QdC 1 - Oltre il senso del luogo

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Quaderno di

OMUNICazione

del Corso di Laurea Interfacoltà in Scienze della Comunicazione dell’Università di Lecce anno accademico 2000-2001

Manni


Stampato col contributo del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione e del Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università di Lecce

Indice 5

PRESENTAZIONE

PARTE PRIMA

OLTRE I LUOGHI 9 Da questo glocale di Angelo Semeraro 14 I luoghi delle idee di Ennio Capasa 19 Banca 121 nelle reti di Lorenzo Gorgoni 22 Il sangue del luogo di Edoardo Winspeare 26 Il nuovo Atlantide di Francesco Spada 31 La mia piccola editrice di Piero Manni 34 Un consorzio per l’innovazione tecnologica di Luigi Barone 38 Un consorzio per l’abbigliamento di Pantaleo Pagliula 42 L’agire mercuriale di Stefano Cristante 46 L’altra faccia della new economy di Aldo Bonomi 53 Il kitsch di Alberto Abruzzese 55 Lessico post-fordista di Carlo Formenti 63 L’identità sospesa di Mauro Protti 67 Il fascino del complesso di Alberto Abruzzese

PARTE SECONDA

IL GLOCALE DEGLI INNOCENTI 75 Infanzie nelle reti di Angelo Semeraro 83 Nuovi minori, nuovi media di Mario Morcellini 92 Antropologia delle infanzie di Alessandro Simonicca 101 Risorse immaginarie dell’identità e life course di Catherine Pugeault 110 Double bind e comunicazione nelle famiglie con giovani adulti di Vincenzo Cicchelli 125 Adolescenze al cinema di Vito Luperto 131 Il principe dei mutanti di Giovanni Fiorentino 142 Pedofili in rete di Ferruccio De Salvatore 152 Adolescenze al limite di Fernanda Rizzo 157 Come parlarne? di Federico Pirro 160 Il padre ritrovato di Luigi Vaccari Quaderno di COMUNICazione

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PARTE TERZA

RICERCHE 167 Sondaggio sull’orientamento politico degli studenti universitari leccesi nel voto del 13 maggio a cura di Gian Maria Greco SCHEDE 174 Libertà a rischio di Ornella Quarta 176 Vivere in un mondo connesso di Fabio Ingrosso 177 Dimensioni nuove per una realtà globale di Roberta Maci 179 Dalla routine alla flessibilità nel nuovo mercato del lavoro di Antonella Epifanio 182 “Domani” e “Domenica”, due film sull’abbandono di Miriam Mariano 185 Gli Autori

APPENDICE

190 Inaugurazione dell’indirizzo di studi (novembre 2000). Prolusione. 193 Regolamento del Corso di Laurea Interfacoltà dell’Università di Lecce 204 Regolamento degli esami 206 Test di ammissione per l’a. a. 2001-2002

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Il tempo globale è un gioco tutto aperto, di cui si vengono evidenziando svantaggi e benefici. Ne siamo immersi, e allora tanto vale coglierne le opportunità, che vanno intuite con métis attiva e dinamica, correggendone gli squilibri tra le parti del mondo. I confini dei vecchi Stati e dei continenti si sono fatti incerti: le frontiere sono attraversati da fremiti di nuovi equilibri; le strade diventano –come nel recente Clifford– laboratori di etnie e culture, tradizioni radicate nella memoria e, insieme, innovazioni che trasfigurano in continuum il paesaggio del non-ancora. Il viaggio, topos letterario di ogni tempo, è la dimora del contemporaneo; l’erranza, il transito, la nostra nuova condizione umana. In cammino, la bella mostra di Sebastiano Salgado, ospitata qualche tempo fà nelle Scuderie del Quirinale, trasmetteva le emozioni di grandi masse umane in movimento, alla ricerca di nuovi luoghi di comprensioni, nuove vie di senso. L’età migratoria ridisegna le mappe concettuali: si richiedono capacità a muoversi e collocarsi velocemente nell’analisi; di cedere il tempo informativo e computazionale dell’indicativo a vataggio di un congiuntivo del possibile, che obbliga a interagire con gli accadimenti, aprendo il pensiero alle infinite possibilità non ancora esplorate. Sempre più si avvertirà il bisogno di pensiero aperto, di menti ermeneutiche capaci di favorire narrazioni, ascolto, integrazioni. E ciò offre buone chances a quei luoghi dove il sostrato antropologico si è costruito sul confronto, lo scambio, la reciprocità. Molti degli interventi di questo primo numero dei “Quaderni” di Comunicazione, luogo pubblico di identità del neonato corso omonimo dell’Università di Lecce, intervengono su questi temi aperti alla riflessione contemporanea. Tutti hanno in comune, pur nella diversità dei tratti e dalla diversa accentuazione di tono, una dialettica aperta tra locale e Quaderno di COMUNICazione

Presentazione

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Le locandine dei due convegni sul glocal alle pagine 10 e 76 sono di Francesco Spada; la foto di copertina riproduce un particolare da un murale di Diego Riviera a Città del Messico

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PARTE PRIMA

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globale. Il futuro, per non vaneggiare, ha un grande bisogno di radici, è stato detto, ma anche di un’attitudine a correre il rischio. Ciò vale tanto per le attività pratiche che per quelle epistemiche. I due incontri sul glocale, che si sono svolti al termine dei due semestri del primo anno del corso di Scienze della Comunicazione, le cui voci sono raccolte in questo primo Quaderno, ci offrono la possibilità di segnalare a un pubblico più vasto di studiosi e operatori della comunicazione il doppio binario dell’offerta formativa del corso di studi salentino: da una parte quello più generalizzato negli obiettivi formativi delle nuove lauree europee di durata triennale introdotte dalla recente normativa, dall’altra quella cifra un po’ più particolare negli studi sulla comunicazione che questo luogo, che vuole protendersi oltre se stesso, può coltivare in virtù della sua vocazione all’incontro: i temi delle relazioni e interazioni tra persone, generazioni, culture, per migliorare le condizioni della comprensione, lavorando sui temi della comunicazione intesa come dono di reciprocità, allargato oltre la cerchia delle comunità salentina. L’economia politica mondializzata avanza su terreni contraddittori, talvolta raffigurando, talaltra obliterando le differenze. Queste differenze del luogo andranno ancora messe a frutto attraverso un lavoro sulla memoria, sulle identità, terreni fruttuosi per la ricerca dell’altrove che tutti sogniamo di integrare oltre il senso dei luoghi: una intensa terapia contro il dolore della scissione e della perdita. A. S.

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angelo semeraro da questo glocale

L’impero dei media sembra cedere il passo ai poteri senza limiti delle reti virtuali e il Glocale, sintesi auspicata di locale e globale, è per certi versi un percorso obbligato di ricerca, soprattutto culturale, per la difesa e lo sviluppo degli interessi della comunità, dopo la fine del territorio “giacobino”, governato e gestito da un unico centro. Processo in movimento, che va riplasmando sotto i nostri occhi il territorio convenzionale e disegnando nuovi territori virtuali: dell’economia, della finanza, dell’impresa, della ricerca, della formazione, che non coincidono più con alcun territorio geopolitico convenzionale. L’invito rivolto nel marzo del 2001 ad alcuni protagonisti dell’ economia e della produzione culturale, nell’ occasione di un primo incontro con gli studenti del primo anno del Corso di Comunicazione, a riflettere da questo nostro luogo sulle possibilità e le prospettive che si sono aperte nella produzione materiale e immateriale nelle reti della comunicazione globale ci ha consentito, grazie al lavoro degli studenti che si sono dedicati al lavoro di riscrittura dei testi, di presentare a un pubblico più ampio le riflessioni raccolte. Uno stilista: Ennio Capasa; un regista: Eduardo Winspeare; un designer, Francesco Spada; un Istituto di credito, Banca 121 rappresentata dal suo presidente Lorenzo Gorgoni; un piccolo ma ben noto editore leccese, Piero Manni; un consorzio di abbigliamento di Nardò, rappresentato da Pantaleo Pagliula; un Centro di ricerca tecnologica dei nuovi materiali, diretto da Luigi Barone: messi insieme ci sono sembrati un campione abbastanza significativo del Salento che cambia. Il comune denominatore di esperienze e di profili professionali, pur tanto diversi tra loro, sta nel forte radicamento nella cultura artigiana del nostro territorio: la virtù (del 9


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dai remi dei pescatori per essere imbarcati dai velieri di Olanda e di Gran Bretagna; che i ricami delle piccole orfane del “Principe Umberto” e i merletti lavorati dalle operaie senza scuola di Casamassella, curate per distacco di retina già a nove anni, prendevano attraverso Sorrento la via delle Americhe e si affermavano nelle Esposizioni universali; che tappeti e arazzi su antichi disegni sono ancora filati coi vecchi telai di Surano, cari già al De Viti De Marco, continuando a stupire gli ignari turisti che villeggiano al capo di Leuca. Sto parlando di culture materiali che poterono fiorire sul sostrato della cultura delle idee propagatasi dalla Napoli genovesiana. La qualità dell’olio gallipolino deve molto anche agli studi a cui il Presta, illuminista erede della tradizione genovesiana come il Palmieri e altri, si sarebbe consacrato, sperimentando e classificando sessanta tipologie di olive. E si potrebbe continuare… Vorrei dire che il successo di Capasa, di Wenspeare, Banca 121, e degli altri ospiti, ha radici antiche e che la loro capacità di proiettarsi nel futuro, di stare nel mercato, con tutte le contraddizioni che esso impone, sarebbe impossibile senza un forte radicamento nel luogo: essi non sono figli spontanei di una modernità senza radici. Passato e presente, pensiero europeo e metis meridiana, micro e macro, sono elementi essenziali nella costruzione dei nuovi intellettuali cosmopoliti di un saper fare comunicativo. I processi di delocalizzazione in atto spingono oltre il senso del luogo, e possono costituire una minaccia per le identità di quelle comunità che hanno conosciuto e praticato forme di scambi fondati sul munus, inteso come dono reciproco del linguaggio e dei beni. L’affermarsi della ragione calcolistica su tutte le altre ragioni ha trasformato il munus del dono nei munera del compenso contrattualizzato, del prezzo insomma da pagare per qualsiasi prestazione ricevuta, in bianco o in nero. L’ inter-esse, il communis agere della comunicazione, vocazione specifica di questo e di altri luoghi immersi nel grande lago del Mediterraneo, subiscono una nuova più potente offensiva. Dacché il legame sociale non affonda più le radici nel debito reciproco, nel libero scambio dei doni, si è perduto quelQuaderno di COMUNICazione

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braccio e della mente) che ha fatto la loro fortuna: un modello, anche formativo –il braccio “sapiente”– che si era andato perdendo e che oggi dopo secoli di educazione divaricata dovremmo poter riproporre, perché anche le più giovani generazioni apprendano a farsi artefici del proprio successo. Giacché la fortuna non viene che raramente dal gioco del lotto o da una sapiente collocazione dei propri titoli in Borsa, e al suo incontro ci si può più utilmente predisporre con tenacia e coraggio; assommando i poteri della volontà a quelli dell’ingegno. In questo senso Leon Battista Alberti e altri umanisti con lui, parlarono di “virtù e fortuna” che, alimentate da una “più crassa Minerva”, ossia da un più robusto sapere, avrebbero fatto il miracolo del Rinascimento italiano. La perdita crescente di senso dei luoghi, dovuta proprio all’estendersi della mente e del braccio sapienti oltre i luoghi e il contemporaneo incremento di senso dei non luoghi delle reti, rendono necessario un controllo critico sui processi aperti dalla globalizzazione. Questa riflessione è stata qui affidata a coloro i quali professionalmente se ne sono occupati e se ne occupano: Abruzzese, Bonomi e Formenti, che interagiscono col racconto di questi “nuovi” imprenditori fortemente radicati nel loro territorio, ma capaci pure di andare oltre il senso del luogo. Vogliamo rammentare che se solo volgiamo per un momento lo sguardo indietro troviamo tracce di altre globalizzazioni che hanno attraversato questo nostro luogo salentino, quando ancora mancavano del supporto della grande ragnatela reticolare. Al sociologo che lavora sugli oggetti e sulle industrie culturali vanno segnalate alcune forme di cultura materiale che fanno parte della costruzione sociale del luogo che non sono solo nei manufatti artigiani impressi nella pietra di Cursi che si possono ammirare nella facciata di Santa Croce, emblema della città del cardinal Pappacoda; o nella perizia dei cartapestai e dei maestri scalpellini che hanno lasciato tracce della loro abilità in altri monumenti del Barocco. Vorrei rapidamente ricordare che il tabacco da fiuto (il “leccese”, appunto) era apprezzato e richiesto in tutte le corti europee del XVIII sec.; che otri di olio pregiato gallipolino galleggiavano nel porto, spinti al largo

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Inaugurando nel novembre del 2000 questo indirizzo di studi che oggi è a tutti gli effetti un corso interfacoltà, col concorso delle otto Facoltà Quaderno di COMUNICazione

dell’Ateneo leccese, affermammo che non era nostra intenzione formare qui né nani né ballerine. Entravamo nel vivo di un dibattito che si era svolto nella tarda estate tra filosofi e semiologi. Oggi vogliamo aggiungere che non vogliamo formare neppure dotcommer “spremi e getta”, modello Palo Alto. Vogliamo invece che dai nostri studi escano operatori della comunicazione consapevoli e pensanti. Siamo interessati a sviluppare una cultura della comunicazione saldalmente ancorata alla relazionalità delle persone. Certo, guardiamo con interesse anche alla costruzione di un nuovo identikit del prosumer: del produttore-consumatore delle proprie scelte di informazione, di documentazione, di intrattenimenti intelligenti. In questa direzione siamo interessati a orientare la formazione dei futuri professionisti della comunicazione in senso critico. Internet, è stato detto, è una tecnologia di libertà: il primo strumento di comunicazione che può sfuggire all’impero dei media. Grazie alla rete non è caduto solo il limite delle distanze geografiche, ma è, almeno potenzialmente, cresciuta la capacità che ha sempre accompagnato l’esperienza umana di generare differenze. Abbiamo lavorato e dovremo lavorare ancora sulla risistemazione critica del concetto di identità. Sappiamo come essa sia una costruzione di lunga durata e come abbia assoluto bisogno di un esterno, di una alterità per essere riconosciuta. È lo sguardo esterno che ci costituisce e più sapremo accogliere le differenze, più riusciremo a svelare a noi stessi il contributo originale, il munus, che possiamo offrire al mondo. Forme di ibridazione artistiche come quella presentata dal gruppo dei Nidi d’Arac, che abbiamo trovato in forte sintonia con il tema del nostro incontro, mostrano la strada di un nuovo sincretismo culturale, a cui i giovani si avviano con maggiore sensibilità e capacità di noi adulti, che stentiamo a comprendere come la geografia della vita sociale, sottoposta a grandi modificazione, si stia completamente riplasmando. Il globale che modifica il senso del luogo e il locale che porta al mondo-in-rete il dono della propria progettualità sono due percorsi paralleli. Su questo vogliamo riflettere. Ai colleghi extra-moenia abbiamo chiesto di aiutarci a valutare le potenzialità che possiamo sviluppare. Quaderno di COMUNICazione

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l’importante plusvalore umano che è la relazionalità, la reciprocità: i legami sociali si impoveriscono e ne conseguono quelle forme di regressione dei rapporti sociali, che investono ora anche gli interni dell’oikos familiare. È in giuoco la civiltà dei rapporti fondati sulla relazione tra persone. Un corso di Comunicazione generato dall’interno di una Facoltà umanistica non può eludere questi problemi cruciali del nostro tempo. È in gioco, oltre tutto, una ridiscussione del concetto di cultura che aveva trovato una sua sistematizzazione post-crociana nel valore attribuito ai gesti, ai simboli, alle tradizione e ai valori delle comunità, minacciate dall’omologazione che la globalizzazione delle conoscenze e dei consumi con sé reca come rischio reale. Così come mercati più sostenuti e aggressivi rischiano di sopraffare le piccole economie regionali, culture forti veicolate dalle industrie commerciali dei media, possono imporsi e soverchiare le più deboli. E all’antico rischio di appiattire sul dato “nazionale” una storia agita in modo diverso in ogni angolo della penisola, sopravviene ora quella di una nuova darwiniana selezione delle memorie, che vanno perciò preservate e immesse nel circuito conoscitivo e formativo delle nuove generazioni. Rispetto ai grandi problemi posti dalla delocalizzazione che può pure portare a nuove colonizzazioni, non ci viene richiesto di schierarci né tra gli apocalittici, né tra gli incantati dalle magnifiche sorti della net-economy, fondativa delle community-business. Le reti virtuali e i media elettronici della quinta generazione dilateranno all’infinito lo spazio delle scelte e dell’interazione. Più ricca per tutti sarà l’informazione e la possibilità di accesso alla documentazione. Ergo più incremento potenziale della democrazia. E tuttavia già nel 1835 Tocqueville osservava che “man mano che gli uomini diventano più uguali l’individualismo si fa più temibile”. Si aprono dunque, su questi slarghi, nuovi spazi di riflessione critica, allo snodo tra problemi che investono l’etica e l’ermeneutica filosofica, l’educazione e la politica.

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ennio capasa i luoghi delle idee

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piega 250 persone tra Italia, Stati Uniti e Giappone. È un’impresa che sta compiendo un percorso globale perché la moda, come la musica, come la tecnologia, non ha lingua, ma le sue forme attraversano tutte le lingue. Questa esperienza che sto vivendo e questa storia a cui sto lavorando mi hanno permesso di riflettere sulle possibilità che ho avuto e sulle potenzialità di espressione che questo territorio ha, o potrebbe avere. Oggi diciamo che la tecnologia dà più possibilità di esprimersi, di essere presenti rispetto a quando ho cominciato io. Ma c’è da fare una riflessione sulla cultura di questo luogo, soprattutto in relazione ai giovani. Per evitare i rischi del “glocal” e cioè che le grandi multinazionali, le grandi economie, schiaccino il primato dei singoli luoghi, bisogna realizzare quelle che sono le nostre vere potenzialità e le nostre culture. Io credo che la cultura del fare che abbiamo al sud possegga una perfezione teorica e non pratica e che nelle Università si debba parlare di più della cultura del fare, del creare e del coraggio delle idee. Fare per me vuol dire non solo parlare, costruire progetti intorno a strategie che possono essere solo teoriche, vuol dire concretizzare i progetti. Oggi, una delle cose fondamentali che riguarda i giovani, è la velocità. La velocità individuale che deve essere sostenuta dalla velocità collettiva. La velocità delle idee alla quale deve fare seguito quella politica, delle banche. Perché il locale possa avere la possibilità di apparire a livello globale bisogna parlare prima di tutto di questo. Non dobbiamo avere paura dell’ambizione di raggiungere una audience globale. Dobbiamo avere delle idee locali che abbiano una qualità globale dal punto di vista progettuale e della realizzazione. Le nostre idee devono essere globali per forza e qualità. Bisogna creare la cultura del fare lavorando con costanza con gli economisti per perfezionare i business plan, imparando a dialogare con i banchieri, essendo visionari ed avendo il coraggio delle proprie idee. AI Sud siamo stati educati alla cultura del posto fisso e della sicurezza. Questa società dimostra inesorabilmente che questa è una cultura, un mito, che dobbiamo abbandonare soprattutto perché penalizza gravemente le potenzialità di sviluppo. Quaderno di COMUNICazione

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La mia esperienza personale mi lega in modo trasversale al concetto di “glocal”. A 18 anni, dopo aver finito il Liceo Artistico a Lecce, sono andato a Milano a studiare all’Accademia di Belle Arti di Brera. Sentivo che questa terra meravigliosa mi aveva dato energia e visioni, ma volevo sapere di più, allargare le mie conoscenze, confrontarmi. Così ho iniziato un percorso nomade che dopo la Laurea all’Accademia di Belle Arti mi ha portato a viaggiare in Oriente per un anno e poi a vivere e lavorare in Giappone per tre anni. Dopo sono tornato in Italia, e questo percorso nomade, questo processo di approfondimento, si è trasformato in una vera e propria impresa, che ha sempre avuto come riverbero quella che è la mia radice: il Sud, i miei valori fondamentali radicati qui. Questa sedimentazione di culture diverse ha contribuito a creare la mia estetica. All’epoca, parlo della prima metà degli anni ’80, non si parlava ancora di globalizzazione e di Internet, ma intuivo in qualche modo il concetto di “glocaI”, il potenziale di una cultura che, anche se periferica, attraverso energie e memorie forti, dominanti, si afferma traducendosi in un linguaggio globale, come, nel mio caso, quello della moda. Quando ho cominciato a sviluppare le mie collezioni il mio lavoro estetico si basava sull’approfondimento di quelle che sono le mie radici. In Giappone avevo lavorato a lungo con un grande maestro come Yohji Yamamoto ed avevo partecipato a quella che è stata la svolta radicale della moda negli anni ‘80. Ma quando si lavora con un grande maestro, come con un grande professore, c’è sempre la paura di essere troppo ispirati dalla loro visione del mondo. In questo senso, il Sud mi ha dato la possibilità di guardare dentro me stesso per essere più autentico ed originale. Così quando sono tornato in Italia ho iniziato ad affinare la mia tecnica e la mia estetica. Adesso c’è un’azienda di proprietà di mio fratello e mia che è nata nel 1987 ed ha avuto una crescita esponenziale negli ultimi anni ed im-

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Otranto a sviluppare un progetto (non profit, per quanto mi riguardava) per vestire a nuovo il lungomare, per dare un minimo di make-up alla parte nuova della città che si affaccia sul mare. Ho preso qualche giorno per riflettere e sono arrivato a questa conclusione: questo progetto del make-up non mi interessa. Mi interessa solo avere la possibilità di incidere fortemente sul territorio ed esaltare quello che è locale creando un progetto di portata globale. Voglio creare la possibilità che un luogo turistico come Otranto si doti di eccellenza e attragga gente da tutto il mondo. Il “Progetto per Otranto” è un progetto di sviluppo turistico e prevede la creazione di un percorso che unisce la parte vecchia alla parte nuova di Otranto, arrivando fino al faro, la costruzione di un grande acquario collegato alle attività di ricerca dell’Università di Bari, unendo svago ed attività scientifica, cultura locale ed interventi di artisti di fama mondiale. [Viene presentato un video di 5 minuti sul progetto per Otranto] “...questo è l’acquario lungo 70 metri e alto 18...” “...questa è la passerella che attraversa tutta la città per collegare l’orripilante nuovo allo straordinario vecchio e ricucire queste due realtà così distanti...” “...un modo per creare un teatro sul mare in onore del nostro grandissimo Carmelo Bene...” “...Tutto questo nasce da un concetto molto innovativo: usare il massimo della tecnologia disponibile sia in campo scientifico che economico per una serie di analisi che uniscano il nuovo alle realtà locali, alle sue competenze specifiche, e allo stesso tempo renda possibile I’accesso ad una serie di finanziamenti europei...”

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Avventurarsi ed avere il coraggio delle proprie idee, il coraggio della propria forza. Su questo si deve lavorare. Non bisogna aver paura, perché se è vero che sul pianeta ci sono queste grandi forze, queste grandi potenze, è anche vero che in questo mondo globale ci sono poche idee e saranno queste, le visioni innovative, a destabilizzare le geografie. I luoghi saranno sempre più il frutto delle idee ed il frutto delle idee saranno attività economiche e culturali innovative. Ho incontrato persone straordinarie nel mondo che provengono dal Sud e tutti quelli ai quali ho chiesto “perché non sei rimasto?” mi hanno risposto “perché mancano le strutture, perché mancano le aperture, perché le istituzioni economiche non danno fiducia”. C’è bisogno di una geografia delle idee che sostituisca la geografia dei luoghi. E i giovani devono avere il coraggio di credere nelle proprie visioni e svilupparle in fatti di importanza globale. Vi invito anche a perseverare nell’errore. Nella mia esperienza l’errore è stato importantissimo. Attraverso il coraggio dell’errore e della perseveranza, che poi è la voglia di realizzare progetti, si creano la cultura, I’energia e la comunicazione che attraverso il gioco dei vasi comunicanti rendono concrete le idee nuove. Io dico sempre “la collezione migliore è sempre la prossima”, nel senso che faccio appello alla prossima per migliorare, studiando me stesso e sviluppando i miei errori. Le regole sono sempre le stesse, ma non ci sono punti di riferimento fissi. Tutto è veloce e relativo e in costante cambiamento. Anche riguardo alle tradizioni vale lo stesso discorso. Più che fare appello alla pizzica, che pure mi piace, preferisco rivolgermi alla Facoltà di Fisica di Lecce che è una realtà di livello mondiale e che per capacità e per il contributo che sta dando alla fisica moderna è diventata una tradizione locale su cui investirei. Quando dico “i luoghi delle idee” parlo di luoghi come la Silicon Valley che è frutto del pensiero di filosofi, di persone che negli anni ‘70 l’hanno pensata e fatta nascere. E quando dico che a Lecce abbiamo una Facoltà di Fisica di livello mondiale, dico che le punte di eccellenza globali possono, e devono, partendo dal localismo, avere un riverbero a livello planetario. Circa due anni fa, sono stato sollecitato dal Sindaco di

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Alcune brevi considerazioni sul tema di questo interessante convegno, ai cui organizzatori rivolgo un sincero ringraziamento. Da tempo si parla di mercato globale, senza confini. Indubbiamente, però, il processo di globalizzazione ha subito un’accelerazione straordinaria solo con l’avvento di Internet. La Rete ha annullato il paradigma cartesiano di velocità uguale spazio diviso tempo, svincolato la distanza dal tempo. Nella business community di Internet non ci si pone a distanze misurabili in chilometri, pochi o migliaia che siano. L’unica distanza è tra chi è attore della New Economy e chi non lo è. Le cose, a dire il vero, sono un po’ più complesse. Fino a qualche tempo fa la contrapposizione tra Old e New Economy era molto netta e identificava due mondi divisi dall’utilizzo o meno di Internet come strumento portante delle proprie aziende. Oggi si è cominciato a capire che Internet consente di migliorare i processi e l’organizzazione di qualsiasi tipologia di azienda, anche quella più tradizionale. Per usare un’espressione anglosassone, il “brick & mortar” è

lorenzo gorgoni banca 121 nelle reti

Il progetto che vi ho presentato l’ho donato alla Città di Otranto. È un progetto completo che, oltre a me, che l’ho diretto e coordinato, ha coinvolto un gruppo di architetti, urbanisti, sociologi urbani ed è costato circa 100 milioni. Ha avuto una grande eco a livello internazionale, è stato pubblicato in Stati Uniti, Germania, Giappone e adesso è fermo, impastato nelle pratiche burocratiche tipiche del Sud. Ci sono tantissime promesse e presto vedremo come andrà a finire. Nonostante tutto, ho voluto illustrarvi questo progetto per stimolarvi a produrre idee coraggiose ed a lottare per realizzarle, per invitarvi a portare qualcosa a questa terra senza paura di partire con idee ambiziose. Per quanto mi riguarda, ho pensato a Otranto non soltanto come a un luogo turistico stagionale, ma un luogo attraente e competitivo a livello mondiale che continui per qualità e bellezza la tradizione dei progetti pensati e realizzati dai nostri antenati esaltando le qualità locali, ma creando anche un avamposto scientifico e culturale e dando spazio agli artisti più importanti del mondo. Io mi auguro che questo progetto si realizzi, ma se non si dovesse realizzare, mi auguro che vi serva da stimolo per sviluppare progetti ancora più ambiziosi e visionari. E così, probabilmente, per la Legge di Darwin, di 100 progetti almeno uno verrà realizzato. Vorrei concludere con un’auto-citazione da un’intervista che ho rilasciato alla rivista Virus nel 1994. Virus è una rivista alternativa di cultura cibernetica e queste righe mi sembrano interessanti perché racchiudono la mia visione del Sud e del futuro. Mi chiedono “Che cos’è il futuro per te?” e io rispondo: “L’uomo e la sua individualità, gli spazi che rendono possibili i mondi immaginari, in cui sarà possibile condividere i propri sforzi e scegliere quello che rende possibile I’autenticità senza i limiti delle epoche e senza appiattimenti. Ho una grande fiducia nell’uomo, perché fino a quando ci sarà qualcuno che pensa in modo diverso, ci saranno spazi per la trasformazione”.

Poi mi chiedono: “Che futuro prevedi con l’affacciarsi del Sud del mondo?” Rispondo: “Certamente il mondo ha bisogno del Sud perché Il Sud è solare, più caldo, più originale, più generoso. Le tecnologie ed il potenziamento dei mezzi di comunicazione saranno fondamentali. Si potrà lavorare dovunque ed immettere dati in uno spazio totale: lo spazio della comunicazione. Non sarà necessario spostare cervelli in scatola nel luoghi di sopravvivenza. Le nuove geografie saranno disegnate in base alle idee e non sugli spostamenti di persone”. lo sono fortemente convinto di questo, come sono profondamente convinto del coraggio dei protagonisti del prossimo futuro. L’unica speranza del locale all’interno di questa contraddittoria visione globale sta nella forza delle vostre idee e nel coraggio di perseverare nella vostra direzione.

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“...Anish Kapoor, che è considerato uno dei più grandi scultori viventi, sarebbe stato coinvolto, in questo progetto, insieme ad altri artisti ed architetti di fama mondiale...”

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te specializzazione finanziaria. Nell’ultimo decennio siamo cresciuti anche al di là della Puglia, con un disegno strategico definito e ben preciso, Così, primi in Italia, nel ’97 abbiamo lanciato il modello dei negozi finanziari in franchising, una formula distributiva per il panorama finanziario italiano, che ci ha consentito di penetrare in nuovi mercati senza grandi investimenti e, soprattutto, senza irrigidire eccessivamente la struttura. In seguito abbiamo imboccato per primi la strada della multicanalità attraverso il lancio di servizi telematici via telefono e Internet. In definitiva, i punti di forza di Banca 121 sono individuabili nell’orientamento all’innovazione tecnologica e distributiva, nella specializzazione finanziaria e nella personalizzazione del servizio, in una logica one-to-one che ha trovato nel nuovo marchio la sua definizione formale. Con queste evoluzioni abbiamo aperto le porte per l’ingresso in banca di un nuovo modello produttivo fondato sull’iniziativa personale, la creatività e l’intelligenza delle persone che ci lavorano. La struttura gerarchica si è appiattita e la conoscenza è diventata fattore distintivo anche per chi lavora in banca. Sono convinto che oggi la vera materia prima è il sapere, e che cresce chi riesce a trasferire nei processi produttivi la maggiore quantità possibile di conoscenza. Nelle aziende il turn-over cognitivo e lo skill-flow condizionano il cash-flow. In questa prospettiva Banca 121 ha avuto –ed ha– una grande opportunità. Ha potuto contare su un vero e proprio giacimento che il Sud possiede: mi riferisco ai giovani ad alta scolarizzazione e sempre più preparati ad affrontare il mondo del lavoro con grande determinazione. E mi riferisco non solo ai ragazzi che escono dalle facoltà scientifiche come Ingegneria, Informatica, Fisica, ma anche a chi si è specializzato in discipline umanistiche, come ad esempio Scienze della comunicazione, alle quali Internet sembra offrire nuove opportunità. Nel talento dei giovani, dunque, la banca ha trovato il lievito per la propria affermazione sul mercato. Nella nostra banca i giovani pugliesi hanno trovato e continuano a trovare un laboratorio privilegiato per la costruzione di un bagaglio di competenze distintive. Competenze alle Quaderno di COMUNICazione

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stato sostituito dal “click & mortar”, cioè dal fisico e virtuale che si integrano a vicenda. Ma si può operare in regime di New Economy in tanti modi, anche senza essere necessariamente un’azienda Internet “pura”. D’altra parte i mercati internazionali stanno già sgombrando il campo da alcuni equivoci. Le fortissime cadute registrate dai titoli delle dot.com in questi ultimi mesi sono la parte più evidente di un fenomeno di revisione critica della Net Economy, e ridimensionano il ruolo di Internet nel processo di sviluppo delle aziende. L’iniziativa odierna e il neologismo “glocal”, sempre più ricorrente, dimostrano che anche la contrapposizione fra i termini “locale” e “globale” è stata superata. La componente globale amplia gli orizzonti, quella locale approfondisce le conoscenze mirate. Insieme consentono di realizzare una vera integrazione tra tecnologia, business e cultura. Sono convinto che solo dalla capacità di realizzare un collegamento tra locale e globale nasce un’identità forte, capace di coniugare il radicamento dell’azienda in una tradizione culturale con la sua capacità di diffondersi su tutto il mercato. Si tratta di una vera e propria sfida, un percorso ad ostacoli che Banca 121 ha intrapreso alcuni anni fa. Oggi credo di poter dire che la storia della banca sia una fattiva dimostrazione di come ci si può proiettare in una dimensione nazionale ed internazionale restando pugliesi e salentini; di come si può pensare e agire in una dimensione globale mantenendo saldo il legame con la propria terra d’origine. Il “racconto dal luogo” di Banca 121 parte da lontano, da quel 1948 quando il ministro guardasigilli Giuseppe Grassi, in una terra in cui la via dello sviluppo era ancora tutta in salita, volle dare vita ad un nuovo istituto bancario, la Banca del Salento, appunto. Fu un’idea imprenditoriale importante, ispirata da una grande intuizione, da una profonda conoscenza della realtà locale, e soprattutto da tanta lungimiranza. Dopo aver operato solo nell’area jonico-salentina, negli anni ’80 la Banca del Salento, attraverso una politica di acquisizioni e fusioni con realtà bancarie contigue, si è caratterizzata come banca regionale a for-

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quali il mercato, in tutta Italia, guarda con straordinario interesse e mostra di apprezzare. È un’energia positiva che nasce nella banca e si diffonde nell’intero Salento. L’azienda innovativa, infatti, trasferisce al territorio in cui opera una testimonianza di successo economico che è anche etico, e forma professionalità esportabili anche in altri settori economici e in altre realtà geografiche. Produce insomma valore sociale. Un’ultima considerazione sollecitata dall’interessante discussione odierna. La creatività, l’intelligenza si possono meglio esprimere e capitalizzare in un ambiente strutturato. Internet è una grande innovazione, ma va vista in una logica di sistema e non solo quale strumento per esprimere in modo destrutturato la propria creatività. Il piccolo può essere bello a patto che faccia sistema.

edoardo winspeare il sangue del luogo

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Vi parlo della mia esperienza. I miei due film, specialmente l’ultimo “SANGUE VIVO”, è radicato nel Salento. Io mi chiamo Winspeare e non sono proprio salentino, però sono cresciuto in un paese che si chiama Depressa, a Capo di Leuca e mi considero salentino perché il mio sangue è intriso di questa cultura e parlo questa lingua. Questo mio essere salentino è stato una mia decisione: a casa parliamo varie lingue, perché mia madre non è italiana e mio padre è napoletano ma di origine inglese. La mia prima passione è il cinema e poi il Salento. Sono cresciuto qui fino a 14 anni, e a quell’età mi sono occupato di cinema facendo cortometraggi, fotografando moltissimo. Da 14 anni fino a 28 sono vissuto fuori. Ho fatto il Liceo a Firenze e poi sono partito per gli Stati Uniti. In Germania ho lavorato per la televisione tedesca, facevo documentari in tutto il mondo. In Russia, nel Sud America, Perù, Stati Uniti, Brasile…mi sono imbattuto in fenomeni di cultura popolare locale tipo: cafuera in Brasile, sincretismo pagano cattolico in Perù, sciamanesimo in Kazakistan. Nell’89 mi sono molto interessato al fenomeno del tarantismo

semplicemente perché conoscevo una tarantata e ho pensato di fare un film ma non sapevo niente di Mingossi, Carpitella e comunque sulla musica del tarantismo ma sono venuto qui ed ho contattato i professori dell’università di Lecce e ho scoperto che c’è una cultura, una bibliografia e che si era riflettuto sul tarantismo come elemento forte di questa terra e in quel momento mi sono ammalato di pizzica e di tarantismo. È mancata in me una riflessione critica; praticamente facevo le cose senza quei riferimenti culturali che ho scoperto dopo. Sono venuto qui nel ’92, ’93 con un gruppo di persone e abbiamo fatto moltissimi incontri, moltissime feste di pizzica che abbiamo chiamato “Il tempo della festa”. Alla fine saranno stati 200 incontri dove cercavamo di ricreare nel territorio l’idea della festa di paese, scrostandovi tutto ciò che fosse popolaresco, strapaesano, populistico. Noi stessi facevamo però qualcosa di populistico anche perché scrivevamo delle cose tipo “fate la pizzica e farete meglio l’amore”: cose davvero tremende però per noi era importante comunicare. Io in questi anni ho fatto anche altre cose, però la musica salentina, l’ossessione del ritmo della pizzica era un elemento tanto coinvolgente che l’ho poi ripreso anche nel secondo film, in cui ho toccato anche altri temi. Per me la pizzica era un punto d’inizio, una passione; era una maniera per entrare e tuffarmi nella cultura salentina, cercare di conoscere il maggior numero di realtà attraverso questa musica anche in opposizione ai giudizi della gente che giustamente affermava che nel Salento non c’era solo la pizzica. Ma io mi occupavo di questo. Comunque abbiamo fatto queste feste da cui è nato il progetto ”pizzicata” che è un progetto interessante in quanto è un film finanziato dalla televisione tedesca, dallo stato della Baviera e da una scuola di cinema di Monaco. Questo lo racconto perché io l’ho scritto in dialetto ed ero molto più estremo nel progetto rispetto a quello che era l’esecuzione del progetto stesso; era un film in bianco e nero e gli attori erano molto più “rustici”. Quindi questo progetto è stato finanziato dai tedeschi perché la cultura locale racconta molto del mondo ed è così anche per la Francia che è stata anche essa tra i finanziatori del film, mentre l’Italia come fi-

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prodotto. Avevo dei forti problemi di coscienza e dicevo loro: ”ci sediamo e riflettiamo: non dobbiamo comunicare tutto in due minuti”; dal punto di vista commerciale e quindi del successo è andata bene, dal punto di vista intellettuale e artistico ero molto deluso perché non si è mai parlato di cinema, non si è mai parlato di me, di sceneggiature ma il mio ufficio stampa mi diceva: ”non parlare per più di due minuti”. Questa è stata una grande lezione per me a livello di comunicazione, perché purtroppo quando uno entra in un giro tutto deve essere veloce. Io invece ho fatto un film per cui ci ho messo 4 anni, ne ho fatto un altro ci ho messo 3 anni quindi non controlli più niente e non controlli delle cose che per te sono sacre. Una cosa che ho notato in questi anni a proposito del territorio è che il cinema italiano si è spostato dal centro. Lo trovi a Napoli con Martone e Capuano; Palermo con Ciprì e Maresco; in Piemonte con Tavarelli, Mazzacurati (che è tornato a Padova) e poi per ultimi ci siamo noi pugliesi Piva, Winspeare; abbiamo notato che raccontando delle storie di provincia siamo meno provinciali di Roma Prati e comunichiamo più al mondo perché attingiamo a sentimenti comunque attaccati alla terra, antichi anche in chiave moderna. Per esempio ho raccontato fra l’altro la fratellanza, la fede attraverso la perdita di identità. Io riflettevo molto anche su quello che è successo in questi anni in Puglia e penso che questo sia dovuto ad uno spostamento dell’asse non tanto Nord-Sud ma Ovest-Est cioè una nuova frontiera che passa attraverso gli Appennini e vedo che ce n’è un’altra che passa attraverso Trieste, il Friuli, Venezia, la Romagna, Pescara e la Puglia ed è molto interessante, perché lavoriamo sull’asse adriatico non tanto perché ci siamo messi d’accordo ma perché succedono delle cose: il Kossovo, l’Albania, il Montenegro, e si è ricreata una via, quella verso l’Oriente, che è molto interessante. Mi interessa molto lavorare sul territorio e in progetto abbiamo la produzione di film: lungometraggi, documentari. Stiamo allacciando, con il mio socio Gustavo Caputo, vari legami anche con gli Stati Uniti. Io tengo molto alla salvaguardia del territorio ma dobbiamo anche pensare ad una struttura moderna, andare avanti. AvevaQuaderno di COMUNICazione

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gura statale è arrivata per ultima, però abbiamo ottenuto molto da imprenditori locali. Un centinaio di persone inizialmente ci ha dato soldi o cose; avevo una troupe di 40 persone che dovevo nutrire alla meno peggio, tipo surgelati. Era molto importante quello che succedeva perché avevo una troupe multietnica composta da 13 nazionalità diverse: dal truccatore americano al capo elettrricista ungherese. Tutto questo per una storia salentina. All’epoca ero molto fissato: era come se mi fossi innamorato di una donna a 18 anni, che trovavo bellissima, tornavo dalla Germania e per me tutto era sacro. Qui le donne erano stupende, gli uomini erano filosofi, ero come un viaggiatore tedesco dell’inizio dell’800, intriso di cultura classica, che s’innamorava e vedeva la classicità nella persone. Ho avuto anche difficoltà di vario genere per produrre “Pizzicata”. Quindi ho scritto insieme a Giorgia Cecere, anche consapevole dei miei limiti drammaturgici, il secondo film: “Sangue vivo” che è come un amore maturo perché ho imparato ad amarlo con tutti i suoi difetti. Questa mia prima esperienza con la pizzica è stata un’esperienza di comunicazione. Poi è successo qualcosa di stupendamente interessante perché solo molte persone di cultura diversa, di estrazione diversa, si occupavano di tarantismo e di pizzica incontrandosi e scontrandosi tra loro e da questo sono nate altre cose. Fino agli inizi degli anni ’90 tutto questo non esisteva, anzi ci si allontanava dalla cultura del paese. Era un momento di disordine che ha dato vita a “Pizzicata” e a “Sangue vivo”. Ora m’interessa molto portare i miei film all’estero e vedere come reagisce il pubblico e il mercato. Intanto posso raccontare quello che mi è successo negli Stati Uniti: sono stato per “Sangue vivo” al festival del “Cinema indipendente” (“Sundance”) che d’indipendente ormai non ha più niente, perché il mio produttore mi ha fornito di un agente, un avvocato, un ufficio stampa, due assistenti dell’ufficio stampa e un distributore americano. Abbiamo formalizzato il contratto per venderlo in tutto il mondo e quindi c’è stata una forte comunicazione dell’ufficio stampa e dei distributori su quello che è la cultura salentina, su quello che è la musica; e loro usavano me come io ho “usato” il Salento per commercializzare il

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mo un progetto non tanto di costruzione, ma di distruzione di alcuni edifici costruiti negli anni ’60/’70: volevamo fare una specie di enorme colletta distruggendoli con un’enorme festa fatta con fuochi d’artificio e pizzica per restituire al territorio la sua zona deturpata. E questo solo per dire che ci sono tanti progetti che andrebbero realizzati.

francesco spada il nuovo atlantide

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Sono felice di stare qui, oggi con voi. Ho anch’io due figli universitari che per loro scelta studiano altrove: Pierpaolo a Perugia, Scienze della comunicazione e Italo a Londra, Product Design al Central Saint Martins. Vi parlerò, quindi, di fughe e ritorni e poi nuovamente di fughe da questo territorio. Il mio attuale lavoro viene da lontano, la mia formazione artistico-culturale si sviluppa negli anni ’70 a Roma dove ho studiato pittura e scenografia e vi lascio immaginare il clima che si respirava in quel periodo. Sono stati, per me, anni di intenso impegno sociale, politico e artistico. Ho militato nel Movimento Pacifista Internazionale ed in altre organizzazioni giovanili di protesta. Esperienze forti che trasferivo nel mio fare artistico, che in qualche modo hanno contribuito assieme ad altri autori, a decontestualizzare tanto provincialismo radicato nelle aree del Mezzogiorno. Potrei elencarvi un lungo percorso di sogni, conquiste e sconfitte. Ritengo, comunque, che l’evoluzione del mio percorso di ricerca coincide con il primo ritorno nel Salento nel ’75. Periodo in cui inizio un lungo ciclo di studi e ricerche etno-antropologiche in tutto il Sud Italia e in alcuni paesi del Sud-Africa. Dovevo capire fino in fondo le ragioni della mia scelta di riappropriazione culturale, prima come uomo e poi come artista mediterraneo. Sono appunto di quegli anni le ricerche (con più media) sull’architettura popolare, i rituali magico-religiosi e un intenso lavoro di analisi visiva sulla cultura materiale e l’artigianato. Ricerche che mi porteranno ben presto ad avviare un nuovo approccio con la cultura del progetto. Il processo operativo del lavoro consisteva nella riappropriazione dei linguaggi archetipi, dei materiali e delle risorse

oggettuali dei diversi territori del Mediterraneo e per proporre una nuova lettura del materiale analizzato attraverso l’uso di più linguaggi visivi (fotografia-pittura-grafica….), decontestualizzando e attualizzando oggetti, e segni sotto forma di nuovi oggetti d’uso; utilizzando materie prime del territorio e coinvolgendo nella loro realizzazione piccole aziende artigiane. Questa è, in definitiva, la filosofia generale alla base della nascita dello studio Atlantide, che fonderò a metà degli anni ’80. Uno spazio di nuova progettualità interdisciplinare in un contenitore del ‘700 in pieno centro storico di Lecce (Palazzo Guarini). Atlantide accoglierà, per circa dieci anni, le aspirazioni ed i sogni di molti giovani autori creativi (pittori, grafici, illustratori, designers, poeti) sotto forma di laboratorio-officina con l’obiettivo primario di porsi come luogo di confronto e scambio tra il Mediterraneo e l’Occidente attraverso l’autoproduzione di collezioni limitate di design e la promozione di eventi pubblici legati al mondo delle arti. Molto intensa è stata anche l’attività di scambio progettuale con altre realtà simili in Italia e in Europa. Realizzare uno studio di progettazione globale vent’anni fa nel Salento vi assicuro che fu un’azione molto forte, che in qualche modo infastidiva l’eterna noia salentina, e che, nonostante tutto, diverrà ben presto luogo di servizi al territorio per le Istituzioni e per quelle aziende private che ci riconosceva, quanto meno, lo spirito di innovazione. Un mix di tradizione e sviluppo utilizzando nuovi linguaggi e nuovi media, materiali naturali che cominciavano a dialogare con quelli artificiali, proposte di nuova editoria giovanile, progettazione di nuovi spazi commerciali e di ritrovo, formazione di nuove figure professionali nell’ambito della comunicazione; erano queste le azioni che per un decennio lo Studio ha messo in campo. Un lavoro teorico e tangibile in un’area lontanissima dai “nuovi rumori” e dai nuovi linguaggi che si concretizzavano nel Nord-Italia ed in Europa. L’eco del nostro fare fu molto forte tanto che ci vennero proposte alcune azioni progettuali che andavano proprio nella direzione dello sviluppo socio-produttivo del territorio. Un esempio su tutti, il luogo lavoro realizzato

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del Nord-Africa essendo ricco di graffiti e iscrizioni rupestri risalenti all’età del bronzo, realizzati dalle prime popolazioni nomadi provenienti dal Mali che, in pratica, hanno edificato il Marocco. Houkaimeden sta a significare: “luogo di raccolta, di incontro”, infatti durante i mesi primaverili l’intera area diventa un grande pascolo, dove si concentrano tutte le popolazioni nomadi e berbere di quella parte dell’Atlante con tutta la loro pastorizia. Come si può intuire si tratta per gli abitanti dell’intera regione di uno spazio quasi sacro perché è qui l’origine del paese ed è qui che circa vent’anni fa il Ministero del Turismo cercò di edificare una grande struttura turistica per poter sfruttare la risorsa neve e dare nuovo impulso a tutta la regione. Il progetto iniziale si bloccò quasi sul nascere per una lunga serie di difficoltà, e l’unico segno che rimarrà per molti anni abbandonato sarà la grande carcassa in cemento armato a dimostrazione di un sogno non realizzato. Furono commessi, evidentemente, una serie di errori di ordine economico-organizzativo, ma soprattutto di ordine progettuale e di impatto paesaggistico. Il mio dialogo con lo Studio Associati diverrà sempre più serrato e mi impegnerà in pratica per più di due anni. L’idea di partecipare alla realizzazione di un’utopia in un Paese del Mediterraneo, che fosse anche un progetto tangibile di sviluppo integrato, mi dava una carica speciale. La carcassa in cemento fu messa all’asta dal Governo e fu acquistata da una Società alberghiera privata marocchina che ottenendo un finanziamento mirato per strutture turistiche, affidò l’incarico allo Studio Associati. Inizio così un lungo periodo di lavori preliminari che vide impegnato l’intero studio e decidemmo di perseguire tre linee guida. 1- Che l’approccio progettuale, risolti tutti gli aspetti tecnico-strutturali, doveva essere di tipo culturale, ossia, dovevamo partire dal patrimonio etno-antropologico del luogo ed esaltare tutte le caratteristiche storiche e ambientali. 2- Che bisognava coinvolgere come forza-lavoro in primo luogo le popolazioni che vivevano intorno all’Houkaiemeden. Quaderno di COMUNICazione

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intorno alle cave dismesse di pietra leccese nell’area di Cursi e Melpignano, un materiale ed un’economia che versava in totale stato di abbandono. Fummo così messi di fronte a nuove responsabilità e costretti ad evolvere ulteriormente le nostre specificità e il nostro ruolo di progettisti. Si trattava di innescare per la prima volta nuovi processi di approccio al progetto che erano non solo di natura estetico-culturale ma soprattutto strategico-commerciali. Dovevamo “bonificare” attraverso il design e la comunicazione un’area geografica di grande importanza storica e attualizzarla, riportando all’attenzione del mondo del progetto un materiale unico e tutte le sue potenzialità applicative. Il risultato di quel lavoro è sotto gli occhi di tutti. Ben presto le cavediscariche smisero di deturpare il paesaggio, furono creati nuovi laboratori, cooperative giovanili, consorzi di tutela, organizzate manifestazioni espositive di settore, progettati oggetti e collezioni di nuovi manufatti, coinvolti i maggiori designers italiani ed esposizioni nelle maggiori rassegne specializzate al mondo. Il racconto riferito all’attività di Atlantide si ferma qui, ma continuerò a parlarvi di tradizione e sviluppo, di viaggi, di utopie,di incontri e ancora di Mediterraneo. Da un incontro in Italia con l’architetto marocchino Karim El Achak vengo invitato a Marrakesh dallo Studio Associati dove conoscerò gli altri soci e collaboratori, i quali mi propongono di collaborare alla realizzazione di un progetto molto “ardito” per il loro Paese e per le difficili caratteristiche tecnico-ambientali che presentava. Si trattava di completare la realizzazione di un grande hotel sulle montagne dell’ATLANTE nella regione dell’Houkaimeden, 2400 m di altezza, dove esistevano alcuni modesti impianti sciistici. Cercate di immaginare un’area montuosa tra le più affascinanti di tutta la catena dell’Atlante, innevata quattro mesi all’anno e popolata, ancora, dalle più antiche popolazioni berbere del Marocco, organizzate in piccoli villaggi costruiti con pietre a secco. L’Houkaimeden rappresenta anche uno dei più antichi siti preistorici

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La realizzazione dell’”utopia” era stata avviata e non poteva esser fermata da niente e da nessuno. Ancora una volta tradizione sviluppo. L’idea che vi comunico è di non abbandonare i sogni!

piero manni la mia piccola editrice

La casa editrice alla quale collaboro è nata nel 1984. È sorta su una rivista di letteratura che si chiama “l’immaginazione”. Io avevo lavorato per una decina di anni presso una piccola casa editrice locale, Anna Grazia D’Oria, mia moglie, si è occupata di letteratura contemporanea. L’idea è nata dunque dalla mia esperienza in un’azienda territoriale e dalla passione di mia moglie per la letteratura. Attorno alla rivista “l’immaginazione” è sorta una rete di relazioni e di contatti che, intrecciandosi, quasi naturalmente sono sfociati nell’iniziativa editoriale. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare tutor intelligenti, i quali sono stati capaci di porci nel migliore dei modi il problema: tentare di radicarci con la nostra attività sul territorio o proiettarci da subito in una dimensione nazionale, che comprendesse anche la valorizzazione delle energie intellettuali locali. La scelta è stata decisamente questa seconda e tra l’altro la più faticosa e dura. Noi partivamo senza capitali, sia mia moglie che e io siamo degli insegnanti, e quindi non avevamo capitali da investire in questa attività. Questo era per noi un grosso handicap, una grossa difficoltà di partenza, cui si è aggiunto il fatto che, quando abbiamo incominciato a pubblicare libri, nel Salento e sul territorio non c’era nessun editore che si ponesse il problema di una circolazione nazionale dei propri libri. Ricordo Ennio Bonea, già docente di letteratura contemporanea dell’Ateneo leccese, studioso di problemi dell’organizzazione editoriale, che nelle sue rubriche, sui quotidiani o sulle televisioni locali rimproverava agli editori salentini di mancare di coraggio per lanciarsi sul mercato nazionale. Gli editori locali producevano cioè solo per il Salento. Noi invece abQuaderno di COMUNICazione

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3- Che bisognava ridisegnare complessivamente un’architettura leggera e utilizzare materie prime della montagna e coinvolgere le botteghe artigiane di Marrakesh per gli arredi. Arrivammo così a proporre ai nostri committenti un progetto un po’ “singolare” per gli standard del luogo ma, in definitiva, semplice e soprattutto molto “naturale”. L’immagine dell’Hotel si configurava come una sorta di grande tenda neo-berbera appoggiata sulla piana in mezzo alle montagne, utilizzando la pietra rossa recuperata dallo scavo della piscina, dei parcheggi e dei giardini pensili. Per gli interni proponemmo l’utilizzo di legno di cedro (profumato) e altri materiali tradizionali che vengono normalmente lavorati dagli straordinari artigiani di Marrakesh (mosaico, metalli vari, intrecci, pavimenti in mattoni di cemento colorato, ecc…). L’obiettivo era quello di creare una simbiosi forte tra interno ed esterno quasi da perdere il confine fisico-spaziale per introdursi naturalmente in uno spazio che esprimesse in maniera tangibile “un luogo d’origine” e di modernità allo stesso tempo, di forte impatto emotivo. Il tutto, tra l’altro, con un risparmio finanziario consistente, che mise il nostro amico-committente nelle condizioni di dover riflettere intensamente prima di un ok definitivo. Doveva dare il consenso a realizzare la prima struttura ricettiva organizzata sulla catena dell’Atlante con una destinazione d’uso inedita per quel Paese e per tutti gli altri del Nord-Africa, con una proposta progettuale “povera e naturale” realizzata con il 60% di forza-lavoro non specializzata. Una sfida ed una azione imprenditoriale mai sperimentata per un’architettura tra l’altro abbastanza grande (400 posti letto, nove piani, di cui tre sottoposti, una piscina scoperta ecc…). La Società Kenzì ci dette la benedizione e l’Hotel Louka è lì, realizzato a tempo di record sulla piana dell’Houkaimeden aperto estate ed inverno, molto frequentato e molto visitato per la sua unicità. Due anni di durissimo lavoro soprattutto nei mesi invernali con neve altissima ed un freddo implacabile, con un cantiere circondato da tende berbere e muniti di tanto coraggio per superare ogni tipo di difficoltà.

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una serie di persone che ci hanno dato fiducia investendo denaro, e oggi la casa editrice è strutturata in questa maniera: nel 2000 abbiamo avuto una produzione di 82-83 titoli, che sono moltissimi per una piccola organizzazione: significa un titolo ogni tre giorni, i primi dati di quest’anno ci danno per il 2001 una produzione di 150 libri, quasi un titolo ogni 2 giorni. Accanto alla produzione libraria abbiamo aperto un settore di progetti, cioè iniziative d’impatto culturale, per conto di enti locali, di comuni o anche aziende. Nella casa editrice, tra persone che lavorano a tempo pieno e con vari tipi di contratto, siamo 12-13 persone, grazie anche alle previdenze governative che ci hanno permesso di acquistare dei macchinari e quindi assumere ulteriore personale. Non so se avete un’idea di come sia organizzata una casa editrice, ma gran parte del lavoro produttivo in senso stretto viene fatto all’esterno. All’interno si tratta soprattutto di lavoro di coordinamento promozionale e organizzativo. Riusciamo a far quadrare i nostri bilanci avendo conseguito l’obiettivo di essere presenti in maniera organica sul mercato nazionale. Il professore Semeraro ha citato prima “Galassia Gutenberg” a Napoli, che è la mostra del libro più importante del Mezzogiorno. L’evento più importante in Italia è l’ex “salone del libro di Torino” che oggi si chiama “fiera del libro” e poi ce ne sono altre di minore rilievo. Galassia Gutenberg a Napoli si è svolta la settimana scorsa e per una serie di ragioni e anche coincidenze c’erano 12 nostri libri che venivano presentati in varie situazioni. Questa da una parte è una soddisfazione forte e dall’altra è una visibilità che si traduce in termini di vendita. Il nostro catalogo: abbiamo il pallino di presentare i libri non con delle presentazioni redazionali bensì con delle recensioni comparse sulla stampa, questo per segnare il forte riscontro di critica che abbiamo. L’ultima cosa è riguardo al rapporto con il territorio. Premetto che io sono salentino e ne sono orgoglioso, però abbiamo capito subito che se noi avessimo puntato la nostra attenzione prevalentemente sugli autori salentini, fuori dal Salento avrebbero commentato che per l’ennesima volta facevamo tutto in casa: scrivevamo i libri, li pubblicavamo, li criticavamo sui nostri giornali; così è facile diventare belli, importanti, grandi. Da subito ci siamo resi conto Quaderno di COMUNICazione

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biamo tentato di riuscire da subito ad arrivare in una rete di relazioni internazionali. Abbiamo pubblicato autori che non avevano legami con il Salento. Abbiamo inizialmente pubblicato soltanto letteratura, sia testi che saggistica. I nostri primi autori sono stati Paolo Volponi, Edoardo Sanguineti, Luigi Malerba, Francesco Leonetti, Elio Pagliarani. Questo ci ha consentito di avere immediatamente una visibilità sul piano nazionale. Ricordo un aneddoto divertente che riguarda il nostro primo libro, una “Antologia per la pace”, che uscì nell’aprile dell’85. Se ne parlò in un programma televisivo di altissimo ascolto, condotto dalla Bonaccorti. Fu letta una bellissima poesia di Edoardo Sanguineti il cui tema era la pace; gli ultimi versi recitano: “guerra alle guerre e guerra da andare, lotta di classe è la guerra da fare”, che la Bonaccorti pensò bene di censurare. Comunque c’è stata immediatamente questa visibilità forte a livello nazionale non solo su tutti i maggiori quotidiani nazionali ma anche sulle emittenti televisive. Una scelta di qualità dunque, che dal punto di vista dell’immagine ha pagato immediatamente. L’immagine non si traduce in produttività o in redditività. Al contrario ad un certo punto ci siam trovati di fronte a questo apparente paradosso: avevamo pubblicato libri che sono entrati subito anche nei manuali di letteratura italiana per le scuole, ma che erano quasi introvabili in libreria, perché non avevano una distribuzione nominale; abbiamo perciò circa sette, otto anni fa, lanciato un SOS: o troviamo una distribuzione o chiudiamo. La stampa (ricordo “Il Corriere della Sera”, “Repubblica”, “L’Unità”, “La Stampa”, “Il Sole”, tra gli altri) ci sostenne e, attraverso una serie di passaggi, risolvemmo questo problema della distribuzione. Abbiamo fatto tutto questo cammino e tutto questo lavoro essendo un’associazione culturale che produceva fino a quattro anni fa 15 libri all’anno, lavorandoci Anna Grazia D’Oria. Poi ad un certo punto abbiamo sentito la necessità di un salto di qualità organizzativo, perché al momento in cui si passa ad una distribuzione estesa a tutto il territorio nazionale si ha bisogno di certe cure e di una certa quantità di produzione; quindi di un fatturato che giustifichi, dal punto di vista della distribuzione, il fatto di tenere impegnate delle persone in quest’attività. Abbiamo costituito una s.r.l., coinvolgendo

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luigi barone un consorzio per l’innovazione tecnologica

Quando il prof. Semeraro mi chiese di partecipare a questo convegno per discutere del “glocal” e per raccontare l’esperienza del consorzio Cetma in questo contesto, mi sembrò cosa molto interessante, perché, al di là di quello che facciamo, la nostra storia stimola rlflessioni sulle interazioni che sussistono tra elementi locali, extralocali e globali. Il Cetma è un consorzio, un centro di ricerca, in cui si opera su molti e differenti settori, da quello relativo ai materiali avanzati a quello inerente i servizi di ingegneria, applicati questi alla medicina ed all’urbanistica. Quello che contraddistingue le nostre attività è il metodo di progettazione che si traduce in termini concreti, nell’utilizzo dell’informatica applicaQuaderno di COMUNICazione

ta ai settori dell’ingegneria, dell’industrla, della produzione. Ritengo di particolare interesse le riflessioni che possono sorgere dall’analisi delle modalità con cui questo centro è nato ed opera. Il Cetma è organizzato in quattro divisioni operative: la Divisione di Ingegneria dei Materiali e delle Strutture, quella di Ingegneria Informatica, la Divisione di Design, Grafica & Comunicazione e la Divisione di Servizi tecnici che si occupa di tecnologie web e di servizi CAD. Attualmente siamo impegnati su una ventina di progetti di ricerca, abbiamo in corso attività relative a servizi avanzati, ma la nostra vocazione principale, è fare ricerca nel settore delle metodologie di progettazione per implementarle nel campo dei materiali e dei servizi. Attualmente i soci del consorzio Cetma sono: l’ENEA, Ente per le Nuove Tecnologie, l’Energia e l’Ambiente, che è il socio di maggioranza, il CNRSM, Centro Nazionale per la Ricerca e lo Sviluppo dei Materiali, che opera all’interno del Parco scientifico di Brindisi dove è collocato anche il Cetma, che si occupa di ricerca sul materiale avanzato, l’Università di Lecce, l’Alfa Edile, azienda che si occupa del riciclaggio di materie plastiche, i cantieri navali Balsamo di Brindisi ed i cantieri navali Rodriguez di Messina, la società di ingegneria D’ Appolonia di Genova, l’azienda orafa Gerardo Sacco di Crotone, la Frigoservice di Crotone, la società Infobyte, leader in campo nazionale ed internazionale nelle tecnologie di realtà virtuale, la azienda Telcom di Ostuni, seconda al mondo, dopo la Fisher Price americana, per la tecnologia dello stampaggio rotazionale. Il panorama dei soci è quindi molto variegato. Il Cetma nasce su progetto presentato dall’Enea alla Comunità Europea nell’ambito di un programma comunitario che puntava ad innalzare le potenzialità tecnologiche delle regioni meridionali. Organizzare un laboratorio sui metodi di progettazione con materiali avanzati per favorire il trasferimento di queste tecnologie nel Mezzogiorno, lì dove non c’erano aziende che di servizi e di materiali avanzati avevano bisogno, risultava altamente problematico. Il progetto Cetma fu approvato con il vincolo di realizzare una struttura che nell’arco di tre anni fosse capace di essere autosufficiente, senza aiuti economici da Quaderno di COMUNICazione

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che se volevamo aumentare la tenuta della nostra produzione anche letteraria dovevamo confrontarci e scontrarci con le punte alte dell’elaborazione e della ricerca in Italia. Infatti qualche autore salentino che abbiamo pubblicato all’interno di questo confronto è andato poi nelle antologie nazionali. Non è facile il nostro rapporto con il territorio. Il fatto di fare un discorso rigoroso, il fatto di non volere inserire nel nostro catalogo tutti gli autori salentini che ce lo propongono, comporta delle complicazioni nei rapporti locali. La produzione si è intanto diversificata: dalla letteratura siamo passati alla saggistica storica, pedagogica e sociale e anche all’instant book. Abbiamo fatto delle incursioni in questo campo e siamo arrivati a tirature di 25 mila copie. Io credo, in conclusione, che siamo riusciti a coniugare la nostra identità salentina, la voglia di valorizzare il territorio con un allargamento degli orizzonti geografici e culturali, che siamo riusciti a guardare al globale tenendo i piedi ben radicati nel locale. Naturalmente sappiamo benissimo che quel minimo di risultati che abbiamo raggiunto è soltanto un punto di partenza.

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tendenza ad uscire dalla propria torre d’avorio per acquisire maggiore consapevolezza dei problemi propri delle aziende. È importante anche evidenziare l’apetto relativo a metodologie operative del consorzio. Tutto il personale operante all’interno del consorzio Cetma, circa quarantacinque persone, è distaccato dai soci. Agli stessi, è stato chiesto di investire in capitale umano piuttosto che in risorse finanziarie utili per alimentare il funzionamento del consorzio. Lo scopo è quello di promuovere la formazione di personale nel settore delle tecnologie avanzate. Nei laboratori Cetma si sono fonnate persone che sono diventate responsabili di progetti di impresa, e, tra gli esperti in Internet, anche l’attuale responsabile Internet del Vaticano. La Gerardo Sacco, sulla base di questa esperienza, ha cominciato ad attuare, presso Crotone dove ha sede, una iniziativa simile. La forma istituzionale scelta dal consorzio Cetma ha permesso di essere a metà tra il raggruppamento temporaneo e la società. Infatti ogni nostra attività è svolta per il 50% presso la sede di Brindisi, mentre l’altro 50% è svolto dai soci. In questa maniera anche le piccole e medie imprese hanno la possibilità di svolgere attività di ricerca. La struttura “a rete”, cui abbiamo accennato ha permesso quindi la circolazione di know-how e competenze tra aziende del nord (Genova) e professionalità in loco; si stanno quindi creando quelle conoscenze utili alle aziende stesse ed all’eliminazione delle distanze tra ricerca di base e ricerca applicata. Il consorzio fornisce quindi un servizio aIle imprese trasferendo innovazione, accesso all’informazione, circolazione del know-how scientifico, formazione e collaborazione tra ricercatori universitari e realtà aziendale. In questo contesto, caratterizzato dalla de-fisicità delle attività e dalla tecnologia dell’informazione, il concetto di “locale” lascia il posto a quello di “glocale”.

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parte dello Stato. Il Consorzio Cetma quindi, rapprescnta una grossa scommessa, un importante esperimento socio-economico, in un territorio in cui il tessuto aziendale è poco attento alla ricerca su materiali avanzati ed al trasferimento di teonologie. La capacità richiesta al consorzio fu quella di sapere creare e gestire una struttura, di formare competenze, durante e nel dopo-progetto. Per formare la “rete” consortile risultò necessario contattare aziende, sul tessuto locale ma anche sul territorio nazionale e strutture formative, quali l’Università di Lecce. Tra le aziende furono selezionate quelle che svolgevano attività complementari alla nostra, come la D’AppoIonia, società di ingegneria che poteva fornire competenza utile per affrontare problemi dì industrializzazione delle nostre attività, i cantieri navali per competenze nel settore nautico, l’ Alfa Edile per le competenze acquisite nel settore del riciclaggio dei materiali, altre aziende, sempre meridionali per la diffusione di Know-how nel settore del design. ln effetti quello che stavamo facendo, forse anche senza rendercene conto, era implementare quella che oggi si potrebbe definire una impresa “a rete”, ossia una struttura orizzontale basata su collaborazioni tra imprese, il cui punto di forza sta nell’aprire a partecipazioni che travalicano ambiti fisici e riguardano piuttosto contesti ‘globali’. La forma di questa struttura è stata quella del consorzio, una specie di super-impresa, in cui concentrare tutte le attività di ricerca di interesse per i soci. Una riflessione ulteriore è che tutto ciò ha prodotto una fertilizzazione incrociata sul piano economico e su quello strettamente culturale; infatti, l’aver messo insieme più soggetti ed oggetti, ci ha permesso di avere una crescita in questi campi, di acquisire esperienza nell’interazione a lungo termine tra gli interessi del privato e quelli del pubblico, di incrementare il valore aggiunto dovuto all’integrazione di competenze e risorse. Il risultato che abbiamo ottenuto è duplice: una maggiore apertura da parte delle aziende che guardano con più attenzione alle attività di ricerca ed investono costantemente nell’assunzione di nuovi ricercatori che distaccano presso il consorzio, e da parte del mondo della ricerca, la

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pantaleo pagliula un consorzio per l’abbigliamento

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Subito dopo, approfittando delle interessanti aperture apportate dalla Perestroika mi sono trasferito a Mosca per poter verificare le possibilità che i nostri prodotti avevano di entrare in questo mercato e soprattutto capire le strade giuste per vendere e iniziare a produrre. La strada meno difficoltosa e maggiormente favorita dalle leggi sovietiche sembrò subito quella di operare costituendo una società mista con il Comune di Mosca e una Cooperativa Russa che aveva come primo obiettivo l’apertura di negozi al dettaglio e una fabbrica per la produzione di jeans. La fascia di mercato era quella medio-alta e cominciammo a portare a Mosca capi di abbigliamento per uomo, donna e bambino di perfetto stile e qualità italiana più accessibili come prezzo rispetto alle grandi firme e rivolti a una clientela formata dai “nuovi ricchi” frutto della ripresa economica dell’allora Stato Sovietico. La Società fu chiamata “Salentini”, i negozi furono progettati e arredati da professionisti italiani e persino i materiali impiegati furono trasferiti dall’Italia. La società mista “Salentini” era per il 65% italiana e rappresentava il primo accordo con i Sovietici nel settore dell’abbigliamento da parte di un pool di piccole e medie imprese Salentine che seguivano dopo pochi mesi le prime grosse firme italiane e francesi (Benetton, Nora Ricci, ecc.). Noi avevamo bisogno di nuovi mercati e loro di tecnologia, professionalità e occupazione e lo spirito preponderante che ci teneva uniti era la voglia di crescere insieme, l’entusiasmo e la nostra comune natura di piccole e medie imprese. Gli operai e i dipendenti russi fecero la loro formazione professionale a Matino, furono inviati i macchinari a Mosca e nei negozi si vendeva in rubli e valuta. Ricordo che per mesi vicino ai nostri negozi c’era sempre una piccola folla sopratutto di ragazze chc veniva per acquistare e che non si stancava mai di ammirare i vestiti e i jeans esposti. Questa strardinaria avventura è durata per oltre due anni; poi la Perestrojka è fallita, le riforme che garantivano gli investimenti stranieri sono rimaste soltanto sulla carta e avevamo enormi difficoltà a cambiare i rubli in valuta e poi a trasferirla in Italia. Quaderno di COMUNICazione

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Rappresento un Consorzio di imprese al quale aderiscono, in qualità di soci, 33 aziende della Provincia di Lecce operanti nel settore dell’abbigliamento, delle calze e delle cravatte. Come ben si conosce, il tessile-abbigliamento nel Salento è il settore che dà più occupazione, ha un saldo attivo per l’esportazione vivendo pienamente la globalizzazione e senz’altro anche nei prossimi anni legherà il suo destino a quello economico ed occupazionale della nostra terra. Mi considero un artigiano della comunicazione e un pioniere della globalizzazione e cercherò di illustrarvi, in questo breve intervento, le reali motivazioni che mi inducono a sottolineare queste mie osservazioni. Sono un ingegnere nucleare entrato dopo qualche mese dalla laurea “in crisi di identità” quando in Italia si decise di non costruire più centrali nucleari e la mia reale esperienza di vita e di lavoro la debbo alla mia passione per viaggiare e conoscere la storia, le tradizioni e il modo di vivere dei popoli di tutto il mondo. Mi considero fortunato perché sono riuscito nella mia vita a fare prevalere questa mia passione rispetto al lavoro per il quale avevo studiato e che dopo ho concretizzato trovando un equilibrio tra questa mia grande passione e un lavoro che mi permettesse di vivere adeguatamente. La mia esperienza verso la globalizzazione è iniziata nel 1985 quando mi sono presentato al titolare di una grossa azienda che produceva jeans e gli ho proposto di partecipare a una cordata di imprenditori salentini per uno scambio compensativo con l’Ungheria di 100.000 dollari di nostri prodotti promosso dalle relative Camere di Commercio. L’esperienza risultò positiva sopratutto per i nostri prodotti dell’abbigliamento che si vendettero nel giro di un mese a Budapest e ci permisero di aprire nel centro di questa città un negozio di prodotti “made in Salento” permettendo di farci conoscere sempre di più e di operare bene per almeno due anni.

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Le aziende attualmente aderenti al Consorzio sono tutte piccole e medie imprese della Provincia di Lecce che operano nei Comuni di Melissano, Racale, Nardò, Casarano, Acquarica, Galatone, Matino, Corsano, Tiggiano e Alessano. Hanno complessivamente oltre 1500 addetti con almeno 300 miliardi di fatturato aggregato. Producono soprattutto capi di maglieria tagliata per uomo, donna e bambino, calze uomo classiche e sportive, cravatte e ultimamente capispalla lunghi e corti per donna. Alcune delle aziende aderenti hanno un proprio marchio (Megatex, Leosport, Adrian Calze, Ala, Bas, The King, Le Sete di Ottonucel) ed esportano soprattutto nel Nord Europa e in altre parti del mondo. Il Consorzio risponde alle domande dei suoi associati in termini di rappresentanza e servizi tradizionali (promozione all’esportazione, attività economiche formazione professionale, ricerca, fisco, clienti, ecc.) ed innovativi (Patti territoriali, accordi di programma, distretti industriali, ecc). Tutto questo attraverso lo sviluppo di una imprenditorialità sociale ed economica che tende a dare contenuto a quelle funzioni di rappresentanza che l’imprenditore non può sviluppare a causa delle dimensioni della sua azienda e per la sua natura aziendale che non riesce ad adeguare. Il Consorzio supporta i propri associati ed è diventato un soggetto capace di attrarre nuove imprese del settore e dialogare e confrontarsi nella massima autonomia con le istituzioni e il territorio. Adesso il C.O.P.A.C. è vissuto e percepito dagli associati come un datore di servizi tradizionali ed innovativi che apprezzano per il costo e per la qualità. Nella mia attività di responsabile del Consorzio tengo costantemente presente che l’associato, come persona, ha bisogno costantemente di essere tutelato avendo investito tempo e risorse di una vita nella sua impresa e quindi ha tutto il diritto di chiedere di essere supportato nella difesa di quello che questa attività gli ha garantito fino ad oggi ed è legittimo che voglia adeguate garanzie per il suo futuro e per quello del suo nucleo famigliare. La nostra sfida è quella di concepire i servizi alla persona come supporto all’imprenditore nella sua difficile sfida con il contesto in cui opera Quaderno di COMUNICazione

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Subito dopo è iniziata l’egemonia della mafia russa e quindi siamo stati costretti a lasciare tutto quello che avevamo realizzato e a tornare in Italia. La caparbietà e l’entusiasmo di un gruppo di piccole e medie imprese Salentine lasciate completamente a se stesse non poteva vincere la sfida con le grosse multinazionali, con la mancanza di punti di riferimento economici e legislativi precisi e con il governo assoluto della mafia russa. Da qualche anno nei paesi del Nord Est le piccole e medie imprese entrano in questi mercati facendo lavoro di squadra con le Camere di Commercio, le banche, gli Enti Pubblici e dopo aver fatto adeguate ricerche di marketing. Tenendo da operatore del settore sotto gli occhi la realtà di molte nostre aziende sono convinto che anche quell’atto di coraggio e di passione è servito per l’emancipazione e la globalizzazione del nostro contesto produttivo. Adesso la maggior parte delle aziende salentine che hanno una propria personalità e un marchio proprio esportano in tutto il mondo. I nostri capi di abbigliamento, le nostre calze e le nostre cravatte si vendono nel Nord Europa, nel Canada, nel Giappone e tanti altri paesi del Mondo. Gli imprenditori salentini, prendono la loro valigetta con dentro la loro campionatura e girano il mondo facendosi “sul campo” la loro esperienza e rinnovando alle luci del secondo millennio lo spirito di pace e di fratellanza dei Pugliesi, antico popolo di mercanti che nei secoli passati sono stati portatori di messaggi verso i paesi di tutte le sponde del Mediterraneo. Questo mare e tutti i paesi che si affacciano devono essere nel futuro il nostro mercato e noi dobbiamo essere il ponte dell’Europa verso questi popoli. Tre anni fa insieme con le aziende più significative del settore tessile abbigliamento abbiamo fatto nascere un Consorzio compiendo un altro atto di coraggio contro una cultura avversa a qualsiasi forma di associazionismo e mutualità.

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stefano cristante l’agire mercuriale

La saggistica nazionale non ha mai brillato nel campo delle nuove tecnologie della comunicazione. Gli studiosi italiani all’estero sono poco tradotti e poco inseriti nelle bibliografie internazionali di settore, quasi sempre a ragione. Ma ci sono anche delle eccezioni. Nel 2000 l’editoria italiana ha presentato tre saggi importanti. Si tratta di Incantanti dalla rete di Carlo Formenti (Raffaello Cortina editore), di Il distretto del piacere di Aldo Bonomi (Bollati Boringhieri) e di New Economy, la grande truffa di Alberto Abruzzese (Luca Sossella editore). Visto che abbiamo la possibilità di interloquire con i tre

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autori, può essere utile una loro presentazione attraverso questi testi, in modo da aumentare l’interattività dell’incontro. Il saggio di Carlo Formenti è su Internet, ma non si limita ad analizzare, come fanno molti, il fenomeno tecnologico giunto rapidamente a maturazione di massa dopo il trattamento comunitario degli standard da parte dei dipartimenti universitari nordamericani, che ha reso possibile consegnare al mercato un nuovo, decisivo simulmondo. Formenti ha sempre operato su tematiche strategiche: si è occupato di valore d’uso, di apocalissi, di rappresentazioni iconiche della tarda modernità. Concepito inizialmente come un ipertesto, Incantati dalla rete è sfuggito dalle mani del ricercatore di rete e ha costretto il navigatore a cercare una nuova sintesi nella scrittura. Il testo che ne consegue è orientato a trattare sul serio le culture che hanno prima generato e poi gestito la rete, e che infine stanno competendo con un mercato globale che non ha regole diverse da quelle del tradizionale profitto capitalistico. Le grandi narrazioni non ci sono più: si sono smarrite quelle religiose, quelle politiche, quelle filosofiche, quelle sociologiche. La narrazione che ha bypassato la fine del millennio e straborda nel nuovo è la tecnoscienza, che si esprime assai bene anche nella letteratura fantascientifica visionaria, da Philip Dick a William Gibson. Formenti chiude il suo saggio con queste frasi: “Non mi illudo certo che questo lavoro possa servire a “demistificare” il mito della rete. (...) Sono infatti convinto che vivere e pensare il nostro tempo significhi vivere e pensare dentro e con questo mito. Non è tuttavia indifferente il come: viverlo con ironica consapevolezza e distacco critico non è la stessa cosa che lasciarsi abbagliare dalla sua “numinosità”. Ecco perché, come il lettore avrà intuito, queste pagine esprimono un sentimento di empatia nei confronti delle modalità più eccentriche ed eretiche di rendere omaggio alle nuove divinità elettroniche”. Aldo Bonomi lavora su un altro versante della transizione in atto. Il distretto del piacere, titolo del suo testo, è anche oggetto di ricerca: da Verona a Riccione, passando per Venezia e Bologna, l’area dell’imprenditoria connessa con i nuovi settori del divertimento produce una Quaderno di COMUNICazione

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fornendogli strumenti per una sempre efficace gestione strategica ed operativa dell’impresa. Insomma cerchiamo di dare all’imprenditore un punto di certezza che il sistema in cui vive non gli ha adeguatamente garantito. Il compito fondamentale del Consorzio è quello di conquistare il suo spazio economico e politico, dove per spazio economico si intende la capacità intrinseca di produrre alle aziende risultati positivi e valori e per spazio politico la capacità di essere protagonista del sociale e nella contrattazione commerciale. Lo sviluppo di una logica soprattutto progettuale, concreta e visibile nel territorio deve essere vista in una logica di alleanze e valorizzazione delle risorse che alimentino la possibilità di ricomporre visioni divergenti soprattutto nei momenti di confronto sulle politiche programmatorie del territorio regionale e provinciale. Per fare tutto questo è anche indispensabile entrare in una visione di sviluppo di servizi a rete e gestione di progetti che immettano soprattutto figure professionali locali collaborando con soggetti e competenze non presenti nel territorio in una aperta e concreta cultura della globalizzazione. Tutto questo tenendo sempre chiaro di non perdere la propria autonomia di Consorzio promosso e voluto dalle imprese in una dialettica costruttiva con il territorio in cui viviamo.

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mincia ad assomigliare a quella del mercato tradizionale. Così le promesse utopiche dei primi teorici della rete cadono una ad una, mentre l’espressione new economy connota l’epoca respingendola verso una normalizzazione dei valori d’uso, tradotti invariabilmente in valori di scambio. Più pesanti, perché globalizzati. Oppure –medialmente– sotto gli occhi di tutti, come l’estendersi delle ineguaglianze e la nascita degli analfabetismi informatici. Bene. Come entriamo noi, questa università, il corso di laurea in scienze della comunicazione, in tutto questo insieme di stimolanti osservazioni sul presente? In vari modi, credo. Innanzitutto registrando un ritardo complessivo del Salento nella diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione, ritardo che sembra però colmabile anche attraverso l’istituzione del nostro corso di laurea. Poi perché questa terra (che conosco da poco e che mi ha fatto lo stesso effetto che ha fatto a molti docenti forestieri –cioè mi ha affascinato e continua a farlo per un numero notevole di fattori) ha il dovere di ripensarsi rispetto al modello postindustriale che emerge dal presente tecnologico e comunicativo. In questo senso la presentazione di una parte significativa delle creatività locali è un indicatore della ricerca di eccellenza che deve essere compiuta da qualsiasi “locale” che intenda mettersi in gioco nella dimensione globale. Non sempre, va detto, i più veloci a percepire le trasformazioni in atto puntano su una scena locale diversificata e plurale. Ci sono anche nel nostro territorio piccoli oligopoli che, ottimizzando spregiudicatezza e bassi compensi agli operatori, costruiscono reti autoreferenziali di comunicazione. Spesso “chiavi in mano”. Lo dico banalmente: vanno liberate più energie di quelle presenti attualmente sul territorio, e che in realtà sono sotterranee, e non assenti. Per evitare una ciclica microfuga di energie e cervelli dal Salento bisogna che le istituzioni sappiano investire dinamicamente e individuare risorse strategiche. I beni ci sono tutti: il territorio stesso, le sue grandi tradizioni culturali, la sua posizione nel Mediterraneo. E i giovani, che abitano la città più di qualsiasi altra categoria professionale. Quaderno di COMUNICazione

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revisione del concetto di tempo libero (loisir) e libera energie tecnologiche di avanguardia. Per reggere la gestione di Gardaland, di Acquafun ma anche del centro storico di Venezia, bisogna aver maturato un’organizzazione postindustriale adeguata, incoraggiato nuove figure professionali, dato vita a sintesi di tecnologia e immaginazione creativa. È un altro versante della crisi e del superamento del fordismo, pilastro del management di quasi un secolo di economie, di conflitti, di battaglie sindacali e culturali. La società, anche in assenza di politica, si è spostata verso dispositivi flessibili, più propriamente metamorfici. L’estetica, l’arte e la paesaggistica non sono valore aggiunto di un paese altamente industrializzato e sistemato in mezzo ai flussi geopolitici del Mediterraneo: ne sono piuttosto l’essenza, il contenuto fondativo. Su cui occorre praticare un metodo, anche sociologico, di analisi e di organizzazione. E la creazione di contenuti ludici e cognitivi (insieme) è l’orizzonte del glocal, la chiave di una sfida che punta alla valorizzazione strategica del territorio sapendolo “globalizzabile”. I nostri contenuti (il Salento, per esempio), in assenza di intelligenza collettiva nella gestione, potrebbero essere svenduti planetariamente. Diventare inutili oggetti di massa provvisori, esposti ai sempre mutevoli indirizzi delle mode. Infine il testo di Abruzzese. L’autore ci racconta, con rapida scrittura pamphlettistica, un’ipotesi che sembra diventare realtà. Ad Abruzzese non si può certo rimproverare mancanza di entusiasmo riguardo alle nuove tecnologie della comunicazione. Anzi, anche in questo volumetto egli ricostruisce i passaggi mutanti indotti dalla telematica e dai new media, con il loro potenziale di liberazione dalla società di massa che ha rappresentato il Novecento. Riconosce nella diversità dell’invenzione creativa dei gruppi che hanno scalato il Nasdaq una novità significativa. Mette in fila lo spettro delle emozioni manageriali che hanno tenuto lontano il mercato delle grandi multinazionali da Internet per un fondamentale quinquennio (1990-1995). Ma ora la situazione sembra cambiata. L’obbligatorietà del sito Internet per ogni azienda che si rispetti non aggiunge molto al fordismo, in verità. Quando i colossi industriali entrano in rete succede però qualcosa di grave: la gestione del cyberspazio co-

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La nostra università e il nostro corso di laurea in particolare dovrebbero essere in grado di agire in modo mercuriale: agile, snello, veloce, intelligente. Rispettando la complessità del territorio e cogliendo nelle nuove tecnologie della comunicazione una chance strategica per l’affermazione di un modello glocale ad alto tasso di qualità di vita. E la prima qualità di un territorio è l’attenzione alla formazione: i frutti di questa presa di consapevolezza potrebbero essere assai più rapidi a maturare di quanto oggi non si immagini.

aldo bonomi l’altra faccia della new economy

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La prima sensazione che intendo comunicarvi è quella di disagio. A differenza di tutti coloro che sono intervenuti sino ad ora, connotati da una identità locale a tutto tondo, sono una persona che non sa rispondere in maniera certa a due domande. La prima è relativa al: dove abito? Per me rispondere è problematico. Mi ritengo nomade dal punto di vista professionale, non so mai se dire se abito a Roma, a Milano o in Valtellina. Quest’ultima è la mia comunità d’origine. La seconda questione rimanda al fatto di sentire un’identità “locale” molto debole, in crisi, cui si accompagna una sensazione di imbarazzo nel commentare i tre casi che ho ascoltato nella mattinata. Il banchiere molto aggressivo che afferma di rappresentare il solo ente economico in grado di interconnettere locale e globale; il regista che ha ricondotto a sintesi interiore il suo essere a cavallo tra local e global generation; l’imprenditore che afferma di essere partito dalle proprie radici, riuscendo a fare contaminazione con altri amici per costruire un manufatto innovativo. Il mio secondo imbarazzo attiene al mio essere sociologo del racconto. Credo che dobbiamo tener presente due questioni quando parliamo della dimensione dell’uomo: la prima è quella che il mio amico Cacciari

chiama “ontologico destino dell’essere”, lo spaesamento. La sciagura, cioè, che ci portiamo dietro, come esseri umani, di rimanere letteralmente senza paese, senza comunità ordinaria. La modernità è la distruzione della comunità. Per usare la metafora del seminario il “glocal” è ciò che si mette tra il locale e il globale. È ciò che sta in mezzo tra l’ontologico destino dello spaesamento e la grande voglia di radicamento. Il glocal è un pensiero, non forte, ma ben moderato, oscillante tra spaesamento e radicamento. Ma è anche una forma sincretica, quasi schizofrenica. Credo che tutti noi siamo un po’ sincretici e schizofrenici, tra spaesamento e radicamento. Una ulteriore categoria dell’ontologico destino dello spaesamento è quella dell’apocalisse culturale. Per dirla alla de Martino (antropologo italiano misconosciuto) l’apocalisse culturale costituisce la fine del mondo cui eravamo abituati, rappresenta la difficoltà a ritrovarsi in situazioni quali la perdita della presenza, del legame sociale, per dirla con Braudel: la perdita della propria ombra. Il soggetto che smarrisce la propria ombra, perde lentamente la propria identità. Credo che oggi noi viviamo in un’epoca che richiama l’apocalisse culturale, tra ciò che non è più e ciò che non è ancora. In questo senso il glocal dell’apocalisse culturale è la sospensione tra ciò che è non è più e ciò che non è ancora. Ernesto de Martino ha utilizzato questa categoria antropologica per studiare le dinamiche della piccola comunità, partendo dalle rappresentazioni del folklore. Ci sono parti che riguardano tutta la Puglia che vanno in questa direzione. L’apocalisse culturale di cui parla de Martino si è manifestata nel passaggio dalla civiltà agricola a quella del capitalismo urbano-industriale. Un fenomeno che ha attaccato e distrutto la famiglia patriarcale, luogo d’origine della società. A quell’epoca cambia la percezione del tempo, cambiano i valori che creano legame sociale. Oggi credo che sia opportuno usare la categoria dell’apocalisse cul-

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Qui ho visto al lavoro l’altra faccia della new economy, che prende significato dalla capacità di trattare i desideri degli uomini. Una new economy territorializzata in grado di capire quali sono i desideri del consumatore, per poi trattenerli e trasformarli in informazioni da immettere sulla rete. Il quarto luogo che ho osservato è il Salento. Occupandomi negli ultimi dieci anni delle problematiche dei patti territoriali, ho seguito anche quelli riguardanti la provincia di Lecce. Il patto territoriale voleva essere il tentativo di costruire artificialmente la comunità economica, in una dimensione in cui lo sviluppo locale era sempre stato negato. Tutti aspettavano che lo sviluppo arrivasse attraverso l’evento: la grande impresa che veniva dal Nord. Il patto invece si poneva l’obiettivo di costruire artificialmente una dimensione di comunità economica in cui i tanti imprenditori locali, gli artigiani, imparassero a dialogare con il sindaco, questi a loro volta si mettessero in rapporto con le banche e le università. Per trovare un equilibrio tra globale e locale è necessaria, dunque, la costruzione di un processo artificiale come questo, in modo da formare una rete di territorio locale che dialoghi con il globale. Non nascondo alcune incertezze, che derivano da recenti segnali, relativamente alle forme di conflitto tra locale e globale. Non so se il glocal, che sta tra queste due dimensioni, sia sufficiente. Nella mia Valtellina, ad esempio, lo spaesamento produce un conflitto tra due soggetti: da una parte coloro che rimangono ancorati in maniera rancorosa e scavano nella loro identità di montanari, dall’altra gli innovatori dall’alto rappresentati da tre soggetti: - gli operatori del distretto dell’intrattenimento, che arrivano sul territorio affermando che occorre costruire alberghi e piste sciistiche come unica modalità per fare economia di scala; - le banche locali ed i “padroni dell’acqua”, quali Enel e Aem. Seconda forma di conflitto si manifesta nelle aree urbane, nella nuova composizione sociale al lavoro. Si tratta di una forma di conflitto tra chi sta nelle reti corte e chi invece opera in quelle lunghe. Quaderno di COMUNICazione

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turale perché siamo nella stessa situazione, stiamo abbandonando infatti, il modello fordista per andare verso quello postfordista. Stiamo abbandonando il capitalismo nazionale per andare verso quello globale, l’identità nazionale per quella europea. Siamo dunque in una fase di grande cambiamento. Come precipitano questi grandi scenari di riflessione, l’ontologico spaesamento e l’apocalisse culturale, nei luoghi? Per rispondere a questo interrogativo, faccio un commento partendo dalla mia esperienza. Sono un valtellinese, provengo infatti, da una piccola vallata alpina, che ho visto materialmente venire avanti. Ho visto lo spaesamento nel volto di mia madre che lentamente interrogava il figlio che aveva studiato sui motivi per cui non c’erano più l’ufficio postale, dove ritirare la pensione, l’ospedale e la scuola. Bisogna tenere presente che essere senza paese significa rimanere senza luoghi comunitari. I tre luoghi-micro, l’ufficio postale, l’ospedale e la scuola, erano luoghi in cui lentamente la comunità intesseva relazioni. Oggi nel fondovalle vengono avanti la dimensione degli ipermercati, del consumo, delle grandi industrie del turismo, che hanno modernizzato tutto. Questo spaesamento in un’area come la Valtellina, ha prodotto rancori. Da questi fenomeni è nata quell’invenzione della tradizione che ha quotato al mercato della politica la dimensione territoriale, affermando che la nostra identità è quella di essere locali, diversi dagli altri. Secondo luogo da osservare è Milano dove il fenomeno dello spaesamento è diffuso ed evidente. In passato Milano si è presentata attraverso il proprio modello produttivo ed il racconto della classe operaia. Oggi invece è caratterizzata da figure nomadi e multiattive. Nomadi nel senso di essere al lavoro in forma individuale, non più in forma collettiva. Non condividere più il modo in cui lavorare insieme a tanti è una forma di spaesamento. Essere nomadi significa che il racconto è individuale e non collettivo, non esiste più un solo luogo dove lavorare ma più luoghi. “Multiattivo” si riferisce al fatto che il lavoratore svolge più attività. Un terzo luogo che ho osservato è quello che ho definito il “distretto del piacere”.

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duttivo fordista c’erano le centrali elettriche e le imprese. Sappiamo che oggi, dire Enel o Aem significa parlare di reti elettriche degli utenti funzionali alla nuova economia. Per risolvere il problema bisogna fare cooperazione e contaminazione con la modernità e quindi capire, allo stesso tempo, l’innovatore dall’alto e la tradizione. A Milano i luoghi del glocal sono le moderne autonomie funzionali. Il problema non è più rimpiangere la fabbrica, come l’Alfa Romeo o la Fiat, ma capire invece che le nuove fabbriche, poste tra il globale ed il locale, sono appunto le autonomie funzionali. Nelle aree metropolitane, queste si chiamano: fiere, aeroporti, interporti. Sono quei luoghi in cui veniamo messi al lavoro per produrre reti lunghe che vanno dentro la competizione fra le città. Bisogna rioccuparsi dei luoghi che Marc Augé chiama i non luoghi, anche se io credo siano gli iperluoghi della modernità, i luoghi cioè del glocale. Per quanto riguarda il terzo punto, nel distretto del piacere, i luoghi del glocale sono le discoteche e i parchi a tema. Ciò si spiega analizzando confrontando i numeri dei 900.000 visitatori all’anno che visitano il mare, contro il 1.500.000 che visita Mirabilandia. Il problema è Mirabilandia non il mare. Chiunque di noi abbia un senso dell’identità, del racconto, della trasmissione del sapere probabilmente inorridisce pensando che i ragazzi delle quarte e delle quinte, vengono portati a Gardaland invece che a visitare la città del sommo poeta. Questa è la modernità dilagante, ma bisogna che la dimensione locale ragioni sulla propria identità e sulla propria storia. Sono soprattutto i luoghi dove le tradizioni e le culture sono messe al lavoro per dialogare con la modernità che vanno avanti. Se consideriamo ad esempio Venezia, questa città non è un modello a cui tendere ma è un elemento critico. Venezia è una città fantasmagorica, tutta fatta di allegoria e fantasmi. Sono presenti cioè 60.000 abitanti veri, o “falsi” e 25.000.000 visitatori veri. Ed è questo il modello che bisogna contrastare altrimenti anQuaderno di COMUNICazione

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In una ricerca sulle forme del lavoro indipendente, emerge molto chiaramente come i precari al lavoro contino su reti di prossimità strettissime (reti amicali, familiari e parentali) per poter reggere il precariato continuato. Queste sono forme premoderne di organizzazione sociale, ma sono necessarie: sono cioè il valore aggiunto, il capitale sociale, attraverso il quale molti giovani riescono a vivere nella società dell’incertezza. Importanti inoltre le reti di comunità. Quest’ultima è tipicamente il luogo di mercato per gli immigrati (ad esempio i filippini possiedono un “circuito etnical-business” che permette loro di inserirsi in diversi settori, i senegalesi o i marocchini operano invece prevalentemente dentro la comunità). Più si sale, più le reti lunghe del processo si allungano. Il regista, il designer, hanno un tessuto a reti lunghe, non corte, ed è l’unione di queste due che permette di fare paragoni. Esistono quindi nuove forme di conflitto nelle aree metropolitane, non si parla più di lotta, guerra civile, non esiste uno scontro di classe ma tra chi sta solo sulle reti corte e chi sta solo su quelle lunghe. Ed in mezzo c’è il glocale. Faccio alcuni esempi. Nell’arco alpino il conflitto è tra i rancorosi territorializzati e gli innovatori dall’alto. Nelle aree metropolitane, è tra coloro che stanno solo nelle reti corte, le dimensioni di quartiere, e chi ha come riferimento la dimensione metropolitana. Nel distretto del piacere vi è una dimensione di conflitto tra turismo famigliare e dimensione del piacere che diventa impresa dell’intrattenimento come le discoteche e i parchi a tema. Ed ecco come nasce anche il conflitto tra figure professionali. Uno dei conflitti dentro i patti territoriali è quello tra il mandarinato e chi vuol far da sé. Il glocal è un luogo di mediazione alta, non da mandarini, che sta tra il globale ed il locale. Il glocal è capire, ad esempio, che occorre individuare una nuova forma di rapporti tra dimensione locale e padroni dell’acqua, che permetta al locale di entrare nella modernità e di tornare indietro. Vorrei che i miei conterranei capissero, ad esempio, che l’Enel e l’Aem non sono più quello che erano una volta. All’inizio del ciclo pro-

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alberto abruzzese il kitsch

L’intervento di Bonomi offre alcune battute di partenza sulle questioni che ci vedono qui raccolti. Ho sempre trovato molto affascinanti i nanetti da giardino e devo dire che, allo stesso tempo, se me lo avessero chiesto, mi sarei iscritto molto volentieri a un commando per la loro liberazione. Liberare i nanetti è una metafora allegra per sostenere l’idea che bisogna liberarsi da un’ossessione centrale e sfibrante, quella del Moderno. Dalla Modernità (come dai nanetti) si può continuare ad essere affascinati; ma non si può, a riguardo, non cogliere un’usura progressiva, anche nostra. Vorrei riuscire ad eliminare il Moderno dal mio lessico. D’altra parte, l’espressione “post-moderno” non mi ha risolto il problema, anzi, lo ha aggravato perché tutto sembra ritornare inevitabilmente al moderno. Neppure il termine “anti-moderno” mi sembra servire, perché si mescola con quelle derive del passato che resistevano alla modernizzazione e che risalgono all’esigenza che ha alimentato la modernizzazione. Non l’ha ridotta ma l’ha piuttosto arricchita. Non maneggiare alternative alla modernità è un problema serissimo, che investe tutte le cose che facciamo, anche dentro l’università, dalla ricerca, alla didattica, alla dimensione economica della formazione. Credo ci sia una fortissima divisione nella piccola comunità dei ricercatori su questo macro-tema. Ha fatto bene Cristante a citare alcuni testi per entrare nel merito del nostro discorso. Vorrei aggiungerne altri due. È uscito da poco un titolo che suona non male: La fabbrica dell’infelicità, di Franco Berardi, e in questo stesso periodo Marco Revelli ha pubblicato Oltre il Novecento. In questi saggi si mette al centro dell’osservazione l’analisi dei “soggetti deboli”. Ma anche quest’espressione è stata sottoposta alle sfumature della nostra epoca. Come il “glocal”. Vorrei dire a Bonomi che, rispetto alla sua pur interessantissima traccia, io la vedo in modo diverso. Il termine “glocal” non può essere riportato alla vecchia dicotomia tra il “non più” e il “non ancora”. Infatti Quaderno di COMUNICazione

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che il Salento avrà 1.000.000 di abitanti falsi e milioni di visitatori veri. Il problema è capire che bisogna confrontarsi con questa modernità. Occorre riflettere profondamente su cosa creare, ragionando sulla propria identità attuale, locale, perché è dentro questa dimensione che va affrontato il problema, non nella direzione localistica. Serve dunque ragionare sulla propria comunità ordinaria e riscoprirla nella globalizzazione. Bisogna tener presente inoltre che, oltre allo spazio di posizione, il nostro territorio, le nostre radici, bisogna affiancare una riflessione sullo spazio di rappresentazione. Mentre lo spazio di posizione rimanda alla posizione territoriale e alla dimensione economica dei processi, lo spazio di rappresentazione rimanda alle culture, al senso di sé. I due concetti dunque devono essere sempre affiancati, altrimenti si ragiona su identità monche, un’identità solo di territorio o di penetrazione è destinata a morire. Questa città adriatica è un luogo di grandi frontiere, non è un luogo di rinserramento, ma un luogo dell’attraversamento. Se il confine è il luogo dell’attraversamento, è anche il luogo in cui riusciamo a capire che l’incontro oggi non avviene attraverso l’affermazione di un’identità forte, ma di una debole. Partendo dalla mia esperienza, dalla mia identità valtellinese, milanese, italiana e europea cerco di fare contaminazione tra culture e mondi diversi, cerco di capire cosa viene da Est. Mi sento però un po’ “traballante” perché non ho più la certezza della comunità d’origine. La mia è un’identità mobile, perché sto lasciando ciò che non è più e vado verso ciò che non è ancora. Per una persona che viene dal Marocco, il meccanismo è uguale, perché anch’egli ha lasciato ciò che non è più, la sua tradizione, il suo luogo, e non è ancora divenuto, però, un’altra cosa. Ha un’identità sincretica, l’unione di due opposti. Il problema è capire che anche chi viene da Est, ha lasciato il non più e sta andando verso il non ancora. Credo che l’incontro avvenga in questa dimensione di sospensione dell’identità e non nell’affermazione di identità territorializzate.

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ghesi della cultura di massa (dalla moda al cinema) fu il rifiuto della “nostra”, attuale contemporaneità mediale, di cui l’alta borghesia è oggi pienamente consapevole, decisamente partecipe. All’epoca, la reazione più lungimirante venne da Brock, che inventò la categoria del kitsch spiegando che “questo cattivo gusto è crisi dello spirito, quindi della soggettività, ma nei tempi di crisi è l’unico linguaggio possibile”. Non mi sembra un’intuizione marginale, anzi, forse è una delle poche tracce per venire a capo dell’enigma (o paradosso) della “forza dei soggetti deboli”. E quindi del glocal.

carlo formenti lessico post-fordista

Si comprende bene il disagio di Bonomi nel commentare una serie di racconti che erano partiti da un forte elemento di radicamento territoriale, mentre la sua esperienza personale è un’esperienza di sradicamento. In realtà, conoscendo molto bene Aldo, conosco anche il siparietto che si nasconde dietro questa sua modalità d’approccio. Nel suo intervento, ha ammesso che la sua esperienza nomade è fondata sull’avere “larghe spalle da contadino valtellinese”, cosa, che gli permette performance fisiche pazzesche. Siamo stati insieme a Torino ieri e, nonostante avessimo viaggiato tutta la notte, lui è immediatamente ripartito in macchina per Rimini. Rispetto alla sua esperienza un po’ simulata e un po’ vera di spaesamento, la mia può essere rivendicata come molto più autentica. Alla mia compagna, che ha salde radici calabro-napoletane, appaio da questo punto di vista un vero e proprio mostro, non soltanto in quanto milanese di lunga data, ma soprattutto in quanto neanche milanese con radici di questo genere, essendo figlio di una franco-tedesca e di un contadino mantovano di cui non ho mai visto il luogo di nascita. Quello che conosco delle radici di mio padre, l’ho appreso dai racconti che lui mi faceva quando ero piccolo. La mia esperienza si è sviluppata nella città, Milano, che forse più di ogni altra metropoli italiana ha la vocazione di distruggere l’attività fantastica della propria memoria storica. Quaderno di COMUNICazione

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qualsiasi “procedura” (di nuovo il Moderno!) comporta un distacco, uno spaesamento che trova o può trovare una risposta sia su reti corte, sia su reti lunghe. Glocal è un’espressione a suo modo irrazionale, giacché presenta l’idea che né l’uno (il globale) né l’altro (il locale) possano funzionare al massimo delle proprie potenzialità escludendo gli ossimori. “Glocal” infatti è un ossimoro. Come entra la comunicazione in questo gioco teorico a suo modo rischioso? Faccio riferimento all’intervento di Edoardo Winspeare perché lui ha detto: “La mia prima passione è il cinema. Poi è arrivato il Salento”. Se dovessi dire a cosa appartengo io, direi che sono nato “nel cinema” e “nella” mia città, dove mi sono formato, dove ho fatto i miei primi incontri, ho provato emozioni, abbandoni, conquiste... Il mio territorio è stato il cinema, e molti dei temi che oggi siamo chiamati a trattare nel rapporto tra globalizzazione e localizzazione sono relativi ai media. Territori che noi “abitiamo”, a tutti gli effetti. La civiltà di massa, la civiltà industriale, la società che ci siamo appena lasciati alle spalle e che oggi chiamiamo post-fordista, per la mia generazione è la società che ha accresciuto il territorio dello schermo. È lì che abitiamo e tutti i linguaggi che in qualche modo abbiamo colto sono linguaggi che si pongono il problema di ritrovare il territorio post-cinematografico, quello che non è più proprio delle “identità collettive”. Mi richiamo ancora a Bonomi a partire dalla lettura di un suo libro precedente, Il trionfo della moltitudine, di nuovo sul concetto di “non più”-“non ancora”. Pensiamoci: “non più”-”non ancora” significa semplicemente il presente. Il presente “non è più” e “non è ancora”. È l’intero flusso del tempo, se vogliamo, che però non si riesce a fissare. È anche vero, naturalmente, che il presente, in alcune preziose ricostruzioni etnografiche, accoglie momenti di transizione all’altezza delle sfide contemporanee. Pensiamo al concetto di “apocalisse culturale” di cui parla de Martino. Ma il mondo da distruggere allora era quello rurale, la comunità contadina. “Non più” agricolo. “Non ancora” industriale”. Un altro momento topico di transitoria “esitazione” si manifestò tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30 del Novecento. Il rifiuto da parte dei ceti alto-bor-

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comune che è quello di conservare l’idea forte di modo di produzione. Il concetto di rovesciamento marxista della dialettica hegeliana, un principio totalizzante formidabile, metteva al centro di tutto la tecnica e in seconda battuta il mercato. L’economia politica, vista da Marx come demistificazione della potenza delle merci, del mercato e del denaro che occultavano, è la tecnica, ossia i mezzi di produzione, determinanti per la definizione dell’essenza antropologica dell’uomo: l’uomo è homo faber. Questa centralità antropologica del modo di produzione trascorre, nell’analisi, direttamente dal fordismo al post-fordismo. L’idea di fordismo ci ha dato una grandissima illusione di omogeneità sociale, ci ha fatto cioè immaginare l’intera società come un conflitto duale tra capitale e lavoro, avendo come riferimento l’immagine del produttore del tutto uguale all’operaio-massa, omogeneizzato e concentrato nella grande fabbrica, un’immagine che prendeva a modello, però, solo una parte della società. Questa idea, proiettata sull’Italia, dà una visione distorta della realtà perché il nostro Paese è sempre stato, anche nei momenti determinanti dal punto di vista del gioco dei rapporti di forza politica, della lotta di classe, caratterizzato non da grandi fabbriche, ma da fabbriche disseminate sul territorio. In Italia, quindi, abbiamo un momento storico in cui l’idea di fordismo ha una potenza di opacizzazione che ci impedisce di vedere la complessità del tessuto del corpo sociale. Il post-fordismo ha completamente destrutturato, con una velocità spaventosa, questa illusione di concentrazione dei soggetti su una frontiera amico-nemico tra lavoro e capitale. È ancora usato come momento che permette di produrre questa dualità in modo assolutamente fantasmatico, cioè riproducendo da un lato l’ immagine di un impero costruito sulle nuove tecnologie di comunicazione, sulla rete, sui new media e dall’altro l’apparenza di una moltitudine frantumata in una serie di atomi e molecole, ma sostanzialmente unificate da un conflitto. L’idea del conflitto non più segnato da una appartenenza territoriale da un fisicità di luoghi dove si concentrano gli interlocutori, è stata rappresentata un po’ in tutti gli interventi di questo convegno. La cosa più emblematica di questo nuovo tipo di confronto ci è stata data dal racconto del regista Quaderno di COMUNICazione

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Avevo rinnegato questa città dopo averne vissuto come dirigente sindacale dei metalmeccanici il punto più alto di conflitto e di creatività, nel periodo delle lotte operaie e studentesche tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. Ho tradito Milano per Venezia, città dove probabilmente ero in cerca di qualche radice fascinosa e immaginaria che non ho trovato: ho scoperto una Venezia trasformata in quel parco a tema, per 25.000.000 di visitatori l’anno, di cui parlava Bonomi, per cui sono prontamente rientrato alla base. Ma i cinque anni di latitanza dalla metropoli milanese sono stati sufficienti per ritrovarla a sua volta trasformata, come se fossero passati trent’anni. Tutta la cerchia di fabbriche che era presente non in periferia ma dentro il cuore della città, come la DDD e altre grandi fabbriche, era stata completamente estromessa e trasformata o in spazi di riuso per il riciclaggio post-industriale oppure in rovine industriali trasformate in centri sociali, scenari fantastici per romanzi cyber-punk. C’è secondo me, un feeling straordinario tra l’immaginario dei centri sociali e questo paesaggio delle rovine, come nei racconti di William Gibson che parlano del ponte di San Francisco trasformato in una struttura a nido d’ape dove tutti i materiali di riciclaggio escono e nascono dal basso, come riuso spontaneo, per una trasformazione quasi biologico-sociale di una struttura abbandonata. Quindi, sradicatissimo per storia, non potevo avere altra vocazione che quella di finire per trascorrere la maggior parte del mio tempo attaccato ad un terminale, viaggiando nella rete, che è per antonomasia l’assoluto dei non-luoghi, cioè la perdita apparente di qualsiasi riferimento territoriale. Mi dispiace, entrando nel vivo del discorso, che rinvia ad una categoria come quella del “glocale”, che non ci sia Benedetto Vecchi, con cui, probabilmente, avrei amabilmente discusso per chiedergli conto del fatto che in questo Lessico del post-fordismo, appena edito da Feltrinelli nessuno ha inserito la voce “glocale”. Ciò è abbastanza sintomatico dell’approccio teorico presente all’interno di questo libro. L’idea di post-fordismo che viene sviluppata dalla sinistra con tutte quelle sfumature di significato che spesso, come diceva giustamente Alberto Abruzzese, ci portano a litigare ferocemente tra cugini all’interno della stessa cultura, ha un tratto

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do l’indice dei maggiori titoli telematici americani ha iniziato a scendere, Amazon,Yahoo e altri stanno licenziando due-tremila dipendenti a settimana. Non è soltanto nel territorio disseminato, solo nei terminali poveri, che avviene un meccanismo di subordinazione molto forte, ma anche nel cuore stesso di questo meccanismo di nuova produzione e concentrazione della forza produttiva. Eppure, malgrado questo, continuo a pensare che sia difficile ricondurre questa nuova fase di sviluppo capitalistico a un dualismo di tipo classico, in quanto il territorio fisico di cui si è parlato oggi quale contenitore di pratiche, di oggetti, di sapere, di biografie, di linguaggi, di tradizioni, è una riserva determinante del nuovo modo di produrre, è qualche cosa che, da un lato viene aggredito, distrutto, risucchiato, e dall’altro deve essere continuamente riprodotto. Spesso, quindi, a livello locale si determinano derive di ricostruzione di identità e di immaginario, radici immaginarie, tali da essere usate come materiale per riprodurre merci di nuovo tipo. A volte questa contaminazione dispone di autonomie e creatività reali. In generale, quando ciò accade, è più difficile da commercializzare, quando invece ha più possibilità di funzionare, si presenta l’eventualità di essere emulsionata rapidamente e messa dentro il meccanismo che dice “riassumiamo in due minuti, rendiamo orecchiabile, raccontiamo una storia che sia compatibile con gli standard tecnologici dei new media”. Assistiamo ad una dialettica continua tra tesi che cercano di imporre gli standard tecnologici e linguistici, le forme che permettono di trasformare in merce desideri, pratiche comportamentali, biografie, tradizioni di tutto il mondo, di tutte le nicchie possibili ed immaginabili e la resistenza dovuta a contraddizioni formidabili continuamente differenziate. Non è vero che tutta questa “macchina” produce soltanto modernizzazione. Essa deve continuamente e rapidamente produrre differenze, perché la novità viene bruciata con una rapidità incredibile, il marketing deve funzionare a tempo pieno; non solo, esistono degli altri problemi. La rete ha una capacità di resistenza in quanto tale, non in quanto tecnologia: come struttura di socializzazione essa ha capacità di resistenza perché non è stata fatta da questo centro che oggi la usa come meccanismo di Quaderno di COMUNICazione

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che manifestava tutta la sua rabbia nel sentirsi dire: “Ragazzo, sbrigati! due minuti, noi siamo qui per vendere qualcosa, non ci importa nulla che tu ci ricostruisca tutta la complessità da cui viene la tua esperienza, il tuo rapporto con il Salento, questo adesso è nelle nostre mani, è un prodotto che dobbiamo vendere”. Questi sono i due termini del conflitto. In mezzo a questo dovrebbe stare il glocale. Si è parlato di sospensione di “non più e non ancora”, di mediazione, cioè di un vuoto di esperienze di soggetti che si estende tra il momento della biografia e dell’accumulo di esperienza e il momento della sua trasformazione in merce. Si potrebbe aggiungere un altro elemento: la categoria della contemporaneità dei non contemporanei che il sociologo tedesco Ulrich Beck, usa riferendosi al fatto che oggi riemergono all’interno della società contemporanea forme pre-moderne che probabilmente esistevano già prima, ma che ora riaffiorano apertamente, come, ad esempio, la “servitù della gleba”. Sono le subforniture estreme del Nord Est che si presentano e si vivono come padroni e come imprenditori, che hanno il capannone, le macchine in leasing, hanno tutti i tempi determinati dal ciclo che raggruppa e non commercializza i loro prodotti, lo stesso delle catene in franchising di certe strutture disseminate sul territorio per la vendita di immobili. Abbiamo delle forme di capitale virtuale che si concentrano in pochissimi settori di forza lavoro che hanno la funzione di coordinamento, di progettazione, costruzione di immagine, di marketing e poi abbiamo questa incredibile catena di personaggi messi al lavoro sul territorio globalizzato che va a cercare i suoi interlocutori laddove la forza lavoro costa meno, laddove la resistenza è minore, anche all’interno dei punti alti. Se a qualcuno capiterà di leggere questo libro che è stato da poco tradotto in italiano (Beck, Che cos’è la globalizzazione, Roma, Carocci, 1999) vedrà qual è la realtà di una forza lavoro che opera all’interno della new economy americana da Seattle al distretto di Silicon Valley. Non si parla solo di quelli che hanno fatto soldi nel momento alto del Nasdaq. Ci sono anche quelli che non sono entrati nel circuito, quelli che lavorano per 20-30 milioni all’anno, anche per 15 ore al giorno, quelli che aspettano fuori. Adesso saranno molti di più perché da quan-

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milioni di persone che hanno usato Napster per scambiarsi i file MP3 gratuitamente, in barba agli attacchi della Sony e delle altre corportion della musica. Oggi Napster viene trasformata in un nuovo meccanismo di distribuzione a pagamento della musica, ma è già in atto la trasmigrazione di una larga parte di questa utenza su altri sistemi di condivisione, quindi c’è un continuo trasferimento di pratiche di comportamento non soltanto a livello di minoranze, ma anche a livello di massa, il che determina resistenze molto forti nei confronti dei meccanismi di controllo e di copyright che i proprietari tentano continuamente di imporre. Della rete ci interessa soprattutto il fatto che nelle comunità di condivisione che nascono al suo interno esistono delle dinamiche che sfuggono in larga misura alla determinazione della natura del mezzo in quanto tale, laddove il comportamento non è determinato dalle logiche di tipo puramente economico e di mercato. L’antropologia si prende la sua rivincita nei confronti dei rivali tecnico-economici: il “mercato” che si sviluppa in rete per una serie di ragioni commerciali ha a che fare con la natura del mercato pre-capitalistico, cioè del mercato prima che diventasse un luogo astratto, un non-luogo, dove domanda e offerta si scontrano nella determinazione del prezzo, dando l’effetto di “forze naturali”. Il mercato, inizialmente un luogo fisico dove la gente si trovava per socializzare, era un luogo di incontro tra etnie, linguaggi, culture diverse. Oggi la rete è di nuovo un luogo dove si va soprattutto per chiacchierare e non per comprare e per vendere. È estremamente divertente leggere strategie di marketing come quelle finora sviluppate dal vicepresidente di Yahoo, che vorrebbe riuscire a utilizzare questo momento di socializzazione spontaneo per sviluppare la possibilità di una relazione che diventi anche di commercializzazione e di sfruttamento commerciale. A partire da questo discorso, riportato alla realtà di un territorio fisico che ha le sue reti corte, le sue tradizioni, e deve entrare in relazione con queste reti lunghe vediamo qual è il problema dal punto di vista delle tecniche non tanto di resistenza. Sono abbastanza convinto che di fronte al problema della globalizzazione la soluzione non sia quella della resistenza, ma semmai della globalizzazione dal basso, Quaderno di COMUNICazione

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conversazione locale, non è stata prodotta per questo. La rete è un prodotto locale, in termini territoriali e culturali: è ideata dagli hacker, ma non quelli che mandano in giro virus, che fanno violazioni dei sistemi di sicurezza. Hacker è un termine coniato fra gli anni ’50 e ’60 al Massachusetts Institute of Technology: sono le persone che sviluppano la prime ricerche, a partire dalla tecnologia della comunicazione, sui nuovi media, e poi si trasferiscono in parte a Stanford e nel distretto che interagisce con i primi elementi di diffusione sul territorio dei groups di elettronica, costruiscono personal computer totalmente al di fuori dei vincoli di mercato. È un computer club, un gruppo che comincia a lavorare a un progetto PC gratuitamente, in comunità, fuori dai centri di ricerca pubblici e privati che non accettano la logica del software, che mette in contatto tutte le conoscenze, che fa un lavoro cooperativo. Tutti i loro progetti vengono costantemente bocciati dall’IBM secondo cui di Personal computer se ne venderanno pochi esemplari. Questo è il motivo che ha decretato il crollo del monopolio dell’IBM quando il personal computer ha cominciato a funzionare. La rete è costruita da questa gente, è costruita dalla comunità scientifica, c’è tutta la mitologia del primo nucleo della rete che viene fatta con finanziamenti del Pentagono per costruire una difesa capace di contrastare un attacco atomico: esiste un progetto iniziale di questo genere, ma dura pochissimo, ben presto viene abbandonato e a partire da ciò nascono le comunità di Stanford, dei ricercatori e degli studenti che mettono le mani finalmente su queste macchine e cominciano a usarle per altre cose. L’e-mail nasce come uso improprio della rete delle università. Il concetto di rete come possibilità di interscambio tra alcune categorie incarna all’interno l’etica hacker della condivisione delle risorse. Questo elemento è rimasto centrale e determina il modo di usare questo strumento non soltanto da parte delle minoranze che l’hanno costruito, ma anche a livello di massa. La totalizzazione economica della rete è riuscita entro limiti molto ristretti. Uno degli elementi della crisi attuale della new economy è proprio dato dal fatto che in realtà la stragrande maggioranza di utenti continua ad usare la rete per tutt’altro: 105 miliardi di e-mail al giorno, 60

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mauro protti l’identità sospesa

Vorrei iniziare con una breve osservazione, prima di esporre il mio intervento a questo Convegno: ho sempre provato una certo stupore davanti a coloro che, al momento in cui prendono la parola, e utilizzando solo brevi appunti o schemi, hanno le idee così chiare che poi, nel corso del loro contributo, espongono nettamente i confini, i contenuti, le articolazioni del loro discorso, così che gli approfondimenti che sollecitano ad altri relatori o ascoltatori appaiono una conseguenza inevitabile di quanto hanno brillantemente tratteggiato. E, inoltre, nutro sempre una qual ammirazione per coloro che hanno ‘anticipato’ –nel loro intervento– quanto io stesso avrei voluto esporre: confermando così, in un certo senso, quanto avevo intuito e contavo di poter argomentare opportunamente. Ciò premesso, e accertato che lo sfondo problematico è già stato definito con cura, lasciando così spazi ristretti per integrarne il complesso disegno, posso qui solo improvvisare alcune brevi considerazioni sull’ «identità» del soggetto, un argomento un po’ marginale (lo riconosco) rispetto alla varietà dei temi economici, sociali, culturali già affrontati, ma che, se collocato nel campo di tensione tra globale e locale (ritengo scontato un accordo di massima, “intuitivo”, su questi concetti –anche se il dibattito attuale non pare aver definitivamente chiarite alcune non modeste problematiche teoriche), potrebbe forse offrire suggerimenti per più approfondite riflessioni. Io vengo da Milano qui a Lecce, dove appunto insegno. Viaggio spesso, tornando a Milano quasi tutti i venerdì notte, e la mattina del mercoledì seguente ricomincio le mie lezioni. Lecce mi ha “adottato” e, ciò nonostante, non riesco a staccarmi da quella che è, comunque, la “mia” città. Così, sono “straniero” (nel senso migliore del termine, per intenderci: quello elaborato da G. Simmel e A. Schütz) dove in fondo (e neppure tanto in fondo!) si svolge la parte più significativa, al momento, della mia vita intellettuale. Eppure, Milano è ancora il mio punto di riferimento, il luogo della mia ‘storia personale’ di lavoro e di emozioni, ed Quaderno di COMUNICazione

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cioè della capacità dei soggetti concreti che vivono la loro vita sul territorio di usare questo sistema non soltanto per il proprio sviluppo economico, ma anche per la propria capacità di socializzazione, di scambio autonomo culturale e di altro tipo, con altre realtà che oggi sono avvicinate in tempo reale alla propria realtà locale. Quindi glocale vuol dire “non più e non ancora”. Mi è piaciuto molto l’intervento di Alberto Abruzzese quando ci ricordava le radici di questo termine con riferimento al kitch e alla cultura mittleuropea degli anni ’20 ’30. In realtà credo che non siamo dentro una “transizione” che ci porterà da una situazione più o meno definita, come quella della società capitalistica della prima metà del secolo scorso, ad una nuova dimensione. Si costruisce continuamente uno scenario in cui si mette fine allo Stato nazione, ai partiti, alla politica, alla rappresentanza. I guru della new economy ogni anno ci annunciano la morte di qualcosa. In realtà niente di tutto questo sta avvenendo, niente è morto come istituzione, nelle logiche dell’impresa, della comunità, delle tradizioni culturali, delle etnie. Tutto si ricombina dentro una dimensione dove il reale non è il “non più e non ancora”, siamo già dentro una nuova realtà. Diceva Abruzzese “non più e non ancora” vuol dire presente, questa è l’eternità di un presente in cui tutto diventa contemporaneo. Questo può essere vissuto come una specie di stregoneria che blocca il tempo e paralizza qualsiasi possibilità, ma può anche essere visto come straordinaria occasione, come apertura e disponibilità a nuove forme di progettazione. La conclusione di Bonomi è stata: “non pensate che le identità, le tradizioni, la cultura locale, il glocale come momento di moderazione tra queste e nuovi meccanismi tecnologici, economici politici di globalizzazione sia nato “spontaneamente”. Non c’è più niente che nasce spontaneamente, tutto è da progettare artificialmente a partire da una disponibilità di oggetti, luoghi, storie, biografie, pratiche che appartengono ad etnie ed epoche diverse, ma che sono tutte presenti in un grande catalogo, una specie di mar dei Sargassi dove, per trovare qualcosa di utile bisogna farsi largo tra una montagna di spazzatura. Si prendono gli scarti ed i rifiuti e, con la plastica, si fanno poi i progetti.

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rano dinamiche assodate, anzi: ne esigono di nuove, giustamente pretendendo una plasticità non circoscritta a semplici forme di adattamento o mimetismo, ma sostanziata in istanze che si aprono ad un’integrazione creativa. Certo, a Lecce sono ancora uno “straniero” e per di più difficilmente omologabile: possiedo un’identità consolidata, o almeno credo di possederla, che ho costruito, e che è stata costruita, anche e soprattutto da “altri” più o meno significativi, se seguiamo la tradizione sociologica più recente (sull’identità come costruzione sociale, rimando a D. Sparti). Ma questa identità è incerta, sospesa per esempio tra due località: Piazza Napoli (a Milano) e Porta Napoli (a Lecce), sono riferimenti topografici traducibili, sono luoghi che si trasformano reciprocamente con la mediazione del viaggio, con questo criterio che discrimina e confonde, che individua e distingue, ed al contempo sovrappone. L’identità del viaggiatore che sosta, che si trattiene, che cerca una dimora ed un ancoramento soddisfacente, solido, identificabile produce identità personali che si aggrappano al luogo, ne sono una verifica, ne costituiscono il contesto veritativo: io-a-Milano, ed io-a-Lecce, procedono appaiate, quasi aderenti, con-fuse, ma poi anche ramificate in occorrenze locali che assorbono in sé ogni rinvio alla globalità. E, di certo, globale e locale sono aspetti di una medesima relazionalità, di una stessa “distinzione”: quei tratti che credevo facessero parte di o costituissero la mia identità, adesso si sono trasformati in momenti provvisori di un processo indecidibile nei suoi esiti, aperto. Se si accoglie appunto la scelta teorica che l’identità è una costruzione sociale, il prodotto di interazioni ed elaborazioni cognitive (ed affettive) che decidono i contenuti di una soggettività, la localizzazione di quest’ultima in uno spazio preciso (un soggetto, appunto) comporta una seriazione di alterità, di contrapposizioni disagevoli rispetto a questo, e difficilmente gestibili. Le persone, che una volta (e ogni volta) credevo facessero parte del mio sfondo (e davano una “fondazione” accettabile al mio essere-così e non altrimenti) ora dileguano, si ri-costituiscono radicandosi in una località costitutiva differente, nuova: mi aveQuaderno di COMUNICazione

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anche ciò che diventa (o si rivela divenuto) altro da sé appunto ritornandovi, ricercando (più che le mie radici, e ciò che ad esse può venire assimilato) quei contesti materiali del significato al cui interno si elaborava ( e, forse, ancora si compone, in una certa misura) il «senso» della mia transitoria esistenza, e che, oggi, sembrano scardinati, o almeno disarticolati. Rivederli, posso scrivere, vuol dire trovare modificati questi punti di riferimento, divenuti a volte qualcosa di completamente nuovo, o scoprirli irriconoscibili, quasi sfigurati, degradati a qualcosa di profondamente estraneo, in ogni senso diversi. Se anche li si ritrova, essi sono collocati altrimenti nella mappa dei percorsi urbani (a loro volta ridisegnati da iniziative burocratiche discutibili ed interminabili lavori in corso), decentrati in sedi come nuove proposte di socialità ed incontri. Ma anche la rete delle relazioni personali, locali, viene di continuo ridefinita dalle assenze/presenze e dai percorsi incessanti di viaggi che, come tali, sono non-luoghi dell’esperienza, tempo/spazio dove questa, che pure spesso s’incentra su se stessa, anche si dipana in una serie di connessioni discorsive, di eventi comunicativi: ragionati confronti tra compagni di viaggio, sospesi tra la narrazione disimpegnata e la confidenza che si dà (e di accetta) sapendo che, «dopo», finito il viaggio, ad essa non vi sarà seguito, replica, ripetizione. L’esperienza del viaggiatore (si vedano, per esempio, le pagine di E. Leed) si di spiega saggiamente, sapientemente tra precise identificazioni di luoghi e sfondi, di approdi e distacchi che connettono le une alle altre le traiettorie, le mete e ciò che può diventarlo: ciò che è locale, si trasforma in emblema di una realtà più vasta, nella quale si dissolve, divenendone parte poco evidente –eppure, fondamentale. E in questo senso, come può darsi l’identificazione del soggetto nel territorio, in quel mondo “locale” dove egli sta, provando a volte un indefinibile disagio, come sapendo di gestire un’incompiutezza, una “parzialità” alla quale non può rimediare? Nella realtà di Lecce –il “locale”– i suoi luoghi diventano, di volta in volta, riconoscibili, “miniature” di un globale che oramai è sostituito da situazioni e logiche che esigono azione entro confini e secondo modalità assolutamente, completamente nuove: e non si tratta affatto di momenti che recupe-

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alberto abruzzese il fascino del complesso

La scelta di organizzare un convegno mettendo al centro della discussione i racconti di diversi settori della produzione, dell’innovazione e della creatività del “glocal” mi sembra una idea molto opportuna. Vorrei limitarmi ad approfondire alcuni passaggi del dibattito, alcune sfumature. Stamattina ho detto che sono nato “nel cinema”. Ci sono stati altri due luoghi che hanno determinato la mia crescita: uno è il treno, l’altro è l’università. In ordine di piacevolezza prima c’è il treno, poi il cinema e per ultima l’università: il luogo peggiore della mia vita. Questa infatti si ferma all’università, nei suoi meccanismi burocratici e di conservazione. L’unica consolazione mi viene dall’attivazione di qualche progetto con gli studenti, anche se l’istituzione universitaria, pur a suo modo gloriosa, sta vivendo in questo momento una situazione estrema, che marginalizza le progettualità di contenuto. Partiamo proprio dalla “riforma dell’università”. Uso le virgolette per la solita questione che le riforme non si possono fare senza mezzi. Sta di fatto che noi in breve tempo avremo corsi di laurea di tre anni, che ci spingeranno a selezionare e a concentrare ciò che nel passato era diluito. L’università di massa è divenuta infatti un non-luogo, come una grande stazione ferroviaria o un aeroporto. Non-luoghi estranei al fluire quotidiano del tempo, esterni ai rapporti sociali. La “riforma” tenta di riportare l’università a un rapporto “reale” con la società, la società del lavoro. Una delle rinunce clamorose dell’università, inscritta nella sua storia istituzionale degli ultimi venti-trent’anni, soprattutto per quanto riguarda le facoltà umanistiche, è infatti proprio quella di non aver avuto a che fare con il lavoro. Di non aver offerto, come istituzione scientifica, un sistema formativo utile a orientarsi criticamente rispetto al mercato, e non solo rispetto alle discipline, spesso autoreferenziali. Il problema che abbiamo di fronte noi docenti è epocale: dovremo perdere il nostro valore di “trasmettitori” di conoscenze speQuaderno di COMUNICazione

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vano inscritto in un insieme che è divenuto un altro. È dato luogo ad una metamorfosi tra due estremi irricomponibili, alternativi: il locale, a questo punto, sembra staccarsi dal globale, che scade irrimediabilmente, nel suo stesso sopravvivere, alla sua dimensione ridotta: quella locale, che in esso si rappresenta, ironicamente, come l’unica possibile soluzione al congedarsi da se stesso. Certo, “locale” è ciò che è qui, adesso –e, quindi, qualunque luogo possibile e individuabile, opposto o staccato rispetto ad un “globale” non definibile, un “qualcosa” che lo circonda, vuole riassorbirlo, assimilarlo, abolendone i tratti distintivi, reclamando il diritto di gestirne e precisarne le modalità, sopraffacendone l’autonomia. Ho parlato di tensione tra locale e globale: in questo senso, le dinamiche che si innestano coinvolgono ogni aspetto di tale polarità, e la stessa identità di chi abita la «località» ne sopporta ogni espressione, fino alle più precise e puntuali manifestazioni. Se raccontiamo ad altri la nostra identità (e qui, in fondo, racconto un po’ la mia, senza pretendere che tale mia esperienza valga anche per altri soggetti, parimenti coinvolti ed implicati in analoghe situazioni, o in storie di vita parallele), con ciò stabiliamo una rete discorsiva, che è comunque più di ogni narrazione, e va oltre qualsiasi “caso” empiricamente accertabile. Reti e relazioni che si costruiscono sono sempre prospettive provvisorie, destinate ad essere riscritte, qualcosa, insomma, che è soprattutto qualcosa d’altro rispetto a ciò che si è pensato, progettato, tentato di attuare –è diverso da quella prospettiva che aveva consentito tale progetto, e provocato tale tensione: locale/globale allude ad una dialettica senza risoluzioni, che procede a sbalzi, a revoche, per tentativi, un dialogo senza l’ astratta trasparenza che il logos esige e provoca. L’opacità di tale tensione, allora, è proprio ciò che connette ed unifica i poli, locale/globale, impedendo l’abolizione del problema, quel tagliarcorto sulle questioni, banalizzandole, senza render-conto del loro costituirsi. L’elemento portante di questa irrisolta tensione è dunque forse il tentativo di unificare ad un nuovo ‘livello’ le due facce della stessa moneta, oltre i giochi di specchi che esse producono –noi stessi, suppongo, associati a luoghi altri e medesimi, incessanti facitori d’identità.

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zioni tra moderno e postmoderno: tranquilli, non è cambiato molto in fondo, tutto sta andando come è sempre andato. Forse si arriva ad ammettere una certa velocizzazione dei processi. Tutto quello che era nelle cifre del Moderno si va finalmente compiendo, si dice. Oppure, con infinita saggezza, si rammenta che nella crescita tecnologica del mondo c’è la capacità non solo di confermare esattamente tutte le caratteristiche del Moderno, ma anche di essere più forti e più potenti che mai. Altri, invece, sostengono che la decantata capacità realizzatrice del Moderno si è rivelata una bufala. Anzi, la stessa essenza titanica del Moderno, dicono, si è rivelata come distruzione catastrofica. Anche in questo caso l’enfasi è sulla continuità del Moderno, sul suo strapotere. Un potere finale che domina fino all’ultima distruzione, fino alla catastrofe, che tuttavia si annuncia e non avviene, confermandosi come la forza dell’unità estrema, sublimata nella coesistenza delle differenze. Alimento della Modernità è infatti la differenza! Quella che caratterizza i contenuti della negoziazione delle nostre nuove tecnologie elaborati da Umberto Eco o da altri studiosi di ambito neo-illuministico. Vorrei invece che fossero persone come Franco Berardi, persone immerse nei processi di trasformazione, a determinare il senso di questo importante snodo storico. Un’altra domanda che mi assilla: cos’è che rende rivoluzionario un processo? Fino alla Rivoluzione d’Ottobre si trattava del fatto che si introduceva nella storia un nuovo elemento, un nuovo soggetto. Ciò che rende possibile una rivoluzione non è un meccanismo evolutivo. Se c’è rivoluzione vuol dire che si è introdotto un soggetto che disordina l’esistente e che determina un nuovo processo, assumendo la forza per poterlo condurre. Così è stato per l’Umanesimo, per la Rivoluzione industriale, per quella sovietica. Poi non abbiamo più avuto soggetti di questo genere, piuttosto l’antica classe borghese è passata alla densità collettiva delle democrazie di massa, quell’estremo limite che ha assorbito anche la rivoluzione sovietica, crollata di fronte all’identità collettiva del progresso occidentale e delle ideografie di mercato. Tutti i soggetti storici sono ormai entrati in gioco. Abbiamo delle biQuaderno di COMUNICazione

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cialistiche (o meglio: autoreferenziali) e diventare esperti di “formazione di settore”. L’università non può continuare ad essere un “non-luogo protetto”. Negli ultimi trent’anni si è ampliato il divario tra sapere e saper fare. Dobbiamo essere onesti a riguardo. Nel non-luogo si è potuto insegnare piuttosto bene un “sapere” a una ristretta percentuale di frequentanti, per poi trovarsi di fronte alle folle degli esaminandi. Con la riforma, la didattica dovrà obbligatoriamente rivolgersi, almeno nel triennio, a tutti quelli che si iscrivono. La nostra didattica per pochi frequentanti e milioni di iscritti dovrà appunto rivoluzionarsi. D’altronde i giovani sono la fascia sociale più vicina alle urgenze della flessibilità. Il chiodo fisso del posto di lavoro stabile forse l’hanno in mente solo quei pochissimi giovani che hanno speranze di una carriera universitaria. Ma le cose stanno cambiando rapidamente anche nel nostro settore. Mi preme dunque delineare uno scenario che sappia usare le nuove espressioni, e soprattutto il “glocal”, riuscendo a distinguere i processi. Bisogna distinguere tra società moderna e società postmoderna, fra fordismo e post-fordismo, tra società industriale e postindustriale. Il passaggio chiave è quello tra 1900 e 2000: usiamolo fino in fondo. Il medium traghettatore di questo passaggio è la televisione. Uno schermo altro rispetto a quello cinematografico. La tattilità della tv, per dirla con McLuhan, la sua incredibile pervasività sinestetica, lancia una nuova interazione tra immaginario e consumo. Si potrebbe parlare di rivoluzione, se accettassimo l’idea che il presente, il “non più e non ancora”, viene ad un certo punto squassato da trasformazioni travolgenti. Si concorda collettivamente sulla Rivoluzione Industriale, sulla Rivoluzione Francese, sulla Rivoluzione Sovietica, cioè sul fatto che alcuni macrofenomeni hanno dato vita a trasformazioni formidabili. Gli intellettuali di oggi si guardano indietro e narrano di alcune rivoluzioni “storiche”. Ma anche oggi, come è già avvenuto storicamente, gli intellettuali sono preoccupati dalle rivoluzioni in atto. Molti si affannano a sottolineare che non bisogna esagerare con le differenzia-

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l’individuo. Il cellulare, tecnologia che dispensa oralità, riesce a penetrare anche meglio della scrittura nelle fibre della vita quotidiana. Al contrario delle utopie comunicazioniste, i new media non liberano zone del tempo libero per sé, aumentano piuttosto le dosi del lavoro in sé. Ventiquattr’ore al giorno di reperibilità, estremizzando. Ma questi guai sono comunque nuovi guai, così come la solitudine del navigatore telematico non è più la stessa solitudine dell’individuo della Modernità. A qualcuno queste sembreranno questioni marginali. Si tratta invece, nel mio linguaggio, di sfumature di importanza strategica. È solo considerando queste sfumature che la sociologia della comunicazione può mantenere una chance di analisi e di interpretazione del presente e delle sue tendenze. Con l’auspicio finale, che regge tutto ciò che ho detto finora, che in questa contemporaneità possano esprimersi soggettività che sono state continuamente represse e che la Modernità ha creduto di assorbire nel meccanismo della delega, da soggetto debole a soggetto forte. Così comunque non potrà più essere. Per questo, forse, la complessità di oggi è così straordinariamente affascinante.

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blioteche interessanti sulla differenza di genere: tutta la letteratura sulle donne oppure tutta la letteratura sull’omosessualità. Tutte le letterature su una diversità che né l’Umanesimo, né la borghesia, né le altre identità di epoca, comprese quelle socialiste e comuniste, sono mai state disposte a legittimare. Prima di emergere, questo tipo di soggetti hanno dovuto soggiacere alle forme di linguaggio e di espressione della tradizione. Questi corpi, che erano subordinati, soppressi e tacitati, per riuscire a parlare hanno dovuto accettare le regole (razionali) del conflitto (classico). Sembrerebbe che invece oggi, dentro lo scenario creato dalle nuove tecnologie della comunicazione, esista la possibilità di affrancarsi dalla forza della tradizione, dalla sua moderna razionalità. Nei linguaggi digitali c’è qualcosa che riduce la portata dei paradisi cognitivi, si abolisce la progressione dell’ideologia del progresso, la sua utopia. La dimensione dei nuovi media è una dimensione pienamente psicosomatica. I soggetti dei new media sono psicosomatici, sono attraversati dalle emozioni, si sostanziano di sensibilità, non di ideologia. È una soggettività profondamente diversa da quella dei soggetti storici, ed è decisamente immateriale, sfuggente. A voler tentare una riconsiderazione teorica dello snodo “modernitàmedia”, mi vengono in mente i primi anni del cinematografo. Il cinema aveva sussunto la metropoli, e proprio a partire dalle prime proiezioni dei Lumière risultò evidente agli spettatori che esisteva una città reticolare e di massa anche su un lenzuolo, su uno schermo. Il cinema è stato il doppio della metropoli. Il consumo è stato, in quei pochi anni di transizione, consumo stupefatto, consumo magico, consumo sensibile. Poi la strategia del mercato industriale maturo (nord-americano) ha riassorbito quelle emozioni psicosomatiche della tecnologia cinematografica. È cominciata l’era della sceneggiatura, cioè della scrittura che si è re-impossessata del medium psicosomatico. Con le nostre attuali “nuove tecnologie” la potenza della scrittura può subire significative battute di arresto, seppure, attraverso l’ideologia del lavoro, si tenti una colonizzazione costante dell’intero tempo di vita del-

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Nel contributo conclusivo al primo incontro sul Glocale: Alberto Abruzzese auspicava che in questa nostra contemporaneità potessero esprimersi “soggettività che sono state continuamente represse e che la Modernità ha creduto di assorbire nel meccanismo della delega, da soggetto debole a soggetto forte”. Già lì veniva delineandosi il tema di questo secondo incontro di orientamento, che abbiamo voluto sottotitolare Infanzie nelle reti, con un voluto doppio senso: le reti elettroniche, occasioni di arricchimento cognitivo e creativo, ma pure trappole, che possono diversamente irretire le infanzie in trame nuove, in nuove mercificazioni. Quale soggetto più represso, più delegato, più ossessivamente definito eppure negato dell’infanzia? Quale confine più mobile dell’età di passaggio? Quale viaggio più avventuroso della crescita? Se si riesce a crescere. Il Glocal degli Innocenti dunque: innocenti sono coloro che per definizione non hanno la capacità di nuocere, e si identificano con un’infanzia che per definizione non ha parole e vive di parole adulte. Estendiamo il concetto di infanzia alle adolescenze, proprio per gli incerti confini che esistono tra queste prime età della vita, e ne parliamo in un contesto globalizzato del mondo, dove bambini e adolescenti si trovano ovunque a subìre la stessa condizione di alienazione (un termine fuori uso, che evoca altre stagioni di analisi, ben diversa da questa che viviamo). L’oggettivazione e lo sfruttamento ha assunto nelle nostre società globalizzate forme più brutali di quelle che caratterizzarono le società protoindustriali: il lavoro precoce e il mercato delle anime cambiano le forme, spesso più crudeli, di manifestarsi ma persistono e si estendono; le bocche mancano ancora del nutrimento essenziale in interi continenti. L’in-

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tra loro e con gli adulti. Un testo corrosivo e maudit che obbliga a guardare l’universo infantile senza costruzioni culturali di comodo, in linea di continuità con quell’indimenticabile Co-ire. Album sistematico dell’infanzia di Rènè Schérer e Guy Hocquenghem, che scandalizzò all’epoca molti benpensanti. Se lasciamo il mondo delle narrazioni ai suoi paradossi e ci affidiamo per un attimo agli storici, prima ancora che ai sociologi le risposte saranno un po’ più problematiche. Egle Becchi, ad esempio, autorevole apripista in Italia di un filone di ricerca storiografica sulla prima età, afferma con maggiore prudenza che ne sappiamo poco. E in effetti l’infanzia si disvela ancora a noi come luogo di impossibili definizioni e di tenaci metafore. E la costruzione sociale dell’immaginario adulto resta intrappolato tra opposti sentimenti e antiche ambiguità. L’infanzia è sacra: i bambini sono emissari del divino ma la loro natura è corrotta e la loro indole è maliziosa. Il mito della fanciullezza del resto si sarebbe rivelato ben presto fragile, in bilico tra violenza esplosiva e divina innocenza. Hanno gravato per un lungo tempo storico sul destino della prima età i primi paradigmi scientifici dell’antichità, dove l’infanzia si connotava di fragilità. Da questa condizione “naturale”, legata al rischio altissimo della natalità, venne definendosi un destino psichico: amentia (insensatezza); simplicitas (ingenuità); desipientia (irragionevolezza): sono queste le attribuzioni ricorrenti nella letteratura di derivazione ippocratica. Nella grande Enciclopedia medievale di Isidoro di Siviglia (Ethimologiae) i bambini vengono rubricati come fatui: ossia come esserini sciocchi che non comprendono cioè ciò che dicono e fanno. Bambo del resto viene adoperato nel volgare del XIV sec. col significato di sciocco, ingenuo. Il potere, i poteri adulti di ogni tempo hanno tuttavia dimostrato di sapersi servire della ingenuità dell’ enfant fou. Negli archivi d’infanzia –vero e proprio museo degli orrori– incontriamo bambini alle crociate (1212); pueri episcopi, che nel giorno del Corpus sono autorizzato all’offesa rivolta contro perfidos ebreos, che turbe di schiamazzanti innocenti scacciavano dalle mura della città; così come troviamo bambini Quaderno di COMUNICazione

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fanzia non sembra passarsela bene in nessun angolo del pianeta. Ovunque essa si manifesta oggettivata, tradita, brutalizzata. Abbiamo pensato che su queste riflessioni potevamo capitalizzare il lavoro fatto in questi ultimi anni nel nostro Ateneo, e che ha portato alla recente istituzione di un Centro di studi interdipartimentale internazionalizzato, un ‘“Osservatorio sull’infanzia e l’adolescenza”. Un laboratorio non marginale rispetto alle cose che riguardano la comunicazione, come cercherò di spiegare, ma come tutto il nostro incontro dovrebbe poter dimostrare. Giacchè dell’infanzia andrebbero recuperati i logoi dissòi dei tanti specialismi separati, ognuno dei quali ambisce all’esclusività e alla totalità. Partiamo da un pre-cognitum storico-storiografico da cui non si può prescindere e che potrebbe essere un comune punto di riferimento. Potremmo essere tutti d’accordo mi pare su un minimo comune denominatore: infanzia e adolescenza più che un’età definita della vita si configurano come età in balìa della vita; un tempo di transito, un passaggio erratico, appunto, nell’evoluzione sia fisica che psichica, senza possibilità di tracciarne i confini. La brevità della prima età dà luogo a una indefinita durata della puerizia e dell’adolescenza, che a sua volta si prolunga nella prima età adulta. Già la durata diversa e discontinua di queste età definisce diversamente la qualità di vita delle infanzie e delle adolescenze. Si diventa precocemente adulti fuori dagli spazi protettivi degli istituti primari: famiglia e scuola che tendono a prolungarle, mentre nella custodia delle istituzioni l’adolescenza si protrae maggiormente. La narrazione letteraria, che è sempre una buona spia di riferimento per cogliere l’evoluzione dell’immaginario ci offre risposte contrastanti sull’età bambina. Di essa Simona Vinci, giovane scrittrice Einaudi, ci ha detto di recente che non ne sappiamo “assolutamente niente”. Al contrario Tony Duvert, nell’ Isola atlantica, tradotto di recente dall’editore Casagrande di Bellinzona, afferma che sappiamo tutto: i bambini del suo racconto sono quanto di più lontano si possa immaginare dall’età dell’innocenza: non si lavano, rubano appena possono, strapazzano i coetanei, sognano di far fuori i genitori, si masturbano e fanno sesso

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sempre più incerti i confini tra le generazioni. La Tv “a flusso” non rende possibile nessuna reale comunicazione, anche perché ne sarebbe strutturalmente incapace. Lo storico James Ross apriva, del tutto inconsapevolmente forse, in America, in quegli stessi anni, un filone di ricerca storiografica che, diversamente dalla psicostoria di deMauss, si proponeva di raggiungere, in modo diretto le voci bambine che solo indirettamente e flebilmente sono giunte fino a noi “attraverso coloro che controllavano le loro vite e osservavano il loro sviluppo”. E questo terreno di ricerca provocò interesse anche da noi, in Italia, con i seminari della Fondazione Feltrinelli e la redazione di “Quaderni storici”, che fecero da collante di un gruppo via via crescente di ricercatori tutti fortemente critici nei confronti di una panpedagogia onnivora che affligeva molta cultura dell’infanzia. Un filone di ricerca che si innestava sul tronco di quella pedagogia sociale che già nell’immediato secondo dopoguerra si era presentata sulla scena europea, con il movimento della cooperazione educativa, alla ricerca di una traduzione nell’agire pubblico e sul terreno delle pratiche scolastiche dei solenni propositi delle Carte dei diritti fiorite nel corso del Novecento. Il gruppo degli storici dell’infanzia italiani si mise ed è tuttora al lavoro per dare voce al soggetto muto e mutante, raccogliendone le tracce del passaggio attraverso quelle fonti primarie che sono le scritture e altre forme espressive personali di bambine e bambini veri, in carne e ossa: diari, scarabocchi, disegni, cahier de betises (=sciocchezze), ecc. Quel filone storiografico è tuttora vegeto e attivo e localmente produce accumulazione documentaria. Alcuni risultati li abbiamo anche raggiunti qui a Lecce, lavorando sulla lunga durata dei culti di area mediterranea (noti come curotrofici, dalla Kuròtrophos, omaggiata nell’antico santuario di Oria) che ha addolcito le pratiche protettive di un’infanzia che ha potuto godere di un particolare privilegio: quella di forgiarsi in una dimensione comunitaria, nel contatto diretto con gli anziani, cosa che ancora si può “sentire” in quell’isola culturale che è la Grecìa salentina (il valore della narrazione delli cunti tramandati dai nonni ai nipoti) Quaderno di COMUNICazione

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che marciano in fila per due avviandosi ai forni di Auschwitz. Questo e molto altro orrore ancora. E quando ci addentriamo negli spazi a noi più vicini della modernità, troviamo ancora molto spavento adulto per la irrequitezza e la erraticità che tramuta gli innocenti in “discoli e vagabondi”. Su di essi vengono mobilitate le pedagogie preventive e punitive per controllare, imbrigliare, indirizzare, tutelare… La grande massa dei bambini poveri nell’Europa protoindustriale sviluppa nell’Ottocento la paura del discolo, dell’irrequitezza che rende “discoli”. Paura e necessità del disciplinamento sono alla base della costruzione di un grande panottico istituzionalizzato per la normalizzazione della imprevedibilità infantile. In chiave psicostorica, Lloyd deMausse ha letto la storia d’infanzia come un incubo. La violenza ne costituisce uno dei paradigmi più persistenti. Solo di recente, nel secolo da cui abbiamo appena preso congedo, comincia a fissarsi un sentimento più positivo, che si esprime nella lotta dei movimenti emancipativi e della stessa borghesia illuminata contro la vendita, la schiavitù e l’alienazione del lavoro precoce, nelle Carte dei diritti; nell’impostazione di una prima scuola come luogo di tutela della creatività. La mobilità nelle definizioni si fa più cadenzata nel Novecento. Il bambo “tutto sentimento e fantasia” degli anni ’50 lascia il posto a quello della ragione degli anni ’70; al competente degli anni ’80; al telematico e digitale degli ultimi programmi elementari. Con l’avvento della Tv “anche i Bambini diventano delle persone” recitava una emittente americana, sull’onda dell’emozione provocata da trasmissioni in cui i bambini piccoli venivano coinvolti nei dibattiti sul divorzio e la guerra nucleare. A differenza della stampa, i media elettronici, oltre a far conoscere i temi sociali, inseriscono direttamente i bambini nel dialogo sociale. Così almeno la pensava Meyrowitz nel suo No Sense of Place, ma non allo stesso modo la vedeva Neill Postman, convinto invece che se la stampa aveva creato l’infanzia, i mass media e la Tv in particolare ne avrebbero decretato la scomparsa . E in effetti molti di noi si convinsero che innanzi alla Tv i bambini assomigliano sempre più agli adulti e questi sempre più a quelli: una puerilità che avrebbe reso

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Mi avvio a darvi rapidamente qualche spiegazione più esauriente su questo incontro e sui fini che esso si propone. A Mario Morcellini, animatore nel l988 di un convegno organizzato dal Dipartimento di Sociologia della “Sapienza” romana, diretto all’epoca da Gianni Statera, abbiamo chiesto di andare “Oltre il giardino” (tema di quell’incontro che rubava il titolo a Peter Sellers, un film ricco di humor e implicazioni psicosociali). Gli atti preparatori di quel convegno documentavano i limiti storici delle culture istituzionali e delle rappresentazioni sociali sul continente dei “minori” (così ancora si definivano e si definiscono nelle culture istituzionali bambini e adolescenti fino ai 18 anni); li osservavano nello specchio dei media; denunciavano la mancanza di un codice deontologico degli operatori dell’informazione, della povertà di programmi televisivi per l’infanzia. Ricordo gli interventi di Enrico Manca, presidente all’epoca nella Rai di Biagio Agnes; di Nuccio Fava, di Emmanuele Milano, Gaspare Barbiellini Amidei ecc.ecc. Emerse in quell’occasione la necessità di un codice di autoregolamentazione da estendersi agli operatori pubblicitari, che sarebbe venuto nel ‘90 con la carta di Treviso, sottoscritta nell’ottobre del 1990 dalla Federazione naz.Stampa, dall’Ordine dei Giornalisti e dal Telefono azzurro. A Morcellini abbiamo chiesto di andare oltre, ossia di aggiornare quelle analisi, dodici anni dopo. Nessuno poteva immaginare, all’epoca di quel convegno romano, ciò che sarebbe accaduto nell’età globalizzata la grande diffusione della multimedialità, del computer, di internet, della diffusione di piattaforme digitali. Se il rischio del bambino televisivo allora segnalato era quello di farsi Quaderno di COMUNICazione

cullare da una docile, ma talvolta perfida e infìda baby-sitter, fino a svegliarsi teen-ager perfetto consumatore, i rischi oggi di rimanere intrappolati e smarrirsi nel bosco elettronico digitale e trovarsi esposti a branchi di lupi che popolano la rete non è da sottovalutare. Non dobbiamo avere nessun pregiudizio nei riguardi di Internet, che può arricchire di nuove possibilità lo sviluppo cognitivo e creativo dei bambini, ma occorre una nuova consapevolezza, una nuova capacità adulta di affiancarsi come guide intelligenti e discrete per non lasciare i bambini soli nel bosco. Giovanni Fiorentino ha scritto un saggio interessante su E.T. l’extraterrestre, che nel film di Spilberg parla della naturale propensione dei bambini al viaggio, all’incontro con il diverso, col mistero che essi racchiudono. L’innocente è disponibile ad accogliere e credere. Ma cosa accadrà se l’incontro si rivelerà fatale, se la propensione ad accordare fiducia si frantumerà nel tradimento della violenza adulta? Il problema dei bambini sono –sono stati in ogni tempo– gli adulti, con la loro incapacità di stabilire e gestire relazioni. Il bambo resta estraneo a ogni tipo di cultura adulta. Trattasi pur sempre di cose…minori. Lo abbiamo visto e lo riscontriamo in continuazione ogniqualvolta ci rivolgiamo alle istituzioni locali, siano esse un museo che deve ospitare una mostra o un Ente pubblico a cui si chieda di destinare risorse in ricerca: cosa che fa sempre a malincuore, preferendo la distribuzione a pioggia in forme parassistenziali sui progettini contro lo “svantaggio”, la “dispersione”: svantaggi che procurano molti vantaggi privati e disperdono solo molte risorse che potrebbero più fruttuosamente essere investite in conoscenza. Sul tema delle relazioni tra le generazioni Catherine Pugeault e Vincenzo Cicchelli entrambi della Sorbona, ci daranno i risultati delle loro ricerche sulle risorse immaginarie dell’identità e sul duble bind della comunicazione interfamiliare. I fatti recenti di Novi Ligure, di Pompei, ci hanno mostrato con evidenza che laddove la comunicazione è disturbata, si può anche uccidere. Al sostituto procuratore del tribunale dei minori di Lecce, Ferruccio De Salvatore, autore di un testo di appunti sulla pedofilia è affidata una riflessione sulla gravità di un fenomeno sempre più esteso, rimbalzato Quaderno di COMUNICazione

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Altrove –in Basilicata– l’infanzia si rivelava a de Martino –“preservata” nella metastoria del magismo (e nei suoi rituali), tutelata dalla minaccia del furto della presenza, già prima della nascita, dal furto del latte materno a nascita avvenuta, in uno stringente e drammatico rapporto madre-figlio. Dovrei parlare a lungo di questi nostri temi di ricerca che hanno preso corpo in pubblicazioni recenti, ma su cui certamente vorrà dire qualcosa Alessandro Simonicca che studia le antropologie infantili.

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Vaccari, autore di Io e mio padre, che contiene numerose interessanti interviste ai grandi Padri (di Pupi Avati, Biagi, Bellocchio, Cerami, Consolo, Ferrarotti, Montanelli, Olmi, Piovano, Romano, Sanguineti, e altri). Un’occasione per riflettere sul bisogno dei padri forti, o almeno presenti, di cui abbiamo forse lasciato sguarnite le nuove generazioni, perché se tempo di transito, di erraticità è la prima età, tempo di memoria è l’età matura che non porta più tempo proprio, ma tempo vissuto. Uno spunto proustiano, quello della memoria perduta e ritrovata, che il contatto con le giovani generazioni rende più penetrante negli anziani. Una traccia, chissà, per un altro incontro per questo ultimo corso di studio nato dalla costola di una bella signora avanti con gli anni, Lettere e Filosofia, e già così poco innocente e tanto pretenzioso da volere che ben otto Facoltà dell’Ateneo, tutte insieme e appassionatamente, gli prodighino cure e attenzioni.

mario morcellini nuovi minori, nuovi media

“In perfetta buona fede, il giovane credette di aver qualcosa da dire mentre aveva soltanto un gran desiderio che gli si dicesse qualcosa…”. È una citazione ripresa dal frontespizio di un articolo firmato anni fa con Gianni Statera1, tratta a sua volta da un libro di Franco Ferrucci del 1982 intitolato “Lettera ad un ragazzo sulla felicità”. Essa costituisce un pretesto da cui partire per un profondo ripensamento dei modelli teorici che hanno dominato per anni il dibattito media-minori. Tale riflessione è possibile soltanto avanzando proposte implicite di chiavi di lettura alternative. Un’impostazione di questo genere può essere supportata da alcune operazioni argomentative, organizzate su titoli e riepiloghi, come se si trattasse di un ipertesto. Il nostro modo di impostare la riflessione sul problema “educazione” è abbastanza lontano dai modelli interpretativi della sociologia tradizionale e dalle altre discipline, o almeno si colloca ad un punto diverso. Quaderno di COMUNICazione

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sulle cronache di quest’ultima settimana: i lupi sono entrati in città, abitano nelle case e nelle scuole e rivendicano un loro delirante statuto etico. Una nuova minaccia nei nostri già poveri sistemi di relazioni. Una nuova devastante stagione del sospetto nel rapporto già difficile tra bambini e adulti. L’identikit del pedofilo, collezionista fanatico che aggiunge bambino a bambino deve essere aggiornato per poterne meglio combattere la patologia di coscienze infelici che si accaniscono su corpi puerili pietrificati. Ma il discorso si slarga ai limiti e alle responsabilità delle pedagogie e delle istituzioni educative che tengono a distanza o escludono del tutto la corporeità, dislocandola fuori da quella trama di tensioni dove convivono adulto e bambino. Il tema dell’educazione verrà fuori da un punto di vista nuovo in questo convegno con l’intervento di Fernanda Rizzo che ha indirizzato le sue ricerche più recenti, sul doppio registro dell’educazione nel diritto e del diritto nell’educazione. Stampa, editoria e cinema hanno un loro spazio in questa nostra riflessione, e offriranno rispettivi punti di vista sui temi di questo incontro: Federico Pirro parlerà delle adolescenze in cronaca, riferendosi anche al tema del difficile rapporto informazione-verità; Vito Luperto, critico cinematografico parlerà attraverso spezzoni di film di registi italiani che hanno trattato con diversa sensibilità il tema delle adolescenze: Archibugi, Amelio, Muccino, delineando il percorso di un possibile tema monografico da sviluppare nella didattica ufficiale di questo corso di studi. Dobbiamo ringraziare i nostri corsisti più avanzati nell’uso delle tecnologie digitali per questo mixage che vi verrà offerto su spaccati di vita degli adolescenti e delle infanzie tratti da titoli cinematografici di grande efficacia, come il Grande Cocomero, Mignon è partita, Il ladro di bambini, Come te nessuno mai, ecc. In particolare voglio ringraziare Vincenzo Urso e Andrea Ingrosso per aver compiuto il miracolo di approntare i materiali che visioneremo, in poco più di ventiquattr’ore. Insieme a Pierfausto Martina essi hanno dato vita al più bel web di cui dispone attualmente l’Ateneo salentino, che ovviamente è quello di Scienze della Comunicazione. Anna G. D’oria, anima dell’editrice Manni inviterà al racconto Luigi

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gere la modernità del rapporto tra media e minori in termini di riduzione della preoccupazione sui rischi. In questo caso lo sforzo consiste nell’attenta individuazione degli aspetti positivi che possiamo scorgere nell’industria della comunicazione che si apre di fronte a noi e che liquida senza pietà alcuni dei paradigmi sinora fin troppo fortunati in letteratura. I primi due punti elencati sono essenziali. Chinarsi a vedere quello che abbiamo a disposizione nella “cassetta degli attrezzi” delle scienze sociali di fronte al nodo media-minori e quali sono i temi che questa letteratura, limitata dal fatto che i sociologi sono stati lasciati soli nell’impresa di coltivarla, non ci ha consentito di rubricare sufficientemente e che per questo sono sfuggenti, moralisti ed esposti al buonismo o al cinismo. Il primo punto riguarda una veloce rilettura di quello che è successo durante questi quindici anni. Possiamo riassumere questa letteratura in poche battute: la prima è il fatto che esiste un buon grado di accordo tra gli studiosi, nonostante generalmente si pensi che la letteratura scientifica sia animata da un intenso desiderio di divisionismo. In realtà, in merito alle dinamiche comportamentali dei minori di fronte al “teatrino dei media”, in termini di analisi del consumo, di trasformazione degli stili di cultura e comunicazione e di modificazione della portata dei processi di socializzazione, ci sono più consensi che divergenze. Questo è un fatto fondamentale, perché senza un minimo di consenso non si costruisce una letteratura scientifica, ma si fondano, al massimo, scuole e salotti in competizione fra loro. Certo nel nostro Paese persistono ancora culture che tendono ad una visione luttuosa ed apocalittica della funzione dei media e delle tecnologie vecchie e nuove, nonostante queste ultime si presentino con promesse ben diverse da quelle del generalismo: persiste ancora qualche divisione sia dal punto di vista della ricerca scientifica che dell’accumulazione dei dati. L’unico elemento ormai accertato, come acquisizione sicura e irreversibile della letteratura, è che i media hanno funzionato come una fondamentale, anche se involontaria, agenzia di socializzazione, di stipulazione di regole sociali e di organizzazione dei rapporti in assenza di altri elementi ordinativi. La questione dei media come elementi di ricostruzione razionale di Quaderno di COMUNICazione

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Tale riflessione investe i processi di differenziazione e di identificazione che costituiscono tutti gli aggregati sociali e che rappresentano il luogo dell’educazione intesa come ingresso in società. La prima questione è argomentare la grandezza e i limiti della letteratura, soprattutto sociologica, costituitasi in questo settore, che se da un lato ha rappresentato una singolare novità, dall’altro si è caratterizzata per una serie di evidenti limiti. Le scienze dell’educazione, le scienze dei segni e le altre scienze dell’uomo hanno tematizzato in ritardo il nodo cruciale dei cambiamenti della socializzazione, dell’educazione e della formazione in un’età caratterizzata, almeno in termini di scenario e di linguaggio, dai mezzi di comunicazione. Questo ha determinato alcune debolezze nella letteratura sociologica prima degli anni ’90, che ha manifestato un andamento un po’ pigro e traditore, in un’epoca in cui gli intellettuali non hanno svolto il lavoro cui erano tradizionalmente deputati nel mondo occidentale, cioè quello di render conto delle mediazioni e dei mutamenti intervenuti nella società. Abbiamo realizzato una mole di lavori scientifici, più di un libro e una discreta quantità di articoli sul tema del rapporto tra minori e media e tra minori e socializzazioni, ma la sorveglianza critica su questi argomenti non ci ha mai abbandonato in questi quindici anni. La scuola romana ha scoperto che studiare i media significa avere una marcia in più per comprendere le trasformazioni delle culture giovanili, di cui si possono fornire prove empiriche anche in sede di ricerca. La seconda questione da porre riguarda i nodi critici e interpretativi che abbiamo di fronte e che spesso non riusciamo a riassumere in interrogativi semplici e brucianti. Lo sforzo da mettere in atto consiste nel dimostrare quanto la riosservazione critica della letteratura che abbiamo alle nostre spalle –soprattutto se ne abbiamo condiviso le passioni e le sconfitte– ci consente di chiarire i nodi da affrontare se vogliamo acquisire una capacità di presa interpretativa della realtà. Quest’ultima costituisce il primo presupposto per un intervento razionale e consensuale al dibattito su domande di fondo e aspetti che rischiano di sfuggirci. Il terzo elemento attiene agli aspetti positivi che incoraggiano a rileg-

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c) I minori e gli adulti hanno comportamenti comunicativi e culturali diversi. Ovviamente, sottostante a quest’idea c’è la convinzione che gli adulti siano il luogo della cultura della competenza, dell’elaborazione del senso e della capacità di orientamento, mentre i nuovi venuti sarebbero non solo incapaci di accettare il ruolo degli adulti, ma anche incapaci di ascoltarli. Siamo in presenza di un problema di messa in comunicazione tra le generazioni che costituisce uno dei nodi cruciali della modernità. Queste tre proposizioni sono false e necessitano di essere contestate analiticamente, anche se in alcuni periodi storici i media nuovi e soprattutto quelli scintillanti in quegli anni –in particolare la televisione– occupavano obiettivamente una posizione d’infiammazione che oscurava tante altre realtà. 1. L’affermazione che i minori sono in balia dei media è un falso storico clamoroso, perché non supportato da alcuna prova empirica convincente: è evidente che la quota di minori in balia dei mezzi di comunicazione è nettamente minoritaria rispetto a quella degli adulti “colonizzati” dalla televisione. Il vero dato che emerge dalle ricerche è che negli anni ’90 i minori hanno dedicato sempre meno tempo alla televisione e ai media più generalisti conquistando fette sempre più consistenti di tempo libero. Nella letteratura pedagogica siamo abituati a far coincidere il tempo libero con il tempo dei media. È una realtà che forse è stata vera negli anni ’80, probabilmente in presenza di politiche pubbliche e di una scarsità dell’offerta comunicazionale che determinava strategie di annullamento del tempo libero. Questa impostazione è stata privilegiata dimenticando che il nostro Paese manca di una seria politica d’infrastrutture sociali per la cultura del tempo libero. 2. Non è vero che si possono riscontrare differenze significative fra adulti e minori: queste due realtà si somigliano profondamente. I giovani di oggi saranno perfettamente uguali agli adulti di oggi. 3. È da rimettere in discussione l’idea che nelle mappe culturali dei comportamenti dei minori e degli adulti ci siano divergenze tali da far pensare a stili ed orientamenti culturali che vanno in direzioni diverse. In Quaderno di COMUNICazione

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relazioni sociali diventa ancora più convincente se accompagnata ad altri due tipi di considerazioni: 1. Gli ultimi vent’anni sono stati il periodo storico in cui la mediazione culturale della tradizione è stata più debole e priva di senso e in cui la produttività delle istituzioni di trasmissione culturale è stata svuotata e destituita di fondamento senza che fossero messe in campo dalla letteratura analisi convincenti del significato di un cambiamento così radicale. Il fatto che questi soggetti non siano riusciti storicamente, linguisticamente e culturalmente, a svolgere il loro compito, consolida l’aspetto positivo dei mezzi di comunicazione, ed aiuta a contestualizzare la cosiddetta funzione di supplenza dei media. 2. Il ventennio che stiamo illustrando possiede molteplici caratteristiche che possono essere singolarmente riunificate con frasi riassuntive tipiche del gergo degli studiosi. Una di queste s’impone sulle altre: la perdita di tutti i poteri di mediazione sociale e culturale capaci di organizzare il mondo e di attribuire senso e orientamenti culturali alle azioni. Quindi non solo “crisi delle istituzioni”, formula ormai esasperata, sentita soprattutto dai docenti che vedono il venir meno delle certezze della loro professione, ma soprattutto crisi di tutte le funzioni di attribuzione di senso al mondo. Interposizioni tra istituzioni e vissuto e tra società e individui che finiscono per logorare, stressare le posizioni chiamate a stare in mezzo, dove letteralmente si colloca il posto che si sono conquistati i media. Questo è avvenuto senza che ci si fosse resi conto di cosa significa per le professioni culturali una tale perdita di autorevolezza e di carisma, o cosa comporta per una educazione e per una socializzazione che avvengono quasi esclusivamente, ma comunque prevalentemente, per vie orizzontali invece che verticali. 3. La letteratura di tipo apocalittico, quella che chiamiamo la “visione luttuosa dei media”, riposava su tre certezze: a) I minori sono completamente sequestrati dai mezzi di comunicazione e soprattutto dalla TV; b) I minori sono il luogo della ripetizione mentre gli adulti rappresentano il luogo della competenza e dell’autenticità;

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intesa come normatività, è venuta meno ed è diventata molto più labile rispetto al passato: fine delle “grandi narrazioni”, fine dei fondamenti, fine del concetto di centro. 2. I sociologi non si rendono conto che se si afferma con convinzione che è cambiato il centro, bisogna scrivere un’altra sociologia. La società viene meno come elemento di pressione sugli individui e ciò avviene in un momento in cui la comunicazione appare più straripante e forte nell’osservazione degli scenari sociali; 3. In questa nuova società in cui gli individui sono al centro della scena e delle scelte viene posta la questione del radicale cambiamento degli stili espressivi e comunicativi, su cui bisognerebbe soffermarsi. Fino ad oggi, infatti, gli studiosi dei media si sono concentrati sulle industrie culturali, avendo scoperto solo recentemente che per comprendere il cambiamento della società e degli individui occorre chinarsi sugli stili, sui codici, sulle immagini, sulla testualità e sulla sonorità e cioè attraversare l’industria culturale; 4. Il nodo istituzioni-vissuto. Quasi tutti gli strumenti scientifici di cui disponiamo, compresi quelli della ricerca ordinaria (il questionario, del colloquio ecc…), sono vittime di un’interpretazione della realtà centrata sulle istituzioni, mentre la società in cui viviamo è centrata sul vissuto; e quindi gli strumenti della ricerca sociale ne risultano completamente compromessi. È cambiata la società senza che cambiassero gli strumenti, che di solito costituiscono il più solido attrezzo di cui il ricercatore dispone per poter stabilire un contatto comunicativo ed espressivo con il mutamento. Queste dinamiche presuppongono altrettanti cambiamenti sul piano positivistico. Citeremo anche qui tre elementi, continuando ad utilizzare una strategia ipertestuale di organizzazione delle idee: 1. La conseguenza più importante è stata la trasformazione, di natura e di peso, dei valori della socializzazione. Anche su questo la letteratura ci offre ritratti convincenti, che si palesano nel modo in cui i sociologi hanno ragionato intorno alla natura della comunicazione come profonda trama di socializzazione. Quaderno di COMUNICazione

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generale, piuttosto, ci sono atteggiamenti, tipologie, stili di assunzione del medium e dei consumi culturali che tendono a rendere la questione delle differenze un po’ meno importante di quella che può apparire. Per quanto riguarda i dati, abbiamo un’accumulazione stupefacente, tanto che gli elementi che ci forniscono prove a supporto delle nostre tesi sono sempre nettamente superiori a quelli che mettono in discussione il nostro quadro interpretativo. Le idee che abbiamo messo in campo per leggere la questione media-minori cercando di capire in che modo essa può costituire uno strumento interpretativo della società e del cambiamento, possono essere organizzate intorno a tre titoli: 1. Si intendono fornire risposte sui cambiamenti della società di fronte a questa configurazione della questione media minori; 2. Fino a che punto le nuove opportunità messe in campo dalla tecnologia modificano gli individui? 3. Cosa succede a quell’aspetto cruciale delle culture rappresentato dall’ingresso in società dei nuovi venuti? In che modo si modificano l’educazione, i processi formativi, l’attrezzatura dei soggetti rispetto alle nuove condizioni del contesto culturale disponibile? Per illustrare questi tre punti non abbiamo dati lineari come quelli utilizzati per dimostrare che i media non hanno fatto male alla società italiana. Dobbiamo citare elementi che sono stati singolarmente tematizzati nel dibattito intellettuale senza che tuttavia diventassero il cuore di una diversa strategia di lettura della realtà. 1. In questi vent’anni la comunicazione ha fortemente cambiato la scena della società italiana contribuendo a modificare radicalmente la sfera dell’espressione e del costume. Sappiamo con certezza che ha cambiato il costume e abbiamo le prove che ha cambiato anche il cuore delle persone. È avvenuto un doppio fenomeno che non siamo in grado di spiegare in termini causativi ma che possiamo almeno tentare di descrivere. Si è trattato di un periodo, nella storia della nostra società ma anche nella storia della società umana, in cui la pressione delle istituzioni sull’individuo e la percezione dell’autorevolezza dell’educazione,

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In conclusione cerchiamo di enumerare due o tre questioni che fanno pensare che il mondo che abbiamo di fronte in qualche modo ci aiuta, anche se non ad eliminare i rischi, almeno a porli in un diverso ordine di probabilità rispetto al passato. Si tratta di illustrare tre dimensioni del nuovo che si presentano prepotentemente sulla scena aiutandoci a ricostruire in termini meno drammatici tali questioni: 1. La questione dei linguaggi e delle espressioni culturali C’è stata una vexata questio della letteratura che affermava che tutto Quaderno di COMUNICazione

ciò che è avvenuto nel passato è stato vuoto e tendenzialmente costitutivo di una specie di “socializzazione del parcheggio”, senza contenuti, per scene formali e prive di fondamento, bisognosa di un elemento demagogico forte identificabile con l’immagine e la sua natura debilitante della cultura e della testualità. In letteratura si è perpetuata la presunzione che l’immagine ratifica la realtà, consentendo ai soggetti di avere al massimo una visione riepilogativa. Secondo questi studiosi l’immagine si limiterebbe ad assolvere una funzione ratificatoria della vita e dell’esistenza, mentre sarebbe incapace di promuovere forme di autonomia e di autoconsapevolezza. Nella società moderna l’immagine sta perdendo peso a tutto vantaggio di un recupero della centralità del testo come elemento di scambio culturale e comunicativo, anche se mancano studi che attestino cosa questo significhi in termini di mutazione di bisogni e di ricchezze posta dal soggetto all’organizzazione sociale. Se il testo e la parola tornano al centro della scena, anche il mutamento di ruolo della scuola può essere rimesso in discussione, sempre che questa agenzia di socializzazione viva un problema di cambiamenti di linguaggio e non, piuttosto, una seria difficoltà a vivere il ruolo della mediazione. 2. Le nuove tecnologie Con Internet niente sarà più come prima, perché la raffigurazione del processo di comunicazione che le nuove tecnologie costruiscono è radicalmente diverso da quello del generalismo. Non sarà più possibile per gli studiosi parlare banalmente di passività, manipolazione, omologazione, massificazione. Non che i nuovi media risolvano tutti i problemi interpretativi che abbiamo, ma almeno riaprono la questione di una sostanziale parità del rapporto tra soggetti e tecnologie, riaprendo così una vertenza educativa che è tutta nelle nostre mani. 3. La ricerca, la scienza, l’Università Anche quando abbiamo vistose evidenze di elementi positivi che emergono nella società, abbiamo la sensazione che la ricerca non riesca a porsi la questione della vertenza dei contenuti e di problemi profondi: Quaderno di COMUNICazione

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2. Non sappiamo se questa socializzazione prevalentemente orizzontale avvenga per un tributo essenziale alla comunicazione e se invece non debba essere giudicata più rilevante una più forte trattazione degli scambi sociali di tipo paritario, identificabile con il gruppo dei pari. Se si studiano i sondaggi, le pubblicazioni dell’ISTAT e alcuni lavori dei sociologi, si scopre che il peso formativo e ordinativo, vincolante nella postulazione di una nuova socializzazione e di diversi stili di comportamento, di linguaggio e di costume, viene collocato dai minori non tanto nella vetrina dei media –cui la mediocrazia imperante della letteratura fa riferimento– quanto nell’impressionante peso che ha assunto nella modernità il gruppo dei pari e cioè tutte le socializzazioni di tipo paritario rispetto all’individuo. Basta guardare i sondaggi e osservare gli stili di vita dei ragazzi di oggi per accorgersi che c’è stata una riorganizzazione radicale nella socializzazione che non è più scambio dai genitori ai figli, dagli insegnanti agli allievi, dai professori alle nuove tribù ma scambio orizzontale, interattivo e non interazionistico, perché non si parla più di altro generalizzato quanto di io generalizzato. Si ricorre a questa dimensione della socializzazione soprattutto perché nei momenti di crisi si torna a valori più radicali come l’individualismo, la gratificazione dei bisogni giudicati elementari, gli interessi, la “perfezione del nulla”, tutti tipi di socializzazione che fanno dubitare di una modernizzazione di superficie della società italiana e anche di una socializzazione senz’anima. Se la letteratura sociologica ha descritto bene il cambiamento di gusto nella socializzazione, essa non ci dice quasi nulla sulla questione dei contenuti.

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che tipo di soggetto vogliamo formare e come vogliamo indirizzarlo. Su questo l’Università deve insistere di più, dato che essa sta diventando forse il punto in cui si può, più generosamente e consensualmente, costruire un punto di vista critico sul cambiamento e sulla modernità. È all’Università che dobbiamo chiedere più cultura, più riflessione, più ricerca, elementi che rimettano al centro l’uomo nel suo cambiamento.

Nota

Cfr. G. Statera, M. Morcellini, “Il fine giustifica i mezzi. Tesi su socializzazione/comunicazione nel vissuto dei minori”, in Sociologia e ricerca sociale, n. 29, 1989.

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alessandro simonicca antropologia delle infanzie

1. Antropologia, cioè studio degli adulti L’antropologia novecentesca si è rivolta sempre con attenzione verso l’infanzia, nelle tradizioni di ricerca sia britanniche sia americane. Nonostante le differenze, però, essa si caratterizza per una comune disposizione a subordinare l’intera ricerca alla comprensione del mondo adulto. L’antropologia, come incisivamente nota La Fontaine (1986), è stata sempre antropologia degli adulti, e per di più di adulti maschi. Accantoniamo in questa occasione la questione del gender e soffermiamoci sul pregiudizio che subordina il bambino alla società. La nozione di “socializzazione”, che spesso lega i due lati del rapporto, risulta ambigua perché ha a che fare, nella versione più diffusa, con la trasformazione dei bambini in attori sociali; e rimanda pur sempre ad una implicazione ideologica, che si tratti cioè di un contrasto fra natura e una socialità. L’opposizione fra naturale e sociale, in realtà, germina da una tacita pre/interpretazione di naturalità. L’assunto di base dell’antropologia britannica è, infatti, che la cultura abbia a che fare con lo studio della persona quale fascio di relazioni e ruoli sociali, non con soggetti psicologicamente (id est emotivamente) determinati. Anche nell’antropologia culturale statunitense, però, la prospettiva non muta, in Quaderno di COMUNICazione

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quanto l’attenzione è per lo più rivolta a spiegare, ad esempio, la distribuzione dell’iniziazione maschile entro il meccanismo della socializzazione correlandola agli spazi destinati al sonno, alla separazione del bambino dalla madre, e così via. Epperò, una verità l’antropologia degli adulti con sé la porta, ossia il fatto che i concetti e la semantica di cui si serve l’antropologo non sono universali né si riferiscono a realtà universali, ma a definizioni culturali e sociali. “Bambino” è una definizione sociale, così come “adulto”, non banali segni linguistici per definire o stigmatizzare la maturità o non maturità fisiologica. Il problema è di capire quali siano i contenuti che possiedono tali definizioni? Quale oggettivazione ottiene con ciò il bambino? Quale visibilità? Quali proprietà? In realtà, il bambino, come per le “donne”, rientra nei noti casi dei gruppi “muti”, di coloro cioè che non hanno voce per ragione di predominio da parte di gruppi egemoni, perché è stata loro tolta, e infine perché essi stessi la considerano di scarso valore. L’antropologia, dal suo canto, però, non può non essere interessato a tutto ciò, perché nella sua storia e nelle sue tradizioni più piene essa è sempre stata lo studio dell’Altro, come soggetto cui accedere, mondo da tradurre, valori da compenetrare, simboli da padroneggiare e riferire a sistemi di sensi e a modelli culturali. In una parola: comprendere partecipando alla vita di un gruppo. L’antropologo deve estraniarsi da sé per studiare l’altro. Bisogna capire cosa succede quando studiamo i bambini in questa prospettiva; cosa rimane quando ci decentriamo dalla nostra “occidentalità”. Rimaniamo “uomini” tout court oppure sempre “adulti”? E, per radicalizzare maggiormente la questione: cosa rimane di Noi e dell’Altro, quando revochiamo da Esso le nostre proiezioni di studiosi? Qui risiede il problema cruciale nello studiare antropologicamente i bambini. C’è che in tale studio sorge inesorabilmente una cesura temporale fra partecipazione ed osservazione, cesura del tutto speciale e inaudita, se non inevitabile, giacché i bambini non possono articolare le loro esperienze nel linguaggio degli adulti; e se solo dopo la infanzia ciò può essere espresso, l’esperienza può essere modellata unicamente da un

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linguaggio altro da quello dell’infanzia. Se siamo adulti, non comprendiamo l’infanzia; se comprendiamo l’infanzia, non siamo più adulti.

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2. Il doppio mondo sociale dei bambini Il bambino è insieme due “cose”; svolge due ruoli; intende due posizioni. È, rispettivamente, fascio di relazione e struttura vitale. L’infanzia è una struttura permanente, una componente strutturale del ciclo della vita, ma anche categoria sociale; è stadio dell’esistere, ma anche forma di vita; è struttura e azione. Ogni società significa, distingue, articola e posiziona i due aspetti della infanzia, dall’azzeramento della distinzione bambino-adulto sino alla loro massima contrarietà. Il “bambino” come l’“adulto” va, perciò, compreso entro la storia sociale delle categorie dello spirito, alla stessa maniera con cui M. Mauss (1938) ci ha insegnato a fare con la categoria di “persona”, e, sulla sua scia, C. Geertz (1966, 1974); ma in particolare a tale approccio vanno accostati altri due termini, la nozione di “età” o “corso della vita” di van Gennep (1909), e la nozione attuale di “generazione”. Per Van Gennep l’antropologia non deve analizzare azioni o costumi, quanto comprendere le sequenze del processo della vita. Per i gruppi, come per gli individui, vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo, mutare stato e forma, morire e rinascere; in altre parole, si Quaderno di COMUNICazione

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Diamo un’occhiata al modo in cui tendiamo a definire i bambini nei nostri luoghi occidentali. Sono definizioni ex negativo rispetto ad una “normalità” tutta adulta: soggetti che hanno bisogno di vivere “sani” dal punto di vista medico, andare a scuola perché debbono imparare, non accedere precocemente al mondo lavorativo. L’idea è di una sfera separata di bisogni, che conferisce loro una “normalità differente”. Non esiste idea di “bambino” senza che esista prima un’idea di “adulto”. Il bambino, insomma, è una forma di Alterità. Il bambino è un Altro e la sua identità è tale solo nel rapporto di opposizione/contrarietà con l’“adulto” (James 1993, Simonicca 1998).

tratta di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire, ma in modo diverso. Sono sempre nuove le soglie da varcare. Vivere, insomma, significa prima di tutto passare per stadi e gradi, che delimitano (sociologicamente e strutturalmente) il mutamento e la trasformazione personale, secondo uno schema tripartito: separazione, margine, aggregazione. Laddove non esistono classi di età (o gradi) propriamente dette, sussistono diffuse sequenze di riti che conducono gradualmente l’individuo dalla nascita all’età adulta, alla morte. Prendiamo ad esempio il rito del “passaggio dalla porta”, con cui il giovane esce dall’infanzia per entrare nell’adolescenza, divenendo uomo il ragazzo, donna la ragazza. Maturità sessuale, creazione di legami familiari e riconoscimento sociale sono tre aspetti che, pur variamente intersecati, sono solidali per il riconoscimento della nuova fase dell’adulto. Prendiamo il caso kenyota dei Taita: si diventa adulti solo se si diventa “fratelli del padre” (Harris 1978). Qui, sulla base delle ferree leggi biologiche su cui si impianta la vita, i riti e le categorizzazioni sociali trasformano gli eventi biologici in eventi morali. Di quale “moralità” è impregnata la nozione di “bambino”? Cui segue la madre di tutte le domande: «chi è mio padre?». Adulti si diviene, il che coincide con essere adulto; bambini si resta (come nota la frase di senso comune: “non fare il bambino”), il che significa essere bambini. Nel primo caso “essere” coincide con “divenire”; nel secondo “essere” coincide con “restare”. Quello del bambino è quindi un mondo sociale difficilmente transitabile. Non si tratta tanto di mondi con legami emotivi particolari, quanto una dimensione di vita con legami rituali particolari, che rendono coeso tale mondo. A chi somigliamo quando diveniamo “adulti”? A nostro padre, a nostro zio, ad un avo, ad un modello normativo? A chi somigliamo quando siamo bambini? A nessuno. La caratteristica dell’infanzia è quindi di comprendere due possibili

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3. Antropologia dei bambini L’antropologia dei bambini nasce quando l’etnologa Charlotte Hardmann (1973) svolge una ricerca sul campo in un cortile scolastico del plesso elementare di Santa barbara ad Oxford. Il suo problema era se si potessero studiare i bambini dal punto di vista antropologico. Il problema lo risolse “diventando” come loro, facendosi picchiare, tirare i capelli, raccontare le barzellette sporche, soffrire negli stessi giochi corporei. La questione era tutt’altro che impropria, in quanto i bambini non sono soliti rappresentare il loro mondo all’adulto, non lo comunicano, anzi resistono a comunicarlo. La soluzione è radicale: il bambino è in certa misura come il selvaggio, vive in un mondo suo, ha un suo linguaggio, ha sue pratiche di vita e di impegno. Bisogna quindi decentrarsi, defamiliarizzarsi, “indigenizzarsi”, ritrovare le proprie radici bambine. Bisogna insomma perdere la propria adultità per reperire e intendere il mondo sociale bambino, i cui orizzonti fondamentali sono il linguaggio, i riti, i simboli, il gioco (cfr. Loo, Reinhart 1993). E se a qualcuno non riesce, non resta che trarre la logica conclusione di abbandonare l’impresa, cessando di studiare questo universo: tale è il gioco ermeneutico della fusione degli orizzonti. Il fatto è che il binomio bambino/adulto rimanda ad una diade complessa, anche nella ricerca. È una coppia elementare leggibile, con relativa facilità, solo per il verso della adultità; più complicato nei termini delle pratiche e delle significazioni che i bambini adoperano per differenziarsi dal mondo adulto. Quaderno di COMUNICazione

L’immagine dell’età bambina come età aurea è anch’essa una invenzione adulta, un’idea romantica di naturalità e pienezza (che del resto Freud, a modo suo, tentò di porvi rimedio con una “scandalosa” antimitologia), frutto di un ideale adulto di purezza ed incontaminatezza. Della stessa sorte partecipa la tesi, propria della ecologia culturale, del bambino quale soggetto che deve imparare a scuola e al contempo essere difeso dalla sessualità adulta (Postman 1989). Le stesse affermazioni che l’infanzia è “scomparsa” e che le storiche differenze fra adulto e bambino sono venute a cessare per una neoefebica diffusiva omologazione televisiva, appaiono risposte largamente ingenue e schematiche: servono a chiarire le difficoltà (senz’altro indicibili, oggi) dell’adulto, non certo a comprendere meglio il bambino. Sia la tesi romantica sia la tesi massmediale (ambedue, in questo caso, catastrofiste) tendono a sottostimare la circostanza cruciale che il mondo autonomo del bambino risulta tale solo in funzione della sua dipendenza dal mondo adulto. Più in generale, l’enunciato normativo proprio dei Taita che i piccoli debbano divenire “fratelli del proprio padre” fornisce un’uscita dall’indistinto e dall’anomia. Viene a soluzione il reciproco riconoscimento e la reciproca distinzione fra padre/adulto e figlio/bambino. È una risposta specifica ad un problema di funzionamento insieme emotivo e sociale: cosa diventeranno i piccoli di uomo appena nati? Come si comporteranno e reagiranno dinanzi all’ordine maschile ed adulto istituito? Nessuna società, in verità, può permettersi il lusso di non temere i bambini; e ciò non significa tanto preoccuparsi di una loro presunta metafisica malvagità, si tratta piuttosto di cogliere il senso di apprensione, l’avvertimento del pericolo che le nuove leve non siano adeguate a riprodurre l’intiero da cui provengono. Ogni volta che nasce un bambino, è inevitabile che la comunità, il gruppo sociale di appartenenza si ponga in una situazione di rischio strutturale, in quanto dal punto di vista della riproduzione del sistema emerge un problema di riconduzione all’ordine. Che un padre dica, costernato: «chi è mio figlio?», dinanzi ad un colossale fiasco di quest’ultimo, è ben diverso dal caso in cui un figlio dica: Quaderno di COMUNICazione

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mondi sociali (rispetto ai tre schutziani): il mondo dei contemporanei e il mondo dei predecessori. Con il secondo mondo si intende il mondo scolastico del bambino che è precursore del mondo sociale dell’adulto. Con il primo si intende il mondo “autonomo” del bambino che compare precocemente: qui teatralità (immaginarsi un mondo) e cerimonialità fondano un autentico mondo sociale istituendo un ordine, cioè una serie di forme distintive, sulla dimensione continuistica dell’affettività (cfr. Harrè 1986). Il bambino non ha successori, resta solo bambino.

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4. Antropologia interpretativa e riproduttiva Di contro ai paradigmi deterministici e ai paradigmi evolutivi, è emerQuaderno di COMUNICazione

sa negli ultimi anni una nuova strategia di ricerca, che si basa sulla tesi della riproduzione interpretativa linguisticamente mediata (Ochs 1988, Schieffelin 1990, Duranti 1992). Quest’ultima teoria ci rende avvertiti che ogni qualvolta cambia il setting di riferimento di un gruppo di ragazzi, ha inizio una serie di ristrutturazioni gestaltiche: una serie di specifiche routine culturali si attivano, rimandando ad una dimensione comunitaria e simbolica nutrita di valori e di distinzioni, che trovano una chiave di volta sistemica nell’istituirsi di un comportamento di forte resistenza strutturale verso il mondo adulto. E, da questo punto di vista, è fondamentale individuare il modo con cui i bambini, nella loro “stessità”, pongono in essere argomenti e identificazioni atti a renderli autonomi, azioni e strategie idonee a sbarrare risolutamente la strada all’“estraneo”. In questo senso parlare di culture bambine, con pratiche e simboli propri, significa riferirsi a specifiche “comunità interpretative” capaci di fondare quella “ipersocialità” che tanto pervade i loro mondi. Tale “socialità” è radicale e forse esprime l’orizzonte più universale dell’essere bambino. Essa poggia su due temi centrali dell’azione (Corsaro 1998): - il tentativo di ottenere il controllo della propria vita; - il tentativo di condividere tale controllo in maniera reciproca, a livello materiale (giocattoli) e simbolico, in specie nel gruppo dei pari. Controllare la propria vita significa porsi in correlazione oppositiva con l’Altra cultura per eccellenza, che è quella Adulta; e su questo discrimine oppositivo nasce la “resistenza” e l’“opposizione”. Con la resistenza e con l’opposizione nasce la sfida al potere, performativamente espressa: “E io non mi lavo!” In verità, più che di “cultura adulta”, sarebbe forse più corretto parlare di “stili” o strategie dell’adultità, giacché quelle adulte sono forme difficilmente riconducibili ad unitarietà; e ciò vale in specie per i singoli adulti o per i singoli gruppi sociali, giacché la “cultura adulta” è tale solo dal punto di vista dei bambini. Quaderno di COMUNICazione

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«chi è mio padre?» In quest’ultimo caso, è in ballo la “genealogia” e la catena generazionale che struttura e porta all’individuazione sociale e alla trasmissione di valori, competenze, comportamenti. Il problema sorge, invece, quando questa strutturale dipendenza viene ad occultarsi. Diceva Lèvi-Strauss (1947:150) che, nascendo, ogni bambino porta con sé, in forma embrionale, la somma totale delle possibilità di cui una cultura ed ogni periodo della storia si limitano a scegliere una parte, per mantenerle e svilupparle; nascendo, ogni fanciullo porta con sé, sotto forma di strutture mentali abbozzate, l’integralità dei mezzi di cui l’umanità dispone dall’eternità per definire le sue relazioni con il Mondo e le sue relazioni con gli Altri. Persino la soglia del dolore o i limiti della resistenza, diversi in ogni cultura, non sono ancora fissati nei bambini, come mostrano le situazioni anche estreme che coinvolgono ogni gruppo infantile all’opera. Il bambino è connotato da una situazione di “assenza di limiti”, che elicita fascino e insieme timore; è quindi un estraneo che deve familiarizzarsi con il mondo di appartenenza. Il bambino diceva J. Kidd nel 1906, è una sorta di “fachiro”: basta guardare i suoi giochi corporei. E, ancora più a fondo, in un famoso intervento su Babbo Natale suppliziato, sempre Lèvi-Strauss (1967:245sgg.) affermava che nel rapporto fra adulti e bambini, dietro le manifestazioni antropomorfiche, è inscritto un rapporto molto più essenziale, fondativo, il rapporto fra i vivi e i morti, ove i bambini, metafora dei morti, rimandano alla fondamentale fragilità strutturale dell’ordine sociale. I “selvaggi” hanno una “saggezza” più profonda della nostra e dichiarano in maniera diffusa che il bambino “non è una persona”; non solo, ma rifiutano di fare i sociologi o gli antropologi dell’infanzia. Comprendiamo la radicalità della scelta, che –va rammentato– è soprattutto un rituale di individuazione; ma come facciamo a seguirli, ad imitarli, rimanendo prigionieri del nostro “sguardo”?

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En France comme ailleurs, des discours alarmistes ont depuis quelques années dénoncé l’effacement, voire la disparition des valeurs et des repères organisateurs du monde social, la prétendue “crise” de la famille symbolisant à elle seule les déstabilisations observées. Le sentiment d’une rupture est aussi alimenté par la représentation commune qui veut que les âges de la vie ne se différencieraient plus comme par le passé: serait advenu une époque consentant à des mélanges inédits, rendant floues les frontières traditionnelles du cycle de vie, vieillissant peut-être de facto le concept de life course, qui implique une représentation scandée du temps humain, dissociant en particulier les temps sociaux de l’enfance, de l’adolescence, puis de l’âge adulte. Quaderno di COMUNICazione

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Riferimenti bibliografici

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catherine pugeaut Risorse immaginarie dell’identità e life course

L’opposizione al mondo adulto avviene con un’interpretazione autonoma della propria esistenza come gruppo a sé. La resistenza non è devianza; piuttosto essa è quella inversione e/o quella trasgressione che evidenziano il fatto che un sistema (quello dell’adulto/bambino) si pone/si è posto in moto, e che, come tutti i sistemi sovraordinati, produce resistenze dal basso. Per comprendere adeguatamente l’altro versante, quello adulto, bisognerebbe iniziare a percorrere un ulteriore sentiero, quello delle “etnoteorie genitoriali” (Harkness, Super) 1998), ossia i sistemi di credenze relative alle immagini che i genitori/adulti hanno circa il bambino e l’insieme degli effetti che tali immagini immettono nelle azioni della vita quotidiana. È sul rapporto incrociato fra questi due sistemi di sguardi che dovrebbe iniziarsi a discutere, ed è su queste nuove “frontiere” della conoscenza che probabilmente si giocheranno i prossimi scenari.

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Le drame identitaire contemporain Travailler sur le phénomène Diana, c’est faire apparaître un objet bien éloigné du contenu des articles de la presse people. Deux thèmes apparaissent centraux dans les discours recueillis, ceux de la monarchie et de l’action humanitaire. Ce n’est pas là un hasard, car ils fonctionnent symétriquement et renvoient à deux facettes clefs des modes de construction des identités contemporaines: la monarchie renvoie à des obliQuaderno di COMUNICazione

gations statutaires, l’action humanitaire à l’épanouissement personnel. En fait, tout se passe comme si les représentations collectées sur Diana réduisaient celle-ci à n’être qu’un agent double, écartelé entre ses dimensions princière et humaine-féminine. Or en déclinant des portraits de Diana et en définissant ce qu’aurait été sa vraie nature, les enquêtés interpellent leur propre dualité et se révèlent d’autant moins neutres qu’ils se sentent confrontés à une difficulté symbolique: penser cette hétérogénéité, cette pluralité et les contraintes qui leur sont associées. Cet embarras, qui n’est que rarement très conscient, n’en a pas moins des effets sociaux importants. Il conduit à juger le fonctionnement du monde, la relation entre l’acteur et le système, l’individu et la société, en s’interrogent sur la nature du lien social. Dans ces conditions, parler de Diana revient à se positionner par rapport à un débat engageant des valeurs. Et la critique commune de la monarchie est utilisée comme une critique de transfert révélant une anxiété sociale, écho du caractère dramatique de la tension identitaire contemporaine, éprouvante dans la vie quotidienne. La conciliation des tensions requiert en effet une plasticité mentale importante pour dépasser les contradictions inscrites dans les deux dimensions statutaire et intime. Elle justifie des inquiétudes, qui s’expriment notamment dans la crainte de la confusion des genres –notamment sexuels–, qui déclasse les uns: les hommes certes, mais aussi les femmes, dont on continue spontanément à sélectionner les attitudes traditionnelles –conjugales et maternelles–, alors même qu’on vante publiquement leur modernité. Certains résistent symétriquement à l’absorption de notre humanité dans les logiques statutaires, qui impliquent de porter des masques et supposent des apprentissages stressants, une formation continue pour maintenir ses capacités d’adaptation dans le monde social. Diana symbolise alors parfois une alliance possible, une réconciliation de ce qui a été historiquement séparé, le privé et le public, la rationalité instrumentale et le registre affectif. Le phénomène Diana est en ce sens à la société de services ce que le film de Fritz Lang Metropolis a pu représenter dans la société industrielle: une mise en scène de la quête d’une réconciliaQuaderno di COMUNICazione

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Le travail présenté dans ce texte s’inscrit dans une recherche originale en cours d’exploitation. Il peut être défini comme un essai de sociologie de la réception d’un fait médiatique. A été étudié l’ensemble complexe des pratiques et des représentations qui auraient été celles valorisées par la princesse de Galles du point de vue de personnes qui, objectivement, n’avaient jamais rencontré cette femme. Les faits divulgués par les média sont toujours réinterprétés par les acteurs sociaux, ces derniers subissant moins la presse people qu’on ne l’imagine communément. Ce que l’on observe, c’est au contraire la capacité des acteurs sociaux à mobiliser leur imagination, à inventer ce qu’aurait été la réalité du personnage de Diana, à la raconter comme si elle avait été ce qu’ils prétendent en savoir et deviner. Ce faisant, ceux qui produisent ces images se livrent eux-mêmes comme membres d’une société, laissant entrevoir ce qui les anime à titre personnel et collectif et, notamment, leur rapport à l’enfance, mobilisé pour réaffirmer certaines hiérarchies d’âge. Loin de l’anecdote, l’analyse sociologique de la réception de l’histoire de Diana est édifiante, elle permet d’observer l’articulation de différentes ressources identitaires médiatisées par l’imaginaire en mettant l’accent sur la manière dont elles se combinent avec des définitions normatives des âges de la vie – opposant le temps de l’enfance au temps de la vie adulte. Les résultats provisoires de l’enquête sont obtenus sur la base d’un matériau constitué d’une cinquantaine d’entretiens semi-directifs réalisés auprès d’un échantillon de la population française, résidant plus précisément en Ile de France.

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Un drame qui implique des épreuves On l’a dit, le monde contemporain est souvent décrit comme exigeant pour les individus, soumis aux pressions parfois contradictoires des intérêts statutaires et personnels. Il met tout un chacun en position de vivre une existence scandée par des épreuves de nature multiple, scolaire, familiale, professionnelle, sportive, médicale... Ces épreuves renvoient à des manières de vivre des examens, des entretiens d’embauche, un chômage, un divorce, une maladie... Elles font écho à des injonctions, à l’obligation de performance, à celle de vaincre ses difficultés en réussissant, en devenant le héros de sa vie quotidienne. Dans ce monde mettant l’accent sur les acteurs sociaux, observant des femmes actives, valorisant la retraite active –voire la mort active–, comment être à la hauteur de ces injonctions multiples et convergentes? Il semble que la manière dont les personnes interviewées se sont appropriées l’histoire de Diana soit très directement liée à cette caractéristique de notre société. C’est aussi l’identification de la nature éprouvante de la vie de Diana qui pousse spontanément certains à recadrer son histoire dans une structure de conte de fées, la presse ayant de son côté contribué à diffuser cette représentation. Les épreuves de Diana offraient sans doute ici un point de reconnaissance. Les épreuves inQuaderno di COMUNICazione

dividuelles de Diana sont percues comme faisant écho à des épreuves humaines plus générales. Or tel est bien l’un des caractères majeurs des mises en scène inscrites dans les contes: ils doivent concerner tout le monde, quelle que soit les positions singulières. Les femmes mettent ici seulement plus souvent en valeur les épreuves affectives, quand les hommes semblent plus souvent mettre en scène les épreuves plus statutaires –la réussite sociale, le permis, les examens… L’objet du conte merveilleux est bien la mise en scène d’épreuves, conduisant à une initiation. De manière homologue, la fiction retraçant l’histoire de Diana s’identifie régulièrement avec le récit d’une initiation sur le point d’aboutir, initiation supposant une transition identitaire. L’enjeu des épreuves d’intronisation sociale: la participation au jeu social par l’obtention d’une place Or les transitions identitaires suscitent des doutes. Les personnages qui peuvent les représenter suscitent dès lors à la fois admiration et méfiance: joueront-ils jusqu’au bout le jeu social de la reproduction, leurs idéaux ne les pousseront-ils pas à dévier? Ils illustrent une tension entre l’envie de suivre ses idéaux et la nécessité de se conformer pour bénéficier d’une reconnaissance sociale. Certains discours recueillis sont édifiants, ils laissent bien voir que les idéaux renvoient à l’imaginaire et le fonctionnement social au principe de réalité. Les institutions scolaires, la famille –les parents en tout premier lieu– et les amis sont les médiateurs de la confrontation douloureuse entre le rêve plein d’espérance et la réalité. L’histoire de Diana fait écho à cette tension et tout particulièrement à l’obligation sociale de devenir adulte en passant par des protocoles. Elle renvoie au thème de l’initiation et à ses rites de passage bien connus des anthropologues. A travers les rites, les individus changent d’état et ils deviennent autres. Nombreux sont ceux qui décrivent de fait le destin de Diana comme un parcours d’épreuves débouchant sur une transformation identitaire induite par le dépassement de soi. La référence au conte n’est pas innocente, elle permet d’évoquer le Quaderno di COMUNICazione

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tion du cœur et de la tête. Plus largement, il fournit un support pour revivre un débat antique, celui de la lutte de la raison et des passions et de la tentation de refouler les secondes. Le drame identitaire contemporain ici défini dans ses caractères les plus typiques renvoie ainsi à une question sociologique fondamentale. Comment, en définitive, définir un ordre structurant et stable? En parlant de la femme-princesse Diana et en insérant celle-ci dans une sorte de création artistique à usage personnel, nos enquêtés ont indirectement révélé comment ils puisaient dans cette fiction des ressources imaginaires pour continuer à ordonner le monde, bien loin, du moins pour la plupart d’entre eux, d’y rechercher du rêve pour compenser passivement les manques vécus dans la réalité quotidienne.

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La réaffirmation des hiérarchies statutaires liées à l’age Car tous ne se laissent pas porter identiquement par leur imaginaire, le principe de réalité est de nouveau placé en avant-poste, aux aguets. Le parallèle avec un conte est admis, mais peut être aussitôt souligné un refus d’adhérer personnellement au récit. Cette attitude se traduit par l’utilisation de termes comme “les autres”, “les gens”, “eux”, “les fans”… L’adhésion est rapportée à autrui et non à soi. Le fan, c’est toujours l’autre, prêt à croire, disposé à franchir en définitive la frontière symbolique qui sépare le rêve de la réalité, enclin à confondre la représentation imagée du lien social avec son existence réelle, qui implique pour sa part un partage d’expériences. Les réticences reflètent une conviction, il ne faut pas se laisser emporter par le charme de l’histoire, sous peine de perdre quelque chose, de chuter. Quel est ce danger pressenti? Pour comprendre ce que ces acteurs redoutent en laissant libre cours à leur imagination, il faut examiner leurs perceptions de ces autres qui sont disposés à croire: ce sont toujours des inférieurs sociaux. La pensée du seuil à ne pas franchir fait ainsi écho à la représentation de ce qui structure l’ordre social, en tout premier lieu à la force du repère fourni par l’âge. La distinction hiérarchisée entre le registre du monde réel et le registre de l’imaginaire pousse à affecter à chacun un âge de la vie. L’enfance, c’est le fait de pouvoir rêver. Après, la vie active, c’est la confrontation à la réalité, on ne rêve plus, on a des responsabilités qui prennent le pas sur l’insouciance. Ce propos d’une enquêtée résume assez bien un ensemble de prises de positions. Les contes seraient deQuaderno di COMUNICazione

stinés aux seuls enfants. Mais la valorisation est à la hauteur de l’ambivalence de ces enquêtés, qui admettent la nécessité de cultiver l’imaginaire tout en la récusant, quand ils la renvoient ainsi dans l’enfance. Comment cette forme de déni est-elle justifiée? Pour répondre à cette interrogation, il faut rendre compte de la manière dont l’enfance est perçue. Elle est le plus souvent connotée positivement et représente le temps du bien-être, de la tranquillité d’esprit, de la quiétude, du bonheur. C’est le temps des certitudes, mais aussi des illusions sans conséquences, deux facteurs de sérénité. Pendant l’enfance, les contraintes matérielles ne sont pas ressenties, car même quand elles existent, leur gestion incombe moins aux enfants qu’aux parents. Place à l’imaginaire dans ce monde où les contraintes restent discrètes et où, quand il n’est pas perturbé par des drames particuliers, le temps de l’enfance engendre un rapport au monde confiant: l’enfance serait le temps privilégié de la confiance, c’est-à-dire le temps des fermes espérances, qui soutiennent un sentiment d’assurance, d’audace et d’aisance sociales ouvrant sur l’action, peu portée à s’autocensurer dans ces conditions. Elle forme ce temps où l’on ose. Quand on est jeune, la confiance se placerait plus aisément qu’à l’âge adulte dans les personnes d’une part, dans le temps présent et futur, plein de promesses de réalisations d’autre part. Surtout, la confiance se placerait en soi-même, dynamisant par la même l’action et nourrissant un rapport au monde optimiste. L’enfance serait le temps de tous les possibles, le temps de liberté et de la foi, de la crédulité acceptable et de l’abandon sans retenue. C’est pourquoi nombre d’enquêtés ont une nostalgie du passé assez forte. L’enfant n’est pas un individu incertain, il a une capacité à construire sa réalité en se l’appropriant, réalité dont les frontières sont sans doute mouvantes, mais dont il est lui-même un point stable. C’est le passage du temps qui rend instable cette représentation à la fois apaisante et dynamisante. Se pose ainsi la question du seuil. Tous dessinent une frontière entre ce monde de l’enfance, révolu, et le monde adulte. Le sentiment dominant est celui d’une rupture traumaQuaderno di COMUNICazione

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protocole qui assigne des places, le protocole des grands de ce monde, mais aussi celui des petits. On perçoit alors combien certaines déclinaisons de Diana fonctionnent comme des rappels réaffirmant l’existence de règles sociales dont le non respect devient dangereux. Ressource imaginaire d’action dans la mesure où il met en scène un cheminement, le conte est aussi alors ressource de réaction, fiction rassurante quand sa structure redouble celle de l’ordre social.

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Conclusion Ainsi, loin de ne constituer qu’un ensemble de prises de positions sans intérêt apparent, les discours recueillis réaffirment l’existence d’un ordre du monde fondé sur les hiérarchies d’âge et les risques associés aux mélanges: en clair, on ne peut être adulte et enfant à la fois et, pour jouir de la supériorité sociale reconnue aux adultes, il faut traquer en soi l’enfant qui nous diminuerait, dans la mesure où il nous mettrait en situation d’être dupé. Les adultes s’interdiraient en particulier de rêver dans un monde réel plein de dangers: ils refuseraient de s’appuyer sur Quaderno di COMUNICazione

des structures symboliques, ce qu’acceptent au contraire les enfants, lorsqu’ils puisent dans le conte des ressources d’action. Le phénomène Diana forme ainsi un objet d’étude intéressant, révélateur des tensions auxquelles sont soumises les identités contemporaines en construction, mais aussi d’une fascination ambivalente pour l’enfance: dans notre société l’enfant est d’une certaine façon un roi, mais dans notre société les adultes ont aussi peur des enfants qui sont en eux.

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tisante au sortir de l’enfance. Il faut alors absorber le choc du contact avec la dure réalité qui vous oblige à voir la vie en face. Le monde adulte est connoté négativement, c’est le temps de la vie difficile et contraignante, des horaires imposés, du désenchantement et du rejet des illusions associées à ce qui est défini comme faux, parce que trop improbable: le futur fait croître ici l’incertitude, d’où une tendance à se replier sur le présent. Advient le temps du doute, de la méfiance, de la défiance et du calcul estimant les risques, du manque de confiance en soi, qui censure les projets faute de pouvoir croire en leur réalisation. Un enquête refuse ainsi d’envisager son avenir sentimental, car il craint de vivre dans l’imaginaire. La peur de se perdre dans le rêve prend sens ici, elle redouble celle de se déconnecter du réel, seul à être tangible et tristement certain. L’ouverture sur le rêve devient synonyme de danger et est reléguée dans le passé de l’enfance et de la jeunesse, un monde définitivement quitté, qui ne reviendra pas. Les rêves de jeunesse ne sont plus justifiés. Rosanna oppose les temps sociaux du cycle de vie et les conceptions qu’ils autorisent. Entre mon adolescence et maintenant, ce n’est plus le prince charmant dit-elle avant d’ajouter: le mariage pour moi ce n’est pas un rêve, c’est une réalité. Vivre dans le rêve n’a plus de signification. Dès lors, la reconnaissance d’une frontière symbolique entre les âges de la vie pousse à voir dans les adultes qui la transgressent en adhérant à l’histoire de Diana des êtres restés enfants et souffrant d’immaturité.

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vincenzo cicchelli double bind e comunicazione nelle famiglie con giovani adulti

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autonomia, di una propria responsabilità ben prima dell’accesso all’età adulta. Tale ambivalenza dei giudizi sulla situazione giovanile è presente in Francia come in Italia, paesi che hanno conosciuto i fenomeni sociali alla base della condizione del giovane adulto: il protrarsi della convivenza fra le generazioni, l’allungamento degli studi universitari, l’accesso all’università di quote sempre più ampie di frazioni sociali un tempo escluse, l’aumento della disoccupazione giovanile. I giovani adulti in Italia e in Francia: tre differenze fondamentali Quando si comparano con più attenzione i due paesi, si discernono tre differenze sostanziali nei fatti e nel giudizio dei fatti. Primo, seppur maggiormente diffusa che nel passato, la convivenza fra le generazioni è un dato meno importante in Francia. Nel 1994 la percentuale dei ragazzi/ragazze francesi che vivono dai genitori riguarda rispettivamente il 95% e 91% dei 15-19 anni, il 62% e 42% dei 20-24 anni, il 22% e 10% dei 25-29 anni [Scabini & Rossi, 1997]. Per cogliere appieno il protrarsi del fenomeno, si può notare che nel 1983 la percentuale dei ventenni che risiedevano dai genitori era del 59%; nel 1992, tale cifra aveva raggiunto quota 72% [Galland, 1995]. È tuttavia vero che a 22 anni, la metà dei ragazzi nati fra il 1963 e il 1967, avevano abbandonato l’alloggio dei genitori; per le ragazze della stessa generazione, l’età mediana della partenza è addirittura più bassa, 20,5 anni [Villeneuve-Gokalp, 2000]. Non è quanto accade in Italia se è vero che nel 1994 la percentuale dei ragazzi/ragazze italiani che abitano presso i genitori è rispettivamente del 97% e 95% nei 15-19 anni, del 92% e 82% nei 20-24 anni, del 66% e 44% nei 25-29 anni [Scabini & Rossi, 1997]. Allorché prendiamo in considerazione il gruppo dei giovani di età più avanzata, constatiamo che nel 1998 il 38% di loro viveva dai genitori, contro il 27% otto anni prima [Saraceno, 2000]. Inoltre ciò che distingue più profondamente le due coresidenze sta nel fatto che la partenza dei giovani francesi è morfologicamente più complessa [Bozon & Villeneuve-Gokalp, 1995; Villeneuve-Gokalp, 1997], visto da una parte che essa non sempre è defiQuaderno di COMUNICazione

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L’ossimoro giovane adulto Mi è sembrato opportuno presentare un tema di ricerca che tanto interesse solleva nel dibattito politico, sociale e accademico nella Francia degli ultimi anni, con lo scopo di pervenire ad una proficua intelligenza del rapporto fra le generazioni. Parlo della questione dei giovani che protraendo il soggiorno, la dipendenza materiale, la fase di socializzazione dalle famiglie di provenienza, sono stati chiamati, con felice espressione giovani adulti. I conoscitori della retorica classica non faranno fatica a ravvisare in tale arguto ossimoro l’accostamento di due termini a primo acchito contraddittori: giovane e adulto appunto [Cigoli, 1988]. E siccome il senso comune, e tanta parte della letteratura sociologica1, tendono a contrapporre in maniera antinomica questi due termini, si capisce come tale ardita associazione sia palesemente volta a sottolineare la stranezza e la novità della realtà che vorrebbe cogliere, portando sulla medesima un giudizio. Perché se il dilazionarsi della dipendenza dai propri genitori è un dato di fatto, considerare i soggetti che la vivono come giovani adulti dà luogo a un giudizio negativo o positivo, a seconda della valenza che uno dei due termini di volta in volta acquisisce. Allorché si considera questa situazione come potenzialmente inibitrice, la dipendenza prolungata è fatalmente ritenuta come colpevole di ritardare nella giovinezza individui che dovrebbero già essere adulti. L’ossimoro serve allora a giudicare il giovane per quello che ancora non è, ma che sarebbe dovuto essere, adulto, maturo, indipendente, responsabile e via discorrendo. È tuttavia possibile attribuire a questa medesima situazione un significato più positivo ritenendo che i soggetti in stato di dipendenza hanno, seppur giovani, esigenze, richieste, necessità da adulti. In tal caso si ritiene possibile intravedere l’orizzonte di una propria

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do in causa le solidarietà pubbliche. Anche se una decisione governativa non è ancora stata presa, si discute se innalzare la soglia dell’età prevista per l’erogazione degli assegni familiari alle famiglie con studenti a carico oppure se attribuire al giovane stesso un sussidio, possibilmente dalla maggiore età in poi. Seppur le due proposte poggiano su opposte filosofie politiche –grossolanamente la prima appare più “familista”, mentre la seconda più “individualista”–, esse hanno in comune il fatto che i loro fautori sono concordi nel considerare lo Stato come un partner imprescindibile nel garantire il funzionamento ottimale della famiglia. In Italia, paese in cui il Welfare State poggia su una forte distinzione fra pubblico e privato, tanto da scoraggiare lo Stato dall’intervenire nella sfera domestica in maniera così capillare come in Francia [Saraceno, 1998], i rischi legati all’allungamento della socializzazione familiare sono rimandati all’agenzia di cura per antonomasia delle giovani generazioni: la famiglia appunto. Capire le famiglie dei giovani adulti con studenti universitari a carico: il caso francese Pur conscio dell’apparente impopolarità di quanto vado ad asserire, mi sembra doveroso dichiarare da subito che personalmente propendo per un’analisi pacata della realtà familiare odierna. È indubitabile che la mia presa di posizione debba molto al fatto che, come summenzionato, le famiglie con giovani in adulti in Francia non sono abbandonate a se stesse dallo Stato e dai suoi organi. Tuttavia non si tratta neppure di indulgere ad atteggiamenti ingenui, ritenendo che le famiglie contemporanee siano il migliore dei mondi possibili. È doveroso allora passare ad un’attenta disamina di quanto accade nelle famiglie con giovani adulti chiamando in causa strumenti di analisi che permettano di cogliere nel contempo l’esistenza di difficoltà e il tentativo di risolverle, l’esplodere dei conflitti e il rappacificamento, la tensione e la conciliazione. L’analisi verterà sulle aspettative delle due generazioni coinvolte nel protrarsi della dipendenza, sulle risposte che ognuna dà alle aspettative stesse. Quaderno di COMUNICazione

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nitiva, ma può dar luogo a eventuali ritorni, e dall’altra parte che essa è intermittente, poiché l’anno accademico molti giovani rientrano dai genitori per il fine settimana. Se l’opposizione fra la permanenza e l’indipendenza residenziale diventa poco calzante nel caso francese, continua ad essere operativa nel caso italiano [Facchini, 2000]. Secondo, proprio perché il fenomeno studiato è ben più vistoso, i sociologi italiani sembrano da esso più allarmati. Non è un caso che abbiano aggiunto l’aggettivo “lunga” per caratterizzare la famiglia che accoglie nel suo seno i giovani sino ad età inoltrata [Donati, 1988]. La famiglia lunga si connota come lo spazio entro il quale si consuma uno dei drammi sociali più gravi. Il declino della fecondità, che pone l’Italia ai vertici della classica mondiale della bassa natalità, è causato anche dall’innalzamento dell’età al primo matrimonio e alla primo-maternità [Saraceno, 2000]. Non lasciando il domicilio dei propri genitori, id est rimanendo a lungo figli e figlie, i giovani italiani stentano a loro volta a diventare padri e madri. Se all’inizio del 1990, il 52% dei 25-34 anni erano già genitori, tale quota scende al 35% dieci anni dopo [Saraceno, 2000]. Ciò non accade in Francia, paese che pur avendo conosciuto un abbassamento plurisecolare della fecondità, è riuscito a ridimensionare il problema: le donne francesi sono attualmente fra le più prolifiche in Europa. Terzo, il posto occupato dal giovane adulto nel dibattito pubblico è di gran lunga più significativo in Francia dove esso è diventato tanto rilevante da poter essere considerato come una questione politica. In Italia, a causa di una maggiore incisività del fenomeno della coresidenza fra le generazioni, la questione del giovane adulto è stata analizzata quasi esclusivamente dal punto di vista della socializzazione familiare. Forti perplessità sono state sollevate, in molti temono che un eccesso di famiglia impedisca il distacco fra le generazioni e influisca sulle capacità degli individui di inserirsi nel mondo degli adulti [Cavalli, 1997; Scabini & Cigoli, 1997]. Una famiglia troppo accogliente rischia di non offrire ai giovani le condizioni per raggiungere la definitiva indipendenza. In Francia, il dibattito sociale più recente tenta di congiurare tali rischi chiaman-

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L’ingiunzione alla responsabilità La questione princeps dei genitori che si fanno carico degli studi universitari dei figli è dunque la seguente: come garantire il conseguimento di titoli di studio mediante il prolungamento della fase di dipendenza dei giovani senza tuttavia trasformare i giovani stessi in soggetti eteronomi? Si tratta di raggiungere un giusto equilibrio che consenta di garantire l’assistenza senza che questa si trasformi in assistenzialismo. Al fine di risolvere nella pratica tale dilemma, i genitori fanno appello ad una nozione che eviti, a loro dire, che il raggiungimento di un obiettivo pedagogico leda un altro: si tratta della responsabilità. Tale nozione Quaderno di COMUNICazione

si estrinseca nell’invito rivolto al giovane a diventare un vigile osservatore delle proprie azioni, tanto in ambito scolastico che in ambito sentimentale, degli svaghi ecc., in modo da confermare agli occhi dei genitori il nascere e fortificarsi di una coscienza morale, di una riflessività, di una maturità. Ma l’essere responsabili non significa solo essere capaci di assumersi il compito di giudicarsi, altresì di rendere conto a terzi dell’esito positivo delle proprie azioni, del raggiungimento dei propri traguardi. Nel momento stesso in cui i giovani sono chiamati ad essere più maturi, si rivolge loro anche la domanda correlata di continuare a legittimare il ruolo-guida dei genitori in ambito educativo. L’ingiunzione alla responsabilità consente ai genitori di prolungare le incombenze educative, mantenendo forme di controllo su figli e figlie alle soglie dell’età adulta. Questi ultimi sono allora adulti perché chiamati ad essere pienamente responsabili, pur rimanendo giovani dato che tale processo si svolge sotto stretta sorveglianza. Tale soluzione pratica ai dilemmi dell’educazione moderna assume tuttavia le vesti di un double bind, o doppio legame. In omaggio ai ricercatori della scuola americana di Palo Alto, possiamo definire con tale sintagma ogni forma di comunicazione (familiare e non) in cui un messaggio prescrive di perseguire due fini incompatibili. Una tale struttura impone al destinatario un’impossibile adesione al messaggio, dato che la risposta deve necessariamente risultare insoddisfacente per il mittente2. “Sii adulto”, nel senso di maturo, “pur rimanendo sotto il mio vigile controllo”, in quanto oggetto di educazione, è un messaggio che appartiene a questa classe di ingiunzioni paradossali dato che il giovane è messo in condizione di non poter raggiungere i due obiettivi simultaneamente benché questi siano considerati come strettamente correlati. Se l’obiettivo princeps dei genitori di giovani adulti è la responsabilità, l’obiettivo princeps dei giovani adulti è la conquista dell’autonomia. Come diventare autonomi in un contesto di allungamento della tutela famigliare? I giovani si vedono allora costretti a subordinare la conquista della loro capacità ad essere autonomi, cioè creatori di nomos, di regole proprie, alla verifica altrui delle regole stesse, segnatamente ma Quaderno di COMUNICazione

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I dilemmi dell’educazione moderna Quando si analizzano i contenuti dei discorsi e si osservano le pratiche dei genitori che si fanno carico degli studi universitari dei figli, ci si accorge dei dilemmi che attanagliano gli educatori. Da un lato, nelle nostre società in cui il posto di ogni soggetto nella struttura e gerarchia sociale è quasi esclusivamente legato al possesso o meno di titoli di studio –e non di proprietà, beni mobili o immobili ereditati dalla famiglia di origine–, l’investimento in capitale umano è una delle definizioni sociali più legittime del ruolo dei genitori. Ciò spiega quanto importanti siano gli sforzi prodigati dai genitori affinché i figli ottengano titoli di studio [Bourdieu, 1989; de Singly, 1997]. L’inflazione dei titoli di studio, la disoccupazione giovanile, la richiesta sociale di posti ad alta qualifica spingono i genitori ad accondiscendere a farsi carico di periodi sempre più lunghi di formazione. Dall’altro lato è altresì vero che tale auspicio viene a cozzare con un altro ambito educativo in cui operano i genitori, vale a dire la formazione di un individuo adulto. Sorge il dubbio che il primo obiettivo dell’educazione, id est il conseguimento di titoli di studio, sospenda per un tempo troppo lungo la fase di acquisizione delle responsabilità proprie della vita adulta. Ciò spiega le reticenze dei genitori nel farsi carico degli aspetti meno legati all’universo della formazione scolastica, come i divertimenti, i viaggi, gli svaghi, le spese per vestirsi, che pure costituiscono un elemento primario della vita giovanile.

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L’ingiunzione al sostegno nella transizione all’autonomia Non si creda però che da parte dei giovani non ci siano attese complesse che a loro volta mettano i genitori nella difficoltà di rispondere. Diventare autonomi non significa agli occhi dei giovani diventare indipendenti, nel senso di attori relazionalmente isolati. Nel momento in cui rivolgono ai genitori una domanda di autonomia, i giovani richiedono loro di accompagnarli sulla strada che porta a tale definizione di sé. L’autonomia è una costruzione che si realizza per il tramite del proprio tutore che non una conquista ottenuta scalzandolo. Un genitore che concede spazi di libertà, di movimento è chiaramente apprezzato purché ciò non lo conduca ad abdicare al dovere di cura psicologica, insieme identitaria e relazionale [Cicchelli, 2001a]. In caso contrario, apparirebbe agli occhi dei figli/figlie come indifferente, reo di tradire la sua missione giacché la funzione educativa di sostegno prosegue con il procrastinarsi della socializzazione familiare. “Dammi le condizioni della mia autonomia e continua a farti carico dei miei bisogni”, ecco il tipo di messaggio, un chiaro double bind anch’esso, che i giovani trasmettono ai genitori. È quanto accade segnatamente nell’ambito della conciliazione fra la vita scolastico-universitaria e la vita extra-scolastico-unversitaria: impegnarsi a fondo all’università senza tuttavia rinunciare agli svaghi, alle aQuaderno di COMUNICazione

micizie, agli amori propri dell’età giovanile costituisce l’accomodamento ideale nel proseguimento degli studi. Ciò che ci interessa di rimarcare in questa sede è che gli studenti invitano i genitori ad intervenire affinché i due obiettivi siano raggiunti. Da una parte, richiedono l’erogazione di quelle risorse, monetarie e meno, e di quei beni e servizi, materiali o meno, che consentano loro di affrontare in modo sereno gli studi universitari; d’altra parte, esigono altresì il riconoscimento di altre dimensioni non scolastico-universitarie della loro identità. È possibile distinguere fra una domanda di sostegno di inquadramento (volta ad ottenere risorse operative per affrontare gli studi) e un’altra di ricomposizione (volta ad ottenere il riconoscimento di tutte le dimensioni dell’identità del giovane, pure extra-scolastico-universitarie) [Cicchelli, 2000]. In entrambi i casi si richiedono ai genitori grandi doti di interpretazione del messaggio, molte volte implicito, lanciato dai giovani, e soprattutto la capacità di tradurre in pratica il senso del messaggio stesso. Qualora i genitori rispondano positivamente alle domande dei figli/figlie, la famiglia diventa una risorsa identitaria necessaria al prosieguo degli studi, alla realizzazione della vita giovanile. In caso contrario, s’instaurano forme di malinteso, di incomprensione reciproca, elementi che possono minare i rapporti fra le due generazioni. Chiedersi perché i genitori non esaudiscono i propri auspici introduce di soppiatto la risposta più pericolosa, quella che scarta l’incompetenza e insiste sul carattere volontario dell’omissione. L’introduzione dell’ermeneutica nell’ambito delle relazioni familiari può aver l’effetto di svegliare i fantasmi a lungo sopiti del sospetto. Verso una comunicazione democratica Non è possibile risolvere logicamente il doppio double bind che alimenta la retorica e l’agire delle due generazioni. Occorre che da parte di genitori e figli ci sia uno sforzo pratico per superare quella situazione di frustrazione che i double binds possono ingenerare. Questo sforzo della volontà risponde al tentativo di riformulare le relazioni verso una dimensione che non sia soltanto relazionale, come lo dimostrano i douQuaderno di COMUNICazione

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non esclusivamente nell’ambito della circolazione delle risorse monetarie [Cicchelli, 1997]. È per questo che nei loro discorsi trapela un malessere, un disagio laddove non si ritengono capaci negli atti della vita quotidiana di convalidare le attese dei genitori. Come definirsi autonomi se un dato comportamento non sembra conforme ai desiderata emessi dai genitori? Da qui tutta una serie di giustificazioni complesse atte a lenire un forte disagio nel mostrarsi indegni della ratificazione delle clausole stabilite nel contratto imposto dai genitori. Non sorprenda allora che coloro che si considerano autonomi siano quelli che rifiutano ogni ingerenza palesata dai genitori nella vita quotidiana. Delegittimare il ruolo di giudice e tutore può diventare per taluni un mezzo per sfuggire alla morsa del double bind.

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sviluppo della sua personalità. Ciò non vuol dire che i più giovani accettano solo quello che conviene loro, ma che per essere rispettata, la legge deve effettivamente proteggere il suo destinatario. Allo stesso modo, i giovani tentato di guadagnarsi sul campo la fiducia dei genitori e questi ultimi si chiedono a quali condizioni riconoscere i figli come degni della loro fiducia. Una sociologia storica del rapporto fra le generazioni La trasformazione della famiglia in spazio relazionale e democratico rende i rapporti fra le generazioni oltremodo complessi. È bene tracciare, seppur in maniera molto schematica, i principali cambiamenti che hanno interessato il legame di filiazione. Nelle società preindustriali [Hajnal, 1983], vi erano due modi distinti di formazione delle famiglie. Nei paesi dell’Europa settentrionale e occidentale, era diffuso il matrimonio tardivo, prevaleva la regola della residenza neolocale, dominava la famiglia nucleare. Uomini e donne dovevano procrastinare l’unione fino a quando non potessero procacciarsi i mezzi di sostentamento grazie all’aver prestato servizio per anni come domestici in altre famiglie. I giovani erano dunque subito indipendenti dalle famiglie di provenienza. Al contrario, il matrimonio precoce dominava nelle regioni orientali, e in alcune regioni meridionali, laddove le famiglie erano più complesse e la coppia poteva essere integrata in un’unità economica più larga. La regola di residenza patrilocale permetteva ai giovani di sposarsi senza aver prestato servizio in casa di altri, ma questo significava che essi rimanevano più a lungo nella la dipendenza dai genitori [Barbagli & Kertzer, 1992]. Per illustrare l’appartenenza prolungata durante l’Antico Regime, riferiamoci alla regione francese meridionale della Haute-Provence. Le disposizioni del diritto e le concezioni culturali garantivano agli uomini una grandissima autorità sulle mogli e sui figli di ambo i sessi [Collomp, 1983]. Il capofamiglia deteneva tutto il potere decisionale nell’ambito del funzionamento del mondo domestico. I figli e le figlie erano sottomessi alla sua autorità non soltanto fino alla maggiore età (25 anni nell’Antico ReQuaderno di COMUNICazione

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ble binds, ma anche democratica, se vogliamo credere ai tentativi per superarli. La famiglia contemporanea non è soltanto uno spazio di costruzione dell’identità condivisa, del sostegno reciproco, in cui i membri giocano a svolgere il ruolo di Pigmalioni reciproci [de Singly, 1996], ma altresì, ed è bene non dimenticarlo, il luogo in cui si osservano con grande intensità i paradossi dell’identità democratica. Con ciò intendo indicare il fatto che l’identità democratica sia per sua natura spuria, strutturata insieme dal riconoscimento dell’uguaglianza di Alter rispetto ad Ego e dalla sua differenza specifica: in un rapporto democratico fra due soggetti chi ci sta di fronte è per noi un Alter Ego, insieme simile a noi e diverso da noi [Mesure & Renaut, 1999]. Fra genitori e giovani adulti si innesca un meccanismo di funzionamento che prevede non solo il riconoscimento della differenza irriducibile degli status, ma anche il riconoscimento dell’uguaglianza della dignità di entrambe le generazioni. Chi dice dignità, dice politica della dignità [Taylor, 1994], volta ad esaudire le richieste di quanti sono, per un motivo o per un altro, in una situazione di minoranza, di dominazione. Le famiglie contemporanee sono inoltre quei mondi in cui si sperimentano le capacità dei membri di mostrarsi come individui disinteressati [Singly, 1990], mossi non soltanto da obiettivi strategici, strumentali, ma anche da fini che valorizzano la dimensione pienamente umana di Alter. In questo caso mettersi nei panni dell’altro, genitore o figlio/figlia che sia, autorizza a valicare la stretta del double bind. In questo senso deve essere analizzata la dinamica del riconoscimento dell’autorità [Cicchelli, 2001b]. I genitori si chiedono come guadagnarla sul campo, i giovani a quali condizioni riconoscere che è ben fondata. Per guadagnarsi l’autorità, i genitori debbono insieme enunciare la regola e sapere quando stemperarla, dimostrare di essere capaci di interpretare le esigenze profonde dei giovani adulti, di accogliere le loro istanze transigendo. Per riconoscere all’autorità una valenza positiva, i giovani richiedono che la regola sia rispettata anche da chi l’ha istituita, che i genitori diano il buon esempio. L’autorità è riconosciuta dal figlio, dalla figlia a condizione che sia effettivamente rivolta al rispetto dei suoi territori, allo

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Dall’affrancamento alla mediazione per essere sé stessi In seguito alla prima urbanizzazione e industrializzazione, in America dapprima, poi poco a poco in Europa, si assiste a una duplice tendenza di fondo descritta con grande acume da Tocqueville e Durkheim [Cicchelli-Pugeault & Cicchelli, 1998]. Da una parte, la famiglia viene sempre più a strutturarsi intorno ad un nucleo centrale che è la coppia coniugale coi figli di ambo i sessi, mentre i domestici e altra servitù scompaiono; dall’altra parte, i giovani abbandonano il domicilio dei genitori Quaderno di COMUNICazione

una volta raggiunta la maggiore età (o anche prima) per garantire l’indipendenza fra le generazioni (il che non impedisce che la maggioranza di tali giovani viva vicino alla casa di provenienza). A torto o a ragione fino agli anni sessanta del secolo scorso, tale modello sarà considerato come dominante dalla sociologia americana della famiglia. Addirittura altre classi sociali si convertono a tale modello quando questo finisce col diventare l’ideale della vita privata: la famiglia “borghese” [Berger & Berger, 1983] cessa di essere la prerogativa del gruppo sociale di origine e seduce sempre più le classi medie e gli operai nel corso del ventesimo secolo. Elemento centrale di tale organizzazione dello spazio domestico è la divisione sessuale dei ruoli coniugali: l’uomo è il procacciatore del reddito, la donna è incaricata di badare all’educazione dei bambini e alle relazioni con le altre famiglie. In Francia, tale modello raggiunge l’acme con l’avvento del Welfare State, con il generalizzarsi del salario, in un contesto di forte sviluppo economico. Fra l’inizio del XX secolo e gli anni sessanta dello stesso, le regole di formazione della coppia si modificano poco a poco in Europa Occidentale: il matrimonio non è mai stato così diffuso, i coniugi non l’hanno mai contratto così “giovani”. Tale fenomeno porta Philippe Ariès a difendere la tesi che il matrimonio non segna più agli anni cinquanta l’inizio dell’età adulta, ma al contrario “l’adolescenza preserva nel matrimonio il suo modo di vita peculiare” [1993]. Per acquisire l’indipendenza dai genitori, i giovani debbono sposarsi in quegli anni. La dipendenza dal coniuge è preferibile a quella dai genitori (il che è soprattutto vero per le ragazze) perché l’autorità esercitata nelle famiglie di provenienza rimane ancora forte [Fize, 1990]. Lasciare i genitori significa sfuggire a quei conflitti fra le generazioni che costituiscono uno dei leitmotiv della sociologia americana dell’adolescenza negli anni 1940-1960 [Cicchelli & Merico, 2001]. In un periodo che vede i giovani criticare le strutture autoritarie e coercitive della famiglia, il solo esito positivo alla realizzazione dei tali domande di libertà è la separazione fra le generazioni. L’accesso all’indipendenza residenziale dei giovani si fa sempre più precoce fino al 1957, prima di declinare [Courgeau, 2000]. Quaderno di COMUNICazione

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gime), ma anche in seguito, finché non erano convolati a nozze. I ragazzi ottenevano la libertà generalmente con l’uscita di casa, per il tramite di un atto di emancipazione, vero e proprio rito nel corso del quale il padre si dimetteva dalla sua autorità. L’emancipazione era una decisione presa dal padre, nessuno poteva costringerlo. Una volta effettuato l’affrancamento, il figlio otteneva i diritti di testare, di negoziare e di compiere tutti gli atti di giustizia permessi ad un uomo libero. Al contrario, la libertà era raramente concessa a una donna; quest’ultima passava senza soluzione di continuità dalla sottomissione al padre a quella al marito. Il passaggio dalla casa del padre a quella del marito si realizzava grazie ad una dote il cui ammontare era negoziato dal padre di lei e del suo futuro sposo. I ragazzi che uscivano di casa ottenevano una donazione immediata che consentiva loro di ottenere una sistemazione. In entrambi i casi le doti e le donazioni rappresentavano una parte minima del patrimonio familiare, dato che la maggior parte di esso doveva essere trasmesso indiviso di padre in figlio maschio, primogenito se possibile. Nel caso in cui un testamento fosse stato previsto, il padre manteneva sotto la sua autorità l’erede primogenito e la famiglia di lui (con moglie e prole), badando certo al loro sostentamento ma regnando da monarca assoluto fino a quando la successione non veniva effettuata. Se nel caso dei fratelli minori l’affrancamento si realizzava mediante un’emancipazione giuridica, per gli eredi si trattava di sostituirsi al padre il cui potere decadeva una volta la realizzata trasmissione. Sappiamo difatti quanto fossero forti le tensioni fra genitori e eredi, primogeniti e cadetti [Berkner, 1977].

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Per tutte queste ragioni, i rapporti fa le generazioni sono diventati storicamente più complessi. Gli osservatori contemporanei devono aver in mente questo continuo riposizionamento dei rapporti fa individuo e istituzione familiare se vogliono cogliere le trasformazioni in atto evitando di ricorrere a temi asfittici quali la presunta ma mai dimostrata Quaderno di COMUNICazione

crisi dei modelli educativi. Lo spazio domestico continua ad essere un punto di riferimento per i giovani adulti, per il fatto che, profondamente ristrutturato nel suo funzionamento interno, ha esaudito quelle esigenze di rinnovamento nel senso di una maggior simmetria fra i sessi e le generazioni.

Note 1 2

Per una critica di tale opposizione, cfr. Wyn & White, 1997. Per un’analisi del double bind, cfr. Watzlawick, Beavin Helmick & Don Jackson, 1972.

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Dagli anni 1960 in poi, la crescente autonomizzazione del sistema di formazione rispetto al sistema del lavoro, descritto come un processo di adeguamento fra il diploma offerto dal sistema scolastico e la domanda del mercato del lavoro, rinforza l’importanza assunta dalla famiglia di provenienza, prolunga i tempi di cura dei giovani, accentuando la loro identità di figli/figlie [Chamboredon 1985]. E tuttavia la situazione dei giovani adulti non è in alcun modo paragonabile a quella di coloro che vivevano nelle famiglie-ceppo, e che ereditavano il patrimonio domestico, per le profonde trasformazioni che hanno interessato il legame di filiazione. Come abbiamo dimostrato quest’ultimo è ben più incentrato su una relazione ermeneutica di interpretazione dei talenti dei figli allo scopo di ottenere il loro sviluppo psichico, che non su una relazione ortopedica di adeguamento dei figli stessi ad un ideale prestabilito di educazione, raggiunto tramite un addestramento meramente coercitivo [de Singly, 1996; Gullestad, 1996]. Se nell’Antico Regime l’emancipazione del giovane era subordinata alla fine del suo asservimento al dominio del padre, se durante la prima modernità, l’ottenimento dell’autonomia si realizzava tramite la separazione fra le generazioni, nella società contemporanea, l’autonomia si costruisce nel quadro di un percorso individuale di maturazione psichica e sociale che legittima il ruolo di mediazione svolto dai genitori. I genitori garantiscono anche un ruolo di inserimento, dato che la partenza dei giovani dal loro domicilio si realizza sempre più grazie al loro aiuto –i genitori possono pagare l’affitto dell’alloggio degli studenti, o metterlo a disposizione qualora ne siano i proprietari [VilleneuveGokalp, 2000].

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Bambini e cinema sono sempre andati d’accordo, sin dalle origini, ma nel corso di un secolo solo pochi registi hanno cercato di raccontare l’infanzia e il complesso, difficile rapporto tra adulti e piccoli, con intelligenza e rispetto. L’industria ha quasi sempre sfruttato l’infanzia a fini spettacolari, commerciali, per far divertire o piangere i grandi abusando di cliché, grossolanità e perfino di volgarità. Come fa del resto la televisione, mamma avida e crudele, che pensa solo a far rimare bambini con quattrini e addestra al consumo anche i più piccoli. Il problema è sempre quello di fare un cinema onesto sull’infanzia e adolescenza, un cinema sincero, autentico, semplicemente a misura di bambino. Tornano così subito in mente i ragazzi di Chaplin, di Jean Vigo (“Zero in condotta” del 1933, primo esempio di infanzia creativa e ribelle contro la disciplina e il moralismo della società borghese), di Roberto Rossellini, di Vittorio De Sica, di Luigi Co-

vito luperto adolescenze al cinema

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sabilità, ognuno deve sentirsi impegnato, ognuno deve dare il suo contributo. Sempre vigile come fa il cinema con i suoi migliori artisti. Con la verità e la semplicità di un racconto tradizionale, con pudore e discrezione, con uno stile pulito, senza mai calcare la mano, senza urli e colpi di scena, senza effetti spettacolari. Sono poi questi i risultati più difficili da raggiungere nella realizzazione di un film. Arrivare al coinvolgimento, all’emozione e alla riflessione solo con l’intensità palpitante dello sguardo cinematografico. Come ha cercato di fare Nanni Moretti nel suo “La stanza del figlio” e come ha fatto, coraggioso e coerente, Gianni Amelio, in trent’anni di attività. Lo stile di Amelio è di un’essenzialità, di un lirismo toccanti, la sua forza morale, la nitida veridicità delle sue immagini hanno conquistato pubblico e critica a livello internazionale. Egli ha sempre avuto uno sguardo particolarmente attento sul mondo dell’infanzia e sugli itinerari di crescita, sin dal suo primo lungometraggio, “Il piccolo Archimede” (1979) centrato sul rapporto tra un aristocratico inglese e il figlio di un contadino dalle straordinarie capacità matematiche e musicali. Anche “Il ladro di bambini” (1992) sviluppa l’evolversi di un rapporto ma senza riferimenti letterari. Due “bambini di vita” e un giovane carabiniere che si muovono nell’Italia di oggi, con una verità degna di Rossellini e De Sica. Una bambina di appena dieci anni che ancor più che fisicamente, è stata insidiata moralmente nella sua natura innocente; il suo fratellino minore maturato troppo precocemente (in tutta la prima parte pronuncia a malapena due battute) e un carabiniere inesperto determinato tutore dell’ordine che non si pone domande e diventa poi sovvertitore di disposizioni superiori e generoso ricuperatore di affetti, difensore delle speranze di vita tradita. Affetti scomparsi nella famiglia e solidarietà assente negli istituti predisposti al recupero, espressione di un’ottusa burocrazia che frappone tra sé e la realtà l’aridità di leggi astratte. Un viaggio che è un percorso in senso inverso, dalla periferia di Milano alla Sicilia, un ritorno alle origini (anche in direzione della disperazione o della rassegnazione), un viaggio nell’antiItalia ove il recupero di sé e dei rapporti interpersonali è un miraggio, è destinato alla sconfitta nonostante la “conversione” e la presa di coscienza. I personaggi sono soli con se stessi o tra di loro, in una poetica dell’assenQuaderno di COMUNICazione

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mencini, di François Truffaut, di Louis Malle, e come esempi più recenti, quelli di Steven Spielberg e Francis Coppola o di Gianni Amelio, Francesca Archibugi, Gabriele Muccino che sono poi gli autori presi in esame. Il crescere, il passare dall’infanzia all’adolescenza e i problemi che questo delicato e tormentato passaggio comporta, il confronto/conflitto con i padri e gli adulti, questi i temi, difficilissimi e quasi sempre irrisolti, da affrontare. Momenti inscindibili dai traumi del nostro tempo, da un malessere generale e profondo, dallo sbandamento, dai disagi, dalle (in)sofferenze, dalle paure. Gli studiosi ci hanno recentemente informato che nel nostro mondo opulento un bambino su cinque soffre di depressione, quindi più degli adulti. Per eccesso di protezione e per solitudine, per carenza di vero affetto e per iperconsumismo. Un dato allarmante e inquietante perché spesso non visibile: un bambino si rifugia nel suo mondo fantastico e si difende, si autoprotegge, trova infinite risorse nella vitalità della sua fantasia, anche in quella più sfrenata. Ce lo fa scoprire pure Niccolò Ammaniti nel suo ultimo libro, “Io non ho paura”, dove due ragazzi di nove anni devono superare prove terribili e trovano la forza nell’energia magica che hanno dentro. Sorprendentemente più forti e tenaci degli adulti ma sicuramente più soli anche perché più incompresi. Lontani dalle fragilità e dalle isterie dei padri, a volte insicuri e incapaci perfino nel trovare un equilibrio tra le forme dell’affetto e quelle dell’autorità. Crescere è quindi doloroso, rischioso al punto che è meglio non congedarsi mai definitivamente dall’infanzia, meglio conservare sempre un po’ di quelle risorse, di quell’energia magica. Ancor più rischioso quando il congedo avviene troppo presto, in età adolescenziale, quando brutalmente si perde l’innocenza. Un distacco atroce che genera mostri, ancora tutto da analizzare. Si pensi a quanto è accaduto nei giorni scorsi in alcune scuole francesi e alla proposta di abbassare addirittura a dieci anni la soglia della punibilità in caso di crimine. Colpa dei padri, colpa della società e dei suoi modelli, colpa di un inarrestabile degrado che ormai intacca, fino alla totale corrosione, le coscienze. Tutto da analizzare da parte di tutti perché ognuno di noi ha le sue respon-

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rientata sull’attore, sembra quasi attivata dal suo corpo. Archibugi utilizza i tratti fondamentali della commedia (chiusura comica delle sequenze, centralità degli interpreti, ambienti reali, verosimiglianza sociologica delle situazioni, gestione accurata del colpo di scena) per qualcosa che è molto di più di una commedia, che ha squarci improvvisi di irreversibile tristezza a cui contribuisce anche la scelta delle musiche (Roberto Gatto). Un’amarezza che non esclude l’ironia ma evita il grottesco, la derisione dei personaggi, segno di sincera aderenza, di sintonia, di comunanza e di sospensione di giudizio. Gruppo di famiglia in un esterno invece quello de “Il grande cocomero” (1992), una famiglia di arricchiti prossima allo sfascio. L’esterno è quello del reparto di Neuropsichiatria del Policlinico di Roma dove viene ricoverata una dodicenne, Pippi, presunta epilettica. Ma l’esterno è anche quello di tutta una città dove i personaggi sono chiamati a confrontarsi. Le cause del disagio vanno quindi cercate nell’ambiente oltre che nella famiglia: strade anonime e rumorose, abitazioni eternamente provvisorie, parrocchie “terzamondiste”. Anche il reparto del Policlinico è segnato dalla precarietà ma Pippi, grazie anche alla costanza del medico coinvolto, riesce e trovare un ambiente affettivo accettabile e presto viene chiamata anche a collaborare assistendo una bambina cerebrolesa di sei anni. L’epilessia di Pippi si rivelerà poi finta, una difesa di fronte ai mali insostenibili della crescita. I modi della commedia restano e sono usati dalla regista per trovare un respiro quotidiano a una storia di amori e dolori (“della commedia all’italiana a me piace l’elemento fondamentale: ha sempre fatto ridere sulle cose più drammatiche del nostro paese”) ma senza concessioni al lacrimevole. Soprattutto l’ Archibugi vuole testimoniare la coerenza del suo impegno sociale: ne è prova l’utilizzo in sede di sceneggiatura dei testi “psichiatrici” di Marco Lombardo Radice. Ne “L’albero delle pere” (1998) la famiglia è ormai sfasciata: il protagonista, il quindicenne Siddharta ha una madre tossica, un padre videomaker (separato) e una sorellastra di quattro anni che vive con il proprio padre (a sua volta separato). Si sente ancora di più la difficoltà Quaderno di COMUNICazione

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za, in un giocare sui vuoti più che sui pieni, in un paesaggio orribile devastato dalla speculazione edilizia e dal traffico, dove il chiacchiericcio televisivo rappresenta il rumore di fondo (uno schema narrativo ripreso anche da Wilma Labate per il suo ultimo film, “Domenica”, sul rapporto breve e intenso che lega una bambina undicenne a un poliziotto che dovrebbe condurla all’obitorio per l’identificazione del cadavere del suo presunto violentatore, in una Napoli lontana da ogni folklore). “Il ladro di bambini” è un film da leggere attraverso gli sguardi, la “vita interiore” dei personaggi, i silenzi e i pudori. Con uno stile scarno ed essenziale, con un’osservazione distaccata e impersonale, Amelio si tiene sapientemente lontano dalla retorica della denuncia e dalle trappole del sentimentalismo, merito anche della sceneggiatura di Rulli e Petraglia (quest’ultimo è anche l’autore della sceneggiatura di “Domenica” insieme alla Labate) e dell’operatore Tonino Nardi. E ci propone una storia di vinti cara alla sua filmografia (una struttura narrativa molto simile a quella di “Lamerica”) e in sintonia coi momenti alti del nostro cinema. “Il ladro di bambini” prevedeva un altro finale, più drammatico con il piccolo Luciano che strappava la pistola al carabiniere e lo uccideva (un colpo che risolveva il loro conflitto); si conclude invece, più coerentemente, senza chiudersi, su una livida alba davanti al disastro del paesaggio di Gela. Se il film di Amelio è girato quasi tutto in esterni, quasi tutto in interni è invece “Mignon è partita”, opera prima di Francesca Archibugi (1988). Interni reali, tra mura che “trasudano di vita vissuta”: i genitori, cinque figli (età da un anno a sedici) a cui si aggiunge una cugina preadolescente arrivata da Parigi. Il suo soggiorno diventa più lungo perché il padre è al centro di uno scandalo finanziario. Tra Mignon, altezzosa e scostante, e gli altri membri della famiglia si instaura piano una forma di coesistenza. E Giorgio, coetaneo della ragazza, se ne innamora rivelando alla macchina da presa i primi turbamenti sessuali. Il soggetto, della stessa regista, è scritto come un racconto, quasi un romanzo di formazione secondo modelli ottocenteschi. La scelta è di guardare i personaggi e le storie che vivono con una leggerezza di tocco e con il massimo rispetto, una scelta estetica e soprattutto etica. L’inquadratura è interamente o-

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giovanni fiorentino il principe dei mutanti

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polemiche. È capitato ad esempio a Louis Malle che con “Il soffio al cuore” (1971) racconta l’iniziazione sessuale di un ragazzo nella Francia degli anni Cinquanta e capita ancora oggi con la censura che interviene a vietare il tenero “Kràmpack” dello spagnolo Cesc Gay sui turbamenti amorosi di due sedicenni. Eppure si tratta di un film al di sopra di ogni sospetto: Gay narra con finezza e leggerezza, con spontaneità e serietà, il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza, l’irrequietezza e l’approccio diffidente con gli adulti, l’ansia di dover affrontare il deserto difficile del futuro. Partendo proprio dalla spontaneità assoluta dei gesti e dei dialoghi, da un confronto sostenuto dal pudore e dall’assoluta mancanza di sensi di colpa. In questi anni si è passati dalla “generazione X” celebrata dallo scrittore Douglas Coupland alla “generazione Y”, frammentata e dilatata: non si è più giovani in modo oggettivo o collettivo ma transitivo. I giovani sono sterminati, anzi eXterminati, dice l’antropologo Massimo Canevacci dell’università “La Sapienza” di Roma: “Si transita lungo una condizione variabile ed indeterminabile, la si attraversa secondo modalità determinate dalle momentanee individualità del soggetto giovane… L’essere si fa mutoide”. Non lo aveva forse già anticipato il cinema? “C’era un bambino che andava fuori ogni giorno, e la prima cosa su cui posava lo sguardo, in questa si trasformava”. Walt Whitman

La cronaca italiana registra casi di figli che ammazzano i genitori. La stampa sembra dimenticare che prima di un parricidio, c’è sempre stato un figlicidio –come ricorda Gianni Rodari– “in tutti i miti, in tutte le leggende, in tutte le religioni”1. Sembra dimenticare che per ogni eventuale matricidio si consumano dieci, cento, ordinari e infiniti figlicidi sparsi in ogni angolo del mondo. Bambini destinati alla morte prima di essere offerti alla vita. Rituali oscuri, di cronaca familiare e stermini di massa, collettivi e pubblici, personali e privati. Qualsiasi insegnante potrebbe conferQuaderno di COMUNICazione

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di diventare adulti, ma la fatica di crescere non è solo degli adolescenti e i figli si dimostrano più adulti dei genitori, deboli, ingenui, immaturi, incapaci di andare al di là dei buoni propositi. E Siddharta nei momenti di crisi cerca aiuto in rete piuttosto che parlare con gli adulti: tra tutte le cose giuste che ha intuito, sa che Internet è un mezzo e non un fine e lo usa nel modo più semplice, per ricevere informazioni. Gabriele Muccino in “Come te nessuno mai” (1999) va ancora oltre e non si preoccupa neppure di dare un nome al padre e alla madre di Silvio, il sedicenne liceale romano al centro del film. I genitori ormai contano per ciò che rappresentano, sono figure archetipe dell’autorità familiare, anzi quel che ne rimane in un mondo vorticosamente in via di cambiamento. Proprio perché sono ex sessantottini rientrati nella norma della società borghese, i due coniugi hanno molte difficoltà a seguire Silvio, a parare le sue provocazioni, convinti che ribellarsi a una certa età è legittimo “ma non si fa così”. Cresce quindi il divario con le nuove generazioni e lo stesso Muccino scrive soggetto e sceneggiatura del film con la decisiva collaborazione del fratello Silvio (che è poi il protagonista) e della sua compagna di scuola, Adele Tulli (“volevo che ciascun dialogo corrispondesse loro fino in fondo”). Importante per Muccino generare un progressivo, efficace e rassicurante fattore di identificazione-proiezione, situazioni in cui gli spettatori possono riconoscersi e magari sorridere di se stessi. Che è poi il segreto del successo dei suoi film, soprattutto de “L’ultimo bacio”. I ragazzi sono raccontati con spontaneità per quello che sono veramente, l’appartenenza al gruppo, la voglia di partecipare agli eventi collettivi (ma lontano dalla politica poco sentita anche durante l’occupazione della scuola o sentita come ripetersi di slogan), il bisogno di staccarsi dal microcosmo protettivo familiare, la creazione di nuove forme di linguaggio, le prime esperienze sessuali, la sete di assoluto (destinata a dissolversi, come suggerisce il titolo, con il disincanto della vita adulta). Il tema del sesso, legato alle scoperte adolescenziali, resta tuttavia uno dei meno affrontati dal cinema, per l’estrema delicatezza dell’analisi e per i soliti problemi censori. Resta un tabù che ogni volta solleva un vespaio di

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Alla fine di maggio si è registrata nell’agenda setting di giornali e telegiornali l’evidenza da prima pagina della vicenda pedofilia a Roma. La cronaca ha riempito il primo sfoglio dei quotidiani lasciando registrare alcuni dati in particolare. Dati materiali, 128 bambini brutalizzati. Dati immateriali, legati al consumo di prodotti mediali. Un archivio storico in Internet che prevede trenta passaggi cifrati prima di consentire l’accesso al fruitore, un catalogo di novantamila fotografie storiche visionate dagli inquirenti, videocassette dal contenuto pornografico con protagonisti bambini, vendute per mezzo milione a filmato. Una vera e propria Quaderno di COMUNICazione

azienda multimediale, che vede in piedi già da diversi anni un circuito di consumo internazionale. La mia attenzione si ferma sulle “schede informative” redatte per l’archivio on line dall’ex poliziotto romano arrestato per pedofilia Roberto Marino, conosciuto nell’ambiente come “Lupo”. Compilate con cura, in ordine alfabetico, con foto, indirizzo, data di nascita, segno zodiacale, da una parte un elenco di prede potenziali, bambini e adolescenti, il più giovane ha nove anni, dall’altra un catalogo meticoloso dei “fidanzati” o degli “amanti saltuari”, nomi e soprannomi di centinaia di bambini con annessa “prestazione” sessuale preferita, qualifica (“attivo o passivo”), il tempo trascorso dal principio della relazione. Pratiche aperte e pratiche chiuse, la voce che mi sembra abbia importanza essenziale è: “desideri e paure”. Dalle annotazioni riportate dai giornali leggo: «è attratto dalle arti marziali e dai manufatti legati alle diverse specie di lotta, e in particolare dai Ninja. Consuma golosamente gomme da masticare alla clorofilla. Non fumava, almeno fino a quando l’ho frequentato io». Un altro ragazzino «pratica nuoto e pallacanestro, possiede un home computer e un Amiga 500 che intende espandere con un hard disk 21MB, è tranquillo e bene educato e credo di poter aggiungere che proviene da ottima famiglia»4. Negli stessi giorni che annunciavano tali eventi di cronaca, precisamente mercoledì 23 maggio 2001, un trafiletto pubblicato nelle pagine interne di Repubblica fermava la mia attenzione di consumatore mediale. «È guerra aperta nel quinto circolo didattico di Treviso contro il “traffico” di figurine di Pokemon durante le lezioni: da una parte 800 alunni di cinque scuole, dall’altra il dirigente scolastico Valentino Venturelli che sulla questione ha mandato una lettera ai genitori chiedendo il loro aiuto». L’adulto, l’educatore sfida sul territorio del “desiderio” il bambino, invalidando l’operato di generazioni di pedagogia illuminata. Anzi, si fa di più, si costruisce un caso, si desta l’attenzione generalista dei media, si offre al pubblico consumo l’inadeguatezza dell’adulto a confrontarsi con la vita ordinaria del bambino5. Il redattore continua a raccontare: i genitori «dovranno perquisire i figli prima che escano di casa, mentre scatta il sequestro di tutte le figurine che circolano anche fuori dagli oQuaderno di COMUNICazione

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mare di aver verificato tracce inconfondibili di violenza sulla pelle, o nella memoria, di almeno uno dei propri ragazzi. Molto semplice gridare al lupo quando la pedofilia viene annunciata dal monitor di un computer, o segnalata dalla più recente indagine che associa bambini e nuove tecnologie. D’altra parte l’industria mediale gioca con l’ennesima immagine virtuale del bambino, altrettanto funzionale a un immaginario adulto. Il fascino mediagenico dell’infanzia va in scena in quanto seduzione ideale, paradiso perduto. Nascosti tra perfezione e violenza, dimensione estetica ed etica, i bambini rimangono invisibili ai più nella loro profonda e originale alterità. Impensabile constatare che il bambino in chat opportunamente dedicate in Internet, discute più di animali che di Pokémon. La rete che gettiamo su di loro ricorda vagamente quella del pescatore che cattura Pinocchio come se fosse un pesce tra gli altri, e niente altro è che uno strumento per leggere, contenere e costruire un bambino che è semplicemente il prossimo “grande”. A parlare dell’originale alterità dei bambini in realtà sono in pochi. A giocare con il bambino invisibile2, con le possibilità infantili del mutevole, dell’indeterminato, con le sue molteplici intelligenze ancora in meno3. Il bambino sfugge a qualsiasi rete, traccia le traiettorie del viaggio, naviga attraverso culture e lingue, immagini e suoni. È l’anello mobile dell’evoluzione sociale, è nomade e vive in immersione il trasformarsi dell’ambiente di vita, si impregna e si nutre delle tecnologie di comunicazione, gioca, simula e apprende le possibilità del futuro.

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Il 15 agosto del 1947 a mezzanotte l’India perviene all’indipendenza e Saalem Sinai, protagonista del romanzo di Salman Rushdie I figli della mezzanotte6 e suo alter ego, viene «scaraventato» nel mondo assieme a cinquecentottanta altri bambini, duecentosessantasei maschi e trecentoquindici femmine. Il filo narrativo si sviluppa intorno al foro tondo di un lenzuolo, meglio, il mondo del romanzo di Rushdie è tutto all’interno del foro, del cerchio magico, dell’occhio del narratore. Nel foro entrano o, secondo diversa prospettiva escono, cinquecentottanta bambini che nascono all’approssimarsi della mezzanotte. «I bambini della mezzanotte!… Nel Kerala un ragazzo era in grado di entrare in uno specchio e di riemergere da qualsiasi superficie riflettente del paese –laghi e (con un po’ più di difficoltà) le lucide carrozzerie Quaderno di COMUNICazione

metalliche delle automobili… e c’erano bambini con poteri di trasformazione: un licantropo sui colli Nilgiri, e sul grande spartiacque del Vindhya un ragazzo che poteva aumentare o ridurre le proprie dimensioni quando voleva, e aveva già (maliziosamente) provocato scene di panico e voci su un ritorno dei Giganti… Viceversa i bambini nati nel primo minuto –a questi bambini l’ora aveva riservato le più alte capacità che mai gli uomini avessero sognato… e quale figlia di un dhobi di Madras (mezzanotte e diciassette secondi) poteva volare più di un qualsiasi uccello semplicemente chiudendo gli occhi; e a quale figlio di un argentiere di Benares (dodici secondi dopo la mezzanotte) fu concessa la facoltà di viaggiare nel tempo e quindi di profetizzare il futuro oltre che di chiarire il passato… una facoltà che, essendo noi bambini, godeva implicitamente della nostra fiducia quando si riferiva a cose passate e dimenticate, ma veniva derisa quando ci avvertiva della nostra fine… Insomma tra i bambini della mezzanotte, c’erano infanti capaci di trasformarsi, di volare, di profetizzare, di compiere incantesimi –ma due di noi erano nati allo scoccare dell’ora, Saleem e Shiva, Shiva e Saalem, naso e ginocchia e ginocchia e naso… a Shiva l’ora aveva conferito i doni della guerra… e a me la più grande delle facoltà– quella di guardare nel cuore e nella mente degli uomini»7. I figli della mezzanotte occupano lo spazio degli spiriti della brousse8, che è lo spazio del mistero, del diverso, talvolta dell’inquietante. I figli della mezzanotte vivono il luogo dell’enigma e sono il bambino dell’identità mutante, del mutevole e dell’indeterminato, dell’eterna possibilità che rifugge l’irregimentazione adulta. Nella letteratura infantile –a torto e in maniera liquidatoria considerata infantile– c’è un libro che ha raggiunto per anni la vetta dei best seller. Il piccolo principe, scritto dall’aristocratico francese Antoine Jean-Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry (1900-1944), viene pubblicato nel 1943. La vita del suo autore è la storia intensa di un pilota d’aereo, civile e militare, che tenta di fare della sua esistenza invano un percorso da eroe, fiQuaderno di COMUNICazione

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rari di lezione, e che saranno restituite a fine anno scolastico. Venturelli spiega che il suo non vuol essere “un dispetto ai genitori e ai bambini, ma ormai la situazione non era più controllabile». Siamo in uno spazio del mistero, difficilmente contenibile, controllabile, costruibile. Dei bambini non si sa niente ha scritto Simona Vinci. Dei bambini si può sapere molto, lo dimostra l’esperienza del “Lupo” e tutto sommato, molto più grossolanamente, una breve notizia di agenzia che riporta le vicende ordinarie di una scuola elementare di Treviso. Dove genitori, familiari, educatori lasciano spazio inevasi nella sfera affettiva emotiva del bambino, lì c’è terreno fertile per chiunque sia disposto a vendere un minimo di attenzione. La prima frase di senso compiuto tirata fuori dallo scarno vocabolario di mia figlia è la più grande tra le richieste di attenzione, «Giochi con me?». Il munus, il dono dell’attenzione all’altro si fa sempre più raro, raro nei confronti dell’altro che è il bambino. Sempre più raro in situazioni al margine, dove il rischio sociale è più alto e l’attenzione più bassa. Un’ attenzione comunque è sempre difficile quando rivolta alla diversità e alla molteplicità dell’infanzia, che prevede l’andare oltre la prospettiva ombelicare adulta. Che diventa metodologia scientifica e patologica nel caso del pedofilo. Che cerca l’incontro con il bambino nella sua diversità, nella sua possibilità, tra i suoi desideri e le sue paure.

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quasi assolutamente sulle possibilità dello sguardo, sulla capacità di agire gli occhi, di vedere, di riconoscere, di far arrivare nuovi messaggi al cervello. A cominciare dall’iniziale disegno di un boa, che “l’adulto” finisce per confondere con un cappello. Da un boa che non è un cappello e può anche contenere un elefante da digerire parte lo sguardo del piccolo principe, il «piccolo occhio onnipotente»10 (Liliana Dossa Cavallari, 1982). È l’occhio del piccolo principe ad arrivare dove gli adulti non possono, dove nemmeno il pilota Exupéry arriva, ma dove riesce lo scrittore: gli occhi si posano, trasformano, creano. Non è l’occhio prospettico, antropocentrico, assoluto quello che muove il piccolo principe. Ma una prospettiva mutevole, che consente di guardare da più punti di vista, e di essere in più punti di vista. È un occhio “onnipotente” e che accede al mistero. Che materializza l’invisibile, che vive di ciò che vede. Che consente di aprire alle dimensioni sconosciute, oltre la razionalità prospettica dell’occhio occidentale. Consente di essere pluralità, di uomo e donna, di mare e terra, di fiore e pioggia11. Il piccolo principe è una sorta di eroe fragile. Forse definirlo un antieroe in senso cinematografico, o fumettistico, rientra nella categoria del banale. In effetti il nostro eroe di per sé tende a negare il suo eroismo, nella banalità delle scoperte e degli incontri che ci offre (una pecora, un fiore). La sua fragilità può farne un eroe: il bambino (il piccolo principe) è l’eroe perché ha la “fragilità” necessaria a consentirgli di riconoscersi, incarnare, vivere qualsiasi storia, da eroe, da protagonista. Senza necessariamente decidere di vivere eternamente le parvenze del momento. Anzi; naturalmente fragilità è mobilità, disponibilità al gioco, e a rimettersi in gioco, duttilità nel passare dai panni di Zorro alle tartarughe Ninja, da Super Mario Bros a Tarzan, la disponibilità a vivere le storie di qualsiasi eroe.... Kafka per un bambino di dieci anni è un gioco, un suono, è cinque lettere stampate sulla copertina di un libro. La metamorfosi di Kafka è un racconto più o meno noto agli adulti, un testo anche troppo lungo per i ragazzi, sicuramente non per ragazzi sosterrebbe qualcuno. Eppure una Quaderno di COMUNICazione

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no a dissolversi nella leggenda di un’ultima spedizione aerea, conclusa senza il ritorno. Pilota di coraggio ma assolutamente distratto, rimaneva proverbiale per i suoi incidenti che procuravano velivoli distrutti all’aviazione francese ed a lui lasciavano un corpo ad ogni episodio reso sempre più malridotto, fino agli estremi dell’incontrollabilità. Nel 1938, l’ultimo della serie: nel tentativo di stabilire il record di velocità in volo da New York alla Terra del Fuoco, si procura l’ennesimo incidente che gli reca danni permanenti. Una spalla anchilosata, i movimenti limitati a tal punto quasi da impedirgli l’ingresso nella cabina dell’aereo. Il pilota nonostante tutto riprende a volare e ad effettuare spedizioni militari. Il 31 luglio 1944 a bordo di un velocissimo Lightning 223 decolla da Borgo (a sud di Bastia) per effettuare una ricognizione su Grenoble, ma non rientrerà più. La storia di Saint-Exupéry è essenzialmente la storia di una scissione, tra mente e corpo, onnipotenza ideale e limiti fisici, letteratura e vita vissuta, raziocinio e immaginazione, sguardo infantile e identità adulta. È la storia del tentativo, di andare oltre il volo reale, oltre il rapporto con la macchina, oltre l’aereo già distante da terra. Dell’esplodere di una eterna contraddizione nella condizione della vita, tra possibilità infinite della mente e limiti della vita fisica quotidiana. È una storia che trova perfetto complemento nello sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa che, tra Otto e Novecento, hanno concesso di realizzare massime distanze e diversità. Hanno permesso di andare oltre i confini del territorio fisico e delle sue leggi, hanno materializzato sdoppiamenti, fughe, incroci di desideri tra interiorità e realtà9. La sua storia di pilota si intreccia inevitabilmente alla sua opera di scrittore. Nel suo capolavoro lo scrittore racconta l’incontro di un pilota con il piccolo principe. Un vero pilota, un adulto, una persona capace di governare razionalmente le possibilità tecnologiche della macchina-aereo ed un alieno, un piccolo principe, dallo sguardo diverso, altro, mobile, imprevedibile. Nel libro, ambientato nel silenzio di un grande deserto, si incrociano i due sguardi, quello del “grande” incapace di comprendere, di guardare, e quello del bambino che deve faticare per “spiegare tutto ogni volta”. Il rapporto, il dialogo, l’amicizia tra i due si sviluppa

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Ai margini della vita, e spesso ai margini della scuola, si catalogano Quaderno di COMUNICazione

esperienze interessanti d’apprendimento, esperienze limite, talvolta esperienze d’avanguardia in grado di connettere le possibilità infinite della mente di un bambino e i limiti della vita fisica quotidiana, lo sguardo mobile e imprevedibile dei ragazzi e l’occhio prospettico dell’identità adulta. L’esperienza ai margini della realtà spesso spiazza e mette in discussione anche l’adulto. Un territorio diverso dal solito ha un effetto spaesante per la maestra, l’insegnante, il genitore, l’educatore in genere. Lo mette in difficoltà, esige nuove risposte e diversa attenzione, contraddice le offerte e le proposte della tradizione. La scuola negli ospedali non sempre è una realtà. In alcuni casi, dove c’è una larga presenza infantile, dove la lungodegenza è un dato di fatto, la scuola c’è. È una scuola al di fuori delle proprie rassicuranti mura. È una scuola che si rimette in gioco con situazioni di realtà ordinaria e vitale, anche se non proprio comuni. In questi casi lo spazio virtuale diventa un contatto con la realtà anche per chi è costretto ai vincoli, ai limiti fisici, agli spazi angusti, al letto di un ospedale. La comunicazione a distanza rompe l’isolamento di chi è costretto da gravi problemi fisici a restare solo. Le scuole in ospedale sono ancora un caso limite che consente, anche in Italia, di poter rivelare le potenzialità della tecnologia della comunicazione come risorsa ordinaria, come potenziale strumento di connessione con la vita. Una fondazione statunitense, la Starbright Foundation13 presieduta da Steven Spielberg, usa la rete e le potenzialità multimediali per mettere in comunicazione tra loro bambini gravemente ammalati. Una rete di telecomunicazioni collega cinque ospedali statunitensi e mette in contatto i piccoli ricoverati. Loro usano un personal computer, una telecamera e tastiere speciali che li aiutano a superare eventuali handicap. La scena, l’ambiente è un campo gioco virtuale tridimensionale dove i bambini possono vedersi, parlare, giocare assieme, collaborare, cooperare, lavorare a progetti comuni anche se da ospedali diversi. Con risultati particolarmente interessanti anche per la loro salute. Pare abbiano meno bisogno di antidolorifici dei bambini che non giocano con il computer. C’è un particolare non trascurabile da ricordare. Nel mondo di Quaderno di COMUNICazione

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classe del Terzo circolo didattico di Chieti ha giocato senza pregiudizi di sorta –il che può essere del bambino– con Kafka e La metamorfosi. La scrittura di Kafka è limpida ed essenziale, letteralmente semplice. L’insegnante ha costruito una rete di supporti informativi e contestuali, utilizzando immagini, suoni, testi, audiovisivi, e ha lasciato il significato alla interpretazione completamente libera dei bambini. Ha offerto stimoli ulteriori per liberare il potenziale creativo. Scena per scena e in gruppi di lavoro i ragazzi hanno rivissuto l’intero racconto, l’hanno discusso e smontato, sono entrati nei diversi punti di vista dei personaggi, hanno vissuto in prima persona l’avventura di un uomo che si trasforma in scarafaggio. Hanno disegnato l’appartamento e gli ambienti attraversati da Gregor Samsa, hanno ricostruito le interazioni tra i familiari di Samsa e lo scarafaggio, hanno fatto entrare Gregor nella loro vita quotidiana per scoprire la diversità –tra l’altro di uno straniero, di un malato, di un insetto–. Nessuno come il bambino riesce a giocare con molteplici identità, ad immedesimarsi e incarnare eroi e prospettive più diverse, a vivere la metamorfosi con immediata naturalità. Il gruppo ha dato vita a un nuovo testo per drammatizzare e mettere in scena teatralmente l’opera di Kafka e farsi produttori creativi. Lo spazio teatrale si allontana dalla monomedialità del testo per recuperare la manipolazione di materiali poveri nel costruire scene e costumi, per attivare la manipolazione dei suoni, della voce e del corpo e farsi naturalmente multimedialità espressiva. A riflesso dell’intero processo, è arrivato un ipertesto realizzato con il software autore Amico 3, un prodotto semplice da utilizzare, ma attraverso il quale è possibile visualizzare e documentare con supporto digitale la ricchezza e la complessità reticolare del processo d’apprendimento negoziato e sviluppato nel corso dell’anno scolastico in immagini, testi e suoni12. Un testo viene recuperato alla realtà, viene vissuto e interpretato dai bambini di una classe quinta. Solo il computer ci restituisce l’intera mappa cognitiva messa in gioco nell’analisi, nella scomposizione e nella rielaborazione interpetativa ed espressiva della Metamorfosi di Kafka.

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rativa di testi. La possibilità di poter comunicare con l’esterno garantisce al bambino ospedalizzato continuità affettiva e relazionale essenziale. La scrittura di storie a più mani, fuori e dentro l’ospedale, ha dato vita a un libro, un gioco interattivo e aperto, che ha fatto dire a bambini distanti tra loro: “ci piace scrivere delle storie da lontano insieme ad altri bambini, perché mettiamo insieme tanti pensieri e formiamo un Pensiero”. Un pensare collettivo che si avvale delle potenzialità di scambio della rete, di una ricchezza che si fa patrimonio comune. Di un’intelligenza collettiva –come sostiene Pierre Lévy–, o di molte intelligenze –come scrive Howard Gardner– che si fanno risorsa per tutti e vengono riconosciute. L’apprendimento collaborativo a distanza rompe l’isolamento della situazione estrema del bambino in ospedale, lo mette in contatto con la realtà della vita scolastica e con la realtà della vita ordinaria, ma di più rompe l’isolamento duraturo della scuola che sopravvive al corso del tempo, si fa attenzione, munus per il bambino, in questo caso ammalato, attenzione per lo straordinario, il molteplice e il possibile della vita, progettualità adulta che vede al centro un ragazzo che costruisce e negozia il suo apprendimento. La comunicazione a distanza si fa presenza e condivisione, correzione e promozione reciproca, costante terapia per il bambino lungodegente, ma in definitiva promozione dell’individuo schiacciato dall’occhio tradizionalmente adulto della scuola: il bambino finalmente è operativo, eroe e protagonista, gioca e apprende.

Note

G. Rodari, Esercizi di fantasia, a cura di F. Nibbi, Editori Riuniti, Roma, 1981. Si veda F. La Cecla (a cura di), Perfetti e invisibili. L’immagine dei bimbi tra manipolazione e realtà, Skira, Milano, 1996; G. Fiorentino, Il bambino nella rete. Dalla lavagna al computer, Marsilio, Venezia, 2000. 3 H. Gardner, Formae Mentis, Feltrinelli, Milano, 1987. 4 M. Lugli, L’archivio dei bambini violentati, La Repubblica, giovedì 24 maggio 2001, p.4. 5 L. Lipperini, Generazione Pokèmon, Castelvecchi, Roma 2000. 6 S. Rushdie, 1980,. I figli della mezzanotte, Rizzoli, Milano 1987. 1 2

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Starbright, c’è un personaggio a guidare i bambini nelle connessioni, nel gioco, nelle attività di apprendimento. E.T. è la guida dei bambini nell’universo fantastico di Starbright. Il diverso, l’alieno, lo staordinario si fa compagno di giochi e lavoro, il personaggio virtuale diventa entità psicologica che supporta e guida alle potenzialità del reale. Non è il primo esempio di applicazione di “affective computing”, informatica affettiva, dove il gioco avviene in mondi virtuali sempre più emotivamente coinvolgenti14. Anche nelle esperienze italiane le finalità ludico-didattiche non sono mai distinte da quelle terapeutiche. Il progetto Bambi15, nato all’interno del reparto di Oncoematologia pediatrica dell’ospedale Silvestrini di Perugia, ad esempio prova ad attivare situazioni cooperative con bambini che vivono in isolamento completo. Mediante il programma multimediale Timbuktu Pro, il computer diventa una lavagna elettronica condivisa, che consente di leggere, scrivere e disegnare su uno schermo osservato da tutti i bambini collegati. Come se fossero insieme, i ragazzi giocano e lavorano, creando storie e disegni comuni, condivisi, dialogano tra di loro grazie all’interfono a viva voce, partecipano a conversazioni guidate, raccontano esperienze personali portandole all’esterno in collegamenti con gruppi-classe, ascoltano genitori e amici dalla postazione sistemata all’esterno. Il progetto Pleiadi, finanziato dalla Telecom Italia in collaborazione con i Ministeri della Pubblica Istruzione e della Sanità, prevede collegamenti in contemporanea tra ragazzi degenti, con un massimo di sedici postazioni. Gli studenti ammalati possono seguire il percorso della propria classe in video, hanno la possibilità di dialogare, interagire e giocare con i bambini che sono a scuola. Il programma prevede tra l’altro la realizzazione di ipertesti prodotti anche in collegamento telematico dai ragazzi che sono in ospedale. Ancora, il progetto Cordata avviato con il gemellaggio della scuola elementare Govi e della scuola dell’ospedale pediatrico Gaslini di Genova è guidato dell’Istituto Tecnologie Didattiche del Cnr. Cordata16 si è esteso rapidamente a scuole dell’intero territorio italiano. La comunicazione tra i bambini si fonda sul servizio di posta elettronica e si sviluppa in attività di corrispondenza personale e su percorsi di costruzione collabo-

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Ibid., pp.222-224. Cfr. M. Cartry, Du village à la brousse ou le retour de la question, in M. Izard e P. Smith (a cura di), La function simbolique, Parigi 1979, pp.265-268. 9 A. Abruzzese, Lo splendore della tv. Origini e destino del linguaggio televisivo, Costa & Nolan, Genova 1985, p.70. 10 L. Dossa Cavallari, Il piccolo occhio onnipotente, in Argomenti, n.1-2, gennaiogiugno, 1982, pp.52-56. 11 Il piccolo principe va sempre oltre lo sguardo adulto, è proiettato direttamente nell’invisibile: «l’essenziale è invisibile agli occhi» (p.98), «quello che fa la loro bellezza è invisibile» (p.106) «Questo che io vedo non è che la scorza. Il più importante è invisibile» ( p.106). 12 Cfr. G. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura, Baskerville, Bologna, 1993. 13 L’indirizzo telematico è: www.starbright.org/index.html. 14 La relazione essenziale tra apprendimento e motivazioni affettive sono oggetto di dibattito anche grazie al successo del libro di D. Goleman L’intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1996. 15 L’indirizzo telematico è: http://www.krenet.it/bambi. 16 L’indirizzo telematico è http://paradiso.itd.ge.cnr.it/progetti/cordata/index.html. Esperienze ulteriori in tale ambito si possono trovare segnalate nel volume a cura di D. Persico, Tecnologie didattiche e scuola, Ministero della pubblica Istruzione –CNR Istituto Tecnologie Didattiche, Genova, 2001. 7

ferruccio de salvatore pedofili in rete

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“La faccia sua era faccia d’uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle e d’un serpente tutto l’altro busto”.1

Un’immagine calzante ogniqualvolta si cerca di tracciare l’identikit di un pedofilo è quella di Gerione, simbolo di frode, tratteggiata da Dante. Non è un caso che la recentissima operazione che ha portato all’emissione di numerose ordinanze di custodia cautelare nei confronti di persone indagate per sfruttamento e violenza sessuale in danno di minorenni sia stata denominata, in codice, proprio il nome del custode infernale. Vero è che anche da un punto di vista psichiatrico la pedofilia si presenta come un disturbo sessuale e dell’i-

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dentità di genere; una patologia sfuggente, di non facile definizione. Secondo il DSM-IV2, pedofilo è il soggetto (almeno cinque anni maggiore della sua vittima) che abbia compiuto sedici anni e che durante un periodo minimo di sei mesi viva fantasie, impulsi erotici, comportamenti ricorrenti ed eccitanti che lo inducano ad attività sessuale con uno o più bambini pre-puberi di età inferiore ai tredici anni. Gli impulsi devono essere tali da causare un disagio clinicamente significativo e da compromettere l’area sociale e lavorativa dell’agire. Il pedofilo-tipo è dalla psichiatria descritto come un individuo appartenente a qualsiasi fascia sociale, spesso perfettamente inserito nella comunità, dotato di una personalità timorosa delle relazioni interpersonali adulte, ansiosa e con tendenza alla depressione. La particolare capacità di mimetizzarsi e di agire nel quotidiano adeguandosi alle aspettative della collettività, salvo poi a dare sfogo ai propri istinti in condizioni favorevoli, rende particolarmente inquietante il profilo di chi abusa sessualmente dei bambini. È sconcertante rilevare che le persone dedite al turismo sessuale sono per lo più professionisti tra i 40 e i 50 anni, appartenenti a ceti medio-alti della popolazione; si tratta di individui che, forti dell’anonimato derivante dalla lontananza dal Paese d’origine, agiscono senza inibizioni e con estrema spregiudicatezza. Una certa somiglianza si coglie tra il profilo del turista sessuale e quello del pedofilo che naviga in rete. Anche quest’ultimo, infatti, possiede, generalmente, un livello culturale elevato ed è persona bene inserita nella società e nel mondo del lavoro. Nel suo caso Internet rappresenta il mezzo attraverso il quale può esprimere ogni intimo desiderio con rischi, tutto sommato, ancora ridotti e con ridotte implicazioni emozionali: può infatti esternare le sue pulsioni sessuali senza bisogno di allontanarsi dalla casa o dal luogo di lavoro. Per comprendere fino a che punto la rete sia congeniale al pedofilo è necessario soffermare l’attenzione sull’uso che questi ne fa, in particolare sull’aspetto ideologico; su quello dello scambio d’informazioni e di materiale pedopornografico; su quello dell’adescamento. Quaderno di COMUNICazione

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stazione del pensiero e l’istigazione o apologia di delitto5 che, per il nostro Ordinamento, ricorre ogni qualvolta si esprime un giudizio positivo di valore rispetto ad un comportamento che la legge prevede come delitto, è abbondantemente superata. Pur senza inserimento di vero e proprio materiale pedopornografico, si può ravvisare l’illegalità del contenuto dei documenti ogniqualvolta si esprime una valutazione favorevole, o una vera e propria esortazione, all’atto sessuale tra adulto e bambino infraquattordicenne che, per la nostra legge, come per quella di tutti i Paesi civili, costituisce un delitto. Tanto consente di ipotizzare la responsabilità penale dell’autore e, quindi, l’intervento repressivo da parte dello Stato nel quale il reato si è consumato. La rete, comunque, è utilizzata dai pedofili, e questo è il secondo aspetto cui innanzi accennavo, soprattutto per uno scambio d’informazioni e di materiale sia a titolo gratuito sia, come sempre più spesso si sta accertando, a titolo oneroso. Indubbiamente esiste un giro d’affari di dimensioni planetarie collegato alla pedopornografia, termine del quale è giunto il momento di dare una definizione precisa. Sintetizzando quella proposta dal Relatore Speciale della Commissione per i diritti dell’uomo nel 1994, con un’antecedente del Consiglio d’Europa del 1989, si può ritenere tale ogni rappresentazione visiva di un bambino o adolescente utilizzato per la realizzazione di pose erotiche o di atti sessuali in solitudine, con persone maggiorenni o altri minori al fine di ottenere la gratificazione degli istinti sessuali di un adulto; (nel materiale pornografico, ovviamente, s’includono anche i filmati sonori). Vero è che dei circa 280 milioni di dollari annui (volume d’affari della pornografia, stimato per difetto) una buona percentuale vada imputata proprio alla realizzazione di foto e filmati con attori minorenni, prevalentemente bambini asiatici e brasiliani ai quali, negli ultimi tempi, si aggiungono anche quelli dei paesi dell’Est. Quanto ci si avvalga di Internet, soprattutto per la distribuzione, divulgazione e pubblicazione di questo tipo di materiale, lo provano i tanti Quaderno di COMUNICazione

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Quanto al primo, è innegabile che vere e proprie organizzazioni tentino di dare alla pedofilia una legittimazione culturale attraverso il richiamo dei costumi del mondo classico ed esercitino pressioni anche sulle potenziali vittime. Indicativi di tanto sono i risultati delle indagini svolte nell’ambito dell’operazione “Cathedral”3che ha portato all’arresto, tra gli altri, dell’autore di un ormai noto documento elettronico contenente farneticanti riflessioni sulla sessualità e l’invito ai minori a non denunciare eventuali approcci sessuali da parte di adulti per non rovinarne la vita. È utile evidenziare che la persona in questione, il cui nickname era“the Slurp,”da qualche tempo cercava di organizzare in Italia il “pedophile liberation front” e il “pedo pride day”, apparteneva al ceto medio ed aveva un buon livello di istruzione. Anche la già menzionata operazione “Gerione” ha consentito di reperire una notevole mole di documenti che esaltavano l’impulso pedofilo come “bisogno insopprimibile” e rivendicavano la libertà d’autodeterminazione nei rapporti sessuali con adulti per i bambini di sei anni. Si potrebbe forse obiettare che la mera legittimazione culturale della pedofilia, senza inserimento in rete materiale pedopornografico, per quanto inaccettabile sotto il profilo etico, rientrerebbe in quella libera manifestazione del pensiero di cui Internet costituisce lo strumento ed il veicolo di primaria importanza. Proclami di questo tipo potrebbero essere, pertanto, catalogati tra il materiale nocivo ma non illegale con la conseguente preclusione di qualsivoglia azione repressiva penale o di censura preventiva. A tal proposito va rammentato che sia il Consiglio Costituzionale francese, nel 1996, sia alcuni Tribunali Distrettuali degli Stati Uniti 4, chiamati ripetutamente a pronunciarsi sulla possibilità di impedire ai fornitori di accesso alla rete l’inserimento di materiale potenzialmente nocivo, quantomeno per i minori, hanno ribadito più volte la non applicabilità di censure, perché contrastanti con il primario diritto di libertà di pensiero e di parola. Va però evidenziato che, nel caso dei proclami inneggianti alla pedofilia cui si è fatto riferimento, la linea di demarcazione tra libera manife-

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Negli Stati Uniti sin dai primi anni ’90, sono state condotte da parte dell’F.B.I. indagini che hanno portato all’arresto di numerose persone per molestie nei confronti dei bambini. Personalmente ritengo che, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, il rischio di adescamento, pur concreto, sia, in sé per sé considerato, minore rispetto allarme oggi esistente. In questo senso sembrerebbero confortanti i dati di uno studio condotto dalla cattedra di criminologia dell’Università La Sapienza8. I ricercatori, dopo aver creato una “bambina virtuale”, simulando l’identità di una bambina tra gli otto ed i tredici anni ed averla immessa in rete, hanno utilizzato un campione di 100 conversazioni nelle chat rilevando che nell’84% dei casi, ogniqualvolta l’interlocutore adulto si è reso conto di interagire con un bambino, ha osservato un comportamento formalmente e sostanzialmente corretto, arrivando anche ad informarlo dei potenziali pericoli. Nel 12% dei casi sono state registrate molestie verbali poiché il “minore” è stato sollecitato a parlare della propria sessualità ed a compiere atti di masturbazione. Solo nel 4% dei casi l’interlocutore ha posto in essere un vero e proprio tentativo di adescamento, proponendo l’incontro reale e cercando di ottenere il numero di telefono o l’indirizzo del “bambino”. Tali dati, pur non essendo, per la loro limitatezza, sufficienti ad offrire certezze, possono tuttavia fornire una prima indicazione circa i rischi effettivi che corre il minorenne utente di Internet. Ovviamente bisogna partire dalla considerazione che nel nostro Paese il bambino che naviga in rete, almeno sino ad oggi, è quello inserito quasi sempre in una famiglia appartenente ad una fascia socio-culturale medio-alta ed è un bambino che incomincia ad utilizzare il computer sin dall’età di nove-dieci anni. Sta crescendo infatti in Italia, sia pure con ritmi più lenti rispetto agli Stati Uniti e ad altri Paesi europei quella che “Time” ha definito la net generation. Una generazione cui appartengono fanciulli dotati di grandi potenzialità, che sono sensibilmente stimolate dalle nuove tecnologie. È tuttavia una generazione composta in prevaQuaderno di COMUNICazione

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messaggi di posta elettronica con cui società non identificate offrono fotografie e video porno realizzati con lo sfruttamento di minori e propongono persino di personalizzare le immagini degli amplessi inviando una foto da sostituire a quella dell’adulto impegnato nella violenza sul bambino6. Ancora una volta, tuttavia, sono le numerose inchieste giudiziarie, alcune già concluse, altre in corso, a far luce sull’uso che della rete è fatto in quest’ambito. Va rammentato, in particolare che sia l’operazione Cathedral, cui si è già accennato, sia quella denominata Pre-teen7 che quella condotta dalla Procura di Torre Annunziata, nell’autunno 2000, hanno consentito di scoprire veri e propri canali telematici con accessi vincolati al possesso di archivi di immagini pedopornografiche ed impegno allo scambio o alla vendita. Sempre le indagini hanno consentito il reperimento ed il sequestro di un’enorme mole di materiale realizzato mediante lo sfruttamento sessuale di pre-adolescenti, alcuni dei quali sottoposti a sevizie inimmaginabili; hanno accertato la dimensione transnazionale delle organizzazioni che utilizzano Internet per tali illeciti fini, individuato i loro referenti nazionali e numerosi acquirenti del materiale: ancora una volta si trattava di uomini, per lo più, giovani ed insospettabili. Internet può poi essere congeniale al pedofilo anche per un’attività di adescamento del bambino: alle strade ed alle piazze delle nostre città, popolate di corpi reali, di volti autentici, molti dei quali amici, in ogni caso riconoscibili, l’ultimo scorcio del XX secolo ha, poco a poco, iniziato a sostituire piazze virtuali, luoghi d’incontro in cui ciascuno può decidere se essere se stesso o acquisire un’altra identità: l’uomo può spacciarsi per donna, l’adulto per bambino e viceversa, in una sorta di gioco delle parti attraverso il quale è possibile liberarsi dalle proprie paure, dalle inibizioni e dare libero sfogo alla fantasia. Nelle chat ci si incontra e ci si confronta anche forti dell’anonimato. Questa possibilità comporta ovviamente dei rischi: è accaduto in alcune occasioni che dei minori siano stati destinatari di molestie o individuati come possibili partner da adulti con impulsi pedofili.

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l’attività di prevenzione, repressione e sulle strategie di contrasto elaborate da altri Stati. Con questo stesso fine è concepita anche la partecipazione agli organismi comunitari ed internazionali aventi compiti di tutela dei minori dallo sfruttamento sessuale. Ancora più incisiva è la disposizione dell’art.14 della stessa legge che conferisce alla polizia giudiziaria concreti poteri investigativi nell’ambito delle indagini finalizzate alla repressione dei delitti sessuali o per la tutela dei minori. Ogniqualvolta si procede per delitti di prostituzione minorile (art. 600 bis), pornografia minorile (600 ter), iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile (600 quinquies), previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, è possibile effettuare acquisti simulati di materiale pornografico, svolgere le relative attività di intermediazione, nonché partecipare alle iniziative turistiche in questione. L’Autorità Giudiziaria può anche differire il sequestro del materiale sino alla conclusione delle indagini. In particolare, il 2° comma dell’art.14 attribuisce alla Polizia delle Telecomunicazioni, organo del Ministero dell’Interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione, il compito di svolgere, su richiesta motivata della magistratura procedente, tutte le attività occorrenti per contrastare i delitti di induzione, favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione di persona infradiciottenne (art. 600bis, 1° co), di pornografia minorile (600 ter, 1-2-3° co., eccezion fatta per la cessione a titolo gratuito), di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile commessi mediante l’impiego di sistemi informatici o mezzi di comunicazione telematica o utilizzando reti di telecomunicazioni disponibili al pubblico. L’accertamento dei reati è demandato ad unità territoriali istituite nell’ambito di 19 compartimenti di polizia postale. Nel corso delle indagini gli investigatori hanno anche la possibilità di utilizzare indicazioni di copertura per attivare siti nella rete, realizzare, gestire o partecipare ad aree di comunicazione o di scambio su reti o sistemi telematici. Quaderno di COMUNICazione

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lenza da bambini con genitori sempre più impegnati all’esterno delle mura domestiche e meno attenti alle loro esigenze; bambini che, proprio perché carenti di affetto ne sono alla ricerca anche da parte di sconosciuti verso i quali può spingerli un’innata e pericolosa curiosità. È sintomatico il fatto che, sempre la medesima inchiesta dell’Università La Sapienza, sotto altro aspetto, abbia rilevato come su un campione di 100 pre-adolescenti intervistati, il 7,5% ha avuto un appuntamento dal suo interlocutore e il 25% vi si è recato senza informarne i genitori. Tutto ciò indurrebbe a concludere che la possibilità di essere adescato con successo da un pedofilo nella rete sia direttamente proporzionale alla situazione di solitudine in cui versa il piccolo utente di Internet. Il rischio è tanto maggiore quanto più il bambino è solo, quanto più è carente la comunicazione con i genitori e, quindi, quanto minori sono le difese che la famiglia è in grado di approntare. Non è possibile concludere questa riflessione senza un accenno agli strumenti normativi esistenti ed alla loro efficacia. Va preliminarmente rammentato che ogniqualvolta l’informazione immessa in rete non sia meramente nociva ma abbia un contenuto illegale e quindi concreti la lesione di un precetto giuridico sanzionato penalmente, dovrà essere sottoposta al controllo del Paese di appartenenza dell’utente e, quindi, all’applicazione di quella legge penale. Ciò rende essenziale la realizzazione di accordi tra Stati, finalizzati ad armonizzare, con verifiche periodiche, le differenti legislazioni in relazione alla valenza da dare alle informazioni immesse nella rete, alla punibilità, sia pure differenziata, che dovrebbe conseguire per i fruitori del materiale ed i fornitori di accesso, allo scambio di informazioni, all’impegno dell’Europol9. Per quanto riguarda il nostro Paese, un notevole passo avanti è stato compiuto grazie alla L.269/9810. A tal proposito va sottolineato l’ampio respiro della disposizione di cui all’art.17 in virtù della quale la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha notevoli poteri di coordinamento che, tra l’altro, consentono l’acquisizione di dati ed informazioni a livello nazionale ed internazionale, sul-

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del proprio ruolo, ma anche e soprattutto diretta ai bambini ed agli adolescenti; un’opera d’informazione che una scuola sempre più protesa verso il futuro e consapevole delle potenzialità della rete è senz’altro il soggetto più adatto a realizzare; un’informazione ad ampio raggio, continuativa ed intelligentemente coordinata, alla quale non devono sottrarsi le Istituzioni e devono contribuire necessariamente, ma in modo serio e responsabile, senza generare inutili allarmismi, i massmedia. Qualcuno ha descritto internet una scatola nera in cui ciò che è immesso da un lato esce dall’altro mentre all’interno si trova di tutto: si trova il bene e si trova il male. C’è del vero c’è in questa definizione. Credo però fermamente che, prima ancora di essere compresso dalla sanzione, il male possa essere prevenuto dalla conoscenza. Ancora una volta solo la conoscenza potrà aiutarci ad illuminare l’interno della scatola per trarvi ciò che vi è di realmente buono.

Note

Dante Alighieri, La Divina Commedia, Canto XVII,10-13, Diagnostic and statistical Manual of Mental Disorders pubblicato dall’American Psychiatric Association; Washington D.C., 1994 3 Indagine avviata, nel 1998, dal National Crime Squad britannico e coordinata dal Segretario Generale dell’Interpol con il coinvolgimento di organi giudiziari e polizie di numerosi Paesi 4 US District Court for Eastern Pennysilvania, causa ACLU contro Reno, 11giugno 1996. 5 (art.414 c.p.) 6 Da “La Repubblica” del 23.10.96. 7 Operazione condotta, nel febbraio 2000, dalle Procure della Repubblica di Foggia e Matera 8 Ricerca eseguita presso la cattedra di criminologia con la collaborazione della dott.sa Marianna Bove. 9 In tal senso, v.Comunicazione della Commissione delle Comunità Europee al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale e al Comitato delle regioni “Informazioni di contenuto illegale e nocivo su Internet”, Bruxelles 16 ottobre 1996; nonché “Decisione del Consiglio dell’Unione Europea relativa alla lot1 2

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Le unità teritoriali svolgono inoltre un’importante opera di monitoraggio trasmettendo l’esito degli accertamenti alla sezione centrale costituita, nell’ambito del Servizio di Polizia Postale e delle Comunicazioni, proprio con il compito di indirizzare l’attività di contrasto della pedofilia in rete attraverso il raccordo delle indagini, di provvedere alla mappatura dei siti ed all’elaborazione di sistemi diretti a consentire la sempre più capillare analisi del materiale pedopornografico. A tal proposito va rammentato che recentemente sono stati individuati flussi di foto realizzate con il sistema della steganografia11nelle quali la figura segreta non è distinguibile ad occhio nudo dall’immagine originale12. Da ciò si deduce quanto sia necessario, di fronte al continuo raffinarsi delle tecniche utilizzate dai pedofili in rete, potenziare il Servizio e, soprattutto, investire nella formazione e nell’aggiornamento professionale di chi vi fa parte. I mezzi di contrasto approntati dall’Ordinamento incominciano a dare buoni frutti sul piano delle indagini, come dimostrano i risultati conseguiti anche con l’apporto delle numerose organizzazioni impegnate nella difesa dell’infanzia e che, in costante contatto con il Servizio di Polizia delle Comunicazioni, svolgono un’attenta opera di segnalazione di siti. A mio personale parere non è condivisibile l’idea da qualcuno manifestata, di rendere ancora più incisive le sanzioni penali con riferimento a quelle condotte che si sostanziano nella distribuzione, divulgazione e pubblicizzazione del materiale pornografico realizzato mediante lo sfruttamento di minori o nella divulgazione di informazioni finalizzate all’adescamento o allo sfruttamento. Prima ancora che con la pena, che pure va erogata con fermezza di fronte a gravi ipotesi delittuose, la pedofilia in rete deve essere contrastata con un’oculata opera di prevenzione. Esistono, com’è noto, comuni programmi di filtraggio utilizzabili per consentire ai minori una “navigazione” sicura, evitando di imbattersi in siti pericolosi. Ciò che occorre più di ogni altra cosa è, tuttavia, una capillare opera d’informazione rivolta ai genitori, che devono riappropriarsi

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ta contro la pornografia infantile su Internet”, 29 maggio 2000. 10 “Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”. 11 Sistema che consente di iniettare un messaggio segreto dentro un file grafico dall’aspetto innocuo, sostituendo i bit meno significativi delle immagini digitalizzate con quelli che costituiscono il file segreto. 12 Il sistema funziona anche per i suoni o le animazioni digitalizzate.

fernanda rizzo adolescenze al limite

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Il Tribunale per i minorenni ha quasi settant’anni, un pò meno il Codice di procedura civile (i cambiamenti più recenti riguardanti i minori sono quelli del Marzo 2001, al titolo VIII del libro primo del C.C. nell’ambito delle modifiche alla Legge n. 184/1983); il Codice di procedura penale è più giovane: appena 13 anni, ma per alcuni aspetti si sente l’esigenza di “ritocchi”. L’ordinamento penitenziario (quello per gli adulti, perché quello per i minorenni non è mai venuto alla luce) ne ha più di 20. Eppure non è soltanto il tempo che trascorre a rendere sempre non completamente adeguate/attuali regole e strumenti della giurisdizione minorile. Posando lo sguardo sulle adolescenze al limite si impongono con evidenza all’attenzione fenomeni apparsi o fortemente intensificatisi negli ultimi anni: la consistente e non più episodica presenza di ragazzi stranieri, la partecipazione di minorenni ad azioni di criminalità organizzata. I fatti di Novi Ligure hanno poi “svelato” un altro aspetto “sfuggito” all’attenzione del legislatore dell’ ‘88, quello dell’esasperato conflitto generazionale, delle violente esplosioni emotive che pur numericamente circoscritte mostrano una realtà minorile ormai tutta esposta al limite. Un impatto così forte che rischia di mettere in discussione perfino le linee portanti del sistema penale minorile vigente (Dpr 448/88). Se questi sono i fenomeni più vistosi del nuovo o del non pensato all’epoca della riforma di tale sistema, non meno forte è l’impatto con un mondo minorile attraversato da violenze e abusi. Una condizione dun-

que che complessivamente si connette al mutare degli stili di rapporto e di comunicazione intra ed extrafamiliare (scuola, gruppi dei pari, mondo del lavoro). Diventano opachi gli orizzonti della vita adulta a cui i ragazzi si preparano (sempre più lentamente, quasi a ritardare il momento dello scacco temuto) e prive di contenuto le relazioni tra generazioni. I numerosi rapporti sulla condizione minorile negli ultimi anni evidenziano l’esistenza di un interesse crescente per la misurazione del benessere dei minori le cui cifre e statistiche (certamente importanti) restano però “mute” generando la sensazione che ciò che indaghiamo non sia mai abbastanza; ciò che scopriamo non è poi proprio quello che occorre sapere oggi. Noi attendiamo dall’osservazione strumenti e ipotesi interpretative che ci aiutino ad orientare l’azione, modificandola nei contenuti e, se necessario, nelle premesse normative ed organizzative. In questa prospettiva l’esplorare, il riflettere intorno alla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza possono restare muti o prender corpo in nuove strade da percorrere. Propongo qui alcuni “orizzonti” possibili. Il primo è in parte rappresentato dai mutamenti accennati quando dicevo che sembra mutata la composizione sociale, culturale e addirittura etnica della popolazione minorile interessata all’intervento dell’Autorità Giudiziaria (penale e civile): oltre ai ragazzi al limite, agli extracomunitari, ai nomadi, vediamo oggi in maggior numero rispetto al passato “ragazzi normali”. Occorre comprendere ragioni e significati di questo nuovo scenario per poter valutare l’adeguatezza e l’efficacia del sistema penale minorile, non cedendo alla tentazione di tener relegata l’intera questione nell’ambito delle istituzioni penali, poiché ciò appare piuttosto un pretesto per non affrontare le denunce che questa stessa condizione minorile pone all’organizzazione sociale. Il secondo è rappresentato dalla necessità di un raccordo tra saperi diversi che indagano i mondi minorili e tra istituzioni diverse. Se manca nelle istituzioni la competenza per decodificare i segnali del maltrattamento, allora la sofferenza minorile è destinata a restare un fenomeno sommerso, magari con alcune esplosioni drammatiche (spettacolariz-

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di riconsiderare le possibili funzioni della punizione: non una punizione intesa in modo repressivo, ma in quanto dinamica sociale e istituzionale di attribuzioni di responsabilità, in quanto processo che attiva competenze e saperi capaci di “orientare” i ragazzi e non solo in ambito penale, ma tutti i ragazzi nella normale quotidianità, rimettendo in circolo nella loro vita la possibilità di apprendere la responsabilità. Per queste ragioni il “limite di età” che la legge pone per il riconoscimento della capacità di agire non può essere interpretato unicamente come segnale del livello di maturità del minore, ma piuttosto come indicatore della capacità delle istituzioni, nella nostra cultura e in questa fase, di creare spazi di rapporti sociali con l’infanzia e l’adolescenza, all’interno dei quali poter dare ed esigere risposte che tutelano e difendono non solo i minori. Lo sforzo è pertanto in direzione dell’abbandono di enfasi e generalità per imparare a comprendere la posizione che i mondi minorili occupano in rapporto agli adulti, alle istituzioni che si occupano di loro ed alle opportunità concrete che hanno di elaborazione, ascolto, progetto. È proprio da questo punto di vista che i nostri saperi, la nostra legislazione sono ancora prevalentemente attenti a fornire garanzie formali di tutela, piuttosto che a riconoscere capacità, competenze, libertà, responsabilità. Questo disequilibrio fra tutela, libertà e responsabilità è un indicatore chiaro di una condizione nella quale l’enfasi cade sui bisogni di protezione. Per comprendere questo sbilanciamento verso un protezionismo formale, basta valutare l’incapacità adulta di cogliere come la stessa Convenzione ONU del 1989 (ratificata con L.N. 176/91) ricerca un equilibrio nuovo e dinamico del rapporto tra protezione e sviluppo assegnando al bambino la posizione di cittadino e, agli adulti, il compito di individuare le condizioni di tutela che possono consentire a tale posizione di diventare reale, ridefinendo un diritto per i minori, un diritto cioè che non prende più in considerazione il soggetto in età evolutiva per disciplinarne il comportamento che gli adulti devono tenere nei suoi confronti, ma un diritto che identifica prassi per rispondere ad una personalità in crescita. Quaderno di COMUNICazione

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zate dai media) ma che non servono ad innescare processi adeguati di responsabilizzazione e di prevenzione, promuovendo atteggiamenti mentali e relazionali più incisivi per ascoltare e sostenere l’infanzia e l’adolescenza. Il terzo è rappresentato da un’idea di mediazione educativa come “realizzazione di un progetto di riorganizzazione delle relazioni”. Cosa viene in mente per collegare queste tre ipotesi? La Responsabilità, intesa come utile indicatore/rivelatore della tenuta dei rapporti tra mondi minorili e società adulta, come elemento centrale di un confronto di culture, di prospettiva, di intervento e di ricerche nei luoghi scientifici in cui i problemi giuridici si incontrano e interagiscono con quelli sociali, psicologici, criminologici, educativi. Responsabilità richiama un autore di grande spessore, Hans Jonas; il suo principio può essere qui ripreso per capire che la nostra curiosità di conoscere i bambini non può essere legata unicamente al tragico dell’attualità; che aiutare bambini adolescenti a diventare adulti è l’unica risposta possibile allo sfruttamento della loro immagine. Nuovi contributi e ricerche effettuate sulla responsabilità psicologica in età evolutiva (Dcsi, Amman, Gainotti, Ajello, Panier, Bagat, De Leo) hanno posto in evidenza che il concetto di responsabilità in psicologia sarà da riferire sempre già frequentemente alle competenze sociali, alle abilità, alle conoscenze ed in particolare, alla capacità di rispondere degli effetti sociali delle azioni rilevanti sul piano normativo (morale, sociale, giuridico). La riflessione su questi contributi aiuta a intuire una sorta di funzione “generativa” della responsabilità come premessa allo sviluppo. Per molto tempo il problema della responsabilità in ambito giuridico è stato considerato come il criterio basilare in grado di assolvere al compito di rendere imputabili i soggetti in relazione alle loro azioni. Con fatica in questi anni segnati dall’eterna controversia fra punizione e recupero, punizione-educazione, la questione della responsabilità ha ricevuto una spinta innovativa e coraggiosa dalla ricerca in campo minorile dove proprio nel dpr 448/88 lo stesso termine acquista una nuova centralità nella relazione diritto-educazione. Novi Ligure ha reso visibile il bisogno

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federico pirro come parlarne?

Qualche anno fa mio figlio aveva due anni, il telegiornale regionale aveva una sola edizione alle 19.00 e poi intorno alle 22.00 c’era la replica. Quando conducevo io la replica non avevo necessità di vederla, però di tanto in tanto ne sentivo l’esigenza per verificare la resa e vedere se c’erano più errori del necessario. Quella sera con me c’era anche mio figlio e io fui testimone di un suo trauma quando mi vide passare nel piccolo schermo del tg regionale. Stette cinque minuti buoni a chiedersi: “ma se mio padre è questo, quello chi è?! E se quello è mio padre questo chi è?!”. Con esemplare evidenza colse il significato di quella scatola terribile e senza nessuno che potesse spiegargli cosa stava avvenendo lì dentro, e fino a che punto ciò che vi passa è vero e fino a che punto è falso. Mi resi conto allora di cosa possano significare a quella età le rappresentazioni di scene di violenza. Io non so che cosa significa per un bambino di pochi anni che vede una persona morire e poi il giorno dopo la vede viva in un altro episodio: forse comincia a credere che la morte è uno scherzo o finzione. Chissà come vive l’idea di morte un bambino che assiste quotidianamente a queste morti e a queste risurrezioni. Quindi è normale confondere la realtà con queste fiction. Il bambino anche come strumento mediatico è utile per la pubblicità. È utile anche per i festival come lo “Zecchino d’Oro”. È insomma uno strumento per corteggiare il consenso adulto perché la sua condizione di innocenza lo rende più convincente, più simpatico e più carino, come gli animali da vezzeggiare, e in questo caso bambini e animali sono messi un po’ sullo stesso piano. E questo è del resto un topos storiografico. La pedofilia, un fenomeno che nei mezzi di comunicazione è esploso in questi anni, è diventato uno strumento di propaganda per gli stessi pedofili. Feltri, direttore del “Libero” , addirittura, con la scusa di voler preservare “la gente”, preannunciò che avrebbe pubblicato tutto ciò che riguardava questa vicenda giudiziaria ma nella realtà diceva: “compraQuaderno di COMUNICazione

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È questa incapacità che esprime e alimenta una cultura dell’infanzia e dell’adolescenza povera, riduttiva, indifferente che gioca sistematicamente al ribasso proprio mentre produce sempre più norme per la tutela del minore. È proprio da qui che occorre ripartire: dalla definizione di un nuovo sguardo sulla condizione “minore” capace di saldare una cultura giuridica ad una pedagogia della cura più che della tutela; per una nuova prassi di liberazione dell’adolescenza da troppe ipoteche ermeneutiche separate. Uno sguardo individualizzante che ci permetta (senza rifiutare le generalizzazioni e le astrazioni, imprescindibili per qualunque approccio scientifico) di cogliere ogni volta la specificità di “questo bambino qui o di questa bambina qui”. Uno sguardo che vada ogni volta a identificare le caratteristiche generali (sociali, economiche, psicologiche) dell’infanzia e dell’adolescenza in un dato tempo, incontrandole nei luoghi elettivi della loro presenza fisica, corporea, concreta. Sarà allora necessario posare lo sguardo non solo sulla famiglia, ma anche sui luoghi della socializzazione primaria, dove si definisce l’attenzione per i bisogni primari e si costituisce la relazione educativa sotto il segno della cura; nella scuola dove grazie ad un resistente fraintendimento del mandato istituzionale sembra si possa fare a meno degli affetti per concentrarsi su un non meglio precisato versante cognitivo isolato dalle emozioni; nell’extrascuola dove la delega del divertimento e del senso di appartenenza mette in scena relazioni educative da sottrarre al delirio privatistico e da tematizzare come fulcro dell’interesse di una città a misura d’uomo, e pertanto a misura di bambino. Un nuovo campo dunque di saperi integrati che faccia i conti con la ineludibile dimensione del potere e della indifferenza costitutiva di qualunque sguardo sull’infanzia, che abbia il coraggio di giocarla in nome di una nuova dimensione, volta al superamento della logica dell’emergenza. Per contribuire ad una curiosità permanente e quindi ad un’educazione permanente al senso di responsabilità, soprattutto sul versante adulto.

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essere oggetto di un dibattito aperto. L’altro giorno a Taranto c’è stato un convegno sulla sessualità complessivamente intesa e c’è stato inevitabilmente un capitolo sulla pedofilia. Una giovane donna, molestata dal padre, ne ha parlato a viso aperto per dare un segnale di apertura di questa tematica. Io ritengo che più questi fenomeni deteriori rimangono nel chiuso dei dibattiti, più si finisce per tutelare che è protagonista attivo e quindi negativo di questi episodi, anziché diffonderne consapevolezza, ed è in questo che l’informazione può svolgere un ruolo davvero importante purché assecondato da una maggiore preparazione di sensibilità, ma soprattutto da un’opinione pubblica che si liberi da una serie di strane ed incomprensibili reticenze. Continuare a tenere queste cose in un concetto eccessivamente esteso di privacy può danneggiare la presa di coscienza. Io forse avevo quattro anni quando una cameriera mi ha molestato e non ho difficoltà a parlarne, ma perché? Perché forse queste cose i maschi le possono dire, o perché il dibattito che se ne fa mi ha reso più libero? Purtroppo l’informazione cresce sull’onda della sua negatività: più la notizia fa orrore più è una notizia. C’è proprio una scuola di pensiero sulla notizia positiva e la notizia negativa. In realtà siamo un po’ tutti noi educati o diseducati alla notizia negativa. Quando ci incontriamo non diciamo: “sai Tizio è sempre dipendente di quella azienda” ma ce lo diciamo perché Tizio è stato licenziato, è stato arrestato… oppure “è fuggita di casa…”; “ha tradito il marito o la moglie”. Sono queste le notizie che all’80% ci comunichiamo, e quindi c’è questo modo di dialogare fra noi e fare informazione più sulle negatività; raramente sulle positività, e alla fine l’informazione diventa specchio di ciò che è la società. La vicenda di Novi Ligure è l’esempio di informazione diseducativa: ricordo un “Porta a Porta” con Bruno Vespa in cui si discuteva in orari in cui gli adolescenti erano in ascolto, e c’era questa voglia di cogliere a tutti i costi le motivazioni giustificative che io ritengo siano un fatto negativo perché è un autoassolversi che in menti fragili rischia di essere proprio uno stimolo a lasciarsi andare. Per non parlare poi del continuare a chiedersi: “fra quanto tempo usciranno? Quanti anni resteranno in carQuaderno di COMUNICazione

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tevi il giornale perché vi farò eccitare in maniera perversa su quelle che sono le perversioni degli altri”. L’ordine dei giornalisti, con un sussulto di dignità, lo ha radiato dall’albo. In realtà manca una cultura precisa di quella che è la tutela di queste fasce di età: non è un caso che questa categoria abbia ritenuto di darsi una carta a tutela dell’infanzia e dell’età più deboli, con la Carta di Treviso. Aver sentito quest’esigenza non vuol dire aver risolto tutti i problemi. Quando la Carta è stata rivista in un congresso di giornalisti in premessa è stato detto “in considerazione delle ripetute violazioni…” cioè si è fatto un bilancio e si è accertato che la tutela di queste fasce d’età più deboli in realtà era rimasta soltanto nelle intenzioni. Nella categoria manca una conoscenza precisa di quelli che sono gli ambiti di applicazione: qualche volta capita di sentirmi chiedere da qualche collega se in occasione di un incidente stradale in cui è coinvolto un bambino se ne possa fare il nome, e questo è un caso nel quale il problema della privacy e della tutela non c’entra, ma i dati che vengono forniti, i canoni che vengono elaborati sono così vaghi e generici, ma soprattutto manca proprio l’entroterra culturale per ritenere quali sono le cifre di comportamento e di esposizione. Questo è un peccato originale che la nostra categoria si porta dietro fin dalla nascita, non essendo previsto un percorso culturale che ne attivi la sensibilità e che aiuti quindi a discernere, essendo una professione aperta praticamente a tutti, qualunque sia il livello di preparazione e di sensibilità. Io però vorrei chiedervi se non ritenete che questa discussione sulla tutela non finisca per ghettizzare ulteriormente i temi sui quali si vuole intervenire. Io curo una rubrica “Il grande prato” che guarda gli strati sociali e i portatori di handicap ed è servita perché molte delle barriere architettoniche nelle diverse città della Puglia sono sparite e mi illudo che sia dovuto alla consapevolezza che in questi ultimi tempi si è determinata in un più largo pubblico attraverso la TV. Però ora comincio a chiedermi se continuare a trattare di questi temi in una rubrica non sia confermare e ribadirne la ghettizzazione. E mi chiedo se tenere questi temi in una sorta di clandestinità nel dialogo con la pubblica opinione non sia una maniera per tenere certi temi nascosti in modo che non debbano

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luigi vaccari il padre ritrova-

Sono soltanto un giornalista, che si è considerato sempre un cronista: cronista quando ho lavorato in Cronaca, cronista quando ho diretto le pagine degli Spettacoli, cronista quando ho diretto le pagine culturali, cronista quando ho fatto l’inviato speciale e il critico televisivo. Le mansioni, le qualifiche, i ruoli non hanno mai modificato il mio modo di intendere e di fare il mestiere. Un cronista, aggiungo, esperto in niente: anche se non posso negare una qualche dimestichezza col Cinema, con la Letteratura, col Teatro, con la Televisione. Ed è con la curiosità e lo spirito del cronista che ho intervistate i 26 personaggi che compaiono in Io e mio padre. Anche in questo caso, come nel libro precedente, Di nevrosi si vive, la molla è stata autobiografica. I libri hanno sempre una origine rintracciabile nella vita dell’autore. Questa volta la nascita è legata a un forte Quaderno di COMUNICazione

senso di colpa. Un giorno, da ragazzo, ho voluto giudicare mio padre: un errore imperdonabile sentenziare sul proprio padre, ignorando la realtà delle cose e obbedendo a uno stato d’animo. Un atto arrogante. Ingiusto. E quando se ne prende coscienza è troppo tardi per porvi rimedio. Credo che la figura del padre, decisiva nella vita di ognuno, sia spesso una scoperta insopportabilmente tardiva. Io debbo, al mio, alcuni insegnamenti: insegnamenti di fatti, non di parole, che mi accompagnano tuttora. Per esempio, che non si può stare, contemporaneamente, da una parte e dall’altra dello stesso tavolo. Mi spiego: un critico letterario non può curare una collana per una Casa editrice e recensire le opere che fa pubblicare; un critico televisivo non può promuove un suo libro in un programma tv… Mi ha insegnato, come ho scritto nella dedica a Di nevrosi si vive, che esistono delle differenze. E queste differenze non vanno dimenticate. Ho cercato di averle sempre presenti. Non ci sono giovanissimi né giovani, in questa raccolta di interviste. E può darsi che, fra i tanti, sia un altro limite del libro. L’avvocato Gianni Agnelli dice che, a una certa età, scatta una solidarietà generazionale. Una ricerca, consapevole o meno, di complicità. L’aspetto generazionale mi era necessario per parlare di questo complicato rapporto negli anni in cui l’avevo vissuto e quindi, in qualche modo, storicizzarlo, per lenire i forti rimorsi: arrivare, cioè, alla conclusione che sono in buona compagnia e i peccati meno gravi di quello che penso. Non sono solo, ma non so quanto mi sia di conforto. Non mancano personaggi più vecchi di me: da Enzo Biagi a Indro Montanelli, da Fernanda Pivano al cardinale Ersilio Tonini… La vecchiaia mi ha sempre misteriosamente affascinato, fin da quando ero ragazzo. Negli Anni Settanta, credo di essere stato il primo in Italia a fare, per la Terza Pagina de “Il Messaggero”, una serie di interviste ai grandi vecchi italiani: da Cesare Frugoni a Costante Girardengo, dal cardinale Giacomo Lercaro a Umberto Terracini, eccetera. Incontri che mi hanno arricchito: culturalmente e umanamente. Quaderno di COMUNICazione

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cere?” Io ritengo estremamente diseducativo e pericoloso questo modo di condurre, perché una vicenda così terribile meriterebbe proprio il silenzio, e se proprio se ne deve parlare invece di soffermarsi, con studiosi, sulle cause giustificative che hanno determinato questo delitto si banalizza su ciò che può colpire l’opinione pubblica meno attrezzata con domande tipo, appunto: tra quanti anni usciranno?, che creano pericolosità. I centri di cultura che sono in grado di determinare nella società nuovi percorsi e nuove scelte dovrebbero interferire su quello che è il mondo dell’informazione, che è sempre più preda della notizia negativa, dello scoop e della diseducazione complessivamente intesa. Questo mio intervento è anche una richiesta di aiuto a migliorare l’informazione: la moneta buona scaccia la cattiva o viceversa. Io voglio che l’informazione buona scacci la cattiva e in questo potete molto più voi che noi. Basta spegnere i televisori e non acquistare i giornali che fanno cattiva informazione. Non fatevi distorcere dallo scoop e da qualcosa che serve solo a lanciare segnali negativi. Ciò serve solo a farvi crescere male.

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Che padre sono stato (e sono) bisogna chiederlo a mio figlio, Alessio. Posso dire che padre mi illudo, o presumo, o spero di essere stato (e di essere). Trovo terribilmente negativa la figura del padre-padrone: è distorcente e può provocare reazioni inconsulte e violente. Ho lasciato mio figlio libero di fare le sue scelte, e non ne sono pentito, anche se in qualche caso il mio atteggiamento può avergli dato l’impressione che volessi evitare di assumermi delle responsabilità. Mi piace pensare di essere stato presente quando era necessario; e di continuare a esserlo. Pochi mesi dopo essersi laureato in Filosofia con 110 e lode, all’Università di Roma, Alessio ha vinto un dottorato di ricerca a Siena. Laurea e dottorato mi hanno ripagato di tanti malumori avvertiti nell’àmbito familiare, in qualche occasione veri e propri rimproveri, per non averlo persuaso, io giornalista, a fare il giornalista. Naturalmente non sono mancati periodi di forti contrasti e di forti tensioni, come è nella natura del rapporto padre-figlio. Adesso Alessio ha 30 anni, il dialogo è frequente, ciascuno rispetta Quaderno di COMUNICazione

civilmente le opinioni dell’altro. Sono stato troppo liberale anche per farmi perdonare di avergli trasmesso, senza volerlo, alcune delle mie nevrosi: una per tutte, quella del perfezionismo? Può darsi. Il perfezionismo è una ossessione. E comporta un prezzo altissimo. Da mio padre ho sempre preteso che mi dicesse la verità: su tutto. Che non mentisse: anche se poteva procurarmi una sofferenza. A questo culto ho educato mio figlio: con i fatti. Ho sempre scelto i fatti: i soli che abbiano valore. Soltanto quando era bambino, e l’infanzia è la stagione delle bugie spesso innocenti, una volta gli ho detto: «Non dire bugie. La verità, prima o poi, si viene a sapere. Non si sa soltanto quello che non si fa». Oggi, a 66 anni, stagione di forti dubbi, ho qualche dubbio che vada sempre così. Non so se ci sia questa grande voglia di padri, come molti affermano. E cioè una presenza che sia insieme qualitativa e quantitativa. Dirò, forse, delle sciocchezze: per dedicare un tempo maggiore ai figli, un padre deve lavorare meno, e quindi porta meno soldi a casa. Quanti figli sono disposti a rinunciare alla cartella firmata, alla giacca e alle scarpe di marca, al cellulare, al motorino, eccetera eccetera, in cambio di un dialogo più frequente e di una confidenza più vera? Credo un numero insignificante. È un po’ il cane che si morde la coda: se il padre lavora meno, guadagna anche meno, la famiglia deve fare dei sacrifici ed esplodono le nevrosi da rinuncia; se il padre lavora troppo, non sta in casa, quando ci sta è stanco e nervoso e non può essere la guida, il riferimento che dovrebbe essere. Mi dispiace: non riesco a immaginare un futuro nel quale i rapporti saranno migliori. In questa visione mi considero figlio di Montanelli. Oggi domina il Dio Denaro. E al Dio Denaro si immola tutto.

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Non ci sono giovanissimi né giovani. Ma io voglio sperare che queste pagine possano essere di qualche utilità a qualche giovane lettore (se ci sarà) per scansare la stagione feroce dei rimorsi. Una mattina di fine agosto del 1967 stavo andando, con la mia Fiat 500, a un appuntamento di lavoro. Sono passato per piazzale Clodio. Mio padre, ormai cieco, era seduto al bar di un mio amico. Non mi sono fermato: avrei potuto. Il giorno dopo mio padre se ne andava per sempre, a 61 anni. Gli ultimi tempi avevamo avuto dei contrasti, anche agri. Quel giorno di 34 anni fa mi è improvvisamente rovinata addosso una realtà terribile: era troppo tardi per tutto. Per parlare. Per chiarirsi. Per chiedere scusa. Il tempo non ha cancellato il mio senso di colpa. Forse anche per questo, quando mi accorgo di sbagliare, chiedo immediatamente scusa. Mancano personaggi della critica letteraria, della Narrativa, della regia televisiva che avrei voluto incontrare. O erano molto impegnati, o avevano un libro in uscita, o non se la sono sentita. Qualcuno, quando ha visto Io e mio padre stampato, si è rammaricato di essersi sottratto. Qualcuno, che non avevo interpellato, sarebbe stato disponibile.

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PARTE TERZA

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gian maria greco rapporto

Sondaggio sull’orientamento politico degli Studenti dell’Università di Lecce nel corso della Consultazione Elettorale del 13 maggio 2001 A distanza di poco più di due mesi della Consultazione Elettorale del 13 maggio 2001 rendiamo noti i risultati di un’analisi del voto studentesco universitario leccese.

Premessa Il consistente impiego dei media nella recente tornata elettorale, di cui i giovani sono importanti fruitori, rende ancor più interessante l’analisi dei comportamenti delle fasce elettorali giovanili di cui quello universitario ne rappresenta un segmento degno di nota, non fosse altro che per gli strumenti peculiari di cui dispone, che lo rendono particolarmente vigile alle tematiche sociali e quindi tra i soggetti a cui rivolgere grande attenzione. Obiettivi finali del sondaggio sono stati: conoscere le espressioni di voto degli Studenti dell’Università di Lecce, caratterizzare sociologicamente il voto, comprendere le caratteristiche del voto studentesco universitario e dove possibile confrontarlo con le espressioni ufficiali nazionali.

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Metodologia adottata Al fine di ottenere dati fruibili e spendibili, si è proceduto all’ideazione di un apposito questionario e cioè che permettesse di inquadrare sociologicamente e nel contempo di venire a conoscenza delle espressioni di voto. Per la caratterizzazione sociologica del voto sono stati individuati i seguenti items:

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Una volta definito il questionario, si è proceduto all’individuazione del campione d’indagine, stimandolo in ben 1000 studenti ovvero il 3,8 % della popolazione studentesca dell’Università di Lecce. Campione che a sua volta è stato distribuito in base alla percentuale di iscritti ad ogni Facoltà dell’Ateneo, tarata sulla consistenza numerica degli iscritti in ciascuna di esse, seguendo le seguenti proporzioni: – 103 studenti iscritti a Beni Culturali che conta complessivamente n. 2690 iscritti; – 189 a Economia e Scienze Bancarie che conta complessivamente n. 4923 iscritti; – 223 a Giurisprudenza che conta complessivamente n. 5806 iscritti; – 80 a Ingegneria che conta complessivamente n. 2076 iscritti; – 76 a Lettere e Filosofia che conta complessivamente n. 2524 iscritti; – 88 a Lingue e Letterature Straniere che conta complessivamente n. 2284 iscritti; – 86 a Scienze che conta complessivamente n. 2244 iscritti; Quaderno di COMUNICazione

– 134 a Scienze della Formazione che conta complessivamente n. 3506 iscritti. Sulla stessa base, inoltre, sono stati intervistati 20 studenti in Scienze della Comunicazione (che conta 537 iscritti al solo I anno) che hanno funto da gruppo di controllo. Dopo di ciò si è passati alla somministrazione del questionario, adottando un sistema che garantisse il massimo dell’anonimato agli intervistati. A questi, infatti, è stato consegnata –unitamente al questionario– una busta in cui inserirlo una volta compilato. Ogni singola busta è a sua volta inserita dallo studente stesso in una più grande andandosi così a confondere con le altre. In contemporanea alla somministrazione del questionario è stato approntato un database in cui sono stati inseriti successivamente tutti i 1000 questionari. Analisi dei dati L’analisi è stata effettuata in due modi: report automatico del database, studio e interpretazione del report. I dati, calcolati come percentuale per ogni schieramento e partito politico, analizzati tramite database, e quindi oggetto della successiva analisi, sono stati: Generale (ovvero la percentuale complessiva del campione), per età, per genere, per Facoltà, per Provincia, per professione dei genitori, per motivazioni (risposta aperta), per Facoltà ed età, per genere ed età, per Facoltà e professione dei genitori. Onde evitare di perdersi in lunghi elenchi di cifre, rivolgiamo la nostra attenzione ai dati più significativi. Ad una prima analisi di carattere generale, il dato fondamentale è che, rispetto alla totalità del campione, lo schieramento con il maggior numero di consensi risulta essere il Centro-Sinistra con il 33,81% dei votanti a favore, contro il 25,72% del Centro-Destra. Entrando nello specifico, il primo partito risulta essere Democratici di Sinistra con il Quaderno di COMUNICazione

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– Facoltà; – Genere; – Età; – Comune di residenza (e quindi provincia); – Provenienza scolastica; – Professione dei genitori. In merito all’espressione di voto sono state indicate quattro domande, tre a risposta chiusa e una a risposta aperta: – Hai votato alle ultime elezioni politiche? – Vuoi indicare lo schieramento per cui hai votato? – Vuoi indicare anche il partito politico all’interno delle coalizioni? – Perché? (domanda a risposta aperta). Tra le domande, e quindi le relative risposte, quella degna di maggior attenzione risulta essere l’ultima ovvero quella in merito alle motivazioni della scelta elettorale. Si noti come tutte le domande sono impostate in modo da garantire il massimo anonimato.

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19,98% dei consensi, seguito da Forza Italia con il 15,05%, Margherita con il 10,55%, Alleanza Nazionale con il 9,53%; rimanendo sempre all’interno dei due principali schieramenti, il Girasole ottiene il 2,25% dei consensi, PDCI il 1,02%, CCD-CDU 0,93%, Nuovo PSI 0,20%. Tra i partiti non riconducibili direttamente ai due schieramenti Rifondazione Comunista ottiene l’8,20% dei voti, Lista “Bonino” il 2,25%, Fiamma 1,02%, Democrazia Europea 0,92%, Lista “Di Pietro” 0,72%. Confrontando questi dati con i risultati nazionali1 si nota come la coalizione dell’Ulivo abbia ottenuto 10 punti percentuale in meno ma ben 6 punti in più rispetto alla Casa delle Libertà. Si noti come Rifondazione Comunista2 ottenendo l’8,20% dei consensi, superi di 3,20 punti lo sbarramento del 5%, pari ai voti raccolti nel Proporzionale. Va notato, ancora, che il 10,45% si astiene dall’indicare lo schieramento o il partito per cui ha votato e che il 10,04% afferma di non aver votato affatto.

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La coalizione dell’Ulivo è risultata vincente in ben 6 Facoltà su 8: Beni Culturali (Ulivo 43,96% –Casa delle Libertà 9,89%), Ingegneria (Ulivo 36,36% –Casa delle Libertà 31,17%), Lettere e Filosofia (Ulivo 46,48% –Casa delle Libertà 11,27%), Lingue e Letterature Straniere (Ulivo 36% Quaderno di COMUNICazione

Altro dato degno di attenzione è quello riguardante l’espressione di voto in base alla provincia di residenza dei votanti4. Il 36,49% dei votanti residenti in provincia di Lecce ha espresso la propria preferenza a favore del Centro-Sinistra, di contro al 28,11% per il Centro-Destra. Il 37,17% del campione residente in provincia di Brindisi ha votato per il Centro-Sinistra, il 24,78% per il Centro-Destra. Il 42,22% del campione residente in provincia di Taranto ha votato per il Centro-Sinistra, il 20% per il Centro-Destra. Questi dati possono dare frutto a numerose riflessioni, soprattutto se correlati a quelli ufficiali relativi alla provincia di Lecce. Altro dato, infine, a cui dedicare ampio margine di riflessione è quello relativo alle motivazioni di voto. Si è proceduto ad un’analisi di esse fornite tramite risposta aperta per ciascun partito, ivi compresi i casi in cui lo studente ha dichiarato di non aver votato5. Per quanto riguarda i partiti del Centro-Sinistra, 3 sono le motivazioni principali addotte a giustificazione del voto: – Condivisione delle idee di partito – DS 36,41% – Girasole 22,73% – Margherita 32,04% – PDCI 80% – Avversione a Berlusconi – DS 15,38% Quaderno di COMUNICazione

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Continuando ad attenerci ai due principali schieramenti e ai rispettivi partiti, in rapporto al genere dei votanti, si nota che il 36,7% dell’elettorato femminile ha votato per il Centro-Sinistra (Democratici di Sinistra 22,5% –Margherita 11,2%– Girasole 1,9% - PDCI 1,1%) e il 28,6% –quasi 10 punti in meno– per il Centro-Destra (Forza Italia 18,4% –Alleanza Nazionale 9,5%– CCD-CDU 0,6%)3. Dati simili ritroviamo anche nell’analisi dell’elettorato maschile, che ha espresso il 35,9% dei consensi a favore del Centro-Sinistra (Democratici di Sinistra 20,4%, Margherita 11,4%, Girasole 3,0%, PDCI 1,1%) contro il 26,5% a favore del Centro-Destra (Forza Italia 13,7%, Alleanza Nazionale 11,0%, CCDCDU 1,4%, Nuovo PSI 0,5%).

–Casa delle Libertà 33,33%), Scienze (Ulivo 34,52% –Casa delle Libertà 19,05%), Scienze della formazione (Ulivo 34,48% –Casa delle Libertà 28,45%). Come si nota il distacco è marcato nelle Facoltà umanistiche e nella media è comunque superiore ai 10 punti percentuale. La coalizione di Centro-Destra risulta vincente nelle restanti 2 Facoltà: Economia (Ulivo 32,22% –Casa delle Libertà 35%), Giurisprudenza (Ulivo 32,99% –Casa delle Libertà 34,52%). Si noti come, in questi casi, il distacco è inferiore ai 2 punti percentuale.

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– Girasole 9,09% – Margherita 15,53% – Schieramento considerato come “male minore” – DS 7,18% – Girasole 9,09% – Margherita 10,68% Va notato come, in merito al Girasole, la motivazione predominante è: – Interesse alle tematiche ambientali 36,36% Nel caso dei partiti della coalizione della Casa delle Libertà, 4 sono le motivazioni principali: – Condivisione delle idee di partito – FI 23,13% – AN 43,01% – CCD-CDU 44,44% –Nuovo PSI 100% – Fiducia nel cambiamento – FI 21,09% – AN 13,98% – Avversione alla Sinistra – FI 3,4% – AN 7,53% – Preferenza al singolo politico più che al partito – FI 4,08% – AN 5,38% – CCD-CDU 33,33%

– Preferisce non rispondere – AN 20,43% – CCD-CDU 11,11% – DS 29,74% – FI 30,61% – Girasole 13,64% – Margherita 26,21% – PDCI 20% Volutamente si è cercato di non entrare in giudizi valutativi o di merito. Questi dati, pur nella esigua consistenza del campione (scelta obbligata dal momento che la raccolta dati ha coinciso con i mesi di preparazione agli esami e quindi con una scarsa presenza di studenti nei luoghi dell’Ateneo) forniscono nei loro scorpori per Facoltà, genere, età, provincia e motivazioni, materiali interessanti di valutazione per un’utile analisi sui comportamenti giovanili tra fasce altamente scolarizzate che raccomandiamo ai laboratori politici territoriali.

Note

Facciamo riferimento ai soli dati riguardanti la Camera dei Deputati. Per Rifondazione Comunista si fa riferimento al solo sistema proporzionale. 3 Tra il campione femminile non ci sono stati voti a favore del partito Nuovo PSI. 4 Ci limiteremo a prendere in analisi le sole Province di Lecce, Brindisi e Taranto, prevalente bacino d’interesse dell’Ateneo salentino. 5 Trattandosi di una risposta aperta si è proceduto ad una riduzione sintetica delle varie motivazioni. 1 2

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Si presti attenzione, inoltre, al fatto che, per tutti i partiti, è stata molto diffusa la preferenza a non motivare la propria scelta: Quaderno di COMUNICazione

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Va notato come, in merito a Forza Italia, una motivazione molto forte è risultata: – L’“Ammirazione per Berlusconi” col 12,93% del campione.

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ULRICH BECK, I rischi della libertà, Bologna, Il Mulino, 2000, pp.195, L. 22000 (t 11,36)

Ne La civiltà del Rinascimento in Italia Burckhardt: scriveva: “Nel Medioevo i due lati della coscienza –quello che riflette in sé il mondo esterno e quello che rende l’immagine interna dell’uomo, se ne stavano come avvolti in un velo comune, come in sogno o dormiveglia… l’uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di una razza o di un’altra qualsiasi collettività. È un passaggio messo in evidenza da Ulrich Beck nel suo ultimo saggio I rischi della libertà, ediz. Il Mulino – 2000. Beck è attento osservatore di ciò che accade nella cosiddetta seconda modedrnità. La sua produzione ha ruotato intorno alle tesi sviluppate in La Società del rischio (tr.it. Carocci, 1986), la cui uscita in Germania fu accolta come una vera e propria provocazione (scriveva di “modernizzazione riflessiva”, di apocalisse ecologica e di centralità del rischio nella vita delle persone) Con il volume successivo Che cos’ è la Globalizzazione, (tr.it.Carocci, 1999), affrontava i temi della trasformazione dell’economia mondiale, sempre più interdipendente. Tutti temi che tornano nel collettaneo Una modernizzazione riflessiva: una discussione delle sue tesi con A. Giddens e S. Lasch (Asterios,1999). Di altro tenore sono Europa Felix, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, sguardo impietoso sull’Europa della disoccupazione di massa. In quest’ultimo contributo, I rischi della libertà, Beck affronta il tema dell’individuo nella cosiddetta “seconda modernità”. Il concetto di globalizzazione che in questi anni ha assunto un rilievo crescente e coinvolgente insieme, viene analizzato col rimando ad altre epoche storiche. I caratteri del Rinascimento tratteggiati da Burckhardt gli suggeriscono alcuni tratti della stessa post-modernità: la perdita della dimensione pubblica e il rifugio privato nell’indifferenza, la nascita delle signorie e dei capitani Quaderno di COMUNICazione

di ventura, lo sviluppo dei banchi (leggi le grandi holding finanziarie di oggi) e –nel privato– il prevalere delle bio e autobiografie. L’ “inverecondia” del tempo nuovo ha insomma i suoi antecedenti nell’epoca della “rinascita”, che ebbe culla in Italia (p.15). Modernità significa “un mondo di sicurezze che tramonta e, al suo posto –quando va bene– subentra la cultura democratica di un individualismo universale giuridicamente sancito” (p.41). Beck si confronta con gli effetti di una deterritorializzato del pianeta che produce effetti disgregativi sulle comunità e le persone. Il concetto di globalizzazione che in questi anni ha assunto una importanza sempre maggiore, coinvolge, attraverso i processi di despazializzazione e rispazializzazione, tutti i livelli territoriali, dal locale al globale. E gli effetti sono quelli già posti in evidenza da Bauman in termini angoscianti di perdita e spaesamento che agisce negativamente sulle persone. Beck si confronta con la individualizzazione della disgregazione sociale e la fine del tradizionalismo nelle società industriali, la perdita dell’appartenenza di classe e la dissoluzione dei modelli tradizionali della famiglia. È possibile plasmare un volto umano all’età del globale, poterla sentire come una grande opportunità? Su questa e altre domande si è prevalentemente concentrata da tempo la scuola sociologica anglosassone, di cui Beck è esponente di spicco. Egli tuttavia si allontana dai toni pessimistici di Bauman, ossia di una visione del globale come eccedenza di una sfera economica alienante, nei cui tentacoli sono finite la razionalità e la creatività umane, e considera lo spazio socialmente vuoto in cui i soggetti moderni si trovano ad agire. Spazio da riempire con una nuova capacità di sentire la libertà di cui disponiamo dopo il tramonto delle grandi narrazioni ideologiche. Egli spiega come nel progressivo recupero dell’individualità e del suo peso sociale non si vuol cadere nell’equivoco di una identificazione della individualizzazione con l’egoismo, o l’indifferenza, o altri atteggiamenti impolitici. Un saggio, dunque che integra gli altri, individuando le nuove energie sociali e politiche che possono promuovere lo sviluppo razionale della condizione umana, favorendo la nascita di una seconda modernità conceQuaderno di COMUNICazione

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ornella quarta libertà a rischio

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fabio ingrosso vivere in un modo connesso

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A. CALABRÒ (a cura), Frontiere, pref. di U. Eco, Milano, Il Sole 24 ore, 2001, pp. 131. L. 34.000 (t 17,56) Frontiera: gli antichi romani l’hanno considerata un confine, una linea di demarcazione, invalicabile; su questo concetto hanno basato la loro mentalità. Gli uomini del Duemila, gli uomini cittadini globali sono catapultati in una nuova dimensione: la frontiera non esiste come fine di qualcosa e inizio di un’altra, la frontiera è un “luogo meticcio”, “il topos della pluriculturalità”, “il nostro futuribile”. SeQuaderno di COMUNICazione

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J. RIFKIN, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new-economy, Milano, Mondadori, 2000, pp. 405, £ 16.000 (t 8,26) “Cosa significa vivere in un mondo connesso, in cui le transazioni di mercato sono sostituite da complesse reti commerciali, in cui disporre di beni di proprietà è meno importante che avere l’accesso? In cui gran parte della vita economica e sociale si svolge nel cyberspazio e la cultura si trasforma in archetipo della merce?”. Queste ed altre domande pone Jeremy Rifkin, autore di altri saggi apprezzati: La fine del lavoro (1995), il secolo biotech (1998) e l’Ecocidio (2001), in cui ha analizzato i vari rapporti che intercorrono tra sviluppo economico, tecnologico, culturale e ambientale. Da un primo esame a livello economico emergono tutte le spinte e controspinte a cui siamo sottoposti nella cosiddetta età di transizione in cui viviamo: da una relazione produttore-compratore propria del mondo capitalistico si passa oggi a relazioni fornitore-utente proprie del mondo post-capitalistico, e così da prodotto materiale a prodotto immateriale o “smaterializzato”, dal concetto di proprietà ai concetti di leasing, outsorcing e quindi accesso. Ma anche a livello culturale assistiamo, secondo Rifkin, a una transizione: da una coscienza autonoma, quella borghese strutturata intorno ai rapporti di proprietà, ad una coscienza relazionale e proteiforme della società postindustriale strutturata attorno alle reti. Sembrerebbe un normale passaggio da un tipo di società ad un’altra, come tanti ce ne sono stati in passato, se

non fosse che le transizioni di questo tipo sono passaggi totali dal punto di vista non solo economico e culturale, ma anche sociale, politico, etc. Cambiano i rapporti di potere, che se prima era nelle mani di chi possedeva più capitale materiale, in futuro sarà di chi avrà il controllo delle menti e delle esperienze, dei maggiori provider internazionali che controllano l’accesso alle esperienze, che diventano perciò a pagamento. Cambiano le relazioni interpersonali che si spostano da uno spazio geografico legato al territorio ad uno spazio virtuale; cambia la concezione di concetti quali lo stato, la libertà, il lavoro, in altre parole il senso della vita. Tutto ciò potrebbe portare a un imbarbarimento della società, con la sfera economica che conquista e fagocita la stessa sfera culturale, dalla quale essa stessa dipende, e si potrebbe assistere ad un lento declino della civiltà. Rifkin propone perciò una “restaurazione della cultura”, ristabilendo il suo ruolo critico nella cultura sociale. E per questo –afferma– bisogna politicizzarla, opponendo “il valore intrinseco” che possiede al “valore-utilità” dell’economia. Al di là dei programmi una cosa risulta chiara dalle pagine di Rifkin: il mondo sta cambiando e l’uomo e le sue strutture organizzative si trovano in una situazione rischiosa, dalla quale si può cogliere la sua negatività, con il controllo delle nostre vite da parte dei nuovi poteri, oppure la sua positività, con una maggiore diffusione della democrazia nel mondo. Un ottimo spunto di riflessione questo libro, non c’è che dire.

roberta maci dimensioni nuove per una realtà globale

pita come superamento e compimento del progetto moderno. Sottolinea a tale proposito la necessità di un incremento di una cooperazione internazionale, dell’affermazione di una concezione “inclusiva” della sovranità degli Stati e del ricorso a meccanismi di partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese, contro la “idolatria del mercato e un neo-liberismo sempre più aggressivo (che) generano atomizzazione” (p.159). I rischi della libertà personale restano altissimi. Analizzandoli e cercandone i rimedi Beck si conferma come esponente di spicco della tradizione democratico-liberale.

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so della Mitteleuropea, grazie ai collegamenti con le antiche capitali, e al contempo nascono gli sforzi dell’Est per salvaguardare le testimonianze della sua storia, contro i tentativi di cancellarne ogni traccia da parte dei berlinesi dell’Ovest. Infine Londra, conservatrice e insieme innovatrice nelle tendenze economiche, luogo poliglotto, per la molteplicità di lingue che abitano i suoi villaggi, ognuno dei quali integro nella propria identità. Questa, l’essenza della globalizzazione: conoscere ed entrare come non mai in contatto con l’altrui, pur conservandone anzi coltivando il proprio. Così la frontiera è il posto, il “non-luogo”, in cui questi scambi e questi incontri si realizzano, le mescolanze si concretizzano, e il viaggio è la “possibilità di percorrere vie inusuali per dare nuove spiegazioni delle emozioni e del mondo”.

antonella epifanio dalla routine alla flessibilità

R. SENNETT, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 159, L. 12.000 (t 6,20) Agli inizi del secolo scorso migliaia di operai lavoravano più di dodici ore al giorno alla catena di montaggio: messi uno accanto all’altro di fronte ad un enorme marchingegno, uomini e donne passavano più di tre quarti della loro vita a compiere semplici e veloci movimenti meccanici: era l’epoca del Capitalismo Industriale e questo era ciò che oggi si definisce lavoro di “routine”. Nel 1776 Adam Smith pubblicava “La ricchezza delle nazioni”: l’apostolo del nuovo capitalismo, difensore del libero commercio e sostenitore della produttività della divisione del lavoro, denunciava con toni cupi i pericoli dell’organizzazione routinaria del lavoro sulla qualità della vita degli operai nella sua fabbrica di spilli. La routine uccide lo spirito, la creatività, le doti intellettuali dell’uomo. Bloccato a trascorrere giornate noiose e svolgendo per ore la medesima operazione, l’uomo assiste lentamente alla sua morte intellettuale. Marx parlava di “alienazione” e si riferiva più precisamente al processo di estraniazione Quaderno di COMUNICazione

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para ma mette in relazione; distingue ma ordina e organizza. È un luogo ambiguo, sede di conflitti e commistioni. Mette tutto in dubbio e fa sentire il bisogno di nuove definizioni e certezze, di nuovi nomi per le cose, la società, i comportamenti. Un tempo sarebbero state le ideologie, forti dei loro schemi, a fornire di un indirizzo ogni cosa: tutto perfettamente incasellato e definito, ogni oggetto al suo posto. Ora non nulla di tutto questo. È l’uomo a sentirsi chiamato; a lui solo e alla sua intelligenza è affidato il compito di ricercare nuove soluzioni. Ricerca e viaggio si presentano così come i mezzi più efficienti per la scoperta di nuove dimensioni e definizioni per una realtà nuova. Frontiere si presenta appunto come un viaggio attraverso dei luoghi particolari, “città come metafore”. Leggendo Frontiere si viaggia, si percorrono tappe significative nella creazione di nuovi e insoliti significati. Si entra nell’India, dove antichità e hi-tech convivono, dove l’arretratezza di Patna e l’apertura di Calcutta si affiancano e contrappongono, sullo sfondo di strade percorse da cristiani, ebrei, persi, musulmani, buddisti, giainisti, seguaci della religione sikh. Si passa per San Francisco e si scopre una giovane città sede delle più significative innovazioni economiche, culturali, sociali e tecnologiche, con la sua Silicon Valley, mix di talenti arrivati da tutto il mondo, e con numerose etnie che abitano quartieri diversi ma senza confini. In questa città la frontiera è una “linea di discontinuità e vitalità, capace di spostarsi in avanti e verso altre dimensioni”. Tanto sono sconfinati i quartieri di San Francisco quanto rigidi quelli interni a Gerusalemme, sede di travagli tra religioni e civiltà; la “città delle tre pietre” : muro del pianto per il credo degli Ebrei, la pietra rotolata via dal sepolcro, adorata dai cristiani e la “cupola della Roccia” dell’Islam sono segni di separatezza che potrebbero essere “simboli di comunione”. Da Gerusalemme a Sarajevo, somma instabile di etnie, civiltà, lingue e religioni, terra ancora alla ricerca di una soluzione per le questioni nazionali, per opporsi alle frontiere ritenute ingiuste ma ormai tracciate; e poi a Berlino, “l’ultimo avamposto dell’Ovest” : città senza cultura, società, religione; a Berlino, dopo la riunificazione, ritorna il sen-

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esperienze personali all’interno di un percorso lineare e coerente di sviluppo della personalità, è una competenza richiesta soprattutto all’uomo moderno, costantemente esposto a repentine trasformazioni che, se non integrate in una narrazione di coerenza interiore, rischiano di minacciare l’identità. Ma come può l’uomo flessibile realizzare questa relazione di coerenza se l’etica lavorativa, quella dal motto “basta col lungo termine”, contrasta con la morale, sostituendo l’amicizia, la lealtà, la fiducia e la perseveranza con il distacco, la superficialità, la competizione e l’individualismo? Scrive Sennett: “le comunità flessibili di lavoro […] indeboliscono il carattere, il carattere così come l’ha descritto per la prima volta Orazio, come relazione con il mondo, come modo per “essere necessari agli altri” […]. Manca l’Altro e così ci ritroviamo senza legami”. Questa mancanza di condivisione, di rapporti profondi con gli altri conduce allo smarrimento della personalità. Dall’uomo motivato interiormente di Weber, un uomo teso a dimostrare il proprio valore morale attraverso il lavoro, si passa all’uomo ironico; una visione ironica di se stessi è la logica conseguenza della vita nel tempo della flessibilità: l’ironia infatti è lo stato mentale di chi è incapace di prendersi sul serio e di autodescriversi, perché cosciente della contingenza, della versatilità e della precarietà della propria personalità. Il lavoro flessibile pone infatti l’io in una condizione di continua trasformazione, di continuo adattamento a sempre nuove esperienze esterne. La narrazione, la continuità temporale assumono allora un altro significato: costituiscono la capacità di assemblare fatti accidentali, scoperte e improvvisazione facendo della propria identità un collage discontinuo e multiforme.

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da se stessi, alla mancata evoluzione di una storia personale di cui è protagonista l’uomo lavoratore della Rivoluzione Industriale. Oggi, un secolo dopo, il nuovo mercato del lavoro definisce una nuova figura di lavoratore al quale è richiesto un comportamento versatile, una buona capacità di adattamento, uno spirito intraprendente e coraggioso, disponibilità al cambiamento e spirito di collaborazione. È l’uomo “flessibile”, il protagonista del nuovo Capitalismo Post-Industriale, tanto bravo a destreggiarsi tra le nuove esigenze dell’era globale quanto incapace di cogliere il senso profondo della sua vita lavorativa e della sua esperienza interiore. La società moderna è insorta contro la routine e contro i suoi mali, è riuscita a creare una nuova vita lavorativa ma non è riuscita ad eliminare il continuo senso di ansia e di malessere che l’uomo moderno percepisce alla pari dell’operaio della fabbrica di spilli. Nel saggio “L’uomo flessibile” Richard Sennett, brillante sociologo contemporaneo, analizza e definisce con lucidità le conseguenze del nuovo capitalismo, il Capitalismo Flessibile appunto, sul carattere, sulla personalità ma anche sulle abitudini e sugli stili di vita dell’uomo. Attraverso racconti di esperienze reali, Sennett dimostra innanzitutto come sia cambiata negli ultimi vent’anni la nozione stessa di lavoro; il termine “carriera” designa un percorso lineare, una strada fatta di tappe verso la quale l’individuo deve incanalare tutti gli sforzi e i sacrifici di una vita lavorativa, all’inseguimento della realizzazione professionale. L’attuale capitalismo flessibile, spostando continuamente i lavoratori da un posto all’altro, da una mansione all’altra impedisce la visione di una prospettiva lineare a lungo termine, proiettando di fronte ai lavoratori un mosaico fatto di tanti tasselli dalla forma e dalla composizione diversa, i quali devono essere sapientemente assemblati insieme per concretizzarsi in un tutto unificato. A questo nuovo stile lavorativo Sennett imputa i mali degli uomini contemporanei: un lavoro che non garantisce una narrazione lineare di sé, una stabilità nei ruoli e nelle responsabilità di ciascuno è il principale responsabile della confusione e dell’incertezza create dalla flessibilità. La continuità temporale, intesa come capacità di inquadrare le proprie

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miriam mariano “domani” e “domenica” due film sull’abbandono

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Paura velata, suggerita, sottilmente sussurrata o dirompente, straripante, lacerante…ma pur sempre paura. Non importa quanto un messaggio possa trasparire da una pellicola, o quanto lo stesso sia urlato a gran voce, tanto da oltrepassare lo schermo, in entrambi i casi “la morale” abbatte le barriere bidimensionali della parete cinematografica… e inizia a parlare. Anno-rivelazione, anno-rinascita o più semplicemente un anno fortunato per il cinema italiano che, con una serie di lungometraggi “doc”, ha conseguito non pochi successi e riconoscimenti tra la produzione filmica nostrana ed internazionale, facendo leva soprattutto su sentimenti comuni che abbracciano la sfera emotiva giovane-adolescenziale. È il caso di due registe italiane, Wilma Labate e Francesca Archibugi, che con due pellicole-verità affrontano forti tematiche esistenziali con l’incisiva delicatezza di un linguaggio semplice e vero. L’autenticità di luoghi, fatti, persone e dialoghi vivono in modo diverso ma con la stessa intensità in “Domenica” e “Domani”, creando un sottile spazio interpretativo che permette allo spettatore di non essere catturato totalmente –in itinere– dallo svolgersi delle situazioni ma di elaborare parallelamente una continua critica e –soprattutto– autocritica nelle diverse fasi di drammi interiori che investono la quotidianità. È interessante fermarsi ad analizzare le coordinate spazio-temporali delle due pellicole che vedono intrecciarsi storie diversissime in tempi e luoghi non solo “semplice palcoscenico” ma veri e propri protagonisti delle storie narrate. Napoli è il terzo personaggio di “Domenica”. È nelle sue vie strette e dimenticate, nei sobborghi cupi di solitudine, nei poveri quartieri abbandonati che le vite di due sconosciuti s’incontrano per restare unite a lungo. Una Napoli “povera, segreta, innocente e maledetta che nonostante tutto non perde mai la sua voglia di vivere, la voglia di sognare” accompaQuaderno di COMUNICazione

gna nel viaggio-pellegrinaggio due solitudini a confronto, un padre perduto e una famiglia mancata chiusi in opposte generazioni legate dal destino. È girato a Sellano, uno dei piccoli centri della Valnerina devastati dal sisma del ’97, il racconto di Domani. È il cuore dell’Umbria a tremare per parecchi minuti, ore, giorni…trascinando per lunghi interminabili mesi le profonde crepe di un terremoto difficile da dimenticare. Una storia lunga una giornata, che inizia all’alba e termina al tramonto portando con sé tutto ciò che in 24 ore può accadere e una vicenda fin troppo lunga, narrata minuto per minuto, vissuta nel dettaglio, sofferta in ogni istante. Liberamente tratto dal romanzo “Ronda del Guinardo” di Juan Warsè “Domenica” trionfa al festival di Berlino nella sezione “Panorama”, facendo eco con la sua storia al noto film di Amelio “Il ladro di bambini”. È il racconto di una ragazzina, Domenica –appunto– orfana di genitori, che vive la sua adolescenza in un convento, lavorando e portando avanti, nel suo piccolo, una vita che l’ha vista crescere e diventare adulta troppo in fretta. Appare in scena, al suo ultimo giorno di lavoro, il poliziotto Sciarra –egregiamente interpretato da Claudio Amendola, malato terminale incaricato di far riconoscere alla piccola Domenica la salma del suo presunto violentatore. Intrighi burocratici di sottofondo e note dolenti di una giustizia che mette a tacere la verità accompagnano i due in una condizione di abbandono reciproco, in cui l’uno si apre all’altra in una sorta di complicità da sempre esistita e solo ora manifestata. Il mondo della febbricitante adolescente velato di un sottile margine di nuda sofferenza investe la matura reltà del poliziotto stanco di vivere, di sognare, di sperare. Incontri fortuiti, piccoli amici “scugnizzi” e una genuina spontaneità che tocca persino il lirismo nelle giovani aspettative della ragazzina sciolgono e abbattono la dura corazza del trentenne che si apre ad un “affetto delicato, innocente, tenero” (Paola Daniela Orlandi) che lo tasforma in un “distillato di disillusione e amarezza” (Gaetano Gentile) dal cuore d’oro. Una promessa non mantenuta, il sogno di essere accompagnata all’altare da un padre-trovato-per-caso, il desiderio di cambiare la trama di una triste esistenza si allontanano all’orizzonte come la nave che il poliziotto prende per andare incontro al suo destino, mentre in un giorno la vita di due persone è stata completamente cambiata. Sguardo Quaderno di COMUNICazione

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“La morale è ciò che resta della paura quando la si è dimenticata” (Jean Rostand)

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Gli Autori Alberto Abruzzese è Preside della Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma e Professore ordinario in ‘Sociologia delle comunicazioni di massa’. Tra le sue ultime pubblicazioni: Lo splendore della TV (1995); Analfabeti di tutto il mondo uniamoci (1996); La bellezza per me e per te (1998); L’industria culturale (2000); A chi serve la new economy (2000); L’intelligenza del mondo (2001); L’identità mediale degli italiani (2001). Aldo Bonomi, dirige l’istituto di ricerca sociale AASTER (associazione agenti sviluppo del territorio) con sede a Milano. È consulente presso il CNEL; ha realizzato il progetto “La società di mezzo” e dirige la rivista “Iter”. Tra i suoi scritti più recenti Il trionfo della moltitudine, Boringhieri, 1996; Il distretto de l piacere, Boringhieri,2000. In collaborazione Con De Rita, Manifesto per lo sviluppo locale (1998). Luigi Barone, ingegnere, è stato ricercatore all’ENEA presso il Dipartimento di Energetica e presso il Dipartimento dell’Innovazione. Attualmente è direttore del Consorzio CETMA (Centro di progettazione, design e tecnologie dei materiali) e conseguente responsabile tecnico-scientifico per conto del CETMA nei progetti di sviluppo e ricerca del Consorzio. Ennio Capasa è designer, direttore artistico e proprietario di Costume National, una delle più importanti aziende italiane nel settore della moda. È nato a Lecce. Vive e lavora a Milano. Vincenzo Cicchelli è maître de conférences presso la Faculté des Sciences Humaines et Sociales della Sorbonne (Paris V). È inoltre ricercatore presso il Centre de Recherche sur le Liens Sociaux (CERLIS) CNRS-Paris V. È autore, tra l’altro, di: La construction de l’autonomie. Parents et jeunes adultes face aux études, Paris, PUF, 2001 e del volume scritto in collaborazione con Cathérine Pugeault Les théories sociologiques de la famille, La Découverte, 1998. Stefano Cristante insegna Sociologia delle comunicazioni di massa presso l’Università degli Studi di Lecce. Dirige il corso di perfezionamento post-lauream in “Ideazione, organizzazione e gestione degli eventi culturali” e “L’osservatorio sugli eventi della comunicazione politico-culturale” (Ocp) presso l’Università degli Studi “La Sapienza”. Si occupa di comunicazione politica (in particolare opinione pubbliQuaderno di COMUNICazione

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sempre rivolto all’infanzia quello di Francesca Archibugi che fa un tuffo “nel devastante squilibrio della vita”. Ispirato ad un libro di un gruppo di ragazzini di Nocera Umbra realizzato da un’insegnante in seguito alle terribili vicende che hanno visto il centro Italia protagonista del sisma, “Domani” nasce dal desiderio disperato di bambini, di poco al di sopra della decina, di riappropriarsi della felicità. “Ma il terremoto è solo l’antefatto” dice la regista. “Dopo la catastrofe, ciascuno è stato costretto ad affrontare i suoi microterremoti interiori cercando nuovi equilibri”. La telecamera scava in fondo questa volta, molto in fondo, catturando impressioni, stati d’animo, paure, le più recondite emozioni, espressioni che tradiscono quello stato di calma apparente dipinto sui volti di chi ha tremato nel profondo. Due amiche inseparabili vivono insieme questa momento “Vale & Tina”, mettendo in discussione il loro rapporto fatto di piccoli segreti, di equivoci involontari, di parole non dette al momento giusto e con loro entra in crisi la coppia Paolo & Stefania (Marco Baliani e Ornella Muti) alle prese con i doveri di un vicesindaco e le esigenze di una moglie, madre di due figli ribelli. Non sfugge alla cinepresa il gay (Valerio Mastandrea) con la madre malata (Ilaria Occhini), per non parlare della giovane Betty (Patrizia Piccinini), professoressa dalle mille paure che col terremoto troverà –strano a dirsi– l’amore di un affascinante restauratore inglese (James Purefoy) incaricato di salvare un affresco di Beato Agelico. Sei mesi di riprese per portare alla luce quei troppi aspetti della catastrofe nascosti dal frastuono dell’evento. Piccoli universi a confronto anch’essi uniti nell’abbandono… un abbandono silenzioso e impotente verso ciò che la vita inesorabilmente riserba, un “abbandono che non abbandona” nella sua tristezza la speranza di poter ricominciare a vivere in armonia con sé e con il mondo intero. Due viaggi, duque, che in tempi e luoghi diversi ripercorrono le tappe salienti di un pellegrinaggio interiore volto alla ricerca di quelle “zone d’ombra” dell’io, riportate a galla solo dai “colpi bassi” della vita. Voci, suoni , rumori e soprattutto silenzi strazianti dentro e fuori di sé che intonano –a modo loro– un unico inno alla vita dove l’ovvio e lo scontato lasciano il posto a ciò che sempre si è desiderato e mai si è accorto d’avere, con la dolceamara illusione che “Domani sia sempre Domenica”.

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ca) e di sociologia della cultura (in particolare di creatività giovanile). Ha pubblicato tra l’altro: Progettare gli eventi (a cura di, con F. Pettarin), Costa & Nolan, Milano, 1999; Potere e comunicazione. Sociologia dell’opinione pubblica, Liguori, Napoli, 1999; Media e potere. Il lato oscuro della forza ( a cura di, con M. Binotto), Luca Sossella Editore, Roma, 2000. Ferruccio De Salvatore, magistrato dal 1981, è Sostituto Procuratore presso il Tribunale per i Minorenni di Lecce e docente a contratto presso il corso di laurea in Servizi Sociali dell’Università di Lecce. Ha pubblicato tra l’altro: I Minori a rischio-Tecniche dell’investigazione civile (Edinova l’OS 1993); Giovani oltre il muro dalla devianza alla prevenzione (Edinova l’OS 1996); Sono solo bambini. Appunti sulla pedofilia (Piero Manni editore 2001); Pornografia minorile, interventi normativi europei ed attività di contrasto in Pedofilia – una guida alla normativa ed alla consulenza a cura di I. Ormanni ed A. Pacciolla, (ed. Due Sorgenti Editore, Roma 2000). Giovanni Fiorentino è docente di Sociologia dell’arte e della letteratura all’Università di Roma “La Sapienza”. Insegnante, si occupa di formazione e nuove tecnologie presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Ha pubblicato saggi e articoli sulla storia della comunicazione di massa e sul rapporto tra nuovi media e apprendimento. Collabora con “Il Mattino”, ha scritto per “La Repubblica” e “L’Espresso”. Tra le pubblicazioni più recenti: O. W. Holmes, Il mondo fatto immagine (Costa & Nolan, 1995), Il bambino nella rete (Marsilio, 2000). Ha scritto il saggio Dalla fotografia al cinema per la Storia mondiale del cinema (Einaudi, 2001).

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Lorenzo Gorgoni è presidente della Banca 121 (gruppo Monte dei paschi di Siena), della quale è stato anche vicepresidente vicario per circa sette anni. È consigliere di amministrazione della Banca Agricola Mantovana. È stato pure presidente della Banca di Bisceglie e vicepresidente della Sud Factoing di Bari. Vito Luperto è giornalista professionista dal 1990 (ma la collaborazione con “Quotidianodi Le-Br-Ta” risale al 1979) e critico cinematografico iscritto al SNCCI dal Quaderno di COMUNICazione

Piero Manni editore in Lecce. Ha insegnato per molti anni nelle scuole carcerarie. Ha pubblicato racconti su varie riviste ed antologie e, di recente, il volume Salento Salento (Lecce, Manni, 2000) Mario Morcellini è professore ordinario di “Sociologia della comunicazione” nel Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione della facoltà di Sociologia dell’Università la Sapienza di Roma. Coordinatore della Conferenza dei Corsi di Laurea in Scienze della Comunicazione (Presidente Prof. Umberto Eco). Ha svolto e/o svolge attività di consulenza per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, la FNSI, il CNR, la Regione Lazio, la Provincia di Roma, il Comune di Roma e altri enti o istituzioni. Tra le pubblicazioni più recenti: M. Morcellini, G. Roberti (a cura di), Multigiornalismi. La nuova informazione nell’età di Internet, Milano, Guerini, 2001; M. Morcellini (a cura di), Il MediaEvo. Tv e industria culturale nell’Italia del XX secolo, Roma, Carocci, 2000; M. Morcellini, La tv fa bene ai bambini, Roma, Meltemi, 1999; M. Morcellini, M. Sorice (a cura di), Dizionario della comunicazione, Roma, Editori Riuniti, 1999. Pantaleo Pagliula è laureato in Ingegneria nucleare. È stato direttore del CFP ENAIP di Centocelle. Con il ruolo di direttore generale della Società Mista Italo-Russa “Salentini s.r.l.” con sede a Mosca, ha prestato le sue opere per attività come: l’avviamento e la conduzione a Mosca di una fabbrica di abbigliamento casual; marketing, progetto e conduzione di negozi a Mosca, Budapest e Varsavia. Attualmente è Presidente del Consorzio per l’abbigliamento e le Calze di Casarano (COPAC). Federico Pirro premio Saint Vincent di giornalismo per le rubriche sui rapporti con l’area balcanica è redattore capo di Rai 3 edizione regionale Puglia. Ha di recente pubblicato Informare o dire la verità? (Bari, G. Laterza, 2000) Mauro Protti è professore associato di Sociologia dell’educazione e di Storia del pensiero sociologico all’Università degli Studi di Lecce. Tra le sue pubblicazioni: Homo Theoreticus. Saggio su Adorno (Milano 1978),; L’tinerario critico. Tre Studi di J. Habermas (Milano 1984), Alfred Schütz. Fondamenti di una sociologia fenomenologica (Milano 1995). Ha curato la rivista QuotidianaMente (Lecce, 2001), e alcuni saggi sulla Rassegna Italiana di Sociologia, Sociologia, Studi Organizzativi, Aut Aut, Fenomenologia e Società. Ha tradotto Quaderno di COMUNICazione

Gli autori

Gli autori

Carlo Formenti è scrittore di fantascienza e giornalista. Studia gli effetti delle nuove tecnologie e dei nuovi media sulle trasformazioni economiche sociali e culturali. Tra le sue opere più recenti sul tema: La fine del valore d’uso (Milano, 1980); Prometeo e Hermes (Napoli, 19867; Piccole apocalissi (Milano, 1991); Incantati dalla rete (Milano, 2000)

1988. Da molti anni si occupa della selezione dei film del Cineforum-Cinit di Lecce e dell’organizzazione di varie rassegne cinematografiche.

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M. Weber, J. Habermas, R.K. Merton e W. Sombart. Attualmente è interessato allo studio della forme e alle espressioni culturali della quotidianità. Cathérine Pugeault è maître de conférences presso la Faculté des Sciences Humaines et Sociales della Sorbonne, Paris V. Tra le publicazioni più recenti: Les théories sociologiques de la famille, La Découverte, 1998. Fernanda Rizzo è prof. a contratto di Legislazione Minorile nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce. Opera nel territorio come pedagogista. Tra le pubblicazioni più recenti: Ragazzi in prova. (Unicopli, Milano, 1997); Adolescenze al limite. Il processo minorile tra diritto ed educazione (Multimedia Pensa, 1999); Falso anormale. Dalle classi differenziali al correzionale in Archivi d’infanzia a cura di E. Becchi e A. Semeraro, La Nuova Italia, 2001. Angelo Semeraro è ordinario di Pedagogia generale e sociale. Ha voluto ostinatamente il corso di laurea in Scienze della Comunicazione in forma interfacoltà presso l’Università di Lecce, e di esso è attualmente presidente. Ha fondato il centro “Osservatorio sulle infanzie e le adolescenze”, interdipartimentale internazionalizzato. Tra le sue pubblicazioni più recenti: L’infanzia e le sue storie in Terra d’Otranto (Lecce, Conte, 1999, premio R. Laporta, Pescara 2000); con Egle Becchi ha curato il vol. Archivi d’infanzia (La Nuova Italia, 2001) e L’educazione dell’uomo completo (La Nuova Italia, 2001). Ha in corso di pubblicazione: Altre Aurore. Spunti per una pedagogia sociale della comunicazione.

arredo contemporaneo per numerose aziende italiane ed estere e conduce ricerca nell’ambito del design-ecologico. Progetta numerosi spazi commerciali destinati al prodotto-moda. Svolge attività didattica e di formazione, per Università e Istituti privati nell’ambito del design e della comunicazione. Luigi Vaccari è giornalista e curatore di rubriche televisive per il GR3. Ha collaborato con il “Messaggero” dove è stato responsabile dei servizi culturali degli spettacoli, inviato speciale e critico televisivo. Ha collaborato, tra l’altro, con il “Corriere dello Sport”, “Il Giornale di Sicilia”, “L’Informazione”. È autore di due volumi: Di nevrosi si vive (Comunia, 1991) e Io e mio padre (Manni, 2001). Di quest’ultimo volume ha discusso con G. D’Oria nell’incontro sul Glocal degli Innocenti. Edoardo Winspeare, regista, nato a Klagenfurt nel 1965, vive da sempre nel Salento, a Depressa. Ha studiato Letteratura Moderna all’Università di Firenze si è diplomato alla Scuola di Cinema di Monaco presso la quale è stato assistente alla regia, operatore alla macchina, montatore e tecnico del suono nella produzione di diversi cortometraggi. Per anni ha girato il mondo lavorando come fotografo. Tra i suoi film più noti Pizzicata (1996) che ha ricevuto 12 premi, tra cui il “Best of the Fest” al Festival del cinema di Edimburgo e Sangue vivo (2000), affresco sulla realtà dell’estremo sud.

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Francesco Spada è progettista-designer ed esperto di comunicazione. Ha progettato il Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto, di cui è stato Art-Director per nove anni. Ha esposto alla Biennale di Venezia, Triennale di Milano, Salone del Mobile di Milano, Abitare il Tempo a Verona e a rassegne specializzate internazionali a New York, Parigi, Osaka, Los Angeles, Rio de Janeiro, San Paolo. Disegna collezioni di Quaderno di COMUNICazione

Gli autori

Gli autori

Alessandro Simonicca è membro dell’Associazione Italiana Scienze Etnoantropologiche. Si interessa di problemi epistemologici dell’antropologia e segue alcuni settori delle “società complesse”, in particolare l’infanzia, la scuola e il turismo. Ha svolto attività di ricerca sull’infanzia a Siena, nella Costiera Amalfitana e a Pistoia. Attualmente insegna sociologia del turismo presso la facoltà di Economia dell’Università di Siena. Tra le pubblicazioni più recenti: Ragione e forme di vita. Razionalità e relativismo in antropologia, Angeli, Milano, 1990 e Simbolo e teoria nell’antropologia religiosa, Argo, Lecce, 1998, in collaborazione con F. Dei; Antropologia del turismo, NIS, Firenze-Roma, 1997.

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APPENDICE INAUGURAZIONE DELL’INDIRIZZO DI STUDI IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE Proluzione del prof. Angelo Semeraro

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È a tutti noi ben presente la centralità che ha assunto nel nostro tempo il tema della comunicazione. Un mondo di beni immateriali che veicola idee e merci, con capacità di espansione illimitata, come illimitato è oggi il potere di connessione delle reti che portano in tutte le direzione una stessa informazione. Un fatto epocale che ha profondamente modificato i modi di produzione, i sistemi delle relazioni commerciali e gli stessi stili di vita. Quella che fu l’utopia di una lingua, una sofìa, una comunicazione universale e a distanza, nutrite da Locke, da Comenio e altri precursori della nostra modernità, trova oggi gli strumenti tecnologici per potersi realizzare. Di conseguenza la formazione di chi opera e opererà nel settore dell’informazione e delle comunicazioni avrà bisogno non solo del necessario corredo di competenze nelle tecnologie che cambiano, ma –insieme– una più solida cultura dei fondamenti; un più alto governo critico delle conoscenze e una tensione etica insieme, per ciò che si maneggia e si veicola attraverso le reti: il che fissa come primo obiettivo un innalzamento degli standard qualitativi dei contenuti della comunicazione, sia che si tratti di informazione o dei loisir di intrattenimento; e ciò richiama a sua volta l’altro obiettivo, di pari importanza, di una più diffusa educazione deontologica delle professioni, molto avvertito peraltro all’interno delle stesse categorie intellettuali che fanno informazione. E qui sta proprio quel valore aggiunto che una formazione universitaria può assicurare alle forme per lo più spontanee (anche se tumultuose) in cui si è espressa e si esprime tanto la domanda della generazione del videostraeming quanto il mondo delle professioni che a diverso titolo operano nei sistemi di informazione e della comunicazione. Occhio attento, senso critico, capacità di orientamento saranno i vaccini per i figli di Internet come già lo sono stati per quelli di Gutenberg. Gli studi sulla comunicazione, pur non riuscendo ancora a definire confini certi ed essendo ancora lontani dal costituire un coerente statuto epistemologico, hanno rapidamente guadagnato anche nel nostro paese una ricca letteratura, e le bibliografie di settore si sono rapidamente specializzate. Centinaia di allievi di McLuhan sono più consapevoli di ieri delle opportunità, ma anche dei rischi, che i nuovi media e i più sofisticati strumenti tecnologici della comunica-

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Autorità, colleghi, studenti.

zione oggi mettono a disposizione di platee sempre più ampie di consumatori e produttori insieme, anche se nessuno se la sente di dire a cuor leggero se l’area di rischio che la innovazione tecnologica produce sarà inferiore rispetto ai benefici del suo sviluppo. Non sappiamo se essa effettivamente rechi con sé un più alto potenziale di opportunità per l’allargamento della democrazia. Certamente la conoscenza apre e dilata i canali delle relazioni e diventa strumento di produzione di nuove possibilità di incontri e scambi, e quindi di nuova ricchezza, ma occorre anche assumere tutta la necessaria prudenza scientifica innanzi agli ottimismi di chi preconizza un tale sviluppo della società conoscitiva da renderci tutti ipso facto proprietari degli stessi strumenti di produzione. La prudenza critica che è l’abito mentale di chi è avvezzo a collocare i cambiamenti nella trama dell’accaduto storico deve indurci a maggiori cautele. Noi questo sappiamo e questo abbiamo appreso dalla storia: che ogni innovazione e progresso reca con sé nuove contraddizioni. Ogni volta che accendo il mio Pc mi viene ricordato che mi è concesso di scrivere o navigare solo con licenza di... Resto certamente il proprietario delle mie idee e del mio editing, ma non sono io il proprietario del mezzo con cui produco informazione. La differenza è sostanziale e ne sa qualcosa Bill Gates, incorso nelle severe regole antitrust del suo paese e qualcosa dovremmo saperne anche noi, che nel nostro non riusciamo ancora a mettere a punto regole moderne sui conflitti di interesse. La discussione sui poteri dell’intelligenza artificiale connettiva e delle sue inconfinabili derivazioni è comunque tutta aperta e pur dovendo necessariamente smorzare i nostri entusiasmi alla luce delle informazioni che ci vengono da Palo Alto, dove decine di tecnici superspecializzati sono stati espulsi dai processi produttivi e costretti a vivere ai margini delle ubertose valli del Silicio, noi non ci divideremo tra web-ottimisti e superciliosi pessimisti. Il sociologo dei media e l’economista della net-economy sanno bene che se non vogliono sentirsi scivolare sugli avvenimenti della quotidianità dovranno ancorarsi agli archivi della storia. E dal canto nostro, siamo pienamente consapevoli che è nostro dovere non solo trasmettere e tramandare ciò che è consolidato, ma anche saper stare dove avvengono i cambiamenti, con la capacità di mediazione del ruolo scientifico e intellettuale. La civiltà del libro non ha impedito alla metà della popolazione mondiale di rimanere abbrutita nell’analfabeto, ricordava in un Forum estivo svoltosi questa estate a Gallipoli il collega Morcellini. La cultura del libro è stata cultura dell’analisi e nella cultura moderna, soprattutto nelle forme di consumo giovanile, non mancano segnali di insofferenza verso l’analiticità. Alla selettività e alla solitudine del libro altre possibilità si dischiudono e ben vengano quei media in grado di raggiungere quanti non furono e non potrebbero ancora essere raggiunti dal libro che rende liberi, come recita la nostra tradizione umanistica. Non possiamo che essere preoccupati ogniqualvolta si minacciano censure e roghi alle idee che i libri contengono. Viviamo fortunatamente in una democrazia matura, in cui non vi è il libro unico di testo, che ogni regime ha reso obbligatorio nelle proprie

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Regolamento del corso di laurea triennale Interfacoltà in Scienze della Comunicazione (Classe XIV) dell’Università di Lecce

(approvato dal Consiglio di Gestione del Corso Interfacoltà nella seduta dell’11 aprile 2001, con emendamenti apportati agli artt.2, 10 e 18 approvati dal C. G. del 20.07.01) Art.1. Inquadramento e durata degli studi Il corso degli studi di SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE si configura come interfacoltà. Partecipano alla sua gestione le Facoltà che hanno sottoscritto una Convenzione che le impegna nel reperimento di risorse professionali, logistiche e finanziarie per il suo funzionamento. Art.2. Organi collegiali del Corso Interfacoltà La struttura di gestione del corso interfacoltà è regolamentata dall’art.7 del Regolamento didattico di Ateneo. Esso prevede i seguenti Organismi: – un Consiglio di Gestione, costituito dai Presidi delle Facoltà consorziate o da loro delegati (emendamento approvato dal CG del 20.07.01) e dal coordinatore nominato dal Senato accademico. – un Consiglio del Corso, costituito da tutti i professori che vi svolgono attività didattica nonché da una rappresentanza proporzionale degli studenti secondo quanto previsto dallo Statuto e dal Regolamento didattico di Ateneo per i corsi di studio. Nella prima seduta utile il Comitato di gestione nomina il Presidente del Corso di Laurea che dura in carica tre anni ed è rinnovabile per una sola volta Il Presidente del Comitato di gestione presiede il Consiglio del corso. Alla fine del triennio il Presidente soddisfa l’obbligo previsto dall’art.7 del Regolamento didattico di Ateneo, che prevede una relazione finale sull’andamento del corso nel primo ciclo. Art.3. Programmazione didattica annuale Il Comitato di gestione attiva entro il mese di aprile di ciascun anno la programmazione didattica e le procedure di conferimento dei compiti didattici, secondo le Quaderno di COMUNICazione

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scuole. E i libri possono essere scelti e le tesi in essi sostenute possono essere liberamente confrontate e valutate col ricorso ad altre fonti, ad altri libri…. Siamo insomma consapevoli che in quest’epoca di rottura dei paradigmi, in cui le nuove generazioni di macchine comunicanti annunciano forme, linguaggi e stili comunicativi più partecipativi e reattivi, si pongano nuovi e più impegnativi doveri nel compito di formazione (preferirei anzi dire, di educazione, pur non potendo qui fermarmi a spiegare la differenza sostanziale tra le due cose) del produttore e del consumatore insieme; di un consumatore non passivo e passivizzato, ma produttore egli stesso del proprio fabbisogno di informazione, più attento alle domande differenziate, tra cui sempre più s’imporranno quelle giocate sulla qualità e la competenza. Come si è compreso, in questo corso di studi non formeremo nani e ballerine in grado di far danzare il mondo, come si è scritto quest’estate in un confronto vivace tra filosofi e semiologi. Possiamo invece impegnarci a offrire le occasione per irrobustire una più ricca intelligenza connettiva insieme a quelle specificità di base che occorrono per poter stare nel variegato mondo della comunicazione con la necessaria capacità di orientarsi nei processi di relazione e di produzione. Poniamo oggi la prima pietra di un edificio di cui abbiamo chiara l’architettura culturale, ma che deve ora trovare una adeguata cornice istituzionale che gli consenta di venir su rapidamente e solidamente. Verificheremo fin dalle prossime settimane la possibilità di conservarne la ispirazione iniziale di un corso interfacoltà, per il particolare profilo formativo che la classe XIV assegna agli studi sulla comunicazione che esige la rottura di storiche e non più sostenibili rescissioni tra i contenuti di una formazione umanistica e quelli di una formazione tecnologico-scientifica, corredate dalla componente giuridica ed economico-politica. Un corredo e un profilo integrato, che la preparazione professionale di un operatore nel settore delle comunicazioni e dell’informazione oggi richiede. Continueremo a verificare questa ipotesi che conserva una sua giustificazione culturale, sempre che l’interfacoltà non debba comportare sofferenze alla sua agibilità e non lo irretisca in formalismi che vadano poi a tutto scapito della necessaria funzionalità. Siamo ben consapevoli che la formazione di oggi e di domani non si giocherà tutta nelle università e da tempo questo nostro Ateneo, cresciuto molto in fretta negli ultimi due lustri, si è aperto a incontri fruttuosi col mondo delle professioni e della produzione. Il successo anche di questo indirizzo di studi dipenderà molto dalle presenze e le collaborazioni durevoli che saremo in grado di sollecitare e i gruppi imprenditoriali che sapremo coinvolgere. Anche qui però, non partiamo dall’anno zero e il cammino fatto da questo Ateneo rende auspicabile e possibile il successo di questa nuova creatura che oggi teniamo a battesimo.

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disposizioni vigenti e tenendo conto della disponibilità delle Facoltà consorziate. Per particolari funzioni didattiche, inerenti per lo più le attività dei laboratori, si fa riferimento anche al mondo delle professioni. Art. 4. Valore dei crediti didattici (CFU) Il piano di studi per conseguire la Laurea triennale in SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE prevede l’acquisizione da parte dello studente di 180 CFU. Per ciascun credito, la quota da riservare alle attività di insegnamento è pari al 30% delle attività; la quota da riservare allo studio personale è del 70%. I complessivi 180 CFU sono così ripartiti: 40 CFU da conseguire all’interno delle aree di studio indicate tra le Attività formative relative alla formazione di base 10 CFU nelle Discipline semiotiche e linguistiche (L-LIN/01; M-FIL/02; M-FIL/05) 08 CFU nelle Discipline informatiche e della comunicazione (INF/01; INGINF/03; /05) 20 CFU nelle Discipline sociali, mediologiche e della comunicazione politica (M-STO/04; SPS/01/02/07/08)

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24 CFU da conseguire all’interno delle aree di studio indicate tra le Discipline integrative 12 CFU nelle Discipline letterarie, storiche e delle arti (L-ART/03/04/05/08; L-FILLET/10/11; M-FIL/06; M-STO/02/05/07/08; SPS/03/06) 08 CFU nelle Discipline sociali (ICAR/16); IUS/08; M-GGR/02; M-PED/03; MPSI/06; SECS-P/02; SPS/09/10/11) 04 CFU nelle Discipline attinenti alle lingue e letterature (L-FIL-LET/09/14; LLIN/03/05/08/10/11/13/21) Quaderno di COMUNICazione

Art. 5. Piano di studi consigliato Il Consiglio del corso predispone annualmente un piano di studio consigliato, che prevede lo svolgimento dei corsi semestrali, delle attività di laboratorio e di tirocinio secondo un calendario didattico che viene rese noto all’inizio di ogni semestre. Art. 6. Piano di studi personale Lo studente può presentare un piano di studi personale, purché coerente con la distribuzione del numero dei CFU in ciascun ambito disciplinare delle tre aree indicate nella tab.XIV (di base; caratterizzanti; affini o integrative). Art. 7. Numero programmato Per le esigenze funzionali alla qualità del servizio didattico, nonché per la presenza di tirocini esterni ed altre attività formative specifiche della classe, l’accesso al corso triennale è a numero programmato di iscritti, nella misura di 200 unità annue per tutto lo svolgimento del primo ciclo triennale di studi. Il numero programmato è applicato anche per i trasferimenti da altre sedi per anni successivi al primo e per i passaggi interni da altre Facoltà dell’Ateneo. La prova per l’ammissione al Corso interfacoltà consiste in una serie di domande con risposta a scelta multipla, tendenti ad accertare: a) la cultura generale di base in relazione agli obiettivi del corso; b) l’autovalutazione in ordine agli obiettivi formativi; c) la motivazione dello studente. La domanda di immatricolazione, per coloro che abbiano superato la selezione d’ingresso, va presentata improrogabilmente entro 15 giorni dalla pubblicazione delle graduatorie, pena decadenza e scorrimento della graduatoria degli idonei. Art. 8. Tipologie delle attività didattiche La didattica si articola in lezioni frontali d’aula, laboratorio di scrittura di testi in lingua italiana e di composizione in lingua straniera e di altri laboratori, ciascuno dei quali riferito a una o più discipline. Nel terzo anno sono disciplinati tirocini con imprese di comunicazione pubbliche e/o private, regolamentati da apposite conQuaderno di COMUNICazione

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80 CFU da conseguire all’interno delle aree di studio indicate tra le Attività formative caratterizzanti 16 CFU Linguistica italiana e lingue straniere (L-FIL-LET/12; LLIN/04/07/09/12/14) 16 CFU Discipline dei linguaggi e delle tecniche dei media, del design e della grafica (ICAR/17; L-ART/03/06/07; M-DEA/01; M-FIL/04; M-PED/04; SPS/08) 16 CFU Discipline psicosociali: (P-PED/01; M-PSI/01/05; SECS-S/04/05) 08 CFU nelle Discipline giuridiche (IUS/01/10/14) 16 CFU nelle Discipline economico-aziendali (SECS-P/01/06/07/08/10) 08 CFU nelle Discipline storico-politico-filosofiche (IUS/09/20; M-FIL/01/03; MSTO/04; SPS/02/04/12)

Per le altre attività i CFU vengono così ripartiti: 10 CFU per la frequenza di laboratori; 04 CFU per attività di tirocinio esterno con Enti e Imprese di comunicazione convenzionate ovvero attività multimediali in appositi laboratori universitari; 10 CFU per le prove finali, 12 CFU riservate alla scelta dello studente fruibili nelle forme indicate dal Regolamento di Ateneo e nel Regolamento del corso di laurea.

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venzioni. Nella stipula della convenzione l’Ente o l’impresa indicheranno il tutor interno, responsabile dell’attività formativa di ogni singolo studente affidatogli. Il Consiglio a sua volta indicherà il tutor universitario referente per l’Ente o l’azienda. In sostituzione, o a intergrazione dei tirocini, possono essere previste attività di laboratorio organizzati dall’Ateneo. Lo studente è supportato, nell’informazione e nella formazione, da strumenti didattici on line (pagine web, siti Internet, e-mail) e da altre forme che il Consiglio di Corso riterrà idonee. Le forme di verifica in entrata, in progress e in uscita si avvalgono di strumenti di rilevazione presentati anche sotto forma di test, integrati, su richiesta dagli studenti, da un colloquio d’esame di tipo tradizionale per ogni singola disciplina o gruppi modulari di discipline. Il Consiglio del corso provvede a individuare le forme di supporto didattico a sostegno degli studenti che presentano carenze di base in particolari ambiti della formazione. Tali supporti possono consistere in moduli didattici propedeutici ai corsi. Essi sono individuati nella programmazione annuale e si avvalgono delle strutture di orientamento dell’Ateneo (corsi zero, scuola estiva, ecc.). Per lo studente che si trovi in condizioni di lavoro per la durata intera o parziale del corso la commissione paritetica stabilisce per ogni singolo caso le forme di frequenza dei corsi, dei laboratori e dei tirocini, nell’atto della discussione del piano di studi.

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Art. 10. Esami di profitto e di laurea Il Consiglio stabilisce annualmente l’articolazione dei corsi, dei moduli didattici, dei seminari, delle esercitazioni. Stabilisce pure i moduli disciplinari che possono essere raggruppati in unico esame. Il Consiglio del Corso emana un regolamento degli esami, ai sensi dell’art.26 del Regolamento Didattico d’Ateneo. Tale Regolamento fa parte integrante del ReQuaderno di COMUNICazione

Art. 11. Compiti didattici dei docenti I compiti didattici dei docenti sono fissati nel Regolamento didattico di Ateneo, a cui si rimanda per la normativa generale. La durata dei corsi è di norma semestrale, salvo diversa indicazione. Nell’ambito dell’orario previsto dalla legge per le attività didattiche, il titolare d’insegnamento è tenuto a svolgere non meno di 30 ore di lezione, distribuite in non meno di due giorni settimanali; a prendere parte agli esami di profitto e di laurea; a svolgere l’attività relativa al tutorato; alla verifica in itinere del rendimento degli studenti; all’assistenza per la prova finale. I docenti hanno l’obbligo di presentare entro il 15 maggio i programmi dei corsi che si propongono di svolgere nell’anno successivo, nonché il calendario di tutta l’attività didattica e degli esami. Le commissioni didattiche valutano proposte di moduli didattici e di altre iniziative volte a migliorare le condizioni della didattica nei corsi, nei laboratori e nell’attività di tirocinio. I titolari d’insegnamento sono tenuti al rispetto del calendario delle lezioni formulato annualmente dalla commissione paritetica. Gli incarichi sono retribuiti nella misura delle diverse tipologie didattiche (semestri, moduli, ecc.) ove eccedano gli adempimenti didattici previsti dalla legge. Art. 12. Commissione paritetica È istituita una Commissione didattica paritetica. composta da un uguale numero di studenti e docenti, nominati annualmente dai Consigli di corso. La commissione è presieduta dal professore più anziano nei ruoli. Tra i compiti della commissione rientra l’istruttoria dei piani di studio che doQuaderno di COMUNICazione

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Art. 9. Valore dei Crediti formativi in entrata Il Consiglio del corso di studio stabilisce caso per caso, e a seconda degli esami superati e dei crediti da riconoscere, l’anno al quale gli studenti vengono ammessi e il piano di studi che debbono seguire. Di ogni studente si conservano tutti gli atti della sua carriera di studi. Il valore delle lauree o di singoli esami sostenuti in altri corsi di studio di Facoltà dell’Ateneo o di altre Università è assegnato dalla commissione didattica paritetica. In ogni caso il valore dei CFU non potrà essere superiore a quello indicato per ciascun’area di studio e per ciascuna delle discipline indicate nell’Ordinamento della classe XIV allegato al “Regolamento d’Ateneo”.

golamento del Corso (emendamento approvato dal CG del 20.07.01) La prova finale di laurea, avente valore di 10 CFU, consiste nella discussione di un elaborato individuale su un argomento proposto dal candidato, relativo a un insegnamento impartito nel corso di studio o di un progetto di ricerca, o di un prodotto multimediale. L’argomento su cui avverrà la discussione è comunicata dal/i relatore/i almeno sei mesi prima della sessione di laurea. La commissione di laurea è composta da sette membri. Nell’assegnare il voto di laurea la commissione tiene conto del curriculum complessivo del candidato, dell’andamento della discussione e di ogni altro elemento che possa concorrere alla valutazione. La richiesta di lode, avanzata dal correlatore, deve essere accolta dall’intera commissione.

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vranno essere approvati dai Consigli entro il 31 gennaio di ogni anno, nonché la formulazione del calendario didattico annuale con l’indicazione di orari e sedi delle lezioni e delle altre attività di formazione. La commissione ha pure il compito di verificare le attività a scelta degli studenti, i quali possono spendere i crediti loro assegnati in forme legate alla produzione culturale (congressi, convegni, rassegne e altro) e possono biennalizzare una disciplina ai fini della tesi di laurea, o inserire ulteriori esami a scelta tra le discipline indicate nella tab. XIV. Rientra altresì tra i compiti della commissione la proposta di determinazione dei CFU per studenti provenienti da attività lavorative o di studio, compresi quelli fuori corso o che chiedano l’inserimento in anni successivi al primo.

Art. 16. Valutazione A conclusione di ogni anno accademico il Consiglio del corso di studio provvede alla verifica dell’attività svolta e degli obiettivi di coordinamento, di organizzazione e di efficacia didattica raggiunti. Gli studenti iscritti ai corsi compileranno, alla fine di ciascun anno, un questionario valutativo sull’efficacia degli insegnamenti ricevuti e delle modalità dell’organizzazione generale. Brevi questionari verranno inoltre compilati dagli allievi alla fine di ciascun corso in forma anonima. Essi vanno consegnati esclusivamente al docente interessato, il quale li utilizzerà per la propria autovalutazione, nonché su richiesta del Nucleo di valutazione di Ateneo.

Art. 13. Attività di tutorato Per l’intero svolgimento degli studi lo studente è assistito da uno o più tutori assegnatogli dai Consigli dei corsi. Il tutore guida lo studente nella organizzazione del piano di studi e in ogni altra attività mirata alla sua crescita culturale e all’orientamento professionale. Lo studente può esercitare il diritto di scelta indicandolo tra i professori ufficiali del corso di studi. Il Consiglio individua pure figure tutorali per le attività d’aula, di laboratorio e del tirocinio esterno, tra esperti laureati o diplomati, con cui stipula contratti di collaborazione.

Art. 17. Aggiornamenti Il Consiglio del corsi di laurea provvede annualmente all’aggiornamento e alla pubblicazione on line del Regolamento.

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Art. 15. Iniziative di sostegno alla formazione Il Consiglio del corso stabilisce le forme di collaborazione con Enti pubblici e privati nazionali e internazionali al fine di agevolare la partecipazione degli studenti iscritti alla classe XIV a iniziative di particolare rilievo nei settori della comunicazione (corsi estivi, mostre e rassegne cinematografiche, attività teatrali, concerti, esposizioni ed altre attività ed eventi). Le convenzioni dovranno prevedere forme di accrediti e altri interventi no-profit. Queste attività, quando riconosciute dal Consiglio del Corso di studio, rientrano nella valutazione dei CFU a disposizione degli studenti. Quaderno di COMUNICazione

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Art. 14. Laboratori Le attività di laboratorio sono guidate dai professori titolari delle discipline di riferimento o da esperti nominati dal Consiglio nell’ambito della programmazione annuale. Le attività di laboratorio si concludono con prove scritto-grafiche o pratiche valutabili per il conseguimento dei corrispondenti crediti. Le attività di laboratorio possono far corpo con gli insegnamenti ufficiali. In tal caso sta al Consiglio determinare la misura del CFU.

Art. 18. Norme transitorie Nell’a.a. 2001-2002 verranno attivati il primo e secondo anno del corso. Possono iscriversi al secondo anno soltanto gli studenti provenienti dal primo anno dello stesso corso di studi di Scienze della comunicazione Per l’a.a. 2001-2002 non sono ammessi trasferimenti al secondo anno (soppresso con delibera del CG del 20.07.01 in quanto in contrasto con l’art.7 e sostituito con:) Per l’a.a. 2001-02 sono previsti trasferimenti al secondo anno, interni all’Ateneo ed esterni, complessivamente per non più di 30 studenti. Il Manifesto degli studi stabilirà le condizioni e le modalità dei trasferimenti I CFU maturati nel primo anno dell’indirizzo di Scienze della Comunicazione della Facoltà di Lettere e Filosofia sono riconosciuti per intero nell’iscrizione al secondo anno del corso della Laurea triennale. . Essi vanno però integrati con gli insegnamenti di Istituzioni di Sociologia (SPS/07) e Logica e Filosofia della Scienza (M-FIL/02) previsti nel primo anno del piano di studi guidato.

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Piano di studi guidato PRIMO ANNO

PRIMO

SEMESTRE Primo e secondo

Informatica avanzata con laboratorio (INF/01) CFU 08

semestre Primo e secondo semestre

Linguistica italiana (L-FIL-LET-12) C F U 08 Laboratorio di composizione in italiano (L-FILLET-12) CFU 02 Istituzioni di Sociologia (SPS/07)

CFU 04

Sociologia dei processi culturali e comunicativi (SPS/08) 04

C F U

Primo e secondo semestre

SE C O N D O

SEMESTRE

Psicologia cognitiva (M-PSI/01 Psicologia delle comunicazioni sociali (M-PSI-05

CFU 04 CFU 04

Storia della critica e storiografia letteraria (L-FIL-LET/14) 04 Storia della scienza e delle tecniche. (M-STO/05) CFU 04 Comunicazione scientifica CFU 02 Logica e filosofia della scienza (M/FIL/02) CFU 04

Esame CFU Esame unico

Appendice Quaderno di COMUNICazione

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SECONDO ANNO

PRIMO

TERZO ANNO

PRIMO

SEMESTRE

Lingua e traduzione inglese (L-LIN-12) CFU 08 Laboratorio di composizione testi in lingua inglese (L-LIN-12) CFU 02 Linguistica generale (L-LIN/01) Filosofia e teoria dei linguaggi (M-FIL-05) Semiotica delle arti (L-ART/03) Percezione e comunicazione visiva (ICAR/17) Grafica (ICAR//16)

SE C O N D O

CFU 04 CFU 04 CFU 04 CFU 02 CFU 02

Esame uniEsame uni-

SEMESTRE

Statistica sociale (SECS-S/05)

CFU 04

Musicologia e storia della musica (L-ART/07)

CFU 04

Semiologia dello spettacolo (L-ART/05) Laboratorio di composizione testi

CFU 04 CFU 02

Teoria e tecnica dei nuovi media (SPS/08)

CFU 04

Diritto privato (IUS/01) Diritto dell’informazione (IUS-09)

CFU 08 CFU 04

Esame

Esame

SEMESTRE

Pedagogia della comunicazione sociale (M-PED/01) CFU 04

SE C O N D O Storia e tecnica della fotografia (L-ART/06) Televisione (L-ART/06) Semiologia e storia del cinema (L-ART/06)

CFU 04 CFU 04 CFU 04

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Fin qui per il 2001/2002

Quaderno di COMUNICazione

Storia delle dottrine politiche e sociali (SPS/02) CFU 04 + Tre discipline a scelta dello studente CFU 12 + Tirocinio o altre attività nel laboratori che verranno attivati CFU 04

I 12 CFU a disposizione degli studenti vanno scelti tra le discipline indicate alla pagina accanto, coerenti con la tabella XIV, tra quelle impartite in Ateneo, di cui lo studente seguirà uno o più semestri, fino a un massimo di 90 hh. di lezioni;

Appendice

Appendice

Economia aziendale (SECS-P/07) CFU 04 EsaEconomia e gestione delle imprese di comunicazione (SECS- m e P/08) CFU 04 uniOrganizzazione e gestione delle risorse umane (SECS-P/10)

SEMESTRE

Quaderno di COMUNICazione

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Discipline coerenti con la tab. XIV

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M-STO/08 M-PED/03 M-PED/04 M-PSI/01 SECS-P/02 SECS-P/03 SECS-S/01 SECS-S/04 SPS/01 SPS/03 SPS/04 SPS/04 SPS/08 SPS/08 SPS/08 SPS/08 SPS/09 SPS/11 SPS/12

Telecomunicazioni (Telematica) Diritto costituzionale Diritto amministrativo Diritto dell’Unione europea Filosofia del diritto Museologia e critica artistica e del restauro Storia della radio e della televisione Etnomusicologia Letteratura italiana Teoria e storia della retorica Filosofia teoretica Etica e deontologia delle professioni Estetica Storia della Filosofia Geografia economico-politica Storia moderna Storia dell’editoria e della stampa Tecniche della documentazione, classificazione ed edizione Archivistica, bibliografia e biblioteconomia Didattica e pedagogia speciale Pedagogia sperimentale Psicologia del lavoro e delle organizzazioni Politica economica Scienza delle finanze Statistica matematica Demografia Filosofia politica Storia delle istituzioni politiche Sistemi politici comparati Relazioni internazionali Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico Teoria e tecniche del linguaggio radiotelevisivo Editoria multimediale Sociologia delle comunicazioni di massa Sociologia dei processi economici e del lavoro Sociologia dei fenomeni politici Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale

Quaderno di COMUNICazione

approvato all’unanimità dal Consiglio del Corso nella seduta del 12 luglio 2001 entra in vigore dal l° novembre 2001 e fa parte del Regolamento didattico del Corso di Laurea Art. 1. Lo svolgimento semestrale dei corsi richiede una distinzione molto netta tra attività d’aula e verifiche di esame. Le sessioni d’esame sono perciò così fissate: – dal 25 gennaio al 5 marzo (sessione invernale con un solo appello); – dal l° giugno al 30 luglio (due appelli della sessione estiva); – dal 5 settembre al 30 ottobre (due appelli della sessione autunnale). Nessun appello può essere anticipato o posticipato. Non sono perciò ammesse richieste di esame in altri periodi. Art. 2. Le modalità di verifica del profitto degli studenti sono: a) colloqui orali; b) somministrazione di un test misto, contenente 30 domande, di cui 24 a risposta multipla e una o due a risposta aperta (dai 15 ai 30 righi cad.) valutabili queste ultime fino a 6 punti; c) uno o più temi a scelta, corrispondenti a più parti del programma. Non sono ammesse altre forme di valutazione (esoneri, ecc.). Art. 3. Nei test la valutazione di ciascuna risposta esatta è di n.1 punto. La risposta errata e la non risposta è valutata 0 punti. Non sono ammesse valutazione sotto lo zero. Allo studente va riconosciuto il diritto di poter integrare il test con una prova orale. L’esito della prova integrativa può concorrere a migliorare o peggiorare il voto di partenza. Art. 4. È consentito un test o altra prova d’ingresso per ciascun insegnamento, al fine di valutare lo stato di preparazione degli studenti. Esso tuttavia non può essere utilizzato come elemento di valutazione finale. Eventuali prove di valutazione in itinere potranno tenersi dopo le prime 15/20 ore di lezione. In nessun caso le prove parziali, consistenti in test o tesine o altre forme ritenute idonee, potranno costituire media o essere pubblicizzate. Esse hanno valore di arricchimento degli elementi utili alla valutazione finale. Quaderno di COMUNICazione

Appendice

Appendice

ING-INF-03 IUS/0/08 IUS/10 IUS/14 IUS /20 L-ART/04 L-ART/06 L-ART/08 L-FIL-LET/11 L-FIL/LET/12 M-FIL/01 M-FIL/03 M-FIL/04 M-FIL/06 M-GGR/02 M-STO/02 M-STO/08 M-STO/08

Regolamento degli esami

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Art. 5. Lo studente non può riprovare un esame che si è concluso con valutazione negativa prima che siano trascorsi almeno 30 giorni. Nel caso di non accettazione del voto il Regolamento Didattico di Ateneo prevede che lo studente non potrà sottoporsi a una nuova verifica entro la medesima sessione. Art. 6. Per la valutazione negli insegnamenti che costituiscono la confluenza di più attività didattiche (moduli, laboratori, ecc.), deve comunque essere accertato il profitto dello studente per ciascuna di esse. La valutazione in tal caso è la risultante di tutte le attività, fermo restando il diritto dello studente di acquisire i risultati nelle singole forme di accertamento (art.26, c.6 del R.D. di Ateneo). Art. 7. Gli statini d’esame dovranno essere consegnati dallo studente direttamente alla tutor d’aula, improrogabilmente dieci giorni prima di ciascun appello. I professori riceveranno dalla tutor d’aula, 5 giorni prima di ciascun appello, l’elenco dei prenotati in ordine alfabetico. I professori cureranno la distribuzione in aula dei candidati, provvedendosi di personale addetto all’assistenza. Ogni studente potrà disporre di una sola scheda foto-ottica sulla quale non sono ammesse abrasioni o cancellature. Non sono ammesse sacche né cellulari. Il tempo per lo svolgimento dei test o delle prove scritte o scritto-grafiche è lasciato alla discrezione dei singoli docenti. Art. 8. Il Presidente del Corso Interfacoltà designa annualmente le commissioni di esame di profitto, tenendo conto delle specifiche norme del Regolamento generale di Ateneo (art. 26, c. 7). Art. 9. La correzione delle prove dovrà essere completato di norma entro otto giorni e i risultati vanno comunicati tempestivamente con posta elettronica alla segreteria del corso di laurea (scienzecomunicazione@sesia.unile.it) che provvederà a pubblicizzarli all’albo del palazzo Sperimentale.

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Quaderno di COMUNICazione

01. Una sola delle frasi seguenti non contiene un errore ortografico. Quale? A) dopo aver finito il test ho provato una grande soddisfazzione B) chi trova un’amico trova un tesoro C) le domande dovranno pervenire tramite posta elettronica D) accellerai per superare un camion ingombrante 02. Una sola delle frasi seguenti non contiene un errore ortografico. Quale ? A) il racconto di Claudio mi fa venire in mente due anneddoti divertenti B) quel ragazzo è propio bravo e merita senz’altro di essere ammesso C) sono andato correndo in stazione ma il treno era appena partito D) grazie ai sudati risparmi ho rinnovato tutto il mobiglio di casa 03. Una sola delle frasi seguenti non contiene un errore di interpunzione. Quale? A) tutte le volte, che mangiavo le cozze, stavo male B) il Rettore può accogliere domande di iscrizione anche dopo il 5 novembre,ma, in ogni caso non oltre il 31.XII C) quell’uomo molto alto, che hai visto salire sull’autobus è mio padre D) i libri che vedi sul tavolo non sono miei ma di Marco 04. Uno solo è il termine più idoneo per completare la frase seguente: “È stato condannato per ∑ ma non sono sicuro che abbia ucciso sua moglie”. Quale? A) eccidio B) uxoricidio C) genocidio D sterminio 05. Uno solo è il termine tecnico equivalente di quello in grassetto nella frase seguente: “Cadendo sugli scogli, mi sono procurato una sbucciatura al ginocchio”. Quale? A) abrasione B) slogatura C) edema D) contusione 06. Uno solo è il significato esatto di iconoclasta. Quale? A) dissacratore B) adulatore C) conformista

D) parassita

Quaderno di COMUNICazione

Appendice

Appendice

Art. 10. I professori fisseranno le date per la verbalizzazione degli esami, che avverrà nei loro rispettivi studi non oltre una settimana dalla pubblicazione dei risultati.

Test per la prova di immatricolazione al primo anno a. a. 2001-2002

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07. Uno solo è il significato esatto di ridondante. Quale? A) ripetitivo B) autonomo C) forestiero D) sovrabbondante 08. Uno solo dei termini in grassetto è usato in senso figurato. Quale ? A) Alla vista della polizia il ladro si dileguò alla svelta B) Una marea di spettatori applaude il grande calciatore C) Nonostante il rumore mi addormentai rapidamente D) L’uomo deve perseguire nobili ideali. 09. Uno solo è un corretto sinonimo del verbo in grassetto: “Oggi il Presidente ha fatto un bel discorso”. Quale ? A) ha pronunziato B) ha relazionato C) ha compiuto D) ha eseguito 10. Una sola delle frasi seguenti non contiene errori di morfologia (nominale o verbale). Quale ? A) Mentre mettavamo in ordine i libri abbiamo trovato un vecchissimo vocabolario B) Di fronte alle difficoltà impreviste sappiati disimpegnare a dovere C) Mi auguro di saper escogitare delle soluzioni adeguate D) Non riesco a trovare le file di tanti discorsi inutili

11. Si riconosca l’ iperonimo adatto per il gruppo di sostantivi furgone, autobus, automobile (si ricordi che l’iperonimo di rosa, giglio, viola è fiore): A) mezzo di trasporto B) tramite C) eccipiente D) veicolo 12) Si individui l’aggettivo che ha esattamente il significato della relativa in grassetto nella frase seguente: “agente chimico che favorisce il cancro”: A) oncogeno B) patogeno C) deperibile D) malefico

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14. Quale fra i seguenti è un dispositivo di input ? A) La memoria ROM B) Il monitor C) il lettore di CD-ROM D) La tastiera Quaderno di COMUNICazione

16. Da quanti bit è composto un byte ? A) Quattro B) Uno C) Otto

D) 256

17. Cosa si intende con il termine Cartella o Directory ? A) Un insieme di programmi applicativi utilizzati per gestire archivi di dati B) L’operazione di compilazione di un programma C) Un contenitore logico per files o altre cartelle D) La memoria di massa di un personal computer 18. Quale fra i seguenti termini non corrisponde ad un tipo di memoria normalmente presente in un personal computer ? A) RAM B) ROM C) Record D) Hard Disk 19. Cos’è un word processor ? A) Un programma per effettuare delle traduzioni B) Un programma di ausilio nella creazione e modifica di documenti testuali C) Un sistema operativo D) Un elaboratore multiprocessore 20. Cos’è un algoritmo ? A) Il nome dato al file di uscita di un programma applicativo B) L’insieme delle regole da seguire per sviluppare un programma in grado di svolgere una specifica elaborazione C) Il ritmo mediante cui il microprocessore esegue le varie operazioni D) Un particolare programma utilizzato in ambito musicale 21. Quale fra i seguenti segnali è digitale? A) La luminosità di una lampadina B) La velocità di un’auto in corsa D) Una comunicazione telegrafica C) La temperatura in una stanza Quaderno di COMUNICazione

Appendice

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13. Cos’è l’unità centrale di un elaboratore ? A) La stampante principale B) Il microprocessore C) La memoria principale D) Il sistema operativo

15. A cosa serve un foglio elettronico ? A) Ad interpretare la voce dell’operatore scrivendo automaticamente B) Ad elaborare delle immagini provenienti dallo scanner C) Ad elaborare delle matrici di dati numerici e testuali con formule e riferimenti incrociati D) A scrivere con delle speciali penne elettroniche

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22. Cos’è un database ? A) Un motore di ricerca B) Un programma di videoscrittura C) Un sistema operativo D) Un sistema informatico in grado di gestire grosse moli di dati 23. “Have you ever been to France?” “Yes, I _____ there last August.” A) had been B) went C) have been D) were 24. I usually wear skirts, but today I _____ trousers. A) wears B) wear C) wearing D) am wearing 25. It’s Mr Smith, _____? A) isn’t it B) isn’t he

C) is it

26. This car is more _____ than that one. A) fast B) faster C) modern

D) is not it D) fastest

27. She hasn’t written to me _____ we met last time. A) since B) ago C) for D) before 28. Mr Smith woke up in the middle of the night. He could hear _____ in his garden. A) anybody B) everywhere C) someone D) anything 29. If he _____ worked harder, he would have passed the exams. A) had B) would have C) would D) had have

Appendice 210

31. We arrived _____ the airport in time. A) to B) at C) on D) in Quaderno di COMUNICazione

C) mine’s

D) her’s

33. “Did you enjoy _____?” “Yes, I did.” A) yourselves B) myself C) you D) yourself 34. He arrived _____ you were asleep. A) during B) for C) while

D) until

35. Nel messaggio pubblicitario : “solo belle donne usano i cosmetici x”, l’ uso dei cosmetici x è inteso, rispetto al requisito della bellezza: A) come condizione necessaria B) come condizione sufficiente C) come condizione necessaria e sufficiente 36. L’ espressione: “la grandezza x è definita a meno di una costante arbitraria” significa che: A) la grandezza è definita se è definita la costante B) la grandezza è definita se non è definita la costante C) la grandezza è definita indipendentemente dalla costante 37. L’ espressione: “non è vero che le cose non siano andate così” significa che: A) le cose sono andate così B) le cose non sono andate così C) c’è la possibilità che le cose siano andate così 38. Per esprimere un giudizio di verità (vero/falso) su una proposizione che attribuisce una data proprietà p ad un’ intera classe di oggetti: A) è sufficiente dimostrare che la proprietà p vale per un elemento della classe B) è necessario dimostrare che essa non vale per tutti gli elementi della classe C) è sufficiente dimostrare che essa non vale per un elemento della classe 39. Se un prodotto costa Lit. 60.000, ridotto del 30% costa: A) Lit. 42.000 in meno B) sette decimi del prezzo originale, cioè Lit. 42.000 C) due terzi del prezzo originale, cioè Lit. 40.000

Quaderno di COMUNICazione

Appendice

30. Which country _____ from? A) Tom is coming B) does Tom come C) comes Tom D) is coming Tom

32. This car is _____ . A) mine B) my

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40. La negazione della congiunzione di due proposizioni [non (A e B)], è vera se e solo se: A) almeno una delle due proposizioni è vera (A o B) B) entrambe le proposizioni sono false (non A e non B) C) almeno una delle due proposizioni è falsa (non A o non B)

45. MANAGER, GIOVANI, OPERAI a) Diagramma 1 b) Diagramma 2

c) Diagramma 3

46. ATTORI, ITALIANI, BIONDI a) Diagramma 1 b) Diagramma 2

c) Diagramma 3

41. Dire che la proposizione A è vera se e solo se la proposizione B è vera (A ←→ B) equivale a dire che: a) se A e B sono simultaneamente vere, allora almeno una delle due proposizioni è vera (A e B → A o B) b) se almeno una delle due proposizioni è vera, allora esse sono simultaneamente vere (A o B → A e B) c) se sono simultaneamente vere la negazione di A e B, allora almeno A o la negazione di B è vera (non A e B → A o non B)

47. Il carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo è in: a) terzine b) sestine c) ottave d) endecasillabi sciolti 48. Il Simbolismo è un movimento letterario nato in: a) Inghilterra b) Francia c) Germania d) Russia

42. In una ruota rigida (non deformabile) per compiere un’ intera rotazione un punto di una circonferenza interna rispetto ad uno di una circonferenza più esterna ruota a velocita tangenziale (lunghezza dell’arco di circonferenza percorso in un dato tempo): A) maggiore B) minore C) uguale

50. Da quale movimento sono state introdotte le parole in libertà: A) Dal futurismo B) Dal crepuscolarismo C) Dall’ermetismo D) Dal neorealismo

Per ciascuno degli esercizi seguenti, indicare il diagramma (1, 2, 3) che soddisfa la relazione insiemistica esistente tra i tre termini dati (le alternative proposte per ciascun esercizio sono quelle raffigurate qui sotto).

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Diagramma 2

Diagramma 3

43.TELEGIORNALI, TELEGIORNALI RAI, APPARECCHIO TELEVISIVO a) Diagramma 1 b) Diagramma 2 c) Diagramma 3 44. MEDICINALI, POLMONITI, ANTIBIOTICI a) Diagramma 1 b) Diagramma 2 c) Diagramma 3 Quaderno di COMUNICazione

51. America è un romanzo di. A) Marcel Proust B) James Joyce C) Fiodor Dostojewski D) Franz Kafka 52. Il movimento punk è comparso per la prima volta sulla scena mediale: a) Negli anni ’60, negli Stati Uniti b) Nei secondi anni ’70, in Inghilterra c) Nei secondi anni ’70, negli Stati Uniti d) Negli anni ’60, in Francia 53. Nel film “Quarto potere”, Orson Welles interpreta il ruolo di: a) un cronista d’assalto b) un tipografo sindacalista c) un potente editore con ambizioni politiche d) l’amante della moglie del direttore del giornale 54. Il “Raggio verde” è un film di b) Rohmer a) Truffaut

c) Hitchcock

d) Antonioni

Quaderno di COMUNICazione

Appendice

Appendice

Diagramma 1

49. Il canone dell’impersonalità è tipico del: A) Romanticismo B) Decadentismo C) Verismo D) Illuminismo

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55. La “Camera verde” è un film di a) Truffaut b) Rohmer

c) Hitchcock

d) Antonioni

56. Come viene chiamato lo sviluppo narrativo articolato anche tecnicamente (notazioni di primo piano, piano americano, atteggiamento degli attori, eccetera) della trama di un film? a) Soggetto b) Trattamento c) Sceneggiartura d) Montaggio 57. Nel repertorio artistico di Carmelo Bene vi è la recitazione in “voce” di a) Mistero Buffo b) Canti Orfici c) Francesco giullare di Dio d) L’Adelchi 58. Cos’è il trip-hop? a) Un genere musicale, nato all’interno del pop britannico b) uno sport estremo di origine australiana c) una droga chimica dagli effetti allucinogeni d) un genere cinematografico, collegato alla beat generation 59 Il compito di controllare la correttezza e la legittimità dell’informazione televisiva durante la campagna elettorale spetta : a) al Presidente del Consiglio b) al Presidente della Corte Costituzionale c) al Garante per l’Editoria d) al Presidente dell’Ordine dei Giornalisti

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61. Con il termine “share” si intende: a) la totalità dei contatti ottenuti da un programma b) la percentuale di televisori sintonizzata su un dato programma rispetto alla totalità dei televisori accesi in quel momento c) il totale dei telespettatori di un programma d) la percentuale media di ascolti ottenuta da un programma a puntate Quaderno di COMUNICazione

63. Il Direttore del quotidiano “La Repubblica” è: a) Eugenio Scalfari b) Arrigo Levi c) Giuliano Ferrara d) Ezio Mauro

64. Vincitore del “Premio Strega” di quest’anno è: a) Antonio Tabucchi b) Dacia Maraini c) Domenico Starnone d) Susanna Tamaro 65. La rivoluzione industriale è nata a) Nell’ Inghilterra di fine Settecento sec. c) Nella Gran Bretagna dei primi Ottocento 66. La prima capitale del Regno d’Italia è stata: a) Torino b) Firenze c) Roma

b) Nell’Europa del XX d) Negli Stati Uniti nel XIX sec. d) Napoli

67. Con “Età giolittiana” si intende il periodo storico che va dal a) 1880-1890 b) 1895-1905 c) 1903-1913 d) 1915-1918 68. Il Presidente della Repubblica italiana è eletto a) dalla Camera dei Deputati b) dal Governo c) dal Parlamento d) da tutti i cittadini che hanno compiuto il 18° anno di età 69. I colori della bandiera italiana sono stati fissati nella Costituzione? a) No, esistono da più di 100 anni senza bisogno di fissarli con disposizioni costituzionali b) Si, sono: verde, bianco e rosso a bande verticali di eguali dimensioni c) Sì, sono. rosso, bianco e verde con lo stemma della Repubblica al centro d) Sì, sono: bianco, rosso e verde a bande orizzontali di eguali dimensioni Quaderno di COMUNICazione

Appendice

Appendice

60. Con la locuzione opinion maker si designa: a) il capo di un partito di opinione b) un opinionista capace di influenzare le idee altrui c) l’opinione prevalente su temi di rilevante attualità d) un individuo facilmente influenzabile dalla opinione prevalente

62. Ilaria Alpi è stata: a) una giornalista Rai uccisa in un agguato in Somalia b) una giornalista Rai vittima di un cecchino a Sarajevo c) una volontaria italiana vittima di un’imboscata nel Zaire d) una dirigente Fininvest

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70. Il regime fascista in Italia: a) Salvaguardò la libertà individuale dei cittadini b) Soppresse soltanto i partiti di sinistra c) Sciolse tutti i partiti politici e annullò la separazione tra i tre poteri costituzionali d) Permise la libera contrattazione sindacale 71. La seconda guerra mondiale fu provocata: a) dalla rivalità franco-russa b) dalla politica aggressiva e imperialista di Hitler c) dalla corsa agli armamenti dei paesi dell’Occidente d) dalla crisi marocchina 72. L’O.N.U. (Organizzazione delle Nazioni Unite) fu costituita: a) durante gli anni trenta del Novecento b) dopo la fine della prima guerra mondiale c) dopo la sconfitta di Napoleone III d) dopo la fine della seconda guerra mondiale 73. Chi era John Fitzgerald Kennedy? a) Il presidente degli Stati Uniti d’America fautore della politica di integrazione razziale b) Il presidente che guidò l’America durante la seconda guerra mondiale c) Il principale sostenitore della politica isolazionista degli Stati Uniti d’America d) Il promotore della Società delle Nazioni

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75. Secondo la Costituzione repubblicana italiana il referendum popolare è un mezzo con il quale: a) I cittadini decidono direttamente su una questione, come ad esempio il mantenimento o l’abrogazione di una legge b) I cittadini chiedono nuove elezioni c) Il popolo presenta una proposta di legge d) Il popolo riferisce ciò che pensa del Governo Quaderno di COMUNICazione

Oltre i luoghi

Appendice

74. La Costituzione della Repubblica Italiana entrò in vigore: a) Nel 1943 b) Nel 1945 d) Nel 1948 c) Nel 1947

Quaderno di COMUNICazione

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Oltre i luoghi 218

Quaderno di COMUNICazione


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