QdC 5 - Del segreto

Page 1

indice 3

questo numero [a.s.] del SEGRETO NELLA COMUNICAZIONE

11 27 40 49 62 74 94 103 119 135 142 159

ontologie del segreto di andrea tagliapietra un dispositivo di verità di franco la cecla informazioni particolari di stefano cristante le luci del retroscena di carlo formenti disvelamento come trasformazione di mimmo pesare l’opera d’arte e il suo enigma di paolo pellegrino pubblica amministrazione: trasparenza e ostacoli di carlo gelosi cosa e perché conviene non dire: gli effetti economici della corruzione di guglielmo forges davanzati e andrea pacella arcani vaticani di paola nestola note angloamericane di sergio duma doppia identità e mutazione nei fumetti dei supereroi di gino frezza tende e velami di angelo semeraro RESET

181 195 210 224 237 244

il paradigma spezzato di santa de siena il pluralismo negato di elena m. fabrizio autenticità e riconoscimento di elena pulcini turbamenti della postmodernità, intervista a michel maffesoli di vincenzo susca gli scarti di bauman [a.s.] la metafora pedagogica di tim burton di matteo greco TESSITURE

259

Giorello: di nessuna chiesa (m. pesare); Scalfari: laicità/laicismo; Badaloni: inquietudini e fermenti; Herbert, Vico e laici credenti; Ruggenini, Paltrinieri: la comunicazione, ciò che si dice e ciò che non si lascia dire (a. semeraro); Esposito: bios (s. de siena); Florida: classi creative (c. formenti); Gibelli: popolo bambino; Marra: ombre di un sogno; Lyon: massima sicurezza; De Luna, D’Autilia, Crescenti: italia fotografica (g. fiorentino); Semeraro: omero a baghdad; Latour: culto moderno dei fatticci (m. pesare); Trione: sopralluoghi (p. pellegrino); Ferretti, Gambarara: com. & scienze cognitive; Gambarara: bipede implume; Cimatti: mente e vita; Mazzone, menti simboliche (c. caputo); riconoscersi a lecce: un convegno (g. fiorentino)

306 311

i laureati in Scienze della Comunicazione / sessioni di febbraio e luglio del 2005 laurea honoris causa a eugenio scalfari

313

gli autori


Alla memoria di Giovanni Semerano, che ha indagato sul segreto delle parole, disvelandoci i loro significati piĂš profondi.

Le riproduzioni delle litografie di Luminet sono tratte da http://luth2.obspm.fr/~luminet/Art/lithos.html

Stampato presso Stamperia Desa – Copertino (Le) nel mese di Ottobre 2005 per conto di BESA editrice


questo numero

Parlare di segreto in un mondo senza muri e senza verità e in un paese che non sa tenersi un cece in bocca (ma non è secondo ad altri nell’arte di costruire e conservare infiniti luoghi di segretezza), può apparire del tutto superfluo e ininfluente, dal momento che segreti, misteri, grandi e piccoli enigmi sono un costitutivo della vita e dei viventi, che per tempo apprendiamo insieme a produrrre e a sfidare. Apparve subito evidente, nella scelta redazionale di questo “Quaderno” monografico, che trattare del segreto e dei suoi più stretti sinonimi nello specifico della comunicazione avrebbe comportato puntare dritto lo sguardo nei suoi occhi di Sfinge. Ma come! lavoriamo per una comunicazione trasparente; aiutiamo i giovani a costruirsi le loro zattere e imbarcarsi per terre di libertà e di verità (o almeno di aristotelica verosimiglianza); insistiamo perché si dotino di menti ermeneutiche per aprire ciò che è chiuso, flettere ciò che è rigido; indichiamo l’oltre di un orizzonte informativo stanco per costruire salveminiane schiene ben dritte, per poi concludere – come sembrerebbero suggerire alcuni dei contributi qui raccolti – che il segreto costituisce un dato “strutturale” della comunicazione, e che esso vada non solo accettato ma valorizzato in quanto “dispositivo” di verità?

questo numero

E tuttavia, a ben vedere, sostiene qui La Cecla, nulla ha più a che fare col segreto che la comunicazione, dal momento che il non detto (e il non dicibile) «apre alla ricchezza dei significati», e il segreto si presenta come «un vuoto a cui la comunicazione si contrappone come pieno». Un daimon insomma, aggiunge Cristante, che separa e introduce conflitti fino alla «disgiunzione delle voci», ma che proprio a causa della sua insopportabilità spinge al disvelamento. Tagliapietra tuttavia vuol vedere ben oltre il non detto e il celato; oltre le forme pubbliche del segreto, ossia quella conve-

3


nienza del dire e del tacere che tutti bene o male apprendiamo a gestire; oltre ancora il “dir di no” deleuziano, per approdare a un’ontologia del segreto incondizionato, che rivendica una libertà di sottrazione al potere, che ha «assoluto bisogno della nostra trasparenza». Potremo conservare le facoltà della critica e del dissenso solo se sapremo custodire il nostro segreto, le nostre solitudini sottrattive. «Bartleby preferisce di no!»: come a dire che all’imperialismo del senso, all’assorbimento della libertà nella necessità è possibile opporrre, quando occorra, un bel no; un radicale mutamento di registro comunicativo. Una buona traccia per una comunicazione che dopo aver esaurito tutte le possibilità del dialogo sappia pure affrontare i disagi del disaccordo; rifiutare la mediazione a tutti i costi; respingere quell’annullamento delle differenze che pure la condivisione - il communis fondativo della comunicazione – comporta.

questo numero

A dispetto dunque di ogni tentativo di “distruzione epistemologica” compiuta nel corso del Novecento, Pellegrino tesse qui la trama di quel gusto del segreto che oscilla nel suo doppio movimento, perché se da una parte esso separa, dall’altra include, crea appartenenza, coesione e fedeltà. È in questo doppio movimento l’ambivalenza del segreto: appartenenza comporta comunità, ossia quel “mettere in comune” di cui Derrida ha voluto smascherarci tutta l’insidia («il farsi totalitaria della democrazia»). La preferenza del segreto al manifesto, del foro interiore al “tutto in piazza”, di cui l’esplosione della società mediatica ci ha reso insopportabilmente saturi e sospettosi, trovava tuttavia giustificazione per il filosofo francese nel fatto che il segreto è pur sempre un atto di libertà, e in quanto tale alimenta ed è alimentato da un desiderio. Anche la comunicazione – si è detto altrove (“Quaderno” n. 3) - si alimenta di desiderio, mancando il quale essa si svoglia e banalizza, ma non vi è dubbio che ogni atto comunicativo sia desiderio di svelare l’altro rimanendo possibilmente ben nascosti; farlo venir fuori standosene saldamente ancorati in sé. Solo la fiducia che lentamente acquistiamo nel dialogo ci apre al suo racconto, consentendogli a sua volta l’accesso alle nostre narrazioni. Ma c’è – permane –, sotto traccia, una certa diffidenza iniziale e inerziale; un attrito costitutivo dell’atto comunicativo stesso: cosa ha voluto dirmi? Cosa manifestarmi e cosa nascondermi? La comunicazione è un po’

4


come il più antico e universale gioco a nascondino dei bambini, che godono tanto nel farsi scoprire che nel rimanere ben nascosti. E tutta l’attività cognitiva conserva quell’imprinting ludico nei segni, le tracce, gli indizi che rendono vitale il gioco degli inseguimenti e dei nascondimenti, in uno scambio continuo di ruoli. Un gioco che nell’età di internet assolve una funzione terapeutica, segnala qui Formenti con Turckle, «grazie al fatto che il palcoscenico (delle reti) non è interfaccia trasparente della relazione io-altri, ma si trasforma in una sorta di specchio in cui l’attore si riflette, decidendo di volta in volta quale maschera indossare». Ponendo in filigrana Adorno e Heidegger, Pellegrino introduce un ospite ingrato della conoscenza: quel sentire che depista ogni semiologo ortodosso dai più certi territori dei segni e del linguaggio, ma che pure agisce come “valore ontologico”, misterioso, universale, catalizzatore di intuizioni e premonizioni. Nel dialogo storico-ontologico coi poeti - richiamato anche da Pesare Heidegger aveva sottratto il sentire all’esperienza psichica individuale, ai neuroni dell’empatia insomma, per elevarlo a valore linguistico universale: una pista interessante, dal momento che l’opera d’arte non pretenderebbe di scoprire - e tanto meno svelare - la verità dell’essere, ma piuttosto richiederebbe un’attitudine all’ascolto, «consegnandosi a quella forma tutta sua di pietà per il vivente che è l’interrogazione dell’enigma ontologico» (Heidegger 1939, citato in Pellegrino e in Pesare). L’essere del vivente, che è «libertà di assumere forme sempre nuove, trova nell’arte una dimensione a sua misura» e solo il sentire può costituire la via d’uscita dall’enigma racchiuso non solo nei simulacri d’arte, ma nella vita dei viventi, da cui l’arte trae materia prima. Non possiamo penetrare la verità dell’altro, il suo secretum; ma possiamo sentirlo - l’altro - prima ancora che negli atti linguistici, più ancora che nel suo narrarsi, nel vuoto dei silenzi e delle pause, delle omissioni, nelle pieghe del tessuto narrativo.

questo numero

La conoscenza è pàthos: così Aristotele definì l’esperienza misterica. E Sophrosyne, la saggezza che si acquista nel rischiaramento, ha bisogno di più linguaggi. Ma il sentire, quella conoscenza che è possessione, manìa, nasce da un dio. Goethe, spogliandola dalle potenze ossessive (e distruttive), la definì immedesimazione, rinviando alla formula spinoziana di una conoscenza intuitiva. Se

5


c’è un rischio, neppure riconosciuto, del Sapiens totus technologicus, che ci lascia navigare tra generose cornucopie connettive, quel rischio si chiama anestesìa; il non più sentire; il non più sapersi immedesimare sono il contrappasso del tutto-già-visto, già-detto, disvelato. Naufragio con spettatore. Torna perciò opportuna la domada che Pesare ci pone: se esista una verità originaria e una sola via che porti a Sophrosyne. E la risposta che ci sentiamo di consigliare è che accostarsi al segreto, lavorarlo ai fianchi, è pur sempre preferibile all’ostinazione del volerlo a ogni costo penetrare. Ma occorre una conoscenza metamorfica e trasformativa; poietica, insomma: qualcosa di diverso da una conoscenza addestrata al possesso a tutti i costi. Ancora una volta una questione di Umbildung, dal momento che ogni Bildung a nostra disposizione, dai Greci ai Lumi, ci ha solo addestrati al possesso virile dell’alterità-mistero.

questo numero

Mancando di una certa segretezza del resto, la vita si banalizza. E tutti vorremmo un po’ poterci illudere, nel punto estremo, di averla intensamente vissuta; e quella intensità, più che altrove, ritrovarla in quel tanto che abbiamo reso indisponibile ad altri. «Ogni uomo ha un suo segreto insospettabile» fa dire Sorrentino al suo enigmatico personaggio costretto a vivere in una stanza d’albergo (Le conseguenze dell’amore, ITA 2004). E Dostoevskij, più volte chiamato in causa in queste pagine per quella sua capacità di lavorare dentro il misterioso sentire dell’entelecheia umana, scrive: «Ci sono, nei ricordi di ogni uomo, certe cose che egli non rivela a tutti […] ma forse solamente a se stesso, e anche queste in segreto. Ma ce ne sono infine anche di quelle che l’uomo teme di rivelare perfino a se stesso, e di queste cose in ogni uomo perbene se ne ammucchiano per sempre abbastanza» (Memorie del sottosuolo, 1942).

6

Molte tessere compongono questo quaderno-mosaico, che declina il tema sconfinando spesso nei tanti suoi sinonimi: enigma, mistero; chiuso, nascosto, celato, oscuro; e altri ancora. Segreti & misteri, piccoli o grandi che siano, sono offerti agli occhi di tutti al punto che nessuno li vede più, come già Goethe osservava ai suoi tempi. Così, in una società mimetica, la produzione di segreti si allarga e diventa consumo di massa. E il luogo più sicuro per nasconderli resta quello aperto allo sguardo pubblico.


Nessun’arte umana, del resto, ha potuto mai prescindere da un certo grado di produzione misterica, e Forges Davanzati ci spiega cosa e perché conviene non dire nella sfera dell’oeconomicus, mentre De Siena coglie nelle recinzioni mentali del Sapiens totus technologicus l’esito tragico di una prevaricazione ai danni del principio femminile, rispettoso dei misteri ecologici, della ricchezza della diversità biologica. Ma quel paradigma si è spezzato: trionfa oggi il segreto competitivo sottratto allo sguardo pubblico. Paola Nestola ci introduce a sua volta in ambienti vaticani avvolti nei tanti loro misteri, e tra le novità dei più recenti documenti pontifici. Carlo Gelosi, guardando alle condizioni della pubblica amministrazione, rovescia il beneficio del conservare segreti nell’istanza di combatterli in nome della trasparenza, contro gli immarcescibili poteri di sorveglianza e di controllo delle burocrazie, sempre in punto di cedere e sempre rifiorenti; Duma ci intrattiene coi misteri delle nuove frontiere angloamericane, mentre Frezza ci accompagna tra i segreti a strisce dei fumetti, in quella nostalgia del differimento che allenava le nostre infanzie col rinvio di ogni spiegazione “alla prossima puntata”.

questo numero

Reset è una sezione del Quaderno che mette a punto temi già toccati introducendone nuovi e preparandone altri. Così, con Elena Pulcini il tema del riconoscersi del precedente monografico si arricchisce in un quadro storiografico più preciso e sistematico, attento alle differenze tra diverse tradizioni europee di pensiero. Susca intervista Maffesoli, che non sfugge al “segreto”, disegnando fasi e soggetti storici che nella segretezza preparano ciò che diverrà poi manifesto. Elena M. Fabrizio pone a sua volta il quesito di chi abbia titolarità al dire, chi al decidere e chi al solo tacere sulla vita umana, rivendicando il diritto al desiderio della libertà procreativa. Il tema della laicità come metodo, cara a Bobbio, è qui tenuto in tensione insomma con le ragioni di un vituperato laicismo che vorrebbe sottrarsi alle inconcludenti dispute teologiche sul divino embrione per interrogarsi invece sulle sorti in cui versano i viventi. Perché se da una parte l’uomo resta mistero, la domanda sull’uomo si traduce in un libero esame del come sia possibile continuare a convivere, cooperare e competere provenendo da culture, tradizioni e forme di vita diverse. Che è poi la domanda-sfida di Giorello, recensito da Pesare.

7


Tessiture, infine, dà spazio a una discussione su libri recenti. Attraverso Scalfari, Giorello, Ruggenini, Paltrinieri, Esposito, Badaloni, Trione, e altri autori, riemerge ancora il tema della laicità e del laicismo, tornato con prepotenza nel dibattito referendario sulla fecondazione assistita, ma destinato ad allargarsi incrociandosi coi temi del multiculturalismo e dell’etica pubblica. Chiude il fascicolo la consueta rubrica dei laureati nelle ultime sessioni della laurea triennale e la “motivazione” del Consiglio Didattico di Scienze della comunicazione per il conferimento di una laurea H.C. in Scienze della comunicazione a Eugenio Scalfari. [ a. s. ]

Ringraziamenti

questo numero

Ai tre referee, Renato Stella, Aldo Trione, Ugo Volli. Doppio ringraziamento a Renato Stella che ha animato, insieme ad Andrea Tagliapietra e a Stefano Cristante, il seminario di avvio di questa ricerca comune.

8


del segreto nella comunicazione



Philip Roth, La macchia umana.

andrea tagliapietra ontologie del segreto

Coleman amava i segreti. Che nessuno sapesse cosa ti passava per la testa; che potevi pensare tutto quello che volevi senza che nessuno avesse modo di saperlo. Tutti gli altri ragazzi non facevano che ciarlare di se stessi. Ma non era lì la forza, e neppure la soddisfazione. La forza e la soddisfazione erano nel giocare di rimessa nelle confessioni, così come si boxava di rimessa; e Coleman questo lo sapeva senza che qualcuno dovesse dirglielo e senza doverci pensare lui stesso. Ecco perché, quando si allenava, amava boxare con l’ombra e lavorare al sacco: per l’intima segretezza dell’allenamento solitario.

Ontologia del segreto condizionato

del segreto

Cos’è il segreto? Forse coglieremmo un aspetto sin troppo superficiale del segreto se noi ce lo raffigurassimo soltanto come una frase non detta o una testimonianza negata, un evento nascosto o un’informazione celata, analogamente a ciò che s’in­tende quando si parla di “segreto professionale” - del prete, del me­dico, dello psicoanalista o dell’avvocato -, o, vuoi anche, di “formula se­greta”, di “segreto di fabbricazione”, di “segreto militare” e di “segreto di Stato”. Tutte queste “forme pubbliche” del segreto, consapevoli o inconsapevoli, consce o in­consce, hanno a che fare con la decisione e la convenienza di dire o non dire, più che con il contenuto di ciò che si dice. In esse la dimensione separativa del segreto, che la stessa etimologia conferma - dal latino secretum, participio passato di secernere, ossia di mettere da parte, separare -, sembra riguardare enti, almeno in linea di principio, assolutamente uguali e omogenei fra loro. Se ciò che separa l’oggetto del segreto dagli oggetti manifesti è solo una decisione negativa, allora il segreto è qualcosa di accidentale e destinato, prima o poi, a essere rivelato. Le “forme pubbliche” del segreto possono persino diventare materia di legge, come avviene, dalle origini dello Stato moderno, con la nozione di “segreto di Stato”, ma come accade

11


del segreto 12

anche, a tutela dei privati cittadini mediante le cosiddette legisla­ zioni sulla privacy, nelle democrazie occidentali dell’età contemporanea. Qui, paradosso del ruolo pubblico del segreto, quest’ultimo si manifesta, anzi deve manifestarsi, mediante i segni che lo ricoprono e lo tengono celato, ma che insieme lo palesano, come una sorta di marcatori formali della segretezza e, di conseguenza, solo così ne garantiscono il rispetto. Tuttavia, se in questo caso è l’autorità, pubblica e universale, della legge che ingiunge l’osservanza del segreto a chi non avrebbe altrimenti alcun dovere del silenzio, in generale il segreto si manifesta nelle sfere private della confidenza e della fidu­cia. Così, il segreto non è soltanto ciò che si tiene celato nel proprio animo senza rivelarlo a nessuno - insomma, quella proprietà privata spirituale di cui già parlava Georg Simmel1 - ma soprattutto ciò che è conosciuto da pochi e non dev’essere rivelato ad altri. L’alternativa secca fra dire e tacere, che originariamente sembrava configurare la pragmatica del segreto, si articola adesso secondo uno schema tripartito: dire, tacere e comunicare. Il segreto, che dal punto di vista dell’oggetto isolato (prospettiva che rispecchia il solipsismo del soggetto) sembrava semplicemente il separare ciò che era manifesto da ciò che invece non lo era, diviene fattore d’appartenenza, che congiunge e accomuna coloro che del segreto vengono resi partecipi. La separazione fra manifesto e segreto si muta in separazione tra chi sa e chi non sa (e non deve sapere). Il segreto, infatti, si mantiene o si osserva, oppure si divulga o si tradisce, ma anche si trasmette o si confida, là dove la diade quantificatrice di nessuno o tutti si trasforma nella triade di nessuno, tutti o pochi (i pochi, vale a dire la comunità distintiva che il segreto conserva)2. Nella lingua tedesca segreto si dice Geheimnis, termine in cui risuona Heim3, “casa”, “dimora”, dalla stessa radice dell’inglese home. L’aggettivo heimlich significa sia “segreto” che “familiare”, dall’idea di coperto, celato, che accomuna vuoi la cosa segreta che è, appunto, nascosta allo sguardo, vuoi l’interno della casa, con il tetto che copre e protegge dalle intemperie. Seguendo l’ipotesi etimologica indoeuropea, Émile Benveniste collega Heim alla radice *awen - zio/nonno -, che ritroviamo nel nostro termine “avo” e che esprime la relazione di appartenenza familiare al gruppo parentale in cui ci si sente riconosciuti4.

tagliapietra


Il segreto, allora, è fondato dal patto che rinsalda e misura la sua comunità ristretta, vincolandola al ri­spetto della convenzione del silenzio. Il giuramento assicura il se­greto, se­condo una garanzia di fedeltà speculare alla formula classica della testimonianza: «giuro di dire tutta la verità, nient’altro che la verità». «Giuro di non dire niente», «giuro di tacere», invece, sono le frasi che espongono il segreto a quel gioco di lealtà e tradimento su cui già ironizzava un famoso motto di spirito di Benjamin Franklin: «tre persone possono tenere un segreto, solo se due di loro sono morte». Del resto, sui rischi della spartizione del segreto non cessa di metterci in guardia il capolavoro barocco di Baltasar Gracián, quell’Oráculo manual che sedusse Schopenhauer al punto da tradurlo in tedesco, e che tetro ammonisce: Si crede di spartire pere e si spartiscono pietre. Molti morirono per esser stati confidenti. Costoro si possono paragonare a cucchiai fatti di pane che finiranno per essere mangiati anch’essi. Il fatto che un principe comunichi un segreto, non è un favore che si riceve, ma un tributo che si paga. Molti infrangono lo specchio perché rammenta loro la bruttezza che ha riflesso; non posson vedere chi li ha veduti; e non è mai ben visto chi ha visto il male. Non conviene tener troppo stretto nessuno, e tanto meno il potente. O, se si vuol farlo, ciò potrà più facilmente avvenire grazie ai benefici fatti, che non contando sui favori ricevuti. Sono soprattutto pericolose le confidenze fatte fra amici. Chi ha comunicato i suoi segreti ad un altro, ne è divenuto lo schiavo; se si ha poi a che fare con sovrani, si tratta di una violenza che non può durare a lungo. I potenti anelano a redimere la propria libertà perduta, e per raggiungere lo scopo si metteranno sotto i piedi ogni cosa, perfino la ragione. Perciò i segreti non s’hanno né da dire, né da ascoltare.5

ontologie del segreto

del segreto

La scansione fra chi sa e chi non sa, che traduce in termini sociali il gioco di manifestazione e nascondimento che caratterizza l’ontologia del segreto condizionato, è all’origine del nesso fra segretezza e potere. Il segreto, ha scritto Elias Canetti, «sta nel nucleo più interno del potere». «È caratteristica del potere una ineguale ripartizione del vedere a fondo. Il detentore del potere conosce le intenzioni altrui, ma non lascia conoscere le proprie. Egli dev’essere sommamente riservato: nessuno può sapere ciò che egli pensa, ciò che si propone»6. Il segreto conferisce potere: il

13


del segreto 14

potere di chi lo detiene su chi ne è all’oscuro. Canetti proponeva di valutare il potere del segreto in termini di concentrazione, ossia calcolando il rapporto fra il numero di coloro che il segreto coinvolge mediante la sua estensione e le sue conseguenze pratiche, rispetto al numero di coloro che lo custodiscono e che, quindi, ne traggono direttamente o indirettamente beneficio. Inoltre, bisognerà distinguere, all’interno del potere conferito dal segreto, la duplicità tattica e formale del segreto attivo o offensivo, che consiste nel conoscere i segreti degli altri senza che questi ultimi lo sappiano e del segreto passivo o difensivo, che è costituito dal non far conoscere i propri segreti agli altri. Troviamo numerose applicazioni di queste due massime, che oggi chiameremmo dello spionaggio e del controspionaggio, nella trattatistica secentesca sul segreto e sulla “ragion di Stato”7. «Il discorso moderno della “ragion di Stato” - osservava Michel Senellart – legato all’ombra e al segreto, emerge nel momento in cui il potere, non traendo la sua propria legittimità che da se stesso, deve rendere conto di sé al corpo sociale. Dalla regolamentazione della menzogna alla strategia delle astuzie redditizie, si assiste allora alla rottura inevitabile tra la politica e l’etica»8. Nell’assolutismo, prosegue Senellart, «la separazione tra morale privata (morale privée) e ragione di governo (raison gouvernamentale) traduce la prudenza in termini di abile calcolo e rinsalda l’azione sovrana nello spazio impenetrabile del segreto. La giustificazione terapeutica della nobile menzogna, secondo il modello platonico, si confonde, allora, con la logica strategica degli interessi di potenza. Segreti di Stato (Mystères d’État): questo nuovo concetto, nel XVII secolo, segna la rottura della menzogna politica con l’ordine etico e la inscrive nell’orizzonte della guerra indefinita che, all’interno come all’esterno, regge la vita degli Stati»9. Nella dissimulazione seicentesca, onesta o disonesta che sia, per parafrasare il titolo del celebre libricino di Torquato Acetto10, si avverte quella convergenza fra menzogna e segreto che viene ben sintetizzata in apertura del Breviario dei politici secondo il cardinale Mazarino: «A sole due massime ristringevano gli antichi Filosofi la lor più sincera filosofia, e sono le seguenti: Sopportati e Astieniti. A due altresì i Politici riducono la lor professione, cioè: Simola e dissimola; o pure; Conosci te stesso, e conosci parimenti gli altri: le quali due parti ultime (se non mi inganno) sostengono le due prime»11. Elaborando il quadrato della veridizione secondo il modello del

tagliapietra


quadrato semiotico di Greimas12, se il segreto “è ciò che è ma non sembra”, la menzogna “è ciò che sembra ma non è”. Di conseguenza, là dove il segreto non dovesse bastare a dissimulare ciò che è, la menzogna13 simulerebbe il diversivo di un’apparenza illusoria, la quale si porrebbe in perfetta continuità con il segreto stesso nella sua funzione di celare l’oggetto.

VERITÀ Essere

SEGRETO

Sembrare

Non sembrare

MENZOGNA

Non essere

FALSITÀ

Se l’ontologia del segreto, conformemente alla linea di sviluppo dell’ontologia occidentale descritta da Heidegger in Essere e tempo14, viene intesa come un’ontologia della presenza, allora ogni segreto va inteso come un segreto condizionato, ossia come ciò che, nell’orizzonte della presenza, ancora non è manifesto, ma lo diventerà, e, intanto, si fa presente comunque con la sua dissimulazione (il non sembrare del suo essere) o persino con la sua simulazione (il sembrare del suo non essere).

Ontologia del segreto incondizionato

ontologie del segreto

del segreto

Ma ciò che noi chiamiamo segreto rinvia forse a qualcosa di più essenziale e profondo, che sfugge ai giochi superficiali della presenza e dell’assenza, e alle opposizioni tra pubblico e privato, tra memoria e dimenticanza, tra rivelazione e simulazione. Il segreto, ha scritto Jacques Derrida, «non è un’interiorità privata che si do-v­rebbe disvelare, confessare, dichiarare, cioè di cui si dovrebbe ri­spon­dere, rendendo conto e tematizzando a giorno fatto». Anche

15


nel caso del diritto al segreto, vale a dire nei casi sovrammenzionati del “segreto professionale” o del “segreto di Stato”, siamo di fronte, in realtà, a un “diritto condizio­nale” per cui «il segreto è condivisibile e limitato alle condizioni date»15. Ciò significa che il segreto costituisce semplicemente un problema, il cui contenuto può o persino deve essere dichiarato non appena si diano altre condizioni rispetto a quelle previste dal patto di segretezza iniziale. Tuttavia, accanto a questa dimensione del segreto condizionale e condizionato, ve n’è una ulteriore. In essa, «si tace, non per conservare una parola in ri­serva o in disparte, ma perché il segreto resta straniero alla parola»16. Questa estraneità, quest’assoluta alterità del segreto, osservava Derrida, ha una storia che, nella nostra cultura, fa riferimento, da un lato, al Nome impronun­ciabile di Dio della tradizione ebraica17, e, dall’altro, all’árrheton, al referto della teo­logia negativa18 della tradizione platonica, prima, e cristiana, poi. In questi due ambiti, infatti, viene condotta una meditazione serrata su cosa accade quando si dà un nome. Ma già nelle culture dei cosiddetti popoli allo stato di natura, di cui si occupano le pagine, candidamente vittoriane ed etnocentriche, de Il ramo d’oro di James G. Frazer, l’analisi dei tabù di parole porta alla luce vuoi il potere presentificante del linguaggio, mediante l’ingenua credenza del legame magico fra il nome e la cosa o la persona19, vuoi le sue strategie di aggiramento, attraverso la pratica del nome segreto20, vuoi, infine, la vanificazione del potere formulare del linguaggio tramite la netta distinzione ontologica fra il nome indefinitamente pronunciabile e l’unicità insurrogabile della presenza:

del segreto

Il nome di una persona sembra parte di lui soltanto quando è pronunciato con il suo stesso fiato, detto con il fiato di altri non ha con lui relazione vitale e non gliene può venir male. Poiché - così forse ragionavano questi primitivi filosofi - quando un uomo fa passare il suo nome per le sue labbra egli si disfa di una parte viva di sé; e se insiste in una condotta così temeraria finirà certo per dissipare le sue energie e mandar in rovina il suo organismo.21

16

L’analisi dell’atto del nominare rivela, in controluce, l’idea di un ordine e di una razionalità che, in nome dell’universale e del conoscibile, vuole avere ragione del singolare e dell’irriducibile. Annettendo il segreto all’ontologia della presenza (e dell’assenza),

tagliapietra


ontologie del segreto

del segreto

si presuppone un orizzonte di senso inclusivo di ogni possibile, eventuale, non senso. Ma se ciò che la tradizione ebraica e la teologia apofatica pensano a proposito del Nome im­pronunciabile di Dio o dell’improprietà di ogni attributo positivo del divino è estendibile al caso di qualsiasi nome proprio, allora c’è segreto. Esiste il segreto incondizionato, perché nel mondo non tutto è riducibile alla presenza (e all’assenza), a cominciare da quella totalità che, in tutti i nostri discorsi e in tutte le nostre comunicazioni, è sempre a venire. Il segreto non è soltanto il non (ancora) senso del senso, bensì l’orizzonte mistico del senso. Questa mistica del segreto non è la trascendenza divina, né l’ineffabile mistero della sua sopranatura, ma l’inesauribilità trascendentale del segreto che in ogni nome si palesa, l’immanenza della sua imminenza. Esso rappre­senta la resistenza di ciò che è unico alla logica dell’equivalenza e della traducibilità asso­lute. Se, infatti, noi pensiamo a un nome, non possiamo fare a meno di immaginare una pluralità di oggetti, ovvero una classe in cui, in ultima analisi, l’unicità va perduta, mentre crescono l’omonimìa e la serialità. “Andrea”, “Michele”, “Elisa” o “Emma”, in quanto comuni nomi di persona, di un indeterminato numero di persone, con­sentono la moltiplicazione dell’omonimìa, invece in quanto “nomi pro­pri”, ossia in quanto appartengono a quel singolo individuo che nominano, rappresentano un punto d’arresto, una linea di resistenza alla capacità del linguaggio di rispecchiare il mondo nella sua immediata presenza. C’è, come sembra suggerirci lo stesso funzionamento linguistico dei nomi propri, un limite strutturale all’universalità del linguaggio, alla panotticità dell’immagine, alla trasparenza e all’efficienza della comunicazione, alla presentificazione totale e totalitaria dell’essere. L’ontologia del segreto incondizionato marca il bordo dell’apparire: se tutto ciò che appare è, non tutto ciò che è appare. Il linguaggio cessa di essere strumento della presenza manipolabile e diventa traccia interpretabile dell’eccedenza e dell’attesa apocalittica di quell’essere che sporge negativamente sull’apparire22. Il segreto incondizionato è questo trascendentale: «un segreto senza contenuto, senza contenuto separabile dalla sua esperienza performativa, dalla sua tracciatura performativa»23. Si tratta di una macchia d’opacità, di un fondo di resistenza che rimane strutturalmente intraducibile, ma che, per altri versi, funge da garanzia suprema di libertà. Infatti, solo se non tutto può e deve essere condiviso, se la differenza resiste all’imposizione dell’identità, c’è

17


del segreto 18

spazio per l’auto­nomia del singolo. La fede nella tecnica che accompagna l’avventura dell’uomo contemporaneo è la convinzione che, per ogni domanda, ci sia sempre una risposta sperimentabile e verificabile. Ma se rispondere è sempre anche un rispondere di sé, la responsabilità cede il passo alla testimonianza, dove non si può pretendere la stessa certezza del sapere. Qui il segreto è quel diritto alla non risposta assoluta che traspare nelle splendide pagine del breve racconto di Herman Melville Bartleby lo scrivano24. Infatti, «I would prefer not to», preferirei di no, quella che Gilles Deleuze chiamava la «formula»25, insistendo sul suo manierismo26, non è un semplice dir di no27, perché il “no”, che, nell’ontologia della presenza condivisa da buona parte del pensiero occidentale, esprime sempre la determinazione - omnis determinatio est negatio -, attribuirebbe comunque a Bartleby una posizione fissa e specifica per contrapposizione. Bartleby non dice no, non dice sì, dice «preferirei di no». Ciò, tuttavia, non significa che Bartleby sia privo di qualsiasi posizione e che la sua sia, come suggerisce Giorgio Agamben, «la più implacabile rivendicazione del nulla come pura, assoluta potenza»28, alla stregua della tavoletta di cera, su cui gli antichi scrivevano, o di quel foglio bianco, che precede e contiene l’evento di ogni scrittura. Bartleby non condurrebbe la sua esistenza fino alla morte con tale pervicacia se non avesse una posizione, se non volesse ostinatamente ciò che la «formula» ricopre e nasconde. In realtà, sulla posizione di Bartleby c’è segreto. Il «preferirei di no» allude, è traccia udibile di quest’indicibile segreto, eppure, in sé, non ha senso, non significa nulla. La «formula» è, da questo punto di vista, e concordemente con Deleuze, del tutto insignificante, perché essa non ci dice nulla del contenuto che essa stessa cela. Nemmeno, quindi, che tale contenuto è nulla! Allora, forse l’esegesi di Bartleby dev’essere spostata dal registro del volere, vuoi anche da quel registro estremo e paradossale che è la volontà di non volere, a quello del sapere. Del resto, se ci sono volontà in gioco nella vicenda narrata da Melville, queste, in prima battuta, appartengono agli altri: all’avvocato, il datore di lavoro dello scrivano, e ai suoi colleghi, che sono i destinatari diretti dei ripetuti «preferirei di no». Ma anche, indirettamente, ai lettori e agli interpreti del testo, che non vengono a sapere su Bartleby nulla più di quanto era stato dichiarato all’inizio29 e che, enigmaticamente, verrà detto alla fine del racconto30.

tagliapietra


Tutte queste volontà, che, come un’orda di sacerdoti impegnati in un rito sacrificale, danzano attorno a Bartleby in cerchi sempre più stretti, si condensano nel fuoco di quella volontà di sapere di cui ci ha parlato Michel Foucault nelle sue ultime ricerche: «Almeno a partire dal Medio Evo, le società occidentali hanno posto la confessione fra i riti più importanti da cui si attende la produzione della verità»31. Prosegue Foucault: L’obbligo della confessione ci è ora rinviato a partire da tanti punti diversi, è ormai così profondamente incorporato in noi che non lo percepiamo più come l’effetto di un potere che ci costringe; ci sembra al contrario che la verità, nel più segreto di noi stessi, non “chieda” che di farsi luce; che se non vi accede è perché una costrizione la trattiene, perché la violenza di un potere pesa su di essa e non potrà articolarsi alla fine che al prezzo di qualcosa come una liberazione. La confessione rende liberi, il potere riduce al silenzio; la verità non appartiene all’ordine del potere, ma è in una parentela originaria con la libertà: altrettanti temi tradizionali della filosofia che una “storia politica della verità” dovrebbe capovolgere, mostrando che la verità non è libera per natura, né l’errore servo, ma che la sua produzione è interamente attraversata dai rapporti di potere. La confessione ne è un esempio. Bisogna essere ben presi in trappola da quest’astuzia interna della confessione, per assegnare alla censura, al divieto di dire e di pensare, un ruolo fondamentale; bisogna farsi un’immagine capovolta del potere per credere che ci parlino di libertà tutte quelle voci che, da tanto tempo, nella nostra civiltà, ripetono senza fine la formidabile ingiunzione di dire ciò che siamo, quel che facciamo, quel che ricordiamo e quel che abbiamo dimenticato, quel che nascondiamo e quel che si nasconde, quello a cui non pensiamo e quel che pensiamo di non pensare.32

ontologie del segreto

del segreto

Bartleby, mediante l’iterato impiego della «formula», rifiuta di trasformarsi in quella bestia da confessione che Foucault paventava come esito finale della strategia di assoggettamento dell’individuo alle istituzioni totali, del potere e del sapere, proprie della modernità. Di quelle istituzioni che, ben prima delle legislazioni speciali invocate dalla cosiddetta “guerra al terrorismo”, continuamente ci ingiungono di identificarci, di declinare le nostre generalità, di farci riconoscere. Solo cent’anni fa, nei paesi occidentali democratici, il diritto all’anonimato, a non identificare se

19


del segreto 20

stessi, a non rispondere al pubblico ufficiale che pretendeva le nostre generalità, era ritenuto essenziale per il senso di libertà dell’individuo. Oggi, saliamo su un aereo e mostriamo un documento, entriamo in un edificio e ci facciamo identificare, persino quando si va allo stadio, per vedere una partita di calcio, ti viene richiesta la carta d’identità. In nome di una presunta sicurezza, che si presta a continue progressive restrizioni - perché ci si può sempre sentire più minacciati e, quindi, avere più bisogno di sicurezza -, quasi nessuno, ormai, è pronto a rivendicare come realistico il diritto a non essere identificati in determinate circostanze. Per Derrida, il «preferirei di no» di Bartleby configura «un rapporto con l’altro in cui io non dico né sì né no, dico che “voglio avere la libertà non già di ribellarmi, di rivoltarmi o di rifiutare, ma di non rispondere, firmando enunciati che non dicono né sì né no, un né sì né no che non è semplicemente una doppia negazione o una dialettica. I would prefer not to”»33. Ecco allora che il segreto incondizionato, di cui Bartleby, sulla soglia della contemporaneità, appare il silente e umile profeta, si configura come il cardine di una democrazia antisacrificale che, pur basata sulla responsabilità del soggetto, cioè sul suo dovere di rispondere, contempli necessariamente anche il diritto alla non risposta, ossia il diritto al segreto. Per essere più chiari, solo se c’è segreto, solo se il segreto è garantito nella sua assolutezza e nella sua inesplicabilità, è possibile quello spazio di resistenza da cui il potere può essere criticato e può essere chiamato a rendere conto anche e soprattutto dei suoi segreti (dal momento che i segreti del potere non sono mai segreti incondizionati, perché riguardano tutti). Il segreto condizionato è il segreto del potere e per il potere, il segreto incondizionato è il segreto contro il potere. Perché il potere ha bisogno della (nostra) trasparenza per rendere efficaci i suoi segreti e non c’è velo migliore, per coprire il segreto del potere, di quello fornitogli dal mito della trasparenza assoluta, a cui tutti, indistintamente, devono credere. Insomma, c’è critica, c’è dissenso, solo se c’è il (nostro) segreto. Infatti, non sempre il sapere salva e redime. Anzi, dopo Nietzsche, Freud e Foucault - e dopo la jüngeriana mobilitazione totale dei regimi del XX secolo34 - molto spesso la rivendicazione del sapere e del diritto di sapere serve solo a costringere, a controllare, a uniformare. Se leggiamo attentamente il testo di Melville, Bartleby non

tagliapietra


ontologie del segreto

del segreto

appare come un insensato signornò che, nel tempio dell’utilitarismo borghese del XIX secolo, quella Wall Street in cui è ambientato il racconto, verrebbe facilmente e immediatamente messo alla porta dal suo datore di lavoro. Bartleby, che la citazione biblica finale paragona a Giobbe35, il giusto messo alla prova, lavora, scrive, copia. Insomma, svolge la sua funzione di segretario, ma solo finché tutte queste mansioni gli sono proprie e appartengono al campo sovrano della sua preferenza. Quando divengono espressioni impersonali di quella sfera del Man36, del si fa e del si dice, del si vive e del si muore, che Heidegger esemplificava come emblematica dell’inautenticità della vita quotidiana massificata (dove tutti agiscono come agiscono gli altri), Bartleby preferisce di no. Del resto, la solitudine non è che l’altro nome del segreto. Bartleby non nega di fare, di scrivere, di rispondere, ma rifiuta di fare, di scrivere, di rispondere così come si fa, si scrive, si risponde. La sua preferenza è cifra di un’autenticità che la trasparente complessità del mondo, con la sua sovrabbondanza di informazioni, con la sua intensificazione e saturazione di segni, respinge al bordo, ai margini, in un’ascetica solitaria del senso che, inversamente al cammino del sapere - che è tale perché si vuol sapere sempre di più -, smaschera il non senso del senso. Il segno meno (-) che, come la sua barretta orizzontale, appare inscritto nel cuore del più (+). Dimenticare, indebolirsi, sapere di meno, essere di meno, declinare, spegnersi: la parabola della vita di Bartleby, come la vita di tutti noi, è scandita da questa crudele entropia della forza, che va verso la vecchiaia, l’esaurimento e la morte. Ma il modello accrescitivo dello sviluppo infinito della tecnica - e del capitalismo che la supporta - umilia in continuazione la nostra debolezza, scandagliando e sondando i nostri corpi con l’accanimento degli esami clinici della medicina, pretendendo l’aumento della nostra efficienza in pratiche lavorative sempre più flessibili, misurando le nostre carenze e i nostri errori sul modello della prestazione perfetta di macchine ogni volta più potenti. Solo che, a differenza di tutti noi, Bartleby «preferisce di no», stende sul crepuscolo della sua vita e sul deperimento del suo esangue fisico ossuto, sull’oscuro disagio della sua possibile malattia mentale (anche quest’ultima esegesi dell’inconfessabile segreto dello scrivano è stata più volte tentata), il pudore del segreto. Il segreto di Bartleby, il suo «preferirei di no», genera una parola il cui movente, la cui struttura e

21


del segreto 22

la cui destinazione includono il segreto. Come suggerisce Gianfranco Dalmasso, «il soggetto, nel rapportarsi all’origine della parola che è l’origine segreta della sua costituzione, si rapporta a se stesso. Il soggetto è segreto a se stesso. Questa sorta di riconduzione abissale dell’origine del soggetto parlante rispetto a se stesso riguarda un porsi irriducibile in prima persona che è imparentata con la natura stessa del segreto»37. Il soggetto, segreto a se stesso, rifiuta di dissolversi nelle molteplici spiegazioni di un sapere universale che, cancellando la sua unicità, lo renderebbe infinitamente disponibile al potere. Bartleby ci libera dalla volontà di sapere, respinge l’ideale agghiacciante di un mondo assolutamente trasparente, in cui ogni segreto sia condizionato, con tutte le implicazioni ontologiche del caso - la presentificazione, l’imperialismo del senso sulle zone d’ombra del non senso, l’assorbimento della libertà nella necessità - che si riflettono direttamente nelle sue violente conseguenze politiche. «Ho il gusto del segreto - confessava Derrida - ho un moto di timore o terrore davanti a uno spazio politico, per esempio, a uno spazio pubblico, che non dia spazio al segreto. Per me, esigere che si metta tutto in piazza e che non ci sia foro interno è già il farsi tota­li­taria della democrazia. Posso trasformare quanto ho detto in etica politica: se non si mantiene il diritto al segreto si en­tra in uno spazio totalita­rio»38. Lo spazio totalitario senza segreti non è soltanto quello in cui veniamo obbligati a dire tutto dall’incalzare della domanda, ma è anche quello in cui non v’è più alcuna curiosità per l’eventualità della risposta. Anzi, in cui tutte le risposte si somigliano, in cui tutti i dialoghi approdano alla generalità del consenso, in cui tutte le opinioni, magicamente riconciliate, cullano il sonno tranquillo della pubblica opinione. In quella torpida intesa per cui, come sempre si dice di fronte al pericolo e alla minaccia della nostra sicurezza, “bisogna restare uniti”, ovvero bisogna essere preliminarmente tutti d’accordo. La fine del segreto sarebbe, allora, l’inizio dell’indifferenza. E se la garanzia suprema della comunicazione, di ogni comunicazione autentica, invece di quell’illimitata disponibilità al dialogo come luogo di ricomposizione delle differenze che l’ermeneutica contemporanea esorta - e su cui si modella la stessa politica del dialogo delle attuali democrazie -, non fosse proprio il conflitto, «l’interruzione, la rottura del rapporto, un certo rapporto d’interruzione, la sospensione di ogni mediazio-

tagliapietra


ne»39, vale a dire quella differenza irriducibile, quel disaccordo incomponibile, quell’alterità inappropriabile che il segreto incondizionato implica? Come scrive Philip Roth, mettendo in scena, in La macchia umana, una delle più grandiose apologie del segreto della letteratura contemporanea, «Ho bevuto l’elisir del segreto, ed è come parlare fluentemente un’altra lingua: è trovarsi in un altrove che ti riesce costantemente nuovo»40.

note

ontologie del segreto

del segreto

1 G. Simmel, Das Geheimnis und die geheime Gesellschaft (1906), poi in id., Soziologie, Verlag von Duncker & Humbolt, Leipzig 1908; tr. it. Il segreto e la società segreta, SugarCo Edizioni, Varese 1992, p. 35. 2 Pierre Boutang, nelle pagine della sua Ontologie du secret (1973), abbozzava una sorta di categorizzazione del segreto: per Qualità: tacere, dire, comunicare; per Quantità: mantenere, divulgare, trasmettere; per Relazione: osservare, tradire, confidare; per Modalità: aderenza, conformità al modello, salvezza o perdita (cfr. P. Boutang, Ontologie du secret, PUF, Paris 1988, p. 145). 3 Duden. Etymologie. Herkunftswörterbuch der deutschen Sprache, a cura di G. Drosdowski, P. Grebe, (vol. 7 del Duden in 10 Bänden), Bibliographisches Institut, Dudenverlag, Mannheim/Wien/Zürich 1963, pp. 204 (geheim) e 257-258 (Heim). 4 E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, in 2 voll., Éditions de Minuit, Paris 1969; tr. it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, in 2 voll., Einaudi, Torino 1976, vol. I, p. 173. 5 B. Gracián, Oráculo manual y arte de prudencia (1647); tr. it. Oracolo manuale e arte di prudenza, a cura di A. Gasparetti, TEA, Milano 1997, (Non spartire mai un segreto con chi è più potente, n. 237), pp. 141-142. 6 E. Canetti, Masse und Macht, Classen Verlag, Hamburg 1960; tr. it. Massa e potere, a cura di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981, pp. 350 e 353. 7 Sul concetto di “ragion di Stato”, teorizzato a partire dalle opere di Giovanni Botero, Della ragion di Stato (1589) e di Giusto Lipsio, Politicorum, sive civilis doctrinae libri sex (1589), oltre al classico G. Ferrari, Histoire de la raison d’État, Levy, Paris 1860 (rist.: Kime, Paris 1992), cfr. fra l’altro: M. Senellart, Machiavélisme et raison d’État, PUF, Paris 1989; C. Lazzeri - D. Reynié (a cura di), Le Pouvoir de la raison d’État et la Raison d’État: politique et rationalité, PUF, Paris 1992; M. Viroli, From Politics to Reason of State, Cambridge University Press, New York-London 1992 e Y. C. Zarka (a cura di), La Raison et déraison d’État, PUF, Paris 1994. 8 M. Senellart, Noble mensonge et prudence politique, in Ch. Baron - C. Doroszczuk (a cura di), La sincérité. L’insolence du cœur, Éditions Autrement,

23


del segreto 24

Paris 1995, pp. 54-72, p. 54. 9 M. Senellart, Noble mensonge et prudence politique, in Ch. Baron - C. Doroszczuk (a cura di), La sincérité. L’insolence du cœur, cit., pp. 54-72, p. 72. 10 T. Accetto, Della dissimulazione onesta, (I ed.: Egidio Longo, Napoli 1641), a cura di S. S. Nigro, Einaudi, Torino 1997. Sulla dissimulazione vedi R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Laterza, Roma-Bari 1987. 11 Breviarium Politicorum secundum Rubricas Mazarinicas, Ioannis Selliba, Colonia 1684 (tr. it.: Epilogo de’ Dogmi Politici secondo i dettami rimastine dal Cardinal Mazzarino, dal latino nell’Italiano idioma ultimamente trasportati, Ioannis Selliba, Colonia [Napoli] 1698), ora in Breviario dei Politici secondo il Cardinal Mazzarino, con un saggio di G. Macchia, Rizzoli, Milano 2000, p. 9. 12 A. J. Greimas – J. Courtès, Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du language, Hachette, Paris 1979; A. J. Greimas, Du sens 2: essais semiotiques, Editions du Seuil, Paris 1983; tr. it., Del senso 2, Bompiani, Milano 1998. 13 Sulla menzogna mi permetto di rinviare a A. Tagliapietra, Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale, Bruno Mondadori, Milano 2001. 14 M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), Max Niemayer Verlag, Tübingen 2001; tr. it. Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1969. 15 J. Derrida, Passions, Éditions Galilée, Paris 1993; tr. it. Il segreto del nome, Jaca Book, Milano 1997, pp. 119-120. 16 J. Derrida, Il segreto del nome, cit., p. 121. 17 Cfr. G. Scholem, Der Name Gottes und die Sprachtheorie der Kabbalah, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1970; tr. it. Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, a cura di A. Fabris, Adelphi, Milano 1998. «L’intero può essere tramandato solo in maniera occulta. Il Nome di Dio può essere richiamato, ma non pronunciato. Poiché solo ciò che vi è, in essa, di frammentario fa sì che la lingua possa essere parlata. Non si può parlare la “vera” lingua, così come non si può compiere un atto assolutamente concreto» (G. Scholem, Dieci tesi astoriche sulla Kabbalah (1938), tesi n. 9, in id., Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, cit., p. 101). 18 Cfr., per la genealogia dell’apofatismo dall’originario lessico platonico, E. Des Places, Etudes platoniciennes, 1929-1979, E. J. Brill, Leiden 1981. Sulla teologia negativa vedi, fra l’altro, D. Carabine, The unknown God: negative theology in the platonic tradition: Plato to Eriugena, Peeters Press, Louvain 1995 e O. Davies - D. Turner (a cura di), Silence and the Word: negative theology and incarnation, Cambridge University Press, Cambridge 2002. 19 «Il selvaggio non sa distinguere chiaramente tra le parole e le cose e crede, quindi, comunemente che la relazione tra il nome e la persona o la cosa denominata non sia un’associazione puramente arbitraria e ideale, ma un legame reale e sostanziale che li unisce in tal modo che la magia può agire sull’uomo per mezzo del suo nome con la stessa facilità con cui agisce per mezzo dei suoi capelli, delle unghie o altra parte materiale della sua persona. Infatti, l’uomo primitivo considera il suo nome come una parte vitale di se stesso, e ne ha una cura proporzionata» (J. G. Frazer, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, (editio minor), Macmillan and Co. Ldt., London 1922; tr. it. Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, in 2 voll., a cura di L. De Bosis, intr. G. Cocchiara,

tagliapietra


ontologie del segreto

del segreto

Boringhieri, Torino 1981, vol. I, p. 381). 20 «Ogni uomo, donna o bambino, possiede, oltre un nome personale che è d’uso comune, un nome sacro e segreto, che gli è stato imposto dagli anziani poco dopo la nascita e che è conosciuto solo dai membri del gruppo completamente iniziati. Questo nome segreto non viene pronunciato che in occasioni solenni: dirlo in presenza di uomini e donne d’un altro gruppo sarebbe una grave mancanza agli usi della tribù, equivalente al più grave sacrilegio tra noi. Quando vien pronunciato, è sempre sottovoce e dopo aver preso le più minute precauzioni perché non sia udito da chi non è membro del gruppo. “L’indigeno crede che uno straniero, conoscendo il suo nome segreto, avrebbe uno speciale potere per fargli del danno per mezzo della magia”» (J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, cit., vol. I, p. 382). Anche nell’antica Grecia i nomi segreti dei sacerdoti dei misteri eleusini, incisi su tavole di bronzo o di piombo, venivano gettati nelle profonde acque del Golfo di Salamina. 21 J. G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, cit., vol. I, p. 383. 22 Per il senso originario di questa negatività, che non si traduce né come una semplice riproposizione oppositiva del positivo, né tantomeno come pura esclusione, rinvio a M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004. 23 J. Derrida, Il segreto del nome, cit., p. 118. 24 H. Melville, Bartleby the scrivener (1853); tr. it. Bartleby lo scrivano, a cura di G. Celati, Feltrinelli, Milano 1991. 25 G. Deleuze, Bartleby ou la formule, Flammarion, Paris 1989; tr. it. Bartleby o la formula, in G. Deleuze - G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993 (successivamente in id., Critica e clinica, a cura di A. Panaro, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996). 26 «Si osserva prima di tutto un certo manierismo, una certa solennità: prefer è usato raramente in questo senso, e né il principale di Bartleby, l’avvocato, né gli impiegati dello studio se ne servono abitualmente (“una strana parola; per quanto mi riguarda non la uso mai…”). La formula ordinaria sarebbe piuttosto I’d rather not. Ma soprattutto, la stravaganza della formula va al di là della parola stessa: certo, è grammaticalmente corretta, sintatticamente corretta, ma la sua brusca conclusione, NOT TO, che lascia indeterminato ciò che rifiuta, le conferisce un carattere radicale, una specie di funzione-limite. La sua ripresa e la sua insistenza la rendono complessivamente ancor più insolita» (G. Deleuze, Critica e clinica, cit., p. 93). 27 Sul “dir di no” in relazione all’esegesi del racconto di Melville si vedano le magnifiche pagine scritte da I. Valent, Dire di no. Filosofia Linguaggio Follia, Teda Edizioni, Castrovillari (CS) 1995. 28 G. Agamben, in G. Deleuze - G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, cit., p. 60. 29 «Fu scrivano, il più stravagante di quanti abbia mai veduto, o di cui abbia avuto notizia. Laddove, di altri scrivani, potrei scrivere l’intera vita, nulla del genere è possibile nel caso di Bartleby. Ritengo non esistano documenti per una completa e soddisfacente biografia di quest’uomo. Il che, per le lettere, è senz’altro un danno irreparabile. Era Bartleby uno di quegli esseri, dei quali nulla è possibile accertare, salvo ricorrere a fonti originali, che in tal caso, sono molto scarse.

25


del segreto 26

Quanto i miei occhi attoniti videro di Bartleby, questo è tutto ciò che so di lui, oltre, in effetti, ad una vaga notizia che verrà riferita in seguito» (H. Melville, Bartleby lo scrivano, cit., p. 1). 30 «Bartleby sarebbe stato un impiegato subalterno in un ufficio di lettere smarrite, a Washington, dal quale sarebbe stato d’un tratto dismesso a motivo di un cambiamento nell’amministrazione. […] Lettere smarrite, lettere morte! Non si direbbe che tutto ciò parli di uomini morti? Pensate ad un uomo che, per natura o per sventura, sia propenso al pallido pensiero dell’irreparabile; potrebbe un’altra occupazione essere più adatta ad acuire quel pensiero, più del maneggiare queste lettere smarrite, e accatastarle per darle alle fiamme? Giacché, ogni anno, cataste se ne bruciano, di simili lettere. Dalle pieghe di un foglio a volte il pallido estrae un anello, e il dito cui era destinato forse già imputridisce nella tomba; estrae una banconota inviata con la più sollecita carità, e chi avrebbe dovuto soccorrere più non mangia né soffre; un perdono per chi morì disperando; una speranza per chi morì senza speme; buone nuove per chi fu annientato da perpetue sventure. Inviate per occorrenze della vita, queste lettere urgono alla morte. Ah, Bartleby! ah, umanità!» (H. Melville, Bartleby lo scrivano, cit., pp. 47-48). 31 M. Foucault, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976; tr. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, p. 54. 32 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 55-56. 33 J. Derrida - M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 24. 34 «La Mobilitazione Totale non è una misura da eseguire, ma qualcosa che si compie da sé, essa è, in guerra come in pace, l’espressione della legge misteriosa e inesorabile a cui ci consegna l’età delle masse e delle macchine» (E. Jünger, Blätter und Steine (1934), Klett-Cotta Verlag, Stuttgart 1978; tr. it. Foglie e pietre, Adelphi, Milano 1997: La mobilitazione totale, pp. 113-135, p. 121). 35 La citazione è pronunciata dal datore di lavoro di Bartleby alla scoperta della sua morte: «“Dorme con i re e i consiglieri della terra”, mormorai» (H. Melville, Bartleby lo scrivano, cit., p. 47). Il testo integrale del passo, dal libro biblico di Giobbe, è: «Perché non sono morto fin dal grembo materno, perito appena uscito dal ventre?… Invero adesso giacerei tranquillo, fin da allora dormirei e godrei il riposo, con i re ed i consiglieri della terra, che usano costruire in luoghi devastati» (Gb. 3,14). 36 «Non è questo o quello, non è se stesso, non è qualcuno e non è la somma di tutti. Il ‘Chi’ è il neutro, il Si (Man)» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., § 27, p. 217). Per l’analisi del tema dell’autenticità e dell’inautenticità mi permetto di rinviare agli ultimi due capitoli di A. Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Einaudi, Torino 2003. 37 G. Dalmasso, Dare il nome, in J. Derrida, Il segreto del nome, cit., pp. 7-36, p. 18. 38 J. Derrida - M. Ferraris, Il gusto del segreto, cit., pp. 52-53. 39 J. Derrida, Buone volontà di potenza (risposta a Hans-Georg Gadamer), intervento nell’ambito di un incontro tra Gadamer e Derrida organizzato dal Goethe Institut di Parigi, aprile 1981, tr. it., “Aut-Aut”, n. 217-218, 1987, p. 60. 40 P. Roth, The Human Stain (2000); tr. it. La macchia umana, a cura di V. Mantovani, Einaudi, Torino 2003, p. 148.


franco la cecla un dispositivo di verità

Dopo anni passati a esaminare la comunicazione e le sue strategie, oggi le scienze umane si rivolgono con curiosità verso ambiti diversi: i domini del silenzio, della riservatezza, i domini del segreto. Non solo le discipline della comunicazione, serve per molti anni di una visione efficientistica, hanno ignorato il fondo oscuro e prezioso degli scambi umani, ma la psicologia e la psicanalisi, la sociologia e l’antropologia. Queste discipline si stanno arricchendo di una visione più problematica e nell’insieme più utile anche alle applicazioni pratiche. Lo stesso modello psicanalitico ce lo insegna. Il rapporto tra coscienza e subconscio non è un rapporto trasparente. Il subconscio “cela” buona parte di sé e guai se non lo facesse, sparirebbe dalla costituzione psichica di ciascuno la capacità di rinnovarsi. Il sogno, gli istinti, le passioni, le emozioni sono costellazioni che sfuggono anche a noi stessi e che ci raccontano di quanto non sappiamo e non sapremo mai fino in fondo. La linguistica ci dà oggi un appoggio rinnovato in questo senso. Il non-detto ha più peso del detto e una lingua, nel suo insieme, si basa più su convenzioni del silenzio che su convenzioni del detto. Il silenzio non è il negativo della parola, ma è la riga di sostegno su cui esso si appoggia, come in musica non corrisponde a una pausa, ma alla condizione per l’ascolto del suono. Se si passa ad altre discipline il quadro è molto mobile. Oggi la sociologia non crede più che per capire come pensa la gente basti intervistarla. Non ci credono neppure coloro che si occupano di sondaggi e di exit poll, né i guru della comunicazione televisiva. Se si dice che la tv per fare audience deve suscitare i bassi istinti della gente non è un caso. La comunicazione televisiva funziona su una idea della fruizione distratta che molto somiglia al flusso di coscienza di un ubriaco o di un drogato, a un flusso cioè che ha poca capacità di gestione di ciò che produce. La comunicazione occulta è da sempre una strategia pubblicitaria e si può interpretare buona parte della pubblicità di oggi come la produzione di opacità rispetto al prodotto. Il prodotto scompare dietro al logo, alle allusioni di status,

del segreto 27


di distinzione, agli scenari di vita. Un formaggino è tutto fuorché un formaggino. Come si vede, anche qui il segreto fa la sua scomoda comparsa. Per questo motivo, visto che esso è così presente in strategie che giurano di servirsi della “chiarezza” della comunicazione, è importante capire come invece oggi sia usato e interpretato e quali siano gli ambiti sociali e antropologici della sua produzione. Infine anche la storia come disciplina sta scoprendo il funzionamento del segreto come dispositivo che si pone tra memoria e oblio collettivo, e che rivela la visione che ciascuna società ha della propria storia: ci sono segreti che costituiscono la base su cui una storia locale o nazionale viene raccontata. Non solo la microstoria è imbastita di segreti, ma lo è la storia ufficiale, che non solo cela, ma produce segreti allo scopo di rafforzare il proprio credito. Quanto ammirabile diviene allora il lavoro di uno storico se deve assomigliare allo scavare di un avventuroso archeologo! Spesso questa ideologia nasconde una verità più profonda: che la storia è l’invenzione di una grande strategia del complotto rivolta al passato, visione che è offensiva rispetto alla meravigliosa casualità con cui la storia umana si muove.

del segreto

Per concludere l’antropologia filosofica e la filosofia sono le discipline che per eccellenza dovrebbero trattare del segreto, domandandosi quale originarietà in esso si esprime. In una chiave di rinnovata fenomenologia la cifra del mondo e la cifra dell’essere sono fondamenti della intraducibilità, della pretestuosità di una epistemologia esplicativa. Quel che il mondo e l’essere ci vogliono dire è che il comprendere non corrisponde al raccontare. La narrazione dell’essere e del mondo bastano a se stesse come storie e non hanno bisogno delle critiche dei lettori.

28

Sotto questo tessuto di discipline si estende l’intelligenza della grande letteratura. La letteratura è un riflesso brillante di questo stato di cose, il ricordo che, nello stesso modo del mito, c’è un segreto che può essere solo raccontato, ma che non pretende rivelazione. Come hanno abilmente intuito Francesco Orlando e Franco Moretti, la geografia della narrazione è fatta di rovine, resti, indizi, luoghi sparsi del mondo e della sua geografia.

la cecla


I ragionamenti che seguono sono però una traccia di percorso che parte da un approccio essenzialmente antropologico. L’idea di chi scrive è che l’antropologia è utile alle altre scienze umane se è capace di offrire loro un paradigma che le è proprio e cioè la capacità comparativa: ad esempio come nella nostra società, a differenza di altre, il segreto venga apparentemente marginalizzato come procedura illegittima di verità, per essere invece poi recuperato in tutti gli ambiti funzionali. Come se si riconoscesse al segreto una malizia che “serve” agli scopi, ad esempio del marketing, ma che inficerebbe ogni possibile ermeneutica. Nulla ha più a che fare con la comunicazione come il segreto. Proprio perché il segreto è la negazione della comunicazione, ne costituisce il grado zero e quindi il momento in cui questa si apre alla ricchezza dei significati. Il segreto riprende il non detto, il non dicibile, ciò che la comunicazione ha dovuto mettere da parte per esigenze di chiarezza o per esigenze di cortesia. Nella vita quotidiana comunicare significa dis-ambiguare, levare all’opacità del linguaggio la pluri-semanticità, le trappole delle allusioni e delle connotazioni, gli abissi del malinteso. Il segreto però non è soltanto un non detto, un vuoto a cui la comunicazione si contrappone come pieno. Esso in realtà riposa in una dimensione diversa, non sta nel dominio della comunicazione, ma nel dominio del mondo; è pari alle montagne, ai laghi, agli stretti di mare, pari a un volto, all’erba, all’immondizia, al corpo e alle sue sostanze. È contenuto puro senza il problema di esprimersi. Come per il mondo, nel segreto significato e significante si corrispondono, non c’è nessun problema di traduzione (o meglio c’è il massimo dei problemi, l’intraducibilità). Un dispositivo di verità

un dispositivo di verità

del segreto

Il segreto però non è solo un contenuto nascosto, un non detto, ma è anche un dispositivo di verità. Nascondere qualcosa, velarla, significa preparare un dominio che di fronte al detto parla più forte, dice senza pericoli di esaurimento. Come dice Walter Benjamin, il segreto è un modo di rendere efficace il dis-velamento. Solo una cosa nascosta può essere svelata e il disvelamento aumenta la potenza del dato rivelato.

29


del segreto 30

Michael Taussig, un antropologo americano che insegna alla Columbia University e che per anni ha lavorato in Colombia sul terrore, il feticismo, la droga, ha applicato le categorie di Benjamin alla vicenda del subcomandante Marcos in Messico. A un certo punto il governo messicano ha pensato di avere scoperto la vera identità nascosta sotto il cappuccio del subcomandante Marcos. Sotto quella maschera, dietro quella pipa c’era un volto. La televisione messicana l’ha mostrato. Il governo pensava che avendo smascherato il segreto, la carica carismatica del subcomandante sarebbe finita. E invece non è successo, non è cambiato nulla. Il volto del comandante Marcos aveva poca importanza. La carica simbolica del subcomandante era la maschera, il nascondimento, il suo appartenere all’anonimità di un volto coperto, il suo poter essere chiunque. Il cappuccio non mascherava un volto, in realtà ne costituiva l’identità. La maschera di Marcos si inscriveva nella tradizione degli uomini mascherati che in Messico sono passati dall’essere eroi del ring della lotta libera, con nomi strappati ai fumetti, Superman, Supereoe, Diablo, a essere leader politici di movimenti di piazza. La cosa è nata negli anni ’70 nelle bidonville intorno a Ciudad do Mexico. La maschera come bandiera, come simbolo di una iconicità che non accetta rimandi a una individualità. L’anonimità diventa identità, si rafforza proprio negando la singolarità. In questo caso il segreto non nasconde più niente, o meglio nasconde un vuoto voluto. Come l’interno di alcuni templi che contengono l’assenza. Recinti, mura, dove il santo dei santi è inaccessibile perché non contiene se non il segreto di non contenere nulla. Il caso della maschera politica spiega la qualità del segreto come dispositivo. Non si copre una informazione o un contenuto, ma piuttosto si crea un’“aura” intorno a un nascondimento. Il segreto qui è un’azione, una pratica, un mettere in opera. Vedremo più avanti se questo dispositivo può funzionare con ogni tipo di contesti e di pratiche. Nel caso della maschera del subcomandante c’era già una carica semantica forte, un simbolo diffuso di una lotta per i diritti degli indios del Chiapas e una internazionalizzazione del simbolo. La carica era talmente forte da consentire lo svuotamento del contenuto. Come l’arca dell’alleanza per il popolo ebraico, quello che importa non è cosa c’era dentro, ma il fatto che quel dentro viene

la cecla


custodito e che il contenitore divulga le doti di una assenza (nel caso dell’arca dell’alleanza il vuoto, il segreto, simboleggia la diaspora, la caduta del tempio ebraico, la dispersione nel mondo – il cuore della dispersione non è dicibile, ma è un centro che accetta di essere continuamente rimandato: «il prossimo anno a Gerusalemme», è quello che gli ebrei in diaspora si sono detti per secoli). Il segreto crea la verità?

un dispositivo di verità

del segreto

A questo punto viene spontaneo domandarsi se in effetti il segreto non sia una fabbrica per la produzione della verità. L’effetto verità di cui parla Foucault qui si riempie di senso. Così come ogni epoca produce la sua verità e produce l’effetto verità, rende cioè valide procedure, sistemi di valori, interdizioni, coprendoli di un manto che li rende unicità credibile, nello stesso modo il segreto contribuisce alla veridicità di un assunto, per il solo fatto di ampliarne la carica con il nascondimento. È il modo con cui procedono sette, rituali, temi di grandi sistemi religiosi. Il segreto produce la credibilità di un sistema di fede. Il mistero diventa convincente. Anche qui però non è detto che l’operazione funzioni in assenza di “carica”. Un conto è che io dica: «in questa scatola ci sono cinquanta baci perugina, devi credermi!», un altro è che dichiari che «dietro questa vita che stiamo vivendo ce n’è un’altra, invisibile, che è la vita dell’anima». La prima dichiarazione non comporta alcuna conseguenza esistenziale, la seconda invece si offre come una garanzia di senso esistenziale. Allora si può dire che il segreto è certamente un dispositivo che produce verità, ma che non la inventa di sana pianta, piuttosto, scava nella realtà contenuti che sono già “segreti latenti”. Se io dico: «c’è vita dopo la morte, non te lo posso dimostrare, perché è un mistero», affermo che si tratta di un segreto, ma anche se io levassi il velo, la rivelazione non dipenderebbe da me, ma dal fatto che nessuno sa davvero cosa ci aspetta dopo la morte. Ci sono quindi dei segreti che non dipendono dall’atto di mantener segreto, ma dal fatto che alcune cose sono misteri, arcani, domini dell’indicibile (sono mondo, al pari delle montagne, sono «forme di vita», direbbe Wittgenstein). Abbiamo operato qui un salto di qualità. C’è una corrispondenza tra operazionalità del segreto e segreto come “mondo”, cioè l’in-

31


dicibile della realtà, la sua componente misteriosa e opaca. I segreti che “funzionano meglio” sono quelli dove questa corrispondenza viene rispettata. I sistemi religiosi fanno parte di questo “buon funzionamento”. Ovviamente ci sono anche altri effetti verità basati su imbrogli più palesi. Il segreto può fingere la verità, la può provocare, anche quando non c’è nessun mistero effettivo, ma solo un camuffamento. Se io dico che non posso rivelare la formula magica di un rimedio contro il cancro, l’effetto che provoco è un effetto placebo, può darsi che il rimedio funzioni per suggestione, ma perché ciò sia possibile è necessario che dall’altra parte ci sia una gran voglia di guarire a tutti i costi. La voglia di guarire aumenta il valore del segreto, ma a questo segreto corrisponde solo un potenziamento della fede e non la rivelazione del fatto che ci sono misteri davvero insolubili nella vita. Credere nel segreto?

del segreto

Roodney Needham nel suo libro sul “Belief” sul “credere” insiste sul carattere semantico del verbo credere e sulla sua plurisemanticità: “io credo”, può significare sia “mi pare” che “credo fermamente”. Lo stesso verbo esprime un atteggiamento dubitativo e una fede profonda. Probabilmente, e Needhan lo dice, è proprio questa ambiguità del credere che lo rende potente, che rende possibile la gamma della fede. Nel gioco del “credo perché è assurdo” c’è tutta la malizia verbale di chi sa che si sta giocando la debolezza umana come chiave dell’affidamento all’al di là. Credere – nel senso forte - significa affidarsi, avere fede, essere convinti di qualcosa che di per sé non è garantita se non dal mio sporgermi in avanti, dal mio “giocarmi” il tutto per tutto. Si crede certamente in un segreto, in qualcosa che rimane fino alla fine nascosta. Nel Vangelo si parla spesso di tesoro nascosto come metafora della fede. Nel credere si fa affidamento a una archeologia che postula che uno scrigno nascosto deve per forza contenere un bene supremo.

32

La fede contiene gli stessi elementi di rischio di un gioco al casinò. Affidarsi al tavolo da gioco e affidarsi alle carte presuppongono una fede nel nascosto e nella rivelazione futura di un bene. Lo sa perfettamente il Dostoevskij del Giocatore. Il giocatore, il

la cecla


gambler, è uno che è diventato parabola vivente della fede, del buttarsi “quia absurdum”. Appunto perché al gioco non corrisponde una sicurezza, ma solo la capacità di buttarsi senza domande. Anche qui però occorre dire che non tutti i giochi consentono la fede, o meglio non tutti i giochi sono giocabili in maniera credibile. Se il gioco è la metafora dell’assoluta serietà della vita, e della sua assoluta gratuità, cioè del fatto che le cose non vanno fatte perché servono, ma perché sono inutili, come lo è un gioco, è vero però che alcuni giochi valgono meglio di altri. Nel gioco di Dostoevskij c’è la sua esperienza di fucilazione sospesa, la precarietà del mestiere di scrittore, la precarietà della salute mentale. Egli può giocarsi la vita perché se l’è in qualche modo già giocata. La fede qui diventa un passaggio normale: proprio nel dubbio più assoluto, nel credere come dubbio, dove le sicurezze apparenti sono cadute e tutto si vela di incertezza, come nelle Memorie dal sottosuolo, allora il valore semantico forte del credere si carica di tutta la sua potenza. Il segreto è qui proprio il salto da un tipo all’altro di credere. Needham direbbe che l’affermazione “io credo” è un assurdo semantico in sé. Per questo preciso motivo “funziona”, trasformando un enunciato in una motivazione esistenziale.

Il segreto nella vita quotidiana Ma vediamo come funziona il segreto nella vita quotidiana e a

un dispositivo di verità

del segreto

Gli antropologi delle religioni hanno spesso letto la fede come qualcosa che concerne un approccio epistemologico particolare. La fede non sarebbe altro che un sistema di apprendimento basato su coerenze e rimandi interni. Una buona parte di queste letture ignora però l’efficacia delle fedi, il fatto che la gente è disposta a “giocarsi” la vita (e a giocarsi spesso quella degli altri) per fede. Non si tratta di una questione di semplice “conoscenza”, o di costruzione di una visione del mondo. In questioni di fede c’è di mezzo la vita e la morte. È questo che distingue il segreto come “nascondimento di un contenuto” dal segreto come efficacia simbolica, come “segreto agente”. Il segreto è proprio nella grande tradizione delle spy-stories un “agente segreto” che opera nella nostra vita e che permea di potenza i misteri che dovrebbe svelare.

33


del segreto 34

che serve. Il segreto ha una funzione aspettuale, cioè crea un futuro, crea delle aspettative, promette un disvelamento che cambierà le cose. Il terzo segreto di Fatima promette una verità sulla storia, in realtà costruisce per anni un’ipotesi di palingenesi o di catastrofe. Costruisce un futuro alle apparizioni di Fatima, le proietta come potere di profezia. In realtà nulla di ciò che viene rivelato è nuovo, rivela solo il già accaduto, così è successo per il primo e il secondo segreto di Fatima e anche per l’ultimo. Sempre il segreto si impossessa del tempo. Ti tengo sospeso fin quando il segreto non verrà rivelato. Il tempo prende un nuovo significato. È il luogo degli arcana, il luogo dei misteri ultimi, dell’escatologia che chiarirà definitivamente salvezza e dannazione, che dirà la storia, definitivamente. Il segreto convince il presente di non bastare a se stesso, ma di essere appeso a un avvento. Il rapporto tra profezia e segreto è difficile, perché al profeta viene rimproverato di tenere la masse all’oscuro, di minacciarle con presagi, ma poi in cosa consiste davvero il suo potere? Il profeta non è detentore del segreto, egli ne è solamente testimone: sa che ce n’è uno, non sa in cosa consista fino in fondo. Per lui esiste un’ermetica che non è diversa da quella di tutti. Il segreto non si scioglie di fronte a lui. Lui ne soffre però più di tutti e si mantiene fedele alla promessa che qualcosa, che una parusia, una epifania stravolgerà questo presente di apparenze. Il profeta è testimone di una realtà ultima che se vuole essere tale deve continuamente essere rimandata: guai ai profeti le cui profezie si avverano. Profeti di sventure e assicuratori condividono uno stesso destino. La loro forza viene annullata dal verificarsi delle promesse o delle minacce. Nemo profeta in patria: ci mancherebbe altro. Nulla più imbarazzante di trasformare la profezia in qualcosa di familiare. Con essa non si può vivere, essa è sempre straniera, come lo è il segreto che vive in uno spazio che è oltre il confine del domestico e del familiare. O vi si annida come il perturbante freudiano, qualcosa di talmente familiare che a un certo punto per un leggero scarto lascia vedere che vi eravate illusi e proprio lì c’è il baratro dell’estraneità. Nulla è più estraneo di un particolare minimo che tradisce la non somiglianza di qualcuno o di qualcosa al modello a cui ci sembrava corrispondesse fino a un momento prima. Le personalità nascoste si annidano in comportamenti con-

la cecla


formi, in vite quotidiane che sembra non lascino spazio all’ombra.

del segreto un dispositivo di veritĂ

35


Separare e fare tempo Il rapporto forte tra tempo e segreto rimanda al suo carattere verbale. Segreto è un participio passato di un verbo che non è “segregare”, ma una sua contrazione. “Secretum” in latino è “separato”: è più imparentato con il greco “temnos”, di tempio e di tagliare che con il “sacer” di sacrificio e di sacro. Quello che ci interessa qui è che il segreto è “un già”. Qualcosa che è stato già nascosto “fin dagli inizi del mondo”, o semplicemente qualcosa che ti nascondo da ieri. Il segreto, volgendo le spalle sdegnosamente al presente, come l’angelo di Benjamin, va verso il futuro a reculoni, e quindi non vede cosa accadrà, ma apre la strada al futuro, pur senza saperlo. I segretari e le segretarie dovrebbero avere questo ruolo in un ufficio, gente che allontana dalle scartoffie del presente, preparando l’ufficio per l’indomani, garantendo che i segreti contenuti nei cassetti vengano passati da un giorno all’altro senza essere intasati da tutto il presente. Il segreto produce tempo. Il tempo si basa su un segreto, che non solo è ciò che del passato è passato per sempre – l’arcano, l’archeologia, l’archè, l’origine – ma anche ciò che del futuro non è ancora. Nel “già e non ancora” il participio passato “segreto” trova un modo di scatenare tutta l’ambiguità del tempo che passa. Il segreto è un’ombra sul presente che dipende da un passato che verrà solo rivelato dal futuro. Così il segreto si impossessa di tutta la gamma dei tempi. Non a caso i misteri “ultimissimi” lo sono al pari dei misteri nascosti dalla fondazione del mondo. Archeologia ed Escatologia si corrispondono.

del segreto

Segreto e identità

36

Un’altra caratteristica del segreto è di essere essenziale all’identità. La costruzione dell’identità individuale e collettiva si dà per esclusione degli altri accanto e per inclusione di una parte e solo una parte dei circostanti. Si diventa quello spazio che rimane quando ci si nega al resto. Il dibattito antropologico contemporaneo sta riscoprendo il segreto come base, ad esempio, delle identità di genere. Non si dà

la cecla


identità sessuale, maschile o femminile, se non nello sfuggire alla vista e al contatto con una parte della società. Nelle società primitive riti di iniziazione sottolineano la natura segreta dell’identità. Non dirai a nessuno che riti hai dovuto sopportare per passare dalla pubertà all’età adulta. Non lo dirai a quelli che non hanno ancora compiuto il passaggio. Non lo dirai al sesso opposto. Non lo dirai allo straniero.

un dispositivo di verità

del segreto

Gilbert Herdt, un antropologo che ha lavorato per anni sulle società maschili nei villaggi della Nuova Guinea ha recentemente pubblicato un’opera riassuntiva del suo lavoro in cui esamina il peso delle cerimonie segrete nella costituzione della identità maschile (Herdt 2003). I giovani maschi, sottratti a sette anni alle loro madri, passano un lunghissimo periodo nella capanna degli uomini dove verranno preparati a quello che li aspetta nella vita. Si dovranno caricare, tramite pratiche sessuali orali nei confronti degli adulti, di sperma che servirà loro a fronteggiare il potere estenuante delle donne. Queste pratiche dovranno restare assolutamente segrete. Il segreto costituisce il gruppo e l’individuo in esso. Non esiste identità maschile se non come complicità di un segreto. La stessa cosa avviene in Nuova Guinea e in molte altre società per la parte femminile. Le donne sono il luogo di un segreto che gli uomini vorrebbero rubare e che, anzi, fanno di tutto per rubare. Gli uomini imiteranno le mestruazioni, il parto, le doglie. Le donne dal canto loro elaboreranno precise strategie di evitazione e di distrazione. Il segreto va tenuto bene al riparo. Nella polarizzazione dei sessi alla base di gran parte delle società, estremizzare le differenze equivale a creare tra i due poli un terreno minato, zone opache e non percorribili dagli estranei. La stessa cosa avviene in molte società mediterranee, dove il farsi uomo o il farsi donna è una pratica orizzontale che si apprende in gruppi separati. Gli uomini in piazza, le donne in cortile, gli uomini in barca, le donne al paese. Discorsi, gesti, posture, valori vengono elaborati da gruppi di uomini che si definiscono in base al non essere “donne” e la stessa cosa avviene dall’altra parte, una identità che si basa sul negare il proprio spazio a quelli che sono dall’altra parte, gli uomini. Al lavatoio, tra comari, tra amiche, nel “gossip”, nel pettegolezzo e nel barvardage, nelle strategie matrimoniali le donne si rifanno della prepotenza maschile sottraendo agli uomini tutto ciò che gli uomini non riescono a essere.

37


Herdt dice che questa idea della identità non è facilmente accettabile dalle nostre società, abituate a pensare al segreto come a qualcosa delle società segrete e quindi come una realtà spiccatamente antidemocratica e antiegualitaria. Eppure è così che si costituiscono buona parte delle identità, non solo quelle maschili e femminili, ma più in generale le identità di un gruppo, di una tribù, di un villaggio o di un paese. Quelli del paese vicino non devono sapere quello che ci diciamo. I nostri usi, il nostro dialetto, il nostro comportamento deve essere talmente differente e scostante da impedire che altri si possano sentire simili a noi.

del segreto

Cosa è una società senza segreti?

38

Viene da pensare che non solo il segreto ha una funzione temporale, quella di organizzare il presente rispetto a cose che verranno rivelate; esso ha anche una funzione spaziale. Divide, separa e costituisce differenti domini. Anche in società democratiche che non riconoscono l’aspetto etnico come fondante la dialettica delle differenze. Anche in società molto integrate, dove la multiculturalità non ha ancora colpito come emergenza, ebbene anche in esse la società si costituisce per spazi separati, generazionali, di classe, di funzioni. L’infanzia ha segreti per la pubertà, e l’adolescenza è un periodo in cui si prepara la differenza delle generazioni di giovani da quelle degli adulti. Spesso le società si ammalano quando eliminano il segreto tra una generazione e l’altra. Nelle società tradizionali questo è un passaggio rituale che richiede un’iniziazione. Ogni rito di passaggio serve a cancellare la memoria del passato, a mantenerlo per sempre segreto e a creare le condizioni di una nuova appartenenza. Come se alla base del funzionamento di una società ci fosse un principio dosato di Babele. Non solo la società continua a polarizzarsi su differenze sessuali (nonostante una ideologia che proclama il contrario), ma essa si frammenta e coagula intorno a differenze linguistiche, comportamentali, funzionali il cui centro è frequentabile solo agli “addetti”. La logica della appartenenza è una logica del segreto, voluto o non voluto non importa. Non saprai cosa davvero mi costituisce come pisano o come nato nel quartiere di Ballarò a Palermo se non ci avrai vissuto anche tu. L’abitare un posto è creare una dimestichezza che diventa identità diversa da quella di chi abita accanto. C’è una “politica dell’espe-

la cecla


rienza” che fa sì che l’esperienza stessa costituisca l’ego come un luogo di segreti. L’infanzia, i ricordi, i gusti, le tecniche del corpo diventano parte di me, distinguendomi da chiunque altro. L’identità, nel senso di Wladimir Jankelevitch nel suo Je ne se quoi et presque rien, è un segreto, e questo è anche il senso di un di-scorso sui diritti umani. L’individuo ha una inviolabilità che è il suo nucleo segreto che qualunque sistema di ascolto e di spionaggio deve rispettare, pena il crollo di una intera società. Quando parliamo di diritto allo sviluppo della personalità parliamo di un diritto di essere “a parte”. Jankelevitch parlava del gap insondabile che divide gli esseri umani, gli amici, perfino gli amanti. Più vicini si è e più si apre il baratro del segreto ultimo, del “non potrai mai” essere dove sono io. Segreto e memoria

un dispositivo di verità

del segreto

Sai mantenere un segreto? La maniera migliore è dimenticarlo, seppellirlo nella memoria. È questo il modo di agire delle società tradizionali. I riti di passaggio servono a obbligare alla dimenticanza. A somiglianza di quello che avviene nella vita di ciascuno di noi, quando ci dimentichiamo i primi nove mesi nel ventre materno e i primi mesi, a volte anni, dell’infanzia. Questa perdita di memoria salva i segreti fondanti la personalità, pare abbia una funzione fondamentale nell’apprendimento e nell’esercizio di tutte le tecniche “automatiche” del corpo, camminare, masticare, parlare, ascoltare, dormire, sognare. Ora, è interessante notare come oblio e segreto siano interrelati. La storia, quella con la S maiuscola, ma anche la storia personale si basano su un dosaggio oculato della memoria. La memoria collettiva e la memoria individuale devono servire al presente e non ucciderlo con il loro peso. Se il passato rimane in parte segreto, se anche il mio passato rimane segreto a me è un bene, perché mi consente di rinnovarmi in un modo che sembra inaspettato anche a me stesso. I musei e la museificazione della vita sono il contrario di questo uso sano dell’oblio. Il segreto celato nei musei non rende fertile il processo per cui da cose passate si ricavano nuovi virgulti. Il segreto è una precauzione che la storia si dà per potere continuare ad essere narrata.

39


40

del segreto

stefano cristante informazioni particolari


Conclusioni Alla fine di questa carrellata sul segreto una cosa è evidente: che il segreto non è un escamotage, un trucchetto per fare diventare interessante una realtà banale, ma è un principio costitutivo dell’esperienza umana. Sta, come detto all’inizio, prima di ogni comunicazione e ne è la garanzia. Inficia anche la protervia di chi crede che la comunicazione risolva tutto. All’interno di un gruppo umano, in una azienda, in un ufficio, in un villaggio o in una etnia il segreto difende la capacità di ciascuno di essere polo da cui partono esperienze significative. Comunicare significa preferire la chiarezza e la concisione e la cortesia a tutto il resto. Ma questo implica una finzione: perché in realtà le persone non sono messaggi, la concisione non riguarda buona parte dei nostri pensieri e la cortesia serve a smussare gli spigoli, ma spesso copre differenze essenziali. In una logica che voglia privilegiare il valore delle persone sul valore delle informazioni occorre non dimenticare che la sostanza di cui siamo fatti non è “comunicativa”, ma ha molto più a che fare con il segreto e il nostro essere unici. Forse è questo il punto. Che l’unicità della persona è definibile solo come segreto, perché nessuno ha il potere di visitare fino in fondo l’unicità altrui.

riferimenti bibliografici

del segreto

Herdt G. 2003, Secrecy and Cultural Reality, utopian ideologies of the New Guinea men’s house, Michigan University Press. Jankelevitch W. (1957), Il non so che ed il quasi niente, Marietti, 1987. La Cecla F. 2003, Il Malinteso, Laterza, Roma-Bari. Moretti F. 2002, La geografia del romanzo, Einaudi, Torino. Orlando F. 1993, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino. Steiner G. 1994, Dopo Babele, Garzanti, Milano. Taussig M. 2000, Defacement, Chicago University Press.

41


È possibile per gli animali avere dei segreti? Nel caso degli animali che vivono esclusivamente in gruppo, la condivisione delle informazioni è necessità vitale. È però possibile che tali animali nascondano informazioni ad altri animali a loro volta associati: gli erbivori possono occultare le tracce delle proprie tane, alcuni carnivori il proprio nascondiglio. Manca del tutto la narrazione sottesa al segreto. Il momento dell’eventuale scoperta del nascondiglio non coincide con il disvelamento di un segreto, quanto piuttosto con una tappa difficilmente memorizzabile della lotta per la sopravvivenza.

del segreto

Gli uomini invece usano da sempre il segreto come modalità della vita associata. Lo ritengono fondamentale: soprattutto a livello simbolico il segreto è molto potente, considerato un discrimine decisivo dei rapporti interpersonali. «Io con voi non ho segreti» – dice una persona a tavola ai propri amici più cari. Sembrerebbe perciò che il segreto possa rappresentare un bene, un oggetto culturale di tipo donativo, da condividere con le persone cui si attribuisce la più forte attenzione e il maggior affetto. Eppure la frase “io con voi non ho segreti” indica una condivisione legata a una frase negativa e a un’assenza. “Io con voi voglio condividere ogni informazione” è frase meno felice ma tuttavia improntata (almeno apparentemente) a una pars costruens. Ci sarebbe così in gioco la creazione di una sfera di condivisione pubblica, un luogo conversativo dove tutto è dicibile e non si tacciono né si distorcono (tutte) le informazioni. Qualora questo regime affettivo (amicizia?) si allargasse gradualmente, potrebbe dunque venire gradualmente meno la modalità del segreto?

42

Ma non corriamo troppo. La differenza tra segreto e mistero può aiutarci a fare luce sulla nostra investigazione. L’etimo di segreto ci porta a un suo sinonimo, quello di diavolo (dal verbo greco dia-ballo, separo e calunnio). Il diavolo è colui che separa, e - per estensione - colui che fa confliggere fino alla disgiunzione delle voci, delle opinioni (calunnie, più propriamente). Ma è anche daimon, spirito non negativo, energia. Qual è la separazione del segreto (“cosa che non deve essere

cristante


divulgata, che deve rimanere celata”)? Chi si separa in funzione di un segreto? La separazione è fino in fondo separazione personale. Il segreto divide chi non possiede una particolare informazione da chi la possiede. “Particolare informazione”: naturalmente l’importanza dell’informazione è variabile per mille motivi, e ha risalto solo in precisi contesti. Quanto più una informazione tende a rivestire importanza in un determinato ambiente, tanto più possono essere a essa interessati numerosi appartenenti. Se un gruppo dispone di una informazione all’interno di un più vasto ambito di individui, la separazione è netta e rinvia a una possibile differenza sociale (solo chi può avere accesso ad ambienti dove circolano importanti informazioni può essere davvero coinvolto nella divulgazione di un segreto). Il possibile doppio nesso comunicativo è evidente: c’è stato un evento, qualcuno ne è venuto a conoscenza; questo soggetto può rendere finita la catena informativa, e tacere per sempre. Oppure, come più frequentemente avviene, il soggetto allarga (più o meno oculatamente) la cerchia degli informati, spargendo l’informazione. C’è stato un evento, qualcuno ne è venuto a conoscenza e ne ha messo a parte altri individui.

informazioni particolari

del segreto

Gli eventi non comunicati non impediscono il segreto in quanto tale: se un individuo raggiunge la ricchezza attraverso comportamenti scorretti, e tuttavia rimasti anonimi, soltanto lui è testimone delle informazioni, ma sul letto di morte potrebbe rivelarle, così come potrebbe rivelare al proprio domestico di esserne il padre. Accade più spesso, però, che il segreto sia direttamente sociale, riguardi cioè gruppi anche consistenti di individui. Tutti i segreti che riguardano la criminalità appartengono a questa categoria, giacché il crimine punta strategicamente all’anonimato. Firmare un delitto significa disinnescare il crimine dalla sua base di segretezza, dare un vantaggio informativo all’inseguitore (e infatti la “firma” di un delitto è tipico dei killer seriali, la cui tracotanza psicotica si spinge fino al punto da garantire all’inseguitore un potenziale, cospicuo vantaggio indiziario). La mancanza di informazioni degli investigatori (l’eccesso di segreti) pregiudica l’andamento delle indagini. In alcuni settori le forze dell’ordine devono dotarsi di personale specializzato da infil-

43


trare, con lo scopo di penetrare i segreti dell’organizzazione indagata. Oppure si tenta l’arma dei pentiti. Se sono di alto livello, i segreti dell’organizzazione cadono l’uno dopo l’altro, e il recupero informativo coincide con la vittoria operativa.

del segreto

Ma il segreto non è prerogativa dei malfattori. Esso è presente in ogni ambito sociale. Anche i bambini hanno segreti. Anzi, l’avvicinamento del bambino all’area della socialità è presto o tardi confermato dall’inclusione o dall’esclusione nella costellazione dei segreti. Alcuni bambini hanno capacità di invenzione di un mondo magico, che essi trattano come esistente e da dove vengono, ad esempio, gli amici invisibili, fatto che spesso rappresenta un segreto, in questo caso una forma di estremo riserbo con cui il bambino tratta gli eventi del mondo magico di fronte a terzi. In questo caso il segreto tende a circondare la prassi del mondo magico come un frame, dove vengono a collocarsi istanze di estraniazione ambientale ma anche di intima creatività, assecondate dalle dinamiche del gioco (che riflettono, almeno in parte, l’osservazione del bambino sul mondo abituale). Il segreto del mondo magico si accoppia a una dimensione auto-rituale, in grado di affrancare il bambino dalla servitù del rituale imposto dal mondo adulto. È questa l’utopia del segreto del mondo magico. La sua carica propulsiva si interrompe quando i nuovi frame della crescita (istituzioni, amicizie, cambiamenti fisici ed estetici ecc.) rendono irreale il mondo magico, senza che per questo il segreto sia risolto e divulgato. Possiamo forse azzardare che la persistenza del mondo magico nell’animo umano sia prerogativa dei grandi talenti dell’arte e della cultura, che mantengono e anzi sviluppano il rapporto con l’indicibile (ma è un indicibile che può essere espresso, un indicibile-esprimibile) tipico della sensibilità infantile.

44

Anche i bambini come comunità allargata (asili, scuole, strade, palestre ecc.) praticano la via del segreto. In un ambiente sociale i bambini si dividono in gruppi che condividono segreti. Per estensione, il segreto determina dei cerchi nelle relazioni interpersonali, fino a dare vita a vere e proprie cerchie sociali. Le categorie legate alla professione (gilde, corporazioni) sono storicamente vincolate da promesse e giuramenti, oltre che da un ingres-

cristante


so iniziatico, che mette a parte di segreti procedurali, materiali e spirituali che debbono poi essere custoditi dall’iniziato. Senza segreto, in pratica, non c’è differenziazione sociale. In questo senso il segreto è come la proprietà. Rousseau attribuiva la proprietà a un’invenzione (Discorso sull’origine dell’ineguaglianza): il primo uomo che ha issato un cartello su un campo con su scritto “mio”, costui ha inventato la proprietà. Analogamente, il primo uomo che ha taciuto alla comunità (al clan, alla tribù, alla famiglia) una informazione significativa di qualsiasi tipo, ebbene costui ha inventato il segreto. Decidendo di rivelare il segreto a un altro individuo, egli ha inoltre vincolato il segreto alla comunicazione, cioè alle pratiche dello scambio interindividuale. Il segreto è analogon della proprietà privata, anzi, ne è manifestazione immateriale. Tuttavia, come nel caso della proprietà, il segreto al suo apparire ha una duplice applicazione: la prima, già vista, punta alla competizione e all’affermazione sugli altri, la seconda è fondata sull’indipendenza e sul significato stesso di individualità, che in quanto tale ha il diritto di non dividersi con chicchessia. Edificare la propria casa, costruire il proprio orto e, dall’altro lato, trattenere presso di sé pensieri e osservazioni sui fenomeni della vita. Prima dei primi filosofi, che lavorarono sul versante pubblico delle cose, chissà quanti altri pensatori sublimi e segreti il mondo ha avuto. Sublimi ma segreti. Sublimi perché segreti. Chissà: anche segreti perché sublimi? In fondo, a ogni nuova invenzione mediale l’anthropos ha detenuto l’occasione di rinunciare a gran parte dei segreti dell’era (mediale) precedente: l’uomo della scrittura non ha registrato che una parte infima delle informazioni dell’uomo tribale dell’oralità. Però – anche quando si è rifatto all’uomo orale - non ne ha svelato i segreti, li ha solo riassemblati in una visione epica e mitica, diffondendoli presso un pubblico storicamente più ampio (anche perché prevede le generazioni future).

informazioni particolari

del segreto

Ogni medium ha i propri sacerdoti e, seguendo i suggerimenti di Semeraro di una possibile base etimologica comune di sacro e segreto, i sacerdoti sono – anche – i custodi dei segreti. Gli scribi nell’Antico Egitto praticano – attraverso la scrittura – il segreto

45


della relazione tra il dio Horus e il re-dio, il faraone. Dentro il singolo geroglifico si intravede la sacralità del segno. Sacro e segreto si fondono anche al di fuori dell’etimo: il segreto è attributo della divinità, che ne ordina la perpetuazione attraverso contenuti (della scrittura) confermati dalle forme (ideogrammi). È necessario che la congiunzione di forma e contenuto accada silenziosamente, scivolando dalle dita degli scribi. Solo una percentuale minima di specialisti della scrittura nota l’accordo, che tuttavia non impedisce ulteriori segreti, che si spostano da allora sull’interpretazione.

del segreto

Quando lo scriba si ridefinisce nell’area non più sacra (quella della scrittura alfabetica, che ha legami solo rifrattivi con il pittogramma e l’ideogramma) cambia nome e si pauperizza: ecco lo scrivano. Da allora il medium scrittura introduce i segreti attraverso la disgiunzione forma-contenuto indagata da McLuhan e Ong. La scrittura diventa puro contenuto, e si invera e reincarna attraverso l’eventuale segretezza del nuovo rituale. I più fascinosi dei pensatori si presentano misteriosi, soggetti a polimorfe interpretazioni. Il loro segreto possente impiega legioni di ermeneuti, in un lavorio ininterrotto.

46

In questo senso il segreto abbandona ulteriormente la sfera del sacro e imbocca la strada della risorsa epistemologica, cioè della scienza. Il destino dell’uomo lascia al segreto solo un’aura ineffabile. Allora l’arte scarta la scienza e si propone come moltiplicatrice di segreti, mentre la scienza tenta l’azzardo della risoluzione dei segreti. La macchina dei segreti diventa l’attrezzo che libera dai segreti. L’illusione storiografica. La ricostruzione della storia svelando i segreti uno dopo l’altro, sino al mistero della vita, della morte, dell’infinito. Il romanzo, dall’Illuminismo in poi, come tentativo di conciliazione di segreto e disvelamento, di arte e scienza. L’utopia cognitivista di Conan Doyle. Il titolo dell’ultimo capitolo de Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde: “Relazione completa di Henry Jekyll sul proprio caso”. Nell’epoca dei media elettrici l’informazione viaggia a velocità

cristante


sempre più elevata, mentre la Galassia Gutenberg conferma la precisione dell’ordito scritto e ne mette a potenza l’impiego. Con i media elettrici la soglia del segreto si abbassa: l’informazione scritta dell’editoria e del giornalismo viene affiancata dall’informazione audiovisiva. L’inquadratura mostra ciò che ritiene lo sguardo dell’informatore. Tratta la realtà come un segreto non “da raccontare”, ma da “far vedere”. Tutto ciò che non rientra nello sguardo dell’inquadratura non è indagato (e potrebbe quindi contenere infiniti segreti), ma l’illusione che si crea è che nel perimetro dell’immagine riferita la trasparenza sia totale. Si apre così il capitolo della contraffazione, cioè la possibilità di indirizzare lo sguardo verso interpretazioni ricercate con perizia tecnica ma non vere, e soprattutto non ricercanti la verità. Dall’altro si apre la voragine dei segreti che sfuggono alle interpretazioni mediali: segreti che potrebbero essere anche di importanza capitale, e che potrebbero riguardare le più alte sfere della decisione. La ripresa audiovisiva amplifica l’assenza di retroscena profondo in cambio di molti palcoscenici laterali offerti ai pubblici. Le possibili cause dei fenomeni mostrati o sono assenti (per privilegiare un puro assetto fenomenologico, un descrittivismo estremista) oppure sono rinviate a ricostruzioni che puntano a quell’universo dell’indimostrabile che si declina attraverso le teorie del complotto. Una volta giunti alla deriva del complotto il segreto è garantito: quanto più ricostruzioni fantasiose o complesse sono narrate, tanto meno ci si avvicina al disvelamento del segreto. Le estreme verità e la compresenza di ipotesi inverificabili garantiscono il regno del segreto. Chi ha commissionato l’assassinio di J.F. Kennedy?

informazioni particolari

del segreto

La nebbia cognitiva che viene sparsa sull’ambiente secretato pervade nell’immediato l’habitus della narrazione. I media tendono a registrare selettivamente, non a indagare. L’indagine arriva casomai in un secondo momento, quando la fuliggine delle molteplici e contrastanti fonti si è sparsa in ogni dove, e dove l’intrico (l’intrigo?) delle possibili concause rende implausibile una sola verità. Si lavora perciò sulla plausibilità delle ricostruzioni: quando è in oggetto un evento che necessita di giurisprudenza, la norma – anzi, l’interpretazione della norma – è l’unica bussola di cui ci dotiamo globalmente. Messi di fronte alla indispensabilità di fornire un giu-

47


dizio (cioè l’opinione su un evento), nei casi più complessi giungiamo alla sentenza (cioè il comando scaturito da una determinata opinione su un evento) come a una “verità mediata”, che si colloca come un diaframma tra le mutevoli circostanze del nostro pensiero e il bisogno di tenere in piedi la società.

del segreto

Anche dove non si arriva alla soluzione del segreto, il segreto della società è nel suo mantenimento, nel suo permanere (non nel suo equilibrio: non sto sposando il funzionalismo fuori tempo massimo). E per questo la società è disposta a prendere decisioni che possono contrastare con il pensiero logico: la «natura sociale dell’uomo» di cui parla Elisabeth Noelle-Neumann ci rende timidi e cauti, preoccupati dall’isolamento, pronti a cogliere la formazione di atteggiamenti di messa in minoranza per sfuggirli associandoci ai più. Talune sentenze di tribunale fanno pensare che sia necessario “credere nell’ipotesi” come fosse un atto di fede. Di fronte a una o più alternative occorre prendere una decisione, esprimerla sapendola limitata, e tuttavia passibile di una nostra maggior approvazione rispetto alle altre. Perché?

48

In molti casi si tratterà proprio di questo: un margine di approssimazione nella direzione che ci convince di più. D’altronde, seguendo il Platone della Repubblica, l’opinione non è sapere, ma non è nemmeno ignoranza. È la via intermedia che consente un “quasi sapere”, un’approssimazione alla conoscenza. In molti campi l’opinione – che consente la creazione e il mantenimento di innumerevoli istanze di segreto – regna sovrana. Nella vita quotidiana – soprattutto – le nostre scelte sono dirette dall’opinione. Ma anche in molti settori specialistici è in espansione il ruolo dell’opinione, cui verrà aggiunto l’aggettivo “qualificata”. Il percorso che vorrei nominare non cerca di rintracciare allora la Verità, capace di illuminare le nebbie dell’ignoranza con i suoi strumenti e le sue procedure, e di ridurre il numero di segreti e di ricondurre alla estrema visibilità del Vero (e del Reale). Il punto è che le verità parziali di cui la nostra epoca abbonda non si separano dall’animus segreto: i media, ma spesso anche le scienze sociali (e forse anche tutte le scienze) non dichiarano fino in fondo ciò che si presume di aver cristallizzato in forme cognitive certe – forse impauriti dalla modestia delle acquisizioni – e lasciano il campo aperto a un insieme ibrido di verità e segreto, un veriteto


Il livello di comunicazione-mondo (Mattelart) di questo tipo di forme-contenuti è allarmante: voglio dire che non è certo il segreto – o la quantità di segreti esistenti – a preoccupare (l’uomo ha sempre convissuto con miliardi di segreti). È la mancanza di una linea di demarcazione tra ambito della conoscenza (che tenta un discorso di verità, fino all’estremo della parresia socratica) e ambito del segreto (che pertiene a una scelta deliberata di occultamento).

carlo formenti le luci del retroscena

o una segrità, dove l’ammiccamento e l’allusione si caricano di un ruolo decisivo e iterato. L’esplicatore (media o scienziato, in questo contesto non ci interessa) dice e non dice, o meglio disvela celando o nasconde rivelando.

Forse la chiave per chiudere la porta provvisoria di questi appunti è quella del rapporto tra pubblico e privato. Vorrei utilizzare Simmel (che il mio word processor continua a correggere in Rimmel, piccolo segno dell’arroganza nascosta dei programmatori mainstream: non sarebbe stato meglio studiare un software che, prima di arrivare alla correzione per regola, richiamasse l’attenzione dello scrivente su quanto scritto, dandogli perciò una chance di verifica? Non sarebbe meglio avere in questo senso meno segreti, cioè meno invadenza da parte delle procedure altrui?), vorrei utilizzare Simmel dicevo su due questioni, naturalmente tratte dal suo famosissimo saggio sul segreto. La prima questione che pone Simmel nella mia ovviamente personalissima gerarchia di priorità riguarda il rapporto tra menzogna e commercio, che possiamo considerare rappresentativa del rapporto tra segretezza e democrazia.

del segreto

Il commercio fondato sulla veracità sarà in generale tanto più adeguato all’interno di un gruppo quanto più il bene dei molti, anziché dei pochi, costituisce la sua norma. Infatti i soggetti a cui si mente – e quindi coloro che sono danneggiati dalla menzogna – saranno sempre la maggioranza di fronte al menti-

49


tore, che trova il suo vantaggio mediante la menzogna. Perciò il rischiaramento che mira all’eliminazione delle falsità operanti nella vita sociale riveste senz’altro un carattere democratico.

del segreto

Penso si possa aggiungere che una definizione di non-democrazia improvvisamente così semplice (uno mente – molti sono ingannati) possa aiutarci in un compito di riduzione della complessità che appartiene a chi riesce a fare davvero opinione in uno dei tanti mondi che abitiamo – quello delle suggestioni della comunicazione. Attenzione a rinunciare al segreto: ne va della stessa natura associata dell’uomo. Ma anche: attenzione al segreto che è solo e unicamente sottrazione di informazioni e dunque menzogna per omissione. Quante meno menzogne per omissione avremo, tanto meno ci sentiremo truffati nel nostro ambito di individui collegati a una rete di contratti: e cioè utenti, consumatori, appassionati, aficionados… moderne identità di esistenza nel capitalismo postfordista. Seconda e ultima citazione:

50

Il dualismo dell’essere umano, il quale fa sì che ogni manifestazione di questo fluisca da una pluralità di fonti distinte, che ogni misura venga sentita al tempo stesso come grande e piccola, a seconda che venga considerata insieme a una minore o maggiore – questo dualismo fa sì che anche i rapporti sociologici siano condizionati in modo del tutto dualistico: la concordia, l’armonia, la cooperazione, che vengono considerate come forze socializzanti, devono venire interrotte dalla distanza, dalla concorrenza, dalla repulsione, per produrre la configurazione reale della società; le forme organizzanti stabili, che sembrano costituire la società o farla diventare tale, devono venire continuamente sbilanciate, corrose da forze irregolari di carattere dualistico per acquistare, cedendo e resistendo, la vitalità della loro reazione e del loro sviluppo: i rapporti di carattere intimo, il cui portatore formale è la vicinanza fisico-psichica, perdono l’attrattiva, anzi il contenuto della loro intimità, non appena la vicinanza non include al tempo stesso, e in forma alternata, anche distanza e pause; infine – ed è quanto ci interessa qui – la conoscenza reciproca, che condiziona positivamente le relazioni, non consegue questo risultato di per sé sola, ma piuttosto esse presuppongono, così come sono, anche una certa ignoranza, una misura incommensurabilmente mutevole di reciproca segretezza.

formenti


Nuovi media e crisi della privacy

le luci del retroscena

del segreto

La lettura di due racconti di donne (apparsi rispettivamente sul “New York Times” e su “Usa Today”) alle prese con problemi di gestione della propria immagine su internet, getta una luce particolare sull’amara riflessione cui Stefano Rodotà si abbandona nelle ultime pagine di un recente libro-intervista: «il mio dubbio è: la privacy non sarà forse stata una parentesi tra il villaggio tradizionale e il villaggio globale?»1. Prima di abbozzare una risposta a questo interrogativo, riassumo brevemente le storie in questione. La protagonista del primo racconto2 è la stessa autrice dell’articolo, una giornalista del “New York Times” che si chiama Stephanie Rosenbloom. Con garbo e ironia, la Rosenbloom spiega come chiunque digiti il suo nome nello spazio di ricerca di Google venga rinviato a una pagina Web in cui compare la foto di un’esile brunetta che indossa scarpe da ginnastica e “nuota” fra le pieghe di una T-shirt formato XL. Un caso di omonimia? No, quella ragazza è proprio lei, ritratta nell’inverno del 1996 durante le prove di uno spettacolo teatrale organizzato dal suo college. Il problema è che il bruco di dieci anni fa si è trasformato in farfalla: la Stephanie Rosenbloom di oggi è una bionda, elegante e autorevole professionista e gradirebbe che i lettori, qualora la curiosità li spingesse a usare internet per scoprire che faccia si nasconde dietro la sua firma, potessero vederla così come appare attualmente. Ma ottenere un simile risultato si è rivelato tutt’altro che semplice. Da un lato, il personale di Google le ha spiegato che rimuovere quella vecchia immagine comporta complessi problemi tecnici che, di solito, vengono affrontati solo nei casi di palese e grave danno all’immagine pubblica di una persona. Dall’altro gli amici smanettoni le hanno spiegato che l’unico modo per assumere un certo controllo sulla propria immagine on line consiste nell’assecondare la logica del mezzo, consigliandole quindi di creare un personal blog e promettendo che così – a condizione che la pagina riesca a calamitare un congruo numero di link - saranno le sue nuove foto a comparire in cima agli esiti di eventuali ricerche. La seconda storia3 riguarda il caso di Allison Martin, una giovane ragazza di Chicago che, in un’intervista pubblicata su “Usa Today”, rivendica con queste parole la “sincerità” con cui si racconta ai lettori del suo blog: «Dal momento che presumo che quelli che visitano la mia pagina siano tutti amici, o almeno conoscenti, la

51


del segreto 52

mia filosofia è quella di essere del tutto onesta – sia che si tratti di confessare quanto sono scomodi i miei pantaloni a tubino, sia che si tratti di esprimere un’opinione in merito al Primo Emendamento della Costituzione americana». Il guaio è, commenta l’intervistatrice nel proseguo dell’articolo, che i giovani blogger come Allison non si rendono conto di due fatti: 1) chiunque, non solo gli amici, può accedere alle loro pagine, 2) tutto ciò che viene pubblicato su internet è per definizione “indelebile”, e potrà essere spiato da sguardi indiscreti (e potenzialmente malintenzionati) anche fra decenni. La diffusa inconsapevolezza in merito ai “danni collaterali” di un eccesso di sincerità, ammonisce l’articolo, ha già prodotto molte vittime (lavoratori licenziati per avere rivelato particolari delicati della vita d’ufficio, ragazze costrette a subire avance telefoniche dopo avere reso noto il numero del proprio cellulare ecc.) e potrebbe rivelarsi devastante per i protagonisti di future carriere professionali o politiche, esponendoli a potenziali ricatti. Ancorché diversi, entrambi i casi rinviano alla difficoltà, per non dire impossibilità, di controllare le informazioni relative alla propria persona da parte degli utenti dei nuovi media. Quella che viene messa in questione è, per usare ancora le parole di Rodotà, la possibilità di «proiettarsi liberamente nel mondo attraverso le proprie informazioni, mantenendo però sempre il controllo sul modo in cui queste circolano e vengono utilizzate da altri»4. Altrove lo stesso Rodotà spiega come tale possibilità ne evochi implicitamente un’altra, vale a dire quella di «poter scegliere quando “esibirmi” e quando invece rimanere al riparo dagli occhi del pubblico»5. Ma a fondare questa seconda possibilità di alternanza temporale (quando, quando) è in realtà la natura spaziale del concetto di privacy: è infatti ancora Rodotà a ricordare come l’idea di privacy sia di fatto un’estensione dell’idea di proprietà borghese: così come non si entra in una proprietà (il diritto proprietario come diritto di escludere l’altro dall’accesso a un oggetto o a uno spazio), allo stesso modo non si “entra” nell’altrui vita privata6. Ma la potenza “delocalizzatrice” dei nuovi media – unitamente alla “eternità” delle informazioni pubblicate in rete – ci obbliga a mettere in dubbio se sia ancora possibile tracciare una linea di confine fra spazio pubblico e spazio privato. «L’aria della città rende liberi», recita un vecchio detto, alludendo anche alla protezione che l’anonimato urbano offre nei con-

formenti


le luci del retroscena

del segreto

fronti di occhi e orecchie altrui. Il “villaggio tradizionale” evocato da Rodotà (il quale ricorda che «nel Medioevo la riservatezza era possibile solo per i monaci e i banditi»7) condannava l’individuo a condurre una vita “senza segreti”, esponendone i comportamenti al costante e pervasivo controllo da parte dei vicini. Al contrario, le recriminazioni in merito all’anomia della moderna vita urbana, in cui nemmeno gli abitanti dello stesso condominio si conoscono l’un l’altro, testimoniano paradossalmente l’acquisita libertà nei confronti dell’altrui invadenza. Del resto, dietro le nostalgiche celebrazioni del “caldo abbraccio” comunitario non si cela quasi mai un reale rimpianto per il passato, visto che siamo tutti ben consapevoli del fatto che, come osserva Erving Goffman, il ritorno di relazioni premoderne nell’attuale contesto storico (ritorno che si realizza per i cittadini dei paesi governati da regimi totalitari) si rivelerebbe intollerabile: «la vita urbana diventerebbe insopportabile per molti se ogni contatto fra due esseri comportasse un dover condividere fatiche, preoccupazioni e segreti»8. Com’è noto, nel modello drammaturgico delle moderne relazioni sociali proposto da Goffman, il confine fra pubblico e privato che consente all’individuo di non essere costretto a condividere con tutti i propri segreti coincide di fatto con quello che separa ribalta e retroscena. Recitando il proprio ruolo, l’individuo-attore mette in scena il possesso di caratteristiche sociali che dovrebbero garantirgli di essere valutato e trattato in un determinato modo dagli altri. Il condizionale deriva dalla resistenza del pubblico nei confronti della pretesa dell’attore: «se controvoglia permettiamo a certi simboli di status di affermare il diritto di un attore a un determinato trattamento, siamo sempre pronti a sfruttare una qualsiasi incrinatura nella sua armatura simbolica per screditare la sua pretesa»9. Torniamo allora al racconto di Stephanie Rosenbloom. L’obiettivo della giornalista è quello di essere valutata e trattata dai lettori “per quello che è” (traduci: per il ruolo che desidera recitare e vedere riconosciuto in questa fase della sua vita), vale a dire un’autorevole e affascinante giornalista del “New York Times”. Ma l’immagine del suo passato che riemerge dagli algoritmi di ricerca rovina la recita, consentendo ai maligni istinti del pubblico di mettere in dubbio le sue “credenziali”. Siamo in presenza di un effetto destabilizzante della tecnologia nei confronti del gioco drammaturgico descritto da Goffman. In particolare, quella che viene messa in crisi è una delle strategie sociali che, secondo il sociolo-

53


del segreto 54

go, consente all’attore di venire a capo delle resistenze del pubblico. Ci riferiamo al fatto che l’attore non è mai solo nel proprio lavoro di messa in scena: alla recita, scrive Goffman, collabora un complesso di persone «complici nel far sì che la situazione appaia quella che essi vogliono»10. Per definire questi gruppi di individui che collaborano nell’inscenare una routine professionale (per esempio, nel caso della Rosenbloom, i colleghi giornalisti) Goffman utilizza il concetto di equipe, concetto che assimila a quello di “società segreta”: «gli individui formano un’equipe nella misura in cui mantengono il segreto su come essi collaborano per mantenere una particolare definizione di una situazione»11. Il “luogo” ove viene custodito il segreto è il retroscena: «Qui l’attore può rilassarsi, abbandonare la sua facciata, smettere di recitare la sua parte e uscire dal suo ruolo»12. Per restare al nostro esempio: la redazione in cui i giornalisti - che pure continueranno a recitare altri ruoli nelle reciproche relazioni interindividuali – possono permettersi di dimenticare l’esistenza del pubblico e parlare liberamente dei segreti cui quest’ultimo non deve avere accesso. E poco importa che tali segreti, come annota Goffman, siano perlopiù immaginari: «il pubblico immagina misteri e poteri segreti dietro la rappresentazione, l’attore si rende conto che i suoi segreti sono in realtà di poco rilievo. Come infinite leggende popolari e riti d’iniziazione stanno a dimostrare, spesso il vero segreto che si cela dietro al mistero è che questo non esiste»13. Esistono tuttavia periodi storici in cui si sviluppano tendenze sociali di carattere anti-drammaturgico. In tali periodi viene messo in crisi il confine fra ribalta e retroscena, s’indebolisce la solidarietà fra membri delle equipe, cadono i veli che proteggono i segreti (o peggio, l’assenza di segreti) e il re si ritrova nudo. Le riflessioni di Edgar Morin14 sul voyeurismo della cultura di massa, il villaggio elettronico globale teorizzato da McLuhan15, l’integrazione del backstage nello spazio di rappresentazione dei media elettronici messa in luce da Joshua Meyrowitz16 (per tacere dell’esplosivo dilagare contemporaneo del fenomeno della reality tv) sembrerebbero accreditare la tesi secondo cui gli ultimi decenni della nostra era rappresentano uno di tali periodi (basti pensare ai di-spositivi paralleli di spettacolarizzazione della vita privata degli uomini politici e degli esponenti dello star system). Resta da stabilire se il recente, fulmineo diffondersi della comunicazione mediata dal computer stia contribuendo ad amplificare e accele-

formenti


le luci del retroscena

del segreto

rare la tendenza antidrammaturgica innescata dal media televisivo, oppure se sia accompagnato da processi in controtendenza. Le storie di Stephanie e Allison sembrano accreditare la prima ipotesi. Tuttavia, prima di scavarne più a fondo le implicazioni, occorre esaminare criticamente il punto di vista di Sherry Turckle, l’antropologa del cyberspazio che, in un noto testo di una decina d’anni fa17, si è avventurata in tutt’altra direzione, identificando nelle reti di computer lo strumento in grado di consentire all’individuo una sorta di controllo totale sulla messa in scena della/delle propria/proprie identità. Anche il modello di Goffman contempla che lo stesso individuo “indossi”, a seconda del contesto sociale, differenti maschere, recitando di volta in volta ruoli differenti ma, dal momento che il modello è nato per studiare relazioni faccia a faccia, Goffman mette in luce come questa possibilità debba sottostare a precise regole spazio-temporali: «L’individuo si assicura che coloro davanti a i quali egli rappresenta una delle sue parti, non saranno gli stessi davanti ai quali rappresenterà un’altra parte in un ambito diverso»18. Il modello della Turckle attribuisce invece alle relazioni mediate dal computer - emancipate dai vincoli spazio-temporali delle relazioni faccia a faccia – la proprietà di offrire all’individuo-attore un livello assai più elevato di libertà: il gioco delle identità si apre a infinte alternative (tante quante sono le “finestre” che un programma consente di tenere contemporaneamente aperte sullo schermo del computer) grazie al fatto che il palcoscenico non è più interfaccia trasparente della relazione ioaltri ma si trasforma in una sorta di specchio in cui l’attore si riflette, decidendo di volta in volta quale maschera indossare. Quando ci confrontiamo con la nostra immagine nello specchioschermo del computer, sostiene Turckle, arriviamo progressivamente a vederci in modo diverso. Non più sottoposta alla maliziosa verifica del pubblico, che non vede più il mio volto ma solo l’evanescente traccia delle parole che compaiono sullo schermo (ricordiamo che il modello relazionale di Sherry Turckle è costruito su MUD e chat, vale a dire sui giochi di ruolo e sui programmi di dialogo interattivo in tempo reale fra più utenti connessi via Internet), la mia performance diventa molto più libera, consentendomi ampi margini di sperimentazione. Al riparo dallo sguardo altrui, protetto dall’anonimità (in Rete si viene identificati da uno o più nickname, non dal vero nome), non sei più costretto a preoccuparti delle “caselle” (ruolo professionale, appartenenza di genere, età,

55


del segreto 56

appartenenza etnica, religiosa o ideologica ecc.) in cui gli altri tendono a inquadrarti ma puoi “essere chiunque tu voglia essere”. Se, secondo la drammaturgia sociale di Goffman, “sincero” è chi crede nell’impressione comunicata con la propria azione, allora l’individuo impegnato nel gioco di autorappresentazioni plurime descritto da Sherry Turckle è sincero per definizione, nella misura in cui è sempre quel che, di volta in volta, pretende di essere. Una sincerità che sconta tuttavia il prezzo di una condizione al limite dell’autismo: nessuno interagisce realmente con qualcun’altro, ma tutti interagiscono con lo schermo, che rinvia a ognuno l’immagine della maschera indossata di volta in volta. Naturalmente esiste sempre il rischio che qualcuno non accetti la mia pretesa identitaria, ma tale rischio è assai più limitato che nelle tradizionali relazioni faccia a faccia perché l’alternanza fra i ruoli di attore e di pubblico viene in qualche modo a cadere: tutti sono attori e pubblico nello stesso momento, per cui tutti hanno interesse a riconoscere l’attendibilità delle altrui performance nella speranza di essere ripagati della stessa moneta. È questo il motivo per cui la Turckle attribuisce valore terapeutico alla vita sullo schermo, definita come un palcoscenico «in cui si mima la vita, o la si vive davvero, o ancora la si verifica, la si sperimenta per accettarla e per diluire la brutalità e la violenza continua e materiale»19. Un elogio postmodernista della leggerezza e della superficie che a qualche anno di distanza suona ingenuo, ove si tenga conto del volto decisamente meno “friendly” che le nuove tecnologie di comunicazione hanno rivelato nel frattempo (basti pensare agli sconvolgimenti della net economy, all’uso politico della rete da parte dei movimenti sociali e della politica tradizionale, allo scontro culturale e giuridico attorno ai temi della proprietà intellettuale, ma soprattutto alle sfide alla privacy di cui ci stiamo occupando in queste pagine), mentre lo sperimentalismo esistenziale delle chat, su cui si fonda il modello in discussione, è rimasto confinato ad alcune nicchie di utenza (benché numericamente non trascurabili). Resta l’interesse del discorso della Turckle in quanto “estremizzazione” del modello drammaturgico - interesse legato in primo luogo alla valorizzazione del carattere “protettivo” attribuito alle pratiche di simulazione di identità nei confronti dell’aggressività del pubblico nelle relazioni faccia a faccia. Come cercherò infatti di dimostrare nell’ultima parte dell’articolo, è proprio l’intensificazione di tale aggressività a determinare – unitamente all’evoluzione

formenti


le luci del retroscena

del segreto

delle tecnologie di comunicazione – quella crisi del modello drammaturgico che rischia di relegare, come teme Rodotà, la privacy al ruolo di parentesi fra villaggio tradizionale e villaggio globale. Partiamo dall’aggressività del pubblico. Si è già ricordato come Goffman, da un lato, consideri come connaturato al gioco drammaturgico il rischio di rifiuto delle pretese identitarie dell’attore da parte del pubblico, dall’altro valorizzi la funzione dell’equipe (dei gruppi di individui che collaborano nell’inscenare una determinata routine) come struttura sociale in grado di neutralizzare il rischio attraverso pratiche di gestione del segreto fondate sulla separazione fra spazio pubblico (ribalta) e privato (retroscena). Ma il ruolo delle equipe entra in crisi nel momento in cui la transizione alla società postmoderna - o se si preferisce alla seconda modernità (Anthony Giddens)20 e/o alla modernità riflessiva (Ulrich Beck)21 – avvia quel processo di frammentazione sociale che, fra le tante conseguenze, ha anche quella di minare la credibilità e l’autorevolezza dei “sistemi esperti” in quanto produttori di socialità e fiducia. La nozione di sistema esperto, com’è noto, viene utilizzata da Giddens per descrivere il processo di modernizzazione come transizione dal mondo tradizionale - in cui la socialità si struttura prevalentemente attorno a sistemi di parentela, comunità locali e istituzioni religiose; mentre a calamitare le relazioni di fiducia sono gli individui che incarnano tali istituzioni – al mondo moderno - in cui socialità e fiducia ruotano attorno alle capacità astratte (sistemi esperti) incarnate dalle nuove istituzioni (stato nazione, classe politica, partiti, sindacati, corporazioni professionali ecc.) che hanno preso il posto delle istituzioni tradizionali: la fiducia non viene accordata al singolo politico, giornalista, medico, professore ecc. bensì al “sapere esperto” che costui detiene e applica nell’esercizio delle proprie funzioni. La parziale sovrapponibilità fra i concetti di equipe e di sistema esperto è evidente, nella misura in cui rinviano entrambi a una funzione di certificazione sociale di pretese individuali. Appare dunque intuitiva la relazione che la transizione al postmoderno istituisce fra frammentazione sociale, revoca di fiducia nei confronti dei sistemi esperti, riduzione del potere di certificazione delle equipe nei confronti delle performance degli attori-individui. Per quanto attiene l’evoluzione tecnologica, l’attacco al modello drammaturgico arriva dagli effetti del processo di separazione dello spazio dal luogo: i media elettronici promuovono rapporti fra

57


del segreto 58

persone assenti, deterritorializzano le relazioni sociali e rimettono in discussione la centralità di quelle relazioni faccia a faccia che rappresentano il terreno privilegiato del modello goffmaniano. Si tratta di un processo che raggiunge l’acme con la rapida diffusione della comunicazione mediata dal computer, laddove viene a mancare anche il simulacro audiovisivo dell’immagine dell’altro, sostituito dall’immagine virtuale delle parole di un altro che non è più solo assente ma addirittura “presunto”, deprivato com’è dell’effetto di verità dell’audiovisivo (sospendendo ovviamente ogni interrogativo sui possibili effetti dell’ibridazione fra reti di computer e televisione, che avanza parallelamente alla diffusione delle connessioni a banda larga). Come si è visto, Sherry Turckle prospetta uno scenario in cui il gioco drammaturgico sopravvive al duplice attacco della crisi delle equipe e della virtualizzazione delle relazioni, trasformandosi in una sorta di interazione ludica fra individui-attori che sperimentano liberamente un ventaglio più o meno ampio di ruoli. Ho già spiegato i motivi che confinano questo modello teorico in un orizzonte limitato di esperienze; a tale rilievo critico occorre aggiungere, a seguito delle ulteriori argomentazioni introdotte, l’incapacità di tematizzare il problema della produzione di socialità e fiducia successiva alla crisi di sistemi esperti ed equipe. I soggetti descritti dalla Turckle sembrano infatti sprofondare in una sorta di autoreferenzialità narcisistica: ognuno si rispecchia nello schermo della macchina, mentre l’accettazione dei ruoli sociali messi in scena è garantita a priori dall’impulso utilitaristico al reciproco riconoscimento. Ecco perché preferisco seguire la traccia che Manuel Castells indica attraverso il concetto di individualismo in rete: «L’individualismo in rete è un modello sociale, non una raccolta di individui isolati. Piuttosto, gli individui costruiscono i loro network, on line e off line, sulla base dei loro interessi, affinità e progetti»22. In altre parole, gli individui “atomizzati” dell’era di internet contribuiscono alla produzione di socialità e fiducia in quanto membri di network che essi stessi creano: ad assumere la funzione dei sistemi esperti (e delle equipe) sono le comunità virtuali (mailing list, newsgroup, forum online, weblog ecc.)23. Tocca a questo punto rispondere ai seguenti interrogativi: le relazioni sociali “virtualizzate” implicano una irreversibile fuoruscita dal modello drammaturgico? In quale misura è ancora possibile tracciare un confine fra spazio pubblico e spazio privato (fra ribalta e retroscena)?

formenti


le luci del retroscena

del segreto

Torniamo un’ultima volta sulle storie di Stephanie Rosenbloom e Allison Martin. Perché Stephanie non riesce a gestire la propria immagine on line? Mettendo fra parentesi gli aspetti tecnici del problema (che pure hanno un peso notevole e, nel caso in esame, rappresentano il primo ostacolo alla rimozione dell’immagine di cui la giornalista vorrebbe sbarazzarsi, impedendo l’esercizio di quel diritto all’oblio24 che Stefano Rodotà considera una componente essenziale della privacy), resta la difficoltà di armonizzare le rappresentazioni che Stephanie vorrebbe mettere in scena di sé, rispettivamente, in quanto giornalista e in quanto donna. In quanto giornalista, Stephanie non può più contare su un riconoscimento di status “garantito” a priori dall’appartenenza all’equipe professionale. Per cui è costretta a riprogettare la propria immagine utilizzando uno strumento come il personal blog, che potrebbe consentirle di ottenere attenzione in primo luogo in quanto donna e poi (forse) anche in quanto giornalista. Allison non ha viceversa altro obiettivo che presentarsi per “quel che veramente è” (vale a dire mostrare ad amici e conoscenti la faccia con cui maggiormente si identifica), e a tale scopo esercita fino in fondo una “sincerità” il cui prezzo è l’inconsapevole rinuncia al diritto all’oblio (se e quando vorrà cambiare ruolo e personalità rischierà di ritrovarsi a sua volta inchiodata alla vecchia immagine). Lo spazio comunicativo che mette in gioco questi paradossi è uno spazio in cui è venuta meno la distinzione fra pubblico e privato, secondo l’intuizione di Derrick De Kerckhove a proposito dei network di blogger. La crisi di fiducia nei confronti dei sistemi esperti (e la conseguente perdita di ruolo delle equipe) scatena infatti una radicale diffidenza nei confronti dei “segreti”, veri o presunti, che si nascondo nei retroscena delle categorie professionali di ogni tipo (giornalisti, scienziati, uomini politici, medici, accademici ecc.). La sindrome del complotto, che non a caso contamina larghi settori della “cultura internettiana”, rappresenta l’emergenza patologica del sospetto che si è venuto accumulando nei confronti dei saperi specialistici (e delle pratiche professionali su essi fondate), che marcano la propria distanza dalla “gente comune” adottando linguaggi esoterici, veri e propri cartelli di “vietato l’accesso ai non addetti ai lavori” infissi sulla porta dei “retrobottega”. Ecco perché l’intera storia delle comunità virtuali, con una progressione culminata nel fenomeno dei weblog, appare caratterizzata dalla tensione verso la trasparenza: le luci si spo-

59


del segreto 60

stano dalla ribalta, concepita come luogo degli inganni, al retroscena, idealizzato come luogo di un’interazione comunicativa aperta, onesta e sincera (a volte fin troppo, come dimostrano le violente controversie che scoppiano di frequente in questo contesto). Il riconoscimento di saperi, virtù, competenze, carisma, status ecc., si riferisce all’individuo in quanto tale – a prescindere da ogni ruolo istituzionale -, e si effettua nell’ambito di una comunità di pari in cui il giudizio collettivo sostituisce l’investimento gerarchico. Possiamo definire questo scenario come un’irreversibile fuoruscita dal modello drammaturgico? Mi sembra più corretto parlare di un radicale cambiamento nelle regole della messa in scena, un cambiamento che, nel momento in cui abolisce la distinzione fra ribalta e backstage, costringe l’individuo-attore a impegnarsi in un lavoro di recitazione permanente, in modo che coerenza e consistenza del ruolo vengano garantite al livello più elevato possibile (notiamo per inciso come tali esigenze di continuità e coerenza entrino ulteriormente in conflitto con gli ideali di “nomadismo identitario” ventilati dalla Turckle). Quanto alla crisi delle equipe, si assume qui che la loro funzione venga progressivamente assolta da nuovi dispositivi di legittimazione delle pretese di status, come gli “indici di gradimento” che i singoli attori-individui riescono a ottenere nell’ambito di una determinata comunità virtuale (per esempio i blogger che collezionano più link da parte di altre pagine web). Con due importanti differenze: da un lato, alla legittimazione di status quasi automatica garantita dalle equipe subentra un dispositivo agonistico fondato sulla lotta per il riconoscimento, dall’altro, la “spontaneità” della performance fa premio rispetto alla tecnica di recitazione; così come i protagonisti “presi dal popolo” dei reality show televisivi ottengono più successo degli attori professionisti, i blogger più pronti a mettere in gioco storia ed emozioni private risultano più apprezzati e credibili di quelli che scommettono solo sul proprio patrimonio di competenze e conoscenze (non a caso, nel circuito dei weblog a carattere giornalistico-informativo, il tasso di partecipazione emotiva con cui vengono presentate e commentate le notizie viene percepito, più che come “perdita di oggettività”, come valore aggiunto: il pubblico esce dall’anonimato, si fa protagonista e “dice la sua” su qualsiasi argomento). Al puzzle di argomenti necessari a sciogliere l’interrogativo sul futuro (o sull’assenza di futuro) della privacy manca solo un’ultima

formenti


tessera. L’ossessione per la trasparenza che caratterizza la cultura della rete è contrassegnata da un paradosso. La diffidenza nei confronti delle istituzioni e delle gerarchie sociali non coinvolge esclusivamente le pretese di status “certificate” da equipe e sistemi esperti, ma anche e soprattutto principi, valori e pratiche associati alla gestione del potere politico (basti ricordare la celeberrima “Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio” in cui John Perry Barlow invita i governi del mondo intero a non mettere becco negli affari della rete). Da tutto ciò deriva un’istanza contraddittoria: da un lato, si auspica un massimo di trasparenza per quanto riguarda le procedure, gli atti e le decisioni delle istituzioni che riguardano la gestione del potere, dall’altro, si rivendica la necessità di tutelare la libertà dei cittadini (in particolare di quella particolare tipologia di “cittadino del mondo” che è l’utente di internet) nascondendone ideologie, gusti sessuali, credenze religiose ecc. dietro il muro dell’anonimato. I maggiori ostacoli che si oppongono alla realizzazione di questa relazione asimmetrica (trasparenza dal basso verso l’alto, opacità dall’alto verso il basso) non sono di natura tecnologica né giuridica: esistono soluzioni tecnologiche (come la crittografia) adeguate allo scopo, e le regole elaborate dalle varie Authority per la tutela dei dati personali (con Cosa ne sarà della segretezza, spazio irrinunciabile della libertà personali? La privacy è materia che attiene alla cittadinanza, e la sua tutela investe l’uguaglianza, la partecipazione. Le domande sono: le garanzie della libertà personale devono essere estese anche al corpo elettronico? Regge ancora la distinzione fra dati interni ed esterni delle comunicazioni quando queste si svolgono su Internet, che ha profondamente modificato i termini di libertà? Ed è accettabile che l’habeas corpus si transustanzi nell’habeas data? Inoltre: l’accessibilità alla proprietà, quando si traduce in appropriabilità di alcuni beni elettronici secondo una logica dei beni comuni (commons), deve anche escludere l’identificazione dei soggetti che vi accedono? Sono i problemi che Stefano Rodotà ci ha segnalato nell’ultimo suo “Rapporto” dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, a cui tenta di rispondere in una recente intervista curata da Paolo Conti (S. Rodotà, Intervista su privacy e libertà, a cura di P. Conti, Laterza, Bari-Roma 2005).

le luci del retroscena

del segreto

punte di eccellenza – vedi l’attività svolta dal Garante italiano negli ultimi anni) garantiscono livelli più che adeguati (fatta salva la necessità di continui aggiornamenti in relazione all’evoluzione tecnologica) di tutela della privacy. I veri ostacoli sono di natura

61


mimmo pesare disvelamento come trasformazione del segreto 62

Bisogna che il nascondere si veda: “sappiate che io sto nascondendovi qualcosa”, questo è il paradosso attivo che devo risolvere: bisogna che, insieme, la cosa si sappia e non si sappia, che si sappia che non voglio darlo a vedere. Ecco il messaggio che rivolgo all’altro. Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso. Quando ci apriamo ad intendere il modo con cui Martin Heidegger ci fa scoprire nel termine alethés, il gioco della verità, non facciamo che ritrovare un segreto cui essa ha sempre iniziato i suoi amanti, e da cui essi capiscono che è nel fatto di nascondersi che essa si offre loro nel modo più vero. Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata”.

politica e culturale. Sul piano politico, a partire dall’11 settembre 2001 abbiamo assistito a un’impressionante progressione di scelte legislative (dal famigerato Patriot Act americano alle recentissime decisioni europee, successive agli attentati di Madrid e Londra) che hanno drasticamente ridotto lo spazio di libertà in rete (vedi la ritenzione di dati relativi al traffico di cellulari e posta elettronica). Ma è soprattutto sul piano culturale che si delinea il rischio di gravi passi indietro sul fronte della privacy. E il punto non è solo l’incalzare delle preoccupazioni in tema di sicurezza che, di fronte all’offensiva terrorista, riducono drasticamente la combattività in tema di privacy: a fare problema sono anche e soprattutto le trasformazioni culturali analizzate nelle pagine precedenti. Proviamo a riassumere. Fatta eccezione per l’ambito di esperienze analizzato da Sherry Turckle – ambito in cui il mantenimento dell’anonimato è indispensabile precondizione per sperimentare una serie di identità differenti -, la tendenza che prevale nelle relazioni sociali mediate dal computer è quella di una radicale messa in discussione del confine fra spazio pubblico e spazio privato, fra ribalta e retroscena. Nella lotta per il riconoscimento dei pari che si svolge fra membri delle


comunità virtuali non è più possibile sfruttare il principio del “lei non sa chi sono io”, non è più possibile, cioè, ottenere un riconoscimento di status fondato sul ruolo sociale (certificato dall’appartenenza a un’equipe, professionale o di qualsiasi altro genere). Tutti sono costretti a spiegare “chi sono io” accendendo le luci non solo sulla ribalta ma anche e soprattutto sul retroscena, esponendo allo sguardo altrui i “segreti” su cui si fondano sapere (reale o presunto), carisma, carattere, virtù ecc. dell’individuo-attore. Parlare di fine dell’anonimato urbano e di ritorno al pervasivo controllo del vicinato (elettronico) è probabilmente eccessivo, se non altro perché nel nuovo “villaggio” manca la presenza fisica del vicino, non vi è tuttavia dubbio che la mutazione che ho cercato di descrivere rappresenti la sfida più pericolosa alla sopravvivenza della privacy.

note

del segreto

1 S. Rodotà, Intervista su privacy e libertà (a cura di Paolo Conti), Laterza, RomaBari 2005, p. 147. 2 Stephanie Rosenbloom, “Loosing Google’s Lock on the Past”, New York Times, 2 Giugno 2005. 3 Martha Irvine, “Brave new world of blogging; young users boldly exposed” Usa Today, 10 Luglio 2005. 4 op. cit., p. 19. 5 Ibidem, p. 10. 6 Cfr. S. Rodotà, op. cit., cap. 1. 7 Ibidem, p. 147. 8 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, il Mulino, Bologna 1969, p. 61. 9 Ibidem, p. 70. 10 Ibidem, p. 101. 11 Ibidem, p. 123. 12 Ibidem, p. 133. 13 Ibidem, pp. 81-82. 14 Cfr. E. Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma 2002. 15 Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967. 16 Cfr. J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1993. 17 Sherry Turckle, La vita sullo schermo, Apogeo, Milano 1997. 18 E. Goffman, op. cit., p. 61 . 19 Così Mario Ricciardi sintetizza le tesi della Turckle nell’Introduzione (p. XXIII) a La vita sullo schermo.

63


20 Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna 1994. Vedi

del segreto

anche Il mondo che cambia, il Mulino, Bologna 2000. 21 Cfr. fra l’altro, U. Beck, Una società cosmopolita. Prospettive dell’epoca postnazionale, il Mulino, Bologna 2003. 22 Cfr. M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano 2002. 23 Cfr. H. Rheingold, Comunità virtuali, Sperling & Kupfer, Milano 1994. Vedi anche Smart mobs, Cortina, Milano 2003. 24 Cfr. S. Rodotà, op. cit.

64

pesare


Nota semantica su un concetto

disvelamento come trasformazione

del segreto

I concetti di mistero e segreto sembrano essere legati da una linea semantica consequenziale che porta dal primo al secondo. Se infatti si dovesse, per felicità sonora, abbinare a entrambi un verbo, probabilmente l’accostamento naturale che verrebbe in mente è “risolvere” (o sciogliere) per il termine mistero e “svelare” per il termine segreto. Come dire che, sebbene essi siano a tutti gli effetti sinonimi, c’è una certa sfumatura diacronica che sembra accompagnare la tensione tra i due concetti, in maniera tale che il secondo sia percepito come l’esito, ancorché nascosto, di un’opera di disvelamento del primo. Quasi sempre, “sveliamo un segreto”, dopo aver “risolto un mistero”. La pratica dello svelare, allora, sembra portare il concetto di segreto in una sorta di meta-dimensione tra il non-più e il nonancora: il mistero si risolve, ma il segreto, una volta svelato, continua a essere “un segreto”, appunto, cioè una chiave di lettura per ciò di cui non si può o non si deve sapere alcunché. In altre parole, anche una volta svelato, un segreto rimane tale: non diventa un “ex-segreto”, ma continua a rimanere un segreto (svelato, ma segreto). Anche la linguistica ci offre scarse possibilità di confutare una teoria pur così claudicante e provvisoria: tanto nelle lingue romanze quanto in quelle sassoni, infatti, non è possibile rendere con un termine “altro” il concetto di “segreto che è stato svelato”, se non ricorrendo a una perifrasi. È come se, in qualche modo, lo svelamento non bastasse a far trasfigurare il segreto in qualcos’altro che possegga un proprio statuto e una propria dimensione, se non aggiungendo a esso che non si ha più di fronte un arcano. Anche il verbo svelare può essere interpretato in maniera diversa, a seconda che esso si esplichi a beneficio di una o pochissime persone, o al contrario che lo si diriga verso una collettività. Nel primo caso la pratica dello svelare ha a che fare col concetto di rivelazione, sul quale si fondano tutte le discipline esoteriche e che finisce per confluire nella tematica del sacro, cioè del separato dal mondo e dai più (i termini latini secretum e sacer hanno lo stesso tema verbale di secernere, cioè dividere, separare); nel secondo caso, svelare ha il significato di “render noto”, “render pubblico”, cioè mettere a disposizione di una

65


del segreto 66

comunità una informazione prima riservata. Questa seconda accezione sembra appartenere, nell’esposizione e negli esiti, a un campo d’analisi che costeggia sociologia e riflessioni socio-giuridiche riguardanti, ad esempio, il rapporto tra segretezza personale, privacy e media. Ma attraverso quali ricadute di senso possiamo interrogare il binomio segreto-svelatezza, quando questo esce fuori dallo spazio pubblico, quando rimane nello spazio del “due”, del tra (Zwischen) o, addirittura, nello spazio interlocutorio con se stessi? Cercheremo di seguire questa pista, alla ricerca di una interpretazione del segreto come “ciò che rimane dopo lo svelamento”, ma per far questo bisogna scegliere a quale metodo affidarsi. Nell’opinione di chi scrive, un oggetto d’analisi così sfuggente e inafferrabile per definizione, mal si presta – come si è provato a fare – a un’indagine di tipo fenomenologico, perché, se la fenomenologia si costituisce come il logos dell’apparire, la disciplina del “venire a presenza”, un concetto che invece, come si vedrà, è per sua natura semantica votato all’ineffabile alternanza tra la presenza e l’assenza, tra il manifestarsi e il nascondersi, rischierebbe di ricevere un’imprinting fortemente univoco e proditorio. Ricostruire una traccia del concetto di segreto probabilmente esige un approccio più pudico e “gentile” che faccia salva la riservatezza di ciò di cui si vuole parlare. Del segreto, parafrasando Nietzsche, non ci sono fatti, ma solo interpretazioni. La proposta, pertanto, è quella di interrogare il rapporto tra segretezza e svelamento non già cercando di ricostruirne un’unità organica ma, al contrario, provando a tracciare un’archeologia dei significati disseminati (e che disseminati, probabilmente, chiedono di rimanere) che da esso partono e in esso confluiscono, in un discorso, ad esempio, in cui una mistione di approcci quali quelli dell’ermeneutica e della psicanalisi possa garantire tale rispettosa fluidità di senso. Qualsiasi pensatore si sia imbattuto nel rapporto segreto-svelatezza, in ogni caso, ha dovuto fare i conti con la questione che di questo rapporto sta alla base, ovvero il problema della verità, non fosse altro che per motivi di ordine linguistico. Il termine che in greco esprime il concetto di “verità”, come è noto, è alétheia, che al suo interno contiene il verbo lanthàno, nascondere. I greci, dunque, pensavano la verità come “non-nascondimento”, non in una definizione “positiva”, ma come la negazione del nascondimento,

pesare


come se quest’ultimo, in termini di priorità temporale o semantica, venisse prima del concetto stesso di verità. Questa affascinante questione del nascondimento esistente nella svelatezza della verità ha catturato, tra gli altri, Martin Heidegger e Jacques Lacan, i quali nell’alétheia hanno rintracciato uno dei nodi gordiani della stessa esistenza umana. Nonostante le riflessioni del filosofo e quelle dello psicanalista si muovano su terreni speculativi e arrivino a esiti, naturalmente, molto diversi, ciò che li lega al problema è la convinzione che i grumi di verità/svelatezza che ruotano attorno alla costellazione dell’alétheia siano portatori del messaggio che già Eraclito (penso ai frammenti 16 e 50) mormorava: sarebbe legittimo, una volta tanto, chiedersi se non sia la verità a “violentare” ciò che ama nascondersi e che probabilmente è costitutivo, proprio nella sua “velatezza”, della natura umana. Heidegger: svelamento e paideia

disvelamento come trasformazione

del segreto

Il discorso di Heidegger sulla verità ha un andamento rapsodico attraverso il corpus della sua produzione1 ma probabilmente l’opera che analizza in maniera programmatica questo tema, intitolata, appunto, Dell’essenza della verità (una conferenza del 1930 edita solo nel 1943) e lo scritto Alétheia (un seminario del 1943), sono le riflessioni che più interessano, in questa sede, il rapporto tra verità e mistero/segreto. La convinzione di Heidegger è che, se esiste una “verità originaria” (siamo in un periodo storico-culturale in cui esistenzialismo e fenomenologia pretendono di decodificare il senso del rapporto tra uomo e mondo), questa si identifica con la libertà, intesa non nell’accezione antropologica del “libero arbitrio”, ma in quella ontologica del “lasciar-essere” l’ente nel suo disvelamento. Da questa convinzione, che Heidegger definisce come “pedagogica” (perché “accompagna” il pensiero senza “dirigerlo”), deriva l’attacco a tutte quelle dottrine che hanno ridotto la verità a una “proprietà” dell’uomo, rappresentate, di volta in volta, dalla dianoia di Aristotele, dall’intellectus di Tommaso, dal cogito di Cartesio, dalla noesis di Husserl. Ma, continua Heidegger ne L’essenza della verità, la storia del pensiero occidentale non nasce con tale antropologizzazione e soggettivazione della verità, basti pensare alle teorie di Anassimandro o ai frammenti di Eraclito, dalla cui lettura il concetto di verità esce sempre molto ridimen-

67


sionato a vantaggio di una visione del mondo polisemica e in trasformazione, all’interno della quale la verità, se esiste, “manifesta” l’essere, ne svela o ne rivela i modi di espressione. È Platone il primo filosofo che rovescia questo rapporto: la ragione è lo sguardo sull’essere e la verità rappresenta la correttezza di questo sguardo; dunque la verità diventa una proprietà del conoscere umano. Molto più verosimilmente, osserva al contrario Heidegger, la verità dovrebbe essere pensata proprio nei termini dell’alétheia greca, come non-nascondimento, nel senso che l’illuminazione della verità implica un cooriginario nascondersi in essa, come il concetto di luce implica – e non può non farlo – il concetto di oscurità, in maniera tale che l’uno non avrebbe senso senza l’altro e viceversa. In questo gioco di alternanza tra il manifestarsi e il non manifestarsi dell’essere che avviene nel concetto di alétheia, sintetizza Heidegger, consiste lo stesso “mistero” della natura umana. L’ermeneutica heideggeriana diventa più abissale quando in Alétheia, il seminario sul frammento 16 di Eraclito, il discorso sulla svelatezza della verità si sposta verso l’interpretazione del tema verbale che, all’interno del termine greco alétheia, costituisce lo zoccolo duro del “nostro” discorso sul segreto, ovvero il –leth- del verbo lanthàno, nascondere. Secondo il filosofo questo verbo esprime il suo più profondo significato, non come transitivo (io nascondo qualcosa) ma come medio-passivo intransitivo (lanthànomai, io “resto nascosto”); in questa accezione, il verbo descrive uno dei modi fondamentali dello stare al mondo:

del segreto

Il nascondimento descrive qui il modo in cui l’uomo deve essere presente tra gli uomini. […] La lingua greca ci fa noto che il nascondersi, e cioè, nello stesso tempo, il rimanere nonnascosto, ha una posizione predominante rispetto tutti gli altri modi in cui l’essere è presente. Il tratto fondamentale dell’essere stesso è determinato dal restare nascosto e non-nascosto. (Heidegger 1954, p.179)

68

Cosa significa? Probabilmente è più facile cogliere il senso della suggestiva scrittura di Heidegger se si aggiunge che il filosofo suggerisce di tradurre l’alétheia greca non col termine tedesco Warheit, alla lettera “verità” (nel senso di “possesso del vero”),

pesare


disvelamento come trasformazione

del segreto

ma con Unverborgenheit, parola che riprende pari pari il concetto greco: Un-, corrispondente dell’alfa privativa e Verborgenheit, sostantivo del verbo verbergen, nascondere (identico al lanthànein greco). Quest’ultimo, a sua volta, è un composto (di valore rafforzativo) del verbo bergen, che significa ripararsi/albergare. Ecco allora che, nella spiegazione di Heidegger, la semantica del segreto che dà di sé svelamento è contenuta in una gamma di significati che ruotano attorno ai concetti di “ritiro”, “ritegno”, “pudore”: il carattere fondamentale della verità/svelatezza è “ritegnoso” (cfr. anche Rovatti, Dal Lago 1990), come una fanciulla che si affaccia alla finestra per poi ritirarsene. Heidegger porta l’esempio dell’emozione che rapisce Ulisse durante l’ascolto del canto dell’aedo Demodoco nel palazzo del re dei Feaci (Odissea, VIII, 83 ss.): Omero racconta «enth’àllous mén pàntas elànthane dàkruan léibon», ossia «allora egli rimase nascosto versando lacrime»: Ulisse non nasconde le lacrime, ma rimane “egli” nascosto, per proteggere il pudore sacro di quel momento di avvicinamento alla verità tramite l’arte del cantore. Egli non ha “vergogna” delle lacrime, ma si riserva di albergare (bergen) la sua dimensione di pathos estetico, nascondendosi alla manifestatività del pubblico: «Omero sembra dunque utilizzare le lacrime dei suoi eroi per ricongiungerli all’essenziale» (Semeraro 2005, p. 22). In questo verecondo alternarsi di presenza e assenza della manifestatività dell’essere, starebbe l’equazione verità-segreto. È possibile isolare (quanto meno) un elemento metodologico da questa visione del rapporto tra verità e nascondimento come alternanza dinamica e “vereconda” della natura umana? Probabilmente la risposta più adeguata a questa domanda ce la fornisce Vattimo nella prefazione di Saggi e discorsi di Heidegger, quando afferma che il filosofo ci pone di fronte a un modo di pensare “altro” rispetto a quello caratterizzato dal rapporto soggetto-oggetto, diverso «dalla coscienza-consapevolezza come istanza suprema» (Heidegger 1954; tr. it. 1976, p. XVII), un modo, cioè, di pensare l’uomo come differenza e dislocazione rispetto al centro in cui l’umanesimo lo aveva identificato e collocato. Pensare l’uomo in questi termini di incessante trasformazione, pensarlo non diretto verso un modello definitivo, ma sempre “in cammino” (per orientare il quale non bisogna fornire indicazioni univoche, ma Wegmarken, tracce, segnavia), costituirebbe, nelle intenzioni del filosofo, allo stesso tempo il mistero dell’uomo e la cifra metodo-

69


del segreto

logica per interpretarne lo stesso cammino. È su questa considerazione che Heidegger, in La dottrina platonica della verità (1942), opera un passaggio abbastanza radicale all’interno della speculazione sul problema dell’alétheia e del nascondimento, arrivando a identificare - quasi sostanzialmente - quest’ultima con un altro termine greco, la paidéia. Alétheia e paidéia, Unverborgenheit e Bildung, ossia verità e formazione, spiega Heidegger, sono entrambi concetti “vittime” di una mistificazione: la prima, come si è visto, è stata troppo spesso – e continua a essere – considerata come l’atto univoco dell’appropriazione del vero da parte dell’uomo, la seconda, la formazione/ educazione, viene vista anch’essa come l’atto – vettoriale e intenzionale – col quale si tende a “imprimere un modello”. In quest’ottica la Bildung, alla lettera formazione, «forma (cioè imprime un carattere) in quanto, nello stesso tempo, con-forma già a qualcosa di determinante che ha in vista, e che perciò si chiama forma-modello (Vorbild). “Formazione” (Bildung), significa allora imprimere un carattere e conformare a un modello.» (Heidegger 1942; tr. it. 1987, p. 172 ss.).

70

Questo modo di definire la Bildung, tuttavia, farebbe torto e violenza al significato originario della paidéia greca2, perché se essa è (nella definizione che Platone ne dà nel Mito della caverna) «periagoghé òles tes psykés», tradotto da Heidegger con «guida di tutto l’uomo, nella sua essenza, a un mutamento di direzione»3, sembra abbastanza evidente come il suo carattere principale sia dinamico e non statico come la definizione classica di Bildung ci porterebbe a pensare. Detto altrimenti, la paidéia non aspira a un modello (Vorbild), raggiunto il quale il suo “cammino verso la buona formazione” si possa dire completato, ma allude a una dimensione e-ducativa (e-ducere, del resto, significa “trarre fuori”, e non “imporre un modello”) che si-forma attraverso continui aggiustamenti, adattamenti, corresponsioni a verità multiple e che, di volta in volta, vengono avvertite come le issues con le quali bisogna fare i conti. Se allora, come dice Foucault, le rivoluzioni future dovranno essere di ordine “etico”, Heidegger sembra suggerire come la faccenda sia quella di tornare all’etimologia del termine etica: ethos (in tedesco Aufenthalt) significa “soggiorno”, ossia “atteggiamento soggiornante”, non solo verso le cose, ma anche verso il sapere

pesare


(e quindi verso l’educazione). Poiché dunque, il concetto di soggiorno, per sua stessa semantica, racchiude un carattere plurale (perché se il soggiorno fosse singolo e solo non sarebbe più tale, ma si parlerebbe di dimora stabile), nella dimensione dell’attraversamento dei vari soggiorni – etici, estetici, epistemologici – che di volta in volta la vita ci presenta, probabilmente pulsa il senso del rapporto tra la polisemia della alétheia e il principio di trasformazione della paidéia «“formazione” e “verità” si compongono subito in un’unità essenziale» (ivi, p. 174); perché «la riflessione sulla paidéia e il mutamento dell’essenza dell’alétheia sono tra loro connessi e fanno parte della stessa storia del passaggio da un soggiorno all’altro» (ivi, p. 188). Ecco che, unendo nei significati nascosti paidéia e alétheia, Heidegger, allo stesso tempo, confuta la teoria platonica della verità come soggiogamento dell’idea: se svelatezza e formazione/ educazione appartengono alla stessa costellazione di significati, è in virtù della loro comune lontananza dalla pretesa di orthotés, di “giustezza” oggettiva rispetto alla gamma storico-emozionale che gioco-forza la vita propone. Non si tratta allora di isolare una verità e di pianificare una educazione che abbiano carattere di correttezza e attinenza a un modello, ideali di una Bildung che Lessing nel 1780 descriveva in L’educazione del genere umano, ma di pensarle in maniera “euristica”, di ricerca e trasformazione (Umbildung). Lacan: dal nascosto al segreto

disvelamento come trasformazione

del segreto

In queste caratteristiche possiamo legittimamente rintracciare quei caratteri di pudore e alternanza che il termine alétheia da sempre suggerisce. Sarebbe interessante chiedersi, a questo punto, compiendo un’apparente passo a ritroso, qual è la dimensione all’interno della quale la lethe dell’alétheia non viene svelata e si mantiene segreta. In altre parole: abbiamo visto che la verità è pensabile, più che come oggetto definitivo, come alternanza di svelamenti e nascondimenti, ma cosa succede quando questi ultimi vengono sottratti ai primi, ovvero: come transita un (semplice) nascosto nella dimensione del “segreto”? Se esiste una differenza tra i due, come fa il primo a trasformarsi nel secondo? A fornirci una differenza tra nascosto e segreto, sebbene nella

71


del segreto 72

sua produzione scritta non lo abbia mai fatto esplicitamente, è Jacques Lacan, il quale ha sempre fatto flirtare la (sua) psicanalisi con letture filosofiche, prime fra tutte le lezioni di Kojeve sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel e l’ermeneutica dello stesso Heidegger (celeberrima la boutade mangia il tuo Dasein!). Lacan, come si diceva, non ha mai dedicato uno scritto o un seminario al tema del segreto in quanto tale, tuttavia la sua impostazione/ revisione della psicanalisi, incentrata sull’importanza del linguaggio (innesto della linguistica strutturale di De Saussure e di temi heideggeriani), ne è impregnata. Secondo Lacan «l’inconscio è strutturato come un linguaggio», cioè più che “nascondersi”, come spesso si tende a pensare, esso “parla” (ça parle) all’interno di una struttura che è, appunto, discorsiva e quindi caratterizzata da simbolizzazioni e figure retoriche (metafore e metonimie in primis) che appartengono all’ordine del linguaggio. Se dunque l’ES è strutturato come un linguaggio, profondo e loquente, l’IO (Lacan rispetta la divisione delle istanze psichiche di Freud, nei confronti del quale, anzi, esorta un “ritorno”) è «strutturato come un sintomo», ovvero esprime e rende visibile l’oggetto del discorso dell’ES. Questo significa, dice Lacan, in una prospettiva assolutamente antiegologica e anticartesiana, che sarebbe più corretto affermare che noi «siamo parlati», piuttosto che parlare, in quanto la retorica dell’inconscio è il vero protagonista dei messaggi che consapevolmente mandiamo e riceviamo. Ciò che crediamo di comprendere come significato dei nostri contenuti mentali in realtà potrebbe definirsi un «sintomo», nel senso che porta alla luce, in maniera criptata, il messaggio dell’inconscio, di cui possiamo invece solo cogliere i significanti (sogni, lapsus, prossemica, cinesica ecc.), cioè la forma stessa del linguaggio che parla. Senza entrare ulteriormente nella, peraltro molto complessa, teoria psicanalitica lacaniana, ci limitiamo ad aggiungere, a vantaggio del nostro discorso, che se la verità che parla attraverso il linguaggio criptato dell’inconscio (moi, la verité, je parle) deve essere interpretata in un «altrove», dice Lacan, cioè in un posto che non è quello immediatamente analizzabile del discorso dell’IO, questo significa che non esistono messaggi «nascosti», ma solo «segreti», cioè «corrotti nella struttura». Il fenomeno psicanalitico della rimozione, allora, perde lo status di primadonna nell’interpretazione delle psicopatologie: è possibile immaginare un tratta-

pesare


mento analitico all’interno del quale “come si parla” conta almeno quanto “ciò che si dice”. I segreti racchiusi nel “come si parla” sono a disposizione, ma bisogna usare un’altra grammatica per leggerli: essi non sono mai nascosti, dice Lacan, ma segreti, non occultati, ma truccati; la differenza tra nascosto e segreto, quindi, sembra essere strutturale: ciò che è nascosto (rimosso, evitato, dimenticato) lo si nasconde perché resti tale; il segreto, invece, deve portare il segno di se stesso, deve attestare la presenza di qualcosa senza però rivelarla, sembra suggerire Lacan, così come il secretaire, il mobile ottocentesco in cui si custodivano a chiave le carte e i documenti importanti, testimoniava la presenza degli stessi! In quest’ottica, i segreti non sarebbero mai “nascosti”, ma sempre latenti e dissimulati, come nel racconto La lettera rubata di

del segreto disvelamento come trasformazione

73


del segreto

paolo pellegrino l’opera d’arte e il suo enigma

Edgar Allan Poe (che peraltro anche Lacan, per esiti differenti, usa in un suo celebre seminario). La trama del racconto sembra insinuare che il miglior modo per nascondere i segreti sia quello di metterli dove tutti li possano vedere: in breve, c’è un Ministro che ha rubato alla Regina una lettera importantissima, che, se rivelata, potrebbe causare la caduta del governo. Il Capo della Polizia, secondo i suoi metodi tradizionali, va con una squadra di poliziotti a cercare nel palazzo del Ministro questa lettera, e giunto colà fa frugare dappertutto, dentro tutti i mobili, infilando spilloni in mezzo ai divani, aprendo tutti i libri ma, naturalmente, la lettera non viene scovata. A quel punto, l’ultima possibilità risiede nell’affidarsi all’intuito di Dupin, l’astutissimo investigatore protagonista dei racconti di Poe, il quale, assoldato dalla Regina per recuperare la lettera, va nello studio del Ministro e la vede lì, come abbandonata per caso, su un caminetto. Esattamente, da questo caminetto vede penzolare un portacarte, di poco prezzo, con un nastro blu cucito sopra. Dentro questo portacarte c’è una lettera e Dupin capisce subito che quella è la lettera rubata. Questo è il segreto: una traccia, direbbe Derrida. Ma nell’essere traccia, il segreto porta il suo carico di simboli, il primo dei quali, verosimilmente, è proprio il fatto di custodirsi, appunto, come segreto.

74

A questo punto il contributo di Lacan e quello di Heidegger sembrano costituirsi in una unità di senso armonica il cui anello di connessione giace nel concetto di segretezza come “verità dell’inaccessibile”; la verità dell’essere, spiega Caterina Resta (1996), si può immaginare come quel presentarsi e sottrarsi (Heidegger) che però è sempre escluso dalla rappresentazione (Lacan). Anche in questo caso affidare una spiegazione alle suggestioni della semantica del termine è forse più illuminante che tentare


analisi cervellotiche: la parola che in tedesco esprime il concetto di segreto è Geheimnis, composto di Heim, casa. Sembra dunque venire a galla una “segreta” linea tematica con i precedenti numeri del Quaderno. Si è parlato di desiderio e di “accesso al desiderio”, si è parlato del rapporto tra spaesamento e riconoscimento, rapporto catalizzato dalla tematica dell’Unheimlich, cioè del familiare che “nasconde” elementi di inquietante estraneità. Ora l’interpretazione del segreto, suggerisce la Resta, ci chiede di tornare ancora una volta nel regno di Hestia, nella casa pensata come l’asilo degli ori da custodire: Ge-heimnis dice infatti il mistero e il segreto come quel raccogliersi nell’intimità della casa, nel suo luogo più riposto e inaccessibile. […] Punto di uno spazio non geometrico e matematicamente calcolabile, perché appartenente a un altro ordine, quello qualitativo, a partire dal quale ha luogo ogni cosa. (Resta 1996, p. 112)

Violare questo luogo, dunque, non accettandone le continue “verità in trasformazione”, significherebbe profanare la stessa essenza dell’uomo, la libertà. «Chissà quanti segreti ci nascondono le persone che amiamo» diceva Sergio Rubini nel film Denti, di Gabriele Salvatores. Non lo sapremo mai. Ma è questo il senso del segreto: la libertà di custodire, in tempi di “comunicazione illimitata”, uno spazio infrangibile e inalterabile. Uno spazio “qualitativo” il cui accesso è consentito solo a noi stessi.

note

del segreto

1 Gia in Essere e tempo (1927), Heidegger aveva contestato il concetto di verità come adaequatio intellectus et rei, cioè di “corrispondenza” nel senso medievale di realitas, opponendo a questa visione il concetto di “apertura” come caratteristica fondamentale dell’Esserci/uomo. 2 Cfr. Jaeger 1944. 3 Periagoghé, sostantivo del verbo periàgo, mutare di direzione, conserva comunque anche l’accezione del verbo àgo, guidare. Heidegger, dunque, lo traduce «guida… a un mutamento di direzione».

75


riferimenti bibliografici

del segreto

Deleuze G., Guattari F. 1991, Che cos’è la filosofia?, tr. it. Einaudi, Torino 1996. Ferraris M. 1998, L’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari. Ferraris M., Derrida J. 1997, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari. Fiorentino G. 2003, Il valore del silenzio, Meltemi, Roma. Foucault M. 1969, L’archeologia del sapere, tr. it. Rizzoli, Milano 1980. Granese A. 2003, Principia educationis, Cedam, Padova. Heidegger M. 1947, Lettera sull’umanismo, tr. it. Adelphi, Milano 1995. Heidegger M. 1943, Dell’essenza della verità, in Id., 1967. Heidegger M. 1943, La dottrina platonica della verità, in Id., 1967. Heidegger M. 1967, Segnavia, tr. it. Adelphi, Milano 1987. Heidegger M. 1944, Alétheia, in Id., 1954. Heidegger M. 1954, Saggi e discorsi, tr. it. Mursia, Milano 1976. Jaeger W. 1944, Paidéia. La formazione dell’uomo greco, tr. it. Bompiani, Milano 2003. Lacan J. 1966, Scritti, tr. it. Einaudi, Torino 1974. Lacan J, 1973, Il Seminario, Libro XI, tr. it. Einaudi, Torino 1979. Lacan J. 1991, Le Seminaire livre XVII, L’envers de la psychanalyse, Seuil, Paris. Kojève A. 1961, Introduzione alla lettura di Hegel, tr. it. Adelphi, Milano 1996. Poe E. A. 1845, La lettera rubata e Lo scarabeo d’oro, tr. it. Demetra, Verona 2001. Resta C. 1988, La misura della differenza, Guerini, Milano. Resta C. 1996, Il luogo, le vie, Franco Angeli, Milano. Rovatti P.A., Dal Lago A. 1990, Elogio del pudore, Feltrinelli, Milano. Semerano G. 2001, L’infinito: un equivoco millenario, Bruno Mondadori, Milano. Semeraro A. 2005, Omero a Baghdad, Meltemi, Roma. Vattimo G., Rovatti P.A. (a cura di) 1983, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano. Vegetti M. 1983, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore, Milano.

76

pellegrino


Premessa Si è soliti parlare, a proposito dell’opera d’arte, di aura, cioè di quell’alone di mistero che la circonda e la rende attraente, a volte a tal punto da provocare in un fruitore particolarmente coinvolto la cosiddetta «sindrome di Stendhal»; di fronte a un’opera d’arte s’avverte, in ogni caso, l’impalpabile malia di un fascino arcano che evoca l’idea dell’enigma, del segreto. Il concetto di segreto ha una storia intricata e una molteplicità di significati, che nel loro insieme articolano una mappa concettuale sfuggente e frastagliata. All’interno delle avventure semantiche di questo termine e dell’omonimo aggettivo, c’è una specificazione relativa all’opera d’arte che merita un approfondimento. L’aggettivo “segreto” può voler significare misterioso, enigmatico. In questa accezione rientra il mito greco della Sfinge, una sorta di mostro alato con corpo di leone e testa di donna che, appostato sulla via di Tebe, divorava i passanti incapaci di risolvere un suo enigma. Si narra che solo Edipo fu in grado di risolvere l’enigma della Sfinge e, in seguito a ciò, lei si uccise. Il mito della Sfinge è già un’utile indicazione e una prima approssimazione per arrivare a identificare il problema del segreto nell’arte. Al centro di Teoria estetica c’è un arduo passaggio in cui Adorno, affrontando la questione del significato delle opere d’arte, lo ritrova serrato dal loro carattere di enigma:

Ponendo in questo modo i termini del problema, non è difficile dedurre che, per Adorno, il compito della teoria estetica si concentra nella soluzione obiettiva dell’enigma che si cela in ogni opera

l’opera d’arte e il suo enigma

del segreto

In suprema istanza le opere d’arte sono enigmatiche […]. La domanda con la quale una qualunque opera d’arte licenzia da sé colui che l’attraversò, la domanda: Che cosa significa tutto ciò?, tornando senza posa trapassa nell’altra: È poi vero?, nella domanda sull’assoluto, alla quale ogni opera d’arte reagisce rinunciando alla forma della risposta discorsiva. […] La forma estrema in cui il carattere di enigma può essere pensato è se il senso stesso ci sia o no. […] Il carattere di enigma guarda diversamente da ogni opera d’arte, però come se la risposta (quale era quella della sfinge) fosse sempre la medesima, quand’anche unicamente nella diversità, non nell’unità che l’enigma, forse ingannando, promette. La promessa è inganno? Questo è l’enigma.1

77


d’arte. «Esigendo la soluzione – incalza Adorno – l’opera rimanda al contenuto di verità»2. E che cos’è l’aura, cioè quell’alone di mistero che ci fa apprezzare l’unicità dell’opera d’arte come portatrice di un significato che non si riduce né all’abilità del maestro né all’espressione storica di un’epoca o di una società, se non il segreto depositato nell’opera stessa, che ci attrae, ci incuriosisce e suscita il nostro interesse3? E il discorso potrebbe continuare. Valga per tutti un esempio particolarmente significativo, tratto da un pensatore per tanti versi agli antipodi rispetto alla costellazione concettuale di Adorno, ma proprio per questo indicativo del comune riferimento all’enigma come la verità nascosta dell’opera d’arte. Concludendo il suo saggio su L’origine dell’opera d’arte, Heidegger scrive: Le considerazioni che precedono concernono l’enigma dell’arte, quell’enigma che l’arte stessa è. Esse sono ben lontane dalla pretesa di sciogliere questo enigma. Ciò che conta è vederlo.4

del segreto

Il segreto dell’arte: un enigma da svelare o da conservare?

78

Com’è facile constatare dalle citazioni or ora riportate, una convergenza non casuale tra gli esponenti più rappresentativi della filosofia dell’arte del Novecento è quella che poggia sul presupposto che l’essenza dell’arte coincide fondamentalmente con il suo segreto. Tra Heidegger e Adorno, che esprimono costellazioni di pensiero lontane e distanti fra loro, vi sono dei punti di contatto relativamente ad alcuni importanti snodi concettuali: 1. l’arte ha un segreto che l’estetica è impegnata a decifrare e risolvere; 2. questo segreto concerne il «contenuto di verità» delle opere (secondo l’espressione adorniana), ovvero la verità che si fa evento nell’arte (nella formulazione di Heidegger); 3. l’estetica, conseguentemente, ha una costitutiva fondazione e una “vocazione” di carattere eminentemente conoscitivo; 4. le opere d’arte hanno uno spessore storico, perché «il loro essere è un divenire» (Adorno) o, come afferma Heidegger, «la verità dell’ente si storicizza» nell’opera, sicché «l’arte è storica»5; 5. ma «se le opere d’arte belle e finite diventano ciò che sono solo perché il loro essere è un divenire, allora esse a loro volta sono rinviate a forme in cui il processo si cristallizza: interpretazione, commento, critica»6; da cui l’esigenza dell’ermeneutica e delle Wirkungsgeschichte (storia

pellegrino


degli effetti)7; nella connessione immanente fra l’arte e la filosofia che aiuta l’arte a venire in chiaro con se stessa, la verità tende a dislocare dalla filosofia e a rifugiarsi nell’arte, diventando suo affare («la musica spiattella i segreti dell’arte», sostiene Adorno, mentre per Heidegger «l’essenza dell’arte è la Poesia»). In ogni caso, sia per Heidegger come per Adorno alla filosofia spetta il compito di diradare la nebbia che si addensa intorno all’arte, vincendo i vincoli di ambiguità e di paradossalità che cingono le opere. Si tratta di penetrare il segreto, cercando di risolverlo. Ma se per ambedue questi pensatori il segreto è, come dire?, un “disvalore”, cioè un problema da vincere e superare, c’è chi ha di recente sostenuto, non senza una qualche efficacia, un movimento opposto, che privilegia invece il fascino discreto proprio del segreto, come se svelandolo lo si dissolvesse, condannando le opere d’arte a perdere quell’aura che le caratterizza e le consacra come tali. Ecco che, come nello specchio di una simmetria rovesciata, Jacques Derrida ha rivendicato il «gusto del segreto». Vale la pena di trascrivere per intero il brano che tematizza questo argomento: Sarei proprio tentato di dire che l’esperienza che faccio della scrittura mi lascia pensare che non sempre si scriva con il desiderio di essere compresi; c’è, al contrario, un paradossale desiderio di non esserlo […]; infatti, se la trasparenza dell’intelligibilità fosse assicurata, distruggerebbe il testo, mostrerebbe che non ha avvenire, che non deborda il presente, che si consuma immediatamente; dunque una certa zona di misconoscimento e di incomprensione è anche una riserva e una possibilità eccessiva – una possibilità per l’eccesso di avere un avvenire, e di conseguenza di generare nuovi contesti. Se tutti possono capire subito quel che voglio dire, non ho creato alcun contesto, ho meccanicamente risposto all’attesa, ed è tutto lì, anche se la gente applaude e magari legge con piacere; poi, chiude il libro, ed è finita.8

del segreto l’opera d’arte e il suo enigma

79


C’è dunque il desiderio, che può sembrare un po’ perverso, di scrivere cose di cui nessuno potrà appropriarsi in una comprensione immediata. Ma far questo, insiste Derrida, è anche un modo per dare a leggere. Se si dà a leggere qualcosa di totalmente intelligibile, che può essere pienamente saturato di senso, non lo si dà a leggere all’altro. Dar da leggere all’altro significa anche lasciar desiderare, o lasciare all’altro il posto di un intervento con il quale potrà scrivere la sua interpretazione di un testo. Ed è qui che il desiderio di non essere compresi significa semplicemente ospitalità alla lettura dell’altro e non rifiuto dell’altro. Nell’orizzonte teorico di Derrida, la preferenza del segreto rispetto al non segreto non è un dettaglio: è una strategia, entro una scena filosofica determinata, per cui si vuole insistere sulla separazione e sull’isolamento. Il «gusto del segreto» ha certo a che fare con la non appartenenza, con un moto di timore o terrore davanti a uno spazio politico, per esempio, a uno spazio pubblico che non dia spazio al segreto. Per Derrida, esigere che si metta tutto in piazza e che non ci sia foro interno, è già il farsi totalitaria della democrazia: «Posso trasformare quanto ho detto in etica pubblica: se non si mantiene il diritto al segreto, si entra in uno spazio totalitario. L’appartenenza, il fatto di confessarla e di mettere in comune, che si tratti di famiglia, di nazione o di lingua, significa la perdita del segreto»9. Accanto al «gusto del segreto», c’è infine, nel panorama filosofico del Novecento, un’altra posizione, antitetica rispetto alle precedenti, che punta risolutamente alla distruzione epistemologica dell’idea stessa di segreto. È quella riconducibile all’empirismo logico e alla filosofia analitica ed emblematicamente riassumibile nella formulazione espressa con perentoria apoditticità da Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus. È sufficiente riportare la proposizione 6.5:

del segreto

80

D’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può anche avere una risposta.

Questo aforisma segue quasi immediatamente quello in cui si annuncia ciò che viene chiamato il Mistico (das Mystische). Esso è l’“ineffabile”, ossia ciò che trascende i limiti del pensiero e del lin-

pellegrino


La natura ama nascondersi (fuvsiı kruvptesqai filei`)11.

l’opera d’arte e il suo enigma

del segreto

guaggio umani. Nessuna proposizione può esprimere il senso del mondo: che il mondo sia non è logicamente giustificabile. I «problemi vitali» a cui allude Wittgenstein sono innanzitutto i problemi morali, religiosi ed estetici, concernenti quelli che abitualmente sono chiamati i «valori». Tali problemi non solo non si fondano sulla conoscenza, ma non sono neppure formulabili, perché – nella prospettiva del “primo” Wittgenstein – il linguaggio dotato di senso si riferisce solo a fatti, mentre i valori non sono fatti. Essi si collocano dunque all’esterno delle possibilità del pensiero. Ne consegue che se il significato dell’arte, la sua verità, non è afferrabile con gli strumenti della logica formale, non si tratta di una difficoltà a decifrare questo contenuto nascosto, ma di una sua distorta e “insensata” formulazione, perché l’enigma non v’è, come recita il testo del Tractatus, e questo al di là della palinodia che su questi temi farà poi il “secondo” Wittgenstein, quello delle Ricerche filosofiche10. Queste posizioni teoriche, che negano il configurarsi nell’arte di segreti carichi di verità da svelare, o addirittura sostengono la produttività di una enigmaticità da tutelare e conservare per non dissolvere in un attimo il fascino di un testo destinato a una indefinita apertura interpretativa, sembrano non tener conto di un carattere peculiare della storia del pensiero occidentale. Eppure la filosofia è nata all’insegna di un’ancestrale sensazione di stordimento e di meraviglia di fronte al mondo e alle leggi o forze segrete che presiedono alla organizzazione dell’universo. La filosofia comincia dunque quando il pensiero umano inizia a interrogarsi sulla natura delle cose, cioè sul loro principio di vita e di movimento. A questo problema cercano di fornire una risposta i primi filosofi (Talete, Anassimandro, Anassimene, i pitagorici, Eraclito) non più, come faceva il pensiero mitico, raccontando in forma poetica la nascita del mondo, ma ricercando un principio razionale interno alla natura e causa delle sue trasformazioni. Si afferma così un atteggiamento nuovo, che oggi chiameremmo “scientifico”, interessato a “spiegare” i fenomeni naturali e a “conoscere” il principio che sta dietro a essi. Il problema dominante dei primi filosofi diventa in questo modo quello di tentare di individuare l’archè (il principio) di tutte le cose. C’è un frammento di Eraclito molto eloquente a questo proposito:

81


Si tratta quindi di cercare il segreto nascosto nella natura e riuscire a darne una spiegazione razionale, venendo così a capo dell’origine e della natura delle cose. Horkheimer e Adorno, in Dialettica dell’illuminismo, sostengono che già «il mito trapassa nell’illuminismo e la natura in pura oggettività»12. Questa dilatazione dell’illuminismo dal solo periodo storico come tale fino ad includere l’intero processo razionale di rischiaramento e demistificazione (Aufklärung) vuol mettere in evidenza come già nell’età arcaica tenda a imporsi il progetto baconiano di dominio sulla natura, ottenuto assecondandone le leggi e carpendone i segreti (natura enim non nisi parendo vincitur)13. Anche accettando la tesi che con i primi filosofi avremmo già una sorta di anticipazione del programma baconiano in base al quale sapere e potere sono sinonimi14, ciò non toglie che il loro atteggiamento nei confronti dei segreti della natura sia quello dello stupore. Nietzsche ricorre a una citazione dal Platone della Repubblica (376 a-b) e caratterizza questo stato d’animo in modo esemplare: Meravigliarsi dell’esistenza è il filovsofon pavqoı. […] Solo per questo le cose più conosciute e quotidiane sono motivo di stupore.15

del segreto

Secondo gli antichi, dunque, la meraviglia è il principio della filosofia. Questa è l’opinione di Platone: «È proprio tipico del filosofo […] l’essere pieno di meraviglia: il principio della filosofia non è altro che questo, e chi ha detto che Iride è figlia di Taumante sembra che non abbia tracciato una cattiva genealogia»16. Dello stesso parere è Aristotele:

82

Gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia (qaumavzein): mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della natura e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti le generazioni dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia.17

pellegrino


Al principio dell’età moderna, Cartesio ha espresso un analogo concetto: Quando il primo incontro con qualche oggetto ci sorprende e lo giudichiamo nuovo o molto differente da quel che conoscevamo prima, oppure da quel che noi supponevamo dovesse essere, ciò fa sì che l’ammiriamo e ne siamo stupiti. E siccome ciò può capitare prima che conosciamo minimamente se quest’oggetto ci sia o no conveniente, mi sembra che la meraviglia sia la prima di tutte le passioni.18

Se la filosofia nasce dalla meraviglia di fronte ai fenomeni della natura e alla nostra collocazione nel mondo, ne consegue come risposta da parte dell’uomo lo stimolo e il desiderio di conoscere per capire e al tempo stesso per poter padroneggiare gli eventi: in questo consiste quello che – parlando di Eraclito – Nietzsche chiama il «pathos della verità»19, cioè quel misto di stupore e di tensione nel voler penetrarne i segreti della natura (e dell’arte) per accostarsi alla verità. Adorno: l’enigma dell’opera d’arte e il suo contenuto di verità

l’opera d’arte e il suo enigma

del segreto

Adorno analizza la natura dell’arte utilizzando una serie di polarità: mimesi della natura e libera costruzione di oggetti, fatto sociale e creazione autonoma, espressione del soggetto particolare e prodotto della validità oggettiva e universale. Per rendere giustizia alla propria natura, l’opera non deve porre un artificioso equilibrio tra queste o altre polarità, ma deve perseguire il suo telos costruttivo spingendo le proprie scelte fino in fondo. Rilievo assolutamente centrale assume, nella Teoria estetica, il concetto di forma: «Poiché l’estetica presuppone già sempre nella datità dell’arte il concetto di forma, cioè il proprio centro, c’è bisogno di tutto il suo sforzo per pensare tale concetto»20. Esso designa la coerenza dell’opera d’arte: il termine «forma» indica il condensato della razionalità propria dell’arte, l’organizzazione di ogni singolo elemento dell’opera, in modo che esso «parli» coerentemente col tutto ma resti individuato. Nell’elaborazione formale, e cioè critica, dei suoi momenti, l’arte si pone in stridente contrasto con l’empiria, trasformando tutto ciò che tocca e rendendo non empirico il contenuto empirico: «La forma agisce come un magnete che ordina gli elementi dell’empiria in una maniera che li estranea al

83


del segreto 84

contesto della loro esistenza extraestetica e solo così essi possono diventare padroni dell’essenza extraestetica»21. Come «mondo ancora una volta» – secondo la tesi di Schopenhauer che Adorno riprende –, l’arte non incorpora niente che non provenga dalla realtà, e tuttavia niente vi proviene senza rielaborazioni e trasfigurazioni22. La cerniera che lega tutti i momenti di logicità nell’arte è appunto la forma, la coerenza con cui ogni opera d’arte si separa dal puramente esistente. Essa non deve pertanto essere intesa come momento soggettivo di impostazione e dominio nei confronti di ciò che deve essere formato; piuttosto essa è tale per Adorno solo laddove sgorga nel formato, che a sua volta non va pensato come contenuto esterno alla forma, bensì come l’insieme degli impulsi mimetici che tendono a quel mondo d’immagini che è la forma: «esteticamente la forma è nelle opere d’arte essenzialmente una determinazione oggettiva»23. Come «sintesi non violenta del disparato», la forma è anzitutto organizzazione di ciò che si manifesta nell’opera fino a renderlo coerentemente eloquente e tuttavia mantenendolo come ciò che è, nella sua divergenza e nella sue contraddizioni. La concezione dell’opera d’arte come qualcosa d’immediato viene pertanto contestata da Adorno, che vede nella forma l’elemento di mediazione tramite il quale le opere d’arte divengono tali. In tal modo l’arte prende posizione nei confronti dell’esistente proprio attraverso la distanza da quello: se nella realtà le contraddizioni sono immediate, la loro mediazione, che in-sé è contenuta nel reale, diventa il per-sé della coscienza solo attraverso l’atto del ritrarsi, compiuto dall’arte. In ciò tale atto diventa un fatto di conoscenza. In questo movimento, l’arte rientra in quello che Adorno chiama il «principio della costruzione», cioè quello della «fusione di materiali e momenti in una unità imposta», e come tale esso è una configurazione del momento razionale nell’opera. Nel processo costruttivo trapassa all’interno dell’opera d’arte qualcosa della logica e causalità della conoscenza oggettuale, nel modo in cui viene sottomesso senza riserve non soltanto tutto ciò che proviene dall’esterno, ma anche i momenti parziali immanenti a tale processo: nel far questo, la costruzione rappresenta il prolungamento del dominio soggettivo che, quanto più in là viene spinto, tanto più profondamente si cela. È questo il modo, afferma Adorno, in cui «il soggetto astrattamente trascendentale e nascosto (secondo la dottrina kantiana dello schematismo) diventa estetico»24. Ma nella

pellegrino


l’opera d’arte e il suo enigma

del segreto

costruzione Adorno vede contemporaneamente anche il correttivo che limita criticamente la soggettività estetica. Infatti, se da una parte il momento costruttivo vuole trasformare gli elementi del reale al punto che questi divengono poi da sé capaci di unità all’interno dell’opera d’arte, questa sintesi non può d’altra parte che essere desunta, affinché riesca, «da quegli elementi che di per sé non si sottomettono mai senz’altro a ciò che viene loro imposto»25. Così il soggetto diventa semplice funzionario di questo atto e la costruzione si di-spone all’espressione, componendosi degli stessi impulsi mimetici che contraddistinguono il comportamento artistico come posizione nei confronti dell’oggetto: nel rapporto di costruzione ed espressione ritorna lo schema fondamentale delle opere d’arte, quello di mimesi e razionalità. Proprio questo intreccio irrisolto è ciò che spinge Adorno ad attribuire all’arte un carattere enigmatico, mantenendo questa determinazione quasi come una categoria interpretativa dell’opera d’arte lungo tutto il suo percorso teorico. L’arte diviene anzitutto enigma nel modo in cui si contrappone all’esistente, esistente essa stessa, mostrandosi come ciò che in sé ha risolto l’enigma dell’esistenza, l’estraneazione di soggetto e oggetto, mentre in realtà essa non fa che proseguire l’enigma di ciò che semplicemente è, da quando proprio il carattere enigmatico dell’esistente venne dimenticato in virtù dell’indurimento, dell’assolutizzazione, toccati agli oggetti nella realtà a opera del processo di razionalizzazione. Ciò che Adorno pone come enigmatico nelle opere d’arte è in tal senso il loro essere interrotte, «poiché in quanto interrotte esse smentiscono ciò che tuttavia vogliono essere». Con un lessico mutuato da Kant, il blocco che sbarra agli uomini l’in-sé delle cose diviene il modello dell’in-sé delle opere d’arte, in forza del quale esse si dispongono come figure enigmatiche nel cui regno non si dà più alcuna differenza di in-sé e per-noi: «proprio come bloccate le opere d’arte sono immagini dell’inseità»26. Con gli enigmi le opere d’arte condividono l’ambivalenza di determinatezza e indeterminatezza. Esse sono, precisa Adorno, punti interrogativi, ma la loro figura è così precisa che impone di oltrepassare quel punto in cui l’opera d’arte si arresta. La risposta che esse esigono in quanto enigma si manifesta nell’interpretazione solo passando attraverso tutte le mediazioni, sicché il carattere di enigma delle opere sopravvive all’interpretazione che ottiene la risposta, non si esaurisce cioè nella comprensione estetica, ma si

85


chiude solo alla distanza. In suprema istanza, sintetizza Adorno, le opere d’arte sono enigmatiche non per la loro composizione, ma per il loro contenuto di verità:

del segreto

Il contenuto di verità delle opere d’arte è la soluzione obiettiva dell’enigma di ogni singola opera. Esigendo la soluzione, l’opera rimanda al contenuto di verità. Questo si può ricavare solo mediante la riflessione filosofica. Ciò e nient’altro giustifica l’estetica.27

86

Ogni opera d’arte vive, nell’impostazione adorniana, di un’insufficienza costitutiva che consiste nel fatto di essere ognuna figura di uno spirito obiettivo che però non diviene trasparente nell’attimo del suo manifestarsi, per cui esse esigono l’interpretazione che fa affiorare il loro contenuto di verità. Questa «necessitazione dell’estetica»28, a un’estetica filosoficamente orientata, costituisce il motivo conduttore di tutta quanta la riflessione adorniana sull’arte e deriva dalla posizione stessa in cui viene messa l’opera d’arte nei confronti della realtà, cioè quella della «negazione determinata», che coincide d’altra parte con il punto di vista del pensiero negativo29. Così, dunque, arte e filosofia convergono nel contenuto di verità: «la verità progressivamente dispiegantesi dell’opera d’arte non è altra che quella del concetto filosofico»30. L’arte porta all’espressione in modo non concettuale qualcosa che, afferrato concettualmente, Adorno determina come verità e, in quanto verità, necessità della determinazione concettuale. Ciò non va inteso però nel senso che il contenuto di verità delle opere d’arte è il loro significato; piuttosto, esso è ciò che decide delle loro verità o falsità e per questo diviene commensurabile all’interpretazione filosofica. Tale è il senso dell’affermazione di Adorno secondo cui «l’esperienza estetica genuina deve diventare filosofia oppure non c’è affatto»31. D’altra parte, si deve però aggiungere che la filosofia, se vuole salvare la sua propria esigenza, quella della verità, deve diventare estetica, riferirsi all’arte, per essere certa di ciò che il concetto intende eppure a esso si sottrae. Tuttavia l’affinità della filosofia all’arte non le dà il diritto di incorporare qualcosa di quella, di diventare per sé opera d’arte, perché in tal modo la filosofia postulerebbe che l’oggetto trapassi interamente in essa,

pellegrino


in virtù di una pretesa d’identità a cui ciò che è altro si spiegherebbe di per sé come materiale a priori, mentre per ogni filosofia resta costitutivo il rapporto con l’eterogeneo: «L’arte e la filosofia hanno il loro elemento comune non nella forma o nel metodo configurativo, ma in un comportamento che vieta la pseudomorfosi. Entrambe restano fedeli al loro contenuto passando attraverso la loro antitesi; l’arte, diventando refrattaria ai suoi significati; la filosofia, non fissandosi ad alcun immediato. Il concetto filosofico non rinuncia alla nostalgia che anima l’arte senza concetto e il cui appagamento rifugge dall’immediatezza di essa in quanto un che di apparente»32. Laddove la filosofia voglia portare a compimento ciò che l’apparenza dell’arte deve lasciare incompiuto, il suo spirito o enigma, allora la totalità filosofica diventa totalità estetica: ciò è appunto il compito che Adorno ha prescritto alla sua filosofia, che tende a sciogliersi in filosofia dell’arte, il cui asse nevralgico è orientato a decifrare il segreto dell’arte, cioè il suo contenuto di verità. Di questo segreto la filosofia resta il prisma che ne imprigiona i colori, in un continuo scambio di prospettive che oscillano tra speranza come illusione e nostalgia come delusione, sempre sotto il segno di un’oscura minaccia, quella che rompe l’incantesimo ricordandoci che l’arte è un sogno tanto irrinunciabile quanto impossibile. Infatti, «poiché per l’arte l’utopia, ciò che ancora non è, è velata di nero, l’arte stessa resta, con tutta la mediazione attraverso cui passa, ricordo, ricordo del possibile contro il reale che ha soppresso il possibile; resta cioè qualcosa come il risarcimento immaginario di quella catastrofe che è la storia del mondo, resta la libertà che sotto la signoria della necessità non è divenuta reale e di cui è incerto se lo diverrà». L’arte è depositaria di una irrisolta tensione tra eros e thanatos, tra principio di piacere e principio di realtà. Adorno ha di questo paradosso (reale e immaginario al tempo stesso) un lucido presentimento: «L’arte è la promessa della felicità: una promessa che non viene mantenuta»33.

L’approfondimento del ruolo e della consistenza teorica della tematica artistica in Heidegger va immediatamente incontro ad alcuni equivoci34. A cominciare dal fatto che il “primo” Heidegger

l’opera d’arte e il suo enigma

del segreto

Heidegger e l’arte come «messa in opera della verità»

87


del segreto 88

non ha mai esplicitamente affrontato questioni di estetica. Essere e tempo (1927) non contiene infatti che un brevissimo accenno al problema dell’arte, in un contesto peraltro dedicato al linguaggio: «La comunicazione delle possibilità esistenziali della situazione emotiva, cioè l’apertura dell’esistenza, può costituire il fine specifico del discorso “poetico”»35. Ora, è ben vero che questo accenno fugace si rivela prezioso se si considera che connette la poesia a determinazioni quali: discorso, possibilità, comunicazione, affettività; ma è pur sempre solo una traccia e una spia, anche se già prelude all’importanza centrale del tema nelle opere successive. Sarà il “secondo” Heidegger, quello successivo alla «svolta» (Kehre)36, a operare una sorta di torsione dell’intero progetto teorico con una caratteristica dislocazione nella sfera dell’estetico di tutte le questioni in precedenza affrontate in chiave squisitamente ontologica, fenomenologica ed esistenzialistica. Si suole far iniziare la produzione del secondo Heidegger con la conferenza dal titolo Hölderlin e l’essenza della poesia (1936)37, ma anche questo testo è a sua volta preparato da un periodo di incubazione che vale la pena di esaminare. Nella celebre prolusione del ’29 (Che cos’è la metafisica?) egli propone di ripensare la «questione dell’essere» non già, com’era accaduto nella tradizione che va da Parmenide a noi, in rapporto all’essere necessario o alla totalità degli enti, bensì in rapporto al nulla. Senonché il nulla si sottrae sia alla scienza sia alla logica. Infatti la scienza, dice Heidegger, non ha a che fare se non con ciò che è, ossia con gli enti. A sua volta la logica soggiace interamente all’interdetto parmenideo che rifiuta al non essere qualsiasi predicabilità, negazione compresa, pena la contraddizione. Ma se il nulla si sottrae alla scienza e alla logica, non così all’estetica. Tanto è vero che il nulla si fa evidente all’interno di esperienze psichiche il cui organo è qualcosa come un puro sentire. Nell’angoscia, ad esempio, che è percezione del nulla indipendentemente da questo o quell’oggetto. Oppure nella noia, che, di nuovo, è percezione del nulla al di là del disgusto o della repulsione per contenuti determinati. Vero e proprio sentire il nulla, quindi. In quanto puro, questo sentire ha valore ontologico e non soltanto psicologico: per esso, ne va dell’essere e non soltanto dell’affettività soggettiva. Ma se ne va dell’essere, allora non si tratta dell’essere della metafisica, il cui fondamento è la necessità, l’essere che è sempre identico a sé. Al contrario, è l’essere che

pellegrino


è sempre altro da sé, l’essere che emerge da un’abissale infondatezza, l’essere che liberamente si manifesta. Insomma, l’essere il cui fondamento è il nulla e la cui verità diviene nel tempo, si fa storia, evento38. Quasi inevitabile da questo punto di vista, per Heidegger, convertire la questione dell’essere nel «dialogo storico-ontologico» con i poeti39 e dunque l’ontologia nella filosofia dell’arte. La quale indubbiamente ha un aspetto anamnestico. Essa infatti non pretende di scoprire cosa l’arte sia e tanto meno di svelare la verità dell’essere, quasi che la potesse indicare nelle forme trascendentali o archetipiche del suo manifestarsi. Piuttosto, ne sta in ascolto, consegnandosi a quella forma tutta sua di pietà per il vivente che è l’interrogazione dell’enigma ontologico40. Custodendone l’inoggettivabilità, essa non teme di affermare che il fondamento dell’essere è il nulla e perciò l’essere, che è libertà, libertà di assumere forme sempre nuove, trova nell’arte una dimensione a sua misura. Ma ciò comporta una conseguenza non meno significativa. La filosofia dell’arte torna inevitabilmente a incontrare l’estetica. Non è infatti l’estetica a rivendicare il primato del sentire? E non è al sentire, il sentire puro, che si mostra in tutta la sua evidenza il nulla del fondamento? La filosofia che trova il suo inizio in questo fondamento approda senza soluzione di continuità alla filosofia dell’arte. Giunti a questo punto, s’impone una domanda: quale sarà il destino dell’estetica? Volendo attenersi al testo heideggeriano, bisognerà rispondere: questa disciplina, indipendentemente dal suo percorso storico, è comunque spiazzata, in quanto scavalcata per un verso dalla teoria del puro sentire e per l’altro dalla filosofia dell’arte. Nella conclusione al saggio su L’origine dell’opera d’arte, Heidegger assume sinteticamente questo modo duplice, ancipite, di prendere posizione nei confronti dell’«enigma dell’arte». È anzitutto delineata una prima modalità d’approccio:

l’opera d’arte e il suo enigma

del segreto

Da quando ebbe inizio una considerazione specifica dell’arte e degli artisti, questa considerazione ha preso il nome di estetica. L’estetica assume l’opera d’arte come un oggetto, e precisamente come l’oggetto della aijvsqhsiı, della apprensione sensibile nel senso più ampio. Oggi questa apprensione prende il nome di esperienza vissuta [Erlebnis].41

89


Ambigua e paradossale, l’arte è però anche altro: l’arte fa scaturire la verità, essa è la «messa in opera della verità». L’essenza dell’arte s’interseca e in definitiva coincide con l’essenza della verità:

del segreto

La verità è il non-essere-nascosto dell’ente in quanto ente. La verità è la verità dell’essere. La bellezza non è qualcosa che si accompagni a questa verità. Ponendosi in opera, la verità appare. L’apparire, in quanto apparire di questo essere-in-opera e in quanto opera, è la bellezza. Il bello rientra pertanto nel farsi evento della verità.42

90

Ora, a ben vedere, l’estetica nel suo sviluppo moderno, cioè nel periodo che l’ha vista farsi autonoma e mondana, non è stata in fondo altro che questo: da una parte, teoria del puro sentire (basta accennare, per questa tradizione interpretativa, alla definizione kantiana del bello come «ciò che piace universalmente senza concetto»43) e, dall’altra, filosofia dell’arte (influente caposcuola di quest’altro orientamento è Hegel, per il quale «il vero e proprio termine per la nostra scienza è “filosofia dell’arte”, e più specificamente “filosofia della bella arte”»44). Certo, questo non significa che la storia dell’estetica sia interamente riconducibile ai due soli indirizzi che fanno rispettivamente capo a Kant e a Hegel. Ma qui è importante notare che questa doppia tradizione confluisca in Heidegger, nel singolare intreccio di teoria del puro sentire (quindi capacità di pensare l’inscindibile nesso di bellezza e verità e di prestare attenzione all’essenza della verità fino a mettere in questione il proprio ruolo storico). In questo contesto, ad apparire decisivo è l’incastro dell’una nell’altra concezione. Infatti una teoria del puro sentire che escluda la considerazione filosofica dell’arte si riduce a una vuota riflessione trascendentale sulle condizioni a priori dell’esperienza estetica. Viceversa una filosofia dell’arte che esalti il valore esemplare dell’esperienza estetica, prescindendo dai contenuti empirici, non fa che scontare una sua impotenza retorica. È in ogni caso vero che con Heidegger riacquista centralità la questione della verità dell’arte e dell’esperienza estetica: Nella particolare maniera in cui il mondo di impronta occidentale intende la realtà dell’ente, si nasconde una singolare connessione di bellezza e verità. Al mutamento dell’essenza della verità

pellegrino


fa riscontro la storia dell’essenza dell’arte occidentale45.

del segreto l’opera d’arte e il suo enigma

91


del segreto 92

Non è un mistero che anche nella prospettiva tanto di Kant quanto di Hegel – sia pure all’interno di un’autentica simmetria rovesciata – l’esperienza estetica determina lo spalancarsi di un’apertura, ovvero l’accendersi di un’illuminazione in cui balena lo splendore della verità. Per Kant vale la distinzione di principio fra due diversi dominî: l’insieme degli oggetti di ogni esperienza sensibile (la natura) e il continente della libertà (l’uomo). Relativamente al vasto territorio della natura, l’intelletto esercita la sua legislazione mediante la formulazione di giudizi determinanti, che riguardano la realtà delle cose; relativamente al mondo dell’uomo, la ragione fonda il suo dominio basandosi su un dato razionale che esibisce in modo evidente e incontrovertibile la sua realtà oggettiva (la libertà come Factum der Vernunft). Ma vi è una terza facoltà di conoscere che non ha un altro ambito di oggetti su cui estendere il suo potere e che fa come da termine medio (Mittelglied) tra l’intelletto e la ragione: è la facoltà del giudizio (Urteilskraft), la quale opera articolando giudizi riflettenti, in relazione al nostro sentimento di piacere o di dispiacere di fronte alle cose. La determinazione della realtà di queste è competenza esclusiva dell’intelletto (cioè della scienza). Non certo dell’arte. Eppure l’arte e l’esperienza estetica rappresentano una via privilegiata d’accesso alla verità. Il mondo per la scienza, secondo Kant, resta muto. E non chiaramente penetrato resta l’enigma della libertà, autentico «fardello che pesa sulla teoria», puro postulato indeducibile della ragion pratica. Il segreto trova la sua soluzione quando si riesca ad andare oltre le nebbie dell’insensato operare meccanico della natura e dell’insondabile mistero del noumeno, consentendo l’aprirsi di quello spiraglio che è il principio della finalità formale della natura, autentica cerniera tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione. Insomma, negandosi all’arte e all’esperienza estetica, la verità dell’essere trova paradossalmente il luogo della sua apparizione proprio in esse, nel regno dell’apparenza. Invece per Hegel la verità dell’essere (l’idea, lo spirito) si offre all’arte e all’esperienza estetica: infatti il bello, egli afferma, è la «parvenza sensibile dell’idea». Perciò l’arte e l’esperienza estetica sono originariamente in rapporto con la verità. Ma la verità, svolgendosi nelle forme storiche del suo apparire, non fa che negarsi per potersi superare. Al punto che, alla fine del processo, di essa non resta più che un’illusione, parvenza appunto. O, meglio, una realtà spirituale che trascende l’arte e l’esperienza

pellegrino


estetica e le destina al passato dello spirito: Ma non abbiamo più alcuna necessità assoluta di dare espressione a un contenuto nella forma dell’arte. Quanto alla sua assoluta destinazione, l’arte è per noi qualcosa di passato.46

l’opera d’arte e il suo enigma

del segreto

Nella riflessione hegeliana – che Heidegger considera la «meditazione più vasta che l’Occidente possegga intorno all’essenza dell’arte» – la verità dell’essere si manifesta per autodistruggersi e risorgere altrove, nella religione e in forma interamente dispiegata nella filosofia: «Il pensiero e la riflessione hanno sopravanzato la bella arte»47. In questa prospettiva di «dissoluzione dell’arte», Hegel stesso vedrà nella dimensione artistica il momento dionisiaco dell’assoluto, laddove in Kant l’estetico si configurava come il dominio dell’apparenza e dell’irrealtà che lascia però venire misteriosamente in luce la verità dell’essere (e cioè la collocazione finalistica e progettuale dell’uomo nella natura e nel «regno dei fini»). Questo rapido excursus sui due principali snodi dell’estetica moderna permette di identificare la presenza di una doppia traccia, kantiana ed hegeliana, nella tesi di Heidegger per cui la verità che l’arte mette in opera è tutt’uno con la non-verità, in un processo di infinita metamorfosi che si dibatte tra «illuminazione e nascondimento dell’ente». Presa nel dinamismo di questa continua oscillazione, la verità di cui qui si tratta non è fondata sull’eternamente identico a sé, ossia sulla necessità, ma è in rapporto – come per Kant – con le due intuizioni pure dell’estetica (spazio e tempo) e con la dimensione – costitutiva in Hegel – in cui cielo e terra s’incontrano, con la storia. Sono i due poli tra i quali si svolge il percorso della verità: quella verità che ha la sua origine nel sentire e le sue figure nel variegato atlante dell’arte, tra folgorazione lirica e capacità di umanizzare inerti materiali dotandoli di senso. Sono pochi i sistemi di pensiero che, come quello heideggeriano, affidano alla filosofia dell’arte il compito di far sbocciare la verità rinserrata nell’enigma dell’arte, in quell’enigma che l’arte stessa è, ed è questo tratto che accomuna Heidegger ad Adorno, pur nella radicale diversità delle loro costellazioni teoriche. Occorre aggiungere che Heidegger finisce col presentare l’intera sua opera come un lungo e reiterato «colloquio» con Hölderlin, un «colloquio pensante» davvero decisivo per il pensiero di Heidegger, come testimoniano sia i richiami episodici sia gli scritti espressa-

93


carlo gelosi pubblica amministrazione: trasparenza e ostacoli

del segreto 94

mente dedicati al poeta. Attraverso Hölderlin, Heidegger pone la questione dell’essenza della poesia e di come il pensiero stesso, nel suo gesto ultimo, si apra appunto su quell’essenza. L’intera opera di Hölderlin conduce verso quel misterioso passaggio. E in questo senso Heidegger può dire che «la poesia di Hölderlin è per noi un destino»48. Con l’avvertenza che la stessa «udienza alla parola di Hölderlin» non ha la pretesa di sciogliere l’enigma dell’arte. In ogni caso, ciò che conta – come ammonisce sempre Heidegger – «è vederlo», intuirne l’inquieta e rivelativa presenza.

note 1 Cfr. Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1970; tr. it. a cura di E. De Angelis, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, p. 183 (corsivo mio). 2 Ibid. 3 Com’è noto, Walter Benjamin ha sostenuto la tesi della perdita dell’«aura» da parte dell’opera d’arte, in seguito all’avvento delle nuove tecniche e al loro carattere di massa (cfr. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, pref. di C. Cases, con una nota di P. Pullega, Einaudi, Torino 2000, pp. 17-56). Questo specifico tema determinò un acuto contrasto, svolto prevalentemente in modo sotterraneo, tra Adorno, che enfatizzava il ruolo e la funzione dell’arte, e Benjamin, la cui influenza godette di un certo prestigio per un lungo periodo di tempo. Nell’oscillazione polare tra i due estremi dell’accettazione e della ripulsa dell’aura, il pendolo sembra ora inclinare verso una concezione aristocratica dell’arte e Vattimo confessa: «Siamo diventati tutti piuttosto “adorniani” che “benjaminiani”?». Che è come ipotizzare un risarcimento postumo della concezione adorniana dell’arte (cfr. G. Vattimo, Tra Adorno e Benjamin, “L’espresso”, 12 febbraio 2004, p. 104). 4 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Id., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 62 (corsivo mio). 5 Ivi, pp. 56 e 61.


del segreto

6 Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, tr. it. cit., p. 276. 7 Per Gadamer, l’arte è anzitutto «esperienza della verità», tanto per l’artista che per il fruitore; solo dimenticando questa duplice apertura ermeneutica si arriva a distorcerne il significato ritenendola godimento estetico, contemplazione e non interpretazione. Il senso di un fatto storico o di un’opera d’arte, sostiene Gadamer, è legato all’intenzione dell’interprete (la sua precomprensione) e alla Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) del fatto o dell’opera stessi (cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. e cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, pp. 128 sgg.). 8 J. Derrida e M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 27-28. 9 Ivi, p. 53. 10 Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 19802, in particolare la parte I, sez. 65. Qui Wittgenstein afferma che non esiste una «forma generale della proposizione», come egli stesso aveva invece cercato di mostrare nel Tractatus, ma che ogni gioco linguistico è «imparentato» con gli altri in modi sempre diversi. Questa affinità va dunque riscontrata di volta in volta nella descrizione, e non è possibile fondare trascendentalmente o logicisticamente la struttura complessiva del linguaggio. Il che comporta il recupero di quelle dimensioni dell’etica e dell’estetica che precedentemente erano state espunte dalla possibilità di una corretta formulazione in proposizioni dotate di senso. Ma su questo tragitto, che comporta una retroazione a feed-back, della riflessione wittgensteiniana, cfr. l’istruttivo e ben calibrato saggio di G. Di Giacomo, Dalla logica all’estetica, Pratiche Editrice, Parma 1989, in particolare pp. 97 sgg. 11 Cfr. Diels-Kranz, 22 b 123. Il frammento è riportato anche ne I presocratici. Testimonianze e frammenti, Introduzione di G. Galli, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 220. 12 M. Horkheimer - Th.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Social Studies Ass. uic., New York 1944; tr. it. di R. Solmi, Dialettica dell’illuminismo, Introduzione di G. Galli, Einaudi, Torino 1997, p. 17. 13F. Bacone, Opere filosofiche, a cura di E. De Mas, 2 voll., Laterza, Bari 1969, vol. I, p. 257. 14 Ibid. 15 F. Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869 – Omero e la filologia classica, a cura di G. Campioni e V. Gerratana, Adelphi, Milano 1993, p. 113. 16 Plaone, Teeteto, 11, 155d, tr. it. di C. Mazzarelli, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p. 206. Vale la pena di ricordare che Taumante è il padre di Iride, messaggera degli dèi. In italiano va perduto il gioco di parole che in greco si instaura fra il nome qauvmaı e il verbo qaumavzein, che vuol dire “provare meraviglia”. Per il significato etimologico di Iride, cfr. il Cratilo, 408 b, dove Platone ipotizza che ««Iriı [Iride] sembra essere stata chiamata così dall’eijvrein [= dal parlare], perché era messaggera». 17 Aristotele, Metafisica, A 2, 982 b 12-19, tr. it., introduzione, note e apparati di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, p. 13. 18 R. Descartes, Le passioni dell’anima, parte II, art. LIII, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, vol. II, Utet, Torino 1994, p. 627. 19 F. Nietzsche, Sul pathos della verità, una delle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. III, tomo II, Adelphi, Milano 19903, p. 213 ss. 20 Cfr. Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, tr. it. cit., p. 202. In un passaggio suc-

95


del segreto 96

cessivo, Adorno precisa: «La forma è la coerenza (per quanto antagonistica e frammentaria) dei prodotti di artificio mediante la quale ogni artefatto riuscito si separa dal puramente esistente» (ivi, p. 203). 21 Ivi, p. 319. Per un adeguato approfondimento del concetto di forma e di quello di costruzione – entrambi centrali nella costellazione teorica di Adorno –, mi sia consentito rinviare al mio Teoria critica e teoria estetica in Th.W. Adorno, Argo, Lecce 2004 (I ed. 1996), p. 116 ss. 22 Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, tr. it. cit., p. 198. 23 Ivi, pp. 203 sgg. 24 Sul concetto di costruzione e sul suo rapporto con la logicità, cfr. ivi, p. 82 ss. 25 Ivi, p. 83. 26 Ivi, p. 181. 27 Ivi, p. 183. 28 Con l’espressione «necessitazione dell’estetica» Adorno intende il bisogno delle opere d’arte di «formarsi, stando a contatto con l’estetica, la forza della riflessione». Ma anzitutto l’estetica è richiesta dallo sviluppo delle opere. Se esse non sono atemporalmente eguali a se stesse, bensì divengono ciò che sono perché «il loro proprio essere è un divenire», allora esse chiamano in campo forme dello spirito attraverso le quali quel divenire si compie, quali il commento e la critica. Ma esse restano gracili se non si raffinano e scaltriscono fino a divenire estetica: «Il contenuto di verità di un’opera ha bisogno della filosofia. Soltanto in esso la filosofia converge con l’arte e si spegne in lei» (ivi, p. 484). 29 Questo tema della «negazione determinata» come elemento di collegamento tra arte e filosofia è ben illustrato nel saggio di B. Lypp, Ästhetischer Absolutismus und politiche Vernunft, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1972, p. 238: «Filosofia e arte sono entrambe legate alla “negazione determinata”. Entrambe sono inconsapevoli scritture storiche della negatività. […] La “negazione determinata” media tra la causalità, il potere della natura dominata, e la libertà. Essa viene descritta in una formulazione positiva come procedimento artistico: in quanto affinità e simpatia con la natura». 30 Cfr. Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, tr. it. cit., p. 187. 31 Cfr. ivi, p. 188. «Se, come teorizzò Hegel, l’ora dell’arte ingenua è passata, allora l’arte deve incorporarsi la riflessione e spingerla così in là che questa non si libri più al di sopra di lei come un qualcosa di esterno, straniero; l’estetica oggi significa questo» (p. 485). Ma un’arte che si incorpori la riflessione, risulta per ciò stesso investita di responsabilità e caricata di significati generali: «L’arte responsabile si orienta verso criteri vicini alla conoscenza, come l’esatto e l’inesatto, il giusto e lo sbagliato» (Th.W. Adorno, Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto, in Id., Dissonanze, a cura di G. Manzoni, Feltrinelli, Milano 1974, p. 9). 32 Th.W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1966; tr. it. di P. Lauro, Dialettica negativa, Introduzione e cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, p. 16 (trad. leggermente modificata). Anche Hegel aveva compreso, secondo Adorno, questa “nostalgia” e la forma figurale della sua filosofia, «la concezione della totalità quale identità mediata a se stessa attraverso la non-identità, traduce una legge della forma artistica a legge filosofica» (cfr. Th.W. Adorno, Drei Studien zu Hegel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M. 1969; tr. it. di F. Serra, Tre studi su Hegel, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 188-89 e p. 127). 33 Th.W. Adorno, Teoria estetica, tr. it. cit., p. 194. Su questo paradosso, in cui va ad incagliarsi l’estetica adorniana, cfr. A. Wellmer, La promessa della felicità e perché essa non può essere mantenuta, in “Nuova corrente”, a. XLV (1998), n. 121/122,

gelosi


pubblica amministrazione

del segreto

numero monografico che raccoglie gli Atti del Convegno internazionale tenutosi a Genova il 4 e 5 aprile 1997 su “Th.W. Adorno, Mito, mimesis e critica della cultura”, a cura di A. Borsari e S. Mele, pp. 19-42. 34 Un’utile panoramica sui problemi sollevati dall’“estetica” heideggeriana è quella delineata in un vecchio ma pur sempre prezioso articolo di P. Chiodi, L’estetica di Heidegger, in “Il pensiero critico”, serie III, 1954, n. 9-10, pp. 1-12. Per un puntuale e aggiornato profilo delle principali tappe della riflessione di Heidegger in campo estetico, cfr. L. Amoroso, Arte, poesia e linguaggio, in Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 199-223. 35 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1978, p. 262. 36 La svolta (Die Kehre) è il titolo della conferenza che Martin Heidegger tenne in più di un’occasione negli anni 1949-50, a conclusione di un ciclo di quattro intitolato: Sguardo dentro ciò che è, con cui intendeva inaugurare una nuova stagione del proprio pensiero. Cfr. M. Heidegger, La svolta, tr. it. di M. Ferraris, Il Melangolo, Genova 1990. 37 Hölderlin e l’essenza della poesia è il testo di una conferenza tenuta a Roma il 2 aprile del 1936, all’Istituto di Studi germanici, su invito di Giovanni Gentile. Cfr. la tr. it. in M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di F.-W. von Herrmann, ed. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, pp. 39-58. 38 Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica? (1929), in Id., Segnavia, tr. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 59-77, passim. 39 È questo il motivo che caratterizza l’ultima fase del pensiero di Heidegger e che del resto era già annunciato nella conferenza tenuta nel 1946 in occasione del ventesimo anniversario della morte di Rilke e intitolata Perché i poeti? Questo testo e il saggio su Il detto di Anassimandro (1946) sono entrambi in Sentieri interrotti, cit. Tra gli altri scritti heideggeriani che più da vicino coinvolgono le tematiche estetiche cfr. altresì: La poesia di Hölderlin, cit.; Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976; nonché In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1973. 40 Sulla scorta di un’originale interpretazione di Heidegger, Gianni Vattimo ha avuto il merito di sottolineare come la ricerca ontologica si possa positivamente coniugare con il nichilismo, i cui tratti «devastanti» sembrano così lasciare il passo all’esercizio della pietas ermeneutica nei confronti del vivente e delle sue tracce (cfr. Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1981). Sempre sulla scia di Nietzsche e Heidegger, un ulteriore approfondimento degli stessi temi, intesi a tracciare una «teoria della modernità» dopo il tramonto della metafisica e la fine delle ideologie, è in G. Vattimo, Nichilismo ed emancipazione, Garzanti, Milano 2003. 41 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 62. 42 Ivi, p. 64. 43 Si tratta della definizione del bello desunta dal secondo momento: cfr. I. Kant, Critica del giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, riv. da V. Verra, introduzione di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 105. 44 G.W.F. Hegel, Estetica, ed. it. a cura di N. Merker, tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1963, p. 5. 45 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 64. 46 G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 16. 47 Ivi, p. 15. 48 Cfr. M. Heidegger, Prefazione alla lettura di poesie di Hölderlin, in Id., La poesia

97


del segreto

di Hölderlin, cit., p. 237. Sul significato complessivo dell’esperienza estetica di Heidegger, cfr. le sintetiche ma dense osservazioni di G. Vattimo, Introduzione a Estetica moderna, a cura dello stesso Vattimo, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 43-44 e di S. Givone, Introduzione a Estetica. Storia, categorie e bibliografia, a cura sempre di Givone, La Nuova Italia, Firenze 1988, pp. IX-XXV (questo testo propone un’interpretazione stimolante del pensiero di Heidegger come luogo di confluenza e di intersezione della duplice tradizione dell’estetica come teoria della conoscenza sensibile e come filosofia dell’arte e del bello; a questo schema interpretativo mi sono in più luoghi rifatto).

98

gelosi


pubblica amministrazione

del segreto

Un approccio, del tutto particolare, all’analisi del concetto di segreto, con specifico riferimento alla ricerca in campo sociologico e istituzionale, propone, tra i tanti, un tema di indagine che, partendo dall’esame del cambiamento avutosi nel paese nel corso degli ultimi decenni, permetta di rilevare i segni della trasformazione sociale, economica e culturale che hanno, con maggiore o minore facilità, portato alla consapevolezza che un paese davvero democratico e moderno debba basarsi sui principi di condivisione e partecipazione. Sono questi due principi che - ispirandosi al dettato costituziona1 le - consentono di riflettere sul cammino fin qui compiuto dal sistema istituzionale, e dunque di riflesso dalla cittadinanza, verso il superamento delle tradizionali dicotomie tra governanti e amministrati, in quello che è stato definito come rapporto di conflittualità e diversità tra uno Stato legale e uno Stato reale. Una dualità che per molto tempo ha ritardato la costruzione di una società coesa e unita e ha altresì generato indifferenze e diffidenze reciproche tra istituzioni e cittadini (Sepe 1999)2. Tale situazione è andata maturando nel tempo per varie ragioni di carattere storico e politico, che prendono origine senza dubbio alcuno dal lungo processo di unificazione del territorio e dalla creazione di una nuova identità nazionale, dopo secoli di divisioni e separazioni. Ciò ha rallentato in qualche misura il percorso di integrazione delle diverse realtà del paese, consolidando aree in difficoltà e rafforzando, laddove ne esistevano le pre-condizioni, situazioni di sviluppo, forza e ricchezza. Non sfugge, infatti, a tale proposito, che la incapacità o mancanza di coinvolgimento dei cittadini nella gestione del territorio dove vivono e, dunque, nel suo insieme del paese, rende sterile o insufficiente l’impegno a favore dello sviluppo. Dal punto di vista dell’osservazione e, di conseguenza, dello studio dei processi di trasformazione della società italiana, proprio la partecipazione si è andata evidenziando come una importante leva che ha consentito, soprattutto nel corso degli ultimi quindici anni, di avviare un serio percorso di cambiamento e di assunzione di coscienza di quanto sia fondamentale per i cittadini essere coinvolti in una condivisione dell’amministrazione (Arena 2003)3, e nel processo decisionale che si deve fondare sui principi, peraltro sanciti dalla normativa, della trasparenza e dell’accesso4. Il tema della partecipazione, è interessante rilevarlo, per certi versi non è che un elemento di continuità con quelli della comuni-

99


del segreto 100

cazione come desiderio e del riconoscimento, trattati nei precedenti due numeri del Quaderno: è infatti elemento fondante del rapporto di reciproca legittimazione, che si basa anche e soprattutto sul desiderio di comunicare, nonché sulla necessità come soggetti sociali e socializzati di farlo dando ampio riconoscimento e rispetto all’interlocutore. Tuttavia il ragionamento fin qui espresso, pur apparendo superficialmente lontano dal concetto-tema del segreto, riporta direttamente a esso con straordinaria forza e incisività. Perché proprio il segreto ha rappresentato per molto tempo una chiave di volta, uno strumento di gestione del rapporto tra Stato e paese, intesi da una parte come insieme delle istituzioni e delle amministrazioni e, dall’altra, come insieme di cittadini amministrati; pertanto, anche sul principio del mantenimento della separazione si è basata la negazione del riconoscimento dei diritti di cittadinanza dei cittadini, che non potevano, non dovevano sapere, conoscere, condividere. La riflessione può assumere un senso del tutto particolare se viene avviata dall’analisi di due dei tanti significati che il segreto può rappresentare e che, in questo caso, aiutano a coglierne il nesso con quanto finora espresso. Segreto inteso come espediente, mezzo, artificio che si tiene celato per utilità o per raggiungere determinati scopi e, altresì, come dispositivo di chiusura, separazione che prevede la possibilità di disvelamento solo da parte di chi ha o ritiene di avere il diritto di “aprire la combinazione”, di far dunque conoscere il contenuto. Di seguito si compirà una analisi del segreto, attraverso la sua declinazione relativamente ad alcuni e differenti segmenti, ovvero si esaminerà il rapporto che è esistito nel passato o è tuttora esistente in diversi ambiti della vita sociale e istituzionale del nostro paese, sicuri che non potranno essere del tutto esaustivi di una ricerca generale e complessiva sul tema, ma che hanno di per sé una portata specificamente rilevante nel percorso di cambiamento e sviluppo della società italiana. A tale proposito, si partirà dall’osservazione di alcuni tratti caratteristici del rapporto tra segreto e Stato, e dell’uso che questi ne ha fatto nel tempo, inoltre a livello indicativo si proporranno alcuni elementi di riflessione sul tema della connessione del segreto con la trasparenza e la partecipazione.

gelosi


Il segreto e lo Stato

pubblica amministrazione

del segreto

Una moderna politica, ci ricordano in un loro saggio Bagnasco, Barbagli e Cavalli (1997)5, ruota intorno allo Stato, un’organizzazione complessa, particolarmente importante, che è alla base del comune vivere di una società. Se per Max Weber6, ci ricordano sempre i citati sociologi, lo Stato può essere considerato come una impresa istituzionale, essa può vivere e svilupparsi grazie alle regole che riesce a imporre in determinati campi di azione. Tuttavia, imporre le leggi può avvenire secondo due modalità distinte e in conflitto tra loro: la prima si manifesta attraverso l’imposizione delle norme, la seconda si realizza attraverso la conoscenza diffusa e dunque la condivisione, la qual maniera porta inevitabilmente all’adozione della comunicazione come strumento di legittimazione. Nel passato (e anche relativamente di recente) si è proceduto per via impositiva e non partecipativa; nelle più diverse forme in cui si è manifestato lo Stato assolutista o comunque non democratico, il segreto rappresentava l’elemento discriminante tra chi contava e chi non era considerato, l’arma, in qualche misura, che mirava a distanziare di conseguenza le classi sociali e che portava intenzionalmente all’esclusione. Questa prassi faceva esercitare all’istituzione (incarnata nel governante) una sorta di forte soggezione sul cittadino che, tenuto all’oscuro, non conoscendo, non vedendo tutelati i propri diritti, era certamente in stato di forte subalternità verso il governo (quasi sempre il signore del territorio, il sovrano più o meno “illuminato”) che poteva esercitare il potere di amministrazione, di decisione, finanche di vita o di morte nei confronti suoi e della sua famiglia. Il cittadino comune rimaneva ai margini della vita politica e amministrativa, senza riconoscimenti. La sua partecipazione era soggetta al volere del governante e della classe dei burocrati del tempo che, per proteggere le amministrazioni e dunque l’esercizio del proprio potere, ricorrevano all’uso del segreto d’ufficio come strumento di controllo del cittadino (Baldi 2005)7. La grande conquista democratica dello Stato moderno è stata proprio aver inteso condividere le scelte istituzionali, legislative e organizzative attraverso il principio della condivisione e della partecipazione. La moderna democrazia è, infatti, basata sul principio del popolo sovrano, un popolo partecipante che può scegliere e decidere per-

101


del segreto

ché messo in condizioni di conoscere. Elemento questo ultimo che porta di per sé alla negazione del segreto e della separazione tra potere costituito e cittadinanza “passiva”. Non più, dunque, lo strumento della gestione delle leve del potere come esercizio di assoluto controllo dei cittadini. Il consenso e il controllo vengono allora assicurati dall’impegno del soggetto amministrato che partecipa sia alla fase di creazione delle regole (ad esempio attraverso l’esercizio del voto, nella dimensione politica) sia alla fase dell’applicazione delle stesse, attraverso la coscienza del diritto di partecipazione, citato innanzi come fattore cardine di democrazia e controllo sui governanti. La democrazia è, pertanto, proprio sulla base della Costituzione del nostro paese, garanzia di libertà di espressione (art. 21), di associazione (art. 49), di elezione (art. 51). Il processo di rinnovamento normativo, che di per sé comporta anche uno sviluppo dell’affermazione dei diritti dei cittadini, trova nella legge 241/90 l’obbligo del rinnovamento del rapporto di fiducia nei confronti dei soggetti amministrati, riconoscendo nella trasparenza l’elemento che consente di superare il segreto d’ufficio. Questa consiste nell’obbligo di rendere pubblici gli atti dei procedimenti, l’accesso a essi, i tempi, il nome del funzionario responsabile, le motivazioni. Cosa può essere, dunque, in un moderno Stato, il segreto se non la negazione dei principi appena affermati, il mezzo per negare la condivisione, per creare distanza se non addirittura distacco rispetto ai cittadini? Si obbedisce allo Stato perché lo si teme, perché è sconosciuto al cittadino e, pertanto, da lui temuto, oppure perché lo si legittima ritenendo valido il suo sistema (Weber 1922)8? La storia anche più recente del nostro paese porta contenuti di

102

il segreto è nell’acme Piazza Fontana, assolveteli tutti (“Corriere della sera” 29 aprile 2005); Piazza Fontana, cala il sipario. Strage senza colpevoli (“la Repubblica”, 4 maggio 2005); Piazza Fontana, una strage oscura (“la Repubblica”, 11 giugno 2005). La strage del ’69 - ha scritto la Cassazione – “è frutto di un ‘acme’ operativo (?) iscritto in un programma eversivo di oscura genesi”. Amen.

riflessione, cui ci si accosta con la dovuta prudenza, rispetto ad accadimenti su cui ancora molto studio deve essere fatto da parte degli


guglielmo forges davanzati, andrea pacella cosa e perché conviene non dire: gli effetti economici della corruzione

L’economia sembra governata da un dio ignoto i cui disegni sono segreti. U. Galimberti

del segreto

storici, in quanto si tratta di fatti non ancora del tutto sedimentati ed elaborati nella coscienza e conoscenza comune. Alcuni elementi utili al ragionamento in corso sono individuabili nelle fasi maggiormente critiche dello sviluppo del sistema democratico del paese, e particolarmente riferibili agli anni Settanta, Ottanta e Novanta del secolo scorso, in quegli avvenimenti che, seppur di natura diversa, hanno rappresentato seri e preoccupanti rischi di destabilizzazione democratica, di sovvertimento delle istituzioni, di delegittimazione dello Stato: i tentativi di golpe, la strategia della tensione, le minacce e gli attacchi terroristici, interni e/o esterni al paese, fino alla crisi di credibilità istituzionale e amministrativa che il periodo cosiddetto di tangentopoli ha provocato attraverso le indagini, i processi, le rilevanze sul mal governo e sul sistema di gestione del paese. In ognuno degli eventi ricordati ha sempre aleggiato il tema del segreto, connesso a una più o meno reale, ventilata o propagandata ragione di Stato, per una presunta o manifesta difesa delle istituzioni e che comunque ha per molto tempo, proprio per il suo troppo frequente uso, portato a dubitarne la reale sussistenza e necessità, alimentando così scetticismo e finanche diffidenza verso il potere che lo poneva come muro tra la ricerca della verità sugli avvenimenti e la proposta di “verità” spesso soggettive, altre volte manipolative e comunque intenzionalmente artefatte. Una declinazione del segreto, del tutto particolare e in ogni modo sempre molto attuale, concerne il concetto di menzogna, ovvero

103


una affermazione contraria a ciò che è o si crede corrispondente a verità; talvolta la menzogna viene pronunciata con l’intenzione di ingannare e con fini malvagi o utilitaristici per coprire una verità che non si vuole rendere pubblica. È dunque una volontaria deformazione, un deliberato travisamento del vero (De Mauro 2000)9. Dunque, affermare il falso o negare il vero con deliberato proposito significa alterare consapevolmente o tacere indebitamente la verità. Ciò appare molto verosimilmente non distante dall’uso manipolatorio del segreto. A tale proposito riscosse particolare interesse, tempo fa, l’intervento su una rivista specializzata sulla comunicazione istituzionale10 di un fine e colto intellettuale spagnolo, Jorge Lozano, già direttore dell’Accademia di Spagna in Italia, che nel commentare l’atteggiamento comunicativo dell’allora governo Aznar a seguito dell’attentato terroristico di Al Quaeda dell’11 marzo 2004 nelle stazioni di Madrid, contrapponeva alla menzogna proposta dal primo ministro la possibilità di un uso sapiente della riservatezza, consentendo anche di non dire tutta la verità - quando non ancora appurata - ma comunque di non indugiare o scegliere di dire bugie. La gente non lo avrebbe accettato (come in effetti fece) e la storia mai avrebbe perdonato. Tuttavia, con fiero riferimento al Don Chisciotte, affermava in conclusione Lozano che «la verità ha bisogno di altre parole per stare in piedi: autenticità, credibilità, legittimità…». La manifestazione della legittimità dei cittadini verso lo Stato, risiede, dunque, nel desiderio di sapere e nell’essere in condizioni di poter sapere.

del segreto

Segreto e privacy

104

Con riferimento a quanto finora detto, e con particolare riferimento all’esercizio della trasparenza, base imprescindibile della ricerca della verità anche e soprattutto in campo istituzionale, non si può non riflettere sui vincoli dettati dall’ordinamento alla segretezza o riservatezza, intendendo per esse il segreto di Stato, il segreto istruttorio, il segreto d’ufficio e la privacy (Bertolami 2004)11. Si tratta di un tema intimamente connesso con la tutela di diritti o beni primari riconosciuti e condivisi tra Stato e cittadini. Di certo le trasformazioni indotte dalle normative più recenti hanno, in qual-

forges davanzati, pacella


gli effetti economici della corruzione

del segreto

che modo, delimitato l’esercizio di tale segreto, proprio al fine di salvaguardare i diritti del cittadino alla conoscenza, alla trasparenza e alla partecipazione. Al contempo, va rilevato che il diritto alla privacy costituisce una sorta di deroga, voluta per la protezione di interessi costituzionalmente garantiti. Nel suo insieme, il concetto di segreto pone il problema di discernere tra reale necessità di salvaguardia della sicurezza istituzionale e salvaguardia dello stesso paese. È pur vero che, nel passato, l’uso frequente (ipotizzabile talvolta anche come abuso) del segreto di stato, ha celato altri intendimenti e sicuramente ostacoli al conseguimento della verità. I segreti cosiddetti occulti o innominati rappresentano il vero ostacolo o “nemico” della trasparenza. Il loro uso esteso rischia di arrivare fino alla tutela di interessi di vario genere (Bertolami 2004). Lo strumento della trasparenza allora diviene regola di democrazia, elemento stabilizzante dell’uso democratico dei poteri dello Stato, nozione stessa del processo democratico. Essa si estende alla capacità delle istituzioni di rendersi intelligibili e partecipate e, altresì, alla possibilità per il cittadino di intervenire nel processo di governo della società, recuperando il potere di influire e un ruolo per troppo tempo residuale o marginale (Rodotà 2004). Certamente il riferimento al rispetto della verità porta con sé l’applicazione delle norme sull’accesso e la trasparenza, in un contesto di tutela e salvaguardia dei diritti fondamentali e delle connesse libertà dei cittadini al cui riconoscimento anche la normativa sulla privacy12 ha dato un forte contributo. Da una parte, si ha il riconoscimento formale del diritto soggettivo all’informazione, esercitabile e tutelato in base alla legge, in quanto elemento fondamentale per la garanzia dei principi costituzionali, dall’altro il dovere delle istituzioni di realizzare flussi bidirezionali di comunicazione. Ecco che, accanto alla libertà di informazione, si pone con forza il diritto/dovere alla informazione. Questo diritto è peraltro garantito, non solo giuridicamente, ma anche tecnologicamente, dalla possibilità di ampliare l’uso degli strumenti di comunicazione tra cittadini e tra essi e le istituzioni/ amministrazioni. Sono le nuove tecnologie della comunicazione a veicolare culture, storie, immagini del mondo, informazioni, dati, e così via fino a costituire il reale mezzo di superamento di luoghi o barriere e a delineare un processo di globalizzazione delle comunicazioni

105


del segreto 106

(Appadurai 1990)13. La rete è rappresentata come luogo di infinita libertà, cui si contrappongono i rischi di abuso, di mancanza di privacy, di violazioni della proprietà (anche intellettuale). Rodotà contribuisce a comprendere questi rischi ricorrendo al tema del bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti e di misura dei diritti, che deve tendere a ricomporre un quadro certo tra diritti all’anonimato e interesse a conoscere l’identità di chi tiene comportamenti contrari alla riservatezza14. Perché il rischio alla delegittimazione dell’uso delle tecnologie, in quanto non sempre in condizione di garantire tutela e rispetto di diritti, è sempre presente; basti pensare alla scarsa utilizzazione nel nostro paese della rete internet per transazioni commerciali, su cui aleggia il timore (talvolta per la certezza provata, altre volte per leggende metropolitane) di manipolazioni e mancanza di tutela dei dati veicolati e diffusi. Si evidenzia, comunque, con chiarezza che non può essere sufficiente una tutela normativa se dal punto di vista tecnologico non ci si pone il problema della sicurezza della rete e dunque dell’applicazione di strumenti (software) sicuri. La tutela della privacy diviene allora elemento di legittimazione sociale della rete e della sua utilizzazione, che poi è essa stessa mezzo di condivisione in quanto capace di garantire accesso alle informazioni ma anche ai servizi e ai prodotti, siano essi di natura pubblica o prettamente di mercato. Per ricongiungere il ragionamento al tema del rapporto tra segreto e partecipazione è utile, infine, sottolineare come la libertà personale di scambio di conoscenze e dunque di accesso può essere garantita solo muovendosi in due direzioni, la prima costituisce il cammino verso una piena società della partecipazione perché basata sull’eguaglianza degli strumenti di informazione e comunicazione - in questo vi è tutta la potenzialità presente e futura delle tecnologie -, la seconda, quella che Rodotà chiama la società della dignità, pone al centro del suo impegno la sapiente tutela dei dati e delle stesse persone. E sul tema della tutela delle persone, non appare irrilevante sottolineare come proprio nell’ambito della privacy si manifestino alcuni segnali di minaccia concernente la crescente diffusione della sorveglianza dei cittadini attraverso un forte e diffuso uso di tecnologie di controllo (tra cui sia le telecamere a circuito chiuso che quelle esterne), attivate con la scusa o ragione di garantire la sicu-

forges davanzati, pacella


rezza di soggetti, beni e proprietà. Si tratta, insieme alla raccolta di informazioni resa possibile dalle moderne tecnologie informatiche, di avere in mano il potere di raccogliere informazioni, di incrociare dati relativi alla previdenza, alla salute, all’identità, alla residenza, all’occupazione, ai movimenti e così via (Castells 1997). Gli Stati hanno sempre raccolto informazioni, ma la possibilità attuale di elaborazione e classificazione consente di definire questa come la società della sorveglianza, più che uno stato di sorveglianza.15 Se con Castells ci si richiamasse a Max Weber, con riferimento alle istituzioni che hanno potere di controllo e di legittimo monopolio della violenza, si potrebbe concordare che si è di fronte a una disseminazione del potere di sorveglianza e della violenza (simbolica o fisica) all’interno della società nel suo complesso. Tema questo che riporta inevitabilmente al punto di partenza del ragionamento fin qui compiuto. Una società che controlla ma non è controllabile, uno Stato che conosce ma non sempre è conosciuto. Una realtà che conosce più segreti di quanti ne sveli.

del segreto gli effetti economici della corruzione

107


note

del segreto

1 Art. 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 2 S. Sepe, Stato legale e stato reale, Il Sole 24 ore, Milano 1999. 3 G. Arena, Comunicazione e amministrazione condivisa, in Teoria e tecniche della comunicazione pubblica (a cura di Stefano Rolando), Etas, Milano 2003. 4 Legge 8 giugno 1990, n. 142 in materia di Ordinamento delle autonomie locali; Legge 7 agosto 1990, n. 241, Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi. 5 A. Bagnasco, M. Barbagalli, A. Cavalli, Sociologia, Organizzazione sociale, popolazione e territorio, Il Mulino, Bologna 1997. 6 M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni Comunità, Milano 2001. 7 I. Baldi, Il segreto amministrativo: profili storici e normativi nel corso dei secoli, in Filodiretto.com, 2005. 8 M. Weber, Wirteschaft und Gesellshaft, 1922, tr. it. Economia e società, Edizioni Comunità, Milano 1950. 9 T. De Mauro, Dizionario della lingua italiana, Paravia, Torino 2000. 10 J. Lozano, Verità e manipolazione. Il diaframma della fiducia, “Rivista italiana di comunicazione pubblica”, Franco Angeli, Milano 2004. 11 F. Bertolami, Comunicare sicurezza e ordine pubblico, in La comunicazione di pubblica utilità (a cura di Stefano Rolando) vol. 1, Franco Angeli, Milano 2004. 12 Legge 31 dicembre 1996, n° 675, Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali. 13 A. Appadurai, Disjuncture and difference in the global cultural economy, in Featherstone (ed.), Global culture: nationalism globalization and modernity, London 1990. 14 S. Rodotà, Tecnopolitica, Laterza, Roma-Bari 2004. 15 M. Castells, Il potere delle identità, Egea - Università Bocconi editore, Milano 2004.

108

forges davanzati, pacella


I più recenti sviluppi dell’economia della politica hanno messo in evidenza come la propensione a intraprendere transazioni illecite possa avere fondamenti razionali anche nel caso in cui i soggetti coinvolti in tali transazioni siano portatori ex-ante di un codice etico potenzialmente inibitore di azioni i cui risultati siano in contrasto con le norme formali (cfr. Costabile e Giannola 1996). Le transazioni illecite – la corruzione, in particolare – presuppone e implica il segreto: affinché, cioè, lo scambio sia realizzato, e realizzato efficacemente, è necessario (come si avrà modo di argomentare) che nessuno, salvo gli agenti direttamente coinvolti, sia a conoscenza del fatto che lo scambio è in fase di realizzazione. Intendiamo, in questa sede, per corruzione uno scambio che soggiace ai seguenti requisiti: a) costituisce una violazione delle norme formali vigenti; b) è tipicamente strutturato nella forma di cessione di risorse (voto)1 dall’individuo A in cambio di cessione – effettiva o promessa - di una prestazione da parte dell’individuo B (ad esempio l’assegnazione di un posto di lavoro). In questa accezione, i due agenti effettuano scambi in un contesto di asimmetria dei poteri contrattuali: se – come si può ragionevolmente ritenere – la cessione di risorse da parte di A precede la controprestazione di B, la scelta di A incorre in problemi di asimmetria informativa (in particolare di moral hazard), non essendo A in grado di prevedere l’effettivo comportamento di B. D’altra parte, stando al modo in cui è stato qui inquadrato il fenomeno, non vi è la possibilità che la reiterazione dello scambio possa dar luogo all’emergere di rapporti fiduciari fra A e B2, ed è su uno schema semplificato di interazione one-shot che l’argomentazione verrà sviluppata. Segue si intende ora fornire risposta ai seguenti interrogativi: quali sono le cause e gli effetti economici dell’esistenza di scambi in regime di corruzione? E qual è il ruolo che il segreto svolge in quest’ambito? Corruzione e segreto

gli effetti economici della corruzione

del segreto

Lo schema al quale ci atteniamo è il seguente. L’individuo A promette di votare il candidato B; il candidato B promette un posto di lavoro ad A, se eletto. Poiché la struttura della contrattazione è basata su impegni assunti, nulla assicura né che A rispetti la promessa, né che B tenga fede al patto. Entrambi i contraenti fronteggiano dunque, come si è accennato, un problema di moral

109


del segreto 110

hazard, ovvero una condizione nella quale – essendo tecnicamente impossibile specificare tutte le clausole contrattuali (nella fattispecie, inoltre, è tecnicamente impossibile finanche stipulare un contratto) – entrambi non sanno ex-ante cosa l’altro contraente farà. La sua azione è “nascosta”. È peraltro evidente che, nella fase di stipula della transazione, conviene a entrambi i contraenti dichiarare che rispetteranno l’impegno, dal momento che è solo una promessa credibile a rendere possibile la transazione stessa. È altrettanto evidente che – per entrambi, e soprattutto per il politico nel caso in esame – conviene mantenere nascosta la disponibilità effettiva di mantenere l’impegno. Non solo. È soprattutto della massima importanza, per il politico in prima istanza, rendere “pubblicamente non osservabile” il segnale, ovvero tenere segreta la transazione: se così non fosse, infatti, all’aumentare del numero di individui che sono a conoscenza della promessa di un posto di lavoro, essendo la credibilità della promessa inversamente correlata alla possibilità di mantenere l’impegno, la promessa stessa diventa sempre meno credibile e, dunque, sempre meno conveniente diventa la scelta di intraprendere transazioni illecite. In questo schema semplificato, è razionale corrompere ed essere corrotti laddove sussistano le seguenti condizioni: a) il politico deve essere massimamente credibile, e la credibilità della sua promessa dipende dalla ragionevolezza del contenuto della stessa. La ragionevolezza, a sua volta, può essere legata a due ulteriori variabili: i) la non pubblicità del segnale, come argomentato sopra; ii) la relazione che intercorre fra il potere del politico (soprattutto il potere percepito dal lavoratore) e il contesto socio-economico nel quale la sua azione dovrebbe aver luogo3 e infine iii) la capacità persuasiva del politico, che può modificare la percezione del suo potere; b) l’effettivo realizzarsi della transazione illecita dipende, in misura rilevante, dal contesto socio-economico nel quale essa ha luogo. Due variabili, in particolare, possono orientare l’elettore verso scelte di voto “non etiche”4: il tasso di disoccupazione e il livello delle retribuzioni; variabili, in entrambi i casi, riferite al momento dello scambio e previste. In altri termini, appare ragionevole ritenere che al crescere della disoccupazione e al ridursi delle retribuzioni medie, cresca la propensione a effettuare scambi illeciti, potendo ciò determinare la “conversione” di individui con elevata “moralità” (qui, nell’accezione di avversione alla vio-

forges davanzati, pacella


lazione di norme formali) ex-ante in individui con bassa – o nulla – “moralità” ex-post, indipendentemente dal fatto che tale “conversione” sia temporanea o permanente. Le aspettative dei lavoratori in ordine all’andamento futuro di disoccupazione e retribuzioni ragionevolmente contano: se la motivazione etica è “forte” ex-ante e se, congiuntamente, si prevede un incremento dell’occupazione e delle retribuzioni indipendentemente dall’azione politica (laddove questa è subordinata a fenomeni di corruzione), appare plausibile ritenere che il numero di transazioni illecite risulterà inferiore rispetto al caso di aspettative pessimistiche. Appare ora chiaro che – al fondo dello schema qui delineato – la percezione è una pre-condizione rilevante; e la percezione è strettamente connessa all’incertezza. L’incertezza del segreto

gli effetti economici della corruzione

del segreto

Occorre considerare che una variabile estremamente rilevante nel determinare la convenienza e l’esito stesso dello scambio è l’incertezza, ovvero la presenza di una condizione per la quale sia l’individuo A (l’elettore “non etico”) che l’individuo B (il politico “non etico”) non sono in grado di anticipare razionalmente l’evolversi delle proprie azioni. Più precisamente, l’ambiente nel quale il politico “non etico” e l’elettore “non etico” operano si caratterizza per la presenza di una quantità e qualità di informazioni che risulta essere contemporaneamente incompleta e asimmetrica. In particolare, l’asimmetria informativa si caratterizza per il fatto che, sia il politico “non etico” che l’elettore “non etico” possiedono una diversa entità e tipologia di informazioni sugli elementi rilevanti nel processo di scambio illecito. Da una parte, infatti, solo il politico è in grado di sapere se ci saranno possibilità di attribuire concretamente un posto di lavoro all’elettore a seguito dello scambio illecito. In questo caso quindi il politico “non etico” in realtà nasconde una parte della informazione rilevante all’elettore perché è ovvio che, se il politico dovesse informare correttamente l’elettore circa le possibilità concrete di attribuzioni di posti di lavoro, l’elettore potrebbe razionalmente scegliere di non dare atto allo scambio se ritiene che il risultato probabile non sia conforme al risultato atteso (è questo il caso della particolare forma di asimmetria informativa nota in economia con il termine informazione nascosta). Dall’altro

111


del segreto 112

lato, poi, il politico non può essere mai certo del fatto che l’elettore voterà effettivamente per lui; in particolare, l’elettore è in grado sempre di nascondere al politico l’effettiva propria azione, e questo perché il politico può solo sapere se l’elettore voterà ma non sarà mai certo per chi effettivamente l’elettore voterà (è questo il caso della particolare forma di asimmetria informativa nota in economia con il termine di rischio morale). C’è da aggiungere, inoltre, che i due agenti, oltre ad agire in un contesto di informazione asimmetrica – nella duplice forma di informazione nascosta e rischio morale - agiscono anche in un contesto nel quale l’informazione sull’ambiente nel quale si opera è, di fatto, incompleta; in questo caso, quindi, né l’elettore “non etico”, né il politico “non etico” possiedono tutte le informazioni necessarie per agire con certezza; si pensi ad esempio a un intervento improvviso della magistratura nel momento successivo allo scambio illecito: nessuno dei due individui è mai in grado di conoscere o prevedere quando questo evento – rilevante ai fini degli esiti dello scambio – si verifichi realmente (è questa quindi la condizione nota in economia con il termine incertezza) (cfr. Garofalo e Qunitiliani 1994, cap.1). Con particolare riferimento al caso della incertezza, è possibile affermare che i due agenti si trovano a operare all’interno di un sistema di interazioni sociali caratterizzato contemporaneamente dall’esistenza di uno stato di incertezza sia “oggettiva” che “soggettiva”. In particolare, l’oggettività dell’incertezza risiede nell’impossibilità - perché intrinseca nello stato delle cose - di formare una conoscenza esatta su qualcosa prima che la stessa si verifichi. L’individuo A, ad esempio, non è in grado di conoscere in anticipo e con esattezza il tempo entro il quale il segreto della transazione illecita continuerà a essere tale né di conoscere le modalità con le quali lo stesso potrà venire meno e non è neppure in grado di formare previsioni sulla coerenza dei risultati effettivi dell’azione rispetto alle aspettative. È vero che l’individuo A è in grado di attribuire prima dello scambio un certo grado di probabilità al mantenimento nel tempo del segreto dell’azione illecita o al raggiungimento di un dato risultato, ma la correttezza dei suoi giudizi probabilistici – sia oggettivi che soggettivi - è in relazione inversa all’entità delle «influenze disturbatrici» (Knight 1921/ 1971, p. 198), ovvero di quegli eventi del tutto imprevedibili – sia oggettivamente che soggettivamente – e del tutto improvvisi che

forges davanzati, pacella


gli effetti economici della corruzione

del segreto

hanno un diretto impatto sull’esito dello stesso scambio5. Conseguentemente, al crescere del numero e della tipologia delle influenze che direttamente o indirettamente “disturbano” la stabilità del segreto cresce anche l’incertezza dell’esito dello scambio illecito6. Per quanto detto sopra è necessario anche rilevare che le influenze in grado di minare la stabilità del segreto della transazione illecita possono essere: a) esterne al rapporto di scambio, in quanto sono legate a una oggettiva incertezza (come nell’esempio dell’azione giudiziaria inattesa), o b) interne al rapporto di scambio, perché legate a uno stato di soggettiva incertezza (come nell’esempio della rinuncia da parte di un agente del contratto illecito). Inoltre, l’entità dell’incertezza reale dell’ambiente nel quale i due individui si trovano a confrontarsi ha ovviamente una rilevanza sulla percezione individuale della stessa incertezza; in altre parole è possibile affermare che le influenze disturbatrici interne sono una relazione crescente delle influenze disturbatrici esterne. La mancanza di informazioni circa l’evolversi di entrambe le influenze disturbatrici comunque non nega del tutto la capacità di percepire soggettivamente l’esito della transazione illecita in quanto la mancanza di informazione diretta del futuro viene sopperita dalla diffusione di informazione indiretta sotto forma di conoscenza: a) dello “stato del presente” nel quale l’azione viene messa in atto, b) dello “stato delle opinioni” sul perseguimento di una azione illecita e c) della eventuale istituzionalizzazione dello stesso agire (cfr. Keynes 1973, p.114). Questi tre elementi hanno inoltre un effetto diretto sulla percezione del potere delle parti coinvolte nell’azione illecita. Se ad esempio l’adozione di una azione illecita rispecchia le modalità di formazione compatibili con casi analoghi già verificatisi e noti, l’azione illecita assume in realtà una forma di norma sociale in relazione a specifici contesti sociali ed economici, in quanto norma “regressiva”7; in questo caso l’individuo A presumibilmente percepisce un alto livello del potere dell’individuo B, così come l’individuo B percepisce un alto livello del proprio potere. Essendoci in pratica simmetria delle percezioni di potere e delle aspettative, le parti effettuano lo scambio illecito in quanto l’effettività del potere di B deriva dalla verifica diretta dei risultati delle azioni passate. In particolare, l’effettività del potere di B è strettamente legato al consolidamento nel tempo dei comportamenti corruttivi

113


del segreto 114

da lui direttamente sperimentati con esito positivo o da altri già compiuti all’interno dello stesso ruolo e sempre con esito positivo. Dall’altro lato poi il consolidamento dell’agire illecito trasformandosi in norma sociale consente di abbassare il livello dell’incertezza percepita in quanto la numerosità e distribuzione delle evidenze passate positive permette agli individui di attribuire una probabilità quasi nulla al modificarsi improvviso e imprevedibile della norma stessa. Di conseguenza gli esiti dell’azione illecita condurranno a risultati positivi per entrambi le parti, per lo meno finché l’atto illecito cessa di essere una norma, ovvero quando si verificano eventi del tutto imprevedibili. Sinteticamente, quindi, il livello di incertezza oggettiva ha in questo caso un effetto sugli esiti dell’azione solo quando essa è in grado di modificare la norma che regge il protrarsi nel tempo della stessa azione illecita; è per questo motivo che nonostante l’istituzionalizzazione dell’illecito, l’azione continua a mantenersi segreta. Poiché non è possibile eliminare l’incertezza oggettiva nessuna delle parti ha, poi, convenienza a rendere pubblica la propria azione. Ciò che l’istituzionalizzazione dell’illecito consente è solo il controllo della incertezza soggettiva, ma non anche di quella oggettiva. Diverso è invece il caso dell’agire con riferimento alla visione dello stato del presente; in questo caso la visione, anche se parziale, del presente nel quale i due individui agiscono è una base sufficiente per una formulazione di aspettative circa l’esito dell’azione illecita per il tramite della percezione del potere. In questo caso, lo stato del presente ha un risultato diretto sull’effettività del potere, nel senso che la visione del presente rappresenta l’evidenza concreta di come il potere percepito si concretizza; se ad esempio l’individuo A scambia il suo voto per ottenere un posto di lavoro sotto uno stato presente di elevata disoccupazione, lo stesso individuo tenderà ad attribuire un elevato potere all’individuo B poiché A agisce sotto un elevato stato di incertezza soggettiva. Dall’altro lato però l’individuo B, avendo maggiori informazioni sullo stato del presente rispetto all’individuo A, è consapevole del suo livello basso di potere effettivo, ma, per ottenere comunque lo scambio, egli agisce sulla capacità persuasiva della segretezza dell’azione al fine di fare attribuire da altri un’elevata percezione del suo potere. In questo caso però sia le percezioni del potere che le attese dei risultati dell’azione sono asimmetrici per le parti in quanto, agendo sotto condizione di stato sfavorevole del

forges davanzati, pacella


gli effetti economici della corruzione

del segreto

presente per l’individuo A, lo scambio condurrà a un risultato negativo per A e solo positivo per B. Di conseguenza più alto è in questo caso lo stato oggettivo di incertezza dell’ambiente nel quale l’individuo A agisce, minore è la probabilità che lo stesso ottenga i risultati sperati. In questo caso inoltre la natura segreta dell’azione illecita è funzionale al raggiungimento dei risultati sperati ma solo da parte dell’individuo B, poiché la conoscenza dello stato del presente lo avvantaggia maggiormente rispetto all’individuo A. In conclusione, la conoscenza dello stato del presente riduce la soggettività dell’incertezza ma solo nei confronti del soggetto a cui è noto lo stesso stato. Al contrario, l’individuo che è all’oscuro, o comunque conosce in misura minore l’effettività dello stato presente delle condizioni nelle quali si agisce, verificherà un elevato stato di incertezza soggettiva, che non gli consentirà di vagliare ragionevolmente l’efficacia dell’azione illecita. Ambiguo è invece il caso dell’azione illecita condotta sotto l’influenza delle opinioni esterne. In questo caso l’individuo A attribuisce un livello di potere all’individuo B senza alcuna considerazione circa lo stato del presente o l’esperienza, diretta o indiretta, passata. La sua scelta circa la concretizzazione dello scambio illecito si basa esclusivamente sul “sentito dire”, cioè sulle ipotesi formulate da altri e che sono del tutto aleatorie in quanto opinioni, non sostenute quindi da evidenze empiriche. Certo è però che queste opinioni possono essere più o meno ragionevoli, ma la capacità di attribuire a esse un certo grado di ragionevolezza è in relazione inversa allo stato soggettivo e oggettivo dell’incertezza. Di conseguenza maggiore è lo stato di incertezza, minore è la capacità di valutare ragionevolmente la fondatezza logica delle assunzioni intrinseche nelle opinioni esterne; ciò spinge l’individuo A a intraprendere l’azione illecita solo se la maggioranza delle opinioni è favorevole all’azione stessa; poiché però le opinioni sono molto variabili nel tempo e nello spazio la percezione del potere e delle aspettative è solo temporanea; di conseguenza risulta che, al mutare delle opinioni muta la percezione del potere e mutano continuamente le aspettative circa gli esiti delle azioni illecite. In questo caso è possibile una simmetria delle aspettative e di percezione del potere solo se le opinioni sono note a entrambi i soggetti e se si muovono nelle stesse direzioni. Poiché, però, le opinioni mutano, il segreto dell’azione illecita è solo funzionale a minimiz-

115


zare i costi dell’errore di scelta non coerenti con le opinioni generalizzate e non anche a raggiungere i risultati sperati.

del segreto

Effetti economici della corruzione

116

Un mercato del lavoro che funziona in regime di corruzione è un mercato inefficiente per almeno due ordini di ragioni: a) la corruzione disincentiva l’accumulazione di capitale umano8, b) la corruzione non premia gli individui più meritevoli, ma gli individui più propensi a intraprendere transazioni illecite (e con maggiori risorse per farlo), nelle quali la differenza tra i benefici e costi risultata essere maggiore della differenza tra benefici e costi di transazioni lecite (v. Becker 1968; cfr. Della Porta 1992; Vanucci 1997). Più precisamente, è possibile affermare che la diffusione della corruzione come codice comportamentale alla base delle attività di scambio rappresenta una forma di discriminazione (cfr. Becker 1957; Bowles e Gintis 1976; Loury 1992). Cosa accade, infatti, quando gli individui A e B attuano un processo di scambio basato sulla corruzione tra voto, da una parte, e posto di lavoro dall’altra? Accade che i potenziali concorrenti più efficienti per quel posto di lavoro siano difatti esclusi, e quindi discriminati. In questo caso, infatti, l’attribuzione del posto di lavoro non avviene sulla base di valutazioni di efficienza dei potenziali candidati, ma sulla loro capacità di “offrire di più” in termini di voto. Tecnicamente, quindi, l’inefficienza di questa forma particolare di discriminazione deriva dal fatto che vengono esclusi dalla competizione del posto di lavoro quei soggetti potenzialmente più produttivi e che non possono disporre - o che non vogliono disporre per una questione prettamente morale – della risorsa voto “necessaria” a ottenere il posto di lavoro9. In realtà la capacità di garantire il massimo appoggio elettorale al politico “non etico” è percepita soggettivamente necessaria all’ottenimento del posto di lavoro, quando però dal punto di vista sociale non lo è affatto, poiché tale capacità non rappresenta la variabile fondamentale per l’allocazione efficiente del fattore lavoro. Un’allocazione efficiente della forza lavoro si basa, infatti, almeno dal punto di vista teorico, sulle aspettative di produttività derivanti dai segnali inviati dai concorrenti in base alla loro accumulazione di capitale umano sotto forma di skills generiche o specifiche (v. Spence 1973), oppure dall’effettiva loro valutazione (Schultz 1961). Di

forges davanzati, pacella


gli effetti economici della corruzione

del segreto

conseguenza, il processo di selezione correttamente inteso - sia che venga condotto direttamente attraverso la valutazione di prove o indirettamente sulla base di valutazione di titoli del candidato – deve considerare soltanto, e opportunamente, quelle variabili endogene al processo di crescita della potenzialità ed effettività lavorativa dei candidati. In regime di corruzione, invece, l’allocazione dei posti di lavoro non si baserà più correttamente sull’accumulazione di capitale umano, ma sull’accumulazione di offerta di voti che non hanno nessun effetto tecnico sulla produttività. È ragionevole ritenere allora che la propensione a effettuare transazioni illecite sia tanto maggiore quanto minore è la produttività (effettiva o percepita) del singolo lavoratore; ciò a ragione del fatto che – in quanto tale – la corruzione è una strategia finalizzata a ridurre il numero di concorrenti e, dunque, a evitare di sottoporsi a valutazioni sul rendimento. Non solo, paradossalmente questa forma di discriminazione inefficiente può diventare, almeno nel lungo termine, teoricamente efficiente. Per la spiegazione di questo paradosso teorico della corruzione è utile far ricorso al modello della «discriminazione statistica» di Loury (1992). Immaginiamo di avere due gruppi di potenziali candidati al posto di lavoro: il gruppo A, rappresentato dai lavoratori che agiscono senza alcuna remora alla condotta illecita, e per questo “non etici”, e il gruppo B rappresentato dai lavoratori “etici” che volontariamente (“per principio”) si astengono dall’attuare azioni di corruzione, e per questo quindi discriminati dai politici corrotti. Immaginiamo inoltre che la collettività dei politici sia formata da un gruppo X rappresentato da politici efficienti, cioè da quelli che esercitano la propria attività massimizzando il benessere dell’intera collettività, e dal gruppo Y rappresentato invece da politici immorali, in altre parole da quelli che agiscono per la massimizzazione del proprio tornaconto o di quello dei gruppi a loro vicini; supponiamo infine che la gran parte dei politici sia di tipo Y, cioè immorali10. Se il gruppo dei politici immorali Y è in maggioranza, è ragionevole supporre che lo stesso non si porrà limiti all’esclusione nelle scelte dell’allocazione dei posti di lavoro dei lavoratori etici, cioè di quelli appartenenti al gruppo B. D’altra parte, poi, i lavoratori etici del gruppo B troveranno sempre meno convenienza a investire nella propria formazione per affrontare una selezione, poiché verificano o si aspettano di non essere assunti.

117


del segreto

Che cosa accade nelle successive fasi di selezione se è in atto un processo di discriminazione dei lavoratori etici così come descritto? Accade che i politici immorali del gruppo Y, avendo verificato in sede di selezione che l’investimento effettuato dai lavoratori etici del gruppo B è effettivamente inferiore a quello effettuato dai lavoratori etici del gruppo A, attribuiranno al proprio comportamento corruttivo un giudizio di razionalità (paradosso della corruzione) in base al quale è razionale escludere a priori i lavoratori etici del gruppo B - e avvantaggiare invece i lavoratori immorali del gruppo A, poiché i secondi risultano essere più produttivi dei primi: questo è ciò che tecnicamente si definisce un caso di profezie auto-confermatesi (Arrow 1987). Inoltre, questo comportamento assunto razionale spinge i politici efficienti del gruppo X a uniformarsi al comportamento dei politici immorali del gruppo Y, poiché riconoscono che questo comportamento porta all’allocazione efficiente dei posti di lavoro11. In conclusione, questa presunzione di razionalità degli scambi illeciti s’instaura a seguito della seguente concatenazione d’eventi: tutti i politici diventano immorali perché sperimentano che i lavoratori etici del gruppo B sono meno efficienti, così come i lavoratori etici del gruppo B diventano meno efficienti perché verificano o percepiscono l’aumento del numero dei politici immorali, investendo meno quindi in capitale umano. Questa presunzione di razionalità rimane però appunto una presunzione, poiché, non solo il comportamento dei lavoratori etici del gruppo B può variare, ma può variare anche il comportamento dei lavoratori immorali del gruppo A. Un atteggiamento del tipo su

118

Qual è il segreto per una efficace ripresa economica nella fase di recessione che il paese attraversa? Introdurre comportamenti virtuosi, rispondono gli economisti: una iniezione di fiducia a doppio senso di circolazione tra cittadini-contribuenti e Stato veritiero. Vi è un diffuso consenso – suggeriscono Forges Davanzati e Pacella – fra gli economisti sulla indispensabilità della fiducia, ma deve trattarsi di una fiducia che accomuni imprese e consumatori in aspettative “ottimistiche”, e l’ottimismo può alimentarlo solo una programmazione credibile dei governi. Ma è possibile sperare in uno Stato che inietti fiducia nei cittadini, in un esecutivo trasparente nell’azione di governo? Una difficile scommessa per questo paese, in questo momento.

indicato comporta, infatti, se reiterato nel tempo, la possibilità che tutti i lavoratori (sia quelli immorali del gruppo A che quelli


paola nestola arcani vaticani

etici del gruppo B) investano meno in capitale umano poiché nessuno lo ritiene necessario o conveniente; infatti, mentre per i lavoratori immorali del gruppo A investire in capitale umano non è una condizione necessaria per avere il posto di lavoro, per i lavoratori etici del gruppo B esso non è una condizione conveniente, perché essi percepiscono sempre di essere esclusi dal posto di lavoro. A livello aggregato quindi il capitale umano di entrambi i gruppi diminuirà e, poiché il capitale umano diminuisce, si ridurrà anche la produttività e, nell’aggregato aggregato, la produzione e l’occupazione12. È per questo motivo che la corruzione è sempre e comunque inefficiente. In più, la corruzione – in quanto discrimina i lavoratori “onesti” – concorre a diffondere codici di comportamento orientati al non rispetto delle norme formali. In definitiva, e alla luce di quanto fin qui argomentato, il mantenimento del segreto è tanto più conveniente: da parte dei lavoratori-elettori a) quanto maggiore è il numero di elettori “non etici”, dal momento che, al crescere del numero di lavoratori propensi agli scambi illeciti, decresce la probabilità – per il singolo – di ottenere benefici dallo scambio stesso, e quanto maggiore è la disponibilità individuale di informazioni circa l’esistenza di elettori “non etici”; b) quanto maggiore è l’aspettativa – da parte degli elettori “non etici” – di “conversione” degli elettori etici, poiché a tale aspettativa è associata l’aspettativa di una maggiore concorrenza, e quanto più numerosi sono gli elettori “etici” potenzialmente convertibili13. da parte dei politici c) sul piano microeconomico, quanto maggiore è il numero (noto o presunto) di concorrenti, i quali – per la natura stessa delle transazioni – non possono che essere politici “non etici”, dal momento che all’aumentare del numero di concorrenti, il singolo politico è costretto ad accrescere la propria promessa, rendendola – per ciò stesso – più costosa (nell’eventuale fase di realizzazione)

del segreto 119


del segreto 120

e/o meno credibile; d) quanto maggiore è l’aspettativa - da parte dei politici non etici - di “rivolta di opinione pubblica”; rivolta è che tanto più probabile quanto maggiore è il numero dei lavoratori etici, quanto maggiore è la loro accumulazione di capitale umano, e quanto minore è la probabilità che gli stessi possano trovare un posto di lavoro, sebbene tale eventualità possa essere considerata un caso limite, in situazioni nelle quali la corruzione è a tal punto pervasiva e nota da essere socialmente inaccettabile. In aggiunta, è interessante sottolineare sulla natura relativa del segreto; in particolare, una azione illecita, tendente all’attribuzione di un posto di lavoro in cambio di voti, non può generalmente funzionare attraverso un rapporto a due – cioè tra singolo elettore non etico e singolo politico non etico; il segreto, in questo caso, è relativo, nel senso che il politico deve spesso fare affidamento a una struttura burocratica a lui “fedele” per consentire l’attribuzione del posto di lavoro; in questo caso quindi, l’azione illecita è di fatto trasparente sia tra i livelli gerarchici dell’organizzazione direttamente interessati, sia nei confronti dei soggetti esterni indirettamente interessati. La segretezza è di fatto soltanto mantenuta nei confronti di quei soggetti, interni e/o esterni all’organizzazione interessata, che possano “minare” l’efficienza della azione stessa. È interessante quindi notare che poiché la segretezza di un’azione illecita è relativa, essa necessita, per poter essere efficiente, di un consolidamento di una fitta rete di norme fiduciarie non solo tra i soggetti direttamente interessati (singolo elettore e singolo politico), ma anche tra i soggetti indirettamente interessati14 (cfr. Rose Ackerman 1978; Del Monte 1996). La possibilità di mantenere il segreto su transazioni illecite genera – in ultima analisi – problemi di divergenza fra ciò che è conveniente per il singolo (il segreto come strategia di arricchimento) e ciò che è conveniente per la collettività, dal momento che il segreto produce inintenzionalmente l’impoverimento di coloro che non prendono parte – per volontà o impossibilità – a transazioni illecite. Proprio in quanto chi effettua scambi illeciti ha una bassa produttività effettiva o percepita, si determina, dal punto di vista macroeconomico, un’allocazione inefficiente della forza-lavoro, in quanto il risultato sarà una bassa produttività, una bassa produzione e conseguente bassa crescita economica. In

nestola


aggiunta, i lavoratori non etici possiedono una quantità maggiore di informazioni circa la possibilità di effettuare scambi illeciti rispetto ai lavoratori etici; in sostanza, per i lavoratori non etici la segretezza dell’azione illecita è sempre relativa (v. supra), mentre per i lavoratori etici essa può essere sia relativa, che assoluta. In particolare dire che il segreto dell’azione illecita è relativo per i lavoratori etici significa dire che essi sono naturalmente etici, in quanto, pur avendo conoscenza della possibilità di ottenere un posto di lavoro ricorrendo all’azione illecita, essi sono propensi per la propria moralità - a non attuarlo. Dire, invece, che il segreto è assoluto per i lavoratori etici, significa dire che essi non hanno l’informazione sufficiente e necessaria su come poter dare atto all’azione illecita, e pertanto essi possono essere, oltre che naturalmente etici, anche involontariamente etici, ossia essi possono essere etici non perché lo sono naturalmente, ma perché sono costretti a esserlo in quanto non hanno alcuna informazione circa la possibilità di attuare un’azione illecita a proprio vantaggio.

note

arcani vaticani

del segreto

1 Il voto, in quest’ambito, costituisce una risorsa, in quanto diritto che rientra nella disponibilità di A e il cui esercizio comporta un costo diretto (il tempo per recarsi alle urne) e un costo-opportunità (il c.d. voto di scambio impedisce ad A di ricavare utilità dal votare l’eventuale candidato preferito C). 2 Si può dimostrare (v. Axerlod 1984) che l’insorgere di rapporti di fiducia è un esito spontaneo delle interazioni mediate dal mercato in un contesto di giochi ripetuti di tipo “tit for tat”. In sostanza, se un giocatore punisce (premia) l’altro giocatore, nel caso in cui quest’ultimo non cooperi (cooperi), conviene a entrambi cooperare, ammesso che l’orizzonte temporale del gioco sia infinito ovvero non noto ex-ante a entrambi. 3 Un esempio di promessa manifestamente irragionevole, e dunque non credibile, potrebbe riguardare la promessa di un posto di lavoro nella Pubblica Amministrazione in regime di blocco delle assunzioni. Al di là del caso limite, il patrimonio informativo del quale l’elettore dispone influenza di certo la credibilità percepita della promessa stessa: in tal senso, si può argomentare che una elevata dotazione di capitale umano da parte dell’elettore – anche (ma non esclusivamente) perché associata a uno stock elevato di informazioni – riduce l’insieme di promesse cre-

121


del segreto 122

dibili. 4 Per elettore “etico” si intende un elettore che effettua le proprie scelte considerando in primis gli effetti di tali scelte sul benessere collettivo, rispettando il proprio orientamento ideologico (v. Mueller 1989, pp.413 ss). 5 Si pensi ad esempio a una azione giudiziaria imprevedibile, o una rinuncia imprevedibile dell’altra parte circa il proseguo della transazione illecita. 6 La stabilità del segreto è da intendersi come permanenza nel tempo della stessa. È possibile affermare che il segreto dell’azione illecita è tanto più stabile quanto minore è la possibilità della sanzione formale, o quanto maggiore è il grado di fiducia reciproca delle parti coinvolte nell’azione illecita. 7 È questo, infatti, il processo che porta all’istituzionalizzazione della corruzione. 8 Per capitale umano si intende l’insieme delle conoscenze generiche e tecniche a disposizione di un individuo (v. Capparucci 1989; Pugliese 1993; Praussello & Marenco 1996; Johnes 2000; Forges Davanzati 2002, p.39) 9 Individui morali ex-ante, ovvero prima dell’instaurarsi di scambi illeciti, possono diventare immorali ex-post (il c.d. effetto di conversione), e ciò è tanto più probabile a) quanto meno stringente è il vincolo etico, ovvero – nella terminologia economica, quanto minore è la disutilità derivante dalla sua violazione (pentimento, senso di colpa ecc.); b) quanto maggiore è il tasso di disoccupazione, ovvero quanto minore è la probabilità di trovare lavoro senza ricorrere al politico; c) quanto minore è il reddito non da lavoro; d) quanto meno segreta è la possibilità di effettuare transazioni illecite, e quanto minore è la probabilità di essere formalmente e/o informalmente sanzionati. Si osservi che la conversione può tradursi anche semplicemente nella temporanea violazione del codice etico, ma che – stando a questo effetto – si stabilisce che le variabili di mercato possono modificare (temporaneamente o permanentemente) la moralità individuale. È verosimile immaginare che la scolarizzazione svolga una funzione “moralizzatrice” (v. Johnes 2000) 10 È bene precisare che i politici efficienti appartenenti al gruppo X non necessariamente devono essere etici. Ai fini del modello, infatti, si escluderanno giudizi circa la loro moralità, che pertanto sarà intesa neutrale ai fini del raggiungimento dell’obiettivo di massimizzazione del benessere collettivo. 11 Si ricorda infatti che i politici del gruppo X agiscono solo con criteri di efficienza e non di moralità. Infatti, poiché il loro obiettivo è quello della massimizzazione del benessere collettivo, questi escludono a priori valutazioni sulla moralità degli strumenti per il suo raggiungimento. 12 L’idea che l’accumulazione di capitale umano da parte degli individui - nella duplice forma di istruzione generica e tecnica - sia fonte di produttività e crescita economica per un paese, è relativamente recente. I primi modelli di crescita economica, infatti, venivano formulati sotto la convinzione che la crescita economica di un paese dipenda esclusivamente dalla propensione al risparmio della popolazione, dalle differenti dotazioni di tecnologie e dalle differenti dinamiche demografiche (v. Forges Davanzati 2002, p.39). Successivamente, invece, intorno agli anni Sessanta del Novecento, si incomincia a ritenere che la dotazione aggregata di capitale umano sia una variabile rilevante per la stessa crescita economica (v. Romer 1989). In sintesi, la teoria della crescita endogena (è così che viene

nestola


chiamata in letteratura la teoria della crescita economica derivante dall’accumulazione di capitale umano) afferma che il processo di accumulazione del capitale umano possa essere di due tipi: a) inintenzionale: derivante cioè naturalmente a seguito delle esternalità positive derivanti dalle passate accumulazioni di conoscenze nella economia, b) intenzionale: derivante cioè da scelte razionali portate avanti dallo Stato, dalle imprese, o dai singoli individui attraverso una analisi di benefici e i costi derivanti dall’acquisizione di conoscenze. In genere, poi, si assume che l’accumulazione di capitale umano sia fonte di una effettiva capacità produttiva o di una presunta capacità produttiva; in pratica, l’accumulazione di capitale umano significa accumulazione di conoscenze e abilità che rendono naturalmente più produttivo un individuo - dato il maggior stock di conoscenze note (v. Schultz 1961) - o potenzialmente più produttivo - dato l’elevato segnale di affidabilità che un individuo più istruito può inviare alle imprese attraverso lo stock di conoscenze accumulate (v. Spence 1973). 13 Si osservi che al singolo elettore non etico conviene non mantenere il segreto al crescere del numero di politici non etici, poiché – in tal modo – aumenta la probabilità di veder realizzate le sue aspettative. 14 Possono essere considerati indirettamente interessati allo scambio illecito, ad esempio, gli altri lavoratori della struttura organizzativa nella quale verrà assunto il lavoratore non etico; in questo caso, infatti, è plausibile ritenere che questi lavoratori otterranno dei benefici se manterranno il segreto (ad esempio: maggiori permessi, aumenti salariali, carriere ecc.) dell’azione illecita tra il singolo lavoratore non etico e il politico non etico, e costi se non lo manterranno (ad esempio: discriminazioni, licenziamenti, diminuzioni di salario ecc.).

riferimenti bibliografici

arcani vaticani

del segreto

Arrow K.J. 1987, Rationality of self and others in an economic system, in R.M. Hogart and M.W.Reder (eds.), Rational choice. University of Chicago Press, Chicago. Axelrod R. 1984, The evolution of cooperation, Basic Books, New York. Becker G.S. 1957, The economics of discrimination, Chicago, University of Chicago Press. Becker G.S. 1968, Crime and punishment: an economic approach, “Journal of Political Economy”, 76 (2). Bowles S. & Gintis H. 1976, Schooling in capitalist America, educational reform and the contraddiction of economic life, Routledge & Kegan, London. Capparucci M. 1989, Il capitale umano come causa ed effetto dei livelli di sviluppo nel Mezzogiorno. “Quaderni di economia e lavoro”, 38. Costabile L. & Giannola A. 1996, Norme sociali e distribuzione dei posti di lavoro. Una parabola della corruzione nell’Italia meridionale, in L. Costabile (a cura di), Istituzioni e sviluppo economico nel Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna. Della Porta D. 1992, Lo scambio occulto: casi di corruzione in Italia, Il Mulino,

123


del segreto

Bologna. Del Monte A. 1996, I fattori determinanti la corruzione nelle regioni italiane, in L. Costabile (a cura di) Istituzioni e sviluppo economico nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna. Forges Davanzati G. 2002, Mercato del lavoro, istituzioni e sviluppo economico: temi di economia politica, I Liberrimi, Lecce. Garofalo G. & Quintiliani F. 1994, I microfondamenti della macroeconomia keynesiana, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli. Johnes G. 2000, Economia dell’istruzione, il Mulino, Bologna. Keynes J.M. 1973, The general theory and after: Part II defence and development, in The collected writings of John Maynard Keynes, vol. XIV, Macmillan, St. Martin’s Press and Cambridge University Press, London. Knight F.H. 1971 [1921], Risk, uncertainty and profit, Houghton Miffilin Company, New York. Loury G.C. 1992. The incentive effects of affirmative action. “Annals of the American Academy of Political and Social Science”, 19-29. Praussello F. & Marengo M. 1996, Economia dell’istruzione e del capitale umano, Laterza, Bari-Roma. Mueller D.C. 1989, La teoria delle scelte collettive.II, Idelson, Napoli. Romer P. 1989, Capital accumulation in the theory of long run growth, in R. Barro (ed.), Modern business cycle theory, Harvard University Press, Cambridge. Rose Ackerman S. (1978), Corruption: A Study in Political Economy, Academic Press Inc, New York. Pugliese E. 1993, Sociologia della disoccupazione, il Mulino, Bologna. Schultz T. 1961, Investment in human capital, “American Economic Review”, 51. Spence M. 1973, Job market signaling, “Quarterly Journal of Economics”, 8. Vanucci A. 1997, Il mercato della corruzione. I meccanismi dello scambio occulto in Italia, Società Aperta Edizioni, Milano.

124

nestola


Il “teatro del mondo” sotto pressione

arcani vaticani

del segreto

In Italia nel corso dell’ultimo quarto di secolo si è andato gradualmente intensificando l’interesse per la storia delle istituzioni ecclesiastiche, soprattutto nel loro rapporto con la società e con il potere politico. Un’ambiziosa e impegnativa opera come il volume IX degli Annali della Storia d’Italia su La Chiesa e il potere politico dal medioevo all’età contemporanea1 ha contribuito a colmare una importante lacuna storiografica che veniva rimproverata e rinfacciata da parte straniera agli storici italiani: storia delle istituzioni ecclesiastiche appaltata al clero regolare e secolare; ricercatori laici dediti esclusivamente allo studio del dissenso religioso e della contestazione al potere costituito, alla presenza del papato avvertita come schiacciante ma evitata come tema fondamentale della storia d’Italia. Con la nuova impostazione degli studi invece, si è affrontato - tra gli altri - il problematico nodo del papato, ponendolo al centro dell’evoluzione politica e istituzionale d’Italia, così come quello dello Stato della Chiesa, quale modello di costruzione dello stato moderno che, con le sue grandi ricchezze, le sue giurisdizioni, le sue immunità rappresentava un’enorme realtà di potere nella società civile. Più recentemente, nel contesto del ruolo svolto dalla Roma dei papi nella politica europea durante l’età moderna, si è assunta tale corte come spazio aperto, luogo di decisione politica e di esercizio della sovranità: Roma come “teatro del mondo” e laboratorio politico, luogo d’incontro di tensioni e di conflitti europei, ma anche di mediazioni e di alleanze. Secondo quanto ha lucidamente evidenziato Mario Rosa: «un “teatro”, dove era indispensabile l’abilità personale di fronte al susseguirsi degli avvenimenti e delle “mutationi”, e dove importanti erano i modi attraverso i

125


del segreto 126

quali si “appariva” sulla scena, dietro le cui quinte si sviluppavano gli “arcana imperii”» (Rosa 1998)2. Nella geografia politica di Antico regime si poteva convergere verso Roma per ragioni religiose, culturali e politiche, e attraverso Roma, dal network delle sue rappresentanze o dei suoi interessi politici e religiosi, si poteva guardare a una ecumene più larga. Un ruolo di prima grandezza sulla scena politica internazionale, alimentato dall’universalismo cattolico controriformistico, ma caratterizzato dalla mancanza di un organico sistema di servizi segreti, di uno specifico apparato addetto alla raccolta delle informazioni e all’acquisizione di “segreti” degli avversari. Le ramificazioni dei grandi ordini religiosi come quelle del clero secolare non garantirono, infatti, allo stato pontificio di competere con le più avanzate strutture delle grandi monarchie europee. Tale arretratezza e insufficienza dei tradizionali canali di acquisizione delle informazioni si rivelerà in tutta la sua drammatica evidenza nel corso del ’700 e durante le campagne napoleoniche, quando la Chiesa venne relegata ai margini della scena politica europea (Preto1994)3. Anche in questi ultimi tempi, a partire dall’agonia di papa Wojtila e fino all’elezione del suo successore Benedetto XVI, Roma è tornata a essere innanzitutto la città capitale sede del vicario di Cristo, il centro di attrazione degli eterogenei interessi di una immensa folla di fedeli e telespettatori. Una pressione mediatica intorno alla sede vacante ha aggiornato costantemente l’opinione pubblica, rendendo fruibile ai più la risultante dell’intreccio tra politica e religione, svelando alcuni dei segreti di quei riti e cerimoniali legati alle funzioni liturgiche seguite alla morte del pontefice e che hanno scandito il calendario della fase di interregno fino alla fumata bianca. Tutelato da precise norme che hanno limitato la rivelabilità di certe informazioni, non tutto di quanto è avvenuto in quei giorni è stato svelato. Segreti vaticani che attendono di essere risolti in un prossimo futuro e intanto confluiscono nella fase contraddistinta da un evento molto importante per la ricerca storica, segnato dalla definitiva apertura di un luogo da sempre connotato dal mistero e dalla inaccessibilità. Silenzi istituzionali e innovazioni della comunicazione

nestola


arcani vaticani

del segreto

Nel corso dei secoli i pontefici hanno regolato con opportune norme l’elezione del proprio successore. Anche papa Giovanni Paolo II, consapevole della mutata situazione nella quale stava vivendo la Chiesa, ha aggiornato, nel 1996, le norme che regolano la designazione del successore dell’Apostolo Pietro, attraverso la costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, che stabilisce le norme dell’organismo a cui è demandato l’ufficio di provvedere all’elezione del Romano Pontefice, e dell’istituto del conclave deputato alle operazioni elettorali. Nel documento, il cui incipit definisce il ruolo del vescovo della Chiesa di Roma, si legge infatti che è «gravissimo» l’ufficio che incombe sull’organismo a tale elezione deputato, pertanto ben precise e chiare devono essere le norme che ne regolano l’azione, «affinchè l’elezione stessa avvenga nel modo più degno e consono all’ufficio di estrema responsabilità che l’eletto per divina investitura dovrà col suo assenso assumere»4. Da questa assemblea serrata dipenderà il futuro della Chiesa del terzo millennio. Un conclave che, per svolgersi in maniera ordinata, sollecita e regolare ha necessitato di un adeguamento della disciplina alle esigenze odierne, non ultime quelle apportate dalle innovazioni in fatto di comunicazione. Queste infatti, in fase di interregno, potrebbero minare sia quello che da sempre è stato visto come il santuario del mistero e delle informazioni riservate, sia quanti sono chiamati all’arduo compito che deve essere ispirato dal “Divino Spirito” soltanto. Nelle due parti che compongono il lungo documento - una dedicata alla regolamentazione del periodo di vacanza della Sede Apostolica, l’altra a quella dell’elezione del Romano Pontefice diversi sono gli articoli in cui si predispone che le persone, i luoghi e gli atti siano soggetti a “stretto segreto”, “segreto assoluto”, “segreto perpetuo” e alla “massima riservatezza”. Il capitolo IV della seconda parte poi, riguarda in particolare «L’osservanza del segreto in tutto ciò che attiene l’elezione»5. Tale puntigliosa riservatezza per tutto ciò che concerne gli affari e il buon governo della Chiesa, ma soprattutto l’elezione del successore di Pietro, è dettata dalla particolare contingenza di evitare che certe conoscenze possano trasformarsi in potere: un prudente silenzio istituzionale che potrà essere interrotto e limitatamente violato solo una volta terminata l’elezione et omnibus annunciata. Soltanto allora tutti coloro che avranno partecipato

127


del segreto 128

attivamente allo scrutinio potranno riprendere tanto i colloqui con quanti hanno collaborato alla riuscita dell’elezione e si trovavano nella Città del Vaticano, quanto riavviare sia la corrispondenza epistolare, telefonica o attraverso altri mezzi di comunicazione con persone estranee all’ambito dello svolgimento dello scrutinio, sia le comunicazioni con i rispettivi uffici. Una volta ripresi i contatti, tuttavia, coloro che - direttamente o indirettamente- in qualsiasi modo abbiano avuto attinenza con le operazioni connesse con l’elezione non potranno venir meno al giuramento di osservare il “segreto assoluto” riguardo alla votazione e allo scrutinio, a meno che non sia il nuovo pontefice a dare una speciale facoltà di rivelare quanto è avvenuto nella stanza del Giudizio di Michelangelo e sue adiacenze nello Stato Vaticano. Un’altra importante modifica, esplicitata già nell’introduzione del documento, fa riferimento agli spazi voluti e destinati ad accogliere quanti risiederanno entro quella cinta muraria. Mentre, per la sacralità dell’atto, l’elezione si svolgerà nella Cappella Sistina, che pertanto resterà il luogo assolutamente riservato fino alla avvenuta elezione, l’edificio Domus Sanctae Marthae, dove alloggeranno i cardinali elettori per tutto il tempo della durata dell’elezione, adempirà il fine di assicurare quell’isolamento e raccoglimento necessari a una decisione così vitale per la Chiesa e il suo futuro. La città del Vaticano dunque, a partire dal 17 e fino al 19 aprile 2005, è stata posta sotto assedio per preservarla da potenziali attacchi interni ed esterni e adeguatamente schermata e resa refrattaria alle onde che veicolano i telefonini. I suoi abitanti, vecchi e nuovi, sono stati obbligati ad astenersi dalle comunicazioni scritte e verbali, come dal ricevere stampa quotidiana e periodica, come anche dall’ascoltare trasmissioni radiofoniche o televisive. Per tutelare ulteriormente i cardinali elettori da “eventuali insidie” esterne è fatto divieto, ancora, che non siano introdotti nei luoghi dove si svolgono le operazioni di scrutinio segreto strumenti tecnici di qualunque genere atti a registrare, riprodurre e trasmettere voci, immagini o scritti, contribuendo a violare il segreto riguardante parole, segni o “qualsiasi altra cosa”. Il Vaticano dunque è stato sottoposto a una operazione di bonifica ambientale, tesa a ripulire da eventuali microspie e a creare una barriera elettronica per evitare intrusioni dall’esterno con microfoni direzionali o altre tecnologie al laser.

nestola


arcani vaticani

del segreto

Accanto alle persone e ai luoghi, anche le carte – specie le schede elettorali - dovranno essere tutelate dal segreto che incombe su tutte le fasi della procedura di scrutinio. Nessuno scritto della votazione del primo conclave del terzo millennio dovrà rimanere a eccezione della relazione, da stendersi a cura del cardinale camerlengo e approvata dagli assistenti, che sarà custodita nell’Archivio Vaticano in busta chiusa e sigillata, in attesa che i futuri studiosi ne possano usufruire per decorrenza dei termini. Le recenti innovazioni tecnologiche hanno accelerato e reso ancora più minuziose le procedure tese a tutelare la riservatezza del conclave, le cui operazioni di elezione nelle epoche passate, almeno per tutta la prima età moderna, potevano essere conosciute sulle grandi distanze solo attraverso corrieri speciali e servizi postali che recapitavano i dispacci romani, le relazioni degli ambasciatori o gli avvisi, alle potenze estere e alle famiglie aristocratiche, particolarmente interessate a conoscere gli schieramenti al fine di imporre la propria politica sull’elezione stessa. Appena declinava la salute del pontefice infatti, iniziava una grande agitazione: bisognava preoccuparsi che tutti i porporati lontani arrivassero in tempo, ma soprattutto tenere conto del ruolo di alcune potenze sull’elezione stessa. In questi casi anche i tempi postali potevano influire sulle procedure delle votazioni. Come chiaramente si legge negli avvisi di Roma del 15 agosto 1676, durante il conclave che portò all’elezione di Innocenzo XI, «la tardanza di questi corrieri ha fatto trattenere li cardinali oziosi in conclave, non avendo fatto altro, che scrutinii, con haver ballottato hor questo, hor quello, senza aver potuto venire al quia, perché non era nota l’intenzione de prencipi» (Fedele-Gallenga 1988)6. A volte capitava che dall’interno del collegio si ordinasse la partenza di corrieri segreti in anticipo, fidando nel consenso dichiarato a un candidato che poi, l’indomani, le schede avrebbero evidentemente bocciato7. Ancora, a ogni elezione del sommo pontefice le nazioni della cristianità, come le famiglie dei patriziati cittadini del centro-nord Italia si mobilitavano con promesse di grosse somme di denaro per pagare i corrieri, pur di essere le prime a sapere della nuova scelta. Ad esempio nel 1471 da Milano si raccomandava all’ambasciatore accreditato a Roma di non fare irritare il duca così come era avvenuto nel precedente conclave del 1464, quando la novità dell’elezione di Pio II era stata appresa attraverso altre vie: dalle lettere di Lorenzo de Medici e dei bolo-

129


del segreto 130

gnesi e solo da ultimo dal diplomatico milanese8. D’altra parte tra ’500 e ’700 gli avvisi erano lo strumento per far circolare nella maniera più rapida sia notizie militari che politiche. Questi fogli di informazione venivano smistati attraverso un servizio regolare cadenzato dalle frequenze postali. Mentre gli avvisi pubblici si limitavano all’esposizione di fatti noti, quelli “secreti”, destinati a un pubblico più riservato, contenevano una merce molto più ricercata e da commercializzare con cautela. Gli avvisi segreti che circolavano a Roma erano parte integrante del mondo della curia, all’interno della quale erano concepiti con finalità spesso politiche. Tali documenti, infatti, non si limitavano a esporre notarialmente fatti esterni, ma cercavano spesso di illustrare intrighi e retroscena con spirito di parte. Mario Infelise ha studiato, tra le altre, una serie settimanale di gazzette del 1667: in questi fogli, l’anonimo redattore descrivendo con minuzia di particolari la crisi della famiglia Chigi al momento della morte di Alessandro VII e del successore Clemente IX, Giulio Rospigliosi, si soffermava in particolare sulla composizione delle fazioni all’avvio del conclave e sui rapporti tra i cardinali e le potenze europee, senza tralasciare di suggerire al lettore qualche idea sulle possibili scelte (Infelise 1998)9. La nuova regolamentazione del conclave voluta da papa Wojtila nel 1996 ha visto anche l’eliminazione delle altre due forme di elezione superstiti: quella per acclamazione e quella per compromissum, considerate oramai quasi obsolete. La prima non risponde più a interpretare il pensiero di un collegio elettivo numeroso e internazionale; la seconda, oltre a essere di difficile applicazione, a detta di Giovanni Paolo II comporta «una certa deresponsabilizzazione degli elettori»10, in quanto i cardinali in minoranza porterebbero in dote la propria preferenza alla maggioranza senza esprimere così personalmente il proprio voto11. L’internazionalizzazione del collegio cardinalizio, fattasi sempre più forte a partire dal pontificato di Pio XII (1939-1958), nel giro di un ventennio ha portato, per la prima volta dopo il 1522, all’elezione di un pontefice non italiano. Ancora non è dato sapere quanto abbia influito questa caratteristica del concistoro cardinalizio nell’ultimo conclave a far convergere le preferenze verso il cardinale papabile. Un dato è certo, dopo il lungo pontificato del polacco Wojtila, un rapido conclave ha eletto un papa tedesco. Il cambiamento più

nestola


radicale nella storia millenaria del collegio cardinalizio - cioè la internazionalità che portò all’elezione di Giovanni Paolo II - e la rapidità di scrutinio, seconda solo al conclave di Pio XII, hanno caratterizzato dunque il primo conclave del terzo millennio. Non sono filtrate indiscrezioni dall’interno delle mura vaticane, come lascia intendere Luigi Accattoli del “Corriere della Sera” nei suoi articoli che ricostruiscono le fasi dello scrutinio definitivo fino all’annuncio finale12. La fine del “segreto”

arcani vaticani

del segreto

Papa Benedetto XVI, come il suo predecessore, è straniero; di origine borghese e con una buona produzione letteraria. Diverso tuttavia da molti suoi recenti predecessori, il papa bavarese non è sconosciuto né ai “chierici”, né all’opinione pubblica. Più volte, prima e dopo la morte di Giovanni Paolo II, è stato visto officiare importanti cerimonie ufficiali. Ma al di là dell’impatto mediatico, nel cosmo clericale è stato e viene riconosciuto come teologo e come innovatore, al tempo stesso amato e temuto. A detta di Vittorio Messori, una leggenda ne ha fatto immeritatamente un disumano fanatico dell’ortodossia, un vero erede dei Grandi Inquisitori13. Certamente questo giudizio negativo nasce anche dal fatto che sul curriculum di Ratzinger pesa la nomina – ricoperta fin dal 1981di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’antico Santo Offizio romano. Eppure in passato aver fatto parte di questa congregazione, o averne svolto con intransigente zelo le direttive, costituiva un requisito fondamentale per ascendere ai gradi della carriera ecclesiastica. I dati statistici dell’analisi recentemente riproposta da Wolfgang Reinard ce lo ricordano: «Dei tredici papi sui trentasei che furono in carica fra il 1555 e il 1799 sappiamo che in una forma o nell’altra fecero parte dell’Inquisizione, prima o dopo la loro promozione a cardinale»14. Da Paolo IV (1555-1559) a Benedetto XIV (1740-1758), anche una papa inquisitore è asceso agli onori degli altari col nome di San Pio V, si tratta del “Grande inquisitore” Michele Ghislieri, dell’ordine dei “Domini canes”, che occupò il soglio pontificio dal 1566 al 1572, pur avendo umili origini. Effettivamente nel 1998, nel contesto dell’itinerario di preparazione al giubileo del 2000 e di “purificazione della memoria”,

131


del segreto 132

l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, cardinale Joseph Ratzinger, esplicitò le profonde motivazioni che avevano portato all’apertura dell’archivio più asserragliato tra quelli vaticani, per la quale si era personalmente impegnato. Nel suo intervento alla giornata di studio organizzata per l’occasione, il prefetto paragonava tale importante evento a quello della liberalizzazione dell’Archivio Segreto Vaticano, voluta nel 1881 da papa Leone XIII. Alle soglie del terzo millennio le ragioni di una nuova apertura venivano così esplicitate: continuazione e complemento dell’evento del 1881; compimento di un processo iniziato 117 anni prima, che spalancava le porte dell’ultimo degli archivi vaticani rimasti chiusi e limitatamente accessibili15. Una fruttuosa e irreversibile concessione ai desiderata di tanti studiosi, che più volte e in più occasioni avevano spinto per una maggiore fruizione del patrimonio documentale dell’istituzione giudiziaria più temuta e odiata di Antico regime, che nella vulgata comune si continua a classificare sotto un unico nome: Inquisizione. Dei tre sistemi inquisitoriali moderni del Mediterraneo, proprio l’Inquisizione romana era il tribunale di fede sul quale le ricerche si erano dovute avvalere delle risorse archivistiche periferiche, nella speranza che promettenti segnali lasciassero intravedere qualche spiraglio di luce per quello romano. In quel frattempo, a partire dagli studi di fine anni ’60 del secolo scorso, i ricercatori si sono esercitati su fondi “dispersi” o di archivi locali e, avvalendosi degli influssi della storiografia sull’Inquisizione spagnola, hanno aperto gli studi del Sant’Uffizio ad aspetti antropologici e sociologici oltre che istituzionali. Per lungo tempo il grande archivio romano della repressione ha continuato a suscitare un suo fascino, a conservare quella sua aura di mistero che neppure di fronte a certi ammonimenti e rivelazioni è svanita, al punto che la sua inaccessibilità è divenuta uno schermo dove i ricercatori hanno proiettato desideri e frustrazioni. Non solo la politica delle porte chiuse attuata dall’archivio del Sant’Uffizio limitava le indagini sulle strutture inquisitoriali sparse sul territorio italiano, anche le resistenze degli archivisti ecclesiastici hanno rallentato non poco le ricerche in quei preziosi fondi diocesani, dirottando forzatamente queste ultime verso documenti meno compromettenti. Lo spartiacque segnato dalla liberalizzazione del 1998 apre dunque la ricerca storica sull’Inquisizione a una nuova primavera di

nestola


arcani vaticani

del segreto

studi, caratterizzata certamente da una diversa qualità e quantità di fonti, ma anche da una nuova impostazione metodologica che vede integrate, tra l’altro, storia generale e storia locale. L’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede si presenta infatti come il monumentum del cattolicesimo dall’età tridentina ai nostri giorni, in frenetica attività, stretto nelle sottili interrelazioni con diverse autorità: italiane e straniere, statali, culturali e religiose. In oltre quattro secoli e mezzo, l’ambito di intervento del dicastero è andato dal perseguimento giudiziario del crimine d’eresia alla definizione dottrinale di ciò che appartiene alla fede della Chiesa cattolica. In ragione di ciò diversa è la natura e la tipologia dei fondi che, accanto agli incartamenti processuali, annoverano anche quelli di tipo dottrinale e giurisdizionale16. Nel corso dei secoli il deposito storico di tale organismo ha concentrato nel suo patrimonio archivistico i delicati e importanti rapporti tra volontà di credere, di sapere e di potere (Prosperi 2003)17. L’obbiettivo di conoscere per governare, seguendo il principio di identità e di non contraddizione, ha imposto a un corpo di esperti di richiamare di volta in volta i dati della questione trattata e di conservare una memoria lunga delle deliberazioni precedenti. Da questa necessità è scaturita la regola di un archivio ordinato e assolutamente segreto. Non sono mancate le eccezioni a conferma della regola. Lo sguardo diacronico sulle vicende di questo deposito documentale mostra, accanto al disordine o alla particolare cura con cui veniva raccolto e archiviato l’eterogeneo materiale, diverse manomissioni, perdite, distruzioni e dispersioni dei fondi, così che dopo il recupero parigino dei documenti deportati da Napoleone è stata rilevata una sostanziale trasformazione della sua consistenza tipologica che da criminale è divenuta giurisprudenziale. L’altra necessità dell’archivio – la segretezza - discendeva dalla prevalente attività giudiziaria svolta dalla congregazione, almeno fino alla fine della seconda metà del ’700, così che l’inaccessibilità di quelle carte era condizionata sia dall’azione poliziesca svolta dai giudici inquisitori e loro collaboratori nella raccolta delle informazioni a carico di un imputato, sia dall’obiettivo di tutela- re testimoni a carico e denunzianti da eventuali reazioni dei colpevoli. È nell’archivio dell’ex Sant’Uffizio che nel corso dei secoli si sono accumulate lettere, verbali, processi, sentenze, scritture

133


del segreto

d’ufficio riguardanti l’attività di un tribunale che doveva accertare la verità non solo dei fatti ma sopratutto dei pensieri. È qui che il potere si è esplicitato attraverso la mediazione burocratica della carta scritta, così che le decisioni comunicate per lettera erano seguite da altre catene epistolari di riscontro. Un luogo dove si leggeva e si scriveva, dove si raccoglievano informazioni, si ascoltavano pareri e si prendevano decisioni, insomma un laboratorio di poteri. Adriano Prosperi, descrivendo la sua prima esperienza di ricerca in quest’archivio, così ce lo ha svelato-rivelato nel suo “impressionistico” giudizio: «una sala dove siedono porporati personaggi, che hanno davanti lo strumento fondamentale del potere moderno, la carta, la scrittura, vera “lunga mano” del potere, mezzo essenziale in quel processo fondamentale della modernizzazione che è il dilatarsi della distanza tra chi agisce e chi subisce» (Prosperi 1998)18. La chiave di volta dell’Inquisizione romana, come degli altri due sistemi inquisitoriali iberici, era costituita infatti da un forte rapporto verticale. Un sistema giudiziario centralizzato che si sostituiva alla circolazione orizzontale di opinioni e di informazioni che aveva caratterizzato le reti inquisitoriali dei secoli precedenti (Bethencourt 1997)19. Al vertice romano dovevano affluire tutte le comunicazioni prodotte dai tribunali periferici distribuiti su buona parte del territorio italiano sottoposto alla giurisdizione del Sant’Ufficio di Roma,

134

nuovi archivi “Segreti di stato”: se n’è fatto un uso “patologico” afferma il giudice Priore che ha indagato sul caso Ustica. L’Italia non è sola nel custodire i segreti di stato e condivide la secretazione con la Francia e la Gran Bretagna e chissà quanti altri paesi del mondo. Una legge del 1977 ne ha ribadito la indispensabilità, dal momento che gli interessi degli Stati perdurano per decenni. Fu Benedetto Croce, ministro nei primi anni Venti della p.i., a stabilire la indisponibilità di documenti d’archivio prima di cinquantanni, ma mezzo secolo non è più sufficiente ora che la vita dei viventi si è allungata. La storia è meglio scriverla un secolo dopo, quando le passioni dei viventi si saranno svaporate. Mentre da qualche parte si aprono archivi segreti, alimentando i sussulti dei media su fatti passati in giudicato, da qualche altra parte se ne costruiscono di nuovi. Con un veloce provvedimento la nostra Presidenza del Consiglio si è autorizzata a non effettuare più versamenti periodici all’Archivio di Stato. Disporrà di un archivio suo proprio. Un provvedimento che tornerà certamente a vantaggio della verità storica; senz’altro una premura per gli storici che verranno, che potranno compulsare altre fonti e arricchire i riscontri degli omissis e delle sbianchettature.


Un sistema di potere svelato

sergio duma note angloamericane

e solo al centro spettava dare la risposta risolutiva. Alla rigida struttura verticale si appoggiava la flessibile struttura di comando epistolare che consentiva di adeguarsi alle situazioni e ai contingenti rapporti di forza e di adattare le definizioni dottrinali alle concrete emergenze ereticali. Istruire per lettera divenne, pertanto, la più autorevole fonte di istruzione o di chiarificazione di singoli punti della procedura.

del segreto

Un impero di carta, dunque, basato su un regolare sistema di trasmissione dei messaggi: lettere “circolari” e “particolari”, “di-spositive” e “informative” infatti, erano gli strumenti attraverso cui, con rapidità e segretezza – parametri che tuttavia devono ancora essere quantificati e verificati dagli studi - la Sacra Congregazione definiva la competenza e i limiti dell’azione degli inquisitori, come pure la legalità delle procedure del foro inquisitoriale al fine di evitare abusi di potere e allontanare dal tribunale ogni ombra di interesse. D’altra parte, seguendo un senso inverso, attraverso gli stessi canali delle “vie delle lettere”, ossia le strade postali, dalla periferia giungevano ai cardinali inquisitori relazioni su processi, copie di sentenze, liste di libri confiscati, richieste di consigli e chiarimenti. Emblematico quanto scrisse il vicario dell’Arcivescovo di Otranto il 15 gennaio 1585 al cardinale Giacomo Savelli, segretario della congregazione del Sant’Ufficio: «col procaccio passato, per strada sicura inviai a V.S. Ill.ma il processo contro Hercole Sambiasi con le sue difensioni, aspetto l’ordine suo per eseguire quanto da V.S. Ill. ma mi sarà comandato». Su tali documenti, come su qualunque altra scrittura prodotta dalla sede centrale o dalle sue articolazioni periferiche e comunicate attraverso i servizi di posta, gravava la norma del segreto per tutelarli da occhi indiscreti e per evitare incresciose intercettazioni e fughe di notizie. Di conseguenza, precise istruzioni su come con-

135


del segreto 136

fezionare i supporti informativi vennero fornite alle diramazioni locali dell’istituzione, al fine di non svelare segreti o generare pericolose curiosità. Nell’inviare processi o copie di atti giudiziari, ad esempio, al vicario arcivescovile di Napoli si consigliò a non «dire che scrittura sia nel foglio di fuora, dove va il soprascritto e il sigillo, ma vi basta il soprascritto a chi quella scrittura va indirizzata» (Scaramella, in corso di stampa)20. Questa strategia di recupero e raccolta delle notizie dai tribunali periferici, sottolineata dalla scelta di corrieri rapidi e sicuri per garantire uno scambio di informazioni regolari, fu agevolata dal fatto che già dalla metà del ’500 il servizio dei collegamenti postali, pur comportando costi elevati, era considerevolmente migliorato. L’istituzione di corrieri ordinari (procacci) con percorsi definiti e partenze in giorni predeterminati, contribuirono ad assicurare una maggiore regolarità alla corrispondenza in arrivo e in partenza e ai tempi di percorrenza. Scambi di corrispondenza regolari e ravvicinati nel tempo tra gli inquisitori generali e i delegati locali furono, a partire dai primi anni ’70 del Cinquecento, il segno più evidente della riorganizzazione dei nuovi tribunali (Romeo 2002)21. In questo contesto l’innovazione dei trasporti, pur con i rischi di intercettazione delle informazioni, forniva indubbi e positivi risvolti nel sistema verticale di trasmissione delle disposizioni, contribuendo così alla centralizzazione anche del sistema giudiziario inquisitoriale22. Anche la novità tecnologica della stampa ebbe importanti ricadute sulla neonata istituzione: l’innovazione tipografica consentiva, infatti, di creare in breve tempo un elevato numero di copie dello stesso scritto permettendo così di ottenere una rapida diffusione e standardizzazione dei contenuti. Il primo indice romano promulgato con decreto dell’Inquisizione del 30 dicembre 1558, venne smistato alle strutture periferiche nella versione a stampa, anche se l’inadeguatezza della rete dei tribunali inquisitoriali locali e la carenza di uomini addestrati alla vigilanza sulla produzione e circolazione libraria limitarono gravemente il progetto, che prevedeva l’uniforme e capillare controllo dell’attività editoriale e della diffusione del principale veicolo di informazione e conoscenza (Fragnito 2003)23. Anche la produzione scientifica di testi di diritto inquisitoriale trovarono nell’ars artificialiter scribendi lo strumento più idoneo per moltiplicarsi velocemente, col rischio di cadere nelle mani e sotto gli occhi di quanti non appartenevano al corpo sociale di quel

duma


note angloamericane

del segreto

tribunale ecclesiastico. Proprio per garantire il carattere riservato di quei documenti giurisprudenziali e per contrastare la rapida e diffusa circolazione di scritti attinenti alle cause del Sant’Uffizio, più volte la Sacra Congregazione ribadì il decreto che «Cuiuscumque generis scripturae circa causam S. Officii non imprimatur». Entrando in competizione col vincolo del segreto posto dal dicastero, si limitò la produzione a stampa dei testi in cui si individuavano e si prescrivevano le specifiche regole di funzionamento della giurisdizione inquisitoriale romana, così che il circuito dei testi manoscritti risultò il più idoneo per tutelare la riservatezza della normativa e delle procedure, per lo meno negli ambienti interni al tribunale di fede, tant’è che alcune opere continuarono a circolare sotto questa forma per molto tempo. Molto più elaborato era, invece, l’escamotage messo in pratica dagli inquisitori che ambivano a pubblicare le proprie fatiche apprese sulla base dell’esperienza accumulata giorno dopo giorno. A partire dagli anni ’70 del Cinquecento, accanto alla pubblicazione delle edizioni di classici dell’Inquisizione medievale commentate e aggiornate dai canonisti Peña e de Simancas, si cominciarono infatti a stampare i primi manuali inquisitoriali “nuovi” (Errera 2000)24. In questi casi, i testi a stampa venivano confezionati con tutte quelle forme di riscrittura cautelativa e quelle sintetiche rielaborazioni necessarie a occultare i dati referenziali, così che la circolazione anche pubblica - del testo non fosse ritenuta pericolosa contravvenendo alla norma della «osservanza della secretezza». È il caso del manuale Opus quod iudiciale inquisitorum dicitur di Umberto Locati, inquisitore a Pavia e a Piacenza, pubblicato a Roma nel 1568. Nel testo l’autore aveva apportato delle modifiche formali sia nella trascrizione dei testi dal volgare alla traduzione in latino delle decisioni romane, sia nella trattazione dei casi del tribunale piacentino dove modificava e falsificava i nomi dei processati. Il punto capitale in ogni definizione della natura di quel tribunale era che le informazioni dell’Inquisizione dovevano restare segrete per le autorità non ecclesiastiche. Ma la riservatezza che gravitava intorno al tribunale non era solo quella di chi voleva limitare gli interventi di quanti pretendevano a vario titolo di influenzare le procedure. Come ebbe a dire un ex segretario dell’inquisizione spagnola: «Este secreto es el alma del sistema inquisitorial» (Llorente

137


del segreto 138

1980)25. Avvolto nel segreto infatti, era il rito inquisitorio, per cui durante il procedimento erano obbligati a mantenerlo tutte le persone coinvolte (dai testimoni agli avvocati, ai giudici ai rei) per evitare ritorsioni o vendette personali contro i denuncianti. Nel Manuale di Eymerich, contro la divulgazione del nome dei testimoni, si avvertiva che «[l’inquisitore] tenga conto del danno rappresentato dal potere della famiglia, da quello del denaro o dalla malevolenza e vedrà allora che sono molto rari i casi in cui potrà rendere pubblici i nomi dei delatori». Il segreto inoltre, come fondamentale caratteristica del rito, provocava nell’inquisito la totale ignoranza dei motivi della sua detenzione, così come anche le segrete, le carceri inquisitoriali, dovevano garantire quell’isolamento del prigioniero per evitare che contatti esterni potessero minare la funzione penitenziale scaturita dalla condizione di solitudine e tormento psicologico. Il meccanismo del segreto, dunque, era uno dei veri strumenti della pedagogia della paura che ha circondato l’inquietante potere del tribunale dell’Inquisizione (Bennassar 1981)26. Se per i tribunali spagnoli si sono studiati nel particolare il segreto quale elemento chiave della procedura, i casi di infrazione o di aggiramento della regola27, la disponibilità dei nuovi fondi archivistici dell’archivio romano e di altre sedi periferiche, consentiranno di approfondire questi aspetti di ordinaria amministrazione che i testi giuridici lasciano apparire come improponibili e impenetrabili. Indubbiamente il progetto del «Censimento degli archivi e della documentazione inquisitoriale in Italia», firmato nei primi mesi del 2005 tra la Congregazione per la Dottrina della Fede, il direttore generale per gli Archivi del Ministero per i Beni culturali e il direttore del Centro di ricerca sull’Inquisizione dell’Università di Trieste, faciliterà la messa a disposizione di un grande patrimonio documentario poco conosciuto e disperso anche in numerose sedi periferiche28. Il grande significato, non solo simbolico, di tali aperture e collaborazioni lascia dunque ben sperare, allontanando quei timori paventati a pochi mesi dall’apertura dell’archivio del Sant’Ufficio da qualche studioso, preoccupato che all’antico controllo ecclesiastico su tale istituzione si sostituisse «quello informale d’una qualche lobby accademica la quale di quei materiali faccia il proprio busi-

duma


ness e imponga […] modi, tempi e discrimini di consultazione agli altri studiosi intralciando così la conoscenza sempre più approfondita di quelle vicende» (Mozzarelli 1997)29.

note

note angloamericane

del segreto

1 Il riferimento è naturalmente al volume curato da G. Chittolini e G. Miccoli, Einaudi, Torino 1986. È impossibile in questa sede dare una dettagliata indicazione dei recenti studi sulle istituzioni ecclesiastiche e del loro rapporto con la società e il potere politico. Si vedano almeno: Storia dell’Italia religiosa. II L’età moderna, G. De Rosa e T. Gregory (a cura di), Laterza, Roma-Bari, 1994; Clero e società nell’Italia Moderna, M. Rosa (a cura di), Laterza, Roma-Bari 1995; G. Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1999. 2 M. Rosa, Per “tenere alla futura mutatione volto il pensiero”. Corte di Roma e cultura politica nella prima metà del Seicento, in La corte di Roma tra Cinque e Seicento “Teatro” della politica europea, G. Signorotto - M.A. Visceglia (a cura di), Bulzoni Editore, Roma 1998, pp.13-36. 3 Sul sistema dei moderni servizi segreti: P. Preto, I servizi segreti di Venezia. Spionaggio e controspionaggio ai tempi della Serenissima, Il Saggiatore, Milano 2004, in particolare per lo stato pontificio, p. 28. 4 Giovanni Paolo II, Costituzione Apostolica Universi Dominici Gregis, Roma 1996, p. 2. Il testo è consultabile all’indirizzo elettronico: http//www.vatican.va. 5 Ivi, passim. 6 C. Fedele-M. Gallenga, “Per servizio di Nostro signore”. Strade, corrieri e poste dei papi dal medioevo al 1870, Prato 1988, p. 80. 7 Ivi. 8 Ibidem, p.79. 8 M. Infelise, Gli avvisi di Roma. Informazione e politica nel secolo XVII, in La corte di Roma tra Cinque e Seicento, cit., pp.189-205, e più recentemente, in un contesto più ampio, Id., Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 31-33. 10 Costituzione Apostolica , Introduzione, p. 3; Capitolo V. Lo svolgimento dell’elezione, p. 15. 11 Sulle modalità dell’elezione papale riferimenti bibliografici essenziali sono: A. Molien, Conclave, in Dictionnaire de droit canonique, t.III, Letouzey et Ané, Paris 1935-1965, pp. 1319-1342; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico- ecclesiastica, vol. XV, tip. Emiliana, Venezia 1842, pp. 258-315. 12 L. Accattoli, Ratzinger eletto in 24 ore, “Corriere della Sera”, 20 aprile 2005. 13 V. Messori, Ma quale Panzer Kardinal. Il mio Ratzinger è un mite, ivi. 14 W. Reinhard, Le carriere papali e cardinalizie. Contributo alla storia sociale del papato, in Storia d’Italia, Annali 16, Roma la città del papa. Vita civile e religiosa dal giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtila, Einaudi, Torino 2000, pp. 261290. 15 J. Ratzinger, Le ragioni di un’apertura, in L’apertura degli archivi del Sant’Uffizio

139


del segreto 140

Romano, Giornata di Studio promossa dall’Accademia Nazionale dei Lincei e dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, Roma 22 gennaio 1998, Roma 1998, pp.181-189, in particolare p.181. 16 F. Beretta, L’Archivio della Congregazione del Sant’Ufficio: bilancio provvisorio della storia e natura dei fondi di Antico Regime, in L’Inquisizione romana: metodologia delle fonti, metodologia delle fonti e storia istituzionale (a cura di A. Del Col - G. Paolin), Atti del seminario internazionale, Montereale Valcellina 1999, pp. 119144; lo stesso articolo pure in “Rivista di storia e letteratura religiosa”, 37, 2001, pp. 29-58. 17 Sul contesto in cui nacque l’archivio del Sant’Uffizio e sui delicati rapporti intessuti, si veda quanto scrive Adriano Prosperi, 2003, in Introduzione, in Id., L’Inquisizione Romana. Letture e ricerche, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003, pp. XVI-XVII, rifacendosi all’articolo di R.H. Bautier, La phase cruciale de l’historie des archives: la constitution des dépots d’archives et la naissance de l’archivistique (XVIe-début du XIXe siecle), in “Archivum” 18, 1968, pp. 138-149. 18 Prosperi, Una esperienza di ricerca nell’archivio del Sant’Uffizio, in “Belfagor”, 5, fasc. 3, 31 maggio 1998, pp. 309-345, in particolare p. 320; ora anche in Id., L’Inquisizione Romana, cit., pp. 221-261. 19 F. Bethencourt, La Inquisición en la época moderna. España, Portugal, Italia siglos XV-XIX, Madrid 1997, p. 43; Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996, pp. 109-110. 20 P. Scaramella, Le lettere della Congregazione del Sant’Ufficio ai tribunali di fede di Napoli, 1563-1625,Trieste, in corso di stampa. 21 G. Romeo, L’Inquisizione nell’Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 31-32. 22 Sul processo di sviluppo del centralismo nello stato pontificio, fondamentali risultano ancora gli studi di J. Delumeau, Les progrès de la centralisation dans l’Etat pontifical au XVIe siécle, in “Revue Historique”, 226, pp. 399-410; Id., 1957, Vie économique et sociale de Rome dans la seconde moitié du XVIe siécle, Paris, 1957, in particolare il secondo capitolo, Les courriers, pp. 37-79. 23 G. Fragnito, L’applicazione dell’indice dei libri proibiti di Clemente VIII, in Filippo II e il Mediterraneo, Convegno internazionale di studi, Barcellona, 23-27 novembre 1998, Roma 2-4 dicembre 1998, a cura di L. Lotti-R. Villari, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 577-616. 24 A. Errera, Processus in causa fidei. L’evoluzione dei manuali inquisitoriali nei secoli XVI-XVIII e il manuale inedito di un inquisitore perugino, Monduzzi editore, Bologna 2000. 25 J.A. Llorente, Historia critica de la inquisición en España, Madrid 1980, vol. I, p. 178, citato da Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., p. 195. 26 B. Bennassar, Inquisición española: poder politico y control social, Editorial Critica, Barcelona 1981; tr. it. Storia dell’Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, Rizzoli, Milano 1980. 27 E. Gacto, Consideraciones sobre el secreto del proceso inquisitorial, in “Anuario de Historia del derecho español”, t. LXVII, vol. II, pp. 1630-1654; E. Galvan Rodriguez, 2001, El secreto en la Inquisición española, Universidad de Gran Canaria, Las Palmas de Gran Canaria 1998. 28 Per un resoconto del seminario organizzato nel febbraio 2005 si veda il contribu-

duma


to, Atti del seminario di studio “Gli archivi dell’Inquisizione in Italia: problemi storiografici e descrittivi” (Roma, Archivio di Stato, 18 febbraio 2005), con uno saggio introduttivo di Andrea Del Col, in “Cromhos”, 10, 2005, in corso di pubblicazione, consultabile sul sito: www.cromohs.unifi.it. 29 Per la citazione di Cesare Mozzarelli si veda l’Introduzione al numero monografico di “Cheiron”, numero monografico su Chiesa romana e cultura europea in Antico Regime, 14, 27-28, 1997, p. 8.

un errore di comunicazione Svelati i segreti del dossier Usa (“la Repubblica” 3 maggio 2005). Dove si dà notizia di un giovanissimo blogger che ha decriptato i capitoli secretati del dossier Usa su Calipari, con una semplice sbianchettatura elettronica. Labilità dei segreti informatici o volontà di mandare a dire ciò che si finge di nascondere, per depistare? Fatto è che all’eroe di un solo giorno, Calipari, i media nazionali del giorno dopo hanno inflitto il peggiore degli addebiti che si possano attribuire a un esperto dei servizi: un errore di comunicazione.

del segreto note angloamericane

141


gino frezza doppia identità e mutazione nei fumetti di supereroi del segreto 142

Ciò che non viene nascosto può venir saputo e ciò che non viene rivelato non è neppure legittimo che si sappia Georg Simmel

Anni Sessanta. Stati Uniti: una nazione ossessionata dai segreti cospirativi, dall’assassinio di Kennedy, per certi versi ancora misterioso; dal caso orribile della setta di Charles Manson, colpevole di aver assassinato l’attrice Sharon Tate e alcuni suoi amici in una villa di Bel Air, con dettagli ancora oggi parzialmente sconosciuti; dall’omicidio di Martin Luther King, forse organizzato dai servizi segreti americani. E poi dai disordini nelle università, dalle proteste forse manipolate da qualcuno interessato a creare un clima di tensione; dall’LSD che dilaga nei campus. Segno di apertura mentale, secondo Timothy Leary e John Lennon; un complotto per distruggere le menti giovanili, secondo William Burroughs (e il grande vecchio della controcultura americana sarà, a conti fatti, nel giusto quando, anni dopo, si scoprirà che il grande guru dell’acido Leary era in realtà una spia della CIA). Questa atmosfera ossessiva di segreti e di oscure manipolazioni viene descritta dai primi scrittori postmoderni o “apocalittici” che dir si voglia. Basti pensare al misterioso (tanto per cambiare) Thomas Pynchon o a Don DeLillo. Pynchon, secondo alcuni il più grande scrittore americano vivente, è stato per molti anni un autentico enigma. Nessuno conosceva il suo vero volto. Non concedeva interviste, non partecipava ai programmi televisivi (massima bestemmia per il mondo comunicativo attuale); a quanto si dice, i suoi editori non conoscevano nemmeno il suo reale indirizzo. Lo stesso Pynchon, quindi, sin dal principio trasforma la sua vita quotidiana in un segreto. Nascosto da qualche parte, però, Pynchon scrive romanzi fonda-


del segreto

mentali che dimostrano una profonda conoscenza della società statunitense e dei suoi perversi meccanismi. Il suo primo romanzo, V (1963), fu un vero e proprio shock per molti lettori e critici dell’epoca. V è infatti un romanzo complicato che racchiude in sé tutto lo scibile umano o quasi. Il protagonista, Stencil, cerca una donna inquietante e misteriosa, chiamata semplicemente “V”, che più che un essere umano in carne e ossa è una semplice iniziale che qualifica una serie di personaggi o luoghi o concetti femminili (Vittoria, Venere, la Valletta, una località di Malta e così via) che in qualche modo rimandano al concetto imperscrutabile dell’eterno femminino, ma anche alla sfinge e ai segreti da essa rappresentati, alla donna fatale dei decadenti, alle donne infide ed enigmatiche dei romanzi noir o hard-boiled. Nel romanzo non c’è niente di definito; anzi, tutto è indefinito e ambiguo. A un certo punto, infatti, si intuisce l’esistenza di un complotto, di una minaccia simboleggiata da macchine misteriose e intelligenti che vogliono sostituirsi agli umani, modificando progressivamente la nostra biologia. Questo progressivo passaggio dall’umano all’artificiale può essere un semplice e naturale processo evolutivo. Oppure è il frutto di una cospirazione che può essere forse compresa solo dandole un simbolo, una V, appunto, che si identifica con una donna misteriosa che attraversa la storia e le cui tracce si possono osservare negli odierni Stati Uniti. Oppure ancora, e questa è l’ipotesi più agghiacciante, tutto questo è uno scherzo architettato da Dio a scapito degli esseri umani. Pare esserci Lui, infatti, dietro la nascita di un bambino con una vite d’oro al posto dell’ombelico. Naturalmente, il lettore non saprà mai la verità; tutto rimarrà ambiguo, dal momento che l’ambiguità è in effetti l’essenza della nostra realtà quotidiana e che i segreti, per loro natura, di solito rimangono tali. E d’altronde, può esserci un segreto più grande di Dio? Meno visionario è uno scrittore amico di Pynchon, Don DeLillo, ossessionato anche lui però dai segreti e dall’ambiguità. In particolare, l’omicidio di John Kennedy (vero e proprio trauma dell’immaginario collettivo americano, almeno prima della distruzione delle Torri Gemelle di New York) è spesso presente in molte sue opere. Già il primo romanzo, Americana (1971), si concludeva poche ore prima della morte del presidente. Ma tutti i romanzi di DeLillo hanno comunque a che fare con segreti, complotti e cospirazioni. Analizzarli in dettaglio è impossibile, almeno nell’ambito

143


di questo mio breve contributo. Ne scelgo due, comunque, che mi sembrano particolarmente adatti al tema. In Libra (1988), l’autore affronta appunto il tema dell’omicidio di John Kennedy. In verità, DeLillo si concentra sulla figura di Lee Harvey Oswald, il presunto assassino del presidente, ricreandolo in maniera magistrale e intessendo un complesso mosaico narrativo popolato da personaggi reali e immaginari. L’autentico segreto del romanzo è rappresentato proprio dalla figura di Oswald e dai legami misteriosi esistenti tra la CIA, la mafia e il KGB, elementi di un complotto intricatissimo. È per questo motivo che DeLillo ha scelto il termine “Libra” come titolo del romanzo. “Libra” indica il segno zodiacale di Oswald, la Bilancia, che oscilla indifferentemente da una certezza all’altra, portando quindi Oswald al sogno di diventare scrittore, a quello di diventare un marine e poi un marxista e poi ancora un patriota confuso che decide di trasformarsi in un cittadino russo e in seguito in un assassino, uno strumento più o meno inconsapevole di forze segrete e nascoste che agiscono nell’ombra. Alla fine, non solo non sapremo nulla di rilevante su uno degli omicidi più scioccanti del ventesimo secolo, ma non sapremo neanche qualcosa di più sullo stesso Oswald. Entrambi, assassinio e assassino, rimarranno un segreto. Con The Names (1982), invece, DeLillo analizza un altro tipo di segreto. E questo romanzo ci conduce ai…

del segreto

Segreti di linguaggio

144

Parliamo di linguaggi, con tutti i significati che il plurale implica. Di fatto, le opere di DeLillo (come quelle di molti altri scrittori postmoderni e Avant-Pop) sono commistioni di linguaggi, miscugli di complesse terminologie mutuate dalla matematica, dalla medicina, dalla fisica, dalla scienza, dalla psicologia e dai molteplici rami della conoscenza. In The Names, DeLillo utilizza il pretesto di un mistero relativo a un culto greco che uccide varie persone basan-

frezza


doppia identità e mutazione

del segreto

dosi sulle iniziali del nome per analizzare il senso di angoscia, di incomunicabilità tra gli individui (un concetto tipico del cinema di Antonioni, una delle grandi influenze di DeLillo) e dell’ambiguità della nostra esistenza. Ambientato ad Atene, il romanzo descrive le vicende di James, un analista del rischio che lavora per diverse multinazionali. Compito di James è di fornire informazioni dettagliate (e segrete) alle società che vogliono assicurare i loro investimenti contro i disordini politici e il terrorismo. A un certo punto James si reca nelle Isole Cicladi e sente parlare di un gruppo di scavatori sospettati di aver ucciso a randellate un vecchio. Uno di questi archeologi è affascinato dalle tracce di un culto sanguinario di assassini ossessionati dall’alfabeto. È anche intrigato dalle lettere e dai simboli scritti in successione, scolpiti con una mazza e uno scalpello, strumenti che vengono utilizzati anche per uccidere le vittime del culto. Man mano che il romanzo procede, il mistero si infittisce ed è rappresentato proprio dall’indecifrabilità del linguaggio conosciuto solo dai membri del culto, indecifrabilità tipica di tutti i linguaggi non padroneggiati dall’iniziato. Un caso letterario più recente è quello di Richard Powers, che ai complessi segreti del linguaggio ha dedicato spesso le sue energie creative. Dopo aver lavorato come programmatore e analista, competenze apprese nei laboratori dell’Università di Boston, legge opere di storia, sociologia, scienze politiche, estetica, letteratura e teoria della scienza, riuscendo dunque a padroneggiare i “segreti” di buona parte di queste discipline. Tale bagaglio di conoscenze è evidente nei suoi romanzi e in particolare in Galatea 2.2 (2003), dedicato proprio ai segreti del linguaggio. Il protagonista della vicenda (in un gioco metanarrativo che fa pensare al post-modernismo) è lo stesso Richard Powers, che dopo aver scritto quattro romanzi viene coinvolto in un progetto

145


del segreto

stimolante e ambizioso: occuparsi di una intelligenza artificiale, insegnarle ad amare la letteratura, a leggere i capolavori del passato, a capire soprattutto i significati delle parole e a comprendere, appunto, i segreti del linguaggio. Grazie al continuo esercizio e all’impegno di Powers, la macchina a poco a poco acquisisce a suo modo una umanità. Chiamata “Galatea”, la macchina inizia a interrogarsi sui problemi insolubili della nostra esistenza: cos’è il linguaggio? Cos’è la vita? Qual è il senso autentico del mio nome? E qual è il mio sesso? E che cos’è? E qual è la mia ragione di vita? Di fronte a Galatea, Richard Powers si trova a rimettere in discussione la sua stessa vocazione letteraria e comincia a farsi domande su questi segreti che da sempre hanno tormentato l’umanità, segreti che riguardano l’identità umana, il senso della memoria e i limiti dei pensieri e delle emozioni. Interessante, per la sua analisi dei segreti legati al linguaggio, è anche Rikki Ducornet, scrittrice americana e illustratrice, che qui vorrei ricordare in particolare per il suo splendido Gazelle (E sia acqua, sabbia e cenere, 2003). In questa opera immaginifica e inclassificabile, la scrittrice narra le vicende di Lizzie, una tredicenne che vive in quella suggestiva metropoli che è il Cairo, con una madre bellissima e infedele che ha una relazione con un creatore di profumi. Lizzie, affascinata dalla bellezza della madre e da quella del suo amante (bellezza che non comprende fino in fondo e che per lei costituisce un segreto), legge casualmente Le Mille e una Notte, libro che per lei rappresenta il mondo misterioso ed enigmatico dell’oriente, vero segreto per gli occidentali, con i complessi linguaggi a esso legati: la lingua del mito, delle leggende, delle favole antiche. Guidata dal creatore di profumi, Lizzie scoprirà l’esistenza di molti segreti. I segreti dei profumi. I segreti del desiderio che incomincia a farsi sentire nella sua timida natura di adolescente. I segreti dei libri esoterici che il suo mentore le fa leggere. Il segreto del linguaggio utilizzato dai testi sacri. E alla fine Lizzie si renderà conto che tutto è un affascinante segreto, in un mondo vago da lei stessa definito “fatto di acqua, sabbia e cenere”. Elementi impalpabili come i sogni.

146

Hollywoodiana Hollywood è la terra dei sogni, un “bosco sacro” (come il nome evoca nel linguaggio anglosassone: “holly”, collegato a “holy”,

frezza


doppia identità e mutazione

del segreto

sacro; oppure a “helle”, forma arcaica di “hell”, inferno, e dunque anche “bosco infernale”; e sacro e profano, non casualmente, sono sempre andati a braccetto a Hollywood). Ai segreti di Hollywood si sono sempre ispirati molti artisti anglosassoni. Per esempio uno scrittore come James Ellroy, autore di celebri romanzi noir (e il noir, per sua natura, affronta sempre i segreti, di solito a sfondo criminoso) e in particolare del famoso Black Dahlia (Dalia Nera, 1987), liberamente ispirato a una vicenda realmente accaduta, riguardante Elizabeth Short, una bella aspirante attrice, soprannominata “Dalia Nera”, appunto, che viene trovata morta, letteralmente tagliata in due, dopo essere stata atrocemente torturata e seviziata. Le indagini sono affidate a due poliziotti, Dwight e Lee, che vivono nella stessa casa insieme a Kay, una ragazza dal passato discutibile. Le indagini saranno lunghe e complesse e porteranno a un mondo squallido di sesso e droga, di lesbismo e di depravazioni, che coinvolge l’ambiente dorato e apparentemente perfetto di Hollywood. Alla fine Dwight ne scoprirà gli orribili segreti, rappresentati da una torbida realtà fatta di malattie mentali, di squilibrio interiore e di vizio. È un fatto significativo che Ellroy si sia, tra le altre cose, interessato all’omicidio di Kennedy, con il romanzo American Tabloid (1995) e che lui stesso sia stato ossessionato da un segreto, quello relativo all’omicidio della madre, ancora oggi rimasto insoluto (e di ciò parla nel suo suggestivo My Dark Places, I Miei Luoghi Oscuri, 1996). Ellroy ha sempre citato come fonte di ispirazione il controverso regista underground Kenneth Anger, omosessuale, visionario, occultista praticante e fondatore insieme ad Anton LaVey della Chiesa di Satana a San Francisco, inizialmente frequentata da molti nomi importanti di Hollywood, come l’attrice Jane Mansfield (che dicevamo in principio sull’unione tra sacro e profano?). Anger è però conosciuto anche per il libro Hollywood Babylon (Hollywood Babilonia, 1976), spietata denuncia dei vizi degli attori e dei registi di Hollywood. Forse pochi altri libri hanno svelato una così numerosa quantità di segreti riguardanti sesso, droga, perversioni, che si annidano e si nascondono in questo mondo dalla superficie luminosa. Segreti che sono anche stati affrontati da registi come David Lynch, che del segreto ha fatto la base del suo universo cinematografico (famosa e spiazzante una battuta di uno dei protagonisti del suo Twin Peaks, 1989-1990: «Che rapporto c’era tra Marilyn Monroe e i Kennedy? Chi ha sparato al presidente?») o come Oliver Stone, che di solito ha scelto di

147


analizzare i segreti collegati alla politica statunitense. E questo ci porta alla destinazione finale del nostro breve viaggio…

del segreto

Politically secret

148

Gran Bretagna e Stati Uniti pullulano di cosiddetti “teorici della cospirazione” che hanno pubblicato e pubblicano una mole impressionante di testi relativi a segreti governativi (anche perché, va detto, questo tipo di pubblicistica costituisce un business notevole e spesso molti di questi autori, per motivi chiaramente mercenari, tendono a vedere segreti e cospirazioni dappertutto). Rapporti spionistici, files segretissimi, testimonianze scioccanti, strane teorie sugli Ufo o sull’Aids o sulla guerra in Iraq o sulla massoneria… sono elementi tipici di questi testi. Un caso però decisamente interessante, nel marasma di pubblicazioni del genere, è costituito dalle opere dell’inglese David Icke, spesso oggetto di minacce di morte e di attacchi personali. Icke ha deciso da tempo di rivelare i segreti (veri o presunti tali) del mondo della politica anglosassone e non, da lui considerato manipolato da logge massoniche e da sette segrete. Icke parla da anni di un’associazione massonica internazionale, definita degli “Illuminati”, che ha sempre controllato e manipolato i presidenti degli Stati Uniti e i governanti degli altri paesi. Questa élite segreta è il vero potere dietro quello apparente rappresentato dai politicanti che ci tediano. Tale élite, secondo Icke, ha letteralmente creato il terrorismo, tanto per fare un esempio, allo scopo di provocare paura nelle masse. Saranno poi queste ultime, secondo Icke, a invocare sicurezza. Ma come la si può raggiungere? Semplice. Limitando la libertà di movimento e di pensiero e instaurando uno stato di polizia peggiore di quello descritto da Orwell, fino ad arrivare a una dittatura globale, un nuovo ordine mondiale che è la meta finale delle élite. Ciò viene riassunto da Icke con l’equazione: problema = reazione = soluzione. Realtà? Fantasia? Certamente si tratta di un grande segreto svelato, indipendentemente dal fatto che si creda o no all’autore, simboleggiato dal titolo stesso di una delle sue opere forse più discusse e controverse, The Biggest Secret (Il Segreto Più Nascosto, 2001).

frezza


riferimenti bibliografici DeLillo D. 1990, I Nomi, Tullio Pironti Editore, Napoli. DeLillo D. 1989, Libra, Tullio Pironti Editore, Napoli. Rikki D. 2003, E Sia Sabbia, Acqua e Cenere, Fanucci, Roma. Ellroy J. 2000, American Tabloid, Mondadori, Milano. Ellroy J. 1987, Dalia Nera, Mondadori, Milano. Ellroy J. 2003, I Miei Luoghi Oscuri, Bompiani, Milano. Icke D. 2001 Il Segreto PiĂš Nascosto, Macro Edizioni, Diegaro di Cesena. Powers R. 2003, Galatea 2.2, Fanucci, Roma. Pynchon T. 1991, V, Bompiani, Milano.

del segreto doppia identitĂ e mutazione

149


del segreto

L’uomo mascherato

150

Il segreto nei fumetti emerge in diretto legame con la visibilità del corpo del personaggio. Si comincia da The Phantom, anni Trenta, meglio noto come L’uomo mascherato. La leggenda dell’Ombra che cammina - geniale traduzione italica dell’originale The Phantom - non è soltanto vivificata dalla straordinaria destrezza atletica che il personaggio manifesta, assumendo il ruolo di giustiziere infallibile e tutore della pace nella giungla (luogo tanto selvaggio quanto Eden conservato nella sua cristallina armonia) ma, anzitutto, dalla totale dimensione fantasmatica che ne accompagna le gesta. Essa è fondata sia sul repentino apparire e svanire della sua sagoma, sia sulla solidarietà che lega la figura dell’Uomo Mascherato ai segni che, letteralmente, “coprono” il suo corpo e lo celano agli sguardi altrui. Tali segni sono principalmente il simbolo del teschio e il costume scarlatto che riveste il volto e la statuaria silhouette dell’eroe. Questa è la vera dimensione del segreto che accompagna The Phantom non soltanto davanti ai nemici ma anche agli amici: costume e teschio ne avvolgono l’identità visibile entro confini che lo avocano quasi a stigma del mortale, del funereo (la Caverna del Teschio: l’antro che custodisce le tombe dei suoi antenati). I simboli della mortalità, di tutto ciò che sta prima o dopo la vita, tuttavia, sostentano l’energia invincibile e forniscono senso alla figura dell’eroe. Essi legano il suo destino individuale (l’eroe, che il lettore conosce nelle avventure che si snodano dagli anni Trenta agli Ottanta, vive la modernità del Novecento) a un patto, a un giuramento che lo vincola a una genia, a una stirpe, avvolta tanto nella persistenza del “giuramento” (combattere la pirateria, l’ingiustizia, la violenza) quanto nella caducità. L’autore di The Phantom, Lee Falk, su questa falsariga avventurosa gioca a rimpiattino – con una buona dose di efficace ironia – con i suoi lettori; il viso di The Phantom, da giovane, da adulto, poi quando assume il ruolo dell’eroe dopo la morte del padre e veste il costume dell’Ombra che cammina, è sempre fuori dalla visibilità, dal di-segno dei suoi tratti; è raffigurato di spalle, o di profilo, ma sempre senza che se ne possa riconoscere la fisionomia. L’autore in tal modo fa crescere esponenzialmente il desiderio del lettore, il quale non può fare altro che identificarsi con un personaggio interamente cullato dal segno del fantasma, da una trasparenza

frezza


doppia identità e mutazione

del segreto

impossibile da sciogliere o da risolvere. Il segreto di The Phantom resta inalterato; il lettore è tenuto in tale posizione sempre, perfino nella storia in cui, finalmente, l’eroe, appena sposato, toglie la maschera e si rivela alla ex eterna fidanzata, Diana. Lei può adesso vederne il viso, e per se stessa “consumare” il segreto dell’eroe nella sfera più intima – quella sessuale/matrimoniale – ma al lettore spetta in ogni caso l’irrimediabile posizione di rimirare esclusivamente la nuca del personaggio! The Phantom è definito da questa oscillazione significativa fra la trasparenza “mortale” del segno avventuroso dell’eroe dei fumetti e il segreto che rimanda alla costitutiva relazione con un inconscio addossato allo sguardo dei lettori. Sono questi ultimi a vivere assai profondamente una dinamica eterogenea (talvolta dialettica, talora dinamicamente oppositiva e contrastiva) fra la realizzazione visiva dei fumetti e il segreto penetrante che tale medium porta con sé. Quello di The Phantom, infatti, è il medesimo segreto (dalla doppia natura: fantasmatico-inconscio, eppure concreto-dinamico) installato nel gioco mentale-psichico (dunque anche psicoanalitico, involontario, eppure irresistibile, ben addestrato nella rete dei linguaggi tecnologici dell’audiovisione) per cui le tavole disegnate su pagine o strisce divengono vettori di un movimento trascinante, veloce e dinamico, che porta – e trasporta – con sé figure pur tanto statiche e immobili sulla carta. The Phantom anticipa di qualche anno una figura mascherata che, in maniera assai diversa dall’Ombra che cammina, tuttavia “lavora” sul medesimo statuto della identità nascosta e velata, ma con una più esplicita ironia e senso dell’humour. Si tratta di Spirit, il grande character di Will Eisner che dal 2 giugno del 1940 rivoluziona la grafica e la profondità sensoriale delle tavole a fumetti. Con veri e propri exploit sinestesici – fra chiaroscuro del regime visivo delle tavole e sonorità vaste, stratificate, dei rumori della metropoli e degli spazi naturali che ingombrano e danno ritmo alle forme della visione – Eisner magistralmente disegna un caustico ritratto pluridimensionale della città e dell’habitat statunitense degli anni della Seconda guerra e poi dell’immediato dopoguerra (Eisner termina le storie di Spirit nel 1950, riprendendole occasionalmente nel 1966). Il segreto di Spirit non è la sua origine, né la sua “doppia identità”, ma il ruolo della mascherina che copre – senza però renderlo irriconoscibile – il volto di Danny Colt, ex criminologo e investigatore.

151


del segreto

Nelle avventure di Spirit rivivono uomini senza futuro, criminali dementi, poliziotti ilari, dark lady davvero seducenti, rispetto ai quali l’eroe è dichiaratamente un fantasma (un segno-simulacro che serve a scatenare paura nei malviventi e dunque afferma, paradossalmente, l’ombra noir da cui deriva la forza “etica” del suo marchio). Se dunque la mascherina non ha la funzione di mascherare l’identità ma solo di affermare un segno, questo ha la leggerezza della convenzione, ed è palesemente soltanto una chiave d’accesso al mondo straordinario dei fumetti, che l’ingegno di Eisner assume nell’acutezza di uno sguardo sornione ma profondo, drammatico ma divertito, “vero” e ciò nonostante irrimediabilmente simbolico. In-somma, la mascherina palesa il segreto dell’alterità dei soggetti umani che vivono nell’Occidente capitalistico della più grande potenza del primo Novecento, e di essa i comics di Eisner s’incaricano di esprimere le latitudini sommerse, i piani filosofici e i conflitti economici e sociali non investigati dalle storie “ufficiali”.

152

frezza


Superman

doppia identità e mutazione

del segreto

The Phantom nasce nel 1936, due anni prima che sulle tavole del “comic book” Action Comics si affermi il personaggio – davvero eccezionale – che inaugura l’epoca dei supereroi nei comics: Superman, ovvero Kal-El, originario del pianeta Krypton, da bambino inviato nello spazio su una capsula lanciata dal padre scienziato Jor-El appena poco prima dell’esplosione del suo pianeta natio, giunge sulla terra in prossimità della piccola città di Smalville, dove è trovato e adottato “in segreto” dai coniugi Kent. Con le avventure dell’uomo d’acciaio il ciclo narrativo dei fumetti complica il suo sottostante quadro mitologico. Gli eroi avventurosi che per qualche tempo nelle tavole dei fumetti, a partire dal 1929, praticano geografie e tempi dell’immaginazione (coltivata traducendo i repertori letterari e cinematografici del generi) trasformano non soltanto l’ambiente dell’azione ma soprattutto le condizioni fondative per cui essi possono farsi riconoscere dai lettori che vivono nelle metropoli e nelle piccole città della modernità tecnologica. Non più soltanto i pianeti lontani e fantastici delle galassie spaziali (come per Gordon), né le civiltà nascoste negli anfratti inesplorati della Terra o i mondi celati nelle dimensioni micro dell’atomo di una moneta (come per Brick Bradford), e nemmeno l’oltretempo di una fantascienza catastrofica e paradossale che proietti l’eroe in un mondo parallelo, dai tratti arguti e maliziosi (come per Buck Rogers). Superman aggiunge un quid che fa la differenza e che, appunto, apre un nuovo ciclo mitologico dalle irreversibili conseguenze. Il supereroe contiene in sé lo stigma di una doppia identità: quella originaria, extraterrestre, dagli invincibili poteri (supervista, corpo impermeabile alle pallottole, capacità di volo, superforza ecc.) e quella “adottata”, terrestre, dell’alter ego, l’alias (il timido e occhialuto ma intelligente e acuto giornalista della carta stampata, Clark Kent). Le vive alternativamente, e quindi lo scenario narrativo-mitologico degli albi a fumetti si nutre della compresenza e della dialettica (positiva-negativa-sintetica) delle due identità nelle quali egli risolve, o chiude, o rilancia, o problematizza la propria figura. Di qui l’estrema necessità del segreto. Il supereroe extraterrestre – per tutelare il suo compito di giustiziere super partes, nonché la vita degli amici con i quali condivide la vita quotidiana – deve celare se stesso e nascondersi nei

153


del segreto 154

panni di un umano qualsiasi. Vesti, abbigliamenti, occhiali sul volto e comportamenti dell’identità segreta terrestre di Superman – Clark Kent, reporter di punta del Daily Planet – dissimulano la sagoma blu e scarlatta del kryptoniano volante sopra i grattacieli di Metropolis. Ma occorre chiedersi come e in quale direzione intendere l’esistenza del segreto di Superman e la sua necessità. Sono vari i livelli che ne giustificano la funzione e prospettano esiti conseguenti ai suoi fondamenti. Anzitutto quello del campo narrativo. Gli autori – dagli ideatori, Jerry Siegel e Joe Shuster, a Gardner Fox, ai più moderni Cary Bates, Gerry Conway, Jerry Ordway, Jeph Loeb, per citare in gran parte sceneggiatori – giostrano attorno al segreto della doppia identità, provocando curiosità, suspense e motivazioni etiche e comportamentali fra i personaggi principali. Chi riuscirà davvero a scoprire il segreto di Superman? E quali sospetti quotidianamente Clark dovrà eliminare e allontanare da sé, se i suoi amici Lois Lane, Jimmy Olsen e Perry White – ma no, è impossibile! Sì, invece, forse, è incredibile, ma… – o, viceversa, i nemici (anzitutto l’acerrimo Lex Luthor, ex amico d’adolescenza, grande scienziato e genio del male) iniziano a pensare che forse Clark è soltanto la maschera sotto la quale rimbalza il costume e il volto del kryptoniano? Gli autori del comic book sfruttano ampiamente tutte le varianti e le variazioni del gioco della doppia identità, del bilico su cui il segreto si staglia e sta per dissolversi, per poi infine richiudersi nel suo irrisolto enigma. Giocano quindi ogni registro: da quello ironico, da commedia – specialmente i grandi fumetti di un autore degli anni Cinquanta come Wayne Boring, ma anche la straordinaria storia dei primi anni Ottanta su come gli occhiali di Clark Kent in realtà distorcano la percezione del suo volto da parte degli amici e dei nemici, salvaguardando la sua apparente differenza con quello di Superman – al dramma dai toni foschi ed espressionistici. C’è poi un secondo livello, pertinente a una dimensione simbolica e metaforica. E qui le piste di possibili significati emergenti, derivanti da interpretazioni e da posizioni ermeneutiche, si divaricano ben presto, rivendicando ciascuna una propria legittimità e cogenza semantica. Se ne possono individuare alcune polarità. Una è riferita a diverse metafore che la doppia identità di Superman sottende come forme di rappresentazione del mondo

frezza


doppia identità e mutazione

del segreto

contemporaneo. Può trattarsi, cioè, sia di una metafora mediale, che tecnico-politica, o esistenziale. La metafora mediale di Superman intende rappresentare la potenza posseduta dal consumatore di media del primo Novecento: un uomo-massa qualsiasi che trascende i limiti del corpo e dello spazio-tempo grazie alle virtù agite dai media. Questi collegano individui e comunità oltre ogni vincolo di geografia planetaria o cronologia urbana. La metafora tecnico-politica generalizza quella mediale: la potenza di Superman è una forma mitica con cui l’uomo occidentale si rappresenta l’incorporazione dei poteri tecnologici nell’ambiente della civiltà industriale e le sue proiezioni verso il futuro. Quella esistenziale è collegata alle prime due: la doppia identità dapprima nutre un sentimento di entusiasmo e di certezza del potere acquisito dalla figura del supereroe ma, appena dopo la Seconda guerra mondiale, si rovescia nelle inquietudini che ben presto attraversano la sua coscienza, rispetto ai compiti di tutore della giustizia o di salvatore della Terra. La metafora esistenziale della doppia identità squadra il sofferto rovescio del potere tecnologicomediale, i rischi che impongono superiori livelli di responsabilità. Per queste tre tipologie di metafora, il segreto è una condizione irrinunciabile: è quella di una trasparenza con la paradossale capacità di risultare opaca (la metafora mediale si nasconde dentro la figura mitica del supereroe e della sua eccezionalità); è il segreto che contiene e delinea il potere della tecnologia in grado di cambiare i destini dell’umanità e di porla davanti a incognite sul futuro; è il rovello intimo, nascosto nel cuore di Superman, circa il senso ultimo della sua missione e del rapporto vissuto nei confronti del pianeta adottivo. Una seconda polarità del livello interpretativo e metaforico è quella immaginaria e trasgressiva sottesa alla figura di Superman. Una chiara e finale valutazione del segreto di Superman espressa in tale direzione è contenuta nel discorso del personaggio di Bill/ David Carradine nell’ultima parte di Kill Bill vol. II di Quentin Tarantino. Rivolgendosi alla sua ex compagna, Beatrix/Uma Thurman, Bill prende in prestito la figura di Superman per sostenere il movente del gesto con cui, all’inizio della storia, egli ha sparato alla donna e poi le ha sottratto la figlia tenuta in grembo. Superman serve a Bill per esplicitare il suo particolare modo di intendere la natura morale di Beatrix/Uma Thurman, una killer che

155


avrebbe commesso il peccato di tradire il suo proprio destino. Beatrix avrebbe mimetizzato nei lineamenti della “normale” sposa di un uomo comune la sua “vera” natura di donna d’azione. La falsariga del bilico fra normalità e trasgressione, violenza e crimine, giustizia umana ed etica superumana, è quindi interpretata da Bill tramite il segreto della “filosofia del supereroe”, da Batman a Spiderman tutti segnati dall’esistenza della doppia identità, del costume e dell’alter ego. Per Bill, l’eccezione è Superman, in quanto non è l’Uomo d’Acciaio l’alter ego di Clark Kent, bensì questi l’alter ego di Superman: «La mattina quando si sveglia Superman non diventa Superman, è Superman… Quella tuta con la grande S rossa è la coperta che l’avvolgeva quando fu ritrovato dai Kent. Quel che indossa come Kent – gli occhiali, l’abito da lavoro – quello è il suo costume… il costume con cui Superman può mimetizzarsi fra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso, ed è un vigliacco… Clark Kent rappresenta la critica di Superman al genere umano».

del segreto

Batman, l’uomo pipistrello

156

Il secondo grande eroe dei “comic books” americani è Batman, l’Uomo Pipistrello, il vigilante notturno che coadiuva il Commissario Gordon di Gotham City nella lotta quotidiana contro la malavita. Il segreto di Batman è duplice: ricco capitalista, erede di una enorme fortuna vivificata in mille aziende ad alta tecnologia, Bruce Wayne simula una vita da fortunato e seduttivo imprenditore, ma si tratta di una maschera sotto la quale batte il cuore lacerato del Pipistrello Umano. L’altra faccia del segreto di Bruce Wayne è infatti l’oscura tenebra della sua mente, sconvolta dalla tragedia che l’ha visto testimone, quando era bambino, dell’omicidio dei genitori uccisi da un malvivente. Bruce Wayne dimora in una enorme villa sotto la quale una grande Caverna contiene il costume, i gadget e il grande computer del Pipistrello Umano. Così il segreto della doppia identità assume con Batman un altro straordinario risvolto. Cioè il diretto legame fra la lacerazione intima dell’uomo – attraversato da sensi di colpa, dubbi, inquietudini, passioni non sempre controllate – e l’impulso a esibire una formidabile destrezza tecnologica e atletica. Batman

frezza


è il personaggio dei comics che, insieme alla acrobatica performance del corpo, assegna alla tecnologia una funzione equivalente al superpotere. Metaforicamente Batman si fa espressione di una equazione che in modo inequivocabile sottolinea l’eccezionalità del supereroe non in quanto extraterrestre, non in quanto corpo straordinario per la sua origine aliena (come è Superman), quanto per l’uso intelligente e innovativo della tecnologia. Con Batman il segreto della Notte e del dramma interiore s’accoppia e convive con la luminosa flagranza delle armi e dei dispositivi, prima meccanici e poi elettronici-telematici, che lo rendono invincibile, imprendibile, imbattibile. L’antro della Caverna custodisce dunque non solo il costume notturno del Pipistrello Umano ma anche la sua costitutiva sindrome schizofrenica: la scissione altalenante fra incubi e tormenti soggettivi della Psiche e azione efficace, esteriore, della Techné.

del segreto doppia identità e mutazione

157


Doppia identità

del segreto

Quel che Bill – esplicitando il pensiero di Quentin Tarantino – chiama “filosofia dei supereroi” è fondato – a differenza di quanto succede nelle avventure disegnate di The Phantom – sul preciso rapporto che lega il tema narrativo del segreto della doppia identità e i lettori. Mentre il volto dell’Uomo Mascherato resta celato allo sguardo dei suoi fedeli lettori, e dunque la curiosità insoddisfatta di questi ultimi nutre la leggenda e il segno fantasmatico che caratterizza l’Ombra che Cammina; per Superman, Batman, e per i successivi Flash, Lanterna Verde, Green Arrow (della D.C. Comics), come per Spiderman e Devil (e numerosi altri characters della concorrente Marvel Comics), l’alter ego è uno dei principali vettori grazie a cui la doppia identità intreccia sapienti e ricorsivi “dialoghi” e modi interattivi con le competenze dei lettori. Le piste narrative della doppia identità e del segreto connesso alle biografie di tali eroi valorizzano inferenze che i lettori gettano sulle impaginazioni e sulle forme audio-visive delle tavole. E le saghe stesse sono in questo modo orientate all’accumulo di significati talvolta di peso strategico. Dunque, se per Bill/Tarantino Clark Kent è l’icona attraverso cui il supereroe critica la dimensione e la statura morale del genere umano, d’altro canto i successivi supereroi danno luogo a varie griglie di interferenze fra, da un lato, impaginazione e sceneggia-

158

Il tempo che ci appartiene cuce e scuce segreti e rivelazioni on demand. Se proprio vi preme conoscere il seguito del serial che vi avvince, è sufficiente sopportare il costo di un sms. Un posto al sole, serial pedagogico quotidiano per interni familiari progressivi (in onda ogni sera sulla terza rete Rai alle 20.30 fino a mezz’estate) propone di svelarvi il finale della storia lasciata in sospeso alla fine della puntata telefonando al 48413. Così non era ai tempi in cui il primo educatore dell’immaginario adolescente, il fumetto, differiva per almeno una settimana lo scioglimento dei segreti a strisce. Un’intera generazione - quella di Tex Willer e di Capitan Miky, de Il Vittorioso o dell’Intrepido, ma anche quelle più addietro (la Misteriosa fiamma della Regina Loana rievocata nel romanzo “illustrato” di Eco) o più recenti (Martin Mystère) - doveva autoeducarsi al differimento del desiderio: un buon contrappasso all’accanimento, al consumo immediato. Quella che è sopravanzata è stata cullata dai media al fast food, al prendi-e-getta di irrilevanze che acuiscono il bisogno di consumo qui e ora. Ma non bisogna disperare. Così non va; il ritmo si va allentando (e i sociologi del tempo lento avranno tutto il tempo per gustarsi le loro belle rivincite).


Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. L.Wittgenstein,Tractatus logico-philosophicus. Hai ragionato molto bene dicendo di non volerne sapere di questi misteri, di questi segreti. Lascia stare per il momento… Saprai tutto a suo tempo, precisamente quando sarà necessario. F. M. Dostoevskij, Delitto e castigo.

angelo semeraro tende e velami

Tutto ciò che è profondo ama la maschera. Nietzsche, Al di là del bene e del male.

del segreto

tura delle tavole e, dall’altro, strutture percettive, logiche e affettive dei lettori. In altri termini, se Superman vive una dimensione affatto extraterrestre e al limite aliena al vissuto degli esseri umani (se non tramite la compenetrazione culturale del suo alter ego Clark Kent), gli altri supereroi, invece, pongono in gioco un vissuto umano sbilanciato quasi sempre sulla tragedia e sul dramma, sulla ferita interiore e sull’estremo fra nevrosi e psicosi, debolezza e coraggio, infanzia e maturità, abbandono di sé e responsabilità. Da Batman (il cui lato “gotico” e oscuro esplicita l’integrazione compiuta fra la Notte e il Segreto, il versante liminare fra la follia e la saggezza, il crimine e la giustizia) a Spiderman (adolescente gravato dai sensi di colpa per non essere adeguato ai doveri imposti dal crescere e dal diventare uomo adulto, responsabile di sé e dei propri cari), il vissuto dei supereroi, proprio per i caratteri della identità terrestre, entra in gioco pesantemente. La compresenza dell’identità “normale” e di quella in costume articola con inedite, irreversibili prospettive la serie dei sensi del segreto che distingue carriera e destino del supereroe. C’è una prima fase di questa compresenza interattiva della doppia identità rispetto ai lettori che vede proliferare e crescere l’immaginazione a fumetti, secondo possibilità che radicano una presenza tale da cambiare l’intero universo editoriale (almeno negli USA). Essa vige fino a primi anni Sessanta, e spesso viene confusa con un sentimento progressivo ed entusiasta dell’immaginario statunitense, se non fosse che chiari sintomi e irrinunciabili immagini

159


e personaggi (per esempio Capitan America, ripreso nel 1963 da Jack Kirby su sceneggiature di Stan Lee) dimostrano come questo stesso immaginario sia percorso da traumi radicali, sofferenze che non possono addirittura manifestarsi se non per indizi laterali, tanto sono insopportabili (il tema della catastrofe nucleare e della scomparsa della vita sul pianeta, assai presente in questo immaginario, chiama in causa il diretto risvolto militare del potere agito dalle istituzioni americane e da quelle, genericamente, occidentali). Ma la seconda fase – che si dispiega compiutamente dalla seconda metà dei Settanta – attiva una spirale di drammi epocali e di destini esemplarmente tragici, che fanno dei comics dei supereroi veri capolavori della coscienza “critica” della contemporaneità, attorno alle questioni dell’appartenenza fra individuo e comunità, delle identità sessuali e culturali, dei rapporti fra generazioni, della porosità e invasività tecnologica su ogni sfera del bios, umano ed extraumano, animale e vegetale, così come delle differenze di classe e di ceto nella distribuzione sociale dei ruoli e delle professioni. Un insieme di tematiche e di sostanze espressive sono canalizzate dai personaggi dei comics e specificamente dai supereroi, mostrando l’alternarsi di conflitti irrisolti del rapporto fra poveri e ricchi, potere e disuguaglianze, forze militari e lotte individuali per la sopravvivenza, giungla urbana e malavita organizzata, guerre locali e guerre globali, scienza e futuro, abissi demoniaci e tensioni rinnovate alla felicità. I corpi dei supereroi che intervengono in questa seconda fase cambiano lo scenario mitologico dell’avventura, disintegrano lo stigma della doppia identità e del segreto che variava – fino a essi – ogni sottile falsariga fra la sagoma in costume e la normalità dell’uomo comune in cui rientrava l’identità terrestre del supereroe. Giunge il tempo irreversibile dei Mutanti.

del segreto

I fantastici quattro

160

I primi mutanti dell’immaginario a fumetti – anticipando di qualche mese Spiderman – sono I Fantastici Quattro, ideati da Stan Lee e Jack Kirby. Con questi supereroi si avvia un ciclo ancora oggi in espansione, seppure a getto continuo di riscritture e di ritorni all’origine, che danno la misura della differenza culturale dell’epoca in cui furono inventati (il 1961) rispetto a quella odierna (quasi

semeraro


tende e velami

del segreto

un cinquantennio dopo). I Fantastici Quattro rappresentano il segno tangibile della trasformazione culturale del consumatore televisivo occidentale, destro a muoversi fra media ormai adulti (cinema, televisione, radio, lo stesso fumetto). E, perciò, essi sono i primi a radicalizzare la questione della doppia identità e del segreto del supereroe. Essi segnano inoltre un cambiamento di paradigma nella natura delle tecnologie che si affermano nella società avanzata e post-industriale moderna: non più quelle fondamentalmente meccaniche e fotografiche del primo Novecento ma le tecnologie del microscopio, della cibernetica e della genetica, della biologia spaziale, dell’astrofisica e della cosmologia, della comunicazione interattiva e multimediale del secondo Novecento e del terzo millennio. L’operazione compiuta dagli autori dei Fantastici Quattro attiene proprio alla radice del segreto e della doppia identità. Reed Richards (il leader dei Fantastic Four, l’uomo molla), Sue Storm (la donna invisibile) e il fratello Johnny Storm (la Torcia Umana), Ben Grimm (la Cosa), in realtà non hanno doppia identità. Non si nascondono, non si celano nella identità terrestre comune; anzi semmai si espongono nella mutazione che ha cambiato pelle, potere ed effettività del loro corpo. Essi non hanno doppi che costituiscano il proprio riflesso “normale”, e la ragione è tanto semplice quanto acuta e, metaforicamente, penetrante. Senza segreto da nascondere alla vista degli umani (e dei propri lettori), i Fantastici Quattro possiedono il segreto di una esperienza originaria non dicibile né esperibile altrimenti, che è il loro essere mutati. Il loro segreto è di una trasparenza assoluta: da un lato sta piombato, ficcato nel farsi del processo che li trasforma irreversibilmente – da umani diventano mutanti – e, dall’altro, richiede immediatamente, istantaneamente, la necessità del gruppo: il fare insieme, l’essere comune che li tiene uniti e li vincola reciprocamente. Si tratta di una direzione che la metafora dei supereroi assume in quanto cambiamento di segno e differenza epocale; essa non a caso “trapassa” dai Fantastici Quattro ai successivi X-Men, i quali, a differenza dei primi, rifrangono la doppia struttura del segreto dell’origine e della necessità del gruppo anche secondo le piste singolari che riguardano alcuni loro membri. Wolverine, in particolare, vive la sua origine in modo acutamente drammatico – egli è il prodotto di un esperimento militare che ha dotato il suo corpo di uno scheletro di adamantio, un materiale più duro e resistente

161


del segreto 162

dell’acciaio, e di un fattore rigenerante che ne cura ogni ferita, seppur mortale – e questa sua tendenza caratteriale si esprime assieme alla ricerca spasmodica di un legame o relazione con quegli affiliati agli X-Men (una è Rogue, adolescente destinata a non poter toccare gli altri, soprattutto coloro che ama, perché ne aspira l’energia vitale) che abbiano esperito il medesimo doloroso vissuto. E cioè la mutazione stessa, per la quale il mutante vive intensamente l’esser solo. Una esasperata solitudine (molto di più che l’esser singolare) segna intimamente l’identità del mutante, che non ha alcun alter ego, se non il se stesso che cambia, avendo incorporato nel soma un potere o elemento naturale, animale o vegetale o inorganico. La doppia identità, col mutante, svanisce nell’alterità continua, nel flusso energetico – terrestre, cosmico, meteorologico, animale, vegetale, microscopico, interdimensionale ecc. – che coinvolge e sconvolge il suo corpo, potenziandolo ma anche estraniandolo da sé (e che egli lo comandi o ne sia comandato, è variabile pressoché senza importanza per il senso dell’estraniazione alla quale il mutante è costretto). Di qui l’altra faccia del segreto, che si manifesta in modo tanto evidente da passare quasi inosservato: il gruppo che il Dr. Xavier, leader e maestro, tenta di indirizzare principalmente al sostegno reciproco dei mutanti, all’affermazione dei loro diritti (che, secondo un’altra politica, voluta e perseguita da Magneto – ex amico e avversario del Dr. Xavier – conduce piuttosto al conflitto), a una razionalità politica superiore che elimini il rischio insito nella natura stessa del mutante: ovvero l’individualismo, che li renderebbe forze incontrollate, esasperate, caotiche, senza genere né specie. Costituire un gruppo ha dunque lo scopo sottostante di sostituire per i mutanti l’appartenenza a una specie biologica; il gruppo cerca di affermare una solidarietà culturale maturata sulla loro sofferenza interiore. I mutanti, infatti, sono un chiaro paradosso (già dall’epoca dei Fantastici Quattro): da un lato fanno squadra (nei primi mutanti Marvel, Johnny e Sue Storm sono fratello e sorella, così come Jean Grey e Scott Summers degli X-Men diverranno marito e moglie, ma non è il legame parentale a renderli membri convinti del gruppo, semmai ne è una derivazione possibile); dall’altro la loro singola differenza li separa, quasi li condanna a un isolamento perenne, almeno dentro la cifra più tipica della loro personalità. La differenza li segna oltre ogni capacità di tolleranza; addestrarsi a contenere la mutazione ha sempre esiti critici,

semeraro


tende e velami

del segreto

provoca scompensi ed effetti introspettivi che minano la stabilità psicologica del mutante. Solitudine, assillo sul proprio essere e sul fondamento della relazione che scinde o lega individuo a individuo, adulto a infante, bambino a padre, genitore a figlio, soldato a comandante, persona a cultura, membro a comunità, libertà a necessità: è una costante investigazione, un viaggio – spesso un vagare – alla ricerca di Sé e del proprio segreto (della propria origine) da parte dei mutanti. Essi non vogliono altro che scoprire il nesso per cui l’identità che tras-portano nell’involucro del proprio cangiante soma è irrimediabilmente connessa alla violenza che ne ha cambiato tragicamente l’esistenza (spesso al caro prezzo della vita di quei loro cari – genitori, mogli o mariti, figli… – che costituiscono quindi il set mentale della malinconia che affligge i mutanti, collocando, quasi sempre, il loro sguardo memoriale all’indietro, verso il passato). Naturalmente il segreto dei mutanti è pluridimensionale, mai univoco o unilaterale, né riducibile a questione semplice (tipo: bene o male, buono o cattivo ecc.), bensì è complesso, dalle mille facce e dai molti risvolti, positivi e negativi. Hulk/Bruce Banner è il mutante più integralmente investito dal limite della variazione fra doppia identità e segreto, come una sorta di specchio multiplo che, da un lato, sembra apparentarlo ai vecchi supereroi (Hulk è la pura forza selvaggia, Banner è uno scienziato vittima di radiazioni che l’hanno colpito durante una esplosione; il primo non vuole sapere chi è Banner, anzi esplicitamente lo odia, lo vede come il proprio nemico; lucidamente anche se brutalmente Hulk coglie che Banner sopravviene alla sua letterale “scomparsa”, e ciò pare rimettere in gioco l’ambiguo teatro della doppia identità), dall’altro egli è senza segreto: Hulk non ha altra coscienza che la pura forza animale, esplosa dalla natura violata, trattenuta dal colore verde della sua pesante, “idiota” stazza, mentre Banner, quando Hulk si ritira nella assoluta oscurità del suo essere, si risveglia sempre come proveniente da un mondo sconosciuto, stordito dall’appannamento totale di sé causato dall’emergenza di Hulk, con il quale non c’è comunicazione né dialogo né mediazione possibile. Ma, d’altronde, vi sono mutanti che di-mostrano per intero il peso di un segreto dell’origine, verso il quale o procedono alla sfibrante ricerca tesa a ricostruire gli eventi, sperando di chiarire a se stessi il perché della loro mutazione (è il caso di Wolverine,

163


che finalmente esperisce, nella grande storia di Weapon-X di Barry Windsor Smith, i dettagli dell’esperimento che ha cambiato il suo destino) oppure si comportano, insieme all’accettazione dell’irreversibilità dell’evento che li ha resi differenti da prima, mossi dalla forte e imprescindibile curiosità del nuovo orizzonte di vissuto e di percezione per essi disegnato dalla mutazione (è il caso del Dr. Manhattan, in Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, personaggio ormai quasi del tutto indifferente ai destini della specie umana, completamente compenetrato nella riflessione cosmologica e universale consentita dalla sua peculiare identità sovra-terrestre, generata dall’immersione totale del suo ex corpo umano nelle radiazioni nucleari scoppiate dentro una camera blindata).

del segreto

La saga dei mutanti

164

Il segreto dei supereroi e dei mutanti investe non solo gli effetti e le conseguenze del rapporto fra corpo umano e tecnologie (nei supereroi “classici”) o della trasmutazione del corpo (nei mutanti) le cui proprietà si fondono con una o più dimensioni dell’ambiente esterno, al punto da divenire energia, potere, e dunque riconfigurando il soma – ormai metamorfico – del nuovo essere incarnato dal mutante stesso. Il segreto della doppia identità e della mutazione si estende al punto da “violare” la “proprietà privata spirituale” della soggettività pre-mutata o definitivamente mutata, quasi sempre irreversibilmente “ferita nel suo nucleo” (Georg Simmel). Alcune riscritture contemporanee dei supereroi e dei mutanti colgono questo aspetto del segreto al punto che sfruttano la possibilità di articolarne una disamina libera, su fronti non necessariamente “gotici” o drammatici ma, per esempio, tesi a esemplificare l’esigenza di una maturazione adulta del rapporto fra supereroe e segreto. Questa risultanza deriva dalla consapevolezza emergente di sostenere lo stadio delle sfide che si levano nel presente. Forse per questo – è una ipotesi sostenuta dalla scelta indiscutibile degli autori di non esasperare il trauma del segreto della doppia identità – un supereroe “classico” come Batman, nella nuova versione di Batman Begins (2005) di Christopher Nolan, quasi non ha più identità segreta; difatti molti altri personaggi lo riconoscono sotto la maschera o condividono il segreto dell’Uomo Pipistrello (non solo Alfred/Michael Caine, ma anche Lucius Fox/Morgan

semeraro


tende e velami

del segreto

Freeman e poi Rachel Dawes/Katie Holmes). La grande saga dei mutanti è un formidabile archivio di storie che attengono alle afflizioni più recondite della personalità e, nello stesso tempo, dispongono la necessità di farvi fronte, di trovare accomodamenti temporanei o soluzioni radicali e generali per il versante più colpito dal processo di mutazione: l’io, la soggettività, la coscienza, il sentire intimo dell’individuo. La ripresa della storia originaria dei Fantastici Quattro (da parte di Brian M. Bendis, Mark Millar e Adam Kubert) nella versione Ultimate dal titolo La forza del destino sviluppa assai bene il lato critico della personalità privata violata dalla mutazione che incorre sul gruppo dei mirabili quattro, ma senza esasperare gli effetti dolorosi del cambiamento. Forse i tre autori di questa efficace, ultima (per ora) saga, tentano di stare al passo della straordinaria invenzione originale dei grandi Stan Lee e Jack Kirby, che non concedevano drammi ai loro magnifici eroi, esprimendone piuttosto l’effetto dirompente della sorpresa; ma l’epoca di Kirby e Lee (i primi anni Sessanta, basati sulla certezza delle meraviglie che la tecnologia innestava perfino dentro il corpo umano, diviso fra l’acquisita potenza e l’incombente mostruosità) cede in ogni caso il passo, adesso, a una controllata misura delle inedite percezioni che i mutanti di nuova generazione presentano dentro le sorprendenti impaginazioni dei fumetti del nostro più vicino presente. Che cosa – in conclusione – è cambiato nell’arco di oltre mezzo secolo? Il segreto dei supereroi dell’“età classica” (fine Trenta-primi Sessanta) si connette alla metafora della potenza tecnologica e dispiega quindi il ricorsivo gioco dei collegamenti e delle ambiguità fra la percezione biologica del corpo umano, con i suoi limiti genetici e i suoi condizionamenti culturali, e l’attraversamento planetario che il consumatore dei media conquista nell’uso dei media classici (radio, cinema, televisione). Questa fase del segreto della doppia identità ha riflessi e dimensioni collettive, di massa; corrisponde all’epoca delle grandi identificazioni fra immaginario mediale e pubblico; i conflitti e le chiavi interpretative messe in luce da questa fase del segreto sono a carattere pubblico, e dunque inscenano differenze prevalentemente esterne fra il corpo e le tecnologie; le immaginazioni possono perfino intravedere drammi all’orizzonte, e tuttavia questi non intaccano le certezze del corpo collettivo della società, reso potente dai media e dalla tecnica, in

165


cui l’individuo può cercare e trovare risorse di sopravvivenza e di affermazione. Il segreto dei mutanti, dalla seconda metà dei Sessanta fino a oggi, problematizza una metafora più oscillante e scossa da cambiamenti interni imprevedibili; il loro segreto contiene la permanenza costitutiva di un rischio spalancato sull’abisso, di una frattura non rimediabile, di un cambio di rotta senza ritorno. I mutanti corrispondono allo statuto di un consumatore dei media che vive costantemente la necessità di ricostituirsi a ogni sponda comunicativa, su ogni spiaggia di relazioni – da quelle linguistiche a quelle culturali, da quelle politiche a quelle ambientali ecc. I mutanti sono la metafora cifrata ma anche trasparente di uno statuto proteiforme, di una origine sempre in bilico, del consumatore e del performer delle reti multimediali. La fase del segreto dei mutanti è dunque prevalentemente individuale e personale; nel rapporto fra l’io singolo e la società emergono distanze non più colmabili, se non a prezzo di una accettazione esplicitamente atroce della realtà e delle soluzioni politiche, dichiaratamente controverse, che i mutanti richiedono per sé e per gli umani pretesamente “normali”. La figura del mutante restituisce l’immaginazione ma anche l’ombra protesa sulla condizione – tendenzialmente tragica o auspicabilmente adulta – delle trasformazioni radicali della conoscenza e della cultura umana nell’epoca delle tecnologie che intervengono sullo statuto stesso della vita, fuori e dentro la sfera terrestre: umani soggetti a una variazione fluttuante dei confini fra morte e vita, e nel contempo a riferimenti culturali cangianti e poliedrici, sottoposti a innovazioni stringenti, ad adattamenti complessivi. E ciò nel raggio del tempo – comunque assai stretto – della faticosa crescita di una coscienza che ne sappia reggere le sfide, in ogni caso accompagnata dal dolore e, tuttavia, mossa alla estenuata ricerca di brandelli di felicità.

del segreto

riferimenti bibliografici

166

Abruzzese A. 1979, La Grande Scimmia. Mostri vampiri automi mutanti, Napoleone, Roma. Abruzzese A. 2003, Fumetto, in Id., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, pp. 211-214. Bonomo D. 2005, Will Eisner. Il fumetto come arte sequenziale, Tunué, Latina. Brancato S. 1995, Fumetti. Guida ai comics nel sistema dei media, Datanews, Roma. Brancato S. 2005, La linea e la luce. Saggio sul cinecomics, Castelvecchi, Roma.

semeraro


Brolli D. (a cura di) 1992, Il crepuscolo degli eroi, Telemaco, Bologna. Barbieri D. (a cura di) 2005, La linea inquieta. Emozione e ironia nel fumetto, Meltemi, Roma. Di Nocera A. 2000, Supereroi e superpoteri, Castelvecchi, Roma. Eco U. 1964, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano. Fornaroli E., Canosa M. (a cura di) 1996, Desideri in forma di nuvole. Cinema e fumetto, Campanotto, Udine. Frasca G., Dalisi L. 2004, Il fermo volere, Edizioni d’if, Napoli. Frezza G.1995, La macchina del mito fra film e fumetti, La Nuova Italia, Firenze. Frezza G. 1999, Fumetti anime del visibile, Meltemi, Roma. Frezza G. 2004, Le Spiritose gesta del detective della Mancha, in G. Frasca e L. Dalisi, Il fermo volere, cit., pp. 299-312. Giromini F., Martelli M., Pavesi E., Vitalone L. (a cura di) 1996, Gulp! 100 anni a fumetti: un secolo di disegni, avventure, fantasia, Electa, Milano. Pellitteri M. 1998, Sense of comics. La grafica dei cinque sensi nel fumetto, Castelvecchi, Roma. Simmel G. 1992, Il segreto e la società segreta, SugarCo Edizioni, Varese.

del segreto tende e velami

167


Ciò che è nascosto non ha mai smesso di attrarre (e di sfidarci) e si è sedimentato in una zona remota della storia umana, legata ai primi stupori naturali. Eraclito: physis krùptestai philéi, la natura ama nascondersi. Da qui, secondo Bruno Snell, lo studioso delle origini del pensiero europeo, l’atteggiamento di ingenua ammirazione dei greci innanzi al mondo bello che si presentava “pieno di seduzione e prometteva di svelare il suo significato e la sua armonia” (Snell 1951, p. 65). Ma la natura è anche avara di istruzioni su come procedere: da qui tutto lo sforzo di disvelarla osservandola e assecondandola: dalla magia, all’alchimia, alla scienza. Goethe l’avrebbe scolpito nella sua prosa aureolante: «cede conoscenza – la natura – solo se corteggiata» (Faust).

del segreto

Vagliare, separare, discernere, decidere sono attività raccolte dal verbo cerno (da cui secernere, dunque secretus), un lemma che affonda le radici in una cultura della terra, mito archetipico della Grande Madre, Gaia dai larghi fianchi, da sempre offerta a tutti i viventi. Secernere è l’abilità di ogni agricoltore nel separare, ammucchiare e diversamente distribuire i prodotti della terra per una loro diversa destinazione. La base accadica haraˉmu, il lemma più antico di cui disponiamo, secondo Semerano, questo esprime: separare, dividere e distinguere, e il verbo kri;nw apre successivamente a un “discernere”, ossia a un’attività di investigazione, di giudizio e di decisione (Semerano 1984-1994, II, p. 365) propria delle più mature attività intellettuali.

168

semeraro


Ha qualcosa a che fare col sacro, il segreto? L’ultima parola ai filologi. Sacer è parola indoeuropea e sta per separato; l’accadico sakaˉru è preclusione, interdizione (Semerano 2001, p. 253). Almeno con la sfera amministrativa del sacro non v’è dubbio che il segreto abbia contiguità, non fosse che per via di quella perimetrazione dello spazio della comunicazione che riguarda l’aggregato-legame di chi partecipa di una rivelazione e il coinvolgimento di coloro che si vincolano nel segreto rivelato. Il sacer-segreto da una parte disaggrega (lett: toglie dal gregge); dall’altra rende esclusiva la comunicazione nel gruppo aggregato (grege); dall’altra ancora rende potenzialmente autonoma la sfera dei re-legati. I misteri Orfici di Eleusi, Corinto, Lemno, Samotracia erano legati all’agrarietà dei culti neolitici: fecondità della terra e riti di iniziazione puberale prevedevano una separazione dei maschi adulti detentori del segreto - dal complesso rappresentato dai pre-puberi e dall’universo femminile (Scarpi 2002). L’accesso agli spazi di ritualità corrobora i singoli, rendendo accettabile la prova dell’iniziatico che era sì un fatto pubblico, ma richiedeva una dimostrazione di volontà e capacità individuale. Più tardi quei misteri avrebbero migrato nell’Irlanda e nel Galles, fra streghe e sufi e scavando nel patrimonio celtico Robert Graves si sarebbe appassionato nelle ricerche sul matriarcato, sul destino, sul doppio, riportando in vita lo psichismo celtico nel La Dea Bianca (iniziato nel 1948 ma completato solo nel 1961). L’idea cristiana di un Dio è che si tratti di un absconditus, le cui virtù operano secretius, in gran segreto. I sacramenti – per Isidoro - traggono nome dalle virtù segrete che infondono (Isid., Ethim., VI, XIX, 40). Sono misterion (dal greco mus, notte), lemma legato alla vigilia/vigilanza notturna del mùstes, colui che veglia e vigila in attesa di ricevere una disposizione segreta e occulta. Esiste un legame tra il mistero e il mistico, il mito e il muto; il legame si costruisce nella iniziazione che è anche condividisione di un segreto.

tende e velami

del segreto

Il mondo greco aveva accettato l’antagonismo tra una via misterica e una via di ragione alla conoscenza. Platone nella Repubblica parla di un dissidio tra poesia e filosofia. Ma nel Fedro egli avrebbe pure testimoniato l’esistenza di un accesso “regale” alla conoscenza attraverso la potenza immaginifica dei simulacri. I greci riconoscevano che la nostra vita mentale è abitata da potenze misteriose che

169


del segreto

la sovrastano e sfuggono a ogni controllo. Ate essi definivano l’annebbiarsi dell’anima dovuta a un’azione demoniaca esterna; manìa la possessione; nomos il misterioso eccesso di energia che ne deriva; ménos l’impulso ad avanzare del thymos, che fa agire l’uomo dandogli volontà e carattere. Dodds ci ha spiegato più di mezzo secolo fa cosa fosse l’irrazionale dei greci (Dodds 1951). Apollo e Dioniso, ci rammenta più di recente Roberto Calasso, condividevano la conoscenza attraverso la possessione. I greci dunque difesero la via misterica alla conoscenza, anche se il loro mondo è pieno di resistenze e attacchi agli dèi, alle immagini e alle passioni che essi veicolano. L’immagine è un’ordalia, una prova attraverso la quale ciascuno può sviluppare un pensiero all’altezza del pensato, oppure rimanerne sopraffatto e soggiogato (Calasso 2005). Tutto sta con che occhi si vede (e si guarda), dal momento che il sapere è un aver visto (eidénai); che il guardare fuori di sé è un sentire dentro di sé, e il conoscere è un riconoscere: ghighnoskein, che col verbo nascere condivide la base lessicale.

170

Conoscenza e insegnamento, in quanto attività del trans/mittere, sono state da sempre materie iniziatiche legate al mistero. Tutto l’insegnamento del resto implica rivelazione riservata a pochi. Esso è qualcosa che viene fuori da un maestro, anch’esso absconditus, la cui voce il discepolo accoglie e in un certo senso subisce. Si narra che Pitagora introducesse al mistero del numero e alla sua natura intimamente musicale (Marcus du Sautoy 2003, pp.143-145 e p.171) - come più tardi i seguaci della Naturphilosophie tedesca - con parole indiziali, nascosto da una tenda tesa tra le colonne del tempio dorico metapontino. Non spiegava le cose, ma quelle che non poteva trarre dall’esperienza le lasciava in ombra; oscure, complicate. Le cose complicate non sono che cose piene di pieghe (pliche), come un tessuto ripiegato, sicché tutto rimaneva oscuro e da spiegare. Spiegare significa appunto togliere le pieghe, rendere liscio, visibile (Simone 2002, p.69 sg.). Perciò l’apprendimento richiedeva vigilie di sottomissione, raccoglimento, esercizio, desiderio. Una purificazione iniziatica attraverso una disciplina dell’attenzione, dell’ascolto, dell’affinamento dell’orecchio esterno e dell’occhio interiore: una pedagogia del dominio di sé. Nelle pieghe del segreto sono avvolte anche le téchnai separate del lavoro umano. Così, mentre nel medioevo cristiano si combattono

semeraro


feroci dispute per conservare o strappare il potere dell’interpretazione, nella civiltà comunale del tardo evo medio il segreto-mistero del mestiere (ministerium) viene a indicare regole inderogabili per l’esercizio di ciascun’Arte: «la segretezza dei suoi procedimenti e dei riti gestiti e custoditi da iniziati, comprese le procedure didattiche per iniziare gradualmente gli apprendisti-maestri» (Santoni Rugiu 1988). Nella bottega artigiana il maestro continua a essere absconditus. Il coinvolgimento del discepolo nel processo di costruzione di un sapere funzionale alla nuda vita non ha goduto di molte attenzioni. Solo nel Gorgia platonico il segreto del ben vivere (come fine della retorica) assunse valenza biopolitica, nel senso recente del termine. La libertà di chi apprende è una conquista non ancora compiuta; non ancora in grado di detronizzare la libertà assoluta del Rivelante. Per Derrida è proprio il segreto il garante della libertà: il non-detto del Maestro addestra menti investigative, mobili, audaci. Ma per una buona mediazione tra due diritti asimmetrici - libertà di chi rivela e libertà di chi apprendendo disvela - dobbiamo ricorrere al positivista Pietro Siciliani, che si interrogò a lungo sui poteri e sui limiti del trans/mittere, guadagnando un buon punto di equilibrio su una questione ricorrentemente affiorante e mai del tutto risolta. Massima sarebbe stata per il salentino la libertà di chi apprende nella prima stagione della vita, nel suo primo predisporsi a ricevere e modellarsi, e minima - di conseguenza - quella del suo precettore. Da qui la necessità di porre a questo un limite, a salvaguardia di chi - nell’apprendere e modellarsi - non dev’essere turbato nella formazione delle prime energie intellettuali. Viceversa, massima la libertà sua, quando fosse cresciuta la capacità di controllo sulla materia trasmessa. La comunicazione è un trans/mittere, utile solo se un destinatario possa e sappia accoglierla controllando il significato simbolico del messaggio.

tende e velami

del segreto

Ma chi ha il controllo nella produzione dei beni simbolici? Pare si sia trattato sempre di pochi gruppi influenti, fossero scribi, sofisti, scholae o industrie culturali non di rado in situazione di monopolio. Cosa succede quando il monopolio si consolida e accresce il più in una mano sola? La fine delle ideologie che ci siamo affrettati a decretare alla vigilia dei grandi sconvolgimenti dell’ultimo quarto di secolo ha rigenerato un’unica ideologia monstruum: tutto il sistema dei simboli nelle mani di poche concentrazioni proprietarie. Un

171


del segreto

unico Grande Educatore colonizzatore dell’immaginario, canalizzatore del pensiero. Varrebbe tuttavia tener presente che il prodotto che i media forniscono è anche il risultato di un adattamento fra domanda e offerta. I gestori dell’immaginario sono coloro che meglio sanno cogliere gusti e tendenze del pubblico nei consumi culturali (Abruzzese 2001), ma al tempo stesso essi sanno “costruire” i pubblici, imporre linguaggi. Se ciò è vero, più che concentrarsi sulle teknài della comunicazione, è urgente interrogarsi su cosa accade poi sul versante del destinatario, che mette in forma la comunicazione ricevuta; il che equivale ad aprire un discorso sulla formazione vista dalla parte di chi - ricevendola - la rielabora, verificando le condizioni di funzionamento, per dirla con Bateson, dei generatori di differenze (Bateson 1977).

172

La comunicazione umana non sfugge al mistero: non saprai mai se hai raggiunto l’altro, e come lo hai raggiunto; non sai del destino delle tue parole, dei tuoi scritti, dei tuoi sguardi. Non sai, né saprai mai, come ti ha accolto se ti ha accolto, né cosa ha vagliato, scelto, deciso - di te - a tenere per sé; né sai se la tua decisione di sceglierlo è stata accolta, se e come reagirà alla tua scelta. E neppure lui saprà mai se ti ha davvero raggiunto; come reagirai al suo desiderio di sceglierti. Problematicità della comunicazione, sul doppio fronte dell’emittente, che decide cosa dare e cosa negare, e del ricevente, arbitro del cosa accogliere e come accoglierti. Non si nascondono in questa in-decisione molti dei nostri problemi anche pratici di comunicazione? Una problematicità legata al destino tutto umano di essere l’uno mistero all’altro. Qualcosa che non potevano certamente prevedere Shannon e Weaver nella nota teoria matematica dell’informazione (1947). Qualcosa che sfugge pure a una semiotica del significato/significante di matrice saussuriana, che non scioglie l’illusorietà dei significati; il loro essere sempre “localmente e temporalmente definiti” (Violi 2003, p.115). Non si dà una sostanziale comunicazione fra significante e significato, essendo sempre labili e ambigui i significati. Ogni idioma rinvia, allude, indica ma non assorbe, non comprende mai davvero la realtà. Altre modalità vanno attivate per rendere l’apprendimento più efficace. Spinoza parlava di conoscenza intuitiva. Goethe la chiama immedesimazione. Non v’è dubbio che l’enigma, il segreto, possano essere più agevolmente fronteggiati attivando una conoscenza indiziaria che assegna un primato alla intuizione, ai neuroni empatici. È il sentire che ci porta a

semeraro


verità più profonde: quelle che non abbiamo ancora appreso a chiamare né enunciare. Un co-sentire (l’aristotelico sunestànestai) e un più arcaico com-patire (con cui Omero chiude nell’Iliade la partita di ogni mancato riconoscimento, causa d’infiniti lutti e castighi) si propongono nella situazione generazionale di oggi - una generazione emotiva, educata dai media all’uso di una ragione sensibile – come pharmacon per una teoria dell’apprendimento impostata più decisamente sul domandare e rispondere. La parola che sgorga dal silenzio, la relazione che matura nel dialogo, l’“I Care” solidale.

tende e velami

del segreto

Nella dialettica delle relazioni umane la comunicazione è una lotta per il disvelamento. Cosa avrà voluto dirmi dicendo ciò che ha detto? Quale parte di sé, del suo discorso, ha voluto rivelarmi e a quale mi rende inaccessibile? Le cose peggiorano decisamente quando si dilati l’area retorica dell’allusione, del linguaggio criptico, del discorso velato, del parlare a mezzaboccuccia (nd’ na vutata ‘e lengua, dicono efficacemente i napoletani, in omaggio forse alla loro Sibilla di Cuma: ibis et redibis…). Questa tendenza a nascondere e nascondersi, a ricoprire le richieste in modo che non sembrino richieste, deriverebbe – opina Raffaele Simone – «dai millenni di angherie che la maggior parte degli umani ha subito nel passato remoto della specie, e ha conservato, senza rendersene conto, nella propria memoria biologica: dopo secoli di frustate, si è perduta la capacità di dire le cose in modo letterale» (Simone 2002, p. 53). Tacere e rivelare nello stesso tempo, come Edipo quando comincia a rievocare il suo passato… Lo stesso mythos, al quale sempre facciamo ricorso per spiegarci l’inspiegabile nel già accaduto, è in un certo senso mutus. Tace, con un continuo rimando all’ineffabile che ci corteggia dal fondo oscuro di ogni non detto. Calypso nasconde; vuol sottrarre e tenere nascosto tutto per sé (un po’ come le giovani vite adolescenti nei loro diari e il blog reticolare) e con ciò si nasconde, resta tagliata fuori dalla comunicazione che è gioco di nascondimenti e disvelamenti, detto e sottratto; esibito e precluso. Un libro recente di Giovanni Reale, tra i massimi studiosi del pensiero antico, mette in relazione il Simposio platonico con uno di quei penetranti aforismi di Nietzsche: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera». Esattamente nel discorso di Aristofane, Platone dimostra come vi siano parole che servono per dire e al contempo per tacere, o per inviare messaggi allusivi, trasversali, disponibili solo

173


del segreto

per chi sia in grado di capirli, «in quanto già per altra via (ossia mediante l’oralità dialettica) entrati nel segreto di quelle dottrine» (Reale 2005, p. 13). Platone presenta l’arte dialettica della filosofia trasformandola nella forma sacrale dell’“iniziazione misterica” (ivi). Il Simposio è un dialogo che Reale ci aiuta ora a leggere sub specie comunicativa. Le sette maschere sotto le quali Platone nasconde il discorso sull’Eros nel più noto e superbo dei suoi dialoghi sono i necessari, impervi passaggi tra due grandi tradizioni espressive oralità e scrittura - di cui egli fa notare tutti i costi e gli scarsi benefici (ma indicando pure qualche rimedio tra molte cautele). Così, tra “enigmatici intrighi narrativi” egli si prodiga di far cadere una dopo l’altra le sette maschere, ognuna delle quali “allude” a una verità parziale, raggiungendo quella mediazione sintetica tra il dionisiaco (Eros non è dio, ma démone) e apollineo (metafisica della Bellezza e suo nesso strutturale con l’erotica). Un messaggio rivoluzionario per la cultura non solo del suo tempo, ma “per il sempre”. Che succo se ne può trarre per il nostro discorso? La parola a Nietzsche: «l’uomo riservato, che istintivamente si serve delle parole per tacere e per celare ed è inesauribile per sfuggire alla comunicazione vuole, ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una sua maschera» (Nietzsche 1886, tr. it. 1968, p. 46 sg.).

174

Un certo grado di segretezza è funzionale all’allenamento mentale, dal momento che una volta raccontata, la verità smetterebbe subito di esser tale. Il nascosto agisce come motore ermeneutico dell’intelligenza: stimolo inesauribile alla ricerca delle altre possibilità. I bambini del resto non sanno cosa davvero gli procuri più piacere nei giochi: se restarsene nascosti o lasciarsi scoprire. Ma l’età dello stupore infantile è la labile memoria di una conoscenza prima della scissione; del sentire che ci porta a verità che non sappiamo né chiamare né più enunciare, dal momento che «evocarne parole per parlarne ne allontana la presenza, lo mette in dubbio e in forse» (Zolla 1994, p. 25). Le classi creative e i ricercatori scientifici, in cui resta preservato qualcosa dell’età puerile, sfidano continuamente il noto attraverso il se probabilistico. Il loro tempo verbale non è l’indicativo denotativo, né l’imperativo imperiale, né l’infinito indefinito, bensì un congiuntivo possibilista. Nel tempo del tutto disvelato, detto, visto torna - dopo aver tanto

semeraro


esposto - il bisogno di nascondere e di invelare (e consentire ad altri l’avventura del disvelamento): eterno moto della storia, delle storie; eterna lotta tra power e glory (perché c’è un premio - in ogni storia - per ogni folle che denuda il suo re). Il visibile/visto nasconde l’invisibile. E anche nel detto c’è qualcosa che non si deve e che non si può dire (Ruggenini 2003, p. IX; Grimbert 2005). Quel qualcosa diventa decisivo in un mondo dominato dalla comunicazione mediatica, in cui tutto l’esistenziale vitale della comunicazione viene omologato nella massa informe dell’informazione anytime, anywhere, anyone.

tende e velami

del segreto

Frugando nel Morandini, Dizionario dei film 2005 tra i segreti indagati dal cinema, si incontrano un mezzo centinaio di titoli che nella maggioranza dei casi non raggiungono le due stelline, indice di mediocrità. Il tema è tanto inflazionato quanto banalizzato, con alcune eccezioni per il più recente - tremendo - segreto di Vera Drake di Mike Leigh, premiato al 61° Festival di Venezia nel 2004, e per Il fiore del mio segreto (1995) di un Almodóvar più limpido del solito. L’elenco è lungo: vi sono giardini segreti e segreti del lago, del bosco vecchio (Olmi 1993), del giaguaro, della piramide d’oro, dell’uomo sbagliato e di quello solitario; non manca un ospite segreto insieme a segreti di donna, di vecchia signora, di un cameriere. Inoltre, segreti di cuore, del medaglione, del successo; segreti e bugie (dello stesso Leigh), segreti segreti e segretissimi; delitti e segreti (Soderbergh,1991) e secret window: finestre che non andrebbero mai aperte. Nel genere storico accanto a quello degli Incas è rubricato un segreto del Sahara, di Mayerling, e accanto a quello di Agatha Christie, di Joe Gould, trovi quello di Alexina, di suor Angela, di don Giovanni, di Pollyanna, di Montecristo, dell’isola di Roan, e di Villa Paradiso. Tre pellicole sui segreti: di Stato (Sidney Grillet, GBA 1950); su Portella della Ginestra (Paolo Benvenuti, ITA 2003); sul Sisde (Giuseppe Ferrara, ITA 1994). Non migliorano le cose se si va a frugare tra titoli affini e derivati. Sulle segretarie, ad esempio, vi è un discreto numero di pellicole pruriginose, da cui si salva solo Secretary, di Steven Shainberg (USA 2002), che ci pone innanzi agli esiti devastanti delle profondità emotive scatenate dai percorsi malandrini dell’eros, dove nulla è più secretato e tutto può essere reinventato e riscoperto. Grandezza e miseria del desiderio, che ci mette a rischio, e insidia le difese di ogni intimità. In Secretary, nubile, bendotata e tuttofare, croce e delizia per ogni titolare dagli anta in su, è lei che rischia se stessa, ma attraverso quel rischio si fa signora lasciando lui nella palude dello squilibrio tra desideri e fantasmi (Escobar). Si salva insomma, sembra suggerirci Shainberg, chi ha la profondità emotiva sufficiente per uscire dal nascondimento.

175


del segreto

Forse è proprio il non detto, sfondo mobile di qualsiasi messaggio, a rappresentare una riserva di possibilità dell’esistenza rispetto allo sterminio delle differenze operato dai media (Ruggenini 2003). Il non detto (che non può essere il qui lo dico, qui lo nego; lo dico ma… come non l’avessi detto; ma… fuori verbale - ossia la fuga di responsabilità dagli atti linguistici e la conseguente enfatizzazione d i ciò che s i vor-

176


rebbe

nascondere) costituisce una difesa dagli aspetti oppressivi dell’immediato, per preservare l’aspetto discorsivo della parola, la sua munificenza (nel doppio senso di circolazione del dono elargito e già ricambiato nell’accoglierlo). In ques t o

del segreto 177



senso chi si spinge oltre il visibile e il già detto, cerca altri spazi di senso. Luisa Valeriani parla di trasfigurazione; modelli in movimento. In luogo di epifanie, che aiutano a circoscrivere o ad accogliere l’alte-rità/mistero in un moto incessante di stimoli e reazioni, luoghi comuni da elaborare, aiutandosi a orientarsi nel mondo delle ridondanze (Valeriani 2004). C’è una cultura della segretezza nel tirocinio formativo alle professioni liberali. La conoscevano bene i Padri della Compagnia di Gesù, che la insegnavano con ineffabile perizia. Perinde ac cadaver: la selezione dei migliori attraverso prove di discrezione; la capacità di tenere il segreto; di seppellirsi con esso. La Ratio studiorum ha costituito la base formativa delle professioni curiali, diplomatiche, delle cancellerie, della pubblica amministrazione, della burocrazia, dell’alta dirigenza dello Stato, delle prelature ecclesiastiche. Il gesuitismo settecentesco si affianca ai troni per condividere i segreti dei sovrani e guidarne le mosse. C’è stata pure (c’è ancora?) una loggia del Gesù che fronteggiò la massoneria di palazzo Giustiniani ai tempi della mozione Bissolati (1908), il primo tentativo di regolamentare lo spazio religioso nella scuola dello Stato. La Compagnia fu, comunque, una palestra severa di selezione dei migliori per il governo della cosa pubblica, e la storia della formazione è anche storia delle oscillazioni a preservare l’ossatura formativa dell’ordo studiorum gesuitico: assumerlo aggiornandolo - come seppe fare Gentile che lo travasò nel Liceo nazionale -, o contrastarlo, come nessuno fin qui ha dimostrato di saper riuscire. Nelle Lettere luterane Pasolini impostava una pedagogia semiologica: «I miei primi ricordi della vita sono visivi». Tutti – scriveva conserviamo nella memoria un’immagine che è la prima, o tra le prime, delle nostre vite. E ricordava come la prima immagine più indelebilmente impressa nella sua mente fosse una tenda che spargeva un debole velo di luce, e in quella, nella sua austera immobilità, avesse poi preso corpo «tutto lo spirito della casa in cui sono nato». Una tenda «bianca», «trasparente», «immobile», che gli impediva lo sguardo sugli esterni - il mondo vitale dell’oltre -, continuava ancora a «terrorizzarlo» e «angosciarlo» nel momento in cui metteva mano a quel trattatello rivolto all’educazione di Gennariello, scugnizzo napoletano immaginario, dagli occhi «ridarelli». Tenda-



Margaret Mead

santa de siena il paradigma spezzato

Lungo tutto il corso dell’evoluzione cosmica e biologica ci sono state opzioni e punti critici. Se si considera attentamente il processo evolutivo, nulla indica che esso dovesse imboccare il corso attuale. Poteva prenderne mille altri.

reset

L’esplorazione del tempo profondo da parte di discipline e pratiche raccolte attorno alla ricerca archeologica ci raccontano oggi un’altra storia delle origini e dello sviluppo umano. Quell’affascinante avventura della conoscenza che va sotto il nome di ominizzazione è stato sì un lento e graduale processo di civilizzazione della specie, ma anche - talvolta - di una spregiudicata ricerca di strappare alla natura i suoi segreti, non solo per portarli alla luce, ma per spossessarla. Il nostro approccio cognitivo non è stato solidale e cooperativo, bensì gerarchico, al fine di dominarla. Interventi unilaterali e parziali ci hanno così impedito di comprendere come interi ecosistemi venivano distrutti prima ancora di essere conosciuti (Pievani 2002). Questo processo distruttivodepauperativo non si è mai interrotto. La nostra specie per lo più lo ignora; non riconosce nella biodiversità un esempio inconfutabile di cooperazione. La pura competizione che caratterizza le biopolitiche dell’homo technologicus, gli specialismi disciplinari, le preclusioni religiose non ci consentono di varcare la soglia della creazione biologica della vita, come di ogni altra forma di creazione noologica. I problemi planetari che oggi viviamo sono la naturale e logica conseguenza di ben delineate filiere culturali che hanno consentito lo slittamento dal modello inizialmente ecologico e mutuale a quello scissionista e di dominio volto alla riduzione delle biodiversità, piuttosto che quello co-evolutivo delle complessità.

181


Punto di svolta dirimente e decisivo per una parte dell’umanità, che sulla base di una precisa e descrivibile concezione del biopotere, “ha scelto” di organizzare la nostra struttura sociale ed economica secondo principi gerarchici, di basare il nostro modello di sviluppo sullo sfruttamento delle risorse, di fondare culturalmente il proprio stile cognitivo scientista sul paradigma riduzionista; di attivare il proprio sistema economico-produttivo sul depauperamento delle risorse naturali e su un particolare e preciso modello tecno-scientifico, elaborando inoltre uno stile comunicativo unilaterale, spezzato, “privato” cioè della reciprocità dell’ascolto. Si tratta ora di ammettere che quella relazione, povera di interattività con la natura, l’uomo l’ha avuta anche contro se stesso e i generi altri; sulla base della stessa visione scissionista, univoca, riduttiva, separatista. Il paradigma dominante del biopotere (Esposito 2004) continua a governare i dispositivi cognitivi del presente. Uno sguardo critico profondo alla storia della nostra specie nel rapporto con la biosfera ci fa comprendere come la riduzione della diversità biologica e la riduzione della diversità culturale siano facce dello stesso problema. Opposti paradigmi e stili di pensiero si stanno oggi delineando in ogni cultura scientifica per permettere di ecologizzare il nostro pensiero ed evolvere culturalmente la nostra concezione di evoluzione (Bocchi, Ceruti 2004). Differenti approcci multidisciplinari ci mostrano come alternative inedite e inesplorate siano ancora possibili e come ci siano altri modi di pensare lo sviluppo. Come ci sia possibilità di un approccio co-evolutivo alternativo a quello dissipativo con la natura. Concludendo: una trasformazione culturale della nostra specie è non solo necessaria ma indispensabile.

reset

La Terra è dea

182

La semantica dell’ominizzazione, posta oggi sotto i riflettori del pensiero della differenza, può aprirci la strada ad altri scenari. Una nuova immagine delle origini è possibile e, con essa, un approccio non convenzionale con le altre componenti viventi. Lo studio multidisciplinare dell’archeologia consente oggi di modificare e affinare le nostre conoscenze sull’arcaico. Associando i simboli delle manifestazioni estetiche ai miti si percepisce una nuova

de siena


concezione della vita umana, animale e vegetale che rinvia a un’unica comune origine e a una grande sorgente di vita: la Dea Madre Onnidispensatrice (Bocchi, Ceruti 1993). La suprema forza che governa l’universo, che dà vita alla sua gente, che conforta materialmente e spiritualmente, e al cui grembo ci si riaffida al momento della morte è personificata dalla Dea. Incarnato nel suo corpo di donna si concentrano timore reverenziale mescolato al sentimento di meraviglia, proprio dei primitivi per il miracolo della nascita. Gravida o partoriente, la Dea Madre universale che genera terra, cielo e acque è simbolo di fecondità e dell’unità di tutte le cose della natura, delle acque primordiali generatrici, da cui tutto ha avuto origine. Oggetto di culto, la Dea è donatrice di vita e il suo corpo è calice divino che contiene, tra tutti, il segreto più grande: quello della nascita, connesso al potere di trasformare la morte in vita tramite la misteriosa rigenerazione ciclica della natura (Eisler 1996, p. 61). Rappresentata in forme molteplici nel corso della storia delle civiltà planetarie, la Terra è stata vista come Uovo (Orfici), Grande animale (Platone), Dea-Madre (Eisler), uova cosmiche (Gimbutas), Terra-Patria (Morin), Terra-Madre (Shiva), Organismo vivente (Latka), Gaia (Lovelock). Oggi, per il pensiero ecologico, si configura come organismo-ambiente.

il paradigma spezzato

reset

Nella sua rilettura della civiltà antica, la Eisler ci racconta che l’addomesticamento animale e vegetale delle piante selvatiche, risale a un’epoca molto più antica di quanto si credesse. E che al centro di quella rivoluzione agricola, culturale e spirituale insieme, c’era la donna dispensatrice di creazione, con il suo portato ideologico e politico ginecentrico, simbolo di una società paritaria, basata sulla divisione dei ruoli e senza alcuna gerarchia di genere dominante. A testimoniarlo sono la qualità della produzione artistica delle civiltà del neolitico e di quella cretese in particolare, nella quale difficilmente si ritraggono scene che raffigurano forza, crudeltà e violenza. Nei dipinti, nelle decorazioni dei vasi e nelle sculture è la funzione primaria delle forze della natura che si esprime, non in forma di obbedienza da ottenere, di punizione e distruzione, ma di semantiche elargitive semmai, in un ordinamento sociale nel quale prevalgano la vita e l’amore per la vita, anziché la morte e la

183


reset 184

paura della morte (Eisler 1996, p. 63). In tale contesto la centralità sociale della donna si sviluppa in una pluralità di funzioni: religiosa, politica, estetica, culturale, dando vita a una organizzazione sociale del lavoro centrato sulla struttura paritaria dei ruoli e delle relazioni tra le due metà dell’umanità, donne e uomini. Si produce un modello di società femminile o gilania di tipo mutuale che si contrappone a un modello di società maschile o androcratico, di puro dominio. In entrambe le configurazioni sociali la struttura dei rapporti di genere gioca un ruolo cruciale e decisivo. Marija Gimbutas, a sua volta, ipotizza la genesi del predominio maschile in coincidenza con l’invasione di popolazioni denominate kurgan, di origine indoeuropea. Senza radicalizzare la polarizzazione gilania-kurgan, l’archeologa ci suggerisce però di guardare al di sotto degli eventi storici apparentemente casuali e ad andare oltre il femminile e il maschile (Gimbutas 1997). Dalla sua prospettiva, descritta ne Il testo nascosto della storia (Gimbutas 1995), emerge una storia altra dell’identità collettiva della civiltà antica dell’Europa rispetto all’immagine dominante della tradizione che mostra l’uomo antico coraggioso e guerriero. Sembrerebbe invece che, prima delle invasioni degli Indoeuropei che costruivano fortezze in luoghi inaccessibili circondate da mura ciclopiche, le popolazioni gilaniche scegliessero, al contrario, la posizione degli insediamenti in base alla loro bellezza, alla bontà dell’acqua e alla dolcezza del terreno, alla predisposizione ai pascoli per gli animali. La scelta del sito tendeva a privilegiare il valore del paesaggio piuttosto che quello difensivo, segno inconfutabile di un loro naturale pacifismo (Gimbutas 1995, p. 40). Non c’è, dunque, soltanto la deificazione della femmina nel suo aspetto duale di generatrice e nutrice, di vita e di morte, ma anche una nuova prospettiva sociale di genere, basata sulla cura e la tutela della vita e della biodiversità. Diversità, infatti, non è sinonimo di inferiorità né di superiorità, ma di una visione olisticosessuale connessa alla geografia della Terra come trama integrante della trama della vita. In quanto tutto ha origine da lei, la grande Terra-Madre, e tutto ritorna a lei. È lei lo scrigno dei segreti della vita, gelosamente custodito dalle donne che hanno permesso la rivoluzione agricola imparando a conservare e a ri-produrre con cura i semi della vita. Seminare è selezionare con cura, secondo i principi discreti di una pratica millenaria e di una cultura-culto della Natura, chiamata in indiano prakrti: la forza vivente che supporta la vita.

de siena


Conoscenze condivise, tramandate di generazione in generazione; saperi che le donne acquisivano e comunicavano con altre donne in una eterna lotta in difesa delle acque, della terra, della vita. Donne come quelle indiane i cui segreti oggi sono costrette a preservare dall’economia aggressiva, sfidando la concezione occidentale di sfruttamento della natura e del patriarcato atavico. Anche per Riane Eisler è nell’Europa antica che si situa la biforcazione storica dalla quale è emerso il paradigma di dominio androcratico o, come lo definisce Luisa Boccia (2002), fallocratico, dal quale discendono tutte le organizzazioni gerarchiche storiche di tipo biologico, cognitivo, sessuato, economico, politico. Ma l’antropologa ipotizza anche, con la sua teoria della trasformazione culturale, una forte spinta verso un mutamento fondamentale inverso che va dall’androcrazia alla gilania. Ma se è con la supremazia della cultura kurgan che è avvenuta la rimozione della concezione materna della Natura, è con la scienza moderna che si è suggellato il sodalizio oggi inquietante tra conoscenza e potere, sulla natura e sulle popolazioni non-europee. Ed è proprio questo infausto paradigma che occorre oggi trasformare riannodando i fili dei legami con la vita. La cultura antropocentrica non solo ha imposto la superiorità della nostra specie sulle altre, il potere di dominio di un genere, quello maschile, sull’altro, ma ha impresso una svolta unidirezionale alla storia evolutiva del nostro pianeta. Così l’atto di vivere e di «conservare e celebrare la vita in tutta la sua diversità – di esseri umani e di natura – sembra essere stato sacrificato al progresso e la sacralità della vita ha ceduto il posto alla sacralità della scienza e dello sviluppo» (Shiva 2002, p. 3). Paradigmi verdi: verso nuovi modelli economici

il paradigma spezzato

reset

La nostra idea evolutiva è tanto poco evoluta da non riuscire a comprendere come aria, acqua, rocce, argille, foreste siano l’esito di un processo evolutivo di lunga durata autoprodotto da organismi che hanno profondamente modificato l’ambiente con i loro comportamenti. Ogni individuo è parte di un gioco di influenze reciproche che cambiano l’ambiente con il quale interagisce. Ma la scoperta del concetto di adattamento accettata sia da biologi che da geologi ha per certi versi anestetizzato l’evoluzione, accettando

185


reset 186

l’idea che leggi dell’evoluzione ambientale fossero indipendenti dallo sviluppo degli organismi e che questi si sarebbero perciò adattati. Si è così potuto affermare un paradigma scientifico riduzionista fondato sulla separazione e la scissione, che non solo ha praticato una sistematica erosione della biodiversità, ma ha anche spezzato le relazioni di interdipendenze tra tutte le componenti viventi degli ecosistemi. Attività estrattive, disboscamenti, monocolture, rivoluzione verde, pozzi tubolari e pompe per trasporto, tecnologie, sementi, acquicolture, dighe, sbarramenti, acquedotti sono solo alcune delle cause che hanno acuito e accentuato negli ultimi decenni la crisi idrica, che è anche crisi ecologica in quanto climatica, alimentare, culturale, democratica planetaria. L’idrocultura è sempre stata al centro del benessere materiale e culturale dei popoli; l’acqua è la matrice della cultura, la base della vita. La crisi idrica, di fronte alla quale oggi noi abitatori di questo pianeta ci troviamo, descrive la dimensione, la vastità, la portata di una più grande devastazione ecologica (Shiva 2004). Da quando l’economia di mercato ha trasformato i beni della natura in merce ha sempre dimostrato di ignorare i limiti dei cicli idrologici, biologici e naturali. Così come la gran parte del mondo civilizzato, disinformato, ignora che oggi come in passato «l’avidità e l’appropriazione delle preziose risorse del pianeta che appartengono ad altri sono alla radice dei conflitti, e alla radice dei terrorismi» (Shiva 2002, p. 14). Attraverso i cosiddetti progetti di sviluppo – denuncia l’autrice – la subordinazione e le forme di oppressione più antiche hanno assunto una forma più violenta. Sull’onda di un sottile gioco semantico per cui la distruzione è chiamata “produzione” e la rigenerazione della vita è intesa come “passività”, si è giustificata una distorsione nell’evoluzione che ha messo in crisi la possibilità stessa di sopravvivenza. Il malsviluppo, come lei lo definisce (giocando sull’ambiguità che il termine mal assume nel significato di “sviluppo sbagliato” ma anche “sbagliato perché maschile”), fa uso della categoria della passività per riferirsi sia alla donna sia alla natura. In tal modo, considerando naturale la loro improduttività, nega la loro attività. Secondo una logica economicistica, le foreste restano “improduttive” finché non diventano merci destinate al commercio o sterilizzate in monocolture: una volta private del principio femminile conservativo ed ecologico, diventano “produttive”. L’abbattimento degli

de siena


alberi distrugge la continuità dell’approvvigionamento idrico, determinando una forte destabilizzazione ecologica. Sottrae alle donne il lavoro creativo della cura e della vita, subordinandola a modelli di esistenza e di sviluppo patriarcali. Introducendo frammentazione e uniformità, che sono categorie del progresso e dello sviluppo, si innesca un processo di entropia a cascata che distrugge le forze viventi, le quali forze nascono dai rapporti all’interno della trama della vita; distruggono la diversità degli elementi in gioco ma anche quegli stessi rapporti (Shiva 2002, p. 14). Le donne e la natura da creatrici e sostenitrici della vita, da custodi dei suoi segreti, vengono annoverate tra le risorse. Ma guardare alle risorse biologiche e genetiche solo in termini di materie prime significa interrompere le relazioni ecosistemiche; il che costituisce un vero e proprio gioco d’azzardo ecologico, secondo l’economista indiana che sta dedicando la sua esistenza alla lotta in difesa dei diritti delle donne e dell’ambiente, della biodiversità. Concepita questa come un complesso gioco di relazioni tra le specie nonché di relazioni fra gli assetti genetici e i loro contesti ambientali. Osservando, invece, attraverso la lente della biodiversità «il mondo si rileva molto differente e reclama un cambiamento nei modelli tecnologici e di mercato dominanti». Occorre, dunque, rapportarsi alla biodiversità come «all’indicatore per eccellenza della sostenibilità: più riusciamo a conservarla, e più sostenibili si riveleranno le nostre azioni; più la distruggiamo, più insostenibile si dimostrerà il nostro impatto» (Shiva 2001, p. 11). Economia del vivente

il paradigma spezzato

reset

Per il rumeno Georgescu-Rougen, che ha studiato gli effetti dei processi entropici, il modello economico adottato dall’occidente, per il modo stesso in cui è stato pensato e praticato, stenta a inserirsi nella più generale prospettiva sistemica dell’economia del vivente. Conservando inalterato il suo modello anche di fronte alle emergenti distorsioni ecosistemiche, la scienza economica mostra la sua evidente incapacità ad adottare un punto di vista bioeconomico, cioè a sviluppare la capacità di assumere i suoi processi come parte integrante della più generale economia dei processi naturali e a considerare le risorse naturali nella loro integrità ecologica, ritenendo inesauribili le risorse-energie e accettando acri-

187


reset 188

ticamente il dogma della crescita economica (Georgescu-Rougen 1974). Il paradigma di sviluppo elaborato dalla rivoluzione scientifica è nato in occidente e non è universale, ma ha trasformato il pianeta in una macchina per la fornitura di materie prime. E oggi intende imporre lo stesso modello economico e la stessa ideologia di mercato alle comunità del sud del mondo che hanno sviluppato altri modelli societari, economici e ambientali. Sostenere l’esistenza di un’unica economia di mercato significa ignorare le economie altre; significa, inoltre, negare il legame perverso esistente tra crescita economica e aumento della povertà, riaffermando così due leggi storiche della tradizione economica: la prima (la crescita è solo di capitale) e la seconda (produrre di più di ciò che si consuma). Si tende in tal modo a far passare inosservato il fatto che entrambi questi miti contribuiscono a distruggere l’ambiente e le economie altre di sopravvivenza. Inoltre esaltando lo spreco e il consumismo si occulta la povertà. Questa fase convulsa della mondializzazione si sta trasformando in una politica di neocolonizzazione della diversità delle forme di vita che, in materia di diritti di proprietà intellettuale, si va traducendo in un vero e proprio regime dei brevetti (Shiva 2003). Se la prima colonizzazione ha riguardato il diritto di accesso alla terra, attraverso l’esproprio delle risorse naturali del territorio considerato terra nullius, la seconda colonizzazione sta riguardando direttamente i corpi, le menti delle popolazioni indigene, considerati sapere nullius. L’urlo di donna di Vandana Shiva ci costringe a prendere coscienza di tre gravi problemi: la perdita della diversità biologica, causata dall’introduzione dell’agricoltura industriale e dalle biotecnologie; la perdita di diversità dei saperi atavici delle zone più povere della terra; la perdita di diversità del controllo scientifico che garantisce la sicurezza alimentare in tutto il mondo (Shiva 2001). L’attuale politica dei brevetti mira di fatto a colonizzare la vita stessa, il bios, tutto ciò che è vivente, riproducibile, leggero e virtuale e che pertanto può essere manipolato. Entro il paradigma dell’economia convenzionale si sta procedendo al passaggio da un modello di economia pesante a uno di economia leggera: la cosiddetta economia dell’immateriale. Smaterializzazione che avviene attraverso il passaggio dal capitale fisico al capitale virtuale,

de siena


il paradigma spezzato

reset

costitutivo di nuove forme di potere intangibili come l’informazione genetica e il capitale intellettuale (Rifkin 2001). Ma mentre ieri si puntava alla espropriazione delle risorse del territorio, oggi si punta a minacciare le basi dell’economia; entrambe forme di biopotere (Esposito 2004) che trovano fondamento nella religione del mercato e legittimazione nel diritto. Così quel diritto naturale di scoperta e conquista legittimato al tempo di Colombo dalle litterae patentes, con le quali l’ammiraglio genovese forniva il privilegio ai colonizzatori di istituire monopoli, è lo stesso diritto giuridico di scoperta e invenzione che oggi, trasformato in diritto di proprietà intellettuale, legittima i nuovi strumenti di dominio che sono i brevetti (Shiva 1999). Una sorta di proprietà generata dall’ingegno che una volta “brevettata” si trasforma in proprietà, conoscenza, sapere, controllo dei mercati, che in un unico sistema economico diventa monopolio, diritto al segreto industriale. La cultura economica, e di conseguenza giuridica, dominante impone la riduzione a un unico concetto di proprietà, quello che considera l’investimento di capitale e dunque la remunerazione di tale investimento come l’unico meritevole di protezione. Le comunità e le culture indigene non occidentali, invece, riconoscono un altro diritto, che considera investimento anche il lavoro e la cura prestati, proteggendo anche gli investimenti che non hanno nulla a che fare con il capitale, come la conservazione, la cura e la condivisione (Shiva 2003, p. 45). Due modelli di crescita dunque, e due modelli di produttività che rinviano a due paradigmi contrapposti: quello del mercato e quello ecologico (Lester 2002). Nelle società umane ci sono sempre stati il commercio e lo scambio di beni e servizi, ma quando i rapporti sociali sono organizzati secondo il principio del sostentamento la natura è concepita come patrimonio comune e condivisibile. Quando, invece, la natura diventa una risorsa, il principio di organizzazione sociale è lo sfruttamento, il profitto e l’accumulazione privatistica (Shiva 1995). Posti i beni ambientali in termini di diritti di proprietà la domanda che si pone è: a chi appartiene l’acqua, l’aria, il mare, il petrolio, la vita, la vita delle idee, la conoscenza? E quindi quali diritti di vita sono riconducibili alla persona, allo Stato, alle società, alle soggettività giuridiche? La ipotesi di risoluzione del problema delle emissioni dei gas

189


reset 190

nell’aria con l’istituzione della banca dei fumi o la possibilità di estensione della brevettabilità a tutti gli organismi viventi in laboratorio, a cura di genetisti creatori, stanno generando forme di conflittualità giuridica assolutamente inedite, poiché forniscono diritti esclusivi di produzione, sviluppo, vendita e distribuzione del sapere brevettato. Avvalendosi di tale diritto, da un lato si può impedire ad altri di produrre o utilizzare sementi, piante e animali, medicinali, enzimi, batteri, organi, forme viventi, tutelandosi negli interessi proprietari. Dall’altro, si può impunemente inquinare l’ambiente non tenendo in alcun conto che le risorse viventi e le diverse forme di vita si autoproducono, cioè si producono da sé. Se si considera che in agricoltura sono i contadini e le donne ad aver conservato e custodito da sempre questo patrimonio culturale, si vede bene come oggi non soltanto questo tipo di scambio è proibito e non è affatto gratuitamente accessibile, ma soprattutto è considerato un furto, passibile di sanzioni, in quanto lesivo di un interesse legalmente costituito e tutelato. Si tratta, inoltre, di comprendere che i brevetti sul vivente che istituiscono la definizione di creatore per l’essere umano, inventore di altri esseri viventi, sono gravidi di disastrose implicazioni non soltanto etiche ed economiche, ma anche ecologiche. Poiché le forme di vita sono autorganizzate, crescono e si riproducono e rigenerano moltiplicandosi, sulla base di complesse strutture e dinamiche evolutive. La contraddizione è palese perché non è corretto definire produzione di nuove forme di vita l’aggiunta di materiale genetico a organismi già esistenti, mentre al contrario i brevetti, introducendo la categoria della proprietà, rivendicano impropriamente tale diritto. È evidente come la riduzione a monocoltura della biodiversità sia l’ultima delle recinzioni mentali o delle monocolture della mente (Shiva 1995) iniziate con la prevaricazione maschile dei kurgan ai danni del principio femminile ed ecologico di gilania. È lo stesso paradigma di dominio che ha attraversato le società, le menti, le religioni, i saperi, la vita, la comunicazione, plasmando tutta la storia della civiltà occidentale. Terre e foreste trasformate in merce, popolazioni, risorse idriche, metalli, petrolio. Tutte queste conquiste hanno comportato guerre e distruzioni dalle conseguenze bio-politiche gravissime. L’ominizzazione è stata soprattutto l’evoluzione di una specie e di un genere sulle altre, quella che ha la responsabilità del potere

de siena


di trasformare l’evoluzione del vivente. Ciò è avvenuto senza che sia mai nata l’umanità (Morin 2002) nella pluralità delle differenze: sessuali, culturali, biologiche, genetiche. È avvenuto ignorando l’autonomia organizzativa spontanea e ricreativa del vivente. Ma oggi sappiamo che ignorando i principi di ricchezza impliciti nella misteriosa trama della vita si interrompono le trame segrete con cui si tesse poeticamente la vita della vita. Giochi evolutivi

il paradigma spezzato

reset

Un’altra prospettiva, quella evoluzionista, guarda ai processi di adattamento ritenendo che a evolversi non sia mai il singolo organismo o la singola specie, ma il sistema nella sua interezza. Essa riarticola la relazione organismo-ambiente e considera adattive la specie e l’ambiente simultaneamente, in un rapporto di inseparabile coevoluzione. Dobbiamo avere perciò un’idea tragicamente sottosviluppata dello sviluppo quando pensiamo a un intervento genetico massiccio sul bios con una manipolazione che Rifkin definisce una nuova matrice operativa nel secolo delle biotecnologie. Secondo l’economista americano, si sta attuando una straordinaria e gigantesca ricostruzione della biosfera mediante una seconda genesi concepita in laboratorio. Attraverso le tecniche ricombinate del DNA i geni sono diventati materia prima e come tali possono essere comprati, venduti, manipolati e sfruttati per fini economici. La mappatura del genoma umano accanto alle nuove scoperte nel campo dello screening genetico, i bio-chip, le terapie genetiche degli ovuli, degli spermatozoi e delle cellule embrionali umane, stanno aprendo la strada «alla totale alterazione della specie umana e alla nascita di una civiltà eugenetica pilotata dal commercio» (Rifkin 1998). Non è dato di sapere, né di prevedere, allo stato attuale delle ricerche, quali conseguenze deriveranno dallo sconvolgimento dei programmi genetici. Sappiamo, però, che di fronte all’aggressione dei geni patogeni, il cosiddetto assalto al sé biologico, il sistema immunitario attiva spontaneamente meccanismi di difesa. Le scienze cognitive ormai riconoscono questa funzione del sistema immunitario dovuta alla sua capacità di apprendimento e di memoria, una capacità di natura cognitiva, appunto, e pertanto biologica. Ma perché ciò accada è necessario che ci sia il riconoscimento

191


reset

dei profili molecolari degli invasori, attivato dai meccanismi di difesa del sé mentale. Senza decodificazione degli agenti “ignoti”, modificati artificialmente, non c’è difesa immunitaria. Quali retroazioni possono innescarsi e quali implicazioni emergere? Fino a che punto il sistema vivente è capace di adattarsi e di ri-attivare il proprio sistema di difesa per impedire la sua destrutturazione e dis-organizzazione? Interventi localizzati minacciano il singolo sistema o l’insieme ecosistemico? La nuova biologia, le scienze della Terra, le scienze cognitive, le eco-bioingegnerie ci delineano l’ambiente come costituito da sistemi auto-eco-organizzatori e auto-eco-regolatori, ma i programmi messi in atto dai tecnocratici «spezzano le retroazioni regolatrici, dilaniano e degradano le eco-organizzazioni talvolta fino alla morte» (Morin 1998, p. 98). L’adattamento non è perciò solo un’azione dell’ambiente sugli organismi, ma è anche una risposta attiva dell’organismo all’interno di vincoli e possibilità di risposte (Ceruti 1986). Spezzare i legami evolutivi e creativi tra gli organismi può significare la fine di ogni risposta attiva o adattiva di ogni evoluzione. Ignorare ciò significa non pre-vedere i rischi e le conseguenze, e non-vedere che oltre alle risorse anche le risposte adattive possono non essere infinite.

192

Negli ultimi cento anni sono stati liberati nella biosfera organismi trattati geneticamente, cioè non originari degli habitat. Molti si sono adattati senza difficoltà ri-organizzative, ma una buona percentuale è diventata selvaggia, seminando devastazione nella flora e nella fauna. La pericolosità esiste ogni qualvolta un organismo non-indigeno viene liberato e introdotto artificialmente in un ambiente complesso, perché può significare, secondo Rifkin, innescare una specie di roulette ecologica capace di scatenare una esplosione ambientale, con il rischio che la vita sia distrutta dalla vita stessa. Le trasformazioni antropiche introducono tempi storici negli equilibri omeostatici faticosamente raggiunti nei tempi biologici dell’ecosistema planetario. Alterandone gli equilibri noi ne sconvolgiamo la fragile e precaria stabilità, con il conseguente sconvolgimento dei cicli stagionali, climatici e biologici. Enzo Tiezzi sostiene che complessità è vita, ma avverte sul diverso significato che i termini complessità e stabilità assumono nei contesti disciplinari differenti, biologici ed ecologici, rispetto

de siena


alla società o in politica. Ed è fuorviante assumerli con la stessa accezione in ecologia, dove riducendo la complessità dell’ecosistema si riducono le possibilità di vita (Tiezzi 2001, p. 114). L’evoluzione è un processo complesso e l’unità e l’integrazione degli organismi non derivano da una conformità a un piano prodotto da un ingegnere onniscente, né programmabile in laboratorio, ma può essere paragonato all’opera di un bricoleur, certamente abile ma anche fallibile (Ceruti 1995, p. 38). La prospettiva coevoluzionista, nel riconoscere la interdipendenza tra sistemi, implica anche una prospettiva etica, in quanto accetta la reciprocità in ogni impegno per la vita che consenta ai modi della vita di fiorire. Le civiltà del passato possedevano un maggiore senso di responsabilità: vivevano in rapporto di reciprocità con la foresta, con il mare, con la Terra di cui si aveva cura e si provava timore; l’uomo moderno ha sviluppato, invece, il suo egoismo predatorio e strumentale su tutto (Passmore 1986). L’uomo primitivo comprendeva che la vita è dono, è scambio e anche il rito e il sacrificio avevano questo significato di scambio simbolico di cui parla Baudrillard (1976). L’uomo moderno ha, invece, aspirato al controllo, al potere, al dominio sull’ambiente. Con il suo schema di scopo ha distrutto il principio del dono come gratuità. Razionalizzando ed economicizzando la relazione egli ignora l’insuccesso, lo spreco, la ridondanza creativa che la poiesis suppone; ignora il dono senza contropartita, senza reciprocità, lo scambio come co-creazione. riferimenti bibliografici

il paradigma spezzato

reset

Bateson G. 1972, Steps to an Ecology of Mind, Chandler Publishing Company, tr. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977. Baudrillard J. 1976, L’Échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris, tr. it. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979. Bocchi G., Ceruti M. 1993, Origini di storie, Feltrinelli, Milano. Bocchi G., Ceruti M. 2004, Educazione e globalizzazione, Cortina, Milano. Boccia M. L. 2002, La differenza politica, Longanesi, Milano. Ceruti M. 1986, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano. Ceruti M. 1995, Evoluzione senza fondamenti, Laterza, Roma-Bari. Eisler R. 1987, The Calice et the Blade, tr. it. Il calice e la spada, Nuova Pratiche, Parma 1996. Esposito R. 2004, Bìos, Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino. Georgescu-Rougen N. 1974, The Entropy Law and the Economic Process, Harvard University Press, Cambridge MA.

193


reset

Gimbutas M. 1990, Il linguaggio della Dea, Longanesi, Milano. Gimbutas M. 1995, Il testo nascosto della storia, in “Pluriverso”, 1, Etas Libri, Milano. Lester Brown R. 2001, Eco-economy: Building an Economy for the Earth, Earth Policy Institute, tr. it. Eco-economy, Editori Riuniti, Roma 2002. Morin E. 1988, Il pensiero ecologico, Hopeful Monster, Firenze. Morin E. 1984, La ragione e le ragioni. La ragione denazionalizzata, in “Lettera Internazionale” 1. Morin E. 2000, La Méthode 5, Tomo 1, L’identité humaine, Editions du Seuil, tr. it. Il Metodo 5. L’identità umana, Cortina, Milano 2002. Morin E. 1980, La Méthode 2, La vie de la vie, Editions du Seuil, tr. it. Il Metodo 2. La vita della vita, Cortina, Milano 2004. Passmore J. 1980, Man’s responsability for nature, Gerarld Duckworth & Co. Ltd., London, tr. it. La responsabilità per la natura, Feltrinelli, Milano 1986. Pievani T. 2002, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, Meltemi, Roma. Rifkin J. 1998, The Biotech century, Penguin Putnam, tr. it. Il secolo biotech, il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Baldini & Castoldi, Milano. Rifkin J. 2000, The Age of Access, Penguin Putnam, tr. it. L’era dell’accesso, Mondadori, Milano 2001. Semeraro A. 2002, Altre Aurore. La metacomunicazione nei contesti di relazione, I Liberrimi, Lecce. Shiva V. 1988, Staying Alive: Women Ecology and Survival in India, tr. it. TerraMadre, sopravvivere allo sviluppo, Introduzione, Utet, Torino 2002. Shiva V. 1993, Monocultures of the Mind. Perspectives on Biodiversity and Biotecnology, Zed Book Ltd., London, tr. it. Monocolture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura “scientifica”, Bollati Boringhieri, Torino 1995. Shiva V. 1997, Biopiracy. The Plunder of Nature and Knowledge, South End Press, Boston, Mass., tr. it. Biopirateria, CUEN, Napoli 1999. Shiva V. 2000, Tomorrow’s Biodiversity, Thames & Hudson LTD, Londra, tr. it. Campi di battaglia. Biodiversità e agricoltura industriale, Prefazione, Edizioni Ambiente, Milano 2001. Shiva V. 2001 Protect or Plunder, Nabu International Agency, tr. it. Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2003. Shiva V. 2002 Water Wars, South and Press, Cambridge MA, tr. it. Le guerre dell’acqua, Feltrinelli, Milano 2004. Tiezzi E. 2001, Tempi storici tempi biologici, vent’anni dopo, Donzelli, Roma.

194


K. Jaspers, Ragione e antiragione nel nostro tempo

Comunicazione e Bildung democratica

elena m. fabrizio il pluralismo negato

La ragione rifugge da ogni unilateralità. Non sono io che porto la verità, ma la cerco insieme all’altro, ascoltando, interrogando, sperimentando.

reset

Per una ragione critica di sé, la dimensione comunicativa, dialogica, relazionale è diventata essenziale al logos in misura proporzionale a quanto essa ha imparato a comprendere dai propri scacchi con la storia. Il logos-padre, nel quale Aristotele celebrava la funzione razionale di dare la regola per condurre al proprio fine l’anima umana e la polis giusta, ha ricevuto una rettifica radicale. Non c’è logos laddove non ci sia anche dia-logos, laddove individui e gruppi non assumano nella comunicazione dialogica lo sforzo di ricercare le regole della giusta convivenza. La misura delle regole emerge da una socialità costitutiva che vincola ogni persona, da una tradizione culturale che interpreta e soddisfa bisogni e interessi, da una società-storia che li traduce progressivamente in principi e norme universali. È come se quest’esercizio della ragione che comunica garantisse e immunizzasse da quella degenerazione che Jaspers individuava nella chiusura di un particolare punto di vista in “involucro”, dove l’eticamente valido diventa sopruso, istinto di potenza, assimilazione, predominio; dove “tutto è chiaro, tutto ha la sua ragione”; dove il necessario e l’universalmente valido diventano “qualcosa di tranquillizzante”, il temporale diventa “indifferente”, l’immagine del mondo si chiude. Per evitare di irrigidirsi tanto in “involucro ingenuo” – quello nel quale sussiste solo il “ragionevole (il proprio esserci) e l’insensato (ciò che non si accorda con questo esserci)” - quanto in “involucro morto” – quello che pre-

195


reset 196

tende d’essere l’unico vero –, la ragione non deve tradire la sua illimitata volontà di comunicazione. Essa esige una disposizione infinita a comprendere, «una prontezza a discutere tutto, e il rifiuto di ogni tendenza a rifugiarsi nell’indiscutibile», una comunicazione illimitata1. In questa prospettiva, la comunicazione sembra essersi legata a un particolare processo di formazione. Una sorprendente connessione storica, tra emancipazione secolare dall’autorità e libero esercizio della critica, delegittima progressivamente l’ordine discriminatorio e ingiusto, distrugge le basi ontologiche della disuguaglianza e si trasforma in impegno egualitarista-universalista che conferisce ai principi della Bildung morale dell’illuminismo e della secolarizzazione una pretesa universale2. Universale assume, qui, un’accezione peculiare: non solo diffusione in società che non assumono i principi della democrazia come forma di organizzazione sociale e politica, bensì impegno che riguarda ancora società che li hanno storicamente assunti nella propria tradizione. Così Marcuse vedeva nell’universale la modalità del pensiero di concettualizzare il materiale del mondo storico, sia alla luce delle possibilità di questo mondo conosciuto e sperimentato, sia anche alla luce della «limitazione, repressione e negazioni attuali» di quelle possibilità. Il concetto di libertà non comprende forse anche «tutta la libertà non ancora ottenuta»? (Marcuse 1967, pp. 225-226). L’universalismo etico ed egualitario significa, dunque, che le libertà già conquistate non sono ancora tutte le libertà, che nuovi bisogni e nuove esigenze individuali e collettive devono ricevere il giusto riconoscimento entro la cornice di uno stato di diritto. Il rispetto della dignità, del diritto, dell’eguaglianza di ogni persona, devono essere ogni volta riconsiderati alla luce di una prassi sociale e politica tale da concretizzarsi tanto in forme che tutelano bisogni, convinzioni, pratiche, quanto in strumenti normativi e istituzionali per viverle e realizzarle liberamente. Avanzare verso nuovi assestamenti normativi significa promuovere anche l’abolizione di possibili e impreviste forme di discriminazione. Per verificare questa doppia contingenza di comunicazione e storia, il riferimento va alla modernità come il tempo storico che, pur nelle sue ambiguità e contraddizioni, ha posto le basi per l’emancipazione del non identico. Come punto rilevante di questo

fabrizio


il pluralismo negato

reset

poco discutibile progresso, si può far valere l’universalizzazione e moltiplicazione dei diritti. Bobbio indica in tre punti il modo in cui questo è potuto avvenire; citerò il più importante: «perché l’uomo stesso non è più stato considerato come ente generico, o uomo in astratto, ma è stato visto nella specificità o nella concretezza delle sue diverse maniere di essere nella società, come infante, come vecchio, come malato ecc.» (1997, p. 68). Il principio della differenza e della specificità di status della persona, riguardo a sesso, età, condizioni fisiche, ha consentito la moltiplicazione dei diritti sociali e la tutela delle differenze specifiche tra individuo e individuo nell’ambito del lavoro, della salute, dell’istruzione ecc. Mentre i diritti di libertà (personale, di pensiero, di riunione, di associazione) – fondandosi sull’eguaglianza del pari godimento di libertà – nascono per limitare il potere dello Stato, i diritti sociali richiedono, per la loro pratica attuazione, l’accrescimento dei poteri dello Stato (ivi, p. 72). In questa prospettiva si parla ormai di un succedersi di generazioni di diritti. I diritti di libertà e i successivi diritti politici fanno parte della prima generazione di diritti; quelli sociali della seconda generazione. Si parla poi di terza, quarta e quinta generazione di diritti, allo sviluppo, alla qualità della vita, a un ambiente non inquinato, all’integrità del patrimonio genetico, così come si è anche pronunciata la Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea (Bovero 2000)3. Non sembri banale considerare come questa straordinaria proliferazione sia stata sollecitata da una riflessione etica sempre più fluida e attenta ai mutamenti sociali, a interpretarli e giustificarli; dalla diffusione di una critica capace di esautorare autorità e tradizioni; da una sfera pubblica democratica che fa circolare temi, contributi, argomenti su questioni di rilevanza generale. La sfera pubblica rappresenta il luogo dell’interazione comunicativa dove emergono dissenso e critica, convinzioni e orientamenti, bisogni e interessi, che si condensano in un potenziale del quale i detentori del potere devono tenere conto. Autori come Arendt e Habermas hanno conferito un rilievo peculiare alla libera comunicazione come fonte di libertà che genera potere: «ogni potere politico nasce dal potere comunicativo dei cittadini» (Habermas 1996, p. 202)4. In società democratiche complesse, il pluralismo politico garantito dai parlamenti rappresentativi è stato così integrato da una “formazione informale dell’opinione e della volontà” aperta a

197


reset

tutti i cittadini. In questo modo, il sistema dei diritti assicura a ciascuno le stesse possibilità di partecipare ai processi di produzione giuridica. Questi processi, infatti, pur nella loro complessità e nel bisogno di specialismi e competenze, traggono la loro fonte di legittimità dagli stessi cittadini, perché è da questi che nasce la materia di bisogni sempre nuovi che occorre trasformare in norme. E questa fonte è direttamente esprimibile solo attraverso il dibattito pubblico, che si esercita nei parlamenti rappresentativi dove è finalizzato direttamente alla deliberazione, e nella sfera dell’opinione pubblica informata che tematizza ed esprime i problemi e che funge da istanza di controllo del corpo parlamentare. In uno stato di diritto, democratico e laico, il potere legislativo distruggerebbe la base stessa del proprio funzionamento se non facesse parlare la sfera pubblica autonoma e si rendesse impermeabile a temi e contributi liberamente fluttuanti in essa. La figura della «cassa di risonanza», usata da Habermas per descrivere la sfera pubblica, chiarisce bene la capacità ch’essa deve avere di percepire e identificare i problemi, farne sentire il peso, esplicitarli in modo comprensibile ed efficace, affinché siano recepiti, elaborati e risolti dal sistema politico. Ora, la soglia percettiva di democraticità che la sfera pubblica raggiunge si analizza in funzione tanto della sua ampiezza e inclusione, quanto della qualità del dibattito, dell’elaborazione ragionevole di proposte, informazioni e ragioni. “Anticamera” del complesso parlamentare, la sfera pubblica è anche «periferia che generando impulsi impone limiti insormontabili al centro politico» (ivi, p. 524).

198

Se, dunque, uno dei tratti rilevanti di una legittima produzione di norme è indicato dal diritto dei cittadini di esercitare la loro libertà di comunicazione, se l’esercizio di questa libertà implica il pluralismo delle ragioni e degli argomenti, se tale libertà si esercita in maniera sempre più democratica in una sfera pubblica non manipolata, allora ogni volta che questo processo è bloccato, sono in gioco il pieno esercizio e la vitalità della sovranità popolare. Senza considerare che il diritto positivo potrebbe rischiare di perdere forza legittimante ogni volta che non riesce a funzionare come risorsa di giustizia5. Nella prospettiva di quest’interpretazione teorico-normativa

fabrizio


della democrazia dibattimentale, possiamo adesso proporre alcune considerazioni critiche rispetto alla situazione in cui si è venuta a trovare la sfera pubblica italiana a proposito del dissenso e del dibattito suscitati dalla legge n. 40\20046 e dai relativi referendum. Alla luce di una legge che sembra rivelarsi troppo restrittiva rispetto all’autodeterminazione responsabile, alla salute delle donne, all’accesso più aperto alle tecniche di procreazione assistita, alla libertà dello scienziato; ma soprattutto alla luce degli esiti della recente campagna referendaria, subito condizionata dal richiamo all’astensione, e che avrebbe dovuto invece far circolare e rendere pubbliche una varietà di riflessioni morali capaci di stimolare una maggiore attenzione del cittadino verso questi temi, in direzione dei quali era stato chiamato a esprimersi (e non a non esprimersi), rimangono aperte alcune questioni. Ci si può chiedere, seguendo il modello habermasiano, se si è trattato di una manipolazione della sfera pubblica da parte di poteri non ideologicamente imparziali o, viceversa, data la qualità degli argomenti dibattuti, di un’ingerenza o di una colonizzazione del pubblico nel privato (e persino nel più intimo delle intenzioni soggettive). Ci si può chiedere, infine, se la scarsa partecipazione e comunicazione non dipendano dalle conseguenze di un altro tipo di colonizzazione, quelle che Bauman scorge in una «modernità liquida» nella quale la sfera pubblica, colonizzata da un privato superfluo, si trasforma in palcoscenico di rappresentazione dei problemi privati di figure pubbliche, con la conseguenza che la politica, invece «di convertire i problemi privati in questioni pubbliche (e viceversa)», espunge dalla scena l’interesse per la buona società, la giustizia sociale o la responsabilità collettiva per il benessere individuale (Bauman 2002, p. 71 ss.). Tra detto e non detto

il pluralismo negato

reset

Comunicazione sistematicamente distorta, disinteresse per il pubblico o consenso disinformato o coatto, sono interpretazioni diverse di uno stesso fenomeno, quello che ha visto scivolare o deviare il dibattito su questioni che avevano ben poca rilevanza rispetto alle delicate materie sulle quali occorreva esprimersi. Da una parte si è assistito a un sistematico occultamento del pluralismo etico, al quale si sono volute apporre le vesti più suasive del

199


relativismo, dall’altra, quasi come premessa e inevitabile conseguenza, si è implicitamente diffuso un atteggiamento scettico nei confronti della ragione e della cultura moderna in genere, senza il quale non si comprenderebbe l’irrazionalità di un tale arresto della giustizia sociale.

reset

Relativismo o pluralismo?

200

Non sembri banale sottolineare come la visione cumulativa e autocorrettiva del sapere, di un sapere che quanto più si autocorregge più si fa cumulativo e accrescitivo, ha radici più profonde della teorizzazione e consapevolezza del fallibilismo e relativismo epistemologici, essendo aspetto che si radica in quel pluralismo e in quella «pluralità di percorsi» nei quali Mill vedeva tutto «lo sviluppo progressivo e multiforme» dell’Europa (2002, p. 64). Se il relativismo non conosce nulla di definitivo che possa darsi in una formulazione della verità su cui non ci sarebbe più nulla da dire, e per questo il suo contrario è assoluto, c’è qualcosa di definitivo nella sua sostanza, definitivo è il pluralismo, definitivo è questo fatto che la ragione umana ha solo da pochi secoli riconosciuto: «non l’Uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra» (Arendt 1987, p. 99). Il suo contrario, che è il singolare, gli è già essenziale per attingere alla sua definizione. I percorsi sono plurali, infatti, se l’individuo può esercitare la propria libertà di giudizio, libertà che si nutre del principio critico di ragione e su cui nessuna autorità può interferire. Una libertà che è autonomia, capacità di darsi la legge giusta, e di scegliere, nella propria esistenza, la via del bene che realizza la persona. Nelle società pluralistiche che hanno interiorizzato il pluralismo come valore e non solo come fatto, come conquista della secolarizzazione e della laicità dello Stato, il diritto garantisce la libertà di pratiche e di progetti di vita demandandoli alla consapevole e responsabile scelta dell’individuo. Scelte private e intime nelle quali si esprime la propria differenza, alle quali lo stato non impone nessuna etica; dove lo Stato non è padre ma garante della libertà e della differenza. Sul piano teorico si tratta di tutte quelle scelte che implicano concezioni della vita e modalità del vivere rispetto alle quali non è possibile trovare un’unica risposta giusta. e che sono tuttavia legittime, private ma non costrette al segreto, espressioni d’individualità che si autopresentano nel pubblico

fabrizio


il pluralismo negato

reset

secondo la propria modalità di esistenza, e pretendono da esso riconoscimento, non necessariamente condivisione. Si evoca la tolleranza, la quale però, come virtù civica, comincia solo «nel momento in cui ci siamo lasciati alle spalle le discriminazioni» (Habermas 2003, p. 318), e come virtù morale, richiede di riconoscere «il fatto elementare che ci possiamo riconoscere tutti come egualmente competenti a definire in modi diversi vite umane» (Veca 1997, pp. 218-219). La società-storia laica e pluralista con i suoi principi riconosce un pluralismo di punti di vista e di valori che conduce a porre come prioritaria la coesistenza di tutti e perciò a evitare di porre divieti in materie sulle quali non sussiste un ricercato e ragionevole accordo morale, non riconducibili dunque a un’unica concezione del bene. Si fa un gran parlare del rispetto della differenza, e si assume come differenza solo quella culturale, cioè la differenza altra, e non si considera la persona autonoma nella sua differenza di giudizio, scelta, azione, o gli stili di vita come differenze. Si teorizza la differenza come qualcosa che sta fuori dai nostri confini e culture, e non come qualcosa che è tra noi. Tra noi ci sono le coppie sterili o portatrici di malattie genetiche, ci sono laici non credenti e credenti; credenti relativi e assoluti. E poi ci sono gli scienziati. Ci sono coppie sterili che decidono di adottare un figlio, e quelle che invece non vogliono rinunciare al diritto/desiderio, alla libertà procreativa7. Ci sono genitori che allevano figli malati di gravi malattie genetiche e per i quali la scienza e la sua riproduzione tecnica conservano un senso salvifico. Rispetto a questo proliferare di differenza di valori, credenze, condizioni esistenziali, materiali e biologiche, ci si attende, parafrasando Marcuse, che si realizzi tutta la giustizia non ancora realizzata. Si è invece occultata la questione, ritenendo la scelta diversa di chi intende affidarsi alla procreazione medicalmente assistita come una scelta che deve essere vincolata da un principio assoluto, il principio della tutela morale e giuridica dell’embrione. Su una questione così delicata, sulla quale non c’è accordo, tra una visione religiosa che evoca la sacralità della vita umana prepersonale e una visione scientifica che propone un più largo ventaglio d’ipotesi, ci sono altre interpretazioni della questione a cui ognuno contribuisce con i propri valori e principi, c’è in sostanza una pluralità di punti di vista che sono stati ignorati o occultati, a favore

201


reset 202

di un insindacabile principio religioso o metafisico o naturalistico che si fa prevalere su tutti gli altri. A questi “altri” la legge non ha nulla da dire dal momento che li ritiene illegittimi. A sostegno di quest’opera di occultamento del pluralismo etico si sono evocati i rischi, gli scivolamenti, le derive che potrebbero conseguire se non si pongono freni alla Bildung moderna, i cui molteplici esiti negativi vengono rintracciati nel relativismo dei valori, nel pluralismo relativistico, nella debolezza dei valori laici, incapaci come sarebbero di arginare le tendenze di “derive eugenetiche”, di porre limiti alla hybris dell’uomo moderno: slogan offensivi e indicativi di una sfiducia verso coloro ai quali sono implicitamente diretti. La libertà, l’eguaglianza, la solidarietà, la giustizia, la cittadinanza sono invece principi forti e non relativi. Nascono da “un’idea generale”, quella della dignità umana, da un “programma diffuso” che attraversa tutta la storia dell’occidente e che ha consentito la lenta evoluzione dall’individuo alla persona e da questa al cittadino; un’idea che si è instaurata in modo “irreversibile” nella mente umana generando istituzioni corrispondenti (Boudon 2003, p. 75 ss.)8. Idea a sostegno della quale la scienza-tecnologia ha contribuito con il suo principio d’osservazione e sperimentazione, operando concretamente nella creazione di migliori condizioni materiali (lavoro, benessere, salute, istruzione, sicurezza); in questo senso le possibilità che essa offre all’umanità devono sempre essere condizionate e vincolate dall’evoluzione di quell’idea. Quei principi allora, mutatis mutandis, hanno contribuito alla formazione dello stato democratico di diritto, di quello stato che tratta diritti e democrazia come fenomeni reciprocamente interdipendenti, perché solo coloro che esercitano il diritto possono anche stabilire in maniera cooperativa i suoi vincoli. Principi che traggono la loro forza dalla loro laicità, e che sono laici e promotori di giustizia solo finché sia possibile concepirli e difenderli come espressione della libertà e dell’eguaglianza di tutti, a prescindere da fedi e appartenenze. E per questo, l’etica da cui questi principi derivano è un’etica autonoma, perché riguarda tutti. Etica autonoma significa libera dal principio d’autorità e rimessa alla libertà responsabile dei cittadini, libera cioè da divieti assoluti e promotrice di diritti-doveri attenti alla qualità della vita, al benessere, al rispetto dell’autonomia e delle scelte perso-

fabrizio


nali. E a chi controbatte che questo discorso indebolisce l’etica, c’è chi risponde «ciò che si indebolisce è solo l’etica della legge. Mentre si rafforza il senso di responsabilità delle persone» (Mori in Gnoli 1998). Scetticismo della ragione e critica della modernità

il pluralismo negato

reset

Se assumiamo che nelle società moderne, laiche e pluraliste, la libertà comunicativa si è trasformata in una seconda natura, chi blocca la comunicazione, chi usa le parole per mettere a tacere, per interrompere la costruzione del “mondo morale universale”, desta un fondato sospetto. Che ci si sta inoltrando su un terreno paradossale, che la ragione, prima compagna del dubbio quale misura dei propri limiti, e poi del dialogo quale misura della verità e della giustizia, stia cedendo il passo alla paradossale metamorfosi di uno scetticismo verso la ragione e il logos-dialogico. Avendo bisogno di un criterio, assumiamo allora che la ragione dialogica si afferma nel pubblico: le ragioni, gli argomenti, i motivi devono essere detti, esplicitati, fondati. Motivi nascosti non sono ragioni, perché le ragioni ricevono la loro forza dalla critica di altri. Fondare non significa individuare il fondamento con il quale “si chiude il conto”, ma lasciar aperta la critica vicendevole come risorsa e criterio che consente di comprendere quando si deraglia dalla ragione. E cercare un ragionevole consenso. Potremmo definirlo un bisogno kantiano di ragione, se non si rievocasse con ciò la spinosa questione dell’illuminismo e dell’antilluminismo, di una critica alla ragione che sembra aver raggiunto vertici eccessivi, di una critica che è stata autocritica di un’intera tradizione che non avrebbe più ormai dentro di sé le motivazioni e i potenziali per generare principi e vincoli a cui ispirarsi per orientare l’agire pratico nella costruzione di una storia che abbia senso e vada costruendo il meglio, e perciò il vero e il giusto9. Il discorso è noto, muove una critica alla modernità che è ormai satura di sé, una critica che vede nel processo storico e filosofico, che ha posto le basi della mentalità moderna, un’immensa perdita di senso tesa a svuotare il mondo di ogni principio superiore e ad affidarsi a una scienza profana che con le sue verità continuamente cangianti è incapace di rassicurare gli intelletti e le anime. Critica del capitalismo, dell’individualismo borghese, dell’industria culturale, della cultura di massa, hanno reso più articolato

203


reset 204

questo scenario autocritico. Tuttavia, tale scenario non sembra ancora deciso se si assume, d’accordo con Habermas, l’impossibilità di parlare della modernità disincantata sia solo in termini di un’interpretazione ottimisticoprogressiva, che ha sostituito all’incanto mitico-religioso i criteri razionali superiori della scienza e della tecnica, sia in quelli di un’interpretazione decadente di una modernità smarrita, per la quale la mentalità moderna avrebbe definitivamente esautorato i poteri frenanti di ambiti esterni alla razionalità scientifica, come quelli dell’etica o della religione (Habermas 2002, p. 101). Questi poteri esistono e invocano il senso del limite e della misura, il principio di precauzione, un’attenta valutazione dei rischi, un’imparziale, e perciò morale, considerazione delle soggettività coinvolte. Sono poteri che nascono da quella stessa autocritica e che per essere consapevoli di sé non hanno bisogno di alcun principio di autorità che serva a imporli nella prassi e nella legge. E infatti, nel riprendere ogni volta le fila della genesi sociale e culturale della modernità, occorre tener ferma e non smarrire la forza emancipativa di una Bildung che può farsi ogni volta riflessiva a partire dalla sua sostanza normativa10 e che tende a individuare, attingendo alle risorse di una società-storia laica e pluralista, nuovi vincoli normativi ai quali la tradizione, nell’emergere di nuove istanze di emancipazione, non sempre può rispondere. Ma questa Bildung sembra stia subendo un freno nella misura in cui non si riesce a trovare il giusto equilibrio tra il diritto/desiderio alla libertà procreativa e l’“inevitabile scivolamento verso il peggio”; tra tutela dell’embrione e ricerca scientifica, tra embrione e genitore, tra embrione e sofferenza umana, un equilibrio che è possibile raggiungere solo se si rimane in prossimità dei continui mutamenti storici, scientifici e culturali, se si assumono le parti coinvolte in una logica della relazione, e si considerano, per dirla con Habermas, oltre agli interessi e i bisogni di tutti, anche le conseguenze che potrebbero derivare su di essi dall’applicazione della norma in questione. Una legge che invece esprime solo una parte delle convinzioni delle persone, mette a tacere i bisogni e gli interessi di altre, non valuta con sufficiente attenzione tutto lo spettro delle possibili e prevedibili conseguenze (conflitti costituzionali tra il principio della personalità dell’embrione e quello della salute della donna sono già in atto), ci fa capire che siamo fuori della ragione, che la voce di qualcuno non è stata ascoltata,

fabrizio


che è stata occultata, ignorata.

reset il pluralismo negato

205


reset

Le altre ragioni

206

Non si può ignorare, allora, quanto è mancata la misura: proibire la ricerca scientifica impedisce di dettare regole capaci di garantirne la libertà entro la trasparenza dei suoi rischi e delle sue straordinarie potenzialità. Vedere nella tecnica solo una degenerazione dell’umano fa smarrire il suo non secondario senso, essere un prodotto dell’umano finalizzato all’umano, finalizzato, come ha sostenuto Rusconi, alla possibilità di riorientare una natura senza più orientamento, non di sostituirsi a essa o di manipolarla. Così, nel parlare della diagnosi di preimpianto, non si sono sottolineate abbastanza le potenzialità di una pratica finalizzata alla salute dell’individuo futuro e non alla presunta selezione del patrimonio genetico o del sesso, di pratiche eugenetiche o migliorative della specie, tra l’altro espressamente vietate in altri punti dalla stessa legge. C’è dunque qualcosa di irrazionale nella priorità quasi assoluta conferita all’embrione in una legge che invece coinvolge più soggetti, e ragionevolmente si è parlato di «dittatura dell’embrione» (Rodotà 2005). Una priorità che si scontra non solo con l’estensione del diritto/desiderio alla libertà procreativa, non solo con la possibilità di fare nascere una vita, bensì anche con la possibilità di farla nascere sana, e quindi con il suo stesso diritto alla salute. C’è qualcosa di irrazionale tra la tutela incondizionata dell’embrione e l’aborto terapeutico, tra l’immmoralità conferita alla selezione degli embrioni malati e la legalità dell’aborto, una situazione, quest’ultima, che invece la diagnosi potrebbe evitare, sfuggendo all’interruzione di una relazione affettiva in atto, che con l’embrione non si ha. C’è qualcosa di irrazionale nel vietare per legge alle coppie portatrici di malattie ereditarie, ma non sterili, di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita. Perché non riconoscere il loro desiderio di avere un figlio sano? Perché crediamo che in questo desiderio s’insinui un’intenzione eugenetica, una volontà di selezionare la specie? Un desiderio egoistico e narcisistico di fare figli solo a condizione che siano sani? Si è giunti così a sollevare la questione delle intenzioni che guidano un genitore a procreare, lasciando cadere invece le più ampie ragioni morali e culturali, ragioni che con molta sobrietà Lecaldano non considera affatto differenti da quelle che guidano le scelte

fabrizio


il pluralismo negato

reset

responsabili di coppie che possono procreare naturalmente (Lecaldano 1999, p. 186 ss.). Qualcosa di paradossale ha sostenuto la confusione tra percezione, anticipazione e prevenzione di possibili rischi e il tentativo di assumere i rischi come criterio per entrare nel giudizio delle intenzioni del cittadino11. Insieme alla libertà dello scienziato, la quale come tutte le libertà non è affatto incondizionata, richiedendo norme e vincoli precisi, si è messa a tacere la diffusa attenzione della scienza a un’etica della natura umana pre-natale. L’etica non ispira solo il divieto di ricerca sulle cellule staminali embrionali in base al principio di persona allo stadio di pre-impianto, spingendo a tutelare la specie alla sua fonte, nei primi livelli di vita; ma si attiva anche in un diritto a tale ricerca che inserisce il dovuto rispetto all’embrione entro una logica di solidarietà in chiave terapeutica, con le speranze che possono derivare dalla ricerca per migliorare le condizioni delle persone malate (Consulta Laica di Bioetica di Torino). Un’etica della specie o della cura della natura umana, dunque, quale principio che vincola la libertà dello scienziato. Analogamente si è messa a tacere quella solidale partecipazione e attenzione per la sofferenza umana che si è ormai ampiamente diffusa grazie all’affermazione del diritto alla salute e a una vita piena e libera. Così, nel divieto di ricerca sugli embrioni soprannumerari, destinati a non essere inizio di nessuna vita, non si è solo posto un limite alla libertà dello scienziato, ma anche alla possibilità di corrispondere responsabilmente a questa solidarietà. La ricerca su embrioni soprannumerari destinati alla morte può crearci un certo imbarazzo, ma non può crearci dolore. Solo nel caso di persone, di esseri umani che soffrono per malattie che rendono loro la vita insopportabile, possiamo parlare di dolore. Chi cerca una risposta sulla verità dell’umano, non deve forse anche entrare nel suo dolore? Esiste un limite alla sofferenza accettabile o una responsabilità sobria e pacata dovrebbe fornire risposte precise al valore della cura? Infine, si è parlato dei rischi, che sono molti, si è parlato di vita, si è detto che la vita non è questione che possa essere rimessa al voto e non si è parlato del desiderio che accoglie la vita e senza il quale non c’è vita umana. Desiderio della donna di essere madre, di riconciliarsi con un sé che sente mancante. Impossibile parlare dell’embrione senza parlare della madre, senza un corpo-psichespirito che lo accoglie; significherebbe ridurre la vita a dato biolo-

207


reset 208

gico e separare ciò che non può essere separato. Se è vero che le tecniche di fecondazione artificiale separano il concepimento dal corpo umano, è anche vero che solo nel corpo l’umano si fa umano e perciò questo corpo andrebbe tenuto in altissima considerazione, nella sua dignità di corpo. Lo slogan “la vita non è una questione che può essere rimessa al voto popolare” con il quale si è invitato il cittadino all’astensione, può essere assunto a simbolo del principio di discriminazione che caratterizza la legge italiana su questa materia: discriminazione tra chi può dire e chi non può dire, tra chi può decidere e chi non può decidere cosa sia vita umana, come se la conoscenza e istruzione su cosa è vita dovessero rimanere costrette entro la casta di quei pochi che sanno. Dietro questo slogan sta una particolare concezione etica che evoca il presupposto della non disponibilità della nascita considerata un principio normativo di natura dal quale le tecniche procreative devierebbero, come devierebbero dal principio della famiglia biologica giuridicamente tutelata. Assistiamo così alla palese contraddizione tra norma e società, all’imposizione normativa di un ethos su altri ethos, dove invece la scissione tra dimensione unitivo-affettiva e dimensione procreativa dell’atto sessuale è già avvenuta, dove la famiglia è già cambiata, prima con la legge sul divorzio, oggi con le nuove tecniche di fecondazione assistita omologa ed eterologa che in altre parti del mondo, in stati democratici che hanno legiferato con maggiore rispetto del pluralismo etico, sono considerate l’unica risposta giusta per andare incontro a uomini e donne che altrimenti non potrebbero crearsi una famiglia. La famiglia continuerà a trasformarsi, anche contro l’oggettività dell’etica dello Stato, e il fenomeno non potrà essere evitato con una legge che vieta alla famiglia di trasformarsi. Occorreva, dunque, disciplinare questa controversa materia con norme più attente alla sensibilità e responsabilità delle persone, anziché con imposizione di divieti che si rivelano troppo semplici rispetto all’articolazione e complessità della realtà; con norme misurate e ragionevoli, rispettose di quelle che Rawls definisce «dottrine comprensive» e che sono a loro volta ragionevoli se ognuna di esse non pretende di essere l’unica vera. Queste, invece di rimanere fuori dal dibattito pubblico, devono potervi entrare in modo tale che chi non le condivide non sia limitato nel suo diritto.

fabrizio


reset il pluralismo negato

209


elena pulcini autenticità e riconoscimento reset 210

note

1 K. Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Springer, Göttingen, Heidelberg 1954 (4a ed.), pp. 307 ss., 170-171, 325; tr. it. Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950, pp. 357 ss., 199-200, 377. 2 Sulla rilevanza socio-evolutiva della comunicazione caratterizzata dalla razionalità dell’intesa è ben nota la riflessione habermasiana la quale, tuttavia, puntando sul registro formale-universale delle regole della comunicazione, non riconosce alla rilevanza di queste regole e di questa prassi una connotazione culturale. Un’integrazione a cui ha contribuito invece l’importante studio di S. Benhabib (1986, p. 306) 3 Cfr. M. Bovero (2004, pp. 3-31) e AA.VV., Riscrivere i diritti in Europa. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il Mulino, Bologna 2001. 4 Per ciò che segue cfr. Habermas, 1996: 203 ss., 350 ss., 426 ss. 5 «Il diritto conserva forza legittimante solo finché può funzionare come risorsa di giustizia» (Habermas 1996, p. 173). 6 Ci si riferisce alla Legge 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, pubblicata nella “Gazzetta Ufficiale” n. 45 del 24 febbraio 2004. Per un’analisi fortemente critica della legge nei suoi aspetti morali e giuridici e nel confronto con le più recenti normative vigenti nei paesi europei, mi limito a segnalare il contributo di V. Franco (2005). 7 Lecaldano (1999, p. 137 ss.) invita a distinguere questa liberà da un diritto vero e proprio che richiederebbe forti doveri da parte di uomini e istituzioni, e un’ingerenza dello Stato con leggi che potrebbero limitare i diritti negativi. Perciò il diritto alla libertà procreativa deve essere interpretato come un diritto morale di chi sceglie quando, quante volte e se procreare, scelta affidata alla responsabilità morale personale e a una disponibilità sui processi della nascita, con un intervento minimo della legge e una maggiore attenzione alle scelte delle persone, alle loro ragioni morali. 8 Questa confusione/equazione tra relativismo-scetticismo-crisi dei valori diffusa persistentemente da intellettuali, politici e mass media, è stata smontata dalle analisi del sociologo Boudon, il quale dati alla mano ha mostrato come, soprattutto tra la popolazione giovanile europea con un maggiore livello d’istruzione, sono diffusi “valori” tutt’altro che relativi. La consapevolezza della libertà e dell’eguaglianza, l’impegno politico, la fiducia nelle riforme graduali, un atteggiamento più critico nei confronti dei divieti e dei precetti religiosi, una maggiore tolleranza per le differenze di tipo morale, sono trend indicativi per comprendere l’iperbole di teorie che proclamano la cosiddetta “crisi dei valori”, la discontinuità tra


modernità e postmodernità, la spoliticizzazione dei cittadini. 9 Cfr. a questo proposito il recente G. Jervis (2005) dove si argomenta il peso ideologico che l’autocritica della modernità ha avuto nel generare atteggiamenti scettico-relativistici anche nei confronti della scienza. 10 È questa la storica posizione di Habermas (1992), che cerca di tenere il passo a un’autocritica della ragione che non voglia sperperarsi e perdere di vista le conquiste della ragione. 11 Persino un illuminista come Habermas si è chiesto, facendo leva sulle intenzioni di chi si trova a scegliere l’embrione più sano da impiantare, se le procedure della diagnosi di preimpianto non promuovano o diffondano atteggiamenti che favoriscono uno scivolamento verso l’eugenetica: mirando a scegliere l’essere vivente più sano, l’azione si lascerebbe guidare da un atteggiamento di ottimizzazione genetica e in ciò si manifesterebbe un’intenzione di miglioramento. Certo Habermas riconosce pure la presenza di un atteggiamento clinico, volto a tutelare la vita dell’embrione attraverso un suo presupposto anticipato no. Ma questo atteggiamento di un no anticipato potrebbe «sottrarsi al sospetto di volere coprire con pretesti altruistici l’egocentrismo di un desiderio pregiudizialmente condizionato da una riserva?». Nella contraddizione tra desiderio di avere un figlio sano (generazione con riserva) e distruzione dell’embrione non sano per il suo stesso interesse, si sarebbe già formata la situazione di genitori che dispongono a loro piacimento della vita umana pre-personale (2002, pp. 96-97). riferimenti bibliografici

reset

Arendt H. 1978, La vita della mente, tr. it. Il Mulino, Bologna 1987. Bauman Z. 2000, Modernità liquida, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002. Benhabib S. 1986, Critique, norm and utopia, a study of the foundations of critical theory, Columbia University Press, New York. Bobbio N. 1997, L’età dei diritti, Einaudi, Torino. Boudon R. 2002, Declino della morale? Declino dei valori?, tr. it. Il Mulino, Bologna 2003. Bovero M. (a cura di) 2004, Quale libertà. Dizionario minimo contro i falsi liberali, Laterza, Roma-Bari. Franco V. 2005, Bioetica e procreazione assistita. Le politiche della vita tra libertà e responsabilità, Donzelli, Roma. Gnoli A., L’etica del futuro non si fonda sul “no”, in “La Repubblica”, 30/12/1998. Habermas J. 1985, Il discorso filosofico della modernità, tr. it. Laterza, RomaBari 1991. Habermas J. 1992-1994, Fatti e norme. Contributi ad una teoria del diritto e della democrazia, tr. it. Guerini e Associati, Milano 1996. Habermas J. 2001, Fede e Sapere, in Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, tr. it. Einaudi, Torino 2002. Habermas J. 2003, Dalla tolleranza alla democrazia, in “Micromega”, 5, 311328. Jaspers K. 1954, Psychologie der Weltanschauungen, Springer, Göttingen,

211


reset

Heidelberg, tr. it. Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950. Jervis G. 2005, Contro il relativismo, Laterza, Roma-Bari. Lecaldano E. 1999, Bioetica. Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari. Marcuse H. 1964, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, tr. it. Einaudi, Torino 1967. Mill J.S. 1858, Saggio sulla libertà, tr. it. Net, Milano 2002. Rodotà S. 2005, Embrione. Dove comincia la vera vita?, in “La Repubblica”, 13.05.2005. Veca S. 1997, Dell’incertezza, Feltrinelli, Milano.

212

pulcini


Il tema del riconoscimento sembra ormai entrato a pieno titolo nel dibattito contemporaneo, soprattutto in relazione a problemi cruciali della filosofia sociale e politica attuale: come quelli dell’identità, della giustizia o della cittadinanza. Il presupposto teorico condiviso da chi assume questa prospettiva è l’idea di fondo che l’affermazione del sé individuale e collettivo o, se si vuole, la dignità della persona umana, non possa dirsi completa se non si fonda sul riconoscimento da parte degli altri; e che, viceversa, esperienze di misconoscimento o di “spregio” possano produrre effetti di grave danneggiamento nella vita delle persone, provocando umiliazione, oppressione, senso di esclusione. C’è tuttavia una rilevante differenza tra la sua accezione in ambito anglosassone e in ambito europeo. Nella letteratura anglosassone la politica del riconoscimento è sinonimo, grazie soprattutto a lavori di autori come Charles Taylor e Iris Marion Young, di multiculturalismo, di politiche disponibili a riconoscere diritti differenziati a gruppi etnici, culturali e religiosi particolari in vista della salvaguardia e della protezione della loro identità. In quest’ambito, in altri termini, il paradigma del riconoscimento tende spesso, prioritariamente, alla denuncia dei limiti delle politiche redistributive e del paradigma rawlsiano della giustizia (Frazer 1999). In Europa invece, da Axel Honneth a Paul Ricoeur, da Alain Caillé a Franco Crespi, il dibattito sul riconoscimento si è sviluppato soprattutto intorno al problema delle radici del legame sociale e delle fonti della solidarietà e dell’ospitalità1. Mentre nel primo caso l’idea di riconoscimento appare in tutta la sua positività normativa, in quanto consente di rivendicare la legittimità delle pretese di riconoscimento da parte di individui o gruppi svantaggiati o esclusi, nel secondo caso invece – nel cui ambito si colloca anche la mia riflessione2 - emergono anche gli aspetti problematici.

autenticità e riconoscimento

reset

Risalendo alle origini stesse della modernità, vedremo come, lungi dal contribuire a consolidare la dignità e l’integrità della persona, il riconoscimento può svolgere una funzione falsante che compromette a priori ogni pretesa di autonomia e di autenticità del sé, in quanto spinge l’individuo alla dipendenza dall’altro, alla simulazione e al conformismo.

213


reset

Se è vero, in altri termini, che il mancato riconoscimento può essere lesivo dell’identità della persona provocando la ferita dell’esclusione e dell’umiliazione, è altrettanto vero che lo stesso riconoscimento può indurre una sorta di coazione alla finzione e alla mimesi, causando l’alienazione del sé e l’omologazione delle forme di convivenza sociale. Il reciproco riconoscimento può produrre dunque la formazione di false identità con inevitabili effetti patologici sulla costruzione del legame sociale3.

214

2. A partire dalla modernità, che vede il declino del codice dell’onore e la nascita dell’idea universale di dignità, il riconoscimento diventa lo strumento imprenscindibile per la costruzione di un’identità che non è più data a priori; ma esso si configura allo stesso tempo come l’obiettivo permanentemente incerto di una difficile ricerca. Il sé moderno, autonomo e indipendente da presupposti, è infatti anche un sé sradicato e indebolito dal crollo di ogni appartenenza, è un sé solitario e «senza dimora» (Berger 1973), la cui identità viene essenzialmente a dipendere dallo sguardo e dalla conferma dell’altro. Nello stesso momento in cui, in una società di eguali, diventa una mèta potenzialmente accessibile a tutti in virtù del diritto indifferenziato alla dignità, il riconoscimento non può più godere di ogni aprioristica certezza e richiede l’impegno, la lotta e la mobilitazione individuale, essendo sempre esposto al rischio dello scacco e del fallimento. La società moderna pone le condizioni per un riconoscimento paritario e uguale per tutti, ma proprio per questo fa emergere la consapevolezza della problematicità della sua acquisizione e crea l’inevitabilità di una reciproca competizione. La modernità inaugura in altri termini quella “lotta per il riconoscimento” che ne complica lo scenario conflittuale: gli uomini cioè non entrano in conflitto tra loro solo per la difesa dei loro interessi o di una scarna autoconservazione, come ci insegna il consolidato paradigma dell’«individualismo possessivo» (Macpherson 1962/1973), ma anche perché vogliono essere riconosciuti dall’altro nella propria identità. Axel Honneth coglie pienamente questo aspetto mostrando, attraverso il passaggio dal modello hobbesiano a quello hegeliano, la centralità tutta moder-

pulcini


autenticità e riconoscimento

reset

na non solo del conflitto di interessi, ma del conflitto identitario (Honneth 1992/2002), che oggi, nell’età globale, ha assunto ampie proporzioni. Honneth, tuttavia, postula una frattura troppo netta tra i due modelli, precludendosi così la possibilità di individuare già in Hobbes la presenza di una lotta per il riconoscimento. Se è vero infatti che prevale in Hobbes l’immagine degli individui come macchine desideranti e confliggenti, come atomi privi di qualità specifiche tendenti alla lotta per la sopravvivenza, è vero anche che compare nella sua antropologia un bisogno di riconoscimento legato alla lotta per l’onore: quale segno della considerazione per quell’insieme di qualità e valori di un uomo - dalla bellezza alla reputazione, dalla forza alla ricchezza (Hobbes 1651/1987, pp. 85 ss; Hobbes 1640/1985, pp. 59-61) - che Hobbes riassume nel concetto di “potere” (Hobbes 1640/1985, p. 59). Gli individui hobbesiani sono talmente preoccupati di ottenere dagli altri il riconoscimento del proprio valore e potere, che essi lo pretendono, per così dire, a ogni costo, indipendentemente da qualsiasi virtù o merito. Essi sono pronti a battersi, a ogni segno di scarsa valutazione o disprezzo da parte dell’altro, fino alla distruzione reciproca (Hobbes 1651/1987, p. 119); e reagiscono con violenza di fronte a ogni minima manifestazione di misconoscimento, creando, «per delle inezie, come una parola, un sorriso, un’opinione differente…» (Hobbes 1651/1987, p. 120), uno stato di cruenta conflittualità. Nasce dunque con Hobbes quella che vorrei definire una passione per il riconoscimento: che è essenzialmente passione dell’Io (cfr. Pulcini 2001) e che non ha più niente a che fare con l’onore aristocratico, in quanto vede fronteggiarsi individui liberi e uguali, e allo stesso tempo drammaticamente carenti, decisi a ottenere approvazione, conferma, considerazione dagli altri a ogni costo. 3. Ma se in Hobbes questa passione sfocia nella aggressione reciproca, nel conflitto e nella guerra, in essa si annida un pericolo più invisibile e insidioso che, come acutamente intuisce la riflessione giansenista contemporanea a Hobbes, è quello del tradimento di sé. Pascal, La Rochefoucauld, Nicole descrivono un individuo mosso da un bisogno di riconoscimento così cogente da spingerlo a tradire se stesso, a rinunciare alla propria vera identità per assumere una maschera che lo renda accettabile agli occhi dell’altro. L’Io pascaliano, afflitto da un vuoto incolmabile e da una visione

215


reset 216

svalutativa di sé, incapace di accettare la propria misera e deludente verità, risponde con un ipertrofico amor proprio (amour propre) che lo spinge a dissimulare il proprio essere, ingannando gli altri e se stesso attraverso la costruzione di una immagine inautentica di sé (Pascal 1670/1986, pp. 55-56). Per essere riconosciuti, gli uomini devono apparire diversi da ciò che sono. Affiora dunque quell’opposizione essere/apparire che, come vedremo, verrà pienamente tematizzata da Rousseau. Gli individui celano la loro vera identità, rinunciano alla loro autentica natura identificandosi con l’immagine di sé che li rende oggetto di ammirazione e di stima: «Siamo tanto abituati a camuffarci di fronte agli altri - dice La Rochefoucauld - che finiamo per camuffarci anche di fronte a noi stessi» (La Rochefoucauld 1678/1978, p. 123). Il sé diventa la propria maschera; tradisce se stesso per essere come l’altro lo vuole. Si instaura così quel processo mimetico in cui René Girard ha individuato il fondamento stesso dell’identità individuale e delle relazioni sociali (Girard 1961/1981): il sé costruisce la propria immagine guardandosi con gli occhi dell’altro (sia esso reale o immaginario), verso il quale si pone in un rapporto essenzialmente imitativo. Ciò porta a un paradosso che propongo di riassumere nell’idea di falso riconoscimento: il riconoscimento da parte degli altri, intensamente desiderato dall’individuo in quanto irrinunciabile per la costruzione della propria identità, viene di fatto a legittimare una falsa identità: falsa non solo nel senso di ingannevole (verso gli altri) ma fondata anche su un autoinganno. L’idea della maschera e della costruzione di una falsa identità ritorna in Mandeville, che tuttavia si libera di ogni considerazione morale e ne riconosce con spregiucatezza l’inevitabilità ai fini della convivenza civile e del progresso sociale ed economico. La società si fonda per Mandeville su una «commedia delle buone maniere», su un «elegante imbroglio» (Mandeville 1723/1987, p. 50); essa altro non è che una gigantesca costruzione ipocrita, che può non solo stare insieme, ma progredire e svilupparsi a patto che gli individui riconoscano reciprocamente la propria maschera, celando la loro vera identità. La socialità e il progresso sembrano dunque non consentire altra possibilità che quella di creare identità inautentiche e false relazioni sociali.

pulcini


autenticità e riconoscimento

reset

4. Una prima alternativa al pessimismo mandevilliano si delinea tuttavia nella torsione morale proposta da Adam Smith, con il quale si configura l’opposizione tra un falso e un vero riconoscimento. L’idea di falso riconoscimento si fonda, in Smith, su una diagnosi simile a quella di Mandeville. Egli individua nel self-love, inteso come ansia di distinguersi e di essere preferiti, la basilare spinta emotiva all’agire umano (Smith 1759/1991, p. 110). Il selflove infatti, che è «forse il più forte dei nostri desideri», è ciò che motiva in ultima istanza la stessa «corsa alla ricchezza» (Smith 1759/1991, p. 111), vale a dire l’imperativo all’acquisizione proprio dell’homo oeconomicus (Smith 1759/1991, p. 66). Gli uomini desiderano la ricchezza e competono aspramente per averla non tanto per il suo valore materiale o per la sua intrinseca utilità, quanto perché la ricchezza, quale oggetto desiderato da tutti, è il “segno”, il vettore simbolico della propria distinzione4, è dunque ciò che consente di ottenere la stima e l’ammirazione universali (Smith 1759/1991, p. 288). Gli uomini desiderano ciò che altri desiderano (ricchezza, potere) per ottenere quella “posizione sociale” (Smith 1991, p. 76) che si acquisisce solo attraverso il riconoscimento altrui. Il processo mimetico investe dunque qui pienamente il desiderio stesso, portandoci nel cuore della dinamica girardiana: A desidera C perché B desidera C. I desideri dell’individuo smithiano sono dipendenti dal desiderio dell’altro; e l’oggetto desiderato ha in sé meno importanza della relazione mimetica con l’altro. Non bisogna tuttavia pensare che in Smith ci sia una delegittimazione del self-love e della «corsa alla ricchezza». La dinamica mimetica delle passioni umane è condizione necessaria per lo sviluppo del progresso e del benessere, fondamento prezioso della «ricchezza delle nazioni» (Smith 1759/1991, pp. 247-249). Ciò che però va contrastato sono gli eccessi dell’amore di sé, che contengono pericoli di ordine sociale e morale. Il rischio intrinseco a una manifestazione senza limiti delle passioni è quello di perdere proprio ciò che gli uomini «massimamente desiderano», cioè l’approvazione di quello che Smith chiama lo «spettatore imparziale»: figura rappresentativa di un Io medio sociale capace di giudicare una condotta “appropriata”, cioè socialmente approvabile. Spinto dalla stessa interazione sociale a osservarsi «con gli occhi degli altri» (Smith 1759/1991, p. 150),

217


reset 218

l’individuo smithiano si sdoppia in un sé passionale che agisce e un sé spettatore che giudica, assumendo i criteri di valutazione propri di un terzo, di un immaginario e ipotetico «spettatore imparziale» (Smith 1759/1991, p. 153), il quale esige la moderazione del selflove, pena la sua condanna morale. Il rimedio è dunque interno al self-love e allo stesso meccanismo mimetico: l’amore di sé inteso come corsa alla ricchezza e al potere, tesa a soddisfare la preferenza per se stessi, viene contrastato e corretto dall’amore di sé inteso come desiderio di approvazione e di stima. Gli uomini rinunciano al falso riconoscimento, cioè al riconoscimento inteso, direbbe Taylor, come «lotta per la preferenza» (Taylor 1992/1993, p. 72), foriera di conflittualità sociale e di corruzione morale, a favore del vero riconoscimento, inteso cioè come approvazione e simpatia da parte dell’altro (un altro, abbiamo visto, dotato di parametri di valutazione equi e ispirati dal bene comune). Ma l’idea di vero riconoscimento implica in Smith un ulteriore passaggio, più radicale e sottile, che introduce la necessità di un autoriconoscimento. Non basta, dice Smith, ottenere l’approvazione degli altri. Noi possiamo infatti, come propone Mandeville, simulare una condotta appropriata e rendere possibile un’equilibrata interazione sociale, conservando la consapevolezza di non essere degni dell’approvazione altrui. Ma gli uomini, afferma Smith in aperta polemica con Mandeville (Smith 1759/1991, pp. 422 sgg.), non vogliono solo il riconoscimento esterno, vogliono anche esserne degni; non vogliono solo essere stimati ma stimabili (Smith 1759/1991, p. 154). C’è dunque una potenziale discrasia tra l’approvazione esterna (del man without) e l’autoapprovazione (del man within) che di fatto lascia intravvedere una possibile fuoriuscita dal meccanismo mimetico. Prima ancora del consenso dell’altro, gli uomini vogliono essere certi dell’autoapprovazione, dell’autostima (Smith 1759/1991, pp. 336 ss.), vale a dire di un’approvazione fondata sull’autoriconoscimento del proprio valore e dignità, delle proprie qualità morali (Smith 1759/1991, p. 159). Il vero riconoscimento presuppone dunque una preoccupazione non solo strumentale, ma autenticamente morale per il bene comune, che implica una trasformazione delle passioni e dunque un perfezionamento morale del sé. Inoltre, l’autoriconoscimento

pulcini


incrina il meccanismo mimetico postulando la possibilità di un’identità che si costruisce anche indipendentemente dallo sguardo dell’altro, così da scongiurare i rischi di un eccessivo conformismo. Nonostante tutto questo, non si può tuttavia affermare che Smith arrivi a porre radicalmente in discussione il modello esistente di legame e di ordine sociale, di cui cerca al contrario una più solida legittimazione: l’obiettivo di Smith è in ultima istanza quello di mostrare come la società concorrenziale e competitiva trovi al suo interno il rimedio ai propri eccessi e alle proprie patologie.

autenticità e riconoscimento

reset

5. L’introduzione dell’aspetto critico, che riformula l’idea di riconoscimento a partire da valori altri, consente invece, con Rousseau, di prefigurare una struttura dell’identità e del legame sociale alternativa al modello concorrenziale sancito dalla Political Economy. Il desiderio di riconoscimento, ispirato dalla passione dell’amour propre5, è per Rousseau intrinseco alla formazione stessa della socialità: «Appena gli uomini ebbero cominciato ad apprezzarsi reciprocamente e si fu formata nel loro spirito l’idea di considerazione, ciascuno pretese di avervi diritto; e non fu più possibile mancarne impunemente nei confronti di nessuno» (Rousseau 1755/1970a, p. 326). La nascita delle prime forme di legame sociale dà origine al confronto reciproco e alla competizione, rende gli uomini dipendenti dalla stima e dalla considerazione dell’altro, alimentando così la passione della distinzione (Rousseau 1755/1970a, p. 326): passione originaria e dominante, da cui trae impulso, come già aveva affermato Smith, lo stesso desiderio di ricchezza (Rousseau 1755/1970a, p. 346). L’ansia di distinguersi e di essere riconosciuti spinge gli uomini a desiderare ciò che gli altri desiderano, a cercare di ottenere tutto ciò che, come la ricchezza, è oggetto di considerazione e ammirazione universale, creando così rivalità e inimicizia. Innescando la dinamica mimetica del desiderio, la passione del riconoscimento produce dunque, in prima istanza, quello stato di conflittualità e di disordine da cui nascerà la società ingiusta e di-suguale descritta nel Discorso sull’ineguaglianza. Ma non solo. Essa è all’origine di un’altra patologia che tocca più direttamente l’identità individuale e che consiste, come già

219


reset 220

avevano intuito i giansenisti, nel tradimento di sé da parte del singolo (cfr. Pulcini 2001). Il desiderio di ottenere la pubblica stima spinge infatti gli individui a costruire la propria identità secondo le aspettative e i valori dell’altro, degli altri; li induce a simulare determinate qualità laddove essi non le posseggano, al fine di apparire diversi da quello che realmente sono: «[…] e poiché queste qualità sono le uniche in grado di procurare stima, ben presto bisognò averle o simularle. Per il proprio tornaconto, fu necessario mostrarsi diversi da come effettivamente si era; essere e apparire divennero due cose del tutto diverse; e da questa distinzione scaturirono il fasto che abbaglia, l’astuzia che inganna, e tutti i vizi che ne formano il seguito» (Rousseau 1755/1970a, p. 331). Rousseau radicalizza l’intuizione giansenista facendo dell’opposizone tra l’essere e l’apparire il nucleo stesso di una socialità distorta e di un’identità infedele alla propria più profonda verità; così da conferire al tema della maschera una connotazione decisamente negativa. Dal momento in cui il valore di ognuno viene misurato in base alla stima altrui, l’identità si costruisce a partire dallo sguardo dell’altro, rappresentato da quell’inedito e potente soggetto sociale che è l’«opinione» (Rousseau 1755/1970a, p. 350). In preda alla «furia di distinguersi», l’uomo esce «fuori di se stesso» (ibidem), diventando totalmente dipendente dai desideri e dai giudizi dell’altro, in base ai quali struttura il proprio sé alienandosi da sé. L’esigenza mimetica di essere secondo l’altro, indotta dalla passione per il riconoscimento, produce dunque, a livello propriamente soggettivo, una falsa identità; dando origine inoltre, sul piano sociale, a fenomeni di omologazione e livellamento, come Rousseau intuisce perfettamente nel Discorso sulle scienze e sulle arti (Rousseau 1750/1970, p. 215). Egli coglie qui la genesi di un fenomeno che sarà successivamente al centro della critica tocquevilliana e arendtiana della modernità e della democrazia (Tocqueville 1835-40/1968; Arendt 1958/1964): vale a dire quell’universale conformismo che non solo provoca incertezza e sfiducia reciproca dando luogo a una sorta di civiltà del sospetto6, ma che appiattisce ogni differenza e risucchia l’originalità del sé. Se il riconoscimento richiede la finzione e lo sdoppiamento dell’identità, l’alienazione e l’omologazione che cancella ogni dif-

pulcini


ferenziazione, essere riconosciuti dagli altri equivale dunque, paradossalmente, a rinunciare a se stessi, alla propria autenticità; equivale a tradire il sé originale e autentico.

autenticità e riconoscimento

reset

6. A partire da questa diagnosi, è possibile rintracciare in Rousseau due possibili soluzioni, ancor oggi per noi feconde, tese a prefigurare la possibilità di un vero riconoscimento; nelle quali, è bene precisare subito, egli non si limita, come Smith, a correggere gli eccessi della società competitiva attraverso una formazione morale del sé fondata sull’autoriconoscimento e sul senso della propria dignità, ma presuppone la capacità del sé di porsi emotivamente al di fuori della dinamica sociale esistente. La prima di queste due traiettorie propone di fatto di mutare l’oggetto del desiderio mimetico. Rousseau sembra in questo caso non considerare la possibilità di un desiderio autonomo dalla mimesi, ribadendone la struttura essenzialmente ternaria. È inevitabile che gli uomini vogliano ciò che li rende oggetto dell’ammirazione altrui, che essi desiderino ciò che anche gli altri desiderano: «Tutti vogliono essere ammirati. Questo è il fine ultimo e segreto nella azioni umane. La differenza consiste solo nei mezzi» (Rousseau 1970b, p. 656). Si tratta allora di fare in modo che gli uomini ottengano l’ammirazione degli altri dirigendo le loro preferenze non sulla ricchezza o sul potere, ma sulla “virtù”, vale a dire su oggetti morali: «Si tratterebbe di risvegliare il desiderio e di facilitare il modo di procurarsi con la virtù la stessa ammirazione che oggi riusciamo a procurarci con la ricchezza» (ibidem). Fare della virtù l’oggetto stesso del desiderio significa conferire alla dinamica mimetica una intrinseca moralità che consente di aderire all’opinione senza subirne gli effetti alienanti e falsificanti. Una società giusta non è quella che abolisce l’opinione, ma quella che ne elimina il potere alienante fondandola su valori morali: «Presso tutti i popoli del mondo – dice Rousseau nel Contratto sociale - non è la natura ma l’opinione a decidere della scelta dei loro piaceri. Raddrizzate le opinioni degli uomini e i loro costumi si purificheranno da soli» (Rousseau 1762/1970c, p. 831). Il sé che si conforma a un’opinione retta per ottenerne l’ammirazione e la stima, il sé che desidera e ottiene il riconoscimento dell’altro, non può essere in questo caso che il sé morale, condizione essenziale di una società giusta.

221


reset 222

Rispetto alla visione girardiana di una assoluta indifferenziazione dell’oggetto7, la proposta rousseauiana presenta evidentemente un indubbio interesse, proprio in quanto rivaluta, rispetto alla dinamica mimetica, la non neutralità dell’oggetto del desiderio, la chance della scelta soggettiva. Essa incorre tuttavia in due difficoltà e pericoli che possiamo qui solo accennare: il primo è quello di una circolarità tra l’individuo virtuoso e la società giusta; il secondo è quello di opporre a una falsa omologazione una uniformità morale che comunque rischia di riassorbire le differenze8. A queste difficoltà sembra implicitamente rispondere la seconda soluzione delineata da Rousseau soprattutto negli scritti autobiografici, e fondata sull’idea di autenticità: essa consiste, come ben sottolinea Charles Taylor (Taylor 1991/1994, p. 36), nel riaffermare il diritto alla originalità e alla differenza del sé. Il sé autentico è in prima istanza quello che è in grado di far valere, nell’universo omologante e conformista della società fondata sull’apparire, la propria differenza dall’altro; è quello che, ponendosi al di fuori della dinamica falsante delle passioni societarie, riesce a recuperare - come Rousseau ci lascia supporre attraverso le sue Confessioni - una verità interiore non distorta per la quale esige il riconoscimento degli altri (Rousseau 1782/1969). Questa seconda soluzione ci consente, in altri termini, di intravedere la radicale incrinatura del meccanismo mimetico. Mostrarsi come si è vuol dire saper essere fedeli anche agli aspetti più indesiderati del sé, in quanto in essi può risiedere la fonte stessa della coesione e del senso della propria identità, unica e irripetibile; vuol dire sottrarsi alla tirannia dell’opinione e della mimesi9. Ma se il pericolo della dinamica mimetica è quello del falso riconoscimento, il rischio intrinseco all’etica dell’autenticità è, per così dire, quello di una assolutizzazione della differenza. Il sé autentico rischia in altri termini, come ben mostra lo stesso percorso rousseauiano, di chiudersi in una sorta di soggettivismo autarchico, di rigida coerenza e fedeltà a se stesso che finisce per precludere ogni dialogicità e reale interazione con l’altro. L’immagine del “passeggiatore solitario”, chiuso nello spazio immunitario del proprio isolamento narcisistico è infatti la prima, eloquente espressione di una deriva identitaria destinata a diventare una delle più inquietanti patologie della modernità10. Il rischio del sé autentico è quello di vedere l’altro unicamente come

pulcini


rispecchiamento e conferma della propria identità; così che, desostanzializzando l’altro, l’esigenza di riconoscimento diventa pretesa unilaterale e perde ogni reciprocità. Ciò non vuol dire tuttavia che si debba rinunciare all’idea di autenticità, purché questa significhi, vorrei suggerire, valorizzare l’idea di differenza in un duplice senso: non solo cioè come differenza dall’altro, ma come differenza da se stessi11. Solo un sé capace di ospitare la differenza al suo interno, di riconoscere anche i propri sé virtuali o non attualizzati, può infatti essere capace di riconoscere l’altro nella sua propria differenza e unicità. Il sé autentico è dunque quello che è fedele alla propria origiConfiteor on line. All’interno di Confess (http://www.stewdio.org/confess/), un progetto in fase di sperimentazione nato da un’idea dell’artista Stewart Smith, gli utenti sono invitati a confessarsi dietro la grata del blog, a leggere e valutare le confessioni altrui. Più ci si confessa, più confessioni altrui si possono leggere. Un confessionale senza confessore che invita a essere sinceri, visto che non c’è nessuno a cui mentire (tranne a se stessi) (NIM, newsletter IV, 1 gennaio 2005). Piccoli segreti possono anche essere inviati in cartolina postale formato 10x15 cm., che ognuno può realizzare come meglio crede a patto di osservare le dimensioni prestabilite per porre un freno a confessori incontinenti. Esse vanno poi fisicamente spedite a un indirizzo del Maryland, Usa, e ogni settimana i responsabili del sito post-secret.blogspot.com, provvedono a metterle on-line. Una galleria di piccoli messaggi non-più-segreti per tutti i gusti che, volendo, potete a vostra volta spedire via mail a chi vi pare (nytimes.com).

reset autenticità e riconoscimento

223


vincenzo susca turbamenti della postmodernità intervista a michel maffesoli

nale e differente identità e che legittimamente desidera in questo il riconoscimento dell’altro; ma è anche un sé capace di vedere il carattere contingente della propria identità, sempre passibile di altri sviluppi e di altre configurazioni, indipendentemente dal fatto che queste restino per sempre inespresse e inattualizzate. È un sé capace di riconoscere la differenza dell’altro in quanto è capace di prendere sul serio la pluralità, reale e potenziale, del proprio sé. L’attualità della riflessione rousseaiana consiste dunque nel mostrare la necessità di un intrecco fecondo tra autenticità e riconoscimento. Solo dalla reciproca correzione delle loro patologie è possibile scongiurare il duplice pericolo intrinseco a una loro configurazione unilaterale: nel primo caso quello di assolutizzare la differenza precludendo la possibilità del riconoscimento; nel secondo caso quello di soggiacere alla costruzione mimetica di una falsa identità. note

reset

1 Cfr. il recente numero della “Revue du Mauss”, La Découverte, Paris, n. 23, 2004

224

sul tema “De la reconnaissance. Don, identité et estime de soi”. 2 Ho già trattato questi temi nel saggio Il sé mimetico e il falso riconoscimento, in M. Calloni, A. Ferrara, S. Petrucciani (a cura di), Pensare la società. L’idea di una filosofia sociale, Carocci, Roma 2001, di cui il presente contributo costituisce in parte una rielaborazione. 3 Per «effetti patologici» intendo quegli «sviluppi sbagliati o disturbati», in quanto limitativi dell’autorealizzazione individuale e ostacoli alla «vita buona» che Axel Honneth definisce appunto «patologie del sociale» (Honneth 1996). 4 Su questo cfr. Dupuy-Dumouchel 1979. 5 «…l’amor proprio non è invece che un sentimento relativo, artificioso e nato nella società, che spinge ogni individuo a dare più importanza a se stesso che agli altri, ispira agli uomini tutto il male che si fanno reciprocamente ed è la vera origine dell’onore» (Rousseau 1755/1970a, p. 366). 6 Una chiara allusione a questo aspetto è in Rousseau 1750/1970, p. 215-6.


7 In Girard il desiderio mimetico, generatore di violenza, sfocia nel processo vittimario (o capro espiatorio) che istituisce un legame intrinseco tra la violenza e il sacro (Girard, 1972/1980). Abolendo il potere ordinatore del sacro, la modernità, forte della consapevolezza della logica mimetica introdotta dal messaggio cristiano, rompe questo legame e apre evidentemente spazi di libertà; ma essa diventa preda di una illimitatezza del desiderio non più contenibile attraverso la dialettica del sacro e dunque sempre più esposto allo scacco e a un’infinita reiterazione, indifferente all’oggetto. Il desiderio illmitato reintroduce in una nuova forma la violenza mimetica a cui, secondo Girard, è possibile sottrarsi solo attraverso l’amore quale dimensione totalmente altra rispetto alla violenza. 8 Su questo rischio, cfr. Taylor 1992/1993, pp. 73-74. 9 Significativi in maniera esemplare, in questo senso, sono i due percorsi di Julie nella Nuova Eloisa e di Emilio (Rousseau 1762/1981, 1761/1992) entrambi caratterizzati, al di là delle profonde differenze, da un difficile percorso emotivo teso al recupero, contro le distorsioni socialmente prodotte, dell’autenticità del sé. 10 Sulle degenerazioni narcisistiche dell’autenticità, cfr. Taylor 1991, che però non ne individua le radici nello stesso Rousseau. Coglie invece pienamente il nesso autenticità/narcisismo, all’interno della stessa riflessione rousseauiana, Richard Sennett (Sennett 1976); il quale peraltro sostiene un punto di vista interessante nel contesto di queste mie proposte interpretative, in quanto teorizza – in direzione opposta a quella rousseauiana - il carattere positivamente socializzante della maschera. 11 Nel proporre questo concetto seguo una linea di pensiero che va da Georges Bataille a Maurice Blanchot, a Jacques Derrida e che qui posso solo rapidamente richiamare. Mi limito a rimandare alla mia Introduzione al Dispendio di G. Bataille (Bataille 1933/1997).

riferimenti bibliografici

reset

Arendt H. 1958, The Human Condition, University of Chicago Press; tr. it. Vita activa, Bompiani, Milano 1964. Bataille G. 1933, La notion de dépense; tr. it. Il dispendio, a cura di E. Pulcini, Armando, Roma 1997. Berger P. 1973, On the Obsolescence of the Concept of Honour, in P. Berger-B. Berger-H.Kellner, The Homeless Mind. Modernisation and Consciousness, Random House, New York. Crespi F. 2004, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari. Dupuy J.P. - Dumouchel P. 1979, L’enfer des choses. René Girard et la logique de l’économie, Seuil, Paris. Frazer N. 1999, La giustizia sociale nell’era della politica dell’identità: redistribuzione, riconoscimento e partecipazione, in “Iride”, Il Mulino, n. 28. Girard R. 1961, Mensonge romantique et vérité romanensque, Grasset, Paris; tr. it. Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1981. Girard R. 1972, La violence et le sacré, Grasset, Paris; tr. it. La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980.

225


reset 226

Hobbes Th. 1640/1985, Elements of Law Natural and Politic; tr. it. Elementi di legge naturale e politica, La Nuova Italia, Firenze. Hobbes Th. 1641/1987, Leviathan; tr. it. Leviatano, La Nuova Italia, Firenze. Honnet A. 1993, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica posttradizonale, Rubbettino, Messina. Honnet A. 1996, Patologie del sociale. Tradizione e attualità della filosofia sociale, in “Iride”,Il Mulino, n.18. Honnet A.1992, Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp; Frankfurt a/M; tr. it. Lotta per il riconoscimento. Sulla grammatica morale dei conflitti sociali, Il Saggiatore, Milano 2002. La Rochefoucauld F. de 1678/1978, Maximes; tr. it. Massime, Rizzoli, Milano. Lazzeri Ch. Caillé A. 2004, La reconnaissance aujourd’hui.Enjeux du concept, in “Revue du Mauss”, La Découverte, Paris, n. 23. Macpherson C.B. 1962, The Political Theory of Possessive Individualism, Clarendon press, Oxford; tr. it. Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, Isedi, Milano 1973. Mandeville B. 1723/1987, The Fable of the Bees; tr. it. La favola delle api, a cura di T. Magri, Laterza, Roma-Bari. Pascal B. 1670/1986, Pensées; tr. it. Pensieri, a cura di F. Masini, Ed. Studio tesi, Pordenone. Pulcini E. 2001, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame socale, Bollati Boringhieri, Torino. Ricoeur P. 2004, Parcours de la reconnaissance, Editions Stock, Paris. Rousseau J.J. 1782/1969, Les confessions; tr. it. Confessioni, Einaudi, Torino. Rousseau J.J. 1750/1970, Discours sur les sciences et les arts; tr. it. Discorso sulle scienze e le arti, in Scritti politici, a cura di P. Alatri, Utet, Torino. Rousseau J.J. 1755/1970a, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité; tr. it. Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, in Scritti politici, cit. Rousseau J.J. 1970b, L’onore e la virtù, Frammenti politici, in Scritti politici, cit. Rousseau J.J. 1762/1970c, Le contrat social; tr. it. Il contratto sociale, in Scritti politici, cit. Rousseau J.J. 1981, Emile, 1762; tr. it. Emilio, Armando, Roma. Rousseau J.J. 1761/1992, Julie ou la nouvelle Héloïse; tr. it. Giulia o la Nuova Eloisa, a cura di E. Pulcini, Rizzoli, Milano. Sennet R. 1976, The Fall of Public Man, Norton, New York; tr. it. Il declino dell’uomo pubblico, Bompiani, Milano 1982. Smith A. 1759/1991, Theory of Moral sentiments; tr. it. Teoria dei sentimenti morali, a cura di A.Zanini, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma. Taylor Ch. 1992, Multiculturalism and the Politics of Recognition, Princeton Univ. Press; tr. it. Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano 1993. Taylor Ch. 1991, The Malaise of Modernity, Canadian Broadcasting Corporation; tr. it. Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994. Tocqueville A. de 1935-40/1968, La démocratie en Amérique; tr. it. La democrazia in America, in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, 2 voll. Utet, Torino, vol. II. Young M.I. 1990, Justice and the Politics of difference, Princeton; tr. it. Le poli-

susca


tiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996.

reset intervista a maffesoli

227


reset 228

Si è da poco (gennaio 2005) tenuto alla Sorbona il convegno celebrativo dei sessanta anni di Maffesoli, in cui il CeaQ (Centro Studi sull’Attuale e il Quotidiano), da lui diretto, gli ha dedicato il libro Derive autour de l’oeuvre de Michel Maffesoli (L’Harmattan, Paris): accanto ai riconoscimenti dei suoi allievi, sono presentati saggi e pensieri di prestigiosi studiosi del nostro tempo vicini alla sua sensibilità intellettuale (Durand, Morin, Moscovici, Ferrarotti, Dorfles). In Francia è appena stato pubblicato, accompagnato da entusiasmi e alcune accese critiche sulla stampa, il suo ultimo libro Le rythme de la vie. Variations autour de la sensibilité postmoderne (La Table Ronde, Paris), attraverso il quale convergono in una morbida griglia di lettura – diremmo “fanno sistema” se non sapessimo che Maffesoli non crede alle sistematizzazioni – le intuizioni e le metafore elaborate dall’autore negli ultimi trent’anni: il «radicamento dinamico», il «tribalismo», la «violenza fondatrice», «la conquista del presente», il ritorno del «dionisiaco», l’esplosione «dell’immaginario», la «trasfigurazione del politico» sono i tasselli del mosaico che disarticola gli assi della cultura occidentale e delinea l’avvento delle società postmoderne. In Italia l’allievo di Gilbert Durand suscita meno polemiche rispetto a ciò che accade in Francia, dove buona parte dell’accademia nazionale preferisce eludere tutta una serie di questioni e provocazioni della sua opera, mentre una solida e crescente nicchia di intellettuali è da tempo entrata in relazione con il suo pensiero (Abruzzese, Ferrarotti, Macioti, Curcio, Semeraro, Dorfles, Marramao, Lalli). La sociologia della comunicazione e dell’immaginario sono le aree di studio che hanno mostrato nel nostro paese una maggiore permeabilità alla sensibilità maffesoliana. A tal proposito è da poco sorto a Roma, diretto da Alberto Abruzzese, l’IRIS (Istituto di Ricerca Immaginario e Società), con il dichiarato intento di inaugurare una costante interazione tra la consolidata corrente di studi francese e la nascente sociologia dell’immaginario italiana. La recente pubblicazione in Italia di alcune tra le più importanti opere maffesoliane, La parte del diavolo, L’istante eterno (Luca Sossella Editore, Roma 2003), la riedizione del Tempo delle tribù (Guerini, Milano 2004), l’intervento dell’autore francese sulla dibattuta questione berlusconiana (in Tutto è Berlusconi, Lupetti, Milano 2004), la sua presa di posizione sul legame tra la crisi della democrazia e la diffusione sociale dei nuovi media e della cybercultura (in Immaginari postdemocratici, Lupetti, Milano 2005), nonché la pubblicazione

susca


del suo agile libro-manifesto Sulla postmodernità (Lupetti, Milano 2005), testimoniano che il panorama scientifico italiano non è sordo di fronte all’eco internazionale sollevata dal pensiero dell’autore francese. È arduo, d’altra parte, incasellare Michel Maffesoli in uno dei compartimenti dove si conserva in modo spesso autoreferenziale l’intellighenzia europea. Docente di Sociologia alla Sorbona di Parigi nella cattedra che fu di Émile Durkheim, tradotto nei più importanti paesi (soprattutto negli Usa, in Europa, in Giappone, Corea e Brasile) e insignito da poco dal Presidente della Repubblica Francese della Legione d’Onore, il suo “pensiero radicale” sfugge ai molti conformismi intellettuali e suggerisce, a fronte di una vasta schiera di nostalgici dell’élite sapienziale, di restituire dignità a chi si accontenta di “vivere” la società piuttosto che a chi continua a “pensarla” e a volerla dirigere. È uno degli intellettuali europei maggiormente disposti a interpretare i fermenti della postmodernità scevro da una griglia di lettura oscura e tendenzialmente apocalittica, assumendo come centrali i dati maggiormente marginalizzati dal pensiero moderno: l’immaginario e la vita quotidiana. L’anomia sociale, la saturazione del mito del lavoro e della produttività, il rifiuto dell’autorità e delle chiese istituzionalizzate, la rinascita di forme di vita sensibili legate all’aspetto ludico ed edonistico dell’esistenza, testimoniano secondo l’autore l’avvento di una sensibilità che riscopre, al di là del bene e del male, nel suo aspetto banale e insieme tragico, la gioia di dire «sì alla vita». Professor Maffesoli, in Italia, e a dire il vero anche in Brasile, il suo lavoro è particolarmente apprezzato e divenuto “strumentale” a chi si occupa di comunicazione, tanto che a maggio l’Istituto per lo Studio dell’Innovazione nei Media e per la Multimedialità, in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia e Comunicazione dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ha organizzato una presentazione-dibattito del suo libro La parte del diavolo. Come si spiega questo interesse?

intervista a maffesoli

reset

MM: Mi fa piacere aver avviato una collaborazione con istituti e ricercatori che in Italia si occupano di comunicazione. Proprio nell’occasione che lei ricorda ho avuto modo di ascoltare interessanti disquisizioni sulla sociologia della comunicazione, che testi-

229


moniano quanto l’Italia sia un paese all’avanguardia per ciò che concerne questi studi. Mi hanno sempre dato un po’ fastidio le forti separazioni disciplinari. L’accademia avverte la tentazione di tagliare e dividere rigidamente ciò che invece non può essere così brutalmente distaccato. Per quanto mi riguarda, per esempio, ho difficoltà a essere riconosciuto semplicemente come sociologo, filosofo o antropologo. In breve, credo sia necessario iniziare a oltrepassare le barriere disciplinari e i loro dogmatismi. D’altra parte, per tornare alla sua domanda, come sa – facendone parte – c’è un gruppo di ricerca del CeaQ, il Gretech (Gruppo di Ricerca sulle Tecnologie e il Quotidiano), coordinato da Federico Casalegno e Stéphane Hugon, che ha da poco celebrato i dieci anni e si occupa proprio degli usi sociali e dell’immaginario legati alla sfera della comunicazione. Le loro ricerche hanno applicato, verificato e dimostrato quanto alcune delle mie prospettive teoriche fossero indicate per interpretare alcuni processi socio-comunicativi.

reset

VS: Nel suo ultimo libro pubblicato in Italia, Sulla postmodernità, dedica particolare attenzione alla comunicazione. Mi sembra, a tal proposito, molto interessante il passaggio in cui lei sostiene che nelle società postmoderne «la comunicazione diviene comunione». Che cosa intende dire e quali sono le conseguenze culturali di uno slittamento così forte?

230

MM: La comunicazione – e paradossalmente in misura maggiore i processi comunicativi sostenuti dai nuovi media – è un forte veicolo di elementi arcaici marginalizzati dalla modernità. Non si riesce ancora a cogliere quanto le “cose” di cui parliamo siano strumenti attraverso i quali riavviamo un processo di radicamento dinamico con le persone, la terra e gli oggetti che ci circondano. Tanto la modernità ha assegnato centralità alla dimensione economica, razionale e politica dell’esistenza, quanto oggi si ritorna alla “cultura” nel senso più ampio del termine. Il secolo che si annuncia pone l’accento proprio sugli aspetti legati alla “cultura immateriale” e all’immaginario. La comunicazione assume quindi nel XXI secolo la funzione che in passato hanno svolto l’economia e la sociologia; diviene il fattore di riconoscimento e di identificazione, nonché l’elemento sacro attorno al quale le comunità si fondono e vibrano insieme: in breve, l’elemento strutturale dell’essereinsieme postmoderno.

susca


VS: Nei suoi testi vengono citati numerosi prodromi e differenti radici del fenomeno postmoderno. Ricordo un passaggio particolarmente curioso – per la verità piuttosto en passant – in cui lei rintraccia negli anni Sessanta la fase più importante della saturazione della modernità. MM: In effetti credo che nel corso di quel decennio si sia realizzata in maniera evidente la cesura della quale scrivo da molti anni. È bene sottolineare, d’altra parte, che non si tratta di uno stacco netto: i cambiamenti sociali non si realizzano mai all’improvviso e sono sempre espressioni di onde lunghe. Le rivolte giovanili hanno reso visibile in modo parossistico una forza che da tempo abitava l’immaginario collettivo, che si stava pian piano delineando nelle viscere del suo vissuto. Probabilmente già prima della Prima guerra mondiale la modernità era satura senza esserne cosciente. A ben vedere si inizia a parlare di “modernità” alla fine del Settecento e questo termine già indica qualcosa di vecchio! Nell’intervallo tra le due guerre mondiali la crisi della modernità si inasprisce e inizia a toccare punte che ne lasciano presagire il definitivo declino. Basti a proposito ricordare due importanti manifestazioni – non a caso provenienti dal bacino dell’immaginario: i travagli artistici delle avanguardie, in particolare il dadaismo, il surrealismo e il futurismo e, soprattutto, la grande opera di Musil L’uomo senza qualità. Tali pulsioni segnalano e producono la grande crisi dei valori sui quali l’occidente, e in particolare l’Europa, si sono fondati. La loro forza attrattiva inizia ad appannarsi e a entrare in una spirale irreversibile. La rivolta degli anni Sessanta rappresenta quindi la manifestazione di una serie di stati d’animo da tempo sedimentati, contro la modernità e i suoi assi portanti: la ragione astratta, l’economia e il politico. VS: Eppure le rivolte sessantottine sono state interpretate da più parti come manifestazioni eminentemente “politiche”, politicizzazione e appropriazione del politico da parte di segmenti fino ad allora estranei e marginalizzati dai protagonisti della sfera pubblica.

intervista a maffesoli

reset

MM: Sto iniziando a perdere il gusto della polemica, eppure sento di dover sottolineare che quanto lei indica, in effetti, testi-

231


monia che i tre quarti degli intellettuali europei sono in ritardo di una vita rispetto a ciò che accade “nella vita”. Ragionano ancora con le categorie dell’Ottocento e le impongono come valide e attuali! Mi sembra un errore mastodontico vedere nel Sessantotto una rivolta “politica”. Dobbiamo scrollarci di dosso l’ossessione del politico! Sì, è vero, questo aspetto è presente in quel movimento, ma non è assolutamente il suo perno. Ricordo personalmente ciò che è successo in quegli anni anche perché a Strasburgo ho partecipato sul campo all’evolversi dei fatti. In effetti, ciò che sembrava solo politica era in realtà cultura. È stata la rivoluzione culturale di quella che chiamo la vita “societale” nel vero senso della parola (spogliando questa formula dei suoi retaggi maoisti). Come ci ha insegnato Shütz, quando assistiamo a cambiamenti di civilizzazione e non riusciamo a descriverli, ci salviamo ricorrendo alle categorie che ci servivano a interpretare il passato. Questo è successo agli osservatori sociali che hanno spiegato – o che hanno voluto piegare – il Sessantotto.

reset

VS: Mi sembra che l’ultimo film di Bertolucci, The dreamers, ambientato proprio nella Parigi di quegli anni, rilegga i movimenti giovanili proprio alla luce delle chiavi di lettura – al di là del politico – da lei indicate. La liberazione dei costumi sessuali, l’aspetto passionale e ludico del vissuto giovanile vengono messi in scena come il substrato della rivolta, il suo cuore. Proprio questa interpretazione ha causato a Bertolucci una scomunica da parte di molti…

232

MM: È un atteggiamento tipico degli intellettuali, dei loro dogmatismi e delle loro sette: scomunicare quanti non accettano di essere “detti” dai loro schemi e non si rivedono nelle loro narrazioni progettuali. Spesso l’industria dell’immaginario riesce a dire ciò che sfugge a chi interpreta il reale a partire dalle astrazioni universalizzanti e dalle categorie del passato, a chi non accetta la società in quanto tale e vuole imprimerle una marcia indipendente dai suoi desideri e dal suo “essere più profondo”, ciò che chiamo la sua centralità sotterranea. Per ritornare al film di Bertolucci, mi sembra pertinente sottolineare il ruolo giocato dall’erotica societale nella sfida all’ordine costituito. Da parte mia, con L’ombra di Dioniso [Garzanti, 1990], ho tentato di mettere in luce quanto l’immaginario postmoderno possa essere spiegato bene proprio a

susca


partire da una sociologia dell’orgia, ovvero da una riconsiderazione radicale degli aspetti erotici, passionali e talvolta oscuri che segnano le pratiche dell’essere-insieme. Credo che ad agire da prodromi alla contestazione del Sessantotto ci siano fondamentalmente la liberazione e la riscoperta della sessualità, la contestazione del politico, dell’ordine borghese e della sua concezione rigida e patriarcale della famiglia, nonché un profondo modo di vivere e di riconsiderare le situazioni della vita quotidiana. Non è un caso che il movimento situazionista agisse proprio attraverso la ricostruzione e la messa in scena di situazioni inedite, così come riappropriandosi del territorio e sperimentando forme di azione/conoscenza basate sulla psicogeografia. Le rivolte giovanili, è bene ripeterlo, manifestano durante gli anni Sessanta una serie di malumori e sensibilità che erano presenti anche prima e che, ancor di più, si stavano progressivamente sedimentando ed espandendo nel corpo sociale. Senza andare troppo indietro, possiamo cogliere negli anni Cinquanta alcuni segnali dello slittamento di cui ci stiamo occupando. Mi riferisco, per esempio, all’emersione e al successo del design (tra l’altro un campo in cui l’Italia ha rappresentato un’eccellenza produttiva e creativa), che pone in secondo piano la funzionalità degli oggetti rispetto alla loro estetica: le pentole iniziano a diventare belle! Anche l’architettura ci segnala un evidente cambiamento culturale in corso d’opera. Basti pensare al postmodernismo architettonico e all’opera dell’italoamericano Franco Venturi che, senza dichiararlo esplicitamente e probabilmente senza esserne profondamente coscienti, operavano una forte critica contro l’architettura funzionale del Bauhaus. Il costruire diviene quindi un’arte e, in maniera ben più significativa, l’abitare stesso e la vita quotidiana divengono manifestazioni dotate di un’aura artistica.

intervista a maffesoli

reset

VS: Nei suoi testi, in effetti, compaiono una lunga serie di riferimenti non strutturati a suggerire molteplici radici della cultura postmoderna. In alcuni casi possiamo ritrovare l’appena dibattuta questione degli “anni Sessanta”, in altri indica di considerare con attenzione la parabola del surrealismo, mentre in un paio di occasioni segnala i poeti maledetti come i grandi precursori della postmodernità. Sebbene ognuno di questi esempi si presti bene a indicare le caratteristiche strutturanti dell’immaginario postmoderno, mi sembra sfuggire il filo conduttore che li collega.

233


MM: Come spesso accade, io mi occupo di tracciare un quadro e lascio a voi ricercatori il compito di disegnarlo e approfondirne i contorni. Nel corso degli anni il CeaQ ha utilizzato, applicato e per certi versi aggiornato una serie di indicazioni che ho fornito nei miei testi. Penso alle ricerche di Casalegno sulla cybersocialità, a quella di Hugon sulle tribù parigine, al gruppo di studio sulla musica techno e alle analisi di Hampartzoumian, Pourtau e Petain. Per non dilungarmi troppo, non credo alle rigide sistematizzazioni teoriche e agli schematismi intellettuali; preferisco dare il la a una serie di riflessioni e seguirne curioso i risultati. Per ciò che concerne la sua domanda, credo si possa delineare una sorta di “legge” sociale: la “logica ternaria”. Ogni grande mutamento di civilizzazione si realizza e manifesta attraverso tre fasi: l’ordine 1) del segreto, 2) del discreto e 3) del manifesto. Per quanto riguarda la postmodernità, il romanticismo e poi soprattutto i poeti maledetti rappresentano la prima fase – ricordiamo bene che in quel periodo l’obiettivo primario era sovvertire e dissacrare l’ordine borghese, in Francia si diceva “épater le bourgeois” (scioccare il borghese); le avanguardie artistiche tra le due guerre, soprattutto il dadaismo, il surrealismo e il futurismo la seconda; l’onda culturale degli anni Cinquanta-Sessanta la terza. All’inizio l’idiosincrasia con il moderno resta in una dimensione segreta e di nicchia; pian piano, con discrezione, si palesa e inizia a estendere i suoi malumori verso segmenti più ampi del corpo sociale, così come le sue critiche all’ordine valoriale e sistemico egemonico tendono a socializzarsi; infine il suo immaginario e la sua sensibilità si capillarizzano nel vissuto collettivo e vengono manifestati apertamente, talvolta con crudezza o in modo scandaloso.

reset

VS: Lei è stato uno dei primi sociologi, con McLuhan, a segnalare ciò che ormai sentiamo dire da diverse voci: il ritorno del tribalismo e del nomadismo nelle nostre società. Mi sembra curioso il fatto che siate arrivati a indicare e in un certo modo a prefigurare lo stesso scenario partendo da due sensibilità intellettuali e da riferimenti bibliografici totalmente differenti.

234

MM: In effetti Marshall McLuhan, sebbene con alcune variazioni, ha parlato di nomadismo e di tribalismo qualche anno prima di me.

susca


Devo dirle che nel momento in cui ho scritto Il tempo delle tribù ancora non conoscevo bene l’opera mcluhaniana. Mi sono reso conto solo dopo delle affinità elettive che mi legavano al sociologo canadese. D’altra parte come lei ha detto siamo partiti da riferimenti differenti e anche da oggetti d’analisi distanti tra loro. In ogni modo poco importa: ciò che conta è sapere e volere riportare fedelmente le trasformazioni che il corpo sociale ci segnala attraverso le dinamiche che ne scandiscono la vita quotidiana. VS: Fino a che punto la diffusione sociale delle reti, penso in particolare a internet, conferma la prospettiva interpretativa che lei ha proposto, ben prima della loro invenzione, a partire dal 1988? MM: Le reti sono già diventate, in effetti, il palcoscenico in cui si esibiscono e talvolta prendono forma i differenti tribalismi che segnano il nostro tessuto sociale. Esse sostengono e accelerano la grande mutazione di topica che accompagna il passaggio alla postmodernità: dalla verticalità all’orizzontalità; testimoniano apertamente quanto le società contemporanee non facciano più perno sull’individuo razionale padrone di sé e del mondo, ma su microaggregazioni sociali in cui il sé si perde nell’altro e si scioglie nelle differenti tribù di cui fa parte. La sua domanda trova una risposta ancora più precisa nei lavori portati avanti dal Gretech, che hanno ben dimostrato quanto lo sviluppo tecnologico stia dando vita a una fruttuosa sinergia con il ritorno dell’arcaico, con l’esplosione dell’immaginario e con la proliferazione di forme di aggregazione neotribali.

intervista a maffesoli

reset

VS: Per ciò che concerne gli effetti socio-antropologici della società in rete e della diffusione dei nuovi media interattivi e on line assistiamo a una divisione piuttosto netta degli osservatori sociali: da una parte abbiamo chi, come per esempio Castells, Lévy o De Kerckhove, sostiene che tale scenario prefiguri una nuova società tendenzialmente più informata, democratica e intelligente; dall’altra, chiaramente con differenti variazioni, quanti – per esempio Bréton, Wolton o Baudrillard – sostengono che la nuova media-sfera porti con sé la fine del sociale, la morte della realtà o la dittatura della tecnica. Qual è la sua posizione?

235


MM: Senza dubbio la mia prospettiva teorica mi avvicina più ai primi che ai secondi. Pur non essendo uno specialista del settore, mi sembra che l’interattività e l’orizzontalità delle reti favoriscano forme di socialità in grado di ribaltare la struttura piramidale della modernità, la sua tendenza a oscurare le diversità e a inscrivere i soggetti sociali in progetti a lungo termine decisi in nome dell’ideologia e della ragione astratta. La tecnologia ha dato vita a un paradosso interessante: è stata in principio il mezzo attraverso il quale disincantare il mondo, mentre diviene nella postmodernità uno dei fattori scatenanti di quello che chiamo il «reincanto del mondo». Allo stesso tempo credo che i ricercatori che lei ha citato, e in genere larga parte degli studiosi ottimisti del cyberspazio, pongano l’accento un po’ troppo sugli aspetti relativi all’aumento dell’intelligenza delle nostre società. A mio avviso il fenomeno si lega anche, e forse in misura preponderante, alla dimensione emozionale dell’esistenza, al pensiero del ventre piuttosto che a quello del cervello. VS: Uno dei pensatori contemporanei che sottolinea la portata innovativa insita nei mondi e nei linguaggi digitali in rete è Pierre Lévy, il quale sostiene che attraverso «l’intelligenza collettiva» sia possibile attualizzare e portare a compimento il progetto illuminista. È d’accordo con questa interpretazione?

reset

MM: Il merito di Pierre Lévy e di altri studiosi come De Kerckhove o Castells è di scrutare l’evoluzione sociale e culturale legata ai nuovi media senza l’abituale timore verso la tecnica, quindi al di là della logica secondo la quale essa sarebbe semplicemente impo-

236


Bauman, Vite di scarto

[a. s.] gli scarti di bauman

I rifiuti sono il segreto oscuro e vergognoso di ogni produzione di cui si preferirebbe non parlare affatto; di cui si vorrebbe appunto che rimanesse un segreto.

sta dall’alto e produrrebbe nient’altro che istupidimento, asservimento e alienazione. La postmodernità è caratterizzata da una veloce e astuta tendenza alla riappropriazione sociale – détournement – delle tecnologie e più in generale del sistema degli oggetti. Mi sembra però poco convincente e semplicistico affermare che la cybercultura possa prendersi carico e realizzare i progetti elaborati nel corso del XVIII secolo. Se parliamo di mutazione antropologica dobbiamo iniziare a sbarazzarci delle categorie del passato e a trovare i termini meno falsi possibile per descrivere la nostra contemporaneità. I miti del progresso e della ragione – capisaldi della modernità prometeica – non giocano più un ruolo centrale nella postmodernità nascente, che rivaluta invece l’aspetto presenteista, emozionale e sensibile dell’essere-insieme. I nuovi tribalismi e le pratiche societali della vita quotidiana non sono inscritti in nessun progetto che vada al di là di ciò che è “qui e ora”, rifiutano ciò che è “detto” dall’esterno del corpo sociale e qualsiasi proiezione in un futuro ideale. VS: Manuel Castells nei suoi ultimi lavori annuncia e sistematizza l’avvento della società in rete. Le sembra una prospettiva interessante?

reset

MM: La reticolarizzazione dei rapporti sociali è una realtà ormai difficilmente contestabile, così come la centralità

237


dell’informazione e della comunicazione. Anche in questo caso bisogna però non dimenticare di assegnare il giusto peso agli elementi più trascurati, e a mio avviso più importanti, dello sviluppo delle reti. Dobbiamo quindi oltrepassare le barriere del moralismo e prendere atto di ciò che la società è al di là del bene e del male. Per ciò che riguarda internet, per esempio, sappiamo che più del 60% del traffico è dedicato al sesso, alla religione, alle “chiacchiere” e alle esperienze comunitarie. Ciò dovrebbe suggerirci, un’altra volta, quanto la rete sia un efficace mezzo di messa in scena degli elementi arcaici – delle strutture antropologiche – dell’immaginario e dell’esistenza. Anche in rete l’ombra di Dioniso è preponderante! Siamo pronti a sostenere che anche – e forse soprattutto – questi aspetti costituiscono i cardini della società in rete? Conosco bene il background di Manuel Castells, dato che sono stato il presidente della sua giuria quando sostenne la tesi di dottorato alla Sorbona. Ricordo che era un allievo di Alain Touraine, il quale mi chiese di presiedere alla sua discussione. La sua sociologia urbana era segnata da una forte impostazione marxista, per cui al tempo mossi molte critiche alla tesi. Mi sembra che nel corso del tempo il suo pensiero si sia piuttosto evoluto da alcune rigide impostazioni iniziali…

reset

VS: Ormai da un decennio si sono sviluppati interessanti intersezioni e dialoghi tra la sua sociologia dell’immaginario e la sociologia dei media elaborata da Alberto Abruzzese. Mi sembra ci siano molte curiose affinità tra le vostre opere, nonostante partiate da differenti oggetti di analisi e da riferimenti bibliografici non sempre coincidenti. Ciò che probabilmente vi avvicina maggiormente è la tendenza ad assegnare dignità euristica, e a cogliere la portata affermativa, delle forme sociali apparentemente banali, effimere e di “cattivo gusto”. Abruzzese in Analfabeti di tutto il mondo uniamoci suggerisce che le reti e i nuovi media digitali sostengono e accelerano l’emersione di una soggettività estranea ai linguaggi e ai poteri del moderno, e quindi potenzialmente pericolosa nei confronti dell’ordine costituito. Condivide questa lettura?

238

MM: L’intuizione di Abruzzese mi sembra pertinente. D’altra parte facciamo parte di una generazione che non può non prendere atto delle opportunità offerte a una larga fetta del corpo socia-

a.s.


le dalle nuove tecnologie della comunicazione. Ai tempi nostri conquistare conoscenza e informazione era un’impresa ben più improba e ora, invece, tanti “senza parola” e “senza diritti” possono invadere e appropriarsi di territori e di saperi prima lontani e intoccabili. La tecnica sta uscendo dalla logica che l’ha concepita e progressivamente si apre agli usi e alle riappropriazioni sociali, spesso imprevedibili e altre volte assolutamente non desiderati dai padroni della società. Ecco l’espressione della saggezza dionisiaca intrinseca al corpo sociale! Per questo credo che l’immaginario postmoderno porti con sé una carica potenzialmente sovversiva. VS: Inevitabilmente a questo punto la nostra conversazione si sposta sulla dimensione politica. A tal proposito lei ha avanzato nel saggio Dall’astrazione all’emozione, che apre il volume Immaginari postdemocratici, una provocazione piuttosto roboante, affermando che bisogna iniziare a pensare «al di là della democrazia». Come immagina un’espressione del genere si apre a molteplici interpretazioni e suscita reazioni non sempre entusiaste…

gli scarti di bauman

reset

MM: In effetti si tratta di una provocazione, ma nel senso etimologico del termine “provocare”: fare uscire, tirar fuori. La democrazia è un modo di intendere la società e il potere che si lega inestricabilmente alle forme di vita moderne, e in particolare alla disposizione del sociale a essere rappresentato. Dobbiamo avere il coraggio di affermare che la “rappresentanza” politica non si concilia con le caratteristiche delle società postmoderne, le quali sostituiscono la “rappresentazione” del sociale con la sua “presentazione”, la proiezione in un ideale astratto con l’identificazione in ciò che appartiene all’ordine del “vicino” e – ripeto il titolo del mio saggio – l’astrazione con l’emozione. La democrazia è ormai divenuta un’antifrasi: si è trasformata in una cosa di pochi mentre originariamente designava il potere di tutti. Non è un mio compito e non sono in grado di dire precisamente cosa si stia sostituendo ad essa. Nel mio libro La transfiguration du politique ho usato la metafora della casa, suggerendo il ritorno a una sorta di condizione “domestica” del politico. Ciò indica la necessità di rivalutare, in luogo della prospettiva economica, una sensibilità “ecologica”, che ci rimanda a un nuovo equilibrio organico in cui si sviluppa un radicamento dinamico, una riconciliazione con l’altro

239


da sé (gli uomini, la terra, gli oggetti). L’ordine del politico è ovunque in crisi. In Francia e nei maggiori paesi dell’occidente il tasso di astensionismo è altissimo e, dato ancora più indicativo, coinvolge in misura massiva le fasce giovanili. Non ci si sente più rappresentati dal politico e dai suoi differenti avatar. D’altra parte il divenir antifrasi dell’ordine democratico è uno degli elementi autodistruttivi del sistema stesso. Pensando al caso Italiano l’antifrasi si manifesta in modo ancora più parossistico: come è possibile che la difesa delle libertà e della democrazia siano affidate a Berlusconi? In questo senso, per tornare alla mia provocazione, bisogna seguire la trasfigurazione del politico accettando prima, tentando di comprendere poi, la saturazione del modello democratico moderno.

reset

VS: Quando parla delle forme societali che nascono dal basso e dal vissuto quotidiano, dei nuovi modelli di anomia sociale, dei segnali di allontanamento dal politico e di superamento dell’ordine moderno, usa il termine “sovversione” piuttosto che “rivoluzione”. Mi sembra si possa proporre un interessante confronto tra il modo il cui, lei da una parte, Antonio Negri e Michael Hardt dall’altra, descrivete la forma prevalente di aggregazione sociale e la sua tensione verso il politico. Lei propone la coppia tribùsovversione, i secondi quella moltitudine-rivoluzione. Credo la differenza non sia poi così sottile…

240

MM: Niente affatto, si tratta di due modi differenti di leggere e destinare il fenomeno in esame. Mi sembra che gli autori che cita interpretino gli eventi e le forme sociali del XXI secolo con le stesse categorie elaborate da Marx nel e per il XIX! Per descrivere l’atteggiamento che Negri e Hardt tengono, in Francia diremmo che tentano di salvare i mobili durante il terremoto! In termini sostanziali, la moltitudine mi sembra nient’altro che un nuovo modo di mascherare quella che un tempo era considerata la massa, mentre la “rivoluzione” immaginata (più che potenziale) è l’estremo tentativo di ridurre all’ordine del politico ciò che non è più politico, ciò che va al di là del politico. Uno dei grandi problemi degli intellettuali contemporanei risiede nel non voler riconoscere la società per ciò che realmente è; di volerla vestire di abiti inadatti alla sua pelle. Le tribù postmoderne, gli assembramenti emozionali attraverso i quali esse si fondono e si riconoscono – le feste

a.s.


techno, gli incontri sportivi, le grandi occasioni di consumo, i nuovi miti dello spettacolo – sono la cartina di tornasole della postmodernità nascente. Le nuove tribù non si inscrivono nell’ordine del politico, lo scansano, eludono e spesso dissacrano attraverso la beffa e l’ironia. Eppure in tutto ciò – nell’immaginario postmoderno e nei suoi elementi sovversivi – c’è qualcosa di profondamente politico…

reset gli scarti di bauman

241


reset 242

Impegnato da tempo nello scandaglio degli effetti prodotti dalla globalizzazione sulle persone, Bauman si concentra ora su uno dei suoi aspetti più cruciali, ossia sul fatto che l’accresciuta capacità di produzione materiale e immateriale che essa favorisce grazie a uno sviluppo tecnologico illimitato, lasci ai margini un bel pezzo di umanità, e non solo perché interi continenti restano esclusi dalle economie di rete, ma perché la nuova organizzazione e la distribuzione sociale del lavoro produce scarti, rifiuti in proporzioni mai conosciute nei paesi più industrializzati. Le difficoltà di smaltimento dei rifiuti è ormai una questione di portata planetaria e le possibilità del riuso e del riciclaggio, che pure costituiscono l’epicentro di un’attenzione ecologica, sono allo stato attuale delle conoscenze insufficienti e talvolta inadeguate (anche se non manca qualche iniziativa significativa, come quella “Scuola dei rifiuti” sorta a Bologna che per il suo carattere itinerante coinvolge meritoriamente le comunità periferiche della penisola sensibilizzandole sui possibili rimedi che la scienza mette a disposizione). La ricerca di modi e tecniche di reimpiego, e l’idea stessa di sviluppo sostenibile, trova orecchie da mercanti tuttavia ai tavoli politici e la conquista - piuttosto recente - di un’etica del terzo incluso (dove il terzo è apelianamente il futuro di quelli che oggi non ci sono e non possono decidere per le scelte che compiamo per loro conto) non è cresciuta al punto da invertire l’agenda delle maggiori potenze industriali. È ben nota l’ostinazione di Bush a prender tempo sul trattato di Kyoto. Il problema ecologico coinvolge più direttamente chi ha responsabilità amministrativa più immediata con le comunità locali e si trova a dover combattere i fenomeni annessi, come ad esempio quello delle ecomafie, che hanno assunto dimensioni sempre più extraterritoriali e sfuggono a ogni capacità di contrasto locale. Se da una parte dunque è cresciuta e cresce una coscienza ecologica, dall’altra non si profilano soluzioni a portata di mano, almeno per quanto riguarda un fenomeno più grande, che è quello delle eccedenze umane: persone espulse o mai entrate nei processi di produzione. È su queste nozioni di eccedenza e di scarto che la riflessione di Bauman si fa ora più stringente (Vite di scarto, Laterza, Bari-Roma 2005). La globalizzazione - sostiene - è diventata «la più prolifica linea di produzione di esseri umani di scarto e il problema del loro smaltimento grava sempre più sulla cultura liquido-moderna» (p. 10). Un problema che tocca proprio tutti; non solo gli operai

a.s.


espulsi da linee produttive attive ma costrette a chiudere dall’oggi al domani perché la proprietà trova più convenienza a delocalizzarsi altrove. L’accelerazione imposta dalla neoideologia del profitto con ogni mezzo e a tutti i costi morde anche i quadri tecnici, i colletti bianchi: si salvano solo (non sempre, ma almeno per ora) quelli che si rinserrano nella bolla di uno spietato individualismo, dotati di particolare istinto predatorio. Ma quella bolla è illusoria, e Bauman va letto anche come un invito a guardare «con occhi un po’ diversi» la realtà che ci è familiare e che troppo spesso riteniamo ineluttabile. Un’analisi impietosa, che non offre appigli di salvataggio in nessun paradiso artificiale; non mossa da empiti pedagogici, né da utopie palingenetiche. Il primo e più ingombrante dei rifiuti che galleggia nel mare limaccioso della modernità è il progetto; ossia la possibilità di costruire un ordine delle cose e del discorso (politico, scientifico, di relazione) che contrasti il feroce neodarwinismo sociale. Non è un caso che questa più recente analisi del sociologo della London School si apra con dati impressionanti sul numero crescente di giovani alle prese con la depressione: un indice che si è impennato, raddoppiandosi negli ultimi tre lustri. Causa di questo malessere non sembra essere solo un incerto futuro di inserimento produttivo. La cosiddetta “generazione X” sembrerebbe affetta da disturbi di cui le precedenti, che pure ebbero la loro buona dose di infelicità, erano del tutto inconsapevoli. Sentirsi esuberi a vent’anni; sentirsi sempre e dovunque in soprannumero, non necessari, insomma inutili, vuol dire che gli altri non hanno bisogno di te, che sei eccedente, inflazionato, vuoto a perdere. Esubero infatti condivide lo spazio semantico dello “scarto”, del pattume, del rifiuto. Sei un problema finanziario, per i tuoi, per la società; qualcuno dovrà provvedere a sfamarti, vestirti, darti un alloggio, un sussidio se non proprio un lavoro a tempo. Per ora sei solo “a carico” di un capofamiglia, ma domani sarai a carico della società dei produttori; da solo non sopravviveresti. La rapina dei competenti

gli scarti di bauman

reset

I giovani sono i competenti del futuro, e il disagio sociale si acuisce per il fatto che innanzi a questa rapina del futuro giovanile nessuno sa bene cosa si debba e si possa fare. Il problema sembra

243


reset

matteo greco la metafora pedagogica di tim burton*

davvero fuori dalla nostra portata. Eppure la mente moderna è nata insieme all’idea che il mondo possa essere, se non cambiato, almeno governato. Qual è il vero rischio di questa iperproduzione di rifiuti nello scenario planetario? La risposta c’è già e la servono calda i media, ogni giorno. La frontiera che separa il prodotto utile dagli scarti è una zona grigia, indefinita e incerta. Non si può certo spiegare tutta la devianza sociale con la categoria di scarto, ma è certo che una buona dose di anomia sociale, giovanile e non solo, alligni nell’angoscia dell’esclusione. Che ha volti diversi e graduati: dal mobbing aziendale alle porte sbattute in faccia a ogni rivendicazione dell’esserci, a mani nude, privi di capacità negoziale; derubricati ormai da ogni carta dei diritti. E dire che è in piedi una lotta per nuovi diritti e c’è chi, ben radicato in una delle tante etiche in circolazione, chiede a voce alta una moralizzazione della vita pubblica, degradata anche nei luoghi. Ma si dà il fatto che a parlare di questione morale siano rimasti in pochi, e si tratta per lo più di una fascia sociale di garantiti che dispone di redditi medio-alti, perché al di sotto vi sono le nuove povertà, e al di sopra prospera la fascia dei resi immuni dalla sovranità politica: brasseurs d’affaires che combattono lotte senza esclusione di colpi per la soppressione di ogni regola; insofferenti di ogni vincolo e di ogni limite. Cosa volete che sia un’etica per questa fascia di immunizzati che naviga a vele spiegate con redditi da centomilleuro in su? Tra le aristoteliche etiche di Nicomaco e di Eudemo di Rodi non v’è dubbio da che parte stiano, e ad Apel o a Rawls proprio non ce li porti! C’è tutto questo, e manca forza e rappresentanza, anche in ragione di tutto questo, per avviare a soluzione il problema dello smaltimento degli scarti. O meglio, manca una strategia di medio e lungo periodo perché rifiuti non debbano più esserci e l’intelligenza,

244


la creatività umana possano essere dispiegate per produrre e sviluppare ricchezza sociale. Ci manca insomma una pedagogia politica che, spoglia di ogni immancabile sua pedanteria, sappia immunizzare dallo sconfinamento degli appetiti privati nella funzione pubblica. Scuole e università furono nel passato luoghi di costruzione non solo di competenze culturali, ma delle deontologie annesse all’esercizio delle professioni. Oggi non lo sono più: nel rapido svolgersi di alcuni anni si sono anch’esse lasciate contagiare dalle parole dei tempi e da pratiche corporative aziendali. Il familismo è una malapianta che arreca infiniti danni ai luoghi di libertà, e una persistente ideologia del bene privato anteposto a quello pubblico ha rotto gli argini e non trova più resistenze. Tutto questo Bauman non lo dice; si avvicina, ma come ogni buon sociologo ritiene che non sia compito suo cercare vie d’uscita che potrebbero indicarsi illusorie. Questo lavoro sporco (o pulito, dipende dai punti di vista) i cultori di scienze sociali lo hanno sempre lasciato in genere agli educatori, almeno a quelli disposti a seguire Bauman, ma tanti altri prima di lui, nel lungo excursus sulla natura dei poteri umani, dove a un certo punto si incontrano le religioni, fondamento remoto delle sovranità degli Stati.

reset

La religione, ogni religione - afferma Bauman - trae il suo potere sulle anime umane brandendo la promessa della sicurezza. Non dà istruzioni su come procedere, ma traccia una strada (p. 61). Perché si dia potere occorre educare al timore, e vivere uno stato permanente di minaccia significa vivere in una condizione di timore illimitato. Alla minaccia non sai come sfuggire e come immunizzartene. Più pioveranno sassi dai cavalcavia, più cadranno aerei dai cieli per errore umano o per la contrazione di personale imposto dalle leggi di acciaio della deregulation & business, più avremo bisogno di parole che provengano da un dio irato; di qualcuno che parli in suo nome e per suo conto. Nell’excursus (p. 60 ss.) c’è l’aggancio storico del dio indifferente e terribilis alla sovranità statuale moderna. Il biblico libro di Giobbe aggiunge a quel dio l’attributo dell’arbitrarietà, dal momento che essendo del tutto svincolato, nulla egli deve a chi lo rispetti e lo supplichi. Allo stesso modo la sovranità statuale si spoglia del dovere di regolazione della libertà di mercato, di cui ha creato e continuamente allarga il perimetro della liceità giuridica, a tutto scapito dei cittadini-sudditi che subiscono colpi dolorosi e perdite irreparabili nell’esercizio delle loro libertà personali.

245


Non si tratta tanto di nuovi diritti, ma di vecchie conquiste dell’umanesimo del lavoro da rimettere in piedi. Il fatto nuovo, appena accennato nelle pagine di Bauman, è che gli scarti giovanili pare non ci stiano più in un mondo deregolarizzato e rifiutino il potere delle religioni, quella di mercato compresa, di attribuire significato alle loro vite, e non vogliano più saperne a quanto pare dell’ora di religione nelle scuole della Repubblica. Abbiamo per molto tempo rimproverato alle generazioni postsessantotto di essersi fatte anestetizzare dai media. Ma ora spuntano per ogni angolo del mondo giovani vite determinate a uccidere uccidendosi. Tutti soldati di Al Quaeda? Tutti seguaci di Allah? Non sono forse in questa esplosiva miscela di impulsi distruttivi i nostri stessi scarti, le eccedenze della società dei garantiti, i rifiuti della modernità liquida difficili da smaltire?

reset

Neoetiche

246

Bauman cerca di ricavare una serie di lezioni da ciò che bolle in quel qualcosa difficile ancora a definirsi, ma che assume forma certa di resistenza delle più giovani generazioni a finire nelle discariche dei poteri che ci sovrastano. Si apre così lo scenario sulle neoetiche di cui, ci piaccia o meno, dobbiamo prendere atto e riconoscere le contraddizioni, i mille piani, le diverse tonalità irriducibili all’unicità. C’è innanzitutto – in questo scenario - una frenesia del vivere senza rinvii e dilazioni, cercando nel presente tutta la soddisfazione che se ne può ricavare: un oggi diverso, in opposizione a un domani chissà. Le più giovani generazioni stanno educando quelle non più giovani a stare al mondo in un altro modo. Perciò: regola numero uno, lasciare sempre aperte le scelte. I giuramenti di fedeltà sono buoni per quei disgraziati che si preoccupano del lungo periodo. L’imperativo è di «mantenersi superficiali e diradare gli impegni così da poterli disfare senza lasciare ferite e cicatrici» (p. 133). Gli scienziati di Puerto Rico concorrono alla risoluzione di questi nuovi bisogni e stanno cercando di addestrare il cervello umano a “disimparare” paure e inibizioni; quelli di Harward sperimentano pillole di propanolo per stroncare sul nascere gli effetti di un trauma, e i ricercatori californiani pare siano riusciti a inibire nei topi le reazioni ormonali alla paura. Sarà! Quel che per ora appare probabile è che avremo topi più audaci delle laboriose formiche estive,

greco


sprezzanti d’ogni esca confezionata dal Sapiens guerriero. Scienza e ricerca insomma sono al lavoro per alleviare i traumi spirituali del XXI secolo e, in attesa che nuovi paradisi genetici offrano i loro frutti almeno agli immuni del pianeta, nuovi modelli di vita impongono tendenze tutt’altro che adattive allo stato delle cose. Se la felicità pubblica dei Lumi è bell’e andata, non c’è che da correre ai ripari per ritagliarsene un po’ nel privato. Si profila così un presente già futuro, stretto tra desiderio e paura, anticipazione e incertezza. Una sintomatologia da discarica insomma, per rimanere a galla il più possibile; un po’ ansiogena, ma giovanilmente vitale. La tendenza a non più differire, a non cercare beni durevoli, ad accorciare la strada tra un desiderio e la sua soddisfazione richiede ai giovani adulti di reagire energicamente agli statuti di fedeltà che hanno vincolato le precedenti generazioni, immolandole sull’altare delle regole e del dovere. La cultura liquido-moderna non si presenta più come cultura dell’apprendimento, della permanenza, del durevole, ma piuttosto come pulsione al disimpegno, alla discontinuità, alla dimenticanza, alla leggerezza. La memoria storica dell’accaduto è un intralcio e non c’è molto spazio per gli ideali, ancora meno per quelli che richiedono uno sforzo sostenuto. E dal momento che il nuovo tende a essere irresistibilmente scavalcato e superato tra un’alba e un tramonto, occorre tutt’altro che coerenza e stabilità nelle preferenze. Anche i beni di consumo incarnano questa non finalità, una fungibilità e revoca continua delle scelte; il supremo paradosso della cultura dei rifiuti. Vademecum del sopravvivente

tim burton

reset

Ci raccontano sempre la stessa storia, dice Bauman: 1. che i nostri simili sono utili solo a condizione di poterli sfruttare a nostro vantaggio; 2. che la pattumiera è la prospettiva naturale per chi non si adegua e non gradisca essere sfruttato in questo modo; 3. che la sopravvivenza è la parola d’ordine della comunità umana e che la posta in gioco è se non vivere almeno resistere più a lungo degli altri. L’ansia aumenta, perché il cambiamento ci ha regalato destabilizzazione, e si trasforma in ostilità per tutti quelli che ci raffigurano ciò che potremmo diventare: espulsi, poveri, homeless, extracomunitari. Comunque reflui. In questo clima la solidarietà ha davvero poche probabilità di germogliare: il mio miglior amico potrà

247


reset

rivelarsi il più feroce dei miei nemici, e dal momento che è sempre più difficile provare un senso di destino condiviso e che il tradimento è diventato strutturale a ogni forma di vita di relazione, gli unici rapporti durevoli restano quelli improntati a leggerezza, che non è quella del Calvino americano, ma quella che nasconde e si nasconde nella superficialità per anestetizzare ogni emozione. Sennet del resto ci aveva avvertito di quella «distanza di sicurezza» come misura igienica da mantenere in ogni tipo di rapporto, e dunque di una diffidenza che si è insinuata anche nei contatti che richiedano impegni durevoli. Tutti kynikoi insomma, cinici come Diogene, che i nobili filosofi greci chiamavano semplicemente il cane. Anche i cinici puntavano a un’imperturbabile autosufficienza (autarkeia) come criterio di base su cui regolare ogni modo di vita. Per tutto il secolo che ci siamo lasciati alle spalle abbiamo opposto resistenza ai poteri spaventosi del Big Brother orwelliano, che mirava all’inclusione e all’integrazione a tutti i costi. Quello di oggi, che ammicca dai reality show televisivi, mira invece all’esclusione, lasciando fuori tutti coloro che non si adattano al posto assegnato, non permettendogli di entrare, di avvicinarsi. Vecchio e Nuovo Fratello lavorano di gomito e dirigono il gioco della inclusione coatta e dell’esclusione obbligatoria, pattugliando la linea di confine tra dentro e fuori: il vecchio presiede le zone off-limits dello spazio sociale, quello dove è necessario mettere in riga chi esce dai ranghi; il più giovane è aitante e muscoloso: è il buttafuori che ti blocca agli ingressi, ti filtra nelle segreterie telefoniche, e spia le tue e-mail. Ieri si è lottato per abbattere i muri, oggi ci sarebbe da decidere se il gioco drammatico tra inclusione ed esclusione sia l’unico modo in cui si possa condurre la vita in comune; «l’unica forma che il nostro mondo condiviso può assumere e si possa dare» (p. 164). E giustificare un no a tutto tondo diventa se non complesso certamente molto complicato.

248

greco


tim burton

reset

Letteralmente “metafora” (meta-pherein) significa trasferimento: nella definizione aristotelica essa «consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro» (Poetica 1457b 6-9). Può essere considerata un’operazione di trasferimento di senso delle parole. La metafora assolve al compito proprio del linguaggio di configurarsi come un medium tra l’io e il mondo esterno. In particolare, risponde al bisogno dell’uomo di esprimere la sua visione personale, intima, della realtà che lo circonda, dei sentimenti che lo abitano, dei rapporti interpersonali che lo aiutano a definirsi. In questo senso, la metafora permette un uso “privato” delle parole, è caratterizzata da un uso “appassionato” delle nostre funzioni cognitive, non deriva da una competenza cognitiva pura, ma piuttosto da una sorta di empatia affettiva – il “genio” di cui parla Aristotele (Corradi Fiumara 1998). Tramite la metafora il linguaggio si àncora alla vita, al sentire, all’interiorità di ognuno. La forza comunicativa del processo metaforico sta nella sua tensione o, come sostiene Richards, nel suo collocarsi tra due pensieri che interagiscono e che sono chiamati contemporaneamente alla mente, come potrebbero esserlo due informazioni collegate da un link in rete. È una tensione generata dall’accostamento di due mondi e contesti differenti, chiamati a interagire in una «intersezione semica» ( Eco 1984, p. 153) che produce un incremento di significato. Attraversare il ponte della metafora permette a chi la crea, ma anche a chi la ascolta, di avventurarsi in nuove visioni dischiuse dalla parola. Essere consapevoli della portata conoscitiva del processo metaforico significa in qualche modo godere di una piena libertà di parola, valorizzare e pretendere che sia valorizzata la forza illocutoria degli atti linguistici; non riconoscere o non farsi riconoscere il proprio potenziale metaforico significa incappare in quello che Hornsby chiama «silenziamento» (Hornsby 1969, p. 58), processo con cui si priva una persona del suo potenziale illocutorio, trattando l’illocuzione come se fosse una locuzione. In questo modo si annulla tacitamente quella forza metaforica che serve a dire realmente ciò che il parlante vorrebbe dire. La metafora è mezzo di comunicazione per eccellenza, essa anzi riguarda la qualità della comunicazione e fa sì che questa possa essere l’avventura personale attraverso cui l’io di ognuno si apre alla complessità dell’esistenza e si libera dall’univocità di una realtà sempre

249


reset 250

uguale a se stessa. La tensione metaforica è anche causata dalla coesistenza in essa di mimesi e realtà, verità e verosimiglianza. Il cinema, e in particolare quello visionario e fantascientifico di Tim Burton, ripropone questa tensione. In esso «la metafora linguistica si trasporta nella metafora tecnica della realtà virtuale» (Semeraro 2002, p. 65). Il linguaggio cinematografico di Burton è caratterizzato dalla proprietà metaforica di trasportare significati da un campo all’altro della semantica, da un aspetto all’altro della realtà. Attraverso l’accostamento analogico di immagini, il regista si serve della finzione per dire il vero. La rappresentazione filmica trasporta lo stesso spettatore lontano dalla realtà e diventa occasione per guardare quest’ultima con uno sguardo rivelatore. Tra le numerose opere del regista americano si è scelto di analizzare quelle più personali, quelle in cui è più forte la tensione comunicativa, la volontà di servirsi del talento immaginifico per trasmettere una personale riflessione su tutto ciò che concerne l’umano. I film presi in considerazione sono quelli in cui il gioco metaforico si fa spiccatamente formativo, in cui la bellezza della narrazione diventa percorso di comprensione della realtà. Edward mani di forbice (1990) è forse il film più personale di Tim Burton, insieme a Big Fish (2003), opera in cui il regista riflette sul concetto stesso di narrazione, sulla necessità di guardare la vita attraverso il prisma della metafora. Il terzo film analizzato, Nightmare Before Christmas (1993), sorprende per la peculiarità delle tecniche di produzione e per come esse concorrano ad amplificare il potenziale comunicativo dell’opera. In Edward mani di forbice il regista riflette sulla diversità e sulla difficoltà che spesso si incontra nel relazionarsi con l’altro in modo autentico. Burton ci racconta di universi in collisione, di mondi lontanissimi pur nella loro vicinanza spaziale, dell’impossibilità di mutare un destino che vuole gli uomini divisi nell’esilio involontario delle proprie menti e dei propri corpi. È proprio della narrazione caratterizzarsi intrinsecamente come esperienza di contatto, con se stessi e con gli altri, ed Edward mani di forbice fornisce gli strumenti metaforici che possono essere utili nella nostra costruzione dei significati, nella nostra narrazione personale, se è vero che «ottenere ciò che si vuole molto spesso significa avere la storia giusta» (Bruner 1991, p. 89).

greco


tim burton

reset

Protagonista della narrazione è Edward, opera incompiuta di un inventore, in tutto uguale a un essere umano tranne che nelle mani, al posto delle quali ha le forbici. «Quando iniziai a lavorare sul personaggio – dice Burton - avevo in mente solo strumenti affilati. Lo spessore emotivo derivava da un personaggio che non poteva toccare niente, che aveva emozioni, che voleva toccare le cose ma non poteva toccare niente e nessuno… le forbici sono strumenti della civiltà urbana che, in questo caso, divengono il mezzo visivo per eccellenza.» Il regista trasferisce l’oggetto forbice nel campo semantico del corpo umano per esplorare tematiche profondamente umane. La forza del personaggio di Edward sta proprio nella sua espressività, nel trasferire all’esterno, nell’aspetto esteriore, caratteristiche che ognuno di noi porta dentro, nascoste talvolta anche alla propria coscienza. L’impossibilità di toccare le cose, di toccare il suo stesso viso è anche l’impossibilità che spesso si ha di relazionarsi alla realtà esterna a noi e alla nostra stessa interiorità. Le forbici di Edward portano alla luce un significato che ha bisogno di essere condiviso, per divenire una comunicazione che rispecchi la condizione umana di chi tenta di parlare, ma anche di chi ascolta. Le metafore sono coniate quando persiste una certa difficoltà a dire qualcosa che si vive come “incarnato”; esse hanno alla base una situazione di disagio che si vuole esprimere, condividere, presuppongono una dimensione interumana. Kuhn descrive le metafore pedagogiche come quelle che forniscono una prima immagine intuitiva di fenomeni e processi che saranno definiti in seguito con linguaggio non analogico. Edward viene invitato da Peg, una venditrice ambulante di cosmetici, a uscire dal suo castello e viene introdotto così nel più prosaico dei contesti urbani, la periferia. Castello e periferia rappresentano degli stati della mente, più che due differenti realtà fisiche. Alla verticalità dell’uno Burton contrappone l’orizzontalità dell’altra. Castello e periferia, fantasia e realtà: due pensieri astratti e circoscritti, che operano a livello preposizionale, si concretizzano metaforicamente in immagini olistiche e consistenti che operano a livello analogico. Le sue metafore svolgono così una mediazione tra livello analogico e preposizionale, ravvivando la mente. La periferia è simbolo di una paralisi della mente. Chiusa nelle consuetudini del già detto, bloccata in un linguaggio che è costitu-

251


reset 252

ito da metafore morte, cristallizzate, non può comprendere e acquisire il nuovo. Nonostante le difficoltà che incontra, Edward guarda con innocenza e meraviglia alle nuove possibilità di relazionarsi, al vivere sociale che si schiude dinanzi a lui. Egli mette la sua diversità a servizio della comunità, occupandosi di giardinaggio, acconciatura per cani e modelli stravaganti per signora, si autotrasporta dinamicamente nel nuovo contesto. Di contro, i colori pastello delle case che fanno pendant con le auto e i vestiti, l’incapacità di essere originali, per cui ogni moda si diffonde all’istante, traducono nei comportamenti ciò che il regista ha reso scenograficamente: una piattezza quotidiana, un conformismo assoluto che dietro l’apparenza leggiadra cela un vuoto spaventoso. Non si riesce a concepire la diversità se non come novità curiosa. Il significato più profondo dell’educare alle differenze non è tanto quello di insegnare la diversità, quanto piuttosto quello di formare a pensare la diversità. Per fare questo occorre un linguaggio destrutturante, che scompone la realtà per ricomporla in maniera diversa alla luce dei cambiamenti in atto. Tra Edward e gli abitanti del villaggio non c’è una vera comunicazione, non c’è la reciprocità che potrebbe salvare il timido ragazzo dal silenziamento. Gli altri abitanti non riescono ad ascoltare e non sono consapevoli del loro non saper ascoltare, non sanno «ascoltare il loro ascolto» (Milella 2000, p. 61). È l’udito l’unico senso che permette «una partecipazione immediata all’universalità dell’esperienza linguistica del mondo, l’udito è una via verso il tutto, perché ha la facoltà di ascoltare il logos» (Gadamer 1983, p. 528). Edward è un diverso, non solo fisicamente ma anche socialmente: è estraneo ai codici linguistici e comportamentali degli abitanti, improntati alla superficialità e alla chiusura cognitiva. La sua vera diversità non deriva dal fatto di essere privo delle mani, ma da quello di avere qualcosa che molti uomini “normali” hanno dimenticato di avere: un cuore. Di fronte alla sua necessità di andare oltre ogni apparenza e convenzione sociale, spicca non tanto la mostruosità del diverso, ma di quella diffusa normalità adulta che nei fatti si rivela invivibile e artefatta. Edward è infine costretto a tornare nel suo castello, in una nuova eterna solitudine. Frutto del suo amore saranno le statue di ghiaccio e la neve che continuerà a cadere su quella terra, regalando al mondo da cui è stato rifiutato i sogni di cui è privo.

greco


Il personaggio di Edward può rappresentare il diverso per eccellenza, l’artista, che riceve plausi e affascina se rimane all’esterno della società e diventa motivo di turbamento all’interno del contesto sociale. La presenza adolescenziale fa del film una storia su un periodo particolare della vita di ognuno, in cui il mondo esterno si apre dinanzi a noi e ci invita alla vita, e al tempo stesso è fonte di turbamenti profondi che vengono dalla difficoltà di trovare un giusto modo per relazionarsi a esso, una giusta storia per raccontarsi. L’opera di Burton, in conclusione, è un’unica, estesa metafora sulla percezione della diversità esterna e interna al nostro io, è un invito a conoscere assimilando le differenze. Nell’era del villaggio globale, il pensare metaforico è indispensabile strumento con cui guardare alle alterità sociali e culturali, considerandole in tutta la loro ricchezza e complessità. Il ponte della metafora può trasportarci dinamicamente in cornici culturali diverse dalle nostre, per guardare alle loro irriducibili peculiarità e favorire così una vera convivenza delle differenze. Ma Edward mani di forbice offre un ulteriore spunto di riflessione. Il castello gotico di Edward, che si erge nel più prosaico dei contesti urbani, sta a significare che «non esiste una realtà originaria con cui si possa confrontare un mondo possibile per stabilire una forma di corrispondenza tra questo e il mondo reale» (Bruner 1998, p. 58). Quella di Burton è una bellissima fiaba della buonanotte sull’innocenza e sulla libertà di sognare, un’intensa metafora che ci dice che tutti i castelli sono possibili.

tim burton

reset

Tim Burton’s Nightmare Before Christmas è un film di animazione in cui l’evasione nella fantasia, la fuga nell’immaginario è al tempo stesso occasione per percorrere un cammino di formazione nel proprio mondo interiore, per fare luce sulla possibilità che ognuno ha di ristrutturare la propria relazionalità. Protagonista del film è Jack Skeletron, re della città di Halloween, che, stanco di abitare nella terra in cui è sempre il trentuno ottobre, intraprende un viaggio e si imbatte per caso nella città del Natale. La narrazione cinematografica diventa così il viaggio per antonomasia che la mente umana compie nella solitudine della sala di proiezione: via libera alle associazioni, alle identificazioni, alla riattivazione di tutti quei meccanismi psichici che sono in funzione quando siamo immersi nel sogno. Dice Philippe

253


reset 254

Dubois: «il viaggio è l’essenza del film». Il viaggio, il percepirsi come viandante, opera un decentramento verso l’altrove, mette il soggetto in situazione di ricerca, di trasmigrazione. Nella differenza si costruisce l’identità, non nella stabilità dell’io nella costruzione sociale d’origine, ma nell’apertura alle possibilità plurime che gli si schiudono dinanzi (Semeraro 2002). Il percorso che intraprende Jack è metaforico, si propone di collegare un mondo sconosciuto e uno conosciuto, per colmare quel bisogno di senso che alberga nel suo cuore. In questo caso il viaggio di Jack è una metafora della ricerca del senso della propria esistenza, della costruzione, definizione, trasformazione della propria identità. Egli cerca in tutti i modi di comprendere il segreto del Natale, di quella strana gioia mai avvertita prima in vita sua. Cerca una spiegazione logica sui libri, ma non sarà leggendo The Scientific Method che riuscirà a capire. È questa una bellissima immagine cinematografica sulla incapacità della letterarietà, del linguaggio logico e razionale, di esprimere certe sensazioni. Nella nostra vita gli eventi fondamentali quali la nascita, la morte, l’innamoramento, richiedono l’interpretazione personale di ognuno per essere compresi. «La scoperta della complessità del reale porta a un recupero della dimensione immaginaria e della colorazione affettiva che si accompagna ad un recupero della narrazione» (Longo 1999, p. 106). Il significato letterale del linguaggio diventa allora un punto di partenza per una ulteriore ricerca cognitiva, che possa esprimere la profondità delle nostre emozioni. L’errore di Jack è quello di voler prender il posto di Babbo Natale, di voler essere qualcosa di diverso da quello che è. Ingenuamente cerca di essere un altro, per andare sempre più su, per avere quello che non ha: desiderio di desiderio. Esattamente una metafora della vita di tutti noi. Jack è un personaggio profondamente umano e dalla favola di Tim Burton emerge l’inquietudine di una società che si osserva nella sua fragilità e nella sua finzione quotidiana. Una società in cui la componente dell’immaginario è asservita quasi interamente a finalità che non sono quelle educative, autoformative, che è costruita tenendo separate informazione e comunicazione, privando gli individui dei mezzi conoscitivi per un personale e autentico approccio alla realtà. Il quasi reale della finzione burtonesca rivela in questo caso i possibili reali effettivi allo spettatore, che rifigura il tragitto spirituale percorso dall’autore come un proprio

greco


tim burton

reset

La fabbrica di cioccolato è la nuova metafora filmica di Tim Burton (il film entra nelle sale mentre noi andiamo in stampa). La cioccolata ha dalla sua una lunga storia ideologica. Fu cattolica in opposizione al tè e al caffè protestanti: serviva da surrogato alimentare nelle quaresime; si fece poi ispanico-clericale alla corte di Spagna, ma perse con Luigi XIII l’aridità gesuitica, esaltando nei boudoir delle cortigiane le sue virtù afrodisiache. All’inizio del XIX secolo ritorna in terre protestanti e l’Olanda divenne la maggiore produttrice di stecche di cioccolato. Nel XX secolo è la bevanda consigliata per la colazione dei bambini e delle signore. Si presta insomma a un uso docile e transculturale del metaforico e dell’allegorico. Dopo la bella favola di Chocolat (GB-USA 2000) in cui Juliette Binoche combatte i bigotti che fanno guerra ai segreti della sua chocolaterie, e Grazie per la cioccolata (FR 2000), in cui Chabrol fa affiorare sotto la sua superficie liquida e vellutata tensioni, conflitti e perversioni della ipocrita borghesia di provincia, Tim Burton trae ora dal romanzo fantastico di Road Dahl un film che attualizza la nostra condizione di divoratori e divorati insieme dalla megamacchina del consumo visivo. Una metafora viva - direbbe Ricoeur - sui vizi capitali incarnati da quattro bambini precocemente catturati nella confusione adulta: il bimbo reso precocemente obeso da peccati di gola familiari, metafora dell’insaziabilità del potere, e gli altri suoi coetanei già precocemente competitivi e antipatici dalla confidenza tecnologicodigitale. Quattro a uno: la selezione del più bravo tra i cinque fortunati bamboli possessori del gold ticket ricalca il meccanismo dell’eliminazione progressiva di tutti i concorrenti disseminati tra i tanti palinsesti televisivi. Una visione ludica ma non troppo: dolce e nutriente come il cioccolato che piace sia ai grandi che ai piccini, ma anche una satira alla cultura pop con riferimenti chiari ai Beatles e a Kubrik (con un tocco di Magritte). C’è, ci sarebbe, per chi sappia e voglia vederla, la metafora politica, perché nella grande fabbrica dolciaria di Johnny Depp (che tanto richiama il solitario di Edward mani di forbice) il neotaylorismo inorganico riesce a metabolizzare tutto il reality mediatico che una volta digerito e defecato si trasforma in liquame organico dall’alto valore energetico, pronto a rientrare nel ciclo biopolitico e nella net eco-

255


percorso di autocomprensione (Ricoeur 1986), in cui agire riflessivamente sulle esperienze di vita. Alla fine del suo viaggio Jack saprĂ riconoscersi nella sua storia

personale e scoprirĂ nella relazione con la bambola di pezza Sally


il segreto del Natale. Nella rete delle relazioni egli trova così la sua metafora fondamentale, riconosce che apprendere è relazionarsi, implica la vicinanza con l’altro, la condivisione del suo mondo emotivo, la cura e l’attenzione verso chi ci è vicino. Metaforicamente Jack si volge alla scoperta di un altrove che è prossimità, presenza alla vita altrui. Nell’analisi di questo film è utile inoltre soffermarsi sul contributo apportato dalla tecnica alla rappresentazione umana: essa incrementa il potere evocativo delle immagini, lo slancio dell’immaginazione. In Nightmare Before Christmas è usata la tecnica della “stop motion animation”, basata su infinite sequenze di fotografie scattate su un set realmente costruito e montato in modo tale da dare l’impressione del movimento allo spettatore. Questa operazione viene portata al limite da Burton, che affianca le tecniche consacrate dal tempo con quelle più recenti della tecnologia computerizzata. L’effetto visivo offerto è quello di un estremo realismo, di una sensazione di plasticità da cui è caratterizzata la visione. «Si ha la sensazione di aprire un libro di quelli con le pagine che si alzano, o di trovare in un libro un’illustrazione che dà l’impressione di poterci entrare dentro. Quello che cercavamo di evitare era di dare l’impressione che stessimo facendo dei trucchi», dice Burton. I risultati sono sbalorditivi. Ovunque si posi lo sguardo, nel film c’è qualcosa di nuovo e diverso a deliziare l’occhio e integrare l’immaginazione. È di Manovich l’intuizione secondo la quale il cinema, col linguaggio digitale, ritorna a una forte dimensione pittorica. Inoltre, il segnale analogico dell’immagine, una volta che questa viene trattata digitalmente, viene meno, così che «l’immagine smette di riferirsi alla realtà per divenire una rappresentazione numerica» (Denunzio 2004, p. 265). La componente fantastica si autonomizza dal reale e può essere integralmente manipolata, in maniera ludica e creativa. Essendo gioco, il numero favorisce ed intensifica il godimento del fantastico. La tecnica, associata all’estro di Burton, aumenta le potenzialità della metafora, l’intensità del viaggio nella fantasia. Big Fish è una estesa riflessione sulla proprietà terapeutica del narrare, del coltivare metafore e del compenetrarle con la propria vita. Con questo film il regista ci invita a riflettere su cosa è reale e


su

cosa non lo è, sul senso della distinzione che faccia-

frontespizi dei libri recensiti


Giulio Giorello, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 79, € 7,00 osservazioni, in tempi di complessa ridefinizione del problema delle identità culturali, degenerato nella percezione di una “esigenza” dello scontro tra civiltà, una omelia pro eligendo pontefice, come quella letta il 18 aprile 2005 dal cardinale Ratzinger (divenuto, l’indomani, Papa Benedetto XVI), non farebbe che radicalizzarne gli esiti. Uno spettro si aggira per l’Occidente, stando all’eloquio fobico di Ratzinger, lo spettro del relativismo e della sua dittatura sull’umanità, la quale si farebbe «trascinare qua e là da ogni vento di dottrina». Solo una fede “chiara e immobile” costituirebbe l’antidoto a tale dittatura. Giorello parte da queste perentorie affermazioni per chiedersi (e chiedere al Papa) quale, davvero, sia il significato – storico, filosofico, epistemologico – del termine “relativismo”, al di là dei luoghi comuni e dei (buoni) sensi comuni. A questo punto il filosofo stende una intelligente e mai tassonomica rassegna di pensatori (da Sesto Empirico a Feyerabend, da Galilei a Milton, da Russel a Jefferson, da Einaudi a Jelloun) che hanno riflettuto sull’urgenza di una ragione intesa come “scambio”, “discussione”, “dialettica”, concetti che nascono

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

Se il compito di un intellettuale è quello di guidare la coscienza morale di un popolo, il pamphlet di Giorello sembra inserirsi appieno in tale cornice di scrittura sociopedagogica. In realtà Di nessuna chiesa è un libro singolare, quanto meno per il fatto che il suo autore sceglie di “alleggerire” le sue riconosciute competenze di epistemologia e di filosofia della scienza a vantaggio di un testo che, a tutti gli effetti, possiede i caratteri dell’istant book. Questo tipo di tendenza, peraltro, comincia a diventare una attitudine già sperimentata da illustri maestri del pensiero che, a un certo punto, come dovrebbe essere, interrompono gli sforzi “accademico-scientifici” della ricerca per dire la loro su temi d’attualità (si pensi a recenti pubblicazioni di Derrida, Habermas, Chomsky, e l’elenco non è completo), pur con gli strumenti della filosofia. Il libro di Giorello esce alle stampe come un istant book intellettuale (in senso gramsciano), allora, perché i nuclei tematici che evidenzia, nonostante l’universalità anche storiografica dei topoi portati all’attenzione del lettore, nascono da un fatto d’attualità storica. Secondo le sue più che condivisibili

259


tessiture 260

dall’idea di un pensiero “plurale” e sempre migliorabile ed emancipabile dalle sue stesse aporie, proprio in virtù di quel principio di falsificabilità che Popper (o sir Karl, come lo vezzeggia Giorello) considerava una condicio sine qua non di ogni costruzione scientifica. Troppo spesso si dimentica che il contrario di relativismo è assolutismo, scrive Giorello, e perciò il monito spinoziano a non trasformare gli artefatti in idoli e l’atteggiamento critico di tipo “pirroniano”, ovvero scettico nel senso letterale del termine (skepsis = indagine), nei confronti del sapere risultano caratteristiche irrinunciabili affinché la costruzione del discorso non sia mai unilaterale e proditoria. In quest’ottica, l’esposizione all’errore non rappresenta un vizio del discorso, bensì una virtù e una possibilità di affinamento; tuttavia gli errori hanno bisogno di difensori e «il relativista non è altro che un tipo bizzarro che si batte perché questa difesa sia concessa a chiunque, anche a chi è contro il relativismo» scrive Giorello. Il fallibilismo, allora, non deve necessariamente essere visto come una teoria (popperiana), ma, forse più utilmente, come un atteggiamento, uno stile di vita, un’opzione filosofica nell’accezione di Peirce. Ancora una volta si tratta di non irregimentare il principio-trasformazione che, per esempio, nell’evoluzionismo darwiniano rin-

Quaderno di COMUNICazione

traccia il metodo e gli stilemi. La Verità cattolica dispensata da Ratzinger, del resto, non solo non concepisce tale concezione darwiniana dell’umanità, ma rischia di traghettare coscienze poco lucide verso quel pasticcio di superstizione, cattolicesimo e militarismo, che è il fenomeno del “neoconservatorismo”. In definitiva, il problema, secondo Giorello, risiederebbe non tanto nella dicotomia tra fides e ratio, quanto nel dissidio tra fallibilismo e infallibilismo, tra una verità in progress che non pretende di salvare neanche se stessa e una verità che promette salvezza a chiunque vi si sottometta. Perché, dunque, demandare a una qualche forma di statuto etico o teocratico il diritto e il dovere di regolamentare scelte così delicate e personali, quali quelle dei grandi temi della bioetica? Perché il laico dovrebbe accettare tale condizione di (deleuziana) “minorità”? Non sarebbe più umano, continua a chiedersi il filosofo, lasciare a ognuno l’arbitrio delle proprie scelte e delle proprie sofferenze? La filosofia, da duemila anni, cerca di insegnare proprio questo, cioè che la possibilità di scegliere deve costituire per l’uomo una libertà inviolabile e inalienabile e che la differenza e la pluralità delle scelte deve essere sostenuta da un a priori fondamentale: la tolleranza. Perciò, conclude Giorello, «essere di nessuna chiesa significa tollera-


re ogni chiesa, riconoscendone il diritto all’espressione anche nel libero atto di prenderne le distanze». Suggestiva la metafora di Clifford Geertz, con la quale il libro si chiude: la “società aperta” è paragonabile a un bazar levantino, più che a un club europeo; in un bazar si può

entrare e osservare senza comprare alcunché, ma soprattutto è possibile trovarci davvero qualsiasi cosa, «dagli spiriti alcolici… a quelli divini». mimmo pesare

Eugenio Scalfari (a cura di), Dibattito sul laicismo, La Biblioteca di Repubblica, Roma 2005, pp. 187, € 6,90 si, come hanno dimostrato le dichiarazioni estive del senatore Pera e il dibattito che ne è seguito, che coinvolge oramai numerose questione di etica pubblica. Scalfari parte dall’assunto che la laicità appartiene sia ai credenti che ai non credenti che possano riconoscersi in quel “date a Cesare ciò che è di Cesare” o – se si vuole – nell’immagine dantesca dei “due soli”: un principio di distinzione che avrebbe nel tempo favorito l’evoluzione delle chiese cristiane, immunizzandole – come afferma lo storico Pietro Scoppola – da quel modello teocratico che avrebbe invece «ingessato l’Islam nonostante la ricchezza originaria e l’immenso deposito culturale di cui dispose nei primi secoli del suo fulgore». Il laicismo tuttavia, afferma Scalfari, pur contenendo la laicità, non si esaurisce in essa. Se questa

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

Di laicità e laicismo torna a occuparsi un agile volume, Dibattito sul laicismo, che ha inaugurato la collana “Idee”, uno di quegli utili supplementi al quotidiano “la Repubblica”, il cui fondatore, Eugenio Scalfari, ha aperto un fruttuoso dibattito sul perché non possiamo non dirci laici (7 novembre 2004), ribaltamento della ben nota formula crociana del non poterci non dire cristiani. La differenza emerge ben netta nell’insieme delle posizioni di Arrigo Levi, Dahrendorf, Rodotà, Scoppola, Eco, Amato, Buttiglione e altri, che si sono susseguite nel corso del 2004 sul quotidiano romano. Il prezioso volumetto, che riporta in appendice un’intervista di Marco Politi al cardinale Ratzinger, si chiude con una conclusione dello stesso Scalfari; una conclusione dirimente per un tema destinato senz’altro ad acuirsi e ad allargar-

261


tessiture 262

costituisce protezione, civile e politica, dei cristiani che rifiutano il temporalismo, grazie a quella “marcia in più” che è una fede imperniata sul vangelo dell’amore, il laicismo affonda le sue radici nell’etica kantiana del non trarre vantaggio dall’azione compiuta; un requisito non da poco, spesso manchevole in chi si affida alle opere per meritarsi la salvezza. Proprio la fede nella trascendenza costituisce per Scalfari il centro del problema. Crisi della modernità e diffondersi del nichilismo hanno provocato un progressivo affievolimento di quella fede. La nietzschiana proclamazione della morte di dio è una constatazione prima che un’affermazione: una proclamazione del deperimento della trascendenza, dell’assoluto. Papa Wojtyla del resto ebbe a constatare lui pure il “ritiro di Dio dal mondo” e in uno dei suoi discorsi parlò di laicità “giusta”. Il suo successore, Benedetto XVI, rispondendo nel corso della prima sua uscita pubblica al Quirinale alle ferme parole del Presidente Ciampi, in cui vibrava la coscienza del vecchio azionista sulla irrinunciabile laicità dello Stato, ha preferito parlare di laicità “sana”. La scelta degli aggettivi non è mai lasciata all’improvvisazione quando si parla dalla cattedra di Pietro: il nuovo pontefice, in continuità con Wojtyla nella condanna al laicismo, parlava all’indomani dell’appello astensionistico rivolto ai cattolici alla vigi-

Quaderno di COMUNICazione

lia del voto referendario sulla fecondazione assistita. Lo spostamento semantico dal “giusto” al “sano” non è perciò indifferente. E non è un caso che nei primi cento giorni del nuovo pontificato sia stato diffuso in milioni di copie un Compendio di quel catechismovessillo a cui il cardinale Ratzinger aveva lavorato negli anni del pontificato di Wojtyla: un gesto rivelatore del ruolo che il pontefice intende svolgere contro quel “relativismo” che viene spesso imputato ai laicisti, col rimando a una disputa antica tra oggettività e soggettività difficile a ricomporsi, in quanto impostata come disputa sulla verità. Irrigidita in questi termini, le possibilità di dialogo si allontanano. Le religioni monoteistiche ci rivelano la strada per arrivarci (alla verità), ma per vie tanto misteriose quanto i misteri che ci invitano ad accettare senza discutere. Si tratterebbe di sottoporsi a una parola rivelata ma interpretata solo dalle gerarchie che quei segreti amministrano, laddove il laicismo rivendica, detto con le parole di Scalfari, «una mente riflessiva dell’uomo capace di pensare se stessa e una coscienza resa vigile dalla memoria di sé e responsabile verso se stessa delle azioni che compie e degli effetti che essi producono» (p.156). Il relativismo di cui si rimprovera il laicismo non vuol essere tuttavia, come si vorrebbe far credere, una


laicismo potrebbe mai accettare la subordinazione della coscienza individuale alla precettistica cattolica. Ben altri tuttavia sono diventati a distanza di appena un anno dagli scritti raccolti nel volume i termini della questione. E sarebbe utile leggere in filigrana alcuni dei saggi lì raccolti con la più minuta (e diffusa) pubblicistica che ha riaccesso il dibattito in questi ultimi mesi. Giuliano Amato, che per la verità ha sempre tagliato corto sulla distinzione laicità/laicismo, riconoscendo alla fede cristiana una “marcia in più” rispetto al laicismo, rivendicatore piuttosto monotono della libertà di coscienza e della saparazione dei poteri, si spinge ora più oltre, almeno quando sostiene (Che cosa vuol dire essere laici oggi, “la Repubblica” 31 agosto 2005), che «la vecchia premessa del laicismo» non regge più alla sfida delle religioni, «che nelle società postsecolari sono uscite dalle sfere private e sono ormai parte della sfera pubblica». Dunque anche la laicità richiederebbe un aggiornamento: non più «fuga dalle relazioni tra le religioni, ma apertura critica e confronto con e fra di esse alla ricerca dei principi in cui tutte e tutti si possano riconoscere». Dove porta questa premessa fondata sull’evidente peso che hanno assunto le religioni negli scenari globali, che riproporrebbe semmai quell’esigenza - costante nel pen-

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

equidistanza rispetto ai valori. Vuol dire semmai mettere in relazione i valori per tutti disponibili, nella consapevolezza che innanzi a essi non si può esprimere indifferenza, e che occorre scegliere in piena libertà di coscienza individuale e responsabilità personale. Il credente non si avvale della sua libertà; non ne ha bisogno: ha compiuto la sua scelta una volta per tutte affidandosi alla sua chiesa. È liberato, non libero; affrancato dalla dolorosa prerogativa connessa alla responsabilità del dover scegliere localmente, temporalmente e - ogni volta - personalmente. Potrà appagarsi di un’etica della convinzione e della convenienza, che restano sempre un po’ distanti dal più avvertito bisogno – oggi – di un’etica della responsabilità . Il nodo centrale della controversia tra chiese e laici è emerso ancora con nettezza in uno scambio di lettere intercorse tra Ratzinger e il senatore Pera pubblicato da “Micromega”, dove l’ex cardinale ha insistito sulla coincidenza tra libera scelta e scelta del Bene e della fede. Un intransigentismo che spazza d’un colpo tutto il percorso della Chiesa postconciliare, per avvicinarla temerariamente a quel fondamentalismo di altre culture monoteiste. Il dialogo tra credenti e non credenti è dunque nuovamente e inevitabilmente minacciato sul tema dell’autonomia della coscienza individuale. È evidente che nessuno tra le file del

263


siero laicista - di ricondurle nello spazio delle libertà soggettive? Porta a posizioni sdrucciolevoli e rischiose, a nostro avviso. La democrazia laica – sostiene Amato - si fonda su alcuni assoluti: «dignità della persona, libertà di coscienza, eguaglianza, rispetto dei diritti di tutti e quindi pace, a sua volta legata alla capacità di capire e non negare le buone ragioni degli altri». Tutto condivisibile, ma ritenere che le religioni, le chiese abbiano dato un loro contributo storico allo sviluppo delle conquiste liberali, alla formulazione della carta dei diritti universali, significa saltare a pié pari molte pagine di storia della tormentata modernità del nostro continente. Dov’è a nostro avviso la scivolosità di questa posizione “aggiornata” di Amato? È in una teoria dello Stato laico che nel mentre fa rispettare questi assoluti, non nega l’influenza che le religioni possono avere nella stessa vita pubblica e che a suo avviso

«ben può esprimersi e farsi valere nel radicare ed estendere la forza nelle coscienze di questi stessi assoluti». La differenza è qui, e non è poca. Il vecchio, vituperato laicismo riteneva (ritiene?) rischioso che la religione invada la sfera pubblica e la influenzi; pone le conquiste del pensiero liberale di tolleranza giustizia e libero arbitrio al centro dello sviluppo delle persone e delle comunità. Quale tra le religioni oggi storicamente disponibili per le “società postsecolari” è in grado di poter offrire una disponibilità al pluralismo senza “tradire” se stessa, senza incorrere in quello stesso relativismo che viene imputato alla laicità e contro il quale il pontefice romano erge catechismi-vessillo e in quella “contaminazione” che, come si è visto, resta lo spauracchio dei liberali devoti? angelo semeraro

tessiture

Nicola Badaloni, Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Edizioni ETS, Pisa 2004, pp. 526, € 30,00 Nicola Badaloni, Laici e credenti all’alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier, Firenze 2005, pp. 195, €

264

Conoscemmo Badaloni attraverso “Riforma della scuola”, una rivista messa in piedi nel 1955 da Alicata, che Togliatti volle come ministro ombra del Pci per una battaglia

Quaderno di COMUNICazione

delle idee nei campi decisivi della cultura e della scuola. La direzione di quella testata fu sempre collegiale e negli anni vi si avvicendarono Dina Bertoni, una maestra


(…) senza stemperarne il significato teorico in quello pragmatico» (Introduzione). Una scelta di metodo maturata nel convegno pisano sull’insegnamento della storia della filosofia svoltosi due anni prima, a cui non a caso “Riforma della scuola” dette rilievo, dal momento che per la prima volta erano stati affrontati problemi di didattica della filosofia e di altre scienze sociali a questa alleate, cosa più unica che rara in tempi in cui solo le riviste bresciane, cattoliche, sorreggevano il lavoro didattico quotidiano dell’insegnante. Solo molto di recente, del resto, un insegnamento ad hoc di didattica della filosofia ha fatto capolino tra i “settori” dell’orbis scibilium universitario. L’importanza di quel primo manuale di filosofia e pedagogia scritto a due mani non è sfuggita a Remo Bodei, che ne fa menzione nella sua premessa a Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, un volume che gli allievi di Badaloni avevano predisposto per il suo ottantesimo compleanno, ma che il loro maestro non ha fatto in tempo a vedere alla luce. Il ponderoso ed elegante volume raccoglie molti saggi sparsi in cinquant’anni di attività di studio, tasselli di un mosaico sul nostro Rinascimento “inquieto” di cui l’autore ha saputo far emergere i tratti di un energico rinnovamento culturale e sociale seguendone i movimenti molecolari e indagando

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

“competente” e combattiva, compagna di Francesco Jovine, tormentato scrittore meridionalista; Alghiero Manacorda, Lucio Lombardo Radice, Tullio De Mauro, Carlo Bernardini. Per tre decenni circa, prima di rovinare poi negli anni della deregulation nelle mani di pedagogisti di nuova osservanza, riuscì a far emergere un’altra possibilità di pensare e fare scuola, fedele a quell’indicazione gramsciana di apparecchiare tra i banchi di scuola quello “stesso clima educativo” in un paese in difetto di spirito nazionale. Dal gruppo redazionale, per lo più uomini e donne di pensiero e di scuola, nacquero non di rado dei veri e propri sodalizi culturali e intese di lavoro anche sul piano storico-storiografico. E così tra il ’66 e il ’68 Nicola Badaloni e Dina Bertoni mettevano insieme le rispettive competenze nel lungo viaggio di un manuale a uso dei Magistrali che doveva raccogliere in poche centinaia di pagine lo svolgersi del pensiero umano, dai presocratici al XX secolo, nel tentativo di irrobustire una professionalità degli insegnanti elementari da sempre incerta e tenuta sottotono. Quella Storia della pedagogia in tre volumi, pubblicata da Laterza e ormai introvabile, aveva un tratto, una intenzione che la distinguevano da altri manuali. Gli autori intendevano illustrare ai futuri maestri «l’intenzione dei filosofi di influire sulle scelte e sui comportamenti umani

265


tessiture 266

gli indizi più nascosti, dando così voce a una ricca presenza di personaggi marginali. «Non siamo noi ad avere un’idea troppo scolastica e professionale della filosofia?» si chiede Badaloni interrogando Machiavelli e altri “minori” sul rapporto uomo-natura-società. Ma è proprio il bisogno di seguire nel loro farsi le speranze di liberazione e di rinnovamento sociale che fecero di Badaloni un battitore di sentieri nascosti, valorizzando autori o aspetti del loro pensiero scarsamente conosciuti. Così è stato per Niccolò Franco, un “poligrafo” del Cinquecento che gli squaderna le idee del tempo sulla riforma religiosa; per Bruno, che più di altri egli ha sentito, leggendolo in filigrana con Ficino e Lullo ma anche con temi erasmiani. Di Machiavelli, figura preminente in questa raccolta di scritti, di cui Badaloni prese a occuparsi dopo gli studi su Vico e la cultura napoletana e quando già era immerso nei classici del marxismo, il saggio Natura e società nei discorsi di Machiavelli, elaborato sulla base di una relazione svolta al convegno internazionale su Il pensiero politico del Machiavelli e la sua fortuna nel mondo (Roma, 28 e 29 settembre 1969) e pubblicato poi nel 1972 dall’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento (ma è un peccato che il saggio resti privo di riferimento di luogo e data, e che non ve ne sia traccia nella pur diligente stesura di una bibliografia, peraltro ster-

Quaderno di COMUNICazione

minata, di Badaloni) pone in evidenza quella capacità a leggere i segni che in una certa costituisce una prescienza delle cose (p. 6): una virtù addestrativa contro le avverse sorti della fortuna, che ci viene per via di natura, «da questa condizionata e necessitata», ma che si sviluppa nella società, «da questa [altrettanto, ndr] condizionata e necessitata». Siamo nella piena immersione in quell’ineludibile storicismo di quegli anni, ma di uno storicismo sui generis - come giustamente rileva Giuliano Campioni in un ricordo sul maestro scomparso – da accogliere come ansia di cambiamento «per conoscere e mutare i condizionamenti materiali e creare spazi di libertà» (Campioni). Una trama “godibile” di questo tratto originale del lavoro storiografico di Badaloni è nel saggio su Machiavelli che apre la raccolta degli scritti, dove si dimostra che la prescienza non imbarazzava gli antichi almeno quanto sembra imbarazzare i moderni. Quel sentire che Badaloni accoglie dal mondo premoderno nelle pratiche oracolari e profetiche e nella ritualità, in cui il mito si perpetua e si rielabora, e vede poi riemergere senza soluzione di continuità nella formazione herbertiana di Vico, come si dirà più avanti, non trova più una sua collocazione nella scienza (e tra gli scienziati) della significazione. Invitare i semiologi a tener conto di questo aspetto prelinguistico


lega, che Herbert non sfuggì, per questa sua professione di laicità, all’Inquisizione. Né avrebbe potuto sfuggirvi, dal momento che oggetto della polemica sono i custodi della rivelazione, che pongono la fede al di sopra della ragione. Ma la questione posta va al di là del fatto religioso, e chi scrive è più attratto a trarne succo per riflessioni sugli aspetti metacomunicativi della comunicazione, a cui quelle notizie comuni, di cui ogni essere umano è corredato dalla natura-provvidenza, e che costituiscono il suo proprio sentire, aprono piste interessanti per lo sviluppo di una teoria metacomunicativa che vada al di là degli atti linguistici. Certo «il mero sentire – ci avverte l’autore - potrebbe suggerire terrori di immaginari mostri, trasformando in spettri ciò che è oggetto del nostro sentire e il mondo in un’immane trappola di pericoli e di inganni» (p. 2), ed è proprio per questo che «ci è stato fornito un pur limitato pacchetto di notizie comuni» che ci consente di tenere in tensione dialettica il sentire naturale con quello di ragione, le emozioni, le passioni e il loro necessario governo. A fronte di questa ricchezza filogenetica del sostanzialismo umano racchiusa nell’idea di una naturaprovvidente che a nessuno nega il corredo di base per aprire il suo sguardo sul mondo e sentirsi adeguato a interpretarlo e comprenderlo, sta un logos-discorso che

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

nell’esperienza di relazione sembra un’impresa disperata. È una questione su cui occorre tornare nei luoghi più specifici, suggerita tuttavia dall’esistenza di un filone carsico che Badaloni non perde d’occhio nel tratteggiare il passaggio tra Rinascimento e Modernità matura. Nell’ultima opera che egli ha appena fatto in tempo di licenziare per la stampa il tema del sentire (nel significato latino di percepire tanto per via sensitiva che intellettiva) riemerge attraverso la figura e gli scritti di un “laico credente”, Herbert di Cherbury, che assume quel vero - che a Vico suggerirà il criterio generale del verum-factum - come intuizione, appartenente all’istinto naturale, insito in quelle notizie comuni che funzionano come a-priori universale nel volgere lo sguardo al mondo. La modernità di quest’autore è straordinaria, e Badaloni ne coglie il cuore in una visione religiosa aperta e possibilista – in questo senso “laica” -: «gli uomini, pur di diverse religioni, o si pongano il fine di fondarne una universale comune a tutti, o, almeno, pur partecipando al culto della religione natia, intimamente ne avvertono le insufficienze e orientino la loro coscienza in modo da non farsi partecipi delle falsità e imposture che essa contiene, combattendole, se possibile, apertamente» (p. 178). Si è saputo, di recente, e l’informazione è venuta allo stesso Badaloni da un suo col-

267


manifesta la tendenza a non lasciarsi dominare dalle opinioni e la modernità di Herder-Vico è nel rifuggire da «un vuoto opinari, senza connessione alcuna con la relazione tra oggetti e facoltà, su cui si basa tutto il conoscere provvidenzialmente (che a noi piace leggere naturalmente) fondato». Non mancano insomma spunti per un’attualizzazione del discorso di questo laico credente (ma non devoto a quanto pare, se si considerano gli affondi contro i “sacerdoti” di ogni religione) sul crinale di un’episteme comunicativa, crocevia di riflessioni su linguaggi e teknái. E sulle influenze di questo pensiero provvidenzialista nella

formazione di Vico rinviamo agli approfondimenti dei capitoli centrali del volume di Badaloni. Innanzi all’imponenza di un’opera qual è quella che complessivamente Badaloni ci consegna, viene da pensare al come oggi trasmettere alle generazioni che sopravvengono la ricchezza delle possibilità nascoste in ricerche che coincisero col lungo viaggio di una vita attiva di “Marco”. Il punto è ineludibile per liberare un immaginario ingolfato e colonizzato favorendo nuovo inter-esse di conoscenza sui punti di svolta del pensiero umano.

Confrontandosi col linguaggio la

mette il sapere filosofico alla

filosofia non può sfuggire a uno stretto confronto con la comunicazione, nel senso che - sostengono gli autori di alcuni contributi raccolti in questo volume – è proprio la comunicazione a esporla alla sfida di dell’alterità. Una necessità obbligante, che può favorire l’interesse del filosofo solo a patto di rinunciare a una reductio ad unum con il trucco di un qualche assoluto. È l’apertura all’altro, alla sua vitalità, ai suoi disordini che

prova, consentendogli insieme di salvarsi dalle persistenti tentazioni di disciplinare il disordine e la varietas umana entro categorie ingessate. Una sfida di verità dunque, dal momento che la prova della comunicazione può essere sostenuta solo a patto di una rinuncia al primato dell’interpretazione: questo il succo di una coraggiosa presa di coscienza di alcuni studiosi di storia della filosofia degli atenei padano-veneti (Borutti inse-

angelo semeraro

tessiture

Mario Ruggenini, G. Luigi Paltrinieri, La Comunicazione. Ciò che si dice e ciò che non si lascia dire, Donzelli, Roma 2003, €. 18,00

268

Quaderno di COMUNICazione


C’è solo da augurarsi ora che altre voci disciplinari, almeno tra quelle ammesse alla pur lauta mensa della tab. XIV delle lauree in scienze della comunicazione, possano, in un futuro che ci auguriamo non troppo lontano, arricchire questo dibattito meritoriamente proposto da Donzelli. Penso al diritto, l’economia, le scienze della natura ecc. Non è qui possibile dar conto di ogni singolo contributo di quest’utile collettaneo, e non si può che accennare alla cornice critica in cui Ruggenini, uno dei due curatori, giustifica la scelta di un sottotitolo tanto misterioso quanto intrigante: ciò che si dice e ciò che non si lascia dire, spiegando quell’“indispensabile consapevolezza critica” di cui invita a dotarsi tanto nel comunicare che nell’accogliere la comunicazione, in qualsiasi veste essa si presenti, dal momento che nel detto c’è tanto qualcosa che non si deve dire, quanto qualcosa che non si può dire e che questa ambivalenza «costituisce un elemento critico decisivo quando si parla di comunicazione in un mondo dominato dai media e dai processi dell’informatizzazione, in cui tutto sembra potersi dire a tutti e da tutti» (p. X). Proprio il non detto che costituisce uno degli aspetti oppressivi della vita quotidiana, perché ci costringe a cercare e confrontare fonti, a informarsi meglio, a domandare e dialogare, lungi dal depotenziare la comuni-

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

gna a Pavia; Cortella, Goldoni, Paltrinieri, Perissinotto e Ruggenini a Venezia) e di altri atenei (Desideri insegna a Firenze, Gargani a Pisa, Trincia a Roma “La Sapienza” e Violi a Bologna) che avviano quel confronto di cui si è sempre avvertita la mancanza, ma indispensabile oggi per non chiudersi in improduttivi risentimenti, considerata la crescente domanda di formazione nell’area di studi comunicazionali. Perissinotto spiega questa antica diffidenza della filosofia nei confronti della comunicazione; diffidenza che viene da lontano, e nel moderno si dispiega lungo l’arco di pensiero che sta tra Locke ed Heidegger. I materiali racchiusi in questo volume sono disciplinati su due piani: da una parte un dibattito più propriamente interno al discorso filosofico (M. Ruggenini, Il tempo del discorso; A.G. Gargani, Il dicibile e l’indicibile: Wittgenstein e Frege; F. Desideri, L’incomunicabile nella lingua; L. Perissinotto, Sulla differenza nei riguardi della comunicazione; L. Cortella, Comunicare le cose. Adorno e il linguaggio); dall’altra un confronto con le scienze sociali e del linguaggio: dall’antropologia (S. Borutti, Sentimento e scrittura dell’altro), alla semiologia (P. Violi, Il senso dell’altro), alla linguistica (L. Paltrinieri, La comunicazione umana come relazione fática e interpretativa) e la psicoanalisi (F.S. Trincia, Il senso del silenzio: J. Derrida e S. Freud).

269


tessiture 270

cazione, la rende semmai più vitale. E tuttavia proprio a ragione di questa sua varietas la comunicazione rappresenta un campo dinamico di interazioni: «una riserva di possibilità di esistenza rispetto alle tendenze all’appiattimento, all’omologazione, e a quello sterminio delle differenze che sembrano oggi dominanti» (ivi) dal momento che l’ambivalenza del detto e del dire potenzia la discorsività, inesauribilmente. Comprendere proprio questo significa significa: un plurale che entra in discussione con la parola viva, scritta o parlata che sia; un buon antidoto all’antica scissione platonica che aveva gerarchizzato le forme espressive umane. Il discorso, incalza Ruggenini, è tale «non solo in quanto esso è espresso verbalmente o per iscritto, ma in quanto è compreso come tale. E comunque se e perché trova un’esistenza che l’ascolta e si confronta con quel che esso dice» (p. XI). L’aspetto donativo della parola, alla quale l’interprete corrisponde un immediato controdono di attenzione e di domande, responsabilizza gli attori di una comunicazione portata alla consapevolezza (critica) del valore degli atti linguistici e di una pedagogia del buon ascolto. L’esperienza dell’alterità costituisce un punto d’incontro ineludibile tra le scienze sociali. È per questo che la comunicazione, più che lasciarla a quelli che se ne vogliano occupare per vocazione retorica, o

Quaderno di COMUNICazione

per pulsioni sadomaso, costituisce un interesse primario di una comunità scientifica degna di questo nome, dal momento che nessuna scienza progredisce da sola e sempre si darà il momento di un redde rationem tra scienze della natura e scienze dell’uomo. Non un optional perciò, ma un interesse vitale a lavorare ciò che non si lascia dire, considerando la mancanza di trasparenza dell’oggetto, che Borutti approfondisce nell’aporia del «doppio legame irresolubile dell’alterità», come il vero e proprio problema che dal piano epistemologico rimbalza su quello politico, se è vero che l’Occidente si trova oggi a dover fronteggiare se stesso e saldare il debito storico degli infiniti atti di misconoscimento compiuti contro ogni suo altro. Nel loro insieme i contributi di questo prezioso volume hanno il merito di problematizzare i punti focali di un dibattito che come si è detto stenta a partire. Gargani denuncia i nonsense della filosofia partendo da Wittgenstein, e Desideri pone in evidenza la incomunicabilità che scaturisce da un pensiero che sfugge alla relazione tra senso e segno, mentre Violi elabora i presupposti di una soggettività di relazione e Cortella, richiamando la nota polemica di Adorno nei confronti della dialettica hegeliana, fa luce sulla carenza di rapporto con la dimensione del linguaggio («un pensiero dell’identità che dimentica le differenze»),


cogliendo così l’ostacolo remoto di quella incomunicabilità a cui sembra condannato il dialogo interumano a dispetto dell’accresciuta potenza tecnologica delle reti connettive. Acquista rilevanza a questo punto la “riscoperta” di Paltrinieri di una funzione salvifica, tutto sommato, del linguaggio fático, almeno per alimentare una vita di relazione convenzionale, che non ci lasci sprofondare in quei silenzi di solitudine che il saggio di Trincia, attraverso il confronto Derrida-Freud, indaga nella pratica terapeutica psicoanalitica, dove torna a galla

l’esperienza del non detto che dev’essere portato a linguaggio. Ci salverà l’arte, la bellezza, l’estetica “oltre se stessa” e oltre ogni verità? Con questo interrogativo, posto da un bel saggio di Goldoni, si chiude questo prezioso lavoro di équipe di studiosi di filosofia che hanno avvertito l’esigenza di un confronto aperto coi problemi posti dalla comunicazione nel tempo nostro, senza preconcetti e supponenze.

angelo semeraro

Roberto Esposito, Bìos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. 215, € 18,50 balizzazione. L’autore sceglie perciò di ampliare il suo dittico immunitas/communitas aprendo il paradigma alla pensabilità di una filosofia che si proponga di sostenere una politica della vita e non già una politica sulla vita. Sottrarre, quindi, la biopolitica alla semantica della protezione negativa della vita per rovesciarla in una diversa affermazione di senso (p. XVII). Michael Foucault è un punto di riferimento ineludibile, avendo per primo studiato la relazione tra regime biopolitico e potere sovrano. Una definizione tuttavia incerta per Esposito; ancora vincolata al principio d’ordine. Se è vero che

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

Roberto Esposito delinea un diverso ordine di discorso e un’altra forma di sapere centrata sulla categoria della biopolitica. Una nozione già nota (Foucault, Giorello, Agamben) ma che dalle fitte e dense pagine di analisi assume una centralità strategica e che oggi rinvia alla crescente sovrapposizione e apparente indistinzione tra politica e diritto, tra vita e morte, tra norma ed eccezione. In assenza di adeguate categorie interpretative dei processi in corso, il tentativo è ricondurre a un unico orizzonte di senso le molteplici e, per molti versi incomprensibili, espressioni fenomeniche della glo-

271


tessiture 272

dopo Foucault niente è interpretabile al di fuori della categoria della biopolitica ed è impossibile non porsi gli interrogativi radicali da lui posti sull’incredibile rovesciamento della vita in morte che la politica è capace di generare, lo sguardo va tuttavia esteso, andando oltre lo schema individuo-sovranità sia della versione assolutistica che di quelle liberali. Sullo sfondo di un’atmosfera teorica che assume e riflette sugli scenari descritti dall’Impero di Hardt e Negri (2001), Esposito descrive l’evoluzione del concetto di bìos attraverso più prospettive: organicistica, neo-umanistica e naturalistica, individuando nel tempo storico della seconda modernità il primo autentico esempio di politicizzazione della vita quale concezione e pratica di una biopolitica negativa. Perché è con i totalitarismi che – a suo giudizio - si è biologizzata la politica e trasformato il potere assoluto in politicità del bìos o tanatapolitica. Senza rinunciare all’affondo decostruzionista, Esposito ritiene che il concetto di biopolitica sia oggi esposto a pressione ermeneutica crescente a causa del suo legame con la tecnica, e traccia la differenza semantica tra l’originale significato di zoé quale espressione pura di nuda vita (come ci suggerisce anche Agamben in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri 1996) e quella di bìos intesa invece come creazione di

Quaderno di COMUNICazione

una forma materica qualificata. E non ritiene che la relazione nefasta con la téchne sia ascrivibile esclusivamente al contesto attuale. Il micidiale sdoppiamento di politica e vita era già stato intravisto da Nietzsche come biocrazia e denunciato con forza dalla Arendt e da Foucault. Nessun filosofo tuttavia riesce a sciogliere quello che è considerato l’enigma del bìos, come lo intende Esposito, che ripartendo da alcune categorie oggi in crisi quali diritto, sovranità, democrazia rileva i limiti del linguaggio giuridico, l’insufficienza semantica, il loro uso spregiudicato, e ci invita a scavare dentro al paradigma di sovranità per appropriarci di nuovi significati. Il gioco perverso della comunicazione infatti ci costringe a usare una semantica ordinaria per descrivere eventi straordinaria che definiscono un altro regime sovrano che ha nel frattempo spostato gli obiettivi e i fini. La metafora dell’esportazione della democrazia è un plateale esempio di traslazione di codice, di mutazione di modello, dalle implicazioni teoriche e pratiche notevoli, in quanto essa suppone il congelamento della categoria e al tempo stesso la sua universalizzazione come valore, rendendo difficile poterne cogliere la trasformazione ed effettuarne il rovesciamento. Lo stesso smascheramento può essere fatto emergere con la semantica della guerra, questo


gli scenari geopolitici che prefigura. Questione di enorme rilevanza planetaria e su cui si gioca il destino e la sopravvivenza di intere popolazioni del sud del mondo, la politica della biodiversità che riguarda il bìos, cioè la vita stessa di tutti noi abitatori della Terra. Sia che la si colga sotto il profilo biotecnologico della manipolazione e riproduzione genetica della vita, sia di quello espropriativo delle risorse, essa rinvia prepotentemente all’affermazione del diritto della forza e non viceversa. Questioni dunque di una gravità e complessità di fronte alle quali impallidiscono le etiche delle contrapposizioni. C’è, dunque, un rovesciamento che pone inquietanti interrogativi anche sul futuro degli organismi istituzionali, nazionali e internazionali, più rappresentativi. Che coglie l’ambivalenza di un dominio partecipato, di chi “consapevolmente” si assoggetta a un potere pastorale. Un dilemma irrisolto delle democrazie contemporanee: in che modo, infatti, introdurre direzioni di coscientizzazione dei soggetti in regime democratico, se non tutti esprimono il desiderio di esserlo? Nelle diverse sezioni del testo, Esposito opera interessanti slittamenti semantici, da zoé a bìos, dal corpo alla carne, da legge a norma, da vita a nascita, che si rivelano essenziali al dispiegamento del suo nuovo paradigma e, facendo uso di

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

rituale mortifero del modello sovrano, ormai la vera origine e anche lo sfondo della politica, mentre il diritto ne è soltanto il suo utile mezzo. Ci fa notare Esposito come tutte le motivazioni delle guerra anche quando rinviano alla razza, alle etnie, al bios, sono comunque volte al fatto biologico, alla conservazione, allo sviluppo e alla gestione della vita; ogni morte è perciò assunta e interpretata come esigenza vitale posta innanzi alla società, di cui il potere deve farsi carico. È da questa politica che deve giustificare la morte per garantire la vita che nascono le città panico, per dirla con Virilio. Città blindate poste in stato d’assedio dai dispositivi di controllo del potere sovrano attraverso la giuridicizzazione del diritto per difendere il “proprio” potere dalle forze che lo minacciano. Il rovesciamento giuridico qui è palese poiché, chiarisce Esposito, non è il diritto a dirimere la guerra, ma al contrario è la guerra «ad adoperare il diritto per consacrare i rapporti di forza da esso definiti» (p. 19). E intravede nel passaggio dalla legge intesa come trascendenza nel diritto, alla norma e alla regola, il momento storico e politico che instaura il regime biopolitico. Su questa prospettiva del diritto e della norma si sviluppa in modo eccellente uno dei mille piani su cui si può dispiegare la teoria. È in questo passaggio che si colloca il vero clou dell’analisi, proprio per

273


tessiture 274

tre figure, la carne, la norma e la nascita, egli decostruisce costruttivamente una biopolitica negativa vs affermativa. Per Esposito occorre pensare la politica nella forma stessa della vita, rapportarsi cioè alla politica dall’interno, non per accettazione o rifiuto ma per un intrinseco rapporto vitale. In altri termini quel che egli rivendica è la radicale identità tra vita ed esistenza, tra natura e politica, ma anche la naturale animalità dell’umano che la cesura arendtiana e heideggeriana precludono. Sostiene, infatti, che nell’uomo non c’è mai la perdita della relazione con il bìos, con il suo essere vivente. In quanto egli non «è altro dal vivente, o più che vivente, ma un vivente umano». E in quanto vivente egli non è differente per natura dall’animale ma solo per funzione. E in una esplosione discorsiva di critica all’umanesimo antropocentrico afferma che il passaggio tra l’animale e il vegetale è «assai più fluido di quanto abbiano immaginato non solo tutti gli antropologismi, ma anche le filosofie ontologiche che hanno ritenuto di contestarli riproducendone, invece, ad altro livello, i presupposti umanistici» (p. 198). È la sua una prospettiva che può essere definita ecologica, anche se i teorici del pensiero ecologico hanno spostato da tempo molto in

Quaderno di COMUNICazione

avanti la riflessione, elaborando nuove strategie cognitive e risolutive. Molte delle ipotesi neo-evoluzionistiche e post-darwiniane (Damasio, Marurana, Varela, Laszlo, Pievani, Callari Galli) affrontano il nesso complesso della relazione uomo-natura-cultura in senso biologico. Nella stessa direzione biopolitica si pongono l’ecologia della politica, dell’etica, della storia elaborata da Morin, Ceruti e Bocchi che hanno fatto i conti con il soggettivismo giuridico e lo storicismo umanistico. Abbiamo ormai da tempo appreso a cogliere l’ambivalenza dei processi, anche quelli biopolitici dello Stato sovrano che vuole prendersi cura (?) del nostro corpo, delle nostre vite e della nostra morte, e quella della scienza che deve diventare, come sostiene Giorello, più alleata dell’individuo. Quel che gli si può rimproverare, e qui Esposito ha ragione, è di non aver sufficientemente politicizzato il problema e dunque reso esclusiva e centrale la problematica politica, che invece il suo sguardo sagittale propone. Ma questo rientra nel gioco interattivo della complessità e della molteplicità dei piani che ogni questione implica. santa de siena


Richard Florida, L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003, pp. 483, € 17,00 stica distintiva nei confronti di un marxismo ortodosso che leggeva la storia come prodotto della “oggettività” delle leggi economiche. A sua volta, Florida porta alle estreme conseguenze l’idea della “autonomia” (anche se il sociologo americano non usa questo termine) dei comportamenti soggettivi nei confronti delle “leggi” del mercato capitalistico, al punto di rovesciare il rapporto gerarchico fra mobilità del capitale e mobilità del lavoro: non sono più i lavoratori a inseguire l’offerta del mercato, ma sono le imprese e gli investimenti a trasferirsi laddove trovano vaste risorse di talenti e creatività, determinando la fortuna o il tramonto di intere città e regioni. A determinare questa inversione sono, da un lato, le caratteristiche culturali (nel senso antropologico del termine) di una classe emergente – la classe creativa – che ha voltato le spalle all’etica del lavoro in nome di un’etica edonista che la spinge a ricercare luoghi che garantiscano soprattutto un’elevata qualità di vita, dall’altro, le esigenze di un modo di produzione fondato sulla valorizzazione di informazioni e conoscenze, e quindi in continua ricerca di creatività da sfruttare. Le città e le regioni “vincenti”, argomenta Florida, sono quelle che - comprendendo le implicazioni

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

La frammentazione dei linguaggi disciplinari impedisce di valutare in quale misura, da alcuni anni, l’analisi sociologica stia convergendo nella definizione delle caratteristiche di fondo di quel complesso insieme di trasformazioni che è stato variamente battezzato come transizione alla società postmoderna, postindustriale, postfordista, dell’informazione, della conoscenza ecc. Una significativa conferma di questa “incomunicabilità” fra modelli teorici concorrenti, che pure evidenziano gli stessi fenomeni, mi pare possa essere considerata la scarsità (se non l’assenza) di accostamenti fra il concetto di “classe creativa” elaborato da Richard Florida e le elaborazioni del neomarxismo italiano di tradizione “operaista” (mi riferisco, in particolare, al dibattito avviato da Toni Negri e Michael Hardt con Impero e proseguito con la pubblicazione del feltrinelliano Lessico del postfordismo). Mi sforzerò di ovviare al deficit di comunicazione evidenziando telegraficamente i punti di convergenza fra i due discorsi. Il nucleo tematico più evidente è quello della soggettività di classe come motore dello sviluppo capitalistico. La scuola operaista, dai “Quaderni Rossi” in poi, ha fatto di tale concetto la propria caratteri-

275


tessiture 276

della nuova alchimia socioculturale – hanno sviluppato politiche in grado di elevare il tasso delle “tre t” (tecnologia, talento, tolleranza) sul proprio territorio. Fondamentale il riferimento alla terza t: per Florida, la tolleranza non risponde solo all’imperativo etico-culturale dettato dall’affinità fra creatività e comportamenti sociali “devianti”, ma anche e soprattutto all’esigenza capitalistica di “mettere al lavoro” il talento delle minoranze eccentriche e anticonformiste. Un punto che evidenzia ulteriori convergenze con l’intuizione neo-operaista relativa alla centralità della “creatività linguistica” (vedi, fra gli altri, Paolo Virno e Cristian Marazzi) nel modo di produzione postfordista. Il confronto fra i due modelli teorici si fa più problematico e complesso quando ci si sposta sul terreno della “composizione di classe”. Per Florida, la classe creativa è caratterizzata da un variegato mix di figure professionali (scienziati, ingeneri, architetti, designer, scrittori, artisti ecc.) che, per le loro tendenze all’individualismo e/o alla solidarietà corporativa, frenano, se non impediscono del tutto, lo sviluppo di una “coscienza di classe” unificata: per usare una terminologia marxiana, la classe creativa di Florida è una classe in sé che non riesce a diventare una classe per sé, con la conseguenza che essa, mentre domina di fatto i nuovi scenari economici, non riesce né a tradurre i

Quaderno di COMUNICazione

propri interessi in rappresentanza politica, né a esercitare la propria egemonia (in senso gramsciano) nei confronti delle altre classi sociali (dalle quali tende piuttosto ad “autosegregarsi”). Nel modello operaista, viceversa, l’idea tradizionale di classe viene superata e sussunta nel concetto di “moltitudine”, un’entità di cui non fanno parte solo gli strati professionali superiori elencati da Florida, ma che abbraccia l’intero corpo sociale la cui “intelligenza collettiva” appare esposta (anche se in differenti misure a seconda dello strato di appartenenza) ai nuovi processi di appropriazione capitalistica. Così l’abbattimento del confine fra tempo di lavoro e tempo libero, che Florida legge perlopiù in termini di emancipazione – il lavoro mi interessa solo se e nella misura in cui coincide con le mie aspirazioni di autorealizzazione -, nel discorso operaista assume uno statuto radicalmente ambiguo, nella misura in cui, dietro ogni “liberazione”, si nasconde la trappola dell’autosfruttamento. Resta da chiedersi il motivo dell’attenzione relativamente scarsa che l’area teorica del neomarxismo italiano ha dedicato al libro di Florida laddove, al contrario, la cultura americana aveva accolto con estremo interesse il libro di Negri e Hardt, e un numero crescente di autori (valga, oltre a quello di Florida, l’esempio del Manifesto hacker di Wark McKenzie) appare


impegnato a riportare la composizione di classe al centro dell’analisi sociologico-economica. La ragione di fondo della mancata reciprocità di questo interesse va ricercata, probabilmente, nel peso relativamente scarso della “classe creativa” italiana rispetto a quella di altri Paesi occidentali (il 13% contro il 30% degli Stati Uniti), caratteristica che, nella prefazione all’edizione italiana del libro, Florida classifica fra i motivi di

fondo delle nostre attuali difficoltà economiche, ma anche e soprattutto della sua diversa composizione: la prevalenza dei settori della moda, dell’architettura e del design rispetto a quelli delle nuove tecnologie di comunicazione la rende sicuramente meno stimolante per sguardi interessati primariamente alle dinamiche del conflitto sociale. carlo formenti

Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla grande Guerra a Salò, Einaudi, Torino 2005, pp. 412, € potenziano, le assecondano, le modellano e le utilizzano come risorse sui versanti della politica, della nazione e del mercato. L’infanzia non è più e non solo oggetto di attenzioni educative specifiche da parte della famiglia e della scuola, il bambino viene scoperto come segmento fondante del mercato e icona capace di incrementarlo veicolandone efficaci messaggi promozionali, titolare di un tempo libero cui occorre offrire spazi e occasioni, protagonista di una mobilitazione pre e para-politica e soprattutto pre e para-militare destinata presto a divenire decisiva nella politica di forza delle nazioni, garanzia biologica della loro vitalità e quindi del loro futuro. Il popolo bambino è l’italiano

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

Il Novecento della pedagogia è anche il secolo dei mezzi di comunicazione, dell’immaginario di massa. In Italia, al principio del secolo, con l’aumento della scolarizzazione e la diffusione delle pratiche della scrittura, bambini, adolescenti e giovani vengono esposti contemporaneamente a fenomeni più complessi di manipolazione che investono prepotentemente la sfera dell’immaginario. Non solo l’alfabetizzazione, di più le nuove tecniche di produzione, riproduzione, manipolazione dell’immagine, poi quelle di conservazione e di trasmissione a distanza del suono, assicurano comunque una ampia circolazione dei messaggi che rispondono ad aspirazioni, bisogni, istanze tipiche dell’infanzia e dell’adolescenza, le

277


tessiture 278

medio, un bambino da educare, conquistare, sedurre, qualche volta ingannare. Al principio del Novecento il mercato e la nazione, il consumo e la patria scoprono di non poter fare a meno dell’infanzia, prendono in carico un percorso evolutivo che arriva fino all’età di imbracciare il moschetto. Nel 1911 sono 12 milioni i bambini italiani sotto i 14 anni, un terzo della popolazione italiana e la guerra non solo armi, ma tecnologia e comunicazione - segna indelebilmente un passaggio al consumo centrale dell’infanzia. L’indottrinamento patriottico inizia presto trasformandosi in forma di educazione alla guerra. La scuola è patriottica quanto mai, costruisce i presupposti etici del risparmio e del salvadanaio, dei muscoli e delle lacrime. La propaganda non può che utilizzare competenze pedagogiche, psicologiche e comunicative. Le prime riflessioni delle scienze sociali intorno alla manipolazione delle masse vengono sollecitate anche dalla centralità di una produzione comunicativa - dai periodici alla letteratura, dalle cartoline ai manifesti, dai fumetti ai libri scolastici, dalla radio al cinema che risponde all’idea di una mobilitazione dell’infanzia in funzione nazional patriottica. Antonio Gibelli ha usato un’eterogeneità di fonti e tutta la ricca strumentazione metodologica dello storico per mandare in stampa questo saggio. La sua ricerca, a

Quaderno di COMUNICazione

lungo concentrata intorno alla Grande guerra, sposta di poco l’attenzione, si concentra sulla riduzione della guerra in scala per l’infanzia e sul modellamento dell’infanzia a dimensione della guerra, ragiona sull’immaginario e sulle potenti leve che lo muovono. Il processo è a doppia mandata, una sorta di infantilizzazione del soldato e di militarizzazione del bambino. La patria assume le forme della mamma, le cartoline mettono in scena un bambino fotogenico e arruolato, vestito da soldato, con imbuti in testa e spade di legno tra le mani. È l’addomesticamento della guerra che seduce con il fascino della sospensione delle regole, della infrazione delle gerarchie familiari, dell’evasione dalla routine e del precoce accesso al mondo adulto. Nessun aspetto della guerra moderna sfugge alla mimesi del gioco. Lo scoutismo dei primi anni del ’900 equivale ad avventura e simulazione della guerra, i temi rientrano ne “Il giornalino della Domenica” di Luigi Bertelli e nel “Corriere dei Piccoli”, nel lavoro editoriale di Vallardi e Bemporad, nella letteratura per ragazzi che a modello prende I ragazzi della via Pal. Il passaggio al Ventennio è già predisposto. Gibelli si muove tra il primo Novecento e la fine della Seconda guerra mondiale. Nel 1936 saranno cinque milioni e mezzo i minori organizzati nell’Opera Balilla, nel 1942 quasi nove milioni


gli iscritti alla Gioventù Italiana del Littorio (dai 4 ai 21 anni). Mussolini è prima di tutto un maestro di scuola. Lo storico registra e documenta una «costitutiva, ipertrofica vocazione pedagogica del mussolinismo». La sfida decisiva per il potere nella società di massa è rappresentata dal controllo dell’immaginario. Conquistare quello infantile è la condizione per garantire il carattere integrale del controllo e la sua proiezione sul futuro, come aspirano a fare i regimi totalitari. Nell’opera di mobilitazione del popolo bambino le immagini giocano una parte centrale.

Cartoline, figurine, fumetti, le copertine dei quaderni per la scuola, i giornalini “Balilla”, “Vittorioso”, “Avventuroso”, le copertine dei periodici disegnate da Antonio Rubino e Gino Boccasile. L’eroe Mussolini scivola dallo schermo cinematografico, evocato nelle vesti di Scipione l’africano, alle pagine dei libri di scuola, a cavallo, in armi, lavoratore o sportivo, comunque eroico. L’effetto è potente e capillare, il destino dell’Italia è quello che conosciamo.

Claudio Marra, Nelle ombre di un sogno. Storia e idee della fotografia di moda, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 242, € 21,00 giovanni fiorentino

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

La pelle della moda appartiene alla sfera mediale, l’abito da sempre ha bisogno di apparire e moltiplicarsi per l’occhio sociale e così la storia delle comunicazioni di massa si intreccia inevitabilmente con la storia della moda. La sensibilità culturale evolve, si affina, la ricerca scopre vecchi e profondi legami che appartengono alle interazioni tra consumi, media, arte e non a caso la Treccani mette in preparazione una Enciclopedia della Moda, diretta da Tullio Gregory, con un’uscita programmata per il 2005 che esplora il campo a partire dalla metà dell’Ottocento ai nostri gior-

279


tessiture 280

ni. Mancando bussole di orientamento, Meltemi manda in libreria un progetto editoriale in quattro volumi che è una sorta di Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda. Per ora i saggi usciti sono due, il primo è Moda e società di Maria Cristina Marchetti, il secondo scritto dal sociologo Nello Barile si muove tra Moda e stili. Poi la morte di Richard Avedon, e prima ancora del grande Helmut Newton, rendono tempestiva l’uscita di un ricchissimo libro che attraversando l’intero Novecento declina il rapporto moda/immagine. Una relazione straordinariamente virtuale, fotografia che è moda e moda che si fa fotografia, rapporto che evoca necessariamente il transitorio e l’eterno, il fugace e il definitivo, la superficie del mondo. A costruire un percorso denso, appassionante è Claudio Marra, esploratore dei rapporti arte/fotografia, che insegna peraltro al nuovo corso di laurea specialistica in Culture e tecniche del costume e della moda a Bologna. Questa storia affonda le radici nell’Ottocento, ed è fatta di corpi, costumi e consumi femminili, fotografi di moda che non sanno di esserlo e modelle prima dei tempi piuttosto consapevoli, come Virginia Oldoini, nota come contessa di Castiglione, personalità esagerata che sa nascondersi e costruire un sogno a occhi aperti vero in immagine, fotografata e rivestita dai capi unici della sartoria parigina di

Quaderno di COMUNICazione

Charles Frederick Worth, fino a che il suo destino immaginario diventa così prepotente da farle decidere di coprire gli specchi allo sguardo della sua decadenza negli ultimi anni della vita. Storia che si può raccontare più ordinariamente pensando alla prima fotografia di abito e modella apparsa nella rivista “La Mode Pratique”, nel 1892, che riflette poi il gioco di una grafica che insegue la fotografia e della fotografia che insegue l’illustrazione nelle riviste parigine fine secolo, costruendo gusto, tendenze, emulazioni. Più decisamente nascita di riviste che costruiscono la storia effimera delle mode, si deve partire da “Vogue”, da “Harper’s Bazar”, dove appaiono le fotografie pittoriche, flou di Adolf De Meyer, europeo trapiantato negli Stati Uniti, che immerge il vestito in giochi sensuali di luce, in un’atmosfera rarefatta. Siamo al principio del Novecento, nel 1909 “Vogue” è una piccola rivista, tira solo 14000 copie per le edizioni Condé Nast. Nel 1923 De Meyer passa ad “Harper’s Bazaar” del magnate Randolph Hearst, e Edward Steichen approda con un contratto straordinario a capo delle redazioni di “Vogue” e “Vanity Fair” dove resterà fino al 1938. Dalla sua postazione inventerà la donna del tempo libero, dello svago e dell’impegno sportivo, il modello di donna che incarna la praticità della vita moderna. Gli abiti di Paul Poiret vivono in composizioni secche e contrasti di luce che evocano l’in-


Uniti all’insegna del geniale Art Director di “Harper’s Bazaar” Alexey Brodovitch, che lancia Irving Penn e Richard Avedon. Penn usa un bianco e nero che ha la forza delle incisioni, le sue inquadrature stanno tra Paolo Uccello e De Chirico, l’eleganza della bellissima Lisa Fonsangrives offre nuova aura all’immagine. Dall’altra parte Avedon esalta l’artificialità dell’ambiente umano, si gioca una narrazione interrotta o ricomposta dell’immagine sintetica, la teatralità e la sospensione di Dovima tra gli elefanti in abito da sera Dior, lancia modelle come Twiggy e Veruschka. È l’epoca di Mary Quant, dei collant colorati, di stivali, cinture e borse in PVC, le modelle giovanissime e magre indossano minigonne, l’immagine è Pop con David Bailey eternizzato da Blow Up di Antonioni, oppure è Op, che sta per l’Optical di un Hiro ad esempio, tutto forme e colori, immagini stroboscopiche, solarizzazioni, contrasti, luci al neon, un collier di Tiffany è allacciato allo zoccolo nero di un toro. Poi la fotografia si carica del recupero di fisicità e pulsioni erotiche, Guy Bourdin sfrutta un’idea di fotografia pseudo-thriller a sfondo erotico, le scarpe di Jourdan sono disseminate come indizi polizieschi in luoghi dove è accaduto qualcosa di inquietante. Al glamour spinto di Bruce Weber e Herb Ritts, Pter Lindbergh e Steven Meisel, che corrispondono alla riscoperta del corpo maschile di Armani e Calvin Klein

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

fluenza cubista, Picasso e il Futurismo. Sull’altro versante dell’Atlantico, Parigi è riferimento e scuola, l’edizione francese di “Vogue” ospita le immagini del barone estone Gorge Hoyningen Huene, una sorta di architetto concettuale dell’immagine, i costumi da bagno e le cuffie recuperati negli anni Ottanta da Armani, si espone l’essenzialismo di Coco Chanel, anche il famigerato Chanel n. 5 è tradotto in istantanee che sono metaforiche messe in scena, le geometrie sono minimaliste, si libera lo spazio, c’è il rigore costruttivo e il senso del vuoto echeggiante Mondrian. Horst P. Horst invece gioca esplicitamente su sensualità ed erotismo, le luci incidono sulle spalle femminili, il corsetto provocatoriamente mal chiuso di Mainbocher è del 1939. In Europa lavorano Man Ray, Blumenfeld e Cecil Beaton con i suoi tableaux vivant e un certo esotismo teatrale riconosciutogli con due Oscar come costumista, ma da ricordare intensamente per una foto pubblicata nel 1941 su “Vogue”: Londra, una modella di spalle è stretta in un sobrio tailleur di Digby Morton, il suo sguardo è rivolto sul palazzo crollato sotto i bombardamenti tedeschi. Martin Munkacsi, poi, da fotografo sportivo passa all’istantanea che della moda fa un ambiente dinamico, vitale, accogliendola sui bordi delle piscine, nei campi da tennis o nei circuiti automobilistici. Il dopoguerra si avvia negli Stati

281


David Lyon, Massima sicurezza. Sorveglianza e “guerra al terrorismo”, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 194, € risponde Newton con le sue valchirie, un misto di voyeurismo, feticismo e sadomaso che distrugge i confini tra alto e basso e disegna un futuro possibile di corpi bionici e postumani. L’eco è negli sconfinamenti provocatori di Toscani, il presente nei mondi artificiali e onirici di David Lachapelle, Urgen Teller, Terry Richardson, che rivelano un mondo eterogeneo e imperfetto, un’occhio da etnologi della moda, dove non si censurano più i difetti, lo sguardo è ravvicinato, nulla è più mascherato e nascosto.

tessiture

giovanni fiorentino

282

Quaderno di COMUNICazione

Dalla protezione al controllo, il passaggio sembra farsi lento e inesorabile. Le parole profetiche di Marshall Mcluhan, «più si sa di te, meno esisti», trovano conforto nel nuovo secolo, aperto all’insegna della sorveglianza tentacolare, del controllo dei corpi e dell’immaginario. La costruzione sociale della “sicurezza” fa la guerra con la manutenzione quotidiana della “paura”, con una partita che si gioca quasi esclusivamente sul territorio dell’immaginario mediale. I diritti confliggono con le garanzie, la società del rischio di Ulrick Beck inclina sempre più verso il rifugio pericoloso della chiusura, l’11 settembre 2001, le Twin Towers, gli attentati di Madrid e Londra materializzano l’ansia e la paura nella vita ordinaria dell’uomo occidentale e la politica dell’Impero sembra in larga parte corrispondere alle aspettative dei terroristi. Parigi minaccia la revoca del trattato di Schengen, l’ossessione per la sicurezza trova corrispondenza nel perfezionamento degli apparati di sorveglianza, ognuno di noi è un po’ meno libero e non necessariamente più sicuro. David Lyon, sociologo canadese, da oltre dieci anni prova ad attualizzare le teorie della sorveglianza alla società dell’informazione, prima L’occhio elettronico (Feltrinelli, Milano 1997), poi La società sorvegliata (Feltrinelli,


za. Dato che nuovi sistemi come la biometria, la videosorveglianza o le carte d’identità intelligenti dipendono dalla classificazione, interi gruppi di persone finiscono per essere sospettati. Così se da una parte la conseguente erosione delle libertà civili è sempre meno politicamente accettabile, dall’altra parte ciò che sta accadendo va sotto il nome di “sicurezza nazionale” e deve essere tenuto segreto. In questo modo più segreti, più controllo, più sospetto». La tensione e le iniziative antiterrorismo finiscono - nella riflessione di Lyon - per soddisfare la stessa logica delle retoriche e degli atteggiamenti generati dalla Guerra fredda, sostituendo lo spauracchio vecchio e desueto dei “comunisti” con quello dei “terroristi”. Quella che viene registrata dal sociologo come l’“età del terrore” sposta lo sguardo della sorveglianza sui cittadini comuni, in modi inediti e vessatori. In tal senso le tecnologie determinano un’accelerazione immediata, e ancora il professor Lyon spiega il perché. «L’uso dell’informatica per controllare, registrare, catalogare le persone, usando dati personali è diventata più veloce negli ultimi 25 anni. Le nuove tecnologie non sono l’unico motivo per cui la sorveglianza è cresciuta, ma realmente facilitano e guidano il suo sviluppo per mezzo di una particolare tecnologia. La gestione del rischio, le politiche neoconservatrici e una volontà culturale di accettare espedienti tec-

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

Milano 2002), ora nel suo ultimo libro Massima sicurezza. Sorveglianza e “guerra al terrorismo”, racconta di un controllo sociale intrusivo, ininterrotto, generalizzato, sistematico, impersonale, onnipresente. Le forme sono diverse, la dipendenza tecnologica è profonda, la sorveglianza della vita quotidiana è inevitabile, si può sperimentare a Londra o a Sidney, in Islanda come a Tokyo, nell’aereoporto di Roma e nel supermercato di Torino, registrando convergenza dei sistemi di sorveglianza da un lato e loro globalizzazione dall’altro. A partire dal panopticon di Bentham e dalle riflessioni di Foucault fino alle apocalissi visionarie di Orwell, dalla ricerca storico-economica di Beniger all’attualizzazione culturologica di Robins e Webster, i riferimenti sono sterminati. I riscontri empirici, a cominciare dalla società americana dopo l’undici settembre, sono praticamente infiniti. In America si registra più paura, più controllo, più sospetto, più segreto. Sull’argomento interviene direttamente il professor Lyon. «L’undici settembre rappresenta un momento simbolico che ha visto maturare una nuova fase della sorveglianza, integrata e collegata in rete. La strada verso lo sviluppo di tecnologie per il controllo del crimine era già segnata. E lo sviluppo delle culture della paura, fondate sulla percezione crescente del rischio nel mondo globalizzato, ha favorito le condizioni per intensificare la sorveglian-

283


nologici come soluzioni ai problemi sociali e politici sono dietro questo movimento. Con più sorveglianza, la sfida alle libertà civili diventa una conseguenza involontaria alla politica pubblica e alla programmazione industriale». Il risultato è una vera e propria cultura del sospetto che consente di classificare troppe persone come rischiose per la socie-

tà. «Chi protesta contro la globalizzazione - spiega ancora Lyon - può essere tranquillamente considerato alla stregua dei terroristi. Invece di favorire una legislazione che consenta di sorvegliare il comportamento di chi ha manifeste tendenze per l’attività violenta, vengono sospettati in tanti, solo per il fatto di appartenere a una categoria: il

tessiture

Giovanni De Luna, Gabriele D’Autilia e Luca Crescenti (a cura di), L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), Einaudi, Torino 2005, pp. 349, €

284

paese di origine, una religione, le preferenze nei consumi o le parole usate nei messaggi di posta elettronica». Così si costruisce negli Stati Uniti il nuovo “stato della sicurezza”, dove la sicurezza, appunto, rappresenta la priorità assoluta. È possibile riscontrarlo nell’uso delle nuove tecnologie per osservare la popolazione e nell’enorme enfasi data all’industria della sicurezza come settore di grande rilievo economico. In termini di vita quotidiana, tutte le scelte, le nostre possibilità sono toccate dai modi in cui la sorveglianza onnipresente opera per controllare e monitorare le nostre attività. «Alcune di queste conclude David Lyon – sono innocenti, utili e socialmente progressive. Ma altri aspetti sono socialmente discriminanti, escludono e mettono in pericolo le vite di coloro che sono già svantaggiati e ai margini della società. Dovremmo lavorare insie-

Quaderno di COMUNICazione

me per convincere le grandi organizzazioni pubbliche e private che elaborano dati personali per assicurare che lo facciano con la maggiore trasparenza possibile. La questione è politica, non riguarda solo la protezione di sé». giovanni fiorentino


nell’introduzione metodologica di De Luna. Tutt’altro, se c’è qualche fotografia d’autore - il caso delle armate americane in Italia fotografate da Robert Capa, o ancora Achille Occhetto che bacia la moglie ritratto da Elisabetta Catalano - è assolutamente funzionale al progetto, che nel primo volume ci mostra la costruzione dell’immagine del potere con le sue trasformazioni in un secolo di storia. Il Novecento italiano parla e si racconta attraverso le immagini che non illustrano i testi, diventano fonte ispiratrice del discorso storico. Una storia fotografica dell’Italia, insolita, innovativa: nel primo l’immagine del potere, nel secondo l’Italia ad altezza d’uomo raccontata da fotografi professionisti e agenzie fotografiche, nel terzo un’Italia degli archivi familiari che oscilla tra memoria pubblica e privata. Il nodo sostanziale - precisa De Luna nel suo testo introduttivo - è che il rapporto testo immagine è capovolto, con il testo ad assumere un ruolo ancillare rispetto alle immagini. Le fotografie esistono a prescindere dai documenti scritti e in questo caso diventano strumento autonomo del raccontare e fonte per una conoscenza che mostra la storia latente dell’uomo italiano. Per ora siamo al primo tomo, quasi 350 immagini in rigoroso bianco e nero, uno sguardo dall’alto, quello istituzionale del potere politico che si autorappresenta. Appunto

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

C’è una fotografia di Primo Carnera, campione mondiale dei pesi massimi tra il 1933 e il 1934, a chiudere il saggio di Sergio Luzzatto L’autoritratto del fascismo. Il campione è ripreso dal basso sulle rocce, fisico ancora imponente, un saluto fascista ostentato e il Vesuvio alle sue spalle in eruzione. Siamo nel 1939, l’immagine è del fotografo napoletano Roberto Amoroso che lavora anche per l’Istituto Luce. E questa è l’immagine ufficiale, enfatica, magniloquente, a tratti spettacolare, del regime. Non a caso la foto di Carnera vittorioso con la corona alzata farà rapidamente il giro del mondo, mentre quella del pugile al tappeto sconfitto dopo un anno dalla conquista del mondiale, viene censurata, nascosta. Semplicemente non esiste. L’immagine di Carnera a Napoli e il saggio di Luzzatto sono compresi nell’ultima Grande Opera Einaudi, idea inedita che arriva in questi giorni in libreria: L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, un’opera in tre volumi curata da Giovanni De Luna, Gabriele D’Autilia e Luca Crescenti. Per ora siamo al primo diviso in due tomi: il primo intitolato Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), il secondo in stampa per l’autunno e dedicato all’Italia della Repubblica. Di certo non si tratta di una storia della fotografia italiana, e questo viene chiarito sin dal principio

285


dopo l’introduzione, l’attenzione di Antonio Gibelli sull’Italia liberale e sulla Grande guerra: non l’immagine della battaglia, ma la mamma e il marinaio bambino, “cannoni e zecchini”, la macchina industriale che organizza il consenso, il controllo dell’immagine da parte dello Stato, per una ricerca che vale una messe di immagini recuperate da fondi fotografici inediti e poco noti, come ad esempio quello dell’archivio centrale di Stato di Roma. Per il resto in questa parte domina l’icona del fascismo costruita in larga parte

dall’Istituto Luce, il rapporto tra l’organizzazione dello spazio pubblico e il potere, gli eventi, la monumentalizzazione dei luoghi, la simbologia, la fisicità della politica, la dimensione che i corpi hanno assunto nella politica massificata del ’900. I gerarchi, piazza Venezia e i tricolori al vento, la tradizione littoria, il Milite ignoto con di fronte Vittorio Emanuele III piccolo e compìto nel suo saluto militare e Benito Mussolini perentorio nella plasticità del saluto romano. Tutti gli autori dei saggi, Gabriele D’Autilia, Liliana Ellena,

tessiture

Angelo Semeraro, Omero a Baghdad, Meltemi, Roma 2005, pp. 113, € 13,00

286

Sergio Luzzatto, Adolfo Mignemi, Luca Perrone, riescono bene a capovolgere la direzione di marcia, partono dalle immagini per arrivare al testo, costruiscono analisi storiche della costruzione fotografica. Ecco il Duce a Predappio per inaugurare la statua di Mussolini padre, da una foto si recuperano rivoli e storie. Anche le foto dell’Istituto Luce censurate e rese mai pubblicabili da Ministero della propaganda: tocca a un Mussolini poco fotogenico, quindi scomparso, in una festa danzante del 1937 a Gela, balla con una bella signora. Oppure d’altro canto si vede come il fascismo racconta e inventa la

Quaderno di COMUNICazione

sua società ideale, propaganda e costruisce il suo uomo nuovo, il corteo degli sposi a Roma convocati dalla provincia, il matrimonio per radio del soldato italiano in Grecia, le organizzazioni fasciste, il dopolavoro, le piazze, gli stadi, i monumenti, le sfilate dei Balilla, le premiazioni alle donne con più figli. Per rompere il tono monocromo del racconto, bisogna attendere il secondo Tomo. La Repubblica porta la dialettica dei partiti, c’è la Democrazia Cristiana con le fotografie del “Popolo”, il Pci fotografato dall’“Unità”, ognuno si adopera per costruire la sua voce specifica. Si arriva fino al Berlusconi costruito dal marketing di Forza


Italia. Tra il 1950 e il 1970 c’è l’opera dei governi pubblicizzata dalla comunicazione istituzionale della rivista “Italia”, prodotta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Fa piuttosto impressione: l’autostrada del sole, l’aeroporto di Fiumicino, la diga del Vajont. giovanni fiorentino

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

In un’intervista del 1966 con Madeleine Chapsal, Michel Foucault, per spiegare le relazioni che tengono unita la storia dei sistemi di pensiero occidentali, ricorreva all’esempio dei miti dell’età classica, all’interno della cui narratività le vicende degli dei, degli eroi e dei guerrieri, pur apparendo molto diversi gli uni dagli altri, erano legati da un’organizzazione di senso che “obbediva” a un sistema unico. In altre parole, la struttura organizzativo-testuale che racconta le gerarchie, le lotte, i tradimenti, le imprese e le astuzie dei protagonisti della mitologia greca (sebbene sia rintracciabile un’analogia di stilemi anche nei miti celtici e scandinavi), può essere immaginata come un sistema caratterizzato fondamentalmente da una univocità tematica e da un linguaggio “formulare” che lo rende una sorta di lente magica passe-par-tout per la comprensione dei grandi temi emotivi dell’umanità. L’agile testo di Angelo Semeraro si muove confortevolmente e in maniera originale in questo registro semantico, percorrendo in una sorta di disvelamento archetipale i binari del rapporto mito/attualità. In esso, i caratteri nodali dell’eroe omerico propongono una mitopoiesi che non è mai fenomeno modaiolo di semplice – ma spesso sterile – ricerca di significati condivisi all’interno dell’immaginario tardomoderno, ma una lettura sempre

287


liminare e trasformativa (non a caso l’autore parla di Umbildung) dei processi antropologici che “parlano prima” (direbbe Lacan) dell’individuo (il Sapiens). Ecco, allora, che i valori della “stirpe divina”, come l’onore (timé), l’ira (menis), la vergogna (aidòs), il valore (areté) militare e umano, vengono serviti come ingredienti insostituibili per dotarci, in un’epoca densa di ostilità e di lutti, di una auspicabile “etica del conflitto”, quanto meno nell’attesa di costruire un’etica del riconoscimento. È proprio attorno al termine riconoscimento che l’autore tesse il discorso sull’Altro, vero filo rosso del libro. In un precedente lavoro, Calypso, la nasconditrice (Manni, 2003), Semeraro suggeriva come il “buon ascolto”, nell’accezione che ne dà Bois (The art of awareness, 1973), costituisca sem-

pre la fonte generatrice di nuovo senso e sia pensabile come metafora del contro-dono ermeneutico nei contesti di comunicazione. In Omero a Baghdad questa traccia si arricchisce di suggestioni, pur rimanendo salva la coerenza alla responsabilità dell’educatore: nell’ascolto delle diverse forme di pathos che gronda dai personaggi di Iliade e Odissea è possibile riconoscere la trama dei propri sentimenti. La condivisione del dolore, allora, oltrepassa il concetto di empatia e, attraverso una strutturata analisi che percorre in maniera acuta i contributi, tanto di Spinoza, Bataille e Dumoulié, quanto di Rousseau, Kojeve e Honneth (tra gli altri), esamina gli spasimi di Pentesilea e di Elena, la métis di Ulisse e la pietas di Penelope, le “passioni tristi” di Achille e Aiace, nella rapsodia emozionale di un

tessiture

Bruno Latour, Petite réflexion sur le culte moderne des dieux faitiches, Synthelabo, 1996, tr. it., Il culto moderno dei fatticci, Meltemi, Roma 2005, pp. 119, € 13,00

288

racconto che insegna nel dolore (pàthei màthos). Il dolore dei poemi omerici, tuttavia, non ha i tratti del dolore cristiano, il suo fine non è un sacrificio salvifico ma, ancora una volta, pertiene a un vettore di trasformazione: Achille deve trasformare la sua collera in dolore perché solo in questo modo il suo risentimento

Quaderno di COMUNICazione

verso Priamo può lasciare il posto a un reciproco riconoscimento, trasfigurando il nemico nell’Altro. Ecco allora che il conflitto risentimento/riconoscimento – facendo flirtare René Girard col Vecchio Testamento – viene proposto come interfaccia mitico-emozionale di una questione molto più attuale e problematica, quella dell’identità.


derio dell’alterità, «il vuoto che il desiderio rende manifesto è una dimensione di ignoto, di una estraneità che apre una distanza nel soggetto». Nella dicotomia risentimento/riconoscimento e nello slargo di senso che porta dal desiderio all’altro, dunque, Semeraro ci conduce attraverso il mito e la “paideia guerriera” delle civiltà arcaiche, interrogando il sapere delle quali riconosciamo molto spesso i gap della contemporaneità e l’incultura di morte dei nostri tempi così votati al conflitto. “Omero c’est nous”, suggerisce Semeraro. mimmo pesare

tessiture

In Omero a Baghdad il termine identità non si incontra molto frequentemente ma l’autore, tra le impennate desiderative (e “cannibaliche”) della Pentesilea di von Kleist e i dilemmi etici ed estetici dell’Odisseo di Vernant, ne disegna il dispiegarsi attraverso l’ordine simbolico del mito. In questo modo, nei tre capitoli del libro, il discorso sulle identità viene tratteggiato “in maniera gentile”, (come il pennello dell’archeologo che spolvera i rinvenimenti del passato, direbbe Freud), senza ricorrere a una paideia che impone un’imprinting, bensì in maniera mercuriale, in un percorso articolato lungo una serie di insight naturali, all’interno del quale la normatività non può che esprimersi attraverso «un’etica e un’educazione del/al desiderio». E desiderio è l’altra parola chiave dell’Omero di Semeraro. Il desiderio come mancanza e attesa è sempre passione verso l’altro e l’altrove (suggestivo il percorso filologico-ermeneutico che dal Gorgia platonico passa per Lacan e Bataille), come nei casi del desiderio frustrato di Achille e del “cannibalismo desiderante” delle amazzoni. In questa tensione verso l’altro, allora, si gioca il tema delle identità e del rapporto con l’altro, analogamente alla metafora del “due” di Erri De Luca: l’attenzione verso l’altro da noi ha probabilmente la sua radice nella (ego-centrata) mancanza che si trasforma in desi-

Quaderno di COMUNICazione

289


All’interno del panorama culturale internazionale, Bruno Latour è una di quelle figure per cui “fa piacere” avvertire una certa difficoltà di collocazione e di definizione. Sicuramente le etichette di filosofo, antropologo, sociologo della scienza sono tutte calzanti quando si cerca di definire il suo lavoro dai caratteri borderline, ma a condizione che nessuna di esse esautori, da sola, la ricerca del pensatore francese. Libri quali I Microbi (1991), Non siamo mai stati moderni (1995), La scienza in azione (1998), Politiche della natura (2000), non fanno che confermare questo carattere di eterogeneità metodologica che però non è mai greve eclettismo e, anzi, si muove sempre all’interno di un binario dall’incedere coerente e puntuale nel rintracciare il filo rosso del rifiuto dell’idea di modernità. Latour pubblica questo agile ma intenso saggio nel 1996, a circa due secoli e mezzo dall’uscita del celebre Du culte des dieux fétiches

(1760) del Presidente De Brosses, dichiaratamente in debito della collaborazione con l’etnopsichiatra Tobie Nathan. Come spiega Cosimo Pacciolla – traduttore e curatore del testo di Latour – all’interno di un sostanzioso saggio che correda il libro, questo lavoro costituisce un tassello fondamentale per la ricostruzione del pensiero latouriano, il cui nodo di gordio risiede nella convinzione secondo la quale, anziché assumere la modernità come dato inconfutabile dal quale partire, sarebbe molto più utile cercare di comprenderne le spinte sociali ed epistemologiche attraverso l’analisi delle pratiche che l’hanno caratterizzata. Ecco allora che attraverso quella antropologia simmetrica fondata sul principio di una ricerca che riconosca pari dignità non solo a vincitori e vinti della storia, ma anche (e in maniera ancora più fondamentale) a natura e società, è possibile osservare pratiche umane “disvelative” rispetto alla

tessiture

Aldo Trione, Sopralluoghi. Croce, Gentile e oltre, Il Melangolo, Genova 2005, pp. 95, € 15,00

290

infosfera alla quale appartengono. Per esempio, il pretesto della richiesta fatta dai conquistatori portoghesi ai nativi della Guinea di rifiutare la natura divina dei loro idoli, riconoscendo di averli fabbri-

Quaderno di COMUNICazione

cati con le loro stesse mani, viene interpretato da Latour come l’orizzonte in cui si staglia il profilo luminoso della modernità e la sua pretesa di discriminare i fatti dai feticci, la conoscenza dalla cre-


termine fatto e il termine feticcio hanno la stessa radice etimologica, ma il primo rinvia, per così dire, alla “realtà esterna”, mentre il secondo alle credenze del soggetto; come è possibile, allora, si chiede l’autore, immaginare una cultura e una scienza che pretendano di impinguire le proprie trame epistemologiche distinguendo la conoscenza (dei fatti) dalla credenza (dei feticci) e, possibilmente, cercando di eradicare la seconda dalla prima? Non è legittimo, forse, riconoscere valore conoscitivo anche alle credenze dei gruppi umani, come l’antropologia più illuminata ha cercato di dimostrare? Per tentare di catalizzare questa empasse, Latour conia, allora, il termine fatticcio, cioè la caratteristica di quelle attività umane che, eliminando la differenza ontologica tra fatto e credenza, propongono un tipo di saggezza pratica che permette il transito dalla fabbricazione degli immaginari collettivi alla realtà, senza mai cedere alla tentazione di separare immanenza e trascendenza. Insomma, per Latour occorre raccontare «l’altro aspetto della storia: come l’oggetto “fa” il soggetto»; per questo è inutile cercare di istituire una distanza teorica tra di essi, tra prodotti e produttori, tra fatti “terroristici” e feticci “alienanti”: tale distanza è sempre arbitraria e colmata dalle pratiche umane (alla maniera di De Certeau),

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

denza, il soggetto dall’oggetto, sull’ombra lunga della premodernità incapace di farlo. Tornando, per così dire, sul luogo del delitto, il sociologo francese interroga a sua volta i moderni, chiedendo loro di rendere conto dell’ambiguità semantica del termine “fatto”, parola in grado di significare contemporaneamente “ciò che è, indipendentemente dall’azione di qualcun’altro” e “ciò che è, in quanto prodotto di un’azione”. La soluzione allo stallo moderno di mantenere distinti i due significati viene offerta dal cacofonico neologismo “fatticcio” (faitiche), col quale l’autore cerca di salvare, anziché risolvere, questa ambiguità pregna di valore conoscitivo, in quanto capace di rendere conto contemporaneamente dell’azione del soggetto nella costruzione dei fatti (inclusi i “fatti scientifici”) e della capacità degli stessi di rendersi indipendenti dal soggetto ponendosi all’origine di nuove conoscenze e nuove azioni. Ne risulta un’originale antropologia filosofica fondata sull’azione e la relazione, in grado di esprimere le differenze culturali senza cedere all’ingiunzione moderna di “scegliere” tra fatti e feticci, ma neanche alle lusinghe dell’incommensurabilità professata da certo relativismo. Secondo Bruno Latour i moderni hanno tentato di istituire una vera e propria “caccia alle streghe” nei confronti dei feticci. È curioso: il

291


che continuano a costruire, nonostante tutto ciò che le storiografie e le epistemologie possano registrare, il quotidiano percorso di senso della storia dell’uomo.

tessiture

mimmo pesare

292

Quaderno di COMUNICazione

Studioso attento e sensibile alla vita delle forme e al loro vario configurarsi nell’accidentato percorso del Novecento europeo, Trione già poneva al centro dei suoi interessi un’intensa analisi delle poetiche, assumendole come sismografo sensibilissimo dell’atteggiarsi del gusto e delle concezioni estetiche: in Estetica e Novecento, a partire dalla mallarmeana scienza misteriosa del verbo, egli s’interrogava sul nesso stringente arte-temporalità, sul valore folgorante della metafora, sul significato simbolico del poiein, sul tema dell’apparenza, sul destino della forma. Di questo significativo intreccio di temi e di questioni, decisivi per la comprensione della modernità, Trione è tornato recentemente a occuparsi con questo prezioso volumetto, in cui ripropone il suo peculiare campo d’indagine e il suo specifico taglio interpretativo. Collegandosi idealmente alle sue precedenti ricerche, Trione sembra animato da una sorta di pietas ermeneutica nei confronti dei due dioscuri del neoidealismo italiano (così come in Estetica e Novecento aveva fatto nei confronti di De Sanctis) e propone ulteriori visite e ispezioni (sopralluoghi li chiama Trione, con un pizzico di civetteria) per saggiare le ragioni profonde sottese alle estetiche che hanno esercitato una notevole incidenza sulla cultura italiana dei primi decenni del Novecento. Si tratta di un patrimonio d’inestimabile valo-


re e di una eredità culturale importante, da recuperare anzitutto, e poi da superare, a patto però di averne assimilato l’intima tensione interna, vincendo pregiudizi radicati e immotivate “cautele ideologiche”. Nel segno di una completa libertà e indipendenza di giudizio, tipiche dell’uomo e dello studioso per chi lo conosca, Trione chiarisce in premessa che si tratta di «rileggere alcuni itinerari rivelatori della ermeneutica crociana, attenta alla vita dell’arte, alle poetiche, alle stesse “istituzioni della poesia”; e snodare il rigoroso formalismo gentiliano, per molti versi contiguo alla ontologia simbolista e alle poetiche delle grandi avanguardie storiche» (p. 9). Lungi dal restare imprigionati all’interno di uno schema interpretativo teoricamente e storicamente datato, Trione riprende un’indicazione fatta valere da Banfi, secondo cui il valore e l’efficacia dell’estetica crociana si ritrovano nella ricerca di una attualità concreta, da cui vengono escluse le astratte speculazioni sul bello, e in un atteggiamento critico, rivolto a ritornare alle cose (p. 17). A questo modo di guardare da parte di Croce al mondo delle cose, al poiein, fa riscontro in modo simmetrico e opposto la filosofia dell’arte di Gentile, nata come

sviluppo di premesse speculative in un quadro teorico legato a una visione immanentistica della vita. Un’eredità culturale da non disperdere, quella del neoidealismo italiano, ricca di geniali intuizioni, di fermenti, ma anche di tensioni non risolte. Proprio dentro le contraddizioni e le aporie della cultura neoidealistica, avverte Trione, si agita un movimento di saperi, attraverso il quale si comincia a guardare in modo inquieto alla cultura del mondo, in risposta soprattutto alla situazione italiana: «si intraprendono esperienze inedite; si scoprono autori come Simmel, Geiger, Utitz, Dessoir. In molte sue pagine, sorrette da forte passione intellettuale, Banfi parla del proprio incontro con gli studi di Wölfflin sulla tecnica e sullo stile, con il pensiero di Harnack, di Wilamowitz, con Cassirer, con Münstenberg; infine del proprio rapporto decisivo con la fenomenologia» (p. 19). Con l’apertura alla fenomenologia siamo già oltre l’esperienza neoidealistica; prendono corpo altri problemi, mossi da una diversa sensibilità. La forma non si lascia rinchiudere in categorie interpretative univoche; ma si fa, si costituisce in una fitta trama di relazioni, all’interno della quale prendono

tessiture Quaderno di COMUNICazione

293


Francesco Ferretti, Daniele Gambarara (a cura di), Comunicazione e scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 260, € 20,00.

tessiture

Daniele Gambarara, Come bipede implume. Corpi e menti del segno, Bonanno, Acireale-Roma 2005, pp. 191, € 10,00.

294

corpo territori assai diversi come quelli delle arti figurative, della scrittura, delle procedure comunicative della retorica, della fotografia, del cinema, della moda. «Perciò – sostiene Trione – la forma dice il destino del fare poetico, e racconta, al tempo stesso, l’avventura della poiesis nella nostra civiltà intellettuale» (pp. 19-20). Allo schizzo storiografico segue l’indicazione di metodo. Nell’universo teorico di Trione prevale l’interesse a porre in evidenza la centralità della forma, nel cui segno – egli afferma – può essere ridisegnata una topologia delle poetiche. E qui il riferimento va in particolare a Poe, a Baudelaire, a Valéry, a Eliot, a Pound, che hanno, nel corso della loro esperienza artistica, formulato principi di poetica rigorosamente costruiti. Sono gli autori cari a Trione, su cui egli ha svolto nel corso degli anni ampie e approfondite indagini, sempre rivolte a privilegiare i di-scorsi sulla poesia ricavati dentro la poesia, come “esplicitazione di un implicito”, per dirla con Anceschi. Osservatorio privilegiato per Trione si rivelano dunque le poetiche, che «possono offrire strumenti sensibi-

Quaderno di COMUNICazione

lissimi per ridisegnare il profilo di una filosofia dell’arte capace di esplorare la vita delle forme, nella ricchezza e nella varietà del loro disporsi, nell’infinito gioco delle loro invenzioni». Non potendo dar conto dei vari aspetti in cui si articola la ricerca avviata in questo libro, scandita in sei capitoletti che costituiscono piccoli gioielli ermeneutici, mi limiterò a segnalare la particolare pregnanza teorica dello scritto finale, Nous autres, civilisations. Al termine del periplo, dopo aver compiuto una serie di sopralluoghi mirati, che hanno consentito di individuare una complessa fenomenologia di forme sottratte alla logica dell’evidenza e, in quanto tali, capaci di inventare di continuo nuovi rapporti di senso, Trione si pone alcune domande cruciali relativamente al rapporto tra la condizione esistenziale attuale e il progetto della modernità. Sulla base di alcune potenti suggestioni del Merleau-Ponty di Senso e non senso e di quella parte di È possibile oggi la filosofia? in cui il filosofo francese si interroga sul pensiero fondamentale nell’arte, Trione rivendica un’idea di arte libera dall’uso


fragilità, conclude Trione, è nascosto il progetto e il destino dell’arte del nostro tempo. «È ormai ovvio che niente più di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa né nel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza»: con questo severo monito s’apre la Teoria estetica di Adorno. L’acuta percezione dell’intrinseca storicità dell’arte presuppone e implica l’idea che il destino dell’arte sia profondamente inscritto in questo stesso mondo nel qual ci tocca vivere con inevitabile contingenza: la consapevolezza di questa nostra finitezza non sottrae nulla alla miseria e allo splendore, che restano i due caratteri peculiari e inscindibili dell’esperienza artistica e del suo innegabile significato veritativo. paolo pellegrino

tessiture

umanistico e retorico che la vuole associata al concetto di arte bella, e restituita al suo significato originario di “lavoro aperto alla natura”, in grado di inventare forme, figure, atmosfere sempre nuove. Si tratta, in definitiva, di promuovere «una riflessione che vada a disporsi nell’orizzonte di quella linea analitica del poiein che percorrerà l’arte e le arti del secondo Ottocento e dell’intero Novecento» (p. 84). Sempre in tema di suggestioni, torna alla fine del libro quel grandioso affresco dell’idea di modernità schizzato e “fermato” da Baudelaire nelle pagine de Il pittore della vita moderna, da cui emerge un’epoca che ama le “brevi abitudini”, ha la coscienza dell’effimero e del transitorio, prova vertigine per l’attimo fuggente, conosce la fragilità della propria esistenza, vive dentro l’ontologia del naufragio (così ben ricostruita in una suggestiva monografia di Blumenberg). Nella realtà in cui viviamo sembra entrata in crisi l’idea stessa di attualità, dalla quale sembra dire Trione – con sano spirito neoilluministico – non sono in grado di portarci fuori nuove mitologie del presente, nessun processo di remitizzazione del mondo. «Nous autres, civilisations dice la presenza di un soggetto collettivo della cultura, un io plurale di costruttori di civiltà, che prende coscienza di se stesso nel momento in cui si rivela la propria fragilità storica» (p. 88). In questa stessa

Quaderno di COMUNICazione

295


tessiture 296

Questi due libri affrontano il tema del rapporto dell’uomo col linguaggio e della costituzione della mente umana come mente linguistica o simbolica. Fra i 10 e i 5 milioni di anni fa circa, scimpanzé e ominidi si separano; mentre i primi accentuano il knucle-walking, i secondi adottano l’andatura eretta, perdono gran parte del pelo corporeo, diventano bipedi implumi, «e anche se non sono - ancora – “animali razionali (cioè linguistici)”, questa è la strada per diventarlo», scrive Gambarara (p. 133). Questa definizione di “bipede implume” forse «ci permette di arrivare anche a quella di animale razionale (se razionale vale appunto “linguistico”), mentre se partiamo da quest’ultima poniamo fin dall’inizio sull’animalità umana una eccedenza rispetto all’intero mondo vivente, che appiattisce e cancella il reticolo di comunanze e diversità che collega e specifica animali umani e non umani» (ibid.). Bipedalità e linguisticità, da intendersi quest’ultima come capacità formativa, sono interconnesse nell’animale umano. Sembra infatti sempre più probabile che l’acquisizione della postura eretta, con la conseguente liberazione della mano da compiti di locomozione, abbia proceduto di pari passo con la prima elaborazione della facoltà di linguaggio. L’uomo in tal modo eccede la sua prima natura, che non viene cancellata

Quaderno di COMUNICazione

bensì rimodellata. Interessa allora chiedersi “come funziona” la mente umana e come sia possibile che un certo sistema fisiologico o un certo organismo vivente (il corpo umano) sia capace di linguaggio, ossia di comprensione, coscienza, astrazione. È questo il tratto problematico centrale del libro curato da Ferretti e Gambarara. «La riflessione – scrivono nell’introduzione – sulla natura della comunicazione […] è strettamente connessa al tema dell’architettura cognitiva. Fare scienza cognitiva del linguaggio e della comunicazione significa, a nostro avviso, innanzitutto impegnarsi su questo punto teorico» (p. X). Nel libro sono privilegiate tre problematiche. Nei capitoli 1, 2 e 3 (scritti rispettivamente da Francesco Ferretti, Elisabetta Gola e Giovanni Iorio Giannoli) vengono affrontati i temi delle funzioni del linguaggio e della comunicazione, della natura del significato e dei processi di inferenza legati alla comprensione delle espressioni verbali. I capitoli 4 (di Massimo Marraffa) e 5 (di Tommaso Russo e Tiziana Zalla) affrontano la questione, rispettivamente, del funzionamento normale e di quello patologico del meccanismo di elaborazione che regola i processi di comprensione che sono alla base degli scambi comunicativi. L’analisi si sviluppa in una prospettiva modu-


Felice Cimatti, Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione, Carocci, Roma 2004, pp. 231, € 18,10 Marco Mazzone, Menti simboliche. Introduzione agli studi sul linguaggio, Carocci, Roma 2005, pp. 205, € 16,40 ro» (ivi, p. 29). L’essere umano è definito dalla simbolicità della sua mente, o meglio dalla forma linguistica di tale simbolicità «strettamente connessa alla dimensione autonoma delle pratiche comunicative umane, alla loro sistematicità, al loro farsi istituzioni, in contrasto con i tipi di comunicazione di altre forme di vita» (Gambarara, p. 207). La mente simbolica comporta inoltre la proposizionalità, la sintatticità e un rapporto elastico col contesto dell’enunciazione (v. ivi, p. 213). Essa è una mente sociale che istituisce norme o convenzioni ma alle quali può sottrarsi, disobbedire; può crearne altre. Questa semiosi simbolica è a trazione linguisticoverbale, anche se la capacità semiosica dell’umano non si esaurisce nella semiosi verbale. Sottintesi, metafore, icone, indici sono ugualmente presenti nel segnico umano, aspetti che gli autori del libro non mancano di sottolineare. Si tratta di uscire dalla rigida separazione fra la concezione puramente cognitivista e quella puramente comunicativa del linguaggio per ricercare un approccio che assegni al linguaggio «allo stesso tempo una funzione comunicativa e una

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

larista che, come è noto, vede la mente umana distinta in capacità dominio-specifiche piuttosto che come un’intelligenza generale, ossia come un insieme di capacità (memoria, attenzione, ragionamento ecc.) che si applicano a tutti i domini cognitivi, a prescindere dal loro specifico contenuto. Il capitolo 6 (di Daniele Gambarara) è incentrato sull’analisi della prassi comunicativa, in continuità con il tema del rapporto tra funzione comunicativa e funzione cognitiva del linguaggio, affrontato nel capitolo 1, e sotto il segno della coevoluzione tra le due funzioni. «Ha senso parlare della funzione cognitiva del linguaggio solo avendo già a disposizione un linguaggio, Il linguaggio, però, non è tra gli arredi del mondo che si possono avere gratis; per avere un linguaggio è necessario disporre di una mente ricca e articolata: strutture, funzioni e, soprattutto, alcune forme di conoscenza», scrive Ferretti (p. 33). La funzione comunicativa del linguaggio non ha più il ruolo esclusivamente strumentale di esteriorizzazione di un contenuto interno (la cognizione), ha, invece, «un ruolo cognitivo “di ritorno” nel pensie-

297


tessiture 298

funzione cognitiva» (Gola, pp. 71-72). A tale scopo ci si richiama alla “teoria della pertinenza” (relevance theory) di Sperber e Wilson. Quando si dice mente simbolica si intende anche mente sintattica, mente capace di costruzioni e di decostruzioni, di riflessione e di metariflessione, di percorsi inferenziali e di significato, di oggettivare ciò che ha intorno e se stessa. I segni e i “segni di segni” sono il risultato del lavoro simbolico dell’uomo e in quanto tali li possiamo anche chiamare “simboli”. Daniele Gambarara, in uno dei suoi saggi raccolti in Come bipede implume, mira a capovolgere la visione corrente che «introduce la nozione di significato partendo dalla nozione di segno, anzi come componente del segno» e presenta la semantica come «una parte della semiotica» (p. 47). Anche storicamente «la semiotica appare ben prima e indipendentemente dalla semantica» (p. 53). Le stesse riflessioni di Michel Bréal, che in epoca moderna ripropone il termine “semantica”, vertono sulle «leggi psicologiche che guidano la formazione e la trasformazione delle idee, così come sono espresse dalle parole», ma non su «una nozione forte di significato», secondo la quale il significato è un’entità linguisticamente e semioticamente autonoma. Il suo Saggio di semantica è «in realtà una semiologia senza semantica, come tante che

Quaderno di COMUNICazione

la hanno preceduta» (p. 55). Tra semantica e semiotica c’è dunque un’asimmetria storica e teorica. Gambarara cita una presa di posizione di Chomsky (di cui è noto il disinteresse per la semantica, almeno per tanta parte della sua teoria linguistica) a favore, per così dire, della semantica, o meglio dell’intrinsecità della sintassi alla semantica, o della morfologia alla semantica, come avviene anche nella teoria di Hjelmslev, per concludere che sintassi e semantica «sono semplicemente due modi per indicare l’intera linguistica del contenuto» (v. pp. 56-57). Aggiungiamo che nella semiotica glossematica il segno in quanto funzione di interdipendenza tra forma dell’espressione e forma del contenuto non significa nulla se non viene determinato o interpretato da una sostanza del contenuto, ossia da un interpretante legato a fattori sociali, ideologici, teorici e quindi legato a menti simboliche che elaborano teorie della semiosi o semiotiche. Viene meno, ci sembra, ogni priorità del segno sul significato, ogni subordinazione gerarchica del secondo al primo per adottare invece un rapporto in cui la forza propulsiva risiede nella sostanza-materia. cosimo caputo


animali non umani colgono relazioni ma essi non le istituiscono, piuttosto le subiscono, così come accade all’uomo per la sua parte zoosemiotica. Esercitare la capacità simbolica vuol dire entrare in interazioni sociali, in uno spazio pubblico da cui trae alimento il linguaggio privato. Lo spazio che caratterizza la mente simbolica, pertanto, non è uno spazio fisico, comportamentisticamente de-terminato, ma uno spazio logico, o meglio uno spazio “semio-logico”, delineato cioè dalla logica del segno. In questi libri, intorno a questi temi, si trovano intrecciati i contributi della filosofia analitica, delle moderne scienze cognitive, della linguistica e della psicologia cognitive, dell’antropologia, della filosofia della mente e soprattutto della semiotica. Gli autori di riferimento sono Frege, Wittgenstein, Searle, Kripke, Putnam, Peirce, Prodi, Chomsky, Fodor, Austin, Grice, Dennett, Deacon, Sperber, Wilson. Cimatti distingue due grandi campi d’indagine che pone sui lati opposti della cosiddetta “soglia semiotica”. I fenomeni che sono al di qua di questa soglia non rientrano fra quelli considerati semiotici, quelli che invece si collocano al di là sono considerati semiotici. Al di qua del segno si trovano situazioni in cui un’entità o è considerata per se stessa, al di fuori di ogni relazione con altre entità (fenomeno che per Peirce rientra nella catego-

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

A distinguere l’uomo dagli altri animali è il linguaggio, da non intendersi, però, solo come linguaggio verbale. Il linguaggio di cui è dotata la specie umana è la capacità di staccarsi dal rapporto usurante con l’ambiente e di produrre transfert, astrazioni, costruire e decostruire mondi reali e mondi fittizi; è la capacità di ricercare, di andare oltre il dato presente e di andare verso altro e gli altri: è capacità di cognizioni ulteriori, di relazioni sociali, di istituire società e regole, ma anche di sottrarsi, di non rispettare tali regole. La proprietà del distanziamento è l’architrave di questo tipo di cognizione o di semiosi che, peirceanamente, chiamiamo mente simbolica. Questa mente non sussiste «se un soggetto non è in grado di correlare consapevolmente qualcosa di presente a qualcosa che non lo è: che è spazialmente e/o temporalmente dislocato. […] Tra le manifestazioni del distanziamento non vi è soltanto l’abilità di riferirsi a cose passate, o distanti nello spazio: dobbiamo includere in questo ambito anche fenomeni come la capacità di concepire il possibile nelle sue diverse forme: ipotesi, finzioni, menzogne» (Mazzone, p. 74). Il linguaggio colloca l’agire dell’animale umano nella dimensione della possibilità, staccandolo dalla dimensione della necessità, e pone in tal modo le condizioni del discorso morale, religioso, estetico, filosofico, scientifico, letterario. Anche gli

299


tessiture 300

ria della “primità”), oppure è in relazione diretta con un’altra entità, una relazione a due, diadica, come ad esempio in una relazione causale (qui vige – ancora secondo Peirce – la categoria della “secondità”), la cui sussistenza non richiede la connessione con altre entità. Queste relazioni – secondo Cimatti – non rientrano fra le relazioni di tipo semiotico. Al di là del segno si trovano invece relazioni che si collocano nella categoria peirceana della “terzità”, dove sussiste una relazione triadica e dove l’evento non è conchiuso, poiché per essere compreso ha bisogno di un’integrazione e di un rimando ad altre entità. Questa operazione può essere ripetuta indefinitamente. Si è qui di fronte a interazioni e a eventi semiotici, il che è quanto si dà fra un segno, il suo oggetto e il suo pensiero interpretante, che è a sua volta un segno. Secondo la lezione di Peirce, c’è segno soltanto se c’è “qualcuno” (un animale umano o non umano, un organismo artificiale), ossia una “mente” capace di cogliere in un “oggetto” materiale o immateriale un valore, un significato. «Se c’è segno allora c’è mente, e viceversa», dice Cimatti (p. 9); bisogna però specificare questo assunto, perché le menti non sono tutte uguali, e soprattutto la mente non è il cervello. Da qui alcune domande alle quali cerca di dare risposte il libro di Cimatti: qual è la natura della mente? Quale differenza c’è

Quaderno di COMUNICazione

fra la mente di un animale umano e la mente di un animale non umano? È possibile dare conto delle caratteristiche specifiche della mente umana utilizzando soltanto i metodi e gli apparati teorici delle scienze che si occupano delle entità materiali? Punto fermo è la concezione di un inestricabile intreccio tra semiosi, biologia e processi mentali, e di una sostanziale identità fra mente e semiosi. La mente non sta da nessuna parte, come invece sta il cervello, il suo è uno spazio relazionale (semio-logico); non è qualcosa che qualcuno ha ma un modo di agire che qualcuno è. Una mente semiotica opera triadicamente, attraverso cioè un interpretante che media fra un segno e il suo oggetto, mediazione in cui sono sempre in agguato errori, incomprensioni: l’interpretazione è un processo abduttivo. Ci sono tuttavia menti che operano diadicamente, in cui non c’è mediazione e il margine di errore o di disobbedienza è nullo, salvo rumori o deficienze fisiche fra interpretato e interpretante. Laddove la logica della mente è triadica siamo di fronte a un processo semiotico, dove invece la logica mentale è diadica diremmo piuttosto che siamo di fronte a un processo nonsemiotico o più latamente semiosico. Detto altrimenti: il primo tipo di logica mentale opera nella segnità, mentre il secondo opera nella segnalità. In base alla distinzione tra interazioni semiotiche e interazioni non


di comprensione affinché la comunicazione possa risultare felice. La comunicazione è pertanto presente nella significazione e, viceversa, la significazione è presente nella comunicazione, ciò che varia è la loro dominanza. Ancora da Ch.S. Peirce (v. Opere, Bompiani, Milano 2003, pp. 167-175; 2.283-2.302), una delle fonti teoriche di Cimatti, sappiamo che la semiosi non è mai tipologicamente pura, genuina, ma si presenta in concreto, a gradi diversi, come “degenerata” o ibrida. «La comunicazione non è, propriamente, una nozione semiotica», scrive ancora Cimatti nel glossario apposto al suo libro (p. 221). Ciò ovviamente va visto nell’ambito del lessico teorico adoperato dall’autore, e tuttavia, se intendiamo, come pensiamo si debba intendere, semiotica come metasemiosi o teoria dei segni, “comunicazione”, come gli altri termini adoperati o coniati in questo settore di studi, appartiene alla semiotica, al lavoro teorico di menti simboliche. Vista, però, la superficialità con cui in vari ambienti si parla oggi della comunicazione, o si parla di comunicazione (politica, economica, istituzionale, sociale ecc.), diventato, come forse è inevitabile, un argomento di moda, vogliamo qui richiamare l’attenzione sulla critica di Cimatti a quello che egli chiama il «modello postale della comunicazione» (mpc), con la doverosa segnalazione da parte nostra che il primo

Quaderno di COMUNICazione

tessiture

semiotiche, Cimatti distingue ancora fra comunicazione e significazione: «C’è comunicazione, in termini molto generali, quando c’è un passaggio di un qualche tipo di informazione da un luogo (che può anche essere un organo corporeo, per esempio) ad un altro luogo. […] Si ha significazione, invece, quando il segnale, per essere efficace, dev’essere compreso (e quindi c’è la possibilità di una incomprensione, che nell’altro caso era logicamente esclusa). Nei termini usati finora, la comunicazione è un processo che non implica la presenza di una mente, mentre la significazione è impossibile senza la mente (solo una mente può comprendere o fraintendere qualcosa)» (p. 44). La comunicazione, leggiamo più avanti, «si colloca al di qua della soglia semiotica: la semiosi non è assimilabile ad un processo di comunicazione» (p. 149). Nella comunicazione vige un’interpretazione di identificazione, nella significazione un’interpretazione rispondente; ma questo secondo tipo di interpretazione non sta senza il primo: se un interprete umano (una mente simbolica) non si rende conto (non identifica) percettivamente e fisicamente del tipo di messaggio (ordine, preghiera ecc.) che gli viene rivolto da qualcuno, se, per esempio, è un italiano e gli si parla in giapponese, lingua che non conosce, non può rispondere. Ma anche nell’interpretazione identificativa ci deve essere un minimo

301


tessiture

giovanni fiorentino riconoscersi a lecce

a parlarne, per criticarlo e respingerlo, è stato Ferruccio RossiLandi nel suo libro del 1961, Significato, comunicazione e parlare comune (ora ediz. Marsilio, Venezia 1998). Al modello del pacco postale, “spedito presso un ufficio postale e ricevuto presso un altro” così come il pacco era in partenza, Rossi-Landi contrappone il modello del “fiume informativo”: noi cogliamo subito la superficie del fiume e «sappiamo che sotto c’è tutto il volume delle acque che si muovono. Arricchendo l’immagine potremmo parlare di un battello sul fiume. […] Quello che viene comunicato non è soltanto il battello, è anche il fiume» (ivi, pp. 207-208). Nel mpc pensieri, sensazioni, intenzioni dei parlanti preesistono al loro interagire comunicativo. «Quando – scrive Cimatti (p. 88) – il parlante intende comunicarle ad altri mette queste entità in appositi pacchetti, le parole, che poi spedisce al destinatario. Quest’ultimo compie le stesse operazioni del mittente, ma questa volta nella direzione contraria. Per prima cosa, infatti, deve scartare i pacchetti, quindi estrae i pensieri che questi contengono, ed infine li riassembla nell’ordine stabilito dal mittente». Questo modello trova la sua formalizzazione nel dispositivo ingegneristico della comunicazione elaborato da Shannon e Weaver. Ci si trova di fronte a un percorso lineare, prestabilito, monologico, senza fraintendimenti, in cui c’è scambio alla pari, simmetria fra emittente e ricevente: una visione riduttiva e semplicistica ma molto diffusa della comunicazione e sul piano semiotico una concezione diadica, equazionale del segno. Ciò comporta una omologazione culturale, ideologica, espressiva. Il segno prodotto dalla mente simbolica, invece, non aderisce, se non in minima parte, a questo modello; esso è aperto a nuovi significati e valori, a nuove forme espressive; non ha una direzione privilegiata, non è un monologo bensì un dialogo, e soprattutto ha un ritmo triadico e non diadico. Dal modello del pacco postale a quello del fiume informativo, per tornare a Rossi-Landi, si va dal grado minimo dell’ interpretazione, quello identificativo, al grado massimo dell’interpretazione di comprensione rispondente o abduzione. Cimatti, nel separare la pertinenza delle neuroscienze da quella della semiotica cognitiva, insiste sulla differenza delle caratteristiche della mente umana «da quelle del cervello (e quindi del corpo). La mente, cioè, sembra

302

Quaderno di COMUNICazione


Quaderno di COMUNICazione

tessiture

sfuggire alle scienze che studiano il corpo. Nella testa degli animali umani c’è il cervello, non la mente, ossia il pensiero […]. Le neuroscienze hanno molto da dirci sul cervello […]. Il cervello è una cosa, una cosa molto complicata, ma rimane appunto una cosa, e si studia con i metodi che si applicano alle cose […]. La mente non sembra si possa studiare con questi metodi» (pp. 113-114). C’è mente umana dove si risponde non dove si reagisce, e la risposta non è necessariamente verbale. Facendo invece coincidere l’umano con il linguaggio verbale si scivola in un riduzionismo semiotico. La semiosi umana è a trazione linguistico-verbale ma non vi si esaurisce. La capacità abduttiva, critica dell’uomo richiede un «corpo logico», che è «il corpo specificamente umano», dice lo stesso Cimatti (p. 189). Un corpo capace di logos, ossia capace di cogliere e di istituire relazioni fra varie entità, verbali e non verbali. La mente simbolica è tale solo in quanto capace di costruzioni e decostruzioni. È questa capacità di modellazione, piuttosto che il solo parlare, a costituire l’ambiente specifico del linguaggio umano e a distinguerlo da altri linguaggi animali. La distinzione posta da Sebeok fra “linguaggio-sintattica” e “parlare” scandisce meglio – a nostro avviso – la peculiarità della semiosi (mente) umana. Cimatti osserva, e giustamente, che la mente umana non opera direttamente sulle cose bensì su costrutti semiotici e opera mediante ipotesi, mediante il “gioco del fantasticare”, come dice Sebeok riprendendo Peirce. Ciò presuppone appunto la capacità costruttiva e decostruttiva, ma se tale capacità riguardasse soltanto il linguaggio verbale dovremmo concludere che chi per vari motivi non può parlare non è capace di conoscere. L’ambiente del linguaggio verbale – nota ancora Cimatti - non è affatto un ambiente di completa trasparenza: al suo interno si genera una sorta di “non linguaggio”, davanti a esso si apre uno spazio infinitamente più vasto (un buio, un mistero), che le parole non riescono a comprendere (v. pp. 200-205). Sembra che le lingue verbali segmentino il mondo tutte allo stesso modo. Sappiamo invece da Hjelmslev (v. p. 56 dei Fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968) che ogni lingua ha una sua peculiarità nel ritagliare la materia, tracciando asimmetrie, assegnando rilievo «a fattori diversi in disposizioni diverse», ponendo «i centri di gravità in luoghi diversi», dando loro «enfasi diverse». Ciò che in una lingua non è verbalizzato è verbalizzato in un’altra, ma queste asimmetrie non conducono verso una cosa in sé inattingibile, e soprattutto la mancanza di verbalizzazione non equivale alla mancanza di categorizzazione. cosimo caputo

303


tessiture

5-7 aprile 2005, Convegno “Riconoscere/Riconoscersi”

304

Il confronto su un tema aperto come quello del “riconoscersi” apre e si nutre della possibilità di modificare le conoscenze precostituite, assumendo una funzione essenzialmente euristica. E il tono delle due giornate di convegno non sempre è disteso: c’è spazio per un confliggere metodologico, per prospettive contrapposte; non a caso il dibattito finisce con l’incentrarsi sul tema del conflitto e della lotta per l’affermazione. Da una parte il gioco e l’esaltazione della metafora, dall’altro la strumentazione semiotica. Da una parte la sintesi socioantropologica del pensiero e dell’opera intera del francese Michel Maffesoli, dall’altra la sintesi di un percorso evolutivo che dalle aperture di Marshall Mcluhan ci porta alla intelligente opera di estensione e approfondimento mediologico di Derrick De Kerckhove. Il rischio è quello di non poter restituire la complessità delle posizioni, le articolazioni del discorso e operare una sintesi di percorsi e idee distanti o tangenti che attingono al mito come ai maestri della filosofia moderna, più in generale delle scienze sociali, più specificamente della ricerca mediologica, spostandosi dalle urgenze pedagogiche alla politica delle reti, dalle sfumature sociali a quelle psicologiche del problema, lavorando tra misconoscimento e riconoscimento che può riguardare la stessa identità di una università che si trasforma e a fatica vede legittimare aspettative e prospettive dei corsi di Scienze della comunicazione. La natura conflittuale del problema resta sullo sfondo di un seminario che funziona come una palestra di idee in tensione, ma che restituisce la tessitura di nessi orizzontali e verticali. Si può ripartire semplicemente dalla ricerca di Barbara Carnevali, che recuperando l’analisi dello statuto semantico del termine “riconoscersi” di Ricoeur, ne delinea tutta la “vaghezza” e la “vastità” del campo. Il percorso dinamico della Carnevali parte dalle tre accezioni considerate da Ricoeur:

Quaderno di COMUNICazione


Quaderno di COMUNICazione

tessiture

riconoscimento come esperienza della conoscenza; riconoscimento come autoattestazione delle qualità personali che riguardano la nostra realtà interiore; riconoscimento come relazione intersoggettiva, con valenze morali, sociali, politiche, che mira ad attestare qualità o attributi degli altri. Carnevali lavora sulla natura sociale - e antagonista - del riconoscimento, intorno al problema dell’identità che collega le tre ipotesi, partendo da Hobbes, e dalle radici dell’individualismo moderno - un individualismo autoaffermativo e conflittuale - per gettare luce sul nesso intrinseco tra potere e riconoscimento. Il bisogno di riconoscimento si fa chiave d’interpretazione della psicologia umana, il voler esser riconosciuti, la lotta per il riconoscimento, a partire dalla prospettiva materialista hobbesiana diventano chiavi per spiegare il conflitto e le relazioni tra l’io e l’altro. Nella rete delle passioni, la glory è fondante per la relazione intersoggettiva, ha bisogno della disponibilità degli altri e si gioca inevitabilmente in un sistema comparativo, agonistico. La distinzione, e la lotta per la distinzione, entra in gioco come tentativo di marcare la differenza, paradigma che da Hobbes ci porta fino a Norbert Elias o a Bourdieu. Tutti reclamano una distinzione, dispiegano strategie materiali e simboliche per la conquista del potere, il bisogno di riconoscimento diventa elemento e alimento fondante del conflitto sociale. L’etica estetica di Michel Maffesoli, sposta enfaticamente il punto di vista dall’individuo moderno al comune sentire, dall’individualismo al collettivo delle tribù. Al piacere del potere il sociologo contrappone l’amore per la contemplazione, il piacere sensibile, la rivendicazione dei valori del sud, un’affermazione del mondo che è armonia nella relazione con esso. La proposta di quello che il sociologo francese definisce «reincanto del mondo», si traduce in un reinnamoramento dell’esperienza del mondo che passa per una conoscenza incarnata. Oltre la tradizione occidentale, la scissione tra mente e corpo, richiamando il maestro Gilbert Durand nella distinzione del duplice regime, diurno e notturno, razionale e sensoriale, Maffesoli rilancia una pista armonica e unitaria diversa, dove si recuperano all’uomo dei consumi la centralità dei sensi, uno spazio nuovo per le emozioni e le sensibilità. Una conoscenza iscritta nella sfera del dionisiaco si fa strumento per una politica della quotidianità e una sorta di mistica dell’erranza è costitutiva nella stessa ricerca di riconoscimento. Nel discorso di Maffesoli echeggiano termini e concetti ancora vaghi e vasti, necessariamente solo sfiorati nel convegno - come il tribale, o il nomadismo, intorno ai quali si è alimentato il dibattito culturale degli ultimi dieci anni e che sono perni di riferimento nella costruzione teorica del francese. Il problema del riconoscere/riconoscersi si analizza - secondo il professore della Sorbona - a partire dall’etimo-

305



I LAUREATI IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE NELL’UNIVERSITÀ DI LECCE

i laureati

Sessione straordinaria a.a.2003/04 (febbraio 2005)

306

DI GIULIO PAOLA giornalismi sportivi NEVIRI ALESSANDRA AMICO CONCETTA smi. GLIONNA CRISTINA DE BLASI FABIANA OLIVARES ROSSELLA DE MATTEIS GIORGIO ne BRUNETTI ANDREA VALENTINO MARRA VALENTINA ARSIENI MARIA GRAZIA BOCCO ROSARIANNA CARROZZO SIMONE nuove guerre VILLA ANDREA MANCA KATIA SABATO MATTEO NOBILE MARIELLA tabac- SPADA SARA

Quaderno di COMUNICazione

“Salvare sulla linea il cucchiaio del bomber”. Il linguaggio del calcio e dei Il linguaggio della moda negli anni 1964/1977 Per una microdiacronia dei neologiNascita e morte delle parole nuove in italiano Il linguaggio della moda nell’era del travoltismo La lingua della moda negli anni del riflusso (il 1980) Il linguaggio settoriale del turismo I neologismi nei settimanali d’opinioIl divismo femminile Violenza e società. Nella fiction cine- matografica: analisi di Natural Born Killers Welcome in the new bronx. L’hip hop visto dalle province Il corridoio VIII e le relazioni esterne dell’Unione Europeo C’era una volta la verità. I media e le L’amministrazione Bush e i neoconser- vator. Ideologia Programmi Minacce Interessi Rischio di linguaggio omologato nelle nuove tecnologie della comunicazione (Globale)? Potere politico e informazione: <Corriere Meridionale> e <Corriere della Sera> (1919-1926) Tra cinema e storia: il caso delle chine salentine nel secondo dopoguerra L’uso pubblico della storia: la stampa italiana e il caso Togliatti del 1992


Il neo-conservatorismo americano Lo scambio di file su Internet: dal to peer all’instant messaging Calcio e diritti tv: evoluzione econoco-giuridica dal monopolio della RAI al Le influenze sociali della e nella tion comedy - famiglia e amici tra fin- zione e realtà Reality show: quando lo spettacolo della realtà sconfina nel reale SMS: la rimediazione della scrittura. Nuove forme di interazione sociale Kunsthalle: case al servizio della ra, per una educazione consapevole e attuale della collettività moderna La trasportatrice - La funzione pedagica della metafora nel cinema di Tim Capitale umano e formazione profes- sionale L’analisi economica della burocrazia: la competizione elettorale in regime corruzione Flessibilità del mercato del lavoro e norme sociali L’economia civile: non-profit e banca etica La comunicazione nell’e-commerce. Il rapporto interattivo tra fornitore e utente. Il caso eBay I piani di comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni Un nuovo strumento di relazione con cittadino: il T-Government Donne all’avanguardia - Comunicazione al femminile nel movi- mento futurista Il pesante fardello della realtà Antropologia visuale Leggende urbane Scienza e società: il problema della divulgazione scientifica

Quaderno di COMUNICazione

i laureati

MAZZEO NICOLA CAZZATO ALBERTO peer STARACE PAOLA mi- digitale terrestre MELE FABIO situa- CASCIONE ANNARITA LOMASCOLO PAOLO FILIERI TIZIANA cultu- GRECO MATTEO go- Burton CISTERNINO FRANCESCA RICCIARDELLI ANTONELLA di ROMANO ROBERTA NITTI MARIANGELA MONTICELLI CHIARA DIGREGORIO ISANGELA SCHIAVO MATTEO il CANTORO RITA GIUSEPPA SPADA ANTONIO VILLA ALESSANDRA SPEDICATO ILENIA DELL’ANNA MARGHERITA

307


SCALINCI PAOLA La simbolica della corporeità. Viaggio nel tarantismo salentino DE LUCA SILVIA La pubblicità sociale CAPUTO CATERINA La ritualità politica. Riflessioni tra storia e sociologia BAGNO BARBARA La leadership politica nel dibattito sto- riografico contemporaneo TAURINO PAMELA La pubblicità tra marketing e analisi sociologica STARACE MARIA VITTORIA L’e-government nella pubblica ammini- strazione: problematiche, orientamen- ti, prospettive CARBONE ANGELA GIORGIA Riflessioni sociologiche sulla moneta CASAVOLA MANUELA Sociologia della pubblicità: teorie e problemi ALLOGGIO ALESSANDRA Intelligenza artificiale e sistemi esperti SFORZA ROSANNA Dalla cibernetica al cyberpunk DURINI ANNA MARIA L’opera di Wierner e la scienza della comunicazione MILONE MARIA ADDOLORATA Mente e memoria in de Kerckhove nella trasformazione dei processi educativi CAGNAZZO FRANCESCO SALVATORE Violenza e media nell’età pre-adole- scenziale DE DONATIS MANUELA La funzione pedagogica del mito FIORITO ELISA Una metafora esistenziale dei nostri tempi. Dalla notte di Melpignano a quella di Torrepaduli. Interpretazioni giovanili PEDONE PAOLA L’olivicoltura a Melendugno: proposta di un percorso di qualità CHIAVARONE GIUSEPPE I modelli di governo e gli strumenti informativi CAFARELLA MANUELA L’impresa, immagine e comunicazione. Il caso Meltin’Pot PICA COSIMO Messaggi subliminali nella comunica- zione pubblicitaria

i laureati

Sessione estiva a.a. 2004-2005 (luglio 2005)

308

RUGGIERO RAFFAELLA STAMERRA IVANA

Quaderno di COMUNICazione

La promozione del turismo nel Salento La promozione della cultura: il ruolo delle istituzioni


Quaderno di COMUNICazione

i laureati

MICCOLIS IMMA Tecnologie. Comunicazione. Individuo. Prospettiva di Derrick de Kerckhove MAUTARELLI CLARA Terrorismo e nuovi media. Temi per una riflessione sociologica SALERNO SANDRA Un’analisi linguistica di contesti pub- blicitari nelle campagne stampa italiane PICCOLO FRANCESCA Dinamiche di conservazione e innova- zione nella lingua dei quotidiani SPADA ERRICO Calcio e parole: il vocabolario dello sport più diffuso tra tecnicismi e inno- vazione GUADALUPI ANTONIO La politica di Bush sulle pagine della New York Review of Books (2003-04) LUCISANI GIOVANNA I neologismi della lingua italiana nei quotidiani di partito TALIENTO CLEMENTINA Strategie di vendita e decisioni d’ac- quisto MARTELLA MARINA La comunicazione interculturale: nuovi codici per una società in evoluzione LUPO ANNA LAURA L’influenza della metafisica nella pit- tura italiana del secondo novecento DE GIORGI ANGELO Da Arpanet alla comunicazione Wireless nella società moderna LEGITTIMO ANDREA Le amministrazioni pubbliche nello sport ROMA TEODORO AMEDEO Codici etici e responsabilità sociale dell’impresa CARECHINO EMANUELA Il libro di fronte alla sfida del mercato in una libreria in franchising e in una indipendente di Lecce MAZZOTTA CHIARA Francesco Rosi: il cinema di mafia BRIGANTI ALESSANDRA Archivi audiovisivi: deperibilità e pro- spettive BONACCORSO PATRIZIA Letteratura e pubblicità LECCI EMANUELE La persuasione e la vendita: le peculia- rità della trattativa del prodotto turi- stico rispetto ad altri MEROLA LAURA Comunicazione e spazio geografico. La funzione del Nuovo Quotidiano di Puglia nel territorio di Lecce DI DIO SILVIA Comunicare la scuola FAGGIANO IDA Inchiesta sui mutamenti socio-relazio-

309


i laureati 310

COLONNA ILENIA FUMAROLA ROSSELLA GASPARRO ANNALISA REHO CARLO CIRFEDA SCALCIONE TONIO LONGO ILARIA 451 ORSINI VALERIA del in D’AMATO QUINTINO BELLO ANTONIO DE STEFANO CHIARA LEFONS FRANCESCO FILÌ BRUNELLA SCATEGNI CIRO BUCCARELLO LUCIA PERRONE ANTONIO CALÒ FRANCESCA RAGUSO MARIA CARMELA MONTINARO SARA ti- GIULIANO ADRIANA Nietzsche

Quaderno di COMUNICazione

nali. Gli ultimi settant’anni in Francavilla Fontana I film evento della nuova Hollywood Comunicare la responsabilità sociale d’impresa Giffoni film festival - Il fiero sguardo della fanciullezza Perturbazione mediatica: le video-exi- stenze di D. Cronenberg Dalla comunicazione sociale all’orga- nizzazione di eventi culturali: il caso Big Sur La tecnologia ambigua in Fahrenheit La transnazionalità nella creazione lessico. Le parole nuove in italiano e francese La comunicazione pubblica e analisi della sua efficacia nel Comune di Ugento Il poeta e il ragioniere. Due modi diversi di comunicare la politica Verso il digitale terrestre: emittenti locali a confronto Percorso artistico e sociale della can- zone d’autore italiana La fine del sogno. L’altra faccia del sogno americano nel cinema di Martin Scorsese e Francis F. Coppola Verso una pedagogia dell’invisibile. Il cinema di David Lynch dalla polisemia del simbolo alla ri-conoscenza del mondo Forme in mutazioni delle identità: modelli transizionali del corporeo eBay e-Commerce empire Il dono dell’altro La comunicazione che non c’è. Indagine sul disagio giovanile nel Salento Biopolitica e nuovi strumenti di identà collettiva: il caso di <Las Agencias> Il desiderio nella filosofia di Friedrich


MURRIERI VALENTINA turistiche

Otranto e Porto: due realtà a confronto

Laurea H.C. a Eugenio Scalfari

Il 5 novembre 2005 Eugenio Scalfari riceve dall’Università di Lecce la Laurea H.C. in Scienze della Comunicazione. La motivazione del Consiglio Didattico.

i laureati Quaderno di COMUNICazione

311


«In un lungo percorso professionale Eugenio Scalfari ha acquisito una indiscussa autorevolezza nel panorama dell’informazione a mezzo stampa e più in generale nel settore della comunicazione, testimoniando fedeltà a una tra le più insigni tradizioni storiche del giornalismo italiano. Su una salda base di vigoroso mestiere artigiano, preso in consegna dalla scuola de “Il Mondo”, Egli ha recato un personale contributo alla battaglia delle idee dell’ultimo mezzo secolo di storia italiana, svolgendo con coerenza le premesse di un pensiero di matrice liberale; guardando con larghezza di orizzonti alla questione sociale del nostro Paese e all’incontro tra le forze di matrice popolare. Un ruolo di grande rilievo nella formazione dell’opinione pubblica nazionale Egli ha svolto attraverso “la Repubblica”, un giornale da lui fondato nel 1976. Di altrettanto rilievo l’attenzione che da quella testata ha sempre

Eugenio Scalfari insieme a Carlo Caracciolo in una foto del 1976, quando il gruppo editoriale L'Espresso diede vita al quotidiano La Repubblica

i laureati

prestato ai fatti culturali; alle forti compenetrazioni umanistico-scientifiche del nostro patrimonio storico; alle espressioni delle avanguardie creative dislocate nell’ampia costellazione delle arti e delle tecnologie comunicati-

312

*La proposta del Corso di Laurea del 27 gennaio 2003 è stata ratificata dal Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia il 30 gennaio 2003 e successivamente dal Senato accademico dell’Università di Lecce.

Quaderno di COMUNICazione


gli autori

Cosimo Caputo è professore associato di Semiotica nell’Università di Lecce. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Light as matter, in “Semiotica. Journal of the International Association for Semiotic Studies”, 136 – 1/4, pp. 217-244, Mouton de Gruyter, Berlin 2001; Semiologia e semiotica o la forma e la materia del segno, Graphis, Bari 2000; Semiotica del linguaggio e delle lingue, Graphis, Bari 2003; Semiotica e comunicazione, Edizioni dal Sud, Bari 2004.

Stefano Cristante è professore associato di Sociologia della Comunicazione e Sociologia delle Comunicazioni di massa all’Università di Lecce. Si occupa prevalentemente di sociologia dell’opinione pubblica e dei consumi culturali. Tra le ultime pubblicazioni: L’onda anonima (a cura di), Meltemi, 2004; Breve storia degli eventi culturali, Bevivino, 2004.

Santa De Siena è docente di filosofia e storia nel Liceo scientifico “Banzi” di Lecce. Si occupa di epistemologia della complessità e di teoria della conoscenza. Ha studiato il pensiero di Edgar Morin sulla cui opera ha pubblicato nel 2002 La sfida globale, Besa Editrice. Per World Future ha pubblicato, Cosmosophy, Taylor & Francis Group 2005.

Sergio L. Duma è professore a contratto di Lingua e Traduzione Inglese nel Corso di Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce. Suoi saggi sono apparsi nel volume ‘Maturandosi’ (Alberto Santoro Editore, 1994) e ‘Commonwealth Literary Cultures – New Voices New Approaches (Edizioni del Grifo, 1996). Elena Maria Fabrizio è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Lecce, e membro del Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia, presso la stessa Università. Lavora e scrive sul pensiero di Jürgen Habermas e sui temi del pluralismo, dell’individualità e dell’universalismo etico.

gli autori Quaderno di COMUNICazione

313


Giovanni Fiorentino è ricercatore in Sociologia della Comunicazione all’Università della Tuscia. Si occupa del rapporto tra nuovi media e apprendimento. Tra le ultime pubblicazioni Il bambino nella rete, Marsilio, 2000; Il valore del silenzio, Meltemi, 2004.

Guglielmo Forges Davanzati è professore associato di Storia del pensiero economico e titolare dell’insegnamento di Economia politica nell’Università di Lecce. Ha pubblicato saggi e monografie sui temi della distribuzione del reddito, sull’economia post-keynesiana e studi di etica economica. Tra le ultime pubblicazioni: Labour market deregulation and unemployment in a monetary economy (with R. Realfonzo), in R. Arena and N. Salvadori (eds.), Money, credit and the role of the State. Essays in honour of Augusto Graziani, Ashgate, 2004.

Carlo Formenti è professore a contratto di Storia e Tecnica dei nuovi media all’Università di Lecce, saggista e giornalista del “Corriere della Sera”. Tra le ultime pubblicazioni: Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, 2002; Incantati dalla Rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, 2000.

gli autori

Gino Frezza è professore ordinario di Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato tra l’altro, L’immagine innocente (1978), Cinematografo e cinema (1996), Fumetti, anime del visibile (1999). Con Daniela Aronica e Raffaele Pinto ha curato Totò, linguaggi e maschere del comico (2003).

314

Carlo Gelosi è ricercatore e insegna Sociologia dell’ambiente e del territorio nel corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università degli Studi di Lecce. Si occupa prevalentemente del rapporto tra comunicazione istituzionale e sviluppo territoriale. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Comunicare il territorio, Franco Angeli, Milano 2004; La comunicazione per la promozione del territorio in Comunicazione di pubblica utilità in Società, economia, cultura (a cura di Stefano Rolando), Franco Angeli, Milano 2004; Lo sviluppo della comunicazione di pubblica utilità in Italia in La comunicazione dei rischi ambientali e per la salute (a cura di Paolo Bevitori), Franco Angeli, Milano 2004.

Quaderno di COMUNICazione


Matteo Greco si è laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università di Lecce. Attualmente frequenta il corso di laurea in Discipline semiotiche presso l’Università di Bologna.

Franco La Cecla, architetto, ha insegnato Antropologia culturale presso le Università di Bologna, Verona, Palermo; è stato visiting professor all’Ecole des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Attualmente insegna presso la Facoltà di Architettura dell’Università IUAV di Venezia. Ha pubblicato, tra gli altri, Mente locale, un’antropologia dell’abitare (1993), Il malinteso. Antropologia dell’incontro (1997), Perdersi. L’uomo senza ambiente (1998), Lasciami. Ignoranza dei congedi (2003), Lo stretto indispensabile. Storie e geografie di un tratto di mare limitato (con P. Zanini, 2004).

Paola Nestola, ha conseguito il dottorato di ricerca in “Il Mezzogiorno tra Europa e Mediterraneo: Territorio, Istituzioni e Civiltà dal Medioevo all’età Contemporanea” presso l’Università di Lecce e l’European Doctorate in “Social History of Europe and the Mediterranean” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è occupata di storia economicosociale, di demografia storica, di istituzioni ecclesiastiche, del controllo della produzione e della diffusione editoriale nella prima età moderna. A questi temi ha dedicato vari contributi.

Andrea Pacella è dottorando di ricerca in Scienze Economiche presso il Dipartimento di Teoria e Storia dell’Economia Pubblica dell’Università “Federico II” di Napoli. Si occupa di economia della conoscenza e teoria delle decisioni. Ha pubblicato, fra gli altri, Scelte pubbliche e finanziamento delle organizzazioni non-profit, “Rassegna Economica”, n.12, 2004, pp.13-30 e (con G. Forges Davanzati), Sidney and Beatrice Webb: Towards an ethical foundation of the working of the labour market, “History of Economic Ideas”, n.3, 2004, pp. 25-50.

gli autori Quaderno di COMUNICazione

315


Paolo Pellegrino è professore associato di Estetica. Si è prevalentemente interessato della Scuola di Francoforte, e di Adorno in particolare, oltre che dell’estetica crociana. Ha curato una raccolta di saggi su Hans Jonas: Natura e responsabilità e un’altra su L’Arte e le arti. Ha pubblicato un volume su L’estetica del neoidealismo italiano e un approfondito studio su Teoria critica e teoria estetica in Th.W. Adorno. Tra le più recenti pubblicazioni: Mito e tarantismo (2001), Il ritorno di Dioniso. Il dio dell’ebbrezza nella storia della civiltà occidentale (2003) e, da ultimo, Geografia del desiderio (2004).

Mimmo Pesare è dottorando di ricerca in Etica e Antropologia presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Lecce. Si occupa e ha scritto della interpretazione del concetto di abitare nel confronto tra la psicanalisi, la filosofia contemporanea e l’antropologia dei media.

Elena Pulcini è professore ordinario di Filosofia sociale presso il Dipartimento di filosofia dell’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni più recenti: L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (trad. tedesca, Diaphanes, Berlino 2004); Il potere di unire. Femminile, desiderio, cura, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Filosofie della globalizzazione (con D. D’Andrea), ETS, Pisa 2001; Umano, post-umano (con V. Gessa Kurotschka e M. Fimiani), Editori Riuniti 2004. Sta lavorando attualmente ad un volume sulle trasformazioni dell’identità e del legame sociale in età globale.

gli autori

Angelo Semeraro è professore ordinario di Pedagogia della comunicazione e presidente del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Calypso la nasconditrice, Manni, Lecce 2003; Lo stupore dell’altro, Pàlomar, Bari 2004; Omero a Baghdad. Miti di riconoscimento, Meltemi, Roma 2005.

316

Quaderno di COMUNICazione


Vincenzo Susca è dottorando di ricerca in Sciences Sociales all’Università Paris-V La Sorbonne e in Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, diretto da Michel Maffesoli e Alberto Abruzzese. Svolge attività di ricerca presso l’ISIMM. Ha pubblicato, con A. Abruzzese, Tutto è Berlusconi. Radici, metafore e destinazione del tempo nuovo, Lupetti, Milano 2004; Immaginari postdemocratici. Nuovi media, cybercultura e forme di potere, (a cura di), Lupetti, Milano 2005.

Andrea Tagliapietra è ricercatore confermato di Storia della filosofia e insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea ed Ermeneutica filosofica presso la Facoltà di filosofia dell’Università san Raffaele di Milano. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Filosofia della bugia. Figure della menzogna nella storia del pensiero occidentale (Bruno Mondadori 2001), Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro (Bruno Mondadori 2004) e La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità (Einaudi 2003), premio Viareggio 2004 per la Saggistica.

gli autori Quaderno di COMUNICazione

317


la lettera la lettera 318

Da: “neide82” <neide82@libero.it> Data: Fri, 29 Apr 2005 12:10:25 +0200 A: “angelo.semeraro” <angelo.semeraro@unile.it> Oggetto: Gentile Prof.

so che il tema di cui tratterà il prossimo “Quaderno di comunicazione” è il segreto. L’ho appreso durante il convegno sul “riconoscersi”. La tentazione per me di scrivere a voi, ma soprattutto a lei, è stata forte. Non mi sarei certo astenuta dal riflettere su quest’argomento e né tanto meno dallo spendere un po’ di inchiostro, ma il fatto di sottoporre a lei i miei pensieri nasce dalla voglia, spero comprensibile, di vedere se uno studioso, un ricercatore stimato come lei, possa trovare interesse a leggere lo scritto di una giovane sensibile a questi temi, ma che a riguardo sa ancora troppo poco! Se penso al segreto, non posso che pensare a me stessa e ai tanti diari scritti negli anni; poi però mi viene naturale anche estendere il discorso, portarlo fuori dallo strettamente personale, ricondurlo a quanto di più vicino esiste, cioè l’altro. Io la ringrazio! “Lo stupore dell’altro” è stato un libro illuminante per me perché, pur aprendo le porte a quei grandi temi-problemi sui quali non me la sento di dire la mia, esso li tratta come fossero insieme la fonte e il riflesso di una serie di dinamiche che coinvolgono l’individuo in prima persona. E in questo caso mi sento autorizzata a dire qualcosa proprio perché questo qualcosa mi riguarda. Perciò, come vede, l’invito ad una presa di coscienza sui problemi della post-modernità senza dubbio ha funzionato. Torno al segreto. La curiosità mi spinge a cercare quale

Quaderno di COMUNICazione


Quaderno di COMUNICazione

la lettera

definizione offre il mio dizionario e la prima espressione riportata è :”ciò che si tiene nascosto nel proprio animo senza rivelarlo a nessuno”. Devo dire che non mi aspettavo niente di diverso, ma cercavo appunto un’espressione convenzionale che potesse tradurre il concetto. Un segreto, evidentemente, è sempre qualcosa che si nasconde, che si cela, e ciò presuppone che vi sia qualcuno che vogliamo estromettere, escludere. Così il tema dell’altro si riaffaccia di nuovo! Vorrei però parlare del segreto per come lo sento io e vale a dire un bisogno. Penso che ognuno di noi abbia in fondo a se stesso un segreto che custodisce. Non ci si svela mai completamente, non ci diamo quasi mai interamente all’altro perché ora più che mai siamo afflitti dalla sfiducia, dalla paura dei doppi giochi, dal timore di apparire deboli e insicuri. Indossiamo le maschere e ce le scambiamo, ma tutto quello che di autentico e vero esiste in noi resta un segreto e mi chiedo se tutti siano consapevoli di questo. Una volta parlavo con un ragazzo di passioni, storie, del vivere insieme un uomo e una donna, del bisogno di amore e di amare, e dopo la conversazione lui mi ha ringraziata dicendomi che non si era mai fermato a pensare a queste cose. Troppo aveva da fare durante la giornata, tanto che fermarsi per lui significava dormire, cioè spegnere il pensiero. Sono rimasta scioccata e nemmeno vorrei credere che siano in tanti quelli come lui! Questo affannarsi a voler dimostrare di valere qualcosa, ricavandone null’altro che conferme per il sé (lei mi insegna che siamo tutti un po’ Narciso in questo senso!), ci distrae da quello che siamo, ci allontana dalla nostra coscienza, e le idee, gli stati d’animo, le emozioni restano segrete non solo agli altri, ma addirittura a noi stessi. Se rileggo tutti i diari che ho riempito in questi anni, naturalmente non ci trovo nulla di formale (forse la cronaca di qualche giornata!), ma ogni pagina racconta un’idea, un’insicurezza o una delusione d’aspettative, un malessere o uno stato di eccitazione, e quel segreto, racchiuso in poche o innumerevoli riga, diventa un bisogno, una passione che nasce dalla necessità di capire me stessa, di dare un ordine ai miei pensieri, per crearmi la mia consapevolezza. Ma il punto è che il nostro “io interiore”, ammesso che riesca, pagina dopo pagina, ad emergere davanti ai nostri occhi, resta segreto all’altro, rimane nascosto, accantonato volontariamente

319


in quelle pagine inviolabili di cui siamo padroni. E se l’anima soffre per un motivo o per un altro, spesso fuori rimaniamo li stessi, con il sorriso stampato di sempre, impeccabili, apparentemente sereni e invulnerabili. Tuttavia, quanto più grande è la verità che si nasconde, tanto più difficile diventa mascherarsi, anzi una maschera non è più sufficiente, se ne indossano altre, diverse, e si finisce per apparire strani, lunatici, indecifrabili. Per esperienza (ancora poca in verità!), dico che solo una mi sembra la strada percorribile, anzi lei me ne dà la conferma: coltivare la propria sensibilità nell’amore per se stessi e per tutto ciò che ci sta intorno. Solo quando amo e vengo amata profondamente non ho più paura delle mie debolezze, non sento più il bisogno di maschere, il mio segreto comincia a sgretolarsi ed io mi sento più libera di essere me stessa. In questa prospettiva, anche le pagine si scrivono con uno spirito diverso che non è più quello di nascondere e custodire la propria verità spinti dal bisogno di farlo, ma è quello di raccontare le emozioni per riviverle non meno intensamente. L’amore, che è la forma di relazione più autentica con l’altro, mi sembra in grado di trasformare il segreto in qualche piccola, trasparente certezza, ma una sola vita forse basta a scoprirci noi stessi, a farci scoprire dall’altro e a scoprirlo? La risposta è no! Tutti i segreti che l’uomo naturalmente ha o che si crea e preserva, possono svelarsi a poco a poco col tempo, con l’esperienza, ma alla verità il più delle volte non si arriva! È questo penso sia il mistero che permane al di là di ogni mutamento, quello dell’uomo e della sua identità.

la lettera

Spero di non essere stata troppo ingenua e pedante ad esprimermi così come mi sono espressa. Mi lusingherebbe ricevere un suo brevissimo giudizio, il più sincero possibile! Davvero grazie per l’attenzione Benedetta Loconte

320

Quaderno di COMUNICazione


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.