’immaginario tardo-moderno registra7 e la silhouette che l’imaginatio fantascientifica disegna dei moderni mezzi di comunicazione di massa, network informatici in testa.
Dentro. Le metafore della Rete “Neuromante” da negromante › mago e neuro › attinente al sistema nervoso8 Per migliaia di anni gli uomini hanno sognato di fare patti col diavolo. Soltanto adesso cose del genere sono diventate possibili.
A decretare la nascita del genere cyberpunk è, nel 1984, la pubblicazione di Neuromante, primo romanzo di successo di William
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Gibson, vincitore dei premi Hugo, Nebula e Philip Dick, che consacrarono una tendenza, uno stile, una scuola di scrittori9. Per connotare un ipotetico network globale, l’autore inventa una parola oggi comunemente usata: CYBERSPAZIO10, che definisce «un’allucinazione consensuale in cui è proiettata la coscienza disincarnata; un infinito vuoto neuroelettronico; una simulazione di realtà virtuale con un feedback neurale diretto (…)». «Un labirintico arcobaleno di pixel», recondito, immenso, solido, liquido, riconoscibile ed irriconoscibile allo stesso tempo, in cui la coscienza spazia libera rispondendo unicamente a degli impulsi elettrici. Il computer viene infatti collegato direttamente ai principali tronchi nervosi del cervello, cosicché i chips possono inviare e ricevere segnali neurali. Il corpo diventa quindi letteralmente “carne” su cui impiantare i dispositivi d’informazione, mentre lo spirito migra verso un mondo di rappresentazione totale. I termini utilizzati per connotare la Rete variano in base alla scelta del singolo romanziere. È appellata: The Net, Matrix, Metaverso, Infoverso, ma tutti indicano, comunque, sempre, come in Gibson, un nuovo universo, un universo parallelo, una realtà artificiale, virtuale, multidimensionale, generata, mantenuta e resa accessibile dal computer attraverso una rete globale. È un regno dell’informazione allo stato puro in cui i messaggi diffusi trasfigurano il mondo fisico, decontaminano in qualche modo il panorama naturale e urbano attorno, lo riscattano, lo salvano, da tutte le inefficienze, gli inquinamenti (chimici e informativi) e le alterazioni che si verificano con il trasferimento dell’informazione off-line. Protagonista del romanzo gibsoniano è Case, Herr Case; ventiquattro anni, a ventidue è già un pirata del software, un cowboy da consolle, un hacker,
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presentata in tutta la sua natura ibridativa, ed il “macchinicomorfismo” illustrato, la partnership tecnologica impressionata su carta, non è che un modo per dar voce al desiderio di democratizzare l’uso degli strumenti tecnici. La galleria delle mutazioni cibernetiche è nel genere lunghissima e riguarda tanto il corpo quanto la mente, per il coinvolgimento di tutti i sensi in una estensione tanto fisica quanto psichica. Al movimento dell’uomo verso la macchina fa da controaltare il movimento simmetrico e contrario della macchina verso l’uomo: macchine che si sviluppano, evolvono, aspirano all’autonomia, ad una maggiore intelligenza. Macchine che si popolano di presenze, fantasmi e divinità onniscienti, onnipotenti, onnipresenti… Dietro una rappresentazione ultratecnologica del futuro, un’azione veloce, una costruzione serrata, un linguaggio riempito di slang e termini tecnici, i romanzi cyberpunk si fanno vademecum per una lettura metaforica della società post-industriale, mostrano la parte nascosta dell’iceberg del cambiamento sociale, di quella mutazione di civiltà innescata dal salto tecnologico degli ultimi decenni che ha imposto la centralità delle macchine nell’immaginario collettivo e quindi nella produzione di modelli e metafore.
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Solitudine. È questo quello che provo qui dentro e…freddo. Sono una telefonata che galleggia in attesa di collegarsi o almeno è questo quello che devo credere. Solitudine e nebbia…è così che ci si sente quando si è morti?…
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Come Jimmi, il programmatore di videogiochi protagonista del film, anche Case ha perso l’unica donna amata. Senza Lisa Jimmi naviga in un mare oscuro, non ha più stelle nell’anima, si spinge sino alle viscere dell’agglomerato pur di ritrovarla. Senza Linda Case è come stordito, perennemente inseguito dai fantasmi del passato. Fra i due… una differenzia sostanziale; Jimmi si muove dentro la sua filosofia, che è quella del nirvana, il nuovo gioco che egli stesso ha ideato per la Okosama Star. Case, al contrario, viene spinto nella filosofia di Marie-France Tessier-Ashpool. «Una gran visionaria»… Marie-France. Aveva desiderato stabilire una relazione simbiotica fra i membri della propria famiglia e delle I.A: Intelligenze Artificiali, di cui aveva, personalmente, commissionato la costruzione. La Tessier-Ashpool sarebbe così divenuta una mente collettiva, immortale, e ciascun membro del nucleo familiare sarebbe stato parte di un’entità più grande. Dalla filosofia della donna era stata partorita anche Freeside, ecosistema limitato, arcipelago d’isole, città di frontiera, luogo di piaceri e porto franco, in cui Case non ama né ciò che vede, né l’odore che ha. È qui che scopre d’essere stato pilotato, come marionetta su di un palcoscenico surreale, da una I.A: Invernomuto. Un costrutto simstim ad alta definizione, «una mente alveare, che prendeva decisioni attuando cambiamenti nel mondo esterno». Invernomuto desidera la morte. Desidera cioè sbarazzarsi della sua versione elaborata dalla T-A, proprietaria del software e del mainfraime principale. E, soprattutto, Invernomuto sogna l’autonomia e un grado maggiore d’intelligenza per poter divenire “parte di qualcosa di più grosso”. È per tali ragioni che si serve di Case. Case che, al contrario, sfugge alla morte. Si sottrae alle seduzioni di Neuromante, l’altra entità potenziale, l’altra I.A. voluta da Marie-France. Neuromante è una sorta di gigantesco costrutto ROM
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un artista, uno dei più bravi nello Sprawl11…sino all’errore, che gli sarà fatale: il furto ai propri datori di lavoro. Puntuale gli giunge lo scambio di cortesie: il sistema nervoso gli viene “azzoppato” col rilascio di una micotossina che lentamente lo divora. Un danno microscopico, subdolo, completo. Per lui, è “la cacciata dal paradiso”. Case precipita nella “prigione della sua carne”12. La vita simulata fino a quel momento condotta nel cyberspazio gli fa sentire il corpo come una gabbia, una caduta dallo stato di grazia, una discesa verticale verso una realtà, o meglio, la realtà reale, oscura e confusa. Case resta un potenziale suicida sino a quando qualcuno non gli offre la possibilità di tornare a “volare”. Volare fornito di pancreas nuovo, fegato rattoppato, danno neurale riparato, più quindici sacche di tossine legate all’endotelio di varie arterie principali. E, giacché ogni cortesia ha un prezzo nello Sprawl, l’enzima capace di sciogliere i legami senza aprire le sacche gli è offerto in cambio di un non meglio qualificato lavoro. Poco intelligente rifiutare la proposta. Case torna ad accarezzare «in modo quasi pornografico» il suo deck cyberspaziale, un Ono-Sendai Cyberspace7, una sorta di sintetizzatore del cyberspazio che, di quest’ultimo, riceve una descrizione essenziale codificata e compressa per poi fornirne una visualizzazione in modo che l’utente possa navigarci dentro. Case torna a farsi passeggero indiscreto del corpo altrui mediante il simstim: una moltiplicazione gratuita di input fisici, una condizione passiva dato il collegamento a senso unico stabilito con il sensorio, «il sinuoso fluire di muscoli e di sensi acuiti», del soggetto ospitante. Case dialoga con Dixie, il cosiddetto «costrutto», un ex cowboy appiattito, la registrazione di una personalità ridotta a un mucchio di ROM che ha la sensazione d’esser senziente, o che lo fa reagire come se effettivamente lo fosse. Tutto per il cowboy torna a farsi routine: elettrodi, innesco, attivazione e poi: buio… freddo… un po’ come mostrato per immagini in Nirvana (1997), film di Gabriele Salvatores, in cui al momento dell’allacciamento si parla di solitudine e di freddo.
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Neuromante: personalità, immortalità, perderà la sua partita. Invernomuto: mente-alveare capace di intervenire sul mondo esterno, otterrà la desiderata vittoria. Si unirà a Neuromante. L’uno morirà nell’altro per vivere com’entità unica: la MATRICE. «La somma totale dei ruoli». Qualcosa di estraneo a ciò che MarieFrance aveva immaginato. «Qualcosa di molto più grosso». Il prodotto dell’imprevisto14… “MonnaLisa cyberpunk” Little Bird era cresciuto nei sobborghi bianchi poveri del Jersey, dove nessuno sapeva mai un cazzo di niente e tutti odiavano chi sapeva qualcosa.
Traduzione italiana dell’originale «Monna Lisa Overdrive», MonnaLisa cyberpunk si propone come capitolo conclusivo della saga dello Sprawl, la trilogia gibsoniana comprendente «Neuromancer» (Neuromante) e «Count Zero» (Giù nel cyberspazio). Se letto con riferimento agli altri due romanzi della trilogia, MonnaLisa cyberpunk si può dire che viva di luce riflessa. Molte delle novità tematiche ed espressive presenti in Neuromante vengono qui riprese; e forti appaiono le analogie sia nei personaggi principali che in quelli secondari, come pure nelle dinamiche e negli intenti. Come già in Count Zero15, torna la tecnica delle storie parallele
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che s’intrecciano durante tutto il racconto, per sovrapporsi poi parzialmente nello svolgimento finale. Storie di soggetti diversissimi fra loro per biografia, condizione sociale e rispettivi ambienti di vita, nel seguire le vicende dei quali il lettore si muove fra il lusso della casa vittoriana londinese in cui è ospite Kumiko ed il degrado di una fabbrica abbandonata a Dog Solitude, divenuta rifugio di Slick Henry e Little Bird. Fra le spiagge e la villa ipertecnologica a Malibù di Angie, nota diva del simstim, e lo squallore di un monolocale a Cleveland dal quale Monna sogna di fuggire. Nonostante i rimandi e i dejà vu, la situazione è tuttavia in evoluzione. Persino la matrice, la summa della cultura umana, dopo aver raggiunto la consapevolezza, «impazzisce», cacciandosi in una complessa ricerca metafisica comprendente le divinità voodoo ed altre entità sparse qua e là. L’idea di cyberspazio ne risulta ampliata e più chiaramente definita. Esso viene esplicitamente definito «esistente in virtù dell’opera umana», come «la somma totale dei dati del sistema umano, un torrente di rumore bianco, un vasto spazio informe, un vuoto irreale in cui le linee luminose della griglia della matrice formano come una gabbia infinita». E soprattutto, meglio sviluppata risulta l’idea di Dio nella rete o di divinità auto-create. La domanda fatta da Case a Invernomuto in Neuromante qui ritorna: «La matrice è Dio?». La risposta, secondo il costrutto che, come Dixie nel romanzo precedente, fa da supporto e da riferimento informativo per l’uomo, è qui data in un mito. Il costrutto spiega: «s’incontra questo mito generalmente in due versioni. Secondo la prima il cyberspazio è abitato, o forse visitato periodicamente, da entità le cui caratteristiche corrispondono alla forma mitica primaria del “popolo nascosto”. La seconda implica un
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ma interamente composto di RAM, in grado di creare da sé una personalità, che confessa a Case d’esser: “Terra dei Morti”. Si legge: «Io evoco i morti… sono i morti e la loro terra»13. Una frase che se guardata come un’allusione biblica mette in riferimento Neuromante, o chi esso sia, a Dio e al cielo come all’aldilà. Oppure può suonare come minacciosa dichiarazione dell’onnipotenza di una nuova creazione, confermando l’idea di proprietà emergenti insite alla macchina. In terra dei morti Case è sollecitato a restare, perché è lì che ritrova la sua Linda. Il cowboy si allontanerà però consapevolmente dalla donna amata e sulla spiaggia della mente che è Neuromante coglierà, per la prima volta, il mistero della carne. Se, sino ad allora, come ogni cowboy, se n’era fatto beffe, ora è la carne a renderlo cosciente del suo essere “uomo”. Non più dunque prigione o fardello, ma dato che lo qualifica e differenzia.
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assunto d’onniscienza, onnipotenza e incomprensibilità della matrice stessa. Nei termini della forma mitica si potrebbe dire che la matrice più che essere, ha un Dio, poiché si suppone che l’onniscienza e l’onnipotenza di questo essere siano limitate nella matrice». Il Dio nella matrice risulterebbe quindi tanto onnipotente quanto onnisciente ed immortale, sebbene entro i limiti coincidenti con il “perimetro” della matrice stessa. Inoltre, come si è accennato, più che ad un Dio si è legittimati a pensare a più déi distribuiti dentro la macchina, più spiriti, più figure mitiche.
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La relazione che pare stabilita tra la Matrice e Dio discende, come già anticipato, anche al mondo umano. Come le I.A. in Neuromante, queste “presenze” o “fantasmi” in MonnaLisa cyberpunk usano gli agenti umani per realizzare i propri desideri; i legba vagano indisturbati cavalcando i soggetti umani e prendendo possesso della loro priesthood. Pieno di dei elettronici, il cyberspazio diventa autenticamente un «paradiso virtuale». Tanto che nulla impedisce di pensare al mondo reale come ad un vero e proprio inferno arso dal malcontento e dal crimine, dal quale i più desiderano non tanto esser riscattati, quanto… riscattarsi16.
“Mindplayers” Lo feci per sfida. Il genere di cosa che sai bene essere uno sbaglio, ma che fai comunque perché sembra essere arrivato il Tempo degli sbagli
L’universo caotico e traboccante di dati della matrice gibsoniana subisce in Mindplayers (1987), romanzo psychocyber di Patricia K. Cadigan, una sorta di involuzione nell’io. La dimensione altra in cui Alexandra Victoria Haas, protagonista del romanzo, si muove è quella della mente, propria e altrui; una terra vergine da esplorare mediante un sofisticato congegno elettronico: il MINDPLAY.
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«Galleggiavo dentro. Lucida ma tranquilla, non più appesantita da un corpo fisico. Avevo la sensazione d’essere da qualche parte, in qualche posto, pensai di guardarmi attorno anche se, in realtà, non avevo nulla con cui guardare…».
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Quando la matrice ha conosciuto sé stessa c’è stato l’altro. La matrice si è divisa in tutti quegli spiriti e cazzate varie (…) Ci sono tutti, i Cavalieri, i Loa: Papà Legba; Ezili Freda, madre e regina; Samedì; Similior; Madame Travaux e molti altri…riempiono il vuoto che è la Grande Brigitte. L’impeto delle loro voci è il sibilo del vento, il suono dell’acqua che scorre, l’alveare….
La transizione dalla pagina scritta ad un’epoca di meraviglie mentali è estremamente fluida, senza scosse o sfumature. Proprio come la transizione dalla sanità alla follia in cui l’intero contesto di riferimento che fa da sfondo al narrato sembra essere coinvolto. Allie si muove in una realtà in cui la paranoia è diventata di moda. In cui la gente, insoddisfatta di sé, si è ridotta a comprare trip mentali, a potenziare i sogni, a clonare i ricordi innestandoli sui propri. In un epoca nella quale imperversa la produzione in serie di personalità ed in cui, per rispondere al fatto che «tutti vogliono essere qualcuno e nessuno vuole essere semplicemente un chiunque», le personalità sono state legalizzate in franchising! Quella di Allie è dunque un’epoca di criminali mentali dediti al furto di pensieri, allo stupro mentale o a sciocchezze come le psicosi senza licenza… Alexandra non ne resta totalmente immune. Anche lei è pronta a fare qualsiasi cosa per «accendersi un fuoco nel cervello». È proprio con l’accusa di psicosi illegale, dovuta all’uso di un «cappello matto», che viene pizzicata dalla polizia mentale. E, dopo essere finiti al prontosoccorso per una psicosi illegale, risulterà obbligatorio: stabilizzare la realtà. Con Paolo Segretti, suo personale stabilizzatore di realtà, Allie scopre che un cappello matto è tecnicamente, seppur in modo diverso, una forma di Mindplay: «uno strumento per sviluppare ed espandere la mente, un mezzo per incontrarsi mente a mente nel sistema con qualcun’altro, una sorta di telepatia ottenuta mediante la connessione con particolari computer attraverso i bulbi oculari17…un’esperienza globale». Nonostante Allie trovi indecente andarsene in giro nella propria mente con un estraneo a bordo è costretta a testare l’esperienza. Così, con gli occhi fuori delle orbite e le connessioni direttamente saldate ai nervi ottici, senza alcuno shock, si ritrova dentro il suo universo mentale, fra le sue insegne. «Dovevo uscire di lì, andare fuori…». Torna la dicotomia Dentro/Fuori. Costante torna pure il binomio Peso/Leggerezza e l’idea di un senso di buio, chiuso, stretto, unita alla solita sensazione di inconsistenza derivante dall’essersi svincolati dal peso del corpo.
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vite, li aiuta ad oltrepassare la spazzatura mentale per raggiungere il vero feeling, l’anima reale. Allie indaga i cangianti luoghi della mente, si ritaglia in questo universo degli spazi in cui prender fiato, valutare la dinamica della seduta e di lì procedere. Attraverso il mindplay, la cercatrice di pathos, oltrepassa le barriere dell’identità e della personalità per ritrovarsi in strati e strati d’immagini, paesaggi, ricordi. Diviene talmente brava da vedersi assegnato l’incarico di effettuare un sondaggio post-mortem nella mente di una scrittrice di talento. Suo compito è trovare una storia rimasta non scritta, un’intuizione, una visione. Denudare la mente del morto per raccogliere qualche avanzo, insomma18. Allie trascorre così tanto tempo attaccata al SISTEMA da non avere più spazi per sé stessa, da sentire il bisogno di respirare nella realtà reale, di sentire l’aria reale sul viso, di ascoltare e vedere suoni e cose reali. Quest’immersione totale nel mondo dei sogni gli procura il monito dell’amica Fandango: «Sai che cos’è un mindplayer senza una vita personale?» –le chiede– «Questo: un bicchiere con un drink in cui sono rimasti solo dei cubetti di ghiaccio». La stessa durezza caratterizza le parole che vengono sbattute in faccia di Lenny Nero, protagonista di Strange Days (1995), film di Katryn Bigelow. Nero è uno spacciatore di SQUID: Dispositivo Di Interferenze Del Super Conduttore Quanto, un ricettore che piazzato in testa invia segnali emozionali ad un registratore. Una tecnologia inventata dai federali e poi finita sul mercato nero capace di fornire il pezzo della vita di qualcun’ altro a chiunque. Ti infili gli elettrodi e ti spari dentro quello che ti serve. Bello quasi quanto la realtà e molto più sicuro. Sei lì, lo stai vedendo, lo stai sentendo, lo stai facendo, senza neanche macchiarti la fede nuziale. Fidati di me, io sono il tuo collegamento diretto alla centralina delle anime. Il babbo natale del tuo subconscio!
Anche Nero, come Allie, è talmente assorbito da questo mondo onirico da meritarsi, si diceva, parole piuttosto dure: «Sei uno schifoso tecnopervertito! Questa è la tua vita! Qui! Ora! Tempo vissuto reale, non playback!». D’altronde, dentro la rappresentazione l’ego si moltiplica, la fisica diventa variabile, la percezione estensile, la zona di confine fra i due mondi sfuma, ed il dibattere su ciò che effettivamente è “reale” si fa metafora ricorrente, come pure l’invito a rifuggire dalle illusioni dell’universo tecnologico.
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Allie sente l’appropriatezza della situazione, avverte che ogni aspetto del paesaggio attorno le appartiene, è…a casa. Tutto lì è, in fondo, frutto di una sua personale visualizzazione; «un po’ come le espressioni spontanee che non riusciamo a cogliere guardandoci allo specchio…». In un mutare repentino d’immagini, Allie, stupita, scopre che una cattedrale si ritaglia una bella fetta di spazio nella sua mente. Tra incredulità ed accettazione, al suo interno ritrova cose che aveva amato particolarmente, che aveva avuto o desiderato avere, ricordi di cose che aveva fatto o guardato. A dominare su tutto, un dipinto ad olio della bisnonna, che aveva rifiutato ostinatamente di morire sopravvivendo molto più a lungo della sua epoca e prendendosi cura di lei quando i genitori si erano presi una nuova personalità da (ironia dei termini) i Power People. (La madre aveva scelto un modello da festaiola, mentre il padre aveva optato per il soldato di ventura). Fuori, il primo contatto mentale stabilito con Segretti lascia in Allie una sorta di retrogusto nei pensieri, un senso di profonda intimità condiviso, come la «pressione di una presenza». Fuori, Allie, ha ben poco. Sonniferi, allucinogeni, facilitatori di meditazione, pastiglie Limbo, ipnotici. Poc’altro; nessuna amicizia, limitate relazioni profonde, contatti superficiali. Una possibilità di svolta, comprensiva di fedina penale ripulita, come già a Case, anche ad Allie è offerta in cambio di un engagement: diventare un mindplayer. Di qualsiasi genere: cacciabrividi, operatrice alla campana, potenziatrice di sogni, cercatrice di pathos, venditrice di nevrosi. Anche lei ha un’unica alternativa. Quella di finire in galera. Spedita al J. Walter Tech, «veri pionieri del mindplay», Allie inizia a conoscere e conoscersi. Impara che qualunque contatto, faccia a faccia o mente a mente, lascia un segno, un marchio che nel mindplay è solo un po’ più profondo, dato che il cervello funziona come un sistema dinamico: più informazioni entrano più tutto si organizza e le impressioni sfumano. Allie trascorre ore ed ore nella «vasca»: una sorta di realtà consensuale in cui gli eventi sono perennemente in corso ed in cui ciascuno deve visualizzare un posto per sé, nel mezzo di ciò che sta già succedendo. Allie diventa una Cercatrice di Pathos. Diventa: La Sfinge. Da quel momento il mindplay si fa, per lei, strumento di lavoro. Alexandra naviga nei pensieri dei suoi pazienti, s’infila nelle loro
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Nero troverà l’amore fuori dalle sue clip ed imparerà ad usarle per «cambiare le cose che devono essere cambiate…». Allie dopo ogni contatto mente a mente resterà cambiata, alterata, inquinata, e non potrà mai sbarazzarsi dei pezzi di vita mentale conosciuti. Nessun addestramento o lavaggio o stabilizzazione le garantiranno un controllo completo sulla mente o le permetteranno di allineare i neuroni come soldatini. Ciò probabilmente perché, in fondo, persino prima del mindplay, come scrive la Cadigan: «siamo fatti delle vite che tocchiamo».
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«Una mitologia freestyle metropolitana ed iperveloce». Così W. Gibson ha definito Snow Crash (1992), tecno-giallo di Neal Stephenson, premiato come miglior libro di fantascienza nel 1994 con l’Arthur C. Clarke Award, e annoverato fra i romanzi più evocativi e forti dal punto di vista immaginativo dell’età dell’informazione. Snow Crash si offre effettivamente al lettore come una mitologia in chiave postmoderna che narra di miti sumerici, sette religiose, magnati della comunicazione, stati nazionali frantumati in piccoli quartieri locali, virus letali, droghe e religione. A far da scenario un’America avvolta da un’eterna foschia organica di sostanze inquinanti, nelle cui città è rimasta solo la gente di strada: immigrati, giovani randa, hacker, cui spettano solo le briciole. Un’America in cui l’industria si nutre della «biomassa» umana «come una balena che filtra il plancton dal mare» ed in cui totale è la balcanizzazione dello spazio urbano. Ogni gruppo etnico ha costituito dei residenclave, dei franchise-ghetto: Nova Sicilia, Narcolombia, SuperHong-Kong di Mr. Lee, Paradiso del Reverendo Wayne19. Città-stato che godono della medesima autonomia giuridica di uno Stato, che hanno una propria moneta e una propria polizia-esercito. In tale contesto, tutti appaiono soggetti all’azione delle idee virali. Come nell’isteria di massa. Una musica, che ti entra nella testa e continui a canticchiarla per tutto il giorno e, alla fine, l’attacchi a
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Protagonista di Snow Crash è Hiro: fattorino di Cosa Nostra Pizza nel mondo reale e hacker freelance, nonché grande guerriero di spada, nel METAVERSO: «un universo generato dal computer, una dimensione in cui il campo del piacere è limitato alla sola immaginazione, un software messo a disposizione del pubblico sulla rete a fibre ottiche globale». Sino a 60 milioni di persone sono libere di spostarsi da un capo all’altro del metaverso in modo rapido e fluido mediante una monorotaia, un software gratuito e di pubblica utilità. Per non generare confusione e irritazione fra la gente, nel metaverso è obbligatorio materializzarsi in punti specifici; i cosiddetti «porti locali», con funzione analoga a quella degli aeroporti. Altrimenti, scrive Stephenson, «sarebbe la fine della metafora». Al metaverso gli uomini accedono come avatar, come software, come corpi audiovisivi elettronici, simili, soltanto in parte o fedelmente, alla propria immagine reale. «Se sei brutto puoi avere un avatar bellissimo. Se sei appena sceso dal letto, il tuo avatar può essere vestito e truccato perfettamente». Dentro, quindi, la faccia con cui andarsene in giro è frutto di scelta incondizionata e si è liberi di vivere in una casa bella e spaziosa mentre fuori si può esser costretti a condividere, come Hiro, un letamaio di 7 metri per 10. Il diritto di territorialità dev’essere però conquistato a suon di spada. La sconfitta in un combattimento equivale all’esclusione del proprio computer dalla rete, alla cacciata dal sistema. «È la più realistica simulazione di morte che il metaverso possa offrire». Le armi sono arrivate in paradiso
Nel romanzo, fondatori dell’universo virtuale stephensoniano sono gli hacker che, assieme ad artisti e personaggi di rilievo, sono soliti ritrovarsi al Sole Nero, locale alla moda la cui soglia può essere varcata solo con invito alla mano. È qui che Neil Stephenson immagina il primo incontro di Hiro con lo SNOW CRASH20: un virus, un metavirus, «la bomba atomica della guerra informatica», capace di diffondersi a livello ematico, sotto forma di droga, ed elettronica-
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Il mondo è pieno di forza e di energia e si può andare lontano procurandosene un pochino.
qualcun altro. Gli scherzi. Le leggende metropolitane. Le religioni strampalate. Il marxismo. E, per quanto intelligenti diventiamo, esiste sempre in noi questa parte irrazionale profonda che ci rende sempre potenziali portatori di informazioni autoreplicantisi.
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Bisogna portare nuova biomassa. Per rinnovare l’America. Per la maggior parte i paesi ciò che devono fare è continuare a fare bambini. Ma l’America è come questa grossa nave, sferragliante e fumogena, che procede raccogliendo e inghiottendo qualsiasi cosa entri nel suo campo visivo. Si lascia dietro una scia d’immondizia lunga un chilometro. Ha bisogno di nuovo carburante.
Stephenson rintraccia l’intuizione chiave di Rife «nell’aver capito che non esiste differenza tra cultura moderna e cultura sumerica». Giusto attraverso la figura di Rife e dei suoi complici come il
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Reverendo Wayne e il Presidente degli Stati Uniti dell’America stephensoniana viene sviluppata una lucida riflessione sui sistemi di controllo del sociale. Nel romanzo mass-media, mezzi di trasporto ed alto grado di alfabetizzazione sono additati come potentissimi Vettori d’Infezione. L’antidoto sembrerebbe stare nella capacità di potenziare il rispetto della “diversità”. Le monocolture, come ad esempio un campo di grano, sono soggette all’infezione, mentre le colture geneticamente varie, come le praterie, sono estremamente resistenti.
“Permutation City” …forse l’infinito non significava niente, e l’immortalità era un miraggio a cui non doveva aspirare alcun umano. Alcun umano…
Posto a confronto con la matrice gibsoniana, il metaverso di Stephenson assume più nettamente i connotati di mondo parallelo, considerate le architetture interne, gli edifici, le strade percorse da monorotaie e motociclette e le norme di ordinata convivenza che l’autore descrive. Nel metaverso ogni cosa indossa un aspetto pressoché realistico, perdendo l’aura d’indefinito ed evanescente caratterizzante il cyberspazio. Pure l’idea di dèi diffusi nella rete, di entità in grado di raggiungere la consapevolezza, di Intelligenze artificiali assetate d’intelligenza viene meno. Si tratta di una “diversità” da leggere in relazione all’epoca di stesura dei rispettivi romanzi. A distanza di circa dieci anni, Stephenson trasfigura nel suo scritto gli avanzati progressi nel settore dell’ingegneria del software e della grafica computerizzata, come pure le contemporanee esperienze di navigazione in Rete, di chatline e newsgroup. Se in Snow Crash quindi le suggestioni gibsoniane della divinità tecnologica lasciano spazio alla rappresentazione di
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mente, mediante una bitmap, simile alla nebbia di un video guasto che trasmette solo rumore bianco e neve. Quella parte del cervello che è il nervo ottico, viene direttamente esposta ad un centinaio di migliaia di 0 e 1, centinaia di migliaia di byte di informazioni in codice binario. Informazioni cui, trascurati i computer, soltanto gli hacker sono potenzialmente sensibili. Ogni hacker, infatti, si guadagna da vivere trafficando col codice binario; lo riconosce, codifica, interpreta e tale abilità si radica in lui al punto da farsi componente delle strutture profonde del suo cervello. Dopo l’esposizione, dell’avatar che nel metaverso ha provato lo snow crash resta solo una nuvola tremolante di pessimo karma digitale. Una massa di luce che lampeggia, sfumando dal bianco al nero. Linee sottili di pixel che schizzano da ogni parte. Un autentico crash di sistema, «napalm sui fiori selvatici…il clero tecnologico a rischio estinzione…». Hiro s’immolerà a paladino della categoria. Come ogni buon hacker che crea da sé gli strumenti di cui ha bisogno, Hiro scriverà l’antivirus salvifico da rilasciare nel metaverso: lo Snowscan. Intanto, nel mondo reale milioni di uomini sono stati ridotti in schiavitù ed imbarcati sul Raft, un’immensa zattera di navi che dopo un giro del mondo ha raccolto i disperati dell’intero pianeta. Sono adepti di una nuova religione post-razionale, il culto glossolalico eredità del credo irrazionale praticato nell’antica Sumer, di cui si era fatto promotore L. Bob Rife: un miliardario monopolista padrone del sistema d’informazione planetario e signore della larghezza di banda, col suo personale seguito di schiavi telecomandati. I profughi del Raft hanno infatti installate direttamente nei crani delle antenne, per ricevere i dicktat della radio pentecostale. Ad aspettare gli schiavi di Rife, a fauci aperte per divorarli, il dispositivo antropofago dell’economia d’America.
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Egan descrive un futuro recente –è la metà del XXI secolo– in cui la tecnologia della rappresentazione è ormai in grado di individuare i singoli neuroni e di misurare le proprietà delle singole sinapsi senza dover necessariamente ricorrere a tecniche invasive. La teoria del pulviscolo, che implica un numero sterminato di mondi alternativi, sembra essere confermata. La tecnica dell’ibernazione è ormai superata. Ultima prassi: la scansione. La morte, «la cosa più morale che possa accadere persino per l’Europa laica», è ad un passo dall’esser sradicata come il vaiolo o la malaria. Una classe privilegiata, un’élite potente di miliardari eccentrici, ha accettato di farsi scansionare il cervello per continuare ad esistere dopo la morte in qualità di Copie encefalo-integrali ad alta definizione di sé stessi, «network neurali, dai quali sono stati cancellati tutti i segni di degrado, in ogni giuntura, in ogni muscolo, in ogni vena o arteria, del corpo; sequenze di istantanee, inquadrature di un film o di un’animazione al computer; dati, rapporti fra numeri». La prima Copia pienamente consapevole in una realtà virtuale approssimativa, era stata avviata da un neurochirurgo di Boston, nel 2024. All’epoca i titoli dei giornali erano ruotati tutti attorno ai temi dell’immortalità, la realtà virtuale, l’abbandono in massa del mondo fisico. Acceso era stato inoltre il dibattito circa la capacità delle copie d’intendere e volere. Per qualsiasi umano una prova assoluta di tale potenzialità era impossibile, per qualsiasi copia invece la verità era autoevidente: cogito ergo sum. Da allora, le copie si erano portate dietro un unico problema: il rallentamento. Tre settimane soggettive dopo la resurrezione digitale equivalevano a quasi quattro anni in tempo reale. Causa: la scarsità delle risorse di calcolo. In più, in quanto software, le copie erano costrette a girare su delle macchine non ancora rese eterne.
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L’allusione della continuità era tutto ciò cui le copie puntavano. È qui che entra in scena il protagonista del romanzo, Paul Durham. Come Case o Allie o Hiro, anche Paul è un individuo solo, ai margini, privo di affetti, o di un nucleo che dia la parvenza di famiglia attorno. Al tempo delle prime scansioni Durham «aveva ventiquattro anni e non sapeva che farsene della sua vita. Aveva passato sette anni a viaggiare e studiare scienza, storia e filosofia, riuscendo abbastanza bene in tutto quel che tentava, ma senza scoprire nulla che accendesse il fuoco di una vera passione intellettuale». Durham accenderà questo fuoco dedicandosi alla progettazione di un rifugio per le copie, una nazione solipsistica, un Santuario, un pianeta, un mondo con una struttura permanente, un universo in Tvc (da Turing, Von Neumann e Chiang) in espansione infinita e, soprattutto, in grado di funzionare senza hardware. Permutation City ne sarebbe divenuta la capitale. Quindici copie avevano immediatamente aderito alla sua proposta. L’idea di spendere un po’ di soldi per inviare un clone digitale di sé in un paradiso cibernetico era suonata un po’ come la medievale promessa del prete di turno di una sicura grazia di redenzione elargita dietro pagamento del tributo richiesto. La speculazione metafisica tocca in Egan punte notevolissime. Quella sensazione d’esser senziente che già Gibson, in Neuromante, riconosce a Dixie, il costrutto, qui diventa molto più che una “sensazione”. Il clone digitale di Durham, Paul, parla di “buchi” tra una descrizione e l’altra del suo modello, probabilmente riempiti durante la sua descrizione dalla “polvere” sparsa nell’universo. Quelle Intelligenze Artificiali che Gibson poneva alla ricerca di autonomia e di una maggiore intelligenza in Egan sembrano averla conquistata integralmente. Sembrerebbe che il processo di ontogenesi si sia concluso e che la conquista della nuova Elisio sia definitiva. Perlomeno… sino all’imprevisto finale.
(estratto della tesi di laurea triennale in storia tecnica dei nuovi media Relatore Carlo Formenti; correlatore Angelo Semeraro)
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un metaverso più “umano”, è in Permutation City (1994) di Greg Egan che la metafora dei paradisi virtuali si mostra pressoché satura. In un eden elettronico l’uomo ha ormai ritagliato il suo spazio, si è liberato definitivamente dal corpo, si è reso immortale. La tecnologia è stata capace di offrirgli ciò che rivoluzioni e religioni avevano promesso e mai concretizzato: l’indipendenza dal mondo fisico, dalla rabbia, dal sesso, dalla nazionalità e dalla personalità.
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1 A fornire l’interessante resoconto della performance “Ping Body”, in Incantati dalla Rete, 2000, è Carlo Formenti che il 22 maggio 1998 ha assistito personalmente allo spettacolo tenuto dal performer australiano presso il Teatro Studio Scandicci di Firenze. 2 Formenti, C., op. cit 3 Secondo M. Heim la realtà fenomenica delle entità cibernetiche suscita nella vita di tutti i giorni un fascino simile a quello esercitato dal Bello. Scrive infatti: «Noi amiamo il modo in cui i pc riducono la complessità e l’ambiguità, catturano gli oggetti in una rete digitale, rivestendoli con colori splendenti e cingendoli in precise strutture geometriche. Siamo innamorati della possibilità di controllare tutta la conoscenza umana. La nostra passione per il pc, per la grafica computerizzata, per le reti di computer si sviluppa in modo più profondo del compiacimento estetico o del piacere dei sensi. Siamo alla ricerca di una casa per la mente e per il cuore. La nostra attrazione per gli oggetti tecnologici è più erotica che sensuale, più profondamente spirituale che utilitaristica. E l’eros, come sapevano gli antichi greci, nasce da una sensazione di insufficienza o inadeguatezza». 4 Marchesini, R., 2002, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Boringhieri scienze, Torino. 5 In Sterling, B., (a cura di), 1994, Mirrorshades, tr. it. Bompiani, Milano. 6 Romanzi e pellicole cyberpunk presentano una sorta di neo-medioevo elettronico dalle atmosfere fumose e decadenti, ricco di tecnologie bioingegneristiche e nanotecnologie, in cui all’impennata futuristica e tecnologica corrisponde il regresso a forme arcaiche di stratificazione e di controllo sociale. Tratto caratterizzante il genere è, non a caso, un certo “gusto per le rovine”, per il degrado, le macerie, di cui sono simboli esemplificativi: le carcasse d’auto, i rifiuti industriali, i cieli gonfi di sostanze tossiche. Come scrivono Graziano Braschi e Antonio Bruschini quello descritto è un mondo «torbido, ricco di un sottobosco intricato e miscelato di umani, mutanti e cyborg. Un mondo di traffici di ogni tipo: droga, organi umani, high tech, sesso, sentimenti; un mondo di ricchezza e miseria contrapposte e intersecate, un mondo di mafia». 7 La trasformazione d’immaginario che il postmoderno conosce sembra porre in relazione: tecnoscienza ed escatologia religiosa, che vedono i propri confini confondersi al punto da indurre la prima ad ereditare il repertorio di immagini mitiche della seconda. Ne deriva, come spiega Formenti: un «un immaginario fusionale fra l’umanità e le sue protesi, sempre più potenti e intelligenti. Immaginario che, mentre attinge più o meno consapevolmente ai materiali del mito e della religione (in particolare alla gnosi e all’alchimia), estrapolandoli dal loro contesto originario, sembra costituire l’unica chance di cui il soggetto moderno disponga per attribuire senso all’esperienza della sua progressiva e irreversibile perdita di comprensione/controllo sull’ambiente artificiale». 8 Si potrebbe leggere come «stregone dei neuroni», in riferimento alla possibilità, esplorata nel libro, di installare i sistemi di stimolazione percettiva direttamente nelle sinapsi neuroniche. Ma «neuromante» suona anche come «new romancer»,
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ovvero nuovo romancero, per il carattere di romanzo d’avventura picaresca, sebbene in coloritura ipertecnologica e futuribile, che il libro presenta. E ancora, vi è probabilmente un’assonanza con «new romantics», neo-romantico. Di sicuro il titolo è fortemente sovradeterminato, possiede cioè una molteplicità di significati. 9 Neuromante, nell’età di Reagan e del DARPA, è una presenza consolidata non solo nelle opere letterarie degli anni ’80, ma anche nelle pubblicazioni tecniche, nelle conferenze, nella progettazione hardware e nei discorsi di tipo scientifico e tecnologico in genere. 10 Una delle migliori invenzioni di Gibson, senz’altro la più fortunata, l’idea del cyberspazio viene ad un giovanotto poco più che trentenne senza alcuna preparazione scientifica né tecnica. La sua è un’idea che preconizza la realtà virtuale immersiva, ossia quella in cui il soggetto si trova circondato, si trova dentro il mondo virtuale. E ciò accade negli stessi anni in cui la NASA inizia i suoi esperimenti di realtà virtuale immersiva. Nel 1984 Gibson descrive un cyberspazio tridimensionale che non esiste ancora, anche se se ne possono trovare le fondamenta in una serie di esperimenti sia nel settore militare che in quello dei campus statunitensi. 11 Lo sprawl, collocato da molti autori cyberpunk lungo l’asse metropolitano Boston-Atlanta, è definito da Gibson un “calderone caotico d’umanità”, una sorta di “zona di frontiera” in cui l’emarginazione è nutrita, cresciuta, distrutta e ricreata in continuazione dal meccanismo degli affari illegali. È l’immagine speculare della cosiddetta società sana, quella delle ipertecnologiche stanze del potere delle grandi multinazionali di settore. 12 La medesima espressione, analogamente con riferimento al corpo, è usata da P. Cadigan in numerosi suoi romanzi. In Existenz, un film di D. Cronemberg, il termine usato è «gabbia». La protagonista della pellicola, Allegra, sollecita il ragazzo che «ha una certa fobia al pensiero del suo corpo penetrato chirurgicamente» a farsi installare una bioporta (un orifizio aperto, a mo’ di canale telematico, nella spina dorsale) dicendo: «È questa la gabbia che ti sei costruito, che ti tiene intrappolato, che ti obbliga nel più piccolo spazio concepibile!». 13 È interessante mettere in relazione tale frase con quanto affermato da Lewitzky, a proposito del mondo dei morti: «Il mondo dei morti è in qualche modo la contropartita del mondo dei viventi; ciò che è soppresso sulla terra riappare nel mondo dei morti, ma il valore delle cose è invertito: ciò che era vecchio, sciupato, povero, morto sulla terra, vi diventa nuovo, solido, ricco, vivente». 14 A sottolineare una certa propensione per la casualità e l’improvvisazione le parole di Invernomuto: «Sto cercando di progettare, nel tuo senso della parola, ma non è questo, in realtà, il mio di base. Io… improvviso. È questo il mio più gran talento. Preferisco le situazioni ai piani». 15 «In questo romanzo il cyberspazio viene descritto come una sorta di “brodo primordiale”capace di generare nuove forme di vita, creature dotate di bizzarri poteri che Gibson assimila alle divinità Voodoo, provocando un geniale cortocircuito letterario fra high tech e sciamanesimo haitiano (…) Il culto haitiano associa ogni divinità al “diagramma mistico” che bisogna tracciare ogniqualvolta si desideri evocarla (…) diagrammi che somigliano in modo impressionante ai circuiti elettronici». (Formenti, 2000) 16 I personaggi di romanzi e pellicole sono gente di strada, pirati informatici,
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Note
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comunicazione di desiderio / desiderio di comunicazioine
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street technologist, asociali, emarginati, sbandati, tossicodipendenti, ricettatori, spacciatori. Individui soli, che vivono spesso doppie vite, persi nelle loro allucinazioni ed inseguiti dai loro sogni. Persone, come scrive Caronia, «il cui ruolo sociale è secondario, la cui vita è precaria, il cui habitat naturale è il suburbio, la cui prassi quotidiana è l’espediente». 17 Il perché della connessione al sistema tramite nervi ottici è spiegato dalla Cadigan in termini di funzionalità e semplicità. «Collegarsi al sistema attraverso le orecchie è complicato. Richiede tempo. Entrare dall’orecchio è come aprirsi faticosamente la strada attraverso la giungla quando esiste un’autostrada in perfetta efficienza, e senza traffico, che può essere usata al suo posto. Collegarsi direttamente al centro visivo del cervello è un metodo più diretto». 18 Allie assumerà un atteggiamento critico nei confronti dell’incarico. Qui, come in molti altri “luoghi” del romanzo, la protagonista si farà portatrice di una morale. «Secondo me, quando te ne vai, devi avere il diritto di portarti via qualcosa o almeno di assicurarti che finisca con te; e se questo qualcosa è la tua arte… così sia. Cristo c’era in giro una gran quantità di artisti con un sacco di cose da dire. Molti li trovavi morti con un biglietto che ordinava un immediato esame post-mortem… Alcune persone non riescono ad accontentarsi di essere vive. Devono anche essere morte». La medesima idea del poter “dar voce” ad un morto, superando la soglia dell’aldilà, culmina in una affermazione fatta in Johnny Mnemonic, un film del ‘95 diretto da R. Longo, da un folle profeta-cyborg: «La nostra è un’epoca in cui anche i morti hanno qualcosa da dire!». 19 Milioni di disperati sono stati riuniti dal Reverendo attorno alla «Chiesa del Dio Che Non Fa Differenze», la medesima nuova setta religiosa citata nei suoi romanzi anche da Greg Egan. I rimandi fra i diversi autori sollecitano il lettore a tessere un’interessante tela di corrispondenze. 20 Snow crash è un termine del gergo informatico che indica un incidente all’interno del sistema –un virus– capace di spingersi così in profondità da metter fuori uso la parte del pc che controlla il fascio di elettroni nel monitor, annebbiando completamente lo schermo e trasformando la griglia perfetta di pixel in una tempesta vorticosa di punti bianchi e neri, laddove il bianco corrisponde allo 0 e il nero all’1.
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i mille volti di un concetto
paolo pellegrino geografie del desiderio: geosofie 96
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1. L’invenzione di un concetto Dai presocratici a sant’Agostino, la questione del desiderio è al centro della domanda filosofica. Le teorie sono sicuramente diverse e talvolta divergenti; la pluralità dei termini che designano il desiderio (Eros, Cypris, epithumia, hormé, orexis, ecc.) sono sicuramente una prova della difficoltà di coglierlo nella sua unità. Ma il rapporto dell’uomo con l’Essere resta comunque l’esperienza originaria ed essenziale su cui si fonda l’intero pensiero greco. E si tratta sempre di un rapporto di desiderio. Tragico, all’apparenza, nella visione di Empedocle; inquieto, nella riflessione politica di Platone, a fronte della potenza incontrollabile della massa e del desiderio; moralmente represso, negli epicurei e negli stoici; sublimato in amore divino in Plotino e Agostino, il desiderio si afferma come qualcosa di eterno, affermando al tempo stesso l’eternità del mondo. A voler scegliere un altro angolo visuale, il desiderio appartiene alla famiglia delle emozioni, delle sensazioni, dei progetti, delle trepide attese1. Alla radice di questo frastagliato ventaglio di atteggiamenti caratteristici della natura umana, c’è quell’ancestrale sensazione di stordimento e di meraviglia che è all’origine della filosofia. Secondo gli antichi, infatti, la meraviglia è il principio della filosofia. Questa è l’opinione di Platone: «È proprio tipico del filosofo […] l’essere pieno di meraviglia: il principio della filosofia non è altro che questo, e chi ha detto che Iride è figlia di Taumante sembra che non abbia tracciato una cattiva genealogia»2. Dello stesso parere è Aristotele: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (ϑαυµα ´ ζειν): mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti le generazioni dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che
ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia»3. Al principio dell’età moderna, Cartesio ha espresso un analogo concetto: «Quando il primo incontro con qualche oggetto ci sorprende e lo giudichiamo nuovo o molto differente da quel che conoscevamo prima, oppure da quel che noi supponevamo dovesse essere, ciò fa sì che l’ammiriamo e ne siamo stupiti. E siccome ciò può capitare prima che conosciamo minimamente se quest’oggetto ci sia o no conveniente, mi sembra che la meraviglia sia la prima di tutte le passioni. Essa non ha il suo contrario, perché, se l’oggetto che si presenta non ha in sé niente che ci sorprenda, noi non ne siamo per niente scossi e lo consideriamo senza passione»4. Se la filosofia nasce dalla meraviglia di fronte ai fenomeni della natura e alla nostra collocazione nel mondo, ne consegue come risposta da parte dell’uomo la voglia, lo stimolo e il desiderio, per un verso, di conoscere e, per l’altro, di ipotizzare progetti di trasformazione: da qui la radice costitutivamente ancipite del desiderio, intellettiva e pratica. In generale, per desiderio s’intende il principio che spinge all’azione un essere vivente, in vista della soddisfazione di un bisogno, dell’appagamento di un desiderio o della realizzazione di un fine. Così Aristotele intese il desiderio (ο’´ ρεξις), che egli pose, insieme con la sensazione e con l’intelletto, fra le parti direttive dell’anima. «Ciò che nel pensiero –egli aggiunge– è affermazione e negazione, nel desiderio è ricerca e fuga, di modo che, siccome la virtù è uno stato abituale che produce scelte, e la scelta è un desiderio deliberato, proprio per questo, se la scelta è la migliore, il ragionamento deve essere vero e il desiderio corretto, e l’uno deve affermare, e l’altro perseguire, gli stessi oggetti. Questo è il pensiero pratico e questa la sua verità; del pensiero teorico, e non pratico né tecnico, il bene e il male sono verità ed errore […], mentre della parte intellettuale pratica il bene è la verità che si trova in accordo con il desiderio corretto»5. Il desiderio, tuttavia, può essere talora retto e talora non retto; e pertanto appetizioni diverse possono essere talora contrarie, come accade quando il desiderio e la ragione si combattono. In base a queste ultime notazioni aristoteliche, gli Scolastici distinsero un appetito sensibile e un appetito intellettivo; e S. Tommaso afferma che essi sono due diverse potenze dell’anima, l’una passiva e l’altra attiva. Gli Scolastici ammisero pure la dif-
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ferenza tra appetito irascibile e appetito concupiscibile: il concupiscibile inclina a perseguire il bene sensibile e a rifuggire da ciò che è sensibilmente nocivo, l’irascibile è quello per cui si resiste alle azioni nocive e si agisce di fronte a tutto ciò che è difficile6. Queste notazioni sono rimaste pressoché immutate per secoli. Hobbes dice che il desiderio e la fuga differiscono dal piacere e dal dolore come il futuro differisce dal presente: sono essi stessi piacere e dolore, ma non presenti, bensì previsti o aspettati7. Spinoza connette l’appetito con lo sforzo (conatus) della mente di perseverare nel proprio essere per una durata infinita: Questo sforzo –egli dice– si chiama volontà quando si attribuisce alla sola mente, si chiama appetito (appetitus) quando si riferisce insieme alla mente e al corpo; l’appetito, perciò, è l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura derivano necessariamente le cose che servono alla sua conservazione e che perciò è determinato a compiere8.
Lucida e fulminea la conseguenza che ne trae subito dopo:
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Nell’orizzonte teorico di Kant, il desiderio (appetitio) è definito come «l’autodeterminazione della forza di un soggetto mediante la rappresentazione di qualcosa di futuro assunto come effetto di questa forza stessa»10. L’appetizione costituisce perciò quella che, nella Critica della ragion pratica, egli chiama «facoltà di desiderare inferiore» la quale presuppone sempre, come suo motivo determinante, un oggetto empirico: a differenza della facoltà di desiderare «superiore» che è determinata dalla semplice rappresentazione della legge11. È la distinzione –che i wolffiani riprendevano dalla scolastica classica– tra il desiderio dei sensi (appetitus sensibilis) e il desiderio della ragione (appetitus rationalis). Kant ne contesta la fondatezza, quando la distinzione sia basata unicamente sulla facoltà interessata alla realizzazione del desiderio: se lo scopo è soddisfare una propria esigenza egoistica, poco importa se questa interessi i sensi o l’intelletto. Una facoltà di desiderare superiore si avrà solo se l’uomo sarà capace di prendere interesse alla realizzazione del dovere
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L’immagine mnestica [di una certa percezione] rimane d’ora in poi associata alla traccia mnestica dell’eccitamento dovuto al bisogno. Appena questo bisogno ricompare una seconda volta, si avrà, grazie al collegamento stabilito, un moto psichico che tende a reinvestire l’immagine mnestica corrispondente a quella percezione, e riprovocare la percezione stessa; dunque, in fondo, a ricostruire la situazione del primo soddisfacimento. È un moto di questo tipo che chiamiamo desiderio; la ricomparsa della percezione è l’appagamento del desiderio12.
Da qui la conclusione che, se il desiderio trova appoggio nel soddisfacimento primario di un bisogno, si distingue sostanzialmente da quest’ultimo. In effetti, il bisogno è in relazione a un oggetto preciso che gli manca e può soddisfarlo, mentre il desiderio non è in relazione con un oggetto reale ma con le sue tracce mnestiche. Qui, l’oggetto diventa segno. Il desiderio consiste in una sorta di storia cifrata le cui prime lettere, uscite da misteriosi geroglifici, sono state tracciate durante la prima infanzia e costituiscono il corpo o il corpus dell’inconscio. Di traccia in traccia, di segno in segno, si scrive una storia, che inscrive il tempo e la spinta delle pulsioni in un’altra temporalità, quella del soggetto. Come un discorso che si
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Risulta dunque, da tutte queste cose –conclude Spinoza–, che noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo, né desideriamo qualcosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualcosa perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo9.
in quanto tale: solo in questo caso il movente originario di questo interesse sarà non egoistico, e non condizionato dalla sensibilità. Nella filosofia moderna e contemporanea il termine appetizione (che è la traduzione del modo prevalente di indicare il desiderio in latino: appetitio o appetitus) è caduto in disuso ed è stato sostituito da altri come «tendenza» o «volontà», ai quali vengono talora riferite le determinazioni che la filosofia antica aveva attribuito all’appetizione. Lo spazio semantico racchiuso nelle espressioni appetitio o appetitus tenderà progressivamente a scivolare in quella di desiderium, non senza qualche oscillazione di significato, soprattutto in campo psicoanalitico. Il termine latino desiderium, infatti, inteso nel suo senso etimologico di lutto e rimpianto o nostalgia, riassume esattamente la concezione freudiana del desiderio: qualcosa che nasce dall’esperienza di una perdita e consiste nello sforzo di rivivere la soddisfazione provata un tempo. Non a caso, uno dei testi freudiani che descrive con maggiore ricchezza il rapporto del soggetto desiderato o innamorato con l’oggetto è sicuramente Lutto e melanconia. Ma una delle definizioni più precise è data ne L’interpretazione dei sogni, in termini che ricordano l’origine e la definizione del desiderio come reminiscenza in Platone:
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sugli «artifici della filosofia». Lacan, commentando il Simposio di Platone, ricorda «questo campo abbandonato, questo campo screditato, questo campo escluso dalla filosofia, perché non padroneggiabile, non accessibile alla sua dialettica, che ha nome desiderio»13. Nietzsche, in Crepuscolo degli ìdoli, dichiara che «al gusto di un filosofo niente è più contrario dell’uomo in quanto nutra desideri»14. In verità, è la stessa storia della filosofia a dimostrare che il problema del desiderio è stato il suo problema per eccellenza, e Lacan ne ha fatto il concetto cardine dell’esperienza psicoanalitica, indirizzando quest’ultima verso l’interrogazione filosofica e ricorrendo alla riflessione su molti filosofi, tra cui Hegel. Anzi, la filosofia deve la sua fortuna e la sua grandezza proprio al fatto che, riprendendo instancabilmente la questione del desiderio, non lo ha ridotto a un concetto univoco, a una verità. Nella misura in cui, come afferma Spinoza, «il desiderio è l’essenza dell’uomo», nulla sarebbe più vano e pericoloso che ricondurlo a una definizione. Quindi proprio la mobilità concettuale della storia della filosofia, in particolare della filosofia greca, garantisce la fortuna della nozione di desiderio e il rispetto della sua esistenza. Questo semplice termine, desiderio, che crediamo di conoscere bene dal momento che sembra indicare un’esperienza evidente, lo vediamo in realtà proliferare in una molteplicità di significati, svolgere il suo enigma seguendo infiniti slittamenti concettuali. E vediamo anche che, mentre pensiamo di averlo fissato in una designazione univoca –il «desiderio»–, esso smette di essere un concetto chiaro per diventare un campo di tensioni e di contraddizioni. Per cui, ad esempio, la psicoanalisi, in base al primo significato della voce latina desiderium, fa del desiderio un rimpianto rivolto verso il passato. D’altro canto, una tradizione filosofica che risale ad Aristotele e passa per Hobbes, Spinoza e Nietzsche, ne fa invece un «appetito», una facoltà positiva della vita. L’enigma del desiderio costringe ciascuno a rispondere con giudizi di valore che vanno al di là della sua esistenza personale. E ogni volta vi risultano implicati il senso che si attribuisce alla vita, o una posizione estetica, o un atteggiamento politico. La prima filosofia del desiderio è stata quella di Platone: da un lato, nel Simposio, l’identità del filosofo viene individuata nella componente erotica che si esprime nell’anelito al bello, seppur dissociato dall’integrità dell’esperienza sensibile; dall’altro, soprattutto
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esprime attraverso i sogni, i lapsus, i sintomi, il desiderio traccia il proprio cammino. Escludendo, per il momento, la particolare accelerazione che alla dimensione nostalgica del desiderio è stata data dalla psicoanalisi contemporanea, ed escludendo altresì l’accentuazione dell’aspetto legato al bisogno, è indubbio che comunque un millenario dilemma abbia percorso, come un autentico fiume carsico, tutta l’evoluzione del pensiero occidentale, da Platone a Lacan: la passione, come concentrato incandescente del desiderio, si oppone alla ragione o è, al contrario, il fondamento della nostra libertà, la molla potente che ci mantiene in vita? Da dove proviene quella tensione vitale in grado di imprimere un impulso creativo e progettuale alla nostra esistenza? E questa tensione è qualcosa da rifiutare, neutralizzare e rimuovere o è, invece, qualcosa da incoraggiare e promuovere? Nella letteratura, nella musica, nelle arti, le emozioni hanno pieno diritto di cittadinanza: in queste attività vi è l’implicita consapevolezza che esse, pur venendo alla luce da un magma irrazionale, agiscono cognitivamente, incrementano cioè il nostro patrimonio d’esperienza. Già Baumgarten, nel 1750, aveva definito l’estetica come «scientia cognitionis sensitivae», assegnando implicitamente all’arte una funzione conoscitiva, ancorché una forma aurorale di conoscenza, ma proprio perciò tanto più importante in quanto –al pari del buon senso cartesiano– patrimonio comune ed egualmente distribuito fra tutti gli esseri umani. Nella filosofia invece, da Platone in poi, tra la razionalità e le passioni esiste un contrasto insanabile. Almeno dagli stoici fino a Kant, il Logos si rende immune dall’altro da sé, dall’insidiosa ingovernabilità di desideri e passioni, affetti ed emozioni. La storia del concetto di desiderio è destinata a inoltrarsi sul terreno impervio dei veti incrociati. Ogni secolo avrebbe avuto il proprio mito e il proprio ideale: nel XVII l’ordine, nel XVIII la felicità, nel XIX il progresso. Il mito del nostro tempo sarebbe allora il desiderio? Bisogna diffidare dei «miti che ci martirizzano», diceva Antonin Artaud. Ora, mai come oggi, la filosofia, lavorando sul crinale che la separa ma al tempo stesso la unisce alla psicoanalisi, ha posto il desiderio al centro della sua problematica e della sua riflessione, continuando così quell’opera di demistificazione del mondo che è sempre stata il suo obiettivo. L’età moderna, sotto questo profilo, guarda spesso con disprezzo alla storia della filosofia. Freud non perde occasione per ironizzare
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incremento ottenuto attraverso l’utilizzo di energia affettiva. Se Apollo ci protegge dalla violenza degli affetti, Dioniso è l’emblema di questa volontà affermativa dell’esistenza: Per brevi attimi siamo veramente l’essere primigenio stesso e ne sentiamo l’indomabile brama di esistere e piacere di esistere; la lotta, il tormento, l’annientamento delle apparenze ci sembrano ora necessari […], noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso attimo in ci siamo per così dire divenuti una cosa sola con l’incommensurabile gioia originaria dell’esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l’indistruttibilità ed eternità di questo piacere18.
Dopo secoli di ascetismo metafisico fondato sulla denigrazione della vita e sul fraintendimento del corpo, Nietzsche intende restituire il desiderio alla pienezza dell’esperienza, all’esuberante innocenza del corpo, ai piaceri dell’apparenza, alle lusinghe della seduzione, a quella ritrovata sensualità che è all’origine della trasvalutazione di tutti i valori finora egemoni, i quali hanno generato il nichilismo della vita declinante. Nel periodo successivo a Nietzsche, l’abbandono di retromondi metafisici è l’orizzonte entro il quale si muove il pensiero contemporaneo, da Freud che individua una inestinguibile pulsione di morte all’interno della libido, a Lacan che tematizza una «mancanza ad essere» come istanza ultima di un desiderio alimentato inconsciamente dal discorso dell’Altro; da Sartre, che identifica la verità del desiderio con quella della libertà, a Deleuze che delinea una geografia del desiderio disseminato in zone d’intensità, concepisce sovversive «macchine desideranti» e critica la psicoanalisi che persiste platonicamente nel fondare il proprio discorso sulla mancanza, mentre invece «il desiderio non manca di nulla»: se Freud aveva colpevolizzato Edipo, possiamo ritrovare l’eroe greco a Colono, innocente a fiero della propria forza di trasgressione19. 2. Il Simposio di Platone: il desiderio dell’Essere La ricostruzione della storia dell’idea di desiderio e dei concetti che sono serviti ad esprimerlo, deve tener conto di un doppio registro: da una parte, uno sforzo costante per pensare il Desiderio come potenza che unisce i piani dell’umano e del metafisico; dall’altra, un imbarazzo e un’inquietudine dello spirito di fronte alla molteplicità dei desideri e alla strana propensione del desiderio
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nella Repubblica, viene istituita una netta opposizione tra la ragione e la sfera del desiderio, aprendo così la strada alla secolare condanna filosofica del desiderio. Eros scaturisce dalla mancanza, dal rimpianto, dalla nostalgia di un’unità perduta e irripetibile: pertanto il desiderio si manifesterà sempre come eccesso, sovrabbondanza, flusso disordinato, ipercomprensione narcisista. Già in Aristotele è possibile avvertire i primi segni di una promozione ontologica del desiderio sotto l’egida del principio di ragione, inteso non più come mancanza, ma come piacere del passaggio dalla potenza all’atto, seppur orientato a quella temperanza che lo rende legittimo, un appetito ragionevole depurato della sensualità, come accade nell’amicizia. Dopo secoli di demonizzazione del desiderio, di esonero dalle perversioni della concupiscenza e dalle abiezioni della carne, il desiderio viene sottratto al dualismo di anima e corpo ed elevato al rango di potenza affermativa da Spinoza, che lo intende finalmente come conatus vitale, perseveranza di ogni cosa nel proprio essere, fedeltà alla propria natura, condizione affettiva che persegue il proprio bene, incremento di potenza avvertito con gioia, esuberanza esistenziale: «Il desiderio è l’essenza stessa dell’uomo», si legge –come abbiamo già visto– nel III libro dell’ Etica. La rivalutazione del desiderio avviene di pari passo con la rivalutazione di tutti gli altri sentimenti, da intendere non come vizi, ma come proprietà della natura umana, ad essa pertinenti non altrimenti che alla natura dell’atmosfera il caldo, il freddo, la tempesta, il tuono e simili15. Una volta comprese, le passioni possono infatti considerarsi anche energie naturali virtualmente a disposizione di chi sa elaborale. Cessano in tal modo di essere assolutamente «intrattabili»16, perché la conoscenza stessa le modifica e ne potenzia l’appetitus17. Tuttavia, anche per Spinoza, la passione è una rappresentazione inadeguata del desiderio, perché ci abbandona ad un’esperienza di passività che va riscattata mediate un’idea chiara e distinta, capace di riaffermare il carattere attivo e positivo dei nostri desideri, fino a raggiungere la beatitudine dell’amor Dei intellectualis. Sarà poi Nietzsche ad assumere compiutamente nel proprio pensiero, affrancato dal paradigma razionalista, la forza affermatrice del desiderio, come fondamento di una volontà di potenza che non è più mera autoconservazione della vita, bensì suo costante
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gli sarebbe stato fatale, preferì morire pur di vendicare la morte di Patroclo, il suo amante. Quest’ultimo esempio è, secondo Fedro, il più glorioso, perché: Gli dèi, pur onorando più di tutte l’eccellenza ispirata dall’amore, tuttavia maggiormente si meravigliano e ammirano e concedono favori quando l’amato mostra amore verso l’amante che quando l’amante lo mostra verso l’amato; l’amante, in realtà, è più divino dell’amato, perché è posseduto da un dio. E per questo onorano Achille più di Alcesti, mandandolo alle isole dei Beati20.
Questa distinzione tra l’amante e l’amato è alla base della concezione greca dell’amore omosessuale, fondato su una relazione di tipo pedagogico, che unisce un uomo d’età matura (l’amante) a un adolescente al quale quello impartisce un’educazione (l’amato). Ora, precisa Fedro, malgrado si possa credere il contrario, Achille, il più bello dei Greci, ma, quel che più conta, ancora imberbe e più giovane di Patroclo, era amato da quest’ultimo. Ecco dunque in che cosa consista il vertice dell’amore: nel fatto che l’amico prenda il posto dell’amante nella morte. È uno spostamento (denominato da Lacan «la metafora dell’amore») che presuppone nel soggetto l’abbandono della posizione di oggetto amato (colui che è desiderato) al fine di occupare quella di colui che desidera, e, dunque, che manca. Di più: è un processo che s’identifica con quella mancanza assoluta ed eterna del desiderio che può ben essere rappresentata da una sorta di matrimonio con la morte. Ma l’essenziale, per il soggetto, è stato prendere il posto dell’oggetto. Dopo lo slancio mitico dell’intervento di Fedro, il discorso del sofista Pausania ci fa ridiscendere a ciò che passa, tradizionalmente, per la concezione platonica dell’amore e che il lessico comune chiama, con bella ironia, «amore platonico», designando in tal modo quel tipo di interesse che fa amare nell’altro la propria «anima bella». Ora, l’ironia di Platone nei confronti di un discorso come questo è tanto evidente da rendere impossibile la confusione dell’autore con il personaggio. Pausania ravvisa un’ombra nella divinità così ottimisticamente celebrata da Fedro. A ben guardare, infatti, due sono le sue nature. Quella volgare conduce alla concupiscenza dei corpi fine a se stessa, con tutto quanto ne consegue, incluse la stanchezza che suben-
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umano per l’eccesso e per gli sconfinamenti più rischiosi. In fin dei conti, o, meglio, fin dal principio, i Greci, santificando l’Essere e la vita, hanno difeso il valore e il senso del desiderio. Per quanto lontano abbiano spinto la critica dei desideri –valga per tutti il caso dell’atarassia stoica– il loro fine ultimo è quello di affermare e giustificare il desiderio dell’Essere. Il testo che meglio di ogni altro introduce il problema è il Simposio di Platone, a cui si riconduce l’intera storia del pensiero del desiderio. Nel senso che ne prefigura gli obiettivi più importanti, le difficoltà, le linee di fuga, i paradossi e, soprattutto, le astuzie. Il Simposio è il racconto, o, per meglio dire, il resoconto di una riunione conviviale svoltasi in casa di Agatone. Costui, insignito di un premio per la messa in scena della sua prima tragedia, aveva invitato alcuni amici a festeggiare la vittoria: Fedro, Pausania, Eurissimaco, Aristofane e Socrate, il quale si era portato dietro il suo discepolo Aristodemo, incontrato per strada. L’occasione richiedeva davvero un simposio. Il termine proviene dal greco sympínein, che significa “bere insieme” e indica un momento conviviale condotto alla maniera di un rito: il senso di sacralità si esprime infatti attraverso gli inni dedicati agli dèi e le pratiche di purificazione (abluzioni e unzioni con unguenti profumati). La musica del flauto, cara a Dioniso, evoca la presenza del dio che, attraverso il vino, schiude l’ingresso del suo mondo. Lo spirito di una sfida combattuta con le armi della parola, qual era quella del concorso tragico da poco concluso, sembra aleggiare sui convitati, che decidono di cimentarsi a turno in discorsi intorno a un tema. È il medico Eurissimaco a proporre l’argomento, rispondendo alle sollecitazioni ricevute in passato dal giovane Fedro: ognuno pronunci un elogio di Eros, grande agitatore delle passioni umane. Senza riprendere l’intero complesso dei discorsi, è sufficiente soffermarsi su cinque momenti essenziali che scandiscono il dialogo e costituiscono altrettante articolazioni in base alle quali scaturiscono la nozione e la realtà del desiderio. Prende per primo la parola Fedro, che pronuncia un discorso inteso ad illustrare la grandezza tragica dell’amore («l’amore mitico») con esempi tratti dalla mitologia. «È certo –egli dice– che solo gli amanti sanno morire l’uno per l’altro», e che gli dèi onorano un simile sacrificio. Così Alcesti, la quale accettò di morire al posto del suo sposo, Admeto. Così Achille, il quale, pur sapendo che il gesto
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tra al piacere e la smania di nuove esperienze. La natura celeste, al contrario, ispira, nei confronti dell’amato, una volontà di comunione spirituale che si esalta nel tempo e non conosce tramonto.
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Il carattere ambivalente di Eros, denunciato da Pausania, viene sostenuto anche da Eurissimaco nel suo discorso, il terzo, e interpretato come la proprietà di un’energia presente non solo nel mondo umano, ma anche in quello animale e vegetale: nelle sue valenze negative essa reca distruzione e caos, mentre in quelle positive genera equilibrio e armonia. È poi la volta di Aristofane, interprete di uno dei più celebri miti platonici sull’amore, quello detto, a torto, dell’Androgino. Un tempo –dice il famoso commediografo– esistevano esseri «rotondi», unione di due maschi, di due femmine o di un maschio e una femmina. Possedevano quattro braccia, quattro gambe e due apparati riproduttori. Costoro erano a tal punto orgogliosi della loro forza da tentare di trascendere la condizione terrena e scalare il cielo per affrontare gli dèi. Come accade di regola nel mondo greco, del resto non diversamente che in quello ebraico, la h´y27, quella tracotanza che conduce a sfidare il divino e l’ordine naturale delle cose, viene severamente punita. Zeus divide in due gli esseri primitivi, cosicché da allora in poi ognuno di loro andrà in cerca della propria metà. Eros è la continua tensione che anima questa ricerca e si appaga solo nel ritrovamento della propria parte complementare e nella ricomposizione dell’intero. Eros è medicina che guarisce il dolore nato dalla scissione, ripristinando la fisionomia iniziale degli uomini, compiuta e perfetta. Le immagini del mito di Aristofane ci abbandonano per lasciare quindi il posto all’encomio pronunciato da Agatone, il padrone di casa. Non volendo svestirsi dei panni del poeta tragico, egli esalta la perfezione e la bellezza di Eros, in uno sproloquio ampolloso e vuoto, da perfetto sofista. Ecco infine il turno di Socrate. Siamo giunti al cuore dell’opera di Platone. I discorsi fin qui pronunciati hanno “riscaldato l’am-
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Quest’uomo, quindi, come tutti coloro che provano desiderio, desidera ciò di cui non dispone e non gli è presente, ciò che non possiede, ciò che egli stesso non è, ciò di cui è mancante: non sono di tale natura gli oggetti del desiderio e dell’amore?22
L’amore ha dunque a che fare con la smania proveniente dal bisogno, con il sentimento della privazione o, nella migliore delle ipotesi, con la paura della perdita. Nessuna divinità conosce tale percezione dell’insufficienza, nessuna soffre della mancanza di qualcosa. Il primo risultato dell’indagine di Socrate, dunque, è che Eros non è un dio. Che cos’è allora? Ce lo rivelano le parole di una sacerdotessa di Mantinea, Diotima, riferite qui dallo stesso Socrate, che a lei deve l’iniziazione ai misteri d’amore. Eros è un grande daimon, figlio di un dio, Poros (l’Espediente), e di Penía (la Povertà). Non può essere un dio, ma non si accontenta di essere un mortale. Conosce il fascino dell’immortale, del perfettamente compiuto (è questa infatti l’eredità che gli viene dal padre), ma il suo destino lo inchioda nella condizione di natura intermedia, povera e mai sazia, che era della madre. L’amore è l’ansia di eternità che ciascuno ha dentro, il desiderio di sconfiggere la morte e diventare simile agli dèi. La vita è breve, ma gli uomini vorrebbero prolungarla per sempre e per questo generano figli, consumando così la passione nel rapporto sessuale, oppure, ispirati nell’anima piuttosto che ansiosi di soddisfazioni corporee, danno alla luce frutti che conservino la loro memoria nel tempo: le opere d’arte, la poesia, le legislazioni degli Stati. L’amore dell’eterno, tuttavia, può esprimersi in forme ancora più elevate di questa: la filosofia conduce oltre gli amori dispersi rivolti alla bellezza dei corpi, delle anime o delle sublimi creazioni dello spirito. La filosofia, al termine di un lungo cammino di ricerca, schiude la contemplazione della bellezza assoluta, permettendo
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Io definisco cattivo l’amante volgare, che ama il corpo più dell’anima: il suo amore, infatti, non è costante, poiché è instabile l’oggetto che egli ama, e non appena si offusca il fiore della bellezza che egli amava, «egli s’invola e scompare», disonorando i suoi discorsi e le sue promesse, mentre chi ama un carattere nobile resta fedele per tutta la vita, poiché si unisce con qualcosa di stabile21.
biente” e suscitato, riguardo all’intervento di Socrate, aspettative che non andranno deluse: quanto egli dirà supererà per estensione, ma soprattutto per profondità e bellezza, ciò che hanno detto gli altri. Focalizziamo quindi l’attenzione sul discorso di Socrate. In apertura viene smantellato l’encomio di Agatone, il quale ha attribuito a Eros tutte le perfezioni. Socrate mostra come ciò che alimenta l’amore, che fa vivere Eros, è il desiderio, e il desiderio è mancanza:
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abbiamo l’impressione di snaturarne l’essenza, come del resto avviene, perché nel passaggio dal piano del sentimento personale a quello della comunicazione un vissuto individuale irripetibile viene descritto come se fosse una realtà oggettiva. Platone, nel Simposio, identifica con precisione i diversi momenti dell’eros: dall’amore per i corpi belli, transitando attraverso quello per le belle anime e passando per le diverse manifestazioni del bello, si perviene alla fine alla bellezza tutta intera (che è un’idea, cioè un archetipo idealtipo). In questo percorso l’amore umano, con tutte le sue travolgenti emozioni, diventa un fatto accidentale e, progressivamente disincarnandosi, non è sostanzialmente riconosciuto come esperienza autosufficiente, dotata di proprie ragioni e significati, ma come un momento di passaggio, necessario solo in quanto ci fa assaggiare le gioie di un Bene che sarà infinitamente più grande. In conclusione, come ha acutamente rilevato Sergio Givone, sia il mondo classico che il cristianesimo hanno pensato l’eros in opposizione all’etica e comunque attraverso il concetto del dominio delle passioni, di cui quella erotica è apparsa fra le più minacciose. Viceversa l’erotismo si è costantemente configurato come esperienza di libertà da quei vincoli morali e sociali che sono costitutivi di ethos. Eppure una più profonda tensione dialettica lega eros ed ethos. Non vi è dubbio che alle origini di questo accidentato rapporto tra due elementi costitutivi dell’esistenza umana ci sia la riflessione svolta da Platone nel Simposio come un incunabolo a cui non ha cessato di attingere la storia della civiltà occidentale in tutte le fasi della sua evoluzione23. 3. L’Etica di Spinoza: la potenza del desiderio Rifacendosi alla Grecia, a Platone ed in particolare ad Aristotele, alcuni filosofi, come Hobbes e Spinoza, hanno restituito al desiderio la sua positività. Potenza affermativa, appetito di vita, esso non si fonda più su nessuna mancanza, e non si limita alla ricerca di un oggetto perduto o di una soddisfazione ideale. Energia creatrice, è esso stesso a darsi degli oggetti e a porsi i propri valori. In Spinoza, l’affermazione della potenza dell’appetito (conatus) trova origine in una nuova indagine sulla natura della sostanza, così come è stata definita da Aristotele e ripresa da Descartes. Nel capolavoro cui lavorò per tutta la vita, massima espressione del razionalismo, Spinoza risolve il dualismo cartesiano tra materia e spirito ponen-
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l’ingresso nella sfera del divino, ed è questa la risposta più vera alla domanda di infinito che Eros accende negli uomini. Forse, alla fine di questo sintetico schizzo del Simposio, abbiamo le idee più chiare sul cosiddetto «amore platonico». Con questa espressione, entrata nell’uso comune, si è soliti intendere una relazione solo dello spirito, che esclude il coinvolgimento dei corpi. Ora sappiamo che non è così: l’amore, per Platone, nasce con l’attrazione fisica e interessa la sfera sessuale, ma poi procede oltre. I mortali fanno parte di quel mondo materiale che porta l’impronta della divinità e che allude ad altro. Perché fermarsi alla dimensione terrena, fatta di accidenti, contingenze, sottomessa alla morte? Gli amori umani sfioriscono e quelle energie che vi sono state riversate sono slanci caduti nel vuoto, travolti dal tempo. L’unico modo di ancorare l’esistenza all’eternità è dirigere l’amore verso l’alto, conquistare la visione delle realtà superiori, trovare l’infinito quando ancora si è immersi nel finito. Chi si aspettasse di trarre dal Simposio una celebrazione dell’amore romantico, di leggervi parole accattivanti, che possano dare voce a un sentimento umano, rimarrebbe deluso. È vero che l’immagine di Eros avvezzo a dormire per terra, insensibile alla fatica, nudo, appostato fuori dai portoni, è struggente e ben rappresenta l’ardore della passione che spinge a fare «follie». Ma queste follie non hanno come scopo, se non solo temporaneamente, l’incontro con un altro essere. L’amore si identifica infatti, nel Simposio, con il desiderio della conoscenza, la filosofia, appunto. Secondo questa prospettiva, nello sguardo dell’altro non scopro la sua individualità, ma vedo la mia immagine, ed è sempre me stesso che tengo presente nella relazione: la mia passione, la mia ascesa, la mia beatitudine. Solo l’amante è gravido. Solo l’amante genera nel bello. I «figli spirituali», cioè le produzioni intellettuali e artistiche, non si concepiscono insieme all’amato, ma si partoriscono grazie all’amato, perché, in realtà, colui che feconda è il dio. L’amore tra i sessi si esaurisce nella semplice procreazione: tra l’uomo e la donna non si prevede nulla di più di una interazione di corpi. Che ne è poi dell’onda di sogni, desideri, illusioni che ci travolge nell’innamoramento? Quando siamo innamorati, la persona amata catalizza tutti i nostri pensieri, riempie di sé la nostra vita e difficilmente potremmo raccontare ad altri l’alchimia di emozioni, reazioni, motivazioni nella quale siamo immersi. Se proviamo a farlo,
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moderno, su Hegel e la psicoanalisi in particolare, è evidente l’irriducibile differenza che li oppone. Né lavoro del negativo, né pulsione di morte sono concepibili nell’universo spinoziano. Qualsiasi limitazione di potenza, compresa la morte stessa, può provenire solo da forze esterne. L’appetito, infatti, è, in ogni caso, la manifestazione positiva e infinita della potenza divina. Alla quale capita tuttavia di sbagliare. E a maggior ragione quando si tratta dell’uomo. Quindi, per capire tali errori, è necessario specificare la natura del desiderio. Identificabile in senso stretto con l’appetito nella sua essenza, esso ne è infatti una manifestazione particolare. Nell’Etica, Spinoza afferma che l’appetito è l’essenza dell’uomo, e dichiara che «non esiste alcuna differenza tra appetito (appetitus) e desiderio (cupiditas), se non per il fatto che quest’ultimo si riferisce agli uomini, in quanto sono coscienti del proprio appetito»25. Di che cosa allora sono coscienti? Non certo dell’appetito in se stesso. Che l’uomo sia cosciente o meno del proprio appetito, non cambia nulla nell’appetito stesso, che ha tutte le caratteristiche di una volontà inconscia; ma, soprattutto, la proprietà del desiderio è quella di cercare nelle rappresentazioni particolari ed esterne degli stimoli che determinano e orientano lo sforzo. In altre parole, il desiderio si definisce mediante la differenza tra l’appetito e la sua rappresentazione o, più esattamente, la rappresentazione degli affetti che agiscono sul corpo. Come abbiamo già avuto modo di rilevare, nell’orizzonte teorico di Spinoza il desiderio assume un ruolo assolutamente centrale nella configurazione antropologica: Il desiderio (cupiditas) è l’essenza stessa dell’uomo, nella misura in cui è concepita come determinata, da una qualunque affezione di se stessa, a fare qualcosa26.
Questa affermazione così impegnativa e importante esige di essere esplicitata. Primo punto: il desiderio presuppone la rappresentazione di una causa che determina l’azione (parte IV dell’Etica, prop. LXI). Così cominciano l’erranza e l’errore del desiderio: invece di volgersi verso l’emanazione interna del conatus, lo spirito cerca all’esterno dei presunti oggetti causa del desiderio. Invece di volere ciò che giudichiamo desiderabile in funzione della nostra essenza, commettiamo l’errore di cercare nelle cose l’origine del desiderio e i motivi del desiderabile.
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do un’unica sostanza, Dio, che consta di infiniti attributi, concreantesi nei modi, cioè negli individui. Riprendendo, poi, l’idea aristotelica secondo la quale l’essenza è energia, Spinoza afferma che l’essenza di Dio è potenza. Ed è suo compito trasmettere a tutto ciò che esiste la propria energia. La perseveranza di ogni cosa nel proprio essere, lo sforzo di ogni esistente di essere conforme alla propria essenza, sono la manifestazione determinata dell’infinita potenza di Dio. Questa forza, questo sforzo, Spinoza lo chiama conatus. Esso sostiene l’appetito di vita di ciò che è e dà il suo impulso al desiderio fondamentale. Potremmo identificarlo con la pulsione elementare, quella che non è determinata da alcun soggetto e non contempla alcun oggetto preciso. Il che costituisce il fondamento stesso dell’etica, come è rivelato dalla formula: «lo sforzo per conservarsi è il primo e unico fondamento della virtù»24. Passando per l’appetitus degli stoici, la nozione di «appetitus» rimanda all’hormé o all’orexis di Aristotele. Ma il passaggio dal piano dell’ontologia al registro dell’etica comporta un rovesciamento radicale: non esiste più alcuna determinazione a priori del Bene, alcun oggetto buono in sé. Il criterio dell’azione è sempre soggettivo, e in luogo di una morale intesa come ricerca di regole di vita, abbiamo un’etica fondata sulla potenza vitale, sull’enérgheia. Il solo criterio ammesso, ontologico ed etico insieme, è l’incremento o la diminuzione della sensazione di potenza; e i criteri primari di ogni giudizio di valore sono la gioia e la tristezza, che accompagnano le fluttuazioni della potenza. Espressione della pura potenza di Dio in ogni essere, l’appetito è infinito. Inoltre non ha propriamente né oggetto né soggetto, o, in altre parole, né origine né fine. Tuttavia le cose manifestano questo infinito in un modo «definito e determinato», nella misura in cui ciascuna è portatrice di un quantum di potenza. Nello stesso tempo, però, ciascuna lo vive come se fosse infinito. Da qui, il desiderio come positività pura. Il che implica delle conseguenze: in primo luogo, esso non nasce da una mancanza, ma, al contrario, da un’infinita esuberanza di potenza che cerca e crea le condizioni necessarie al proprio accrescimento; in secondo luogo, la forza vitale non comporta al proprio interno alcuna limitazione né negatività. Non solo ogni cosa si oppone a ciò che può negare la sua esistenza: c’è di più, «nessuna cosa ha in sé qualcosa che possa distruggerla». Per quanto rilevante sia stata l’influenza di Spinoza sul pensiero
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Secondo punto: questa affezione, o causa seconda, è un effetto prodotto da corpi esterni sul nostro corpo. Essa non è però l’affetto stesso, ma la sua rappresentazione, o la sua idea, perché, data la distinzione dei modi, non esiste rapporto immediato tra il corpo e lo spirito. Quest’ultimo percepisce i corpi esterni solo «attraverso le idee delle affezioni del proprio corpo» (parte II, prop. XXII), ma soprattutto: La Mente umana non conosce lo stesso Corpo umano, né sa che esso esiste, se non per mezzo delle idee delle affezioni dalle quali il Corpo è affetto27.
La connessione tra i due modi e l’ordine delle loro rispettive cause si effettua in Dio. In Lui solo i modi sono compresenti. È dunque in Lui che l’uomo conosce, cioè apprende, la connessione tra le idee e le affezioni del corpo. Le affezioni che agiscono sul desiderio sono dunque delle passioni: in altri termini, l’interpretazione mentale delle azioni subite dal corpo. Il criterio di base è sempre lo stesso: l’incremento o la diminuzione della potenza, di cui la gioia e la tristezza sono, in qualche modo, i segnali. Sennonché, considerando solo le cause esterne, ci poniamo in una situazione passiva, e siamo per di più esposti al potere dell’immaginazione. È questa una facoltà dello spirito che si fa delle idee sui corpi esterni a partire dalle affezioni che il corpo proprio subisce. Si tratta quindi di una rappresentazione inadeguata, che assolve nondimeno una funzione necessaria. Essa risponde al fatto che l’uomo è sempre in situazione nella Natura, e dunque sempre affetto da corpi esterni. Per cui in questo urto perenne l’immaginazione cerca spontaneamente di soddisfare l’appetito, di produrre la gioia con la sensazione di un aumento di potenza.
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Il problema è che, poiché le rappresentazioni non corrispondono in misura adeguata alle cose, ci troviamo coinvolti in giudizi erronei e, obbedendo alla forza delle cose che crediamo di dominare, finiamo per realizzare il contrario del desiderabile e per trovarci in una condizione di impotenza. La passione è dunque una manifestazione
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La Mente per quanto può si sforza di immaginare le cose che aumentano o favoriscono la potenza di agire del Corpo28.
inadeguata del desiderio, qualcosa che si fonda su un fantasma, un oggetto immaginario, e non su una cosa vera. Dalle due passioni fondamentali, la gioia e la tristezza, discendono i due sentimenti essenziali dell’amore e dell’odio, e, di seguito, l’intera combinatoria della vita affettiva, insieme alla casualità dei desideri contraddittori. Tuttavia, non siamo per sempre condannati alle rappresentazioni inadeguate, nelle quali l’anima è passiva e dominata dall’immaginazione. Data la distinzione essenziale tra rappresentazione ed affetto, possiamo astrarre dalle cose un certo numero di idee adeguate senza subire la passione che le accompagna. Un dato sentimento si libera della passività che lo caratterizza non appena ce ne forniamo un’idea chiara e distinta: e non esiste affezione del corpo di cui non possiamo formarci un’idea chiara e distinta (parte V, propp. III e IV). Il nostro spirito, a questo punto, diventa attivo e può rovesciare la logica dei modi restituendo all’anima il suo potere sul corpo. Si accede così al «desiderio razionale». I legami tra la morale stoica e l’etica spinoziana sono numerosi. Certo, se il fine dello stoicismo è l’atarassia, intesa come annullamento del desiderio, allora non è questa la visione dello spinozismo. Ma se il fine è l’Amor fati, o desiderio di ciò che accade, adesione volontaria al destino, allora siamo vicini a ciò che Spinoza intende con «impassibilità», ovvero adesione attiva alla necessità della Natura, capace di procurarci un senso di autentica gioia e appagamento. Il desiderio razionale è appunto un desiderio, e non la sua negazione o la sua sottomissione all’intelletto. Trovando una guida nella ragione, esso si costituisce come desiderio autonomo e attivo, non più determinato dagli affetti esterni, ma pronto a cercare in se stesso e a partire dalla propria essenza gli stimoli dell’azione. E dato che il criterio vero dell’etica resta sempre il grado della potenza, non diremo che coloro i quali non possono giungere alla libertà dell’autonomia sono colpevoli, ma solo che sono impotenti, incapaci di padroneggiare gli affetti determinati da cause esterne. È una saggezza che non è intellettualismo. Non si tratta, come accade nella morale classica, di sottomettere le passioni alla ragione e di sradicare il potere dell’immaginazione. Al contrario: solo la passione agisce sulla passione. Bisogna cioè assicurare alle massime della ragione la forza di convinzione e di affezione delle passioni. Per questa strada, Spinoza ritrova una pratica stoica in base alla quale
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le regole morali, o theorémata, vanno meditate in modo che diventino una norma valida tanto per il corpo quanto per lo spirito. Per cui l’immaginazione si mette al servizio di questa forza intellettuale di convinzione e contribuisce al rovesciamento della passività in attività. La gioia è la passione etica per eccellenza e il vero criterio dell’azione morale:
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La finalità dell’etica è appunto quella di garantire al desiderio la sua potenza e la sua positività. Per far questo, Spinoza mette in atto un dispositivo eccezionale, desunto dalla scienza leader del suo tempo, la geometria, alla luce della quale non esita a considerare «le azioni e gli appetiti umani come se fosse questione di linee, di superfici o di corpi»30. Utilizzando questo formidabile strumento di analisi, egli attua una rivoluzione senza precedenti: dove prima si era visto solo caos e disordine, egli applica il metodo geometrico. Nasce un’esperienza intellettuale esaltante: la geometria delle passioni. Per quanto inspiegabili, indocili, capricciose e perturbanti possano apparirete a prima vista, le passioni, opportunamente osservate –sembra suggerire Spinoza–, non solo rivelano una trama intelligibile e una articolazione coerente, ma possono anche diventare oggetto di uno spettacolo piacevole. Ha commentato molto acutamente, a questo proposito, Remo Bodei: «Dietro il loro caos [delle passioni] si scopre un ordine preciso; all’interno dei loro impercettibili o improvvisi scarti ed eccessi una logica stringente; nel loro aspetto talvolta spaventoso una specifica bellezza. A chi sia in grado di penetrare l’involucro è riservata non solo la gioia che il conoscere tradizionalmente dispensa, ma anche la soddisfazione di contemplare dal punto di vista di ‘una scienza meteorologica’ dell’animo, il paesaggio variato delle loro metamorfosi sullo sfondo dell’orizzonte teorico della necessità»31. Occorre solo aggiungere che, al culmine dell’etica spinoziana, il desiderio razionale è destinato a trovare un appagamento stabile e duraturo, intercettando l’oggetto esaustivo delle sue brame. Nel caso del desiderio razionale, infatti, la gioia non conosce, in ordine alla casualità degli affetti, né aumento né diminuzione, ma procede da un adeguamento dell’uomo alla sua essenza e di questa all’essenza della Natura. È tale la beatitudine che accompagna questo
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4. La Critica del Giudizio di Kant: il rapporto tra bello e desiderio Tanti sono i significati compresi nella voce «desiderio». E chi è Eros? È l’amore o il desiderio? Perché dovremmo distinguere le due nozioni, le due esperienze? Nel Simposio, l’indeterminatezza è costante, anche se, a tratti, la specificità del desiderio viene distinta dal sentimento amoroso. In ogni caso, i filosofi greci parlano poco dell’amore passione. Parlano dell’amore dei giovinetti, dei bei corpi e delle anime belle, così come della philia, che offre come modello allo stesso amore coniugale l’amicizia, ma in genere condannano questa passione inutile. Il messaggio d’amore è quello che ci arriva dal cristianesimo. E ci arriva come difesa e risposta al desiderio diabolico. Col cristianesimo, per così dire, l’amore fa da barriera al desiderio. Ormai la distinzione tra i due è possibile, anzi, necessaria. Tanto che, stranamente, sono proprio i moralisti e i filosofi cristiani i primi a denunciare il carattere ingannevole dell’amore. Il quale, per la sua origine ed essenza, non è che amor proprio, o, se vogliamo usare il lessico della psicoanalisi, domanda narcisistica d’amore. Contro le diavolerie di Eros, bisogna insomma rimettersi a Dio, quale garante di un amore puro. L’amore di Dio si accompagna necessariamente all’amore del prossimo (agápe). Bisogna convenire che, in definitiva, l’amore non è estraneo al
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Il desiderio che nasce dalla gioia è più forte, restando uguali tutte le altere circostanze, del desiderio che nasce dalla tristezza29.
compimento ultimo del desiderio che Spinoza la chiama «amore intellettuale di Dio», un amore che, ancora una volta, non ha nulla di intellettualistico. Tant’è vero che procede dalla conoscenza, ma non è un semplice atto della ragione. Si tratta di un «terzo genere della conoscenza»: oltre il primo livello, quello delle idee confuse, e con la mediazione del secondo, quello delle idee adeguate, quest’ultimo genere è la conoscenza di Dio stesso. Conoscenza della natura di Dio e dei suoi modi, corpo e spirito, dal punto di vista della loro essenza eterna; ma anche conoscenza della Natura come solo Dio può intuirla. Un atto d’intellezione della natura, fonte di una gioia la cui fonte prima è solo Dio, che è un atto d’amore32. Con un’unica avvertenza: come ha ammonito Emilia Giancotti, «il Dio di Spinoza non è il Dio personificato delle religioni positive, ma il principio che garantisce l’ordine razionale della realtà; l’etica consiste così nell’amor Dei intellectualis, nel riconoscimento di tale ordine, che assicura la vera libertà dell’individuo»33.
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to tra il desiderio e i confini della legge, il che ci suggerisce di analizzare la natura del legame tra il desiderio, la sfera dell’estetica e la dimensione del sublime. La tesi più celebre riguardo ai rapporti tra bello e desiderio è sicuramente l’idea kantiana del «disinteresse», presentata, all’inizio dell’Analitica del bello, in questi termini: Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un piacere simile si dice bello. […] Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacere universale35.
Il bello, nella natura e nell’arte, avrebbe dunque per effetto il ritrarsi degli oggetti dall’influenza del desiderio. Che è esattamente la funzione che gli riconosce Hegel nella sua Estetica. Mentre «il desiderio divora gli oggetti» e non può lasciar «sussistere nella sua libertà» l’oggetto, destinato a essere distrutto, l’opera d’arte esige «che ci si spogli di ogni desiderio» onde mantenere l’oggetto nella sua libertà. Certo, il desiderio pratico stima maggiormente i prodotti della natura, che gli possono servire, che non le opere d’arte che si dimostrano per lui inutili e che possono essere godute solo da altre forme dello spirito. L’interesse per l’arte non è dettato dal desiderio pratico e non si rivolge al sensibile concreto36.
Schopenhauer ha spinto ancora oltre la tesi di Kant. L’arte e il bello ci introducono nel mondo della contemplazione, che non è solo un ritrovarsi in rapporto al desiderio e alla Volontà, ma anche, già, un’esperienza della morte del desiderio. Ricondotte alla loro essenza, le tesi sia di Hegel sia di Schopenhauer non reggono: nulla è infatti più intrinseco al bello e all’arte del desiderio. Quanto all’idea del disinteresse, intesa come astrazione o assopimento del desiderio e dell’appetito nei confronti dell’oggetto, Nietzsche ne ha sviluppato la critica più virulenta. Nulla, nel nostro rapporto con il bello e la creazione artistica, è disinteressato. Una parte d’interesse si rivela, in primo luogo, nel suo aspetto più originario, come bisogno di riconoscimento, di amor proprio, preposto ad ogni ricerca, intellettuale o artistica che sia. Ma, al di là di questo aspetto psicologico, la creazione è comunque e sempre investimento pulsionale, affettivo, della materia. Contrariamente a quan-
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desiderio. È un mezzo per difendersene e salvare se stessi, un mezzo per reprimerlo e umiliarlo negli altri. Esso è al centro della dinamica edipica della colpa, che uccide il desiderio del bambino. Questi, nella sua domanda infinita, nella sua infantile impotenza, che cosa può generare, quasi fosse un enzima, se non l’amore? Ed eccolo allora preso al laccio della logica implacabile del super-io, che produce odio nella stessa misura in cui gli si è prodigato amore. Preso nella rete delle identificazioni e rivalità amorose, il desiderio scopre il terrore della gelosia. È una delle sue alienazioni più comuni, ma è anche una delle sue scorciatoie per accedere alla sfera d’esperienza del godimento. Il desiderio e l’amore, si diceva; ma vi è un’altra tensione dialettica che occorre approfondire, il rapporto eros/ethos, l’inquieta relazione di affinità e di opposizione che viene ad istituirsi tra il desiderio e il limite inaggirabile segnato dalla legge, morale o giuridica34. Il desiderio è, infatti, intrinsecamente legato alla legge. Ma la natura di tale legame non è scontata. Se pensiamo agli sforzi di Platone (soprattutto nella Repubblica) per integrarlo e subordinarlo alla sua visione politica, dobbiamo credere che il desiderio intrattiene, con la legge, un rapporto di opposizione e trasgressione. Secondo una prospettiva antropologica, in base alla quale le leggi dell’organizzazione sociale hanno la precedenza su ogni manifestazione individuale e affettiva, il desiderio è un effetto della legge. La sua stessa trasgressività è regolata dalla legge. Secondo la psicoanalisi, il desiderio si articola con la legge e l’interdetto, al punto che trae da questa articolazione l’intera sua dinamica, di rimozione e di mancanza. Il riconoscimento dei legami che uniscono il desiderio alla legge è legittimo. Ma ciò non costituisce, di per sé, un giudizio di valore. Mentre le scienze umane tendono a vedere in tale rapporto la verità del desiderio, la filosofia sposta invece il suo punto di domanda sul valore e il senso che sostengono questa correlazione tra la legge e il desiderio. I registri fondamentali messi in gioco da una tale problematica sono quelli dell’etica e dell’estetica. Il desiderio non si oppone semplicemente alla legge come a qualcosa che soffocherebbe la sua libertà di piacere o di godimento. Al contrario, sembra esso stesso obbedire a una legge che discende da un’etica più rigorosa della morale ordinaria. Per Eros, che Platone ha dimostrato essere consumatore e produttore di bellezza, l’etica è un’estetica. E infatti la questione del bello e quella del sublime mettono in causa il rappor-
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to sostiene Hegel, l’artista, per essere creatore, deve innanzitutto distruggere, violare l’oggetto, la materia, la natura. L’arte si fa, come per Nietzsche la filosofia, «a colpi di martello». Il mito di Pigmalione, innamorato della statua che ha creato, è lì per ricordarci la sensualità e l’erotismo che presiedono alla creazione artistica. In secondo luogo, non è meno degno di considerazione il punto di vista dello spettatore. Ebbene, l’intera storia della pittura e della scultura testimonia l’interesse sessuale ed erotico sia dell’artista che dello spettatore. La musica stessa, l’arte meno figurativa, non è fatta che di flussi di sensualità, di emozioni, di desiderio. E la letteratura non parla mai se non del desiderio, e nella sua forma più esaltata. Hegel, citando Platone, afferma che «il bello si definisce come la parvenza sensibile dell’idea», ma dimentica che l’arte affiora al termine della dialettica del desiderio, manipolatrice dei corpi e dei flussi, e che un’identica voracità stimola l’occhio dell’amante e quello dell’anima contemplatrice del bello. Nietzsche muove a Kant il rimprovero di aver parlato dell’arte, come tutti i filosofi, dal punto di vista dello spettatore e non del creatore. Ma, anche dal primo punto di vista, Kant non coglie la realtà dell’interesse estetico:
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Se la tesi kantiana del disinteresse ha conosciuto la fortuna che sappiamo, vuol dire che essa tocca qualche nervo scoperto del conflitto tra il bello e il desiderio, introducendo l’idea –a proposito di un altro luogo comune– che il bello eccita il desiderio: un contrappunto che induce ad indagare sull’ambiguo rapporto tra il desiderio e il bello. In pagine decisive della sua Teoria estetica, Adorno ha riaffrontato il problema del bello a partire da questo fondamentale punto d’ambiguità.
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Così l’estetica, con un discreto paradosso, diventa per Kant edonismo castrato, godimento senza godimento, parimenti ingiusta sia con l’esperienza estetica in cui il piacere ha una parte secondaria e non è assolutamente il tutto, sia con l’interesse in carne e ossa, coi bisogni repressi e insoddisfatti che si fanno sentire vibranti nella loro negazione estetica e rendono le creazioni artistiche qualcosa di più che vuoti modelli. Il disinteresse estetico ha ampliato l’interesse al di là della particolarità a questi propria39.
L’esperienza artistica è autonoma unicamente quando rigetta il gusto godereccio. La via ad essa conduce attraverso il disinteresse:
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Fosse stato almeno questo «spettatore» sufficientemente noto ai filosofi del bello –vale a dire come un grande dato di fatto e una esperienza personale, come una pienezza di particolarissime, incisive esperienze, bramosie, sorprese, estasi nella sfera del bello! Ma temo che si sia sempre verificato il caso opposto […]. «Bello –ha detto Kant– è quel che piace in guisa disinteressata». Disinteressata! Si confronti questa definizione con quell’altra espressa da uno «spettatore» e artista vero – Stendhal, che chiama il bello une promesse de bonheur. Qui è comunque rifiutata e cancellata proprio quell’unica cosa che Kant mette in rilievo nella condizione estetica: le désintéressement37.
Adorno parte dalla rilevazione che il primo momento del giudizio di gusto nella kantiana analitica del bello è il piacere disinteressato. Ma la mancanza d’interesse, obietta Adorno, porta al distacco dall’effetto immediato, il quale vuol conservare il piacere, e ciò prepara il crollo della supremazia di quest’ultimo. Privo infatti di ciò che Kant chiama interesse, il piacere diventa qualcosa di così indeterminato da non servire più ad alcuna determinazione del bello. La dottrina del piacere disinteressato è povera di fronte al fenomeno estetico; essa lo riduce ad un bello formale, che nel suo isolamento è quanto mai problematico, oppure a cosiddetti oggetti naturali sublimi. La sublimazione a forma assoluta non coglie nelle opere d’arte lo spirito nel cui segno avviene la sublimazione. L’ambigua nota a piè di pagina, secondo cui «un giudizio sopra un oggetto del piacere può essere del tutto disinteressato ed insieme molto interessante»38, dunque capace di produrre interesse anche se non si fonda su interesse alcuno, testimonia questo stato di cose e indica in quali secche vada ad incagliarsi una contorta formulazione come quella del piacere disinteressato, abbastanza vicina all’ossimoro. Non c’è arte, osserva poi Adorno, che non contenga in sé, negato, come suo momento, ciò da cui si separa. A ciò che è privo d’interesse deve accoppiarsi l’ombra del più sfrenato interesse se ciò che non ha interesse deve essere più che semplicemente indifferente; e ci sono elementi per credere che la dignità delle opere d’arte dipendeva dalla grandezza dell’interesse cui esse sono estorte. Kant nega ciò per amore di un concetto di libertà che punisce come eteronomo tutto ciò che non è proprio del soggetto. Ma sottraendo all’arte quello da cui essa scaturì per antitesi, le si sottrae insieme ogni contenuto e viene invece supposto qualcosa di così formale come il piacere. I contraccolpi non si fanno attendere:
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«l’emancipazione dell’arte dai prodotti della cucina o della pornografia è irrevocabile». Ma essa non si acquieta nel disinteresse, il quale riproduce immanentemente, cambiato di segno, l’interesse. Adorno conclude la sua analisi del testo kantiano, rivendicando la piena legittimità del desiderio –un desiderio non diafano né desensibilizzato– all’interno della pratica artistica: Nel mondo falso ogni η‘ δονη´ (piacere) è falsa. Per amore della felicità si rinuncia alla felicità. Così nell’arte sopravvive il desiderio?.
L’ambiguo rapporto tra il desiderio e il bello è poi un tema su cui ha molto insistito Jacques Lacan. A suo giudizio, il bello è la barriera di protezione del desiderio. Affermazione che dev’essere intesa in due modi. Per un verso, come ha dimostrato Platone parlando dello sbocciare e dischiudersi delle immagini, il bello attrae e nutre il desiderio, lo feconda e gli mette le ali, mentre invece, di fronte al brutto, il desiderio si isterilisce e avvizzisce. Per un altro verso, però, il bello blocca il desiderio, non gli lascia superare un certo limite. A meno che non si tratti del desiderio di profanare la bellezza. Non è forse una difesa, questa interdizione? Il bello non è forse l’ultimo velo, l’ultima copertura di un orrore in cui il desiderio tende a inabissarsi? La vera barriera che ferma il soggetto davanti al campo innominabile del desiderio radicale in quanto è il campo della distruzione assoluta, della distruzione al di là della putrefazione, è precisamente il fenomeno estetico in quanto è identificabile con l’esperienza del bello –il bello nel suo sfavillio scintillante, quel bello di cui si è detto che è lo splendore del vero. È evidentemente per il fatto che il vero non è tanto carino da vedere che il bello ne è, se non lo splendore, perlomeno la copertura. […] Ci arresta, ma anche ci indica in che senso sta messo il campo della distruzione41.
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1 Per un primo approccio alla tematica filosofica legata al mondo dei desideri, delle emozioni e delle passioni, oltre ai testi più direttamente coinvolti rispetto all’argomento specifico qui trattato ed indicati successivamente, cfr.: AA.VV., Filosofia ed emozioni, a cura di T. Magri (con testi di R. Bodei, C. Calbi, S. Gozzano, E. Lecaldano e T. Magri), Feltrinelli, Milano 1999; AA.VV., Storia delle passioni, a cura di S. Vegetti Finzi, Laterza, Roma-Bari 1995; R. BODEI, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Laterza, Roma-Bari 2000; E. PULCINI, L’individuo senza passioni: individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001; ID., Il potere di unire: femminile, desiderio, cura, ivi, 2003. 2 PLATONE, Teeteto, 11, 155 d, trad. it. di C. Mazzarelli, in PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 206. Vale la pena di ricordare che Taumante è il padre di Iride, messaggera degli dèi. In italiano va perduto il gioco di parole che in ´ µας e il verbo ϑαυµα ´ ζειν, che vuol dire «provare greco si instaura fra il nome θαυ meraviglia». Per il significato etimologico di Iride, cfr. Cratilo, 408 b, dove Platone ipotizza che «˜’Ιρις [Iride] sembra essere stata chiamata così dall’ει’´ρειν [= dal parlare], perché era messaggera». 3 ARISTOTELE, Metafisica, A 2, 982 b 12-19, trad. it., introduzione, note e apparati di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, p. 13 4 R. DESCARTES, Le passioni dell’anima, parte II, art. LIII, in ID., Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, vol. II, UTET, Torino 1994, p. 627. 5 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, libro VI, 2, 1139 a 17-31, trad. it., introduzione e note di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 225. 6 S. TOMMASO, Summa Theologiae, q. I, 81, a. 2, ed. latina a cura di P. Caramello, Marietti, Torino 1950. 7 Th. HOBBES, De homine, cap. XI, 1, trad. it. L’uomo, in ID., Elementi di filosofia – Il corpo – L’uomo, a cura di A. Negri, UTET, Torino 1972, p. 592. 8 B. SPINOZA, Etica dimostrata con metodo geometrico, III, prop. IX, scol., a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 180 (trad. lievemente modificata; il corsivo è mio). Sull’appetitus e la cupiditas in quanto «ragione desiderante» ed essenza dell’uomo, cfr. R. MISRAHI, Le désir et la réflexion dans la philosophie de Spinoza, Publications Gramma, Paris-London-New York 1972; ID., Le système et la joie dans la philosophie de Spinoza, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LVI (1977), fasc. 3-4, pp. 458-77. Sul nesso appetitus-conatus, cfr. L.C. RICE, Emotion, appetition and conatus in Spinoza, in “Revue internationale de Philosophie”, XXXI (1977), pp. 101-16. Un’utile e rigorosa introduzione alla lettura complessiva del capolavoro di Spinoza è il volume di F. MIGNINI, L’Etica di Spinoza, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1995. Avverto fin d’ora che, diversamente da un modo tradizionale di tradurre, renderò cupiditas con “desiderio” piuttosto che con “cupidità”. 9 Ibid. 10 I. KANT, Antropologia dal punto di vista pragmatico, § 73, a cura di P. Chiodi, introduzione di A. Bosi, TEA, Milano 1995, p. 135. 11 I. KANT, Critica della ragion pratica, libro I, cap. I, § 3, scol. I, trad. it. di F. Capra riv. da E. Garin, Laterza, Bari 1971, p. 28. Il concetto della «facoltà di desiderare o
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Che il bello blocchi, che nella bellezza vi sia una freddezza raggelante, è motivo ricorrente nella cultura contemporanea, in un ventaglio di atteggiamenti che vanno dalla rimozione alla nevrosi, fino a quel movimento che spinge a violare la barriera della bellezza con la profanazione e l’orrore42.
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Ivi, 200 e. Diamo qui di seguito alcuni riferimenti bibliografici essenziali su Platone, con particolare rilievo per le più accreditate edizioni del Simposio e per qualche importante saggio critico sulla tematica sollevata da questo dialogo: PLATONE, Simposio, a cura di P. Pucci, Laterza, Bari 1971; ID., Simposio, intr. di V. di Benedetto, trad. it. e note di F. Ferrari, BUR, Milano 1985; ID., Simposio, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2001; S. FERRUZZI (a cura di), L’Amore. Antologia del Simposio e del Fedro di Platone, Paravia, Torino 2002; S. GIVONE, Eros/ethos, Einaudi, Torino 2000; L. ROBIN, La teoria platonica dell’amore, trad. it. di D. Gavazzi Porta, pref. di G. Reale, Celuc, Milano 1973; J.-P. VERNANT, L’individuo, la morte, l’amore, trad. it. di A. Ghilardotti, a cura di G. Guidorizzi, Raffaello Cortina, Milano 2000. 24 B. SPINOZA, Etica, IV, prop. XXII, cor., trad. it. cit., p. 248. 25 Ivi, III, prop. IX, scol., trad. it. cit., p. 180. 26 Ibid. 27 Ivi, II, prop. XIX, trad. it. cit., p. 144. 28 Ivi, III, prop. XII, trad. it. cit., p. 182. 29 Ivi, IV, prop. XVIII, trad. it. cit., p. 244. 30 Ivi, III (Della Natura e della Origine degli Affetti), Prefazione, trad. it. cit., p. 172. 31 Cfr. R. BODEI, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991, soprattutto pp. 25-29 e 57-82, qui pp. 57-58. 32 Questo aspetto del pensiero di Spinoza, riassumibile nell’indicazione volta a «riconoscere Dio nella natura e la natura in Dio», è stato particolarmente tematizzato da K. LÖWITH, Spinoza. Deus sive natura, ed. it. a cura di O. Franceschelli, Donzelli editore, Roma 1999. Soprattutto nell’ultimo dei capitoli che compongono questo saggio, intitolato Deus sive natura e mondo senza Dio, Löwith privilegia un esito naturalistico ed un punto di fuga tutto sommato materialistico dell’impostazione spinoziana: «Il Deus “sive” Natura di Spinoza si colloca precisamente nella posizione di confine, in cui la fiducia in Dio si affievolisce e si compie il passaggio critico verso il riconoscimento di un universo senza Dio, che esiste senza alcuno scopo e quindi senza alcun “senso” o “valore”. Spinoza stesso il passaggio l’ha compiuto unicamente in quanto ha tradotto Dio, quale causa immanens, nel mondo della natura e quindi ha concepito, all’interno della tradizione onto-teologica, l’essere come natura. Solo pochi nel nostro tempo hanno compreso la grandezza di Spinoza che risiede nel fatto che egli con una quasi sovrumana, se non disumana, rinuncia ad umane debolezze ha restituito la propria verità all’unica natura di tutte le cose» (ivi, p. 70). 33 Cfr. E. GIANCOTTI, Introduzione a B. SPINOZA, Etica dimostrata con metodo geometrico, cit., pp. 7-50, soprattutto pp. 46-48. 34 Una suggestiva e intrigante riflessione sulla contraddizione di eros ed ethos, legati in realtà da una più profonda dialettica, è quella svolta da S. GIVONE, Eros/ethos, cit., soprattutto nel II e III cap., pp. 23-65. 35 I. KANT, Critica del Giudizio, sezione I, libro I (Analitica del bello), § 5 e 6, trad. it. cit., pp. 52-53. Il corsivo sostituisce lo spaziato nel testo. 36 G.W.F. HEGEL, Estetica, Introduzione, III, A 2, ed. it. a cura di N. Merker, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1967, p. 46. 37 F. NIETZSCHE, Genealogia della morale, III, 6, trad. it di F. Masini, Nota introduttiva di M. Montinari, Adelphi, Milano 1984, p. 96. 22 23
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del sentimento del sentimento del piacere» aveva formato oggetto di una lunga nota nella Prefazione (ivi, pp. 10-11). La stessa definizione della facoltà di desiderare: «la facoltà di essere, mercé le proprie rappresentazioni, la causa della realtà degli opposti di tali rappresentazioni», ritorna in una nota altrettanto ampia, aggiunta da Kant nella seconda edizione della Critica del Giudizio (Introduzione, § III, trad. it. di A. Gargiulo riv. da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 16-17). 12 S. FREUD, L’interpretazione dei sogni, cap. 7, C, trad. it. di E. Fachinelli e H. Trettl, Boringhieri, Torino 1973, p. 512. 13 J. LACAN, Le séminaire. Livre VIII. Le transfert, Seuil, Paris 1991, p. 176. 14 F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, par. 32, trad. it. di F. Masini, Nota introduttiva di M. Montinari, Adelphi, Milano 1983, p. 103. 15 Cfr. B. SPINOZA, Tractatus politicus, cap. I, § 4, trad. it. di A. Droetto, Trattato politico, Ramella, Torino 1958, ristampato a cura di L. Chianese, Nuova Edizione del Gallo, Roma 1991. 16 Le passioni diventano intrattabili quando vengono utilizzate categorie inadeguate a comprenderle e spiegarle; comunque, sul legame tra passioni e idee inadeguate e, più in generale, sulla natura della passioni, cfr., tra gli altri, A. NEGRI, L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 114 sgg. 17 In quanto potentia essendi e potentia cognoscendi sono in questo caso strettamente adeguate: cfr. P. DI VONA, Studi sull’ontologia di Spinoza. Parte II. «Res» ed «Ens». La necessità. Le divisioni dell’essere, La Nuova Italia, Firenze 1969, pp. 142 segg. 18 F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia, trad. it. di S. Giametta, Nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 1977, par. 17, pp. 111-12. 19 Su Freud, Lacan e gli sviluppi della psicoanalisi in relazione al desiderio, un percorso affascinante e intrecciato con i grandi temi della filosofia è quello delineato da C. DUMOULIÉ, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, trad it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 2002. Una raccolta di saggi sempre sulla storia del concetto di desiderio –anche questa condotta sul crinale che separa e unisce filosofia e psicoanalisi–, è poi quella curata da M. D’ABBIERO, Desiderio e filosofia, Guerini e Associati, Milano 2003: cfr. in particolare il contributo della curatrice su Jean-Paul Sartre: un cogito che soffre e che ama e quello di F.S. Trincia, Jean-Paul Sartre, Sigmund Freud e il problema dell’irrazionalità. Per quanto concerne Gilles Deleuze, in Conversazioni, scritto con Claire Carnet nel 1972 (trad. it. di G. Comolli, Feltrinelli, Milano 1980, p. 97), egli dichiara: «L’analisi dell’inconscio dovrebbe essere una geografia più che una storia». Con L’anti-Edipo (1972), Deleuze, ormai in simbiosi con Félix Guattari, addita nella psicoanalisi un’operazione di repressione del desiderio ed elabora quella che è, indubbiamente, la grande filosofia del desiderio della nostra epoca. L’anti-Edipo introduce la nozione di «macchine desideranti», che esprime la forza di organizzazione impersonale, transindividuale e sociale al tempo stesso, del desiderio, in grado di spiegare tanto la genesi dei soggetti e dei corpi quanto le grandi epoche della storia (G. DELEUZE - F. GUATTARI, L’anti-Edipo, trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, pp. 29 sgg.). 20 PLATONE, Simposio, 180 b. 21 Ivi, 183 e.
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1. termini e prospettive Parlare di comunicazione oggi è consuetudine diffusa, talvolta abusata ai vari livelli scientifici e accademici, giornalistici e divulgativi, ma anche conversazionali e mondani, data la pressione dell’interesse, autentico o indotto da logiche di mercato, per un fenomeno invasivo e complessivo della nostra civiltà, non solo dominato, come si è stati soliti finora dire, ma coincidente tout court col pianeta comunicazione. Sicché oscillando tra un massimo e un minimo di peso, quanto a sistematicità di trattazione o implicanze di senso, si può dire che la metacomunicazione costituisca l’asse di fondo su cui si avvita il dibattito contemporaneo, sia per il suo carattere trasversale di attraversamento delle varie discipline, sia come laboratorio di un sapere post-specialistico, capace di macinare gli apporti delle diverse aree della tradizione e di riprogettarli in uno scenario innovativo, sia soprattutto per il dinamismo delle trasformazioni implicate e le continue metamorfosi di senso complessivo. Onde diviene terreno privilegiato per ogni laboratorio ermeneutico e sperimentale. D’altra parte, esprimendo la comunicazione il rapporto dell’individuo col mondo a lui esterno, sia l’altro o l’ambiente, essa si nutre degli strumenti di collegamento naturali e artificiali, linguistici e tecnologici, volti a ottimizzare quel rapporto. Dalle schegge lignee usate nei graffiti degli antri paleolitici alle reti neurali delle recenti generazioni telematiche, lungo tutto l’arco temporale percorso da l’homo sapiens a l’homo technologicus, si descrive un lungo e continuo, ininterrotto ancorché soggetto a brusche accelerazioni e a lunghe stasi, processo di tecnicizzazione che ha di volta in volta riprogettato quel rapporto, riprogettando di conseguenza il rapporto stesso dell’uomo col mondo. Le fasi di grande accelerazione di quel processo mediatico, non numerose, ma estremamente innovative e perciò rivoluzionarie, coincidono con l’elaborazione di nuove Weltanschauung, con la rottura brusca,
albarosa macrí tronci società di conoscenza/società di desiderio
38 I. KANT, Critica del Giudizio, cit., § 2, p. 45, nota. Anche qui il corsivo sostituisce lo spaziato nel testo. 39 Cfr. Th.W. ADORNO, Teoria estetica (1970), ed. it. a cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975, p. 18. 40 Ivi, p. 19. 41 Cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, a cura di G. Contri, trad. it. di M.D. Contri, Einaudi, Torino 1994 (ed. orig. 1986), pp. 275-76. 42 A solo titolo di esempio –in una mappa molto più ampia e articolata– vengono qui date alcune indicazioni di lettura: C. BAUDELAIRE, I fiori del male, vers. in prosa di A. Bertolucci, Garzanti, Milano 1975, soprattutto la poesia 17: La Bellezza, p. 37 e 21: Inno alla Bellezza, p. 43; H. MELVILLE, Moby Dick o la Balena, trad. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1987, in particolare il capitolo XLII, intitolato La bianchezza della balena, pp. 219 sgg.; G. BATAILLE, L’erotismo, trad. it. di A. Dell’Orto, Sugar, Milano 1967, pp. 157-59.
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2. società di conoscenza L’area meridionale europea (Signore 2002), e quella italiana che più ci connota, essendo marginale nel sistema tecnologico complesso del mondo occidentale, ha vissuto con ritardo e lentezza la
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sfida mediologica della nuova era, percepita come estranea e disomogenea rispetto alla radice umanistica e artigianale della nostra civiltà e storia. Ma allo svincolo del nuovo secolo del terzo millennio l’evoluzione tecnologica dei mass media nei new media apre nuovi scenari culturali ed epistemologici, oltreché economici e politici, raccordando in un’unica grande sfida post-industriale e telematica aree diverse e lontane, sia quelle sature di benessere industriale, sia quelle non pienamente integrate nelle dinamiche industriali, legate tutte dal comune bisogno di fare un salto, di trovare nella discontinuità col passato un nuovo assetto di vita comunitaria all’insegna della interattività spazio/temporale e della cyber/comunicazione. Anzi nella impegnativa sfida di riprogettare metodi e strutture di pensiero e di lavoro, è sorprendente, ma non immotivato, constatare che proprio l’area meridionale, scompensata nel suo sviluppo industriale, ma custode e portatrice di un bagaglio culturale di creatività su fondo umanistico e artigianale, abbia le potenzialità, almeno in termini di risorse –cui occorre congiungere capacità organizzative, e qui si gioca la scommessa del futuro!– di raccordarsi alle logiche di una interattività digitale e comunicativa dinamica e flessibile, opposta alla struttura pesante e gerarchizzata della civiltà industriale. Proprio la tradizione umanistica della nostra più pura civiltà classico-mediterranea costituisce allora la valvola di sicurezza da attivare per salvare tutti nelle stesse chances di un mondo privo di distanze tra centri e periferie, tra materiale e immateriale, naturale e artificiale, biologico e tecnologico, etnico e politico, epperò consapevole della propria interezza e razionale equilibrio, testimone e garante di storia ed etica giustizia. Da quella tradizione si vuol ripartire oggi e riprogettare una ‘società della conoscenza’, che se da un lato ha perduto ogni confine spazio-temporale, dall’altro ha riguadagnato l’esigenza di un ancoraggio certo, nelle coordinate note di un neoumanesimo da molte parti reclamato, come rivendicazione dell’uomo tutto intero, della sua maturità e storia, trascendentalità e bisogni materiali. Così, se su un piano epistemologico ed etico l’istanza forte spinge per un riequilibrio della macchina sull’uomo; sul piano economico l’anonimato delle dinamiche mercantili riscopre la priorità dell’analisi dei bisogni e la necessità di imboccare un’economia cognitiva a misura d’uomo, compatibile con un’imprenditoria agile e artigianale.
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perfino traumatica, di logiche consolidate e di comodi equilibri, tali da creare fasi di Krisis, cioè etimologicamente di forza distruttiva, separazione, scelta, elezione, difficili da intercettare, e quindi da razionalizzare, capaci piuttosto di provocare reazioni di incredulità o psicosi di rifiuto, prima che appropriazione e nuova crescita. L’opinion people, oggi facilmente misurabile sulla ininterrotta, straripante, confusa discussione sui media, speculare d’altronde all’opinione degli specialisti, tende ben presto a divaricarsi tra atteggiamenti scettici e atteggiamenti entusiasti o organici alle forze di mercato che stanno dietro ogni innovazione tecnologica. Sicché anche ai nostri giorni, esattamente com’è sempre avvenuto nel corso della storia, ma con meccanismi di ricaduta sociale che ne dilatano a dismisura la portata, il dibattito sui nuovi sistemi di comunicazione, allargatosi nel secondo dopoguerra nell’impatto coi media dell’immagine e del suono, ha conosciuto fasi di marcato scetticismo, incontrandosi la suddetta psicosi del rifiuto con l’area epistemologica della teoria critica, legate alle sorgenti marxiane, baluardo nel Novecento della radice umanistica europea contro le dinamiche economiche del capitalismo avanzato (basti rimandare per tutti a Lyothard 1979). Per altro verso, dal momento che l’innovazione tecnologica è propria dell’Occidente sviluppato, essa si è spostata –a contraccolpo delle due guerre mondiali lesive del vecchio mondo– nel nuovo continente, da cui è poi rifluita in Europa in un processo ritardato di ritorno, sia sul piano della ricerca tecnologica, sia sul piano della riflessione teorica circa il complesso dei fenomeni ivi collegati. Così la communication research è nata e si è sviluppata negli Stati Uniti, che hanno perciò indicato all’Europa le linee di pensiero più innovative e feconde, ma al contempo peculiari dei loro paradigmi socio-economici, della loro civiltà tout court (MacLuhan 1962). A raccogliere la sfida è stata l’Europa del Nord, antesignana dello sviluppo capitalistico, rispetto al complesso del sistema europeo e all’area mediterranea in particolare (Mattelart 1991). Lo stesso è accaduto, in un processo di progressiva dilatazione, per il Meridione d’Italia rispetto a un Nord più agganciato all’Europa.
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3. società del desiderio Se da un lato il progetto comunicativo di Apel costituisce un punto solido d’approdo nel dibattito comunicativo odierno, in quanto salda intorno a un imprescindibile presupposto fondativo lo statuto comunicativo del pensiero e la necessità etica dell’agire pratico, dall’altro la struttura argomentativa rivolta all’intesa illimitata dei partecipanti connota una dimensione elitaria, e sostanzialmete ideale, propria del carattere razionale-kantiano di quella lingua comunicativa, come nelle grandi intese dei vertici politici sovranazionali, piuttosto che il multiforme, contraddittorio complesso della comunicazione quotidiana universale. La stessa società della conoscenza prospettata a indicare un modello teorico che vuol farsi reale e storico, vive certamente in spazi ben più ampi ed entro confini più articolati, di quanto non ne indichi la mens neo-illuministica nord-europea, maturata nella razionalità cartesiano-kantiana, argomentativa e deduttiva, che ha dettato le coordinate fondamentali del pensiero occidentale fino a oggi. Eppure la rivalutazione dello statuto comunicativo e intersoggettivo del pensiero umano ha spinto –con la svolta linguistico-comunicativa degli Anni Settanta del Novecento– a riscoprire la valenza
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analogico-induttiva, immaginativa, simbolica, associativa, intenzionale e pratica della conoscenza, che vive all’interno della mens umana, interagendo sia con la sfera razionale-teorica, sia con la sfera affettivo-pratica della socialità, innervata nella realtà storica e quotidiana dell’agire comunicativo (Abruzzese 2001). Proprio allo snodo del secolo, che paradigmaticamente coincide con lo snodo del millennio, si consuma la crisi estrema della ratio, giunta allo smarrimento di una soggettività alla deriva, senza patria (dall’Olocausto all’odierno scontro etnico-culturale) e senza Dio (desacralizzazione di un cosmo del tutto immanentizzato), capovoltasi nella negazione di se stessa (nihilismo e sue frange tra decostruzionismo e vari relativismi). È qui che risorge l’altro versante dell’umano conoscere, declinato dall’ affectum su volontà e desiderio, cioè quel versante intenzionale-affettivo originariamente legato in modo indissolubile al versante razionale dell’intellectum, così come viene descritto nella tradizione filosofica a partire da Aristotele (Sciuto 1994), e poi variamente interpretato nella scolastica medievale da Tommaso e Agostino fino alla ‘logica della fantasia’ di Giambattista Vico (Verene 1984; Grassi 1992). Cartesio segnò poi l’affermazione esclusiva della ratio illumunistica, da cui l’estromissione, nella zona più caduca dell’affectum, del complesso intenzionale-patetico e intersoggettivo-comunicativo proprio della logica conoscitiva. Affermazione pagata a caro prezzo, dal momento che una ratio così depurata e radicalizzata, se ha portato l’accelerazione scientifico-tecnologica dell’odierno progresso, ha significato sul piano politico l’affermazione di una logica di dominio giunta all’autonegazione di sé (esplosione di forze terroristiche ingovernabili), e sul piano pratico un tecnologismo pericolosamente sganciato dalla radice etica e dall’obbligazione morale. Qui la svolta comunicativa ha coinciso, sul piano speculativo, con la svolta epocale di una mondializzazione, che sebbene pilotata dai mercati, esprime la direzione di una dialogicità a tutto campo delle culture e dei gruppi sociali, tanto improvvisa e profonda da complicarsi nel scontro del confronto, pur esso dialogico, come si sa. Sicché il pensiero umano, uscito fuori dalle strettoie di un sapere sillogistico e lontano dalla sfera di cristallo di sottili principi di noncontraddizione, può recuperare il complesso delle potenzialità di logos e pathos, bisogno e sogno, volontà e desiderio, saldando in
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Si prefigura allora una ‘società della conoscenza’, che persegua il progresso tecno-scientifico e se ne nutra adeguandolo ai bisogni, in una compensazione continua di necessari e successivi squilibri, onde rilevare o restituire la vitale complessità dell’uomo di ogni tempo (Morin 2001), che è insieme sapiens e demens, fabbro e poeta, scienziato e artista, ingegnere del proprio futuro tecnologico, ma anche saggio custode della vita, pensatore responsabile della sua trasmissione alle generazioni future (Jonas, 1989); mediatore del cosmo naturale e artificiale, in quanto consapevole dell’unità della verità e della sua conoscenza (Signore 1995). Da qui viene a maturare l’istanza di un’etica universale, razionalmente riprogettata in una surmodernité (Augé 1992) che ha riscoperto la dimensione intersoggettiva della comunicazione come via percorribile per un’intesa di corresponsabilità planetaria (Apel 1992). Da qui si descrive anche l’orizzonte di una dimensione neoumanistica, sorretto dal profondo convincimento che sia quella l’unica via d’uscita alla disgregazione, alla dispersione, alla marginalizzazione, ovvero ai rischi di una società planetaria (Piromallo 2001).
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va, coincide con la stessa identità umana, che così è riprogettata nel futuro di una prospettiva a venire, e insieme è arricchita di tutto il senso originario, a compensare il troppo lungo depauperamento della razionalità. Il moto della conoscenza, al pari di quello della memoria e del desiderio, non è, né può essere lineare, uniforme, deduttivo, ma complesso e stratificato, annodandosi sull’attivazione e convergenza di una pluralità di fattori e di spinte. Lo stesso percorso maieutico del mito edenico conduce a riconoscere il desiderio all’interno del nodo conoscitivo, in quanto esso, se per un verso ha segnato il fallimento dell’atto conoscitivo, per altro verso ne è il motore, alimentandosi di quella tensione verso l’Altro, che è anch’esso segno e limite di identità. In uno stesso circuito di senso si trova esemplarmente congiunto il continuum di conoscenza-desiderio-alterità nella doppia valenza della tensione e dello scacco, che caratterizza l’identità umana, ma anche nel doppio nodo etico dell’imperativo violato ed estetico del piacere irrinunciabile. In siffatta unità di senso si ripropone oggi, come si è visto, la sintesi di conoscenza e desiderio: di una conoscenza che non può dirsi tale se non transita attraverso la sfera intenzionale-affettiva facendosi di necessità intersoggettiva, cioè conoscenza di o verso; allo stesso modo il desiderio va recuperato in tutta la sua vitalità conativa dal retaggio di una tradizione plurisecolare, classica e medievale, non solo in quanto trovasi sperperato nella edonistica società dei consumi, quasi medusea immagine della stessa, ma come elemento prezioso a umanizzare una ragione dimidiata, spesso disumanizzata, isterilitasi sulla angusta soglia di un pericoloso raziocinio. Da quella tradizione riemerge, nella sua feconda attualità, lo statuto del desiderio, centrale nella sfera del patetico e dell’immaginario, coincidendo col nucleo originario del conato, quale si trova in Spinoza e in Vico, ad allacciare –nella voce dei massimi interpreti della modernità– la tensione propria dell’uomo e della sua peculiarità cognitivo-affettiva, orientata nella duplice direzione, verso l’interiore della mancanza e del rimosso, com’è stato visto da Freud e da Lacan, e verso la dialogicità discorsiva e comunicazionale, nell’asse della socialità e dell’etica, com’è visto oggi da Vigna e da Semeraro. Viene incontro qui la chiave interpretativa dell’etimologico, dove ‘de-sidera’ indica il ripiegamento dello sguardo dall’alto del cielo e dell’assoluto al piano reale della quotidianità impegnativa di decisione e di azione. Né è alieno, su quest’asse etimologico, recuperare lo
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una rete di necessarie convegenze –queste sì razionali e universali– etica e diritto, politica ed economia, tecnica ed estetica. Un siffatto complesso conoscitivo-comunicativo può essere misurato in un’operazione di verifica dell’attualità sulla tradizione. Viene incontro, in questa direzione, la forza epistemologica del mito a rendere, in una sintesi plurisemantica, l’avventura dell’uomo nuovo e dell’antico. Particolare valenza di illuminazione semantica riassume oggi il mito originario, biblico e pagano, etico ed estetico di Adamo ed Eva e della cacciata dall’Eden, nell’intreccio di desiderio e di conoscenza, di volontà e di scacco, per cui esso viene a rifluire intatto in età moderna, a segnare la singolare continuità con l’homo faber, attraverso la pittorica rappresentazione dell’umanista Masaccio; e ancora esso riaffiora oggi a legare il continuum integro e vitalissimo con l’homo complexus. Quel mito viene infatti ripreso da Edgar Morin, a sintetizzare programmaticamente siffatta singolare avventura di senso, assumendolo nella stessa figurazione umanistica del Masaccio, attraverso cui l’uomo si riprogetta dalla sua origine astorica e categoriale nel tempo della nuova complessità tecnologica. Così il mito edenico di Adamo ed Eva campeggia nella bella copertina delle Editions du Seuil dell’ultimo volume del filosofo francese, dedicato appunto a L’identité humaine (Morin 2001). Intorno a quel mito si crea pertanto una virtuosa catena di senso che porta la biblica coppia di Adamo ed Eva a transitare, in un percorso epistemologico di successivo arricchimento, dalla astorica valenza semantica del mito, fissato nel testo sacro, alla continuità della trasmissione-comunicazione storica, passata dalla civiltà antica alla cristiana, e dilatatasi in età moderna nell’umanistica tensione conoscitiva della cultura fiorentina quattrocentesca, tesa verso l’assoluto, eppure consapevole del limite e della propria fragilità; fino alla sua riattualizzazione nella chiave laica e neoumanistica della speculazione moriniana, a rendere, nella forza del mito, la stratificazione semantica della umana complessità. Così in un percorso conoscitivo, compiuto dall’uomo necessariamente a zig-zag, per successive fasi di andata e ritorno, come invita a ricordare ancora la lezione di Morin, il mito di Adamo ed Eva induce l’uomo tecnologico a tornare indietro, e verificare la propria identità sul terreno delle origini, non già solo preistoriche e pagane, ma sacrali e ancestrali, dove la specificità della conoscenza passa per l’eros e la trasgressione, si scopre intenzionale e intersoggetti-
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Ma ci vuole proprio tutto questo lungo giro per porre la questione del sapere nella forma –che cosa è a sapere? Ci si rende conto che è l’Altro?– tal quale l’ho posto all’inizio, come il luogo dove il significante si pone, e senza il quale nulla ci indica che da qualche parte ci sia una dimensione di verità, una dir-mensione, una resistenza del detto, di quel detto il cui sapere pone l’Altro come luogo. Lo statuto del sapere in quanto tale implica che ce n’è già, di sapere, e nell’Altro, e che è da prendere. Ecco perché è fatto di apprendere. […] Qui, nel godere, la conquista di questo sapere si rinnova ogni qualvolta si esercita, il potere da esso conferito restando sempre rivolto verso il suo godimento (Lacan 1983, 96).
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Si apprende quindi dalla lezione di Lacan che la discesa nell’Io implica la risalita con la ricerca dell’Altro, operata linguisticamente nel pensiero o nel sogno, con cui si è giunti alla dimensione conoscitiva del desiderio. Ecco che lo stesso percorso psicanalitico conduce, attraverso Lacan, a spostare la riflessione sulla dimensione intersoggettiva del desiderio, cioè a transitare dal dominio soggettivo al dominio sociale, dove annodando la linea della sun-patía, è messa a nudo la più pura radice relazionale e gratuita della comunicazione linguistica, nella sfera disinteressata e a-mercantile del libero slancio. È qui che nasce –ed è qui che si vuol riportare– il fondamento della società comunicativa, nel duplice dominio individuale e sociale, dove il desiderio attiva la conoscenza nella naturale tensione della soggettività verso l’Altro, e –è d’uopo aggiungere– verso l’Alto di un sapere che non si vuol reificare. Si scopre in tal modo la radice naturalmente utopica –nel senso originario di u-topia– della stessa società comunicativa, che vivendo della tensione intersoggettiva e relazionale, nasce libera da ogni logica mercantile di scambio interessato, il quale sopravviene in seguito, innestandosi sui bisogni e riportando così la comunicazione dal piano ideale e agonico a quello de-siderato della realtà fattuale e dei vincoli istituzionalizzati. In questa prospettiva, lo statuto del desiderio diviene la chiave di volta da innescare necessariamente per riprogettare una società comunicativa, come quella attuale, che non si vuol abbandonare alla deriva di un godimento commerciale tanto più ammaliante quanto sterile, tanto più raggiungibile quanto incapace di rispondere alle aspettative. Proprio perché a dettare le regole è il desiderio che vive al di qua del godimento e del piacere, nel transito verso il mistero dell’Altro, nell’at-tenzione al conoscere o al ri-conoscere. Recuperata per questa via –attraverso la logica dell’affectum– e restituita alla sua originaria radice desiderante, l’odierna società della comunicazione si rivela nella complessità dinamica della sua dimensione immaginativa, ma anche economica e mercantile, legata e fattualmente necessaria alla vita di una relazionalità progredita e matura. Allora la logica economica può –e deve– essere considerata e ricondotta fuori da ogni scompenso prevaricante e mistificante, allegerita da ogni demonizzazione, in quanto partecipe della dinamica unitarietà del complesso produttivo. Il che può essere ricondotto al funzionamento di un circuito di potenzialità e attualizzazio-
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spazio dell’originaria civiltà mediterranea, dove l’antico marinaionocchiero, abbassando lo sguardo dal cielo, attende con impazienza assorta il disvelamento di un senso che può non giungere mai. Perché è in gioco, allora come oggi, l’avventura della propria navigazione-conoscenza. Sta in quella figura di uomo antico-moderno, solo nella sfida col mistero, sempre teso nel desiderium verso l’ignoto, eppure consapevole del proprio limite, la grandezza della civiltà mediterranea, quale lo ha espresso nel mondo classico-moderno, e quale oggi lo rilancia nella sfida delle nuove tecnologie. Diventa naturale, quindi, come avviene per quel marinario, inseguire la direzione del discendere-verso, proseguendo nella via dell’interiorità, che porta, con l’ausilio della psicanalisi, alla sfera dell’inappagato e del rimosso, sapendo di trovare al fondo emozionale dell’eros, anche l’inquietante caos dell’odio e della violenza. Che per questa via viene assorbito nella dinamica di una dialogicità capace di accettarne anche le punte conflittuali, in quanto riconosciute come parte del gioco dialogico, e perciò destinate a essere neutralizzate. Bene è stato indicato da Lacan, che ripartendo dal Wunsch di Freud e dal suo Al di là del principio del piacere, colloca il desiderio nell’al di qua del godimento, dove la tensione propulsiva non si è ancora fissata nella soddisfazione dell’Oggetto (piano della realtà), e vive nella dimensione dell’assoluto, nello spazio dell’inappagato e del vuoto, colludendo anche con la violenza dell’inespresso. Proprio nel Seminario XX, Ancora, Lacan annodando Aristotele a Freud e poi ancora Freud a Saussure, lega desiderio a bisogno e a linguaggio, vale a dire al bisogno dell’Altro pensato linguisticamente, che è il sapere. Si legga da Il sapere e la verità:
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La direzione è tanto più percorribile, in quanto incontra le istanze di una civiltà attenta ai valori umani della ragionevolezza, dove il senso comune vichiano interagisce con l’immaginazione e con l’ingenium, dove è possibile individuare, in un concorso di forze produttive e culturali, quella cultura della persuasione che insiste sul simbolico e sull’immaginario, laddove insomma una nuova collettività di consumo sta per nascere, capace di trasfigurare la materialità delle merci nelle sensazioni ed emozioni che esse provocano e nella successiva ascesa simbolica. È possibile allora annodare, come propone Semeraro, l’asse millenario di una stessa seduzione che produce conoscenza, per cui la lezione di Socrate, filosofopedagogo dell’antica Atene, si rinnova nel nuovo e sofisticato apparato culturale pubblicitario, che è “il Grande Educatore delle società occidentali”, dove la cultura del marketing consente di trasfigurare la materialità delle merci nell’immaterialità di nuovi bisogni (Semeraro ivi). La Comunicazione, assunta in una simile dimensione conativodesiderante, accetta la sfida di una conoscenza che si alimenta dell’affectum, ma è disponibile a disciplinarsi nel differimento, che comprenda da un lato lo slancio del desiderio, dall’altro la possibilità del ripiegamento e dello scacco. È un’istanza che nasce sul terreno culturale di una civiltà matura, rispettosa dell’umano e della sua complessità, attenta a ricercare le origini del fenomeno comunicazione nella specificità della cultura universale e della cultura identitaria di ogni popolo in interazione con ogni altro; una civiltà stratificata, che si rispecchia nella specificità della linea speculativa europeo-mediterranea, erede dell’antico umanesimo e antesignana del nuovo, che anela a risorgere –come da più parti si riconosce– sulle rovine del più antiumanistico dei secoli, qual è stato il Novecento. D’altronde si misura oggi una decisa presa di coscienza, da parte dell’intellighenzia meridionale, non solo della fruizione di tutta una tradizione classico-romantica, alla convergenza e interazione comparata delle varie discipline e arti, ma al contempo del rilancio di una civiltà meridiana, capace di costituire una preziosa risorsa di tutela dell’umano, contro l’insidia tecnologico-telematica di un presente disancorato o scialato tout court. Sulla scia di Cassano e del suo ‘pensiero meridiano’ (Cassano 1999), si muove tutta una corrente di pensiero che nel rivendicare una ‘mediterraneità’ autenti-
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ne, che rinnova nell’adozione dei temini di una tradizione speculativa medievale, anche alcune modalità della rudimentale economia pre-industriale, singolarmente riprogettabili nella sofisticatissima new-economy post-industriale. Provare a ripercorrere il paradigma comunicativo attraverso l’asse del desiderio è, dunque, un’operazione intrigante e feconda, per molti versi inesplorata, tanto è oggi poco frequentata, benché si individuano segnali non secondari di interesse. Si fa riferimento ad alcune tappe significative, comprese tra il recente numero monografico di “Aut aut” dedicato a Godimento e desiderio (2003), e la riflessione di Carmelo Vigna sull’Etica del desiderio umano (2001), problematica che impegna lo studioso in un annoso itinerario speculativo (Vigna 1990, 1994, 2002), in via di strutturarsi in un volume monografico, annunciato dallo stesso autore col titolo Etica del desiderio come etica del riconoscimento, in preparazione presso le edizioni di Vita e Pensiero di Milano. Seguendo siffatte tracce, si viene delineando un percorso epistemologico che vuol configurare una ‘società del desiderio’, concresciuta e maturata sulla già nota ‘società della conoscenza’, in quanto ivi annodata la doppia tensione, cognitiva ed emozionale-affettiva. Una sociètà del desiderio è stata recentemente delineata dal Volli a partire da alcune Figure del desiderio: corpo testo mancanza (Volli 2002). Il volume, se ha il merito di aver spalancato un suggestivo scenario alimentato dall’immaginario e dal sovversivo dinamismo aperto all’Alterità, ha poi il limite di essere pericolosamente ripiegato sulla logica consumistica dei centri commerciali, in piena adesione d’altronde alle pratiche economico-liberistiche dell’Occidente saturo. Su un altro piano speculativo si muove Angelo Semeraro, orientato a cercare le radici della tensione soggettiva e intersoggettiva, propria del desiderio, per verificarne i termini nel quadro complesso della civiltà europea, tra antico e nuovo umanesimo. La sua “navigazione nella galassia della comunicazione”, com’egli stesso dice (Semeraro 2003), giunge ad assumere la lente di proiezione patetico/cognitiva nell’ottica della seduzione/persuasione; per cui il nodo comunicativo del desiderio è enucleato nella valenza positiva/negativa della tensione e della perdita, riconosciuto all’intersezione tra la passione di un destino estremo e l’incompiutezza consapevole del rischio, capace di declinarsi fino alla negazione e al non senso.
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desiderio sta dunque la radice della tensione libertaria e dell’eterna Rivolta dell’uomo di ogni tempo, desiderata e incompiuta, ancorché rinviata in quanto necessaria e sofferta, saldando insieme il viaggio conoscitivo-affettivo nell’arché del soggetto interiore e sociale, in quel fondo buio e violento della sua esistenza privata e pubblica, che è principio e ragione della sua risalita nella razionalità del diritto e dell’etica, da cui viene anche la sua salvezza contro una catastrofe tante volte annunciata, e per ciò stesso sempre evitata. 4. un paradigma possibile Assunto nella dimensione intersoggettivo-comunicativa di relazionalità, il desiderio può configurarsi come paradigma privilegiato di un progetto coerente per la civiltà telematica del nuovo millennio, in quanto, come si è visto, coniuga in sé il doppio statuto del dinamismo e dell’alterità, del sapere e dell’agire, annodati nell’asse della libertà, orientando il principio etico e sociale del giusto dalla prospettiva del dovere –quale era stato assunto dalla Modernità– in quello della scelta personale e della volontà relazionale. Ed è per questa sua attualizzazione nella società dei consumi che oggi si guarda con interesse al principio del desiderio, ricollocandolo alla convergenza della nuova civiltà edonistica, non già per descriverlo nell’ottica sociologica dei beni di godimento, ma per recuperarlo nella radice trascendentale della tensione verso l’Altro, come si è detto. È d’obbligo per questa via innestarsi sui presupposti fondanti della tradizione speculativa classica e cristiana, riprendendoli e riprogettandoli in chiave attualizzante, così come essi emergono in continuità da Aristotele a Tommaso, da Agostino a Eckhart, per misurarli nello spazio delle interpretazioni novecentesche, da Lévinas a Ricoeur, da Derrida a Deleuze. Se un’indagine di tal fatta si presenta estremamente stimolante per la fecondità dei percorsi testuali che si offrono a riscontro, aperti in chiave contemporaneista, capaci di rivivere in una ricca interstestualità di voci antiche e moderne, basti qui indicarne la direzione e rivolgere l’attenzione ad alcuni aspetti specifici, segnalando al contempo anche i limiti, o almeno i rischi insiti nella configurazione di una possibile ‘società del desiderio’. Innanzitutto va rilevato che la scommessa sta qui in una torsione di quel paradigma epistemologico a superamento dell’ottica istintuale-pulsionale, rivolta esclusivamente all’interiorità, onde
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ca, è al tempo stesso vigile sul rischio di un’assunzione esclusiva di quel paradigma, da cui nasce la necessità di assumere quelle coordinate identitarie solo a patto di farle funzionare in dialogico confronto/apporto con ogni altra area transregionale, nella direzione di una improrogabile dilatazione dei confini e nel confronto aperto di ogni rapporto e risorsa. Solo allora funziona e ha valore la tutela di quella originaria ‘ragione ragionevole’, riconosciuta da Semeraro come “attività anch’essa produttiva”, in quanto radice preziosa e feconda di quella civiltà. Se dunque è l’incompiutezza la radice feconda che caratterizza la progettualità dell’homo sapiens, essa connota sia la sua tensione conoscitivo-comunicativa, rivolta verso un progresso comunque insoddisfacente, sia la sua avventura di libertà immaginativa, capace di inventarsi sempre nuove relazionalità, ma di esserne al tempo stesso immancabilmente frustrata, che si faccia di volta in volta vittima o carnefice. Su quel sottile discrimine di libertà/schiavitù, di tensione/ripiegamento, vive l’immaginazione che libera possibilità nello sviluppo della fruizione, ma ne è al tempo stesso condizionata, financo schiacciata nell’impatto delle odierne logiche di mercato e della loro invasività. Si apre su questo terreno lo spazio dell’estetica del desiderio, uno spazio discontinuo e variegato, dove immagine e immaginazione si legano e confondono, dove la molteplicità di sensi si fa a un tempo libertà progettuale e inganno deformante con mutuo slittamento che implica parimenti arricchimento e rischio. Su quel discrimine sottile, corso sul filo di una ´ybris atavicamente introiettata, eppure a fatica vinta e riguadagnata alla dimensione della ragionevolezza, si gioca oggi la partita comunicativa, come evento-avvento dell’Altro, come “forma dell’agire nell’in-comune di reciprocità”, a riprendere un’espressione dello stesso Semeraro, insomma come “avventura cognitiva che il desiderio del non ancora visto e solo intravisto alimenta, e da cui è alimentato”. Asse cognitivo e asse patetico si confermano inevitabilmente intrecciati a riconfigurare, sull’antico, il mondo comunicativo dell’uomo nuovo. Proprio la verifica etimologica conferma la chiave dell’intreccio epistemologico, laddove la radice della libertà sta nell’“accadico lub”, da cui il “libet latino” e il “Liebe tedesco”, secondo la linea di quell’affettività desiderante, aperta alla ragionevolezza, mai definitivamente schiacciata dalla razionalità (Semeraro 2003). In quell’originario nesso linguistico-espistemologico di libertà-
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mondo informatico-digitale, in continuità il nuovo con l’antico, senza alcuna soluzione di continuità, liberando l’uomo tecnologico dalla y´bris dello scacco e della fine. Così anche il net-work delle possibilità virtuali si ridisegna nell’universo consueto dell’espansione dei possibili, secondo le coordinate note delle potenzialità umane, che impongono l’imperativo di una loro realizzabilità aperta. Saldato il nesso di conoscenza e di desiderio, la ricerca della realizzabilità dei bisogni recupera la direzione delle libere scelte, volontarie e intenzionali, sottratte al troppo lungo giogo di una spersonalizzante egemonia o di una omologante sovradeterminazione del potere. E a partire da una reimpostazione degli equilibri umani tra intelletto e affettività, tra libertà e scelta, la nuova ‘società del desiderio’ può anche porre in gioco –almeno nella prospettiva aperta di una sua realizzabilità!– una necessaria saldatura tra etica ed economia, istituti per troppo tempo divaricati. Se l’etica è tesa a realizzare l’accrescimento relazionale, se ancora il soddisfacimento dei bisogni personali si ricerchi non nella dotazione di merci, ma nello sviluppo di potenzialità (Vigna 2001, 273), anche l’economia può ridefinirsi guardando non più alla realizzazione di potenzialità quantitative ma qualitative, non tanto al perfezionamento dei prodotti ma soprattutto alla loro relazionalità, per fornire opportunità capaci di legarsi a un ordinamento di preferenze basato sui valori. Eppure una siffatta ‘società del desiderio’ lascia aperte non poche zone d’ombra che attendono dalle straordinarie progettualità dell’uomo nuovo di essere dissipate. Infatti lo statuto del desiderio perdura in un’ambiguità di fondo, tra dinamismo e staticità, tra possibilità di scelte e incompiutezza di azioni rinviate. Proprio l’itinerario dell’affectum iscritto nelle frontiere del possibile, ha in sé tutta la grandezza di un’apertura illimitata, ma anche il limite di una realizzabilità sempre rinviata, mai del tutto compiuta. Stanno qui la ricchezza e il limite interno di un’intenzionalità che deve trovare in sé le ragioni del compimento. Che perciò non può essere oggettuale ed empirico –in questo senso il desiderio non s’identifica col godimento, anzi lo nega– ma trascendentale, ideale e poietico, proiettandosi in una prospettiva dell’agire che nel rinviarsi si rinnova e continuamente si riprogetta in nuove forme possibili. Occorre insomma tornare alla radice epistemologica che il desiderio ha in Aristotele, come divenire di potenza e atto, per garantir-
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ripartire verso una socialità del desiderio assunto come ‘educom’, per dirla con Semeraro, cioè come educazione-comunicazione, che valorizza lo spazio di attesa del desiderio-insight come luogo creativo dell’ascolto-riflessione. Si potrà allora coniugare, con Vigna, il desiderio con i bisogni umani e passare dal vuoto del godimento alla pienezza di un’apertura intenzionale col mondo (Vigna 1990). Si potrà anche scorgere così la dimensione di un’etica di libere scelte, rifondata sull’originaria ‘sinderesi’, quale si delinea da Tommaso a Eckhart, intesa come naturale attrazione o tendenza verso il bene attivata dalla forza della volontà, capace di coniugare in una medesima energia vitale affettività e intelletto, realizzando lo spostamento del desiderio dal conoscere all’agire (Sciuto 1994). A voler ripartire dalla tradizione per dare fondamento a una prassi etica declinata sul nesso desiderio-conoscenza-azione, occorre poi orientarla nell’ottica immanentista dell’attuale società desacralizzata, ove la tendenza al bene non può essere accettata insieme con l’ordine trascendente, ma deve essere motivata sulla radice veritativa della conoscenza e assunta in una concezione unitaria della natura umana, razionale e immaginativa, intellettuale e conativo-patetica, biologica e spirituale. Un’etica intenzionale, quindi, delle possibilità, che sa accettare lo scontro della violenza e i limiti di un’attesa incompiuta, ma decisa a farsi volontà di impegno a superamento dello scontro e potenzialità di progetti possibili nell’accrescimento delle relazioni. Dalla radice dell’antica sinderesi viene anche l’attualità dello sconfinamento di etica ed estetica, laddove si rinnova l’incontro, recuperato dalla tradizione platonico-eckhartiana, della prassi con l’immagine, insistente nello spazio aperto delle potenzialità liberate dal desiderio e moltiplicate nell’espansione illimitata delle realizzazioni possibili. Il mito dell’immagine, legandosi in una sorprendente continuità da Eckhart a Lévinas, rivive come nodo immaginativo-conoscitivo nello spazio digitale-virtuale, dando ragione anche della medusea apparenza di una riproducibilità infinita. Una prospettiva etico-estetica di tal fatta, se ha il merito di recuperare, in uno scenario di libere scelte, l’intenzionalità dei bisogni, contribuisce d’altronde a saldare nell’attualizzazione delle potenzialità umane, originarie e autentiche –oggi ottimizzate da una tecnologia sempre più raffinata–, il patrimonio della civiltà umana, ripreso dalla tradizione pre-industriale e riproposto integro nel
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si la necessità dello sbocco nell’azione, nel lavoro, nella compiutezza sociale degli umani istituti, onde fugare il rischio di una passività latente, non estranea d’altronde alla prospettiva dell’alterità desiderante, qual è nel volto di Lévinas. Cosicché oggi, nella società desacralizzata dell’Occidente tecnicizzato, il desiderio può costituire la radice anche di una tensione verso l’alto che, se non sa trovare sbocco nel trascendente divino, può, come in Aristotele e nella società precristiana del logos, proiettarsi nell’azione per realizzare la prassi etica del lavoro e dell’economia. In questa prospettiva operativa –e solo in essa–, detta società del desiderio-conoscenza può costituire la sfida anche di un nuovo Mezzogiorno, che sappia intervenire nella ricchezza delle proprie potenzialità e tradizioni per ri-progettare un futuro di progresso e di accelerazione, bruciando definitivamente il limite dell’attesa che da troppo tempo si porta con sé.
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2. Le teorie sul capitale sociale, sviluppatesi in ambito sociologico, sono state accolte, negli anni più recenti, anche nella letteratura economica (cfr. Sacco e Zamagni, 2002). L’idea di fondo si può riassumere in quanto segue. Una economia di mercato necessita, per il suo stesso funzionamento, di un insieme di norme diffusamente condivise, che garantiscano la reciproca fiducia in merito al rispetto delle clausole contrattuali. La fiducia, intesa come aspettativa individuale della “correttezza” (fairness) altrui, costituisce, in tal senso, un fattore di sviluppo economico, essenzialmente a ragione del fatto che
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3. Una diversa risposta alla domanda posta supra fa riferimento al ruolo delle emozioni: vergogna, rimorso, orgoglio, senso di colpa, vengono definite “emozioni prosociali” (Bowles and Gintis, 2002), in considerazione del fatto che (i) tali emozioni esistono soltanto in quanto l’agente economico è un attore sociale e (ii) esse tendono a generare fenomeni di empatia. La considerazione dell’esistenza –peraltro innegabile– di tali emozioni colloca questa prospettiva teorica in contrasto con la caratterizzazione mainstream dell’homo oeconomicus auto-interessato e razionale. Inoltre, proprio in base a questa osservazione, non si può ora ritenere che il rispetto delle norme si generi, in ultima analisi, per ragioni di convenienza e di calcolo, come nello schema descritto supra. In questo caso, il rispetto delle norme è semplicemente garantito dalla disutilità associata al loro mancato rispetto; disutilità che, a sua volta, è riconducibile al rimorso, al senso di colpa e all’insieme di emozioni che ci spingono ad adottare codici di comportamento prosociali1. Una esemplificazione può mettere in luce la maggiore capacità esplicativa di questo approccio rispetto a quello precedentemente descritto: ciò che qui definiamo il “paradosso della interazione non
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guglielmo forges davanzati le emozioni dell’oeconomicus
1. Secondo una ben nota posizione metodologica, tuttora a fondamento dell’economia mainstream, l’Economia è la scienza che studia problemi di allocazione di risorse scarse fra usi alternativi dati. Il problema economico diviene, così, essenzialmente un problema di scelta; la scelta essendo effettuata –si sostiene– da agenti razionali, auto-interessati, sulla base di preferenze esogene. Nel corso degli ultimi anni, è emerso un indirizzo di ricerca radicalmente alternativo a quello ora descritto e che, nei tempi più recenti, sta attirando l’attenzione di un numeroso gruppo di studiosi. Ciò che viene respinto in primis è il postulato in base al quale le scelte vengono effettuate in un vacuum sociale e istituzionale e che, conseguentemente, sia metodologicamente esclusa la possibilità di indagare sulla genesi e gli effetti delle interazoni sociali non mediate dal mercato, laddove queste presuppongano l’esistenza di emozioni. Si sostiene, per contro, che le norme morali e sociali (alla base del c.d. “capitale sociale”) costituiscono il fondamento necessario per l’operare dei meccanismi di mercato e che le emozioni possono giocare un ruolo rilevante nel promuovere l’interiorizzazione di tali norme (v. Bowles and Gintis, 2002). Questa nota si propone di individuare i possibili nessi esistenti fra emozioni prosociali, nell’accezione di cui infra, capitale sociale e sviluppo economico.
accresce il numero di soluzioni cooperative –ovvero non conflittuali– nelle transazioni e, dunque, accresce il numero di scambi. Quali sono i fattori che possono determinare l’insorgere di rapporti fiduciari? La risposta più accreditata proviene soprattutto dai lavori di Taylor (1987), Schotter (1986), Axelrod (1984) e Sudgen (1986). L’idea di fondo è che le interazioni sociali seguano uno schema definito di tit for tat, ovvero che ciascun agente punisca o premi l’altro in ragione del fatto che l’altro soddisfi o meno le sue aspettative. Avvalendosi delle tecniche della teoria dei giochi reiterati, questi autori mostrano che le soluzioni cooperative (e, dunque, la reciproca fiducia) emergono spontaneamente; ovvero che i meccanismi di mercato sono in grado di generare e propagare l’adozione di codici di comportamento orientati al rispetto delle norme. Si può, tuttavia, rilevare che questo schema teorico presuppone due assunti con basso grado di realismo: a) il gioco deve avere durata infinita, oppure b) i giocatori ignorano ex-ante la durata del gioco stesso. Diversamente, infatti, nell’ultimo “incontro”, converrebbe a entrambi i giocatori defezionare, ovvero comportarsi in modo opportunistico.
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4. Le emozioni prosociali sono, in larga misura, connesse al desiderio di comunicare. Ciò almeno in una duplice accezione. 1) Il rispetto delle norme costituisce anche un segnale che ciascun individuo, spesso indipendentemente dall’esistenza di ragioni di convenienza, dà alla comunità di appartenenza in ordine alla pro-
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pria affidabilità. Questo meccanismo ha evidentemente ragione di essere soltanto in contesti nei quali il segnale è “pubblicamente osservabile”, ovvero in condizioni di assenza di anonimato. È, in sostanza, quanto rileva Ugo Volli (2002), a proposito del fatto che gli invididui “parlano” anche con i vestiti che indossano, le automobili che guidano, il carrello della spesa e –qui aggiungiamo– con il rispetto di codici di comportamento socialmente approvati. La “società del desiderio”, alla quale Volli si richiama, è anche la società del desiderio di comunicazione, sempre più spesso realizzata mediante “segnali”; il “modello etico dominante”, secondo l’autore. 2) L’attitudine a effettuare scambi, seguendo Smith (1976 [1776], p.16), sembrerebbe dipendere dall’inclinazione “naturale” a comunicare: … questa tendenza [a scambiare], come sembra più probabile, [è] la conseguenza delle facoltà della ragione e della parola. Essa è comune a tutti gli uomini, e non si trova presso alcuna altra razza d’animali, che pare non conoscano né questa, né altra specie di convenzioni.
In questa prospettiva, dunque, il mercato esiste in primis per l’inclinazione dell’uomo a comunicare, non solo attraverso la parola, ma anche atraverso la vendita e l’acquisto di beni e servizi. 5. Vi è un diffuso consenso, in letteratura, sui meccanismi che possono generare la interiorizzazione di emozioni prosociali. Seguendo Boyd e Richerson (1985), i canali di trasmissione delle norme sono sostanzialmente riconducibili ai seguenti: (i) la “trasmissione verticale”, che si attua in famiglia; (ii) la “trasmissione obliqua”, che si realizza mediante l’istruzione; (iii) la “trasmissione orizzontale”, che avviene all’interno dei gruppi amicali. A ciò va aggiunto –sulla base di quanto si è argomentato– il reddito disponibile, dal momento che il suo valore è plausibilmente correlato alla possibilità di rispettare le norme, laddove queste richiedano costi monetari. Dall’impostazione qui sinteticamente delineata, emergono due indirizzi di policy finalizzati ad attivare processi di sviluppo. a) In quanto si ritiene che il capitale umano generico (l’istruzione di base) svolge
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ripetuta”. Si assuma che l’individuo A si trovi nella città x; che consumi un caffè in un locale nel quale la prassi stabilisce che il pagamento avvenga dopo la consumazione; che sappia con certezza che non tornerà in quel locale. È esperienza comune che, posti di fronte alla scelta pagare/non pagare, si sceglie, di norma, di pagare; pur essendo il pagamento una scelta irrazionale, dal momento che comporta costi con probabilità di sanzionamento –rispetto alla scelta alternativa– prossima a zero. In tal senso, l’idea secondo la quale le norme vengono rispettate su basi razionali non trova riscontro nell’esperienza comune e genera esiti paradossali: pur essendo conveniente per il consumatore, in date circostanze, non pagare, l’impresa accorda la possibilità di pagare dopo aver consumato. È allora evidente che la sola soluzione ammissibile per risolvere, sul piano teorico, il caso in esame è far ricorso a “emozioni prosociali” che, una volta interiorizzate, impongono al consumatore il dovere di pagare, pena una sanzione endogena associata al mancato rispetto di una norma interiorizzata. Due considerazioni meritano di essere poste. In primo luogo, è ragionevole ritenere che la probabilità del rispetto della norma sia tanto più elevata quanto minore è il prezzo del bene consumato, dato il reddito disponibile. In secondo luogo, è altrettanto ragionevole ritenere che la probabilità del rispetto della norma è tanto più elevata quanto meno stringente è il vincolo di bilancio del consumatore, ovvero quanto maggiore è l’ammontare di risorse di cui dispone2. Se si accoglie questa tesi, si deduce che il consumatore tende a comportarsi in modo progressivamente più vicino al criterio della razionalità in ragione del reddito di cui dispone: individui con basso reddito, in altri termini, dovrebbero effettuare calcoli in un numero maggiore di circostanze, ovvero anche per acquistare beni con basso prezzo, stante le considerazioni ora proposte, e –ci sembra– in linea con l’esperienza fattuale. La necessità di effettuare calcoli nell’atto di acquisto diventa, in questa prospettiva, tanto più cogente quanto minore è il reddito disponibile.
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anche una funzione “moralizzatrice” (cfr Spence, 1973) –il capitale sociale, per il tramite della interiorizzazione delle emozioni prosociali, può essere accumulato attraverso l’accumulazione di capitale umano, dando luogo a un circolo virtuoso in grado di attivare processi di sviluppo civile e di crescita economica. b) Un aumento del reddito disponibile a beneficio degli individui più poveri può determinare il medesimo risultato per l’operare di due effetti distinti. In primo luogo, essendo meno stringente il vincolo di bilancio, questa politica accresce le possibilità di accumulazione di capitale umano e, dunque, sul piano aggregato, di capitale sociale. In secondo luogo, l’aumento del reddito disponibile rende meno costoso il rispetto delle norme (laddove questo sia associato alla probabilità di sostenere costi monetari), con il conseguente aumento –anche in questo caso– dello stock di capitale sociale e del tasso di crescita. In definitiva, si può ritenere che l’adozione di codici di comportamento orientati al rispetto delle norme sia in ultima analisi determinata dal reddito disponibile; che l’aumento del reddito a beneficio degli individui più poveri –per il tramite della trasposizione di emozioni prosociali in azioni razionali– accresce lo stock di capitale umano e sociale in una collettività data; che, infine, l’aumento dello stock di capitale umano e sociale consenta l’attivarsi di processi endogeni di sviluppo civile e crescita economica.
riferimenti bibliografici Axelrod, R. 1984. The evolution of cooperation. New York: Basic Books. Bowles, S. and Gintis, H. 2002. Prosocial emotions, Santa Fe Institute, working paper n. 02-07-028. Boyd, R. and Richerson P.J. 1985. Culture and the evolutionary process. Chicago: Chicago University Press. Carli, R. e Paniccia, R.M. 2002. L’analisi emozionale del testo. Uno strumento psicologico per leggere testi e discorsi. Milano: Angeli. Sacco, P.L. e Zamagni, S. 2002. Complessità relazionale e comportamento economico. Bologna: Il Mulino. Schotter, A. 1986. The evolution of social institutions, in R.Langlois (ed.), Economics as a process. Cambridge: Cambridge University Press. Smith, A. 1976 [1776] Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Torino: Utet. Spence, M. 1973. Job market signalling. “Quarterly Journal of Economics”, 8. Sudgen, R. 1986. The economics of rights, cooperation and welfare. Oxford: Basil Blackwell. Taylor, M. 1987. The possibility of cooperation. Cambridge: Cambridge University Press. Volli, U. 2002. Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza. Milano: Raffaello Cortina editore.
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1 In ambito psicologico, viene da alcuni rilevato che non può darsi un discrimine netto fra emozioni e razionalizzazione delle emozioni e che, cioè, l’emozione è mediata dal pensiero in un continuo processo di feedback. Non è questa la sede per approfondire queste tematiche, per le quali si rinvia, fra gli altri, a Carli e Paniccia (2002). Ringrazio la dott. Silvia Potì per aver richamato la mia attenzione su questi aspetti. 2 Si sta qui assumendo che esista, per ogni individuo, un vincolo di saturazione nel consumo. Diversamente, si potrebbero registrare comportamenti opportunistici per qualunque livello del reddito disponibile.
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sergio duma l’america non desidera guerre geosofie 148
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Negli ultimi tempi, almeno secondo un sistema informativo decisamente allineato su posizioni guerrafondaie, sembra quasi che gli Stati Uniti d’America abbiano tranquillamente accettato l’idea della guerra e che pacifismo sia una orribile parola. Coloro che si sono opposti al conflitto tenacemente voluto da George W. Bush sono stati frettolosamente tacciati di antiamericanismo con una facilità sconcertante. Eppure la persona non superficiale non può non prendere in considerazione il fatto che la cultura statunitense spesso e volentieri non si è allineata con i governi ed è stata caratterizzata da un sentimento di viscerale rifiuto dei conflitti. Senza necessariamente dover considerare la classica opera di Ernest Hemingway (1899-1961), ‘A Farewell to Arms’ (Addio alle Armi) (1929) o ‘Three Soldiers’ (Tre Soldati) di John Dos Passos (1896-1970), vorrei citare Norman Mailer (1923), autore del celebre ‘The Naked and the Dead’ (Il Nudo e il Morto) (1948), ancora oggi uno degli intellettuali più discussi e conosciuti in America. Con questo romanzo, che sorprese tutti con il suo stile di scrittura hemingweyano e non esente da influssi joyciani, Mailer affermò vigorosamente la sua sovranità letteraria negli Anni Cinquanta, con una violenta condanna della guerra. Quando Mailer ideò il libro aveva già una forte inclinazione politica ma è solo quando, nel 1968, pubblica quello che è considerato il suo capolavoro, ‘The Armies of the Night’ (Le Armate della Notte) che il suo indiscusso antimilitarismo trova la sua più forte e intensa espressione. Quest’opera può essere considerata uno dei primissimi esempi di romanzo-reportage, seguita dal contemporaneo ‘Miami and the Siege of Chicago’ (Miami e l’assedio di Chicago). In questi due libri Mailer mescola giornalismo, narrativa e autobiografia, con uno stile che presto farà scuola. ‘The Armies of the Night’ racconta la marcia sul Pentagono contro la guerra in Vietnam dell’ottobre 1967. In questa occasione Mailer venne arrestato insieme ad altri dimostranti anche se venne rilasciato poco dopo. Il libro fu scritto in quattro settimane e parti-
colarmente significativi sono gli ultimi capitoli che raccontano la violenza con cui la polizia colpì i dimostranti. Un altro libro antimilitarista decisamente significativo è Slaughterhouse Five (Mattatoio Cinque) (1969) di Kurt Vonnegut (1923), scrittore considerato antesignano del postmodernismo per il suo stile di scrittura spesso sperimentale e impregnato di suggestioni a volte fantascientifiche. Il libro racconta la storia del bombardamento di Dresda che ha ossessionato l’autore che ne fu testimone. L’opera è piena di descrizioni letteralmente angoscianti che rivelano con allucinata implacabilità le brutture della guerra. Affine nello stile di scrittura che a tratti sembra anticipare gli autori americani cosiddetti apocalittici che emergeranno nel panorama culturale statunitense è ‘Catch 22’ (Comma 22) (1961) di Joseph Heller (1923), satira crudele della vita militare e della tragedia della guerra. L’opera ha affascinato (e continua ad affascinare) intere generazioni di lettori per il suo incredibile humour nero. ‘Catch 22’ narra la storia di una squadra di bombardieri americani in Italia (da considerare che lo stesso Heller fu tenente d’Aviazione in Corsica per diciotto mesi e partecipò a circa sessanta missioni con il suo B25), e presenta la gerarchia militare come la quintessenza dell’assurdità. ‘Comma 22’ è un’espressione che nel libro indica un’ingiunzione collegata in modo contraddittorio e inesplicabile a un’ingiunzione precedente, e precisamente: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalla missione; ma chi ha la capacità di chiedere di essere esentato dalla missione non può essere pazzo”. La prorompente originalità di questa invenzione è stata tale che ormai enciclopedie e vocabolari hanno registrato Comma 22 come neologismo, dandone questa definizione: “Dilemma assurdo nel quale ogni scelta contiene l’impossibilità di risolvere il problema”. L’impatto che l’opera ha sul lettore deriva dal fatto che Heller ha ambientato la satira proprio nel cuore stesso della morte e della violenza, suscitando il riso e contemporaneamente l’orrore, in una specie di commedia nera, il cui protagonista, il capitano armeno Yossarian, diventa nella stima dei suoi compagni un eroe solo quando riesce a sottrarsi al combattimento. Neanche i poeti hanno rinunciato a esprimere il loro dissenso contro qualsiasi forma di conflitto. Scontato fare il nome di Allen Ginsberg (1926-1997), autore del celebre ‘Howl’(Urlo) (1956), che ha preso parte, credo, a praticamente tutte le più importanti manifesta-
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l’acuta analisi di un generalizzato stato di polizia e di controllo ormai sotto gli occhi di tutti. Burroughs, in effetti, non condivide le istanze pacifiste del suo amico Ginsberg e non partecipa, se non raramente, alle marce e alle dimostrazioni degli anni sessanta. Tuttavia, il suo dirompente romanzo ‘Naked Lunch’ (Pasto Nudo) (1962) è ancora oggi terribilmente attuale, proprio per la descrizione di un sistema politico e informativo che controlla l’individuo e i suoi pensieri, con una invenzione narrativa che se negli anni sessanta poteva ancora essere considerata fantascientifica, oggi è decisamente reale. Nell’opera di Burroughs, il protagonista, William Lee, all’ultimo stadio della dipendenza dalle droghe, si rifugia in una nazione immaginaria, l’Interzona, che comprende anche le regioni di Annexia e di Freeland, la Terra dei Liberi, ironico e sarcastico riferimento agli stessi Stati Uniti d’America. In questo mondo gli individui sono schiavizzati e condizionati dal Dr. Benway, un medico e uno scienziato che rappresenta ogni forma di autorità. Il controllo e la manipolazione dei pensieri sono appunto simboleggiati dalla manipolazione del linguaggio e dalla struttura caotica e sconnessa della trama. Immagini di morte e di distruzione si alternano con riflessioni sulla natura del controllo e sulla logica del conflitto. In un certo senso, ‘Naked Lunch’ rappresenta forse la più lucida descrizione del lato malato e perverso dell’America che, sotto l’apparente immagine di una democrazia ben organizzata, nasconde il volto feroce della più crudele dittatura. In seguito, Burroughs proseguirà con la sua denuncia, intuendo che proprio il conflitto e l’aggressività imperialista sono le caratteristiche essenziali della società americana. Ciò è evidente nella cosiddetta trilogia ‘cut-up’ o montaggio libero (basato sul taglio arbitrario e sulla mescolanza di pagine differenti, una tecnica già anticipata dal dadaista Tristan Tzara), composta dai romanzi ‘The Soft Machine’ (La Morbida Macchina) (1961), ‘The Ticket That Exploded’ (Il Biglietto che è esploso) (1962) e ‘Nova Express’ (1964). In questa trilogia, Burroughs immagina gli Stati Uniti d’America come una vera tirannia del pensiero. L’opinione pubblica viene condizionata dalla radio e dalla televisione e soprattutto dai giornali ‘Life’, ‘Time’ e ‘Fortune’, che devono continuamente imporre valori e comportamenti. Come se non bastasse, il mondo è metaforicamente considerato come uno Studio, una stanza grigia al cui interno uomini potenti e senza scrupoli creano letteralmente la realtà e controllano ogni cosa, tramite mac-
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zioni pacifiste e antimilitariste tenutesi in America dagli anni cinquanta in poi. E già durante la prima guerra del Golfo, Ginsberg non ha esitato a scrivere versi contro Bush padre, denunciando il primo conflitto iracheno e lo scandalo Iran-Contras, o contro Reagan. Poesie che costituiscono la parte forse più importante della sua raccolta ‘Cosmopolitan Greetings’ (Saluti Cosmopoliti) (1994). Contemporaneo di Ginsberg, compagno di avventure nella cosiddetta Beat generation, il poeta Gregory Corso (1930-2002), autore della celebre poesia ‘Bomb’ (Bomba) (1958), è forse mai come adesso di drammatica attualità. Questa opera nacque in seguito a una marcia pacifista che si tenne a Londra nel 1958. Tale marcia raccolse circa cinquemila pacifisti, liberali, anarchici e studenti. Nessuno, va detto, aveva un’idea precisa sullo scopo di questa campagna per il disarmo nucleare, a parte che era organizzata contro la bomba. A questa marcia partecipò anche Gregory Corso che in seguito scrisse una lunga poesia alla quale Allen Ginsberg diede la forma grafica di un fungo atomico ritagliando e incollando le righe dattiloscritte (e forse influenzato dall’amico e collega William S. Burroughs, 1914-1997, spesso impegnato, con la sua tecnica ‘cutup’, ‘taglia e cuci’, a una analoga attività creativa). Corso era rimasto colpito, durante quella manifestazione, dalla carica di odio e di violenza dei dimostranti. E questa carica di violenza gli sembrò mostruosa almeno quanto la minaccia della guerra e della morte nucleare. Per questo, provocatoriamente, e paradossalmente, Corso decise di dedicare la poesia proprio alla bomba. Non per esaltarla, sia chiaro. Ma semplicemente perché, pensava, della vita si deve accettare tutto ciò che esiste. Il vero nemico dell’umanità, secondo Corso, non era un’arma o una guerra. Ma l’odio. La condizione umana, secondo il poeta, è già abbastanza tragica senza che la si debba rendere ancora più tragica con nuovo odio e con ulteriore violenza. E forse, in un certo senso, alla luce dell’attuale clima di tensione che stiamo vivendo, l’insegnamento di Corso e la indiscutibile tragicità di ‘Bomb’ sono spaventosamente attuali. Pur non avendo mai affrontato direttamente il tema della guerra, non si può ignorare uno dei campioni indiscussi della cultura del dissenso statunitense, il già citato William S. Burroughs. Decisamente disincantato nei confronti di ogni genere di conflitto, l’autore sembra quasi accettare con rassegnazione l’impeto guerrafondaio americano e più generalmente occidentale, preferendo concentrarsi sul-
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rappresentazione e il supporto più o meno palese di questa società sono le tematiche più ricorrenti in questo genere di romanzi. In particolare, ‘Neuromancer’ (Neuromante) (1985), di Gibson, considerato il manifesto del genere cyberpunk, descrive un’agghiacciante società americana ormai controllata dalle grandi compagnie, con i politici al loro servizio e un precariato sociale che tanto assomiglia alle masse di giovani disoccupati del nostro tempo. Case, il protagonista della storia, è un giovane ribelle che solo nella realtà virtuale del ciberspazio può trovare un breve momento di evasione dalla società terribile nella quale si trova a vivere. Tale regione virtuale è chiamata Interzona, un chiaro omaggio di Gibson a Burroughs, e questa realtà pullula di gente di tutti i tipi, occidentali, orientali, mafiosi, spacciatori di droghe virtuali, prostitute, un vero e proprio ‘melting pot’ del ventunesimo secolo, e
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chine, computers, fax, telescriventi, che trasmettono e diramano in continuazione messaggi contraddittori e fuorvianti, simili a spot pubblicitari dei nostri giorni. Una tecnica di controllo è quella di creare conflitti o di enfatizzare quelli già esistenti, allo scopo di esasperare la confusione. A questo fine, il potere si serve della cosiddetta Polizia Nova, formata da agenti senza scrupoli che hanno il compito di eliminare qualsiasi forma di dissenso, con droghe, con false accuse di antipatriottismo e con processi da vera e propria caccia alle streghe. Gli unici che hanno il coraggio di resistere sono un manipolo di teppisti che cercano di combattere la Polizia Nova con le sue stesse armi, soprattutto con un sistema di informazione alternativo. Chiaramente, Burroughs si riferisce metaforicamente alla stampa underground, agli artisti politicizzati, ai gruppi giovanili che frequentavano le università. Ma, come ho già avuto modo di affermare, Burroughs è, in un certo senso, rassegnato, accetta l’idea stessa della guerra e del conflitto come qualcosa di ineluttabile, che può essere avversato ma mai cancellato. Con il romanzo ‘Wild Boys’ (Ragazzi Selvaggi) (1971), Burroughs andrà oltre, inventando un vero e proprio gruppo di terroristi del pensiero, i Ragazzi Selvaggi del titolo, appunto, che cercheranno di contrastare in tutti i modi la dittatura della maggioranza silenziosa ormai dilagante in America e in tutto l’occidente. Qui Burroughs parla esplicitamente di guerra delle menti e dei pensieri, di controllo non solo delle opinioni ma addirittura dei corpi e della sessualità, in un vero e proprio incubo orwelliano. Dopo l’undici settembre del 2001, molti hanno detto che bastava leggere i romanzi di Burroughs per intuire ciò che sarebbe accaduto: un conflitto, non si sa se voluto da qualcuno, tra occidente e mondo islamico; proteste pacifiste; un presidente non eletto che dichiara guerra all’Iraq per partito preso. Scenari e situazioni che sembrano effettivamente uscire fuori dalle pagine dello scrittore di St. Louis. O magari da un romanzo di fantascienza cyberpunk. Già, poiché il movimento letterario ‘cyberpunk’, nato nella metà degli anni ottanta grazie ad autori come William Gibson, Bruce Sterling e altri giovani scrittori, descrive una società solo in apparenza fantascientifica. Il mondo è dominato da potenti multinazionali che perseguono i loro interessi in modi crudeli e spietati. Guerre, massacri etnici, nuove droghe in grado di controllare le menti, realtà virtuali e soprattutto un sistema mediatico che è la
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A.A.V.V., 1990, Cyberpunk Antologia, Milano, Shake. A.A. V.V., 1992, Re-Search – William S. Burroughs – Brion Gysin, Milano, Shake. Campbell, J., 1999, Questa è la Beat Generation, Parma, Guanda. Caveney, G., 1998, Lo chiamavano il prete, Roma, Fazi. Pivano, F.,1995 Amici Scrittori, Milano, Mondadori. Id., 1997, Viaggio Americano, Milano, Bompiani. Id., 2002, Dopo Hemingway, Napoli, Pironti.
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L’esito delle recenti elezioni politiche spagnole sembra riproporre l’attualità di una dialettica mai risolta tra menzogna e verità mediatiche. La vicenda è nota: il governo spagnolo, a poche ore dall’attentato di Madrid dell’11 marzo 2004, attribuisce all’Eta la strage. I principali quotidiani e organi di informazione registrano fedelmente questo indirizzo. Lo stesso autorevole El Pais, nel titolo cubitale di apertura del 12 marzo, non ha dubbi: è stata l’organizzazione terrorista basca, altre piste non esistono. Balle. Anche divertenti, amaramente divertenti, come il racconto da parte di noti direttori di quotidiani delle accorate telefonate del premier Aznar, lanciatosi nel ruolo retorico per eccellenza nella comunicazione politica della postmodernità, quello del portavoce. Quando, nei giorni seguenti, la firma del terrorismo fondamentalista di Al Qaeda diventa fatalmente intellegibile, le conseguenze sugli orientamenti dell’elettorato sono evidenti. Senza nulla voler togliere al programma di governo del leader socialista Zapatero, è difficile negare che il voto popolare abbia soprattutto voluto punire i responsabili di un tentativo di orientamento di massa fallace e menzognero. Probabilmente nel voto spagnolo contano tante altre questioni, da quelle economiche a quelle di politica estera (il clima di opinione spagnolo era tra quelli maggiormente contrari all’avventura in Iraq, e avversava fortemente anche l’intervento americano). Sta di fatto che Aznar si è prestato a una menzogna, giacché agli esperti anti-terrorismo era apparso chiaro fin dalle prime osservazioni sul luogo della strage che vari elementi portavano lontano dal terrorismo basco. L’accoppiamento bugia-scadenza elettorale deve essere sem-
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riferimenti bibliografici
“Le motivazioni si deducono dai desideri dell’umanità” (Bruce Sterling)
stefano cristante spagna, 11 marzo: voglia di verità
le guerre sono ormai un fatto considerato normale, con le immagini dei conflitti che vengono trasmesse dai canali via cavo o diffuse nelle reti telematiche, con sequenze sconnesse e veloci, quasi in stile MTV. L’intento denunciatario di Gibson e soci è chiaro. Ma, come per Burroughs, la guerra (il termine ‘war’ è ricorrente nelle opere cyberpunk) è un fatto scontato e la stessa denuncia di Gibson o di Sterling non ha più l’idealismo pacifista di un Mailer o di un Ginsberg. Ecco perché l’attentato alle Torri Gemelle di New York non è stato un fatto sconvolgente per coloro che hanno letto questi autori. Ecco perché la condotta criminale di un George W. Bush potrebbe benissimo uscire fuori dall’immaginazione di uno scrittore cyberpunk. Così come le proteste di un intero mondo che comunque, a differenza degli autori citati, non vuole rassegnarsi alla logica perversa del conflitto e delle divisioni (con buona pace delle Fallaci di turno…). Esiste quindi un’America che anche oggi è contro la guerra come questo mio breve intervento, che non voleva essere esaustivo, ma solo indicativo di alcune tendenze da sempre presenti nella narrativa statunitense, ha cercato di dimostrare. Un fatto consolante, malgrado tutto. Anche se forse si tratta di una magra consolazione. E vorrei chiudere questo intervento in maniera ambigua, non dando risposte, ma anzi, suscitando domande. Il termine ‘war’, guerra, è spesso presente nelle opere degli scrittori e dei poeti americani. Non vale però lo stesso per il termine ‘peace’, pace. Almeno per ciò che ho potuto fino a oggi leggere o rilevare. Quale sarà il motivo? Una semplice casualità? O la spia di qualcosa di più profondo e importante?
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brato ai cittadini spagnoli particolarmente pernicioso e dirimente rispetto alla considerazione degli scrupoli del loro leader, capace di mentire senza ritegno pur di profittare dell’onda di paura dell’elettorato, ritenuta canalizzabile secondo i provati items della politica interna del centro-destra (di cui la repressione del terrorismo basco è sempre stata punto qualificante). Spesso però la menzogna si presenta svincolata da scadenze così note ed evidenti a tutti. Negli ultimi anni ne abbiamo avuto prove inconfutabili. Il presidente George W. Bush ha mentito per mesi sull’esistenza degli arsenali chimici e nucleari di Saddam Hussein, sulle introvabili armi di distruzione di massa. Lo stesso ha fatto Blair, con maggior logica e passione interlocutoria ma con goffaggine ancora maggiore, non occultabile dal rapporto –pur non sfavorevole– del blasonato jurì britannico sull’operato del primo ministro inglese durante l’infuocato dibattito sulle sorti dell’Iraq.
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Seguo la scaletta di interrogativi. Può esistere un concetto condiviso di verità mediatizzata? Procedo per esempi, senza pretese di approfondimento filosofico. Si postuli un evento qualsiasi: la conferenza stampa di un rappresentante politico, uno sciopero sindacale, un incidente ferroviario, una sfida sportiva. Qualora l’evento abbia effettivamente luogo, la documentazione relativa all’evento si inscriverebbe in una cornice “reale” (le condizioni spazio-temporali dell’evento) dentro cui è sistemato non l’evento stesso ma la descrizione (inevitabilmente interpretativa) che viene narrata da uno specifico operatore.
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L’argomento su cui vorrei provare a delineare un’ipotesi di spiegazione sociologica riguarda tre aspetti della questione. Il primo: può esistere un concetto condiviso di verità mediatizzata? Il secondo: qual è il rapporto tra teoria della verità mediatica e pratica della stessa? Il terzo: qualora non pervenissimo a un concetto condiviso di verità mediatica, oppure qualora non giudicassimo soddisfacente il rapporto tra un’ipotetica verità condivisa e la sua trasposizione mediatica, come descriveremmo le realtà fenomeniche che orientano le oscillazioni dell’opinione pubblica nell’epoca dei media elettronici?
Seguendo l’esempio della conferenza stampa, si potrebbe desumere che –avendo realmente avuto luogo la conferenza stampa– un servizio giornalistico che riportasse una sintesi appropriata delle parole del rappresentante politico (o una selezione delle principali domande e principali risposte) dovrebbe essere preso mediaticamente per vero. Tuttavia sappiamo da decenni che espressioni in apparenza neutre come “sintesi appropriata” oppure “principali domande e risposte” possono nascondere decisive insidie epistemologiche. “Sintesi” equivale a “selezione”. Chi si assume la responsabilità di fare il riassunto di un certo testo (in senso semiotico), si assume in pratica il peso di definire argomenti più o meno importanti, scartando questi ultimi a vantaggio dei primi. Non vi è però alcuna assicurazione circa l’esattezza della selezione. La strumentazione giornalistica per navigare in questo mare agitato e inquieto ci restituisce l’antica nobiltà di cinque interrogazioni base: Chi/ Cosa? Quando? Dove? Come? Perché? Così si fa la notizia, secondo tutti i manuali di giornalismo. In aggiunta la sociologia dei media propone le famose cinque W di Harold Lasswell (siamo negli ani ’40 del ventesimo secolo), tradotte di solito nel modo seguente: chi (dice) cosa a chi attraverso quale canale con quale effetto. La sequenza di Lasswell propone deliberatamente una interpretazione, seppure soprattutto per via dell’impatto della notizia sul pubblico, nella versione più vicina al funzionalismo, quella degli “effetti”. Comoda come un modello cibernetico, un modello per macchine costrette a dialogare dalle necessità della tecnica. La verità si manifesta in questo caso come efficienza di sistema, processo comunicativo che trasporta cose (messaggi) inglobando progressivamente (grazie all’esperienza del sistema) l’ambito delle conseguenze prevedibili (gli effetti). In altre parole, le conseguenze di una trasmissione radiofonica come quella celeberrima sull’invasione marziana di Orson Welles del 1938 alla Cbs –altamente disfunzionali considerata l’ondata di
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da cortigiano e qualcosa di meno dell’azione consapevole di un mercenario. Il concetto di verità mediatica che proviene dal pensiero critico e dall’avanguardia culturale degli anni ’60 è invece indirizzato unicamente verso il disvelamento del dominio del sistema. La verità è smascherare il sistema, per poterlo combattere. Da La società dello spettacolo a Matrix la strategia è sempre la stessa. Fino al punto che lo studio del sistema coincide con una persistenza della dimensione critica all’interno del perimetro del sistema: qualcuno resta anarchico insurrezionalista o persino brigatista, ma la vasta maggioranza si fa cool hunter, scopritori di future trasgressioni da inserire repentinamente nel mercato, investigatori dei bordi off line dove si coltivano le innovazioni più squisitamente paradossali: gli stili, figli dell’indimostrabile (il carisma) e dell’immateriale (il desiderio collettivo), e tuttavia generatori di vita sociale e di potenziamento dell’immaginazione collettiva. Eccoci al postmoderno, alla deflagrazione dei modelli forti, allo sbando e insieme all’avventura. Che fine farà il concetto di verità mediatica? Che ci faccio qui? Si chiede per nostro conto lo stupefacente esploratore Bruce Chatwin. Noi sappiamo –non possiamo non sapere– che non può esistere un concetto di verità mediatica condiviso. I media sono la principale arena dei conflitti della postmodernità, i (non) luoghi dei giochi sporchi. Come è possibile che l’arena dei giochi sporchi applichi una
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panico nazionale che seguì il programma– sarebbero in seguito state previste e si sarebbe operato un maggior controllo sul prodotto comunicativo (censura) oppure si sarebbe provveduto a rimaneggiare i testi per raggiungere risultati meno preoccupanti. La verità mediatica del funzionalismo è decisamente relativa. Il sistema informativo (sempre più sistema in se stesso che sub-sistema del sistema sociale) rimastica gli eventi secondo procedure di interpretazione funzionali al proprio interesse, di volta in volta vicine a interlocutori considerati maggiormente strategici (il governo, l’industria, i movimenti, l’opposizione). Garante dell’operazione la cornice democratico-rappresentativa in cui opera il macro-attore “libero mercato”, anche se non di rado la democrazia può veder ristretti i propri confini da esecutivi tendenti alla forzatura autoritaria. Le proteste dei sociologi liberal si sono sprecate, da allora. La condanna di una teorizzazione sociologica implicitamente agganciata alle ineguaglianze illiberali del capitalismo industriale andava di pari passo con l’irrisione del quarto potere, stigmatizzando l’asservimento dei media rispetto ai poteri forti e denunciando la fine del patto tra giornalisti e opinione pubblica, abdicando i giornalisti al ruolo di controllori per conto della società civile e assumendo sempre più marcatamente i caratteri di intrattenitori. In fondo, da Charles Wright Mills a Guy Debord la via è meno tortuosa di come sembri. Anche arrivando alla denuncia del sistema massmediatico attraverso un’analisi non marxista della realtà (Wright Mills), le conseguenze dell’analisi liberal non possono che convergere verso l’interpretazione di una società a paradigma spettacolare, qualcosa di assai più sofisticato dell’industria culturale dei francofortesi, qualcosa di assai più vicino alle atmosfere dei romanzi di Philip Dick, alla creazione di una infosfera da cui non solo si traggono continuativamente le informazioni, ma in cui si è letteralmente immersi. Il concetto di verità mediatica che sgorga da routines produttive (newsmaking) incardinate nel sistema capitalistico all’epoca della guerra fredda è ancorato a testi funzionali alla persistenza del sistema stesso. Il concetto di verità mediatica è: ciò che serve venga detto per proteggere e alimentare il sistema. Ogni tanto questa procedura va in tilt (come nel caso del Watergate), ma in generale il processo produttivo è ben regolato e stabile. Filtra ciò che deve filtrare, lascia passare ciò che vuole, certo delle conseguenze. Si potrebbe parlare di “verità situata”, qualcosa di più di un esercizio
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Il secondo quesito parte male. La teoria della verità mediatica, come ho cercato di illustrare, si basa su un oggetto comunicativo improprio –la verità– il cui contenuto oggettivo si smaterializza a vantaggio di situate, parziali, relative interpretazioni più o meno pertinenti a seconda della definizione di “pertinenza soggettiva” (registro pubblico, ma non necessariamente oggettivo). Riprendo per comodità l’esempio della conferenza stampa. Un servizio televisivo di durata media su questo evento non risulterà mai vero (veridico) oggettivamente. Piuttosto potrà risultare non-falso. Mi spiego: se un giornalista riassume i punti principali della comunicazione del leader e orchestra l’audiovisivo con immagini normotipiche del volto del leader e del gruppo di giornalisti presenti, si giungerà a un prodotto di routine, seppure semanticamente orientato come vuole ogni operazione di selezione, ovvero di riduzione della complessità. Se invece il servizio dovesse presentare una scansione dei fatti illegittima (non avvenuta in un certo ordine, ovvero manipolata nei contenuti audiovisivi) oppure inserire enunciazione di fatti non successi (per esempio l’interruzione della conferenza stampa da parte di un gruppo di contestatori, episodio mai verificatosi nella realtà)
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saremmo di fronte a un prodotto menzognero, la cui pertinenza potrà anche essere narrativamente convincente, ma certo insufficiente per chi vuole informazione su accadimenti reali, successi in un certo spazio e in un certo tempo. Nel caso esemplificativo del primo servizio televisivo il prodotto è non-falso, nel secondo è manifestamente menzognero. Dobbiamo perciò sostituire l’espressione “teoria della verità mediatica” con l’espressione “teoria della non-falsità mediatica”. Ora, desiderando semplificare, mi accontento di affermare che il rapporto tra teoria della non-falsità e pratica della non-falsità è rapporto complicato e spesso malsano. Assai di frequente la fonte informativa è detentrice di uno smisurato potere di orientamento del newsmaking, come nel caso degli stati maggiori dell’esercito nei conflitti bellici contemporanei. Si può far dire ai media ciò che si vuole, o quasi, visto il monopolio sulle informazioni. Nei conflitti non bellici il decisore politico principale è in genere il governo, che sistematicamente tenta –attraverso appositi uffici e apparati– di orientare i testi mediatici. È un gioco più rischioso di quello dell’esercito, soprattutto di fronte a eventi eccezionali, come sa ora la destra spagnola. La considerazione che se ne trae è amara: non solo non ci può essere accordo sulla verità mediatica se non come definizione di “non-falsità”, ma la pratica della non-falsità si traduce spesso nei termini di una plausibilità verosimigliante, nella fabbricazione di notizie che sembrano ancora concepite come nell’epoca del fordismo e della propaganda. Attenzione, perché le altre pratiche di massa (tra cui principalmente l’uso abile di internet) si diffondono viralmente a fianco delle nuove tecnologie. È sempre più facile costruire un’immagine falsa di qualcuno a fianco di qualcun altro (foto del candidato democratico alla presidenza degli Stati uniti J. F. Kerry con l’attrice Jane Fonda, fotografia costruita in laboratorio e mai scattata nella realtà). È però anche sempre più facile smascherare queste bugie audiovisive digitali. L’effetto può essere la traiettoria di un boomerang. Terzo e ultimo quesito: come descrivere le realtà fenomeniche che orientano le oscillazioni dell’opinione pubblica nell’epoca dei media elettronici? Fino alla conclusione della guerra fredda, il sostrato più pro-
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narrazione pulita (ecologica)? Si firmeranno documenti per accordarsi su una deontologia e su un’etica comunicativa, che resteranno lettera morta come le deliberazioni dell’Onu. Un secondo dopo la firma riprenderà il corpo a corpo tra evento e interpretazione, e il punto di vista del descrittore continuerà inevitabilmente a raccontare una verità relativa al proprio sguardo interpretante. L’unico criterio che potrebbe essere preteso universalmente è quello della pertinenza info-narrativa, strategia che tenta una disperata attualizzazione dell’antica caratteristica della sfera pubblica habermasiana, il dibattito costruito su argomentazioni razionali. Ma questa impostazione mal si adatta a una comunicazione che viaggia soprattutto sulle emozioni, cioè su informazioni compresse ad altissimo tasso di intensificazione audiovisiva, che insistono su zone certamente non razionali della mente collettiva. Inoltre anche la pertinenza ha un suo punto di limite, giacché attiene a un mondo di priorità ridisegnato dagli interessi dell’attore massmediatico. Nemmeno la Pertinenza esiste. Esiste la mia pertinenza.
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Credo inoltre che il desiderio di verità che sembra provenire dalle società civili occidentali vada preso sul serio. Cinquant’anni di consumo mediale generalista hanno fatto crescere pubblici smaliziati fino allo scetticismo, sempre meno convinti dell’esistenza di un’unica e suprema verità, per quanto psicologicamente tranquillizzante. Certamente poco disposti a farsi trattare come dei poveri mentecatti da imbonire con delle menzogne, per quanto hollywoodiane nella fabbricazione audiovisiva. L’urgenza di una dimensione mediatica non-falsa è alla base degli orientamenti recenti di alcune opinioni pubbliche, in questi giorni soprattutto di quella spagnola e francese. Non dimentichiamo che abitiamo realtà veloci come le tecnologie che utilizziamo, e che dunque l’assetto rapido del nostro tempo ci incalza verso continui riaggiustamenti e rinegoziazioni. L’opinione pubblica, scriveva Pierre Bourdieu, è un campo di forze. Concordo. Sarebbe puerile oggi parlare dell’opinione pubblica come di un soggetto. Eppure nel suo definirsi come territorio e luogo dei conflitti va notata l’esposizione di nuovi attori, un tempo considerati deboli o molto deboli, come i movimenti di pressione e le minoranze attive in genere. In questo caso siamo già oltre il desiderio di non-falsità, oltre la semplice pretesa di una non-menzogna da parte dei media. Siamo alla constatazione che l’input minoritario del become the media –il diventare media dei primi cyber-movimenti– può estendere il proprio raggio d’azione. Anche le maggioranze prima o poi si arrabbiano.
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fondo dell’immaginario collettivo poggiava su una formidabile intensificazione ideologica, legata a sistemi narrativi sistemici, strutturati in forma di piramide. L’orrore per il comunismo da un lato e lo scandalo per le ineguaglianze del capitalismo dall’altra orientavano il sottofondo dell’interpretazione mediatica degli avvenimenti. Oggi, ad esempio, la dottrina della guerra preventiva non ha quella stessa dignità teorica, e nemmeno la stessa esuberanza narrativa. Le ideologie attuali germinano attorno a interessi tattici, di breve periodo, coerentemente con la breve durata delle principali cariche elettive dei grandi sopravvissuti alla crisi dello stato-nazione di fine novecento, Stati uniti in testa. Il ricorso all’ideologia dello “scontro di civilizzazioni” impatta con l’indispensabile necessità di mantenere aperto il dialogo con nemici e competitori sul piano multiforme della globalizzazione. Ora, se la globalizzazione liberista appare incapace di affrontare la complessità di un mondo fittamente interrelato, a tutto vantaggio di un avventurismo politico-economico che sembra proteggere solo e unicamente un’elite tecnocratica e finanziaria, diffusasi sia in Occidente che nei paesi dell’ex patto di Varsavia, non altrettanto potrebbe dirsi per altri modelli di mondializzazione. I quali però stentano a rivelarsi efficacemente, nonostante la mole di lavori teorici sulle filosofie neo-mediali (Pierre Levy) e sulla critica dell’economia politica della globalizzazione (Manuel Castells) abbia lanciato innumerevoli stimoli verso nuovi possibili decisori. Inoltre alcuni movimenti appaiono progressivamente sempre più capaci di dotarsi di propri apparati cognitivi e informativi (la rete ex no global, per esempio). Il sistema mediatico risente fortemente della situazione. Le ideologie brevi (tra cui l’inevitabile spazio conferito alle epifanie terroristiche, soprattutto nella versione ferocemente mistica del kamikaze) tengono il timone del giornalismo cartaceo e audiovisivo internazionale di tipo generalista. L’alluvione di prodotti informativi simili in tutto e per tutto (e in tutto il mondo) spinge alla differenziazione. Nascono tv per i tutti i pubblici, da Al Jazeera fino alla più minuscola telestreet italiana. Non competono direttamente con i grandi network, ma preparano il terreno per una possibile rivoluzione culturale, impostata sulle risorse glocali.
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egle becchi bambini in mediaset tra cartoni e spot pubblicitari nuove generazioni
La ricerca che viene presentata in questo saggio1 è iniziata nell’ottobre del 2001, per conto dell’Istituto di ricerca sulla comunicazione A. Gemelli -C.Musatti di Milano, nell’ambito di un’indagine più ampia, relativa alla qualità degli spettacoli televisivi. Nella parte che ci siamo ritagliate, l’aspetto da esplorare era quello della coerenza vs. incoerenza delle figure infantili negli spettacoli destinati all’infanzia, inclusivi di filmati e spot pubblicitari. Ci sembrava che questa dimensione negli studi –numerosissimi– sulla Tv e i bambini, fosse ancora inesplorata e, allo stesso tempo, presentasse una serie di stimolanti interrogativi circa la pertinenza non solo “morale” –violenza,artificiosità– ma anche epistemica degli spettacoli destinati a un pubblico infantile; e, non ultimo, pure politica. Avviata e in parte conclusa prima della promulgazione della Legge Gasparri, la ricerca assumeva anche come criteri di positività di uno spettacolo televisivo destinato a bambini alcune delibere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisive che nella Delibera 538/01/CSP (allegato A del Regolamento in materia di pubblicità radiotelevisiva e televendite, art.4, comma 6 e 7) recita “I programmi per bambini di durata programmata inferiore a 30 minuti non possono essere interrotti dalla pubblicità o dalle televendite (…) I programmi di cartoni animati, sia trasmessi in forma autonoma sia inseriti nei programmi per bambini, non possono essere interrotti dalla pubblicità o dalle televendite”2. La serie di domande che ci siamo poste è stata quindi relativa a quegli insiemi di programmi realizzati e destinati a bambini, nei quali si trovano sia filmati, sia “pezzi” pubblicitari; e questo con particolare attenzione alla figura infantile e alle sue modificazioni, alla “coerenza
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Tabella 1: Il corpus minore Always Pokémon. The Johto Journeys: 4 episodi (“Pianti e rimpianti”, “Guida pericolosa”,“Il Fischietto”, “Vecchie conoscenze”)
What’s My Destiny. Dragon Ball: 2 episodi (“La storia dei Sayan”, “La fine del serpentone”)
Gundam Wing: 3 episodi (“La distruzione del Gundam”, “Il segreto di Relena”, “Il ritorno del Gundam”)
Milly il Vampiro: 1 episodio (“Il grido del mostro della palude”)
I Cavalieri dello Zodiaco: 2 episodi (“Per amore di Flare”, “L’anello del Nibelungo”) What a Mess. Slump e Arale: 2 episodi (“Oggetti smarriti”, “i paladini della giustizia”)
I Simpson: 1 episodio (“Il Sindaco”) Che baby sitter questa mummia: 1 episodio (“Visite dall’Egitto”) Mostruosi Marziani: 1 episodio (“Pregiudizi spaziali”) Marsupilami: 1 episodio (“Marsurobot”)
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“C’è una gamma di programmi paurosi per bambini e i miei figli guardano molto la televisione. E ci sono delle pubblicità/…/ per nostro egoismo vedono una pubblicità in cui c’è uno che sembra Dracula e poi me li ritrovo a letto la notte“. una mamma di due gemelli di sette anni.
vs. incoerenza” di tali variazioni all’interno del filmato principale e negli spot e tra questi e il filmato .Abbiamo proceduto per mosse successive, delle quali un primo resoconto è stato dato in un articolo comparso sulla rivista dell’Istituto Ikon. Forme e processi del comunicare (Becchi, Nigito, Sartorio 2002), dove si espone come si è raccolto e “archiviato” quello che si è chiamato corpus maggiore. Tale corpus è stato realizzato dall’ottobre al novembre del 2001, visionando per un complesso di 217 ore i programmi trasmessi dalle tre reti nazionali, Rete 4, Canale 5,Italia 1,La 7, in tre giorni della settimana, nonché il sabato e dalle 13 alle 20, la domenica dalle 8 alle 20. Dal complesso dei programmi visionati(che abbiamo chiamato il corpus maggiore) si sono estratti quelli che contenevano degli spot pubblicitari; tali programmi, inoltre, dovevano rispondere alla duplice esigenza di essere –esplicitamente o per segni incontrovertibili– destinati a un pubblico infantile e contenere delle figure di non adulto (comprensive di infanti, bambini, ragazzi, preadolescenti, cuccioli di vari animali con aspetto antropomorfo, pupazzi animati). Si è ricavato in tal modo un insieme di 18 programmi che contenevano spot pubblicitari, tutti cartoni animati, tutti trasmessi da Italia 1, in giorni infrasettimanali, un sabato, una domenica. Questo è il corpus minore, costituito dai programmi indicati nella Tabella 1, sul quale il presente saggio si sofferma con maggior ricchezza di dettagli.
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1. Spettacoli e spot del corpus minore Il lavoro su questi cartoni ha avuto un andamento diverso; in prima battuta si sono fatte delle analisi su tutti i 18 programmi, relativamente ai rapporti tra disegno animato e spot, senza impegnarsi in elaborazioni metrologiche. Un momento ulteriore ha riguardato un corpus più ridotto, indicato come corpus minimo3 di spettacoli, sul quale si sono esercitate anche delle considerazioni di natura quantitativa. Di queste analisi verranno richiamate solo quelle che sono risultate generalizzabili anche a insiemi più ampi e tali da meglio fondare le osservazioni fatte sul corpus minore.
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Qualche parola va spesa pregiudizialmente circa i cartoni trasmessi attualmente dalla televisione e destinati a un pubblico infantile, e circa questo stesso pubblico. I cartoni sono di per se stessi un “genere” non solo dotato di caratteristiche particolari4, ma che si è evoluto significativamente durante gli ultimi trent’anni. Gli “anime” giapponesi –che costituiscono una quota rilevante nel nostro corpus– i quali arrivano sul mercato nostrano negli anni ’70, sono tutt’altra cosa rispetto ai cartoni americani trasmessi in precedenza trent’anni fa, nell’infanzia dei vostri genitori. A personaggi abbastanza fissi e prevedibili nelle loro azioni si sono sostituiti personaggi più complessi e imprevedibili per quanto fanno; invece di episodi brevi, tipici dei cartoni animati del passato, si realizzano oggi episodi lunghi che a loro volta sono sovente “capitoli” di serial, i quali durano anni (si pensi ai Pokémon e ai Simpson) e costituiscono un complesso intreccio narrativo che non è facile decodificare in un suo singolo episodio5. Non basta: a cartoni trasmessi più di frequente e per un periodo più lungo si accompagnano non solo film (è il caso dei Pokèmon), ma gadget, carte, album di figurine, fascicoli da colorare, giornalini, pupazzi che vengono reclamizzati nelle pubblicità che essi ospitano o che sono manda-
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2. Eterogeneità Nel capitale non irrilevante di disegni animati e di spot pubblicitari di cui disponiamo nel corpus minore, e che supponiamo uno spettatore bambino possa vedere uno alla volta, guardare con interesse e con attenzione, cercare di non perdere nel suo senso complessivo pur nelle interruzioni che lo costellano, ci siamo soprattutto impegnate a rilevare delle dimensioni di eterogeneità nelle quali sistemare la fenomenologia del personaggio infantile che popola tali spettacoli. Si ricordi che in questo corpus si sono scelti i vari cartoni per la presenza in essi di personaggi non adulti, rappresentati nelle forme sui generis del cartone animato.
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Il confronto fra questi 18 spettacoli di cartoni scelti e la pubblicità che essi, variamente, ospitano, apre un panorama dei più variegati, non solo per numero, natura, registro dei personaggi, contesti, discorsi, messaggi che in essi si dispongono all’attenzione del piccolo spettatore, ma anche –ed è questo che ci stava soprattutto a cuore– per i nessi che li collegano tra di loro e con la pubblicità che li accompagna, la coerenza fra e la collocazione di questi nessi.
te in onda nell’arco della giornata, quasi fungessero da trailer del programma. Alcuni di essi (ancora una volta i Pokémon) nascono addirittura come video game. Di tutto questo gli spettatori bambini di oggi sono più o meno edotti, mentre noi, le ricercatrici adulte di questi cartoni, siamo state spettatrici affatto particolari. Di questi spettacoli attualmente tanto complessi e ricchi di elementi aggiuntivi, quali non solo i cartoni, gli spot, i trailer, i programmi che li comprendono, ma anche gli oggetti che vengono reclamizzati nella pubblicità che li accompagna, eravamo, infatti, quasi del tutto ignare:non abbiamo giocato con video game connessi ai cartoni, non abbiamo letto con assiduità i “manga”, i giornalini relativi a quei cartoni, non giochiamo con altri bambini e ragazzi con i gadget, i pupazzi, le carte, gli album di figurine connessi a certe serie di cartoni. Pertanto, nella lettura che abbiamo fatto del nostro corpus minore ci siamo portate dietro la nostra cultura, il nostro punto di vista orientato anche dai disegni animati che abbiamo visto da bambine e da ragazze e che divergevano per aspetti non irrilevanti da quelli che vedono i bambini e i ragazzi di oggi. Cionostante abbiamo tentato di essere spettatrici spregiudicate, anche se questo ha significato fatica e non sempre siamo sicure di non esser state preda delle nostre abitudini, in un caso di molti, nell’altro di moltissimi anni fa.
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senso filmologico. I criteri (marche10) di differenziazione di una scena sociale dall’altra sono i seguenti:spazio, tempo, dimensione, partecipanti, attività, mise, voce in campo, voce fuori campo. Ogni volta che una di queste “marche” cambia, si passa da una determinata “scena sociale” all’altra. Il computo delle scene sociali in ognuno dei sei cartoni del corpus minore, rapportato con la durata complessiva di ciascuno di essi, può essere espresso come indice di variegatezza e lo si mostra nella Tabella 2. Ma la compattezza di ogni episodio di cartone è anche pregiudicata dal comparire in esso di spot pubblicitari, che risultano assai numerosi e di breve durata, senza un’equivalenza di tempi tra filmato e spot11.Si è notato che in uno stacco pubblicitario (contenuto in Milly il Vampiro) che dura circa 4 minuti sono stati trasmessi ben 12 spot, mentre il cartone che costituisce un’unità nel suo insieme dura –sempre nel corpus minimo– da un massimo di 20 minuti per episodio ad un minimo di 10 minuti, ma in esso variano le “quote di cartone” intervallate dalla pubblicità, il che fraziona ulteriormente il segmento temporale che concerne l’intero episodio. Per esprimere questo rapporto così parcellizzato e irregolare si è costruito un indice di spot, che esprime, per ogni episodio di spettacolo, il rapporto fra il tempo complessivo e il numero di spot. Anche questa è una misura di parcellizzazione e può essere vista come un sintomo di incoerenza. Nella Tabella 2 per ogni cartone del corpus minimo si mettono a confronto l’indice di variegatezza e l’indice di spot. Tabella 2: Indice di variegatezza e indice di spot Cartone
Indice di variegatezza
Milly il Vampiro Slump e Arale Pokémon “Vecchie conoscenze” Pokémon “Il fischietto” Dragon Ball I Cavalieri dello Zodiaco
0.38 0.48 0.55 0.55 0.70 0.78
Indice di spot 0.33 0.35 0.37 0.50 0.44 0.40
Gli spot non solo si affollano in uno stesso spettacolo, ma si alternano rapidamente in esso, fino a raggiungere –nel nostro corpus minimo– un tempo medio di durata di 20”.
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2.1.Tempi e messaggi Una prima serie di osservazioni riguarda la compattezza della dimensione “tempo” del cartone animato e della pubblicità di cui è sede o dalla quale è comunque accompagnato6. Chi assiste a uno di questi spettacoli, definito nel suo insieme di cartone e pubblicità, ma fatto sovente il primo di presentazione (o ouverture o anteprima), talora alla fine da una “morale” o da un riassunto ribadito da una voce fuori campo o da uno dei personaggi, da sigle che avvertono che si entra in un determinato “contenitore” (nel nostro caso bim bum bam, ciao ciao e teen toon town, il quale comprende disegni animati non fruibili solo da un pubblico infantile, ma anche preadolescenziale e adolescenziale), dove lo sfondo, il titolo, la voce fuori campo che annuncia quanto sarà messo in onda evocano l’attenzione dello spettatore, viene colpito da una sperequazione di lunghezza e di ritmo, dall’alternarsi in momenti brevi e frequenti di sottoepisodi significativi. Queste sconnessioni si sono misurate su quello che abbiamo indicato come corpus minimo e sulle cui informazioni si sono fatte quelle elaborazioni quantitative che in questo caso appaiono generalizzabili anche al corpus minore. Per meglio definire la compattezza del cartone in termini di tempo-azione si è messa a punto e applicato sul corpus minimo, il costrutto di scena sociale, assemblando il concetto filmologico di scena che designa l’unità narrativa minima della sceneggiatura, “formata da una o più sequenze che si svolgono nello stesso tempo e nello stesso luogo”7, e quello di ispirazione goffmaniana di “situazione sociale”. Goffman parla di “ambiente spaziale in cui una persona si trova a divenire membro di un raggruppamento che sta avendo o sta per aver corso”; per “raggruppamento” egli intende “qualsiasi insieme di due o più persone in immediata presenza reciproca in un momento dato”8. Per “impegni diretti”, egli intende “casi in cui due o più partecipanti ad una situazione risultano apertamente legati l’un all’altro allo scopo di mantenere un unico punto focale di attenzione…”9. Sulla stessa scena, caratterizzata da certi tempi e da certi luoghi, possono significativamente variare gli impegni diretti e la tipologia di situazione sociale che include i personaggi; lo spettatore di fatto è attento a cogliere questi elementi di novità nel tentare di ricostruire, tutte le volte che vede per la prima volta un cartone, l’intreccio delle vicende che lo caratterizzano. Abbiamo denominato “scena sociale” questa versione in termini goffmaniani della scena in
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Questi primi dati di analisi dichiarano non solo le incoerenze costitutive dell’“unità” cartone e dei suoi spot, ma mostrano anche la situazione paradossale in cui si trova il potenziale piccolo spettatore, che deve assistere a uno spettacolo –il cartone senza finalità pratiche, e che costituisce il macromessaggio destinato a una audience della sua età, messaggio che ha primari intenti di intrattenimento e che si snoda lungo un arco cronologico più disteso–; e quasi nel medesimo lasso di tempo deve prestare attenzione ad un altro spettacolo, quello dello spot, dotato di finalità operative(acquisto diretto o persuasione di esso presso altre persone),e cui è assegnato un tempo assai più ridotto, coesistente immediatamente prima o dopo con altri microspettacoli con funzione analoga –se non concorrenziale– e tempo altrettanto ridotto. Non staremo qui ad analizzare i motivi economici sottostanti questo fenomeno e a ricordare le indicazioni –non si sa quanto disattese– che con tutta probabilità vengono da ricerche su temi pubblicitari: ci poniamo solo l’interrogativo di quale sia l’incidenza sulla mente infantile di un complesso televisivo così organizzato. Non basta: nel complesso del cartone e degli spot che lo accompagnano, sono presenti non solo messaggi da un lato di intrattenimento, dall’altro invitanti all’acquisto, essenzialmente pubblicitari; ma in entrambi i casi, seppure con modalità differentemente espresse, si tratta di comunicazioni anche pedagogico-morali, le quali giocano su probabili meccanismi identificatori. In una parte non irrilevante degli spot infatti, sono espressi messaggi morali, prefigurate attività se non professioni che esercita il mondo dei grandi e che dovrà realizzare il bimbo o la bimba una
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volta diventati adulti: lo strumento del piccolo violinista, il kit del piccolo chirurgo della Fisher Price, i vari giochi meccanici che comportano destrezza, diretti a un pubblico di maschietti, e il gioco con la bambola-bébé per la bimba, sono alcuni casi. Nei cartoni invece, i piccoli “eroi” non sono sempre “bravi bambini”, in linea con le virtù considerate peculiari di un soggetto infantile –paradigma, con cui è desiderabile il piccolo spettatore si identifichi: sono saputi e talora irriverenti –i piccoli Simpson–, non ancora capaci di condotte controfobiche. Arale, che pur va a scuola e quindi è entrata nel “periodo di latenza”, non ha schifo della cacca, e si accompagna ad altri personaggi non indenni da tratti di scatologia, talora crudeli come gli eroi di Dragon Ball e dei Cavalieri dello Zodiaco. Certamente questi coesistono, in altri disegni animati, con bambini buoni, affettuosi, coraggiosi, saggi e onesti (i protagonisti dei Pokémon), che però non compaiono in tutti i cartoni. Ci si trova pertanto in una situazione, anche per questo incongruente, per cui il bimbo che segue questi spettacoli fatti di cartoni e di spot viene esposto più a lungo a messaggi “neutri”, non dotati di carica formativa, se non addirittura contrari alle norme della buona condotta, mentre si confronta per tempi più brevi, ma frequenti, con comunicazioni che hanno una funzione pedagogica, anche se queste comunicazioni non sono né coerenti nella loro successione, né tutte dotate dello stesso compito moralizzatore, né riguardano gli stessi comportamenti della vita intersoggettiva. Tali considerazioni sugli elementi del nostro corpus confermerebbero la lettura che degli spot pubblicitari dove compaiono bambini –ma che non facevano parte necessariamente di programmi destinati a non adulti– ha proposto più di dieci anni fa Marina d’Amato (D’Amato 1993), la quale ipotizza essere i bambini che agiscono nelle réclames –e non quelli dei programmi nel caso della sua indagine non formati solo da cartoni– “la norma”; essi costituirebbero dei “modelli di comportamento e di valori” in una dimensione televisiva quale quella pubblicitaria istituita a “strumento di controllo sociale e agenzia di consenso”(ivi. p. 159). La scarsa rappresentazione della violenza e la prevalente rappresentazione di gioia,
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Di fronte a questa costituzione segmentata del tempo dello spettacolo, se il giovane spettatore è accorto ed esperto, sa che può spegnere o fare dello zapping durante i minuti della pubblicità e, almeno nella sua visione e attenzione, estrapolarla dalla vicenda narrata nel cartone; se è meno esperto, meno veloce, meno interessato, si troverà costretto a variare rapidamente la sua attenzione da un tempo –quello del cartone– che nel nostro corpus minimo può frazionarsi in unità che arrivano ad un minimo di 1 minuto di anteprima fino ai microspettacoli della pubblicità che possono durare in media anche 20” e ai quali si spera egli comunque presti attenzione perché si tratta di richiami pubblicitari di prodotti per lui di grande interesse.
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Non mancano casi in cui in cartoni destinati a non adulti si trovano delle pubblicità rivolte a spettatori “grandi”, non sempre ispirate a buon gusto e in cui sono rintracciabili “comunicazioni” affatto trasgressive rispetto a preoccupazioni di tipo morale e pedagogico. Se si possono trovare gli stessi spot a destinatario pueromorfo negli spettacoli per adulti, nei “grumi” di spot che si incuneano a vari livelli del cartoni, la pubblicità non è esclusivamente destinata a minori –bambini e preadolescenti–. Non mancano infatti spettacoli di spot successivi l’uno all’altro dove il destinatario è solo un adulto, e questo vale soprattutto per i promo di film per “grandi” (Il protagonista, Il Grande Fratello) e di prodotti di bellezza o di abbigliamento (Crema Nivea, rossetti), di spettacoli sportivi e di viaggi (un viaggio in Egitto incuneato in un episodio dei Simpson), dove l’intermediario bambino non è così importante –tanto da non comparire nello spettacolo– come invece nel caso di prodotti alimentari –indus, Mulino Bianco– fruibili a ogni età, ma reclamizzati quasi sempre come cibi particolarmente appetibili dai piccoli. Sotto questo profilo, il frequente carattere ibrido del destinatario –bambino e/o adulto– di non pochi spot, e la conseguente eterogeneità anche sotto questo profilo di questi con i cartoni, rafforza le difficoltà sopra indicate. Ci sarebbe, insomma, una frequente metàbasis eìs àllo ghénos, (o, più esattamente “verso altri generi” al plurale, in quanto la réclame è fatta di eventi spettacolari assai diversi, connessi estrinsecamente tra di loro), anche per quanto riguarda i destinatari: non solo bambini, ma anche bambini e adolescenti, bambini e adulti, e, non ultimi, solo degli adulti. Questa dimensione di scarsa definitezza del potenziale pubblico si complica se pensiamo che gli adulti che compaiono negli spot i quali reclamizzano prodotti per bambino o per bambini e adulti
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insieme sono degli adulti modello: genitori, ma soprattutto possibili eroi, quali il Capitan Findus, i piloti dell’aereo della stessa Findus, i poliziotti che agiscono negli spot della Lego. Tuttavia gli adulti agenti negli intervalli pubblicitari per adulti che fanno parte della pubblicità inserita negli spettacoli per bambini, non costituiscono sempre dei soggetti di identificazione auspicabile per non adulti: qualche volta sono protagonisti di film di cui si presentano alcune scene caratterizzate da violenza; talora pubblicizzano un determinato spettacolo grazie a spot quasi scurrili o reclamizzano prodotti (in quello delle scarpe Reebock appare un personaggio seminudo in una specie di discoteca), oppure sono “agiti” da soggetti bellissimi, ma quasi inattivi se si prescinde da movimenti minimi del corpo (ad es. prodotti di bellezza). Se coniughiamo il tempo breve in cui queste scene vengono presentate con il tempo complessivo e assai spezzettato di questi che si sono chiamati grumi e con la variegatezza di personaggi di possibile identificabilità, ci rendiamo conto di quanto possa “costare” a un giovanissimo spettatore la fruizione di un cartone che –assieme alla pubblicità che ospita– gli è destinato. 2.2. Tante storie La forma narrativa di cartoni e spot è costruita secondo modalità diverse: storie compiute, fatte di luoghi e tempi diversi in cui si muovono i personaggi nei cartoni, vs. scene, sovente uniche, assai più raramente dei microrécit dove i cambiamenti di contesto e di tempi sono assai ridotti, spesso allusi, nel caso degli spot. In ogni caso lo spot –o meglio l’insieme di spot– può variare in modo rilevante: interrompe la tensione del fruitore del cartone, distoglie la sua attenzione dallo spettacolo che dà il titolo e che con tutta probabilità è stato lui stesso a scegliere, e questo tanto più in quanto si tratta di continui passaggi –andate e ritorni– da una forma testuale a una diversa: più succinta, forse condensata, con personaggi, contesti, ritmi sui generi,; quella dello spot rispetto a quella del cartone. In questi transiti da una forma testuale all’altra, è probabile che l’atteggiamento di chi guarda con interesse il video sia costretto a modificarsi. È in questa modificazione che si colloca forse una quota non indifferente della forza del messaggio pubblicitario: in uno spazio di recezione dove viene interrotta un’aspettativa, la si sospende –con quali costi psichici è tutto da vedere– e la si sostituisce con una
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ludicità, affettività verso coetanei, adulti, animali, giocattoli renderebbero lo spot luogo elettivo di comportamenti infantili socialmente apprezzati e paradigmatici. Ci sembra di poter concordare con questa distinzione che, nel caso del nostro corpus, avrebbe un’ulteriore conferma e contrario, data dalle caratteristiche di comportamento sovente irregolari secondo l’etica ascritta alla condizione infantile, tratti che sono propri del mondo del disegno animato per i bambini.
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comunicazione che va accolta e assimilata in modo molto più rapido, in forme rappresentative assai più realistiche, con modalità di aggancio attentivo diverso –la musica, la voce fuori campo (quasi affatto assente nei cartoni, frequentissima negli spot), le figure degli attori che animano la scena, i quali negli spot sono perlopiù dei personaggi reali, bambini e/o adulti, in contesti altrettanto reali–. Lo spettatore –diamo per assunto che questi non fugga dal video– è costretto a una serie di shifts percettivi e di comprensione e questo certo non è privo di conseguenze non solo e non tanto per quanto riguarda la coerenza nel seguire, comprendere, gustare, trarre vantaggio dai due tipi di spettacoli, quanto anche relativamente al costruirsi della sua enciclopedia di sapere e all’evoluzione della sua mente e, non ultimo, anche per quanto riguarda i processi identificatori con personaggi verosimili o immaginari.
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2.3. Fenomenologie d’ infanzia Diversamente che non negli spot –più vicini alla realtà quotidiana–, nei cartoni i personaggi infantili (che sono la maggioranza12) hanno una scarsa identità di genere; dall’abbigliamento, dalla voce, dai ruoli che ai non adulti dei due sessi competono non è sempre facile evincere se si tratta di maschietti oppure di bambine. E questo non solo e non tanto per l’origine perlopiù giapponese di tali spettacoli e la necessità, in questi casi di esportazione verso plurimi mercati assai diversi da quello originario, di trovare delle modalità di rappre-
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L’eterogeneità narratologica dello spettacolo –che è innegabilmente una storia– rispetto allo spot che è costituito da uno o più eventi in cui raramente si narrano delle vicende dotate di significato unitario, dei plot connessi in modo estrinseco, ha anche altri aspetti: nel disegno animato la vicenda comporta quasi sempre una dialettica tra soggetti definiti psicologicamente in senso oppositivo: buoni e cattivi, astuti e inintelligenti, generosi e distruttivi, obbedienti e trasgressivi, il che non accade negli spot, dove il paesaggio umano è psicologicamente assai più monotono, e ospita bambini felici, lieti di seguire ritmi e indicazioni degli adulti, mai in situazioni conflittuali. Storie a fine più o meno lieto –sovente triste– nei cartoni si oppongono quindi a raccontini con esito felice, dove la vicenda non va mai a finir male, anche se talora non manca la suspense (si pensi alle storielline di Findus).
sentazione che siano fruibili anche a non adulti di culture assai differenti: Arale è certo una bambina, ma si veste in modo fuori da ogni moda, e per un bambino europeo potrebbe anche apparire come un maschietto, di cui ha la vivacità e la natura turbolenta. Ancora, nell’episodio dei Gundam Wing dal titolo “La distruzione del Gundam”, la giovane principessina –che poi è la stessa Relena la quale compare in altri episodi abbigliata da ragazzina– è vestita da ufficiale del settecento, con calzoni, e solo la voce, il nome con cui viene appellata, gli eventi del racconto, ci dicono che si tratta di una femmina. C’è. forse a spiegazione di questo tratto assai diffuso, il fatto che essi devono venir visti da un pubblico sessualmente misto, oltre che eterogeneo per età, cui vanno presentati dei personaggi non troppo individuati. Il messaggio pubblicitario si rivolge invece a un pubblico più mirato, che ha la funzione di persuadere a degli acquisti –o che a sua volta deve persuadere altri a fare degli acquisti– e quindi i suoi personaggi sono chiaramente maschi o femmine o anche insieme, ma distinguibili in modo inequivocabile. Negli spot, sia in quelli specificamente destinati a maschi sia in quelli che si rivolgono a delle bambine, il target è chiaramente individuato, vuoi per quanto riguarda il prodotto, vuoi per quello che attiene ai personaggi –maschi appunto oppure femmine– che lo dovranno usare e cui vengono mostrate le caratteristiche; per maschi pupazzi, piccoli mostri, giocattoli meccanici (i prodotti della Lego e di Fisher Price sono quelli presentati più frequentemente); per le femmine bambole, e corredi di bambole,(fra le quali primeggiano Barbie e Ciccio Bello), e capi di abbigliamento (com’è il caso delle scarpe e della gonna Lelli Kelly). Ci sarebbe infine una specie di traduzione, da parte dello spot, della natura di alcuni personaggi del cartone, dotati di scarsa o nulla
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La scarsa identità dei personaggi dei cartoni riguarda anche la loro età: a differenza dei protagonisti non adulti degli spot, che se anche non si vedono “diventare grandi”, appartengono pur sempre chiaramente a una fascia evolutiva ben definita, non solo dal loro aspetto fisico, ma anche dal contesto in cui si muovono, dagli oggetti che maneggiano, dal loro abbigliamento, nei cartoni le alterazioni di crescita o non ci sono o sono poco marcate. Non basta: in alcuni cartoni, che come i Pokémon e i Simpson, vengono trasmessi per anni, i personaggi non crescono, non diventano più grandi, rappresentano dei tipi fuori dal tempo13, senza età, con una serie di caratteristiche che sono infantili (ingenuità, poco controllo, voglia di giocare), intrecciate a delle caratteristiche peculiari di un’età adulta; dell’anziano essi infatti hanno la saggezza, l’accortezza, l’astuzia, l’energia. Il caso più significativo a nostro parere è quello dei bambini Simpson, dall’aspetto e dalle inclinazioni puerili, ma assai più assennati, capaci di comprendere le situazioni e di prevedere quello che potrà accadere,rispetto a quanto non siano i loro ben più ingenui genitori. Nei 18 cartoni del corpus minore non ci sono figure di bambini che facciano comprendere che essi sono esistiti nel tempo, tranne Relena in Gundam Wing, orfana di padre, che piange anche la perdita di un celebre e nobile nonno, e il caso dell’eroe di quella specie di romanzo di formazione che è Dragon Ball, la quale racconta la vicenda evolutiva del giovane eroe e lo rappresenta in età diverse non sempre distinguibili. Non è privo di senso che di alcuni di questi protagonisti dall’aspetto, dalla voce e dall’indole infantile, si dice che hanno avuto una nascita artificiale: Arale e il “Fratellone” dalle alucce di putto che l’accompagna sono “prodotti” dal Dottor Slump, e lo stesso eroe, Goku in Dragon Ball fa parte di una schiera di piccoli “costrui-
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ti“ in modo innaturale che i Sayan hanno mandato sulla Terra per salvare la loro stirpe. Sempre relativamente all’età va notata un’altra incongruenza: da un lato c’è una spinta a rimanere non adulti di alcuni dei personaggi dei cartoni, mentre negli spot c’è una spinta adultizzante: da un lato un mondo di Peter Pan, di pueri senes per i quali non sembrano esserci possibilità di diventare grandi, dall’altro bambini che imitano comportamenti dei “grandi”, bimbette che coccolano pupe, con una voce fuori campo oppure la propria che le incita a fare la mamma, maschietti che fanno gli esploratori, altre bimbette che si truccano con dei fard prodotti apposta per loro. L’insieme di tali incongruenze per uno spettatore che cresce –il quale si trova confrontato con personaggi iperattivi e autonomi ma immobili nel tempo da un lato, con suoi coetanei, specie nel caso delle bambine, per i quali sembra esserci un’urgenza a diventar grandi, dall’altro– appare non certo irrilevante e ancora una volta chiama in causa processi di introiezione e di identificazione, oltre che la tolleranza –ma quale soglia ha in questi molteplici casi?– nei confronti di queste molteplici dissonanze. E ancora, e in linea con queste identità “deboli”: i personaggi dei cartoni sono esseri fittizi, sagomati e fatti agire secondo la cultura del disegno animato che non è ripreso dalla vita reale, mentre quelli che compaiono negli spot sono esseri umani o oggetti ludici animati, i quali ultimi sono sempre riconoscibili nella loro natura di giocattoli. Non di rado si tratta di figure rappresentative del mondo dei cartoni (un esempio sono i Cavalieri dello Zodiaco presentati nello spot di Giochi Preziosi), corredate però da segni di realtà, in quanto maneggiabili da mani bambine, e che costituiscono la réclame dello spettacolo. In questi casi il non adulto umano destinatario dello spettacolo entra nella pubblicità rappresentata sul video e mostra che i personaggi dei cartoni, specie quelli più inverosimili, possono diventare personaggi della sua quotidianità, non sono così lontani dal suo mondo come, da spettatore dei disegni animati, egli poteva immaginare. Tali spot, dove il piccolo spettatore è in fabula, convogliano in modo particolarmente forte messaggi di attrazione della merce che reclamizzano e nello stesso tempo consentono di attribuire –è una nostra ipotesi– un coefficiente di realtà alle figure dei disegni animati, rappresentate come figurine e pupazzi.
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identità di genere, in figure che appartengono alla cultura infantile sessualmente segnata; pensiamo a quelle pubblicità che anticipano –o anche seguono– a distanza di giorni, un cartone di cui sottolineano alcuni aspetti, che vengono “restituiti” sotto forma di pupazzi, figurine, accompagnati dalla colonna sonora del cartone e da una voce fuori campo. In questo caso i bambini che maneggiano i pupazzi teratologici sono sempre dei maschietti, a dirci che quanto il cartone prospetta senza una precisa identità di genere, nella realtà commercialmente segnata del prodotto, un genere ce l’hanno.
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Accanto ai setting istituzionali, anche paesaggi naturali. Cominciamo dai cartoni. Qui il bambino, la bambina e il preadolescente si muovono in ambienti che consentono una libertà rilevante all’iniziativa e all’azione: in paesaggi extraterrestri come quelli di Gundam, di Dragon Ball, dei marziani, e/o inesplorati (quale quelli dei Pokémon), dove sono possibili eventi eccezionali, magici e miracolosi. In tali contesti essi si spostano con notevole autonomia non solo nel percorso –quanto impiegano per attraversare a piedi, o su strane astronavi, delle incommensurabili distanze?– ma anche nel
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movimento: corrono, saltano, volano, viaggiando senza mappe in ecologie misteriose, talora brulle, talora arcadiche, con un vistoso gusto dell’esplorazione che al bambino degli spot, molto più verosimile, non viene concesso di realizzare se non quando fantastica maneggiando robot o animali antidiluviani (si pensi allo spot di Squaloparco o quando viaggia per Findus, protetto da benevoli adulti o nel segno di Lego; ma sovente è una voce fuori campo che lo incita a lavorar di fantasia). C’è solo un filmato che appare nella pubblicità per l’infanzia ed è il trailer del film tratto dal Libro della Giungla di Kipling –il quale non è presentato sotto forma di cartone– dove un Mowgly ancora bambino si aggira senza remore, felice nella natura, sgombro da vincoli di obbedienza verso gli adulti. L’esplorazione di ambienti affatto nuovi avviene non di rado grazie a strumenti di panottismo che anche i personaggi bambini sono in grado di usare: figure infantili di non pochi disegni animati (in Mostruosi marziani e in Gundam Wing) siedono a lungo davanti a dei miracolosi schermi televisivi o a computer, o sono collocati su mostruose astronavi da cui possono scorgere ogni più remoto spazio di tutti i mondi. Nei disegni animati prevalgono paesaggi extraurbani, ma non mancano quelli di città avveniristiche (ne La storia di Relena, l’azione si muove in parte in una città extraterrestre, in Dragon Ball si vede la futuristica città dei Sayan) o di centri più piccoli e verosimili (come la cittadina dove avviene l’episodio dei Simpson e il contesto microurbano in cui si muove Arale). La città non è sempre un ambiente benevolo per i bambini: poliziotti non amanti dei piccoli la percorrono –si vedano gli episodi del Dottor Slump e di Arale, nei quali un contesto urbano contiene la scuola che la bimba frequenta, un pub, la stessa casa del dottor Slump e nei quali una terribile poliziotta mantiene un ordine strenuo, vincolante grandi e piccoli–. Ci sono anche delle città
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L’ universo dei cartoni è lontano dal nostro mondo, fatto di istituzioni e affetti codificati. Gli aspetti che riteniamo più significativi sono quelli della famiglia, della casa e della scuola. La famiglia se compare nei disegni animati americani e europei –il caso più eclatante è quello dei Simpson– è realtà assai sporadica nei cartoni di origine giapponese, dove i piccoli personaggi si muovono in un mondo privo di legami domestici:Arale è costruita artificialmente dal dottor Slump come il puttino alato che lei chiama “Fratellone”; i ragazzini che agiscono con i Pokémon non sembrano avere, almeno negli episodi che si sono visti, né mamma né babbo; e Relena dell’episodio di Gundam Wing. “La storia di Relena” è, al tempo del video, una figlia adottiva che vede morire il padre da lei teneramente amato. In alcuni casi ci sono dei personaggi vicari dei genitori: la baby sitter mummia ha accanto a sé molto di rado una mamma tutto sommato fuggevole. Al contrario, le pubblicità dove ci sono dei bambini, rappresentano singolarmente mamme e babbi, si svolgono di frequente in contesti domestici, dove la famiglia è rappresentata in quadretti conviviali (si pensi ai prodotti Findus e alle scene con bambole bébé); molti spot sono localizzati in stanze con arredi comuni quasi fossero reclamizzati anche questi, specie se i protagonisti non sono giovanissimi e hanno degli spazi tutti per loro. La scuola è istituzione comunque rara in questo mondo del loisir infantile: tranne Arale, i personaggi dei nostri cartoni non conoscono luoghi deputati all’istruzione, hanno una Bildung individualizzata fatta da maestri eccezionali (si pensi al maestro di Goku in Dragon Ball), ma anche negli spot non si vedono scene di scuola; aule, lavagne, maestri, libri e quaderni non compaiono a disturbare la felice libertà del bambino che guarda la TV nelle sue ore libere, ignaro di essere comunque esposto a insegnamenti complessi e difficili.
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In questa ecologia dell’irreale, nei personaggi bambini –ma alcuni di loro non sono forse dei pueri senes, senza età, talora con l’accortezza, l’indulgenza, la tenerezza di un “grande”?– fantasia e pensiero governato dal principio di realtà si ibridano, a rendere forse più stimolante la fruizione, più affascinanti i processi identificatori da parte degli spettatori non adulti; certamente assai diversi che non negli spot, dove questo uscire dalla quotidianità è sì rap-
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presentato, ma come situazione provvisoria, che la voce fuori campo accentua nel suo carattere momentaneo, ma di fatto non è realizzabile, come dice l’evidente carattere fittizio di queste scene di fiction, la rapida presenza di pupazzi, figurine, scenari artificiali, e dove, comunque, ciò che conta è il prodotto reclamizzato e la possibilità di procurarselo nell’effettivo quotidiano. Da un lato quindi, nei cartoni, la fantasia sembra poter farsi visibile, abolendo almeno parzialmente i vincoli del nostro mondo e trasportando il bambino in un universo fondato su parametri simili a quelli del mondo onirico, dove dominano il tutto e subito. Dall’altro –negli spot– le contingenze del mondo reale, presenti con la loro forza, anche se esaltate per i loro aspetti gratificanti, motivano al possesso e all’uso di oggetti, a loro volta –lo si è detto– capaci di quando in quando, specie se si tratta di trailer dei cartoni, di trasportare nel regno dell’immaginario e nella dimensione del sogno. La dicotomia –che si presenta in scatti assai rapidi quando dal disegno animato si passa agli spot pubblicitari e sovente anche all’interno dei loro “grumi”– è quindi anche tra libertà quasi illimitata, che sfocia in una pratica fantasmatica nei cartoni, e libertà contenuta negli spot. Tale libertà contenuta è rilevabile sia considerando l’ambiente fatto di personaggi grandi e piccoli, della nostra quotidianità, sia tenendo presenti le azioni dei personaggi infantili, le quali, dato che devono pubblicizzare dei prodotti da procurarsi e da consumarsi nella vita reale, anche se nel perimetro del gioco, non possono descrivere delle azioni impossibili. Non basta: il fare dei bambini degli spot è rigidamente legato agli oggetti pubblicizzati: panettoncini, merendine, surgelati invitano a mangiare, pupazzi a manipolare, attrezzi Fisher Price o Giochi Preziosi in miniatura allettano a fare le attività che lo specifico tipo di arredo richiede e consente. Talora è l’allestimento dell’ambiente che concede alcuni gradi di libertà –le piramidi di cartapesta dell’antico Egitto, l’otto volante con i mostri–; ma ben presto si vede che ci si trova in paesaggi fittizi e che il gioco è di corta durata, e con esso il comportamento che il bambino può agire. Va tuttavia ribadito che quasi sempre c’è una voce fuori campo che dice che cosa fare o esalta il carattere divertente del prodotto nell’uso che il bambino attore ne fa, o anche fa vedere e insegna e sorveglia. Nessuno spot mostra condotte per così dire trasgressive, dove il bambino defunzionalizza
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più poetiche, o meglio, dei gruppi di case in un paesaggio da Tullio Pericoli (il mondo in miniatura rappresentato nell’episodio La storia dei Sayan in Dragon Ball),delle metropoli messe in vista in tempi assai veloci, dove abitano alieni (Mostruosi marziani). Nello sfondo dell’episodio Guida pericolosa dei Pokémon, che per buona parte si svolge al di fuori di contesti abitati, in paesaggi naturali accattivanti, ma anche ostili e inverosimili, c’è una città, e anche qui un personaggio in divisa –forse un’ennesima poliziotta– racconta e ammonisce. Nei cartoni non si rappresentano quindi leggende metropolitane, ma perlopiù favole arcadiche, che si svolgono in una natura o di per sé idilliaca o comunque domabile (forse per dare una maggiore accentuazione alla dilatazione dell’ambiente), condizione e emblema delle possibilità di azione dei personaggi, nella quale anche i cataclismi più terribili vengono superati. Non basta: il mondo dei cartoni si allarga nel tempo e nello spazio, oltrepassa i confini della Terra: Gundam Robot, dove esistono colonie nell’universo extra terrestre, il pianeta dei Sayan in Dragon Ball, il mondo altro da cui vengono e a cui tornano gli alieni di Mostruosi marziani sono macrocontesti fuori dai nostri parametri cronologici usuali, che i personaggi trascendono tornando a un passato ideale (si pensi a Gundam Wing) o vivendo in un presente senza data rispetto a coordinate temporali, o agendo in un futuro remotissimo, in altre possibilità di esistenza e di loro ecologie, dove la natura si intreccia con l’opera di uomini iperintelligenti, che la domano, la controllano, la vedono in ogni suo angolo e in ogni suo istante. Questa libertà e soprattutto i luoghi dove questa è possibile confermano l’idea di Marina d’Amato secondo la quale il mondo della TV per bambini sarebbe quello dell’eccezionalità, mentre il quotidiano sarebbe rappresentato nella pubblicità (D’Amato, 1993, pp.147 sgg.): a maggior ragione nell’universo dei cartoni –che non sono ripresi dalla vita reale– tale eccezionalità è esasperata.
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Un’acculturazione in linea con i parametri di un determinato mondo –il nostro, di oggi– legato soprattutto a modelli educativi dove il giocattolo ha parte rilevante e costituisce un analogo degli oggetti che il bambino –ma soprattutto la bambina– nel loro futuro dovranno usare, corre come robusto connettivo lungo buona parte degli spot, dove sovente –personaggio, voce fuori campo– ci sono degli adulti a tutelare il bambino, a dire che persona grande egli dovrà diventare, come sarà abilitato a far parte di questo universo il quale ha dei ruoli fissi che egli dovrà assumere. Mamme, papà, poliziotti, tecnici governano tale pedagogia, nella rappresentazione di una società tutelante, non dura con il bambino, apparentemente felice, della quale sono sottolineati i luoghi deputati della vita infantile, che sono anche gli spazi degli affetti: la casa, il giardino, l’avventura a lieto fine. Non basta: ancora nel caso delle bambine, la bambola nella sua variegata fenomenologia diventa un personaggio adulto: è Barbie che ha una casa, dei vestiti, una macchina, diventa star di un film, ha un partner. Accanto a Barbie, innumerevoli altre pupe, pueromorfe e adultomorfe in una, le quali hanno lunghi capelli colorabili e acconciabili, un corredo di luccicanti vestitini, che le piccole mani delle bimbe maneggiano a mostrare quali e quante possibilità di azione ha il giocattolo. Forse qui ci troviamo di fronte a una dimensione fantasmatica che può apparire simile a quella dei cartoni; tuttavia negli spot il bambino non appare libero, si muove in spazi ridotti e secondo regole del verosimile, e soprattutto trova davanti a sé degli scopi da realizzare –a breve o a lunga scadenza– di cui è informato: farà un certo gioco, mangerà, diven-
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terà una buona mamma. Uno scostamento, questo, rilevante rispetto al non adulto che agisce nei cartoni, la cui vita non si snoda in un tempo della crescita e dello sviluppo, ma solo nel tempo dell’azione; il futuro dei bambini della pubblicità, detto a parole, indicato in alcune azioni, non si dà per i non adulti dei cartoni, nemmeno in quella specie di romanzo di educazione che è Dragon Ball, per il quale nell’episodio La storia dei Sayan si racconta a grandi linee la vicenda di vita dell’apprendista Goku, ma nel racconto di una crescita avvenuta, non di un futuro. Libertà di azione a tasso elevato nei disegni animati; maggiori vincoli, quindi, nel ben più verosimile universo degli spot. E questo in passaggi da un “genere” all’altro, rapidi e privi di mediazioni. Si pone quindi ancora una volta la questione di quanto difficili possano essere queste mosse per i processi attentivi, di comprensione, e non ultimi, di identificazione dello spettatore –e tanto più quanto questi è giovane–. E non ultimo: vien fatto anche di osservare che i personaggi dei cartoni seguono delle etiche tra di loro diverse, ma soprattutto eterogenee rispetto a quella tutto sommato più univoca dei personaggi degli spot. Nel primo caso la libertà di spazio e tempo, la scarsa presenza di istituzioni –che sovente sono anche ridicolizzate, come nel caso della famiglia dei Simpson e del Dottor Slump, il padre creatore di Arale, nei cui cartoni viene anche presa in giro la scuola e in fondo tutta la società che si mostra nelle sue ingenuità14, nella rappresentazione della famiglia buona, che è quella tenerissima e intelligente dell’animale Marsupilami–, e la grossa iniziativa riconosciuta ai bambini, fanno vedere quali sentimenti regolano la loro morale semplice se non elementare: amicizia vs ostilità, affetto che non va tradito e che dura per tutto lo sviluppo; collaborazione (come nel caso degli episodi dei Pokémon dove i bambini si sostengono e incoraggiano in tutti i frangenti); coraggio –i personaggi non adulti affronta-
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oggetti e “lavora di fantasia”: semmai ci sono ritorni alla realtà, incuneamenti di rapide scene di vita effettiva a mostrare che –specie per le bambine– l’attività ludica è anche funzionale a delle condotte peculiari, socialmente apprezzate che la società attende da loro via via che crescono. A questo proposito è emblematico lo spot già brevemente ricordato, dedicato alla bambola Ciccio Bello, dove si vedono delle situazioni parallele; da un lato una bimba che gioca con il bambolotto, fac simile di un bambino vero, che in rapide “sottoscene” si vede prima e dopo il bambolotto reclamizzato. Nello spot la bambina si intrattiene maternamente con il bébé-pupo e una voce fuori campo dice che questo è un bambino quale ogni mamma sogna.
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Gli interrogativi principali dell’indagine, di natura sia politica che scientifica, ricevono il primo una desolante risposta negativa: la presenza –vistosa anche nelle sue dissonanze– degli spot nei cartoni,
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presenza proibita dalla citata delibera 538/01/CSP. Relativamente al secondo insieme di questioni –di natura più specificamente scientifica– si è avviato un processo di impostazione prima che di risposta, nella provata convinzione che occorre impegnarsi in ulteriori ricerche, per cui si evidenziano già fin d’ ora delle priorità, fra le quali quella di ricognizioni osservative, dove si faccia entrare nella fabula il lector non adulto per cui la fabula –o meglio, le plurime fabulae– è stata costruita. Tale serie di operazioni ci consentirebbe di interpretare in modo forse meno conformistico l’affermazione, riportata in esergo, della mamma dei gemelli. Le sue parole si allineano alla communis opinio per cui la TV –e in questo caso soprattutto la pubblicità– è generatrice di paure e di condotte regressive nei bambini. Ma non si potrebbe forse pensare che dietro a questo tornar più piccoli ci sia anche la fatica di reggere a tutte le incongruenze che le serie di spettacoli che la TV propone –abbiamo considerato un caso non rappresentativo e una ricerca più dilatata dovrebbe verificare quanto e per quali aspetti queste nostre prime ipotesi reggono–, con una spesa di risorse anche intellettuali e non solo emotive cui andrebbe fatta più attenzione da parte di chi produce spot e da chi organizza programmi?
Note Il saggio riassume due articoli, di cui uno (Becchi, Nigito. Sartorio, 2002) è già stato edito; il secondo (Becchi,Ferrari 2004) è in via di stampa sempre su Ikon. 2 Questo e altri documenti di legge, nazionali e/o della CEE sono stati desunti dal volume di Salvi, 2001, passim. 3 Il corpus minimo è così costituito: a) Milly il Vampiro b) I Cavalieri dello Zodiaco c) What a Mess. Slump e Arale d) Always Pokémon. The Johto Journeys (2 episodi) e) What’s My Destiny. Dragon Ball 4 Da intendersi secondo la definizione volutamente generica che ne viene data da Grasso, 2002, p. 28 come tipo di spettacolo di animazione in cui non vi sono riprese dalla vita reale a 24 fotogrammi al secondo. 5 Ivi, p. 29 6 Gli spot, pur sempre ospitati dai cartoni, non sono sempre collocati nello stesso punto: possono trovarsi all’interno del disegno animato, che in qualche modo “spezzano”, oppure dopo il titolo o ancora successivamente all’ouverture 7 Ivi, p.650 1
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no eventi difficili, nemici, ostacoli, come d’altro canto si accompagnano con piena confidenza a personaggi non umani, a robot, animali–. Accanto a questi affetti di metastorico tenore morale, una serie di piccole passioni: gioia nel giocare, nel muoversi nel mondo, nel combattere, nel mangiare, nel lottare fisicamente. Nei tempi rapidi delle vicende, questa etica elementare e chiara diventa un possibile paradigma per giovani spettatori per i quali forse le istituzioni del sociale cominciano a essere in crisi: la scuola, la famiglia che si avvia talora a essere fantasmaticamente sostituita nel “romanzo“ psicoanalitico di rifiuto dei genitori reali che sarebbe normale nel periodo della preadolescenza. Qui, probabilmente, in tale quete della libertà del pubblico infantile e preadolescenziale e nella descrizione di mondi dove tale libertà è possibile, si annida anche una dimensione di fascino di questi spettacoli, che con tutta probabilità li rende più attraenti che non le compresse azioni degli spot, nelle quali comunque vige un’etica più coerente, ma altra: c’è una presenza dell’adulto, che non solo compare come genitore benevolo e nutriente, ma anche come guardiano dell’ordine, come voce che invita a bene guardare per bene fruire i vantaggi di un determinato prodotto, come incitamento performativo a usare gli oggetti nella loro funzionalità reale. E ci sono dei bambini che maneggiano i prodotti –bambole, robot, mostri in miniatura, arredi per la casa e per il gioco altrettanto ridotti–, costituendo così dei modelli di corretto utilizzo di tali oggetti. Un mondo di istruzioni per l’uso, dove il piccolo spettatore che viene invitato a entrarvi, si trova irretito e forse poco invogliato a scoprirlo. E se nei cartoni il gusto per il costruire, l’escogitazione di qualche cosa di nuovo, la realizzazione del penchant per il realizzare oggetti e cose appare pienamente riconosciuta e soddisfatta, nel caso degli spot l’universo troppo verosimile –quando i bambini veri sono travestiti da esploratori, nella pubblicità di Fisher Price la finzione è immediatamente riconoscibile– probabilmente limita se non frena tale inclinazione. Si tratta di supposizioni che andrebbero tutte verificate empiricamente, ma che comunque vanno espresse, non solo e non tanto per sdemonizzare i cartoni, quanto per riportare l’attenzione a contesti più molari, quali l’insieme di disegno animato e spot, dove incoerenza e divergenza sono vistose.
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Goffman,1971, p.19 Ivi, p.91 10 Per l’uso non sociologico di questi concetti si veda Bondioli (2000,2002), Ferrari (2003). 11 Il computo dei tempi è stato fatto in termini di minuti, e solo in casi eccezionali in loro frazioni espresse in secondi. 12 Nel corpus minimo la figura del non adulto, da sola o accompagnata da altri non adulti, da adulti o da esseri non umani domina (è presente nell’82% delle scene sociali). L’ adulto si vede per il 52,6% delle scene sociali.Non basta:il mondo dei cartoni appare per il 66,3% affollato da figure non antropiche, che non compaiono mai da sole, ma sempre con dei partner umani 13 Nell’agosto del 2003 negli episodi dei Pokémon che sono andati in onda su Italia 1, i piccoli attori avevano la medesima età di due anni prima, quando si sono costruiti i vari corpus. 14 Si pensi ai poliziotti che perlustrano le strade dove passa Arale e che danno multe e infliggono punizioni a tutto spiano, come nel caso dell’episodio Oggetti smarriti, nel filmato Il sindaco della serie dei Simpson, in cui vigono le contraddittorie regole di Springfield, la città spartita in due. 8 9
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Se l’uso del telefonino cellulare è diffuso in eguale misura nelle città di differente ampiezza di popolazione, è interessante rilevare come l’indice di utilizzazione dell’internet, della lettura dei libri e quotidiani sia maggiore man mano che cresce l’ampiezza delle città. Si ha l’idea, secondo il Censis che nelle grandi città si stia verificando una sorta di rivoluzione copernicana verso la globalizzazione delle relazioni e dell’uso delle tecnologie, mentre chi vive in realtà più periferiche o di dimensioni ridotte, ponga maggiore attenzione
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carlo gelosi globali o locali?
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Becchi, E., Ferrari, M., “Bambini spettatori di bambini: dissonanze tra cartoni e spot”, in corso di stampa su Ikon, Becchi E., Nigito G., Sartorio S., 2002, “Bambini spettatori di bambini : incongruenze testuali nella televisione per non adulti”, Ikon, 44-45, pp.63-89. Bondioli A. 2000, “Riflettere sulla giornata scolastica” in Bondioli A., Ferrari M., a cura di, Manuale di valutazione del contesto educativo, Milano, Angeli, pp.345-369. Bondioli A. 2002, a cura di, Il tempo nella quotidianità infantile, Azzano S. Paolo, Bergamo, Junior. D’ Amato,M.,1993, Infanzia e pregiudizio, I bambini come li vediamo, Roma, RAI -Nuova ERI. Ferrari M., 2003, (a cura di), Insegnare riflettendo, Milano, Angeli. Goffman E., 1963, Il comportamento in pubblico, trad. it. Torino, Einaudi, 1971. Grasso A., 2002, (a cura di), Enciclopedia della televisione, Milano, Garzanti. Salvi, R., 2001, Se non la smetti, ti spengo… Bambini,comunicazione televisiva, società, Assisi, Cittadella.
l’uso dei media dei giovani italiani
riferimenti bibliografici
Nell’ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese, presentato lo scorso dicembre a Roma, il Censis tratta un tema che ritengo utile riprendere –seppur a distanza di alcuni mesi– in un contesto universitario ed in particolare nell’ambito degli studi delle scienze della comunicazione: l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione da parte dei giovani. Tema molto dibattuto e approfondito in varie sedi, non solo accademiche ovviamente, ma che racchiude in sé una problematica molto delicata, ovvero se e quanto uso fanno i giovani degli strumenti che hanno a disposizione e soprattutto a quali fini. Ci dice il Censis che uno dei luoghi comuni più diffusi è che i giovani sarebbero i primi ad approfittare delle nuove tecnologie della comunicazione, grazie alle quali tutti credono di poter abbattere gli spazi e cancellare le distanze. Il concetto di globalizzazione del mondo dell’informazione pare basarsi proprio sull’uso, cosiddetto intelligente, delle tecnologie (ICT); dal villaggio globale scaturirebbe la società globale che determina un nuovo stile di vita metropolitano diffuso nel mondo dei giovani. La tabella 1, illustra i dati di una recente indagine sui “giovani e i media”compiuta dallo stesso Censis. Da essa appare evidente che il consumo dei media presenta delle differenziazioni tra aree più o meno abitate.
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ai media che lo raccordino più fortemente con la realtà territoriale o che lo aiutino a sentirsi virtualmente al centro e non in periferia. Tab.1 I giovani utenti abituali di media, per ampiezza delle città di residenza (val. %) Media
Fino a 100mila abitanti
Oltre 100mila abitanti
Televisione
92,0
89,0
Cellulare
90,4
90,3
Radio
73,5
63,4
Libri
47,7
50,5
Quotidiani
42,3
50,2
Internet
36,5
45,9
Periodici
15,0
15,8
TvSatellitare
14,5
12,9
Fonte: indagine Censis, 2003
Un elemento successivo di analisi parte dall’osservazione dei dati (riportati nella tabella 2) che concernono la lettura dei quotidiani e più specificamente i temi che raccolgono maggiore interesse da parte dei giovani, sempre nelle due realtà considerate, le città di media e piccola dimensione e quelle definite “grandi”. Tab. 2 I temi che i giovani preferiscono leggere nei quotidiani, per ampiezza della città di residenza (val. %)
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Fino a 100mila abitanti
Oltre 100mila abitanti
Cronaca nazionale
50,3
47,7
Cronaca locale
36,1
27,9
Sport
31,5
36,0
Politica
22,1
28,4
Economia/Lavoro
10,3
13,2
Fonte: indagine Censis, 2003
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Temi
Sono i temi connessi alla cronaca nazionale e locale che riscuotono maggiore attenzione a livello locale, mentre la politica e l’economia sono quelli, in termini di comunicazione “più gettonati”. Anche qui l’aderenza al tessuto connettivo del territorio, seppure con tutti i suoi limiti, così come con tutte le sue opportunità portano ad interessarsi di ciò che più da vicino sembra coinvolgere e riguardare i giovani delle città di minori dimensioni. Dall’altro lato i residenti in città più grandi sembrano curarsi più del contesto nazionale o internazionale molto meno di quello territoriale. Chi voglia pensare che questa differenza di destinazione d’uso dei media non ricopra una certa importanza probabilmente tende a sottovalutare un elemento di forte significato. Maggiore è la dimensione territoriale dove si risiede, minore appare, l’attenzione verso l’identità di appartenenza, verso le radici, economiche, sociali e culturali. Questo può portare non al superamento delle barriere delle distanze, tra centro e periferia, ma ad un acuirsi delle differenze. Stiamo vivendo una fase storica di grande importanza, dove i confini della vecchia Europa vanno ridefinendosi, proprio in queste settimane che ci separano dalle elezioni per il nuovo Parlamento Europeo, con un allargamento a nuove realtà di popoli e organizzazioni culturali, sociali ed economiche e, allo stesso tempo, all’interno della nostra realtà nazionale, attraverso un processo di decentramento avviato già da alcuni anni e rivisitato dall’attuale Governo e attualmente al vaglio del Parlamento nazionale attraverso il doppio voto in ciascuna Camera, si vanno a potenziare e mettere in risalto le dimensioni territoriali locali. Osservare un fenomeno così particolare che coinvolge le giovani generazioni che dovranno poi saper gestire i cambiamenti in atto, pone degli interrogativi riguardo la loro capacità di essere attenti a ciò che li circonda (alla loro specifica realtà) e nel contempo di avere gli strumenti per vivere questa nuova dimensione. Proprio prendendo spunto dalle due direzioni parallele cui si sta movendo l’Europa e l’Italia in particolare, diviene importante evitare che si evidenzino due tipologie di giovani, l’una esclusivamente rivolta alla globalizzazione delle esperienze e un’altra radicata fortemente nel localismo. Non si tratta di certo di indurre i giovani verso una dimensione virtuale di localismo, che pare tanto piaccia ai media
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nelle condizioni di comunicare, di condividere, di superare barriere e distanze si possono legittimamente porre le basi di uno sviluppo sociale ed economico diffuso ed uguale per tutti. E sono i giovani, senza alcun dubbio, coloro che meglio di altri possono comprendere quanto importante sia la condivisione della crescita di un territorio e di un Paese, e che ciò è possibile ponendosi al centro del percorso di modernizzazione di una società. Occorre, ed in questo è anche il nostro impegno di docenti, condividere con loro la passione verso il nuovo, verso l’individuazione di nuove frontiere, di nuove sfide, esortandoli a crescere con maggiori conoscenze, con maggiori capacità che nello studio e nella utilizzazione dei mezzi di informazione possono trovare linfa vitale. Alcune esperienze vanno maturando, in diverse parti del Paese e vedono proprio i giovani protagonisti del cambiamento. È significativo come sia nel centro che nella cosiddetta territorialità vi siano importanti esperienze proposte e gestite da laureandi o neo laureati. Questo accade a Milano, a Roma così come a Lecce. Sono i giovani a proporre iniziative di studio e ricerca e a trovare consensi a livello delle pubbliche amministrazioni così come dell’Università. In questa direzione, si gioca la scommessa, che anche noi docenti accettiamo, di condividere con loro gli entusiasmi e le difficoltà, provando a guidare i loro passi verso sicure mete.
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che ne fanno costantemente oggetto di analisi, quanto spingere tutti i giovani verso un uso intelligente dei mezzi che hanno a disposizione, da quelli più tradizionali a quelli più innovativi, per consolidare certamente il proprio attaccamento, o meglio definibile interesse, alla realtà di appartenenza ma anche verso una dimensione più vasta cui inevitabilmente in maniera diretta o indiretta tutti facciamo riferimento o ne avvertiamo gli influssi (positivi o negativi che siano). È giusto allora riflettere su quanto il noto sociologo Nadio Delai (già direttore del Censis) ha avuto recentemente modo di dire, ovvero che la “sbornia” della globalizzazione è finita. Non tutto ciò che si globalizza è bello di per sé e neanche ciò che è prettamente localistico può essere portato ad esempio di successo. Le realtà divergono tra loro e ciò che può andare bene in un contesto può e deve cambiare in un altro. Così anche i giovani non possono assumere come valida solo una delle due teorie ma devono poter riflettere sulle condizioni che portano ad una maggiore o minore spinta ad un allargamento degli orizzonti contestualizzando le proprie conoscenze con la realtà che esaminano. Si tratta, dunque, di ispirarsi ad un modello flessibile di modernizzazione che tenga conto delle differenze, delle peculiarità, dei punti di forza e di debolezza di ogni realtà. L’università per questo può giocare un grande ruolo, nel fornire gli strumenti, innanzitutto conoscitivi e culturali per osservare e studiare ciò che ci circonda, per fruire dei mezzi di comunicazione e informazione a disposizione cogliendone le capacità e ponendosi in condizione di gestirli e non di farsi da loro condizionare. Più volte abbiamo messo in evidenza come la parola comunicare significhi mettere in comune ma anche mettersi in contatto, in collegamento. Dunque lo strumento della comunicazione acquista una particolare importanza se viene considerato elemento fondamentale per superare distanze, luoghi comuni, differenze. Il mondo delle Istituzioni, di cui più da vicino mi occupo professionalmente, ha rilevato questo elemento di eguaglianza tra i cittadini. Nei tanti anni trascorsi lavorando all’interno di una delle principali Istituzioni nazionali, l’attenzione per assicurare eguali condizioni di accesso e trasparenza verso il mondo delle amministrazioni si è focalizzata proprio nell’impegno a diffondere una maggiore cultura dell’utilizzazione dei media, fossero questi tradizionali o tecnologicamente innovativi. Perché solo mettendo tutti i cittadini
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ovvero desiderio di lavoro del laureato in ScienzeCom
l. s. il piacere di sondare
La finestra si affaccia su un cortile scolastico, i bambini giocano a fare la guerra, in sfrenata pedomachìa che si agita e urla sotto casa. Riemerge l’infanzia perduta. Ogni giorno passa, e ogni giorno si cerca un lavoro, e quasi sempre è troppo distante da me, dai miei limiti e dalle mie (in)abilità produttive. Uno spirito bambino può trascinarti nei giochi di scrittura, ma non a trovare il modo per vivere, e la ricerca dell’“emploi alimentaire” genera conflitti fino ad ora taciuti. Con i primi lavori della mia vita ottengo di essere licenziato prima ancora di essere assunto. Vorrei scrivere un racconto su un’esperienza peggiore del venditore ambulante: il sondaggio telefonico. Difficile impatto. Un racconto vissuto in prima persona che delegherei volentieri ad una mente ibrida tra Kafka e Asimov. Oppure qualcosa di molto pulp, relegato in un racconto di fantascienza di serie B, dove i cyborg dominano e gli uomini prendono ordini da macchine, e i capiufficio sono uomini e donne messi lì dalle macchine per controllare che tutto vada liscio e piatto come lo schermo di un computer. Ne esistono diversi di Uffici Sondaggi a Parigi e nelle banlieue. L’indagatore, intervistante, ha un computer, dei fogli, una penna, un telefono e l’elenco telefonico di Padova. La missione consiste nel chiamare un numero, un numero qualsiasi, per stanare fin dentro la propria casa chiunque abbia comperato un’automobile e tormentarlo per mezzo di domande (ma sempre con cortesia, s’intende, cercando di far passare un largo sorriso per mezzo della voce). Il terzo grado serve a farci raccontare le ragioni dell’acquisto, ragioni precise e non vaghe, una sonda dritta dritta verso i buchi neri dell’incontro tra un uomo e il suo oggetto.
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Parigi, Montparnasse.
La soddisfazione di un cyborg è esplorare la soddisfazione del consumatore. Il computer detta. L’impiegato è costretto a leggere con esattezza le frasi che appaiono sullo schermo. È una delle regole del buon sondaggista: “mot-à-mot”. Pure che è un linguaggio vicino al burocratese, pure se ci sono avverbi inutili e pesanti, pure se la frase non ha senso, che magari è stata tradotta dall’inglese al francese e dal francese all’italiano e in questi giri qualcosa è successo e qualcosa si è perso [lost in translation]… La minaccia del licenziamento è sempre costante. Ci sono migliaia di ragazzi pronti a rimpiazzarti. I controllori girano per la sala e hanno cimici a portata di mano. La presentazione avviene così: «Buongiorno, società ics, stiamo realizzando un’inchiesta per conto di un gruppo di costruttori automobilistici allo scopo di conoscere cosa pensano gli automobilisti della macchina che hanno acquistato». La parola “costruttori” già mi suona male, anzi mi esce un suono davvero brutto, sarà perché non mi piace ma insomma è doveroso sforzarsi ché non c’è modo, come dicevo, di cambiarla. “Costruttori automobilistici”: quello che conta è dirlo, scandire, articolare e sorridere. sopra la panca la capra campa. sopra la panca la capra campa… crepare non può… Inoltre, è inutile che chi risponde, l’aggredito, voglia sapere chi lo importuna, il nome della persona che lo chiama e per conto di chi lavora. Non si dice. L’unica cosa che si dice è il nome di una piccola e sconosciuta azienda di sondaggi. Tu che chiami, tu che lavori, non hai né nome né cognome e per un salario minimo ti accontenti di un codice. Neppure il computer conosce il tuo nome, tuttavia ha un numero che registrerà, quando avrai finito di compilare un questionario lungo una ventina di minuti, nei quali, passando per griglie, scale di gradimento e affermazioni prefatte, il tuo compito è lasciare il consumatore, vittima padovana in questo caso, in un’estrema solitudine, faccia a faccia, anzi bocca a orecchio, colle domande o le risposte già date. Tu lo guidi a perdersi in un viaggio ai confini tra l’organico e l’inorganico, per raccontarti meglio la sua avventura funzionale, ergonomica, sensoriale ed erotica col prodotto, prima e dopo il suo uso, peccato per te e per lui non avere lsd… Tutti gli altri esseri umani non contano: il piacere è individuale. Gli altri possono semmai essere un ridicolo e leggero contorno
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Probabilmente, il fenomeno della musica indipendente nasce prima di tutto come realtà locale, ancorato alle radici del proprio territorio. Conserva lo spazio per un’azione concreta che trova sostanza nella creazione di riviste, fanzine, portali internet, concerti e incontri offerti come complemento integrativo di un messaggio “totale”. Le grandi innovazioni tecnologiche nel campo delle registrazioni audio hanno permesso a milioni di menti creative di registrare, con spese contenute, le proprie idee su cd. In questo agire pratico si materializza una rinnovata idea del “far da sé” che ha permesso l’aprirsi di nuovi scenari comunicativi. Piccole comunità artistiche dalla periferia hanno iniziato a condividere in rete produzioni e conoscenze tecniche finalizzate alla creazione di dischi autoprodotti. Un’intensa attività di cooperazione, di scambio d’informazioni, un flusso che ha generato una vastissima libreria di sopravvivenza musicale. L’idea d’indipendenza artistica è sicuramente una predisposizione allo scambio, è reciprocità di uno scopo comunicativo, puro nella sua fase d’ideazione e di condivisione pubblica. La musica indie è caratterizzata da una sua naturale predisposizione all’innovazione e alla ricerca sonora. Predilige sviluppare continue innovazioni con aperte configurazioni musicali. L’artista indipendente matura una certa forma d’orgoglio sonoro, offrendo nuove definizioni e chiavi d’accesso alla segmentazione degli stili. Il contenitore musicale indie conserva una differenziazione di generi, ma è del tutto impossibile circoscrivere queste sonorità in uno specifico e determinato genere musicale. Si sono sviluppate, infatti, alcune tendenze artistiche “di massima” che attingono essenzialmente al contenitore musicale rock, per poi svilupparsi in moderne avanguardie d’interazioni stilistiche. Vi è ad esempio la predisposizione ad un uso mirato e consapevole dell’elettronica nei processi di composizione musicale; campionatori e sintetizzazatori audio sono sapientemente dosati all’interno della struttura musicale tradizionale. Spesso si sviluppa un piano d’interazione tra strumenti tribali, della tradizione classica (ad esempio strumenti ad
mauro ingrosso glocale musicale
suscettibile di ridurre la scala di soddisfazione dell’acquisto (prendiamo il caso della grassa suocera che non trova spazio sufficiente nel sedile posteriore)… Il risultato più grande che fuoriesce dai sondaggi [così vistoso da non notarsi: elephant] è che l’animo umano è libero e teso costantemente alla ricerca della propria soddisfazione. Mai che qualcuno potesse dire, non mi interessa essere soddisfatto dalla mia auto. L’importante è che mi sposti da un punto all’altro, mi piace così com’è con i suoi difetti, non voglio parlarne male, anzi sono io che qualche mattina la deludo e mezzo addormentato mi scordo ogni tanto di schiacciarle la frizione. Oppure: sono stato obbligato a comprarla. No, questo è fuori da ogni discussione. Sei obbligato a credere alla tua libertà, alla libertà di scegliere tra tante marche e tante modelli, una scelta alla quale non puoi sottrarti, per un continuo miglioramento. Tuo? O della macchina? Quando sarai un ottimo cyborg non farà più nessuna differenza.
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Quando indie diventa glocale Spesso, però, di fronte alle imposizioni globali, la prima reazione degli indipendenti è di chiusura, di trinceramento “locale” che isola e riduce la portata di qualsiasi istanza comunicativa. In questi atteggiamenti si nasconde uno dei più gravi errori che la musica indipendente rischia di commettere. Sarebbe grave riporre nei nascenti fenomeni di localismo musicale tutte le speranze di un futuro illuminismo sonoro. Bisogna saper opporre all’oscurantismo culturale e musicale delle major un’alternativa valida sia da un
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punto di vista artistico sia da un punto di vista tecnico-organizzativo. Un’eccessiva difesa dei propri stili, del proprio messaggio, delle proprie convinzioni porterebbe sicuramente a preclusioni artistiche che sfocerebbero in una forma d’autolesionismo culturale in grado di indebolire ogni valida proposta alternativa. Poste le basi per uno spazio comune e create le premesse concettuali e tecniche per modelli pratici d’autopromozione, bisogna necessariamente spostarsi sul piano dell’azione. La contaminazione come approccio all’interscambio genera così quella che dovrebbe essere la giusta sintesi tra locale e globale. Alla luce di ciò, la musica si trasforma in fenomeno glocale quando riesce ad essere la sintesi delle migliori ambizioni globali e delle emergenti sensibilità locali. La discussione dell’intera comunità scientifica in merito al concetto di glocal o glocale sembra avere definito quella dimensione d’identità collettiva che contiene nel suo profondo le ambizioni e i disagi postmoderni della comunità mondiale: un’interazione tra sfere globali e sfere locali, le quali, nella loro compartecipazione e nel loro interscambio generano un punto d’equilibrio sociale, economico e culturale contrapposto agli effetti di una mondializzazione connettiva. I linguaggi di rete, la rapidità degli spostamenti planetari hanno attivato flussi di comunicazione che diffondono ed espandono esperienze e conoscenze. Per meglio inquadrare l’ambito teorico di riferimento possiamo ricorrere al contributo offertoci da Alberto Abruzzese. Sul concetto di glocal piuttosto che di globalizzazione o localismo andrebbero fatte convergere le tante ipotesi che si vanno facendo sui presenti e futuri scenari della connessione trasversale e decentrata delle piattaforme digitali; sulla funzione che vi assolvono i new media e sui rischi, supposti o reali, che corrono le culture locali e nazionali, assunte come segno di una tradizione moderna giunta al suo massimo punto di frattura. (Abruzzese 2003).
La musica indie diventa fenomeno glocale quando permette interrelazione tra globalizzazione e localismo. Godere dei frutti di uno spazio globale controllato significa permettersi la possibilità di comunicare facilmente, predisporsi a reciproche contaminazioni culturali, poter gestire contatti in tempo diretto a livello planetario, riuscire a modulare esperienze locali in ambito internazionale. La
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arco o a fiato) ed i nuovi suoni digitali, in una dimensione di “surfing temporale”. Una ulteriore tendenza è la fedele rivalutazione, in chiave moderna, di precisi periodi della storia musicale contemporanea. Le sonorità nate negli anni Settanta, per esempio, esercitano una forte attrazione, influenzando le attuali trame musicali. In questo senso sembra s’inneschi un movimento di fuga verso il passato, chiara rinuncia alle probabili contaminazioni ricevute dai suoni artificiali. La traduzione in musica dei concetti di sperimentazione e comunicazione alternativa e l’utilizzazione delle nuove tecnologie audio porta alla decomposizione della struttura sonora, alla scomposizione dei tempi, delle sessioni ritmiche e delle parti costitutive della “forma canzone”, verso vertiginose allucinazioni sonore, rumore di coscienze che continuano a trasformare un diffuso disagio sociale in concentrati shock emozionali. Cambia anche l’approccio all’uso dei testi. Spesso la discografia ufficiale, ed in particolare quella italiana, hanno fatto uso del testo come complemento d’arredo musicale. Gli indipendenti riaffermano il valore e la potenza della parola che acquista potenza comunicativa perché, concentrando in maniera diretta le attenzioni su problematiche sociali ed esistenziali, lascia spazio alla complessità degli avvenimenti contemporanei. La lingua inglese persiste nel suo ruolo di “lingua globale”, ed è usata in commistione con i dialetti e con le lingue del mondo. Insomma, un nuovo universo di consapevolezze, di passioni, di stili di vita, che si concentrano in un’agire artistico consolidato da un forte spirito di comunità, un canale di comunicazione alternativa che reagisce attraverso un’inedita interpretazione del concetto d’arte, dell’idea d’artista e della sua funzione sociale.
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glocale salentino Il Salento, terra di periferia e di transito, da sempre scenario di incontri fra culture e popoli, è stato in questi ultimi anni teatro di importanti fermenti culturali. Sembra aver riscoperto la sua antica e storica dimensione di frontiera d’Europa; sembra aver maturato una coscienza del territorio, percepito come risorsa economica e sociale, vero momento d’emancipazione per un popolo da sempre
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afflitto dall’incessante depressione occupazionale e sociale. Sembra aver riscoperto un orgoglio locale ancorato ad un ricchissimo patrimonio paesaggistico, architettonico e naturale. Il Salento si è sentito portatore di una specificità culturale, ne ha preso gradualmente consapevolezza ed ha iniziato ad investire sul proprio futuro. Ha saputo dare lustro ad una cultura indigena, riacquistando un legame con il proprio passato, fatto di forti tradizioni ed atavici rituali. Il territorio salentino riscopre le proprie bandiere culturali: il dialetto, la musica popolare e la “pizzica”; le bellezze paesaggistiche aperte all’accoglienza; quelle urbanistiche e architettoniche restituite al loro antico prestigio: tutto ha contribuito, nel rapido volgere di un decennio a un rinato orgoglio locale. In una terra che per anni è stata completamente priva di una scena culturale indigena, solo da poco faticosamente recuperata e ridefinita, parlare di proposta culturale alternativa significa interessarsi della sua recente storia, prima fase di un percorso d’allargamento dell’offerta culturale. L’intera regione ha pagato a caro prezzo, nel tempo, il massiccio esodo delle proprie menti creative verso zone del Paese maggiormente ricettive, più attente a valorizzare proposte culturali non convenzionali. Interrogarsi sulla natura degli innumerevoli disagi sociali ed economici, significa soprattutto riflettere sul costante fenomeno di migrazione d’idee e forze umane dal territorio, che ha rallentato la nascita, e il conseguente regolare sviluppo, di una stabile pianificazione culturale. La delicata situazione occupazionale, in seguito, ha agito come deterrente aggiunto verso politiche d’investimenti locali. Furono gli anni Ottanta ad ospitare i primi fermenti musicali alternativi. I centri sociali occupati accoglievano le prime aggregazione giovanili interessate a promuovere nuove sonorità, gli unici spazi pubblici all’interno dei quali era possibile entrare in contatto con le produzioni e con le formazioni musicali della scena italiana. Piccole associazioni, operatori culturali inconsapevoli, piccole radio private (spazzate via dalla sopraggiunta legge Mammì) che davano campo alla diffusione d’inedite sensibilità musicali amplificandone il messaggio. Alla fine di quegli anni tutte le esperienze di promozione artistica indigena si erano caratterizzate per la loro natura sporadica e molto frammentata; il Salento restava poco influenzato dall’eco degli importanti fermenti musicali nazionali. L’organizzazione sociale poi, ne rimaneva assolutamente immune.
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musica indie diventa glocale quando riesce a sfruttare la forza della comunità indipendente per esportare un messaggio libero, in grado di richiamare l’attenzione del proprio pubblico con idee innovative e di valore, strutturando così un’efficiente proposta alternativa; quando è capace di contrastare il pericolo di una costante ibridazione sonora, quando permette quel piano di interscambio tra periferia e centro, quando riesce a orientare gli imperativi di una comunicazione d’intrattenimento in percorsi di sensibilizzazione sociale. Ha ancora valore difendere il senso del luogo, il senso d’appartenenza, ma non bisogna mai trovarsi impreparati nell’arena globale, luogo virtuale delle future promozioni. Ancora, la musica indie diventa glocale quando riesce ad utilizzare le nuove tecnologie come strumenti d’azione paralleli e dinamici, quando riafferma il valore di una critica costruttiva ma allo stesso modo per nulla incline a condizionamenti non artistici. La strada da percorrere è quella di un network flessibile di scambi planetari. Allo stesso modo è di vitale importanza conservare un contatto diretto con il proprio pubblico, con concerti dal vivo e produzioni discografiche dai costi contenuti. Bisogna saper creare da indipendenti e promuoversi da professionisti. Il vero punto debole della discografia indipendente resta, di fatto, la distribuzione finale delle opere. Non si può ancora competere con le immense forze pubblicitarie delle Big Five, in grado di essere in qualunque negozio del mondo. Il rischio per le indies è quello che la rete possa divenire perciò allo stesso tempo occasione e limite. Bisogna entrare in possesso degli strumenti della comunicazione moderna per creare un’intelligenza collettiva, capace di non svendere le sensibilità musicali alle corte dei sistemi di mercificazione culturale. La musica glocale dovrà essere riconoscibile; potrà non essere ascoltata, ma dovrà comporsi in strutture funzionali per permettersi di esistere.
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ni che iniziavano a diffondersi con graduale semplicità nel Salento, e fungevano da carta d’identità sonora per le diverse formazioni musicali, per preparare all’ascolto, per definire nuovi ascolti. Si era conseguentemente stabilita una prassi promozionale: registrazione in studio, diffusione dei prodotti discografici a costi contenuti nelle varie comunità giovanili di Lecce, Brindisi e provincia, promozione attraverso concerti dal vivo nei nuovi locali. Tre momenti nella pianificazione della fruizione di questo messaggio alternativo che prendevano maggiore caratterizzazione. Iniziavano a proliferare i nuovi “live-pub” all’interno dei quali offrire un nuovo palinsesto musicale. Per i gruppi salentini il concerto dal vivo era momento cruciale per la diffusione del proprio messaggio sonoro. Autopromuoversi significava occuparsi in prima persona di tutti gli aspetti tecniciorganizzativi ed artistici che potevano garantire la buona riuscita dei concerti. Per esempio, la pubblicazione degli eventi live, era demandata alla potenza comunicativa della “locandina”, un foglio rigorosamente fotocopiato che annunciava data e luogo del concerto. Ogni formazione musicale caratterizzava il proprio stile comunicativo con particolari messaggi visivi: occorreva colpire l’attenzione del passante e allo stesso tempo essere chiari nel produrre un’efficace trasmissione del messaggio, contenendo al massimo le spese, con stampe amatoriali e di bassa qualità. Luogo preferito per le affissioni, le varie sedi universitarie della città di Lecce, un originale microcosmo di tecniche che in maniera del tutto autonoma sviluppava specifiche e tacite regolamentazioni. Non era assolutamente permesso, ad esempio, coprire locandine di concerti non ancora svoltisi, bisognava rispettare determinati formati cartacei, non occupare tutti gli spazi liberi. La necessità di pubblicizzazione si trasformava in virtù comunicativa, e tutto avveniva in assoluta “inconsapevole collaborazione”. Ci si riconosceva come appartenenti ad un unico fenomeno, senza grandi consapevolezze di fondo. Le regole si definivano sul campo, attraverso una pratica abitudinaria ed un sottinteso rispetto reciproco. Si assisteva insomma in quegli anni allo sviluppo di un variegato panorama d’esperienze musicali, che abbracciavano tutti i differenti generi alternativi. Ogni formazione riusciva ad esprimere bene le proprie potenzialità anche se in maniera del tutto autonoma.
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Il clima inizia a cambiare radicalmente negli anni Novanta. Nasceva nel 1995 la prima etichetta indipendente salentina, Magenta Records, che prese a promuovere l’esperienza artistica di band locali: Miele June, Psycho Sun, Lillynoise. Tre formazioni geneticamente salentine, ma da un punto di vista espressivo completamente slegate dalle loro radici popolari, che iniziavano ad uscire fuori dalle sale prove, alla ricerca di momenti di condivisione, creandosi un piccolo seguito e animando la provincia leccese con feste e concerti. Mosse da una fortissima passione le band indigene iniziarono a registrare demo-tape autoprodotti, conservando una forte presenza live all’interno delle poche aree disponibili. La nascita nella città di Brindisi del primo studio di registrazione audio specializzato nelle registrazioni di musica alternativa, permetteva alle band di incidere su nastro e poi su cd le proprie idee a costi contenuti. Il Pure Rock Studio di Nanni Surace, nato nel 1989, consentiva la possibilità d’essere autonomi, riformulava la prassi metodologica grazie alla sua specializzazione nel settore delle registrazioni underground, garantiva un buon risultato finale potendo contenere significativamente i costi. Così ciò che prima era possibile realizzare solo recandosi nei grandi studi del nord Italia, adesso poteva esser fatto a pochi chilometri da casa. Diciamo che questo è stato il punto cruciale nel conseguente sviluppo della scena artistica alternativa salentina. Si apriva una possibilità in più per tutte le formazioni che da lì a poco sarebbero nate, e si consolidava una metodologia dell’autoproduzione per tutte le band già esistenti. Il livello qualitativo delle produzioni discografiche s’impose all’attenzione della critica nazionale specializzata, plasmando l’inizio di quella che sarà, negli anni a venire, una vera e propria scena musicale salentina. L’esperienza della prima etichetta indipendente in terra d’Otranto si concludeva alla fine degli anni Novanta. La passione e l’esempio dato furono il viatico verso la crescita delle successive esperienze culturali e musicali. Si apriva il campo alla nascita e all’ulteriore sviluppo di formazioni musicali salentine: Bludinvidia, N’Dotage, Violle, Insintesi, Psycho Sun, Evagarde, Cosmic Debris, Negramaro sono solo alcuni dei nomi e dei progetti artistici nati e costantemente attivi sul territorio. Drum&bass dalle contaminazioni elettroniche, britishpop, post-rock, hard-core, noise, erano termi-
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ste e dalla naturale propensione all’ospitalità dei salentini, ha imposto un ampliamento dell’offerta culturale capace di soddisfare le richieste più diverse. Iniziano così a definirsi le moderne figure degli operatori culturali, in grado di dare una pianificazione ed una programmazione costante per competere con i grandi centri promozionali del nostro Paese. Il nuovo millennio è stato salutato con un exploit di grandi concerti dal vivo che ha incontrato le esigenze di un pubblico sempre più specializzato. Non va dimenticata la qualità di un’offerta teatrale sempre più viva e radicata nel territorio. Le realtà musicali dell’underground salentino conservano una natura alternativa, molto vicina ma allo stesso tempo distante da una piena consapevolezza dell’indipendenza artistica. Questa convive a suo modo con la doverosa necessità di sviluppare pratiche d’intervento specifiche, per cercare di attrarre sempre più le attenzioni dell’intero tessuto sociale in chiave glocale. Si sviluppa così un nuovo sentire artistico, sempre più apprezzato e condiviso, e l’intero settore sembra indirizzarsi verso quella cultura della cooperazione tanto auspicata. Nell’esperienza sul campo si può intuire la portata di questo nuovo agire comunicativo, che si propone come parte integrante dell’ampia offerta culturale del territorio, attraverso la quale si pianifica il futuro culturale, musicale, artistico e sociale salentino. L’esperienza delle realtà indipendenti dimostra che può esistere un’etica delle produzioni e promozioni artistiche, una dimensione all’interno della quale possono sopravvivere creazioni artistiche svincolate da tendenze e imposizioni commerciali. Una traiettoria libera e assoluta d’estro artistico. Il concetto d’indipendenza garantisce autonomia, ma deve assicurare lo sviluppo di una valida metodologia organizzativa, in grado di dar “forma e sostanza” alla qualità di una comunicazione valida, capace di qualificarsi come proposta alternativa efficace. L’imperante appiattimento culturale e l’omologazione stilistica rendono necessaria la presenza di artisti che sappiano non aver timore della funzione sociale che essi possono svolgere. L’idea d’indipendenza non è un atto di chiusura, ma la possibilità di un’alternativa valida. Il Meeting delle Etichette Indipendenti dimostra l’inizio di una validissima pratica d’intervento. La sua (MEI) grande capacità aggregativa migliora quella rete di collaborazione necessaria al futuro sviluppo della discografia indipendente. Il modello proposto è quello di far nascere collaborazioni sinergiche
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Eccezion fatta per alcune sporadiche collaborazioni, questo compatto risveglio indigeno non si presentò quasi mai in forma unitaria. Le band, spesso troppo impegnate nella cura e nelle giuste attenzioni che meritavano i singoli progetti, non seppero sviluppare mai proficue forme di coordinamento; spiccava essenzialmente il valore dei singoli progetti. Questo periodo potrebbe essere considerato come un ampio e contemporaneo sviluppo di validi ed individuali momenti culturali alternativi. La qualità musicale della proposta offerta era assolutamente di buon livello, le produzioni sapevano richiamare le attenzioni della critica specializzata, ma si sviluppò solo in parte una comune azione capace di facilitare la promozione. Il settore delle proposte culturali alternative soffriva la mancanza di una collaborazione e tutto ciò ha continuato a penalizzarla fortemente. Gli anni Novanta si ricordano, in ogni modo, come il periodo del risveglio. Le singole formazioni musicali, ma anche le prime istituzioni pubbliche iniziavano ad intuire le potenzialità della scena musicale alternativa. Sono stati gli anni della programmazzione culturale del comune di Melpignano. Grazie all’opera e alla sensibilità di Sergio Blasi, sindaco della piccolissima cittadina, e al coraggio dell’intera amministrazione comunale, Melpignano sin dal 1995 ha ospitato, nella suggestiva cornice del Convento degli Agostiniani, i più importanti eventi musicali alternativi della scena italiana; una minuta comunità di circa 2000 abitanti che ha saputo sfruttare proficuamente la sua perseverante opera di promotore culturale, al fine di rivalutare e sprovincializzare un territorio altrimenti condannato alla staticità. Le manifestazioni annuali “Melpignano Rock” e “La notte della Taranta” hanno ospitano ogni anno i grandi nomi dello scenario indipendente ed alternativo italiano ed internazionale, disponendo su un binario parallelo innovazione e tradizione, aiutando così il Salento ad entrare in contatto con il panorama artistico che conta. L’attuale panorama musicale alternativo presenta non pochi elementi di cambiamento. Restano le difficoltà proprie di un sistema –quello dell’industria culturale musicale– che vive a livello nazionale ed internazionale un forte periodo di crisi. Il Salento è sicuramente una delle zone del nostro meridione che maggiormente ha saputo puntare allo sviluppo territoriale come crescita culturale. L’intensificarsi di flussi turistici foraggiato dalle bellezze paesaggi-
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con istituzioni ed enti pubblici del settore. Stando ai risultati ottenuti, la formula sembra essere valida. La musica indipendente è obbligata a puntare sulla qualità e sull’innovazione, sull’autoformazione, evitando tuttavia qualsiasi fenomeno di campanilismo artistico. Questo nuovo universo di consapevolezze, di passioni, di stili di vita sarà parte integrante del futuro mondo discografico se riuscirà a trovare un punto di contatto con le potenti major; se queste verranno ricondotte dalla qualità e dall’innovazione indipendente al loro originario ruolo di editori della musica. E il Salento? Sembra aver raccolto la sfida. Pur non essendo ancora sviluppata una forte coscienza dell’indipendenza, si presentano varie proposte alternative sempre più qualificate e produttive. Il Salento Rientra con forza in uno scenario nazionale, una periferia connessa che inizia ad autopromuoversi. Si è definita, grazie all’ostinata attività di alcune menti creative indigene, una fisionomia sonora che abbraccia tendenzialmente rock ed elettronica, per poi dar vita a forme musicali innovative. Questi stili sonori hanno saputo interpretare la voce di un territorio spesso inquieto e multiforme e i vantaggi, in termini di rivalutazione del territorio, iniziano ad essere tangibili. Le istituzioni e l’intero tessuto sociale sembrano non essere più sordi davanti alla portata di questo nuove agire artistico. Siamo all’inizio di un auspicabile e, si spera, duraturo “illuminismo musicale salentino”. (estratto dalla tesi di laurea di primo livello, Indipendenti del Salento. Promozioni e autopromozioni indigene Relatore: S. Cristante, Correlatore: A. Semeraro)
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