QdC6 - Fiducia/sicurezza

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Quaderno di Comunicazione 6/2006

fiducia/sicurezza

MELTEMI


In di ce

Quaderno di Comunicazione nuova serie

Direzione Angelo Semeraro Comitato di Consulenza Scientifica Alberto Abruzzese Marc Augé Egle Becchi Piero Bertolini Ferdinando Boero Raffaele De Giorgi Derrick De Kerckhove Giovanni De Luna Michel Maffesoli Roberto Maragliano Mario Morcellini Salvatore Natoli Mario Perniola Augusto Ponzio Stefano Rolando Antonio Santoni Rugiu Aldo Trione Ugo Volli Responsabili di Redazione Giovanni Fiorentino Mimmo Pesare Pubblicato con il contributo dell’Università Studi di Lecce erogato tramite il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali

Amministrazione e abbonamenti Meltemi editore, via Merulana 38, 00185 Roma info@meltemieditore.it; www.meltemieditore.it La rivista può essere acquistata nella sezione Acquisti del sito www.meltemieditore.it Consultabile in rete all’indirizzo web www.meltemieditore.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di ottobre 2006 presso Arti Grafiche La Moderna Impaginazione: studiograficoagostini.com

fidu ci a / si cu re zz a p.

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Questo numero (a. s.)

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Raffaele De Giorgi, Evoluzione della fiducia e periferie dell’accadere

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Davide Torsello, Contesti di prevalente incertezza sociale. Il caso dell’Italia meridionale e dell’Europa postsocialista

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Augusto Ponzio, Fiducia, sicurezza, alterità

47

Egle Becchi, Per una storia libidica della fiducia

55

Francesco Vitale, C’è da fidarsi. Sulla fiducia in Jacques Derrida

67

Ferdinando Boero, La storia di Mae

75

Marc Augé, Una scommessa sull’avvenire (dialogo con Mimmo Pesare)

83

Mimmo Pesare, La sicurezza dei luoghi. Abitare come aver-cura

99

Ernesto Mola, Dalla compliance all’empowerment: due approcci alla malattia

Meltemi editore via Merulana, 38 – 00185 Roma tel. 064741063 – fax 064741407 info@meltemieditore.it www.meltemieditore.it

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Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 600/99 del 14/12/1999

Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella, La fiducia come risorsa e il suo rendimento economico

123

Carlo Gelosi, La fiducia nelle istituzioni

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Sergio Duma, Sfiduciati e fiduciosi

143

Angelo Semeraro, Vigilia del dì di festa per metropoli occidentali Tes si tu re

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«Contatti»/Paura e paure; Volli, Laboratorio di semiotica; Bauman, Fiducia e paura nella città; Peters, Parole al vento. Storia dell’idea di comunicazione (A. Semeraro)


AA.VV.,

Tesi per il futuro anteriore della semiotica (E. Dell’Atti)

Morin, Étique, La Méthode 6 (S. De Siena)

Questo numero

Tundo Ferente, Moralità e storia (E. Fabrizio) AA.VV.,

Il bello del relativismo; Galimberti, La casa di psiche (M. Pesare)

Ricuperati, Fucked Up; Casetti, L’occhio del Novecento; Frezza, Effetto notte, Molotch, Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono (Giovanni Fiorentino) Thom, Morfologia del semiotico (a cura di P. Fabbri); «Athanor». Semiotica, filosofia, arte, letteratura (1990-2005) (Cosimo Caputo) Res et 191

Antonio Santoni Rugiu, A proposito di segreti

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G li a utor i

Con la solidità generosità, Piero Bertolini, venuto a mancare il 16 settembre, aveva accettato di entrare a far parte del nostro Comitato Scientifico. Unendoci al ricordo dei suoi più cari, e dei tanti che lo ebbero maestro, dedichiamo questo fascicolo alla memoria della sua intensa attività educativa e del forte interesse che ha coltivato per gli aspetti relazionali della comunicazione.

Ci sembra d’obbligo parlare della fiducia nella comunicazione in un momento di forte apprensione rivolta al futuro, ma anche di forti speranze a esercitarne il controllo. Possiamo farlo in continuità e contiguità insieme con i precedenti monografici dei Quaderni – il desiderio, il riconoscere/riconoscersi, il segreto – confortati, già a partire da questo numero, dall’adesione di autorevoli personalità dei cultural studies, entrati a far parte del Comitato di consulenza scientifica col compito di orientare i temi monografici e svolgervi funzione di referee per i saggi che verranno annualmente pubblicati. L’editrice Meltemi ha mostrato a sua volta interesse per una pubblicazione nata nel 2000 nel Salento, dall’interno di un corso di studi di scienze della Comunicazione, e con questo numero ne prende in cura la nuova serie. Un atto di fiducia in noi stessi dunque, nell’obiettivo di consolidare e ampliare i contatti tra i saperi sociali, individuando tematiche che aiutino la comunicazione a chiarire se stessa, a darsi episteme più certa, a consolidarsi come terreno d’incontro di linguaggi e tecniche, conservando e potenziando la propria vocazione dialogica. Sicurezza/insicurezza, fiducia/sfiducia animano l’agenda politica e quella sociale e da un bel po’ sono entrati nel vocabolario d’uso quotidiano, segnalando un comunissimo avvertito bisogno di potersi fidare. E di poter “scommettere”, come afferma qui Augé, “sul nostro futuro”. I saggi raccolti chiariscono anzitutto lo spessore semantico del tema, perché se è vero che tutto il parlare è “un atto di fiducia fondato sulla capacità di produrre i mondi richiesti”, come ha scritto John Durham Peters, è vero anche che proprio la produzione dei mondi richiesti, ossia la capacità di apparecchiare il futuro, è il punto di maggiore criticità di questo nostro tempo. A ragione perciò Augé ci richiama alla necessità di una vigilanza “perché se oggi rinunciamo alla speranza della fiducia, non resterebbe più niente”. Nel saggio di apertura Raffaele De Giorgi lega la fiducia al tempo, prestando attenzione al lungo percorso che ci ha affrancati dalla semantica antica della fiducia-affidamento, legata alla sovranità sacrale, fino all’avvenuta conquista,


Cosa accade se chi ha ricevuto fiducia ne fa un uso distorto, profittevole per sé o per una parte e non per un’altra dei rappresentati? L’analisi del portato fiduciario (la fiducia nella fiducia) si apre alla disponibilità comunicativa, ai necessari presupposti finzionali (almeno fin dove la finzione funzioni) che disponendo di un sapere più ricco di informazioni potenziano la fiducia “in forme raffinate di rappresentazione”. Economia, politica, diritto, scienza sono sistemi che apprendono da sé, spiega De Giorgi, e che usano come informazione il risultato delle loro stesse operazioni, e qui l’autore incontra Torsello in una spiegazione plausibile sul deficit fiduciario delle periferie, dove la rete di comunicazione diventa rete della protezione, del sostegno, del favore personale. Le periferie sono condensati di esclusione e la comunicazione non riesce a comunicare che marginalità. Legata al tempo e alla sicurezza la fiducia si configurerebbe essenzialmente come diritto di accesso al domani, ma nelle periferie il tempo si rallenta, e la comunicazione “consuma tempo e riduce le possibilità dell’accadere”; i codici dei sistemi sociali vengono surrogati dalla presenza di metacodici in funzione della riproduzione dei “parassiti” che rallentano il tempo della società e riducono “la possibilità dell’accadere”. Torsello incalza De Giorgi sull’economia sommersa, in cui conoscenza, clientelismo e prestigio restano ancora sicure chiavi di accesso. Quel che appare certo è che siamo dinanzi a una “raffinata barbarie moderna”, che distrugge le condizioni della fiducia, “posticipando – conclude De Giorgi – la possibilità del futuro”. Anche Augusto Ponzio è sintonizzato su questa lunghezza d’onda e declina fiducia e sicurezza come valori della comunicazione, esposizione all’altro e a se stessi, nonostante lo sforzo che pure ogni io compie nel ridurre ogni altro a proprietà privata, di inchiodarlo a un’identità e un’appartenenza. Alla base della sfiducia il semiologo vede paura per l’altro, insostenibilità del suo sguardo (il “faccia a faccia” di Lévinas), un rapporto sbagliato in cui la differenza degenera in indifferenza. L’analisi di Ponzio si apre sugli scenari globali, sui teatri di guerra, sull’Atto finale della Conferenza di Helsinki: un “elenco di buone intenzioni” con cui l’Europa pensava di poter risolvere i problemi della (propria) sicurezza, appagata per averli fissati su carta. Ma “se respingo, escludo, reprimo l’altro, se lo costituisco in nemico, non respingo, escludo e muovo guerra a me stesso”? Si domanda a sua volta Francesco Vitale, esaminando uno di quei testi di Derrida “fatti apposta per irritare”: un testo che ci riporta alla religio come fondamento del patto fiduciario comunitario. Un nucleo tematico che non poteva sfuggire: il permanere

cioè del rapporto fiduciario in una semantica del “sacro”, che stabilisce un rapporto di obbligazioni, di sottomissioni a una autorità in vista di un beneficio garantito: un rapporto al quale non è estraneo il conflitto e la pulsione distruttiva. E in questa direzione spinge il racconto biosociologico di Boero nel suo reportage dalla terra dei papua. Più facile la fede, e il pensare che l’ignoranza resti irriducibile, piuttosto che concedere fiducia a chi cerca di ridurre lo spazio d’azione dell’ignoranza. Sì, perché una fiducia di pura dipendenza si sconfigge con più informazione. Ma la conoscenza – sostiene Boero – è faticosa; più comodo affidarsi a un qualche capo o profeta. E se chi carpisce fede e fiducia degli altri verrà smascherato, chi potrà impedire allo smascheratore di prendere a sua volta il posto dello smascherato? E il gioco ricomincia, con pericolose conseguenze sulla tenuta della democrazia. Liberati dall’antica semantica della fiducia-affidamento, la diagnostica sociale ha potuto investire sulle basi psicologiche, su cui è possibile crescere nella fiducia e conferirla agli altri. Egle Becchi traccia qui rapidamente le linee di una possibile storia della libido che dai Freud (padre e figlia) si snoda lungo un percorso che incontra Erikson e Bowlby: una storia che avanza per successive scoperte e conferme del valore di una fiducia basica impostata sull’esperienza dei piccolissimi di sentirsi amati e accettati. È nella sicurezza che a ogni loro domanda, sia pure implicita, seguirà una risposta che s’incanala il flusso fiduciario. Becchi avverte che la fiducia si alleva in uno psichismo infantile fragile e drammatico: un sentimento muto “nel quale il piccolo apprende non solo che cos’è il piacere, ma anche che il piacere assume forti tinte passionali”, e da qui, “in questo segno emotivo così violento e difficile, trova – e sceglie – lo stile della sua esistenza”. Fiducia come attesa e desiderio, dunque. L’attesa che una relazione interrotta possa ricomporsi può segnare l’intero corso di una vita, ma la riconquista della fiducia è importante e irrinunciabile “per il costruirsi di una competenza sociale”. La distanza tra la fiducia personale e quella sistemica, la crisi di integrazione tra società e ambiente umano, rendono evidente che un legame sociale forte e durevole non può prescindere dal suo radicarsi su relazioni fiduciarie e fa vacillare la convinzione che queste possano riprodursi automaticamente. Sztompka, sociologo polacco più volte citato nei saggi qui raccolti, sostiene che fiducia e sfiducia sono contagiose; tendono a propagarsi. In particolare, la fiducia sembrerebbe diffondersi dall’alto verso il basso, mentre la sfiducia andrebbe in senso inverso. Una fiducia generalizzata coinvolgerebbe le istituzioni e quei “nodi d’accesso”, come li chiamava Giddens, che consentono un incontro tra profani ed esperti in cui le relazioni si trasformano da anonime in personali. Essi sono quindi necessari per fronteggiare il rischio sempre più concreto di percepire le istituzioni come meccanismi autoreferenziali, non discutibili o modificabili. Alcuni contributi rientrano in questa prospettiva.

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nello spazio moderno, di un diritto della ragione che “pretende fiducia perché si deve autoconservare”. Col necessario corollario che chi disponga della fiducia, chi sia stato fiduciato, di non altro dispone che del potere di “conferire a sua volta fiducia”, afferma De Giorgi, il quale offre molti spunti sull’orizzontalità delle sue dinamiche; sul potere che resta pur sempre un servizio a termine, legittimato dai rappresentati nei sistemi democratici.


8 Quaderno di comunicazione

Forges Davanzati e Pacella trattano della fiducia come risorsa per lo sviluppo, fondamento per la crescita micro-macro dell’economia, e spiegano come essa influenzi le aspettative tanto dei consumatori che degli imprenditori circa il futuro andamento delle variabili economicamente rilevanti, soprattutto quando le economie monetarie si trovino a fluttuare in condizioni di incertezza e di rischio continuo. Mola, di professione medico di base, è interessato a costruire un legame fiduciario tra medico e paziente, e prestando a questo rapporto le forti suggestioni della pedagogia di Paul Freire, lavora sull’empowerment come su una possibile alternativa per sfuggire a un modello autoritario-prescrittivo della struttura e dell’organizzazione sanitaria, fortemente limitativa della libertà del paziente. L’empowerment è un flusso fiduciario circolare, in cui la fiducia del medico nel paziente rafforza quella del paziente in se stesso. Anche Gelosi sposta sul piano orizzontale una strategia di credibilità delle istituzioni nei confronti della cittadinanza e dei singoli cittadini. Una rinnovata fede pubblica è possibile laddove sia garantita l’applicazione corretta e imparziale delle leggi, il buon funzionamento delle amministrazioni civiche, i servizi alla cittadinanza, ma anche la qualità del personale che opera nelle zone d’accesso a istituzioni, organizzazioni e sistemi esperti. Pesare sceglie la dimensione dell’abitare, inteso come “prendersi cura”, intrecciando semantiche heideggeriane e narrazioni cinematografiche orientali, e ragionando sulle altre possibilità non viste che l’imprevisto/imprevedibile reca con sé. Duma infine offre un’interessante rassegna della recente letteratura anglosassone, sospesa tra sfiduciati e fiduciosi. L’attenzione a McEwan, un robusto narratore di cui si è occupato chi scrive, consente di sondare infine gli umori europei nelle metropoli minacciate dall’insicurezza. Dalle pagine di questo Quaderno emerge dunque una fiducia che si rafforza come bene relazionale, come proprietà-qualità che può attecchire solo in un altro modo di impostare le relazioni sociali. Fiducia è domanda di sistemi aperti, motore di una comunicazione non truccata. Sapere che le parole andranno a buon fine, che non verranno deformate; che sarà sempre consentito spiegarsi senza preconcetti e ostilità: questo è il suo sillabario, su cui crescerà o defluirà il desiderio di incontrarsi, la curiosità di conoscersi, di approfondirsi (riconoscersi); si accenderà il desiderio di reciprocità, e magari si coopererà per un fine comune, guadagnando un incremento di sguardi sul mondo. Consolidare una cultura della fiducia è uno di quei nuovi doveri che l’educazione riesce a intercettare e per cui vale forse la pena di continuare a spendersi. Sempre che si tratti di educare una comunicazione dallo sguardo libero, che rechi con sé la promessa di una trasformazione discorsiva dell’habitat umano. a. s.

fi ducia / s icu rezza


Raffael e De Gior gi Evoluzione della fiducia e periferie dell’accadere

1. Fiducia è un termine che non nasconde la sensibilità morale che inevitabilmente l’accompagna. Un aspetto estetico, un pudore semantico che rendono la fiducia facilmente utilizzabile sul mercato piuttosto disorientato delle cose sociologiche con le quali si cerca di descrivere la società contemporanea. Un mercato di surrogati che fanno moda. Basti pensare a verità, cittadinanza, sovranità, compassione, sicurezza, rischio. Fiducia, appunto. Concetti che perdono le tracce della loro storia; semantiche che hanno condensato lo spazio del tragico vengono deformate fino a piegarsi alla rappresentazione del grottesco, oppure paradossi per i quali si esibiscono maschere nuove. Artificialità moral-estetiche o moral-giuridiche che diventano i concetti nuovi della descrizione sociologica. Nelle brevi riflessioni che seguono vorremmo occuparci della fiducia da una prospettiva affatto diversa: vorremmo descrivere la funzione della fiducia come un meccanismo, un dispositivo, una tecnica che opera e rende possibili operazioni nella società moderna, che è risultato di evoluzione e che porta impressa la funzione di memoria della sua struttura semantica, dato che fiducia è anche un concetto; da ultimo, come uno schema della costruzione di aspettative. Fiducia – così come: rischio – ha una particolare connessione con il tempo. Proprio come rischio, anche fiducia è un vincolo del tempo. È una possibilità di costruzione del futuro. Ma è una possibilità che presenta caratteristiche sue proprie, differenziate, cariche di presupposti. Vediamo in quali sensi può essere intesa questa connessione con il tempo. Prima di tutto: fiducia è sempre rivolta al futuro. Essa permette di affrontare il futuro utilizzando il non-sapere di cui disponiamo al presente. Fiducia estende il presente, gli dà continuità, lo apre. Nel passato, invece, la fiducia può trovare conferma, ma la sua memoria opera solo al presente. Si tratta di aspetti che interessano, per così dire, la collocazione della fiducia, la sua temporalità nelle temporalità dell’accadere. Ma c’è un’altra dimensione temporale che interessa la fiducia, questa volta la sua struttura stessa. E quindi i suoi requisiti, i suoi destinatari, i soggetti e gli oggetti della fiducia. E infatti: fiducia si differenzia, evolve. L’evoluzione ha a che fare con il tempo. La fiducia di cui si parla nei Salmi non è certo la fiducia di cui si parla nel costituzionalismo moderno. E la


2. Il complesso semantico nel quale originariamente si produce la rappresentazione dell’atteggiamento che si chiamerà fiducia ha a che fare con condizione, stato, protezione, verità. È il senso che scaturisce dal sapere di sé attraverso il sapere della divinità. La radice latina che accoglierà le tracce ebraicogreche di questo complesso e che si condenserà nella fides rimanda al sapere e alla sicurezza che ne deriva. Fiducia lega il singolo e la sua comunità alla divinità, alla verità e alla luce della divinità. La rete che intreccia questi legami tiene insieme la differenza che pone il singolo e la comunità nel potere divino. Un potere che include il potere e il sapere del futuro. Da qui la fiducia, l’affidarsi, l’aspettativa della protezione, l’esclusione dell’inganno e della delusione. La fiducia può essere data solo alla divinità, può essere vissuta solo nel sapere della divinità. Questa fiducia ha a che fare con il futuro, ma in un senso particolare: la divinità sa e vuole il futuro e per questo dà certezza al presente. Il singolo e la comunità non possono che accettare questa certezza. Ma non possono neppure pensare ad alternative. Ancora per Lutero sarà impossibile non avere fiducia in Dio. Obbedienza e accettazione manifestano un sapere di sé come sudditi. Esse si giustificano nella asimmetria della fiducia. L’altra parte della asimmetria sarà la grazia. Ma la grazia presuppone già le prime manifestazioni della cultura cristiana. La quale comincia a diffondersi in una società stratificata che aveva vissuto già grandi esperienze politiche e giuridiche legate alla civilizzazione romana. Il diritto, anche se nella sua memoria manteneva le tracce della asimmetria della fiducia caratteristica dell’età più remota della città, che trovava corrispondenze nelle tradizioni greca ed ebraica, si era differenziato sempre più da quelle tracce originarie e aveva individualizzato la fiducia introducendo elementi concettuali nuovi. Anche la politica aveva trasformato l’originaria struttura della fiducia. Si affermava sempre di più una molteplicità di elementi concettuali propri della comunicazione politica che avrebbe indebolito l’originaria determinatezza della fiducia. La tradizione cristiana acquisisce questi elementi e a sua volta ne trasforma l’originaria semantica. La fiducia si moralizza, la commistione con la religione resta, la fiducia, pur sempre asimmetrica, estende la sua ampiezza semantica verso l’affidarsi costruito sulle differenze di status. Il potere richiede l’affidarsi, ma esso stesso, a sua volta, è risultato dell’affidarsi. Le dispute medievali sul potere non sono altro che dispute sulla natura dell’affidamento del potere, sui percorsi dell’affidamento. Anche i singoli si affidano al potere e si riconoscono come sudditi. Essi dichiarano la loro deditio al potere. Anche la donna nel matrimonio viene affidata e si affida al marito. Anche qui essa riconosce la sua deditio. La grande tradizione del diritto naturale trasformerà questa semantica antica della fiducia. Essa elabora i requisiti del riconoscimento dell’altro attraverso una sempre più raffinata elaborazione dell’idea di azione e la sua graduale acquisizione nella dogmatica del diritto civile e poi in quella del diritto penale.

13 Evoluzione della fiducia e periferie dell’accadere

vede società impersonali, società anonime, soggettività perdute, bisogni di fiducia, minacce e rischi e misure di sicurezza. Priva di una teoria della società la sociologia si aggira sulle distese agevoli di fogliame secco e sogna grandi soli.

Raffaele De Giorgi

12 Quaderno di comunicazione

fiducia del giusnaturalismo e delle parti tra le quali si fissano le condizioni del contratto sociale non è la stessa che sembra moltiplicarsi nel secolo XIX fino a farlo indicare come “il secolo della fiducia”. Si tratta, però, sempre di fiducia. Perché atteggiamenti, comportamenti, pretese, aspettative sono osservati come determinati, mossi, orientati da fiducia. E poiché non possiamo assumere che l’unità della differenza sia data dalla continuità dell’essere, osserviamo la funzione e vediamo come essa si trasformi a partire da sé. C’è poi un significato ulteriore della connessione di fiducia e tempo. Christian Wolff scriveva che colui al quale manca la fiducia, colui che non riesce ad avere fiducia è continuamente in ansia per il suo futuro. In condizioni di scarsa disponibilità di requisiti cognitivi, ma: anche in presenza di cosiffatti requisiti, quando proprio il loro sussistere motiva l’aspettativa della decisione di un’aspettativa, fiducia è un sostituto funzionale della sicurezza. Ma questa è una storia che può essere raccontata anche in altro modo. Per esempio attraverso la ridescrizione del concetto di periferia e la osservazione delle connessioni che lo determinano. La modernità della società moderna che ha costruito la sua differenza sulle rovine della stratificazione si realizza in una forma della differenziazione sociale che non ha più un centro e non ha più periferie. Ma le diversità esistono e chiunque le può osservare. E anche tra le diversità esistono differenze. Ora, un vecchio costume concettuale che trova le sue radici nell’idea ottocentesca di progresso, ha descritto queste differenze mediante il ricorso a rappresentazioni di arretratezza, di sottosviluppo, di dipendenza. O a generalizzazioni, come cultura o mentalità. Si tratta di arnesi concettuali della vecchia semantica del movimento che portava a pensare alla possibilità di indurre accelerazione nella temporalità delle trasformazioni della società, di orientare queste trasformazioni attraverso la “applicazione” di “modelli” di sviluppo. E di conseguenza portava alla rappresentazione di una centralità della politica e quindi alla ricostituzione di un centro in una società che non può avere un centro e neppure un vertice. E le periferie? E la fiducia? In un lavoro, giustamente considerato ormai un classico, Patrons Clients and Friends: Interpersonal Relations and the Structure of Trust in Society (1984), Eisenstadt e Roniger se ne occupano. Il loro interesse conoscitivo è rivolto alla struttura delle relazioni tra persone in contesti prevalentemente caratterizzati da stratificazione. A noi, invece, interessa osservare come la stratificazione resiste, si rafforza, si produce in forme nuove, in contesti nei quali l’accesso alle possibilità offerte dalla specificazione funzionale dei sistemi sociali è stabilizzato. Cioè interessa osservare come si produce esclusione attraverso inclusione. In altri termini, interessa vedere come opera la società moderna, non come la stratificazione resiste e si continua nella ricorsività dell’interazione. In sostanza, riteniamo che l’osservazione della dimensione temporale della produzione di società ci permetta di descrivere la modernità della modernità, la tecnica della fiducia, la produzione di periferie, la funzione della fiducia nella continua periferizzazione delle periferie. La sociologia utilizza costrutti morali, semplificazioni del senso comune, massime della filosofia pratica e li mette all’opera nelle sue descrizioni. E così


3. Quanto è lontano Lutero che considerava idolatria avere fiducia in altri che non fosse Dio. Civilizzata l’azione, si civilizza la fiducia. Là dove l’asimmetria sussiste perché è legata, si direbbe, alla natura della cosa, si fa strada una raffinata ed elaborata ricerca delle condizioni che possono affievolire la rigidità della relazione. Se il servo deve avere fiducia nel padrone di casa, questi non deve certo avere fiducia nel servo. Ma la dama sarà interessata a cercare un clima che le permette di ottenere la confidenza della servitù. Non certo nel senso che la servitù possa osare di propria iniziativa, ma nel senso che la dama può confidare nella servitù, può isolare chi è degno di partecipare di una interazione comunicativa che nella situazione permette di chiudere gli occhi sulla differenza. E così i figli devono avere fiducia nei genitori. Essi devono sentire i genitori come il loro rifugio, come protezione. Ma i genitori non devono avere fiducia nei figli, così come i maestri non devono avere fiducia nei ragazzi che siano loro affidati, appunto. La sfiducia ha una funzione pedagogica, rafforza il carattere, riduce la necessità della sanzione. È proprio dell’educazione non correre il rischio della fiducia: il rischio cioè di dare al figlio, al ragazzo a scuola, un potere del quale farebbe un uso nocivo a se stesso. Il rischio che l’altro si senta in confidenza e quindi possa osare. La prospettiva della fiducia si allarga, però, già nella famiglia borghese alla fine del XVIII secolo. La madre assume su di sé la funzione di creare le condizioni perché la famiglia sia il luogo della fiducia. Si sviluppa una casistica delle virtù muliebri, una letteratura sulla comunicazione all’interno della famiglia e le lettere che prima si scrivevano per l’educazione del principe, adesso si scrivono per l’educazione dei figli. La famiglia descrive una rete della fiducia e della familiarità, appunto. La fiducia entra nel quadro delle virtù. Poi la pedagogia inventerà la individualità del bambino e alla fine anche la sua personalità. Si curerà la fiducia di sé e la fiducia degli altri. Pestalozzi e Fröbel scriveranno pagine accorate e s’impegneranno in una grande opera di riconversione pedagogica della fiducia. Ma sarà la pratica della corrispondenza tra gli studiosi che dispiegherà una rete della comunicazione della fiducia estesa allo spazio europeo, non più legata alla casistica morale o alla privatezza familiare, ma aperta alla conoscenza, alla sorpresa, alla semplice disponibilità comunicativa. Una rete, che era organizzata dalla comunicazione che la rendeva possibile, dalla semplice corrispondenza, appunto. Su di essa si costruivano le amicizie che riattivavano nel tempo la fiducia nella simmetria della corrispondenza. Società, associazioni, circoli: luoghi nei quali la rete della comunicazione della fiducia si estende dai singoli alle organizzazioni, si diffondono in tutti i paesi e contribuiscono alla formazione e poi alla stabilizzazione di una semantica della libertà di pensiero e di parola.

15 Evoluzione della fiducia e periferie dell’accadere

ne. Essa non può dire di sé se è razionale o non è razionale. Proprio questa cecità che dà fondamento, però, renderà possibile l’espansione dello spazio operativo della fiducia, le avventure della fiducia nel secolo XIX e nel XX e la sua specificazione nella dimensione temporale come vincolo del futuro.

Raffaele De Giorgi

14 Quaderno di comunicazione

Ci si rappresenta l’ordine sociale come ordine delle azioni e la tematica del contratto sociale aprirà il varco perché la vecchia semantica dell’affidarsi evolva verso una semantica dell’affidarsi senza assoggettarsi. I sudditi dovranno essere rielaborati come sovrani inventati come popolo. Ute Frevert ricorda che quando Carlo I nel 1649 davanti alla High Court of Justice intendeva richiamarsi al fatto che il suo potere scaturiva dalla fiducia che Dio gli aveva dato, il suo accusatore gli fece presente la fiducia che gli era stata concessa dal Parlamento e il giuramento dell’incoronazione, con il quale egli aveva stipulato un contratto con il suo popolo. Che il contratto dovesse essere inteso come contratto di rinunzia o di delega, comunque la fiducia avrebbe potuto essere ritirata. Si pensi alle discussioni sull’uso legittimo del potere. Diritto naturale e contrattualismo forniscono la base razionale della fiducia la quale ora copre il paradosso della rappresentanza. L’inclusione della fiducia nel linguaggio del potere trasforma e rende obsoleto la vecchia idea della rappresentanza. Gli interessi che prima venivano rappresentati in Parlamento erano interessi realmente comuni a coloro che li rappresentavano e a coloro che erano rappresentati. Ora la fiducia rende necessario interporre una mediazione: il bene comune. La vecchia literal rapresentation pur restando ancora nella disposizione di coloro che la detenevano, diventa virtual rapresentation e coloro che agiscono non lo fanno più in nome di Dio, ma in nome del popolo. Essi, pur non essendo eletti dal popolo, ne sono i fiduciari in virtù di “una comunione di interessi, di una simpatia dei sentimenti e dei desideri”. Nella semantica dell’ordine sociale subentra la ragione, il diritto naturale diventa diritto della ragione. La ragione pretende fiducia perché si deve autoconservare. Essa comincia da sé, sta prima del tempo, dirà Kant, e fornisce le ragioni dell’azione. Questa ragione frantuma i requisiti dell’antica asimmetria della fiducia e rende accessibile la dimensione temporale sulla quale si dispiegherà la fiducia moderna. La vecchia asimmetria era giustificata dalla natura del potere divino e dalla fiducia in virtù della quale quel potere si manifestava come potere mondano. La ragione risistema i termini della asimmetria in un modo che appare molto interessante. Il potere che ha diritto a essere potere si presenta come potere conforme a ragione. Conferire fiducia a questo potere è razionale. Coloro che dispongono della fiducia, in realtà, non dispongono di altro potere che non sia il potere di conferire fiducia. Ma sanno di poterla revocare. Essi però così ottengono il riconoscimento da parte di un potere che essi stessi credono legittimo perché è razionale mantenere il patto di fondazione. Che non è un patto, ma una funzione che nasconde un paradosso. Questo paradosso si continua a chiamare sovranità. Un paradosso che permette di agire. Le ragioni dell’azione dei singoli, così come le ragioni dell’ordine sociale trovano nella ragione il punto cieco della distinzione di fiducia e sfiducia, l’unità della loro differenza. La ragione, allora, riaccentra su di sé la vecchia asimmetria su cui si fondava la fiducia. Ancora oggi ci si chiede se sia o no razionale dare fiducia. Una domanda che si comincia a porre dalla metà del Settecento e che continua ancora a essere attuale. Ma la ragione, dicevamo, non è altro che il punto cieco della ragio-


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4. La dimensione temporale della produzione di senso caratterizza nel modo più marcato la modernità della modernità. La forma della differenziazione sociale che ha dato corpo alla modernità rende urgente la questione del tempo. Il motivo per il quale non siamo sommersi dalla complessità inarrestabile che si manifesterebbe nella esperienza della simultaneità dell’accadere è da ricercare nelle tecniche e nei dispositivi che operano rendendo possibile la temporalizzazione della complessità, l’attivazione di meccanismi riflessivi e la stabilizzazione di ordini cognitivi. Nella simultaneità dell’accadere i sistemi sociali si costruiscono vincoli del futuro i quali bloccano alcune possibilità e lasciano aperti spazi determinati di costruzione del futuro. Intanto è possibile operare. Per la costruzione di questi vincoli si utilizzano requisiti disponibili: la loro disponibilità, naturalmente, dipende dalla situazione. Uno di questi può essere il sapere, l’altro può essere l’esperienza del passato, ma anche l’aspettativa. Il vincolo che si riesce a costruire supera la relazione precaria che abbiamo con il tempo, permette di affrontare la situazione e di imputare le conseguenze. In questo modo la complessità viene ridotta in formato accessibile. Uno di questi vincoli che legano il tempo è il rischio. Un altro, quello che qui ci interessa è la fiducia. Altri vincoli, come la normatività di tipo giusnaturalista, per esempio, sono diventati obsoleti. Fiducia è una anticipazione del futuro, una prestazione che si rende possibile perché rischia il futuro nel presente. Essa non si sostiene sul sapere della situazione. Ma neppure sul non sapere della situazione. In nessuno dei due casi sarebbe sensato avere fiducia. Nel primo caso sarebbe inutile, nel secondo caso sarebbe stupido. Essa si motiva da sé in virtù di una sopravvalutazione del sapere della situazione e di una indifferenza utile del non sapere. In questo modo si rischia investendo sulla propria aspettativa. Si deve agire: non si ha il tempo di procurarsi nuove informazioni, ulteriori conoscenze della situazione renderebbero ancora più incerta la decisione; il rapporto con il tempo sarebbe ancora più precario, l’ambiente ancora più minaccioso, la sua complessità ancora più inafferrabile, all’esterno non c’è sapere che dia sicurezza: si usa la sicurezza interna di cui si dispone e si rischia. Fiducia si attiva quando il problema del controllo della situazione viene trattato attraverso il ricorso a risorse interne; quando il problema viene dislocato verso l’interno, quando viene soggettivizzato. Dare fiducia è come osare sul mondo investendo su di sé. Ci si espone al mondo in virtù della aspettativa di una congruenza tra rappresentazione e ordine interno della struttura, per esempio della struttura di un sistema personale. Fiducia è proprio l’aspettativa di questa congruenza. Fiducia ha condizioni, requisiti, premesse della sua espressione. Essa ha anche sue regolarità. Tutto questo non può essere normativizzato. Può essere ricostruito e reso oggetto di confronto. Possiamo dire che fiducia riflette la contingenza della situazione e l’esperienza della contingenza e che esprimere fiducia condensa un trattamento razionale della contingenza, in quanto permette di mantenere aperto il flusso della comunicazione evitando rotture drastiche.

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Fiducia di sé, fiducia dell’altro: una orizzontalità della fiducia che impregna il linguaggio e che trova nelle autodescrizioni della politica un terreno particolarmente fertile e reattivo. Il secolo XIX si esibisce come il secolo della fiducia. Le associazioni delle rappresentanze dei lavoratori sono luoghi della comunicazione e della fiducia; hanno uomini di fiducia. Ma anche nelle fabbriche e nelle imprese i datori di lavoro si attivano per ottenere la fiducia da parte dei lavoratori. E anche se le organizzazioni arrivano allo scontro e alla repressione violenta si fa comunque pur sempre appello alla restaurazione della fiducia. Il vecchio paradosso della ragione viene adesso assorbito nel paradosso della responsabilità. La costituzionalizzazione del diritto e della politica apre un grande orizzonte alla fiducia. La monarchia, il parlamento, le rappresentanze regionali e locali sono organizzazioni della fiducia. La rappresentanza politica è un condensato di fiducia: nel sistema politico si dà fiducia, si chiede fiducia, ci si aspetta fiducia, si decide perché si è ottenuta fiducia. Qualunque organizzazione della politica inventa nella fiducia il riferimento centrale della sua fondazione. La retorica della fiducia occulta il paradosso del sistema politico: l’autoimmunizzazione rispetto all’ambiente. Fondato sulla fiducia il sistema non deve soggiacere al controllo, cioè alle minacce dell’ambiente. In questo modo il sistema della politica si costruisce ciò che poi utilizzerà come realtà. Sotto l’apparente simmetria di fiducia e legittimità della decisione, si nasconde la circolarità della politica. In realtà si conferisce fiducia alla fiducia nella politica. Così per il diritto: la fiducia nel diritto è fiducia nella decisione presa in base al diritto, è fiducia nella fiducia al diritto. È risorsa che riattiva la continuità del diritto. In questa fiducia c’è ancora l’affidarsi, ma non c’è più traccia del bisogno di protezione, di rifugio, dell’asimmetria del costruirsi sudditi o del sapersi servi. C’è invece la certezza della partecipazione alla costruzione del futuro attraverso l’autoinclusione nella paradossale circolarità della politica, ma anche del diritto. Si ha fiducia nella democrazia, cioè nella continuità dell’agire politico, nell’autocostruzione del paradosso, nella realtà che esso si costruisce, si ha fiducia nella fiducia di una apparenza, di una finzione che funziona. Si ha fiducia nel processo, si sa che l’esclusione non sarebbe un’alternativa né razionale, né tanto meno, come si potrebbe anche dire, responsabile. Questa fiducia ha perduto qualsiasi connotazione morale. Anche se la morale può raccomandarne il ricorso e può considerare la sfiducia un male e sconsigliare l’atteggiamento che la sottende, la fiducia non è più una questione morale. La fiducia è una questione della situazione. È una questione che ha a che fare con l’urgenza del futuro immanente alla situazione nella quale si distende il presente. Con la continuità della costruzione politica della realtà, con la processualizzazione del diritto, con l’attribuzione della qualità di sapere al sapere degli esperti, con la possibilità della rappresentazione dell’ordine sociale nel quale si deve agire, con l’amore o con il denaro o con la verità. O semplicemente con l’altro, con il volto che mi sta di fronte e mi tende la mano. Questa fiducia moderna, il suo stile, ha a che fare con il tempo. Una teoria della fiducia, diceva Luhmann, presuppone una teoria del tempo.


5. C’è un aspetto dei contatti sociali nel Sud d’Italia che colpisce in modo particolare. Un continuo surplus di comunicazione, quasi un continuo, necessario insistere della comunicazione senza che la ridondanza che si produce contribuisca alla immissione di variazione, all’arricchimento del senso. Autoevidenze, questioni che si comprendono – e si risolvono – da sé, richiedono interminabili reiterazioni comunicative. Linearità si biforcano e le biforcazioni si moltiplicano e scorrono lungo interminabili strettoie attraverso le quali si sente che non si passa. Quanto più il tempo è scarso, tanto più la dimensione temporale della comunicazione si espande e comprime, quasi tiene stretta e soffoca la dimensione materiale, quella che permette di determinare il senso, di osservarlo e di indicarlo. Una comunicazione paradossale nella quale l’osservatore esterno può osservare che il livello al quale si tratta il tema della comunicazione, ciò che costituisce poi l’informazione, la differenza che fa differenza, come diceva Bateson, è sempre meno rilevante, sfuma continuamente, si perde, dilegua per sentieri che non si lasciano esplorare. Mentre si sente, e l’osservatore avvertito lo può osservare, che la comunicazione comunica sempre qualcosa di non comunicato. E questo è l’aspetto interessante: c’è una latenza che viene fatta vedere come latenza. Che viene comunicata. Questo paradosso produce una temporalità della comunicazione che oppone resistenza alle pressioni dell’ambiente. La situazione acquista i caratteri dell’unicità. Si carica di particolari, di specificità di aspetti che sembrano inventati

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rende generalizzabili. La fiducia di carattere riflessivo non è fiducia che si fonda su un sapere più ricco di informazioni, ma è invece fiducia che penetra i meccanismi di produzione della fiducia e li potenzia attraverso forme raffinate di disciplina della rappresentazione. Si pensi al sistema politico, ai mercati finanziari. A questa fiducia nella fiducia si affidano in grande misura sistemi sociali che hanno sviluppato uno stile cognitivo nelle loro acquisizioni evolutive e che in virtù di questo stile dispongono di una capacità più raffinata di elaborazione e trattamento della complessità. Economia, politica, diritto, scienza. Sono sistemi che apprendono da sé e che raggiungono livelli alti di adattamento. Sono sistemi che usano come informazione il risultato delle loro stesse operazioni, che si rendono instabili da sé e che controllano l’ambiente in virtù di un razionale controllo di sé. Si pensi al potere, ancora una volta, al denaro, alle grandi organizzazioni dell’economia o a quelle della elaborazione elettronica dei dati. Si pensi all’oceano di informazioni alle quali si può accedere. Il rischio di questa fiducia nella fiducia resta latente, ma è proprio questa latenza che rende razionale l’affidarsi attraverso la riflessività della fiducia. Basta guardare gli altri: si troverà un motivo razionale per dare fiducia alla loro fiducia nel fatto che la finzione funziona. Si vedrà per esempio che la democrazia funziona perché il popolo è sovrano, anche se la sovranità risiede nel popolo proprio perché il popolo non ha alcun potere, che la decisione politica è legittima, proprio perché il sistema politico è immunizzato rispetto al consenso in virtù del quale esercita il potere, che la realtà della società è soltanto la realtà della realtà dei media della comunicazione.

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La diffusione dei media della comunicazione e la loro differenziazione generalizza le condizioni per le quali l’espressione della fiducia diventa presupposto normale e razionale della continuità dell’agire. Denaro, verità, potere generalizzano i requisiti della fiducia nel sistema specifico che li utilizza come codici. Qui la fiducia è fiducia nel funzionamento del sistema, fiducia nel funzionamento della finzione impressa nel suo paradosso costitutivo. La istituzionalizzazione dei media facilita l’apprendimento della fiducia nei loro confronti: la fiducia nel sistema diventa routine e non viene distrutta nei suoi presupposti neppure quando nella situazione specifica l’aspettativa su cui si investe viene delusa. I media condensano complessità ridotta e la presentano in modo da rendere superflua l’informazione. Essi stessi sono selezioni prodotte in virtù di processi di condizionalizzazione, ed è proprio la presupposizione di questi processi che li rende degni di fiducia. La fiducia, infatti, non si esprime alla verità della verità, ma al sistema che la usa come medium; così come per il potere, la fiducia si esprime alla presupposizione della sua legittimità e per il denaro all’esperienza della differenza tra avere denaro e non avere denaro. Le selezioni dei media sono equivalenti funzionali della sicurezza, l’accertamento delle loro condizionalizzazioni comporterebbe un inutile dispendio di tempo e il rischio che colui che intende effettuarlo sia rappresentato come non meritevole di fiducia. In quelle selezioni, infatti, l’aspettativa della fiducia è semplicemente generalizzata. Perché possano operare si richiede la fiducia degli altri e quindi il loro primo fondamento è legato al discredito che si attira la sfiducia nella fiducia degli altri. Ordini sociali altamente differenziati raggiungono un alto grado di complessità. È possibile troppo allo stesso tempo. Ma non tutto può essere oggetto di simultanea elaborazione selettiva. Meccanismi semplici di elaborazione della complessità non sono sufficienti a queste condizioni. Quando il sistema della scienza si differenzia e si specifica, il semplice apprendimento non è sufficiente. Così come il diritto della ragione non può essere il diritto di un sistema differenziato e altamente specificato in base alla sua funzione. È così che si differenziano meccanismi riflessivi, cioè meccanismi che applicano processi selettivi a se stessi. Si impara a imparare, così come si positivizza il diritto, cioè si applica la normazione della normazione, oppure si inventa il metodo, cioè la ricerca sulla ricerca, oppure si ama l’amore, si compra il denaro. Meccanismi riflessivi dispongono di un alto potenziale per la elaborazione della complessità, essi si applicano alla realtà che essi stessi costruiscono o meglio: si applicano a ciò che essi usano come realtà. È così che la fiducia nella fiducia utilizza come suo oggetto la realtà che essa stessa costruisce. Essa è fiducia nei requisiti che generano fiducia, nella continuità della sussistenza delle condizioni alle quali si esprime fiducia, nel fatto che ambiti dell’agire che dispongono dei requisiti per l’attivazione della fiducia, possono essere controllati nelle conseguenze. Questa fiducia nella fiducia opera come le aspettative di aspettative le quali hanno un alto potenziale per la produzione di ordine sociale non per il loro presunto contenuto di realtà, ma solo per la riflessività che le


6. I sistemi sociali della società moderna attraggono la fiducia moderna, perché motivano l’aspettativa del funzionamento dei codici in base ai quali essi operano ed elaborano la complessità. L’universalizzazione di quei codici presuppone l’inclusione di tutti nella struttura selettiva di ciascun sistema. Sono queste caratteristiche delle condizioni dell’orientamento dell’agire che hanno civilizzato la fiducia permettendole di trasformarsi in un dispositivo del trattamento della contingenza dell’accadere nella dimensione temporale. Un dispositivo di anticipazione del futuro, che nel modo della riflessività accresce le possibilità di ridurre insicurezza riducendo allo stesso tempo il rischio dell’affidarsi alla fiducia. In questo modo la società si costruisce le possibilità di continuare la comunicazione, di estenderla, universalizzando il suo orizzonte e rendendo fruttuo-

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se esperienze sempre più ricche di presupposti. La dimensione temporale della produzione di senso moltiplica così le possibilità di raccordo della comunicazione. Si estende, perché i media della diffusione la universalizzano, la contingenza che caratterizza la percezione della simultaneità dell’accadere. Della simultaneità e della non trasparenza, perché tutto accade sempre al presente. I raccordi della comunicazione che i sistemi sociali moltiplicano, a loro volta moltiplicano le simultaneità del presente. L’esperienza di queste simultaneità è l’esperienza del mondo: del mondo come orizzonte della società del mondo. Società del mondo è il prodursi del mondo, l’accadere del mondo nella comunicazione, ha detto Luhmann. Questo accadere amplifica le differenze preesistenti, le utilizza e proprio per questo le amplifica. La società trova razionale questa amplificazione che scaturisce dal normale funzionamento dei sistemi sociali. D’altra parte, l’universale inclusione in virtù della quale operano i sistemi sociali non solo non garantisce che il successo dell’agire in un sistema agevoli il successo all’interno di un altro sistema, ma lo rende più difficile. Ormai siamo privi di garanzie. Privi di sostegno. L’amplificazione delle differenze è conseguenza di questa forma della differenziazione sociale che si basa sull’indifferenza e sull’autonomia dei sistemi sociali. E ancora: la dimensione temporale dell’accadere del mondo nella comunicazione non si lascia arrestare. Anche per questo le differenze si amplificano. A partire dal secolo XVIII si cominciò a pensare che lo sviluppo avrebbe ridotto o alimentato le differenze che esistevano tra le delimitazioni regionali della società. Poi si pensò che lo sviluppo potesse essere accelerato in modo da ridurre i tempi necessari alla sua realizzazione. Poi ancora si pensò che la rivoluzione avrebbe trasformato alla radice i requisiti strutturali delle differenze. Idee come queste caratterizzarono la vecchia semantica del movimento. Noi sappiamo che le società evolvono e che l’evoluzione non è un processo lineare, non può essere programmata e neppure progettata. D’altra parte la stessa evoluzione evolve. Questo significa che l’evoluzione che si è prodotta nel corso dei secoli non si ripete, non può essere ripetuta né tanto meno riprodotta nello spazio temporale determinato dalla causalità di un progetto. La modernità della società moderna non è risultato della realizzazione di un progetto. E neppure il futuro delle differenze può essere pianificato da un progetto. Accade invece, e questo sappiamo anche di sicuro, che delimitazioni della società, ambiti dell’agire, frammenti regionali vengano periferizzati, diventino periferia della modernità. Una società che non conosce un centro, che non ha un vertice che tollera periferie e le mantiene. Sono le periferie che essa continuamente produce. Ma questo è soltanto un altro modo per dire che una società che opera in base alla universale inclusione produce sempre più esclusione. Le periferie sono condensati dell’esclusione. Non si tratta dell’esclusione di persone, anche se si può verificare senz’altro esclusione di persone. Si tratta invece dell’esclusione dall’accesso alla realtà della comunicazione che si produce attraverso la generalizzazione del funzionamento dei codici dei sistemi differenziati della società moderna. Nelle periferie, allora, si accentrano differenti forme di resistenza alla generalizzazione dei codici. Queste forme di resistenza si generano

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esclusivamente al fine di controllare con il tempo della comunicazione il trattamento della situazione. Ciò che appariva autoevidente diventa altamente complesso. Ma si tratta, anche qui, di una complessità molto particolare. Di una complessità rispetto alla quale si può fare qualcosa. Per esempio, rendendo flessibili, comprensive, sensibili le organizzazioni. Ammorbidendo la impersonale durezza del diritto. Introducendo quella disuguaglianza nel trattamento del caso che i giuristi medievali chiamavano equità. Insomma reintroducendo nelle organizzazioni i caratteri delle persone: nella comunicazione è importante lasciar intendere che si è inteso che il non comunicato si riferiva al potere del singolo di controllare i tempi e le modalità di questa reintroduzione. Che in realtà non significa re-immissione di quei caratteri personali, dato che le organizzazioni sono state costituite con il compito di svolgere compiti che prima erano svolti dalle persone o da gruppi di persone, come le famiglie. Nelle organizzazioni si sono trasferite funzioni che prima venivano svolte da quelle famiglie che la proprietà collocava ai livelli alti della stratificazione sociale. Le organizzazioni, quindi, portano impressi i caratteri personali delle persone. Che erano persone della famiglia. Che a sua volta costituiva una rete della fiducia solo perché dava protezione e rifugio. A livelli più alti disponeva di denaro, oltre che di proprietà, e quindi di credito e di potere. Torniamo al presente. Il tempo della comunicazione diventa un fatto privato; si può estendere tanto quanto è necessario perché l’altro si senta dipendente e, quindi, alla fine gratificato. Le intermittenze della comunicazione, il fatto che, nonostante il processo non si concluda, l’altro incontri continua disponibilità al contatto, all’ascolto, alla riapertura della comunicazione, l’assenza del no, sono dispositivi che rinviano alla necessità di avere fiducia, di esprimere fiducia alle persone, s’intende. Il sistema, l’organizzazione, il programma decisionale, la struttura selettiva vengono ripersonificati. La rete della comunicazione diventa rete della protezione, del sostegno, del favore. Si deve dare fiducia. Ci si deve lasciar includere. L’alternativa, l’esclusione, costa troppo. Una cosiffatta rete dell’inclusione opera come reale struttura selettiva. Ci si deve affidare. E per sapere se l’aver dato fiducia a quell’affidarsi sia stato anche razionale, si deve aspettare. Ancora il tempo.


ha scritto Luhmann in una sua splendida osservazione della causalità nel Sud d’Italia (1995b). Si comprende, allora perché la comunicazione si intensifica, i contatti sociali richiedono tempo, pazienza, accettazione. La situazione si rigonfia su se stessa. Non si può dire no. Il valore del codice deve essere continuamente rimodellato, adattato alla situazione. Che poi significa sempre: adattato alla persona. 7. Nelle periferie il tempo si rallenta. C’è più bisogno di tempo e c’è sempre meno tempo. Perché la comunicazione consuma tempo e riduce le possibilità dell’accadere. È come se nelle periferie l’accadere del mondo si contraesse, perché si attarda concentrandosi sulle persone. Le periferie non sono realtà sociali. Disgregate, come dicono. Esse sono invece spazi della superintegrazione. Le persone dipendono l’una dall’altra. Le reti della comunicazione sono reti personali. Nelle periferie al di sopra di tutti i codici dei sistemi sociali si stabilizza e opera un metacodice che ha la funzione di consentire la riproduzione dei parassiti della resistenza alla differenziazione, di rallentare il tempo della società e di ridurre le possibilità dell’accadere. Questo metacodice usa la distinzione di inclusione ed esclusione. Il codice di una raffinata barbarie. Di una barbarie tipicamente moderna. Ma la barbarie è violenza e la violenza distrugge le condizioni della fiducia. La fiducia riflette contingenza, anticipa il futuro, usa finzioni per produrre realtà e moltiplicare i possibili raccordi della comunicazione perché le finzioni che usa funzionano. La violenza del metacodice dell’inclusione e dell’esclusione posticipa sempre le possibilità del futuro, riduce la loro espansione, usa la resistenza parassitaria, si chiude all’accadere del mondo. Ristabilizza la periferia. Elimina contingenza. Tanto la fiducia, quanto la speranza, diceva Luhmann, sono dispositivi del trattamento della contingenza. La fiducia riflette contingenza. La speranza la elimina. Si può spiegare così, forse, come mai nel Sud d’Italia, in questa periferia dell’accadere, alle ragioni dell’accadere del mondo non ci si affidi con fiducia ma si resista armati di speranza.

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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23 Evoluzione della fiducia e periferie dell’accadere

Se ci sono limiti giuridici a ciò che è consentito, scavalcare gli ostacoli offre tante più occasioni per dimostrare buona volontà e disponibilità all’aiuto. Una funzione del diritto potrebbe essere proprio questa: incrementare il valore espressivo tanto dell’aggiramento del punto di vista giuridico, quanto della sua consapevole attivazione o consapevole disattivazione.

B ibl iografi a

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come parassiti dei codici a partire dalle vecchie differenze che il normale funzionamento dei sistemi, come abbiamo visto, amplifica. I parassiti della resistenza accartocciano i codici, li deformano, li soffocano. I codici agiscono perché non agiscono. Ci sono perché non ci sono. Diventano latenti, minacciosi. I parassiti assorbono l’incertezza perché controllano la rigidità immanente al funzionamento dei codici. I valori binari dei codici vengono resi fluidi:


Davide Tor sell o Contesti di prevalente incertezza sociale. Il caso dell’Italia meridionale e dell’Europa postsocialista

Negli ultimi vent’anni, il concetto di fiducia ha trovato ampio spazio di trattazione teorica ed empirica nelle scienze sociali. Uno dei punti di partenza di molte analisi sociologiche è che la fiducia sarebbe venuta a ricoprire un ruolo di primo piano nelle relazioni interpersonali e nel confronto tra individui e organizzazioni formali a causa dell’incertezza e del rischio generati dalla società moderna (Luhmann 1979; Giddens 1990). Tuttavia, la fiducia non è un concetto nuovo. Già le teorie del contratto sociale e dello scambio del XVII e XVIII secolo in Europa postulavano l’importanza della fiducia per favorire il corretto funzionamento degli apparati di governo e per perseguire il progresso economico. Paolo Mattia Doria scrive nel 1710 che la fiducia è l’unica fonte di sostentamento degli Stati e conduce al loro mantenimento stabile (Pagden 1988, p. 129). Antonio Genovesi spinge il discorso ancora oltre, introducendo la famosa distinzione tra “fede pubblica” e “fede privata”. La prima, dipenderebbe dalla seconda, nel senso che la fede incomincia “da casa” (Genovesi 1803, p. 94). Di contro, una società dominata da fede privata non sarebbe sana, in quanto verterebbe su di un insieme di gruppi mossi da interessi esclusivi, non in grado di generare “alti livelli di aspettative tra i suoi cittadini” (p. 80). In ambito sociologico la distinzione tra fede privata e fede pubblica, o con termini più recenti tra fiducia sistemica e fiducia interpersonale, si fonda sulle differenti condizioni alla base della natura del rapporto fiduciario. Le differenze nelle posizioni interpretative, la direzione cioè verso cui si versa la fiducia riguardano i suoi contenuti. Da una parte si prende in esame il processo comunicativo, caratterizzato da trasparenza e assenza di informazioni celate o ambigue. Dall’altra, si considerano la natura e l’estensione degli attributi concernenti il destinatario della fiducia (Mutti 1994, p. 80). Secondo molti dei sociologi che hanno posto l’accento sulla fiducia sistemica, i suoi contenuti sono da qualificare prevalentemente come aspettative di stabilità e di ordine sociale e conferma del funzionamento delle regole sociali (Garfinkel 1967; Parsons 1969; Luhmann 1979). Di contro, la concettualizzazione della fiducia personale è legata con maggior forza a un accento sui processi cognitivi ed emotivi alla


Fiducia , cultur a e stor ia Nonostante costituiscano due elementi di cruciale importanza per delineare l’ambiente sociale in cui la fiducia si sviluppa e consolida, la storia e la

27 Contesti di prevalente incertezza sociale

cultura hanno ricevuto scarsa attenzione nelle opere dedicate alla fiducia. Gli unici due autori di mia conoscenza che dedicano un’estensiva ricerca delle condizioni storiche e culturali della fiducia sono Piotr Sztompka (1999) e Francis Fukuyama (1995). Si tratta di due opere molto influenti nell’ambito della teorizzazione sulla fiducia che adottano, sebbene in modi differenti, paradigmi culturali. Fukuyama genera delle essenzializzazioni, spesso sospette, sulle differenze culturali che avrebbero determinato l’esistenza di quelle che l’autore definisce low trust e high trust cultures (culture a basso e alto livello fiduciario). Seguendo una prospettiva tipicamente influenzata dal paradigma della modernizzazione, Fukuyama cita un numero di paesi e di sistemi economici differenziandoli sulla base della classificazione in queste due categorie. Per citare un esempio, Stati Uniti, Giappone e Germania, seppure con modelli di sviluppo economico e imprenditoriale diverso, sarebbero per Fukuyama esempi di high trust culture, dove la fiducia permeerebbe le relazioni sociali favorendo lo sviluppo economico. Lo stesso non accadrebbe per Italia meridionale e Cina, in cui modelli familisti di interazione sociale ostacolerebbero il libero funzionamento della fiducia ricadendo pesantemente sul progresso economico. Sztompka, sociologo polacco formatosi negli Stati Uniti, è autore di una delle opere maggiormente comprensive sulla sociologia della fiducia (cfr. anche Seligman 1990; Misztal 1998). La parte più interessante del suo lavoro è, tuttavia, il capitolo in cui l’autore applica il suo modello alla descrizione del mutamento postsocialista in Polonia. L’assunto principale è che in Polonia (come in tutti i paesi dell’ex blocco socialista) il comunismo avrebbe generato la cultura della sfiducia, diffusasi poi con il tempo a tutte le sfere dell’agire sociale e politico. Entrambe queste opere partono dal presupposto che il basso livello di fiducia generalizzata è in relazione con il percorso storico e le caratteristiche culturali di un contesto sociale. Questa posizione è, a mio parere, incentrata su un approccio superficiale della relazione tra storia, cultura e fiducia che verte su due posizioni teoretiche errate. La prima è che la mancanza di fiducia genera sfiducia, e quindi la sfiducia è vista come la negazione assoluta della fiducia (cfr. Gambetta, a cura, 1988; Levi 2000). La seconda è che la fiducia sistemica non sembra funzionare secondo gli stessi meccanismi della fiducia personale, per cui un eccessivo peso su legami personali, relazioni informali e networks indebolirebbe la fiducia generalizzata (Barber 1983). In realtà entrambe le posizioni sono assolutamente sostenibili in contesti socio-economici in cui la condivisione di informazioni e la comunicazione tra l’emissario e il ricevente fiducia sono su piani paritari e trasparenti. Qualora ciò non è possibile, tuttavia, diviene difficoltoso applicare gli stessi parametri d’analisi. Di seguito presenterò una serie di riflessioni, fondate su dati raccolti sul campo mediante ricerca antropologica, che tendono a sostenere tale ipotesi. Purtroppo lo spazio non concede un trattamento approfondito di tali dati, ma la dimensione comparata, tra Italia meridionale ed Europa postsocialista, può giovare a meglio chiarire cosa l’antropologia e l’analisi storico-culturale di questi contesti hanno da dire su una tematica di ampio respiro come la fiducia.

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base della creazione del rapporto fiduciario. Anche qui la fiducia appare definita come un processo comunicativo, specificata, secondo Mutti (1994, pp. 8081), da tre variabili fondamentali: la regolarità dell’interazione sociale, l’interesse personale e il carattere di personalità. L’analisi della fiducia personale diviene però un processo più delicato e spesso poco concludente, se non supportato da profonde e accurate investigazioni empiriche, in quanto le variabili connesse con lo scambio di informazioni implicite nell’atto della fiducia sono numerose e di difficile definizione. Nonostante ciò, vale la pena di definire alcuni campi in cui la sociologia, e in parte le scienze psicologiche, sono riuscite a fornire importanti contributi: quello delle aspettative che si creano con la fiducia e l’ambiente in cui opera la fiducia. Le aspettative fiduciarie sono quei processi cognitivi ed emotivi che determinano l’ambito in cui si decide, deliberatamente, di prestare fiducia. Luhmann (1979), distinguendo tra fiducia e confidenza, sottolinea come la fiducia venga generata esclusivamente in relazione a una condizione di rischio. Si tratta di una posizione cognitiva ben definita, in cui chi presta fiducia è costretto a un calcolo, più o meno accurato, delle probabilità che il suo gesto sia deluso, e anche del danno che la fiducia mal riposta possa causare (Deutsch 1973). A conferma di questa posizione, già Simmel (1908) aveva implicato che la fiducia si troverebbe a metà tra la completa ignoranza e l’accurata conoscenza. Un’eccessiva conoscenza non produce rischio e spinge quindi fuori dall’ambito fiduciario, mentre l’ignoranza completa non permette la trasmissione di informazioni alla base del rapporto di fiducia1. In questo ambito, quindi, la fiducia svolge il ruolo di ammortizzatore dell’incertezza alla base del rischio, in quanto si fonda su posizioni cognitive ed emotive. Il secondo punto si riferisce all’ambiente in cui opera la fiducia. Secondo i teorici della modernizzazione e della postmodernità la fiducia servirebbe a compensare l’incertezza tipica della società moderna e contemporanea producendo le basi necessarie alla creazione di legami personali forti, che generano sicurezza emotiva, affidabilità nelle transazioni di mercato, e sostituiscono i costi di norme contrattuali formalizzate (Granovetter 1973; Rose-Ackermann 2001; Kornai et al. 2004). Il problema che molti di questi lavori lasciano irrisolto concerne tuttavia la differenza strutturale tra contesti socio-culturali in cui la fiducia è generata al fianco di stabili e regolari norme sociali ed economiche e contesti in cui i legami di fiducia sostituiscono o coimplementano le norme e gli impianti istituzionali. In altre parole, non sempre la fiducia è in grado di ridurre i costi delle transazioni, per una serie di circostanze storiche e culturali, e in questo caso il peso dell’incertezza diviene maggiore, ma con un’enfasi differente sul significato culturale dell’incertezza2.


Non capisco perché tanto chiasso sull’emersione. Da sempre le cose sono andate in questa maniera. D’altronde se avessi dovuto dichiarare tutti i miei dipendenti e versare loro i contributi avrei già chiuso da un pezzo. Come credi che possono mantenersi le piccole imprese in un deserto simile5?

La forma di pagamento tipica di queste relazioni contrattuali è la seguente: il datore di lavoro impiega sulla base di uno stipendio mensile negoziato direttamente, ma senza che sia stato firmato alcun contratto formale. Questo tipo di accordi è molto frequente nel settore agricolo, nell’edilizia e nel secondario. Un’alternativa, particolarmente diffusa nel caso di lavoratori femminili, è che il datore di lavoro versa i contributi mensili, ma le impiegate restituiscono alla fine del mese la somma da lui versata6. Questo tipo di transazioni richiede un costante e marcato impiego di fiducia. La completa mancanza di norme e regolamentazioni contrattuali porta, in questi casi, all’esasperazione dell’incertezza. La letteratura antropologica tende a considerare il problema dell’economia sommersa (black economy, grey economy o shadow economy in inglese) come una risposta strategica da parte di gruppi di attori che non riescono a trovare uno spazio nel mercato del lavoro e nella catena ufficiale di produzione. Si tratta di un fenomeno diffuso su tutto il globo, seppure con svariate forme locali, la cui analisi presenta una certa continuità a causa del forte carattere simbiotico che tali pratiche spesso assumono con l’economia formale7 (Swain 1992; Ledeneva 1998). L’economia sommersa si costruisce su relazioni di fiducia personale, in cui la conoscenza, le reti sociali, il clientelismo e il prestigio sono le variabili chiave per comprenderne il funzionamento. Come nel caso dell’Italia meridionale, tali relazioni compensano le carenze istituzionali (mancanza di posti di lavoro, inadeguatezza delle strutture e del sistema informativo) e conferiscono un certo grado di dinamismo al mercato8. Tali relazioni, in altre parole, acquistano valore nel momento in cui le aspettative di regolarità su cui si fonda la fiducia sistemica vengono meno o sono irrilevanti rispetto agli interessi personali degli attori sociali. Tuttavia, ammoniscono De Giorgi e Corsi (1998), piuttosto che insistere a sottolineare come contesti quali quelli dell’Italia meridionale siano

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In un’interessante analisi storica del progresso socio-economico nel Regno di Napoli del XVIII secolo, Pagden (1989, p. 128) illustra le tappe che avrebbero portato alla “distruzione delle basi della fiducia pubblica”. La sua tesi è che il Regno di Napoli, sotto il dominio asburgico, avrebbe perso l’autonomia politica e le libertà individuali che le erano state proprie durante i periodi angioini e aragonesi. I sovrani spagnoli avrebbero distrutto lentamente ma inesorabilmente le basi della fiducia generalizzata servendosi di due metodi infallibili: il divide et impera, e il depauperandem esse regionem (p. 132). Da una parte, il governo spagnolo avrebbe favorito la suddivisione e frammentazione del potere aumentando il numero delle cariche nobiliari3. I nuovi nobili sarebbero venuti a dipendere direttamente dal sovrano e avrebbero, pertanto mantenuto una posizione privilegiata esclusivamente in funzione del loro rapporto con la corte. Tale scelta politica comportava due vantaggi per la corte. Da una parte i nobili locali erano costretti a vivere lontano dai loro feudi per riuscire a influenzare le scelte politiche di Napoli. Dall’altra, affidando cariche a titolo personale, si preveniva il consolidamento di quei legami civici che erano stati alla base della formazione di strati sociali intermedi nel “popolo civile” in Italia settentrionale. In altre parole, il popolo restava povero e indigente e i ricchi si arricchivano a dismisura senza, però, essere davvero padroni delle proprie risorse che gestivano spesso a distanza. Queste strategie politiche, insieme ad altri fattori culturali che contribuivano alla loro perpetuazione, come il concetto di onore, la religiosità sconfinante nella superstizione di cui gli stessi sovrani spagnoli erano modelli di comportamento, e il forte accento sullo studio delle leggi e sull’importanza sociale degli avvocati che facevano da potente interfaccia tra le leggi e la giustizia, avrebbero definitivamente indebolito le aspettative e i fondamenti della “fede pubblica”. La tesi storica di Pagden è sostanzialmente quella ripresa e sviluppata con forza dai teorici del “sottosviluppo” meridionale, da Banfield (1958) a Putnam (1993) e allo stesso Fukuyama. L’assolutismo austro-spagnolo avrebbe indebolito e col tempo distrutto le basi della fiducia generalizzata, ponendo in auge delle costruzioni sociali antifiducia. Il resto lo avrebbe fatto la storia, con l’unificazione italiana, la dipendenza strutturale del Sud dal Nord, il fascismo e il miracolo economico del dopoguerra, basato su ineguaglianza e continua marginalizzazione del Meridione italiano. Il problema analitico che si pone a questo punto, che non può sfuggire a un approccio di tipo antropologico, è definire come mai le basi culturali della sfiducia del Sud Italia si siano provate così resistenti ai mutamenti culturali e sociali. Venendo a mutare le basi culturali, anche le modalità dei rapporti fiduciari dovrebbero, di conseguenza, cambiare. Ad esempio, terminato il periodo dell’assistenzialismo centralizzato che ha segnato i lunghi decenni della “questione meridionale”4, l’ingresso nella UE ha determinato parametri nuovi per l’assegnazione di fondi strutturali e per lo sviluppo economico delle regioni svantaggiate. Cos’è cambiato allora rispetto alle analisi storico-culturali di Banfield e Putnam?

Il primo punto da esaminare è che l’Italia meridionale del XXI secolo non è la stessa degli anni in cui Banfield si aggirava per gli Appennini lucani. Lo sviluppo di molte aree del Mezzogiorno è stato enorme e indubbio nell’ultima metà di secolo. Nonostante ciò, i dubbi restano numerosi. Parametri d’analisi macroeconomica descrivono ancora con forza l’ineguaglianza tra Sud e Nord e chiunque abbia esperienza di vita in tutte e due le parti del paese è in grado di evidenziare senza difficoltà le differenze. Un caso da citare è il problema dell’economia sommersa. Nonostante le misure politiche rivolte a incentivare le imprese a venire allo scoperto e legalizzare i propri dipendenti, il problema è ancora lontano dalla soluzione. Un informatore, imprenditore di una piccola azienda edile del Nord Salento si è espresso in questo modo:

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Fiducia ge ner alizzat a e st oria in It alia m er idiona le


Il cambiamento epocale che ha spostato l’asse dell’equilibrio geopolitico mondiale in seguito al 1989 ha avuto il suo epicentro nella metà orientale dell’Europa. Uno dei modi in cui gli analisti hanno caratterizzato i paesi postsocialisti è stata la denuncia del basso livello di fiducia esistente soprattutto nei confronti delle nuove istituzioni (Rose-Ackermann 2001). La sfiducia postsocialista si spiega, di nuovo, con un approccio di tipo storico-culturale. Secondo alcune delle tesi più diffuse sarebbe difficile instaurare la fiducia in paesi in cui il regime socialista avrebbe minato le basi della credulità delle proprie istituzioni e seminato diffidenza e sospetto come strumenti di controllo ideologico (Kornai et al. 2004). In maniera simile all’Italia meridionale, “la cultura della sfiducia” nell’Europa postsocialista sarebbe un prodotto storico. Nonostante ciò, la realtà si rivela spesso diversa dalle immagini presentante da statistiche e macroanalisi. Nel villaggio di Králová, nel Sud della Slovacchia, l’87 per cento degli intervistati dichiara di considerare la sfiducia come il frutto dei mutamenti del post 19899. Molti degli informatori mi hanno ripetuto in diverse occasioni che per loro sarebbe divenuto ancora più difficile fidarsi rispetto al periodo socialista. A differenza di quanto sostenuto dagli analisti della trasformazione postsocialista, la sfiducia non sarebbe un lascito del periodo precedente, ma un prodotto del postsocialismo stesso (cfr. Giordano, Kostová 2002). Nelle scelte della vita quotidiana di questa piccola comunità10 si leggono due diversi orientamenti nei confronti dell’atto fiduciario. Il primo riguarda l’uso delle reti sociali, il secondo il ricorso strategico alla sfiducia. Analisi antropologiche del mutamento postsocialista hanno evidenziato un incremento drammatico dell’importanza delle reti sociali e dei rapporti di conoscenza diretta tra attori in tutti i paesi dell’Europa orientale (Burawoy, Verdery 1999; Hann, a cura, 2002). L’idea alla base di questo sviluppo non è semplicemente che il socialismo ha trasmesso agli attori un modo di fare perpetuatosi poi nel tempo. Il problema è che la forza del mutamento dell’ultimo decennio ha travolto tutte le sfere dell’agire sociale, venendo a generare scelte culturali che, seppure influenzate da pratiche del periodo storico precedente, hanno trovato ampia diffusione per necessità di sussistenza. Ecco che, venute meno le solidarietà e le reti sociali del periodo precedente, è divenuto necessario investire i nuovi sforzi e le nuove scelte di vita quotidiana nella riconfigurazione di alleanze e relazioni interpersonali. La famiglia e il gruppo di parentela hanno svolto un ruolo di primo piano in questo processo di affermazione della fiducia personale. Amicizie,

Conclusione Il concetto di fiducia è di estremo interesse per l’analisi delle dinamiche sociali e culturali dell’uomo. Tuttavia, tale interesse tende a essere stemperato dall’eccessiva ampiezza dei contesti analitici a cui si può applicare la fiducia. Il rapporto fiduciario necessita, per essere compreso e spiegato appieno, di un’attenta analisi non soltanto delle condizioni dei processi comunicativi tra attori o tra attori e istituzioni, ma anche delle sfaccettature storiche e culturali in cui tali processi hanno luogo. L’antropologia, al pari di altre scienze sociali, è in grado di cogliere alcune di queste sfaccettature penetrando nella logica del pensiero e delle azioni del quotidiano. I due casi brevemente introdotti in questo contributo dimostrano che è proprio a causa dell’esistenza di complesse dinamiche culturali che la fiducia (e la sfiducia) non possono avere la stessa valenza ovunque. Il filo che unisce i due contesti, quello del Meridione italiano e dell’Europa postsocialista non è tanto la difficoltà di progresso economico, ma uno stato di incertezza generalizzata che si fa sentire con forza nel momento in cui gli attori scelgono di fidarsi o meno. Ricorrere alla fiducia, anche in eccesso e in modo esclusivo che privilegia le sfere familiari e di parentela diviene quindi uno dei pochi strumenti, seppure criticabili, che la gente ha per compensare delle carenze e debolezze istituzionali. Si tratta di scelte culturali, determinate storicamente, che definiscono in maniera idiosincratica le differenze di percezione e utilità degli atti fiduciari.

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La cultur a della sfiducia ne ll’Europa post socia list a

conoscenze anche indirette e la condivisione di incarichi e posti di lavoro costituiscono in questo villaggio i bacini principali da cui generare fiducia e legami che, per essere d’aiuto, mirano a durare nel tempo11. Il secondo punto, che consegue dal primo, è che la fiducia diviene di estrema importanza nelle interazioni quotidiane tra abitanti del villaggio e nei riguardi delle istituzioni. Tuttavia, gran parte dei rispondenti indica di non fidarsi della gente del villaggio ed esprime difficoltà nel giudicare la stabilità delle relazioni interpersonali persino tra vicini e amici12. La sfiducia espressa non è, tuttavia, sinonimo della volontà di troncare le relazioni interpersonali per evitare delusione e inganno. La gente di Králová esprime apertamente sfiducia come monito nei confronti degli interlocutori quotidiani (siano essi persona o istituzione). La sfiducia è qui usata nell’accezione inglese di mistrust, che indica un grado di sospetto e diffidenza, piuttosto che una scelta a non proseguire con il rapporto fiduciario, come accade per il termine distrust. Esprimendo apertamente la sfiducia nei confronti dei membri della stessa comunità si vuole indicare la preoccupazione per l’incertezza e l’instabilità del presente, che deve essere ammortizzata seguendo la strategia descritta di sopra, investendo cioè nelle reti sociali. È per questo che la sfiducia non è la negazione del rapporto fiduciario, ma una preoccupazione sostanziata da elementi cognitivi, emotivi e strumentali e condivisa apertamente come scelta culturale prodotta dal postsocialismo.

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caratterizzati dall’assenza di fiducia generalizzata, sarebbe meglio constatare che di fiducia (personale) ce n’è fin troppa. Venendo a mancare la sicurezza del buon funzionamento delle istituzioni, in questo caso del mercato del lavoro, è necessario far ricorso a strategie differenti, e l’economia sommersa non è altro che una delle risposte possibili.


Bib li ografi a Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Banfield, E. C., 1958, The Moral Basis of a Backward Society, Glencoe (Ill.), Free Press. Barber, B., 1983, The Logic and Limits of Trust, New Brunswick (N.J.), Rutgers University Press. Burawoy, M., Verdery, K., 1999, Uncertain Transition. Ethnographies of Change in the Postsocialist World, Boston, Rowman & Littlefield Publishers.

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Fa eccezione a questo, come sottolineato da Mutti (1994, p. 82) la fede religiosa, o la fiducia in se stessi. La prima si basa su posizioni fondamentalmente emotive in quanto è dominata dalla mancanza latente di informazioni. La seconda, si potrebbe definirla come contraddistinta da un eccesso deviante di informazioni incentrate sull’ego. 2 Il concetto di incertezza è utilizzato nel senso della percezione che gli attori sociali hanno della stabilità socio-economica della loro vita quotidiana. 3 È interessante notare, ai fini della comparazione, che un metodo di governo simile fu attuato dagli stessi Asburgo sui territori della corona ungherese in Europa centro-orientale, provocando scompensi sociali ed economici molto simili a quelli dell’Italia meridionale (per maggiori dettagli generali cfr. Gunst 1989; per uno studio etnografico, cfr. Torsello 2003). 4 Non è questo il luogo adatto a riprendere un argomento così complesso e ricco di trattazioni come quello della questione meridionale, ma per quanto riguarda gli approcci antropologici si consiglia il volume di Schneider, a cura, 1998. 5 Intervista libera del 30 gennaio 2006. 6 Le interviste effettuate su imprese agricole dimostrano una preponderanza del sistema della restituzione dei contributi, sia da parte di donne anziane che ne beneficiano per il fondo pensionistico, sia da parte di giovani che necessitano dei contributi e della dichiarazione di servizio per poi riuscire a percepire, una volta svolto il lavoro su base stagionale, i sussidi di disoccupazione o gli assegni familiari. 7 Ad esempio, nell’Europa postsocialista, gran parte delle pratiche di “economia sommersa” traggono origine dall’ultimo decennio del regime socialista, periodo in cui l’economia centralizzata iniziava a percolare ed era sempre più infiltrata da strategie secondarie, ma non per questo meno importanti. Tale situazione sarebbe poi venuta ad aggravarsi durante la trasformazione postsocialista (Böröcz 2000). 8 Sebbene queste pratiche non sono registrabili statisticamente ed è quindi difficile provare l’apporto dell’economia sommersa sulla produzione, ad esempio, di GDP locale (v. ad esempio Meldolesi 1998). 9 Ho condotto una ricerca sul campo risiedendo in una comunità della Slovacchia meridionale senza interruzioni durante il periodo maggio 2000-settembre 2001. A parte il metodo classico di raccolta dati in antropologia, l’osservazione partecipante, la popolazione del villaggio è stata campionata con un questionario rivolto a 100 nuclei familiari (Torsello 2004). 10 Králová è popolata da 1.531 abitanti (dato del 2001), di cui oltre l’80 per cento sono di minoranza ungherese, le famiglie slovacche ammontano al 14 per cento circa. 11 Un esempio è l’uso della terra. La maggior parte delle famiglie del villaggio possiede appezzamenti familiari che coltiva principalmente a scopi di consumo domestico. Anche se questi appezzamenti sono spesso molto ridotti (da 0,5 a 1,5 ha), la tendenza dominante è quella di ricorrere alla condivisione del lavoro sulla terra tra familiari e parenti. Ciò accade anche quando non se ne rivela effettivamente il bisogno, a causa dell’esigua estensione degli appezzamenti, ed è spiegato come parte degli obblighi di reciprocità e solidarietà tra famiglie (Torsello 2004, pp. 61-70). 12 Nell’ambito delle risposte sulla fiducia si riscontra un dato interessante per quanto concerne la relazione tra membri della comunità. Alla domanda: “Puoi indicare il livello di fiducia da 0 (più basso) a 5 (più alto) nelle seguenti categorie sociali?”, la famiglia di residenza ottiene la media di 4,56 per cento, i parenti stretti 3,85 per cento e la gente del villaggio si situa al di sotto della media con 2,42 per cento (ib.). 1

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No te


Au gus to Ponzi o Fiducia, sicurezza, alterità

Fiducia: sentimento di chi si fida, di chi si sente sicuro, tranquillo. Sicurezza in se stessi. Sentire di poter confidare in qualcuno o in qualcosa. Persona di mia fiducia: persona di cui mi fido e mi servo in affari delicati e di responsabilità. Posto di fiducia: posto di responsabilità dato a persona fidata, di cui si è sicuri. Medico di fiducia, avvocato di fiducia, quello in cui confido e a cui ricorro in caso di bisogno. Sicurezza: condizione di chi non si ha nulla da temere, di chi si può fidare; garanzia dell’assenza di pericolo; certezza, condizione di chi agisce senza esitazione, senza timore di sbagliare. Fiducia e sicurezza stanno insieme. La fiducia è sentimento di sicurezza. Sia la fiducia sia la sicurezza concernono la posizione dell’io. L’io ne è il soggetto, il protagonista, colui che sente o non sente fiducia e sicurezza. Ne è la misura. La posizione di altro, di altri (pronome personale), ove entri in gioco – il sentimento di fiducia e di sicurezza può riguardare unicamente le cose o se stessi – ha una posizione subalterna e strumentale. Come confido in qualcosa così confido in qualcuno. La fiducia è sentimento di sicurezza riferito indifferentemente a qualcosa o a qualcuno. Il “qualcuno” può essere l’io stesso. L’io confida nelle proprie possibilità, ha fiducia di riuscire in un’impresa, è sicuro di sé. L’io qui è rafforzato nel suo protagonismo, il suo sé è considerato come completamente nelle sue mani, come gestibile, come strumento docile ai fini dei suoi progetti. L’io sa di poter contare su di sé nel presente e guardare al futuro con fiducia. Ma questo rafforzamento dell’io, questo assumere il proprio sé, nella coscienza di sé, come coincidente con la propria coscienza, è già presente, è implicato, anche nella fiducia e nella sicurezza circa le cose e gli altri. Il sentimento di sicurezza e di fiducia implica sempre la fiducia in se stessi, l’essere sicuro di sé: sono sicuro di sentire di poter avere fiducia nel tale o nella tale cosa. Per sentire fiducia e sicurezza nei confronti di qualcuno o in qualcosa, l’io deve confidare ed essere sicuro nei confronti di se stesso, deve avere fiducia e sicurezza in ciò che sente nei confronti di se stesso e degli altri.


Se per usare una situazione erotica, una persona innamorata sospirasse il giorno delle nozze, perché queste le darebbero una sicura certezza, se potesse stare tranquilla nella sicurezza giuridica in quanto sposata, se si comportasse come una persona sposata, l’altro, il suo partner, giustamente dovrebbe lamentarsi della sua infedeltà, benché essa non ami qualche altro. E questo è nel rapporto erotico l’infedeltà essenziale: quella casuale è quando si ama un altro.

Il rapporto con l’altro in quanto altro non può essere garantito. Sia la fiducia sia la sicurezza concernono la posizione di io, l’identità, l’appartenenza. Il rapporto di alterità, come rapporto di altro ad altro, di singolo a singolo, di unico a unico, fuoriesce da tutto questo. La relazione di singolo a singolo, di unico a unico, rapporto asimmetrico, di non-reciprocità, che squarcia l’orizzonte della reciprocità dello scambio, del reciproco interesse, del venirsi reciprocamente incontro, della garanzia – nel movimento verso l’altro – del ritorno, anche nel senso di guadagno, ha la sua epifania nel rapporto con l’altro come volto, nel rapporto “faccia a faccia” (Lévinas). Rapporto faccia a faccia non significa unicamente rapporto in presenza. Esso è un rapporto frontale nel senso che non passa attraverso generi e specie, attraverso ruoli, posizioni sociali, appartenenze, ma è un rapporto di unico a unico, in cui la singolarità – che invece è cancellata e resa indifferente nell’intercambiabilità degli individui nelle differenze per appartenenza e identità – fa differenza. È un rapporto frontale nel senso che è senza mediazioni, senza aggiramenti, un rapporto attraverso il quale il volto si rivela, il volto nudo, metonimia e metafora dell’alterità, un’alterità non relativa, un’alterità assoluta. Nel rapporto faccia a faccia con l’altro, fuori dalla responsabilità “speciale”, “tecnica” – e dai rispettivi alibi (di cui parla anche Bachtin nel suo scritto del 1920-24 sulla filosofia dell’azione responsabile) – cioè la responsabilità delimitata dai ruoli, dai contratti, dalle convenzioni, l’io si trova di fronte al volto dell’altro in un rapporto di coinvolgimento e di responsabilità illimitata, di non-indifferenza, nella situazione del dover rispondere del proprio diritto di essere, senza possibilità di appello, di delega. Qui l’io non

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tezza e univocità, “si lascia capire direttamente e si lascia recitare a filastrocca” e, come tale, si risolve nel suo negativo, in assenza di comunicazione, in inganno verso se stessi e verso gli altri. Abbiamo bisogno di fiducia e sicurezza nella comunicazione con l’altro, ma anche con il “proprio” sé, con l’alterità del sé della coscienza-di-sé a cui il corpo “proprio” ci espone, malgrado lo sforzo dell’io a ridurlo a sua proprietà, a inchiodarlo alla propria identità, l’alterità di me che non si lascia mai rinchiudere in nessuna delle immagini, dei ruoli, degli interessi, dei progetti, dei rapporti con i quali di volta in volta mi vado identificando. Fiducia e sicurezza non sono illusorie, ma nuocciono alla comunicazione come effettivo rapporto di alterità. Esse mirano in ultima analisi a quella presunta certezza nel rapporto con l’altro che Kierkegaard (1995, p. 193) chiama “infedeltà essenziale”:

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La situazione di protagonismo dell’io non cambia quando sono gli altri a dover avere fiducia in lui, quando si tratta di ottenere la fiducia degli altri, di ispirare fiducia, di avere, di meritare la fiducia degli altri. L’io elargisce sicurezza e fiducia, e ottiene buona reputazione, prestigio, consenso. Certo, chi decide, chi giudica, qui è l’altro, ma intanto è l’altro nella posizione di io, e quindi tutto quello che abbiamo detto sopra vale per l’altro in quanto io. Inoltre, sia che la sicurezza e la fiducia consistano per l’io nel poter confidare in se stesso o in qualcuno o in qualcosa, sia che consistano nel fare in modo che gli altri possano confidare in lui, guadagnandosi la fiducia, ispirando sicurezza, ottenendo buona reputazione e consenso, resta il fatto che fiducia e sicurezza sono prerogative del ruolo di io. Esattamente si tratta dell’io nella sua identità. Fiducia e sicurezza sono collegate con l’affermazione, la conferma, il riconoscimento della propria identità, con l’assicurazione del posto, del ruolo nell’essere, del diritto a essere, dell’inter-esse, della stabilità e tranquillità nell’essere, del conatus essendi. Fiducia e sicurezza significano anche essere in pace con gli altri e con se stessi, avere la coscienza in pace, godere di “buona coscienza”. L’io è riconosciuto, confermato, assicurato, stabilizzato, pacificato. Fiducia e sicurezza contribuiscono a garantire l’identità. Da che cosa? Dall’alterità di sé, e da sé, l’alterità del proprio sé, che malgrado le pretese e le illusioni dell’io non coincide con l’io, non coincide con la coscienza nella coscienza-di-sé, e l’alterità degli altri. Nella comunicazione, l’ottenimento della fiducia e della sicurezza non si preoccupa dell’alterità, dell’alterità di sé e di sé, se non per superarla, inglobarla, annullarla. Fiducia e sicurezza fanno parte di ciò che Kierkegaard chiama “parola diretta”, attenta soltanto a se stessa, che perciò non costituisce propriamente comunicazione alcuna e contribuisce soltanto al mantenimento, alla riproduzione e al rafforzamento dell’identità. Fiducia e sicurezza appartengono a ciò che Kierkegaard nella Postilla conclusiva non scientifica chiama “pensiero oggettivo”, il pensiero che “pone tutto in risultato e stimola a barare copiando e proclamando risultati e fatti”, che è attento soltanto a se stesso, che riduce la comunicazione a scambio tra soggetti oggettivi, fissi, determinati, in una posizione, in una professione, in un ruolo, a scambio comunicativo tra in-dividui, individui, come tali, determinati dall’appartenenza a un genere, a un insieme, a un collettivo. Fiducia e sicurezza sono collegate con l’identità dell’io perché ne garantiscono l’appartenenza, e conseguentemente i diritti della sua identità, fanno parte della comunicazione garantita dall’ordine del discorso, in cui l’intesa assicurata e il consenso guadagnato sono spesso il massimo del fraintendimento, della prevaricazione, della sopraffazione, perché ottenuti con il sacrificio dell’alterità di sé e degli altri. Fiducia e sicurezza sono valori della comunicazione in cui l’altro, di me e da me, accetta parola per parola la stessa cosa, in cui l’alterità si annulla, in cui il discorso, unico, facile e trasparente, caratterizzato da rassicurante cer-


La concezione hobbesiana dell’homo homini lupus è rovesciata: lo Stato non fonda, ma delimita la responsabilità personale nei confronti dell’altro, pur garantendola con la generalizzazione della legge. La responsabilità per l’altro, quella incondizionata, categorica, etica, per distinguerla da quella politica – non scritta e non iscritta nella legge – non coincide con la giustizia dello Stato, che da questo punto di vista, rispetto ai diritti dell’uomo, dell’altro in quanto altro, in quanto straniero, risulta sempre imperfetta, “la preoccupazione per i diritti dell’Uomo, non è una funzione statale, è nello Stato una istituzione non-statale, è il richiamo dell’umanità ancora non compiuta nello Stato” (p. 119). Il bisogno da parte dell’io di avere fiducia e sicurezza (nel duplice senso di poter confidare in esse e di poterle ispirare), è direttamente proporzionale alla paura dell’altro, che noi abbiamo dell’altro, la quale non è originaria (la fallacia di Hobbes) ma è conseguente alla costituzione dell’identità. La costituzione dell’identità, individuale o collettiva, richiede la separazione dall’altro, la delimitazione degli interessi dell’identità come determinazione di ciò che ne fa parte e di ciò che non ne fa parte, che è anche determinazione di ciò che la riguarda da ciò che non la riguarda, determinazione della propria responsabilità, una responsabilità definita, che, potendo perciò fare appello all’alibi, permette di circoscrivere la paura per l’altro, vale a dire la paura che si prova riguardo a lui, come temere per lui. L’identità ha bisogno per realizzarsi della differenza e quindi del genere che la definisce, ma ha bisogno anche dell’indifferenza nei confronti dell’altro, del disinteresse nei suoi confronti, del non dovere aver paura, temere, per lui, e quindi di una responsabilità determinata, definita, circoscritta, una responsabilità di genere, che cominci e finisca nel genere che garantisce l’identità. Dalla non indifferenza per l’altro alla differenza e alla relativa indifferenza, questo il percorso attraverso cui l’identità si costituisce. Si tratta dell’identità come affermazione, conferma e riconferma, appartenenza, conformismo, riproduzione della realtà, come appiattimento nell’essere-così del mondo, aderenza alla realtà, allergia, fobia nei confronti dell’altro, estromissione ed eliminazione dell’alterità. E più ciò che ci riguarda viene ridotto all’interesse dell’identità, riduzione giustificata dal restringimento della responsabilità e dalla estensione degli alibi, tanto più ci si libera dalla paura per l’altro, ma tanto più aumenta la paura dell’altro. Qui “paura dell’altro” vale nel senso di paura che si ha di lui, intendendo “dell’altro” come genitivo oggettivo, l’altro è oggetto di paura, si teme l’altro. Accanto a esso l’analisi logica ci fa distinguere un genitivo soggettivo, nel senso che l’altro è soggetto di paura, è l’altro a temere. Soggetto e oggetto. Per cogliere invece l’altro senso, quello della paura per l’altro, del temere per lui, dobbiamo uscire da questa dicotomia, da questa polarizzazione, in cui la logica rimane appiattita, avere la paura dell’altro come avere, sentire,

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L’opera dello Stato viene ad aggiungersi, negandola in qualche maniera, all’opera della responsabilità interpersonale che spetta all’individuo nella sua unicità e che è l’opera dell’individuo nella sua unicità di responsabile (...) (Poirié 1987, p. 118).

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è più coscienza intenzionale (Husserl), non è più soggetto, non è più individuo appartenente a un genere, ma viene a trovarsi nel rapporto a partire dal quale soltanto si costituisce poi come intenzionalità, come soggetto, come individuo. Nel rapporto frontale con l’altro fuori dalle forme di aggiramento dell’alterità e di violenza nei suoi confronti, nel rapporto di altro ad altro, di singolo a singolo, mentre l’altro come interlocutore, dice Lévinas, è al vocativo, l’io viene a trovarsi, senza alibi, all’accusativo, nella situazione di dover dar conto del proprio essere e dell’essere dell’altro, del posto che occupa nel mondo e che l’altro non occupa. Mentre la fiducia e la sicurezza concernono l’identità e l’appartenenza dell’io e permettono di avere la coscienza in pace, di poter godere di “buona coscienza”, di rimuovere la cattiva coscienza nei confronti dell’altro, invece nel rapporto con il volto l’iniziativa è dell’altro che si rivela nella sua nuda singolarità, nella sua irriducibile unicità, e che richiede, impone, al soggetto di uscire dalla posizione di soggetto, di uscire da qualsiasi genere entro cui si possa riparare e giustificare, e di manifestarsi a sua volta come unico, perché è ora in un rapporto frontale con l’altro, allo scoperto, senza possibilità di delega, di sostituzione, di intercambiabilità. L’altro, dall’altezza della sua assoluta alterità, della sua totale unicità, singolarità, in un rapporto che non può essere rovesciato, un rapporto di non reciprocità, asimmetrico, sperequato, un rapporto che non è di scambio, riconduce l’io alla sua incomparabilità, insostituibilità, lo ordina unico, lo convoca nella sua singolarità, gli chiede di presentarsi e di esporsi in carne e ossa senza ripari, sostituti e abiti di qualche genere, senza alibi. Il rapporto con l’altro come volto è rapporto di unico a unico, di altro ad altro, in cui il soggetto esce dal ruolo di individuo, di genere, e si manifesta esso stesso come altro, un rapporto di alterità ad alterità, non di alterità relative (di genere) ma di alterità assolute. L’alterità non individuale, ma singolare, unica dell’altro si rivolge, sollecita, convoca l’alterità di sé, non individuale, ma singolare, non l’alterità interscambiabile di io, ma l’alterità unica di sé. La situazione di pace e di responsabilità nei confronti dell’altro, come situazione in cui l’io e l’altro si danno nella loro singolarità, differenza, nonintercambiabilità, non-indifferenza, precede, dice Lévinas, la politica e la logica, che sono accomunate dal fatto che soggetti singoli e unici sono considerati come individui di un genere, come eguali, intercambiabili; il rapporto di alterità è prepolitico e prelogico. Ed è questo rapporto che, per la mia responsabilità esclusiva nei confronti di ogni altro, mi obbliga a essere in rapporto con l’altro sotto un genere, ovvero nello Stato. Conoscere, giudicare, fare giustizia, confrontare due individui per stabilire chi è colpevole, tutto ciò richiede la generalizzazione tramite la logica e lo Stato, l’eguagliamento, sotto un genere, di singolarità in quanto facenti parte dello stesso Stato come cittadini. Il rapporto con l’altro viene mediato dalle istituzioni e dalle procedure giuridiche, e ciò generalizza la responsabilità di ciascuno – ed è da questa generalizzazione che deriva la necessità dello Stato – ma, al tempo stesso, la delimita,


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mezzo per risolvere i contrasti internazionali, nel secondo, invece, si proclama che si può ottenere la sicurezza solo attraverso la “guerra preventiva”, non permettendo agli “Stati canaglia” di “sparare per primi”. La concezione della guerra affermatasi dal 1991 ha preso stabilmente il posto perlomeno sul piano politico (sul piano dell’opinione pubblica le recenti, ma anche impotenti, manifestazioni a livello mondiale contro la guerra, fanno intravedere qualche possibilità, ma per ora senza effetto, di destabilizzazione di tale concezione) di quella precedentemente dominante in Europa a partire dal secondo conflitto mondiale. Quest’ultima concezione, secondo cui la guerra è assolutamente rifiutata, “ripudiata”, dice la Costituzione italiana, quale mezzo di soluzione dei contrasti internazionali, trovò espressione, nell’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, nel principio dell’assoluta non giustificabilità del ricorso all’uso della forza e anche della minaccia dell’uso della forza sia fra gli Stati partecipanti all’accordo, sia nei confronti di quelli non partecipanti. Capire le cause del fallimento della Conferenza di Helsinki malgrado le sue “buone intenzioni” può contribuire ad approfondire la questione delle aporie e potenzialità, della costituzione dell’Europa. D’altra parte il fatto che l’Atto finale di Helsinki fu sottoscritto da parte di trentatré Stati partecipanti dell’Europa, e dall’URSS, dagli USA e dal Canada, al punto da essere unanimemente considerato una pietra miliare della collaborazione tra Est e Ovest, lo rende particolarmente interessante se, come sembra evidente, la questione della costituzione dell’Europa deve essere vista nel quadro della “politica mondiale”. L’importanza che può essere attribuita a questa conferenza è testimoniata dal fatto che dal 1984 al 1989 l’European Coordination Centre for Research and Documentation in Social Science (Vienna), per iniziativa del filosofo polacco Adam Schaff, allora presidente onorario dell’European Coordination Centre, promosse una serie di incontri tenutisi in luoghi diversi dell’Europa (Budapest, Praga, Trieste, Mosca, Pécs, Dubrovnik, Lipsia, Sofia, Rotterdam) sul tema “un’analisi semiotica dell’Atto finale di Helsinki”. L’Atto finale di Helsinki è andato sempre più perdendo, sul piano europeo e mondiale, soprattutto negli anni Novanta, il suo valore paradigmatico. Alle cause esterne di questo processo, che come abbiamo detto ha il suo momento “catastrofico” nel 1991 con l’inizio della guerra del Golfo, si aggiungono le cause interne allo stesso Atto finale, che ne hanno determinato l’accantonamento. Rispetto al nostro tema concernente il rapporto fiducia-sicurezza-alterità, considerato anche rispetto al carattere “aporetico” della costituzione dell’Europa sono proprio le cause interne di quel documento che ci interessano e che riguardano i suoi luoghi argomentativi, i suoi concetti e le sue categorie. Evidenziarle significa approfondirne il carattere “aporetico”. Il rapporto di alterità tra gli Stati sulla base del quale l’Atto finale intende costruire la sicurezza dell’Europa considerata nel rapporto al resto del modo oscilla, nel testo, soprattutto fra:

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la sua paura, avere paura per lui, senza più distinzione di soggetto e oggetto, ma anche senza identificazione comunitaria, in un rapporto in cui la differenza non ha come risvolto l’indifferenza ma la non-indifferenza. Questo “dell’altro” è una sorta di genitivo etico – così proponiamo di chiamarlo sviluppando il discorso di Lévinas – di cui la logica dovrebbe tener conto come terzo senso secondo cui si può disambiguare l’espressione “sentire la paura dell’altro”. Oggi la paura dell’altro come paura che si ha di lui è al parossismo. Perché esasperata è divenuta la difesa dell’identità. Parossismo che non è punto di partenza, l’homo homini lupus di Hobbes, ma punto di arrivo della costituzione dell’identità. Nella storia dell’Occidente, hanno sempre prevalso l’identità sull’alterità, la differenza e la inerente indifferenza sulla non indifferenza, i rapporti fra individui all’interno dei loro generi, con le loro responsabilità sempre più delimitate, sui rapporti fra singoli fuori da qualsiasi genere e senza alibi. La logica dominante è la logica dell’identità, della differenza, della indifferenza, in cui la non indifferenza è neutralizzata dagli alibi della responsabilità sempre più capillarmente definita dalla precisione legislativa, in cui i cosiddetti “diritti dell’uomo”, lasciano fuori “i diritti altrui”. Malgrado l’attuale globalizzazione, il rapporto sociale è il rapporto di individualità reciprocamente indifferenti, subito come necessità dovuta alla realizzazione del loro interesse individuale e in cui la preoccupazione della propria identità e per la propria differenza, indifferente alle differenze altrui, incrementa sempre più la paura che si ha dell’altro e l’ostilità nei suoi confronti. L’ossessione parossistica dell’Identità continuamente registrabile in ogni momento, in ogni aspetto, dello sviluppo di questa nuova fase dell’organizzazione sociale, viene già descritta da Pasolini in Petrolio (1993) individuando nella perdita e nella frantumazione dell’identità, che questa organizzazione prevede, la causa di tale ossessione: “Questo poema non è il poema della dissociazione, contrariamente all’apparenza. (…) Al contrario, questo poema è il poema dell’ossessione dell’identità e, insieme, della sua frantumazione” (p. 181). Le nozioni di fiducia e sicurezza entrano in gioco non solo nei rapporti tra gli individui e tra individui e Stato, ma evidentemente anche nei rapporti tra le nazioni. Fiducia e sicurezza sono termini ricorrenti nella problematica relativa alla “costituzione dell’Europa”. Troviamo la parola “sicurezza” nell’Atto finale di Helsinki della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (1975), e la ritroviamo nel documento della Casa Bianca The National Security Strategy of the United States of America (2002). Ed è sintomatico della svolta decisiva segnata dalla guerra del Golfo nel 1991 sul piano della politica mondiale, circa l’idea e la pratica della guerra – la quale viene da quel momento fatta circolare nella comunicazione-produzione mondializzata come “giusta e necessaria”, come “azione di polizia”, e persino come “intervento umanitario” e “preventivo” in funzione della pace – il fatto che nel primo testo la sicurezza sia considerata raggiungibile solo attraverso l’indiscutibile rifiuto della guerra come


Premessa maggiore: gli “Stati partecipanti mirano alla pace, alla sicurezza e al benessere per tutti i popoli”. Premessa minore: ma data “l’indivisibilità della sicurezza in Europa” e dato “il collegamento stretto tra pace e sicurezza in Europa e nel mondo nella sua totalità”, non vi può essere pace, sicurezza e benessere senza miglioramento delle reciproche relazioni degli Stati (partecipanti e non). Conclusione: dunque bisogna promuovere il miglioramento delle reciproche relazioni fra gli Stati (partecipanti e non).

Tutta l’argomentazione si basa sulla concezione (espressa dalla premessa minore) della compromissione, della responsabilità non pattuita e dell’inevitabile solidarietà – della necessaria non-indifferenza – nei confronti dell’Altro. Ma con questo tipo di argomentazione interferiscono gli altri due sensi sopra indicati della cooperazione e della reciproca responsabilità, cioè quello che le fa derivare da un patto, considerandole come assunte per libera decisione da parte di entità autonome e autosufficienti; e quello che per sostenerle fa appello a tradizioni comuni, a un comune passato, a un comune patrimonio di valori. Secondo quest’ultimo senso la possibilità del “miglioramento delle reciproche relazioni fra gli Stati” viene fatta dipendere dalla “loro storia comune” e dal riconoscimento dell’esistenza “di elementi comuni delle loro storie e tradizioni” (p. 269). Per il primo tipo di argomentazione, la responsabilità è una responsabilità limitata alla sottoscrizione di un accordo che presuppone la libera scelta dell’obiettivo di realizzare “la pace mondiale, la sicurezza e il benessere dei popoli”. Per il secondo tipo di argomentazione la reciproca responsabilità fra gli Stati è dovuta alla riconducibilità a elementi comuni ritrovabili nel loro passato, nella loro tradizione, nella loro storia. È lo stesso tipo di argomentazione su cui si fonda l’idea di nazione come differenza etnica, benché, come abbiamo visto l’Atto finale se ne discosti concependo gli Stati come identità politico-economiche. Entrambe queste due concezioni della reciproca responsabilità interferiscono con la quella della responsabilità non identitaria, senza scappatoie, senza alibi che coinvolge ed espone in maniera totale, responsabilità a cui pure il testo di Helsinki si richiama. Come conseguenza della mancata concentrazione sul terzo senso del rapporto di alterità fra le identità nazionali e dunque sul terzo tipo di argomentazione, l’Atto finale di Helsinki trascura di approfondire l’analisi e la dimostrazione delle ragioni della cooperazione internazionale, del miglioramento delle relazioni anche con gli Stati non partecipanti. L’obiettivo della pace e

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Secondo il terzo senso della cooperazione e della realizzazione della pace, “l’obiettivo di promuovere relazioni migliori tra Stati” fa da termine medio, cioè rientra nella premessa minore, di un’inferenza in cui nella premessa maggiore si trova “la pace mondiale, la sicurezza mondiale, la sicurezza e il benessere per tutti i popoli”, e che è così rappresentabile:

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1) un rapporto di reciprocità convenzionale, stabilito fra entità autosufficienti che assumono determinati impegni reciproci per libera scelta, secondo un’ideologia del patto, della sottoscrizione volontaria di un trattato; 2) un rapporto di assimilazione dell’Altro tramite la ricerca delle condizioni della cooperazione nella storia comune, in un comune passato, nell’esistenza di elementi comuni di tradizioni e valori: è l’ideologia che sottende anche l’identità nazionale come etnia, l’ideologia della possibilità di unione e comprensione fra appartenenti a una stessa storia, a una stessa tradizione, a una stessa cultura. Di conseguenza, le aperture all’intesa e alla cooperazione mondiali, pure presenti nell’Atto finale della Conferenza Helsinki, non trovano più giustificazione. Nel’Atto finale di Helsinki c’è però anche un terzo senso del rapporto di alterità fra gli Stati-nazione, e consiste nel ritenere che: 3) tale rapporto è un rapporto di compromissione non scelto, di solidarietà non decisa, di responsabilità necessaria e subita, in conseguenza a) dell’interdipendenza economica mondiale; b) del livello raggiunto dallo sviluppo tecnologico, che comporta l’impossibilità di circoscrizione territoriale dell’inquinamento, del pericolo della radioattività, dell’effetto-serra ecc., come pure la non-circoscrivibilità territoriale dei nuovi bisogni prodotti dalla tecnologia con il conseguente incremento della diseguaglianza fra sviluppo e sottosviluppo; c) dell’inseparabilità della sicurezza e benessere di una parte del mondo (l’Europa, l’Occidente, il Nord del mondo) dalla sicurezza e benessere di tutto il resto: l’impossibilità di miglioramento delle condizioni di vita dei popoli e di protezione e miglioramento dell’ambiente senza la cooperazione internazionale (interstatale). Secondo questo terzo senso, il rapporto di alterità come differenza non-indifferente fra le identità nazionali è indipendente da rapporti di reciprocità stabiliti da un patto, da una convenzione e dall’assimilabilità all’interno di un passato di tradizioni comuni. Malgrado la loro differenza ed estraneità, compresa l’eventuale estraneità di qualcuno degli Stati alla relazione pattuita, sancita da una convenzione o da un trattato, sussiste fra di essi e fra i loro popoli un rapporto di solidarietà subita, per il quale non ci sono identità autosufficienti e tali che non siano coinvolte – anche senza che lo abbiano deciso – nella situazione e nel destino delle altre identità. Il testo della Conferenza va in quest’ultima direzione quando, per esempio, riconosce: – l’indivisibilità della sicurezza in Europa e del mondo intero, indipendentemente da ogni patto, da ogni trattato; – l’inscindibilità di protezione dell’ambiente e cooperazione internazionale; – la dipendenza della pace in Europa dalla pace nel mondo, al punto che i principi che, sotto questo riguardo, reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti, ivi compreso quello di non ricorrere in nessun caso alla forza e che nessuna giustificazione può essere invocata per il ricorso alla minaccia o all’uso della forza, vengono considerati validi, nel testo anche nei confronti degli Stati non partecipanti.


Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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della cooperazione a livello mondiale non viene pienamente giustificato. E il testo della Conferenza di Helsinki finisce con l’essere una sorta di elenco di buone intenzioni. In tal modo perde la propria forza argomentativa e la possibilità di una reale incidenza sulla politica internazionale, come di fatto è risultato sempre di più a partire dalla guerra del Golfo del 1991 a oggi.


Eg le Becchi Per una storia libidica della fiducia

1. Nei dizionari più accreditati di psicoanalisi freudiana, in primo luogo l’Enciclopedia della psicoanalisi di Laplanche e Pontalis (1963) come negli indici analitici in calce alle opere di Sigmund Freud nella traduzione italiana (1980) e della Studienausgabe dei Werke di Freud (2000), il termine di fiducia non compare come lemma. Inizia a essere citato nell’indice analitico in calce alla traduzione italiana degli scritti di Anna Freud (1979a), che ne tratta brevemente in uno scritto del 1970, La nevrosi infantile: considerazioni genetiche e dinamiche (1979b, pp. 1096 sg.). In questo saggio la Freud parla di “un vecchio assunto della psicoanalisi” secondo cui “l’esperienza di essere amato nella primissima infanzia crea nel bambino un sentimento di sicurezza e di fiducia in sé per tutto il resto della vita successiva”. Incontriamo di nuovo questo concetto nella letteratura più moderna, espressa in termini di fiducia basilare, considerazione e stima di sé. “Questo determina da un lato l’equilibrio fra narcisismo e rapporti oggettuali, e d’altro lato le caratteristiche personali, come l’ottimismo o il pessimismo, il coraggio o la codardia, gli atteggiamenti espansivi o di ripiegamento su se stessi”. Il passo costituisce, a mio avviso, un ponte tra alcune idee di fondo della psicologia evolutiva in chiave psicoanalitica, così come l’avevano configurata, in un iter travagliatissimo, all’inizio Sigmund Freud e, in tempi meno antichi, uno dei più celebri discepoli di Anna Freud, Erik H. Erikson e, successivamente, John Bowlby. 2. A monte, vale a dire ricollegandosi con il padre, è la stessa Anna Freud a individuare i costrutti cui richiamarsi quando si parla di fiducia: la costanza e la forza dei legami oggettuali primari facilita le interiorizzazioni e le identificazioni, e queste da un lato arricchiscono la personalità, e dall’altro preparano il terreno al conflitto fra le istanze interne, cioè alla nevrosi (p. 106).

Si può puntualizzare ulteriormente l’origine di quella che la Freud indica come fiducia, richiamandosi non solo e non tanto alla fase in cui nel bambino si configurano processi di interiorizzazione e identificazione, vale a dire


3. La fiducia appare elemento psichico difficile, instabile, che mette in gioco atteggiamenti e reazioni di due soggetti, uno dipendente e a lungo passivo, l’altro dominante e capace di iniziative, li comprende in una serie di mosse psichiche dove altri e ben più forti sentimenti sono sempre sul punto di scattare. Passione, forse, potremmo dire, più che emozione o sentimento, iscrivibile nella dimensione libidica che nella teoria freudiana connota lo psichismo umano a ogni suo stadio. E passione che segna quell’incipit della maturazione sociale e pulsionale infantile che è il rapporto fra bimbo e mamma, dove il piccolo apprende non solo che cos’è il piacere, ma anche che il piacere ha delle forti tinte passionali, e da qui, in questo segno emotivo così violento e difficile, trova – e sceglie – lo stile della sua esistenza. Si tratta di un sentimento muto, dove la parola del bimbo è sostituita da gesti – il gioco del fort da –, da atti di distruzione, da negazioni della persona amata, da fughe, da intrattenimenti ludici con la bambola in cui i ruoli vengono invertiti e chi dà fiducia è la bimba, trasformata pro tempore in mamma; da pensieri ed emozioni che vengono verbalizzati solo molto più tardi, sul lettino dell’analista, in momenti in cui la terapia riesce a penetrare in profondità nella storia del paziente. 4. Lungo il corso della psicoanalisi di prima generazione, la fiducia, nei suoi equivalenti di attesa, di sicurezza, e nei suoi contrari di incertezza, delusione, gelosia, dolore, tradimento, è soprattutto un’emozione che si viene a provare e si costruisce nell’infanzia, e che negli anni di tormentata elaborazione che Sigmund Freud ne fa, assume tinte di crescente drammaticità. Ma la fiducia come attesa che una relazione interrotta si ricomponga fa parte del corso della vita, è parte sostanziale e irrinunciabile soprattutto per il costruirsi di una competenza sociale. Nelle brevi riflessioni di Anna Freud che ho citato, e in pagine di altri autori di psicologia del profondo, le ipotesi di Freud vengono riprese quasi ex novo ed elaborate in un visione evolutiva, nella quale individuo e società si intrecciano a dare caratteristiche allo svolgersi dello psichismo infantile e nelle quali si discute progressivamente, quasi in funzione speculare, della fiducia anche dalla parte dell’adulto. Sono Erikson precedentemente e Bowlby in anni successivi a mettere al centro delle loro considerazioni tale atteggiamento. Non siamo qui di fronte a un sentimento che solo il linguaggio metaforico riesce a descrivere nelle sue ambivalenze, e che può esser denotato e narrato solo dall’adulto, ma innanzi a un atteggiamento complesso, proprio sia dell’infanzia che dell’età matura, sia di chi riceve cure che di chi le eroga.

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fedeltà, e soprattutto dei contrari di queste modalità psichiche dei rapporti umani. Il bambino in assenza della mamma non è sicuro se questa tornerà, come la bimba, appassionata amante della sua mamma, nelle cure che questa dà al fratellino, vede un tradimento, e reagisce con gelosia, sospetto, rifiuto, abbandono. La fiducia si mostra quindi, in questo mosso e drammatico psichismo infantile, come un’emozione rara, fragile, quasi impossibile, e riguarda il bambino nel suo rapporto con l’adulto. È un nesso quindi asimmetrico, con sperequazioni di potere che si accompagna a passioni esclusive.

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nel periodo edipico, quanto anche risalendo alle origini prime della vita psichica, quando il piccolissimo si sostiene (il vocabolo tedesco è anlehnen, tradotto con “appoggiarsi”) grazie alla figura – in primis la madre – che gli dà nutrimento e piacere insieme, soddisfacendo la sua sessualità. Il rapporto con tale sostegno, che si declina lungo il corso dei primi anni di vita, e la cui mancanza è esiziale per il costruirsi dell’identità, diventa a mio avviso soprattutto chiaro quando si leggono le osservazioni che Sigmund Freud ha fatto sul gioco del nipotino Ernst, il quale, a un anno e mezzo, lanciava e riprendeva un rocchetto, “inscenando” la partenza e il ritorno della madre (Freud 1920, pp. 200 sg.). Nel caso del piccolo Ernst si può seguire – oltre alle interpretazioni freudiane, che commentano il fatto in chiave di gioco e di assunzione di ruoli attivi da parte del bambino – una fenomenologia dell’attendibilità, e si mostra che laddove il bambino piccolo, che metteva in forse il ritorno della madre – e quindi la probabilità dell’attenderla –, si vedeva tradito nella sua fiducia quando essa tardava, la puniva e la richiamava a suo piacere. Un’ulteriore illustrazione di quella che potremmo chiamare fiducia originaria si trova negli scritti freudiani dell’inizio degli anni Trenta, quando Freud parla dell’infanzia al femminile. Nella XXX Lezione dell’edizione del 1932 dell’Introduzione alla psicoanalisi, intitolata La femminilità, Freud – dichiarando di affrontare un enigma (1932, p. 220) e di argomentare su indizi – discute del rapporto fra la bimba e la sua amatissima mamma. Si tratta di una vera e propria passione amorosa, di un investimento oggettuale precoce, insaziabile, esclusivo, più forte – e forse anche meno tenero – che nel maschietto; passione amorosa che da parte della bimba non tollera interruzioni, indebolimenti, ingressi di altri soggetti nella diade amante e amata. La madre deve esserci sempre, con piena disponibilità, tolleranza, indulgenza e il circuito magico di tale amore appassionato può, da parte della bimba, configurarsi come assoluta fiducia, dove ogni cedimento scatena ribellione, vendetta, fuga. Nelle pagine freudiane la fiducia si legge e contrario, nelle conseguenze nefaste del suo essere smentita, quando la bimba viene svezzata, allorché nasce un altro bambino, se la piccola è rimproverata dalla madre per il suo masturbarsi. Allora scattano ira, rancore, gelosia, vendetta, figure della passione amorosa (pp. 239 sg.). Va sottolineato che Freud ipotizza – e questa è già una notazione preziosa – che la fiducia inizia a comparire nel rapporto precocissimo tra il figlio – e soprattutto la figlia – e la sua mamma, quando si è dissolta la simbiosi originaria e la mamma non è più tutt’uno con il suo piccolo, ma si assenta – e torna –, va quindi attesa; oppure mette al mondo altri bambini, concorrenti del bimbo o della bimba e anche in presenza non è più la stessa figura amata e amante. In situazioni quindi, dove la cura assidua che la mutter borghese eroga nei primissimi tempi di vita al figlio, si interrompe o indebolisce, e si viene a spezzare la continuità di rapporto che il piccolo – la piccola – viveva come eterna e senza scalfitture; in questi casi si potrebbe parlare di un’appassionata fiducia originaria, che viene messa in crisi. Freud non usa questa locuzione, non parla di fiducia nel senso letterale del vocabolo, semmai di disponibilità e


Aver fiducia (trust) (…) implica non solo l’aver appreso a far affidamento sulla continuità e identità delle figure provvisorie esterne, ma anche l’aver appreso ad aver fiducia in se stesso e nelle capacità dei propri organi e l’esser in grado di considerarsi abbastanza degno di fiducia da non imporre a tali figure esterne e provvisorie un atteggiamento guardingo (p. 232).

Ma la dentizione, prima grande sfida di questa fiducia in sé e negli altri, smentisce la saldezza di aspettative e sicurezze: le persone fin qui “buone” non provano la loro bontà alleviando i dolori dei dentini che spuntano; riescono al massimo a dare qualche minimo sollievo, ma non si prestano alla mossa che per il bimbo sarebbe l’unico lenimento efficace, vale a dire a lasciarsi mordere. Alla fiducia si intreccia, drammatica alternativa, la sfiducia (mistrust), e il giovanissimo io deve affrontare il suo primo compito, costruendo le basi di un modello di fiducia – precocemente declinata in speranza – duraturo per tutta la vita. Ma questo è possibile solo se una madre attenta alle esigenze del piccolo, è anche una madre che ha fiducia in se stessa e nella stabilità della società in cui vive con il bambino; che ha cioè la convinzione che quanto essa fa ha un significato sociale, e trasmette questa fiducia al figlio (p. 233). Le dolorose dialettiche dello psichismo della pri-

un senso di intima divisione ed una nostalgia universalmente diffusa per un paradiso perduto. La fiducia fondamentale (basic trust) deve (…) conservarsi per tutta la vita contro gli attacchi riuniti delle sensazioni di essere stato privato di qualcosa, di essere stato diviso, di essere stato abbandonato (ib.).

Sentimento fondamentale del divenire dell’individuo, la fiducia che connette il sé all’altro è ai suoi inizi – ancora una volta – esperienza del silenzio, che si avvale di altri mezzi espressivi che non la parola. Erikson riprende implicitamente l’idea freudiana della fiducia come base della vita relazionale che si svolge in questi suoi primordi senza verbalizzazione. Comprensione come tacita empatia, dedizione come cura, la dimensione basilare dell’esistenza si esprime in un linguaggio extraverbale, non solo da parte del piccolo, ancora infante, ma anche dell’adulto, che gli “risponde” con mezzi comunicativi quali il gesto, il sorriso, le espressioni del volto, sulla cui descrizione si stanno da anni chinando con sottile attenzione psicologi anche di provenienza non clinica, occupati ad analizzare il parenting. Erikson torna successivamente su questa fiducia fondamentale e nello stesso tempo fragile in un saggio del 1968, The Human Life Cycle (pp. 600-602), dove sottolinea la funzione delle istituzioni societarie che da un lato sorreggono e suscitano la fiducia materna e, in quanto trustworthy surroundings, ispirano e garantiscono l’attendibilità delle cure che la mamma dà al suo bimbo, dall’altro costituiscono – specie come religione, espressione dell’adult faith – motivo di speranza (hope) nella crescita infantile (p. 600). Nelle non molte, ma dense, pagine dedicate da Erikson alla fiducia, questa si estende dalla primissima vita infantile alla “fede” dell’adulto e si articola nei suoi opposti – sfiducia – e nei suoi concomitanti – speranza e fede – coinvolgendo relazionalmente le due figure di chi riceve e chi dà cure. E soprattutto non sembra silente, non affidata solo a gesti ed espressioni del volto, ma pure – sebbene Erikson non espliciti questa complicazione della fiducia – a parole e discorsi. 6. Anche nell’opera più matura di John Bowlby, che non ha una diretta ascendenza freudiana e complica la sua impostazione di psicologia del profondo con mutui dall’etologia, è possibile trovare riflessioni sulla fiducia, che egli in parte riprende alla lettera da Erikson, come costrutto di fiducia di base (1969, pp. 405 sg.), ma che adotta specialmente dagli studi della sua allieva Mary Ainsworth (pp. 402 sg.), denominandola sicurezza, e vedendola come qualità di eccellenza dell’attaccamento. L’attaccamento del bambino è sicuro quando, all’età di un anno, egli è in grado di avventurarsi con sufficiente disinvoltura in una situazione estranea, servendosi della madre come base sicura, non è messo a disagio dall’arrivo di una persona estranea, si mostra consapevole degli spostamenti della madre durante la sua assenza, e la saluta al ritorno (p. 405).

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missima infanzia, non sedate né esaustivamente risolte dai rapporti fra l’infant e la figura materna, lasciano nell’individuo che cresce

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5. Per Erikson, nella sua ricerca di definire lo sviluppo dell’identità del soggetto nell’ambito di determinate culture, sia del presente che del passato1, la concezione evolutiva di Freud viene ripresa e rielaborata non solo e non tanto dettagliando delle fasi più specifiche all’interno dei grandi “tempi” (orale, anale, genitale, della latenza, dell’adolescenza) del quadro presentato nel secondo capitolo dei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), quanto connettendo lo sviluppo libidico alle figure e alle esigenze della cultura dove tale sviluppo si realizza, tanto da poter parlare di evoluzione socioculturale dell’individuo. Erikson, allievo di Anna Freud, è uno psicoanalista dell’io, e il costruirsi dell’identità di questo subsistema della personalità è il punto focale delle sue proposte euristiche: “L’Io è (…) una istituzione interiore sviluppatasi per proteggere quell’ordine nell’individuo, dal quale dipende ogni altro ordine nel mondo esterno” (Erikson 1963, p. 181). Pur prendendo le mosse dalla patologia dei “casi clinici” infantili, Erikson si impegna a seguire il formarsi normale dell’identità dell’Io, attraverso fasi organizzate in successione, in una “tavola epigenetica” (p. 252) che articola e arricchisce lo schema evolutivo freudiano immettendo in esso delle figure del mondo, dei personaggi e delle istituzioni con cui l’individuo si relaziona fin dai tempi originari della sua esistenza. All’esordio del suo corso di vita, nella primissima età (il termine usato da Erikson è infancy), il piccolo connette il suo benessere con figure stabili del suo ambiente, in primo luogo con la madre, che gli diventa tanto familiare da consentirgli di “farne una certezza interiore”, garantita anche quando non è fisicamente presente, e nelle pause in cui non gli eroga cure. Una madre degna di fede (trustworthy) quindi, che lo salvaguarda dallo sprofondare nell’angoscia quando il suo benessere ha delle pause, che lo avvezza a coniugare ricordo e attesa, e a costruirsi una prima rudimentale e debole identità:


Affermazioni molto efficaci appaiono anche nella parte conclusiva del volume, quando l’Autore dichiara che non solo i bambini piccoli, ma gli esseri umani di tutte le età sono al colmo della felicità e possono adoperare le loro doti nel modo più fruttuoso quando hanno la fiducia di avere saldamente alle spalle una o più persone fidate che correranno loro in aiuto qualora insorga qualche difficoltà. La persona fidata costituisce una base sicura da cui il compagno può partire per operare (p. 445).

Egli conclude queste brevi osservazioni dilatando in senso sociale il costrutto di fiducia: da tratto di fondo dello psichismo di un soggetto, che ha avuto delle esperienze gratificanti lungo il corso della sua crescita, la fiducia diventa caratteristica relazionale. Lungi dall’essere una figura indipendente, “la persona che ha veramente fiducia in se stessa (…) dimostra di non essere affatto così indipendente quanto suppongono le stereotipie culturali” (p. 445). E ancora: Un ingrediente indispensabile della vita psichica è la capacità di contare fiduciosamente sugli altri, e di sapere su chi è giusto contare. Una persona sanamente fiduciosa in se stessa è quindi capace di cambiare ruolo se la situazione cambia: in un dato momento essa offre una base sicura da cui il suo compagno può passare all’azione, mentre in un altro è contenta di poter contare su uno dei suoi compagni che le offra a sua volta un’analoga base (ib.).

Base sicura diventa l’idea sulla quale Bowlby lavora nei suoi ultimi anni e cui egli intitola una sua raccolta di saggi, Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento (1988). Fornire una base sicura è proprio di un ruolo, continuando la metafora da sociodramma con cui Bowlby concludeva il suo volume su attaccamento e separazione, che consiste “nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario” (p. 10). Tratti di un’etica della discrezione e della disponibilità connotano il ruolo di base sicura, che è effetto di un’educazione, specie parentale, dove viene incoraggiata l’autonomia, ma al contempo gli educatori si mostrano “disponibili e pronti quando sono

I genitori devono avere (o imparare ad avere) fiducia nel figlio, e raggiungere la certezza interiore che il loro figliolo riuscirà bene nella vita (…). È la fiducia che noi nutriamo nei suoi confronti che fa sorgere nel bambino un senso permanente di fiducia in se stesso e nelle proprie capacità (p. 90).

Il modello educativo che Bettelheim delinea nel testo, dove riflessione sulla propria storia, empatia, senso dell’autonomia dell’altro, consapevolezza della propria fallibilità, partecipazione al gioco del più giovane, ritorno al sé garantito dal recupero dell’io, sono tratti di fondo che l’Autore suggerisce per essere genitori “quasi perfetti”, contribuisce a tradurre in termini pedagogici il non semplice, ma non certo marginale, concetto psicoanalitico di fiducia. La psicologia del profondo si è avviata anche per altre strade, per confrontarsi con fiducia, speranza, sicurezza, autonomia,disponibilità, attendibilità, costrutti non equivalenti, ma connessi anche se giocati in molti registri: li ritroviamo nel discorso di Melanie Klein, in quello di Winnicott, di Margaret Mahler, di Peter Fonagy, dove psicologia dello sviluppo, ipotesi cliniche, conferme o smentite terapeutiche si sono combinate nel descrivere e spiegare, talora in modo affascinante, un atteggiamento tanto irrinunciabile quanto difficile ed elusivo della nostra esistenza, qual è la fiducia.

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dai primissimi mesi e poi per tutta la vita (…) una variabile fondamentale è la fiducia o la sfiducia di una persona (…) che la figura di attaccamento anche quando non sia realmente presente sarà cionondimeno disponibile, cioè accessibile e capace di rispondere in modo adeguato, se essa per qualsiasi ragione ne avrà bisogno (p. 260).

chiamati in causa” (p. 11). Di fronte ai drammi della separazione e della perdita che segnano non poche vite infantili e che sovente le consegnano, con scarse speranze di riscatto, all’intervento sociale o terapeutico, Bowlby – che di questi drammi ha dato analitica descrizione e commento in quasi tutte le sue opere – dichiara la sua fede nella fiducia e nel suo possibile costruirsi lungo il filo dello sviluppo, oltrepassando, a mio parere, il determinismo delle posizioni freudiane, dove madre e figlio e madre e figlia si trovavano quasi fatalmente irretiti nelle complessità delle dinamiche libidiche e non sembra esserci speranza, se non di tipo clinico, in una loro correzione in età adulta. Base sicura è la madre per il suo piccolo, ma anche l’amico per l’amico, e un’educazione alla fiducia, spezzati i vincoli talora irredimibili di storie familiari dove la violenza e la sfiducia si trasmettono per generazioni3 appare la complessa pratica sociale che abilita gradualmente un individuo a vivere generosamente nel mondo. Qui la parola non può essere omessa, deve vigere in ogni mossa relazionale, da madre a figlio – come baby talk –, da amico verso l’amico – come incoraggiamento, incitamento, testimonianza o domanda di aiuto, confidenza, consiglio –, ingrediente irrinunciabile della qualità sociale della fiducia. La psicoanalisi recente di più stretta osservanza freudiana non ha dimenticato il costrutto di fiducia, lo ha assunto nel senso di fiducia di base nell’accezione che le è stata data da Erikson, avvalendosene anche in direzione educativa. Penso al testo di Bruno Bettelheim Un genitore quasi perfetto (1986), dove lo psicoanalista viennese tratta brevemente della “fiducia di fondo”, il cui insorgere ha data precocissima, affermazione difficile, e che, se non maturato nel modo migliore, si trasforma molto spesso in ansia nell’esercitare il mestiere di genitore, ingenerando insicurezza, sfiducia nella vita, angoscia, deleteri nella cura dei figli (pp. 60 sg.). Un approfondimento – che direi in senso speculare – delle idee di Erikson è la tesi che un “genitore quasi perfetto” non deve avere fiducia soltanto in sé e nel mondo in cui vive, ma anche nel figlio:

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Nel secondo volume della trilogia sull’attaccamento (p. 258) egli parla non solo di sicurezza ma anche di fiducia ed elabora tale costrutto in una concezione diacronica che si estende dalle fasi più precoci fino a quella adulta. Egli descrive sinteticamente la personalità di un “individuo fiducioso”: si tratta di un soggetto che proprio perché ha avuto esperienze gratificanti da piccolo e durante la sua fanciullezza, ha avuto cure materne soddisfacenti e piacevoli, saprà avvalersi di una figura di attaccamento per tutta la vita, figura che “sarà disponibile tutte le volte che egli la desidera”2. Da questo punto di vista Bowlby precisa che


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No te 1 Rimando, per tutti, al testo di Erikson, di cui in Italia esiste solo la versione della seconda edizione (1963) Infanzia e società (1966), dove ci sono due capitoli finali, specie di esercitazioni di psicostoria, l’uno dedicato alla leggenda dell’infanzia di Hitler, l’altro alla leggenda della gioventù di Massimo Gorki. 2 Bowlby legge tali caratteristiche anche nei termini accolti dalla psicoanalisi kleiniana, di persona sicura come di un individuo che “è riuscito a introiettare un oggetto buono” (1975, p. 258). 3 Per degli esempi di questa trasmissione di figure della violenza, della dipendenza, della sfiducia rimando a Bowlby 1989, pp. 73-93.

F ran cesco Vit ale C’è da fidarsi. Sulla fiducia in Jacques Derrida

Bib li ografi a Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Bettelheim, B., 1986, A Good Enough Parent: A Book on Child-Rearing, New York, Alfred A. Knopf Inc.; trad. it. 1987, Un genitore quasi perfetto, Milano, Feltrinelli. Bowlby, J., 1952, Maternal Care & Mental Health, World Health Organization, Monograph, n. 2; trad. it. 1972, L’attaccamento alla madre, Torino, Boringhieri. Bowlby, J., 1969, Attachment, vol. 1 of Attachment and Loss; nuova ed. 1982, London, Hogarth Press; trad. it. 1975, Attaccamento e perdita. 2. La separazione dalla madre, Torino, Boringhieri. Bowlby, J., 1988, A Secure Base: Parent-Child Attachment and Healthy Human Development, London, Routledge; trad. it. 1989, Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Milano, Cortina. Bowlby, J., 1989, Violence in the Family; trad. it. 1989, “La violenza nella famiglia”, in id., 1988, pp. 73-93. Erikson, E. H., 1963, Childhood and Society. Second edition, Revised and enlarged, New York, W. W. Norton & Co.; trad. it. 1966, Infanzia e società, Roma, Armando. Erikson, E. H., 1968, “The Human Life Cycle”; nuova ed. 1987, in A Way of Looking at Things. Selected Papers from 1930 to 1980, a cura di S. Schlein, New York, Norton, pp. 595-610. Freud, A., 1979a, “Indice analitico”, in id. 1965-75, Opere, Torino, Boringhieri, vol. III, pp. 1173-1215. Freud, A., 1979b, “La nevrosi infantile: considerazioni genetiche e dinamiche”, in id. 1965-75, Opere, Torino, Boringhieri, vol. III, pp. 1091-1110. Freud, S., 1905; trad. it. 1970, Tre saggi sulla teoria sessuale”, in Opere, vol. IV, pp. 484-534. Freud, S., 1920; trad. it. 1977, Al di là del principio di piacere”, in Opere, vol. IX, pp. 193-149. Freud, S., 1932; trad. it. 1979, Lezione XXXIII. La femminilità, in Opere, vol. XI, pp. 219-241. Freud, S., 1980, “Indice analitico generale”, in Opere. Indici, vol. XII, pp. 261-431. Freud, S., 2000, “Namen und Sachregister”, in Studienausgabe. Ergänzungsband, Frankfurt am Main, Fischer. Laplanche, J., Pontalis, J. B., 1963, Vocabulaire de la psychanalyse, Paris, Presses Universitaires de France; trad. it. 1973, Enciclopedia della psicanalisi, Roma-Bari, Laterza. N.B. Per le Opere di Sigmund Freud si è fatto riferimento all’edizione 1941-52, Gesammelte Werke, Frankfurt am Main, Fischer Verlag G.M.B.H.; il riferimento ai volumi è indicato nella traduzione italiana completata nel 1979 a cura di Cesare Musatti, Opere, Torino, Bollati Boringhieri.

Ci si può fidare di Jacques Derrida? Si può aver fiducia di qualcuno che – è il minimo che se n’è potuto dire – specula sulle parole, approfittando della più piccola instabilità semantica sfuggita alla stretta sorveglianza dell’ordine del discorso per detronizzarne il senso? Oggigiorno la ricca messe di pubblicazioni, traduzioni, recensioni, attestati di stima e amicizia sembrano testimoniare in suo favore. All’indomani della sua morte, pare sia venuto il momento di concedere a Derrida degna accoglienza in quella comunità della quale è pur sempre stato un ospite anche se inquieto e inquietante. Non sembra più nemmeno il caso di porre una tale questione. Dal canto suo Derrida fa appello alla fiducia in un testo in cui ne va delle condizioni di possibilità del cosiddetto legame sociale, proprio di ciò che dovrebbe aprire lo spazio di possibilità della comunità. Si tratta di uno di quei testi fatti apposta per irritare il lettore comodamente seduto sulle proprie certezze: le solite fumose speculazioni verbali per affrontare un tema tanto delicato… soprattutto oggi: la religione. E già sentiamo risuonare: “c’è da fidarsi?”. Un testo difficile da districare, fin dal titolo, una tripla citazione che richiama a sé l’eredità della tradizione riguardo alla declinazione moderna ed europea della questione della religione: Fede e Sapere. Le due fonti della “religione” ai limiti della semplice ragione1. Un testo diviso in due parti, con paragrafi numerati in sequenza (§§ 1-26, la prima, §§ 27-52, la seconda). Sequenza solo apparentemente casuale di passi più o meno lunghi: dall’aforisma di poche righe, a disquisizioni che prendono una o due pagine. I richiami alle questioni più attuali e urgenti attraverso le quali la religione oggi si impone alla nostra attenzione (le guerre di religione di ieri, di oggi e di domani, l’integralismo islamico, il neocolonialismo occidentale dei nuovi sedicenti paladini della fede cristiana) si alternano alle analisi genealogiche e strutturali, in particolare, alle minuziose ricognizioni etimologiche sulla scorta di Benveniste. Proprio il dialogo con Benveniste, non sempre esplicito, definisce alcune coordinate essenziali del cammino di Derrida (Benveniste 1969)2, a partire dalla questione non solo linguistica di ciò che chiamiamo religione noi occidentali, eredi della latinità, e cioè dell’elemento in cui si è costituita e nominata la religione, così come il nostro diritto, la nostra politica ecc.


Non è possibile definire la religione come tale, isolarla da tutto ciò che ne è per noi indissociabile3. E tuttavia non si può fare a meno di rispondere di ciò che la religione è oggi per noi, agli interrogativi che essa stessa ci pone chiamandoci in causa. Oggi il destino stesso della religione e di tutto ciò che, più o meno legittimamente, in Occidente si richiama a essa come alla propria fonte – la democrazia, il diritto, la libertà – è in pericolo. La religione, esposta alla violenza più arcaica o ipertecnologica degli integralismi che si oppongono, in suo nome, sui diversi fronti di una guerra da più parti definita di civiltà, costituisce la più grave minaccia per se stessa e per la sua comunità. “La pulsione dell’indenne, di ciò che resta allergico alla contaminazione” (§ 28), l’economia del sacrificio all’ordine dell’integrità della comunità appartiene all’esperienza e al concetto di religione, ne è forse la “cosa stessa” (§ 27), sostiene Derrida4. Proprio oggi allora è necessario mettere in questione la religione – la nostra esperienza, il nostro concetto di religione – per liberarla e liberarci da quel potenziale distruttivo che abita più o meno segretamente l’esperienza dell’indenne, del sacro, del puro, del sano, dell’incontaminato, del proprio, dell’integro: dell’identità piena e presente a se stessa che non è solo il proprio della nostra religione, ma anche di tutto ciò che è impossibile dissociare da essa – l’etico, il politico, il giuridico, l’economico ecc. – e che fa segno, attraverso la nostra tradizione, verso una fonte comune: l’onto-teologia. Nessuna tentazione tuttavia per un nuovo appello alla coscienza critica, ai lumi della ragione contro la superstizione della religione. Nessun gesto ingenuo che creda di poterla osservare da un punto di vista altro, purificato e isolato da ogni contaminazione: il punto di vista disincantato e disincarnato, neutro e oggettivo del sapere. Si tratta piuttosto di rintracciare, attraverso il concetto e l’esperienza del legame che ereditiamo dalla nostra religione, il senso della relazione all’altro quale irriducibile condizione di possibilità della comunità, da intendersi non solo in senso strutturale ma anche, potremmo dire, esistenziale, perché ne va della nostra stessa sopravvivenza, di un’altra possibilità per la comunità: Ciò che orienterebbe qui in questo deserto senza rotta e senza dentro, sarebbe ancora la possibilità di una religio e di un relegere, certo, ma prima del legame del religare, etimologia problematica e senza dubbio ricostruita, prima del legame tra gli uomini come tali o tra l’uomo e la divinità di dio. Ciò sarebbe anche come la condizione del “legame” ridotto alla sua determinazione semantica minimale: (…) il ri-

Un’altra possibilità per la comunità che dovrebbe fondarsi su un certo rapporto di fiducia. Un rapporto fiduciario da intendere quale irriducibile condizione di possibilità di ogni legame determinato o determinabile di fatto; come ciò senza cui non è possibile di fatto alcun legame tra gli uomini, tra gli uomini e Dio, alcuna comunità, religiosa, politica o altro che sia; come la struttura minima dell’esperienza affinché ci sia legame. Per vedere quali possibilità di questa struttura minima sono state poste in essere di fatto e quali – se ce n’è – sono state rimosse, sepolte, dimenticate. Per vedere se è ancora possibile trarle alla luce dell’esperienza, rinvenirne i resti e riaprire uno spazio per tali possibilità altre. Per comprendere il motivo per cui Derrida si appella alla fiducia per definire una tale struttura, bisogna mettere in rilievo gli strati che si sono formati su di essa, incorporandola e allo stesso tempo riducendone l’orizzonte di possibilità. L’indagine di Derrida segue un doppio registro, l’uno fenomenologico e strutturale, l’altro genealogico: da un lato si tratta di distinguere i tratti essenziali che compongono il concetto e l’esperienza che abbiamo della religione, ri-articolare la costellazione semantico-concettuale implicita nella nostra comprensione ingenua del fenomeno. Dall’altro, Derrida ricorre costantemente al Vocabolario di Benveniste, anche quando non lo cita esplicitamente, ma non per trarre dalla ricerca etimologica un senso più originario e quindi vero della religione. Il Vocabolario di Benveniste è un repertorio di testimonianze, di usi delle parole, e quindi di esperienze che queste parole nominano. Si tratta di vedere attraverso queste testimonianze quando e come i tratti isolati sul piano strutturale si incontrano, si compongono, stringono alleanza; quando e come alcuni vengono rimossi, subordinati, ridotti al silenzio a vantaggio di altri che prendono il sopravvento nella definizione della religione e dell’esperienza che ne abbiamo. Derrida, come Benveniste, considera decisiva la stratificazione cristiana della parola latina religione, stratificazione densa che separa e unisce, fa da filtro e cerniera tra la grecità pagana e la latinità cristiana: in questo passaggio la parola religione sovviene a se stessa, a nominare l’istituzione che conosciamo sotto questo nome, attraverso una divisione etimologica che non interessa solo la filologia, ma il senso stesso della religione. La r eligione divisa Derrida cita e commenta la voce “Religione e superstizione” del Vocabolario di Benveniste:

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La fiducia e il sacro

spetto, la responsabilità della ripetizione nel pegno della decisione o dell’affermazione (re-legere) che si lega a se stessa per legarsi all’altro. Anche se si può chiamarlo legame sociale, legame all’altro in generale, questo legame fiduciario precederebbe ogni comunità determinata, ogni religione positiva, ogni orizzonte onto-antropo-teologico. Riunirebbe delle pure singolarità prima di ogni determinazione sociale o politica, prima di ogni intersoggettività, anche prima dell’opposizione tra il sacro (o il santo) ed il profano (§ 20).

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Un percorso avventuroso in cui nessuna stabile definizione viene accreditata una volta per tutte, in vista di possibili aperture per il pensiero se non per l’esperienza. Lo seguiremo per qualche tratto, consapevoli del rischio della semplificazione, per trattare della fiducia.


Nei due casi (re-legere o re-ligare), ne va comunque di un legame insistente che si lega innanzitutto a se stesso. Ne va comunque di un raccoglimento di un ri-assemblaggio, una ri-collazione. Di una resistenza o di una reazione alla disgiunzione. All’alterità assoluta [ab-solue]. “Ricollazione” è d’altra parte la traduzione proposta da Benveniste, che l’esplicita così: “riprendere per una nuova scelta, ritornare un passo indietro”, da cui il senso di “scrupolo” (§ 34).

L’etimologia romana non contraddice quella cristiana almeno per un punto per Derrida essenziale: l’esperienza del legame che ci attesta la parola religio è sempre l’esperienza di un legame che si costituisce per reazione a una disgiunzione, per reazione a quell’alterità irriducibile che si insinua nella necessità stessa della riconferma di sé. Con Cicerone siamo già, almeno per la struttura formale, nell’orizzonte della pulsione dell’indenne, dell’economia del sacrificio, che viene esplicitata e ulteriormente connotata nell’uso cristiano che aggiunge alla parola i sensi di obbligazione, dovere, debito e quindi nell’orizzonte dell’esperienza di un legame che preserva il proprio, la proprietà, l’integrità, l’identità tra gli uomini di una comunità determinata e tra questa e il suo Dio, contro l’altro, la disgiunzione, la differenza. La relazione all’altro è qui evidentemente subordinata: non siamo ancora in presenza di una condizione di possibilità, ma di qualcosa che non solo è relativo e secondo, ma anche subordinato e in linea di principio necessariamente escluso o da escludere. Per isolare la struttura della relazione all’altro quale irriducibile condizione di possibilità di ogni possibile legame bisogna ricorrere a distinzioni più accurate, bisogna allargare lo spettro semantico-concettuale attraverso le testimonianze raccolte da Benveniste: Qui non potremo consacrare tutte le analisi necessarie a delle distinzioni indispensabili ma raramente rispettate o praticate. Esse sono in gran numero (religione/fede, credenza; religione/pietà; religione/culto; religione/teologia; religione/ontoteologia; o ancora religioso/divino – mortale o immortale; religioso/sacro-salvo-santo-indenne-immune – heilig, holy). Ma fra esse, prima o dopo di esse, metteremo alla prova il privilegio quasi trascendentale che crediamo dover accordare alla distinzione tra, da una parte, l’esperienza della credenza (fiducia, fidatezza, confidenza, fede, il credito accordato alla buona fede del tutt’altro nell’esperienza della testimonianza) e, d’altra parte, l’esperienza della sacralità, del-

La fede e il sacro sono i due elementi essenziali della religione. Da un lato l’esperienza del sacro, dell’indenne, del sano, del salvo, dell’immune, del puro, del proprio, dell’identità con sé della quale l’esclusione dell’altro è la condizione. Dall’altro l’esperienza della credenza, della fede, della fiducia, del credito e della testimonianza, un’esperienza dunque in cui la relazione all’altro è (per ora limitiamoci a dire questo) almeno implicata. Per la complessa costellazione semantica associata all’esperienza della fede ancora una volta bisogna rinviare a Benveniste che Derrida questa volta non cita. In sintesi: alla voce “La fedeltà personale” del suo Vocabolario Benveniste, a proposito dell’uso della parola fidïs presso i romani, distingue un uso oggettivo più antico da tradurre con credito – la fiducia di cui si gode presso qualcuno – e un uso soggettivo più tardo, fidem habere: È a partire da qui che si sviluppa fide¯s come nozione soggettiva, non più la fiducia che uno risveglia in qualcuno, ma la fiducia che si mette in qualcuno. (…) Se si passano in rassegna i diversi rapporti di fide¯s e le circostanze in cui essi vengono sfruttati, si vedrà che i partners della “fiducia” non hanno pari statuto. Colui che detiene la fide¯s messa in lui da un uomo ha quest’uomo in suo potere. Ecco perché fide¯s diventa quasi sinonimo di potesta¯s e di dicio¯. (…) È dunque un’autorità che si esercita contemporaneamente ad una protezione su colui che vi si sottomette, in cambio e nella misura della sua sottomissione. Questa relazione implica potere di obbligare da una parte, obbedienza dall’altra (Benveniste 1969, voce “La fedeltà personale”).

Il cristianesimo iscrive il rapporto già attestato tra fiducia e credito nella determinazione della fede religiosa: La storia di fide¯s va oltre la sua parentela etimologica. Si è notato da molto tempo che fide¯s in latino è il sostantivo astratto di un verbo diverso cre¯do¯. Questa relazione suppletiva è stata studiata da A. Maillet il quale ha dimostrato che l’antico rapporto tra fide¯s e cre¯do¯ è stato ravvivato dal cristianesimo: è allora che fide¯s, termine profano, si è evoluto verso il senso di “fede religiosa” e cre¯de¯re (credere), verso quello di “confessare la propria fede” (ib.).

Per Derrida è dunque possibile distinguere la fede dal sacro: queste due esperienze non sono la stessa, non si coappartengono necessariamente. Si tratterebbe piuttosto di due esperienze essenzialmente differenti e la nostra religione sarebbe piuttosto un effetto storico determinato della loro articolazione, che la religione avrebbe interesse a tacere, che non può non tacere, in quanto ne va della sua stessa essenza: se la religione si fonda sulla fede nel sacro riconoscere un’articolazione tra questi due elementi, significa già affermare che non vi è fra questi un rapporto di necessità immanente, che,

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Derrida ne trae una conclusione che avrebbe certamente sorpreso Benveniste:

la santità, dell’indenne sano e salvo (heilig, holy). Ci sono qui due fonti o due fuochi distinti. La religione figura la loro ellissi perché comprende i due fuochi ma anche a volte ne tace, in maniera giustamente segreta e reticente, l’irriducibile dualità (§ 34).

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All’interno del ceppo latino, l’origine di religio fu il tema di contestazioni in verità interminabili. Tra due letture o due lezioni, dunque due provenienze: da una parte, testi di Cicerone in appoggio, relegere, filiazione semantica e formale accertata, sembra: raccogliere per ritornare e ricominciare, da cui religio, l’attenzione scrupolosa, il rispetto, la pazienza, persino il pudore o la pietà – e d’altra parte (Lattanzio e Tertulliano) religare, etimologia “inventata dai cristiani” dice Benveniste, che lega la religione al legame, precisamente, all’obbligazione, al legamento, dunque al dovere e dunque al debito, ecc., tra uomini o tra uomini e Dio (§ 34).


Il rapporto di fiducia partecipa dell’economia del sacrificio all’ordine del sacro, della pulsione dell’indenne: un rapporto di obbligazione, di sottomissione a una autorità superiore in vista di un beneficio garantito, un rapporto al quale non è estraneo il conflitto e la pulsione distruttiva. Ci si sottomette all’autorità di un altro superiore fino al sacrificio di sé, per ricevere protezione e garanzia per se stessi di contro all’altro da sé. D’altra parte è proprio questa struttura del rapporto di fiducia che ha permesso la sua incorporazione nella fede religiosa e la sua articolazione con il sacro. È quanto di fatto attesta la religione. Ognuno di questi assiomi [la fede e il sacro], in quanto tale, riflette già e presuppone l’altro. Un assioma afferma sempre, il suo nome lo indica, un valore, un prezzo; conferma o promette una valutazione che deve restare intatta e dar luogo, come ogni valore, a un atto di fede. In seguito, ciascuno dei due assiomi rende possibile, ma non necessario, qualcosa come una religione, vale a dire un apparato istituito di dogmi o di articoli di fede determinati e indissociabili da un socius storico dato (chiesa, clero, autorità socialmente legittimata, popolo, condivisione dell’idioma, comunità di fedeli impegnati nella stessa fede e accreditanti la stessa storia). Ora, lo scarto resterà sempre irriducibile tra l’apertura

Cosa resta allora della relazione all’altro nel rapporto di fiducia? In cosa la relazione all’altro, implicita nel rapporto di fiducia, si sottrae all’incorporazione religiosa che pure rende possibile? Com’è possibile distinguere nel rapporto di fiducia la condizione di possibilità, la struttura universale, di cui la religione sarebbe solo una determinazione tra altre possibili ma ancora in attesa? Soprattutto quali altre possibilità promette tale struttura? Una traccia: la testimonianza. Il t est imone Derrida in effetti segue Benveniste ma solo fino a un certo punto: gli deve certamente la costellazione semantica associata alla fede con tutte le sue articolazioni. E tuttavia vi introduce un elemento che per Benveniste non appartiene alla famiglia di fidïs, ed è in particolare estraneo alla religio: la testimonianza, secondo Derrida, implicita in ogni atto di fede, prima di ogni fede religiosa determinata: Al di là della cultura, la semantica o la storia del diritto – d’altronde inestricabile – che determinano questa parola o questo concetto, l’esperienza della testimonianza situa una confluenza delle due fonti: l’indenne (il salvo, il sacro o il santo) e il fiduciario (fidatezza, fedeltà, credito, credenza o fede, “buona fede” implicata fin dentro la peggiore “cattiva fede”) (§ 49).

Anche in questo caso bisogna ricorrere a Benveniste, non citato: la voce “Religione e superstizione” ricostruisce i passaggi che hanno portato all’opposizione per noi comune tra i due termini. All’origine della “superstizione” una certa determinazione della testimonianza poiché superstes stesso non significa solo “superstite” ma in certi casi ben attestati “testimone”. (…) Non è il solo uso di superstes; “sussistere al di là di…” non vuol dire solo “essere sopravvissuto a una disgrazia, alla morte”, ma anche “aver attraversato un evento qualsiasi e sussistere al di là di questo evento”, quindi essere stati “testimoni”. O ancora “che si tiene sulla (stat super) cosa

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Questa somiglianza di struttura, in contesti religiosi diversi, garantisce l’antichità della nozione. La situazione è quella di un conflitto tra gli dei, in cui gli uomini intervengono sostenendo la causa degli uni o degli altri. In questo impegno, gli uomini danno una parte di se stessi per dar più forza al dio che hanno scelto di sostenere; ma vi è sempre una contropartita implicita; ci si aspetta dal dio la restituzione. Questo sembra essere il fondamento della nozione laicizzata di credito, fiducia, qualunque sia la cosa affidata o data in pegno. La stessa struttura appare in ogni manifestazione di fiducia; affidare qualche cosa (uno degli usi di cre¯do), vuol dire dare a un altro, senza considerazione di rischio, qualche cosa che ci appartiene, che non si offre in regalo, per ragioni diverse, con la certezza di ritrovare la cosa affidata. È lo stesso meccanismo che entra in azione sia per una fede propriamente religiosa sia per la fiducia in un uomo, che l’impegno sia di parole, di promesse o di denaro (ib.).

della possibilità (come struttura universale) e la necessità determinata di tale o tal’altra religione (…). Questa [struttura] può essere universale (la fede o la fidatezza, la “buona fede” quale condizione della testimonianza, del legame sociale e perfino dell’interrogazione la più radicale) o già particolare, per esempio la credenza in tale avvenimento originario di rivelazione, di promessa o d’ingiunzione, come nella referenza alle Tavole della legge, al cristianesimo primitivo, a qualche parola o scrittura fondamentale, più arcaica o più pura del discorso clericale o teologico. Ma pare impossibile denegare la possibilità in nome della quale, grazie alla quale, la necessità derivata (l’autorità o la credenza determinata) si troverebbe messa in causa o in questione, sospesa, rigettata o criticata, perfino decostruita. Non la si può denegare, questo vuol dire che tutt’al più la si può solo denegare (Derrida 1995, § 88).

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trattandosi di elementi distinti, la loro articolazione può essere sciolta e distribuita diversamente. Si tratterebbe di sciogliere la fede dall’articolazione con il sacro, almeno per il tempo necessario a mostrare la densità di senso di tale esperienza. E tuttavia, proprio la ricostruzione della costellazione semantica associata alla fede non sembra lasciare molto spazio: certo, il rapporto di fiducia implica necessariamente una relazione all’altro, ma questa relazione è sempre determinata in vista di una compensazione, un risarcimento. La voce “Credito e credenza” non solo riconosce la presenza di questa costellazione semantica in civiltà più antiche di quella latina, ma ne ritrova l’origine proprio nell’economia dell’indenne, all’opera nella “rivalità di potere dei clan, dei campioni divini e umani, in cui bisogna fare a gara per vigore, per generosità, per assicurarsi la vittoria” (Benveniste 1969, voce “Credito e credenza”):


I Romani avevano orrore delle pratiche divinatorie; le consideravano delle ciarlatanerie; gli stregoni, gli indovini erano disprezzati, tanto più che nella maggior parte dei casi venivano da paesi stranieri. Superstitio, associato per questo a pratiche viste di malocchio, ha preso un senso sfavorevole. Ha denominato molto presto pratiche di una falsa religione considerate come inutili e basse, indegne di una mente ragionevole. I Romani, fedeli agli àuguri ufficiali, hanno sempre condannato il ricorso alla magia, alla divinazione, a pratiche giudicate infantili. Da qui si è fatta strada una nuova idea della superstitio, per antitesi con religio; essa ha prodotto questo nuovo aggettivo superstitiosus, “superstizioso”, interamente distinto dal primo, antitetico a religiosus con la stessa formazione. Ma è la concezione illuminata, filosofica, dei Romani razionalisti che ha dissociato la religio, lo scrupolo religioso, il culto autentico, dalla superstitio, forma degradata, pervertita della religione (ib.).

È proprio alla testimonianza del superstes che Derrida fa appello per richiamare la fiducia nella struttura universale della relazione all’altro quale condizione irriducibile del legame sociale, della comunità che di fatto si è fondata, si è potuta fondare quale noi la conosciamo solo attraverso la sua rimozione, repressione, esclusione, dunque della sua stessa – irriducibile – condizione di possibilità: Nella testimonianza, la verità è promessa al di là di ogni prova, ogni percezione, ogni mostrazione intuitiva. Anche quando mento o spergiuro (e sempre e soprattutto quando lo faccio), prometto la verità e domando all’altro di credere l’altro che io sono, là dove io sono il solo a poterne testimoniare e dove mai l’ordine della prova o dell’intuizione saranno riducibili e omogenei a questa fiduciarietà elementare, a questa “buona fede” promessa o richiesta. (…) Che fa dunque la promessa di questo performativo assiomatico (quasi trascendentale) che condiziona o precede come la loro ombra tanto le dichiarazioni “sincere” quanto le menzogne e gli spergiuri, e dunque ogni indirizzo all’altro? È come se dicesse: “credi a ciò che dico come si crede a un miracolo”. E la più piccola testimonianza benché si porti sulla cosa più verosimile, ordinaria o quotidiana, fa appello alla fede, come farebbe un miracolo (Derrida 1995, § 49).

Dunque la condizione irriducibile di ogni indirizzo all’altro, la condizione di “ogni legame sociale” (ib.) sarebbe la fiducia cieca, “L’acquiescenza alla te-

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Benveniste distingue però superstes da testis, la parola per testimonianza nel diritto romano: testis è il terzo, l’autorità superiore che interviene da garante nella relazione fra due sullo stesso piano. Il superstes è un testimone senza garanzie di credito, chiede di essere creduto rispetto a ciò che attesta del passato senza poter addurre prove, senza richiamarsi ad alcuna autorità riconosciuta ma solo alla credenza, alla fiducia dell’altro, è così che il termine sopravvive solo per indicare la superstizione, ciò che si sottrae all’autorità della religione ufficiale, ciò che resta sostanzialmente estraneo, straniero, all’ordine costituito della comunità, una minaccia per la sua integrità:

stimonianza dell’altro – del tutt’altro inaccessibile nella sua sorgente assoluta” (§ 32), e questa fiducia elementare sarebbe “indispensabile tanto alla Scienza che alla Filosofia e alla Religione” (§ 49). Una fiducia nell’altro senza alcuna garanzia, giuridica, economica, scientifica? Com’è possibile? Non è proprio in un tale atto di fiducia che ci si espone al più grande pericolo? Un tale atto non ratifica forse l’economia del sacrificio nella sua estremità assoluta: la rinuncia a sé di fronte alla parola dell’altro alla quale ci si sottomette senza garanzia alcuna, senza ritorno, senza alcuna ragione, senza coscienza? Cerchiamo di procedere con ordine: la sopravvivenza del superstes è in effetti implicata in ogni testimonianza: il testimone come tale fa appello alla credenza dell’altro in rapporto a qualcosa, un evento, che non è più presente, irriducibilmente sottratto al regime della presentazione intuitiva, constativa, sensibile: se fosse ancora presente, non ci sarebbe bisogno di un testimone, se ne dovrebbe semplicemente constatare la presenza. E questo vale per ogni testimonianza. Indubbiamente è possibile, di fatto, elaborare tutta una serie di procedure di verifica della testimonianza, per iscriverla nel regime della prova, e questo è il fatto della cultura giuridica, scientifica, religiosa e della storia delle loro relazioni inestricabili. E tuttavia proprio la necessità di queste elaborazioni testimonia dell’irriducibilità della loro condizione: la relazione all’assolutamente altro implicito in ogni atto di fede, che sia richiesto o concesso. Queste elaborazioni sono comunque il frutto di convenzioni, e quali che siano i progressi – anche tecnici – possibili in tale campo, il testimone testimonierà sempre di un evento passato al quale è stato presente nella sua irriducibile singolarità, un evento non più presente e necessariamente impresentabile nella sua presenza originaria. È attraverso queste elaborazioni storiche che le comunità si sono protette dalle minacce implicite in questo atto di fede che pure le è necessario sotto diverse forme (il diritto, la scienza, la fede religiosa) riducendo i possibili effetti di una tale apertura assoluta e cioè per struttura necessariamente incondizionata, sciolta da ogni legame, da ogni autorità o garanzia superiore, addomesticando dunque la relazione all’altro attraverso procedure più o meno violente, ma necessarie. E sia, ma perché mai dovremmo fare appello a una tale fiducia elementare? In vista di cosa esporci al rischio più grave? Perché in questa struttura che precede e quindi condiziona ogni possibile legame sociale determinato, ne va proprio di ciò che noi stessi siamo. Nella sua struttura elementare la testimonianza del superstes, nel momento stesso in cui fa appello alla fede dell’altro, impegna la sua memoria di una presenza passata non più presente, attesta il suo essere stato presente a sé in questa presenza irriducibilmente perduta come tale, e della quale resta solo la traccia nella rammemorazione. Se della presenza a sé – dunque della mia identità – è possibile solo un’attestazione postuma, una testimonianza per struttura inverificabile, allora nell’atto di fede richiesto all’altro senza poter addurre alcuna garanzia superiore, nel credito illimitato che l’altro concede a un tale atto ne va della possibilità della presenza a sé nella sua singolarità irriducibile e

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stessa, che vi assiste, che è presente”. Tale sarà, in rapporto all’evento, la situazione del testimone (Benveniste 1995, voce “Religione e superstizione”).


Lì si aprirebbe il socius o il rapporto all’altro come segreto dell’esperienza testimoniale – dunque di una certa fede. Se la credenza è l’etere dell’indirizzo e del rapporto al tutt’altro, lo è nell’esperienza stessa del non-rapporto o dell’interruzione assoluta (…). Questa dis-giunzione interruttiva ingiunge una specie di uguaglianza incommensurabile nella dissimmetria assoluta (§ 49).

Se respingo, escludo, reprimo l’identità dell’altro, se lo costituisco in nemico – la necessità stessa per la costituzione del politico secondo la lezione di Carl Schmitt, oggi più attuale che mai – respingo, escludo, rimuovo, reprimo, muovo guerra a me stesso. C’è da fidarsi!

No te 1 Si farà riferimento al testo di Derrida con la sola indicazione del § tra parentesi di seguito alla citazione. La traduzione è nostra. I tre autori citati implicitamente nel titolo sono Hegel 1802; Kant 1793 e Bergson 1932. 2 Quando citeremo Benveniste citeremo sempre da quest’opera, indicando solo il titolo della voce. 3 “Bisognerebbe dissociare i tratti essenziali del religioso come tale da quelli che fondano per esempio i concetti dell’etico, del giuridico, del politico o dell’economico. Niente è più problematico di una tale dissociazione. I concetti fondamentali che spesso ci permettono di isolare o di pretendere di isolare il politico, per limitarci a questa circoscrizione, restano religiosi o in ogni caso teologico-politici” (§ 28). Derrida fa riferimento a Carl Schmitt al quale aveva dedicato preziose analisi in Derrida 1994. 4 A proposito dell’indenne Derrida in nota riprende, senza citarla, la voce “Sacrificio” del dizionario di Benveniste: la parte relativa alla nozione latina che dal diritto romano evolve in senso religioso: “Indemnis: che non ha subito danno o pregiudizio, damnum; quest’ultima parola (…) proviene da dap-no-m affiliato a daps, dapis cioè il sacrificio offerto agli dei in compensazione rituale. Si potrebbe parlare in quest’ultimo caso di indennizzazione e noi ci serviremo qua e là di questa parola per designare in una volta il processo di compensazione e la restituzione, a volte sacrificale, che ri-costituisce la purezza intatta, l’integrità sana e salva, una proprietà non lesa. È proprio ciò che insomma la parola dice: il puro, il non contaminato, l’intatto, il sacro o il santo prima di ogni profanazione, ferita, offesa, lesione” (§ 27n.).

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Benveniste, É., 1969, Le vocabulaire des istitutions indo-européennes, Paris, Minuit; trad. it. 1976, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, a cura di M. Liborio, Torino, Einaudi. Bergson, H., 1932, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, PUF; trad. it. 1979, Le due fonti della morale e della religione, Milano, Edizioni di Comunità. Derrida, J., 1994, Politiques de l’amitié, Paris, Galilée; trad. it. 1995, Politiche dell’amicizia, a cura di G. Chiurazzi, Milano, Raffaello Cortina Editore. Derrida, J., 1995, “Fede e Sapere. Le due fonti della ‘religione’ ai limiti della semplice ragione”, in J. Derrida, G. Vattimo, 1995, La Religione, Roma-Bari, Laterza; poi in J. Derrida, 2000, Foi et Savoir, Paris, Seuil. Hegel, G. W. F., 1802, “Glauben und Wissen”, in 1986, Werke (in zwanzig Bänden), auf der Grundlage der Werke von 1832-45 neu edierte Ausgabe, Frankfurt am Main, Suhrkamp; trad. it. 1971, Fede e Sapere, Primi scritti critici, Milano, Mursia. Kant, I., 1793, “Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft”, in Gesammelte Schriften, Berlin, Reimer Verlag; trad. it. 2004, La Religione nei limiti della semplice ragione, Roma-Bari, Laterza.

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Bib li ogr afi a

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inassimilabile, dunque della mia identità stessa, della quale posso solo testimoniare l’alterità assoluta. In questo atto di fede ne va di ciò che io stesso sono nella mia alterità assoluta di fronte ad ogni altro come tutt’altro, assolutamente altro, e cioè, allo stesso tempo, chiamato a testimone. Nell’appello all’altro che mi fa testimone l’altro si fa a sua volta testimone, testimonia in favore della mia attestazione di presenza che gli resta irriducibilmente inaccessibile. Nella testimonianza la relazione all’altro nella sua reciprocità diventa la condizione di possibilità di entrambi i termini, di ciò per cui possono dirsi, l’uno l’altro, l’uno all’altro presenti. La possibilità della mia identità dipende irriducibilmente dalla possibilità dell’identità dell’altro e reciprocamente. È a partire da questo atto di fiducia infinita di fronte all’altro come assolutamente altro, a partire da questa dissimmetria irriducibile e insaturabile che bisogna pensare la possibilità della relazione all’altro quale condizione di una comunità possibile fondata sulla giustizia:


F erdin ando Boer o La storia di Mae

Ne lla t er ra de i pa pua Nel 1989 mi trovavo in Papua Nuova Guinea per motivi di studio. Stavo svolgendo ricerche sull’ecologia delle formazioni coralline e lavoravo presso la stazione di biologia marina dell’Université Libre de Bruxelles (un’università laica) a Laing Island. È inutile che la cerchiate sulla carta, Laing Island. È un’isola lunga cinquecento metri e larga cento, e la stazione di biologia marina altro non era che un gruppo di capanne di legno, alimentate da un generatore di corrente. Sull’isola eravamo una decina in tutto, compresa una famiglia di papua che si prendeva cura delle faccende domestiche. Io dormivo in una capanna, uno spazio piccolo, costruito su palafitta, con un tetto in lamiera e con zanzariere come “pareti”. Ogni sera, allo spegnimento del generatore, mi ritiravo nella mia celletta per dormire. E ogni notte mi svegliavo con l’impressione che ci fosse qualcuno a condividere quello spazio con me. Accendevo la torcia elettrica, guardavo sotto il letto, controllavo la porta, la zanzariera. Tutto era sempre in ordine. Ero arrivato a sbarrare la porta, sicuro che qualcuno mi stesse facendo uno scherzo. Per non dare soddisfazione, ovviamente, non avevo mai raccontato ad alcuno queste mie sensazioni. Una notte mi svegliai con la stessa impressione e, alla luce della luna che filtrava attraverso la zanzariera, vidi un’ombra accanto al mio letto. Un uomo alto, con spalle larghe. Il mio primo pensiero fu: “Sto sognando di essermi svegliato e di vedere questo. Non mi resta che sognare di riaddormentarmi e il sogno finirà”. Quindi chiusi gli occhi, pur con la sensazione di non essere in un sogno. Quando li riaprii l’ombra era sempre là. A questo punto decisi di agire, fosse questo un sogno o realtà. Andare in Nuova Guinea, per me, era stato un po’ come diventare esploratore, Indiana Jones. Avevo acquistato un magnifico coltello da sopravvivenza e lo tenevo sempre a portata di mano. Il mio piano, quella notte, era semplice: mi alzo, afferro il mio coltello e vendo cara la pelle. Il tentativo di alzarmi fallì miseramente. Cercavo di alzarmi, ma non riuscivo. Cominciai a sudare per lo sforzo e la tensione. L’ombra non si scompose più di tanto ma, vedendomi in quello stato, mi mise una mano sulla fronte, quasi a tranquillizzarmi. Richiusi


Vive re con Mae Tornato in Italia, dopo pochi mesi, ebbi un incidente terribile con la mia moto. Mi schiantai frontalmente, a 140 all’ora, con una macchina che, a sua volta, ricevette un’altra macchina nella parte posteriore. La strada era un’apocalisse. Uscii illeso dall’incidente, e nessuno si fece un solo graffio. Se, invece di Mae, qualche mese prima avessi visto la Madonna, o san Giuseppe da Copertino, avrei potuto gridare al “miracolo”. Analizzai quest’esperienza nel modo più “scientifico” possibile. Non ero stato influenzato prima da qualcuno per il semplice fatto che non conoscevo la storia di Mae. Non avevo influenzato nessuno, perché non avevo raccontato la mia esperienza ad anima viva (è il caso di dirlo). Ero sicuro di non aver “trasformato” la mia esperienza, adattandola a quanto mi veniva raccontato. Ero anche sicuro che fosse fisicamente impossibile per un uomo entrare nella mia stanza senza lasciare segni del proprio passaggio. Inspiegabile scientificamente, chiusa lì.

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Questa cosa non cambiò la mia vita e non mi sembrava conveniente proporre un programma di ricerca per studiare scientificamente quel fenomeno. Tra l’altro non avrei saputo come fare, se non confidando che Mae si sarebbe ripresentato all’appuntamento con me mentre telecamere nascoste, microfoni e quant’altro sarebbero stati impiegati per documentare la sua presenza. Ogni volta che avevo visto filmati di questo genere avevo riso, e non me la sarei sentita di formulare una richiesta di finanziamento al Ministero della Ricerca Scientifica e Tecnologica per un progetto su Mae (e la cosa non mi sembrava neanche carina nei confronti di Mae). Io credo in Mae per un semplice fatto: l’ho visto e mi ha toccato. L’incidente motociclistico “miracoloso” potrebbe essere ovviamente una coincidenza. Posso convincere razionalmente qualcuno che ciò che racconto è vero? La risposta è no. L’unica prova che quel che dico è vero è la mia parola, e la coincidenza con la parola di altri. Molti di quelli che sono venuti sull’isola hanno “sentito” la presenza di Mae. Il mio amico Jean Bouillon, il più grande esperto di meduse di tutti i tempi, e ateo sfegatato (quasi quanto me), dice che si tratta di campi elettromagnetici causati dal vicino vulcano Manam. Anche se non riesce a spiegare un nesso causale tra l’elettromagnetismo e la sensazione che ci sia qualcuno vicino a te mentre non stai vedendo nessuno. Mae non è dimostrabile sperimentalmente all’interno della scienza come la concepiamo oggi. L’ho visto e mi ha toccato, ma questo non prova nulla a chi non abbia avuto la mia stessa esperienza. A questo punto potrei dire di esser stato “scelto” da una divinità che ha individuato in me una persona speciale. Ho la sua protezione (lo prova l’incidente) e la mia storia è confermata da altri testimoni, alcuni dei quali indigeni papua e altri ricercatori universitari belgi. Qualcuno dirà: va bene, hai visto Mae e ti ha toccato, e allora? Qualcun altro potrebbe dire: questo uomo è il prescelto, ascoltiamolo! Il mio atteggiamento nei confronti di questa storia coincide esattamente con la prima tipologia: ho visto Mae, mi ha toccato sulla fronte, e allora? Resta un fatto personale tra me e lui, niente di più. Ma se avessi voglia di far proseliti sono sicuro che ne troverei. Potrei cominciare a creare la chiesa di Mae, dando delle indicazioni su come si vive. Ovviamente direi che bisogna essere buoni e aver fiducia negli altri, allontanando i cattivi o, meglio, cercando di redimerli. E quale religione non dice questo? Io farei bene a credere in quello che dico. Ho visto Mae e mi ha toccato, e quindi sono in possesso di un’informazione che gli altri non hanno. Il mio credere in Mae non si basa sulla mia fede, ma sulla conoscenza che ho acquisito tramite i miei sensi. Gli altri possono credermi per due motivi. Possono conoscermi e aver fiducia in me come persona, basandosi sulla mia storia precedente, e quindi accettare come buone le informazioni da me fornite. Oppure possono credere a ciò che dico perché questo rafforza le loro convinzioni personali precedenti, magari prive di fondamento fattuale. Ora ci sono io a dire di aver vissuto ciò che essi non hanno vissuto. Non mi conoscono, ma hanno fede in me (e in Mae).

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gli occhi e mi addormentai. Al mio risveglio era tutto impresso nella mia memoria, e cominciai a controllare la stanza. Tutto in ordine, nessuno era entrato, la zanzariera era intatta, il pavimento aveva tutte le assi inchiodate, la porta era barricata dall’interno, dal tetto non si poteva entrare. Un sogno, quindi. Dopo una settimana sento due ricercatori belgi che parlano della sensazione di una presenza nella loro stanza. La cosa mi incuriosisce. Parlano dell’esperienza che avevo già avuto io. Di cui non avevo fatto parola ad alcuno, e di cui non avevo mai sentito parlare prima. Chiesi chiarimenti e il cuoco Anton, un vecchio uomo della medicina del villaggio sulla costa, Sissi Mangum, uscì dalla cucina e ci raccontò la storia di Mae. Mae era uno spirito che viveva sull’isola. Uno spirito buono, un uomo grande, più grande degli uomini della tribù, con spalle larghe. La descrizione corrispondeva al mio sogno. Senza dir nulla della mia esperienza, continuai a fare domande. Lo spirito, disse Anton, fa visita a tutti quelli che arrivano sull’isola, e alcuni lo sentono. Vuole conoscere le persone che entrano nel suo territorio. Una volta conosciutele, non si fa più vivo. È molto difficile vederlo. Anzi, nessun bianco lo ha mai visto. I bianchi sentono solo la sua presenza, e sono pochi gli indigeni che hanno visto la sua ombra. Anton era uno di quelli. A questo punto raccontai la mia esperienza. Anton era molto pensoso. Non gli risultava che un bianco prima di me avesse mai visto Mae, e non gli risultava che qualcuno (di qualunque razza) fosse mai stato toccato da Mae sulla fronte. È bene o è male essere stati toccati? È un segno di protezione, disse Anton. E da quel giorno cominciò a trattarmi in un modo diverso, con un rispetto che percepivo “differente” da quello con cui trattava gli altri. Ne parlò al villaggio, e anche gli altri, quando mi vedevano, mi sorridevano dolcemente. La sera rientravo nella mia capanna e salutavo Mae, dicendogli che ero contento di piacergli, ma che avrei preferito dormire invece che intrattenermi con lui. Non si fece più vedere.


Infor ma zione, conosce nza , ignora nza Rinunciare all’informazione significa accettare l’ignoranza. La fede, come la fiducia, si basa proprio sull’ignoranza, cioè sull’accettare come vera una cosa che non posso controllare, confidando sul fatto che chi me la propone abbia la

St oria e biologia E ora entrano in ballo la storia e la biologia. Gli uomini hanno sempre avuto fede-fiducia in qualcosa, è biologico. Dato che l’informazione è scarsa e la massa è ignorante, chi non ha né informazioni né tantomeno conoscenza ha sempre riversato la propria fede su persone ritenute “informate”. Come hanno utilizzato questa fiducia-fede? Di solito per trarne vantaggi. Esiste un motivo biologico anche per questo. Una caratteristica dei viventi, infatti, è quella di cercare sempre e comunque di garantire la sopravvivenza dei propri discendenti. Il che significa che, per me, i miei figli sono senz’altro più importanti dei figli degli altri. E farò di tutto per favorirli. I miei figli possiedono i miei geni e li terranno in vita dopo di me. Sono persino più importanti di me. Il successo dei miei figli è l’unica misura del mio successo, in biologia si chiama fitness e tutti gli organismi hanno un imperativo categorico: propagare i propri geni nelle generazioni future. Dopo i figli, si può creare una serie di gerarchie di importanza. Ad esempio, se decido di non far figli posso scegliermi dei figli spirituali. Oppure considero figli gli appartenenti alla stessa patria. I “geni” biologici posso diventare “geni” culturali. Man mano che il legame di parentela genetica o culturale si allontana, l’importanza dell’“altro” diminuisce. E man mano che si sale nelle gerarchie del potere (legato all’informazione su

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L’uomo è un animale sociale. La socialità si basa sulla fiducia. E più la struttura della società è complessa, più aumenta la fiducia e diminuisce la conoscenza, nonostante la dovizia di mezzi di “informazione” che la tecnologia ci mette a disposizione. Il progresso scientifico e tecnologico è orami talmente avanzato che non è possibile che una singola persona, oggi, possa avere conoscenza su tutti i fatti che la circondano e su tutte le cose che, bene o male, entrano nella sua vita. Milioni di persone volano con gli aeroplani senza avere alcuna conoscenza sui principi che rendono possibile il volo di un aereo. Essi mettono la loro vita in mano a persone che hanno conoscenze al riguardo, persone di cui hanno fiducia. Così come ci si fida nel permettere a qualcuno di prelevare pezzi dal proprio corpo, magari per sostituirli con pezzi omologhi prelevati da un cadavere. O anche solo ci si fida del meccanico che ci aggiusta la macchina. Nessuno di noi può essere contemporaneamente in possesso delle conoscenze necessarie per svolgere il ruolo di pilota di aeroplano, chirurgo, educatore, vigile urbano, e così via. Ci fidiamo degli altri. Continuamente affidiamo loro le nostre vite, quelle dei nostri figli. Il nostro comportamento sociale, quindi, è basato sulla fiducia. E sull’incompletezza dell’informazione sulle conoscenze disponibili alla collettività. Che differenza c’è tra fiducia e fede? La fiducia è “credere fermamente nell’affidabilità, alla verità, alla forza ecc., di una persona o di una cosa”. La fede può essere la stessa cosa (fiducia in una persona o cosa: “abbi fede in me” è sinonimo di “fidati di me”), ma può anche essere “credo in una dottrina religiosa”. Su quale conoscenza si basa una dottrina religiosa? Probabilmente si basa su informazioni tipo quelle che ho ricevuto da Mae. Cioè su informazioni irripetibili e inverificabili. Si basa su una conoscenza soggettiva e non su una conoscenza oggettiva. Mentre, ad esempio, effettuare operazioni chirurgiche si basa su informazioni ripetibili e verificabili. La nostra necessità biologica di fiducia in altri esemplari della nostra specie (basata sulla suddivisione dell’informazione e della conoscenza) può trasformarsi in una necessità di fede basata sull’abdicazione della necessità del controllo dell’informazione. In effetti l’informazione esiste, si tratta del libro scritto da Dio, o della scelta di Dio nei confronti di uno o più uomini. Poterci fidare ciecamente di qualcuno, attribuendogli capacità divine, ci rende liberi dalla necessità di conoscenza o, almeno, di informazione sulla conoscenza disponibile (cosa che richiede applicazione e fatica e che non può che essere incompleta) e ci soddisfa nella maggiore necessità biologica che abbiamo come animali sociali: aver fiducia in qualcuno.

conoscenza necessaria per giustificare la mia scelta. L’unico controllo che posso fare, a questo punto, è cercare di acquisire informazioni sui livelli di conoscenza di chi mi dovrei fidare. Conviene volare con Air Burundi o con Quantas? È meglio farsi operare da un medico laureato all’Università di Port Moresby o da uno laureato all’Università di Houston? In questo caso la nostra fiducia viene accordata sulla base di informazioni relative a chi sia in possesso di maggiore conoscenza, essendo anche in grado di dimostrarlo non con la parola ma con i fatti. Quale è la percentuale di riuscita di trapianti di cuore in una struttura ospedaliera rispetto a un’altra? Viste le statistiche, i dati di fatto, ho l’informazione per decidere dove farmi operare. La fede religiosa non si basa sui fatti ma sulla parola. Io non ho fede in Mae, per me non è una religione. Io non lo conosco attraverso le parole di qualcuno, io l’ho visto. E mi ha toccato. Se credete a quanto vi ho detto, voi diventate dei fedeli. Accettate di ignorare e credete alla mia parola di conoscitore di cose indimostrabili. Credendo in me, comunque, diventate come me, pur essendo ignoranti. O meglio, credete di essere diventati come me. La differenza permane, io ho la conoscenza, voi no. L’avete solo attraverso le informazioni che vi ho fornito io. La fiducia si basa su un’ignoranza riducibile attraverso un aumento di informazione sulla conoscenza possibile. La fede si basa su un’ignoranza irriducibile in quanto non è possibile ottenere informazioni che non si basino sulla fede stessa, per cui si giustificano le conseguenze con le premesse (credo che sia vero ed è vero perché ci credo).

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B iosociologia de lla fiducia e della fe de


Fa tt i non foste a v iv er com e brut i... Intanto occorre che l’informazione e il controllo della conoscenza siano il più diffusi possibile, in modo che la fede venga sempre più distinta dalla fiducia. In modo che non vi sia confusione tra ignoranza irriducibile e ignoranza riducibile. Nulla vieta l’accettazione di “verità” basate su ignoranza irriducibile (le verità religiose, vere solo per chi crede), ma quando queste “verità” entrano nel campo dell’ignoranza “riducibile” e confondono i tipi di ignoranza, allora le cose si fanno pericolose. La mancanza di dubbio è accettabile quando si considerano fenomeni di pertinenza dell’ignoranza irriducibile (la fede), ma trasferire i paradigmi della fede ad altri campi stravolge i rapporti logici e culturali della società. E la reazione di chi “sa che si può sapere” deve essere decisa nello smascherare chi pesca nel torbido. Purtroppo è più comodo avere fede, e pensare che l’ignoranza sia irriducibile, che concedere fiducia a chi cerca di ridurre l’ignoranza riducibile, acqui-

La com odità de ll’ignor anza Non vedo speranze di vittoria della conoscenza sull’ignoranza, vista la facilità e la comodità di essere e restare ignoranti avendo fiducia-fede in qualche leader-profeta. La conoscenza è faticosa, l’ignoranza è comoda. Certo, il bluff di chi carpisce la fede e la fiducia degli altri di solito viene smascherato. Ma di solito lo smascheratore non fa che prendere il posto dello smascherato. E il gioco ricomincia, spesso con un riequilibrio dei rapporti di forza. La democrazia, nonostante i suoi difetti, resta il miglior modo possibile di gestire la nostra socialità. In democrazia vince la maggioranza, ma se la maggioranza di una comunità è poco informata (come di solito accade), la sua scelta si baserà sulla fede-fiducia. Più è forte una democrazia, più si basa sulla fiducia in una conoscenza verificabile attraverso l’informazione, lasciando la fede basata sulla conoscenza non verificabile a una sfera completamente personale. Forse l’uomo (o almeno alcuni uomini) ha bisogno di religione per esprimere la sua socialità. Ma ha davvero bisogno di una Chiesa? Ma è giusto che chi ha fede cerchi di fare proseliti? E ancora: non è più comodo e facile seguire qualcuno dotato di solide certezze (basate sulla fede) piuttosto che uno afflitto da molti dubbi (basati sulla consapevolezza dell’ignoranza, pur se riducibile)? I coma ndam ent i di M ae Ho chiesto ad Anton il motivo per cui Mae avrebbe scelto di “rivelarsi” a me, accordandomi la sua protezione. Veramente si è un po’ distratto, perché sono caduto dalla bicicletta e quando mi sono rialzato ho sputato i denti davanti, ma è passato tanto tempo e magari Mae ora ha altro a cui pensare che proteggermi nelle mie cadute. Anton, a questa domanda, rispose che, nei miei contatti con i papua, avevo sempre dimostrato rispetto e curiosità per la loro cultura, senza dare l’impressione di studiarli come un fenomeno antropologico. Avevo un grande amore per la loro arte e avevo comprato i loro oggetti senza approfittare della loro povertà. Mi piaceva giocare con i bambini. Ero sempre allegro e sorridente, pur essendo una persona “seria”. Nella mia permanenza sull’isola non facevo altro che studiare, per capire come funziona la

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sendo “virtute e conoscenza” per uscire dalla condizione “bruta”. È più facile convincere avendo in mano un libro scritto da una divinità piuttosto che un libro scritto da un uomo. È per questo che, nonostante i ripetuti fallimenti, il cristianesimo continua ad avere proseliti mentre il marxismo ha perso quasi tutti i suoi “fedeli”. Marx può sbagliare, Dio no. Posso perdere la fiducia in Marx, se vedo che il suo libro non funziona. Ma non posso perdere la fede in Dio solo perché non riesco a seguire le sue regole. Eppure la mia mancanza di fiducia in Marx deriva proprio dal fatto che ho cercato di seguire le sue regole e non ci sono riuscito.

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cose conoscibili o inconoscibili), la massa ignorante (cui manca persino l’informazione sui tipi di conoscenza) perde importanza. Cose iniziate a fin di bene, come il cristianesimo o il socialismo, possono portare al genocidio gli indios del Sud America e all’inquisizione (sto parlando del cattolicesimo), ai gulag (sto parlando del comunismo teso alla realizzazione del socialismo: Unione repubbliche socialiste sovietiche), e ai campi di sterminio (sto parlando del nazionalsocialismo). Da notare che gli artefici dei gulag e dell’inquisizione erano convinti di fare il bene persino delle loro vittime. Mentre gli artefici dei campi di sterminio rimuovevano i diversi, quelli che erano in competizione con i rappresentanti della “razza eletta”. Per quanto una fede-fiducia possa essere chiesta a fin di bene, la storia ci mostra che essa viene spesso carpita da chi dice di voler far qualcosa e poi ne fa un’altra. Io sono sicuro di me stesso. So che se, per assurdo, mi imbarcassi nella costituzione di una religione basata sulla scelta che Mae ha effettuato nei miei confronti, effettuerei scelte da me ritenute giuste. E sono sicuro che farei del bene. Ponendo che io sappia cos’è bene e cos’è male (cosa tutt’altro che facile). Io morirò. La mia religione potrebbe non morire con me. Ci potrebbero essere dei continuatori. Se questi operano con onestà e bontà, le cose procedono “bene”. Se anche uno solo dice di fare come gli altri facendo però l’opposto, questo si troverà in grande vantaggio. Avrà la fiducia (basata sulla fede) degli altri e la potrà usare per i propri scopi. Questo prima o poi si verifica. Questo pericolo viene aggirato, dai propugnatori della fede, dicendo che l’uomo è debole e che la fede non può essere messa in dubbio solo dal cattivo comportamento di qualcuno. Ma la fede, per definizione, non può essere messa in dubbio. E quindi questo rende la via ancora più facile per il “malvagio” che si trova a confrontarsi con i “buoni”. Soprattutto se non si rivela come tale. E chi mai dice di essere malvagio? Ci sono soluzioni? O siamo destinati a essere degli ignoranti fiduciosi e fedeli?


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natura. Stava sempre in cucina, Anton, e parlava uno strano pidgin, ma mi teneva d’occhio se aveva notato tutte queste cose. Potrei scrivere dei comandamenti da queste caratteristiche individuate da Anton (il mio primo papa?). Eccoli qua, e non sono dieci. Resta sempre bambino nel tuo spirito. Sorridi sempre, ma sii serio dentro. Cerca di capire gli altri, conoscendoli. Non pensare di essere migliore di chiunque altro. Cerca sempre di essere il migliore. Rispetta l’ambiente che ti circonda. Segui la conoscenza. Combatti l’ignoranza. Parla senza ambiguità. Pensa sempre a quello che dici. Evita di dire quello che pensi se questo può ferire un innocente. Quando pensi a Mae salutalo, ti sta sorridendo. Non aspettarti che Mae risolva tutti i tuoi problemi, ha altro da fare.

Lo so, sono scritti al maschile, e questo farà innervosire alcuni esemplari femminili della nostra specie, ma questi sono i miei comandamenti, valgono per me, e io sono un esemplare maschile. Gli esemplari femminili possono sempre modificare i comandamenti al femminile. At eo o agnostico? All’inizio di questa storia ho detto di essere ateo. Non è vero: sono agnostico. Credo a quello che vedo, che posso sperimentare. Anche se mi dà fastidio ammetterlo, io non posso negare la mia esperienza con Mae. Ma non posso pretendere che altri agnostici come me mi credano. Non mi interessa fare una religione, non mi importa che altri seguano o no i comandamenti che Mae mi ha suggerito. Sono i miei comandamenti. Non voglio fare proseliti. Però ho capito come potrebbe essere nata la religione. Magari c’è davvero qualcosa oltre quello che possiamo sperimentare con la scienza. Per me si chiama Mae, ed è una cosa bellissima e rassicurante. Ma se guardo come altri Mae sono stati usati, come viene usata la religione da sempre, la cosa mi spaventa. Mi tengo la mia verità su Mae e preferisco insegnare il dubbio. Un altro evento che ha segnato la mia vita, tanto importante quanto l’amicizia con Mae, è stata l’amicizia con Frank Zappa. Frank era un musicista, scriveva canzoni e componeva musiche. In una sua canzone ha scritto: Informazione non è conoscenza Conoscenza non è saggezza Saggezza non è verità Verità non è bellezza Musica è il meglio.

Marc Aug é Una scommessa sull’avvenire (dialogo con Mimmo Pesare)

M.P. Professor Augé, la ricerca dell’antropologia e della sociologia negli ultimissimi anni sembra essere caratterizzata da una attitudine all’eterodossia metodologica che procede servendosi di approcci “a raggio corto”, per meglio rispondere alla velocità e alla progressiva mutevolezza dei fenomeni collettivi del tempo presente. Sulla linea di tale direzione, si incontra spessissimo una tendenza narrativa a indagare i fenomeni del mondo e dell’umanità servendosi di coppie di termini, spesso dicotomici, che funzionano quasi come archetipi o anche come lenti attraverso le quali il senso della contemporaneità viene interrogato nelle sue analogie e nelle sue contraddizioni. Penso a coppie di termini che anche lei ha usato nei suoi lavori, come vicino/lontano, interiore/esteriore, locale/globale, luogo/nonluogo. All’interno di questo gioco di diadi interpretative, il presente numero dei «Quaderni di Comunicazione» vuole portare in evidenza le questioni che emergono e che stanno intorno alla coppia fiducia/sfiducia, sicurezza/insicurezza. Lei pensa che il dibattito attuale possa avvantaggiarsi del contributo che la riflessione su questa coppia di termini può suggerire? M.A. Sicuramente. In effetti, credo che, anche in questo caso, il concetto di coppia sia necessario. Il motivo della sua necessità è evidente: siamo in un’epoca in cui il positivismo del progresso e della globalizzazione sono divenuti una favola; non si può nutrire una fiducia cieca nell’evoluzione del pianeta perché tale fiducia [confiance, N.d.T.] cieca, quando diventa l’atteggiamento dominante, non considera i rischi delle violenze, delle illegalità, delle ideologizzazioni dei conflitti del nostro quotidiano, senza parlare del rischio di una regressione ideologica che essa comporta. Quindi, non si possono chiudere gli occhi e dire “tutto va bene”. Tuttavia, più che di fiducia parlerei di vigilanza, anche perché se oggi rinunciamo alla speranza della fiducia, non resterebbe più niente. Perciò credo che, almeno come dovere riflessivo da parte degli intellettuali, si potrebbe spostare la coppia interpretativa fiducia/sfiducia verso un’altra coppia,


M.P. In uno dei suoi ultimi lavori pubblicati in Italia, Perché viviamo? [2004, N.d.R.], il termine fiducia si incontra abbastanza di rado e mai in senso programmatico, tuttavia sembra essere sempre presente. Nel saggio, infatti, lei tenta, tra le righe, di fornire una soluzione ottimistica, anche se disincantata, alla domanda che l’Occidente si pone da secoli. M.A. Sì, sebbene il tentativo sia più quello di salvare un senso di scommessa sull’avvenire. Vede, l’impianto del libro poggia fondamentalmente su due piani di significato. Primo piano: dal punto di vista emozionale, mi sembra che il sentimento dominante nel mondo in cui viviamo sia la scomparsa di un investimento [engagement, N.d.T.] sul futuro, se non, addirittura, la scomparsa di finalità; secondo piano: da un altro punto di vista, quello legato alla sfera del progresso scientifico e informazionale, noi procediamo molto velocemente nel campo della conoscenza. Ecco, allora, che emerge un paradosso abbastanza marcato al cui interno il progresso della conoscenza e l’incertezza sulle finalità sono due estremi evidentemente problematici; come dire, gli uomini hanno bisogno di essere rassicurati e quindi c’è bisogno di un supporto [fortitude, N.d.T.] che la scienza, però, non è in grado di fornire in quanto alla base della scienza non vi è un principio “di certezza”. Essa, per sua costituzione, avanza verso l’ignoto e questa non è una posizione comoda: per la vita delle collettività contemporanee c’è bisogno di certezze per organizzare la società nella quale vivono i loro membri. Dunque, se la conoscenza va verso lo sconosciuto, io credo che il problema di fornire a essa il ruolo di rassicuratrice della società sia essenzialmente un problema pedagogico: tutti gli sforzi del mondo dell’educazione, dalle scuole elementari in poi, dovrebbero essere diretti a far accettare alla collettività, che ha bisogno di certezze e di organizzazione, l’idea del progresso saldamente unita a quella dello sconosciuto. Questo le apparirà tanto più evidente nel momento in cui le chiarirò che c’è una piccola osservazione linguistica da fare in merito al libro di cui mi ha chiesto. Esso infatti ha avuto in Italia una buona traduzione, tranne che per il titolo: l’originale, in francese, non è Perché (pourquoi) viviamo?, ma Per che

M.P. Quello che è accaduto qualche mese fa nelle banlieues parigine sembra evidenziare, oggi, lo stretto rapporto tra consumo e resistenza. Lei crede che sia possibile analizzare i luoghi urbani contemporanei in base al grado di sicurezza sociale che scaturisce da questo rapporto? M.A. Credo che i giovani delle banlieues abbiano cercato di mettere a ferro e fuoco la capitale perché hanno la sensazione di non accedere al mondo del consumo. Vede, paradossalmente, non è una rivolta ideologica contro il consumo ma per accedervi! È una rivolta veicolata dall’immagine, dalla televisione. Non si tratta di una rivolta di ordine fondamentalmente politico o contro il modello sociale dominante, dunque. Possiamo anche parlare di resistenza ma le soluzioni sono più di ordine pratico che di ordine ideologico; per esempio si dice a volte che il modello di integrazione sociale francese sia in scacco. Io non lo credo: non è che il modello sia in scacco, semplicemente non è applicato. Il piano di analisi, in altre parole, non è quello teoretico dell’organizzazione statale, ma quello pragmatico dell’applicazione di un modello organizzativo alla società stessa. Non è il modello a dire che bisogna mettere gli immigrati nei ghetti, il modello dice che bisogna scolarizzarli, come tutti gli altri, ma nella realtà ci sono dei quartieri dove c’è questa segregazione di fatto. Il fallimento di tutto il processo di integrazione si gioca su questo gap tra teoria e pratica. Questo è l’elemento preoccupante e c’è bisogno di soluzioni tecniche. M.P. Professore, di recente, nelle sue relazioni di convegno, ha parlato a lungo di “utopie urbane”. Nella sua analisi, il fatto che la globalizzazione abbia incrementato esponenzialmente una sorta di coscienza planetaria, ovvero la consapevolezza di essere tutti membri, potenzialmente attivi, del pianeta, ha portato, come conseguenza, anche una coscienza sociale dolorosa, una coscienza, cioè, sempre più evidente del discrimine tra le grandi ricchezze e le grandi povertà degli abitanti del pianeta. Questa differenza esacerbata dai processi di globalizzazione potrebbe essere addolcita da un modo di immaginare la “città-mondo” come utopia. Utopia non nel senso di non-luogo (ou-topos) ma nel senso di buon-luogo, all’interno del quale la storia dei suoi abitanti sia fondamentale almeno quanto le loro pratiche di consumo. In quest’ottica, la faccenda sarebbe quella di invertire la formula di Fukujiama sulla “fine della storia”. Lei crede, dunque, che l’Occidente abbia ancora fiducia nell’utopia? M.A. Purtroppo l’utopia non è per niente un concetto alla moda. Si dice che le “grandi narrazioni” siano finite, e questo è un fatto. Ma io inserisco

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(pour quoi) viviamo?; la domanda è: per cosa viviamo, cioè verso cosa è orientata la nostra vita, verso quali finalità è indirizzata? Non pongo quindi la questione filosofica del perché, che non mi interessa, e questo è molto importante per inserire il libro nella sua cornice più adeguata. Quello che mi interessa non è fornire una risposta metafisica al senso della vita ma analizzare il pensiero del tempo immanente, qui, sulla Terra.

Marc Augé

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quella formata dal termine vigilanza [vigilance, N.d.T.] e dai suoi contrari, il senso dei quali ruota su per giù sul concetto di distrazione o di disattenzione. La vigilanza è una disposizione della mente caratterizzata dall’attenzione verso le cose e dalla volontà di avanzare nelle cose, ed è anche la costanza e la fermezza d’animo. Credo che dobbiamo diffidare dell’eccessivo relativismo. In tempi come questi, credere che ognuno abbia la sua verità e che tutte si possano incontrare felicemente può essere pericoloso, almeno in senso politico. Io non credo che tutte le posizioni culturali e ideologiche del mondo siano sullo stesso livello, ma che ci siano delle dimensioni più auspicabili e delle urgenze sociali più importanti di altre.


M.P. In questo senso probabilmente Lyotard non è stato capito fino in fondo o è stato equivocato, visto che il suo nome viene spesso associato a Fukujiama e alle frange di filosofi neocon che avrebbero postulato la fine della ragione, del pensiero, di tutto. Non crede che La condizione postmoderna fosse un tassello di una visione del mondo più complessa e che gli esiti delle sue riflessioni siano state volutamente oggetto di mistificazioni e di banalizzazioni? M.A. Assolutamente sì! Lyotard aveva una concezione molto sottile delle cose, era una mente acribica. Ha parlato della condizione postmoderna ma certamente non idealizzava il passato o le società primitive come molti suoi detrattori hanno sostenuto. Tutta la sua produzione, viceversa, è attraversata da un principio e da un’analisi filosofica e storica assolutamente indice di tolleranza e di libertà intelligenti, ciò che lui ha chiamato differend [Il dissidio, 1988, N.d.R.], ovvero l’idea secondo cui, in base al punto di vista dal quale si guarda il mondo, non si giudicano gli avvenimenti nella stessa maniera. In quest’ottica, la rivoluzione francese per alcuni rivoluzionari è un ideale universale, invece per un conservatore, con l’avvento di Napoleone diventa simbolo dell’imperialismo francese, tanto per fare un esempio molto banale. Ci sono sempre almeno due aspetti insieme. Se fate attenzione a quello che succede nel mondo oggi, si ha l’impressione che ci sia qualcosa che è nell’ordine del differend generalizzato. Io non credo, chiaramente, che Bush sia il simbolo della libertà, al contrario, ma non si può neanche dire che i paesi che lui attacca siano dei simboli di democrazia. Forse attraverso tutte queste violenze, questi punti di vista interessati, parziali, ingiusti, qualcosa nel breve periodo sembra suggerirci che tutto il racconto della contemporaneità ha perso ogni senso.

M.P. Professor Augé, torniamo al problema della sicurezza/insicurezza della contemporaneità, magari cercando di metterla in relazione all’analisi sullo spazio, tematica che le è molto familiare. Georges Perec ha scritto Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti (…). Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo1.

In queste righe lo spazio come esperienza interna viene definito problematico, un dato instabile e precario, finanche nella sua relazione con lo spazio esterno, quello oggettivo, geografico, quello fruibile, ma anche quello eterotopico dei nonluoghi e delle utopie urbane che lei studia. A suo modo di vedere, la “sicurezza antropologica” dello spazio e dei luoghi, può essere rintracciata e ri-definita nella giusta armonizzazione tra spazio interno e spazio esterno? M.A. Uhm… mi pare un buon modo di presentare le cose! È evidente che tenendo conto delle lezioni degli antichi, la vera libertà è interiore ma bisogna aggiungere che non esiste l’interiorità assoluta: l’identità individuale si costruisce attraverso la relazione con l’altro. Non si può immaginare un individuo senza l’altro, senza alterità. Possiamo utilizzare questa formula: non si è mai soli, anche quando fisicamente siamo da soli ci sono i ricordi, i progetti, le speranze… la solitudine assoluta non è concepibile. La solitudine assoluta non si può immaginare, forse è come immaginare Dio, ed è per questo che Dio ha creato il mondo. Lo spazio interiore è uno spazio assolutamente necessario ma non è sufficiente dal momento che esiste l’altro, cioè, anche in senso fisico-geografico, c’è comunque un minimo spazio “da creare” dove l’altro può avere il suo posto così come io ho il mio. Dunque, in effetti, non si può separare lo spazio interiore da quello esteriore, sono in rapporto costante nello stesso modo in cui lo sono i termini della coppia “l’uno/l’altro”. Ecco il perché della assoluta difficoltà di armonizzare i due spazi, quello interiore e quello esteriore; la sicurezza dello spazio è il frutto più o meno riuscito di questa relazione e si costruisce di volta in volta. Questo ha delle conseguenze pratiche: è difficile vivere in uno spazio ostile, pensiamo alla prigione, dove la natura dello spazio esteriore distrugge lo spazio interiore. In effetti la soluzione di una “riuscita fiducia” nello spazio e nei luoghi è data proprio dalla riuscita della gestione di tale relazione. M.P. Quindi, come spesso emerge dai suoi scritti, l’oggetto dell’antropologia continua a essere “l’altro”?

79 Una scommessa sull’avvenire

Il problema è che la storia si sviluppa sul lungo periodo, mentre le vite individuali sono brevi.

Marc Augé

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nel concetto di utopia quello che lei inserisce nel concetto di fiducia, cioè la consapevolezza che se non ci avviciniamo a un’idea o a un progetto di ciò che vorremo fare per il pianeta, allora non c’è più senso a farne parte. Abbiamo la sensazione che su molti piani le cose non vadano bene ma, a ben vedere, se guardiamo la realtà sociale da un altro punto di vista, forse possiamo ricavare una lettura ottimistica che può sembrare paradossale viste le morti, le violenze, le superstizioni degli ultimi decenni. Ancora una volta l’empasse si gioca tra la teoria e la pratica: nella definizione internazionale dei diritti dell’uomo, la validità e la legittimità teoretica di essi è accettata da tutti, anche da coloro che non li rispettano. Esiste, diciamo così, almeno un obbligo concettuale. Da esso, probabilmente, nascono i movimenti di resistenza, anche oggi. La validità teoretica dei diritti sociali è oggi un dato acquisito e nonostante i lati più beceri della globalizzazione non possiamo idealizzare il passato: ci sono stati, nel frattempo, l’uguaglianza dei sessi, la denuncia delle torture, gli sviluppi della democrazia e della conoscenza in generale. La coscienza del pianeta non è soddisfacente, le istituzioni sono insufficienti ma c’è qualcosa che accade, che si fa. Ecco perché non sono completamente d’accordo con la formula di Fukujiama sulla fine della storia: semplicemente non credo che questa sia una formula definitiva...


M.P. Professore, mi pare che, negli ultimi anni, la produzione scientifica delle scienze sociali e la produzione delle arti figurative e visuali, del cinema, dell’architettura, siano accomunate dalla tendenza, consapevole o meno, a un rilancio forte del tema dell’abitare. Secondo lei il problema dell’abitare, oggi, si avvia a diventare una sorta di topos della contemporaneità? E attraverso quali caratteristiche si renderebbe evidente una sua pregnanza? M.A. Il problema dell’abitare è assolutamente un problema centrale nella ricerca antropologica ma ha ragione lei quando afferma che sta uscendo fuori dai suoi confini per investire ogni campo della riflessione. Da sempre le modalità di residenza dell’uomo sono simbolizzazioni, metafore che parlano della società e dell’uomo stesso. L’abitare in un certo senso è la “percezione del luogo antropologico”. Tuttavia oggi questo problema bisogna prenderlo in considerazione in relazione all’incremento demografico, oltre che all’evoluzione della società. Quanti siamo oggi nel mondo? 6 miliardi, 7? Questo è un problema! Vede, anche questo dato, freddamente statistico, modifica il rapporto tra spazio interiore e spazio esteriore, il tema filosofico di cui parlavamo poc’anzi. L’abitare, in questo siamo d’accordo, non è solo un verbo, è un luogo liminare, un assunto intermedio tra spazio interiore e spazio esteriore. La persona si progetta e si pensa nell’ambiente più prossimo, persino nel caso dell’abitacolo dell’automobile, lo spazio più piccolo di relazione con la società. Ma l’abitare è anche il luogo socio-filosofico della più grande ineguaglianza umana: ci sono persone che hanno grandi appartamenti, residenze moderne, e ci sono persone che vivono per strada, gli SDF [sans domicile fixe, N.d.T.]. Negli anni Ottanta li chiamavano “i nuovi poveri”... adesso non li chiamano più nuovi perché sono poveri già da tanto tempo! È, cioè, sufficiente prendere a metafora questo tema dell’abitare per comprendere come esista una disuguaglianza assoluta di diritti economici e di dignità umana tra i due estremi delle classi sociali. Anche in questo l’abitare si avvia a diventare un topos etico. Credo che stia nascendo e si stia sviluppando una coscienza tra i professionisti dell’urbanesimo e della costruzione, una coscienza che si esplica praticamente a un ritorno all’essenziale.

M.P. Per finire: sebbene lei, professore, abbia condotto interessanti ed eterogenei studi, dall’antropologia delle pratiche quotidiane, al potere, al paganesimo, al turismo, il suo nome è associato indissolubilmente a quello dei nonluoghi, definizione fortunata e titolo di un suo saggio del 1992. Da allora è possibile registrare un cambiamento della fenomenologia dei nonluoghi o questi 14 anni hanno mantenuto le loro caratteristiche in maniera organica e cristallizzata? M.A. La ringrazio per avermi fatto questa domanda. Dunque, se per nonluoghi designamo empiricamente gli spazi di comunicazione, circolazione e consumo, bisogna dire che essi si sviluppano in maniera talmente accelerata che il mondo stesso oggi è diventato un nonluogo. Tuttavia, negli ultimi tempi, la mia riflessione è consistita nell’interrogarmi sull’uso che possiamo fare di questo concetto. Del resto, quando una categoria attira così tanto l’attenzione, c’è bisogno che continui a indicare qualcosa... ecco perché sono tornato sulla definizione iniziale. Diciamo allora che oggi i nonluoghi indicano, secondo me, uno spazio dove si ha la sensazione che le relazioni sociali (regole, codici, procedure ecc.) siano perfettamente “leggibili”. Il perfetto nonluogo è quello dove le relazioni sociali sono tutte completamente decifrabili attraverso l’osservazione. Ma in questi luoghi non c’è libertà, la residenza è assegnata. E da questo punto di vista mi è sembrato che quei luoghi che, in qualche modo, percepiamo come “parentesi aggregative”, ad esempio aeroporti, supermarket, mall, siano luoghi dove non si possano leggere le relazioni sociali simboliche: ci sono dei codici che vi indicano ciò che dovete fare, come e dove entrare ecc; sono degli spazi dove la condizione normale è quella di essere soli. Ed è per questo che li ho chiamati nonluoghi. Ma non penso che si possa fare una lista al cui interno ci sono i nonluoghi da una parte e i luoghi dall’altra, come spesso concludono, banalizzando, alcuni dei miei

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Se è vero, infatti, che il mondo si stia preparando a diventare un’unica cittàmondo, ebbene, sarà una città che bisogna amministrare ed è un problema non di poco conto, in quanto ci sono degli aspetti tecnici da prendere in considerazione; pensiamo all’architettura funzionalista degli anni Trenta, che era il più razionale possibile, ma nello stesso tempo la dignità di ogni individuo era frustrata dal controllo di spazi infinitesimali e angusti. Credo che questo sia davvero un aspetto essenziale, sotto tutti i punti di vista. Lo vediamo anche nei conflitti attuali tra palestinesi e israeliani, è sempre un problema di frontiere, di territori e anche un problema interno rispetto al modo di abitare la propria storia. Quindi, a partire da queste riflessioni sull’abitare, possiamo descrivere la situazione nel mondo: l’abitare è anche un modo di leggere i conflitti. Pensiamo anche alla situazione dei rifugiati, dei profughi, delle periferie e del Sud del mondo. Nel francese antico, per definire i senza fissa dimora, i vagabondi, si diceva senza fuoco (focolare), né luogo. Questo è l’abitare: non basta il luogo, occorre anche il fuoco per riscaldarlo!

Marc Augé

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M.A. L’oggetto dell’antropologia è la relazione tra l’uno e l’altro. E la relazione tra gli uni e gli altri è presso gli altri [chez les autres, N.d.T.]. Penso che questa sia una eredità dello strutturalismo che ha ben riflettuto sul fatto che ciò che studiamo è sempre la relazione. Tuttavia io non procedo, nei miei studi, riferendomi a modelli codificati dalle ricerche degli strutturalisti o degli storicisti o degli esistenzialisti. Probabilmente, per ben comprendere il mondo attuale, è necessario elaborare un percorso di ricerca che riconsideri insieme esistenzialismo, strutturalismo e storicismo.


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critici; se torniamo su questa nozione, ed è questo il passaggio sul quale ho insistito negli ultimi anni, possiamo vedere come i due aspetti siano legati: questa coppia permette di leggere il grado di socializzazione in uno spazio. Di contro mi è sembrato che a partire da questa distinzione si possa andare verso altre nozioni, presentate anche da altri autori o verso coppie di termini alla moda – ne discutevamo all’inizio –, tipo globale/locale, tutti modelli molto carichi ideologicamente. È interessante opporre a questi la nozione di luogo/nonluogo, oppure le categorie di Paul Virilio interiore/esteriore, in riferimento al sistema globale che mi sembrano essere coerenti rispetto al discorso che abbiamo intrapreso. Si potrebbe dunque cercare di leggere la tensione tra luogo e nonluogo a partire da questa prospettiva: la ville-monde [citta-mondo, N.d.R.] è un luogo mentre il mondo-città è una rete.

Mimmo Pesare La sicurezza dei luoghi. Abitare come aver-cura Esco dalla mia casa. Mentre sono fuori, qualcun altro entra nella mia casa vuota e ci vive. (…) Ora che sono un fantasma non ho più voglia di cercare una casa vuota. Ora sono libero di andare nella casa in cui vive la mia amata e darle un bacio felice. Nessuno sa che sono lì. Tranne la persona che mi aspetta… Qualcuno arriva sempre per la persona che aspetta… Arriva di sicuro… dalla persona che aspetta… Kim Ki-duk, La casa vuota

(Traduzione di Cosimo Degli Atti)

No te 1 G. Perec, 1974, Espèces d’espaces, Paris, Éditions Galilée; trad. it. 1989, Specie di spazi, Torino, Bollati Boringhieri.

Il ritorno. Riuscita. Uscita ed entrata senza errore. Amici vengono senza macchia. Serpeggiante è la via. Al settimo giorno viene il ritorno. Propizio è avere dove recarsi. I Ching, Il libro dei mutamenti, “24. Fu – Il ritorno”

La m e ta fora a tt iva : una le tt ura e rm ene utica Il tema della casa e degli alloggi costituisce, all’interno dell’analisi delle discipline umanistiche, una sorta di trama eterogenea, rizomatica e quasi sempre poco organica. Probabilmente la ragione di questa apparente mancanza di univocità tematica e della disseminazione di significati parziali che la riflessione sugli spazi dell’abitare lamenta, risiede, in qualche modo, nella difficoltà di inserire un oggetto dalle implicazioni così polimorfiche all’interno di un quadro teorico e di una metodologia disciplinare ben identificabili. Mai come in questi anni di paradossale dicotomia tra le violente lotte per il riconoscimento di spazi identitari e lo straniamento emozionale che la rete e le nuove tecnologie hanno generato, sembra ineludibile la riflessione sul concetto di abitare. Benjamin scriveva che abitare significa lasciare impronte, e questo aforisma pare attuale e valido universalmente, a condizione che si rifletta in maniera ulteriore sul peso che le impronte dell’umanità postmoderna posseggono. Probabilmente, infatti, la leggerezza connaturata ai processi di soggettivazione che caratterizzano le più recenti modificazioni del sentire umano, si rispecchia nella leggerezza allegorica che i suoi passi hanno, rispetto alla “profondità di affondo” delle impronte precedenti. Fuor di metafora, se il dibattito delle scienze sociali degli ultimi dieci anni pare convergere verso l’urgenza della riflessione sul rapporto tra umanità


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zazione culturale e senso di sradicamento, ma l’utilità scientifica di un discorso sull’abitare che non sia delineato a reparti stagni nelle riflessioni delle singole discipline, può trarre linfa e corroborazione dalla mistione dei punti di vista sull’argomento, in modo da provare a consegnargli una costellazione di significati propria e, in qualche modo, anteriore. Personalmente mi sembra opportuno cominciare da una proposta di metodo e da una definizione programmatica: il concetto di abitare è da considerarsi fondamentalmente come una “metafora attiva”. Detto in altri termini, l’abitare, prima di esplicitarsi come concreta pratica antropologica dell’uomo, nasce all’interno dell’immaginario collettivo, come segno-costituente della vita umana. Per segno-costituente possiamo considerare un archetipo, non nell’accezione junghiana di simbolo primordiale attorno al quale l’inconscio collettivo organizza le reazioni degli inconsci individuali, ma nell’accezione di Gilbert Durand, ovvero di un simbolo dell’immaginario culturale che imposta le strategie cognitive umane. La definizione di metafora attiva con la quale si propone di interpretare il concetto di abitare, in questo senso, non sarebbe da considerare né come Toposforschung, cioè come indagine sistematica dei luoghi retorici attorno ai quali si è coagulata la scrittura e la descrizione delle arti e della letteratura, né tanto meno come anello della cosiddetta metaforologia di Hans Blumenberg, ovvero come passaggio di una serie di interpretazioni sulla storia del mondo alla luce delle grandi svolte culturali e tecnologiche attraverso la decodifica di determinate figure simboliche. Essa potrebbe essere meglio chiarita attraverso la spiegazione della metafora che Derrida offre in Margini della filosofia (e in particolare nel saggio La mitologia bianca, 1971). Nella descrizione del filosofo francese, la metafora viene descritta come “lo strato profondo e dimenticato del concetto”. Metafora attiva, allora, sarebbe lo strato profondo e dimenticato del concetto che attivamente organizza, a posteriori, il comportamento umano, in modo più o meno consapevole. Nessuna metafisica, dunque, come a una lettura veloce e poco attenta della definizione di Derrida si potrebbe equivocare: si tratta di una rappresentazione che racchiude lo “strato profondo del concetto”, sì, ma che regola pragmaticamente l’esistenza umana. Tuttavia all’interno della proposta-contenitore del concetto di abitare come metafora attiva dell’esistenza umana, che rimanderebbe a tutta una legittimazione teorica molto più complessa e di cui qui mi limito ad accennare propedeuticamente lo sfondo per evidenti ragioni di spazio, vogliamo occuparci, nel presente lavoro, di una soltanto delle sue attribuzioni fondamentali: l’abitare come “metafora attiva dell’aver cura”. In questa ulteriore specificazione, del resto, tra i concetti di abitare e di cura si frappone automaticamente il termine medio di luogo. Se infatti l’abitare è interpretabile come l’azione antropologica fondamentale dell’uomo (come vedremo più avanti) e la cura sarà ricostruita come modalità e categoria attraverso cui l’abitare si esplica, i luoghi (antitesi degli spazi) sono evidentemente il “complemento oggetto” della proposizione che l’abitare coniuga e la cura declina.

Mimmo Pesare

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e luoghi delle identità, probabilmente la ragione sta nel fatto che l’età della tecnica ha alleggerito e, se possibile, smaterializzato la relazione dell’uomo con lo spazio. Dunque, dopo una trentina d’anni in cui l’Occidente ha vissuto una sorta di ebbrezza positivistica per le mutazioni antropologiche che il progresso della tecnologia ha determinato, il recente emergere di questo rinnovato senso di disancoramento sembra tuttavia riportare alla ribalta la spaesatezza della contemporaneità; almeno quanto negli anni Cinquanta e Sessanta i filosofi cominciavano ad avvertirne l’importanza. È legittimo quindi sostenere che le nuovissime interpretazioni del concetto di spazio e delle sue modificazioni urbane, sebbene legate strutturalmente a spiegazioni mediologiche, posseggono un appeal del tutto autonomo che, negli ultimi anni, sta conquistando il cuore della ricerca di studiosi sempre più eterogenei. Capita allora di incontrare la riflessione sul concetto di abitare all’interno di saggistica filosofica, pedagogica e sociologica, ma anche negli scritti di architetti, di designer, di geografi, di storici, di fotografi e performer visuali, di artisti ecc. Questa considerazione, allora, porterebbe a pensare che le analisi modaiole dei sociologi che negli ultimi anni hanno fatto di tutto per consegnare al pubblico e alla propria comunità scientifica una ermeneutica del tempo presente come determinato essenzialmente dai media, siano quanto meno poco esaustive. Mi pare infatti che una eccessiva ancillarità sia stata assegnata a una serie di questioni filosofiche e antropologiche fondamentali1 rispetto alla più recente mediologia per spiegare come il cittadino postmoderno abbia trasformato il proprio modo di stare-al-mondo. Sembra insomma che la tarda modernità, che Buber (1948) definiva come un’epoca senza-casa (Heimatlosigkeit), un’epoca, cioè, in cui l’uomo non si sente più a suo agio come abitante del mondo a causa di un inestirpabile senso di sradicatezza interiore, sia paradossalmente alla ricerca di un antidoto a essa. L’uomo postmoderno, alla deriva intorno a baumaniani amori liquidi e a meyrowitziane zolle di sicurezza oltre il senso dei luoghi, cerca, se non la soluzione, almeno la comprensione di quello che, già nei tardi anni Cinquanta, Heidegger definiva il problema fondamentale della nuova antropologia, ovvero, la “crisi dell’abitare”. Che cos’è, allora, questa “crisi dell’abitare”? Ma soprattutto: è possibile, oltre che urgente, pensare il concetto di abitare non solo come astrazione ideale di una delle caratteristiche degli esseri viventi, ma fornirgli la dignità di categoria che interpreti una vera e propria azione comunicativa umana? Ebbene, sembra che la dispersione e la mancanza di organicità che finora ha contraddistinto la riflessione sull’abitare dipenda dal fatto che i singoli sforzi degli autori che vi si sono cimentati si sono riuniti all’interno delle discipline che, in un modo o nell’altro, hanno a che fare strictu sensu con queste tematiche. È accaduto allora che si è scritto sui rapporti tra filosofia e architettura, sulla fenomenologia delle abitazioni, sulle pratiche abitative in certa antropologia strutturale, sul rapporto tra identità etniche, globaliz-


Martin Heidegger è un filosofo che troppo sbrigativamente si associa di primo acchito all’ontologia e al concetto di tempo. Certamente chi vuole provare a imbastire analisi sulle tematiche degli spazi e dei luoghi, non si sente esattamente a suo agio a partire dalle considerazioni del filosofo tedesco. Eppure, per quanto Essere e tempo (1927) sia uno dei testi che hanno rifondato il Novecento filosofico e rappresenti un punto di riferimento ineludibile per lo studio dei rapporti tra fenomenologia ed esistenzialismo, già dalle sue pagine intrise della formidabile trattazione del rapporto tra l’esistenza umana e il tempo, fanno capolino una serie di tasselli che comporranno – unendoli a quelli di tutta la produzione successiva – il mosaico del suo latente discorso sulla spazialità; tant’è che Peter Sloterdijk (2001, p. 16) afferma che “Solo pochi interpreti di Heidegger sembrano aver capito che sotto il sensazionale titolo programmatico di Essere e tempo si nasconde anche una trattazione potenzialmente rivoluzionaria di essere e spazio”. In che senso rivoluzionaria? Probabilmente Sloterdijk allude al radicato ostracismo verso quella che, con beneficio di inventario, potremmo definire laicizzazione delle filosofie dell’esistenza, che già negli anni Sessanta si manifestava come metodologica nelle correnti strutturaliste francesi. In altri termini la propensione a immaginare le grandi domande sull’uomo e sul mondo come aventi un carattere immanente, terreno, carnale, non metafisico-trascendentale e soprattutto in via di progressiva definizione, è rimasta un fantasma contro il quale un paio di generazioni di studiosi hanno combattuto aspramente, anche con l’aiuto del pensiero ecclesiale. Ancora oggi, del resto, nelle cordate accademiche più reazionarie e meno evolute la domanda sul dove appare meno nobile di quella sul chi, e questa paradigmatica rappresentazione alimenta le proprie radici in una concezione dicotomica (per non dire manichea) della speculazione filosofica, che si dividerebbe tra tempo/logos/anima/presenza e spazio/scrittura/corpo/assenza, come è possibile rendersi conto dalle opere di Deleuze e Guattari, ma anche di Foucault, di de Certeau, di Derrida e di Lacan.

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Heide gge r: costr uir e, ab it ar e, cur ar e

Lo stesso Heidegger – conforme figlio del suo tempo – ha sempre soltanto accennato a queste tematiche facendone intravedere le suggestioni, ma non ne ha mai sviluppato il discorso, tant’è che sempre Sloterdijk si dichiara testualmente deluso di una mancata e poco coraggiosa elaborazione che possedeva invece premesse argomentative molto dense. Ad ogni buon conto, ci rifaremo a questo sentiero che pur spezzettato, presenta linee di coerenza e originalità molto interessanti. Ebbene, l’unico scritto in cui Heidegger programmaticamente si occupa del rapporto tra spazi, luoghi e tema dell’abitare è un seminario del 1951, Costruire, abitare, pensare e nelle sue poche pagine troveremo quello che interesserà in maniera fondamentale il presente lavoro; tuttavia è importante sottolineare che in realtà il discorso di Costruire, abitare, pensare, come si vedrà in seguito, è solo lo sviluppo esplicito di un ventaglio di temi già presenti nei suoi scritti precedenti, a partire dal 1927. Questa considerazione-premessa non vuole avere valore storiografico tout court, bensì rappresenta l’ulteriore segnale di quanto possa essere utile far affiorare una archeologia del discorso sui luoghi all’interno dell’antropologia filosofica heideggeriana, nonostante esso non viva di luce propria. Dunque, il seminario, tenuto in occasione del convegno di architettura Uomo e spazio (a Darmstat, il 5 agosto 1951) si apre proprio con un programmatico “Noi domandiamo: 1. Che cos’è l’abitare? 2. In che misura il costruire rientra nell’abitare” (Heidegger 1954, p. 96). Secondo Heidegger i verbi abitare e costruire stanno tra loro nella relazione del fine al mezzo e tuttavia il costruire, oltre a essere un mezzo per il fine dell’abitare, è “già in se stesso un abitare” (p. 97), poiché gli uomini costruiscono abitazioni non solo per occuparle ma perché essi, nella loro essenza più autentica, si auto-costituiscono fondamentalmente come gli abitanti (die Wohnenden). In altri termini l’abitare non è una tra le pratiche dell’uomo, bensì il tratto fondamentale della stessa natura umana, il suo carattere perciò non sarebbe meramente pragmatico ma, per così dire, teoretico, ovvero caratterizzato da un senso che starebbe alla base e spiegherebbe l’esistenza umana. Proprio per questo il costruire, che dell’abitare dovrebbe essere la condizione pratica e anteriore, assume anch’esso una valenza fondamentale in quanto il concetto che sottende è inscindibile dall’abitare. Il verbo tedesco bauen, “costruire”, infatti, deriverebbe dall’antico termine alto-germanico buan, che significa “rimanere, trattenersi” e che costituisce, andando ancora più indietro nella genesi delle lingue sassoni, il tema verbale bhu-beo, che è lo stesso di ich bin, “io sono”. Lo stesso verbo essere e il concetto di costruire-per-abitare, dunque, sarebbero iscritti all’interno della medesima semantica. Inoltre, aggiunge Heidegger, l’altro significato di bauen-costruire è quello di “custodire e coltivare il campo”, alla maniera latina di colere (da cui cultura); il costruire, allora, non è un’attività della produzione, nel senso dell’erigere edifici, dell’ædificare, o meglio, non solo: nel suo significato complessivo sussistono i due modi dell’ædificare e del colere; il primo però fa parte dell’accezione quotidiana, superficiale, mentre il secondo di quella esistenziale e profonda che ruota attorno al concetto di abitare e che è caduta nell’oblio del linguaggio.

Mimmo Pesare

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Lasciando così sullo sfondo la metafora attiva dell’umanità (il tema, appunto, dell’abitare) come background working, il rapporto tra luoghi e cura apre un itinerario di riflessione che è iscritto tutto nel discorso sulla sicurezza dei luoghi e sulla loro capacità di produrre Geborgenheit (sicurezza, ma, letteralmente, appaesamento). La condizione di questo senso di sicurezza e di fiducia emozionale che il passaggio dagli spazi ai luoghi produce, ha però come condizione di verificabilità, appunto, la categoria filosofico-pedagogica di Sorge, l’aver-cura dei luoghi stessi. Per corroborare questa ipotesi ci si servirà della combinazione – forse un po’ sfrontata – tra la riflessione antropologica della filosofia heideggeriana e l’analogia figurativa di un film del 2004, Ferro3. La casa vuota, del regista coreano Kim Ki-duk.


Quando, come si dice, ritorniamo in noi stessi, vi ritorniamo muovendo dalle cose, senza mai rinunciare al nostro soggiorno presso le cose. Anzi, anche la perdita di contatto con le cose, che si verifica in condizioni di depressione, non sarebbe in alcun modo possibile se anche questa condizione non rimanesse ciò che, come condizione umana, non può non essere, e cioè un soggiornare presso le cose (p. 105).

L’essenza dell’abitare, quindi, risiede nell’aver-cura, che a sua volta significa sia “salvare, liberare” (freilassen) qualcosa affinché goda della sua stessa esistenza (quindi una relazione non strumentale con la terra), sia “soggiornare presso le cose”, nella stessa definizione di Heidegger, in quanto l’abitare come “aver-cura”, preserva l’uomo in ciò presso cui soggiorna, cioè le cose (il mondo materiale, le abitazioni ecc.). Ecco che quindi un altro elemento spicca importante: le cose; la cura, cioè, nella stessa essenza dell’abitare, non sarebbe soltanto da intendersi rivolta agli uomini, ma anche alle cose. Queste generiche cose, non sono né semplicemente gli edifici, né ciò che degli edifici costituisce l’arredo interno, ma ambedue le caratterizzazioni, e cioè rappresentano tutto ciò che rende dimora un posto qualsiasi. Questi sono definiti da Heidegger i luoghi in senso filosofico, che si differenziano dai semplici spazi per il fatto che lo spazio è una sorta di condizione fisica ante litteram del luogo: la parola Raum “spazio”, indica una estensione fisica che ha la caratteristica di essere stato sgombrato, aperto, per accogliere qualcosa, ma la sua caratterizzazione antropologica è, per così dire, assente. Lo spazio è pura extensio, qualcosa di molto simile al termine greco πε′ρας, ossia uno slargo reso libero per un futuro insediamento e che, in un certo senso, aspetta di essere reso luogo dimorabile: Spazio è essenzialmente ciò che è sgombrato, ciò che è posto entro i suoi limiti. Ciò che così è sgombrato viene di volta in volta accordato (gestattet) e così disposto (gefügt), cioè raccolto da un luogo (…). Di conseguenza gli spazi ricevono la loro essenza non dallo spazio ma da luoghi. (…) Nell’essere di queste cose come luoghi risiede il rapporto di luogo e spazio, ma risiede anche la relazione del luogo all’uomo che in esso prende dimora (p. 103).

Queste cose che sono i luoghi, allora, rappresentano addirittura ciò che dona essenza allo spazio generico, ciò per cui ne va del suo stesso significato. I luoghi sono dimore in quanto dispongono uno spazio e in quanto dan-

Sembra essersi chiuso un cerchio il cui punto d’inizio è rintracciabile nientemeno che nel § 12 di Sein und Zeit, quando il carattere fondamentale dell’esser-ci, della realtà umana, viene messo in relazione all’essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein): l’uomo è essere-nel-mondo, tuttavia, non come compresenza del mondo, né come qualcosa di intra-mondano, come una sedia o un tavolo sono “in” una stanza. L’uomo è nel-mondo come carattere fondamentale della sua essenza perché l’in, originariamente, non significava semplice situazione spaziale dello “stare dentro”, ma deriva dal verbo arcaico innan, “soggiornare”, dove il tema -an significa “sono abituato, sono familiare con”; l’in-essere, perciò, significa essere se stessi in quanto familiari col mondo, in quanto aventi la stessa essenza del mondo. In Heidegger, dunque, non c’è mai solipsismo egologico2 e non ci sono mai un soggetto senza mondo né un io isolato senza gli altri. Ma se il carattere fondamentale dell’Esserci è l’essere-nel-mondo, la sua stessa essenza, spiega il filosofo (cap. VI, § 41), è la Cura (Sorge), nel senso latino di riguardo/dedizione/custodia3. A sua volta la Cura può esplicarsi nei rapporti con gli uomini, e allora si tratta dell’“aver-cura” (Für-Sorge) o può essere un “prendersi cura” (Besorgen) delle cose. Anche quest’ultima accezione, quindi, è connaturata all’essenza fondamentale della realtà umana e, in un certo senso, partecipa a tutti gli effetti del suo essere-nel-mondo. Il prendersi cura delle cose, in sintesi, è uno dei due modi della Cura, che a sua volta costituisce l’essenza dell’uomo (l’esserci) come essere-nel-mondo. A questo punto le riflessioni di due momenti molto lontani della produzione del filosofo tedesco4 sembrano ricongiungersi, malgrado la partenza da due approcci differenti: in Costruire, abitare, pensare abbiamo visto come il significato più genuino dell’abitare fosse rintracciabile nella cura intesa come l’azione fondamentale del soggiornare presso le cose; andando a ritroso, in Essere e tempo, il Besorgen, ovvero il prendersi cura delle cose, rappresenta uno dei due caratteri della Cura stessa. Quest’ultimo, dunque,

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Abitare, esser posti nella pace, vuol dire: rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente (Frie) e che ha cura di ogni cosa nella sua essenza. Il tratto fondamentale dell’abitare è questo aver cura. Esso permea l’abitare in ogni suo aspetto (p. 99).

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no accesso a esso, e questa duplice caratterizzazione è il nucleo stesso non solo del rapporto tra spazi e luoghi, ma anche di quello tra luoghi e uomo, cioè al senso stesso dell’abitare. I luoghi, queste cose (Ding in tedesco, la cui origine semantica proviene dal gotico thing, che significa “riunione, raduno”) un po’ speciali dunque, lungi dall’essere entità in qualche modo reificate, rendono la misura stessa dell’uomo nello spazio; anche in questo passaggio emerge la distruzione dell’ontologia e l’oltrepassamento della metafisica heideggeriani, che estromettono la leadership dell’uomo dal mondo, per pensarlo assieme al mondo stesso, tanto è vero che anche la sua vita psichica non può prescindere dal rapporto con le cose:

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A questo punto, dopo aver chiarito in che senso il costruire sia propriamente una valenza dell’abitare, l’ermeneutica del filosofo affonda direttamente la lama nel cuore del discorso, chiedendosi esplicitamente “ma in che consiste l’essenza dell’abitare?” (p. 98). Anche in questo caso la filologia aiuta a orientarsi nel pensiero: “abitare” in tedesco si dice wohnen che deriva dal gotico wunian, a sua volta tema del sassone wuon, parente stretto di bauen, dunque appartenente alla costellazione semantica del “trattenersi”, ma il cui etimo, in più, spiega meglio come questo “rimanere” sia sentito; wunian infatti significa “avere la pace” (zufrieden sein), “rimanere preservato da mali e minacce”, “riguardato” (geschont), cioè “curato”, e dunque


La casa v uota I serrati e raffinati passaggi attraverso i quali l’ermeneutica heideggeriana tratteggiava più di sessant’anni fa il problema filosofico dell’abitare e il suo profondo legame con la tematica della cura sembrano icasticamente ripresentarsi nella sceneggiatura e nella fotografia di Ferro3, pellicola del regista coreano Kim Ki-duk, premiata alla LXI Mostra internazionale del Cinema di Venezia col Leone d’argento e col Premio speciale per la regia. Il film di Ki-duk, il cui sottotitolo è La casa vuota (Bin-jip), è la classica opera cinematografica difficile da descrivere, per il suo densissimo flusso di suggestioni e immagini poetiche in cui significati e significanti si mescolano alla trama e se ne allontanano per suscitare interpretazioni sempre nuove a seconda della sensibilità e dello stato d’animo dello spettatore. Se c’è, tuttavia, una costante tematica che intesse tutta la filosofia del film e della quale universalmente è possibile accettarne la carica ispirativa, essa è costituita senza dubbio dal rapporto tra la pratica dell’abitare e le abitazioni stesse, ma in un modo totalmente originale e poetico attraverso cui re-immaginare il significato di termini quali soggiorno e dimora. Ciò che viene proposto è un’idea della relazione tra la casa e i suoi abitanti come privata del concetto di possesso: in altre parole, secondo la poetica di Kim Ki-duk, non basta il possedere una casa per abitarci; il soggiorno (ethos, in greco) di essa, il suo grado di abitabilità è determinato da una sorta di vicinanza (Nahe) emotiva alla sua propria vita, grazie a una attenzione nei confronti di ogni cosa che partecipa del suo arredo e della sua storia… finanche degli oggetti più (apparentemente) insignificanti. Probabilmente solo un regista coreano avrebbe potuto condensare in 120 minuti una lezione così efficace di filosofia del luogo: per quanto riguarda l’importanza della cura dei particolari che definiscono il luogo del nostro abitare – elemento che costituisce il nucleo tematico imprescindibile di architetti, urbanisti, designer e arredatori – la civiltà orientale, da sempre, rappresenta il paradigma etologico dei rituali e dell’attenzione certosina dedicata alla nobilitazione del quotidiano.

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In questo senso abitare, luoghi, cura, cose, costituiscono una specie di quadrilatero concettuale che sembra suggerire come, dal primo al quarto, il pensiero si orienti attraverso una naturale disposizione antropologica ed emozionale e pone l’indice sull’attenzione – anche materiale – all’habitat che detiene il nostro soggiorno come segno stesso della pratica dell’abitare; come dire, per abitare veramente un luogo prendersi cura delle cose che ne determinano la forma e ne disegnano le caratteristiche è importante tanto quanto aver cura delle persone che lo abitano insieme a noi.

Del resto, uno dei più interessanti filosofi della nuova generazione francese, Françoise Jullien5, da tempo dedica la sua ricerca a suggerire come nei meandri speziati della cultura est-asiatica buddista e taoista, sia possibile ritrovare l’ossigeno di cui spesso l’Occidente lamenta l’assenza a causa di una reiterata sovrabbondanza del logos metafisico. Proprio dalla preminenza accordata al quotidiano immanente – nella cui ripetizione è possibile spesso rintracciare il famigerato senso – la cultura orientale presenta il rapporto con le cose, con i luoghi e con i processi di soggettivazione, inserendone la realtà vitale e l’anima (Hillman 2004) all’interno del fraseggio in cui il concetto heideggeriano di cura ne custodisce lo stato profondo (Derrida 1971) e ne trasforma i segni in un vero e proprio linguaggio di metacomunicazione (Semeraro 2004). Di questo fraseggio, sempre suggerito, sempre delicatamente accennato tra segreto e dis-velamento, Ferro3 costituisce un esempio di algido impatto, proprio come un’opera d’arte degna di questo nome dovrebbe fare (Benjamin). La sceneggiatura del film riconferma Kim Ki-duk nel ruolo di regista che – come la critica da sempre gli imputa – mette a disagio per l’elemento perturbante e anti-mainstream che le sue pellicole possiedono, e il fatto che i dialoghi siano pressoché assenti in tutta la storia, raddensa ancora di più il pathos di una narrazione che mescola il racconto della vita di un uomo (e una donna) con la potenza espressiva di una fotografia che conferisce al discorso sull’abitare una autonomia quasi pittorica. Il protagonista, Tae-suk, è un giovane dal sorriso gentile ma di poche parole che nelle prime scene sembra fare un lavoro di volantinaggio: nella periferia suburbana di una non meglio precisata metropoli coreana, batte le strade assolate sulla sua fiammante moto BMW e, casa dopo casa, attacca sulle serrature di ogni porta volantini pubblicitari; nottetempo però, torna, munito di chiavistelli, e si introduce, scassinando le serrature, nelle case in cui il volantino non è stato tolto, a dimostrazione del fatto che gli inquilini che la abitano sono assenti. Fin qui potrebbe sembrare la storia di un ladruncolo di appartamenti come tante altre. In realtà Tae-suk non ruba assolutamente nulla nella casa che, di volta in volta, lo ospita, né compie atti di vandalismo; al contrario, il giovane ci vive come se si trattasse della sua casa, prendendosi cura di tutto ciò in cui il suo corpo si imbatte: aggiusta piccoli oggetti e giocattoli rotti, innaffia le piante, lava – rigorosamente a mano – la biancheria sporca trovata in bagno, sistema ogni cosa con una cura più attenta di quella che avrebbero avuto gli stessi proprietari. Poi fa una doccia, cucina qualcosa, mangiucchia e visita, interessato, ogni interstizio dell’appartamento, si fotografa sorridente con una fotocamera digitale accanto ai ritratti della famiglia, guarda la TV e dorme nei letti vuoti, per poi lasciare tutto come aveva trovato. Tae-suk, insomma, si inserisce leggero come una carezza nelle case lasciate temporaneamente vuote per brevi vacanze dai legittimi proprietari e ci vive dentro per un po’, rendendone le pareti di nuovo vive e ri-attivando ogni oggetto dell’arredo interno, come se tutto questo facesse parte di una sorta di singolarissima missione personale. Nessun rituale di tipo psico-patologico, ma una vita che si esprime nel momento i cui si innesta temporaneamente sulle vite degli altri, interrotte e di-

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1) non è meno nobile dell’aver-cura, nel suo significato antropologico-relazionale; 2) possiede, attraverso le cose stesse (delle quali, come si è visto, i luoghi ne sono un esempio speciale), una relazione privilegiata con l’abitare.


Heimat nomina invece la casa (Heim), ciò che è indigeno, nativo, del luogo (heimish); ciò che è familiare e accogliente, che fa sentire a casa, l’intimo e il segreto (heimlich). Pensa dunque la Bodenständigkeit, l’appartenenza ad un suolo, non in

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Al di là della scena in questione, che da sola vale quasi l’intero film, ciò che rappresenta il passaggio fondamentale di Ferro3 ai fini di questa analisi è il capovolgimento del rapporto strumentale con la casa che il protagonista declina in una vera e propria affettività del luogo e che possiede tutti i tratti della Sorge heideggeriana. Questa cura delle dimore all’interno delle quali Tae-suk di volta in volta si stabilisce, trasforma gli spazi in luoghi, o meglio permette ai luoghi divenuti spazi (cioè estensioni senza un abitare), a causa della perdita del potenziale abitativo dato dalla partenza dei proprietari, di ritornare luoghi per il fatto di essere curati e abitati dal giovane. Se allora abitare significa prendersi cura di ciò che costituisce l’abitazione, Tae-suk è un vero abitante (Wohnende), più degli stessi proprietari delle case in cui si intrufola, in quanto la disattenzione nei confronti degli oggetti che ne costituiscono lo spazio immaginale (Durand 1963), produce l’oblio dell’abitare stesso e, quindi, l’impossibilità antropologica di una sicurezza dei luoghi. Del resto, questa costituisce il sentimento più pregnante di Tae-suk, ciò che lo fa sentire-a-casa (Zu-hause; cfr. Heidegger 1927, § 40) e che quindi gli consente di avere fiducia e sicurezza nel posto che abita, sebbene, paradossalmente, si tratti sempre di luoghi altri, eterotopici, a prima vista estranei rispetto a una dimensione intima che appartiene soltanto alla sua vita. Lo stesso elemento di rinnovata fiducia permette anche a Sun-hwa di concepire un nuovo modo di immaginare il concetto di dimora: dopo essere scappata da una casa che non la faceva sentire a casa e dopo aver sperimentato il massimo grado possibile di spaesamento/Unheimlickheit (Freud 1919), trova nell’autenticità del protagonista, che ha consegnato la sua vita al progetto di prendersi cura delle case vuote, la forza per uscire dalla sua condizione ontologica di soccombente per ritrovare nel paradigma quotidiano di Tae-suk il suo stesso modo di sentirsi a casa, oltre che l’amore del giovane. La bella e triste Sun-hwa per la prima volta nella sua vita si sente sicura nella propria abitazione proprio quando questa è violata da un estraneo (Derrida 1997); addirittura è quest’ultimo a liberarla dal suo senso di inquietante estraneità (Berto 1999; Bonaparte 1933; Carotenuto 2002; Kristeva 1990; Pesare 2004) che la porterà a ri-conoscere il suo Sé e a riscoprire la sicurezza nel suo mondo interno, oltre che – di conseguenza – nei luoghi materiali della sua vita. In altri termini Sun-hwa ri-comincia ad abitare davvero quando ri-conosce se stessa in quanto sradicata dalla sua concezione di casa, che per la prima volta viene sentita come non più indissolubilmente legata al suolo (Boden), all’impianto tecnico-architettonico (Gestell) e all’edificazione delle mura (Gebäude), ma come situazione emotiva basata su una pratica antropologica, quella della cura, che ha ri-attivato la stessa casa. Torna allora il concetto heideggeriano di Heimat, che in italiano è tradotto con patria, sebbene il significato filosofico del termine tedesco non si esaurisca a indicare la terra natia (Vaterland, “terra dei padri”), ma aggiunga un carattere di intimità/sicurezza/agio:

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sattente. La cura e il garbo con cui Tae-suk arricchisce i suoi soggiorni è commovente per la naturalezza con la quale il giovane assume, di volta in volta, su di sé il progetto tutto silenzioso e intimista di una riqualificazione di spazi lasciati vuoti. E lo fa anche per la leggerezza e l’attenzione con le quali lascia in punta di piedi l’appartamento qualche secondo prima del rientro dei legittimi proprietari, non appena si accorge dell’arrivo. Nei giorni in cui Tae-suk vive nelle case vuote, metafora delle vite individuali nella società contemporanea, i protagonisti diventano gli oggetti. Ogni cosa, ogni piccolo pezzo della casa. Il giovane si defila per lasciare la ribalta al bisogno di cura che piante, quadri, suppellettili, vestiti, sembrano invocare. Un giorno, Tae-suk si introduce in una lussuosa casa che crede essere vuota e si dedica, come sempre, alla cura di essa: aggiusta una bilancia rotta, pulisce il bagno, si prepara una cena e gioca in giardino con un set di allenamento da golf. In realtà la villa non è rimasta disabitata. Nascosta e silente tra le stanze che ne disegnano l’imponente architettura è rimasta Sun-hwa, donna bellissima e disperata, imprigionata nel solipsismo di un matrimonio con un uomo che non ama più e che la maltratta e con addosso i segni delle violenze di lui. Sun-hwa osserva, non vista, Tae-suk in tutte le sue performance e, realizzando che non si tratta di un ladro ma di un gentile abitatore delle case altrui, rimane nascosta per continuare a guardare il bizzarro ospite. Quando Tae-suk si sveglia dal sonno che lo ha visto riposare nella sua nuova-provvisoria abitazione, si rende conto della presenza di Sun-hwa e ascoltando una sua conversazione telefonica col marito entra in contatto con la sofferenza della donna. I due allora si riconoscono, si guardano come se si aspettassero da sempre; le due solitudini esistenziali si congiungono nella fidatezza di un luogo reso sicuro dalla cura che Tae-suk ha messo nella conduzione dei suoi spazi e nella ri-attivazione dei suoi oggetti. In questo pathos del riconoscimento attraverso il segreto avviene il patto emozionale della fiducia e tutto sembra ricongiungersi nella sicurezza di un ambiente, la casa di Sun-hwa che per la prima volta diviene luogo (Ort), non solo fisico, non solo spaziale, ma interiore, affettivo… l’assenza di parola, la mancanza di dialoghi, l’inesistenza del logos appare, in questo momento, come un particolare di infima importanza, mentre la linea essenziale che lega Anerkennung (riconoscimento), Geheimnis (segreto) e Vertrauen (fiducia) si è chiusa naturalmente nei lunghissimi secondi in cui Sun-hwa e Taesuk si guardano negli occhi e capiscono di doversi appartenere. È così che Tae-suk decide di strappare la donna all’insensibilità e alla violenza del marito6 e portarla con sé, attraverso nuove case vuote, attraverso nuove cure e lungo un vettore di autenticità e libertà. A questo punto la storia di Tae-suk e Sun-hwa, che si ritrovano innamorati l’uno dell’altra, prosegue accompagnata da una serie di complicazioni (il marito di Sun-hwa fa arrestare l’odiato amante della moglie, il quale in prigione escogita un originale modo di rendersi invisibile e di affinare ancora di più il suo rapporto privilegiato con lo spazio) ma nell’ultima scena del film, in un picco di poesia e levità, Tae-suk riuscirà a riportare la felicità nella vita dell’amata.


L’infemminirsi della casa, come quello della patria, è tradotto dal genere grammaticale femminile domus e patria latine, e oikia greca. I neutri das Haus e das Vaterland non sono che accidentali indebolimenti, subito compensati da die Hütte e die Heimat. La psicoanalisi, più di ogni altra, è stata sensibile alla semasiologia femminoide della dimora e dall’antropomorfismo che ne risulta; camere, capanne, palazzi, templi e cappelle sono infemminite. (…) La casa è dunque sempre l’immagine dell’intimità riposante… e il vocabolo “dimora” si duplica, come nelle Upanishads o in S. Teresa, del senso di fermata, di riposo di “sede” definitiva dell’illuminamento interiore. (…) Allo stesso modo, la significazione della casa come “costruzione del sé” invocante l’immagine della pietra angolare e la parabola evangelica delle due case, non è, a nostro avviso, che una derivazione secondaria, culturale, del fondamentale simbolismo dell’intimità (Durand 1963, pp. 243 sgg.).

La cura come pratica fondamentale dell’uomo, quindi, oltre a essere un segno costituente dell’antropologia in quanto compensazione proiettiva dello sradicamento umano dovuta al trauma della nascita (come in Otto Rank), è dunque rappresentata come archetipicamente femminile (finanche nella estensione linguistica dell’Heim), allo stesso modo in cui, cioè, viene rappresentata la casa, nella sua catena simbolica della cavità uterina. Se allora nel tramandarsi etno-culturale dell’idea della cura come qualità primariamente materna e dell’i-

È importante rendersi conto di cosa i luoghi “contenevano”, tenevano-dentro, da cosa fossero in-habitated. Ogni luogo aveva un’intima, peculiare qualità. Questo in, l’interiorità del luogo, è l’anima del luogo (Hillman 2004, p. 91).

Questa assoluta interiorità, accedendo alla quale si costruisce la trasformazione che apre alle esteriorità e alla relazione con l’esterno, è recuperabile at-

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Come osserva puntualmente Caterina Resta, il nucleo tematico attorno al quale gravitano le questioni relative al riconoscimento del sé, continua a essere ineludibilmente legato alla questione della casa e alla dicotomia (impossibile da rendere in italiano, se non in maniera perifrastica) tra Heim-home e Haushouse. E facendo interagire la lezione di Heidegger con questo punto, si potrebbe dire che il fattore che rende casa-Heim, ciò che era semplicemente casa-Haus (cioè “edificio, spazio edificato”) è proprio la Cura, non solo la Fursorge, ma anche la Besorgen, che umanizza gli oggetti, le suppellettili, l’arredo interno, trasfigurando la cura delle cose in cura di sé, tant’è che lo stesso Heidegger scrive (1927, p. 241): “La Cura non designa neppure, primariamente ed esclusivamente, un comportamento isolato dell’io rispetto a se stesso. L’espressione ‘cura di sé’, escogitata in analogia del prendersi cura, sarebbe una tautologia”. Prendersi cura di qualcosa e cura di sé, dunque, sarebbero equivalenti per il filosofo e, in una sorta di moltiplicazione esponenziale della teoria di Foucault, diventerebbe addirittura una tautologia la cura del sé, in quanto la nozione di Sorge non rappresenta un comportamento isolato dell’io ma fa parte di una essenzialità congenita all’io stesso. Secondo la teoria psicoanalitica il trittico sicurezza-casa-cura sarebbe proprio costitutivo della matrilinearità simbolica che questi elementi costituiscono; Gilbert Durand parla a questo proposito di “infemminimento della casa” come percorso analitico-esplicativo che si riverbera anche nel linguaggio e nella semantica indoeuropea:

dea della casa come metafora del ventre che custodisce la vita, l’elemento femminile spicca come reductio ad unum della semasiologia della dimora, anche nelle sue trame archetipiche è rintracciabile una ulteriore corroborazione del legame che salda l’abitare e la cura. Al di là di interpretazioni di genere, poco fertili nell’economia di questo discorso, l’elemento femminile come carattere di raccordo simbolico tra cura e abitazioni, dunque, libera il suo potenziale semantico (e psicoanalitico) all’interno dell’ermeneutica della fidatezza dei luoghi, metafora sia della cura materna e originaria, sia della casa che mette al sicuro e custodisce il segreto. Tae-suk abita le sue dimore provvisorie proprio come abiterebbe la sua casa, cioè in maniera heimish, fidata, familiare, come si conviene a chi sente la sua casa come proprio sua. E questa intimità/familiarità gli viene in dono dalla stessa sua capacità di curare gli ambienti e l’arredo e ogni dettaglio che costituisce lo spazio abitativo della casa, in modo totale, appassionato. Tae-suk, insomma, fa della Besorgen heideggeriana un dispositivo di verità (in senso foucaultiano), una forma di parrhesia, rispetto agli spazi della autenticità quotidiana, trasmettendo una educazione alla cura e una attenzione ai luoghi che, in tempi di ipercronia esasperata, sembrano rallentare persino i ritmi della produttività giornaliera. All’interno di questa cornice, il giovane e la sua donna dispongono progressivamente una nuova sicurezza dei luoghi che rappresenta una rinnovata fiducia, oltre gli spazi, verso i luoghi autentici dell’abitare quotidiano. Ciò che dunque abbiamo definito sicurezza dei luoghi, intesa come conseguenza psichico-pratica dell’equazione che vede corrispondersi antropologicamente abitare e cura, si costituisce attraverso la progressiva consapevolezza che la pratica dell’abitare e il suo concetto teoretico siano espressione di una metafora attiva. Essa, cioè, prima di essere un problema filosofico e architettonico, rappresenta una domanda fondamentale dell’umanità contemporanea che organizza le rappresentazioni simboliche della casa e della cura nel flusso immaginale dell’in, della dimensione interna della coscienza e delle emozioni. In questo flusso alberga lo spirito del luogo come Ort, raduno di tutti gli elementi della vita, e si alimenta quella che Hillman definisce l’anima dei luoghi stessi, una preliminare possibilità di antidoto all’insicurezza ontologica di un io diviso (Laing 1959) che ri-educa al rapporto con se stessi attraverso la cura dell’abitare, senza però forzare la naturale spaesatezza che Heidegger osservava diventare un “destino mondiale” (Heidegger 1946, p. 69). Nell’in, nel suo significato psicoanalitico, prima che ontologico, lo spazio si umanizza attraverso la cura e si concede liberamente all’abitare:

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termini etnici o razziali, ma come il riparo o il rifugio, la salvaguardia e la custodia, i cui chiari riferimenti all’elemento femminile e materno alludono a un’altra possibile genealogia (Resta 1996, p. 12, n.).


1 Intendendo col termine fondamentali quelle questioni che la filosofia tedesca moderna e contemporanea ha definito Grundproblem, cioè nuclei teorici e semantici che cercano di interpretare i grandi temi esistenziali dell’uomo, della vita e della società. È bene tuttavia precisare che esso non viene utilizzato in senso ontologico, ossia come attributo di concetti che tendono a spiegare l’essenza pressoché metafisica della vita bensì entro un discorso strettamente legato ai temi di una antropologia filosofica immanente e materialista. 2 “L’essere-nel-mondo non ha niente del ‘soggetto’ di cui parla molta filosofia moderna, perché questa nozione presuppone appunto che il soggetto sia qualcosa che si contrappone a un ‘oggetto’ inteso come semplice presenza. L’esserci non è mai qualcosa di chiuso da cui occorra uscire per andare al mondo; esso è già sempre costitutivamente rapporto col mondo, prima di ogni artificiosa distinzione tra soggetto e oggetto” (Vattimo 1971, p. 31). 3 Cura enim quia prima finxit, teneat quamdiu vixerit (poiché infatti fu la Cura che per prima diede forma all’uomo, la Cura lo possieda finché esso viva), ripete Heidegger col poeta latino Igino (1927, p. 527, n.). 4 Per quanto riguarda questo passaggio, rimando all’analisi storiografica della cosiddetta svolta del 1947 che si suole indicare come l’anello di transizione tra il primo e il secondo periodo della speculazione heideggeriana (Vattimo 1971; Ferraris 1990). 5 Tra i lavori di Jullien tradotti in italiano, citiamo Elogio dell’insapore (1991), e Il saggio è senza idee (1998). 6 In realtà il marito di Sun-hwa, al rientro a casa, dopo aver per l’ennesima volta tentato di avere con la forza rapporti con la moglie e dopo averla schiaffeggiata al suo diniego, viene colpito da Tae-suk con una serie di palline da golf lanciate a velocità altissima con una mazza poco usata, appunto il “ferro n.3” che costituisce dunque un’ulteriore pista ermeneutica, quella dell’utilizzabilità (Zuhandenheit, concetto anch’esso heideggeriano che si riferisce alla caratteristica fondamentale degli oggetti intramondani per la realizzazione dell’esserci) di cose perlopiù inusitate o poco valorizzate al fine di riattivare realtà ben più importanti, come la storia di una vita infelice.

Bib li ografi a Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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traverso una serie di insight e di dispositivi antropologici che partono dal quotidiano rapporto con le cose. All’interno delle sue pratiche quotidiane, la cura degli ambienti e degli oggetti che rendono luoghi gli spazi, costituisce un tassello di fondamentale importanza per la stessa cura del sé e pone le basi psicoemotive per una auto-costituzione del sentimento di fiducia e sicurezza nei confronti di un luogo. Nelle sue stanze, probabilmente, alberga il senso più profondo dell’abitare.


Er nes to Mola Dalla compliance all’empowerment: due approcci alla malattia

Nel linguaggio tecnico e scientifico, anche quello più comune, molti termini sono adoperati in lingua originale, perché non facilmente traducibili in una parola. Compliance ed empowerment ne sono esempi. Compliance letteralmente significa: 1) “condiscendenza; conformità; acquiescenza”; 2) “servilismo” (Hazon 2003). In ambito medico invece, compliance viene definita “the extent to wich the patient follows medical instructions” (Sabate 2001), ovvero, “il grado in cui il paziente segue le istruzioni mediche”. Empowerment, a sua volta, deriva dal verbo inglese empower che significa letteralmente: 1) “autorizzare, dare pieni poteri a”, 2) “dare la procura a”. Così, empowered significa: “incaricato, qualificato”. In ambito medico è appropriata la definizione degli autori americani Feste e Anderson (1995, pp. 139-144): an educational process designed to help patients develop the knowledge, skills, attitudes, and degree of self-awareness necessary to effectively assume responsibility for their health-related decisions. [un processo educativo finalizzato ad aiutare i pazienti a sviluppare le conoscenze, le capacità, le attitudini e il grado di consapevolezza necessari ad assumere efficacemente la responsabilità delle decisioni attinenti la propria salute].

Come si comprende bene da queste prime note si tratta di due approcci alla gestione delle cure diametralmente opposti: l’uno autoritario, nel quale il paziente deve eseguire le istruzioni date dall’esperto, l’altro educativo, nel quale il paziente è soggetto di conoscenza e di azione responsabile riguardo alle proprie problematiche di salute. L’una è statica mentre l’altra dinamica, la prima assoluta e immediata, la seconda progressivamente acquisibile; la compliance è delega piena delle decisioni riguardanti la propria salute, l’empowerment è la riappropriazione della capacità di gestire la propria salute che la scienza aveva avocato agli esperti. L’obiettivo di questo scritto è analizzare i due approcci in rapporto alla fiducia e la loro efficacia nel sistema delle cure nella medicina moderna.


the extent to which a person’s behaviour – taking medication, following a diet, and/or executing lifestyle changes – corresponds with agreed recommendations from a health care provider. [il grado in cui il comportamento degli individui – assumere i farmaci, seguire la dieta e/o cambiare il proprio stile di vita – corrisponde alle raccomandazioni del medico condivise anche dal paziente].

Ancora una volta però, per quanto compaia l’approvazione del piano delle cure da parte del paziente, le raccomandazioni provengono dall’esperto, l’unidirezionalità della relazione e del rapporto fiduciario è conservata: il medico offre prescrizioni di cure in cambio della fiducia. Più recentemente (Ferner 2003, pp. 821-822) si è parlato di concordance (ancora un termine poco traducibile ma la cui etimologia è facilmente comprensibile), che non ribalta il significato originario di compliance, che non a caso rimane il termine più usato. La compliance presuppone la fiducia intesa come atto assoluto di delega all’esperto delle decisioni riguardanti la propria salute. Queste sono oggi infatti talmente complesse che il paziente non è in grado di comprenderle pienamente e di gestirle. Mentre nella società pre-scientifica la malattia era considerata un evento assoluto la cui causalità veniva attribuita semplicemente alla natura o alla magia, nella società moderna quella causalità si è arricchita di una tale complessità da non poter essere compresa e gestita se non dall’esperto. Il paziente non ha le conoscenze fisio-patologiche, le abilità tecniche, gli strumenti, la capacità psicologica di affrontare le situazioni derivate dalla patologia che lo affligge. Egli è assolutamente disarmato di fronte alla complessità e incapace di fronteggiarla. La fiducia è in questo caso proprio l’atto indispensabile per affrontare la complessità del mondo, come definito da Luhmann, la cui assenza significa rinuncia a una qualsiasi azione. “Mediante l’atto della fiducia la complessità del mondo futuro viene ridotta” (Luhmann 1968, p. 30): fiducia aprioristica come atto vitale e di autoconservazione, che nella società primitiva poteva essere indirizzata verso la vis sanatrix naturae o la capacità collettiva di prendersi cura del malato o verso lo stregone-sacerdote; fiducia che nelle società industriali è di necessità orientata verso l’esperto. Questi elaborerà le prescrizioni che derivano da processi codificati e le somministrerà al paziente che, come espressione del proprio atto iniziale di fiducia, “aderirà” a essa seguendola pedissequamente. La sua volontà al massimo potrà manifestarsi nel rifiuto, nella non-compliance, nel non agire secondo le indicazioni

Dalla compliance all’empowerment: due approcci alla malattia 101

Il termine, a partire dagli anni Settanta è stato adottato per descrivere la misura in cui i pazienti seguono le raccomandazioni dei loro curanti (Haynes 1979). Implicito nella definizione è il concetto di gerarchia, in cui il paziente è relegato in un ruolo subordinato dovendosi conformare alle decisioni prese da altri. Per mitigare l’autoritarismo implicito nella definizione, ed evidenziare un ruolo più attivo da parte del paziente, sono stati suggeriti termini alternativi. Uno di questi è adherence (“aderenza”), della quale il WHO dà questa definizione:

dell’esperto. La sua opinione potrà limitarsi soltanto al consenso informato, anche se implicitamente la conoscenza non potrà mai essere puntuale perché l’informazione rivolta al non-esperto è di necessità sommaria e incompleta, per cui il paziente potrà garantire il proprio assenso esclusivamente sulla base della riduzione della complessità operata dall’atto della fiducia. Qualunque sia la modalità della fiducia, sia essa personale o di sistema – accordata cioè al singolo esperto o al sistema delle cure – permane in ogni caso la gerarchia e l’autorità e la compliance è proporzionale alla fiducia che il paziente ripone nel medico e/o nel sistema delle cure. Il paziente può infatti sottoporre a verifica il proprio atto fiduciario soltanto a posteriori, sull’esito delle cure. Anche per questo motivo la fiducia, che è un atto rischioso, è possibile solo in un “mondo familiare e ha bisogno della storia come rassicurazione di fondo” (ib.). I risultati delle cure già vissuti su se stessi o sui propri familiari o su altri soggetti del proprio mondo conosciuto sono elemento fondamentale che sta alla base dell’atto fiduciario. La compliance, come approccio ai problemi di salute, ha dimostrato di essere efficace prevalentemente in rapporto alle patologie acute. In queste situazioni, certamente molto disparate ma unificate dall’evidenza che sono limitate nel tempo e risolventesi, con o senza esiti duraturi, ci sono alcune condizioni implicite che favoriscono e rendono efficace la compliance: la prescrizione è circoscritta a un breve periodo di tempo, è prevalentemente limitata al trattamento medico o chirurgico mentre quello comportamentale è soltanto di supporto al primo. Occorrono rapide decisioni, e in qualche caso drastiche, che non danno alcuna possibilità al paziente di acquisire le cognizioni complesse necessarie per gestirle in prima persona. Quanto più grave è la malattia tanto più è necessario un forte grado di fiducia personale o di sistema che consenta di ridurre la complessità e di essere nelle condizioni di affrontarla. Il paziente si mette nelle mani del medico o del chirurgo, gli affida interamente la sua salute e in molti casi la sua vita ma secondo un atto fiduciario segmentale, limitato all’episodio di malattia. Su questo modello è stato costruito il moderno sistema delle cure, basato sulle strutture di ricovero, sulle terapie farmacologiche e chirurgiche, sulla diagnostica specialistica. Il modello autoritativo della compliance informa di sé sia la struttura e l’organizzazione sanitaria che le relazioni terapeutiche e in entrambi i casi tende a limitare la libertà di decisione del paziente: si pensi all’erogazione delle cure in un ospedale o al comune atteggiamento relazionale dello specialista esperto nei confronti del paziente ignorante. Non a caso in questo modello la maggiore informazione del paziente gioca spesso un ruolo negativo: egli pretende di decidere ma, possedendo un’informazione oggettivamente incompleta – a meno di diventare egli stesso un esperto riconosciuto – spesso turba la relazione terapeutica, introducendo elementi di confusione e di alterazione del rapporto fiduciario. Il modello però si è dimostrato poco efficace per le patologie croniche. In questi casi la compliance al trattamento farmacologico – la cui misura pur con

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Comp liance


Malattia acuta

Condizione cronica

Decorso breve e risolventesi che interseca la vita del paziente

Lungo decorso che condiziona di vita del paziente

Tipi di coscienza

Coscienza Naturale

Coscienza Magica

Coscienza Critica

Necessità di azioni rapide e/o drastiche

Piccole azioni successive

Consapevolezza

Il paziente non ha esperienza della malattia

Il paziente è l’esperto della malattia

Comprende i fatti nella loro causalità apparente

Comprende i fatti così come appaiono

È consapevole dei fatti nelle loro reali relazioni causali

Trattamento di breve durata, risolutivo

Trattamento cronico e mai risolutivo

Risposta ai fatti

Ha un decorso definito

Cambia lentamente e ripetutamente nel tempo Il paziente impara a convivere con la propria cronicità

Ascrive l’accadimento dei fatti a un potere superiore

Intraprende azioni per governare i fatti

Impossibilità di acquisire cognizione della complessità

Si considera libera di comprendere i fatti come meglio crede

Impatto sull’azione

Fiducia segmentale nell’esperto. Verifica solo a posteriori

Fiducia continuativa nell’esperto sottoposta a continua verifica È necessario acquisire capacità di decisione in merito alla gestione della malattia

Manca della capacità di cambiare i fatti li accetta con fatalismo

È aperta alla continua verifica e revisione dei fatti

Delega delle decisioni all’esperto

Si giudica superiore ai fatti, è impermeabile alle istanze che esulano dai bisogni primari

Rapporto con la fiducia

Fiducia nella natura (vis sanatrix)

Accorda fiducia Accorda fiducia assoluta all’esperto sulla base riconosciuto dell’esperienza e della verifica continua. Fiducia nell’esperto e nelle proprie capacità

Self-confidence indifferente per gli esiti della malattia

Fiducia nella propria capacità di gestire la malattia necessaria per ottenere migliori risultati delle cure

Atto fiduciario unilaterale

Dialogo. Reciprocità dell’atto fiduciario (Mola 2006)

Di fronte a questi dati si è andata sempre di più rafforzando una cultura dell’empowerment, che intende coinvolgere il paziente nelle decisioni riguardanti la propria salute e nella gestione delle condizioni croniche. Empow er m ent Il concetto trae la sua origine dall’elaborazione del pedagogista brasiliano Paulo Freire. Freire distingue due approcci fondamentali all’educazione: l’approccio depositario e quello problematizzante. Nel primo il docente deposita

Quando una persona ha coscienza di un problema, agisce in accordo con quanto ha compreso. Quando il problema è identificato e inteso, il soggetto accetta la sfida di formulare un’ipotesi sulle possibili cause; considera diverse soluzioni e prende una decisione su come agire. L’azione corrisponde al livello di coscienza e al tipo di comprensione; se la comprensione dei fatti è critica anche l’azione sarà critica, consapevole. Inoltre Freire sottolinea che l’educazione orientata alla formazione della coscienza critica esige ascolto e dialogo paritario poiché l’obiettivo non è sol-

Dalla compliance all’empowerment: due approcci alla malattia 103

un corpo definito di conoscenze nella mente del discente ignorante. Nel secondo i discenti sono rispettati come uguali e, partendo dalla loro esperienza, gli educatori devono principalmente fornire gli strumenti per aiutarli ad analizzare la loro situazione e a definire un loro proprio piano d’azione (Freire 1967; Werner, Saunders 1997). La teoria di Freire identifica tre differenti livelli di coscienza: naturale, magica e critica. Per ciascun tipo di coscienza Freire mostra la relazione con la capacità di agire (Freire 1967). Valutando anche il rapporto dei tre tipi di coscienza con la fiducia potremmo adattare la tabella, già elaborata in altro scritto (Mola 2006), che riassume i concetti di Freire:

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differenti metodologie scientifiche si è rivelata sempre molto imprecisa – appare molto bassa, non superando il 50 per cento (Haynes 2001). Per le prescrizioni di tipo comportamentale poi, l’aderenza è ancora minore: il diabetico continua molto spesso a mangiare zucchero, l’obeso non riesce a dimagrire, l’iperteso non svolge regolarmente l’attività fisica che gli viene consigliata. Se proviamo ad analizzare le caratteristiche tra malattia acuta e condizione cronica ci rendiamo conto che quest’ultima ha sue specificità che la distinguono fortemente dall’acuzie.


Al contrario di una educazione sanitaria orientata alla compliance, disegnata per ridurre l’autonomia e condizionare la libertà di scelta, l’educazione all’empowerment, disegnata per promuovere l’autogestione, richiede che il punto di vista dei pazienti, i loro obiettivi, le loro aspettative e i loro bisogni siano tenuti in considerazione quando vengono stabiliti gli obiettivi del trattamento. Pertanto se i sistemi sanitari vogliono incoraggiare i pazienti ad assumere un ruolo attivo di autogestione sarà necessario adottare nuovi modelli delle cure che siano meno attenti alla compliance del paziente e più attenti invece alla sua responsabilizzazione (Funnel 2000). Il modello del self-management richiede che i pazienti siano visti come i veri esperti della loro condizione e i responsabili finali delle azioni rivolte alla salute. Solo il paziente può conoscere l’impatto che la malattia ha sulla sua vita. Anche se il medico “ha il privilegio di essere invitato a partecipare della vita dei pazienti per il quale sia il paziente che il professionista possono sperimentare l’umanità della relazione” (Feste, Anderson 1995), egli non può sempre conoscere i dettagli della vita dei pazienti, che cosa è importante per loro, le loro più profonde aspirazioni. Pur basandosi sul dato anamnestico l’approccio tradizionale all’educazione del paziente – fornire informazioni sulla sua salute – può solo parzialmente andare incontro ai bisogni di ciascuno. Al contrario l’obiettivo dell’educazione al self-management – aiutare il paziente nel padroneggiare sia le capacità che la fiducia necessarie a gestire la propria salute – può essere adattato ai problemi del singolo paziente in tutte le fasi della cura e della prevenzione primaria, secondaria e terziaria. Dato che la malattia cronica cambia nel tempo solo il paziente che la vive ogni giorno può valutare i suoi effetti e gli effetti dei trattamenti, essendo essi non solo variabili ma invero strettamente individuali. Mentre l’educazione tradizionale offre informazioni e abilità tecniche, l’educazione all’autogestione insegna abilità nel problem-solving con l’approccio centrato sulla persona (Bodenheimer et al. 2002).

Dalla compliance all’empowerment: due approcci alla malattia 105

Il r appor to t ra em powe rm ent e self-m a na gem ent

Affinché l’educazione al self-management sia efficace, le cure per il paziente devono essere coordinate tra i membri del team delle cure del quale il paziente deve essere membro attivo, avendo la maggiore responsabilità nell’autogestione quotidiana della propria condizione (Wagner 2000). Le collaborative care rappresentano dunque, a fianco al self-management, l’altra caratteristica fondamentale dell’approccio all’empowerment del paziente, presupponendo un lavoro combinato tra medico e paziente, finalizzato allo sviluppo di un piano d’azione individuale. Ciascun piano d’azione deve essere adattato all’individuo tenendo in considerazione la cultura, l’età, lo stato di salute e le aspirazioni personali (Funnell 2004). Sia la ricerca che la pratica dell’empowerment si gioveranno dell’approccio narrativo che unisce la pratica al processo e presta attenzione all’opinione dei pazienti (Rappaport 1995). La sfida di aiutare i pazienti a sviluppare piani di cura individualizzati è attribuita all’intero team delle cure, con il paziente che ne rappresenta il membro più importante, quello che compirà le azioni (Wagner 1998, pp. 2-4). Molte ricerche sono state condotte per valutare l’impatto dell’empowerment del paziente e dell’educazione al self-management sulla gestione di molteplici patologie croniche: diabete, asma, scompenso cardiaco, depressione, artrosi, AIDS ecc. Dai dati emerge una generale evidenza in favore del self-management, che migliora gli esiti clinici e la soddisfazione dei pazienti, con un impatto positivo sui costi (Fischer et al. 1999). Un modello per l’educazione dei pazienti orientata all’empowerment ha tre caratteristiche distintive: 1) affrontare sia gli effetti fisiologici che le conseguenze emotive della malattia cronica; 2) indirizzare le abilità e la fiducia del paziente ad assumere un ruolo attivo nella individuazione delle soluzioni ai problemi e nell’agire, piuttosto che nell’aderenza alle prescrizioni; 3) mettere pazienti e professionisti della salute in una relazione di partnership continuativa per tutto il corso della malattia (della vita) basato sulla fiducia e sul dialogo continuo (Lorig 2001). Nel modello di Kate Lorig troviamo le specificità della relazione fiduciaria orientata all’empowerment. Innanzitutto la necessità che l’atto fiduciario non sia segmentale, ristretto cioè a un breve arco del tempo e dello spazio – quello di una singola patologia – ma per tutto il tempo in cui si esercita l’influenza della malattia, per tutta la vita quindi o per un più o meno lungo tratto di essa. La continuità della relazione impone un controllo non sulla situazione fattuale, quanto sulla modalità con cui si accorda la fiducia. La malattia cronica continua in ogni caso, indipendentemente dalla qualità e appropriatezza delle cure, non essendo sempre possibile un controllo effettivo e puntuale sugli esiti, in quanto essi sono conseguenza di una molteplicità di fattori. Soltanto quindi la procedura indiretta del controllo del metodo consente di esercitare una verifica continuativa. L’altro aspetto fondamentale è la self-confidence, la fiducia in se stessi, nella propria capacità di assumere decisioni consapevoli secondo orienta-

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tanto quello di fornire informazioni ma di mettere l’individuo nelle condizioni di definire i problemi, trovare le soluzioni e affrontare efficacemente l’impatto del cambiamento. Ciò presuppone la reciprocità dell’atto fiduciario. L’affermazione di Freire “non c’è dialogo senza umiltà” evidenzia che la partnership richiede che sia l’educatore che il discente interagiscano tra di loro come uguali, che l’atto fiduciario sia reciproco e non unidirezionale: da una parte nella capacità di formare del docente esperto, dall’altra nella capacità di comprendere consapevolmente e di agire del discente. L’esperto-docente non ha quindi soltanto il compito di trasferire informazioni e non deve imporre la propria visione delle cose, bensì favorire l’organizzazione di una struttura della conoscenza capace di mettere in condizione il paziente-discente d’identificare i propri obiettivi, intraprendere le proprie azioni e sperimentare il proprio potere.


Conclusioni Compliance ed empowerment sono dunque approcci molto diversi tra loro ma entrambe efficaci a seconda del tipo di malattia e della situazione che deve essere affrontata. L’una è adatta alla gestione dell’acuzie, dell’episodio di malattia, per la quale appare più utile una relazione autoritativa basata sulla fiducia unidirezionale come elemento necessario di fronte alla complessità della situazione e all’incertezza. L’empowerment invece rappresenta la migliore risposta alle patologie croniche, che si embricano con la vita delle persone influenzandola sotto tutti gli aspetti, fisici ed emozionali. La fiducia nel medico è in questo caso condizionata anche dalla fiducia che egli pone nel paziente, nella sua capacità di divenire a sua volta esperto consapevole della propria condizione e di agire per migliorarla, essendo imprescindibile la reciprocità del dialogo aperto. Non bisogna quindi cadere nell’errore di preferire aprioristicamente l’una all’altra basandosi su presupposti ideologici: i due tipi di approccio sono strumenti e non fini, orientati alla cura del paziente che è l’unico punto di arrivo che il medico deve tenere ben presente. La fiducia, per quanto differente è il modo di esercitarla, rimane comunque alla base di ogni relazione terapeutica, condizione necessaria per affrontare la complessità della malattia.

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Bodenheimer, T., Lorig, K., Holman, H., Grumback, K., 2002, Patient Self Management of Chronic Diseases, in Primary Care, «Jam», 20 nov., vol. 288, pp. 2469-2475. Ferner, R. E., 2003, Is Concordance the Primrose Path to Health?, «British Medical Journal», vol. 327, 11 ottobre. Feste, C., Anderson, R. M., 1995, Empowerment: from Philosophy to Practice. Patient Education Counselling, n. 26. Freire, P., 1967, Educação como prática de libertade, Santiago del Cile; trad. it. 1971, Educazione come pratica di libertà, Milano, Mondadori. Freire, P., 1968, Pedagogia de opresido, Santiago del Cile; trad. it. 1972, La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori. Funnel, M., 2000, Helping Patient Take Charge of their Chronic Illness, «Family Practice Management», n. 3, March. Funnel, M., 2004, Overcoming obstacles: collaboration for change, in «European Journal of Endocrinology», n. 151, pp. 19-22. Haynes, R. B., 1979, Determinants of Compliance: The Disease and the Mechanics of Treatment, Baltimore, Hopkins University Press. Hazon, M., 2003, Dizionario di Inglese, Milano, Garzanti. Lorig, K., 2001, Patient Education, a Practical Approach, Thousand Oaks (Ca.), Ed. Sage Publications Inc. Luhmann, N., 1968, Vertrauen. Ein Mechanismus der Reduktion sozialer Komplexität, Stuttgart, Lucius & Lucius; trad. it. 2002, La Fiducia, Bologna, il Mulino. Mola, E., 2006, L’empowerment del paziente è fondamentale per la medicina generale, «Occhio Clinico», n. 6, giugno. Rappaport, J., 1995, Empowerment Meets Narrative: Listening to Stories and Creating Settings, «Am J Community Psychol.», ottobre, vol. 23, n. 5. Sabate, E., 2001, WHO, Adherence Meeting Report, Genève, World Health Organization. Wagner, E., 1998, Chronic Disease Management: What Will it Take to Improve Care for Chronic Illness?, «Effective Clinical Practice», n. 1, augusto-settembre. Wagner, E., 2000, The Role of Patients Care Teams in Chronic Disease Management, «British Medical Journal», vol. 320, pp. 569-572. Werner, D., Saunders, D., 1997, Questioning the Solution: The Politics of Primary Health Care and Child Survival, Palo Alto (Ca.), Health Wrights Paperback.

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Bib li ogr afi a

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menti scientificamente riconosciuti, ma individualizzati al singolo caso. La sviluppo dell’empowerment presuppone la promozione della self-confidence la cui condizione necessaria e imprescindibile è la fiducia da parte dell’esperto di scienza nei confronti del paziente, sulla sua capacità di comprendere e di agire, secondo la teoria di Freire. Il paziente è l’unico vero esperto della sua malattia, nel suo proprio contesto culturale e sociale, sotto l’aspetto sia organico e funzionale che emozionale. È proprio attraverso la dialogicità del rapporto fiduciario che può essere innescato un circolo positivo che lo accresce quantitativamente e qualitativamente: la fiducia del medico nel paziente rafforza quella del paziente in se stesso; a sua volta, poiché la riflessività della fiducia è condizione importante per accordarla, bisogna innanzitutto avere fiducia in se stessi per poterla concedere, questo crea le condizioni per incrementare la fiducia nell’esperto. Non è un caso che gli autori americani Bodenheimer e Lorig sostengano che la promozione dell’empowerment dovrebbe rientrare nelle Cure Primarie dove la collaborative care e l’educazione al self-management possono essere combinate come aspetti fondamentali della partnership tra paziente e medico di famiglia. È stato anche proposto che la promozione dell’empowerment e dell’educazione al self-management siano inclusi nella definizione europea di medicina generale datane dal WONCA (World Organization Neetwork College and Association), l’organismo internazionale delle società scientifiche della medicina di famiglia.


G ugl iel mo F or ges Davan zati , An dr ea Pacel la 1 La fiducia come risorsa e il suo rendimento economico

Pr em essa Che la fiducia costituisca un presupposto fondamentale per la crescita economica è un dato diffusamente accettato in letteratura (Sacco, Zamagni, a cura, 2002). La fiducia, intesa come “l’aspettativa che nasce all’interno di una comunità omogenea per cultura di un comportamento ‘prevedibile, corretto e cooperativo’” (Di Ciaccio 2002, p. 367) e dunque parte del c.d. capitale sociale, viene anche interpretata come un input della funzione aggregata di produzione, al pari del lavoro, del capitale, delle risorse naturali2. Si argomenta, a riguardo, che la fiducia costituisce una “risorsa per lo sviluppo”, almeno nel senso che l’esistenza di relazioni fiduciarie è un presupposto necessario perché gli scambi possano aver luogo (Sacco, Zamagni, a cura, 2002). In questo saggio, ci si sofferma sulle possibili cause che generano l’instaurarsi e il persistere di rapporti fiduciari e sugli effetti – microeconomici e macroeconomici – di un sistema fondato su reti fiduciarie stabili. La fiducia è qui intesa come l’aspettativa che il soggetto A riserva al rispetto di accordi (contrattuali e soprattutto non contrattuali, formali e soprattutto informali) da parte del soggetto B. Ciò attiene a diversi ambiti della sfera economica, due dei quali verranno di seguito trattati: sul piano microeconomico, la fiducia è una variabile estremamente rilevante nell’erogazione di impegno lavorativo in team; sul piano macroeconomico, la fiducia influenza le aspettative, dei consumatori e degli imprenditori, circa il futuro andamento delle variabili economiche rilevanti, soprattutto in economie monetarie in condizioni di incertezza (laddove, dunque, la moneta ha circolazione fiduciaria)3. Per meglio comprendere la natura e la rilevanza economica del problema si consideri il seguente esempio, noto come “gioco della fiducia” (Smith 2005, pp. 188 sgg.). L’individuo A è posto nella condizione di cooperare con l’individuo B – in condizioni di anonimato – o di non cooperare (defezionare) ed è A a effettuare la prima mossa: il guadagno (payoff) che entrambi ricevono nel caso A scelga di defezionare è di € 10 e nel caso in cui A scelga di cooperare è di € 15 per A e di € 25 per B. Un individuo


Così posta, la domanda rinvia a qualche criterio di razionalità che sostenga la decisione di fidarsi dell’altro. Il criterio di razionalità strumentale – diffusamente accettato nell’economia “ingegneristica” (Sen 1987) oggi dominante – stabilisce che è razionale un’azione che porta a ottenere il massimo beneficio dati i costi, in termini monetari e di tempo. In tal senso, la fiducia non può emergere nel gioco presentato supra, dal momento che un individuo razionale in una interazione one-shot non sceglie un esito incerto a fronte di un esito certo, in una condizione nella quale, non conoscendo l’altro giocatore, non ha basi neppure ragionevoli sulle quali attribuire probabilità all’evento cooperazione o defezione da parte dell’altro giocatore. Non sorprende, dunque, che gli economisti che si attengono al criterio della razionalità strumentale possono spiegare l’emergere della fiducia solo ricorrendo a giochi ripetuti nei quali si fanno interagire individui che, nel tempo, imparano a conoscersi e – per evitare la “punizione” da parte dell’altro in caso di scelte non cooperative – tendono a cooperare (il c.d. tit for tat): ma, in questo caso, la fiducia sussiste perché gli individui non agiscono in condizioni di anonimato. L’esito del “gioco della fiducia” – dunque, la tendenza della gran parte degli individui a fidarsi anche in condizione di anonimato – non è spiegabile alla luce del criterio della razionalità strumentale, e tutto ciò che è possibile affermare a riguardo è che tali individui si comportano in modo irrazionale. Gli economisti cognitivisti sono maggiormente propensi a spiegare i risultati del gioco rinviando alla propensione (naturale o influenzata dal contesto) alla cooperazione e all’altruismo. La contrapposizione fra l’approccio dominante (neoclassico o mainstream) e l’approccio cognitivista risiede, dunque, nel fatto che – nel primo caso – la fiducia è una variabile endogena, generata da interazioni ripetute in condizioni di razionalità della scelta, mentre – nel secondo caso – la fiducia è un dato esogeno. In quest’ultimo caso, la relazione fiduciaria può essere intesa come “fatto isti-

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Conviene a ve r fiducia?

tuzionale”, ossia come fatto regolativo dei comportamenti intersoggettivi (Searle 2005, p. 21)5. In conseguenza di ciò la fiducia è di per sé un fatto, una evidenza la cui origine può non essere razionalizzata o, in genere, spiegata. In particolare, la fiducia è un fatto all’origine di quelle interazioni sociali nelle quali l’efficacia attesa della relazione stessa assume particolare rilevanza nelle scelte degli individui a essa interessati. Come rileva Bolle (1998, p. 1) “la fiducia è una anticipazione di comportamenti reciproci”, la cui esistenza in un contesto sociale dato consente all’individuo X di attribuire a un individuo Y (consumatore o produttore) una particolare qualità o status, il cui riconoscimento e accettazione consentirà allo stesso X di formulare una attesa nell’efficacia della relazione con Y6. L’interpretazione che qui si propone in merito alla funzionalità della fiducia è una estensione dell’approccio cognitivista. Si suggerisce l’idea che gli individui tendono a essere razionali, almeno nel senso che impegnano tempo e risorse per effettuare calcoli7, solo nei casi in cui il costo della scelta sbagliata è alto (Forges Davanzati 2006, cap. IV): siamo, cioè, più propensi a effettuare calcoli nel caso dell’acquisto di un’abitazione piuttosto che nella scelta del bar nel quale consumare un caffè. La rilevanza della scelta, a sua volta, dipende positivamente dal reddito: tanto maggiore è il reddito di un individuo, tanto minore è il costo associato a scelte sbagliate e – coeteris paribus – tanto meno è razionale agire in modo razionale. Questa impostazione consente di dar conto dell’esito del “gioco della fiducia” alla luce dalla scarsa rilevanza della scelta: se il fidarsi ha come esito la perdita di € 1 è verosimile immaginare che – per percettori di redditi medi – gli individui siano più propensi a cooperare rispetto a una probabilità di perdita di € 10.0008. In altri termini, la propensione diffusa a cooperare, così come emerge dal gioco, può dipendere dal basso payoff in caso di perdita relativamente al reddito di cui i partecipanti al “gioco” (virtualmente) dispongono. La conclusione – in prima approssimazione – alla quale si giunge è che “è tanto più verosimile che la fiducia emerga in transazioni nelle quali il rischio di perdita, derivante dal non rispetto dell’accordo, è relativamente basso rispetto alla disponibilità individuale di risorse”. In tali circostanze, conviene aver fiducia, giacché conviene non spendere risorse per effettuare calcoli. Ma questa considerazione ovviamente non dà interamente conto del problema, giacché unicamente stabilisce la condizione permissiva, non cogente, perché un individuo possa fidarsi di un altro. La propensione a fidarsi, che può dipendere da (o identificarsi con) una generica attitudine a cooperare, è la variabile essenziale che, in casi di bassa rilevanza della scelta, dà conto dell’emergere della fiducia. Con il che, in altri termini, si giunge alla conclusione – in seconda approssimazione – che è tanto più verosimile che la fiducia emerga in transazioni nelle quali il rischio di perdita è relativamente basso, “assunta esogenamente data la propensione individuale a fidarsi”. Se la fiducia emerge in transazioni nelle quali il rischio di perdita è relativamente basso, è ragionevole pensare che essa persista laddove gli individui – per reiterazione, nel tempo, del numero di incontri – imparino a conoscere il com-

Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella

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perfettamente razionale e autointeressato potrebbe optare per la scelta di non cooperare se è bassa la probabilità che egli attribuisce alla scelta di cooperazione da parte di B. Ciò a dire che, tanto maggiore è il grado di fiducia che (in questo caso) sussiste fra A e B, tanto maggiore è il guadagno che ciascuno ottiene dalla cooperazione (€ 15 > € 10 per A, € 25 > € 10 per B). D’altra parte, se B defeziona a fronte della scelta cooperativa di A, A ottiene € 0 e B ottiene € 404. Ci si imbatte, dunque, in due aspetti correlati. Il primo attiene alla genesi e alla persistenza di rapporti fiduciari, ovvero alle ragioni di convenienza economica che rendono tali rapporti stabili nel tempo. Il secondo aspetto, sul quale maggiormente ci si soffermerà in questo articolo, attiene agli effetti economici della fiducia, ovvero agli esiti – in termini di efficienza – di transazioni effettuate sulla base dell’aspettativa che la controparte rispetti gli accordi.


L’esistenza di relazioni fiduciarie può essere pensata come strumentale alla riduzione dei costi e dei tempi di ricerca delle informazioni necessarie nell’effettuare le proprie scelte e adattare i propri comportamenti al contesto sociale di riferimento. La peculiarità della relazione fiduciaria è che essa non riduce il costo e i tempi di ricerca delle informazioni solo attraverso la relazione fiduciaria diretta tra due individui (ad esempio tra A e B), ma anche e soprattutto attraverso il network di relazioni fiduciarie che indirettamente possono generarsi da singole relazioni fiduciarie dirette. Stando a Reisman (2002) si può sostenere che la fiducia presenta una proprietà transitiva per la quale se A si fida di B e B si fida di C allora A si fida di C (p. 215): da cui l’amico del mio amico è mio amico (e il suo nemico è mio nemico). A ciò si aggiunge una ulteriore considerazione. La relazione fiduciaria diretta tra individui (ad esempio tra A e B) è spesso il risultato della sperimentazione dei comportamenti. Ciò significa che il senso di sicurezza di A, sulla conformità dei comportamenti di B alle proprie attese, è motivata, nel senso che essa è stata di fatto sperimentata attraverso almeno una interazione diretta tra gli stessi due individui. È interessante notare poi che la genesi della relazione fiduciaria diretta è una condizione non necessaria per il suo successivo mantenimento e per la genesi e il mantenimento delle conseguenti relazioni fiduciarie indirette. In altri termini, la definizione diretta di una relazione fiduciaria tra due individui è condizione sufficiente per la costruzione indiretta di una rete di relazioni fiduciarie di A e B con tutti gli individui con i quali sia A che B hanno instaurato a loro volta direttamente o indirettamente una preliminare o successiva relazione fiduciaria. Supponiamo che una società sia formata da quattro individui: A, B, C e D e supponiamo che A abbia instaurato direttamente una relazione fiduciaria con B e una relazione fiduciaria con C. Per la proprietà transitiva B instaurerà indirettamente una relazione fiduciaria con C. Supponiamo poi che B abbia instaurato una relazione fiduciaria con D, anche in questo caso A instaurerà indirettamente una relazione fiduciaria con D. Poiché indirettamente A instaura una relazione fiduciaria con D e B con C allora anche D instaurerà indirettamente una relazione fiduciaria con C e viceversa. Da quanto su detto si evince che la transitività delle relazioni di fiducia garantisce una forma di sicurezza collettiva sulla conformità dei comportamenti di tutti gli individui interessati alle proprie attese.

La fiducia è una risorsa anche in senso strettamente economico, dal momento che vi sono buone ragioni per ritenere che contesti con elevato stock di capitale sociale siano in grado di generare esiti migliori in termini di efficienza, rispetto a contesti nei quali il capitale sociale è basso. Il caso del lavoro di squadra (team) appare estremamente significativo in tal senso. L’elemento che maggiormente conta è la trasmissione di informazioni fra colleghi (coworkers), che può significativamente incidere sulla produttività del lavoro. La quale, per il singolo lavoratore, è co-determinata da tre variabili: lo stock di capitale fisso (impianti, macchinari) disponibile, che determina ciò che il lavoratore può fare; il capitale umano (l’insieme delle conoscenze generali e tecniche), che determina ciò che il lavoratore sa fare; l’effort (la motivazione al lavoro), che determina ciò che (o quanto) il lavoratore vuole fare. Nel lavoro di squadra, la produttività dipende anche dalla coesione interna al team, ovvero, in ultima analisi, alla fiducia fra i suoi componenti. La teoria economica oggi dominante, o mainstream, esclude dalla propria analisi l’indagine sul funzionamento della relazione di lavoro – e quindi sulla interdipendenza dei comportamenti tra datore di lavoro e lavoratore e/o tra lavoratore e lavoratore – concentrando il proprio interesse sull’analisi del funzionamento del mercato del lavoro e della sua efficienza: perché questo? La risposta a questo interrogativo necessita preliminarmente della seguente considerazione: l’analisi della fiducia nelle relazioni di lavoro richiede l’accettazione dell’idea che i sistemi produttivi sono organizzazioni complesse, i cui risultati sono differenti da quelli derivanti dalla semplice somma degli individui che li compongono. Dire che i risultati sono diversi significa sostenere che il funzionamento di un sistema produttivo si regge non solo su variabili di natura tecnica (tecnologia e produttività) oggettivamente quantificabili ma anche su input qualitativi di difficile quantificazione come può essere proprio l’input fiducia in una ipotetica funzione di produzione9. A parte la difficoltà tecnica di quantificazione della fiducia in una funzione di produzione, l’approccio mainstream esclude, di fatto, e a priori, l’analisi della fiducia – e in genere di ogni forma di interdipendenza dei comportamenti tra datore di lavoro e lavoratore e/o tra lavoratore e lavoratore – per il seguente motivo: l’economia mainstream non dibatte sulla relazione di lavoro ma sul mercato di lavoro. Intendere il lavoro come relazione significa sostenere che il comportamento e le scelte di ogni individuo all’interno di una impresa dipende dalle scelte e dai comportamenti degli altri all’interno della stessa impresa. Concepire il lavoro umano alla luce delle risultanze delle dinamiche di mercato significa invece assumere che le scelte e i comportamenti di ogni individuo all’interno dell’impresa sono il risultato delle scelte e dei comportamenti degli stessi all’esterno dell’impresa perché definiti prima dell’ingresso nel mercato stesso. Il mercato del lavoro, infatti, è l’incontro tra domanda espressa dall’imprenditore e offerta espressa dal lavoratore. L’imprenditore – in quanto soggetto razionale – domanderà solo quella quantità di lavoro in

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portamento altrui. In un contesto dinamico, dunque, transazioni basate sulla fiducia possono verificarsi anche per rischi di perdita progressivamente sempre più alti, a condizione che ciascuno dei due contraenti abbia verificato il costante rispetto degli accordi da parte dell’altro. Il numero di incontri, in altri termini, modifica (ovvero accresce) l’aspettativa individuale in merito al rispetto degli accordi e, per questo, rende possibile la stipula di accordi informali con sempre più elevato rischio di perdita.


non vi sono dubbi (...) sull’importanza della socialità nello sviluppo dell’identità personale [per il quale la fiducia assume un ruolo rilevante], e in particolare di quelle creative [tra le quali quindi il lavoro] a cui l’economia fa riferimento.

La definizione di lavoratore presentata da Veblen è un interessante punto di avvio per l’analisi della fiducia in ambito lavorativo come precondizione per la genesi e il mantenimento della relazione di lavoro. In particolare Reisman (2002, p. 216) definisce la relazione di lavoro come un sistema di norme e relazioni fiduciarie che agevolano il coordinamento e la cooperazione dei lavoratori nella produzione e distribuzione di benefici reciproci. In generale poiché una impresa può essere definita come un sistema sociale al cui interno operano individui con finalità spesso in contrapposizione12 (Williamson 1985), la relazione fiduciaria rappresenta un meccanismo sostitutivo, e maggiormente efficace, dei tradizionali strumenti di controllo e coordinamento dell’operato degli individui operanti al suo interno. L’efficacia della fiducia nei rapporti di lavoro risiede nell’idea che, poiché essa migliora la qualità delle relazioni di dipendenza e interdipendenza dei lavoratori, allora la sua diffusione all’interno dell’impresa consente un incremento della produttività attraverso: a) il fenomeno della reciprocità (Feher, Gachter, Kirchsteiger 1997), b) della lealtà di natura altruistica e

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lavoro non è poi necessariamente fonte di disutilità10. In aggiunta non è possibile discutere di mercato del lavoro in quanto non vi è nessun incontro tra domanda e offerta di lavoro. Come già sostenuto da Keynes (1936) è possibile definire una domanda di lavoro ma non una offerta. Mentre la domanda di lavoro dipende dalle aspettative di profitto (e non dal salario) l’offerta non può essere definita indipendentemente dalle scelte delle imprese per il semplice fatto che essa dipende dalla relativa domanda in quanto si adegua automaticamente a essa11. Già alla fine dell’Ottocento, Veblen (1899, p. 16) – sicuramente l’esponente più rilevante del primo istituzionalismo – riconosceva il lavoratore come “centre of unfolding impulsive activity”, ossia come “centro di azioni inspiegabili e impulsive”. È evidente da questa definizione l’impossibilità di stabilire una regolarità e prevedibilità di comportamento dei lavoratori al contrario di quello che viene proposto dall’analisi mainstream. Se il lavoratore è un “centro di azioni inspiegabili e impulsive” è ovvio che non possono essere definite leggi sul comportamento del lavoratore tendente alla massimizzazione dei benefici della propria attività lavorativa in quanto un comportamento di questo tipo richiede capacità e tempo di calcolo, conoscenza, certezza o prevedibilità, e – come già detto prima – indipendenza; elementi questi necessari per una azione razionale (e quindi non “istintiva”) e motivata (e quindi non “inspiegabile”). Come sostiene Schmid (2004, p. 232) il lavoro è sempre un processo della mente umana e come tale ingloba processi cognitivi che attraverso percezioni, conoscenze e relazioni sociali influiscono sulla performance dell’attività lavorativa stessa. In conseguenza di ciò, come sottolinea Chillemi (2002, p. 492)

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grado di massimizzare il proprio profitto. Dall’altro lato, poi, ogni lavoratore – poiché anch’esso soggetto razionale – offrirà la propria attività lavorativa se ottiene un massimo beneficio in termini di reddito. L’informazione di cui sia l’imprenditore che il lavoratore necessitano per effettuare scelte con esiti efficienti è il salario, il quale costituisce da un lato un costo per l’imprenditore e dall’altro il reddito per il lavoratore. Si può facilmente notare che, per il raggiungimento dei propri obiettivi ogni agente, all’interno del mercato del lavoro, si comporterà indipendentemente dal comportamento dell’altro; ogni lavoratore in pratica ha un obiettivo contrapposto a quello dell’imprenditore (e viceversa); poiché mentre il primo tenderà a chiedere alti salari, come contropartita alla propria offerta e al fine di massimizzare i benefici del lavoro, il secondo tenderà a offrire bassi salari come contropartita alla propria domanda, e al fine di minimizzare i costi del lavoro. Una domanda può qui essere sollevata: l’indipendenza delle scelte e dei comportamenti degli agenti interessati nel mercato del lavoro è una condizione sufficiente perché gli stessi possano raggiungere quanto sperato sapendo che le proprie scelte contrastano con le scelte di altri? In altre parole, se ognuno si comporta per raggiungere i propri obiettivi indipendentemente dal comportamento dell’altro è certo che li raggiungerà? L’economia mainstream cerca di dare risposta a questi quesiti indirettamente attraverso l’ipotesi del funzionamento dei mercati (e quindi anche del mercato del lavoro) in termini di concorrenza. Più in dettaglio, la concorrenza dei mercati fornisce la condizione necessaria per equilibrare le scelte di tutti gli agenti in esso coinvolti, eliminando così ogni forma di possibile contrasto derivante dal perseguimento di obiettivi contrapposti. All’interno del mercato del lavoro la concorrenza è garantita quando il salario è perfettamente flessibile; la flessibilità del salario diventa, quindi, la condizione necessaria per armonizzare le scelte razionali di ogni singolo agente creando una sorta di interdipendenza dei comportamenti degli agenti, la quale si esaurirà nel momento in cui il salario raggiunge quel livello per il quale la domanda di lavoro sarà perfettamente uguale all’offerta. Si può in conclusione affermare che, per l’economia mainstream l’interdipendenza dei comportamenti diventa una conseguenza spontanea (anche se non voluta) del funzionamento competitivo dei mercati, in grado di armonizzare le scelte indipendenti e razionali dei singoli agenti. Contrariamente all’approccio mainstream l’analisi della fiducia nelle relazioni di lavoro sono maggiormente presenti nell’approccio post keynesiano e istituzionalista, in quanto in entrambi i casi si concorda sull’idea che non è rilevante dibattere in termini di mercato del lavoro ma di relazione di lavoro (Lavoie 1992). Analizzare il lavoro in termini di mercato significa equiparare il lavoro a una merce oggetto di vendita da parte di alcuni (i lavoratori) e oggetto di acquisto da parte di altri (gli imprenditori); secondo alcuni autori (vedi fra gli altri Eichner 1986) il lavoro è un particolare input per la produzione che presenta peculiarità differenti dagli altri input, come ad esempio il capitale: il lavoro ad esempio non può essere accumulato, il


Il pia no m a cr oeconom ico: la pr oduzione politica di fiducia e la sta bilizzazione delle aspe tt at ive La teoria keynesiana si fonda sull’idea in base alla quale il tasso di occupazione e di crescita economica sono funzione diretta della domanda aggregata, quest’ultima essendo data dalla somma della domanda di beni di consumo espressa dalle famiglie e dalla domanda di beni di investimento espressa dalle imprese. La ratio di questa impostazione è nella constatazione in base alla quale le imprese accrescono l’occupazione soltanto se si aspettano di poter vendere i loro prodotti, il che, a sua volta, è reso possibile da una elevata domanda di beni di consumo e/o di investimento18. La domanda di beni di consumo si assume essere tanto maggiore quanto maggiore è il reddito delle famiglie, data la loro propensione al consumo. Gli investimenti si assumono essere funzione inversa del tasso di interesse (essendo quest’ultimo un costo per le imprese) e principalmente dipendenti dalle aspettative imprenditoriali in ordine alla possibilità di vendita e, dunque, al futuro andamento della domanda aggregata. Stando a Keynes (1936), non vi può essere alcun fondamento razionale nella determinazione delle aspettative: esse sono unicamente dipendenti dagli animal spirits degli imprenditori e, dunque, sono intrinsecamente erratiche. La fiducia, in questo contesto teorico, attiene dunque al piano macroeconomico ed è concepibile come fiducia nel futuro, in tal senso indipendente dall’aspettativa individuale circa il comportamento di una controparte nota: per tale ragione, la si definisce qui fiducia sistemica. Così intesa, la fiducia è una variabile di massimo rilievo nel determinare esiti efficienti nel modello keynesiano. Ciò da almeno due punti di vista: a) Fiducia e investimenti. Avendo stabilito che gli investimenti sono funzione soprattutto delle aspettative imprenditoriali, e che queste sono sostanzialmente erratiche, il problema che si pone ai policymakers è individuare gli strumenti che possano rendere ottimisti gli imprenditori, in condizioni nelle quali spontaneamente non lo sono. La manovra del tasso di interesse – che è uno degli strumenti a disposizione dei responsabili politici (segnatamente, della Banca Centrale) per la gestione della politica economica – può rivelarsi uno strumento inefficace a tal fine, giacché – stando a Freinet (1962, p. 8) – “si può portare un cavallo alla fonte, ma non lo si può obbligare a bere”. In altri termini, se gli animal spirits imprenditoriali sono orientati al pessimismo, la riduzione del costo del credito può non incentivare l’aumento degli investimenti, essendo l’aspettativa sull’andamento della domanda aggregata la variabile prioritaria nel determinare le decisioni di aumento (o non aumento) della produzione. Occorre allora far riferimento ad altri strumenti. La domanda aggregata, così come definita supra, può includere lo Stato, aggiungendo a consumi e in-

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(free-riding) nella seguente accezione: chi è in possesso di maggiori informazioni trova conveniente non trasmetterle per accrescere la probabilità del rinnovo del proprio contratto di lavoro, a danno dell’efficienza del team17.

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non opportunistica (Simon 1993) e c) della affidabilità dei comportamenti (Chillemi 2002) in quanto “[i lavoratori] sviluppano un mutuo sentimento di appartenenza [all’impresa] che può [motivarli] a produrre più dello standard richiesto” (p. 489)13. L’aumento della produttività, così generata, consente un aumento dei salari per i lavoratori e un aumento dei profitti dell’impresa. Se da un lato l’aumento di produttività consente alle imprese di aumentare i profitti14, e dall’altro l’aumento della produttività genera anche un aumento dei salari15, ne risulta che, dati gli obiettivi originariamente individualistici e contrapposti dei membri dell’impresa (profitti contro salari), la fiducia diventa un elemento di cooperazione e quindi di raggiungimento di un obiettivo comune (la produttività) a sua volta strumentale al raggiungimento degli obiettivi individualistici (profitti e salari) (Glaeser et al. 1999, p. 3; Chillemi 2002). In aggiunta a questo occorre sottolineare che ogni relazione lavorativa richiede almeno due tipi di relazioni fiduciarie: a) una diretta o indiretta tra lavoratore e datore di lavoro16 e b) una serie di relazioni fiduciarie, dirette e indirette, tra lavoratore e altri lavoratori. La relazione fiduciaria del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti consente al datore di lavoro di eliminare – almeno soggettivamente – ogni forma di incertezza circa il rispetto dei contenuti del contratto di lavoro da parte del proprio dipendente. Dall’altro lato invece il lavoratore – come sostenuto da Gutmann e Thompson (1996, p. 27) – scambia il proprio impegno al rispetto degli obblighi contrattuali, e quindi cede la propria fiducia all’imprenditore, a patto che quest’ultimo faccia altrettanto almeno in termini di: a) garanzia formale e sostanziale di mantenimento del proprio lavoro e del proprio reddito per tutto l’arco della durata del contratto stesso, b) sicurezza e protezione nell’ambiente di lavoro, c) predisposizione di un ambiente potenzialmente favorevole all’acquisizione di skills dei lavoratori e d) predisposizione di un ambiente di lavoro cooperativo e non conflittuale (Jahoda 1979; 1982; Williamson 1985; Williams 1993). Politiche di deregolamentazione del contratto di lavoro possono determinare un aumento della concorrenza fra lavoratori, a ragione del fatto che la maggiore incertezza sul rinnovo del contratto agisce come strumento di incentivo all’aumento del proprio rendimento e, per converso, alla riduzione del rendimento dei coworkers. Ciò può realizzarsi tipicamente mediante il rifiuto di trasmettere informazioni che possano essere rilevanti per l’emissione di un segnale di elevata affidabilità al proprio datore di lavoro. Poiché la trasmissione di informazioni all’interno del team è essenziale per garantirne una elevata produttività, la deregolamentazione contrattuale può accrescere il rendimento del singolo lavoratore ma, al tempo stesso, ridurre la produttività dell’insieme dei lavoratori occupati in una unità produttiva. Più tecnicamente, si può stabilire che se la funzione di produzione non è separabile in funzioni additive (ovvero non è possibile imputare quote di output ai singoli lavoratori), la elevata credibilità della minaccia di non rinnovo del contratto associato alle politiche di deregolamentazione può incentivare comportamenti opportunistici


No te 1 Frutto di una riflessione congiunta, questo saggio è stato materialmente steso da Guglielmo Forges Davanzati per le sezioni I, II e V, per le sezioni III e IV da Andrea Pacella.

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L’incertezza sul reddito futuro può dipendere da una molteplicità di circostanze, fra le quali, in primis, la durata del contratto di lavoro. In tal senso, si può dimostrare che le politiche di deregolamentazione contrattuale, diffusamente accolte oggi e che segnano il passaggio da contratti a tempo indeterminato a contratti a tempo determinato, accrescono il grado di incertezza dei lavoratori – dal momento che rendono meno certo il flusso di guadagni derivante dall’attività lavorativa per l’intera sua durata – e, dunque, in base a quanto fin qui rilevato, ne riducono la propensione al consumo. La riduzione della propensione al consumo determina, a sua volta, una riduzione della domanda aggregata e dell’occupazione. In tal senso, le politiche di deregolamentazione contrattuale, sebbene possano risultare efficaci sul piano microeconomico21 e sebbene non sia ovviamente questo l’obiettivo che si propongono, agiscono sostanzialmente come strumenti di propagazione di aspettative pessimistiche, dunque di sfiducia sistemica, almeno per quanto attiene al comportamento dei lavoratori-consumatori. Per converso, politiche di regolamentazione contrattuale – associate alla stabilità dell’impiego – riducono il grado soggettivo di incertezza e, conseguentemente, accrescono la propensione al consumo, la domanda aggregata e l’occupazione (Forges Davanzati, Realfonzo 2004). La produzione politica di fiducia può dunque realizzarsi anche per il tramite di interventi finalizzati a rendere stabili le relazioni di lavoro. Più in generale, come scrive Zanini (2005, p. 350): “Solo la fiducia può sostenere la decisione a investire, mentre la sfiducia determina piuttosto il prevalere di scelte liquide”. In tal senso, la deregolamentazione contrattuale – se e in quanto accresce la sfiducia sistemica – riduce la propensione al consumo e contestualmente accresce la liquidità detenuta a scopo precauzionale, riducendo la domanda aggregata (Pacella 2005)22. In definitiva: assumendo che la fiducia non è generata né propagata spontaneamente, e considerando – alla luce di quanto fin qui argomentato – che la fiducia è, sul piano microeconomico come sul piano macroeconomico, una variabile essenziale per determinare esiti efficienti in termini di produttività, crescita e occupazione, la produzione politica di fiducia – realizzabile mediante interventi diretti dello Stato e/o attraverso interventi di regolamentazione dei mercati (segnatamente del mercato del lavoro) – è funzionale alla stabilizzazione delle aspettative e, conseguentemente, al raggiungimento di obiettivi soddisfacenti sotto il profilo dell’efficienza di sistema; al tempo stesso, proprio in quanto la fiducia è una variabile strettamente associata alla creazione di un ambiente cooperativo sul piano micro e macrosociale, la produzione politica di fiducia è anche funzionale alla realizzazione di risultati potenzialmente significativi per quanto attiene alla coesione sociale, alla riduzione della conflittualità, alla diffusione di codici di comportamento con maggiore valenza etica.

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vestimenti la spesa pubblica (per la costruzione di opere pubbliche, il pagamento di sussidi, pensioni, stipendi ai lavoratori del settore pubblico ecc.) e detraendo l’imposizione fiscale. È noto che Keynes e gli economisti keynesiani suggeriscono politiche di deficit spending (aumento della spesa pubblica a parità di imposte) per accrescere l’occupazione19. Inoltre, sebbene la questione non sia esplicitamente affrontata da Keynes, si può dedurre dal complesso dell’argomentazione keynesiana che “la spesa pubblica può svolgere un ruolo determinante nella stabilizzazione delle aspettative imprenditoriali”. Ciò a ragione del seguente meccanismo. L’aumento della spesa pubblica, a parità di imposte, accresce la domanda aggregata, l’aumento della domanda aggregata rende possibile e conveniente un aumento della produzione; da cui, se la spesa pubblica non genera effetti di spiazzamento a danno degli investimenti privati20, ovvero se tali effetti non sono attesi, il conseguente aumento (effettivo o atteso) della domanda aggregata migliora le aspettative imprenditoriali determinando – anche a parità di tasso di interesse – un aumento degli investimenti, dell’occupazione e del tasso di crescita. La stabilizzazione delle aspettative attraverso la produzione politica di fiducia, per il tramite della politica fiscale, è anche il risultato della intrinseca instabilità delle economie di mercato, nella visione keynesiana. L’instabilità, a sua volta, dipende dalla erraticità delle aspettative che è sostanzialmente riconducibile all’incertezza. L’incertezza, per Keynes, è un dato strutturale delle economie capitalistiche di mercato e la riduzione del grado di incertezza è – dal punto di vista della politica economica – il principale fine intermedio per l’aumento dell’occupazione e del tasso di crescita. La spesa pubblica, in quanto contribuisce a rendere stabile la domanda aggregata, svolge dunque anche il ruolo di variabile che riduce il grado soggettivo di incertezza. Il che porta a concludere che, per il tramite della stabilizzazione delle aspettative e della fiducia sistemica da parte dello Stato, la spesa pubblica risulta essere complementare alla spesa privata. b) Fiducia e consumi. L’incertezza attiene anche alle scelte in ordine all’allocazione del reddito fra consumi e risparmi. Si è visto che la domanda aggregata include i consumi ma non i risparmi. Per il fine di accrescere la domanda aggregata, occorre, dunque, creare un clima di fiducia che renda possibile la massima destinazione dei redditi in consumi. La variabile qui rilevante è la propensione al consumo, assunta esogena e dipendente dalla psicologia dei consumatori nell’opera keynesiana. Sviluppi recenti in ambito keynesiano (Forges Davanzati, Realfonzo 2004) hanno mostrato come la propensione al consumo possa essere considerata una variabile endogena, funzione del grado soggettivo di incertezza. Più precisamente, si ritiene ragionevole assumere che – se gli individui desiderano mantenere il proprio livello di consumi pressoché costante nel tempo – un elevato grado di incertezza sulle prospettive di reddito futuro comporta una riduzione oggi della propensione al consumo. La riduzione della propensione al consumo, a sua volta, comprime la domanda aggregata, dunque i redditi delle famiglie, confermando l’aspettativa di una riduzione dei redditi, in base a un circolo qui vizioso di “profezie autoverificantesi” (Arrow 1987).


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Bib li ogr afi a Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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18 Contrariamente al modello neoclassico, dove le decisioni di occupazione da parte delle imprese dipendono esclusivamente dalla produttività dei lavoratori assunti. 19 Per la dimostrazione dell’efficacia di queste politiche, non essendo questa la sede per affrontare il tema, si rinvia a Graziani 1992. 20 Per spiazzamento si intende una condizione per la quale la spesa pubblica riduce gli investimenti privati; il che può accadere per la riduzione delle quote di mercato sottratte alle imprese private dalla produzione pubblica (il c.d. spiazzamento reale) e/o per l’aumento dei tassi di interesse imputabile all’emissione di titoli pubblici per il finanziamento degli investimenti (il c.d. spiazzamento finanziario). Sul tema si rinvia a Graziani 1992. 21 Il fatto che la singola impresa possa ottenere maggiori profitti con contratti a tempo determinato, dal momento che è ragionevole attendersi una più alta produttività del lavoro conseguente a una minaccia di licenziamento (o di non rinnovo del contratto) più credibile, non implica che la collettività delle imprese sia avvantaggiata da tali politiche, giacché la riduzione della propensione al consumo riduce, per tutte, la domanda. In tal senso, le politiche di deregolamentazione contrattuale generano una divergenza fra ciò che è conveniente sul piano microeconomico e ciò che è socialmente razionale, sul piano macroeconomico. 22 Una interpretazione analoga è stata proposta da Rivot (2001, p. 137) con riferimento alla deregolamentazione salariale: “Keynes is in favour of a rigid wage policy, because this leads to the stability of prices, and hence to the stability of the economic system as a whole”.

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2 Occorre, tuttavia, rilevare che questa operazione incorre nel problema della misurazione della fiducia, variabile qualitativa e multidimensionale. 3 La moneta ha circolazione fiduciaria quando è accettata su basi puramente convenzionali, generalmente in assenza di convertibilità in oro e, dunque, indipendentemente dal suo valore intrinseco. Le transazioni in moneta sono, per loro natura, soggette a un maggior margine di incertezza relativamente al loro esito ed è, dunque, maggiore il peso che la fiducia riveste rispetto a scambi fondati sul baratto. Ciò a ragione di due cause. In primo luogo, l’esistenza di inflazione può rendere più costoso in termini reali il rispetto dell’accordo, dal momento che il creditore, in assenza di perfetta indicizzazione, riceve un importo effettivo minore di quello contrattato. In secondo luogo, la moneta svolge anche – laddove soprattutto funziona come promessa di pagamento – la funzione di trasposizione nel tempo dei valori economici (sul tema si rinvia a Graziani 1994). 4 Si osservi che il payoff congiunto (in caso di cooperazione) è maggiore del payoff individuale (in caso di defezione) giacché si ritiene che i comportamenti cooperativi diano luogo a esiti migliori in termini di efficienza. Il tema verrà ripreso infra. Gli esperimenti effettuati da Vernon Smith, con riferimento al gioco della fiducia, hanno mostrato che il 75 per cento del campione selezionato tende a cooperare. L’autore interpreta questo risultato alla luce di una spontanea tendenza a cooperare o ad assumere propensioni altruistiche. L’esperimento viene criticato in considerazione del fatto che – si ritiene – gli individui selezionati nel tempo per partecipare al “gioco” sarebbero individui “ingenui” (giovani undergraduate): l’estensione del “gioco” a individui adulti (graduate) dà luogo, tuttavia, a risultati molto simili. 5 Searle definisce una istituzione un sistema di regole collettive e generalmente accettate che originano “fatti istituzionali”, ossia “regole costitutive” di una interazione sociale il cui funzionamento è così strutturato: “X conta come Y nel contesto C”, dove X identifica certe caratteristiche di un oggetto, di una persona mentre Y assegna uno speciale status a X. 6 Avendo acquisito che alla fiducia – diversamente dal contesto neoclassico – non è attribuibile un’accezione di razionalità, ne deriva che le relazioni fiduciarie, sebbene efficaci, possano non determinare esiti efficienti. 7 Sul tema si rinvia al pionieristico contributo di Simon 1955. 8 In modo analogo, Vernon Smith (2005, p. 196) osserva che “Se la reciprocità è percepita come uno scambio in cui ogni giocatore guadagna relativamente al risultato di default (SPE), allora il risultato cooperativo deve comportare un incremento della dimensione dei prezzi da dividere tra i due giocatori”. In tal senso, il costo-opportunità della scelta (ovvero ciò che si perde dal fare qualcosa: dunque del non fare altro) conta nel determinare esiti cooperativi o meno. 9 La funzione di produzione rappresenta la relazione di dipendenza della produzione di un dato output dalla quantità di determinati input impiegati. Sulle difficoltà logiche che la sua costruzione può comportare si rinvia – per un inquadramento generale del problema – a Graziani 1993. 10 Per l’economia mainstream, il lavoro è sempre e soltanto fonte di fatica, pena, sforzo. 11 Ciò che può eventualmente limitare l’offerta in ipotesi di una eccedenza di domanda è la disponibilità fisica della forza lavoro, mentre ciò che può limitare la domanda in ipotesi di eccedenza di offerta sono le aspettative negative delle imprese circa la profittabilità futura dei propri investimenti. 12 Si pensi ad esempio alla contrapposizione di interessi tra un imprenditore il cui obiettivo principale è quello di ottenere profitti elevati e il lavoratore il cui obiettivo principale è quello di ottenere salari elevati. 13 Cfr. Mayo 1933; Akerlof 1982. 14 Anche se non sufficiente, dato che l’aumento dei profitti effettivi dipenderà anche dalla abilità o dalla possibilità di collocare sul mercato quanto prodotto. 15 Anche se non sufficiente, dato che l’aumento effettivo dei profitti dipenderà anche dal potere contrattuale dei sindacati. 16 La possibilità di una relazione diretta o indiretta tra lavoratore e datore di lavoro dipenderà dalla dimensione dell’impresa. In una impresa di piccole dimensioni, poiché il numero dei dipendenti è limitato, è più facile che il datore di lavoro instauri direttamente la relazione fiduciaria con tutti i propri dipendenti. Nelle imprese di grandi dimensioni ciò risulta alquanto difficile e spesso quindi il datore di lavoro delega il compito di definire i rapporti di fiducia con i propri dipendenti attraverso l’intervento di managers, capi squadra, rappresentanti ecc. 17 L’idea che la flessibilità contrattuale disincentivi le relazioni fiduciarie è stata proposta, fra gli altri, da Sennett (1999, p. 10) nei seguenti termini: “com’è possibile perseguire obiettivi a lungo termine in un’economia che ruota attorno al breve periodo? Com’è possibile mantenere fedeltà e impegni reciproci all’interno di aziende che vengono continuamente fatte a pezzi e ristrutturate?”. A questo riguardo, Sennett fa riferimento a una “società impaziente”.


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C arl o Gel os i La fiducia nelle istituzioni

Negli ultimi anni si è aperto un diffuso dibattito sulle prospettive del paese, relativamente sia alla crescita sociale che a quella politica ed economica. In particolare, da un punto di vista più prettamente culturale si è sviluppata un’analisi sul tema del recupero e della valorizzazione dell’identità nazionale e locale, mentre dal punto di vista politico si è aperta una riflessione sui possibili strumenti che lo Stato può individuare per recuperare, da parte dei cittadini, fiducia e credibilità verso le istituzioni. Questo dibattito a tratti ha anche assunto la caratteristica di un confronto, senza esclusione di vivaci polemiche e aspri scontri tra le parti politiche e tra queste e le rappresentanze sociali ed economiche. Inoltre, ha coinciso temporalmente, nell’arco di almeno quindici anni, con un periodo in cui si sono innescati processi di cambiamento a livello politico ed economico, che hanno contribuito a definire i contorni di un nuovo quadro sociale e istituzionale teso a ricreare condizioni di legittimazione del sistema pubblico rispetto a una incipiente sfiducia sulle sue capacità di governo del paese. Queste trasformazioni cui il legislatore ha inteso porre mano, con la volontà (o speranza) di rigenerare un sistema sociale, economico e politico che andava via via sempre più degradandosi, hanno portato a delineare un nuovo assetto istituzionale e amministrativo, basato sul principio della prossimità, ovvero della vicinanza ai cittadini. All’indomani delle vicende, non solo politiche e per taluni versi anche drammatiche, che hanno caratterizzato i primi anni Novanta (connesse alle note vicende di Tangentopoli), ci eravamo tutti resi consapevoli della necessità di avviare un radicale processo di rinnovamento del paese e che era inevitabile che esso dovesse partire e svilupparsi da un percorso di modernizzazione dello Stato e di responsabilizzazione dei comportamenti e delle azioni amministrative. Tale urgenza si riassumeva nella coscienza, ormai da più parti e a più livelli espressa, che per recuperare credibilità e ri-legittimazione verso le istituzioni, occorresse puntare a un riavvicinamento tra governo e governati, tra amministrazioni e amministrati, in breve a un recupero di un tessuto partecipativo che i cittadini avevano da tempo perduto, e non per causa loro. Questo tema doveva assolutamente divenire una priorità nell’agenda istituzionale, poiché alla base


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Tuttavia, di un certo rilievo è la casuale coincidenza che proprio quest’anno, in cui si celebra un così importante anniversario, i sessanta anni della Repubblica (2 giugno 1946-2 giugno 2006), abbia coinciso con la chiamata alle urne degli elettori italiani (il 25 giugno 2006), ai quali è stato chiesto di manifestare o meno una approvazione del ridisegno di parte della Carta Costituzionale, approvato nella scorsa legislatura, nel novembre 2005, dall’allora maggioranza parlamentare e che definiva un ulteriore cambiamento, rispetto al passato, nell’assetto dei rapporti e delle competenze tra amministrazioni centrali e territoriali, nonché nella composizione e nelle funzioni di alcune delle principali istituzioni (poteri del capo dello Stato, del presidente del Consiglio, elezione e composizione della Corte Costituzionale ecc). Se da una parte, dunque, va rilevata tale casuale coincidenza temporale, dell’anniversario della nascita della Repubblica e del primo referendum confermativo nella storia del paese, è interessante notare come l’esito di quest’ultimo abbia con una elevata maggioranza di voti (61,7 per cento), respinto la riforma costituzionale, facendo assumere direttamente all’espressione popolare una rinnovata e significativa adesione verso quel quadro, di diritti e doveri dei cittadini nonché di divisione di funzioni e poteri, che i padri costituenti avevano delineato e sancito sessanta anni fa promulgando una Costituzione ancora percepita come viva e funzionale alle esigenze di sviluppo del paese. In breve, potremmo descrivere il voto degli italiani recatisi alle urne come una manifestazione di fiducia nell’assetto democratico della nazione. Tale fiducia, tuttavia, viene nuovamente riposta nella capacità delle istituzioni di adempiere al proprio mandato e di assolvere i compiti cui sono chiamate e ciò non comporta che non si possa o non si debba in futuro definire e aggiornare in maniera diversa il profilo della amministrazione del paese. La decisione popolare, in questo senso, assume anche un carattere di sfida per chi governa, nel senso di nuova assunzione di responsabilità e serietà verso i cittadini che, comunque, democraticamente, possono togliere tale legittimazione, sfiduciando la classe politica. Il ragionamento sul tema della fiducia (e della sicurezza), per coloro che, come chi scrive, si occupano del rapporto tra istituzioni e cittadini, in particolare sotto il profilo degli strumenti di partecipazione e condivisione, non poteva pertanto non fare riferimento al momento partecipativo per eccellenza, ovvero l’espressione del voto e dunque del consenso elettorale quale supremo momento di esternazione della fiducia istituzionale. È pertanto di rilievo che questo tema sia stato scelto come oggetto di indagine e riflessione nel cammino di ricerca che anche gli studiosi dei processi di cambiamento della società intendono svolgere per approfondire le dinamiche e le motivazioni che reggono le nuove modalità di relazione tra gli individui e le organizzazioni complesse. Ciò può essere facilitato dal desiderio di analizzare, da più punti di osservazione, il cambiamento che questa società, per troppo tempo ingessata, a nostro parere, nelle sue sole tradizioni e nei suoi paradigmi culturali, sta sperimentando. Attraverso il desiderio di comunicare, di riconoscersi in se stessa e nel confronto con i modelli che le vengono proposti, e so-

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della fiducia dei cittadini verso lo Stato non poteva, e non può, che esserci la credibilità delle istituzioni e di chi le governa, conseguita attraverso un sistema di partecipazione e condivisione capace di coinvolgere, sia nel momento decisionale che in quello amministrativo, i cittadini come singoli individui e nel loro insieme. Questo processo di cambiamento, che qualcuno potrebbe anche considerare ricco di trasformazioni (talvolta non senza una punta di sarcasmo con riferimento ai cosiddetti trasformismi della politica), si è andato caratterizzando più specificamente attraverso la ridefinizione, seppur parziale, ma lentamente progressiva, delle competenze e delle funzioni tra amministrazioni centrali e territoriali. L’impegno profuso dai Parlamenti e dai governi, di diversa maggioranza e orientamento politico, succedutisi nell’arco delle tre scorse legislature, si è reso concreto attraverso importanti passaggi normativi, a volte considerati di portata epocale perché modificavano, sia in parte sia del tutto, l’assetto delle funzioni e dei poteri amministrativi. È, pertanto, importante indicare alcuni di questi atti normativi a testimonianza delle materie in cui essi hanno inciso profondamente. Per quanto concerne i nuovi modelli di governance del paese, dimostratisi adeguati, nel tempo, a recuperare un forte elemento (che precedentemente appariva del tutto assente) di partecipazione e condivisione della cosa pubblica da parte dei cittadini, non si può non considerare come momento iniziale di questo percorso di cambiamento degli assetti istituzionali, l’insieme delle riforme elettorali (1993), tese a coinvolgere e responsabilizzare più strettamente eletti ed elettori, dando, per lo meno in ambito amministrativo, una investitura diretta. Inoltre, si è proceduto all’adozione di più moderni strumenti di semplificazione, relazione e comunicazione, grazie ad alcune normative, tra le quali vanno ricordate: la legge 241/90 in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, aggiornata nel 2005 dalla legge n. 15 concernente modifiche alle norme generali sull’azione amministrativa; il D. Lgs. n. 29/93 che ha istituito l’ufficio relazioni con il pubblico e non per ultima la legge 150/2000 in materia di comunicazione pubblica e istituzionale. Per quanto riguarda i poteri e le funzioni amministrative sul territorio, il decentramento e la devolution, partendo dalle cosiddette leggi Bassanini, ovvero la legge 142/90, in materia di ordinamento degli enti locali, la legge 59/97 relativa al conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali e la legge 127/97, misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa. Non vanno poi dimenticate le due riforme di carattere costituzionale, contenute nella Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 - Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione e successivamente la Legge costituzionale 18 novembre 2005 - Modifiche alla parte II della Costituzione. Questo percorso che abbiamo voluto ricordare per sommi capi e citando solo alcuni tra i principali interventi legislativi, ha accompagnato e sostenuto, come si può rilevare, i cambiamenti del quadro istituzionale e amministrativo nazionale e locale.


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Alla domanda “il suo giudizio nei confronti delle istituzioni quanto dipende dalla qualità dei servizi pubblici che lei utilizza?”, le risposte dei cittadini intervistati sono state: per nulla 6,4 per cento, poco 21,7 per cento, abbastanza 57,1 per cento, molto 14,8 per cento. La somma delle due risposte positive fa raggiungere il 71,9 per cento dei cittadini italiani che considera rilevante la qualità percepita nei servizi sotto casa per giudicare, nel loro complesso, istituzioni vicine e lontane. Andando a verificare, poi, con quale ordine gli italiani riponessero la propria fiducia nelle istituzioni, questo legame trovava al primo posto il Comune, seguito dalla Provincia, al terzo posto la Regione, al quarto le istituzioni centrali (governo e Parlamento). A questo punto, possiamo affermare come si evidenzi chiaramente che la fiducia verso il sistema di governo di un paese non possa prescindere dalla percezione che si ha del modo in cui esso è governato, dagli ideali condivisi e, non per ultimo, dalla possibilità di fruire di servizi all’altezza delle attese. Inoltre la misurazione del grado di fiducia mette in evidenza come siano le istituzioni locali più vicine ai cittadini, quelle dove viene riposta maggiore fiducia. Riparte il ragionamento, dunque, dal fatto che non è possibile provare fiducia in mancanza di stabilità, di ordine economico, di qualità della vita e, in maniera strettamente connessa, di sicurezza. Tale percezione viaggia alla pari del concetto di speranza di poter disporre degli elementi qualitativi di ordine sociale ed economico grazie ai quali progettare e realizzare le proprie aspettative, il proprio progetto di vita. La fiducia guarda con speranza verso il futuro ma si fonda sulle certezze, sulle reali possibilità di crescita e movimento. Per questo, senza sicurezza (reale o percepita che sia) non può esservi fiducia e questa deve essere una priorità della politica e di ciascun governo (Pelanda, Savona, pp. 19 e 28). È prerogativa delle istituzioni lavorare al fine di affermare una condizione diffusa di sicurezza, tale da ingenerare e rafforzare la fiducia dei cittadini. Ricorda Gregorio Arena in un suo recente intervento (2005), come anche l’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, affermava che la fiducia è il principale bene pubblico che i governanti debbono preoccuparsi di garantire ai cittadini. Questa preoccupazione concerne la capacità o meno da parte di chi deve amministrare un paese, di garantire coesione sociale, sviluppo economico e crescita culturale, tutti e tre pilastri di un processo di modernizzazione e innovazione in una società tesa a non cedere all’entropia. Accanto alla politica, all’economia, all’amministrazione, si pone, pertanto, il dovere di assumersi la responsabilità di creare le condizioni di fiducia e questa è elemento fondante della partecipazione, senza di essa non vi è condivisione. La comunicazione è lo strumento che consente di conoscere e mettere in comune, dunque di partecipare. Accanto alla fiducia si pone la condizione principale grazie alla quale può maturare il senso di legittimazione verso le istituzioni e chi le governa, ovvero la sicurezza. Il dibattito intorno alla sicurezza è andato crescendo, negli ultimi cinque anni, in tutto il mondo occidentale e ha avuto come punto di riferimento il contesto delle relazioni internazionali e, più specificamente, il rapporto con l’universo arabo e islamico in particolare. Un dibattito dal duplice carattere, culturale e

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prattutto nel più alto anelito di disgelarsi e aprirsi, la società italiana sembra alla costante ricerca di un nuovo modo d’essere e di rappresentare la propria identità, non come semplice e pura immagine, bensì come concreta modalità per rapportarsi con altre situazioni, società e culture. Un ragionamento sulla fiducia non può che misurarsi con alcuni elementi quali il sentimento di sicurezza e di tranquillità, nonché con la speranza nel miglioramento delle condizioni proprie e dell’ambiente in cui si vive. Per utilizzare un concetto recentemente proposto anche da alcuni noti studiosi dei processi di sviluppo economico, siamo entrati davvero in un’epoca in cui è a rischio la fiducia, ovvero l’idea che il futuro che ci attende possa non essere migliore del presente, e tutti sappiamo che il mondo ha bisogno di fiducia (Pelanda, Savona 2005, p. 3). Se questo rischio è reale, vero e condiviso, occorre allora mettere mano a un processo di costruzione della fiducia e di rafforzamento dei soggetti che possono, in misura diversa, rappresentare un punto di riferimento per essa. Alcuni stimoli per un ragionamento si sono sviluppati nel tempo, grazie anche ad alcune letture e partecipazioni a dibattiti che hanno avuto come punto focale proprio la ricerca del senso dell’identità nazionale e del ruolo delle istituzioni. Per comprendere meglio l’importanza della fiducia nell’ambito della amministrazione pubblica, può essere interessante e di qualche aiuto riprendere i dati di una ricerca alla quale chi scrive ha partecipato con altri ricercatori nel 2004, il cui tema generale era la percezione del valore dei servizi pubblici da parte dei cittadini, nella loro più ampia accezione di utenti e clienti. Apparentemente la connessione con il tema della fiducia appare di difficile comprensione. Tuttavia occorre partire dal presupposto che il ruolo delle istituzioni nel corso del tempo si è reso maggiormente percepibile non solo per il fatto che esse esistano per volere della norma (Stato-soggetto), ma soprattutto per la loro capacità di esprimersi e legittimarsi attraverso l’esercizio quotidiano del proprio mandato e dunque la percezione della qualità dei servizi (e prodotti) che sono in grado di offrire ai cittadini. Se poi ragioniamo sul fatto che i servizi al cittadino sono prevalentemente di carattere pubblico e sono il risultato dell’attuazione di programmi e iniziative sulle quali il sistema politico da sempre si confronta e chiede il consenso da parte degli elettori, allora è più facile comprendere che sul terreno pratico dell’esercizio della governance si gioca la credibilità e la legittimazione di una classe di governo, per usare una terminologia di altri tempi ma ancora assai concreta. L’interesse verso questa indagine sui servizi locali può essere diretto all’analisi di due dei quesiti posti al campione intervistato rappresentativo della popolazione. Si tratta, in particolare, del tentativo di effettuare una possibile misurazione del grado di fiducia dei cittadini nelle istituzioni dello Stato e contestualmente della relazione che intercorre tra fiducia e livello percepito della qualità dei servizi pubblici, tema questo riconducibile senz’altro a un elemento che in misura rilevante caratterizza la capacità delle amministrazioni di gestire la governance locale, ovvero di essere vicini ai cittadini attraverso i servizi erogati e la loro qualità, reale e/o percepita.


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emblemi simbolici o nei sistemi esperti. Riguarda il modo di agire delle persone (Giddens 1990, pp. 41-42). Un tratto comune unisce a nostro parere sia la fiducia che la sicurezza ed è la conoscenza. Non si prova, ad esempio, il primo sentimento se non si conosce la persona in cui riporre la propria confidenza e su cui fare affidamento, d’altra parte si prova senso di tranquillità se si ha conoscenza specifica delle condizioni in cui si vive e delle persone che si hanno accanto. Se si può contare, non solo su se stessi ma anche su chi assume il compito di garantire a tutti i cittadini, e dunque a ciascuno di noi, il libero e sereno esercizio delle proprie funzioni e attività, allora si ha fiducia e sicurezza. L’assenza di incertezze non può essere frutto solo di auto convincimenti, essa deve potersi reggere su solide basi e queste sono rappresentate dalla condivisione delle conoscenze. La sicurezza, da cui scaturisce e si sviluppa la fiducia, è riposta anche nelle capacità di creare relazioni tra individui, e tra questi e le autorità che amministrano. È pertanto ruolo delle istituzioni provvedere a garantire che convivano l’una e l’altra e tale compito può essere facilitato attraverso l’apertura di canali di comunicazione al servizio dei cittadini, con uno sguardo assai attento alla dimensione della pubblica utilità, alla diffusione di luoghi e strumenti di partecipazione. In questa dimensione, il tema scelto quest’anno per questo «Quaderno di Comunicazione» offre lo spunto per una considerazione di carattere generale, con riferimento al sistema della comunicazione pubblica e istituzionale, partendo dal fatto incontestabile che essa non ricopre un importante ruolo solo per le attività che svolge ma soprattutto per il “mandato” che assolve e per il valore fortemente legato al concetto di servizio al cittadino. Tale valore rende la comunicazione pubblica un ambito comunicativo del tutto singolare, ben diverso da quello dell’impresa, non solo perché differenti sono le finalità e il profilo dei destinatari, ma anche perché si fonda non sull’immagine bensì sulla capacità delle amministrazioni di organizzare e governare una società, grazie agli strumenti, che la comunicazione propone, talvolta comuni con il sistema d’impresa ma quasi sempre orientati a conseguire obiettivi e risultati del tutto diversi. Questa nuova concezione porta lentamente, ma anche inesorabilmente, a considerare la comunicazione pubblica un vero strumento di governance al pari di altre discipline o profili professionali, capace di legittimare o meno le istituzioni perché in grado di far partecipare i cittadini al processo amministrativo e di far condividere (perché si ha fiducia) le politiche di governo. Il compito, dunque, del sistema pubblico è quello di implementare questo ambito comunicativo, dando un riconoscimento forte e chiaro al ruolo che esso ha nel cammino di trasformazione di una società, sempre più coinvolta in un processo di globalizzazione che punta a sviluppare reti di relazioni e reti di conoscenze. Un paese moderno si mostra tale anche per la sua capacità di diffondere informazioni e condividere i saperi diffusi, utilizzando gli strumenti per l’apprendimento e dunque la formazione come mezzi per la partecipazione democratica alla crescita. L’università ha, ne siamo certi, la vocazione e la possibilità di accompagnare questa attività di sviluppo. L’importante sarebbe avere più fiducia, anche da parte delle istituzioni, nelle capacità di ela-

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politico-istituzionale, ovvero impostato da una parte sul confronto ideologico, politico ed economico con i paesi arabi, dall’altra sulle strategie e misure da adottare per garantire condizioni di massima sicurezza all’interno dei propri confini nazionali e nelle aree maggiormente a rischio. Parallelamente, pur in condizioni meno visibili ed evidenti, il tema della sicurezza (anche sociale ed economica) è stato analizzato a livello nazionale con riferimento alle garanzie dei cittadini. Questo dibattito assume importanza nella comune consapevolezza che la sicurezza del cittadino non possa che essere di carattere pubblico e parte integrante dell’azione istituzionale, cui è demandato l’onere di creare e conservare le condizioni grazie alle quali è consentito di vivere con tranquillità ed esercitare pienamente i propri diritti. Il problema della sicurezza, d’altronde, sottolinea Fiammetta Mignella Calvosa in un saggio su questo tema (2003, p. 125), con riferimento alla città contemporanea, comporta la necessità di affrontare contestualmente i grandi mutamenti in corso nella società attuale che hanno da una parte una natura di carattere culturale, dall’altra sociale e che coinvolgono i temi della paura e del rischio (2003, p. 125). L’autrice fa riferimento esplicito alla trasformazione della società verso una dimensione “a rete” (Castells 1996), influenzata dai vincoli relazionali e tecnologici che finiscono per influenzare a loro volta la struttura territoriale degli insediamenti. Nella moderna società, i flussi e gli scambi modificano i luoghi e le modalità della convivenza. Diviene assai importante l’affermarsi di modalità di relazione tra i singoli soggetti e la possibilità di creare condizioni adatte ad equilibrare e saper gestire bisogni individuali e condizioni collettive. La sicurezza è diventata un elemento qualificante della identità locale e di un intero paese, al punto tale che si era provveduto, in sede di Riforma costituzionale, poi bocciata con il referendum del 25 giugno 2006, a istituire forze dell’ordine regionali, a garanzia e tutela dei singoli territori amministrativi. Il legame con la sicurezza, d’altronde, rappresenta le condizioni e ragioni sociali ed economiche per insediarvisi o restarvi, contribuisce a costruire una immagine positiva e qualcuno aveva pensato che una dimensione locale della sicurezza corrispondesse meglio alla difesa del localismo culturale e sociale. Le riflessioni su queste tematiche divengono o, comunque devono diventare, materia di indirizzo politico, azioni di governo e iniziative amministrative in ciascun ambito territoriale, basate sulla consapevolezza, di quanto sia forte il binomio fiducia e sicurezza. Partiamo dalla considerazione di Luhman che dove esiste la fiducia, ciascun individuo è posto in condizioni di valutare possibili alternative alla propria azione (Luhman 1989, p. 40). La fiducia viene riposta nella possibilità di avere alternative alle decisioni da prendere, alle iniziative da intraprendere, è segno di ricchezza, rispetto all’unicità di una singola azione rispetto alla quale non vi è altro da fare. È segno che la fiducia viene riposta laddove esistono le condizioni in cui liberamente ci si può esprimere ed esse hanno un carattere continuativo nel tempo; essa è riposta nell’affidabilità di una persona o di un sistema (in relazione ai risultati attesi), oppure nella correttezza di principi astratti, negli


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borare ricerca e innovazione anche negli ambiti comunicativi e non ritenere che soltanto le discipline di carattere tecnico possano essere utili al paese. A ciascuno il suo compito. L’area della comunicazione va interpretata anche per il servizio che è in grado di offrire alla crescita del paese, in particolare è lo strumento più adeguato ad accompagnare lo sviluppo e la diffusione delle conoscenze, alla creazione di condizioni di partecipazione e di reti di relazione, sulle cui basi non può che fondarsi un elemento di fiducia comune.

Serg io Duma Sfiduciati e fiduciosi

Bib li ografi a Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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I sentimenti di fiducia e di sfiducia, nei confronti delle persone, della famiglia, della società, in una parola, del mondo, sono parte integrante della nostra sensibilità e in un certo senso spesso condizionano, anche inconsciamente, i comportamenti e la nostra intera esistenza. Di questo se ne sono resi conto diversi autori dell’area anglosassone, e alcune delle loro opere possono essere lette anche in base ai concetti di “fiducia” o di “sfiducia”. Questa rassegna non vuole essere esaustiva, ma solo fornire alcune riflessioni sulle tendenze emergenti nell’ambito della scrittura creativa. A questo scopo, suddividerò in due gruppi (“sfiduciati” e “fiduciosi”) autori e opere che presento. 1 . Gli “sf iduciat i” Sf iducia ne lla f am iglia Volenti o nolenti, la famiglia ci influenza più di qualsiasi altra cosa, almeno nei primi anni della vita. È chiaro che in seguito anche ciò che proviene dall’esterno ci condiziona (scuola, amicizie, sistema mediatico…), ma il nucleo familiare resta comunque fondamentale. E se ancora oggi molti lo ritengono un punto fermo, qualcosa di intoccabile e insostituibile, non è di questo parere Alexander Stuart. Inglese, ma residente a Miami, ha sempre preferito non rivelare molto di sé ed è generalmente ricordato per un romanzo, The War Zone (1989), che, come vedremo, non è un romanzo come tanti e che non è passato certo inosservato. Ammirato da Anthony Burgess, Stuart inizia a scrivere verso gli ultimi anni della cosiddetta “era Thatcher”, tanto che il romanzo fu considerato una metafora di quel periodo (non senza qualche forzatura, a nostro avviso). L’allucinante vicenda narrata da Stuart ruota intorno a una tipica famiglia inglese, composta da madre, padre, figlia e figlio. È proprio quest’ultimo che racconta la storia, rivelando implicitamente un senso di disgusto nei confronti della classica famiglia fondata sul matrimonio, che vive in un mondo apparentemente tranquillo e


Sf id ucia ne l f ut uro L’americano Bret Easton Ellis di sicuro sarebbe d’accordo con lui. Ellis trascorre buona parte della sua vita in California, in un ambiente decisamente agiato: scuole private, studi prestigiosi, macchine lussuose, locali, sesso, discoteche; la sua vita potrebbe essere uscita da un telefilm stile Beverly Hills 90210 o O.C. Ellis, in effetti, conosce e sperimenta lo stile di vita dei ricchi giovani americani e viene influenzato in particolare dalla musica pop e dall’estetica di MTV. Il suo primo libro, Less Than Zero (1985), in parte ispirato al diario che lo stesso Ellis scrisse durante gli anni del liceo, sconvolse critici e lettori. Prima di tutto per le situazioni descritte. E poi

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per l’assoluto senso di sfiducia dei protagonisti nei confronti della famiglia, degli stessi coetanei e del futuro in generale. I ragazzi del libro sono ricchi e viziati, intontiti dalla noia e dall’apatia. Hanno rapporti sessuali con ragazzi e ragazze indistintamente, sniffano cocaina e provano diverse droghe, vanno in giro guidando macchine costose, frequentano locali e discoteche, non fanno altro che guardare i videoclip trasmessi da MTV e sono letteralmente incapaci di provare sentimenti, prigionieri di una vita che è solo apparenza e superficie, con situazioni familiari allo sfascio (la maggioranza dei genitori dei protagonisti è divorziata o ha un amante e comunque i genitori appaiono di rado, incapaci di dare valori morali ai figli). E gli stessi valori morali, comunque, valgono “meno di zero”, come il titolo del libro suggerisce. Ellis, in un certo senso, punta il dito contro l’eccessivo permissivismo che spinge la gioventù privilegiata americana a fare cose spaventose, proprio perché il benessere e il denaro la fa vivere nella noia e nell’indifferenza; per questo motivo cerca emozioni forti: una dose di droga; oppure lo stupro e la tortura di una ragazzina che viene tenuta prigioniera da uno dei ricchi rampolli del romanzo nel suo appartamento, senza una giustificazione particolare, a parte la noia. Ed è sempre il permissivismo che fa riunire questa gioventù in una villa lussuosa per vedere tranquillamente uno “snuff-movie”, un film pornografico che si conclude con la morte reale dei protagonisti, acquistato a caro prezzo. O che addirittura la spinge ad assistere alla morte di un tossicomane in un vicolo, senza che nessuno pensi a chiamare un’ambulanza. La sfiducia impera: la famiglia non esiste, i sentimenti non contano, il futuro è buio per definizione. Sfiducia che è presente anche nel secondo romanzo di Ellis, The Rules of Attraction (1987) e che stavolta coinvolge il sistema educativo e universitario americano. Anche in quest’opera i protagonisti sono ricchi e giovani americani che, invece di studiare, fanno sesso in continuazione e si drogano, in un vortice di esperienze sempre più estreme e inquietanti. Il libro è costituito da tanti piccoli microtesti, veri e propri clip narrativi, raccontati in prima persona dai vari personaggi. In una serie di sequenze veloci, ora un ragazzo, ora una ragazza, raccontano tutto ciò che vedono o fanno nel college, in un costante cambiamento di prospettiva, come in un film. La tecnica della sceneggiatura è evidente in questo libro. Che non presenta valori morali: conta solo sballarsi e fare sesso, lo studio è una cosa secondaria e comunque non serve, la vita dei protagonisti è vuota e noiosa, tutto li lascia indifferenti, persino lo stupro iniziale di una studentessa nel corso di una festa a base di alcol e droga (è la stessa studentessa che, dal canto suo, descrive l’esperienza come se si trattasse di un fatto normale), o il suicidio di un’altra, romanticamente innamorata di uno studente, che vive il suo amore in segreto, come una collegiale ingenua dell’Ottocento, vero e proprio pesce fuor d’acqua in quel mondo perverso che è il college moderno, e che si taglia le vene, non sopportando di vivere senza ottenere l’attenzione del ragazzo dei suoi sogni. Ragazzo che, per inciso, non solo non conoscerà mai il nome della studentessa in questione, ma che, alla notizia del suicidio, ri-

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ordinato, che egli definisce “tirato a lucido”, nell’ostentato ordine di sorveglianza degli impianti elettrici, dei sistemi di allarme, che gli appare “non molto diverso da Norimberga o da come è adesso Disneyland”. Affermazione inquietante che già definisce, sin dal suo incipit, l’atmosfera del libro. La famiglia di Tom è una famiglia come tante e lui stesso è un tipico adolescente introspettivo, attratto dalle ragazze, anche se sessualmente impacciato. I suoi genitori vivono a Londra, una “zona di guerra” agli occhi di Tom, avvolta nello smog, come dall’aggressività e dal crimine: ambiente “infido”. In questa vita si insinua, però, una strana forza perversa che sconvolge Tom e la sua concezione del mondo: l’incesto. La scoperta, appunto, di una relazione incestuosa tra il padre e la sorella sconvolge il ragazzo. Da quel momento tutto cambia per Tom. Il padre perfetto e irreprensibile è solo un povero maniaco sessuale che non riesce a reprimere gli istinti. La sorella amatissima è, peggio ancora, una lucida depravata che ha deciso coscientemente di fare il primo passo, seducendo il genitore. La madre di Tom è una povera donna inconsapevole che si illude di vivere in una favola, in uno di quei nuclei familiari stile “Mulino Bianco” che la pubblicità nostrana ci mostra da molti anni. Per questo motivo, quindi, Tom perde ogni sentimento di fiducia nei confronti dei suoi familiari prima di tutto, ma poi del concetto stesso di famiglia, fino ad arrivare alla dolorosa, terribile conclusione: che cioè lui probabilmente non si sposerà mai, non avrà mai figli, dal momento che tutto ha l’acre sapore della menzogna. La sfiducia, inoltre, si espande fino a toccare l’intera società inglese descritta da Tom. Ed è questo che ha spinto un autore celebrato come Anthony Burgess a definire il testo “una metafora dell’incestuosità della società thatcheriana”, dove tutti cercano di pervertire tutti, in un vero e proprio gioco al massacro. Come se non bastasse, Stuart non si esime, verso la fine del romanzo, di rivelare un ultimo, sconvolgente segreto: Tom, infatti, è anche lui attratto dalla sorella e riuscirà ad avere un rapporto sessuale con lei, rovinandosi la vita definitivamente, e diventando simile a suo padre, degno rappresentante di una famiglia modello che, dietro un’immagine di ordine e di armonia, nasconde la più angosciante delle deviazioni. Non ci sono possibilità di salvezza, dunque, per l’autore: della famiglia (e della società che la difende) non ci si può fidare.


Sf id ucia ne l m a schio E degli uomini in generale non si fida Joyce Carol Oates, considerata una delle più grandi (e prolifiche) scrittrici americane viventi. Inizialmente, ed erroneamente, associata alla letteratura horror, la Oates non ha mai mancato di descrivere nelle sue opere l’oscurità dell’animo umano, concentrandosi, però, su quello maschile. Gli uomini descritti dalla Oates sono infidi, prepotenti e usano la forza fisica e il potere per dominare e torturare le donne. Tra le sue numerosissime opere, significativa in questo senso è Black Water (1992), brillante rievocazione letteraria di un fatto realmente accaduto: l’uccisione di Mary Jo Kopechne che nel 1969 annegò nell’acqua “nera” dell’isola Chappaquiddick all’interno di una macchina guidata dal senatore Edward Kennedy; un’amara denuncia della violenza che le donne troppo spesso subiscono e dell’arroganza spietata del potere. Il testo è rubricabile tra i tanti che raccontano una “fiducia tradita”. La giovane segretaria, infatti, è una ragazza ingenua che si fida del potente senatore, abbagliata dal suo prestigio. Per l’uomo, invece, lei è una come tante, l’ennesima conquista di un uomo spietato. Quando i due rimangono coinvolti in un incidente d’auto, con la macchina che cade nel fiume, emerge la vera natura del senatore. Temendo uno scandalo, non potendo permettersi di essere coinvolto in una vicenda imbarazzante con una ragazza molto più giovane di lui, non solo penserà a mettersi in salvo senza aiutare la malcapitata, ma farà di tutto, riuscendoci, per farla annegare. La Oates, quasi sadicamente, si concentra sui particolari più sgradevoli: gli schiaffi del senatore alla ragazza, l’unghia di lei che si spezza nel disperato tentativo di salvarsi, e così via. Questa è la natura degli uomini e del potere, dice la Oates: prendere con prepotenza un po’ di piacere dai deboli e poi schiacciarli. La pensa così anche l’americana Alice Sebold, vera e propria rivelazione degli ultimi anni, se non altro perché l’autrice ha subito uno stupro quando era studentessa. È questo lo sgradevole tema del suo libro d’esordio, Lucky (1999), cronaca impietosa, dolorosa e crudele di tale esperienza. Ciò che colpisce il lettore è lo stile secco della Sebold che lo fa precipitare in un vortice

Sf iducia ne i me dia Dopo l’11 settembre 2001 il sistema mediatico ha accentuato un profondo clima di tensione e di sfiducia nei confronti del prossimo, specie se straniero. La stampa e soprattutto la televisione hanno molte responsabilità in questo senso. Ci si può fidare della televisione? Se lo erano già chiesto in molti, e sin dagli anni Sessanta. Tra i tanti, scelgo Norman Spinrad, autore statunitense di fantascienza, celebre per un testo controverso e, secondo molti, profetico: Bug Jack Barron (1969). Protagonista del romanzo è Jack Barron, star televisiva di un seguitissimo talk-show in grado di influenzare centinaia di americani, una specie di Grande Fratello che ogni sera si rivolge agli oppressi e agli sfruttati, offrendo loro la possibilità di esprimersi, in cambio naturalmente di prestigio e di

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oscuro di dolore; dolore che non solo tormenta la protagonista ma anche la sua famiglia. E se alla fine lo stupratore sarà condannato, rimarrà sempre un sapore amaro nella giovane Sebold e un profondo senso di sfiducia nei confronti degli uomini e della società. È stata lei infatti a dover sopportare il tacito rimprovero dei genitori, l’aggressività degli avvocati che difendono il violentatore, i giudizi più o meno impliciti dei compagni di college e di un’intera società che preferisce considerare la vittima di uno stupro come “una che in fondo se l’è cercata”. Ma è anche grazie a questo libro che la Sebold trova il coraggio di cimentarsi con una vera opera di fiction, la celebrata The Lovely Bones (2002), che ha ottenuto un incredibile successo. Protagonista della vicenda è Susie, una quattordicenne che vive in un tipico paesino americano di provincia; una ragazzina carina, con i suoi sogni, i suoi svaghi, le sue prime amicizie sentimentali, come tante altre. Purtroppo Susie viene violentata e assassinata dal vicino di casa, un maniaco insospettabile che in seguito fa a pezzi il cadavere e nasconde i resti in cantina. Il lettore attento avrà notato che ho scritto che la protagonista è Susie, cioè una morta. L’io narrante, infatti, appartiene a un cadavere, a una ragazzina che, nell’aldilà, racconta la storia della sua morte, descrivendo la condizione psicologica devastante dei genitori e dei fratelli, con un incredibile effetto straniante. Conosciamo dunque fin dal principio il nome dell’assassino; tuttavia, il libro è più avvincente di un giallo tradizionale. La suspence non nasce dal mistero relativo all’identità del colpevole, ma dal fatto che si desidera sapere se quest’ultimo sarà consegnato alla giustizia. Seguiremo quindi le indagini della polizia, dello stesso padre di Susie, che si renderà conto che è il vicino di casa l’assassino della figlia ma non può provarlo, dei suoi amici. Ma ciò che qui più mi interessa rilevare è proprio il profondo senso di disagio e di sfiducia che la Sebold esprime nei confronti degli uomini, senz’altro suscitato in lei dalle sue esperienze reali. Ma anche forse causato da un senso di sospetto presente da molto tempo nella società americana: non ci si deve fidare di nessuno, nemmeno del proprio vicino di casa; una tendenza probabilmente accentuata anche dalle tensioni provocate dal terrorismo (il romanzo è uscito dopo il 2001).

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marrà indifferente. Del resto, “nessuno conosce nessuno” è la frase ricorrente del testo, e non ci si può fidare di nessun compagno. E non ci si può fidare nemmeno dei professori. Alcuni sono annoiati, altri insegnano solo perché non sanno cosa fare, altri ancora non fanno altro che cercare di sedurre le studentesse carine, senza neanche riuscire a ottenere un rapporto sessuale. Ellis, provocatoriamente, dice che il romanzo è stato influenzato dalle sue esperienze universitarie; e il ritratto del mondo accademico e studentesco (anticipazione del vero e proprio mondo reale che ci coinvolge tutti) è a dir poco sinistro: droga, omosessualità, bisessualità, perversioni, suicidi… un mondo del quale non ci si può fidare. Con le opere successive, Ellis non ha rinunciato a esprimere questo profondo senso di sfiducia, senza mai offrire una tenue speranza nei confronti della società e degli uomini in generale.


Sf id ucia ne i go ve rni Ragionando di politica, non possiamo non occuparci dei governi. In questo senso, gli autori anglosassoni non hanno mai rinunciato a esprimere sfiducia nei loro confronti. Basti pensare ai timori cospirativi di scrittori come Burroughs o Philip K. Dick, o a innumerevoli scrittori di spy-stories. Uno dei casi più recenti e interessanti di tale tendenza è rappresentato dal giovane Noah Hawley, noto per il suo A Conspiracy of Tall Men (1998). L’opera in questione è certamente influenzata dalle cosiddette “teorie della cospirazione” che, soprattutto nel mercato editoriale americano, rappresentano un business notevole, e influenzano non solo la fiction letteraria, ma anche quella cinematografica e televisiva (il serial TV X-Files, per esempio), sintomo comunque di un profondo senso di sfiducia collettivo nei confronti del potere. Il protagonista del romanzo, Owen, è un docente universitario che insegna “teoria della cospirazione” in un’università californiana. Suo compito è quello di spiegare agli allievi ogni possibile interpretazione dell’omicidio di Kennedy o la valenza dei presunti simboli occulti ed esoterici che

2. I “f id uciosi” Per quanto finora sono stato in grado di rilevare, sono pochi gli autori di area anglosassone che hanno espresso fiducia nei confronti dei molteplici aspetti dell’esistenza. Potrebbe essere il sintomo di un disagio profondo e forse psicologi e sociologi (Rifkin, ad esempio) riescono a motivare più o meno convincentemente questo aspetto. Cito in ogni caso alcuni autori che a mio avviso possono essere inseriti in quel gruppo da me definito dei “fiduciosi”. F id ucia ne lle pr opr ie possibilit à Si può dire molto sull’americano Dave Eggers, una delle rivelazioni letterarie degli ultimi anni, ma non che non abbia fiducia in se stesso. Fondatore della rivista «Might», giornalista e creatore di «McSweeney’s», un’altra rivista (pubblicata anche on-line) nonché casa editrice aperta alle giovani gene-

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sono stampati sulle banconote da un dollaro. La sua vita tranquilla subisce un duro colpo quando due agenti dell’FBI gli comunicano che sua moglie è inspiegabilmente morta in un incidente aereo. La cosa colpisce profondamente Owen, dal momento che la consorte non gli aveva detto di dover partire. Per giunta, viene in seguito a sapere che era partita insieme a un non meglio identificato vicepresidente di una industria farmaceutica. Si è trattato di un vero incidente? Oppure l’aereo è stato colpito da un missile? È qui che il senso di paranoia inizia a invadere la mente di Owen (e del lettore). Nel tentativo di scoprire la verità sul decesso della moglie, Owen si trova coinvolto in una fitta rete di intrighi e di misteri che fanno capo a poteri nascosti che si annidano nel cuore stesso del governo americano, nelle industrie e nei servizi segreti. Hawley, in modo inquietante, anticipa il clima di tensione provocato dal terrorismo e dalle agenzie di intelligence tre anni prima dell’11 settembre, che ha profondamente cambiato la percezione dell’immaginario collettivo americano; clima di tensione che però evidentemente già esisteva, pronto a emergere a causa di un trauma globale. Il senso di sfiducia pervade l’intero romanzo: gli agenti segreti sono pericolosi e infidi; i giornalisti possono distruggerti con un semplice articolo; i politici sono corrotti; il governo e le industrie sono nelle mani di autentici delinquenti. E gli uomini come Owen che, loro malgrado, finiscono in questo ingranaggio rischiano di essere eliminati in qualsiasi istante. Intelligentemente, Hawley non ci rivela la natura del complotto e risolve solo parzialmente il mistero che ossessiona il protagonista del romanzo. Ciò che evidentemente più gli interessava fare era proprio esprimere la sua sfiducia nei confronti del sistema occidentale. E in questo, Hawley, come altri autori simili, si distingue nettamente da coloro che invece, con ottimismo, cercano di descrivere sentimenti diametralmente opposti: fiducia nei confronti del sistema, appunto; o almeno nei confronti di sé o dei rapporti interpersonali.

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ingaggi elevatissimi. Barron non è affatto interessato ai problemi degli ospiti dello spettacolo, che per lui rappresentano solo un modo come un altro di ottenere fama e ricchezza. La situazione però cambia quando Barron scopre il segreto di Benedict Howards, un imprenditore che domina la scena politica: Howards ha infatti trovato il modo di vivere per sempre, grazie a una serie di costosissime operazioni chirurgiche che solo pochi possono permettersi. Howards offre a Barron la possibilità di avvalersi della formula; in cambio chiede di sostenerlo pubblicamente con il suo programma televisivo. Ma Barron non ha intenzione di farsi controllare e, cosciente del suo potere mediatico, utilizza il talk-show per denunciare Howards e per provocare un mutamento nello scenario politico nazionale, influenzando e sobillando l’opinione pubblica. Al di là del labile contesto fantascientifico, il romanzo sembra essere una cronaca del presente: abbiamo l’imprenditore che controlla la politica; la televisione che può causare mutamenti nelle opinioni politiche; in altre parole, già negli anni Sessanta Spinrad aveva individuato, con una preveggenza inquietante, la rilevanza della triade Televisione-Politica-Denaro nella società comunicativa contemporanea. E naturalmente l’autore non ha molta fiducia in tale triade: la televisione è da lui considerata un mezzo negativo, capace di distruggere qualsiasi tipo di coscienza critica (e in senso lato, considera nella stessa maniera anche gli altri mezzi di comunicazione); il denaro corrompe; e la politica è già corrotta di natura. Per giunta, nel romanzo non si salva nessuno: Howards è certamente un uomo discutibile, e con lui i suoi collaboratori e la classe sociale di ricchi alla quale appartiene; ma Barron, l’apparente difensore dei deboli e degli oppressi, esclusi per motivi economici dalla possibilità di essere immortali, non è migliore di lui: è anzi un populista ipocrita che, grazie alla televisione, si è costruito un’immagine fittizia che non corrisponde alla sua autentica natura di opportunista.


Fidu cia ne i r a ppor t i af fe tt ivi e in te r pe rso nali Parlare di fiducia nel caso di Hanif Kureishi a prima vista potrebbe sembrare fuori luogo. Inglese di origini pakistane, Kureishi ha sempre analizzato nelle sue opere le complesse problematiche legate al razzismo di una certa parte della società britannica, affrontando spesso tematiche controverse: il dissidio tra inglesi e integralisti islamici, per esempio (questo molto prima del clima da “guerra di civiltà” che purtroppo oggi ci condiziona), il rapporto tra i sessi, i conflitti tra modernità e tradizione. Tuttavia, malgrado Kureishi descriva situazioni non particolarmente gradevoli (è il caso del suo romanzo d’esordio, The Buddha of Suburbia (1990), difficilmente potrebbe essere considerato uno sfiduciato. Malgrado i conflitti, i pregiudizi, le discriminazioni del paese di Margaret Thatcher prima e di Tony Blair poi, c’è

Abbiamo camminato insieme, persi nei nostri pensieri. Non ricordo dove eravamo, e neanche quando è stato. Poi tu ti sei avvicinata, mi hai accarezzato i capelli e hai preso la mia mano; so che mi stavi tenendo la mano e mi parlavi dolcemente. Improvvisamente ho avuto la sensazione che tutto fosse come dovrebbe essere, e niente si poteva aggiungere a questa felicità, a questa contentezza. Questo era tutto quello che c’era, e tutto quello che poteva esserci. Il meglio di tutto si era dato appuntamento in questo momento. Poteva solo essere amore.

Non mi sembrano frasi che potrebbero essere state concepite da uno “sfiduciato”. F id ucia ne i co nfr ont i d el sist e ma m ed iat ico e ca pit alist ico Da diversi anni è quasi di moda parlar male dei mezzi di comunicazione di massa, dell’informazione, del consumismo, del capitalismo, in altre parole, dei molteplici aspetti della modernità. Nel campo delle arti, della musica, della fiction, il mondo anglosassone pullula di creativi estremamente critici nei confronti della società contemporanea, certamente poco fiduciosi e pessimisti. Sono pochi, a mio avviso, gli artisti che invece hanno dimostrato un grande entusiasmo per il mercato, i media e lo stile di vita occidentale in generale. Nel campo fantascientifico, Robert A. Heinlein, per esempio, ha sempre dimostrato di credere nel sistema capitalistico americano, ma le sue opere sono spesso state bollate come fasciste dai fautori della new wave e, in tempi più recenti, dai cyberpunk, che invece considerano il sistema attuale in senso pessimistico e negativo. E anche in molti altri settori artistici

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sempre nell’autore spazio per la speranza. E se l’esistenza è piena di insidie, forse i sentimenti e i rapporti affettivi potrebbero migliorare il mondo. Potrebbe essere questo il senso di un’opera apparentemente minore di Kureishi, Intimacy (1998). Il protagonista, Jay, ha deciso di lasciare la compagna e i figli, dopo anni trascorsi tra litigi e sofferenze di vario tipo. Mentre però Jay si prepara ad abbandonare la casa che ha abitato per molto tempo, non può fare a meno di pensare alla sua vita, ai suoi sogni di adolescente, agli amori passati, ai suoi affetti. Ed è a questo punto che Jay incomincia a sentirsi meno sicuro delle sue decisioni. Posso davvero trovare il coraggio di lasciarmi tutto alle spalle? si chiede. Kureishi abilmente non dà una risposta ma fa capire che forse l’amore, questa forza ambigua e indefinibile, potrebbe permetterci di affrontare le avversità. E, malgrado tutto, Jay dimostra di avere almeno un po’ di fiducia nei confronti dell’amore. È l’amore, infatti, che può far funzionare un rapporto affettivo; è l’amore che può darci la felicità, basta solo accoglierlo, senza orgoglio, riconoscendo i propri difetti e quelli degli altri. Il finale del libro non è consolatorio, tutt’altro, ma è caratterizzato dalla fiducia nei confronti dei sentimenti. Forse Jay abbandonerà davvero moglie e figli o forse no. Ma la speranza e l’ottimismo in una vita migliore rimarranno saldi nel suo cuore. Ed è proprio il finale del libro che sintetizza ciò che Kureishi ha cercato di esprimere:

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razioni, Eggers è conosciuto per il suo dirompente romanzo d’esordio, A Heartbreaking Work of Staggering Genius (2000). Chi è il formidabile genio del titolo, prima di tutto? Lo stesso Dave Eggers, voce narrante del romanzo, che racconta le proprie personali vicissitudini con uno stile di scrittura veloce e vivace, a tratti avant-pop, e fondamentalmente ironico. Il romanzo è infatti autobiografico: Dave, un ragazzo come tanti, che vive con i genitori, una sorella e un fratellino piccolo in una tipica cittadina americana, trascorre i primi anni della giovinezza nella più assoluta tranquillità, fino a quando, però, un destino avverso sconvolge la sua vita: i genitori, infatti, muoiono nel giro di poche settimane, entrambi stroncati dal cancro. Eggers, appena ventiduenne, è costretto all’improvviso a fare da padre e da madre al fratellino Toph, di soli otto anni. Come si può intuire, una situazione del genere avrebbe fatto impazzire chiunque. Ma Eggers, con coraggio notevole, facendo leva sulle sue forze interiori, animato da un profondo senso di fiducia nelle sue possibilità, decide di accettare la sfida che un destino crudele gli ha lanciato. Si trasferirà con Toph in un’altra città e da quel momento, quotidianamente, s’impegnerà a essere un genitore per il fratellino, con tutti gli oneri e le responsabilità che questo comporta; a trovarsi un lavoro; a cercare di andare avanti malgrado tutto. A differenza di quello che si potrebbe pensare l’atmosfera del libro non è affatto triste e disperata; anzi, Eggers trova proprio nell’ironia e nel sorriso la forza che gli consente di affrontare un’esistenza difficile. Lo stesso romanzo che Eggers in seguito scrive è caratterizzato dall’ottimismo: la vita è spesso crudele, sembra volerci dire l’autore, ma noi dobbiamo credere in noi stessi perché abbiamo la forza di superare ogni avversità. L’attitudine di Eggers non è nuova. Fa parte del carattere americano, almeno secondo un punto di vista convenzionale, credere nelle proprie capacità, con uno slancio vitale e ottimistico che effettivamente fa parte dell’inconscio collettivo profondo di ogni statunitense. Non spetta a me stabilire se questa percezione sia vera o fittizia; ciò che mi interessa rilevare è che il romanzo di un giovane che si autodefinisce “un formidabile genio” è certamente il frutto di un ottimista convinto, di un uomo che, a dispetto delle tragedie, considera la vita con fiducia.


Bi bl io gr afia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Eggers, D., 2000, A Heartbreaking Work of Staggering Genius, Atlanta, Vintage Books; trad. it. 2001, L’Opera Struggente di un Formidabile Genio, Milano, Mondadori. Ellis, B. E., 1985, Less Than Zero, New York, Simon & Schuster; trad. it. 1996, Meno di Zero, Torino, Einaudi. Ellis, B. E., 1987, The Rules of Attraction, New York, Simon & Schuster; trad. it. 1988, Le Regole dell’Attrazione, Napoli, Pironti. Hawley, N., 1998, A Conspiracy of Tall Men, New York, Harmony Books; trad. it. 2001, La Congiura dei Lunghi, Roma, Fanucci. Heinlein, R. A., a cura, 1975, The Philosophy of Andy Warhol (From A to B and Back Again),

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New York-London, Harcourt Brace Jovanovich; trad. it. 2001, La Filosofia di Andy Warhol, Milano, Bompiani. Kureishi, H., 1990, The Buddha of Suburbia, London, Faber and Faber; trad. it. 1995, Il Budda delle periferie, Milano, Leonardo. Kureishi, H., 1998, Intimacy, London, Faber and Faber; trad. it. 1998, Nell’Intimità, Milano, Bompiani. Oates, J. C., 1992, Black Water, New York, Dutton; trad. it. 2002, Acqua Nera, Milano, Bompiani. Sebold, A., 1999, Lucky, New York, Simon & Schuster; trad. it. 2002, Lucky, Roma, E/O. Sebold, A., 2002, The Lovely Bones, London, Picador; trad. it. 2002, Amabili Resti, Roma, E/O. Spinrad, N., 1969, Bug Jack Barron, Walker, Avon; trad. it. 2002, Jack Barron Show, Roma, Fanucci. Stuart, A., 1989, The War Zone, London, Black Swan; trad. it. 1999, Zona di Guerra, Torino, Einaudi.

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non mi sembra che la situazione sia differente. Ecco perché considero Andy Warhol un’eccezione in questo senso. Il controverso e compianto artista (anche se oggi alcuni ancora mettono in discussione questa definizione nei confronti di Warhol) non ha mai nascosto un profondo amore per la società dei consumi e delle comunicazioni. Basta leggere il suo The Philosophy of Andy Warhol (From A to B and Back Again, 1975). Anche se datato, il testo anticipa con straordinario acume la società odierna: l’influsso della televisione nella manipolazione dell’inconscio collettivo; la rilevanza mediatica dei personaggi della TV e dello spettacolo in generale; l’ansia delle persone comuni di apparire sugli schermi ad ogni costo, vera e propria precognizione dei reality show; la voglia di consumare sempre e comunque; un amore ossessivo per i prodotti, i marchi, le merci. Warhol in questo testo, con molta ironia, non fa altro che descrivere un mondo che, ai suoi tempi, muoveva i primi passi, ma che oggi è sotto gli occhi di tutti. Come McLuhan, Warhol era perfettamente sintonizzato sulla realtà contemporanea. Ma a differenza di molti, Warhol nelle sue pagine rivela un ottimismo e una fiducia nei confronti di tale sistema che spesso appare ingenua in modo imbarazzante. Per Warhol il “business” non è in sé negativo, e le contraddizioni interne della società di mercato non lo interessano e non lo spaventano. Per lui la gente è felice solo quando compra un prodotto di cui non ha alcun bisogno ma che qualcuno, per svariati motivi, ritiene sia una buona idea offrirgli. Sulle motivazioni di questo qualcuno, però, Warhol non s’interroga. Per lui la società dei consumi e il sistema capitalistico occidentale sono le cose migliori in assoluto. Si potrebbero muovere molte obiezioni nei confronti di un simile atteggiamento (anche se bisogna considerare che Warhol amava anche provocare e stupire e certe sue affermazioni appaiono nient’altro che provocazioni, ma non mi sembra questa la sede per discuterne). L’immagine di un pallido e smunto artista dai capelli bianchi che ama i McDonald’s mi sembra comunque una conclusione simpatica e ottimistica.


An gelo Semer aro Vigilia del dì di festa per metropoli occidentali

Se un solo cane rappresentava una depressione personale, due dovevano essere una specie di malessere culturale, il malumore di un’intera civiltà (McEwan 1992, p. 98)

Inquiet udini di un saba to lond ine se Per il «Sunday Times», McEwan è il maggiore romanziere della sua generazione1. Le prime pagine di Sabato, l’ultimo dei suoi romanzi, si aprono con la naturalità dei gesti che seguono a ogni risveglio di primo mattino del dr Perowne, un affermato neurochirurgo londinese, che si trova nel maturo possesso di un sé appagato quando due episodi vengono a minacciare la sua fiducia nell’ordinato e progressivo sviluppo del mondo. Quel sabato mattina Perowe si è levato più presto del solito e indugiando per un po’ alla finestra della sua camera si lascia ammaliare dall’aurora che tinge di rosa un Tamigi che scorre tranquillo oltre la chiostra dei tetti. È lì da qualche minuto, compiaciuto per tutto ciò che di buono gli promette quel sabato di riposo, quando all’improvviso, come spuntato dal nulla, un aereo in fiamme gli attraversa l’intero spazio visivo della finestra. Si affaccia, e vede l’aereo sul punto di andarsi a schiantare contro la torre di un vecchio edificio. L’impatto non ci sarà, né ve ne daranno notizia i media nel corso della giornata, ma la sindrome occidentale di altre torri violate lo prende allo stomaco prima che possa controllarsi e razionalizzare. Si ritrova così a rimuginare sulla inevitabilità degli attacchi terroristici, e a fare i conti con l’esplosione di quel senso comune del “ce la siamo cercata”; nel corto circuito tra curiosità (“dove, quando accadrà? A chi toccherà”) e paralisi (“una punizione prima o poi l’avremo, per l’incapacità a immaginare qualsiasi via d’uscita”). Non gli resterebbe che farsi consolare dai professori della London School sull’inevitabilità (e creatività insieme) del rischio. Il terrorismo islamico è un morbillo un po’ più lungo, dovuto alla modificazione dei virus che resistono agli antibiotici, ma destinato a passare, come sono passate altre guerre, cancellazioni di intere civiltà e distruzioni di metropoli per catastrofi naturali. Naufragio con spettatore insomma, almeno per ora, nel privilegio di essere ancora tra gli spettatori! “I giardini d’Occidente – scrive Rorty, recensendo il romanzo – resteranno forse aperti ancora un bel po’, o forse chiuderanno molto prima di quanto crediamo”, e McEwan non ha certezze maggiori di tutti noi, ma ha la capacità di inchiodarci a una riflessione


R ort y let t ore di McEv an Ian McEwan è oggi tra gli scrittori europei che riesce ad attrarre recensori “forti”, come forti sono le provocazioni di ogni suo nuovo romanzo. Sabato è stato recensito – tra altri – dal filosofo Rorty. McEwan – sostiene Rorty – rende lampante sia la nostra inquietudine sul futuro che “il nostro vergognoso, debilitante agnosticismo”. Richard Rorthy è un pragmatista impenitente, che non ha mai negato le sue radici deweiane, almeno di quel Dewey di Experience and Nature per il quale l’esperienza è essenzialmente metodo di ricerca, atteggiamento di chi riconosce e accetta il mondo per come è, senza chiudere gli occhi innanzi agli aspetti sconcertanti e ostili che ci squaderna; spingendoci ad affrontarli. Un atteggiamento fiducioso, per il quale il passato serve solo a illuminare e apparecchiare l’avvenire. Si dà il caso tuttavia che la fiducia nell’inarrestabile procedere umano su una linea di progresso si sia da un bel pezzo indebolita; che l’Occidente inclini al tragico, segnando una pausa della ragione riflessiva e dichiarandosi impotente innanzi all’esplosione delle passioni più tristi, figlie sterili di power e glory. L’Occidente sembrerebbe insomma aver esaurito le proprie forze prima ancora di aver potuto realizzare il programma emancipativo della modernità: la speranza di “compimento” su cui “si è concentrata – scrive Rorty (2006, p. 61) – la vita spirituale degli occidentali laicisti”. E via via che questa fiducia è venuta affievolendosi “la loro vita (quella degli ‘occidentali

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pochi versi, declamati sotto minaccia, hanno compiuto il miracolo di intenerire un malintenzionato, volgendo al meglio una brutta faccenda. Quando le ombre della sera scenderanno sul sabato metropolitano di Perowne, iniziato con un mistero e concluso con un gesto di puro dispendio donativo nei confronti di Blaxer, che riuscirà a salvare grazie a una collaudata abilità chirurgica, l’umore, il suo ottimismo occidentale, sarà però irrimediabilmente incrinato. Prima di quel sabato di rivelazioni era convinto che il terrorismo islamico fosse destinato a ridimensionarsi, insieme ai lutti delle ultime guerre, ai cambiamenti climatici, alla politica del mercato globale, alla sovrappopolazione, alla carenza d’acqua, alla fame, alla miseria. Ma ora sa che ci saranno altri aeroplani e altri malviventi; che la vita è minacciata e fuori controllo, come quell’aereo di cui nessun organo di informazione ha parlato, e che il “futuro” non sarà solo più povero di benessere, ma sopratutto orfano di speranza. Lampi di realismo investono le sue sicurezze di professionista appagato come una lama di luce violenta e impietosa, procurandogli vergogna e imbarazzo. Ora sa quanto fragile sia la felicità domestica e il benessere di una metropoli che non nega opportunità, merci, informazioni, tecnologie strabilianti, ma può toglierti in un istante tutto ciò che hai costruito giorno dopo giorno. Il nemico fuori si è sottilmente insinuato dentro e si chiama sfiducia, apprensione sul futuro.

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aggiornata sulla nostra condizione: sulla paura che se riferita al futuro diventa apprensione, ovvero smarrimento di quella fiducia che le generazioni postbelliche hanno sempre riguadagnato dopo aver ogni volta fronteggiato i cani neri della loro storia. La soluzione all’angoscia del dr Perowne ci sarebbe, e gliela suggerirà il figlio diciottenne, nel corso del romanzo, consigliandogli “solo pensieri su scala ridotta!”. Se ci facciamo dominare dai “massimi sistemi”: l’ecosfera; la complessità, le biopolitiche, le cose si complicano e svagano insieme, perdono prospettiva; ma se ridimensioniamo le pretese di voler tutto capire e controllare, e ci concentriamo su obiettivi a portata di mano, anche il minuto gesto umanitario può acquistare valore collettivo. Un sapienziale richiamo delle generazioni più giovani a quelle d’antan a curarsi l’aristotelica “vita buona” con quotidiani esercizi minimalisti. Una seconda prova attende però Perowne a metà mattina, quando sta per infilare la strada che lo porterà al suo campo da tennis dove ogni fine settimana va a tonificarsi i muscoli in disuso, e l’idea di un pomeriggio in cui incontrerà la figlia lontana, la parte forse più bella del sé genitoriale, già gli sorride. Un banale incidente d’auto viene a interrompere il positivo flusso dei suoi pensieri, scatenando una serie di reazioni a catena. L’imprevisto irrompe questa volta nel diverso di una sagoma minacciosa che a una rapida occhiata si manifesta al dr Perowne come un tipo per nulla raccomandabile. Blaxer si chiama l’uomo dalle spalle larghe e l’aria spavalda che esce lentamente dall’auto appena scalfita, facendosi precedere da tre compari di malaffare. Perowne riesce solo a concentrarsi su quel lieve tremore della mano che rivela, ai suoi occhi di clinico esperto, i primi stadi del morbo di Huntington. La contestazione di responsabilità per i rispettivi danni subiti alle lamiere, che avrebbe potuto degenerare in una rissa in cui certamente avrebbe avuto la peggio, viene affrontata con la stessa lucidità e rilassatezza che Perowne possiede quando è curvo su un paziente nella sala asettica del suo reparto. Buona dialettica e presenza a se stessi sembrano aver avuto la meglio. Ma l’episodio è tutt’altro che chiuso, e il diverso irromperà un pomeriggio nella casa del neurochirurgo facendosi scudo umano della moglie atterrita. E ciò che segue è una scena del più ruvido film di Kubrick: il malvivente minaccia di stupro la figlia appena arrivata da Parigi, e solo la forza d’animo salverà la giovane donna che manifesta un incipiente stato di gravidanza. Con poche strofe di un poeta tanto amato quanto contestato in famiglia che, controllando la paura, ella riesce a declamare con grazia sorprendente, l’umore di Blaxer andrà all’improvviso mutando, fino a quando, sopraffatto dall’emozione, lo stadio aggressivo lascerà il posto a una imprevedibile fiducia nell’offerta del neurochirurgo a curarlo, e forse guarirlo. Il romanzo potrebbe chiudersi qui, in una situazione che richiama le pagine che Goffman ha dedicato al noto “dilemma del prigioniero”; laddove tutti sanno di dipendere gli uni dagli altri e che ogni parola e il gesto di ciascuno potrà inclinare da una parte o dall’altra il destino di tutti e di ciascuno. La poesia, “nemica del caso”, sembra aver avuto “partita vinta” (Calvino 1988, p. 69):


La memorialistica dell’intellettualità occidentale è in piena fioritura. La “stagione della libertà” apre i propri giardini fioriti di memorie, e i vecchi “hanno carattere” afferma Hillman (1999): la vicinanza con la morte li rende impudichi nelle rimozioni e nei rimossi; nelle debolezze come nelle disattenzioni, nelle amnesie come nelle complicità. Ma non è del distacco dei fuori ruolo che quest’ultimo romanzo di McEwan si è voluto occupare. Tanto meno poi ha a che vedere con gli equivoci di un laicismo erede di una tradizione di tolleranza attiva, interessata alla pace religiosa, alle fedi radicate nelle libere coscienze anziché nei poteri. Da buon pragmatista ironico, Rorty sembra declinare il laicismo, già afflitto da equivoci vecchi e nuovi, con una velata patina di distacco dal mondo. Un’umanità senza mondo, insomma, aspetto non meno inquietante di quel mondo senza uomo di cui parlava quel filosofo controvoglia che fu Günther Anders (1956). L’io parlante di McEwan è l’io appagato di un’umanità adulta occidentale che si è realizzata in una professione socialmente utile; può vantare una famiglia monogamica, con una moglie intelligente e protettiva che magari non ha del tutto esaurito le proprie capacità di seduzione e due figli – un maschio e una femmina – che un’educazione essenziale ha messo per tempo al riparo dalle ordalie del reality show, dallo sballo da ecstasy, dai voli low cost e dall’i-Pod girogola: appena toccati insomma dalle sindromi delle generazioni del XXI secolo. Il problema di Henry Perowne – afferma Rorty – è il suo buon cuore, nel senso che – spiega – “gli intellettuali occidentali sembrano destinati a trascorrere tutta la vita come idioti”. Dove l’idiozia – supponiamo – va assunta nel senso letterale della parola che, vocabolario alla mano, sta per individuo privato. Il dr Perowe gli sembra insomma l’idealtipo di questo appagamento materiale e spirituale dell’Occidente: il professionista lucido quanto basti per fronteggiare gli imprevisti di un’umanità disperata che ruota attorno al

Ca ni ner i Da qualche parte Kierkegaard ebbe a scrivere che la vita che ci scorre avanti la si può comprendere solo ripercorrendola indietro, in retrospettiva. Cani neri, un precedente romanzo di successo scritto da McEwan nel 1992, ha segnato una tappa importante nell’itinerario mentale oltre che letterario di McEwan, marcando tutta la distanza dei tre lustri abbondanti che ci separano dall’illusione collettiva che la caduta dei Muri e la fine della Guerra Fredda avrebbero aperto le frontiere mentali oltre che materiali dell’Occidente. Così non è andata, come sappiamo, e i mostri che riemergono nell’immaginario del day after americano e occidentale come forza indomabile che periodicamente si insinua distruggendo le vite di singoli individui o di intere nazioni, sono esattamente le due bestie immonde che nel romanzo sbarrano la strada alla mite June, in un tranquillo pomeriggio di vacanza tra le radiose colline di Provenza. I due cani “giganteschi e inspiegabili” che all’improvviso le compaiono su un sentiero, senza via di fuga e nessuna possibilità di aiuto, erano stati abbandonati da pattuglie naziste in ritirata sotto i colpi della resistenza francese. Riemergevano e si materializzavano in quel romanzo, in un facile gioco di analogie, i fantasmi di una guerra appena conclusa, di cui l’Europa andava lentamente svegliandosi sotto l’incubo delle infinite sofferenze private. Ma quei due cani, grandi, neri e selvaggi – volle avvisarci allora McEwan – sono ancora in circolazione, come ferite che ogni volta si riaprono. Sotto spoglie diverse, quei demoni si materializzano altrove, come se i problemi lasciati in sospeso dal secondo conflitto mondiale si fossero “paralizzati”, cristallizzando il cammino della democrazia.

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suo reparto ospedaliero, che ha tirato su curandolo con la dedizione che si riserva esclusivamente ai Grandi Ideali. Né libri né cinema né musica riuscirebbero mai a offrire al dr Perowe quella dissociazione benefica che gli viene invece dal prolungato dispendio di concentrazione per tutto il tempo che è richiesto da un intervento chirurgico. Premuto dall’urgenza delle decisioni da prendere sul paziente sterilizzato, il tavolo operatorio gli infonde calma e sovrabbondanza, e dopo ogni intervento ben riuscito lo assale l’ottimismo sugli illimitati poteri della scienza che prima o poi dovrà spiegarci il segreto primario del cervello: come la materia diventi cosciente. L’umanità è su un percorso scientifico a larga banda: evolutivo, illimitato ed emancipativo, e ciò lo appaga, voluttuosamente. Non lo sfiora l’ombra del potenziale dei conflitti che le microbiologie scateneranno tra i signori della vita e della morte: l’esercito dei neoideologi del sacro che si disputeranno i confini entro i quali circoscrivere le manipolazioni sul genoma. Perowe dunque possiede tutti i requisiti richiesti per affrontare l’imprevisto/imprevedibile, ma quando la gratuità del male si annuncerà con la sua forza devastatrice l’autocontrollo vacillerà, e saranno altri e altre forze a contenere l’irreparabile. Lui potrà solo lavorare sui dettagli, a situazione sbloccata.

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laicisti’) diviene più grama e insignificante. La speranza viene limitata a questioni private ed è sempre più sostituita dalla paura”. Rorty dunque legge McEwan come una conferma del fallimento delle “speranze radicali” della modernità. Le figure e le situazioni tratteggiate in questo avvincente romanzo dello scrittore inglese gli suggeriscono un identikit dell’intellettuale occidentale come individuo privato: ingrato e dilettante; incapace malgré soi di tenere in relazione pensiero e agire sociale; colpito da un idiotismo che gli impedisce di immaginare un modo per migliorare le cose; privo di grandi ideali, agnostico sulle grandi questioni pubbliche. Come dargli torto? Se si dice addio agli ideali del resto (chiamali valori… se vuoi), non si può che scivolare lentamente nel girone dei cinici. E la pandemia cinica ci avrebbe reso tutti un po’ presuntuosi padroncini di un’imperturbabile autarkeia su cui per lo più gli intellettuali occidentali e laicisti pensano di poter regolare in modo autosufficiente e impassibile le loro vite, gli ozi e i negozi di professioni lunghe, esclusive e “separate”, vissute all’ombra di poteri che blandiscono e proteggono in cambio di fedeltà al proprio clan di riferimento.


Futur o è ... Una strada McEwan la suggerisce con l’attenzione prestata ai bambini, figure centrali nei suoi romanzi. Un’attenzione che senza forzature si può definire pedagogica, almeno nel senso meno compromesso del termine. Da alcuni racconti delle prime raccolte al primo romanzo, Il giardino di cemento, la vita dei bambini di McEwan scorre tra violenza gratuita e azioni sanguinarie, proprio come in una guerra in cui essi si trovano sempre in prima linea. In realtà l’infanzia è sempre in guerra contro le pretese educative dei suoi allevatori, e in alcune pagine di Cani neri McEwan non risparmia qualche trattamento esemplare al sadismo genitoriale. Nel 1994 McEwan pubblica L’inventore dei sogni. E quei lettori che avevano ancora in testa i due ragazzi che nel giardino di cemento si trastullavano nascondendo i cadaveri dei loro genitori nel cortile di casa, si sarebbero dovuti ricredere, perché quello che sarebbe stato il più letto e forse anche il più amato dei suoi romanzi era l’elogio del bambino sognatore. L’autore seguiva con simpatia le avventure un po’ inquietanti di Peter, dieci anni, sospeso in una bolla gaudente di sogno, costruttore e prosumer, diremmo oggi, dei suoi stessi sogni; capace di trasformare le cose attraverso l’immaginazione. Un bambino insomma a cui piaceva starsene da solo e “pensare i suoi pensieri”, lontano dal consumo televisivo che unisce i bambini di tutto il mondo rendendoli precocemente conformi. Ma noi siamo

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sospettosi nei confronti di chi se ne sta da solo. Il modello comunitario dominante ci vuole insieme comunque (“se non vuoi fare il guastafeste devi unirti alla compagnia”). Peter non aveva niente in contrario a stare con gli altri, ma la gente gli sembrava che esagerasse con quello smisurato bisogno di confermare presenze e fedeltà di branco. Gli sembrava che si stesse insieme per costrizione più che per vera scelta. McEwan pensa insomma che i bambini debbano tornare ad annoiarsi un po’ nei loro spazi privati, che la noia anzi sia un loro diritto da scrivere magari in una delle tante Carte dei buoni propositi per l’infanzia liberata, “perché è nella noia, e nel silenzio che l’accompagna, che la fantasia comincia a lavorare davvero nel profondo” (Marcoaldi 1994). È nel lavorio dell’immaginazione, libero dagli ingombri dell’immaginario, che essi acquistano fiducia nei sogni. Gli stessi che non risparmiano cani neri, mostri alati e altri horror mostruosi di cui i bambini si servono per esorcizzare le paure, dominare gli orrori. In un successivo romanzo, Espiazione (2001), McEwan aveva messo in scena un altro tipo di immaginazione, quella “più forte di qualsiasi dubbio” di Briony. Forse la ragazzina non aveva visto il colpevole del crimine, ma comunque ella sa chi è stato. Come a dire che la forza dell’immaginazione incrementa il sentire, una qualità prelinguistica poco apprezzata. Insistendo sulla portata della libertà sotto l’influenza dell’immaginazione, Dewey – di cui come si è detto Rorty è stato allievo – ebbe a sottolineare il carattere che essa assume nella dinamica del cambiamento. Parlava di futuro come di una capacità sia per il bambino che per l’adulto di “leggerne i risultati dagli accadimenti presenti” (Dewey 1917), ponendo con decisione l’accento sullo sviluppo delle potenzialità emotive e immaginative, cioè sul cambiamento della vita interiore, come presupposto della trasformazione economico-sociale. “L’immaginazione – scrisse – si muove in una luce che non fu mai sulla terra e sul mare” (1934). Se è vero, come ha poi spiegato da altra prospettiva Savinio, che “le catastrofi appartengono alla compiutezza e alla definitività” e che “la sola salvezza è nel movimento, nell’instabilità, nella metamorfosi del discontinuo, nell’indifferenza al concludere, proprie delle potenze immaginative” (Savinio 2004), niente forse potrebbe soccorrerci di più, in quest’ora di diffuso e melanconico umor nero, che un’immaginazione liberata dalla colonizzazione dell’immaginario mediatico. Perché senza attrazione per ciò che non è, non si entra nell’area del desiderio. E l’aspetto più interessante del desiderio, come si sa, è la permanenza in un’attesa, la tensione verso qualcosa che sta al di fuori della nostra portata, ed esige, prima ancora della soddisfazione del desiderio, richiesta ora a gola spiegata da Michel Onfray (2000), il “coraggio di rischiare” (Volli 2002). Non c’è poi tanto da stupirsi se gli intellettuali occidentali e laicisti siano in astinenza di prospettiva: essi avvertono la minaccia di non poter più governare gli eventi su cui hanno sempre rivendicato un potere interpretativo; non potersi più avvalere degli insegnamenti della storia per progredire, illimitatamente e secondo una traiettoria progressiva. E la banalità del male sembra in quest’ora

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McEwan scrisse Cani neri dopo la Lettera a Berlino e tra i due scritti vi è un flusso ininterrotto di pensieri ed emozioni. Sotto le macerie del Muro, in controtendenza agli entusiasmi di chi in quei giorni pensava di assistere alla vera fine della seconda guerra mondiale, esprimeva la preoccupazione che i cani si stessero risvegliando dopo un letargo di circa mezzo secolo, nel corso del quale le ragioni più profonde del conflitto erano state ibernate dalla Guerra Fredda. Sotto il Muro ancora in demolizione, i cani neri ricomparivano all’improvviso sotto le sembianze di un feroce gruppetto di naziskin che picchiavano a sangue il fragile Bernard, colpevole di aver difeso un turco che tra la folla in festa sventolava una nostalgica bandiera rossa. Bisognava chiudere i conti con Berlino, ma eccoli lì, di nuovo sciolti e vaganti, i cani neri, i demoni, il Male infinito che l’umanità riproduce ogni volta contro se stessa; quel Male che McEwan percepisce come “qualcosa che ciascuno di noi si porta dentro, si impadronisce del singolo individuo, nel privato, nella famiglia stessa” (“e sono i bambini a farne di più le spese”), e quando vengono a crearsi le condizioni adatte, anche in tempi diversi, “si scatena una crudeltà irrefrenabile che va contro la vita, e l’uomo si sorprende della propria immensa capacità di odiare… Qualcosa che torna periodicamente a nascondersi e aspetta” (pp. 156-165, passim). C’è speranza che la fiducia possa tornare, che i cani dentro di noi e quelli fuori da noi possano essere allontanati a mani nude come col coraggio della disperazione riuscì di fare alla giovane June?


Rieducar e l’inte llighe nzia La fiducia è legata al tema della sicurezza. Ne hanno un primo e immediato bisogno i bambini, per poter crescere e apprendere. Essi infatti possono sopportare le prime delusioni purché si siano stabilizzate alcune certezze di base. D’altra parte senza la fiducia nelle prime figure di cura, neppure il dubbio sarebbe possibile, né sostenibile. L’esperienza della sicurezza richiama il bisogno di altra sicurezza, e noi siamo per lo più programmati ad affidarci a chi sappia offrirci significati. Il rischio dell’inganno c’è, ci sarà sempre, ma se si perviene a qualche risultato anche l’inganno può essere metabolizzato. Viceversa, la mancanza continua di risultati rende insopportabile l’inganno. Il tema della fiducia infatti è intimamente legato al tema dell’aletheia, la parola che dura nel tempo; la verità che si ottiene camminando accanto all’altro scelto. Mi fido perché fai qualcosa di buono per me, mi aiuti a sgomitolarmi. Una verità di comportamento, che è poi la prova del nove della verità. L’ultimo paragrafo della Dialettica dell’Illuminismo è dedicato alla stupidità, che i francofortesi considerarono l’esito tragico di un domandare senza poter ottenere risposte. La stupidità – affermavano – è una cicatrice che segna per sempre il punto di sofferenza di ciò che è stato impedito anziché favorito; una callosità dove la superficie rimarrà per sempre insensibile. L’aurorale apertura al possibile, la fiducia nell’ottenimento, soffocate nel loro legittimo espandersi trasformativo, si ritorcono irreparabilmente nel loro opposto, ossia in sfiducia, stagnazione, paralisi dell’azione. E le domande lasciate senza risposta segnano

Fiducia è libe rt à La fiducia non può esigersi; può unicamente essere offerta o accettata, sostiene Luhmann (1968). Non può essere avviata sulla base di una rivendicazione né di negoziazioni, ma solo a partire da una decisione di investimento dislocativo, nel senso che chi avvia una relazione attiva fiducia, e chi la riceve accoglie un’opportunità a mostrarsene degno. Se, come nel classico dilemma del prigioniero, essa può affermarsi anche laddove una comunicazione non possa aver luogo, è perché presuppone che una profondissima intesa – un forte comune sentire – si sia stabilizzata nel tempo, e non richiede né segni né parole, nel caso vengano a mancare le possibilità di un segno e di una parola. So che posso fidarmi di lui, di lei, di loro anche quando non mi è possibile stabilire con lui, con lei, con loro un contatto. Per poter raggiungere questi risultati la comunicazione richiede qualche forma di protezione, la stessa che si richiede ad ogni attività più propriamente educativa, ossia un ambiente di libertà. Presuppone ambienti in cui sia possibile esprimersi, potendo contare su un ascolto non pregiudizievole. La fiducia insomma presuppone una cultura dell’altro, della diversità/differenza risorsa. La mancanza di reciprocità, l’entropia degli ambienti di relazione minano la fiducia in sé nel suo farsi; inibiscono il nostro desiderio di rappresentarci ed essere rappresentati. La spinta iniziale all’altro a cui mi espongo deve poter vincere un attrito inerziale legato alla sua estraneità. “L’idea dell’altro”, ci dice Vernant (2004, p. 151), “è legata a quella dello stesso, con continui passaggi tra i due” e “la conoscenza del mondo si acquista sperimentando la diversità dei vicini” (Kapuscinski 2004, p. 128). L’altro dei Vangeli, quello con cui Gesù dà avvio all’avventura di uno sguardo compassionevole, è il mio più prossimo. Che è anche il più difficile ad amare come me stesso. La cultura dell’Occidente, quella a cui Rorty con qualche gratuità aggiunge la qualifica di laicista (nel senso

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un dolore che danneggia irreparabilmente la crescita, insinuando una sorda sfiducia in se stessi. È un fenomeno ben noto alla psichiatria: si tratta di una subdola e sottile colpevolizzazione del domandante che si arrovellerà a lungo nel dubbio di aver saputo porre nella forma giusta, e alle persone giuste, la domanda che non ha ottenuto risposta. Potranno seguire tentativi di ostinazione, come quando – esemplificano i francofortesi – un cane a cui non riesca di raggiungere la maniglia per aprire una porta chiusa qui finisca, dopo molti tentativi andati a vuoto, con l’accucciarsi desolato sull’uscio di casa (Horkheimer, Adorno 1947, pp. 274 sg.). Quando le ripetizioni si spengono nella mancanza di risultati, e l’impedimento è oltre ogni portata, l’attenzione può rivolgersi altrove, ma rimarrà sempre quella cicatrice, quella callosità, che danno luogo a deformazioni, nel senso che possono “creare” caratteri duri, o rendere definitivamente stupidi. Perché la domanda interdetta pietrifica la vita di relazione.

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una dolorosa e inevitabile legge di contrappasso da pagare per aver smarrito quella capacità di previsione (che fu virtù rivoluzionaria) che solo un’immaginazione liberata dal fardello del cattivo passato potrebbe favorire. Il Pharmakon del mondo si chiama poesia suggerisce McEwan, nuova creazione, personale e collettiva, che ci fa se non superare certamente sopportare limiti e paure, trasfigurando in potenzialità positive l’humor melancholicus che già Aristotele riconobbe come dote naturale di chi cerca l’eccellenza nella filosofia, nella poesia, nelle arti: tutte attività di pari dignità, perché poietiche, creative. Della malinconia l’artista conosce non solo il furore, l’esaltazione e l’eroismo, ma anche la cupa disperazione, il senso dell’abisso, la solitudine desolata: quella che Churchill, riprendendo e rendendo celebre un’immagine già usata da autori inglesi come Boswell, Scott e Stevenson, chiamava appunto il cane nero aggrappato alla sua schiena (Padoa Schioppa 2005). Questo suggerisce McEwan. Nel momento più drammatico del pomeriggio di un sabato inglese è la poesia che sconvolge il mondo pietrificato degli avvenimenti; che scioglie il classico dilemma del prigioniero in cui è venuta a trovarsi la comunità minacciata. È l’immaginazione poetica che introduce l’imprevedibilità. Solo la poesia sembra poter compiere il miracolo della conversione o – come Borges preferiva – della ricreazione. Essa sola può restituirci fiducia, e incrementarla.


La relazionalità è sotto tiro, e la comunicazione resta problematica. Entrambe sono a rischio in quanto prove di verità, per dirla ancora con Luhmann, difficili a sostenersi in tempi di torpore e di ripiegamento diffusi, che sembrano essere l’unica risposta disponibile, provvisoria ma generalizzata, alle sfide, i rischi, le paure che ci aggrediscono dall’esterno senza preavviso. Troppo deboli si sono fatte le reti di protezione politica, sociale, che ci consentano di sgomitolarci con fiducia. E per sopravvivere alle incer-

No te 1 Nato nel 1948 ad Aldershott; Ian McEwan è autore di due raccolte di racconti (Primo amore; Ultimi riti; Fra le lenzuola); di un libro per ragazzi (L’inventore dei sogni) e di nove romanzi tutti tradotti da Einaudi (Il giardino di cemento; Cortesie per gli ospiti; Bambini nel tempo; Lettera a Berlino; Cani neri; L’amore fatale; Amsterdam; Espiazione; Sabato).

Bib li ogr afi a Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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La fiducia passa attraverso prove continue. Ciò è dovuto al fatto che essa richiama statuti di fedeltà non sempre sostenibili. Perciò più interessante di una fiducia inviolata è la fiducia infranta e riacquistata. Sta qui il valore tutto umano di ogni conversione. Pietro nega Gesù nell’orto del Getsemani, ma gli basta poi il suo sguardo per pentirsene e cercarlo. Non sappiamo bene, per la verità, come siano andate davvero le cose in quell’orto del Getsemani: se sia stata la gelosia di Giuda o la codardia di Pietro a perdere Cristo, come ebbe a concludere problematicamente Graham Greene. E il ritrovamento di un Vangelo attribuito a Giuda potrebbe oggi ribaltare la tesi del Giuda traditore a vantaggio di un Giuda tradito. Di lui, il più intelligente e superiore a tutti gli altri discepoli, Cristo si sarebbe servito perché potesse compiersi il disegno salvifico (Krosney 2006). Ciò ci insegna che è sempre rischioso prender partito in questioni che riguardano la fiducia tradita. L’unica cosa certa è che nelle dinamiche di relazione il tradimento va tenuto in conto. Paradossalmente si potrebbe anzi affermare che la relazione riuscita è proprio quella che consente all’altro l’infrazione, il deragliamento, l’uscita. Chi ha infuso fiducia deve sapere che verrà l’ora in cui sarà sfiduciato. Dovrebbe anzi – paradossalmente – accelerare i processi di emancipazione che ogni atto di sfiducia esprime. Vi è un’affinità sottile tra la problematica della fiducia e quella del dono. Come nelle dinamiche donative, il contraccambio di fiducia è equiparabile a un dispendio (Bataille 1967) che, nel caso del dono, costituisce il bisogno di liberarsi quanto prima dall’obbligo di gratitudine per chi e per ciò che si è ricevuto. Non sempre il ricevuto è ricambiabile: esso può semmai marcare una soggiogante superiorità del donatario. Questo perché a innescare la fiducia sono per lo più azioni non dovute: prestazioni supererogatorie le chiama Luhmann in quell’essenziale suo testo sulla Fiducia scritto tra le speranze del ’68. Quelle insomma che pur non obbedendo ad alcun dovere, vengono riconosciute come prestazioni al di sopra del dovuto e della “norma”, che nessuno quindi avrebbe il diritto di pretendere, e che proprio per questo producono rispetto e riconoscenza (Luhmann 1968).

tezze non resterebbe che accontentarsi del possibile: sopravvivere senza pretese, anestetizzarsi. A rigore quello che ci è dato di vivere non lo si potrebbe neppure definire tempo di crisi, se è vero che crisi è crescita, esercizio critico attivo e partecipato. E neppure di transizione, perché non è chiara la direzione di marcia e neppure sappiamo se siamo in movimento, o se la melassa ha fermato i motori, e il moto è solo apparente. La imprevedibilità rende difficile se non impossibile ogni sguardo sul futuro. La vita di relazione andrebbe perciò sostenuta da un’educazione alla preferenza; a scelte capaci di farci passare da un contesto a un altro, da una ristrutturazione a un’altra, quando la strada della condivisione di un senso e di un perché fosse smarrita o preclusa. A maggior ragione perciò acquista valore quell’immaginale che apre ad altre possibilità, all’imprevedibile poietico/poetico, che converte e che ricrea. Rimbaud, poeta burrascoso ma veggente, interprete della crisi nichilista del suo tempo, ammoniva: “Le invenzioni di ignoto reclamano forme nuove” (Illuminazioni, 1886).

Angelo Semeraro

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abusivamente deteriore che si vuole attribuire ai laicismi, beatificando il più plastico concetto di laicità, buona per molti usi) è sostanzialmente una (in)cultura della diffidenza. Nasce col sospetto per l’altro barbaro che parla un’altra lingua e si alimenta di narrazioni antagoniste, dove power e glory, ostacolando la reciprocità del riconoscimento, replicano in ogni tempo e per ogni dove furibonde guerre per primeggiare.


155 ÁGALMA Testatina

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Horkheimer, M., Adorno, Th. W., 1947, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Amsterdam; trad. it. 1966, Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi. Kapuscinski, R., 2004, Podróze z Herodotem, Kraków; trad. it. 2005, In viaggio con Erodoto, Milano, Feltrinelli. Krosney, H., 2006, The Lost Gospel. The Quest for the Gospel of Judas Iscarios; trad. it. 2006, Il Vangelo perduto, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso. Luhmann, N., 1968, Vertrauen. Ein Mechanismus der Reduktion sozialer Komplexität, Stuttgart, Lucius & Lucius; trad. it. 2002, La Fiducia, Bologna, il Mulino. Marcoaldi, F., 1994, L’infanzia di Ian, «la Repubblica», 1 novembre, in Appendice a Cani neri, p. 178. McEwan, I., 1992, Black Dogs; trad. it. 1993, Cani neri, Torino, Einaudi. McEwan, I., 2001, Atonement; trad. it. 2002, Espiazione, Torino, Einaudi. Onfray, M., 2000, Théorie du corps amoureux. Pour une érotique solaire, Paris, Éditions Grasset & Fasquelle; trad. it. 2006, Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare, Roma, Fazi editore. Padoa Schioppa, T., 2005, L’Europa della malinconia, Università Bocconi (prolusione all’inaugurazione dell’a.a. 2005-2006). Rorty, R., 2006, Pensare in piccolo, che miseria, «Reset», n. 93, pp. 59-62. Rossanda, R., 2005, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi. Savinio, A., 2004, “L’inno al piede”, in Scritti dispersi 1943-1952, Milano, Adelphi. Vassalli, S., 2005, Amore lontano. Il romanzo della parola attraverso i secoli, Torino, Einaudi. Vernant, J.-P., 2004, La traversée des frontières. Entre mythe et politique II, Paris, Minuit; trad. it. 2005, Senza frontiere. Memoria, mito e politica, Milano, Raffaello Cortina. Volli, U., 2002, Figure di desiderio, Corpo, testo, mancanza, Milano, Raffaello Cortina.

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«Contatti. Rivista di relazioni pubbliche e comunicazione», del corso di Laurea di Relazioni Pubbliche Università degli Studi di Udine – sede di Gorizia, n. 1/2005; Paura e paure, a cura di N. Vasta e I. Jammernegg, pp. 335, € 24,00. Dovendo definire la comunicazione, gli enciclopedisti non trovarono di meglio che spiegarla come contatto. I corpi si trasmettono energia e il loro contatto produce dinamiche di movimento. Per contatto si alimenta la vita di relazione; s’intensificano i rapporti tra persone, popoli, nazioni. Non si poteva trovare una intitolazione più felice per una nuova rivista di comunicazione costruita nel laboratorio di un corso di studi di relazioni pubbliche. E già la scelta tematica di questo primo numero monografico, curato da Nicoletta Vasta e Iris Jammernegg, mettendo al centro di una ricca tessitura il tema della/e paura/e, segnala una sensibilità sui temi della modernità matura che lascia indovinare future attenzioni sui suoi aspetti più cruciali. Le paure moderne sono certamente un combinato di sopravvalutazione e di fra-

gilità insieme dell’individuo nello spazio sociale deregolarizzato dagli effetti della globalizzazione. Si alimentano della carenza di fiducia – annota Bernardo Cattarinussi – e colpiscono i singoli come interi gruppi sociali, dal momento che esse sono immediatamente contagiabili, sia che si fondino su un pericolo reale che nei fantasmi dell’immaginario. Innanzi alle molteplici forme in cui riusciamo a farvi fronte (la fuga o la lotta ne sono gli estremi) gli autori del collettaneo sembrano interessati a indicare qualche strategia di rassicurazione e alcuni orientamenti valoriali per far fronte a questa passione della mente: un’etica ecologica ad esempio può sviluppare gli anticorpi in grado di tenere sotto controllo le dinamiche della paura e le conseguenze di questo potente destabilizzatore della vita personale e collettiva. Cause e conseguenze del resto sono state analizzate fin dall’antichità, e basterebbe, come fa Carlo Mondarghini, ricordare che Hobbes pose la paura a fondamento dello Stato moderno, come forma di legittimazione del potere e base stessa del rapporto governanti-governati. Sarà poi Norbert Elias a valorizzarla come chiave d’interpretazione della vita civile: una strada che molti analisti sociali hanno poi diversamente percorso avvalendosi dello sviluppo delle scienze indiziarie della società, fino alle


ancestrale delle nostre emozioni e può anche inibire lo sviluppo, è anche vero che essa ha assicurato la sopravvivenza della specie, consentendo di premunirci contro ogni sorta di pericoli e minacce incombenti. È interessante quello che Marchesini ci rammenta a proposito di molte ossessioni poste a carico di un’amigdala non più sollecitata da un ambiente fisico pericoloso. Da cui il bisogno di “nutrirla” di thriller e di horror, capaci di risvegliarla e riattivarla. Un cambiamento di prospettiva rispetto all’antropocentrismo è ritenuto necessario per accedere a una più ricca e soddisfacente sfera etologica, afferma e argomenta a sua volta Sara Valentini. Lo sguardo sugli animali deve liberarsi da molti pregiudizi se vogliamo godere del piacere di universi altri. Sulle polarità oppositive natura/cultura, uomo/animale Sabrina Tonutti si addentra nel tema dell’alterità, sviluppata in un forum di laureati della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Gorizia. Vengono fuori la paura del doppio e la “parte spaventata di noi stessi”, illustrata in una efficace narrazione per immagini fotografiche di Paolo Comuzzi. Un gruppo di recensioni discute infine nel primo fascicolo di «Contatti» recenti titoli sulle dimensioni sociali della paura (Carlo Mongardini, Franco Angeli, 2004) e sulle paure degli italiani (Valerio Castronovo, Rizzoli, 2004). Un ottimo inizio, non c’è che dire, per questo monografico che non solo costituisce ora un ineludibile titolo di cui si dovrà tener conto se si vorranno studiare analiticamente cause ed effetti di una società erosa da precarietà e insicurezza, ma che per gradevolezza grafica e spessore critico dei contenuti è rivelatore di una comunità didattica dialogante e interattiva, ben disposta a lasciare spazio alla ricerca oltre il routinario mansionario di un normale corso di studio a base comunicativa. Angelo Semeraro

Voll i, U. Laboratorio di semiotica Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 171, € 15,00.

Ba uman, Z. Fiducia e paura nella città Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 79, € 10,00. L’occhio semiotico è un occhio dilatato e interferente. Guarda (e ci addestra a guardare) con attenzione diversa gli spazi in cui ci muoviamo e agiamo: le città, il flusso turistico, la pubblicità, le pratiche di rete. Spazi del senso perduto, secondo Volli, ma anche di quello che, per essere ritrovato, richiede una grammatica addestrativa dello sguardo e una migliore attrezzata ermeneutica dell’occhio, capace di farci entrare nel gioco seduttivo dei significati sempre nuovi di ogni significante. Cosa sia una seduzione buona – un secum ducere di lenti assecondamenti, in luogo del più imperiale sui ducere mediatico – Volli lo spiega in uno degli agili capitoli interni di questo libro-laboratorio, che offre un piccolo aiuto nella scelta di modelli, metodi e attrezzi per migliorare la comprensione di fenomeni sociali e comunicativi. La prima parte di questi esercizi da laboratorio ci aiuta a rileggere la città, luogo di tensioni, afferma Volli, nonostante i continui tentativi di uniformarle che sono stati compiuti in tutti i tempi. Gli spazi di una città fremono – afferma – di una tensione antagonistica e concorrenziale, ed è proprio la molteplicità delle tensioni che rende il testo urbano conflittuale. Partire perciò dal territorio urbano, che l’autore assume come “testo”, significa cercarne innanzitutto le opposizioni, dal momento che un testo è tanto più significativo quanto più riesce a esprimere differenze. In quanto insieme di ambienti umanizza-

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municazione politica abbia da una parte evocato paure (i minacciosi ritorni di improbabili gulag del leader della Casa delle libertà), dall’altra abbia fatto leva su una domanda di fiducia per rimettere in sesto il paese, compromesso agli occhi dell’opinione pubblica internazionale dalla spregiudicatezza del leader politico della CDL. La paura del resto è l’archetipo rovesciato della fiducia e della sicurezza. Ogni potere tende a consolidarsi attraverso la rappresentazione simbolica di valori condivisi, ma anche, quando il caso lo richieda, facendo ricorso alla potente leva della minaccia esterna. Del resto non si può dire che il sistema mediatico e gli altri stakeholder, di cui gli addetti alle relazioni pubbliche non possono assolutamente fare a meno, godano di fiducia, pur avendo raggiunto il massimo di affermazione operativa. La vicenda degli exit-pol è emblematica, e sta a dimostrare che nonostante gli strumenti interattivi e di rilevazione siano divenuti sofisticatamente attendibili, i pubblici tendono a innalzare barriere di difesa alla privacy. Di “reticenza diffusa” discute Toni Muzi Falconi, della SCR Associati, che fa comprendere le dimensioni quantitative degli addetti alle relazioni pubbliche (circa 3 milioni di persone) che rischia una crisi di stagnazione. Anche la rete contribuisce ad accrescere se non proprio paure almeno trepidazioni: insieme a tutti i vantaggi che di internet non possiamo non ammettere, c’è l’incubo degli attacchi quotidiani di virus sempre più devastanti, di defacements; di siti-trappola ecc., che ci rendono sempre più dipendenti dai sistemi esperti. Il numero monografico, ricco di voci esperte, non trascura l’analisi di paure più ancestrali, come quelle che Roberto Marchesini affronta riflettendo sui nostri comportamenti con gli animali, legati tanto all’educazione che a fobie mutuate nel nostro stadio di primati (come quella per i serpenti, ad esempio). Perché se è vero che la paura è la più

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più recenti pagine di Castells e Bauman. I processi di globalizzazione hanno mostrato a sufficienza come la permeabilità dei confini e la caduta della forza protettiva degli Stati che la paura ha prodotto, abbia messo sotto scacco i paesi più industrializzati, esponendoli a ondate migratorie che continuano a costituire una preoccupazione e una minaccia, nonché l’acuirsi di tensioni xenofobe. L’ambivalenza tra mixofilia e mixofobia delle aree metropolitane, sono il segno di una tensione, anzi di una “paranoia mixofobica”, come la definisce ora Bauman, di ciascun cittadino (Fiducia e paura nella città, Mondadori, 2005, p. 35). Susanne Holmströnne, una ricercatrice danese che studia le interrelazioni tra meccanismi di regolazione della società e di legittimazione delle organizzazioni, analizza lo stato di iperirritazione continua della società, dovuta a due posizioni del tutto inconciliabili: quella delle organizzazioni sociali tese a legittimare continuamente se stesse, soprattutto in presenza di decisioni rischiose, e quella dei soggetti potenzialmente esposti al rischio delle decisioni che ricadono su di loro. Di grande interesse è, a tale riguardo, la traccia lessico-semantica sulle rappresentazioni della paura che Paul Bayley segue nelle tipologie del discorso politico delle dirigenze americana e del Regno Unito. Che si trattasse di Guerra Fredda o di guerre guerreggiate, dal Vietnam fino al più recente conflitto iracheno, il ricorso alla paura è stata una leva potente nelle mani dell’amministrazione americana per la coesione interne e il consenso degli States. Bayley, in questo interessante fascicolo, ha sottoposto ad analisi quantitativa i discorsi presidenziali di Bush e Blair e non si contano le ricorrenze di termini come fears, worries, concerns, anxietis. E c’è da credere che anche un’analisi qualitativa sulla lunga campagna elettorale svoltasi nel nostro paese tra il 2005 e il 2006 potrebbe mettere in pari evidenza come la co-


a superare i confini e ad apparire, a sorpresa, in luoghi per loro non previsti; dove non sono stati invitati. E si tratta di due categorie di persone: da una parte quei “messaggeri di sventura” che portano con la loro presenza gli incubi di guerre lontane, di fame, carestie. Sono gli immigrati i principali portatori di differenze di cui abbiamo più paura e contro i quali costruiamo barriere e ghetti urbani, spazi preclusi che scoraggiano ogni sosta e inibiscono gli ingressi. L’altra categoria di persone è rappresentata dalla underclass, di quelli che senza rimedio sono fuori dal sistema delle classi; gli espulsi dal lavoro, o anche quelli che non vi sono mai entrati. È la “gente superflua” e senza prospettiva della società liquida quella che più evoca fantasmi, paure e minacce. La metropoli dunque è sotto questa doppia pressione, e se da una parte la underclass si raccoglie in involontari ghetti periferici, dall’altra chi ha tracciato i confini si ritrova nei ghetti volontari della gated communities, fortilizi sorvegliati giorno e notte con i più avanzati occhi elettronici messi a punto dalla fiorente tecnologia spionistica americana. La città di Bauman è una città discarica in cui disperatamente si cercano soluzioni locali agli effetti più pesanti della globalizzazione. Discariche ma anche campi di battaglia o, se si vuole, laboratori dove si fronteggiano e combattono quelle che gli piace definire mixofilie e mixofobie, ossia le due risposte possibili a un presente/futuro di convivenza o di esclusione. Due tendenze che coesistono, ma la coesistenza tra chi voglia mescolarsi (i mixofili) e chi gli underclass vuol combattere come parassiti del Welfare e potenziali terroristi (mixofobi), non è una soluzione. E la conferenza del sociologo polacco si conclude con un invito rivolto a Milano e ai milanesi a spianare gli aspri spigoli della vita urbana, imparando l’arte del vivere con le differenze salvaguardando le diversità possibilmente sforzandosi di accettarle e di apprendere a conviverci pacificamente. Rendere umana la città dell’uomo, solleci-

tando le più ancestrali risorse umane della compassione e della sollecitudine per i più deboli è un primo passo per portare compassione e sollecitudine sul piano planetario. L’aria di città può renderci liberi, e lo sguardo delle città tolleranti apre a cose sorprendenti ed eccitanti. Angelo Semeraro

Durham Pe ters, J. Parole al vento, Storia dell’idea di comunicazione Roma, Meltemi, 2005, pp. 478, € 30.00. Ha buone ragioni Luciano Petullà quando, nella Postfazione di questo ponderoso volume Meltemi, ne parla come di un libro di filosofia dei media: un crocevia in cui letteratura, storia e antropologie decidono di incontrarsi, agevolando lo sforzo investigativo su una comunicazione che per la modernità ha assunto la stessa valenza dell’essere parmenideo e aristotelico: ciò che si dice in molti modi. Quella della comunicazione è questione un po’ simile all’avventura dell’essere, divaricato da sempre nella molteplicità dei significati che i nuovi media telematici contribuiscono a complicare. Nella migliore delle ipotesi essa definisce pratiche compensative, dovute a una rassegnata coscienza che non potremo mai fidarci del tutto del linguaggio, scritto o parlato, visivo o sonoro, che sia. Le entropie interne ed esterne alla comunicazione inducono a un atteggiamento rassegnato ogniqualvolta tentiamo di raggiungere e farci raggiungere. Questa consapevolezza scettica, più diffusa in chi la comunicazione la studia e l’analizza, viene da lontano. Sta sul fondo di quel pessimismo agostiniano che si interrogava già all’inizio dell’era cristiana sulla possibilità di poter davvero trasmettere qual-

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riferimenti ai loro contenuti”. La prassi comunicativa della schiuma è violenta: una configurazione di non-luoghi “che si costituiscono come monumenti di insignificanza testimoniando una complessità senza più differenze” e la definitiva “sparizione del cittadino”, a vantaggio del “consumatore” (p. 19). L’occhio semiotico di Volli si incontra per molti tratti con quello sociologico, almeno con quello con cui Bauman mette a fuoco le nuove paure della metropoli, interrogandosi sull’avvenire delle nostre città globali. Si tratta di un agile volumetto, che in appendice contiene il testo di una conferenza tenuta a Milano nel 2004 al convegno Fiducia e paura nella città. Bauman muove dalla constatazione che più gli spazi e le distanze si sono ridotti, più è cresciuta la rilevanza che la gente tende ad attribuirvi; più è svalutato lo spazio, meno protettiva si è fatta la distanza, e più ossessivamente è cresciuta la tendenza a spostare i confini tra le persone: un aspetto ben visibile nelle grandi città, perché è proprio nei grandi spazi della metropoli che si può osservare questa furiosa attività di tracciare e spostare i confini tra le persone. Richiamandosi a Fredrik Barth, antropologo norvegese, Bauman fa rilevare come contrariamente a quanto si possa credere, i confini non vengono tracciati allo scopo di tenere separate le differenze, e che le differenze semmai emergono in quanto tali proprio perché quei confini vengono tracciati: “andiamo in cerca di differenze proprio per legittimare i confini” (p. 66). Sei miliardi di uomini e donne che popolano il pianeta sono il più evidente trionfo delle differenze. Ma queste diventano significativamente rilevanti proprio esaminando la natura dei confini che vi abbiamo tracciato, dal momento che ogni confine crea le sue differenze. Può sembrare un gioco di scacchistica mentale, ma il ragionamento è stringente. Le differenze che diventano significativamente rilevanti a causa del confine sono quelle attribuite a persone che hanno l’indecente tendenza

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ti, le città non sono spazi lisci, bensì plessi di striature che concentrano funzioni produttive, politiche: una concorrenza di codici, segni e simboli che si sono nel tempo stratificati: un conflitto che rispecchia i fatti sociali e che attraversando instancabilmente il territorio lo plasmano. L’offuscarsi delle differenze; l’indistinzione degli elementi, così come rende indecifrabile un testo, facendolo retrocedere allo stato naturale di mero oggetto povero di senso, altrettanto disorienta la comprensione di una città. Il territorio urbano insomma, letto con la lente del semiotico, è un testo tutt’altro che edificante. Può anche diventare ideologico se contestualizza le forme di vita e i sistemi di potere che vi si sono avvicendati, a volte elidendosi, a volte stratificandosi: la guerra dei segni, come quella dei simboli, non è mai finita e difficilmente approderà a paci durevoli. Ma i segni sono oggi ferite aperte, difficilmente cicatrizzabili nello sfondamento indefinito degli spazi metropolitani. Il volto delle metropoli degli ultimi decenni si è inesorabilmente modificato, e il compromesso realizzato tra i Settanta e gli Ottanta di un’urbanistica funzionale a un’organizzazione del lavoro incentrata sulle grandi fabbriche ha ceduto il posto, col fondersi delle periferie urbane e metropolitane, a città infinite e indefinite insieme. Più che le grandi strutture produttive, in via di decadenza e di riuso, è l’osmosi tra produzione e vita quotidiana a sagomare il volto indefinito delle città: villette che sono insieme abitazione e officina o negozio; cattedrali del consumo; non-luoghi di divertimenti di massa come i grandi cinema multisala che sul modello americano simulano la piazza urbana, e via enumerando. Volli parla di schiuma metropolitana, costituita dall’indistinzione e la “neutralizzazione di tutte le opposizioni territoriali”. Ciò che fa schiuma è il “togliere rilievo alla specificità; l’indistinzione dei contenitori; i grandi parallelepipedi dei capannoni allineati lungo ogni strada, senza


Angelo Semeraro

Caputo, C., Petrilli, S., Ponzio, S. Tesi per il futuro anteriore della semiotica. Il programma di ricerca della Scuola di Bari-Lecce Milano, Mimesis, 2006, pp. 136, € 11.00. Chi si occupa di semiotica, oltre a interessarsi precipuamente delle condizioni

di possibilità del significare, dunque della vita dei segni, ha il compito di prendersi cura della condotta generale dell’uomo nel mondo e delle conseguenze che al mondo arreca il suo agire: deve cioè prestare attenzione ai segni della vita. È questo uno degli assunti di base rintracciabile in questo libro, che illustra, come recita il sottotitolo, il programma di ricerca di quella che è ormai lecito definire come Scuola di BariLecce. Tale denominazione geografica, lungi dal rivendicare campanilisticamente una storia locale della disciplina, serve semplicemente a chiarire la provenienza degli studiosi aderenti al suo programma di ricerca, teso a sottolineare l’interdipendenza tra una scienza specialistica qual è la semiotica, e l’agire dell’uomo nel mondo, quindi l’etica. La “differenza non indifferente” è il principio metodico da cui muove la Scuola per approdare, sulla base di importanti ascendenze teoriche e intellettuali (Peirce, Welby, Morris, Hjelmslev, Bachtin, Lévinas, Sebeok, Rossi-Landi), a un lavoro sui segni che sia critico, detotalizzante e demistificante. Recuperando il suo originario rapporto con la pratica medica dell’interpretazione dei sintomi la semiotica “deve mettersi in ascolto dei sintomi dell’attuale mondo della globalizzazione per individuarne i diversi aspetti del malessere (…), in contrasto con una globalizzazione votata alla sua autodistruzione” (p. 25). È qui che la semiotica, consapevole del fatto che mai un presente è stato così gravido di responsabilità nei confronti del futuro come quello che viviamo oggi, si fa semioetica. Il volume si divide in tre capitoli. Nel primo capitolo vengono esposte le trenta tesi che riguardano da vicino il programma di ricerca in cui si muove la Scuola. Le tesi, frutto di una sintesi provvisoria e rivedibile, nucleo tematico di base atto a provocare una ricerca critica e dialogica intorno allo studio dei segni e del linguaggio, si fondano sulla convinzione

che “una teoria generale del segno deve evitare il glottocentrismo, ovvero l’assunzione del segno verbale come modello di segno in generale” (p. 13). Occorre guardare al modello di segno più refrattario alla traduzione verbale, il segno più irriducibile, più altro: si tratta del segno musicale, che più di tutti si sottrae all’imperialismo della parola. In questa prospettiva, la semiotica deve diventare una sorta di semiotica della musica, non nel senso di una semiotica applicata alla musica, “ma di una semiotica costruita tenendo conto della semiosi che proviene dalla musica” (p. 13); una semiotica, quindi, che assume il segno musicale come termine di verifica del proprio carattere generale, che prende il sapore della musica. La metodica della semiotica diviene così una metodica dell’ascolto. Per ciò che riguarda la sua estensione, la semiotica, in base alla direzione indicata da Thomas A. Sebeok, deve tendere a essere globale, poiché l’intera semiosi è sovrapponibile alla vita stessa e, pertanto, la bio-logica risulta essere una semio-logica. La semiotica, così, non si limita allo studio della semiosi umana (antroposemiotica), ma si allarga abbracciando la zoosemiotica e la biosemiotica. Oltre a riproporre il modello triadico di segno (oggetto-segno-interpretante) di matrice peirceana che si fonda sul principio che ogni segno ha il proprio significato in un altro segno, in un percorso interpretativo illimitato, le tesi mettono capo a una semiotica come scienza critica, non solo nel senso kantiano, tendente cioè a rintracciare le sue stesse condizioni di possibilità in quanto scienza, ma anche nel senso marxiano, come messa in discussione dell’attuale, come presa di posizione critica nei confronti di quello che l’ideologia conservatrice oggi dominante ritiene essere l’unico mondo possibile. Nel secondo capitolo si forniscono invece gli strumenti essenziali per lo studio dei segni, i segni per parlare dei segni. Punto focale della questione è la critica che già nel 1961 faceva il filosofo italiano

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dimensione antropologica, sociale e psicologica insieme. Solo una storia di lunga durata del farsi dell’uomo può chiarirci, magari stupendoci ancora, di quali forme e con quali schemi mentali l’umanità si sia ogni volta nutrita di questo bene di prima necessità. Perciò, molto opportunamente, l’autore costruisce la biblioteca ideale che si è venuta costruendo tra le due guerre del XX secolo, con scaffali sempre più affollati di testi letterari, filosofici, sociologici e di arte. Una biblioteca oramai ineludibile per chi voglia muoversi tra le criticità della comunicazione: un’isola dei famosi in cui accanto a Wittgenstein ci trovi Buber, Dewey, Heidegger e Freud, ma anche Lippmann, Lukàcs, Schmitt, Lasswell e Adorno, insieme all’ultima generazione dei francofortesi. Né potrebbero mancare – nello scaffale letterario di questa biblioteca ideale – Eliot, Kafka, Hemingway, Proust, Rilke e Virginia Wolf e tra gli italiani – aggiungiamo noi – almeno Calvino, Sciascia e Pasolini, e infine, nello scaffale artistico, il movimento dadaista, il surrealismo, la fotografia, il cinema. Sono scaffali da completare e aggiornare. Non potrebbero mancarvi certamente Innis, McLuhan e altri precursori del Novecento, e a ben pensarci questa piccola biblioteca potrebbe costituire il minimo garantito nell’offerta didattica di un corso di comunicazione che si rispetti.

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cosa a qualcuno, signare di risonanza la parola data o ricevuta con la pretesa che essa possa condizionare o modificare; condizionarci e modificarci. Con Peters siamo innanzi a una densa storia delle idee della comunicazione, che, a partire dal classico trittico platonico (Timeo, Gorgia, Simposio) si dipana nelle maggiori correnti del pensiero moderno (da Locke a Kierkegaard, James, Adorno, Lévinas ecc.) facendoci capire con un altro punto di vista rispetto ad altre storie delle idee come si sia sgomitolato il concetto di comunicazione (dalla disseminazione di Cristo, che parla per parabole, alla comunione delle anime di età romantica), con tutte le criticità e le problematicità che questo lemma conserva e la sua forte mobilità di senso. Oggi la comunicazione è all’ordine del giorno, ovunque, ma assume significati diversi e qualche volta distanti tra loro: da una parte, ad esempio essa si configura come di uno strumento di diffusione di simboli persuasivi allo scopo di influenzare i pubblici; per un altro verso, come strumento per attenuare le divergenze e stabilire relazioni sociali più razionali. Un lemma sematicamente ricco e flessibile dunque; plastico e in continuo movimento, centrale nella riflessione sulle civiltà, la democrazia, l’economia, la vita sociale, le relazioni personali e intercomunitarie. Alcuni dilemmi fondamentali della nostra epoca, sia pubblici che privati, dipendono da una comunicazione riuscita o disturbata, adulterata, truccata. Perciò la studiamo e cerchiamo di maneggiarla (agirla) in modo consapevole, cercando di ottimizzare le nostre performance sociali. La comunicazione del resto si è misurata con la modernità di ogni tempo, soprattutto con le prime applicazioni delle telecomunicazioni che hanno contribuito alla trasformazione del nostro modo di pensare, di agire e di essere. Non mancano nel corposo saggio di J. Durham Peters tesi suggestive e anche provocatorie, che sconfinano dai tradizionali confini disciplinari e guadagnano una


Emanuele Dell’Atti

Morin, E. Étique, La Méthode 6 Paris, Éditions du Seuil; trad. it. 2005, Etica, Il Metodo 6, Milano, Raffaello Cortina, 2004, pp. 215, € 20.00. Sembra iniziare una nuova stagione per le filosofie – da quella poststrutturalista e postmoderna, alla epistemologia della complessità – dopo l’epoca del decostruzionismo, della critica penetrante ai principi della logica moderna, della demolizione degli storicismi e determinismi, l’approdo al contestualismo ermeneutico e al prospettivismo nietzscheano, sono giunte a quella che è stata definita la svolta etica. Secondo Honneth questo riorientamento morale di filosofi come Lévinas, Derrida, Lyotard, Jonas, Putnam e oggi Morin, non solo è espressione del naturale superamento dell’ideale politico-emancipativo, ma la testimonianza di un bisogno, quello di evitare il pericolo dell’indifferenza etica cui inevitabilmente si espone la critica della metafisica e della razionalità moderna. In un universo sempre più policentrico dove liberamente agiscono le differenze e in cui la pragmatizzazione dei linguaggi paradossalmente genera microcosmi senza valori, zone di non-diritto, forme nuove di repressione e nuove modalità di asservimento, non è più possibile per la filosofia eludere gli interrogativi emergenti: la nostra è una società che si è veramente liberata dal bisogno e dai falsi desideri? Con il tramonto degli universalismi quali sono i criteri che oggi possono legittimare l’agire? E ancora, una volta assunta l’assenza dei fondamenti come può esistere un’etica senza ontologia? Se Lyotard fa appello alla phronesis aristotelica, alla saggezza pratica, per spiegare l’atto morale, Morin ci parla, invece, di relianza. Un neologismo che unifica e rafforza due significati apparentemente simili ma niente affatto identici: l’idea di re-

lazione e di alleanza. La relianza etica è l’atto di un individuo con l’altro, con una comunità, con una società, fino all’inclusione biologica dell’intera specie. Potremmo dire parafrasando Hegel che l’etica è relianza, la relianza è etica. Poiché l’etica è, a suo giudizio, un’emergenza dell’Essere; è ciò che si svela e ci svela, manifestandosi a noi in quanto esseri ologrammatici, trinitari, complessi. Nessuna distanza tra etica e morale moriniana, la complessità impone la dialogica in vece della dialettica, la circolarità in vece della linearità, con tutto il loro portato di doppiezze, ambiguità, ambivalenze, contiguità, affinità. Con Etica Morin ritorna a centrare la sua analisi sull’uomo, privato di quella soggettività consapevole e rivelatosi un Essere multiplex, il più complesso dei viventi, che non solo (come ci ha già descritto nel recente L’identità umana, 2004) è ludus, sapiens, demens ecc, ma è soprattutto un composto di egocentrismo, altruismo, misticismo, possessione ecc. C’è anche qui come in Kant l’imperativo morale, ma non dettato però da alcuna Legge; non è giuridica, infatti, l’ascendenza, ma religiosa, nel senso del religere, del legare insieme – dunque di comunicazione – in una sorta di simbiosi di razionalità e fede. Ed è da un duplice carattere del dovere che è mistico e possessivo insieme, che scaturisce l’agire morale quale atto o imperativo, come lui lo definisce, di relianza. Nell’indagine che si snoda a differenti piani e per anelli triadici, Morin non rinuncia – alla maniera hegeliana – a delineare la genesi storico-fenomenologica di una morale divenuta autonoma soltanto con la modernità. Ma, come tutte le altre dimensioni nate da quel processo, anche la morale ha subito una scissione paradigmatica con le altre discipline e pratiche, separandosi dalla politica e dalla scienza; causandole così quella cecità o immunità che oggi gli impedisce di vedere gli effetti degenerativi della tecnica sull’uomo e sull’ambiente. Ed è proprio

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guaggio verbale, che ha, ma, come è noto, non è il solo ad averla, una funzione comunicativa. Il terzo capitolo, infine, offre una panoramica, utile anche a scopo didattico, di alcune delle linee fondamentali relative allo studio dei segni nel Novecento. Si passano in rassegna le tendenze principali della recente ricerca semiotica e linguistica, tendenze che, anche attraverso la loro messa in discussione, hanno portato alla maturazione e all’elaborazione delle tesi proposte nella prima parte del libro. Si parte dalla imprescindibile lezione di Charles Sanders Peirce (1839-1914), riconosciuto ormai unanimemente come fondatore della semiotica, la teoria generale dei segni distinta dalla semiologia risalente a Saussure, interessato esclusivamente ai segni della vita sociale umana con funzione comunicativa. Si passa poi per l’innovativa ricerca di Victoria Welby (1837-1912) che, attraverso la significs, si propone di prendere in considerazione il valore pratico del significato. Si sottolinea inoltre l’importante contributo che, a partire da interessi relativi alla teoria della letteratura, ha dato allo studio del linguaggio il filosofo russo Michail M. Bachtin (1895-1975), insistendo sul carattere dialogico della parola e sul rapporto tema/significato. Si delineano anche i tratti essenziali della teoria del segno di Ferdinand de Saussure (1857-1913), rinviando alla recente scoperta di alcuni suoi scritti inediti che stemperano la lettura stereotipata del linguista ginevrino, e di Louis Hjelmslev (1899-1965), ma si presta anche attenzione alle posizioni di Cassirer e Wittgenstein. Infine, pur se in opposizione critica, si pone l’attenzione alla linguistica generativo-trasformazionale del vivente linguista americano Noam Chomsky, che pone capo a un discutibile innatismo linguistico.

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Ferruccio Rossi-Landi della comunicazione come pacco postale. La comunicazione non è da intendersi nei termini di uno scambio eguale, di un mero passaggio, come se si trattasse di un pacco postale spedito da un ufficio postale e ricevuto tale e quale presso un altro. Il segno non è qualcosa di univoco, dato che, oltre ai significati emersi, si trovano i significati sommersi, non colti immediatamente, i significati aggiuntivi, per usare una terminologia rossilandiana. Ciò perché il segno, a differenza del semplice segnale che possiede uno scarso spessore semiotico (quindi un basso grado di segnità), possiede in ogni caso un certo grado di materialità semiotica che lo rende resistente alla fagocitazione interpretativa, anzi lo rende plurivoco e capace di entrare in più percorsi interpretativi in virtù del suo inevitabile residuo non interpretato. La materialità semiotica rivela la sua importanza pratica allorquando si considera il rapporto significato/verità: dal momento che in ragione di essa è impossibile codificare una volta per tutte i significati, ciò comporta che la verità è da ricercarsi non in sistemi segnici predefiniti e monolitici, ma “nella pluridiscorsività dialogizzata, nel raffronto fra procedure modellizzanti diverse” (p. 58). Ciò significa rivedere il concetto di “verità” alla luce della categoria dell’alterità. L’altro nodo cruciale nello studio dei segni è nel fatto che “il linguaggio non è una funzione e tanto meno si riduce alla funzione comunicativa” (p. 65). Il linguaggio non è il parlare, bensì è da intendersi come un “congegno” (Sebeok), o una “procedura” (Ponzio) specie-specifica dell’uomo che permette la modellazione, la costruzione di più mondi. Risiede dunque nel linguaggio così inteso la differenza tra l’animale umano e le altre specie animali. Il linguaggio, grazie alla sintassi o scrittura, da non intendersi come mera trascrizione della phoné, permette il gioco del fantasticare; in tal modo precede filogeneticamente e ontogeneticamente il parlare, vale a dire il lin-


sato la morale moderna da Hume a Leibniz da Locke fino a Kant, ossia se la morale sia generata dal sentimento o dalla ragione. Ma a differenza di Kant non sostiene che la legge morale si fondi sui concetti di Bene e Male, perché essa non ha alcun fondamento cui rinviare. Santa De Siena

T und o Fe rente , L. Moralità e storia. La costruzione della coscienza etica moderna Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 265, € 23.00. Per la riflessione filosofica contemporanea il moderno è il tempo di un tormentato andirivieni interpretativo, che l’ha spesso condotta a declinare il processo di liberazione etico-politico entro scenari di declino, crisi, disagio, smarrimento considerati come più corrispondenti a rappresentarne la storia. Ci si accorge però che gli esiti a cui giungono le genealogie del moderno, da Nietzsche in poi, troppo protese a evidenziare aporie, conflitti, fallimenti, dipendono più dall’interesse teorico che le ha motivate che non da un’attenzione alla complessità della dinamica storica. Per reagire e rispondere a questa situazione l’Autrice non si limita a presentare una controgenealogia del moderno, ma con equilibrio e chiarezza si propone di comprendere il percorso storico e teorico dei principi e vincoli etici della libertà, eguaglianza, giustizia, sovranità, solidarietà, responsabilità che hanno formato la coscienza storica moderna. Un lavoro impegnativo, solido, documentato. Originale, inoltre, per il taglio metodologico che non vuole limitarsi alla ricostruzione teorica, all’apporto di singoli autori, bensì alla maturazione storica che si è andata co-

struendo, e che ancora impegna il nostro tempo, nella dinamica degli eventi, delle lotte, delle conquiste emancipative. Processo complesso di graduale e universale liberazione, del quale pensatori e filosofi hanno recepito, e qualche volta anticipato, le istanze, organizzando i principi in importanti sistemazioni morali e giuridico-politiche, ma del quale non sono stati attori e principali protagonisti. Che sono, invece, sempre storici e agiscono secondo bisogni, esigenze reali, aspirazioni, speranze. Le esperienze, sorprendenti e innovative, delle rivoluzioni moderne: inglese, americana, francese, russa, i movimenti, come la guerra contadina tedesca, le lotte in genere dei ceti emergenti e delle classi subalterne, sono momenti altamente formativi di questo processo. Tesi centrale è, infatti, quella che vede nel moderno il passaggio verso una sempre maggiore acquisizione dei principi etici e dei vincoli dell’agire, della consapevolezza e diffusione del loro valore universale, che ha condotto persone e popoli all’esigenza di fissarli in forme universalmente vincolanti quali sono le Carte dei popoli, le Costituzioni degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Questo cammino di acquisizione-costruzione, definito dall’autrice di tipo “globalmente lineare”, è analizzato a partire dagli albori della modernità e dei suoi presupposti umanistico-rinascimentali fino alle soglie della contemporaneità, con i suoi problemi ancora legati all’estensione dell’eguaglianza materiale, alla diffusione planetaria dei diritti umani, al rapporto tra democrazia e coesistenza pluralistica di ethos e culture. Ed è approfondito anche nelle sue fasi di discontinuità, alienazione, sconfitta, delusione; sospensioni parziali di un cammino che però attesta, in fasi successive più mature, segnali di ripresa e di più ampia realizzazione. Così, a partire dal principio della dignitas, con i suoi correlati umanistici di operosità e virtù, l’autrice prosegue per passaggi graduali all’analisi dei principi

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particolare interesse o bene. Al contrario la sua reliance è un’etica dell’amore, dell’unione, del doppio riconoscimento del com: della comprensione complessa. Una comprensione che implica, a sua volta, il doppio essere cum (con e fra gli altri) sia della comunicazione che della comunità di destino. Morin insiste sul valore della conoscenza anche se non ignora le aporie che essa genera. L’errore, l’incomprensione sono generate dall’autocentrismo e dal manicheismo esasperato. Con la pubblicazione del VI volume si definisce in maniera compiuta la sua antropoetica, e si completa forse l’imponente opera de La Méthode sul pensiero della complessità. Un pensiero che oltre a essere anche un metodo, una politica e ora anche un’etica, si attesta come la più grande elaborazione teorica del XX secolo che rimarca la transizione dalla fissità alla fluidità, dagli stadi alla processualità e ricorsività permanente dei e tra i sistemi, delineando la logica coevolutiva come logica del vivente, della società complessa planetaria. Di una mondializzazione che sta vivendo una profonda e difficile transizione e crisi, generata dalla nostra civiltà che, a suo giudizio, fa emergere prepotentemente l’urgenza etica, quale imperativo di relianza. Come tutte le etiche l’Etica moriniana è in questa crisi di fine-inizio secolo che deve essere contestualizzata, e come tutte le etiche è destino che emergano quando i clamori dei successi e dei progressi si affievoliscono e si allontanano i toni esaltanti delle avventure della scienza. Etica si situa nel pieno di questa crisi ed è attraversata da un profondo senso di responsabilità sugli esiti incerti di questa crisi. Che è crisi non di certezze o di fondamenti, perché l’etica è creazione permanente, fragile equilibrio, inquietudine, è interrogazione continua, ma di futuro, di democrazia. Senza porre una specifica distinzione tra etica e morale Morin ha utilizzato entrambi i corni del dilemma che ha interes-

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alla luce di questi risvolti che oggi, in piena crisi di etica, ritiene si debba andare oltre le premesse autonomistiche kantiane della libertà di un agire che ignora le conseguenze delle sue azioni; che ignora i principi dell’ecologia dell’azione e dell’imprevedibilità a lungo termine. Di fronte all’attuale perdita di senso del dovere egli giunge a ribadire addirittura l’immoralità e la disumanità del riduzionismo e della semplificazione, ponendo la complessità etica a legge universale. È ormai evidente – sostiene qui Morin – come non sussistano più le condizioni di un solo imperativo categorico per ogni azione, bensì la possibilità di una pluralità di finalità e imperativi cui obbedire, per giunta antagonisti. Ci sono, infatti, antagonismi etici e contraddizioni bioetiche. Per ogni valore cui aspiriamo Morin ci mostra – come sempre – una double bind. Beni come l’amore, la fratellanza, l’eguaglianza ecc., da una parte; e anche come essi siano spesso intimamente ingannevoli e difficilmente godibili, dall’altra. Pertanto, se le finalità sono pluralizzate anche le strategie devono poter essere complessificate e assumere le contraddizioni e il doppio vincolo dell’ecologia dell’azione. Che non è soltanto la capacità di stabilire il legame pur mantenendo la differenza, ma anche di comprendere che nel gioco delle inter-retroazioni un ruolo rilevante nel modificare gli esiti è svolto dall’ambiente. Perciò dinanzi alle aporie etiche egli ripropone la relazione socratica tra conoscenza e azione, cioè il sapere ciò che è bene e ciò che è male e, al tempo stesso, la scommessa pascaliana a lui tanto cara. Perché, come ha ribadito più volte Morin, l’autoetica è punto di partenza e di arrivo per le altre etiche: civile, sociale, ecologica e planetaria; un processo di individuale conquista di autentica moralità di chi assume angosciosamente su di sé il destino di sé e delle specie, della vita. Non già la scialba e qualunquistica moralina di cui parlava anche Nietzsche, di chi fa assurgere a universale il suo


Elena Maria Fabrizio

A A .VV .

Il bello del relativismo (I libri di «Reset»), a cura di E. Ambrosi, Venezia, Marsilio, 2006, pp. 190, € 10.00. C’è una delle più belle gag di Woody Allen che fa “Sono sempre ossessionato dal pensiero della morte: c’è una vita nell’aldilà? E se c’è, mi potranno cambiare un

biglietto da cinquanta? (…) Sarà possibile, dopo la morte, farsi la doccia?”. Il nonsense e la comicità yddish del regista americano si presta bene, con la sua tipica figura retorica, l’anticlimax, a simbolizzare, da una parte, lo spirito pop del relativismo culturale dei nostri giorni, e, dall’altra, la recente tendenza, all’interno del dibattito pubblico, a parlare di grandi temi del pensiero, mescolando, come si dice, “i santi con i fanti”, pur senza la grazia e l’umorismo dissacratorio e consapevole di Allen. Il fatto è che in un’epoca di TV generalista e di spettacolarizzazione di una filosofia da dilettanti allo sbaraglio, uno dei fenomeni di consumo informazionale più becero e anti-pedagogico è diventato quella sorta di massimalismo che trasforma i problemi quotidiani degli Stati e della società in guerre dei mondi all’interno di un palinsesto in cui gli atteggiamenti e le opinioni di proditori opinion-leader diventano improvvisamente filosofie o visioni del mondo da assumere dogmaticamente come vademecum programmatico. Capita così di esser testimoni del fenomeno per cui gravi tragedie come il disastro dell’11 settembre o grandi temi etici come quello sui diritti delle coppie di fatto, vengono fagocitati dall’eloquio non particolarmente attrezzato al livello filosofico e culturale di un esercito di predicatori dei media, i quali, con la scusa di ritrovare le radici etiche di una società smarrita, dispensano una pericolosa aria neocon, fatta di superficialità e intolleranza. È accaduto, allora, che persino tradizioni socio-filosofiche di tutto rispetto come relativismo e postmodernismo siano stati accusati, dall’ortodossia da weekend di varie Chiese e dall’ideologia patriottica di leghe e associazioni xenofobe, di essere sospetti responsabili del gran disordine etico e identitario sotto il cielo della contemporaneità. Addirittura con il relativismo se l’è presa nientemeno che una omelia pro eligendo pontifice, rimasta nell’immaginario per la vis polemica del coriaceo Ratzinger e che tutta una serie di perso-

naggi pubblici della cultura e della politica siano passati a un revisionismo delle avanguardie filosofiche degli anni Sessanta e Settanta che, come minimo, appaiono sbrigative, per non dire reazionarie. Questo agile libro di «Reset», pur negli spazi ristretti che si confanno a una scrittura da istant book, presenta un merito grande, di questi tempi preziosissimo: quello di riunire, in un’unica pubblicazione, una rassegna delle voci più eminenti per quanto riguarda quella che Foucault definiva l’ontologia dell’attualità. Come dire, lasciamo che, una volta tanto, siano gli specialisti a parlare di come il tempo presente immagini se stesso e di come le società dei nostri giorni si sentano, consapevolmente o meno, depositarie di una Weltanschauung, piuttosto che di un’altra. Il volume, curato da Elisabetta Ambrosi, caporedattrice della rivista bimestrale «Reset» (che apre con un saggio introduttivo lucidissimo e degno degli illustri ospiti che scrivono dopo di lei), tenta di fare il punto sulla situazione epistemologica degli ultimi cinque anni, dopo il detournement delle Twin Towers, visto, quest’ultimo, come eventuale punto di non-ritorno e atto di morte del postmodernismo e delle filosofie relativistico-deboliste. La scaletta, provocatoriamente, è divisa in cinque sezioni; nella prima (la meno popolata) sono raggruppate le posizioni più critiche verso le filosofie postmoderne e tra gli scritti di questa compagine troviamo, incredibilmente, il nome di Maurizio Ferraris (!) che prova ad addolcire le tesi del pensiero debole per attualizzarne gli esiti e utilizzarne le frecce contro “i monsignori” (la CEI) e “l’uomo del destino” (Berlusconi e il berlusconismo); nella seconda prendono la parola gli autori che difendono le tesi centrali del postmoderno e tentano di spiegare il perché della sua attualità e i motivi di continuità con l’Illuminismo, la contingenza etica, il superamento della metafisica e il relativismo. A delineare questo dia-

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e storici, ancora una fonte di insuperabile tensione che motiva le aspirazioni dell’universalismo egualitario. Il quale è, in fondo, la grande questione che attraversa il percorso. L’idea universalistica che caratterizza la civiltà occidentale è analizzata tanto negli effetti di scompenso e squilibrio provocati dall’affermazione scientifico-tecnologico-industriale e dalle forme di espansione-penetrazione di una civiltà sul mondo intero, quanto nella sua intenzione di fondo. Che secondo l’autrice è racchiusa nella “volontà di diffondere qualcosa che è stato già, più o meno stabilmente, sperimentato da una parte dell’umanità” attraverso “un’esperienza storica di lotta al privilegio e all’ingiustizia-ineguaglianza”. L’universalismo etico-politico privilegia “la considerazione delle eguaglianze, nel segno della comune appartenenza alla specie, alla natura e ragione umana”. Il libro è un tentativo di mostrare come i due processi, in quanto veicolati da principi diversi, possono non condurre agli stessi esiti, ed è al contempo un modo efficace di reagire alle tendenze nichilistico-scettico-relativistiche di alcune espressioni del pensiero contemporaneo non corrispondenti al livello storico cui è giunta la maturazione della coscienza etica.

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di autonomia, autogoverno, sovranità popolare. Ne verifica l’attuazione nell’esperienza dei Comuni medievali, dove non giungono a un’istituzionalizzazione pubblica, ma torneranno a essere motivo di riflessione teorica e di ripresa storica all’interno dei movimenti che agiteranno la rivoluzione inglese, quella francese, fino alla breve ma significativa esperienza dell’autogestione democratica dei soviet russi. Passaggi che fondano il vincolo della libertà sia nell’individuo che nella sua costitutiva socialità etica e politica, benché l’autrice non manchi di evidenziare i fattori di disturbo e squilibrio, primo fra tutti quello economico connesso al diritto di proprietà. Su questo snodo del rapporto tra libertà ed eguaglianza, l’autrice apre un confronto critico-filosofico con gli autori della contemporaneità, rimarcando ogni volta i limiti della riflessione etica, quando troppo frettolosamente isola la libertà dal principio di eguaglianza, o rinuncia a individuare criteri assiologici universali (Berlin), o quando, anche in teorici più attenti alla giustizia ed equità (Rawls), restringe la portata delle libertà fondamentali al piano formale, alla sua separazione dalla valutazione economica e dalle condizioni materiali senza le quali non è possibile esercizio dei diritti. Un confronto ricco e articolato che mentre traccia le grandi questioni che hanno motivato, nella seconda metà del Novecento, una forte ripresa dell’etico, si estende a un insieme di autori come Oppenheim, von Hayek, Apel, Habermas, Sen, Nussbaum, i teorici liberali e quelli comunitari. E alla trattazione dei principi della solidarietà e responsabilità ripercorsi nella loro genesi storica, giuridica, religiosa e filosofica. L’autonomia kantiana, la libertà morale, la dignità fondata sulla natura razionale, e l’estensione della moralità alla società governata dal diritto, dalla giustizia, dalla pace, rivestono un ruolo centrale in tutto il discorso e per l’autrice rappresentano, nonostante alcuni limiti formali


Mimmo Pesare

Gali mber ti, U. La casa di psiche Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 466, € 19.60.

spicato profilo del consulente filosofico costituirebbe una figura con provate competenze filosofiche e psico-pedagogiche teoriche (non cliniche!) che siano d’aiuto a singoli e a enti nell’affrontare problemi quotidiani (etici e non patologici), il rapporto deontologico con la psicoanalisi e con le psicoterapie in generale ne dovrebbe costituire il primo strumento di identificazione. Il counsellor filosofico non cura alcunché, non provenendo da una formazione medico-clinica, ma può diventare una figura di riferimento per tutta una serie di situazioni sociali o individuali in cui sia utile la capacità di interpretare nodi quali difficoltà di scelta, elaborazione di delusioni o dolori legati al mondo del lavoro o delle relazioni sociali, e, in generale, una abilità ermeneutica nei confronti delle situazioni quotidiane e dei nostri modi di affrontarne le difficoltà. Pur essendo chiaro come una figura del genere non possa curare individui nevrotici o psicotici, è importante definire in maniera netta entro quali campi e attraverso quali procedure epistemologiche questa nuova praxis possa trovare posto nell’empireo delle discipline, ancor prima che nel mondo del lavoro. Ebbene, Galimberti parte dalla premessa che il nostro tempo, l’età della tecnica, risulta caratterizzato fondamentalmente da una “insensatezza”, da una caduta della domanda sul senso dell’esistenza, che si esplicita in una percezione del dolore, della miseria, della malattia e dell’infelicità, radicalmente diversa da quella che era possibile avvertire nell’età pretecnologica. La domanda sul senso della vita che da millenni l’uomo si pone, oggi è diversa perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita ma dal fatto che “la tecnica rimuove ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati”, al cui interno l’individuo si sente un mezzo in un universo di mezzi. Insomma la tecnica, che filosofi come Heidegger, Jaspers, Anders identificavano come il destino della metafisica occidentale, sembra non

avere altro scopo che il proprio impersonale autopotenziamento, tanto che “se nell’età pretecnologica la vita e il mondo apparivano privi di senso perché miserevoli, nell’età della tecnica appaiono miserevoli perché privi di senso”. Per questa insensatezza, sostiene Galimberti, la psicoanalisi risulta impotente in quanto gli strumenti di cui dispone scandagliano il non-senso quotidiano di una vita malata di sofferenza; qui invece è la sofferenza a essere determinata da un non senso che non appartiene all’individuo, ma a uno scenario antropologico globale che ha determinato un disagio della civiltà contemporanea e che, dunque, necessita di comprensione, più che di cura. Gli strumenti filosofici, allora, possono restituire una riappropriazione del senso dell’esistenza nella sua accezione più allargata, quella cioè di un destino comune che l’umanità si gioca contro una sofferenza non più solo individuale, ma fondamentalmente collettiva, dalla cui morsa non si esce con una cura ma con una riconciliazione nei confronti dell’esperienza del dolore. Questo è non solo costitutivo della vita, ma rappresenta la condizione che ci mette di fronte al nostro limite mortale, ovvero l’impossibilità di scelta, l’ineludibilità della sofferenza e della morte, di cui l’angoscia è l’avvisaglia. Ma se le pratiche psicoterapeutiche colgono l’angoscia nevrotica nell’eziologia del passato del paziente, la pratica filosofica coglie l’angoscia esistenziale non attraverso l’analisi di una sintomatologia, bensì in ordine allo sfondo a cui tali sintomi rinviano, che è poi lo sfondo dell’esistenza percepita come assoluta precarietà. “Qui la pratica analitica è impotente, mentre la pratica filosofica ha ancora una parola da dire” scrive Galimberti. E la dice attraverso il discorso della grecità classica e della sua antropologia filosofica basata su un rapporto con gli dei dell’Olimpo che non rappresentava una vera e propria fede religiosa, ma un monito continuo a vivere “secondo misura” (katà métron) e all’insegna di quella virtù (areté) che è in primo luogo

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Non è facile descrivere in poche righe l’ultima fatica editoriale di Umberto Galimberti, anzitutto perché se dovessi definirne la tipologia scientifica non saprei se indicarlo come saggio critico o come manuale. In realtà quest’ultima definizione è difficilmente utilizzabile in quanto l’oggetto del libro, ossia la pratica (o consulenza) filosofica, non possiede ancora i caratteri di disciplina scientifica, per quanto da una decina d’anni in Europa, e da un po’ meno in Italia, si stia cercando di delinearne lo statuto teorico e di organizzarne la struttura. Probabilmente, il fatto che la consulenza filosofica stia diventando una issue, un argomento di discussione – a volte anche feroce – tra sostenitori e detrattori di una pratica che ancora stenta a percorrere un sentiero organico e unitario, è indice, quantomeno, di un interesse nei confronti di un modo alternativo di immaginare la speculazione filosofica. Nel senso che, al di là delle palinodie tra scuole, vulgate e lobby, sarebbe opportuno partire dal dato di fatto che un numero sempre più consistente di individui che hanno studiato filosofia, avverte l’urgenza di un indebolimento della sua aura di disciplina esoterica e intra-accademica, per provare a “far qualcosa” con essa. A questo proposito, il fatto che negli ultimi anni si stia consolidando una letteratura in merito (quasi tutti i titoli appartengono all’editore Apogeo di Milano), attraverso i libri di Achenbach, di Lahav, di Lindseth, e in Italia di Pollastri e di Poma, e la constatazione che in un universo ancora non disciplinato da albi professionali, esista più di una associazione che difende il titolo di detentore della formazione per quanto riguarda la nuova figura del consulente filosofico, rappresentano il sintomo di una costruzione concettuale progressiva e non senza dissidi interni. Il primo tassello per capire cosa dovrebbe – o vorrebbe – essere il counselling filosofico potrebbe essere fornito da una spiegazione per differenza. Se infatti l’au-

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logo interattivo ci sono, tra gli altri, i nomi di Richard Rorty, Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti, Salvatore Veca. La terza parte è dedicata al tema specifico del rapporto tra filosofia e politica alla luce delle più recenti modificazioni dell’immaginario collettivo e a partire da un saggio ad hoc di Rorty e dalla replica di Franca d’Agostini, mentre nella quarta è possibile imbattersi in un godibilissimo accostamento tra le voci di due delle più note filosofe statunitensi, Martha Nussbaum, paladina dell’universalismo etico e Judith Butler, ex femminista e più vicina a posizioni foucaultiane e decostruttiviste; la conclusione è affidata alla sagacia della fenomenologa Roberta de Monticelli. Il bello del Relativismo non ha goduto di pubblicità e gloria alla sua uscita, e questo è un vero peccato perché rappresenta una tavola rotonda d’eccellenza nel panorama internazionale, sebbene non siano state concepite operazioni di marketing riservate, in passato, a pubblicazioni molto meno rilevanti. Se c’è una conclusione e un assunto comune sul quale tutti gli interlocutori della raccolta convergono, è il richiamo a una onestà scientifica e un’attenzione culturale che eviti di buttare “il bambino con l’acqua sporca”, mantenendo un assoluto rispetto verso ciò che il relativismo e le filosofie postmoderne hanno determinato in ambito internazionale, pur facendo salve talune questioni imprescindibili, che, grosso modo, possono essere sintetizzate all’interno del contenitore identificabile con l’espressione universalismo etico. Un libro attuale, pieno di spunti, e, allo stesso tempo, fresco e analitico.


Mimmo Pesare

Milano, Rizzoli, 2006, pp. 148, € 8,60. Il volto tumefatto e insanguinato del cadavere di Al Zarkawi il 9 giugno 2006 fa il giro del mondo, è in prima pagina su tutti i quotidiani. I soldati americani hanno provveduto a fotografarlo, riprodurlo in gigantografia, incorniciare l’immagine con tanto di passe-partout e diffondere quella che sui giornali viene chiamata “la prova”. La testa del leader di Al Qaeda in Iraq è visivamente decapitata e offerta in pasto al consumo mediale, “prova” indiziaria, strumento d’identificazione di una caccia portata a buon fine. E non a caso i termini “prova”, “identificazione”, “caccia” vengono utilizzati ordinariamente nelle prime pagine del «Corriere della sera» del 9 giugno, come in quelle di molti altri quotidiani italiani. Siamo solo all’ultimo atto di una guerra delle immagini che ha in palio tra l’altro il controllo dell’immaginario globale e che vive di assalti frontali e attentati terroristici, tra la televisione e i giornali, la rete e i videofonini. Le strette maglie del controllo politico mediale devono fare i conti non solo con gli avversari dichiarati, ma con la natura pervicace e invasiva dei mezzi di comunicazione personale che funzionano in taluni casi come sismografo e specchio ustorio di una realtà straordinariamente complessa che finisce per parlare all’Occidente dell’Occidente. Due volumi sono da segnalare sull’argomento, distanti l’uno dall’altro, eppure entrambi strumenti preziosi che consentono di elaborare riflessioni. Uno agile, con testi brevi, essenziali, ma costruito essenzialmente dalle immagini (fotografiche) del presente di guerra. Il secondo, un numero monografico della rivista «Memoria e ricerca. Rivista di storia contemporanea»

che raccoglie studi e ricerche completamente dedicati alle relazioni tra fotografia e violenza nella storia del Novecento. Il primo volume, curato dal giornalista Gianluigi Ricuperati e con una postfazione di Marco Belpoliti, è inserito in una collana di libri d’assalto (FuturoPassato di Rizzoli) e si intitola Fucked Up, attingendo a una espressione gergale americana che indica – spiega Ricuperati – tutto ciò che è strafatto, completamente marcio (“Uno che beve sempre fino a svenire è fucked up. Una situazione realmente assurda è fucked up. Dopo un grosso incidente si può dire che la macchina coinvolta è fucked up”). Se Belpoliti in coda al testo offre una puntuale cornice storicoculturale di riferimento, Ricuperati traccia essenzialmente la storia delle immagini pubblicate, l’esperienza attraversata e proposta, i problemi che ne emergono. Vale la pena riassumerla: nel 2003 il cittadino americano Chris Wilson crea un sito pornografico con immagini amatoriali inviate spontaneamente da anonimi individui. Quando gli Stati Uniti entrano in guerra, Wilson offre ai soldati impegnati in Afghanistan e in Iraq la possibilità di accedere gratuitamente alle sue pagine web, in cambio dell’invio di fotografie scattate sul campo di battaglia. Dopo pochi mesi Wilson colleziona più di un migliaio di fotografie impressionanti. “L’operazione è un successo: in un unico vertice di bisogni e desideri si combinano un patriottismo delirante, la volgarità minimale delle vite al fronte e l’associazione virtuosa fra porno e violenza. O per dirla come loro: non provate a inculare l’esercito americano”. L’operazione va avanti fino a quando la polizia americana chiude il sito e spicca un mandato di cattura per Wilson. Il sito dopo lunghe controversie giudiziarie oggi prosegue l’attività appoggiandosi a server olandesi. Questa la storia in sintesi. E le immagini del sito? Il dispositivo espositivo ha una sorta di carattere progressivo che valorizza i protagonisti della comunità virtuale. Le immagini vengono direttamen-

te commentate dagli “amatori”. Man mano che si va avanti l’orrore diventa sempre più grande. Prima villaggi distrutti, edifici smembrati, le icone del potere rovesciate. Poi donne soldato con i mitragliatori fra le gambe nude, sequenze di sesso tra graduati, bambole gonfiabili a cavallo del cannone dei carro armati. Procedendo, marine che puntano le canne dei fucili sugli iracheni insorti e gli stessi iracheni in primo piano stesi a terra con una pallottola in corpo. Infine, corpi dilaniati dalle bombe, corpi carbonizzati, corpi tenuti insieme da enormi lacci emostatici, oppure soldati americani con la testa di un kamikaze presa per i capelli. Ecco l’occhio che uccide, il mirino del fucile che coincide con il mirino degli apparecchi fotografici digitali in dotazione militare, la guerra dal punto di vista del grilletto, il trofeo da ostentare dopo la caccia, ma anche la ferita bruciante da infliggere all’occhio candido che riposa altrove. Il problema non è quanto siano cattivi i soldati americani. L’hanno fatto i francesi in Algeria, gli olandesi in Sudafrica, gli inglesi in Nordafrica, si espande all’infinito. Provo insieme a Ricuperati a tracciare l’indice delle questioni aperte, che pretendono quanto meno un principio di discussione. Numero uno: il meccanismo in quanto tale, scambiare foto di morte, sofferenza, guerra con foto pornografiche. Numero due: il contenuto di alcune delle immagini, ovvero la guerra che è orrore distante dalla vita ordinaria come la conosciamo, tra l’altro tragedia dei civili massacrati, abiezione oltre che messa in scena ridicola e drammatica dei militari reclutati nella disperazione e gettati contro il “nemico” (il solo pensiero della costruzione del soldato americano fa venire almeno alla mente Full Metal Jacket di Stanley Kubrik). Numero tre: la maggior parte dei mezzi di informazione degli Stati Uniti non ha dedicato attenzione a una risorsa di informazione selvatica ma interessante come Nowthatsfuckedup e, per estensione, non

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R ic upera ti, G. (a cura) Fucked Up (con postfazione di M. Belpoliti)

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eccellenza, ovvero realizzazione della propria natura e atteggiamento indomito verso di essa. Galimberti contrappone a una tradizione etica giudaico-cristiana, un’etica propria della cultura greca. La prima – la cui laicizzazione è rappresentata dalla stessa psicoanalisi – interpreta il senso dell’esistenza come un’espiazione di una colpa e quindi vede nella sofferenza un passaggio temporaneo e identifica la stessa vita terrena come malata, patologica, mentre la seconda iscrive la sofferenza umana in un orizzonte liberato da quella pedagogia del dolore di Francesco di Sales, in cui elementi quali l’abnegazione di sé, il portare la croce, l’attesa della salvezza, siano il viatico di una presunta liberazione futura, ma, al contrario, all’interno di una condizione di consapevolezza per la quale il dolore è sentito come l’ineluttabilità di una legge di natura. Per corroborare questa tesi, Galimberti delinea, nella parte centrale del libro, una intelligente storia analitica della psicoanalisi e dell’ermeneutica filosofica attraverso un ricchissimo excursus che parte da Nietzsche e Freud, passa per Lacan e Jung e attraverso la trattazione dell’analisi esistenziale di Binswanger e di Jaspers, arriva alla costruzione di un discorso sulla cura del sé e sull’etica del viandante. In questo senso il libro può essere considerato quasi un manuale ante litteram per una disciplina che necessita di sistemazioni teoretiche, e la ricchezza storiografica con la quale si dà atto del cammino che la psicoanalisi ha compiuto fino a oggi, rende un valore aggiunto a un testo che vale quanto pesano le sue 460 pagine. Strano, che proprio uno studioso che, oltre che filosofo, è anche psicoanalista junghiano, abbia realizzato questa amorevole invettiva nei confronti di una pratica come quella psicoanalitica che, probabilmente, dopo più di un secolo dalla sua nascita, pare richiedere una sdrammatizzazione e un addolcimento umanistico.


Certo è che la raccolta di immagini confluita nei server di Nowthatsfuckedup, contro ogni piacevolezza del politicamente corretto, offre uno sguardo assolutamente interno dell’esperienza “guerra” e uno sguardo assolutamente predatorio nei confronti dell’ambiente Iraq.

Giovanni Fiorentino

Ca setti , F. L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità Milano, Bompiani, 2005, € 21.00. Il cinema che si fa occhio del Novecento, esperienza e incarnazione della modernità, spirito del tempo nel-

l’ultimo denso volume di Francesco Casetti, è allo stesso tempo frammento e sintesi, testimonianza e racconto, attrazione e narrazione, visibile e invisibile, fuga e sicurezza, lontano e vicino, confluenza di sensibile e sensato. Il cinema, nell’esperienza dello spettatore, è possibilità oscillante: “ora è una giostra, ora un telescopio, ora è un dipinto sperimentale, ora un romanzo autoriflessivo. È ciascuna di queste cose, in forma non di rado estrema; ed è un luogo in cui i poli opposti si incontrano, fino a incastrarsi”. La tesi forte intorno al quale interamente si snoda il libro L’occhio del Novecento è che il medium cinema ha portato compromessi, ha saputo negoziare. “Il cinema – scrive Casetti – è un luogo di pacificazione, sia pur nel tumulto delle sue proposte: ci mette in contatto con la realtà, ma favorisce anche l’evasione; spesso presenta figure esagerate, ma poi le riconduce a vicende plausibili; eccita e sollecita, ma anche organizza e disciplina…”. Il cinema in definitiva ha “messo in forma il modo di vedere della sua epoca negoziando e facendo negoziare”. Profondo conoscitore del linguaggio del cinema e delle sue teorie, autore di testi preziosi sull’argomento, Casetti nel supportare coerentemente e sistematicamente la sua tesi si concentra essenzialmente su “un medium in un tempo che comincia a mediatizzarsi”, cioè prende in considerazione il cinema della produzione mainstream, quei film tra anni Dieci e Trenta – il cinema costitutivo in grado di ricomporre l’occhio del Novecento, dice – che sono allo stesso tempo un pensiero sul cinema e un pensiero espresso dal cinema. Il cameraman, M, King Kong, le opere di autori come Ejzensˇtejn e Dziga Vertov che, non a caso, effettuano anche riflessioni sistematiche e potenti, vengono analizzate come fossero opere teoriche, con sapienza testuale e controllo rigoroso. Per chiarire il metodo, lui stesso richiama a un sistema di glosse, cioè “piccoli momenti

attraverso cui il cinema ha sviluppato un commento diretto o indiretto su se stesso, non per il piacere di parlarsi addosso, ma per trovare una propria definizione e insieme per renderla condivisibile e condivisa”. Naturalmente ai film affianca la straordinaria padronanza di una letteratura scientifica storica e contemporanea, senza trascurare i classici fondativi che si confrontano con l’intensa relazione tra comunicazione e modernità, da Simmel a Walter Benjamin, una competenza che si produce tra l’altro in un sistema di note che funzionano da ulteriore approfondimento. In un testo che funziona in maniera rigorosamente circolare, c’è un percorso tematico che mi piacerebbe far emergere. Un filo rosso che tesse un dialogo scientifico con le ricerche dell’americano Jonathan Crary dedicate alla percezione tra Otto e Novecento e a un mezzo di comunicazione precinematografico come lo stereoscopio. Se è solo l’esperienza dello spettatore cinematografico del cinema classico a offrire compiutamente l’occasione di con-fondersi con lo spettacolo e l’ambiente stesso dello spettacolo, pur mantenendo una qualche forma di distanza di sicurezza, Jonathan Crary individua nella pratica ottocentesca dello stereoscopio il momento in cui si arriva a concepire l’attività scopica come un’azione che porta a confrontarsi e a immergersi sia in quanto si vede, sia nell’ambiente in cui si opera. Il cinema raccoglie questa trasformazione in corso e, dopo il visore stereoscopico, rompe la tradizione scopica di quella sorta di “teatro della visione” creato dalla camera obscura quattrocentesca. Il cinema traduce un nuovo modello di visione che funziona come una sorta di campo di sguardi incrociati che include e avvolge osservatore, osservato e situazione circostante. Casetti: “ecco infatti che il cinema incarna il bisogno di un rapporto fusivo tra soggetto, oggetto e ambiente; ma lo fa offrendo una fusione in parte immaginaria e

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Attraversare le pratiche produttive, espressive, sociali, della comunità virtuale che gravita intorno a Fucked up, per quanto possa ferire gli occhi, la pancia, il cuore e la mente, rende un servizio alla conoscenza dello stato delle cose nel nostro tempo. Passare poi ai contributi di riflessione storica offerti nella rivista «Memoria e ricerca», vuol dire avere un quadro novecentesco parziale ma estremamente interessante per contestualizzare, comparare, ragionare intorno al presente degli orrori fotografici, se pur digitali, della guerra. La prima guerra mondiale (Jofille Beurier), il Marocco coloniale (Christelle Taraud), l’occupazione italiana in area balcanica negli anni della seconda guerra mondiale (Adolfo Mignemi), gli archivi fotografici delle SS (Ilsen About), il genocidio degli armeni (Dzovinar Kevonian) e per arrivare al quasi presente, Abu Ghraib (Vincent Lowy). In ogni contributo – tutti doviziosamente documentati e corredati di una bibliografia critico storica – c’è un qualcosa che rimanda al presente, che funziona benissimo come specchio ustorio della storia, che eternamente e tragicamente, ritorna su se stessa, senza lasciare traccia di mutamenti sostanziali, se non l’evoluzione delle tecnologie belliche e, parallelamente, dei dispositivi di rappresentazione e comunicazione.

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mi sembra che la stampa italiana abbia discusso più di tanto il volume curato da Ricuperati. La questione numero tre rimanda alla quattro e ai fecondi e ramificati legami tra media e potere. Numero quattro: le istituzioni militari e governative americane si sono preoccupate della vicenda Wilson accusandolo paradossalmente di reati contro il comune senso del pudore. Dell’Iraq, della guerra, dei soldati, nemmeno una riga. Sulla questione numero quattro, come sulla processualità collettiva del sito, lo stralcio di un’intervista all’avvocato di Wilson, specializzato nella difesa di pornoshop e librerie per adulti nell’area di Orlando, mi sembra offra considerazioni illuminanti: Non ci sono evidenti differenze tra le immagini pornografiche contenute in questo sito e quelle contenute in migliaia di altri siti, e per di più va notato che il mio cliente non ha mai pubblicato nulla: le fotografie sono spontaneamente inviate dagli utenti del sito, e gli utenti del sito sono gli unici creatori del sito stesso. Le immagini provengono da tutto il mondo. (…) Sostenere, come fa la contea di Polk, che questo materiale è osceno equivale a sostenere che la natura umana è oscena. Che lo voglia o no, è questo il mondo in cui viviamo (…). I fatti sono questi, per adesso. Prima le gerarchie militari si lamentano di questo sito che mostra fotografie molto dirette di quel che fanno i soldati americani in Iraq, e di sicuro non forniscono una visione dell’Operazione Iraqi Freedom conforme ai desideri dell’amministrazione Bush. Poi, nel giro di qualche mese, il fondatore del sito finisce in prigione. Non so se esista una connessione tra le due cose.


L’attenzione appare come un modo sia pur impreciso di designare la relativa capacità del soggetto di isolare selettivamente certi contenuti di un campo sensoriale a spese di altri, in vista del mantenimento di un mondo ordinato e produttivo. Naturalmente al cinema il controllo si esercita attraverso procedimenti complessivi come il montaggio analitico o il découpage. Ancora opposti che si attraggono, frammento e unità, dettaglio e contesto, fuga e controllo. Ma Casetti registra un’ulteriore strada attraverso cui il cinema cerca di riconquistare una visione totale, pur partendo da uno sguardo necessariamente parziale. Non si tratta più di aggiungere frammento a frammento, né di far lievitare il frammento per cogliere in esso ciò che tiene riunito l’insieme. Si tratta piuttosto di riconoscere ciò che manca al frammento e di

Giovanni Fiorentino

Fr ez za , G. Effetto notte. Le metafore del cinema Roma, Meltemi, 2006, pp. 476, € 29,00. Vedi alla voce “scale” nel cinematografo: la relazione fra statico e dinamico, il tragitto fra terra e cielo, lo sguardo fra alto e basso, la messa in scena del potere, il rallenty che prepara la suspense, la barriera per raggiungere la meta, il palcoscenico del musical, il campo della battaglia, alcune scene memorabili e per tutte quella di La corazzata Potemkin ripresa magistralmente in Gli Intoccabili di Brian De Palma, e ancora l’utilizzo strategico della figuratività delle scale in registi come Fritz Lang e William Wyler, si pensi solo all’esemplificazione di Metropolis nel primo caso e all’eterno ritorno in gran parte dei suoi film nel secondo. Scorrendo l’indice del libro di Gino Frezza Effetto notte. Le metafore del cinema – il titolo è ispirato al celebre film di Truffaut che è una costruzione metaforica

del mondo del cinema – ci si imbatte in una lunga serie di cose-oggetti-immaginiidee che attraversano in maniera intensamente evocativa il mondo del cinema. Data per acquisita la voce “scale”, ecco un piccolo campionario che procede per suggestioni e associazioni assolutamente personali: “camion”, “treni-bisonti”, “cavallo-auto”, “crocevia”, “nebbie”, “deserti”, “fari”, “porte”, “astronavi”, “elicotteri”, “onde”, “caverne”, “stanze”. A partire semplicemente dalle circa ottanta vociparagrafo di un indice composto da cinque capitoli, si registra un continuo movimento dal fisico che rimanda alla sfera delle idee, dalle idee che rimandano alla sfera delle cose, dalla materia all’immaginario, dal vissuto immateriale personale al corpo dello spettatore collettivo. Insomma una serie di spostamenti metaforici continui, immagini che richiamano altre immagini, cose che implicano rimandi, legami, intersezioni, fili rossi che si espandono trasversalmente. Forse la lettura lineare di questo testo di oltre 450 pagine è la procedura più scontata e meno produttiva. Frezza, che ha studiato a lungo il cinema e il fumetto, mette a frutto il suo lungo percorso di ricerca lavorando sulla metafora e intorno al cinema-metafora nella sua transizione dall’analogico al digitale. Dalle sue pagine emerge innanzitutto la natura difficilmente cristallizzabile di “un medium la cui tecnologia si rivela incessantemente sperimentale”, da qui il dipanarsi di una mappatura reticolare e imponente, una genealogia teorica che rende conto di radici e attese disciplinari dove convergono la tradizione della cultura cinematografica e quella più ampia dei media studies, e una filmografia che per scelta deliberata si mantiene fuori dal mainstream e dove i quadri della memoria, personale e collettiva, hanno importanza fondante rimandando circolarmente a film, autori, attori, sistemi produttivi. Frezza costruisce un dizionario debordante e incontrollabile, almeno quanto gli effetti di una metafora, da compulsare piacevolmente saltando da una voce all’altra.

Ha montato un puzzle del quale ricomporre gli elementi smontandoli e rimontandoli tra loro stabilendo connessioni e percorsi personali. Ha lavorato sul modello pulp di Quentin Tarantino, miscelando e contaminando diverse strade espressive, passando dal noir, al western moderno, dal film di yakuza, al cartone giapponese. Con in più, una dichiarata e consapevole parzialità, che nella stessa fruizione del testo può attivare la forza processuale della metaforicità “quasi di per sé creativa”, potentemente cognitiva. Leggendo la voceparagrafo “castello”, puoi seguire il filo di un discorso, ma quasi inevitabilmente sei costretto ad aprire finestre, costruire rimandi, necessariamente attivare un percorso personale da proseguire individualmente. Certo, ripartendo dal principio, l’introduzione al volume serve per delineare la cornice teorica di riferimento e affondare sulle relazioni prima tra metafora e immagine, poi tra cinema e metafora. Per Frezza, la metafora, rispetto al simbolo, è sempre direttamente implicata da un’immagine alla quale necessariamente rinvia. L’immagine è coessenziale al dispositivo per cui la metafora crea intersezioni e nuove delimitazioni di significato. Per la scienza della semiotica una tale immagine è determinata o sottesa dal rapporto di similarità fra segni e significati diversi. (…) Dove c’è immagine quasi istantaneamente risiede una eventuale produzione metaforica; e dove si rilevano metafore ciò significa rinvio costitutivo all’immagine e al visivo. Il concetto di similarità rimanda, secondo l’autore, all’idea dell’eco o della vibrazione che si propaga da una cosa all’altra. L’idea dell’eco o della vibrazione nello spettatore è intensa, la metafora dell’immagine evoca altre immagini. Infine eccoci al cinema: Così la metafora filmica è quel campo del visivo e dell’immagine in cui questa è

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collocare qui il vero cuore dell’azione. Il fuori campo ci riporta al funzionamento base dell’immagine cinefotografica: un’immagine bordata, “un rettangolo delimitato ai suo quattro lati”. Al cinema, l’esibizione comporta sempre un nascondimento, l’immagine filmica sarà sempre un frammento che rimanda oltre. Si evoca, sulla scorta dei lavori di Elio Franzini, un procedimento complessivo che funziona secondo sottrazione. Casetti cita la sequenza iniziale di M, il film di Fritz Lang del 1931, che ruota completamente sull’assenza, sul fuori campo. Siamo a un visibile dove assume centralità il fuori campo e l’invisibile si costituisce come dimensione essenziale.

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una fusione temporalmente delimitata”. Anche in questo caso una negoziazione, una immersione controllata. Con gli apparecchi stereoscopici Crary ragiona sul paradigma percettivo nuovo di uno sguardo mondano, che si nutre di prelievi parziali, limitati, contingenti, soggettivi. In definitiva il mondo in immagine diventa un insieme di frammenti mondanizzati dalla fotografia. Al cinema toccherà dare senso unificando le parti, con la risoluzione determinante del montaggio. Se, tra Otto e Novecento, si sviluppa un forte interesse per l’attenzione che è risposta allo sguardo declinato “sulla soggettività, sulla contingenza, sulla limitatezza” è perché la stessa interviene a ridare una strutturazione e una funzionalità ai processi percettivi: suddividendo il mondo in centri di interesse, disciplina il corpo e gli occhi del soggetto; portando in primo piano porzioni di mondo, gli offre l’idea (l’illusione?) che il suo rapporto con la realtà sia ancora fattivo e produttivo; facendo ruotare il resto attorno al frammento, gli suggerisce la via per una sintesi altrimenti impraticabile.


Nell’impossibilità di controllare e dar conto dell’integralità del testo, tenendo presente un percorso segnato da cinque capitoli – i primi quattro dei quali sono dedicati alle metafore del corpo, alle metafore dello spazio e del tempo, alle metafore oggettuali e alle metafore della sfera morale – credo sia una scelta onesta quella di offrire un taglio deciso, recuperando il quinto e ultimo capitolo, che ci sposta radicalmente al presente del virtuale, alla questione del cinema digitale, della Matrice come metafora che peraltro costantemente richiama fili e tracce disseminate nelle altre parti del libro. In tal senso Frezza, in sintonia con Abruzzese, richiama una vocazione “laica, mondana, ludica, sperimentale” del cinema contemporaneo che “assume, dispiega, delinea esigenze basilari della condizione esistenziale e postmoderna”. La sceneggiatura del cinema digitale va ben oltre il rappresentare una versione fittizia, ideologica o uniforme della realtà, l’idea è che debba piuttosto perseguire la ricerca di nuove relazioni con il pubblico e con le numerose realtà extrafilmiche che insistono sull’universo del cinema. Lo spostamento nel quinto capitolo – La matrice; Alice e l’oracolo; Script e set; Fotogrammi, inquadrature, finestre; Quadri-Graffiti; Pixar Movie; Pulp Bill; Incanti; L’attacco dei cloni; Il nulla e il qualcosa – è nel territorio virtuale dell’ultimo ciclo di Guerre stellari, nell’universo postmoderno di Tarantino, nelle immagini delle animazioni di Monster & C o di Nemo. È nella nuova alleanza tra arte e scienza, ingegneria informatica e sapere visionario proposta da Andrew Niccol in S1M@NE. È nelle straordinarie connessioni culturali operate dal disegnatore Hayao Miyazaki, tra passato e futuro, ricordo e speranza, analogico e digitale,

una primaria e non sviabile funzione di rappresentazione metaforica, tramite cui elabora e costruisce tematicamente un immaginario collettivo. Molto più che nel passato si è piuttosto dotato della possibilità di costruire ex novo territori nei quali l’immaginario si libera, senza altri referenti che non quelli della propria credibilità, senza continuità che non sia quella dell’esigenza primaria di emozionare e divertire. Tra i tanti film, autori, personaggi scelti da Frezza nel quinto capitolo, la mia scelta è per Tarantino, Kill Bill vol. I e vol. II, per la citazione, la contaminazione di generi, il continuo rimediarsi del cinema, e poi per la protagonista, Uma Thurner alias Black Mamba, Beatrix, The Bride, incarnazione virtuale di una poliedrica compresenza di ruoli e di sensibilità che la porterà, alla fine del secondo volume, con la bambina – sua figlia – portata per mano, a dirigersi verso un futuro affrontabile. L’orizzonte di Beatrix è il medesimo del cinema – conclude Frezza –. Forma di comunicazione multimediale, poliedrica, che trattenga ogni altra e successiva forma con

cui si esprime la cultura contemporanea; che ricomponga lo sfondo relazionale con il pubblico e con tutti i fili della memoria mediale. Un cinema che espliciti senza remore opportunità tecnologiche e culturali, storie e figurazioni audiovisive… Giovanni Fiorentino

Molot ch, H. Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono Milano, Raffaello Cortina, 2005, pp. 407, € 29,00. Le piccole cose della vita quotidiana, familiari e ordinarie al punto tale da diventare invisibili, costituiscono spesso un mondo dimenticato, quello che nell’anonimato ha cambiato l’esistenza dell’uomo occidentale, modificando l’ambiente e costruendo la realtà sociale. Idee, meglio materializzazione di idee, artefatti umani, si tratta di quegli strumenti sviluppatisi in un fazzoletto di storia, poco più di centocinquant’anni, figli di un’etica dell’innovazione che appartiene tutta alla frontiera americana e al progresso occidentale. Con il mito di un tempo da liberare e l’obiettivo di realizzare protesi che possano sostituire l’uomo stesso. Certo il mito dell’innovazione è entrato nella vita quotidiana attraverso l’ambiente d’abitare, si è costruito e rafforzato nel cuore della casa, luogo per eccellenza e spazio concreto, teatro dei mutamenti della cultura e dell’immaginario sociale. La prospettiva è quella del meraviglioso di un’idea che si incarna nel consumo delle cose, quel meraviglioso che ha stabilito connessioni tra oggetti e persone cambiando la vita di chi gestisce e organizza la casa. Ora Harvey Molotch, docente della New

York University considerato uno dei maggiori sociologi urbani contemporanei, si avventura nel mondo seducente e apparentemente trascurabile delle cose, si interroga in maniera puntuale e analitica su radici culturali, materiali, tecniche ed economiche degli oggetti che popolano la nostra vita quotidiana e prova a spiegare come, tra macchina economica e molla dei desideri, si iscrive la storia straordinaria degli oggetti più diversi, caffettiere e computer portatili, infissi, lampade e auto, spille per capellini e carrelli a mano, sedie, lampade, cavatappi e tostapane. Non a caso il saggio si intitola evocativamente Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono e Molotch, in una stretta analisi da sociologo, lavora per ricollocare gli oggetti nel contesto delle relazioni sociali. La ricerca prende le mosse dal concetto portante di lash-up, ovvero quella sinergia improvvisa che si determina tra diversi fattori, economici, tecnici, culturali e istituzionali che insistono nel dar vita a un oggetto. Molotch, mutuando il concetto da John Lawv – che a sua volta attinge da Bruno Latour – evidenzia l’elemento combinatorio e creativo che sta dietro la nascita di un oggetto. Il caso del toaster diventa straordinariamente esemplificativo di una sinergia che spesso si realizza in un contesto locale: Mount Airy, in North Carolina, è diventata la capitale ufficiale del tostapane nel mondo. Dunque il tostapane può essere un caso interessante per esemplificare. E Molotch parte dal fatto che in ogni cucina anglosassone è centrale così come è praticamente inesistente in quelle italiane. Nel mondo anglosassone simboleggia uno stile di vita identificabile nella tipica middle-class family dove il rito del breakfast è fondamentale. Un particolare stile di vita viene rafforzato dal toaster, ma lo stesso oggetto rafforza e sostiene lo stile di vita. Come spiega il sociologo le persone si arruolano (enroll) nel progetto oggetto, ne influenzano la forma

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manuale e artificiale, ma soprattutto tra Oriente e Occidente. È nella caverna dei duelli di Star Wars, secondo ciclo, scenograficamente tecnologica, luogo del riparo e del segreto, imbuto naturale e contenitore di tecnologia, spazio del passato e del futuro che rimanda alla voce “caverne” del quarto capitolo, e si attiva in quanto scenografia per il duello che funziona come una “vera danza audiovisiva di corpi e di luci”. Frezza indaga il cinema alla luce della pratica pervasiva del digitale, chiarisce in questa parte come il cinema sia fondamentalmente animazione. “Il suo valore – scrive – creativo ed espressivo, conoscitivo e culturale, risulta indipendente da una radice documentaristica o referenziale”. I flussi comunicativi hanno come lasciato al cinema

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chiamata a fuoriuscire da sé, a mostrare le sue interfacce contigue e distanti, i suoi legamenti con altri ordini di senso, sottomettendosi a una ondulazione che la rende complessa, eterogenea, combinatoria, vertiginosamente polisemantica…


Giovanni Fiorentino

T hom , R . Morfologia del semiotico (a cura di P. Fabbri) Roma, Meltemi, 2006, pp. 162, € 16.00. Questo libro raccoglie alcuni scritti, pubblicati fra il 1970 e il 1990, di René Thom, matematico e semiotico francese noto soprattutto per la sua teoria delle catastrofi. Thom si distacca nettamente dall’impostazione logicista e statica del rapporto fra segno, senso e significato attraverso lo studio morfo-dinamico dell’espressione e del contenuto del linguaggio, proponendo in tal modo un’originale teoria della semiosi. All’interno del linguaggio, o meglio del “semiotico”, fenomeno sia biologico che culturale nel quale rientra sia la semiosi umana (antroposemiosi) sia la semiosi non umana (la biosemiosi, la zoosemiosi, la fitosemiosi), la genesi del senso non avviene diversamente da altri processi di regolazione biologica del vivente, quando il continuo eracliteo della comunicazione vitale s’increspa o si piega per via di un catalizzatore (gas, luce, acqua, mimesi, capacità sintattica, a seconda delle varie complessità corporee) producendo relazioni di opposizione, ovvero una differenzialità relazionale e topologica. L’evoluzione delle forme ha inizio da un continuum originario, o un “sinechismo” (Peirce), una “materia” (Hjelmslev) che è un cum-tenere (un tenere insieme) e quindi già una forma di relazione (una costellazione, nei termini della glossematica). La teoria delle catastrofi intende descrivere il dinamismo universale delle forme in cui ognuna di esse esiste in quanto unica e individuata “solo nella misura in cui è in grado di resistere al tempo” (p. 113). Si deve produrre una costanza, un paradigma, un sistema di relazioni che garantisca l’unità morfologica di un processo vitale e comunicativo. Ogni esistenza è l’espressione di un conflitto tra l’effetto erosivo e degradante della durata e un principio di

permanenza che ne garantisce la stabilità. Ogni forma sussiste tra il panta rei e il suo specifico logos, dice Thom richiamandosi a Eraclito (ib.); è un terzo fra due poli opposti e in quanto tale è un segno; è sempre e costitutivamente lo stesso altro. Ecco allora che nel continuo del divenire, senza mai interrompere la continuità, emergono degli elementi di discontinuità, delle pieghe, come si diceva. Un’immagine svanisce se non trova stabilità nella “competenza” di un ricettore, se cioè non diventa un “abito”, diremmo in termini peirceani. I simboli “vengono all’esistenza sviluppandosi da altri segni, soprattutto dalle icone, o, meglio, da segni misti che partecipano della natura di icone e di simboli” (C. S. Peirce, 2003, Opere, Milano, Bompiani, p. 175; CP 2.302). Si procede dunque Dall’icona al simbolo, come recita il titolo di un saggio di Thom del 1973 (“l’articolo princeps del mio interesse per la semiotica”, p. 79), ripubblicato in questa raccolta, che Thomas A. Sebeok ritiene un classico del pensiero semiotico. Per Sebeok il “patrimonio conoscitivo sulla teoria dei segni e dei simboli non è stato materialmente accresciuto dalla tradizione francofona in base alla formulazione del “modello saussuriano”. Eppure il passo in avanti in tale campo ebbe origine, in definitiva, proprio dalla Francia, vale a dire, dalla brillante incursione di Thom in questo aspetto della semiotica, la generazione dei segni che culmina nei simboli. Tuttavia, come egli dice molto chiaramente all’inizio della sua opera [il riferimento è al saggio Dall’icona al simbolo], il suo approccio ha la sua fonte specifica “nell’eredità di Peirce, non di Saussure” (Il segno e i suoi Maestri [1979], trad. it. 1985, Bari, Adriatica, p. 176; cfr. p. 55 di questo libro di Thom). Dopo più di un secolo le idee di Peirce, specie sull’icona – aggiunge Sebeok –, hanno trovato un’eco favorevole “nel lavoro di questo notevole creatore di modelli topologici”. Ciò non deve stupire, “in quanto Peirce si aspettava che i suoi

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estetica delle cose o di come “i motivi estetici fondino la vera natura della cultura, compresa la maniera in cui essa diventi produttiva”. Molotch ritorna più volte sulla questione, nel capitolo Forme e funzioni o ancora nella parte L’organizzazione societaria e il trionfo del design. “È l’arte – scrive il sociologo – a irradiare immagini che uniscono attori e settori industriali. L’arte provoca ‘enrollment’, adesione, arruolamento”. Sulla scia di Latour, Molotch ripropone il concetto di arruolamento spostandolo sul versante estetico, gli esempi portati sono numerosi e senza esclusivamente pensare alla ricerca che intreccia nuove tecnologie ed estetica emotiva nel presente, si può variamente attingere alla storia della modernità. Ad esempio Molotch cita il caso storico di Edison e delle strade illuminate dalle lampadine elettriche che mandano in estasi gli occhi e i cuori di tutti determinando una sorta di contagio estetico. O ancora passa da Mondrian applicato agli accendini al Bauhaus degli elettrodomestici Braun, fino alle sedie ispirate da Duchamp, e alle più recenti vasche da bagno della serie Wave di American Standard direttamente ispirate a Matisse e Kandinskij. La ricerca estetica, predispone al godimento estetico. Troppe volte nell’epoca industriale l’estetica anticipa la meccanica, l’arte si fa riferimento per l’oggetto utile entrando nel quotidiano e tracciando la strada del consumo e del profitto. Tornando indietro nel tempo non si fatica neanche a trovare esemplificazioni negative a rintracciare catastrofi economiche legate a grandi flop estetici. Un caso: negli anni Venti la Ford punta su un colore sbagliato per la carrozzeria delle automobili. Nel giro di qualche anno riesce a perdere il 30 per cento del mercato.

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che deve essere gradevole, armoniosa rispetto all’immagine della famiglia a colazione, e ne orientano l’aspetto tecnico che deve essere funzionale al breakfast. Naturalmente l’ordinaria scelta di un preciso modello di tostapane può identificare persino una specifica tribù di consumatori: quello a fessura larga, per inserire il bagel, individua immediatamente la ciambella tipica della cucina ebraica, e quindi i suoi consumatori. Tra produzione e consumo dell’oggetto, Molotch porta al centro dell’analisi alcuni problemi di riferimento. Il primo, la natura del luogo, dello spazio geografico e culturale che influenza l’aspetto di un prodotto, “perché contiene quegli elementi, anche molto sottili, che prendono parte alla sua realizzazione”. In questo caso si fa emergere una capacità creativa legata a un ambiente sociale specifico. Il secondo, il mutamento e l’innovazione degli oggetti. Il sociologo collega l’innovazione alla propensione a essere discusso dell’oggetto. Gli oggetti di cui si discute molto sono soggetti a forte innovazione, mentre i tabù sociali per molti versi inibiscono il dibattito e quindi anche il cambiamento stesso. E qui viene immediatamente da pensare alle nuove tecnologie e a quanto, nella storia dell’Occidente, l’agenda mediale le porti naturalmente in cima alla lista di discussione. E per altro verso si può ragionare con Molotch di sciacquoni e bidet, intrecciando la variabile “mutamento e innovazione” con la variabile “luogo” e scoprendo quanto l’inibizione culturale proibisca tanto la discussione quanto l’evoluzione. E ancora, terzo, la questione della creatività produttiva, di progettisti uomini o donne che impegnano specificità e sensibilità differenti. O, quarto, evocando Donald Norman, della doppia natura degli oggetti, materiale ed emozionale, la necessaria fusione di pratico e sensuale. Ma – quinto e ultimo – la questione che assume preponderanza nella seconda parte del volume, mi sembra sia legata alla potenza


Nell’interazione significato-significante è chiaro che, trascinato dal flusso universale, il significato emette, genera il significante in una crescita ramificante ininterrotta. Ma il significante rigenera il significato, ogni volta che interpretiamo il segno. E, come è mostrato dall’esempio delle forme biologiche, il significante (il discendente) può ridiventare il significato (il genitore): basta l’intervallo di tempo di una generazione. È per questa sottile oscillazione tra due morfologie, per la sua esigenza simultanea di reversibilità e di irreversibilità, che la dinamica del simbolismo [o, in termini sebeokiani, della semiosi] porta in sé (…) l’immagine stessa della vita (p. 60). Scrive quindi Thom in Topologia e significazione: “Una disciplina che cerchi di precisare il rapporto tra una situazione dinamica globale (il ‘significato’) e la morfologia locale (il ‘significante’) nella quale si manifesta, non è per l’appunto una ‘semiologia’?” (p. 26). Egli chiama “salienze” quelle discontinuità che si delineano su uno sfondo indifferenziato in seguito a stimoli sensoriali inattesi e improvvisi (il tintinnio di una campanella o un raggio di luce, ad esempio) ma hanno scarsi effetti a lungo termine sul comportamento neurofisiologico del soggetto. Altri stimoli sensoriali, al contrario, come le forme delle prede, dei predatori, dei partner sessuali, generano reazioni immediate che si traducono in trasformazioni profonde dell’organismo e in un compor-

tamento specifico (attrazione o repulsione); sono stimoli legati alla salvaguardia e alla riproduzione della propria forma di vita. Si tratta in questo caso di discontinuità “pregnanti”, o “pregnanze” (cfr. pp. 82-83) in cui Thom distingue un aspetto fisico e uno più specificamente biologico. La “pregnanza fisica” è la capacità di una forma di “resistere al rumore delle comunicazioni” e “non suggerisce altro che se stessa”. La “pregnanza ‘biologica’” invece “suggerisce un’‘azione’”, è la “capacità di una forma di evocare altre forme biologicamente importanti”, ma, essendo chiamata a operare nello spaziotempo, ha bisogno di una “stabilità strutturale a carattere fisico, dinamico. Da ciò deriva il fatto che le forme biologiche sono in larga parte sottomesse a un vincolo di pregnanza fisica” (pp. 61-62). La comparsa di forme naturali e culturali più complesse come il bíos umano e come le forme sociali e metaculturali che esso produce, ivi incluse le loro modalità di riproduzione, richiedono stabilizzazioni più raffinate. L’origine del simbolismo, torniamo a leggere Thom, è da ricercarsi nei grandi meccanismi di regolazione dell’organismo vivente e della società (…): più un messaggio è “disinteressato”, meno grande è lo stimolo affettivo che lo genera, e più è sottomesso all’imperativo della pregnanza fisica (…). Al contrario, se il messaggio è “interessato”, se risponde a una necessità biologica o sociologica [è quindi un messaggio ideologico] urgente e immediata, è molto instabile morfologicamente; la sua forza “eccitata” si complica localmente, talvolta fino al punto da sfidare ogni formalismo, ogni regola di ‘buona organizzazione’ interna. Le regole della sintassi violate così spesso nelle esclamazioni, negli ordini, nella poesia, ne sono un’efficace illustrazione. Si può in effetti ammettere che la regola della sintassi nella lingua naturale [trovi] la sua origine in un’esigenza di pregnanza fisica (p. 64).

Retina, metabolismo originale del “brodo primordiale”, ambiente citoplasmatico, lingue verbali sono ricettori o formanti plastici, organizzazioni del significante che fungono da base per altri investimenti di significazione. Se nell’animale non umano “vi sono poche pregnanze, provviste però di una notevole capacità di propagazione e diffusione invasiva”, nell’animale umano, viceversa, c’è “una proliferazione quasi illimitata delle pregnanze, ma queste ultime sono provviste di una capacità di propagazione estremamente limitata” (p. 87). “Naturalmente – dice Thom – le grandi pregnanze regolatrici della biologia (alimentazione, sessualità) non scompaiono dallo psichismo umano ma vi si manifestano soltanto in un ambiente ormonale favorevole e attraverso l’attrezzatura simbolica del linguaggio” (p. 91). In un’ottica più ampia la propagazione delle pregnanze “è alla base di una teoria generale dei sistemi di intelligibilità del mondo sviluppatisi nel corso della storia dell’umanità” (p. 92). Se infatti nell’animale non umano l’attività simbolica, o semiosica, è legata eminentemente alla regolazione o alla finalità biologica, nell’animale umano essa si generalizza anche a ciò che è biologicamente indifferente e si realizza come attività semiotica o metasemiosica. Nell’umano, dunque, accanto a pregnanze biologiche si trovano pregnanze linguistiche o semiotiche in quanto mediate dal linguaggio o dalla capacità semiotica verbale e non verbale (cfr. p. 95). Si profila una continuità/discontinuità tra mondo della vita umana e mondo della vita non umana, dove il fattore di discontinuità è dato dal linguaggio inteso come “sfaldatura generalizzata delle grandi pregnanze biologiche da cui ha origine il pensiero concettuale” (p. 82), ovvero inteso come capacità astrattiva che distacca dal contatto diretto e usurante con il mondo. “Sono pochi i problemi che chiamano in causa l’opposizione continuo-discontinuo in modo altrettanto netto e drammatico di quanto avviene per l’origine del lin-

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zione che si raggiunge nella dinamica e nell’ambiente della vita. Lo sviluppo embrionale che porta a una struttura isomorfa all’organismo del genitore ne è una chiara manifestazione. Nella replicazione del DNA “la dinamica competente è l’insieme dell’ambiente citoplasmatico, che contiene precursori, enzimi, energia chimica, ecc.” (p. 59). Fluenza e conservazione, stabilità e divenire caratterizzano la vita del semiotico:

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grafi esistenziali avrebbero contribuito esplicitamente anche a una comprensione delle leggi topologiche” (ib.). E ancora in altra sede Sebeok attribuisce “all’immaginazione grandiosa del grande topologista francese René Thom” i “maggiori sviluppi” verso “la definizione del pensiero semiotico nel quadro biologico e antropologico di una teoria dell’evoluzione”, che rappresenta “la sola corrente autenticamente nuova e considerevolmente olistica negli sviluppi novecenteschi di questo capo di studi” (Contributi alla dottrina dei segni [1976]; trad. it. 1979, Milano, Feltrinelli, p. 148). La grande stima per Thom porta Sebeok a dichiararsi “non solo un peirciano, ma anche un (René) Thomista” (Il segno e i suoi Maestri, cit., p. 176), e ad affermare che le sue idee “non rappresentano altro che opinioni vaghe, mentre gli argomenti dell’illustre topologista hanno il loro saldo fondamento in un teorema matematico assai raffinato” (Contributi alla dottrina dei segni, cit., p. 110). Egli riprende Dall’icona al simbolo per sottolineare la potenzialità innovativa dell’icona e il suo ruolo centrale e imprescindibile nella produzione e riproduzione del bíos, o nella logica del vivente o semiosi, e nella logica della semiotica o metasemiosi. La teoria delle catastrofi descrive l’omologia fra i processi della riproduzione biologica e la semiosi. Un’ombra svanisce se scompare il suo modello o la luce che lo illumina. L’impronta di una mano sulla sabbia, invece, permane per via della “plasticità” (la “competenza” di cui si diceva) del sistema ricettore. “La formazione dell’immagine – dice Thom – è uno stimolo irreversibile, che cambia la forma di equilibrio del sistema ricettore, imprimendogli la forma del modello: qui l’immagine si fa memoria” (p. 58). Se infatti l’ombra viene proiettata su un ricettore sensibile come una lastra fotografica allora l’immagine può essere più duratura. La plasticità del sistema ricettore dunque garantisce la stabilità e riproduzione delle forme ed è una condi-


Cosimo Caputo

«Athanor». Semiotica, filosofia, arte, letteratura (1990-2005) Il senso e l’opera, 1, 1990; Arte e sacrificio, 2, 1991; Il valore, 3, 1992; Migrazioni, 4, 1993; Materia, 5, 1994; Mondo, 6, 1995; Il mondo/Il mare, 7, 1996; Luce, 8, 1997, Longo, Ravenna. Nero, a cura di S. Petrilli, n.s., 1, 1998, Manni, Lecce. La traduzione, a cura di S. Petrilli, n.s., 2, 1999-2000; Tra segni, a cura di S. Petrilli, n.s., 3, 2000; Lo stesso altro, a cura di S. Petrilli, n.s., 4, 2001; Vita, a cura di A. Ponzio, n.s., 5, 2002; Nero, a cura di S. Petrilli, n.s., 6, 2003, nuova ed.; Lavoro immateriale, a cura di S. Petrilli, n.s., 7, 2003-2004; The Gifth, a cura di G. Vaughan, n.s., 8, 2004; Mondo di guerra, a cura di A. Catone e A. Ponzio, n.s., 9, 2005, Roma, Meltemi. È del 1990 il primo numero della serie monografica annuale «Athanor», promossa dall’Istituto di Filosofia del Linguaggio (ora Dipartimento di Pratiche Linguistiche e Analisi di Testi) dell’Università di Bari, diretta da Augusto Ponzio e Claude Gandelmann fino alla scomparsa di que-

st’ultimo, avvenuta nel 1995. Pubblicata dall’editore Angelo Longo di Ravenna fino al 1997, dopo una fugace collaborazione con l’editore Piero Manni di Lecce con cui è uscito nel 1998 il n. 1 della nuova serie, è ora affidata alle edizioni Meltemi di Roma sotto la direzione di Augusto Ponzio. Semiotica, filosofia, arte, letteratura, come recita il sottotitolo, costituiscono gli ambiti di interesse all’interno dei quali si articolano e si organizzano i vari fascicoli tematici in una prospettiva transdisciplinare. Non si tratta infatti della proiezione sul tema scelto di diversi punti di vista maturati in discipline diverse con metodi diversi che trovano un loro punto comune nei contenuti, secondo il più ovvio e accettato senso della multi o pluridisciplinarità in un percorso che unifica ciò che è separato e nato per altre esigenze. La transdisciplinarità che anima l’organizzazione delle varie monografie si basa al contrario sulla stessa metodica manifestata in contenuti diversi. Si tratta della metodica del segno con la sua costitutiva e intrinseca apertura ad “altro”: il segno come costrutto che lascia delle ombre, dei residui che molto spesso lo contraddicono o dicono più di quanto esso non dica direttamente, prolungando il processo segnico. La semiosi e la vita dei segni dunque come dialogo per l’impossibilità della chiusura, pena la fine della semiosi stessa, mentre la semiotica si configura come teoria del dialogo. L’identità del segno non è fissa, richiede invece il suo continuo spostamento, sì che essa è metastabile, è pratica e non astratta: la semiosi è traduzione; il segno sussiste solo nel rapporto tra segni. La traduzione, per altro verso, non è più confinata nella linguistica del verbale ma entra nell’orizzonte più ampio della semiotica quale teoria dei segni verbali e non verbali. Il paradosso della traduzione consiste nel fatto che il testo tradotto deve restare se stesso mentre diventa un altro, deve essere al contempo identico e diverso. Si vedano al riguardo i numeri 2 (1999-2000), 3 (2000) e 4 (2001) della

nuova serie dal titolo, rispettivamente, La traduzione, Tra segni e Lo stesso altro. Il lavoro traduttivo/interpretativo porta con sé qualcos’altro all’insaputa del lavoratore-interprete-traduttore. Questo “altro” del lavoro è opera, come dice Lévinas; è produzione dell’in-utile che sfugge al lavoro stesso facendone esplodere l’identità: è l’al di là dell’essere del lavoro; è la materia del segno e dell’interpretazione, del valore di scambio (la merce) che si esplica nello scambio non mercantile, nel dono, cui è dedicato il volume n. 8 del 2004. L’opera è il movimento verso l’altro che non ritorna al medesimo; è relazione asimmetrica subita che dice di un intrico etico, di uno spossessamento del Soggetto. C’è qui la questione della materia dell’essere, dell’ombra della luce, ossia di una semiosi che è prima e dentro l’Io cosciente: una semiosi avant le signe o scrittura. Sono argomenti affrontati nei volumi 1 (1990): Il senso e l’opera; 3 (1992): Il valore; 5 (1994): Materia; 8 (1997): Luce. Questa semiotica della scrittura, che si configura come completamento, o, diremmo quasi, maturazione della semiotica dell’interpretazione, è una semiotica dell’alterità che ha il suo presupposto nelle filosofie dell’alterità e che – a nostro avviso – trova il suo supporto storico e sociale nei problemi legati alla rottura del 1989, al cosiddetto nuovo ordine mondiale, alle migrazioni, alla globalizzazione, al ritorno della guerra come soluzione delle controversie internazionali. L’onto-logica occidentale si autointerpreta come assoluta fin dalle sue origini, avendo relegato fuori di sé l’apeiron (l’infinito), ossia ciò che non ha modus e sfugge alla norma imposta da qualcuno. L’infinito in quanto altro è visto come materia signanda, amorfa, che attende di essere modellata, civilizzata, democratizzata, secondo una “reductio ad unum” delle forme di vita, delle risorse naturali, dei valori, dell’economia, della politica. È il sacrificio dell’altro come riaffermazione

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me, che all’arte del taglio contrappone l’arte della piegatura, al procedere per divisioni e subordinazioni il procedere per dimensioni, intrecci, alla logica dell’esclusione quella della partecipazione. È il pensiero strutturale così come è stato impostato da maestri come Hjelmslev. Si colma inoltre uno iato tra semiotica peirceana o interpretativa e semiotica strutturale, o meglio – come preferiamo dire – “semiotica glossematica”, di matrice appunto hjelmsleviana, per distinguerla dalla semiotica strutturale di matrice greimasiana, o semiotica generativa.

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guaggio umano”, dice Thom (p. 81). Una posizione che lo avvicina ancora una volta a Sebeok, ma anche a Giorgio Prodi. Il progetto scientifico del pensatore francese si dispone su due fuochi: “umano” e “non umano”; disegna una semiofisica, pertinenza che può essere letta accentuando l’elemento “semio” o l’elemento “fisica”: evidenziando cioè una fisica del senso oppure la significazione dei processi naturali. “I saggi raccolti in questa antologia testimoniano che il pensiero semiotico di Thom si è orientato in quest’ultima direzione”. La teoria delle catastrofi fa parte di “un’ermeneutica non introspettiva” e il suo dispositivo “ha valenza fenomenologica”, scrive Paolo Fabbri nell’introduzione (pp. 11-12). Si tratta di una curvatura in senso semiotico dell’ermeneutica: una ermeneutica materiale e materializzata che non attiene all’ontologia o all’essere del segno bensì alla sua materia. La semiofisica infatti riconosce e include un residuo corporeo, fisico-biologico nella semiosi e nei segni e al tempo stesso ne riconosce il valore semiotico; riconosce cioè una fisiosemiosi, una biosemiosi e una zoosemiosi che si prolungano partecipativamente nell’antroposemiosi costituendo quella struttura (rete) globale che è il “semiotico”, o la materia signata, capace, a vari livelli di complessità, di forme diverse di autosservazione. Alla morfologia del semiotico appartiene la forma interpretativa e la sua materialità ed eccedenza. Si rompe così con l’idealismo semiotico anche di certo strutturalismo incline al formalismo e al logicismo, secondo cui la materia è un continuum amorfo e passivo che l’imposizione della forma come principio attivo suddivide in zone ben delimitate, secondo un modello agrimensorio, generando i segni, il senso e un dualismo dicotomico e parallelistico che oppone la natura non semiotica della materia alla semioticità della forma. Si profila, invece, un pensiero strutturale attento ai fondamenti semiotici delle for-


Non c’è Territorio nazionale, Stato, Comunità, Unione di Stati che non sia risultato di guerra. (…) Questo è il mondo della guerra. Ogni pace è pace di guerra, ottenuta con la guerra. (…) Mantenere la pace è mantenere lo stato delle cose ottenuto con la guerra. E, se necessario, mantenere la pace è fare la guerra. Per la semiotica dell’alterità o della materia invece il confine non è un limite invalicabile e separante, quanto piuttosto luogo di contatto, di inclusione, di esposizione ad altri. L’invisibilità dell’altro, la sua innominabilità o il suo essere nominato solo in negativo sono motivo di scandalo quando la materialità del suo non essere spunta d’improvviso dal mare a bordo di un gommone e viene a piazzarsi nel Mondo dell’Umanità vera e universale. Le migrazioni (si veda l’omonimo volume 4, del 1993), infatti, hanno rotto la beata visione dello sguardo autoreferenziale e narcisistico dell’Occidente. Esse sono smodate, oltre il modus; non sono neppure una momentanea rottura (antitesi) di un tessuto (un testo; tesi) che dopo un iniziale sbandamento riprende il controllo di sé e della situazione (sintesi). Le migrazioni sottraggono territorio, spazio culturale (talvolta spazio biologico) e di senso, trasfigurano la semiosi. Il migrante costringe a rispondere, a prendere posizione, impone un dialogo, provoca un nuovo senso. La sua apparizione induce a fare i conti con la propria anteriore coscienza filosofica e sociale, con la propria etica anteriore; fa emergere capacità nascoste: può alimentare aggressività (tentativi di recupero dell’identità minacciata, di difesa del

che ha un senso etico e non solo conoscitivo e professionale. La semiotica guadagna così la dimensione etica diventando semioetica. C’è un nesso intrinseco fra etica e semiotica che pone l’ethos come fattore costitutivo della semiosi e della semiotica. La semioetica, in altri termini, è lo sviluppo in senso semeiotico della semiotica; essa infatti non si occupa dell’etica come settore a se stante, ma evidenzia l’esposizione senza alibi del segno all’ethos, mostra l’illusoria pretesa della differenza indifferente. La semiotica si fa allora carico della vita nel suo significato estensivo, che nell’odierno modello economico vincente è molto spesso ritenuta d’ostacolo alla realizzazione del profitto quando non è inserita nel processo di mercificazione crescente. Vita da medicalizzare, vita come investimento economico, ma soprattutto vita in una visione antropocentrica, fino all’estrema conseguenza della distruzione degli altri organismi viventi. La semiotica che si prende cura della vita, o meglio la semiotica della vita (sul tema della vita è incentrato il volume n. 5, 2002) esce invece dall’antropocentrismo e tematizza la non indifferenza per le forme di vita non umane. I segni umani non sono che una parte dell’intera semiosi (vita) del pianeta dalla quale sono inevitabilmente dipendenti. La vita è attività, lavoro, “opera”, dove produzione materiale e immateriale sono intimamente connesse, come già aveva fatto vedere Ferruccio Rossi-Landi nel suo libro del 1968, Il linguaggio come lavoro come mercato. Al lavoro immateriale è dedicato il volume 7, 2003-2004. Si tratta degli atti del Convegno internazionale sul semiotico italiano svoltosi a Bari dal 14 al 16 novembre 2002. La teoria del linguaggio come lavoro anticipa con lungimiranza problematiche della fase attuale della produzione in cui la comunicazione è fattore costitutivo. Ciò che nella visione rossilandiana è il “lavoro linguistico” oggi si chiana “risorsa immateriale”, “capitale immateriale”, “investimento immateriale”

e costituisce un fattore decisivo dello sviluppo, della competitività e dell’occupazione nella “knowledge society”. L’unità di lavoro e artefatti materiali e di lavoro e artefatti linguistici sta sotto i nostri occhi nell’unità di hardware e software del computer, dove risulta evidente la priorità del lavoro semiotico, del “lavoro immateriale”. Cosimo Caputo

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proprio diritto al lavoro con conseguenti lotte tra poveri o rigurgiti razzisti ed etico-nazionalisti), oppure indurre pensosità e accoglienza. Il migrante non fa la tradizionale lotta di classe al capitalismo; la sua minaccia sta piuttosto nella domanda di accoglienza: una domanda esorbitante che non è ammessa e non può essere soddisfatta, che è al contempo “un’interrogazione, una richiesta di giustificazione a chi occupa un posto nello sviluppo, non semplicemente un posto di lavoro, a chi vi ha collocazione e ha creduto finora di non doverne rendere conto” (Ponzio, in Migrazioni, p. 11). Il mondo/il mare è il titolo del volume n. 7, 1996, che esprime la contrapposizione tra una totalità identificante e circoscrivente, risultato di una narrazione o della costruzione di un Soggetto e di una Ontologia: il mondo, e un fuori: il mare, associato con l’ignoto, con la possibilità di deriva, il viaggio senza ritorno, l’alterità. La questione è se il propriamente umano non fuoriesca dal mondo e non appartenga invece all’altrimenti dell’essere del mondo, a una opacità che la luce o l’essere del mondo non può cogliere; non appartenga cioè a una luce nera, nell’accezione di una “negritudine” intesa più che come colore della pelle come un guardare dalla periferia. Ci sembra questo il senso di Nero, il n. 1, 1998 della nuova serie, ristampato con modifiche come n. 6, 2003. Si tratta di uno sguardo smisurato in cui il mondo non coincide con se stesso: lo sguardo di un’esistenza umana più grande ma anche di un’esistenza più grande di quella umana nel suo complesso. È lo spazio della materia vivente, della vita in tutte le sue forme. In questo sguardo globale la semiotica recupera la sua fase semeiotica risalente all’antica medicina; un recupero teorico, non prettamente storiografico, per cui possiamo dire che la semiotica recupera la sua costitutiva dimensione semeiotica che consiste nel far star bene la vita. Il medico si prende cura della persona, il

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dell’identità (si veda il n. 2, 1991, Arte e sacrificio), che ha in sé l’extrema ratio della guerra quale modellatrice del mondo. Un Mondo di guerra, come dice il titolo del volume n. 9, 2005; un mondo che è il risultato della guerra, dove, nelle parole di Ponzio (p. 7),


Reset Testatina

Ă GALMA

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An toni o Sant on i Rug iu* A proposito di segreti

Può darsi che i miei ingranaggi mentali di storico, forse già un po’ arrugginiti, mi portino sempre a cercare il bandolo della matassa nella radice passata delle cose e delle parole. E comincio appunto con una parola, secretus, che un buon vocabolario latino mi dice derivare da cernere “distinguere per meglio riconoscere o giudicare”. Oggi si direbbe forse meglio, per mettere a fuoco e fissare l’immagine. In alcuni dialetti dell’Italia centrale, per esempio in ciociaro, scernere “osservare con attenzione o partecipazione”. Qualcuno però obietterebbe che secretus non è estraneo neppure a sacrum anche esso “separato, inaccessibile e perciò nascosto”, sempre a tutela di un confine topografico o di un significato simbolico. A me, con la disinvoltura consentitami dal non essere glottologo classico, pare che il nostro vocabolo “segreto”, attinga dall’uno e dall’altro. C’è però anche qualche legame semantico con “mistero”. Già, perché il mistero è segreto di per sé, senza bisogno di atti di volontà di “secretazione”, come si dice in gergo giudiziario. Si sa che gli antichi artigiani davano la massima importanza al “segreto del mestiere”. Tanto che all’epoca comunale, quando esistevano i Tribunali delle Arti, il tradimento di quel segreto per il reo poteva comportare perfino la pena di morte, anche se a noi ormai avvezzi al postindustriale questo ci pare incredibile. E si capisce bene. Il maestro tintore o il maestro pittore che avevano trovato, poniamo, il succo di una pianta ottima per assicurare la brillantezza e la durata delle vernici e che soprattutto a quel succo dovevano il loro successo, non potevano permettere che quel segreto andasse in giro a tutto vantaggio dei concorrenti. A volte il segreto poteva esse non un materiale o una fonte bensì una procedura, una di quelle tecnai che Platone disprezzava e che Aristotele catalogava fra le cose ignobili. Gran parte della bravura e quindi della fama di un maestro d’arte risiedeva nella capacità di * È abitudine oramai consolidata dei «Quaderni di comunicazione» tornare a tessere temi trattati nel fascicolo precedente. Sul n. 5, monografico sul Segreto, pubblichiamo perciò volentieri queste considerazioni di uno storico dell’educazione.


A proposito di segreti 193

che non si sa è considerato grandioso, mirabolante). Il suo contemporaneo Hume, parlando dei miracoli, argomentò che la fede non è mai in ciò che già si conosce, dato che per questo non c’è bisogno di un credo. Infatti, nessuno mette in dubbio certe verità, come 2+2=4, e sarebbe inutile professare per esse un atto di fede. Si crede insomma in ciò che non si sa ma di cui vogliamo acquisire certezza, anche indimostrata. “Ex voluntate sed non intellectu” disse l’Aquinate. In altre parole la fede in qualcosa è il prodotto di ciò che vorremmo spogliare del suo segreto-mistero, al di là di ogni evidenza ragionevole. Insomma, la comunicazione si svolge su due registri: il più facile, il più “scolastico”, è quello dell’evidenza che quindi non ha bisogno di un atto di fede per essere avallato. C’è un altro registro, quello dell’ambizione a diradare le cortine fumogene, a decodificare il criptato o a verificare l’esistenza e la validità di un segreto di cui intuiamo la presenza. Si sa che già Bergson ne aveva parlato, ma io, nel mio piccolo, non mi azzardo, come lui, a dargli un senso metafisico. Prendiamo il sesso. I mass media oggi rigurgitano di allusioni e di ricorrenti esplicitazioni di carattere sessuale, soprattutto la pubblicità. Se esistesse una pubblicità per gli arredi sacri (non è detto che oggi o domani non compaia) nel relativo spot apparirebbe di sicuro una procace e ammiccante fanciulla, non Teresa d’Avila in estasi, per dire. Lo vediamo tutti tanto spesso che alla fine non lo notiamo nemmeno più. Eppure io credo che questa sessofilia vada criticata perché banalizza il sesso, tende a farlo divenire quasi indifferente, lo presenta come facile facile, patinato ed esposto in vetrina. Un adolescente non deve più scoprirlo via via, in parte soffrirlo, attribuirgli connotazioni personali. Pensa a tutto la comunicazione audiovisiva che ne offre un consumo costante e garantito. Chi cantava “comme mammete t’ha fatte / ’o saccio mejo ’e teee” apparteneva senza dubbio a un’epoca lontana, quando ancora il vissuto del sesso e di tutti i suoi risvolti, dalla prima adolescenza in poi, era un ingrediente della crescita psicofisica, anche per conoscere meglio se stesso e gli altri, frutto di lunghe attese, di piccoli successi e cocenti sconfitte. Un’esperienza di vita fondamentale, non massificabile. Oggi invece niente segreto-mistero del sesso da scoprire passo passo. Ci pensano i mass media che offrono tutto, debitamente sterilizzato e mielato, come negli scaffali di un self-service, come una qualunque merce per il consumo di massa. C’è poi il segreto del segreto. Il segreto di sé che ognuno si porta dentro. Volontario e involontario. Che ci sembra di aver svelato, almeno in gran parte, e poi dobbiamo convenire che ne rimane sempre una parte misteriosa. Sarebbe bello svelare del tutto se stessi. Già ma sarebbe troppo facile.

Antonio Santoni Rugiu

192 Quaderno di comunicazione

tenere ben custoditi quei segreti. Ma lì si trovava di fronte a un dilemma: fino a che punto svelare ai lavoranti e soprattutto agli apprendisti quei segreti? Nasconderli del tutto non era possibile, ma attenzione massima a non scoprirli più dello strettissimo necessario. La pedagogia artigiana, tanto trascurata dai nostri storici dell’educazione quanto invece assai importante (se non altro perché più vecchia almeno di qualche millennio rispetto alla prime forme di scuola così come oggi la intendiamo) non solo per capire l’evoluzione delle forme educative di massa ma anche la cultura in genere di un periodo storico, doveva fare i conti prima di tutto con questo dilemma. In particolare bisognava diffidare degli apprendisti più svegli e acuti in grado di carpire i risvolti di quello che il maestro non gli mostrava né illustrava. Il timore era che questi, appreso il mestiere e magari i suoi segreti si facessero ingaggiare da un altro maestro che avrebbe dato loro più spazio. Inizialmente i tribunali di cui sopra vietavano che all’apprendista di cambiare bottega per tutta la sua vita lavorativa. Un capestro assai stretto (infatti non durò a lungo) ma necessario alla protezione di segreti grandi o piccoli. Infatti, quando per ragioni diverse, la rigida disciplina corporativa andò in frantumi e le botteghe cominciavano a farsi una concorrenza spietata anche all’interno di una stessa arte, addio segreto del mestiere. Del resto, la comunità artigiana rimase a lungo separata e anch’essa a suo modo segreta: aveva proprie strade (via dei Tintori, dei Calzolai o dei Tessitori ecc.) e a volte interi quartieri, quasi come i ghetti ebraici; in quel chiuso fiorivano matrimoni e amori (spesso apertamente pederastici) e odi, amicizie e inimicizie. Gli apprendisti, terminato l’orario lavorativo diurno, andavano a prestare servizio nella casa del maestro o dei lavoranti anziani, presso i quali vivevano come in un severo collegio. L’educazione alla separatezza, al segreto, che i ragazzi ricevevano dentro e fuori delle botteghe, continuava. Il motto “casa e bottega” veniva appunto dai modelli della quotidiana vita artigiana. “Mestiere” e “mistero” sono stati a lungo pressoché sinonimi. Il mestiere era tale quando garantiva la propria segretezza. Cioè, certe particolarità produttive erano tali finché da parte di un maestro il suo segreto restava all’esterno, appunto, un mistero. La pedagogia della scuola tradizionale, al contrario, era (ed è) fondata sulla parola del maestro e sull’autorità dei testi seguiti, mentre nella bottega artigiana vigeva lo “imparar facendo”. La scuola tradizionale usava e il verbo magistrale e il contenuto libresco come mezzi basilari didattici, là dove, tutto al contrario, il maestro artigiano parlava poco o niente e vietava agli apprendisti l’uso di qualunque testo. Insomma la pedagogia artigiana voleva essere una pedagogia segreta che giocava sul mistero, mentre quella tradizionale non faceva mistero di nulla e voleva insegnare tutto lo scibile. Dal giorno alla notte o viceversa. Ciò che si impara a scuola è in un certo senso senz’anima appunto perché non ha segreti, non fa mistero di nulla (anche se poi negli sviluppi personali dell’apprendimento i segreti esistono). Voglio dire che a scuola bisogna approfondire per proprio conto, il che non è affatto frequente, per aver sentore dell’esistenza di quei segreti. Giambattista Vico scrisse “omne ignotum pro magnifico tenetur” (tutto ciò


G li aut or i

M arc Aug é, directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, di cui è stato a lungo presidente, è uno dei più affermati antropologi contemporanei. A partire dagli anni Ottanta ha elaborato un’antropologia della pluralità dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità. Oltre al classico Non luoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità (1993), tra gli ultimi saggi, Rovine e macerie. Il senso del tempo (2004); Perché viviamo (2004); L’antropologia del mondo contemporaneo (con Jean-Paul Colleyn, 2006), e il romanzo La madre di Arthur (2005). camc@ehess.fr Egl e Becch i, già professore ordinario di Pedagogia e Storia della Pedagogia all’Università di Pavia, si occupa di storia dell’infanzia e di diari d’infanzia. Attualmente sta scrivendo un libro sui servizi educativi per l’infanzia della città di Pistoia. Ha curato, assieme a Dominique Julia, La storia dell’infanzia (1996). egle.becchi@unimi.it F erdi nan do Boero , è professore ordinario di Zoologia presso l’Università di Lecce, segretario generale della Società italiana di Ecologia e membro di comitati scientifici e di associazioni internazionali di bio-

logia. Ha diretto negli ultimi dieci anni progetti finanziati da: Comunità Europea, Nazioni Unite, National Science Foundation of the USA, CNR, MIUR, MIRAF e amministrazioni locali. Ha pubblicato svariate monografie e saggi su riviste nazionali e internazionali in materia di biodiversità marina e biologia evoluzionistica. boero@unile.it Raffaele De Gi org i, è professore ordinario di Filosofia del Diritto. Dal 1980 al 1996 ha lavorato con Niklas Luhmann con il quale ha fondato il Centro Studi sul Rischio (1990). Ha insegnato in Germania, Argentina, Brasile e Messico. Dal 2001 al 2004 è stato professore ospite del Max-Plack-Institut für Europäische Rechtsgeschichte di Francoforte. Nel 1991 ha pubblicato con Niklas Luhmann Teoria della Società. Tra i suoi lavori più recenti: Direito, tempo, memória (2006); Il mondo della società del mondo, con Stefano Magnolo (2006). Suoi temi attuali di ricerca: la società del mondo; l’ordine dell’ordine; produzione di periferie; memoria del diritto. raffaele.degiorgi@unile.it Sergi o Duma, è professore a contratto di Lingua e Traduzione Inglese nel Corso di Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce. Si occupa di let-


Gugl iel mo F o rges Davanzat i, è professore associato di Storia del Pensiero Economico presso l’Università di Lecce. I suoi interessi di ricerca riguardano temi di etica economica, studi sul mercato del lavoro e la distribuzione del reddito, in prospettiva storica, e l’analisi delle istituzioni in ambito postkeynesiano. Fra le sue più recenti pubblicazioni si segnala la monografia Ethical Codes and Income Distribution: A Study of John Bates Clark and Thorstein Veblen (2006) e numerosi altri saggi. forges@sesia.unile.it Carl o Gelos i, è ricercatore di Sociologia del Territorio presso l’Università degli Studi di Lecce, Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione. Si occupa del rapporto tra comunicazione istituzionale e sviluppo territoriale. Tra le sue ultime pubblicazioni, Comunicare il territorio (2004), “Lo sviluppo della comunicazione di pubblica utilità in Italia”, in La comunicazione dei rischi ambientali e per la salute (a cura di P. Bevitori, 2004). cgelosi@yahoo.it Ern es to M ola , è medico di famiglia, presidente dell’Associazione scientifica interdisciplinare di medicina di famiglia e di comunità (ASSIMEFAC), direct member of WONCA International (Società scientifica internazionale di medicina generale), membro di associazioni scientifiche e redattore di riviste nazionali e internazionali; si occupa di empowerment del paziente, comunicazione interprofessionale e metodologie per la qualità in medicina generale. È autore di numerose relazioni scientifiche internazionali e della monografia Le lacrime di Ippocrate (1999). ernemol@tin.it

M i mmo Pesare , è dottorando di ricerca in Etica e Antropologia presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Lecce, dove collabora con il Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione. Si occupa del problema dell’abitare nel rapporto tra filosofia contemporanea e psicoanalisi. Ha pubblicato, tra gli altri, Rifrazioni. Luoghi superstiti della postmodernità (2005) e Glocal (2004). pesary@libero.it Aug ust o Po nzi o, è professore ordinario di Filosofia del Linguaggio e di Linguistica Generale nell’Università di Bari, Fra i suoi libri: Tra semiotica e letteratura. Introduzione a M. Bachtin (1992; 2003); I segni dell’altro (1994); Elogio dell’infunzionale (1997; 2004); Testo come ipertesto e traduzione letteraria (2005). Ha tradotto in italiano le Summule logicales di Pietro Ispano (2004), e i Manoscritti matematici di Marx (2005). augustoponzio@libero.it Ant oni o San ton i Rug iu, già professore di Storia dell’educazione, ha diretto il Dipartimento di Storia dell’Università di Firenze e la rivista “Scuola e Città”. È autore di numerosi saggi di carattere storico-educativo. Tra le ultime sue pubblicazioni: Dizionario dell’Università fra storia e ironia, Edizioni Scientifiche Calabresi,

Rende, 2005; La stagione delle speranze. La riforma scolastica mancata e l’ADESSPI (1958-1968), Edizioni Scientifiche Calabresi, Rende, 2005; Maestre e maestri. La difficile storia degli insegnanti elementari, Carocci, Roma 2006. santonirugiu@tiscali.it Angel o S emeraro , è professore ordinario di Pedagogia della Comunicazione nell’Università di Lecce, Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali. Di recente ha pubblicato: Lo stupore dell’altro (2004); Omero a Bagdad (2005); Del sensibile e dell’immaginale (2006). angelo.semeraro@unile.it Davi de To rsel lo , è professore associato di Antropologia Culturale nell’Università di Lecce, Dipartimento di Scienze Sociali. Di recente ha pubblicato: Social Networks in Movement: Time, Interaction and Interethnic Spaces in Central Eastern Europe (2003); Trust, Property and Social Change in a Southern Slovakian Village (2003); La sfiducia ritrovata. Etnografia di un villaggio postsocialista (2004). dtorsello@yahoo.it F rances co Vital e, è ricercatore di Estetica presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Salerno. La sua ricerca ruota attorno ai temi della decostruzione e dell’estetica classica tedesca. È autore di una monografia sull’estetica di Hegel, Natura morta. Natura e arte nell’estetica di Hegel (2002); delle voci “Decostruzione” e “Analisi del discorso” del Dizionario degli Studi Culturali, a cura di M. Cometa e di numerosi saggi su Winckelmann, Kant, Goethe, Hegel e Derrida. Ha curato l’introduzione e la traduzione di J. Derrida, Economimesis. Politiche del bello (2005). mariarita.dicesare@fastwebnet.it

197

And rea Pacel la , è dottorando di ricerca in Scienze Economiche presso il Dipartimento di Teoria e Storia dell’Economia Pubblica dell’Università “Federico II” di Napoli. Si occupa di istituzionalismo e teoria delle decisioni. Ha pubblicato, fra gli altri, Deregolamentazione del mercato del lavoro, incertezza e occupazione, «Economia, Azienda e Sviluppo», n. 3, 2005, pp. 5265 e Frank Knight and John Maynard Keynes on Uncertainty, Limited Rationality and Institutional Economics, «Storia del Pensiero Economico». apacella@unina.it

Gli autori

196 Quaderno di comunicazione

teratura inglese e americana e di movimenti giovanili anglosassoni. Suoi saggi sono apparsi in «Maturandosi» (1994) e «Commonwealth Literary Cultures – New Voices New Approaches» (1996). s.duma@libero.it


Indici dei n umer i precedent i N. 1 . Olt re i l s ens o del l uogo Pre se nt az ion e Ol tr e i lu og hi Da questo glocale di Angelo Semeraro I luoghi delle idee di Ennio Capasa Banca 121 nelle reti di Lorenzo Gorgoni Il sangue del luogo di Edoardo Winspeare Il nuovo Atlantide di Francesco Spada La mia piccola editrice di Piero Manni Un consorzio per l’innovazione tecnologica di Luigi Barone Un consorzio per l’abbigliamento di Pantaleo Pagliula L’agire mercuriale di Stefano Cristante L’altra faccia della new economy di Aldo Bonomi Il kitsch di Alberto Abruzzese Lessico post-fordista di Carlo Formenti L’identità sospesa di Mauro Protti Il fascino del complesso di Alberto Abruzzese Il gl oc ale d eg li inn oc en t i Infanzie nelle reti di Angelo Semeraro Nuovi minori, nuovi media di Mario Morcellini Antropologia delle infanzie di Alessandro Simonicca Risorse immaginarie dell’identità e life corse di Catherine Pugeault Double bind e comunicazione nelle famiglie con giovani adulti di Vincenzo Cicchelli Adolescenze al cinema di Vito Luperto Il principe dei mutanti di Giovanni Fiorentino Pedofili in rete di Ferruccio De Salvatore Adolescenze al limite di Fernanda Rizzo Come parlarne? di Federico Pirro Il padre ritrovato di Luigi Vaccari Rice rc he Sondaggio sull’orientamento politico degli studenti universitari leccesi nel voto del 13 maggio a cura di Gian Maria Greco S ch ede Libertà a rischio di Ornella Quarta Vivere in un mondo connesso di Fabio Ingrosso Dimensioni nuove per una realtà globale di Roberta Maci Dalla routine alla flessibilità nel nuovo mercato del lavoro di Antonella Epifanio “Domani” e “Domenica”, due film sull’abbandono di Miriam Mariano Gli au to r i App en di ce Inaugurazione dell’indirizzo di studi (novembre 2000). Prolusione. Editore Manni, Lecce


N. 2. Mezzogi orno di radio . Cento anni di stori a/ e

N. 3. Del desi derio

Giovanni Fiorentino, Un bilancio provvisorio Angelo Semeraro, Cento anni, e non li dimostra Giovanni De Luna, La radio, fonte storica

Questo numero (a.s.)

Rad io e st or ia . Il Me zz og io rn o Michele Campione, Radio Bari ’43, voce dell’Italia libera Vito A. Leuzzi, Radio Bari 1943-1944 Antonio Ghirelli, Radio Napoli Franco Nicastro, Radio Palermo, l’avamposto della libertà Antonio Santoni Rugiu, Da Radio Sardegna al radiodramma Lucia Denitto, Radio e mezzogiorno nelle strategie confindustriali degli anni Cinquanta

C om un ic az ion e d i de sid er io Angelo Semeraro, Regine cannibali (desideri scomunicanti) Mimmo Pesare, Sehnsucht e comunicazione Luigi. A. Armando, Donne e pastasciutta Myriam Mariano, Doct Faust e dom Giovanni

Ling ua ggi & soc iet à

Geo gr af ie Paolo Pellegrino, I mille volti del desiderio Albarosa Macrì Tronci, Società di conoscenza/società di desiderio Sergio Duma, L’america non desidera guerre Stefano Cristante, Spagna, 11 marzo: voglia di verità

Alberto Sobrero, La radio modello di lingua? Che cosa ne pensano i giovani, all’inizio del 2000 Sergio Raffaelli, La pronuncia alla radio nel periodo fascista Lucio Giannone, Radio e letteratura: momenti di un (contrastato) rapporto Mario Proto, Lettura, ascolto, visione: radio e media system Daniele Pitteri, Vocazioni culturali, vocazioni di consumo. Radio locali, syndacation e identità culturali giovanili

De sid er io di c o mu nic az io ne Guglielmo Forges Davanzati, Le emozioni dell’oeconomicus Mauro Ingrosso, Glocale musicale salentino Annacarla De Vito, Voci di desiderio: un progetto di radio Valentina Donno, Narrazioni cyborgpunk

Rad io in re te

Nu o ve gen er az ion i

Gianluca Nicoletti, Radionet Alessandra Scaglioni, Lavorare alla radio Enrico Menduni, La terza generazione Michele Sorice, Glocal medium

Egle Becchi, Bambini in Mediaset tra cartoni e spot pubblicitari Carlo Gelosi, Globali o locali? media e giovani L.S., Il piacere di sondare (ovvero la ricerca di lavoro del laureato in scienzecom)

In te rve nt i Antonio Bottiglieri, Radio & Regioni Stefano Cristante, Radio & Università Enrico Fedi, Web & Radio Alberto Abruzzese, Dalla parte dell’ascoltatore Osser vat o rio A cura del centro interdipartimentale internazionale sulle infanzie e le adolescenze dell’Universiità di Lecce A. Semeraro, Comunicare le infanzie. Un osservatorio Loredana De Vitis, Adolescenti di carta. Indagine sull’immaginario dei media a stampa Giovanni Fiorentino, Play. Sul videogioco Catherine Peugeault, Vincenzo Cicchelli, Les spectateurs d’Orange mécanique en 1970 et en l’an 2000 Alessandra De Giovanni, Giurisdizione europea su minori in internet Ferruccio De Salvatore, Libertà di comunicare e tutela della persona minorenne nel cyberspazio Gli au to r i Editore Manni, Lecce

Te ssit ur e Giovanni Fiorentino legge: Ortoleva e Scaramucci/ Radio, Calefato/Lusso, Reinghold/Smart mobs, Abruzzese/Lessico, Semeraro/Calypso, Robins & Webster/Tecnoculture, Sorrentino/Giornalismo, Pinto Minerva&Gallelli/Pedagogia post-human, Ferri/Fine dei media, Ardizzone, Rivoltella, Galliani, Maragliano/E-larning, C:Cube/Annata 2003, Bianco & nero su giallo: obiettivo sul Salento di Ronny Leva. Angelo Semeraro legge: Nancy/Ascolto, Fiorentino/Silenzio, Perniola/Controcom, Mattelart/Utopie, Maffesoli/Tragico, Dahrendorf/Libertà. Carlo Formenti legge: Castells/Reti Smeralda Tornese legge: Semeraro/Calypso la nasconditrice Albarosa Macrì Tronci: Tra memoria e progetto: un convegno a Fisciano Gli au t or i p agin e gia lle Scienzecom a Lecce (a cura di Raffaella Scorrano) Editore Manni, Lecce


N. 4. Ri conoscersi

N. 5. Del segreto

Questo numero (a.s.)

Questo numero (a.s.)

L’ira e le lacrime di Angelo Semeraro Spaesamento e riconoscimento di Mimmo Pesare Ritornare a Parmenide di Nello Barile Virtualità e crisi della rappresentanza di Carlo Formenti La sympathy nelle relazioni industriali di Guglielmo Forges Davanzati Lo sguardo e l’immaginario di Giovanni Fiorentino Van Gogh e Gauguin: colori sonori, di Anna Gentile

Andrea Tagliapietra, Ontologie del segreto Franco La Cecla, Un dispositivo di verità Stefano Cristante, Informazioni particolari Carlo Formenti, Luci di retroscena Mimmo Pesare, Disvelamento come trasformazione Paolo Pellegrino, L’opera d’arte e il suo enigma Carlo Gelosi, Pubblica amministrazione: trasparenza ed ostacoli Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella, Cosa e perché conviene non dire: gli effetti ecconomici della corruzione Paola Nestola, Arcani vaticani Sergio Duma, Note angloamericane Gino Frezza, Doppia identità e mutazioni nei fumetti dei supereroi Angelo Semeraro, Tende e velami

Reset Storie di riconoscimenti e di risentimenti: ScienzeCom. di Stefano Cristante Old Education & Media Education di Antonio Santoni Rugiu Glo cal i Meraviglie occidentali per giovanotti mondani di città di Livio Romano Italian Sud-Est di Alessio Pepe Adolescenze: dodici scuole rispondono sull’aggressività di Stefano Mangia Tessit ur e Letti da: Semeraro: Benasayag, Schmitt / Passioni tristi; Carnevali / Romanticismo & risentimento; Veca / Amore infinito; Bauman / Amore liquido; Marchesini, Post-human / Anima appeal; Eco / Misteriosa fiamma. Duma: Icke / Alice; Heinein / Fanteria dello Spazio; Anais Nin / Mistica del sesso; Caccia / David Linch. Barile: Gibson / Accademia dei sogni. Fiorentino: Chambers / Ad limina mundi; Temple Grandin / Pensare in immagini; Lurija / Mondo perduto/ritrovato. Caputo: Sebeck / Signs. Introduction to Semiotics; Peirce / Opere [g. f.] Una giornata di desiderio [a. s.] A margine di un convegno

Reset Santa De Siena, Il paradigma spezzato Elena M. Fabrizio, Il pluralismo negato Elena Pulcini, Autenticità e riconoscimento Vincenzo Susca, Turbamenti della postmodernità, intervista a Michel Maffesoli Matteo Greco, Le metafore pedagogiche nel cinema di Burton Te ssit ur e Giorello: Nessuna chiesa (M. Pesare); Scalfari: Laicità/laicismo; Badaloni: Inquietudini e fermenti; Herbert, Vico e laici credenti; Ruggenini, Paltrinieri: La comunicazione, ciò che si dice e ciò che non si lascia dire; Bauman: Scarti (A. Semeraro); Esposito: Bios (S. De Siena); Florida: Classi creative (C. Formenti); Gibelli: Popolo bambino; Marra: Ombre di un sogno; Lyon: Massima sicurezza; De Luna, D’Autilia, Crescenti: Italia fotografica (G. Fiorentino); Semeraro: Omero a Baghdad (M. Pesare); Latour: Culto moderno dei fatticci (M. Pesare); Trione: Sopralluoghi (P. Pellegrino); Ferretti, Gambarara: Com. & scienze cognitive; Gambarara: Bipede implume; Cimatti: Mente e vita; Mazzone: Menti simboliche. Riconoscersi a Lecce: un convegno (G. Fiorentino).

Gli au to r i

Eugenio Scalfari: la motivazione della laurea Honoris Causa.

Editore BESA, Nardò (Le)

Gli au t or i


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