QdC7 - Il del tutto nuovo

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Quaderno di comunicazione rivista di dialogo tra culture

7/2007

Il del tutto nuovo

MELTEMI


Indice

Quaderno di comunicazione nuova serie

Direzione Angelo Semeraro Comitato di Consulenza Scientifica Alberto Abruzzese Marc Augé Egle Becchi Ferdinando Boero Paolo Fabbri Pier Paolo Giglioli Raffaele De Giorgi Derrick de Kerckhove Giovanni De Luna Pina Lalli Pierre Lévy Michel Maffesoli Roberto Maragliano Mario Morcellini Salvatore Natoli Peppino Ortoleva Mario Perniola Agata Piromallo Gambardella Augusto Ponzio Stefano Rolando Antonio Santoni Rugiu Aldo Trione Ugo Volli Redazione Giovanni Fiorentino Mimmo Pesare Segretaria di redazione Raffaella Scorrano scienzecomunicazione@sesia.unile.it Pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Lecce erogato tramite il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali

Amministrazione e abbonamenti Meltemi editore, via Merulana 38, 00185 Roma info@meltemieditore.it; www.meltemieditore.it

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Questo numero (a. s.) Il del tutto nuovo

La rivista può essere acquistata nella sezione Acquisti del sito www.meltemieditore.it Consultabile in rete all’indirizzo web www.meltemieditore.it

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Augusto Ponzio, La riproduzione dell’identico

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Alberto Abruzzese, Variazioni postumane

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata

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Sergio Brancato, Scrutare il buio

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Nello Barile, La disillusione della fine

45

Mario Pireddu, Nuovi media e realtà multiple

Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di giugno 2007 presso Arti Grafiche La Moderna Impaginazione: studiograficoagostini.com

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Carlo Formenti, Neo, ovvero la fine della storia nel mito di Matrix

61

Ferdinando Boero, Evoluzione graduale e per salti: quale futuro per le specie?

75

Ornella Martini, Rimediare la didattica

Meltemi editore via Merulana, 38 – 00185 Roma tel. 064741063 – fax 064741407 info@meltemieditore.it www.meltemieditore.it

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Angelo Centonze, Arte contemporanea: la ricerca identitaria

91

Cristina Caiulo, Stefano Pallara, Architettura, il nuovo che non c’è

103

Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 600/99 del 14/12/1999

Lelio Semeraro, Pubblicità: la rivoluzione creativa Reset

109

Fulvio Papi, Microgenealogia di una scrittura

115

Claude Poissenot, L’individu nouveau: être un individu aujourd’hui

127

Francesco Vitale, L’invenzione della decostruzione Tessiture

139

Escobar, La libertà negli occhi; Curi, La forza dello sguardo; Farné, Diletto e giovamento. Le immagini e l’educazione (A. Semeraro)


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Semeraro, Del sensibile e dell’immaginale; Baldi, Appartenenze sconosciute; Rovatti, La filosofia può curare?; Marrone, Pezzini (a cura), Senso e metropoli (M. Pesare)

151

Hall, Il soggetto e la differenza; Pireddu, Tursi (a cura), Post-umano; Codeluppi, La vetrinizzazione sociale (G. Fiorentino)

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Caputo, Semiotica e linguistica (A. D’Urso)

159

Signore, Lo sguardo della responsabilità (Susan Petrilli)

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Fadda, Lingua e mente sociale (C. Caputo)

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Gli autori

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Indice dei numeri precedenti

Questo numero

Questo settimo Quaderno avvia una discussione sulle mutazioni (il “del tutto nuovo”) che si svilupperà ancora nel prossimo n. 8/2008 (“le variazioni grandi”). Le due espressioni provengono dal pianeta Machiavelli, che rifletteva sul suo tempo in funzione di un’idea nuova di società, di un Principe “nuovo al tutto”, per la realizzazione di una “università di uomini” contro il “barbaro dominio”. Sulle forme in cui si presenta il nostro tempo fluente incrociano qui i loro sguardi filosofi, scienziati, mediologi, critici d’arte, architetti, pubblicitari, riflettendo sui cambiamenti visibili e su quelli in movimento. Tanto il néos greco che il latino novus, oltre a significare “recente, novello, fresco, giovane” (tò nèon era “la gioventù” per i greci) indicano anche ciò che torna. Ciò che è, include il ciò che è stato, e da esso continua in un certo senso a dipenderne anche quando se ne allontana, lo rifiuta, lo supera. Il néos (un derivato del verbo néomai) ha base accadica in nea¯’u, ci ha documentato Giovanni Semerano, che vuol dire “discendente, figlio, frutto”. Siamo perciò subito innanzi a un aspetto paradossale, puntualmente registrato da alcuni dei saggi raccolti: la convinzione cioè che “il tutto nuovo” nel mentre vuol essere “totalmente discontinuo” rispetto a una modernità rifiutata, non riesce a definirsi, impedito com’è tanto nel guardare avanti che nel rivolgersi all’indietro. Alle “variazioni grandi” prodotte dalla forte discontinuità col passato non riusciamo a far fronte che con i vecchi arnesi di quella stessa modernità con cui vorremmo tagliare i ponti. Del novello sono portatori e inventori gli stessi abitanti insoddisfatti del presente-passato e del presente-presente costretti “a scrutare il buio”, e in ciò è il paradosso della trasformazione-invenzione, di cui parla Vitale sulla traccia decostruzionista di Derrida, o della “rivoluzione” evocata da Formenti come “costante apertura del mondo all’irruzione dell’assolutamente nuovo”. Una nuova origine può aver luogo solo a condizione di essere inconsapevole della propria esistenza; il tutto nuovo è solo nella misura in cui non si rende conto di esistere (Brancato). Come sfidare allora l’antico motto evocato da


Ci potremmo applicare nella compilazione di un diligente catalogo dei nuovissimi, disegnare una mappa trasversale in grado di percorrere le arti, l’episteme, la società; assecondare la ricorrente tentazione di dare un ordine alle cose (e ai discorsi) con quella logica classificatoria che da Leibniz a noi ha costituito la pulsione costante dell’Occidente, ma per quanti segni riuscissimo ad accogliere e classificare, sempre rimarrebbe fuori, più o meno arbitrariamente, qualcosa che sta mutando mentre la osserviamo e ne parliamo, per la difficoltà propria che ogni fenomeno in mutazione oppone a essere pienamente racchiuso in forme chiare e definite. Perché il concetto stesso di “nuovo” è scivoloso; spesso si tratta di una riproposizione del medesimo, e comunque non prende forma sociale se non dopo essere stato riconosciuto in un’immagine comune, più o meno condivisa. Cos’è che si presenta con tratti davvero del tutto nuovi in quest’avvio di secolo? Il progresso scientifico, più segnatamente quello della genetica; la simbiosi uomo-macchina; Second Life (“Your World, your imagination”), ossia la prova generale di un trasloco nel cyberspazio, popolato da un numero in crescita di avatar, il cui portato innovativo è messo qui in luce da Pireddu? La multitasking generation, capace di tenere simultaneamente allertate facoltà diverse del neurosistema? Il buco nella stratosfera e quello nelle profondità dell’Atlantico; lo scioglimento dei ghiacciai e il surriscaldamento del pianeta? E cos’è nuovo per davvero nell’ordine delle Weltanshauungen: la fine della modellizzazione; il tramonto dell’eidos aristotelico, la rivincita della metis e della mitopoiesi sulla filosofia olistica; il tramonto della bellezza nel seriale, dell’immaginazione nell’immaginario; la fine dell’arte e il trionfo del katalogos? Osservato dalle industrie editoriali dell’informazione e della comunicazione, il nuovo si distribuisce lungo una traiettoria che registra cose diverse: il rafforzato ruolo delle religioni (ma anche di un laicismo che esse hanno riattizzato); il mutato ruolo delle figure intellettuali (l’ultimo Bauman di Modus vivendi); la mutazione antropologica della galassia dei tò nèon (i “nuovi barbari” di Baricco, di cui Ornella Martini segnala le orticarie accademiche dei tò palaiói). Se fissassimo il nostro punto di osservazione sulle proposte dei gruppi editoriali più influenti, il nuovo sembrerebbe esprimersi in un bisogno diffuso di sostegno nella parola dei grandi del passato, di fiducia in capi carismatici. Mondadori diffonde a basso prezzo Marco Aurelio e Montaigne, Confucio e Chuang-tzu. Forse perché, come qui annota Boero, siamo all’apice del successo della specie, ma “il troppo successo non ci porta a niente di buono”. La rivista britannica «Prospect» ha provato di recente a chiedere a un centinaio di intellettuali, scrittori e artisti cosa vedono sull’orizzonte del secolo.

Ciò che appare evidente è che la visione delle cose resta incerta sui contorni e non consente previsioni sulle distanze; che siamo avvolti in una nebbia percettiva che sfiducia la capacità di uno sguardo revisore; che il dover essere è schiacciato da un vitalismo disperato; che il sapere è ripiegato sulla topografia dell’incertezza. Sembra ad alcuni, questo tutto nuovo, la ricerca di un pensiero conciliativo, di una “cura sui” capace di riconciliarci con la vita riscoprendo il valore dell’otium, del tempo lento domiciliare. Ma Rovatti ci ha avvertito: il soggetto trasformato non è poi così maneggevole, e lo stesso “prendersi cura di sé” ci fa poi trovare spiazzati e spaesati: “il frame potenziato diventa una cornice esterna ed estranea e dunque rischiosa una volta affrancata da qualunque controllo oggettivo. Comincia ad abitare questa distanza da se stesso” (P. A. Rovatti, La filosofia può curare?, Milano, Cortina, 2006, p. 75). Fulvio Papi ci accompagna con levità nella microgenealogia di una scrittura che ha percorso tutte le tappe evolutive della trasformazione tecnologica del leggere, dello scrivere e del filosofare. Resta, sullo sfondo, la grande maladie del Novecento. Neo, l’eroe post di Matrix evocato da Formenti, scopre che la sua mente vive nel passato, mentre il suo corpo abita un miserabile reale, il presente, creato dalle macchine. Egli dovrà “ricordare” la sua vera natura per dissolvere l’incubo, ed è difficile, incalza Formenti, stabilire dove stia la vera realtà e dove l’illusione. “Forse i mondi s’incastrano all’infinito l’uno nell’altro, senza permetterci di scoprire in quale di essi dimori una verità”. Forse non ci restano che rivoluzioni tautologiche, sostiene a sua volta Barile, il cui cambiamento sta nella diversa computazione di elementi preesistenti, e la stessa vulgata sulla comunicazione che avrebbe dovuto salvare il mondo, ridurre i conflitti, “si limita a trasfigurarli all’interno dei suoi circuiti”. “Il mondo concavo che viviamo impedisce a qualsiasi avvenimento di evadere dal presente, di astenersi dall’accadere: tutto si deposita sul fondo giacché tutto è fondo” e la prospettiva temporale tra past present and future “non solo è stata invertita, ma si è irreversibilmente confusa”. L’ultima parola alla poiesi creativa, alle idee e ai mestieri che debbono attivare un immaginario che dia linguaggio alle emozioni e slancio allo sguardo della ragione. Uno spazio di discussione tra interpretazioni sul ruolo svolto

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Giddens ha risposto che abbiamo scatenato forze che potremmo non saper più controllare. As Byatt ha invece allertato sul populismo di blog e internet, che potrebbe condurre a una nuova tirannia delle maggioranze, mentre Michael Ignatieff si è cautelato col principio della imprevedibilità e John Lloyd ci ha confermato in ciò di cui ci eravamo accorti da un bel po’, ossia che sinistra e destra non hanno più senso e che alcune delle nuove divisioni che dovremo fronteggiare sono già presenti e stanno tra chi ha e chi non ha, tra le certezze di non poter più disporre dei beni di prima necessità, dei quattro elementi dell’antica filosofia jonica. E si potrebbe continuare.

Questo numero

6 Quaderno di comunicazione

Caiulo e Pallara nel disaminare le tendenze dell’architettura postmoderna, che nulla di davvero nuovo si dà all’umano sotto lo stesso sole? Cos’è davvero nuovo al tutto e quali forme riusciamo a immaginare nelle sagome indistinte che la nebbia in cui sembriamo avvolti in qualche tratto dirada?


a. s.

9 ÁGALMA Testatina

8 Quaderno di comunicazione

dalla science fiction (Brancato e Formenti). Ma in quale liquido amniotico si allevano i precog precognitori di futuro? Reinventare l’invenzione è una necessità, visto che l’invenzione continuamente esaurisce il suo potenziale di innovazione ma che per esser tale deve eccedere l’ordine costituito; deve sorprendere e tuttavia rispettare quell’ordine che le conferisce il suo statuto di invenzione. Vale per la scienza come per l’arte, le arti narrative, la pubblicità, esaminate nel loro incerto incedere negli ultimi tre saggi del fascicolo. Questo ulteriore paradosso, che sta nella traccia di Derrida riproposta da Vitale, ci aiuta a collocare il nuovo (che si trova nel già dato) nella contraddizione che ogni volta si rinnova, dal momento che ogni nuovo che l’invenzione produce deve farsi istituzione per essere riconosciuto. Virilio, qui evocato da Brancato, parlava di mutazione dello sguardo. E questo sembra in qualche misura il punto di convergenza dei logoi dissói nell’avvio della nostra discussione sulle variazioni grandi. Il sempre-nuovo richiede una rimodulazione dell’occhio che si poggia sulle cose; uno stazionamento accanto a esse perché tornino a parlare e a raccontare: un tema che incrocia sguardi diversi nelle Tessiture. L’arte contemporanea richiede un diverso spazio di osservazione, osserva Centonze, e Martini racconta dello sforzo di costruire una didattica dei media che, attraverso la loro quotidiana azione di mediazione, contribuiscano significativamente alla costruzione del mondo. Una rimodulazione continua di sguardi e di linguaggi richiede il tutto-e-semprenuovo della pubblicità, osserva a sua volta Semeraro, per il quale il creativo “è un samurai che lotta nella contemporaneità con la contemporaneità”. La creatività non è un dono degli dei, ricerca di ispirazioni, ma rieducazione dello sguardo esterno e dell’occhio interiore (il terzo occhio di Eduardo); potenza fragile e ironica delle mille-e-una-storia per sottrarre alla tanatocrazia la sua pretesa di legittimità. Restano sullo sfondo alcune radicalità: la dissoluzione di un umanesimo del logos parola-pensiero (Abruzzese), sempre attivo nella corrosione e corruzione dello sguardo liberato. Abruzzese accetta la traccia umanistica suggerita da Machiavelli solo a patto di accantonarla per poter guardare sul post umanoumanistico, mentre Ponzio, per vedere l’altro/Altro deve assumere il propriamente umano scavando vichianamente nell’etimo dell’humus/humilitas. Lo sguardo sull’individuo, aperto da Poissenot a una nuova invention de soi, può arricchirsi solo se guadagna una dimensione aperta sull’Altro per poter vivere “liberi e insieme”.

Il del tutto nuovo


Augusto Ponzio La riproduzione dell’identico

La comunicazione si presenta oggi come comunicazione mondializzata. Essa inoltre ha un carattere pervasivo: l’intera riproduzione sociale è comunicazione. La comunicazione non si esaurisce nel momento intermedio fra produzione e consumo, cioè la circolazione, lo scambio, il mercato, ma investe, permea, l’intero sistema di produzione. Quando qui parliamo di comunicazione mondializzata, non ci riferiamo soltanto all’estensione planetaria della comunicazione. Questo è il significato, per così dire, “sociologico”, “politologico” di tale espressione, e, dato il fatto che si tratta di comunicazione-produzione, anche “economico-politico”, in base al quale significato la mondializzazione della comunicazione riguarda il fatto che oggi tutti i programmi dei comportamenti fanno parte della semiosfera della comunicazione, la cui rete è ormai capace di tenere tutte le culture, tutte le lingue, tutte le produzioni del pianeta Terra. A tale significato è possibile aggiungerne un altro, di ordine, potremmo dire, filosofico, secondo il quale comunicazione mondializzata significa comunicazione adeguata al Mondo, funzionale a esso, inserita in esso e a esso perfettamente aderente. Una fondazione della critica della comunicazione mondializzata non può assolutamente prescindere da tale significato filosofico collegato con la nozione di Mondo. La comunicazione totale contiene qualsiasi cosa, qualsiasi merce (e bisogni e idee connesse): possiamo dire che il mercato in questo senso ha una portata “universale” volendo indicare con questa espressione la disponibilità generale all’essere merce. Il Mondo è indissolubilmente legato alla politica, già in quanto proiezione, piano, in quanto spazio della soddisfazione dei bisogni, alla politica come visione totalizzante e organizzazione funzionale, come strategia della produttività, dell’efficienza, come atteggiamento aderente alla realtà, come garanzia nel conatus essendi, come mediazione dell’inter-esse tanto di soggetti individuali, quanto collettivi, come consapevolezza e gestione del divenire a partire dalla visione realistica del presente e mediante il riadattamento a essa del passato, come amministrazione razionale della durata, come economia del perdurare, del persistere, del progredire nell’essere, a qualsiasi costo. Anche a costo della extrema ratio della guerra, che fa parte del Mondo, è prevista in esso, rientra nella sua logi-


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dell’essere dell’uomo, un umanesimo dell’alterità, dell’altrimenti che essere. La questione non è dunque una questione di “alternative”, è questione di alterità: alterità rispetto ai generi, alle identità, ai ruoli, all’essere questo o all’essere quello. Alternativa è essere altrimenti, alterità è altrimenti che essere, messa in questione dell’essere, non solo dell’essere così, ma dell’orizzonte stesso dell’essere, dell’ideologica dell’essere, che è quella dell’appartenenza a generi e specie, l’ideologica della sostanza e degli accidenti, del subjectum, del soggetto e dei suoi predicati, dell’apofantica, della proporzione giudicativa, del paradigma, del segno come segno di differenza, come tratto distintivo di opposizione; l’ideologica dei luoghi, dell’appartenenza, dell’archè, delle origini, delle radici; l’ideologica dei luoghi del Discorso. Rispetto al dominio del mondo da parte del capitale, al neoliberismo, alle nuove forme di imperialismo, al “processo di mondializzazione capitalistica comandato dalle grandi corporazioni multinazionali e dai governi e istituzioni internazionali al servizio dei loro interessi con la complicità dei governi nazionali” (Carta dei Principi del Forum sociale mondiale approvata dal Consiglio internazionale dell’FSM il 10 giugno 2001), non ci sono alternative. L’alternativa fa parte del Paradigma, richiede il Soggetto, fa parte della logica del Genere, si situa nei luoghi dell’Essere, del Mondo, nei luoghi del Discorso, come dei luoghi del Discorso fanno parte espressioni quali “nuova tappa della storia del mondo”, “globalizzazione solidale”, “diritti universali dell’uomo”, “cittadino/a”, ”democrazia”, “sovranità dei popoli”. Un effettivo “spazio di incontro aperto”, vuol dire fuori luogo, fuori genere, fuori dal Mondo, fuori da ogni luogo del Discorso, fuori dal paradigma, fuori da ogni paradigma. L’Uomo, la Società Civile, l’Individuo, il Soggetto, le Classi, le Etnie, le Razze, i Sessi, i Popoli, l’Eguaglianza, il Lavoro, la Libertà, la Democrazia, la Solidarietà, i Diritti universali dell’Uomo, la Sovranità dei Popoli: è questo lo stesso armamentario concettuale a cui si è fatto e si fa appello in nome della Storia, in nome della Realtà nelle “guerre giuste e necessarie” di sempre, nelle “guerre umanitarie”, nelle “guerre preventive”. L’imperialismo, la globalizzazione del capitalismo, il neoliberismo esportano la Democrazia e la Libertà, difendono la Sovranità dei popoli e i Diritti dell’uomo e favoriscono le iniziative di umanizzazione. Non è solo un disincantante gioco di parole che il contrario di “assoggettamento e sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo” sia la stessa cosa. I Diritti dell’Uomo lasciano fuori i diritti altrui, sono i diritti dell’Appartenenza, dell’Identità, dell’Io, i diritti dell’Espunzione dell’Altro. Nei luoghi nell’Ordine del Discorso dominante, tra l’uno e l’altro, è l’altro che assoggetta e sfrutta, e l’uno, il Medesimo, lo Stesso, deve essere difeso, in nome dei Diritti dell’Uomo, con tutti i mezzi necessari. Bisogna uscire da questi luoghi: delocalizzazione, dislocazione non in senso geografico, ma in rapporto al Discorso. In nessun luogo del Discorso: questo lo spazio aperto dell’incontro, che dunque, come tale, non può essere incontro di Istanze, di Organizzazioni, di Associazioni, di Movimenti, di Soggetti, di rivendicazione dei diritti del Medesimo. Il singolo: sta qui la possibilità dello spazio di incontro aperto, del fuori luogo, del fuori genere. Il singolo è fondamentale, ciò che sta al fondo; è il

Augusto Ponzio

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ca, nella ontologia del conatus essendi. La svolta segnata dalla guerra del Golfo nel 1991 è consistita nel ripristino dell’idea (e della pratica) – che, dopo la seconda guerra mondiale, sembrava anacronistica – della guerra come “mezzo giusto e necessario” di soluzione dei contrasti internazionali. L’accettazione dell’idea della guerra, nell’attuale sistema di comunicazione produzione, è indispensabile alla produzione e circolazione della guerra, a sua volta indispensabile alla produzione e circolazione di armi, all’industria bellica. Comunicare la guerra significa le due cose insieme. Il Mondo prevede la guerra, perché, costitutivamente basato sull’identità, funzionalizza, per il mantenimento, per il rafforzamento, per la durata, per la riproduzione, allargata, del medesimo, ciò che è altro; esso è pronto, è predisposto, al sacrificio dell’alterità in funzione dell’identità. La pace è momentaneo riposo, reintegrazione delle forze, tregua, che segue alla guerra, come sua necessità di “ritorno a casa”, come preparazione e possibilità di minaccia della guerra, come il riposo, il tempo libero, la notte, è funzionale alla ripresa del lavoro, alle necessità del giorno. La pace vive della e per la guerra, come il riposo, la notte, vive del e per il lavoro, per il giorno. Negli scritti del 1975, Pasolini (1976), affrontando il “problema italiano” in seguito al veloce inserimento dell’Italia nel sistema mondiale della comunicazione-produzione, evidenziava la sempre maggiore identificazione dei comportamenti, delle idee e persino dei desideri delle persone appartenenti a strati sociali diversi, in seguito all’omologazione della comunicazione, che ha nel consumismo la sua più vistosa espressione. Il dominio dell’identità è tale che ogni forma di rivendicazione è basato sulla identificazione: avere gli identici diritti di chi comanda, le identiche opportunità, l’identica vita, l’identica felicità di chi detiene il potere. Ciò crea un universo comunicativo in cui al massimo sono possibili alternative, ma in cui il meccanismo dell’identificazione, dell’omologazione esclude, diceva Pasolini, ogni alterità. A un mercato universale, corrisponde una comunicazione universale che esprime gli stessi bisogni, le stesse esigenze, gli stessi desideri, gli stessi immaginari. La questione – questione filosofica, a partire dalla quale soltanto è possibile una effettiva critica della comunicazione mondializzata – è se non vi sia altro senso che nel Mondo e per il Mondo, se il propriamente umano (dove humanitas deriva vichianamente da humus come humilitas, e non da homo nel senso di genere) non fuoriesca dallo spazio e dal tempo della ontologia, se non sussistano rapporti irriducibili alla categoria dell’identità e che non abbiano nulla a che vedere con quelli fra soggetto e oggetto, o di scambio, di equiparazione, di funzionalità, di interesse, di competitività, di produttività; se non vi siano rapporti interumani che siano tutt’altro, ma non appartengano a un altro mondo né a un’altra dimensione dell’essere come modalità di essere altrimenti. Farebbero parte invece di ciò che Lévinas (per un’esposizione del pensiero di Lévinas, v. Ponzio 2002) chiama l’altrimenti dell’essere, fuori dall’ontologia, fuori dal Mondo, e tuttavia rapporti materiali e terreni, a cui apre il proprio stesso corpo: una trascendenza terrena rispetto al Mondo, un senso altro rispetto a quello intramondano, un umanesimo diverso da quello dell’identità,


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autarchico, indifferente, ciò che Lévinas indica come le Même, “il medesimo, l’identico”, con il suo interesse, il suo conatus essendi, il suo egoismo. “Individualità propria”, padronanza, identità, egoismo, potere, non costituiscono nulla di nuovo rispetto alla realtà dell’individuo e della forma sociale che produce e riproduce questa astrazione. L’unico di Stirner, l’“individuo proprietario” il Soggetto, è, in fin dei conti, l’individuo della società borghese capitalistica, composta da monadi e in cui ognuno è in rapporto con l’altro solo per il proprio utile, in cui il più forte sfrutta il più debole, sicché Marx ed Engels, nell’Ideologia tedesca, ascrissero a Stirner il merito di aver descritto questa forma sociale e specificamente le ambizioni del piccolo borghese di diventare un borghese autentico. L’unione degli egoisti di Stirner non ha bisogno di essere realizzata: essa è l’attuale società ridotta a comunità quale risultante passiva degli interessi di identità reciprocamente indifferenti. L’unico di Stirner è “l’uomo del sottosuolo” che Dostoevskij raffigura nella sua presunzione di autosufficienza mostrandone al tempo stesso, nella sua stessa parola, il suo coinvolgimento, suo malgrado, con l’altro, l’impossibilità dell’indifferenza nei suoi confronti (v. Bachtin 1929). Dell’unico di Stirner Dostoevskij, nei destini di alcuni personaggi dei suoi romanzi, mette alla prova e smentisce le pretese, mostrando l’impossibilità di sottrarsi alla responsabilità nei confronti dell’altro, al dover rispondere dell’altro e all’altro. Stirner confonde, e usa indifferentemente “individuo” e “singolo”; contrappone al genere l’individuo, che, invece, per sussistere come tale ha bisogno proprio dell’astrazione del genere, contrappone l’essere “uomo”, all’essere “se stesso”, il che è semplicemente il passaggio da un genere ampio a qualche genere più ristretto secondo cui esibire la propria identità; richiede la valutazione dell’individuo non generatim, ma privatim riproponendo la separazione vigente tra individuo pubblico e individuo privato. Tuttavia, troviamo in Stirner la critica all’illusoria pretesa del giovane Marx di poter cambiare le cose appellandosi all’uomo come genere e operando per la trasformazione dell’uomo egoista in “uomo generico” in “vero essere generico” (Gattungwesen). Troviamo in Stirner la critica dell’opposizione “umanoinumano”, con tutti gli alibi che tale opposizione comporta ai fini di stabilire i limiti della tolleranza (“la tolleranza ha un limite!”) e la negazione, segregazione ed eliminazione dell’altro. Vi è, inoltre, in Stirner la critica del rapporto con l’altro concepito come rapporto dovuto a qualche comune appartenenza, a qualche legame; inteso come rapporto di eguaglianza, di fratellanza, come rapporto tra simili, come dovuto all’essere parte di una stessa comunità, o all’esser rappresentati della stessa essenza, espressione dello stesso essere. La critica di Stirner a Marx e al comunismo può anche valere nei confronti dell’individuazione, da parte di Marx, del Soggetto liberatore in un ente generico parziale, la classe, precisamente la classe del proletariato. Infatti, come sappiamo Marx riterrà a un certo punto di non doversi più appellare a un soggetto universale, come l’uomo in generale, l’uomo come ente generico – dietro cui si nascondono, in effetti, astrazioni e generi parziali prodotti dalla stessa forma sociale alienante da cui si progetta l’emancipazione – ma a un soggetto parziale, uno

Augusto Ponzio

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punto di partenza senza origine, punto di partenza originario, punto di conversione, proprio in quanto punctum, malgrado qualsiasi costellazione in cui possa apparire inserito. Il singolo come fuori Soggetto, senza Genere, o sui generis, che fa genere a sé, senza appartenenza, senza comunità (la Geimeinschaft del lessico nazista, che subentra a Geselschaft), senza Essere-con (il Mit-sein heideggeriano), senza comunione, senza fratellanza e sorellanza, senza Noi. Non ognuno, ma ciascuno, nel suo rapporto con ciascun altro, nel suo rapporto di singolo a singolo, di altro ad altro, nel rapporto faccia a faccia, fuori ruolo, senza origini, senza principi, senza archè, in questo senso anarchico (Lévinas), fuori dalla responsabilità protetta da alibi, senza possibilità di delega, in rapporto diretto, senza mediazioni, con l’altro, a volto scoperto, come differenza non indifferente, come implicato senza scampo, senza ripari, nel destino dell’altro, come esso stesso altro, come alterità non espunta, non sacrificata a qualche identità. L’incontro è di singolo a singolo, di altro ad altro, un incontro senza convocazioni, senza appuntamenti, senza assembramenti, senza adunanze, incontro di ogni giorno, quotidiano. Sta qui “il del tutto nuovo”, il del tutto sempre nuovo. La manifestazione è manifestazione del volto nudo, di fronte al quale viene a cadere ogni responsabilità protetta da alibi: manifestazione senza rappresentazione. Il Discorso, il Genere, il Ruolo sono lasciati cadere e il singolo si trova di fronte il volto disarmante dell’altro, senza possibilità di rifugio nella buona coscienza. La conversione delle cosiddette strutture sta nell’altrimenti che essere della parola originaria, la parola del tutto nuova, come fuoriuscita dall’Ordine del Discorso, nell’altrimenti che essere del rapporto di singolo a singolo, di incommensurabile a incommensurabile, rispetto ai rapporti funzionali alla riproduzione della “realtà”, della ideologica totalizzante e riduttiva a essa complementare. La resistenza ai processi in corso di “disumanizzazione” o di umanizzazione disumanizzante (aiuti umanitari, interventi umanitari, guerre umanitarie: “umano troppo disumano”! (Umano troppo disumano è il titolo del prossimo fascicolo di «Athanor», anch’esso edito da Meltemi), è resistenza del singolo, nel suo rapporto di altro con altri, è incontro quotidiano con l’altro per la costruzione di un nuovo umanesimo, un umanesimo dell’alterità. È questa l’effettiva possibilità fuori genere o sui generis di resistenza e di alterità al dominio del capitale e a ogni forma di imperialismo, l’effettiva possibilità di costruzione di una società planetaria basata sulla differenza non indifferente di ciascuno verso ciascun altro e di ciascuno nei confronti della vita dell’intero pianeta. L’individuo fa parte del genere, fa parte di un insieme, ed è relativamente altro, è sostituibile, intercambiabile, del tutto indifferente per il genere cui appartiene; solo il singolo è assolutamente altro, è unico. La sua unicità si rivela come volto. Dove sta la differenza con l’Unico di Max Stirner? Ho dato alla prefazione del mio libro di prossima pubblicazione presso Meltemi (Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico) il titolo L’unico e la sua alterità, proprio in riferimento, e in contrasto, al titolo del libro di Max Stirner. Per Stirner l’unico è l’individuo, “l’individuo proprio”, il soggetto autosufficiente,


Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

«Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2003, n.s., 6, Nero, a cura di S. Petrilli, Roma, Meltemi. «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2003-2004, n.s., 7, Lavoro immateriale, a cura di S. Petrilli, Roma, Meltemi. «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2004, n.s., 8, The Gift, a cura di G. Vaughan, Roma, Meltemi. «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2005, n.s., 9, Mondo di guerra, a cura di A. Catone, A. Ponzio, Roma, Meltemi. «Athanor. Semiotica, Filosofia, Arte, Letteratura», 2006-2007, n.s., 10, White Matters / Il bianco in questione, a cura di S. Petrilli, Roma, Meltemi.

17 La riproduzione dell’identico

voro indifferenziato e nella necessità del lavoro utile. Da una parte il tempo in funzione dell’essere, l’essere proprio del valore d’uso, del bisogno, e l’essere astratto del valore, della produttività; dall’altra il tempo dell’“altrimenti che essere”, il tempo disponibile per l’alterità, propria e altrui, il tempo che ha un’effettiva consistenza, una sua materialità, perché non è tempo del medesimo: sia tale medesimo l’identità individuale, l’identità nazionale, l’identità del sistema di produzione, l’identità di classe, l’identità internazionale del lavoro astratto (l’internazionalismo proletario), indifferente. Esso è invece il tempo dell’altro, di ciò che resta irriducibilmente tale rispetto ad ogni astrazione, ad ogni identità, ad ogni differenza-indifferenza. Ed è questo tempo, accresciuto dalla automazione, dal processo di fine del lavoro messo in atto dall’espulsione della forza-lavoro da parte del capitale fisso, che può configurare, rispetto alla forma sociale basata sulla compra-vendita del lavoro, il del tutto nuovo. Il rapporto con altri è l’effettivo accesso all’esterno dell’essere, dell’esserecosì del Mondo; l’inevitabile condizione della possibilità di emancipazione dalla “Realtà”, dall’identità, dall’appartenenza, dalla genealogia, dalla Storia. Senza questa possibilità di uscita, l’io resta inchiodato all’essere, al suo essere anagrafico, a quello dell’ordine delle cose, dei luoghi del discorso, che gli fa dire chi è, che cos’è; fino alla negazione di ogni scarto rispetto all’essere che lo identifica, fino alla piena aderenza e adesione a esso, alla sua completa identificazione con esso. E nulla possono le libertà politiche, le istituzioni democratiche, lo “stile di vita” di una civiltà, i diritti conquistati nel corso di una tradizione e divenuti patrimonio storico. Perché, per quanto essi siano stati realizzati e difesi in nome dell’umanità, si tratta in fin dei conti dell’umanità identitaria, concepita, nella sua astrazione, negando l’altro, costituita nell’indifferenza all’altro. Affinché i diritti altrui non risultino estromessi dai diritti umani è necessaria un’umanità (ripetiamo, da humanitas, e non Homo come genere) senza genealogia, senza genere, senza unificazione, senza archè, umanità come accoglienza, ospitalità, ascolto dell’altro.

Augusto Ponzio

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dei generi parziali in cui gli individui si trovano inclusi passivamente in base ai loro interessi separati. Questo soggetto generico parziale, questa astrazione concreta, in grado di battersi non contro un’ingiustizia parziale, ma contro l’ingiustizia in quanto tale, e per “il completo recupero dell’uomo” viene individuata da Marx nella classe del proletariato. L’individuazione del soggetto emancipante in un soggetto generico parziale, la classe del proletariato, comporta che si ricerchi nell’astrazione del lavoro, il lavoro libero che si vende come forza-lavoro, la stessa liberazione dalla compravendita della forza-lavoro e l’affrancamento dalla mercificazione del lavoro umano. La storia ha mostrato la difficoltà di realizzazione di questo progetto, basato in fin dei conti su due soggetti astratti, parziale l’uno, universale l’altro, il proletariato e l’uomo in generale. Alla luce dello stato attuale delle cose, non si può convenire con Marx sul carattere “liberatorio” del lavoro indifferente e della classe del proletariato di cui esso sarebbe prerogativa. Si sta verificando invece un’altra “previsione” di Marx: la liberazione dal lavoro indifferente – dovuta allo sviluppo stesso della produzione capitalistica tendente strutturalmente all’azzeramento del tempo di lavoro – che però, finché persiste tale forma di produzione, si può presentare soltanto sotto l’aspetto di disoccupazione strutturale. Si palesa tuttavia oggi anche la possibilità di convertire la liberazione dal lavoro astratto, dal lavoro indifferenziato, che attualmemte assume la forma di disoccupazione dilagante e strutturale, in tempo disponibile per l’alterità, propria e altrui. Sicché potrà risultare come misura della ricchezza sociale non il tempo di lavoro (con la sua strutturale riduzione e la conseguente disoccupazione) ma il tempo disponibile (sempre più incrementabile) per l’altro, la possibilità di dare tempo all’altro, l’altro da sé e l’altro di sé. A differenza di quanto sostiene Sirner, l’unicità si costituisce nel rapporto con l’altro, fuori dal rapporto genere-individuo, come rapporto di singolo a singolo, in cui l’io si trova a essere responsabile senza alibi, senza possibilità di deroga e di delega, per l’altro che si mostra come volto. L’unicità non sussiste fuori dal rapporto di alterità; ed è l’altro, nella sua assoluta alterità, che, richiamando l’io alla sua responsabilità senza limiti e senza giustificazioni, lo rende unico. Il rapporto con altri (autrui) come volto, cioè come rapporto diretto, senza le maschere dei ruoli, delle identità, delle appartenenze, comporta l’impossibilità dell’indifferenza, della buona coscienza, della coscienza pacificata, costituisce una sorta di intoppo del conatus essendi, produce il “dis-inter-essamento”, palesa l’inconsistenza delle giustificazioni e delle difese della coscienza trincerata nel proprio inter-esse (v. Ponzio 2006b). La questione del tempo e la questione dell’altro sono tra loro in una relazione indissolubile. Per l’altro, altri, come per il tempo, la domanda impropria è “che cos’è?”, il che dice del loro sottrarsi alla riduzione all’essere, della loro eccedenza, del loro altrimenti che essere. Il tempo del lavoro astratto è il tempo dell’indifferenza, quello del lavoro utile è il tempo della differenza. Invece il tempo disponibile è tempo della non-indifferenza, in cui a un rapporto sociale basato sull’identità, subentra un rapporto sociale di alterità, di altro rispetto ad altri, a partire dalla propria alterità sacrificata nella astrazione del la-


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Bachtin, M. M., 1929, Problemy tvorcestva Dostoevskogo, Leningrad, Priboj; trad. it. e cura di M. De Michiel, 1997, Problemi dell’opera di Dostoevskij, intr. di A. Ponzio, Bari, Edizioni dal Sud. Bachtin, M. M., 2003, Linguaggio e scrittura (saggi apparsi sotto il nome di V. N. Volosˇinov tra il 1926 e il 1930), a cura di A. Ponzio, trad. di L. Ponzio, Roma, Meltemi. Barthes, R., 2002, Le Neutre, Cours et séminaires au College de France (1977-78), a cura di T. Clerc, Paris, Seuil. Heidegger, M., 1927, Sein und Zeit; nuova ed. 2001, Tübingen, Max Niemeyer; trad. it. di A. Marini, 2006, Essere e tempo, Milano, Mondadori. Lévinas, E., 1998, Filosofia del linguaggio, a cura di J. Ponzio, Bari, Graphis. Lévinas, E., 2001, Dall’altro all’io, trad. di J. Ponzio, a cura di A. Ponzio, Roma, Meltemi. Marx, K., 1843, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, «Deutsch-Französische Jahrbücher», 1844; trad. it. 1976, “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”, in K. Marx, F. Engels, Opere complete, III, Roma, Editori Riuniti, pp. 190-204. Marx, K., 1857-58, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Rohentwurf; trad. it. di E. Grillo, 1968-70, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I: 1968, vol. II: 1970. Marx, K., 1968, Matematische manuskripte, testo tedesco con testo russo a fronte, Moskva, Nauka; trad. it. e cura di A. Ponzio, 2005, Manoscritti matematici, ed. critica, Milano, Spirali. Marx, K., Engels, F., 1845-46, Die deutsche Ideologie; trad. it. di F. Codino, 1972, “L’ideologia tedesca”, in K. Marx, F. Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti. Negri, A., 2005, Il filosofo e il lattaio. Stirner e l’unione degli egoisti, Milano, Spirali. Pasolini, P. P., 1964, “Una disperata vitalità”, in Poesia a forma di rosa, in 2003, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, vol. I, pp. 1182-1202. Pasolini, P. P., 1976, Lettere luterane, Torino, Einaudi. Pasolini, P. P., 1993, Petrolio, Torino, Einaudi. Petrilli, S., a cura, 2007, Filosofia del linguaggio come arte dell’ascolto, Bari, Edizioni dal Sud. Petrilli, S., Calefato, P., a cura, 2003, Logica, dialogica, ideologica, Milano, Mimesis. Ponzio, A., 1994, Scrittura, dialogo, alterità. Tra Bachtin e Lévinas, Firenze, La Nuova Italia. Ponzio, A., 1995, Alterità e responsabilità in Emmanuel Lévinas, Milano, Jaca Book. Ponzio, A., 1996, Sujet et altérité. Sur Emmanuel Lévinas, trad. fr. di N. Bonnet, Paris, L’Harmattan. Ponzio, A., 2001, Introduzione a Lévinas, 2001, pp. 7-59. Ponzio, A., 2003, I segni tra globalità e infinità. Per la critica della comunicazione globale, Bari, Cacucci. Ponzio, A., 2004, Elogio dell’infunzionale. Critica dell’ideologia della produttività, Milano, Mimesis. Ponzio, A., 2006a, Produzione linguistica e ideologia sociale, Bari, Graphis. Ponzio, A., 2006b, Fiducia, sicurezza, alterità, «Quaderno di comunicazione. Fiducia/sicurezza», 6, Roma, Meltemi, pp. 35-45. Ponzio, A., 2007, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico, Roma, Meltemi. Ponzio, A, Calefato, P., Petrilli, S., 2006, Con Roland Barthes alle sorgenti del senso, Roma, Meltemi. Ponzio, A., Petrilli, S., 2000, Il sentire della comunicazione globale, Roma, Meltemi. Ponzio, A., Petrilli, S., 2003, Semioetica, Roma, Meltemi. Rossi-Landi, F., 1982, Ideologia; nuova ed. a cura di A. Ponzio, 2005, Milano, Meltemi. Rossi-Landi, F., 1985, Metodica filosofica e scienza dei segni, Milano, Bompiani; nuova ed. 2006, a cura di A. Ponzio. Sebeok, T. A., Petrilli, S., Ponzio, A., 2001, Semiotica dell’io, Roma, Meltemi. Stirner, M., 1844, Der Einzige und sein Eigentum; nuova ed. 1972, Stuttgart, Reclam; trad. it. di L. Amoruso, 1979, L’unico e la sua proprietà, Milano, Adelphi. Vaugan, G., 2005, Per-donare, Roma, Meltemi.

Alberto Abruzzese Variazioni postumane

Il tema che siamo invitati a discutere in questo e nel prossimo fascicolo del «Quaderno di comunicazione» si articola in due passaggi: “il del tutto nuovo” e le “variazioni grandi”, due articolazioni, tuttavia, di un unico passaggio. Da un punto di vista mediologico, “variazioni grandi” pone a mio avviso in primo piano la questione su quale sia il “corpo” su cui le innovazioni tecnologiche dei media hanno operato a partire dalla rivoluzione industriale e dunque dal momento in cui l’accelerazione del tempo e l’intensificazione dello spazio hanno annunciato l’avvento pieno della modernità. Ma è con il destrutturarsi di quest’ultima e delle identità in essa incarnatesi che riusciamo a comprendere quanto i ritmi dell’Ottocento e del Novecento avevano in qualche modo oscurato: l’avvento dei new media – il del tutto nuovo che essi facilitano, liberano, espandono – ribalta il rapporto tra breve e lunga durata. Anzi, è più corretto dire che il nuovo, come emergenza della discontinuità occidentale rispetto al mondo antico, viene ribaltato dal riemergere di ciò che nella lunga durata dell’esperienza quotidiana ha continuato a operare per quanto privata di piattaforme espressive a essa adeguate e dominata invece dalle piattaforme espressive dei sistemi sociali tecnologicamente avanzati. “Il del tutto nuovo” – se lo intendiamo come disponibilità d’uso di esperienze psicosomatiche profonde fornite da un salto di qualità della tecnica – si scontra allora ma anche si incontra con il nuovo come sino a oggi lo abbiamo “inteso”. 1. Devo allora aprire – dopo l’esposizione della materia che per me è da discutere – un giro di valzer sul tema a partire da una sua più esplicita collocazione nelle tensioni tra umano e postumano. Nel dovere trattare le due articolazioni, mi sono domandato se dovessi tentare un approccio alle frasi in questione – “variazioni grandi” e “il del tutto nuovo” – considerandole come le citazioni che sono, dunque riannodando il discorso intorno a Machiavelli, oppure dovessi assumerle come modi di dire comuni, ordinari. Ho deciso che – a volere fornire una base di discussione adatta ad alcuni nodi critici che a mio avviso oggi riguardano i mutamenti più profondi delle piattaforme espressive – risulta più utile “dimenticare Machiavelli” o quanto meno “fingere” di di-


“Nuovo” sta a dire che c’è una dinamica di senso che misura la fluidità più o meno densa delle cose di cui ci serviamo e che abitiamo in base a una differenza valoriale percepibile solo attraverso la ipostatizzazione di un confine non tra il passato e il presente ma tra ciò che nel presente si oppone al passato sino a rifiutarlo, superarlo. Secondo questo modo di percepire le cose e noi stessi dentro o con le cose, la fluidità amniotica del nostro modo di stare al mondo prende a scorrere in una direzione sola, suppone una fonte originaria e una foce sul mare in cui avere finalmente quiete. E quanto più procede nella costrizione di sé dentro questa ossessione per un tempo “anticipato”, tanto più questo scorrere si accelera e non tollera secche, ristagni o barriere. La dimensione del presente è l’unica effettivamente reale e insieme sempre virtuale, inafferrabile cognizione dei punti di passaggio del tempo e non della sua natura incommensurabile (che non significa “grande”), poiché, come dicono i filosofi, l’attimo è già passato prima di essere intuito in quanto tale. Il tempo perde il proprio radicamento nello spazio fisico (la terra in cui ciò che è grande è costretto a lasciarsi vedere o immaginare) e si finisce per sentirne soltanto la mancanza. È come stare sempre sospesi su un precipizio, sul bordo tra presente e futuro, provando la stessa vertigine di chi, posto di fronte alla paura del vuoto, cerca equilibrio dietro di sé, tentando di trattenere il corpo sulla terra ferma, sullo spazio che gli è familiare, noto, e tuttavia che sente svanire, franare, costringendolo quindi in avanti a mani tese, al pari di chi non vede ciò che ha di fronte. Dunque l’essere umano albergherebbe proprio in questa sospensione sempre in movimento ma sempre fuori dal passato e fuori dal futuro (sradicamento che la grandezza non può tollerare, avendo essa la vocazione opposta, e cioè quella di occupare e perpetuare proprio l’intervallo tra la fluidità del presente e le promesse del futuro: quella di edificare spinta dall’intolle-

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ranza per il sentire situato in sé e non in una mappa geopolitica). Quindi i termini designati dall’aggettivo “vecchio” e dall’aggettivo “nuovo” – davvero soglie invalicabili, prive di vie d’uscita che non siano al proprio interno – sono una illusione necessaria, una invenzione linguistica: la costruzione del campo di forze reali – emotivamente presenti – in cui muoversi, percepirsi, comunicare, essere mondo in quanto esserci del proprio stesso agire. In questo campo di forze attrattive la sensibilità umana si è sempre trovata e quindi, dilaniata nella sua oggettiva impossibilità di passato e di futuro, ha sempre avuto il proprio luogo. Il capitale umano è sempre consistito nel prodotto culturale – terra, libro, merce, new media – di questa sua radicale impotenza nei confronti del tempo. La sua vocazione ad abitare e quindi ad avere, a possedere, esprime il desiderio di trattenersi nello spazio e creare le cose necessarie ad arredarne la vuotezza temporale. O addirittura a congelare lo spazio dentro grandi barriere (e, se “piccole”, omologhe alle “grandi”, a esse omogenee). Questo suo desiderio ha la propria matrice nel disagio originario di fronte alla insensatezza del tempo indifferenziato (la lunga durata che non si estingue) e tuttavia emotivamente sempre differente (la lunga durata come sua ricchezza interiore). Nessuno sviluppo possibile a questo riguardo. A svilupparsi secondo rapporti spazio-temporali a esse con-venienti sono state, invece, le innovazioni tecnologiche. Sono stati cioè i progressivi adattamenti fisiologici con cui l’essere umano – il suo esserci, vale a dire la sua appartenenza a una condizione di immersione in altro da sé – ha costruito i propri mondi vitali attraverso l’ambiente esterno, la sua inarrestabile manipolazione e ri-manipolazione. Un processo creativo – una catena di innovazioni illusive – apparentemente unidirezionale ma sostanzialmente interattivo. Un processo di trasformazione che si realizza nei modi di una simbiosi sempre più estesa e intensa tra l’essere umano e il “rimanente” in cui esso è immerso. Un processo poetico che si spinge sino al farsi “passione” della viva carne cresciuta in questo suo doppio movimento tra interiorità ed esteriorità dell’esperienza mondana. Il termine “mondanizzazione” qui non può più sostenere il ruolo che ha avuto nella modernità funzionando come dimensione simbolica del termine “socializzazione”, assai più pertinente sul piano dell’agire economico-politico dello spirito del capitalismo e delle sue “brevi durate” e “intense variazioni”. “Fare mondo” qui perde infatti il significato umanistico che ha avuto nei classici della filosofia e ancor più della sociologia, in quanto movimento di alcune civiltà tecnologicamente evolute verso il mondo terrestre in nome di un essere umano finalmente distaccatosi dalle sfere celesti. Qui invece emerge una sfera di relazioni tra l’umano e il non-umano in cui il mondo inorganico, da essere l’inerte oggetto sottoposto all’agire degli uomini, si è andato con-fondendo in un complesso campo di forze rispetto al quale i linguaggi umani non sono più sovrani e appartengono a una dinamica globale. Essi non abitano più il mondo dall’esterno e neppure stando al suo vertice o al suo centro, ma ne costituiscono uno dei tanti tessuti vitali. Da questo consapevole esilio umano in un inconsapevole appaesamento postumano deriva il traumatico distacco dal mondo

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menticarlo, nonostante egli sia alla radice del nostro stesso modo di pensare il mondo ovvero del mondo inteso in chiave umanistica. Il mondo che ci trattiene. Un mondo ora agli antipodi dell’altro che nel “frattempo” gli è andato crescendo non contro ma oltre: questa è la variazione grande che ci si annuncia dentro. Risulta più chiaro partire dalle frasi in sé, in cui a essere in relazione stretta sono semplicemente due dimensioni: in relazione a “variazioni” il salto congiunto di quantità e qualità che si specchia nell’aggettivo “grande” (dunque trasformando la pertinenza di tale aggettivo da essere dentro un paradigma continuista a diventare segno di una rottura); in relazione, invece, a “il del tutto nuovo” abbiamo una espressione aggettivale, “nuovo”, e una avverbiale, “del tutto”. La prima espressione è con ogni evidenza un sinonimo di moderno, ciò che si definisce nel suo essere al di là dell’antico; l’altra un paradigma della modernità, quello più terribile e nefasto: la Totalità. E questa, se si resta vincolati nella cultura moderna, è in intima connessione con il concetto-dispositivo che la Grandezza esibisce (la società dello spettacolo su questo si è fondata e continua a fondarsi), nonché la misura aurea delle Estetiche classiche e tanto più il loro punto di rottura espresso dalle estetiche del Sublime.


2. Il “del tutto nuovo” c’è, c’è mai stato, potrà esserci? Il richiamo per me più forte di questo motto, pronunciato dalla lunga tradizione occidentale in non poche declinazioni tra loro opposte, riguarda il problema oggi a mio giudizio più drammatico per noi tutti, dominatori e dominati: quale sia la soggettività dei mutamenti tecnologici in corso. Dal riuscire a dare una risposta plausibile a questa domanda dipende la possibilità stessa di valutare se le innovazioni del presente – reti digitali e biotecnologie – abbiano un carattere restauratore o rivoluzionario. Ma ne può discendere anche un dubbio più radicale e cioè se questi criteri di giudizio, parametri oppositivi ereditati dalla Storia, veri e propri canoni del pensiero politico occidentale, siano ancora applicabili. Infine, il risultato più concreto del porsi tutte queste domande dovrebbe venirci in soccorso sul piano – anche questo in verità assai classico e tuttavia umanamente ineludibile, localmente pressante – del “che fare”. In tal senso il campo della riflessione non può che focalizzarsi sulla crisi profondissima delle nostre classi dirigenti, in tutto incapaci di saper fare e del tutto sterili, cioè sperdute in un declino civile che strozza invece che favorire la nascita di nuove élite davvero in grado di agire, di sapere e volere agire.

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La seconda espressione, “del tutto”, evoca il sospetto che il nuovo non sia che in parte davvero tale. Ma lo evoca per rimuoverlo. Sembra distinguere tra un nuovo che non salva e un nuovo che effettivamente fa rinascere. Il rafforzativo “del tutto” ci aiuta a trovare una stretta affinità tra il nuovo e ciò che si suole definire grande, salda in una stessa dimensione il tempo e lo spazio, il mutamento e l’autorità. Offre l’azzeramento di quel margine di senso che ancora impedisce il pieno compiersi del nuovo, il farsi pienamente lieto della buona novella. Annuncio di una nascita e di una redenzione. Non più perfezionamento, un antico che procede avanti grazie a slittamenti progressivi di novità superficiali, ma perfezione. Avvento di un altro esserci dell’umano, dunque di un’umanità che non abbia più nulla a che vedere con la precedente. Un aldilà garantito, sembrerebbe, non dalla continuità ma dalla discontinuità. Questo “del tutto”, volgendo l’attenzione a un margine destinato ad annullarsi nella pienezza che porta a buon fine, preclude tuttavia ogni altra espansione qualitativa, ogni altra possibilità di appartenenza che non sia quella nel segno di un nuovo che chiede prepotentemente di chiudersi in sé una volta ricolmato “del tutto”. E che di questa sutura, di questa saturazione ha bisogno, per farsi un tutto non perfettibile. Un nuovo non rinnovabile. Dunque trattasi di un nuovo che si perde in sé, privato com’è di una diversità con cui confrontarsi, in cui riaprire la propria ferita verso l’esterno. Il “del tutto” che carica di senso il “nuovo” di una cosa o di una persona o di un mondo delimita quindi lo smarrimento dell’umano a fronte del nonumano che gli monta dentro. Il “del tutto” è dunque la spia di una espressione umana, integralmente umana, forma di pensiero assoluta e astratta, che funziona da argine contro il farsi e disfarsi del mondo che ci ospita.

La mia tesi è questa. La espongo in modo rudimentale. a) I grandi snodi della storia umana sono stati possibili sulla base di un netto salto di civiltà, di mutamenti sociali che si sono fatti praticabili grazie a una innovazione tecnologica in grado di essere espressione di una soggettività nuova rispetto alla precedente (è ovvio che l’accezione di innovazione tecnologica ruota per me intorno alla definizione di tecnologia come protesi umana e conseguentemente di medium come corpo-mente in espansione; ne consegue che in questa accezione si possono comprendere anche potenti innovazioni dello spirito come ad esempio l’“invenzione” di una religione, l’instaurazione di un sistema di potere più efficace). b) Viste da lontano, queste mutazioni umane – che pure, prima dell’avvento del cristianesimo, hanno richiesto milioni e poi millenni per realizzarsi – appaiono fortemente caratterizzate a partire da un diverso modo di abitare, di costruire e vivere il proprio mondo di appartenenza. I salti di civiltà di lunghissimo periodo sono definiti dunque dalla diversa soggettività, ad esempio, di un mondo fondato sulle tecnologie del nomade rispetto a quella di un mondo trasformato dalle tecnologie del contadino. c) Con i regimi religiosi monoteisti e la loro superiorità sociale rispetto alla crisi dei regimi politeisti, siamo alla genesi della modernità. Inutile qui che ne riassuma le tappe: gli ultimi passaggi epocali da tenere presenti sono ovviamente il mondo creato dal Principe del Rinascimento attraverso il libro, il territorio urbano e le vie di commercio, tutti strumenti che iscrivono nel proprio ordine la figura dell’essere umano come “cittadino”; le forme dei regimi aristocratici che danno origine alle nazioni ispirandosi alle leggi immutabili di Dio e della loro incarnazione nel corpo del re; infine la rivoluzione borghese, una soggettività tanto nuova nell’anima da emarginare in modo sostanzialmente irreversibile la precedente, spogliarla della sua sovranità in cambio di quella, politicamente più efficace, del popolo. d) Visti da lontano, questi processi metamorfici costituiscono differenze clamorose, sostanziali salti di qualità dei rapporti sociali che si succedono nel tempo, e tuttavia essi sono ormai inseriti in un percorso storico coerente, in modelli di sovranità sul mondo e i suoi conflitti, nonché in innovazioni tecnologiche, che nella sempre più rapida loro successione rivelano i traumi di una rivoluzione permanente, ma di una rivoluzione che resta all’interno di una sola tradizione assai più che mettere a distanza mondi incommensurabili tra loro. e) A partire dalla soggettività borghese che avvia i mondi della sfera pubblica assistiamo ad azioni sovversive profonde ma comprese e comprensibili dentro un destino comune: dall’individualismo avventuroso e romantico, alle classi borghesi e alle loro etiche della produzione, alle identità collettive, rivoltose tanto nella loro forma indistinta di folla metropolitana quanto nelle loro aggregazioni identitarie di classe, sino alla metamorfosi del cittadino – e dei suoi diversi ruoli, ivi compresi quelli intellettuali e quelli operai – in consumatore degli spettacoli di massa e sempre più in abitante dei mondi televisivi, corporeità multisensoriale.

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presente che i linguaggi sociali attraversano, ritenendo di potere continuare a distinguersi dalle sfere espressive che intendono governare.


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mente antistorico e antisociale, premono sempre più sulla ri-qualificazione delle innovazioni digitali, allora assisteremmo a qualcosa di simile ai grandi passaggi epocali da una civiltà all’altra del genere umano, a mutazioni pari alle rivoluzioni che hanno segnato la differenza tra nomadi e contadini, tra mondo antico e mondo moderno. Il significato che noi moderni abbiamo attribuito alla parola rivoluzione è incardinato non tanto in una trasformazione sostanziale dell’abitare quanto piuttosto nella presa del potere – in uno stesso abitare, dentro il mondo così come è – da parte di chi prima era nella posizione di suddito o subalterno o vittima. Qui, invece, rivoluzione significherebbe effettivamente un nuovo mondo, reso possibile dall’emergere di un’altra soggettività in luogo di quella conosciuta, di un sentire inesprimibile e inespresso nel mondo che la ospitava dentro le strette trame di un linguaggio non suo. i) Ma il quadro di possibilità appena tracciato è stato da me condotto come se i tempi necessari al suo compiersi potessero essere visti da lontano, in una sorta di veduta aerea in cui le distanze si accorciano e il senso è dato dalle vedute di insieme. Proviamo allora a dire la stessa cosa in modo diverso. I regimi di senso del presente sono divisi tra quelli di una società fondata ancora sui linguaggi della modernità e una vita quotidiana che se ne allontana sempre di più. Basta pensare a ognuno dei motivi di rammarico espressi dalle istituzioni culturali e dalle politiche dei sistemi di potere nei confronti delle loro “popolazioni” di riferimento: perdita di solidarietà civile, perdita di memoria storica, perdita di identità culturale, di capacità espressive, di partecipazione nazionale. Si tratta di processi di disgregazione delle basi sociali di un regime di potere e in quanto tali agiscono trasversalmente anche sugli apparati normativi e professionali che li dovrebbero contrastare. l) La società civile si restringe e impoverisce, le sue classi dirigenti si spengono, le élite che vi si vanno riproducendo gestiscono un mondo che si va devitalizzando e che tuttavia continua a essere, grazie ai mezzi espressivi che possiede e controlla, l’unico mondo che il modo di vedere moderno, il suo linguaggio globalizzante e totalitario, rende visibile, rappresentativo, attuale, attualizzabile. In una parola, “politico”. Dalla realtà di questo mondo – realtà costruita su impalcature obsolete ma al momento ancora trionfante nonostante la miseria delle sue élite – si sta sempre più distaccando il movimento reale della vita vissuta, dell’esperienza situata, del sentire locale, interiore. Di linguaggi relazionali dotati di poca storia e molta passione, privi di grandi narrazioni ma ricchi di conversazioni e simulazioni continue, sincrone e asincrone, di intrattenimenti in ogni dove. Se un tempo le sfere sociali emergenti producevano avanguardie in grado di dirigere il ricambio delle classi di governo, ora questa forma di produzione verticale delle forme di ricambio dei linguaggi di potere non può essere agita come un tempo. Certamente non più nei luoghi storicamente deputati alla formazione delle giovani generazioni. Nello spazio esterno ai dispositivi di socializzazione dei sistemi moderni, la ricerca scientifica di cui tali sistemi dispongono non produce più significati traducibili al loro esterno. Questo vuoto di comunicazione annuncia un lungo periodo di transizione, la durata necessaria alla elaborazione di meccanismi che, nelle nuove

Alberto Abruzzese

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f) A garantire l’accomunarsi di tutte queste rivoluzioni in una sola dinamica di sviluppo dello stesso corpo sociale sono state le tecnologie della scrittura: la sua soggettività espressiva – i linguaggi che caratterizzano le sue piattaforme comunicative – ha inglobato in sé la diversità dei soggetti emergenti sui territori dello sviluppo industriale. Per fare funzionare questo ragionamento bisogna adottare la distinzione che McLuhan pratica non tra scrittura e immagine, ma tra linguaggi del vedere e linguaggi del sentire. Un unico processo di occidentalizzazione del mondo è legato insieme dalle trascrizioni dei testi antichi, dalla stampa in lingue volgari dei libri sacri, dalle gazzette settecentesche nei caffè, dagli apparati di alfabetizzazione e istruzione delle masse, dal romanzo borghese e dalla letteratura d’appendice e di divulgazione, dalle sceneggiature per la produzione cinematografica e infine per la fiction televisiva. Le declinazioni della soggettività moderna in homo sapiens (le forme del razionalismo strumentale), poi videns (le forme ostentative dei linguaggi dello schermo) e poi ludens (le forme esperienziali dei consumi diffusi) appartengono tutte all’homo scribens, riguardano cioè una intertestualità sociale di tipo alfabetico. La posizione attuale della politica sta tutta ancora sospesa tra la natura esclusiva della scrittura, che lega a se stessa le élite, e la capacità inclusiva della messa in scena immaginifica, che alle stesse élite serve per avere consenso. Ogni acquisizione di altro da sé da parte della scrittura è una forma di adattamento alla crescita di complessità del mondo messa in opera dal soggetto moderno in quanto artefice del patto sociale – etico, estetico, giuridico – tra scrittori e lettori. Non è un caso che termini settoriali come “restauro” e “valorizzazione” – privilegiati nel campo delle politiche per i beni storici e artistici – siano assurti a rappresentare un intero orizzonte di significati culturali, sempre da rivendicare di fronte ai “barbarismi” di un sentire analfabeta e per ciò stesso ritenuto fattore di distruzione dell’ordine stabilito, generale, universale. g) In quanto proliferazione di forme di comunicazione flessibili, capaci di esasperare le strategie del tempo moderno e delle sue spaziature (globalizzazione), ma anche di dare luogo a relazioni psicosomatiche, direttamente esperienziali (localismo), quindi non mediate dalla scrittura, la fase di negoziazione sociale, economico-politica, dei new media mostra ora apertamente i conflitti di interesse tra una soggettività educata ai linguaggi dell’alfabeto e una soggettività che, pur avendo sempre espresso la sua alterità socio-antropologica, non ha mai potuto disporre di mezzi adeguati a esprimere i propri mondi vissuti. h) Con questo impatto tra una soggettività moderna, che ancora dispone di tutte le sue forme di comunicazione sociale, e una soggettività antimoderna, tanto emergente da caratterizzare i mercati dell’innovazione digitale in una chiave personale, ubiqua e multidentitaria, siamo dunque giunti a una fase particolarmente cruciale. Decisiva. Se a vincere sui mutamenti dei linguaggi della vita quotidiana saranno le forme di controllo della tradizione, avremo allora un salto innovativo interno alla stessa cultura socio-antropologica, l’affermazione di una soggettività multipla e tuttavia esclusiva, imperiale anche quando locale. Se, invece, questa soggettività storica non riuscisse a sostenere l’invasione montante delle “altre” soggettività che, con un sentire tendenzial-


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spaziature di un sentire profondamente anti-sapienziale, trovi i modi più idonei a rimpiazzare con qualcosa di assolutamente dissimile la passata funzione delle élite. m) A questo proposito, e per addurre un esempio, il fenomeno dei blog risulta fortemente ambiguo, diviso com’è tra l’insorgenza di pratiche relazionali orizzontali che nascono e si alimentano nell’esperienza reticolare di internet, e la strumentalizzazione (in chiave, per quanto innovativa, sostanzialmente restaurativa) che ceti professionali o comunità strumentali stanno compiendo nel loro tentativo di rigenerare – attraverso internet e la sua apertura a forme di auto-organizzazione – un prestigio perduto a opera dei regimi spettacolari di massa dei media moderni e spintosi a tal punto da inibire le loro stesse funzioni, il loro stesso fondamento. n) La stretta conseguenza logica di queste mie tesi – che sostengono l’idea di una rivoluzione in atto, finalmente espressione di una nuova soggettività in grado di chiudere l’esperienza moderna, ma nei termini di processi di durata così lunga e imprevedibile da sfuggire all’agire politico del presente e dei suoi linguaggi – porta alla estrema rilevanza dei contenuti oggi in conflitto nell’incrociarsi tra forme del vedere e forme del sentire. L’aspetto più preoccupante della situazione in cui versano gli apparati di potere è infatti il loro insistere su contenuti inadeguati, troppo poveri di significato rispetto alla complessità di mondi centrifughi e tra loro muti, ma costretti a vivere in uno stesso pianeta e in regimi di prossimità sempre più forti. o) Che fare? Cominciare a smantellare i luoghi comuni dell’umanesimo, colpire così al cuore le basi della politica occidentale. Strappare il sipario delle strategie moderne mettendo a nudo la sequenza nuovo, grande, perfetto; una sequenza, dunque, che mette al di sopra di tutto un essere umano votato al dominio su ogni altra esistenza in nome della perfezione di cui si può fare portatore, della grandezza che può realizzare. Il nuovo come disordine apparente e domanda d’ordine. La grandezza come apoteosi della proprietà, del mondo fatto cosa. La grandezza del nuovo come compensazione del dolore seppure per mezzo del dolore. La perfezione come promessa rigeneratrice. Come patria che esclude ogni altra patria e paternità. Gesto divino per cui creato e creatore si scambiano di ruolo a patto di non avere antagonisti che rivendichino lo stesso gioco.

Sergio Brancato Scrutare il buio

(…) il pensiero, se si considera la sua configurazione da lungi tramandata, è giunto alla propria fine. Se però tutto questo è vero, allora con una tale fine si è deciso il destino della filosofia, non quello del pensiero. (Heidegger, Filosofia e cibernetica, p. 30)

1. È scontato considerare quanto il riferimento a Machiavelli sia suggestivo, per le nostre coscienze storiche, nella sua qualità di inevitabile rimando a una fase di transizione epocale perfino “eccessivamente” chiara e consensuale, una fase in cui hanno trovato luogo radicali dinamiche di mutazione: all’alba del secolo XVI, il filosofo fiorentino annoda i fili di una profonda trasformazione delle soggettività politiche, architettando il nuovo “senno” dell’agire sociale nella forma dello Stato moderno, Stato che richiede una frattura rispetto alla precedente economia individuo/comunità e dunque un’idea di “virtù” che incamera un nuovo sistema di valori, una “visione” del mondo della polis che ridefinisce i contorni del sacro e quindi le finalità esistenziali dell’uomo. A guardarla dal qui e ora, siamo nella prospettiva della Storia (o di una delle molte storie possibili messe a punto come meccanismo di legittimazione del Moderno). A guardarla da un punto di vista premoderno e premachiavellico, siamo sospesi in una condizione di smarrimento, costretti a scrutare il buio. Un’impotenza dello sguardo che torniamo a sperimentare oggi con grande forza, sottoposti a un’annunciata nuova rivoluzione delle forme dell’esperienza mondana, costretti a ripensare le linee “narrative” dei saperi moderni attraverso cui ci siamo raccontati la nostra stessa storia “al fine di” rimodellare le identità collettive e individuali. Scrutare il buio è la condizione del soggetto in crisi, che non è in grado di garantire continuità al proprio orizzonte di senso, non riesce a riformularlo temporalmente. Nessuna forma si coglie nel buio se non quella dei fantasmi, la proiezione inconscia delle paure: l’oscurità funziona come schermo dello spazio interiore, delle pratiche immaginative fondate sull’elaborazione del passato. In tal senso, sebbene in maniera indiretta, il buio si collega alle “variazioni grandi” nella misura in cui ce ne segnala la criticità, la dimensione dissolutiva del conosciuto, la fine – se non del pensiero – delle sue configurazioni storiche. Esso è il sipario ancora chiuso sulla percezione della trasformazione, ciò che genera l’inquietudine dell’attesa. È la crisi che realizza la propria portata, il suo realizzarsi in un tempo breve che tuttavia rimanda a un tempo lungo, il tempo della proiezione della crisi e dei suoi effetti. Questo ricollocare la tem-


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2. Paul Virilio è stato forse lo studioso che maggiormente, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ha indicato nelle mutazioni dello sguardo il punto centrale della critica ai modelli di sviluppo tecnologici e culturali della tarda modernità industriale. In particolare, nei suoi saggi di “dromoscopia” Virilio (1985) prende in considerazione gli effetti della accelerazione dei processi sul rapporto tra soggetto e habitat. Anche nel suo caso, tuttavia, come in altri2, riscontriamo un rifiuto – fortemente sedimentato nel mondo intellettuale – a non considerare la relazione “necessaria” tra la velocità (intesa nel senso di accelerazione positiva) dei processi e l’innovazione tecno-culturale da cui essa deriva. Anche quando spostiamo la riflessione nell’ambito della fruizione estetica, ad esempio, ci rendiamo conto che assumere posizione a favore della “lentezza” – la perduta dimensione dell’intervallo rimpianta da Dorfles (1980) – significa collocarsi ideologicamente in una posizione di conservazione della linearità del tempo e delle sue forme moderne. Anche lo sguardo retroflesso dell’angelo benjaminiano, proiettato sulle rovine lasciate dall’incedere catastrofico della Storia, sembra invece suggerire l’ineluttabilità di un cambiamento, qualcosa che è sopraggiunto a cambiare la logica e la funzione stessa del “vedere” (Benjamin 1955). In questo caso, il buio posto alle nostre spalle è il riflesso imperscrutabile della modernità in rovina, delle macerie delle identità storiche incapaci di cogliersi nel proprio cambiamento, nelle variazioni grandi che possono essere lette soltanto come de-formazione mostruosa dell’immagine del Tempo e dei linguaggi che la rendono interpretabile. La voglia di lentezza, o di intervallo, rimanda dunque a un’idea di tempo in qualche misura “bio-grafico”, ovvero già vissuto e consumato nelle esperienze della carne e dei sensi, ma anche in quelle dell’intelletto e delle filosofie. Esprime dunque il “rimpianto” del futuro inteso come dimensione temporale che garantisce la vivibilità del presente: un meccanismo di protezione che, in una linea di sostanziale continuità con le strategie delle grandi religioni monoteiste, permette di esautorare la pregnanza del presente. Il conflitto che si accende tra il futuro e la sua fine è, per la gran parte, interno alle trasformazioni avviate, e indicate, da ciò che ci ostiniamo a chiamare nuove tecnologie. Se quanto sinora affermato sulla science fiction ha un minimo di attendibilità3, allora dobbiamo considerare che le nuove tecnologie non costituiscono una lacerazione nel tessuto della storia intesa come possibilità di narrazione del tempo lineare. Non sono, in altri termini, le tecnologie in sé a incamerare le variazioni grandi, ma i modi in cui vengono elaborate dalle soggettività che a esse si relazionano per definire un nuovo principio di realtà. Ed è a partire dagli elementi di discontinuità che possono maturare in un nuovo principio di realtà che forse si può cominciare a distinguere nel buio del tempo incompiuto le forme – ipotetiche, aurorali, “fantasmatiche” – di ciò che stiamo qui definendo come “il del tutto nuovo”. D’altronde, l’attesa della trasformazione fa parte della trasformazione stessa. E dunque “il del tutto nuovo” si presenta subito come un’idea paradossale, poiché volta a definire ciò che, simile a una nuova “origine”, può nascere solo a condizione di essere inconsapevole della propria esistenza: “il del tutto nuovo” è solo nella misura in cui non si rende conto di esistere, non se ne pone il

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poralità della “catastrofe” – che riprendiamo dall’elaborazione di René Thom (1980) – è uno degli aspetti più “virtuosi” della science fiction, che si rivela pienamente quale immaginario della modernità nel momento in cui se ne assumono non le pretese profetiche quanto le qualità metaforiche. Essa stessa “variazione grande” e attualizzazione delle originarie sostanze del mito, la fantascienza – ultimo vero “genere” apparso sulla scena dell’industria culturale – è un dispositivo fondamentale nelle strategie delle comunicazioni di massa poiché costituisce l’interfaccia sensibile tra la veloce progressione dei saperi scientifici e la loro circolazione sociale attraverso le divulgazioni dell’immaginazione. In altri termini, le espressioni visionarie della tecnologia (e del portato teorico di questa) garantiscono tenuta in termini di continuità ai soggetti che attraversano il tempo “accelerato” della trasformazione novecentesca, permettendo l’affermazione di quell’atteggiamento di apertura al nuovo, di disponibilità al cambiamento che ha reso possibile l’inedita concentrazione di processi di mutazione in cui ha “abitato” l’insieme delle soggettività cui ancora facciamo riferimento1. La variazione grande di maggior rilievo, infatti, è quella che ha avuto e ha luogo nei brainframe costantemente rialfabetizzati delle generazioni che si sono susseguite sulla scena della società tardo-industriale, un lavoro di incessante e conflittuale riallineamento che ha reso possibile “prendere la mira” sui vissuti del Novecento nel loro farsi. La science fiction ha sempre espresso un portato di speculazione molto accentuato, ricavando i propri margini di funzionalità nella propensione a spostare in modo sistemico i punti di vista su temi e questioni che in altre epoche avevano richiesto ben altre “durate”. Essa ha riproposto l’antico meccanismo dello “sguardo gettato nel tempo”, ma la novità di questo genere rispetto ai grandi calchi narrativi del mito o della fiaba è che la natura del tempo è qui diversa: non più ciclica, ma proiettata in una direzione lineare che – a partire dall’affermazione teoretica del cristianesimo – finalizza il fluire del tempo al conseguimento di uno scopo. Il tempo del Moderno è essenzialmente la relazione organica tra passato e futuro: tra il potere statutario delle origini e il progetto che deve esserne conseguenza attraverso la continuità garantita da vissuti scanditi dalla riproduzione delle identità. Attraverso i codici del mondo fantascientifico – “mondo” che si organizza ben presto in un sistema coerente di regole che non possono essere violate, pena l’esclusione dalla dimensione comunitaria del consumo – i confini tra presente e futuro si rendono labili, permeabili. Nella sua fase di massima affermazione, la science fiction si presenta come introiezione assoluta del futuro nelle coordinate dell’esistenza umana, nella “nuova carne” che anela all’ibridazione con la macchina prima e con il codice poi, svolgendo come genere dell’immaginario una funzione nevralgica nel riassetto dell’idea novecentesca di tempo, un’idea funzionale ai nuovi modelli produttivi e di socializzazione. Ma la conseguenza di tale processo è sfociata, forse inevitabilmente, in quella indifferenziazione sostanziale tra presente e futuro che per molti costituisce l’elemento cardine della condizione postmoderna.


3. Il vero orizzonte delle derive fantascientifiche si colloca, infatti, altrove. Ad esempio, nelle pratiche diffuse di interazione tra soggetti che si riscrivono sul piano strategico delle identità individuali e collettive attraverso un quotidiano fatto di invenzioni comunicative continue, superamento delle antinomie moderne (come quella, appunto, tra corpo e mente), nuovi linguaggi che implicano una ri-funzionalizzazione del corpo, una sempre più spiccata introduzione di questo nell’habitat tecnologico e culturale architettato dalla più ampia sperimentazione sociale che si ricordi. Il fatto che neanche la fantascienza sia stata in grado di anticipare plausibilmente le traiettorie di fuga che l’emergere delle nuove tecnologie prospettano nei riguardi delle immaginazioni e delle stesse prospettive di sviluppo della modernità, è indicativo di quanto il processo di trasformazione in atto sia interpretabile come una “variazione grande”, ma anche di come sia difficile postularne gli esiti nei termini di appartenenza a “il del tutto nuovo” se non riformulando l’ordine di grandezza delle scale storiche cui si fa riferimento.

Note In qualche misura, è questa la conseguenza della riflessione di Breton (1992). Ad esempio, Cassano 1996; Sansot 1999. 3 Ne troviamo parziale conferma in Baudrillard 1980. 1 2

Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Abruzzese, A., 2003, Post-human: uno sguardo sociologico, «Passages», n. 5, settembre-dicembre. Baudrillard, J., 1980, “Simulacri e fantascienza”, in L. Russo, a cura, 1980, La fantascienza e la critica, Milano, Feltrinelli, pp. 52-57. Benjamin, W., 1982, Schriften, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag; trad. it. 1995, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi.

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La futurologia ci spiega la crisi di obsolescenza della science fiction. Da Toffler (1980) a Di Bari (2006), la velocità crescente assunta dall’innovazione scientifica azzera la stessa possibilità di afferrare un oggetto definibile come “futuro”, privando la fantascienza di un luogo – una piattaforma di rappresentazione spazio-temporale – in cui allocarsi. L’attuale relazione tra tempo e velocità della trasformazione sociale rende il nesso tra scienza e immaginario assai diverso dal passato, ad esempio disinnescando i grandi calchi espressivi del mito che hanno caratterizzato l’esperienza della cultura di massa a favore di un superamento delle istanze narrative, sin qui centrali nella riproduzione delle dinamiche culturali e nella stessa legittimità delle culture alfabetiche. Ma anche le estrapolazioni della futurologia, proprio per il suo ancorarsi alle coordinate e agli obiettivi della cultura scientifica moderna (alle sue “narrazioni”), non rischiarano il buio che i soggetti moderni si ritrovano a scrutare quando tentano di afferrare lo spirito del tempo. Le sue indicazioni suggeriscono, al più, i termini del conflitto tra soggettività differentemente alfabetizzate e, dunque, disposte a operare differentemente su differenti oggetti. Soggettività che vivono in realtà e, addirittura, società tra loro diverse e sempre più difficilmente conciliabili. La contrapposizione tra identità moderne e identità antimoderne si esprime in una sempre più aspra incomunicabilità reciproca, in una divaricazione accentuata che, in Italia, è compresa tra le reminiscenze apocalittiche di Perniola (2004), preoccupato dalla “dissennata distruzione” (torna un’immagine machiavellica, quella del “senno” e della sua importanza nelle dinamiche della cittadinanza) della cultura occidentale, e la radicalità postumana di Abruzzese (2003), per il quale l’Occidente è uno dei luoghi comuni dell’umanesimo, un dispositivo di potere inevitabilmente aggredito dalle forze in gioco e sottoposto a una tensione “mortale”.

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problema poiché totalmente discontinuo rispetto alle organizzazioni del mondo da cui scaturisce e che dovrebbe contraddire. Se abitare un presente “espanso”, parzialmente affrancato dalla dipendenza dal passato come dalle aspettative sul futuro, può costituire una buona premessa, essa non è tuttavia sufficiente a garantire l’individuazione di uno snodo radicale, dell’emergere di una soggettività del tutto indipendente dai modelli e dalle politiche che l’hanno preceduta, di una nuova “cittadinanza” epocale. In breve, di ciò che davvero potrebbe configurarsi come uno “scontro di civiltà”. Questa radicale antinomia prospettata nell’emergenza di un “mondo nuovo” davvero compiuto nella sua dimensione di dissoluzione del “vecchio mondo” ha costituito – e anche questo è un segnale sociologicamente assai interessante – il grande limite proprio della fantascienza, che in quanto mcluhaniana “bandiera ideologica” della civiltà industriale non è mai riuscita a sfondare la porta del futuro fino a introdurvisi su un piano di attendibilità teoretica. Non ha mai spinto i suoi ricettori simbolici nel buio dello spazio profondo, fino a scorgere il volto “alieno” di ciò che non poteva essere riconosciuto, quello di una vita “altra”. D’altro canto, i dispositivi di significazione della science fiction sono tutti interni alla sfera di costruzione del senso della modernità: dispositivi della scrittura, linguaggi del “vedere” e adesione ai saperi normativizzati della scienza non riguardano solo i golden-agers come Isaac Asimov o John W. Campbell, ma anche, magari in maniera molto più sottile, i post-televisivi e “apocalittici” Philip K. Dick (v. Frasca 2007) e James G. Ballard. Nemmeno quando, nella prima metà degli anni Ottanta e in sintonia con l’emergere dei nuovi linguaggi informatici, il movimento cyberpunk ha cospicuamente anticipato il lavoro della sociologia sulle trasformazioni in atto nelle culture mediali, la fantascienza è stata in grado di oltrepassare il guado, finendo per restare al di qua del Moderno e limitandosi a guardare il profilo confuso dell’altra riva, magari solo un po’ meno oscuro di qualche tempo prima. Non avrebbe, del resto, potuto far altro: se non a condizione di “farsi altro”.


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Breton, P., 1992, L’utopie de la communication, Paris, La Découvert; trad. it. 1996, L’utopia della comunicazione, Torino, UTET. Cassano, F., 1996, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza. Di Bari, V., 2006, Il futuro che c’è già, Milano, Il Sole 24 Ore. Dorfles, G., 1980, L’intervallo perduto, Torino, Einaudi. Frasca, G., 2007, L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, Roma, Meltemi. Heidegger, M., 1984, Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, St. Gallen, Erker Verlag; trad. it. 1997, Filosofia e cibernetica, Pisa, ETS. Perniola, M., 2004, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi. Sansot, P., 1999, Sul buon uso della lentezza. Il ritmo giusto della vita, Milano, Pratiche. Thom, R., 1980, Paraboles et catastrophes, Paris, Flammarion; trad. it. 1982, Parabole e catastrofi, Milano, Garzanti. Toffler, A., 1980, The Third Wave, New York, Bantam; trad. it. 1987, La terza ondata, Milano, Sperling & Kupfer. Virilio, P., 1985, L’horizon negative, Paris, Galilée; trad. it. 1986, L’orizzonte negativo, Genova, Costa e Nolan.

Nello Barile La disillusione della fine. Quando il reale irrompe nuovamente ma non “del tutto”

“Il fine del fine è vivere al di là della fine, con qualsiasi mezzo”. (Baudrillard 1992)

Per lungo tempo l’opera di Baudrillard è stata popolata da embrioni concettuali autosufficienti, il cui sviluppo – più che in evoluzione – si traduceva nella continua riproposizione di alcuni concetti portanti. Fino all’intero arco degli anni Novanta non sono rinvenibili svolte significative nella sua biblio-bio-grafia1, quanto piuttosto il lungimirante e turbolento ribollio delle tesi fondamentali. Così il sovraesposto frammento inserito in Cool memories ha già in nuce tutta la problematica sviluppata in seguito con l’uscita de L’illusione della fine, rispetto al quale questo passo pare la più logica conclusione. Il gioco di parole che s’instaura tra il fine, la fine e i mezzi mette in scena gli elementi classici dell’azione razionale: il soggetto, la sua dotazione, il suo obiettivo. Assegnando però un fine allo stesso fine Baudrillard mette in scena l’assurdità di una teleologia diffusa, sistemica e universale che ha superato lo schema circoscritto al soggetto, per estendersi prima agli organismi, poi alle macchine – quando queste iniziano a somigliare agli organismi – successivamente ha investito la materia inorganica (come ad esempio nelle strutture dissipative), per poi approdare a se stessa, sotto forma di meta-fine (il fine del fine). In quest’immane processo di antropomorfizzazione del fine, le stesse paure dell’uomo sono trasferite al “fine”. L’orrore dell’umana finitudine, dell’heideggeriano “vivere per la morte”, cioè la coincidenza del proprio fine con la propria fine, inizia a ossessionare la vita mentale del fine. L’autore conclude il frammento con una forma di paradossale escatologia cristiano-machiavellica che assegna al “fine” il fine supremo di vivere oltre se stesso, oltre la propria fine, ma con qualsiasi mezzo. Si tratta di un aforisma visionario e illuminato che esaspera la pervicacia con cui la cultura occidentale ha tentato di rimuovere la morte (del soggetto), la crisi (del sistema), la fine (della storia) ma che, in un certo senso, preannuncia l’autocritica degli scritti più recenti, cioè il passaggio dall’illusione della fine alla “disillusione della fine”. La correlazione tra il fine e la fine caratterizza fortemente l’ascesa secolare del cristianesimo da quando sant’Agostino ha regalato alla societas cristiana i concetti intimamente connessi di anima e di storia. Jeremy Rifkin, in un saggio


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discorso e a sistema dominante, capace di inglobare in sé tutto il sapere speciale abbiamo assistito al collasso delle catene significanti e quindi del senso generale della storia. Martin Heidegger ha denunciato la riduzione del senso storico, costitutivo dell’umanità, a mera circolazione informazionale. Il concetto guida della cibernetica, il concetto di informazione, è per giunta sufficientemente vasto da poter un giorno assoggettare alle pretese della cibernetica anche le scienze storiche dello spirito. Ciò riuscirà tanto più facilmente in quanto il rapporto dell’uomo d’oggi con la tradizione storica si tramuta visibilmente in un mero bisogno d’informazione (Heidegger 1984, p. 34). L’idea che l’informatica decreti la fine del sapere tradizionalmente fondato e unificato dalla filosofia per imporre un’unità pragmatica basata sull’efficienza, non è certo un parto di Lyotard, già Heidegger affrontava il problema nel decennio precedente. Il nuovo principio di unificazione dei saperi specialistici, che subentra alla crisi della filosofia, è l’informazione, giunta a collocarsi in una posizione di predominio rispetto ai settori specifici del sapere5. La cibernazione sociale come sistema e linguaggio dominante è quindi il compimento di quel processo di divisione e di successiva operativizzazione del sapere iniziato nell’Ottocento, quando infatti “da un lato anche la psicologia e le scienze dello spirito si erano rese indipendenti, dall’altro concetti quotidiani come, linguaggio, cultura e forma di vita, racconto e prassi, storia e tradizione avevano acquistato il rango di concetti gnoseologici fondamentali” (Habermas 2005, p. 32). Con l’ausilio della tecnica, la razionalità strumentale ha colonizzato la vita quotidiana, ha eliso il suo tessuto compatto, minacciando i saperi costituiti e le forme discorsive tradizionali. Allo stesso modo con la nuova unità pragmatica dei saperi, imposta dalla cibernetica, la filosofia, ovvero il discorso fondante e legittimante i saperi particolari, ha perso il suo ruolo, la possibilità stessa di indicare ai saperi una precisa direzione partendo da un’origine definita. I grandi discorsi della modernità condividevano e coltivavano tutti l’idea di un fine (e una fine) da perseguire, ma la cibernetica annulla questa visione prospettica, appiattendo al presente l’azione umana valutata con il suo parametro fondamentale: l’efficienza6. La cibernetica dovrebbe pertanto segnare la fine dell’era moderna ma ciò che insegna e realizza è l’impossibilità di una fine. La fine è il luogo in cui termina un processo e dove potrebbe iniziarne uno nuovo. In essa si concentrano e si mostrano tutti gli aspetti salienti di ciò che va estinguendosi. Parlando di fine, noi vogliamo dire che qualcosa non va più avanti, che è terminato. Fine indica qualcosa di incompleto e di spiacevole. Fine suona come impotenza e rovina. Tuttavia locuzioni come von Einem ende zum (“da un posto all’altro”) e an allen Ecken und Enden (“per ogni dove”) attestano un altro significato della parola “fine”. Essa significa luogo... il luogo dove qualcosa si raccoglie nella sua possibilità ultima dove giunge a pieno compimento (voll endet) (Heiddeger 1984, p. 31). La fine è dunque il livello critico superato il quale si dà inizio a una nuova fase, ma in questo luogo o in questo stato culminante si mostrano con maggiore enfasi gli elementi che precedentemente caratterizzavano il sistema. Nella fi-

Nello Barile

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molto legato all’atmosfera culturale dei primi anni Ottanta, ci mostra come il cristianesimo, con la sua idea di storia lineare e trascendente, introduca una frattura irrimediabile con l’idea di storia greca. Per i greci la storia era un processo non di sviluppo ma di decadenza. Il poeta romano Orazio scriveva in versi che “Tutto rovina il funesto tempo”. Orazio non conosceva la seconda legge della termodinamica, ma in questo verso egli ha riassunto la vera essenza della legge dell’entropia... Nella mitologia greca la storia è rappresentata da cinque fasi successive, ognuna delle quali è più oscura e barbara delle precedenti. La visione cristiana del mondo abbandonò il concetto ciclico dei greci, ma conservò il concetto della storia intesa come processo di decadenza. Nella teologia cristiana, la storia ha un inizio, uno svolgimento e un termine ben definiti, rappresentati dalla creazione, dalla redenzione e dal giudizio universale (Rifkin 1980, pp. 31 e 35). Il cristianesimo ha trasformato la storia in un movimento lineare e ascensionale approntando alcuni “schemi” che sono stati approfonditi in seguito dalla narrazione moderna. La stessa linearità ha plasmato un modello che ritroviamo quasi intatto nell’idea moderna di storia come progresso ed emancipazione. Il destino che accomuna l’escatologia cristiana alla linearità della scrittura è stato oggetto di studio da parte di molti mediologi. In quanto mezzo di divulgazione della parola di Dio, prima, e di quella della scienza, poi, la scrittura ha rappresentato il “luogo” di avvicinamento tra reale e ideale. Il movimento di “ricomposizione tra mondo e cielo” (Abruzzese 1996, p. 36)2 non ha luogo tramite la redenzione universale – cioè con l’ascesa della Terra al cielo – ma grazie alla tecnologia (e la parola è una tecnologia) che invece tira giù “il cielo” sulla Terra. Da un sistema trascendente, che cioè pone al di là di se stesso i fini, i modelli, gli ideali, passiamo a un sistema che li incorpora cancellando la tensione verso la novità, verso la realtà e il futuro. L’immanenza, intesa come una propensione consolidata nell’arco della storia, si mostra con particolare evidenza nella postmodernità3 ed è pertanto la vera novità che crea uno spartiacque tra questa epoca e le precedenti. A essa s’accompagnerebbe una decisiva mutazione antropologica che, sopprimendo la linearità della scrittura e quindi del senso della storia, decreta una decisiva svolta culturale4. La cibernetica ha segnato l’apice del movimento di potenziamento tecnologico del sistema sociale che, a un dato momento, ha potuto rinnegare la sua stessa origine, sopprimendo la linearità del processo storico e della sua rappresentazione. La fine della modernità, vista da Lyotard come fine dei discorsi che legittimavano la circolazione del sapere istituzionale, è segnata definitivamente dall’informatizzazione della società. Le grandi narrazioni condividevano tutte il progetto di una storia trascendente laddove questo termine può indicare la tensione verso un obiettivo posto al di là della situazione contingente. In questo senso era trascendente l’emancipazione dell’individuo dalle “catene della tradizione” perseguita dall’Illuminismo e dalle teorie liberali, l’affermazione dello spirito assoluto di stampo hegeliano, come anche l’avvento sulla Terra della dittatura del proletariato o anche – mestamente – il progetto di purificazione e dominazione etnica perseguito dal nazismo. Con l’informatica estesa a


occorre abituarsi all’idea che non c’è più fine, che non ci sarà più fine e che la storia stessa è divenuta interminabile. Così quando si parla di “fine della storia”, della “fine del politico” della fine del sociale, della fine delle ideologie, non c’è niente di vero. La cosa peggiore è appunto che non ci sarà fine di nulla, e che tutto questo continuerà a dispiegarsi in modo lento, noioso, ripetitivo, nell’isteresia di tutto ciò che, come le unghie e i capelli, continua a spuntare dopo la morte (Baudrillard 2001, p. 156).

Il processo menzionato dimostra un paradosso concreto. Dopo la morte del corpo, alcune sue parti continuano a crescere. La crescita post mortem, è riservata a parti assolutamente marginali: le unghie e i capelli. Elementi periferici che rivestono un potente valore simbolico. I capelli rappresentano una fondamentale protesi estetica, mentre le unghie sono il mezzo primitivo per l’offesa e il sostentamento. Rispettando la metafora dell’autore francese – che si fonda sull’antico parallelismo tra corpo umano e corpo sociale – possiamo intravedere

Il calmo furore del presente, il pensiero di vivere senza preoccuparsi troppo dell’avvenire, rappresentano certamente la modulazione contemporanea di quella costante antropologia che è il tragico. Quello che accadrà domani non possiede importanza visto che si può godere, qui e ora, di ciò che si presenta (…). Un tale immanentismo, vagamente pagano, sembra disorientare gli osservatori sociali. Al punto che essi raramente lo prendono in considerazione, obnubilati come sono dal progetto, dalla razionalità strumentale, o da un risultato da raggiungere (Maffesoli 2000, p. 47).

In passato il rapporto tra storia e memoria, inteso come necessità di preservare ambedue dinanzi alla minaccia e all’invadenza del presente, ha segnato l’opera dei teorici più innovativi. In molti sono convenuti su quell’idea di “glorificare l’origine” che Nietzsche aveva già stigmatizzato nel suo tempo come un atteggiamento tipicamente moderno e fin troppo umano. Guy Debord ha affrontato e ampliato alcuni aspetti classici della critica al sistema capitalistico la cui estensione più coerente e preoccupante è rappresentata dal modello spettacolare. Gli attributi di questo modello si presentano per l’appunto come una estrema ipostatizzazione della logica del capitale7.

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nell’isteresia la permanenza, dopo la morte della modernità, degli strumenti strutturali e sovrastrutturali che contraddistinguevano questa epoca. In effetti, a dispetto dei tanto decantati processi di smaterializzazione, nessuna importanza hanno perso gli strumenti economici ed estetici della società industriale. Questi, in chiaro contrasto con le previsioni ottimistiche della visione postindustriale, hanno approfittato dell’anonimato che gli conferiva la rumorosa pubblicità dei nuovi consumi “ecologici” e immateriali, per consolidare il loro primato sul presente. Così i paesaggi del mercato mondiale raccontano un rinnovato sfacelo neoindustriale. Se pensiamo ai cosiddetti paesi emergenti, sono diverse le analogie con l’Europa nel periodo vittoriano. Dalla devastazione ambientale alla concentrazione demografica, dalla violazione dei diritti umani allo sfruttamento delle risorse, basta attraversare megalopoli come Pechino o Nuova Delhi per cogliere questo dato di fatto. Tutto ciò ha un riflesso immediato sull’immaginario artistico locale che vive un momento esplosivo in parallelo allo sviluppo economico. Ad esempio Angel di Cui Xiuwen esprime una gentile critica al processo di massificazione sempre più stringente e raffigura sullo sfondo di panorami neoarcadici un’adolescente incinta, riprodotta serialmente sino all’assillo. L’isteresia, estesa globalmente, ci permette di rendere conto di come oltre il moderno ci sia ancora il moderno: oltre il “del tutto nuovo” una storia già vista. L’eccesso di storia e di informazione sulla storia ha messo in discussione il suo stesso valore e ha confermato in modo perverso la previsione heideggeriana. Se in Italia studiosi del calibro di Ferrarotti hanno inveito contro la “tentazione dell’oblio”, indotta dalla crescita di potenza del sistema mediale, in area francese una sociologia ispirata agli studi sull’immaginario ha esaltato la potenza liberatoria del presente inteso come annullamento di una diacronicità coatta imposta da dispositivi tecnici antiquati, in favore di un’etica dell’immanenza e dell’imminenza.

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ne vi è pertanto qualcosa di essenziale, ancor più che nell’origine. Più recentemente Baudrillard ha spesso usato il concetto di parossismo come metafora della modernità. Esso designa il momento critico della malattia che manifesta con la massima intensità i propri sintomi. È il caso della nostra epoca che fa riaffiorare in superficie, con inusitata veemenza, problemi e conflitti incubati e mai risolti. L’epopea moderna prometteva la liberazione dalle catene della tradizione, dell’oscurantismo, dall’integralismo, dalla penuria, ma questi fatti, lungi dall’essere superati si ripropongono sempre più urgenti e scottanti. La stessa vulgata sulla comunicazione, che avrebbe dovuto salvare il mondo, più che ridurre i conflitti, si limita a trasfigurarli all’infinito all’interno dei suoi circuiti. Il mondo concavo che viviamo impedisce a qualsiasi avvenimento di evadere dal presente, di astenersi dall’accadere: tutto si deposita sul fondo giacché tutto è fondo. In questo momento saturo di eventi riascoltiamo continuamente le istanze del superamento temerario o del regresso nostalgico, nella diffusa convinzione che qualcosa debba accadere. La carica emotiva della scadenza simbolica del Duemila è servita a riproporre il fantasma di una storia che finisce con la crisi dei sistemi in essa sviluppati. Ma la crisi è un aspetto congenito del sistema capitalistico che da molto tempo ha imparato a gestire l’aleatorio, a funzionalizzare la devianza, a incorporare l’avanguardia cosicché “gli anni Trenta sono già stati il Duemila del Novecento” (Abruzzese 1996, p. 36). Questi discorsi (crisi e nuove logiche di sistema) sono intrecciati e il loro sviluppo caratterizza tutto il Novecento. La crisi viene prodotta, confezionata, commercializzata, consumata e riciclata, senza che di essa ci si possa liberare. Il ciclo di vita della crisi è interminabile come del resto il ciclo dei sintomi che ormai da troppo tempo la diagnosticano. Il concetto di parossismo quindi, rende solo in parte il processo epocale che stiamo passando. Descrive cioè la parte al di qua della fine, ribadiamolo: sul finire della malattia (la modernità) si intensificano tutti i sintomi (i conflitti, i localismi, i fanatismi). Ma per avere l’idea di ciò che troviamo al di là della fine, dobbiamo assumere un altro concetto molto ricorrente nell’opera di Baudrillard: l’isteresia.


Con lo sviluppo del capitalismo, il tempo irreversibile è unificato su scala mondiale. La storia universale diviene una realtà perché il mondo intero è raccolto sotto lo sviluppo di questo tempo. Ma questa storia che dappertutto simultaneamente è la stessa non è ancora che il rifiuto intrastorico della storia. È il tempo della produzione economica, scisso in astratti frammenti uguali, che si manifesta su tutto il pianeta come lo stesso giorno. Il tempo irreversibile unificato è il tempo del mercato mondiale, e per corollario dello spettacolo mondiale (Debord 1967, p. 137).

Partendo da altre premesse, Vattimo conviene con l’allarmismo di Debord quando evidenzia come lo stadio limite del capitalismo avanzato si affermi nella possibilità di una storia universale che va negandosi non appena pronunciata. L’applicazione dell’esigenza economica al progetto storico si risolve nell’annullamento stesso della storia. Quando il sistema giunge a sviluppare un potere tale da contenere tutti gli eventi in un semplice supporto digitale, la sua natura, la sua funzione e il suo progetto si vanno dissolvendo e la storia collettiva, intesa come successione continua di eventi significativi, viene sostituita da un insieme discreto di informazioni. La fine del tempo collettivo unidirezionale è paradossalmente seguita dall’inflazione di riflessione storiografica che a sua volta è collegata all’estinzione stessa del valore pedagogico della storiografia. Quale differenza intercorre, nei termini di efficacia formativa, tra una lezione universitaria e una trasmissione come La storia siamo noi? E con la moltiplicazione dei canali offerti dalle nuove tecnologie si fa ancor più palese quel delirio “retrospettivo” che induce il nostro sistema culturale a sezionare ogni brandello di storia, riattualizzandone il contenuto. La crescita di potenza tecnologica dell’Occidente ha realizzato una storia mondiale capace di sincronizzare, sotto la luce di eventi collettivi, le culture del pianeta. Si tratta in altri termini della prosecuzione e della radicalizzazione del processo di implosione socio-culturale che McLuhan attribuiva all’era elettrica, come inversione della tradizionale vocazione esplosiva o espansiva della vecchia tecnologia meccanica8. L’implosione come effetto dell’accelerazione degli scambi sociali segna definitivamente il passaggio da un’epoca, un sistema e una cultura trascendenti, verso un nuovo assetto immanente. L’unica “direzione” di cui parla lo studioso canadese è persa del tutto, sprofondata nelle il-

Le speranze riposte nelle tecnologie avanzate sono senza dubbio alte; non è più l’“alta frontiera” dello spazio a catturare l’immaginazione, ma la “frontiera interna” dello spazio concettuale. I video-game-dipendenti e i “pirati elettronici” (hackers) vedono lo schermo come una finestra aperta sul mondo multidimensionale, da percorrere e scoprire attraverso le tastiere le leve di comando della consolle (Lyon 1988, p. 214).

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limitate possibilità di movimento che ci collocano in uno stato isotropico dove la stasi è dettata dalla moltiplicazione esponenziale delle linee di fuga. Già agli albori degli anni Ottanta, la fine del tempo storico presagiva la crisi del sistema culturale e politico in un processo che alcuni analisti avevano già preannunciato con dichiarazioni perentorie9. Per il futurologo americano il buco nero del sistema sociale era generato dall’esaurimento del combustibile culturale della seconda ondata in cui hanno avuto origine tutte le infrastrutture e le sovrastrutture della società industriale. L’avvento dell’informatica e l’infittimento dell’infosfera hanno prodotto una sorta di cultural gap generalizzato, una discrasia tra le nuove dinamiche sociali e i modelli e metodi istituzionali antecedenti10. Dalle note di Toffler si evince come la crisi e la presunta paralisi sociale paiono stadi permanenti dei sistemi a capitalismo avanzato. Dopo aver istituzionalizzato la crisi e funzionalizzato l’errore, non restano al sistema che semplici “rivoluzioni tautologiche”, in cui il cambiamento consiste nella diversa computazione di elementi preesistenti, nell’acquisizione di più specifiche velleità tecno-pragmatiche, nell’ulteriore saturazione del sociale i cui interstizi vengono colmati dalla “rifinitura” dei media. Tale percorso asseconda la fine dei discorsi celebrativi sulla conquista dello spazio, vista come ultima frontiera di una vocazione espansionista latente nella società moderna. Gli anni Novanta hanno sostituito l’euforia collettiva nei confronti della conquista dello spazio con un’attenzione, sempre più marcata, verso le nuove frontiere del digitale. In tal modo tutto il dibattito culturale è slittato dalle celebrazioni dell’era spaziale, alle valutazioni sull’incipiente colonizzazione dello spazio interno, abituale e domestico dell’home computing. Ciononostante quell’entusiasmo ascensionale, retaggio di una retorica “coloniale”, si è trasferito invece al discorso sulle nuove tecnologie, legittimando ed enfatizzando la nuova “utopia della comunicazione”. Dall’infinità di mondi extraterrestri si è così passati all’infinità di mondi esperibili grazie alla cibernazione della società. Lo stesso ruolo dei critici più accaniti e “catastrofici” era funzionale, in quel periodo, al medesimo scopo dato che “ragionare sul versante della catastrofe è la posizione giusta (…) sia di chi pensa un mondo utopico a venire, sia di chi ha la convinzione di non avere, da sempre, altro mondo che questo” (Abruzzese 2007). Allo stesso modo il cinema ha contribuito con prodotti del calibro di Fino alla fine del mondo o Strange days o ancora più esplicitamente Il tagliaerbe, che superavano l’idea trascendente di una tecnologia “sterilizzata” e di un futuro “futuribile”, raccontando la dimensione ormai abitudinaria persino delle tecnologie più trasgressive. Queste erano descritte come capaci di amplificare indifferentemente il corpo e la mente e di realizzare simultaneamente la dimensione del sogno e quella dell’incubo.

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Nel sistema spettacolare la storia si destruttura per un eccesso di storia. Il dominio favorito di questo sistema è il presente, dilatato a tal punto da diventare eterno. L’analisi di Debord che pare difficilmente confutabile manifesta una vocazione salvifica che non può essere accettata in toto. Dopotutto il capitalismo nasce e si rafforza proprio nel mito di una storia lineare. Quindi con la presentificazione e soppressione della storicità, esso raggiunge il proprio fine nascosto, ma anche la propria fine, cioè il tramonto della prospettiva ascendente. Quello che abbiamo di fronte oggi è un capitalismo eccessivo che produce storia per il consumo collettivo e, così facendo, rinnega la storia. In altri termini si perpetua rinnegando se stesso. Forse il fastidio di Debord è generato dal fatto che questa “autonegazione affermante” del sistema produttivo strappa all’autore francese l’appannaggio della critica e quindi della lotta.


Mentre entriamo nel 1990 (...) qualcuno potrebbe credere che questo sia per noi il momento giusto per un bilancio per riconsiderare la nostra posizione nella storia e per produrre idee nuove sulle direzioni in cui muoverci – non obiettivi che possiamo perseguire individualmente, ma ambizioni ragionevoli e realistiche che possiamo porci come comunità. E invece, a occhi bassi, entriamo indietreggiando nel nuovo millennio, prestando ben poca attenzione alla domanda: “In che direzione ci muoveremo, e in che direzione vorremmo muoverci, dal 2001 in avanti?” (Toulmin 1990, p. 13).

L’interrogativo di Toulmin, sorprendentemente, non si riferisce alla scadenza simbolica dell’anno Duemila, che sul finire del vecchio millennio ha alimentato tanto le paure quanto le speranze in un futuro sempre più indeterminato (si pensi al fatidico Millennium bug), bensì all’anno successivo che, come sappiamo, ha realmente segnato una svolta epocale e ha precipitato il pianeta in una drastica radicalizzazione dei punti di vista politici. Un esito controverso che da un lato ha diradato la coltre di ragionamenti postmodernisti intorno alla fine della storia, dall’altro ha definitivamente spezzato ogni possibilità progettuale, di indirizzo politico, di trascendenza storica. Il totale schiacciamento della progettualità politica sul presente ha decretato la fine di una consolidata vocazione strategica. Anche se la guerra in Iraq parrebbe confutarlo, in quanto tassello di un possibile nuovo ordine mondiale, in realtà essa si risolve nella scelta di scendere a confronto sul campo di battaglia materiale e simbolico delle forze antagoniste che si oppongono al sistema del potere globale, recuperando la medesima impostazione tattica, di breve raggio, vincolata al qui e ora. Questa dipendenza cognitiva dal presente ha scatenato facili trionfalismi nella interpretazione dei segnali più immediati e fugaci (la vittoria contro Saddam Hussein e la sua cattura, l’affluenza alle urne durante le elezioni ecc.) e tuttora impedisce di ponderare in modo adeguato i segnali più deboli ma più significativi, che si rinforzeranno nel medio-lungo periodo. Se fino all’intero arco dei Novanta lo schiacciamento della storicità evenemenziale sul presente era det-

Nel caso che ci interessa si è creduto di vedere (con un certo sollievo, forse) una risorgenza del reale o della violenza del reale in un universo che si spacciava per virtuale. “Finite le vostre storie di virtuale – qui siamo nel reale”. Analogamente si è potuto vedere in ciò una ricostruzione della storia, al di là della sua fine annunciata. Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione. Si potrebbe quasi dire che la realtà sia gelosa della finzione, che il reale sia geloso dell’immagine... È una specie di duello fra loro a chi sia più inimmaginabile (Baudrillard 2001, p. 37).

Dunque il reale ha fatto irruzione nel cuore dello spettacolo, lo ha sfidato sul suo stesso terreno assorbendone il carattere eccessivo, violento, ipnotico ed esplosivo. Altra vicenda ha interessato il corpo e la sua mutazione. Le immagini efferate delle sevizie e degli scempi, offerte quotidianamente dai broadcast via satellite, hanno stravolto l’opinione pubblica mondiale con la loro brutalità che supera in fatto di potenza comunicativa i contenuti delle performance artistiche più estreme. Essa ci restituisce una violenza arcaica e rituale rimossa dalla fenomenologia della vita quotidiana e divenuta ormai insopportabile per i nostri sguardi accomodati e accomodanti. L’ormai indicibile 11 settembre ha richiamato il mondo alla realtà, dato che la storia, assopita dalla profusione dei media, si è risvegliata riproponendosi con un’inusitata violenza. Ma è altrettanto vero che le nuove possibilità di espansione geopolitica e cognitiva del regime iper-spettacolare, hanno ulteriormente diffuso e diluito nella realtà quotidiana il diktat di un’artificializzazione imperante. con il crollo delle due torri è crollato anche lo spettacolo mediatico delle due torri stesse. Molti hanno pensato che ciò volesse dire che il reale era ancora vivo e che tutta l’ideologia del virtuale che ha imperversato negli ultimi anni fosse da buttare (…). Immaginario e reale sono dunque entrati in una rotta di collisione (Codeluppi 2004).

Se è vero che “la realtà si è trasferita massicciamente dentro lo schermo per annullare la sua identità all’interno di esso” (ib.), al tempo stesso le logiche dello spettacolo, dell’immagine, del marketing sono penetrate negli strati più reconditi della società e hanno investito e alterato con il suo potere ammalian-

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tata dal potere delle tecnologie simulacrali, la presentificazione che si afferma al di là del nuovo Millennio è invece il frutto di una complessiva disarticolazione dell’agire strategico, dettata esattamente dalla nuova irruzione della realtà e della storia in un sistema che si voleva impermeabile e immutabile. In primis è successo che “il reale” inteso come elemento debole e marginale, come attrito dei processi comunicativi, è esploso con estrema veemenza, dissolvendo in pochi attimi l’euforia di tutto un decennio e precipitando il mondo intero in un periodo di new austerity. Elementi di una cultura eccessiva e iperspettacolare, riconducibile agli anni Ottanta, si sovrappongono in modo imprevedibile al rigurgito degli anni Settanta. Un fatto così evidente che lo stesso Baudrillard ha dovuto accettare, per salvare, con uno escamotage teorico, la sua produzione pregressa.

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Nelle parole di David Lyon si concretizzava la possibilità di abitare il tempo come un tempo si abitavano i luoghi dello spazio. Al tradizionale colonialismo geopolitico, si andava sostituendo una forma impropria di colonialismo psico-somatico, potenzialmente illimitato e infinitamente modificabile. All’iper-razionalità della programmazione ingegneristica del sistema corpomente, si accompagnava invece una de-razionalizzazione del progetto politico il cui compito era essenzialmente quello di illuminare una direzione, di seguire un cammino ormai nascosto nella giungla computabile di scelte possibili. Con l’ingrossamento dell’infosfera cresceva a dismisura l’indecidibilità tra scelte equipollenti: un nuovo tipo di immobilità sociale prodotto da un eccesso di opzioni disponibili. Crollava del tutto la progettualità razionale, sostituita dal riferimento caotico all’origine11. Una condizione che per Stephen Toulmin si risolveva in un impasse cognitivo che ha segnato la cultura contemporanea e che, alla stregua di una profezia sconcertante, si è affermata in maniera inequivocabile.


Note 1 “Patafisico a 20 anni – Situazionista a 30 – Utopista a 40 – Trasversale a 50 – Virale e Metaleptico a 60 – la mia storia è tutta qui” (Baudrillard 1990, p. 303). 2 “Da quando la cristianità ha impresso i ritmi di una storia finalizzata al momento salvifico della sua ricomposizione finale tra mondo e cielo, la scrittura occidentale ha incarnato questo stesso movimento tanto più ascensionale, edificante, spirituale, quanto più terreno e materiale” (Abruzzese 1996, p. 36). 3 “11-Immanenza. È la secolare capacità dell’uomo di generalizzare, estendere se stesso nei linguaggi, nei media, nelle nuove tecnologie” (Abbagnano, Fornero 1994, p. 6). 4 E dunque nella cibernetica si annuncia la possibilità di vedere, proprio dietro il crollo dei linguaggi storici della civiltà moderna, la nascita, anzi la liberazione, di una nuova dimensione antropologica dell’abitare, di una nuova cultura, una “nuova entità” (Flichy), non trascendente ma immanente ai processi sociali (Abruzzese 1996, p. 29). 5 “La filosofia si dissolve in scienze autonome: la logistica, la semantica, la psicologia, la sociologia, l’antropologia culturale, la politologia, la poetologia, la tecnologia. La filosofia nel suo dissolversi viene rimpiazzata da un nuovo tipo di unificazione fra queste scienze nuove e tutte già esistenti... La nuova scienza che unifica, in un senso nuovo di unità, tutte le varie scienze si chiama cibernetica” (Heidegger 1984, p. 32). 6 “Da principio la stessa cibernetica ammette d’imbattersi qui in difficili questioni. Ma essa ritiene tuttavia di poterle sostanzialmente risolvere e considera in via preliminare l’uomo come un ‘fattore di disturbo’ nel calcolo cibernetico” (ib.).

Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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7 “Il movimento propriamente storico, benché ancora nascosto, inizia nella lenta e impercettibile formazione della ‘natura reale dell’uomo’, questa ‘natura che nasce nella storia umana nell’atto generatore della società umana’, ma la società che è allora giunta a padroneggiare una tecnica e un linguaggio, sebbene sia già il prodotto della propria storia, non ha coscienza che di una presente perpetuo... Né la morte né la procreazione sono comprese come legge del tempo. Il tempo resta immobile, come uno spazio chiuso. Quando una società più complessa giunge a prendere coscienza del tempo, il suo lavoro è anzi piuttosto di negarlo (...)” (Debord 1967, pp. 125-126). 8 “L’accelerazione della velocità dalla forma meccanica a quella istantanea dell’elettricità capovolge l’esplosione in implosione. Nell’attuale era elettrica le energie contraenti del nostro mondo si scontrano con gli schemi espansionistici tradizionali. Sino all’epoca recente le nostre istituzioni e i nostri ordinamenti sociali, politici ed economici, si muovevano fondamentalmente in un’unica direzione. Noi parliamo ancora di ‘esplosione’ o di ‘espansione’ e, benché il termine non sia più appropriato, continuiamo a riferirci all’esplosione demografica o a quella culturale. In realtà non è l’aumento del numero degli abitanti che rende preoccupante il problema, ma piuttosto il fatto che tutti dobbiamo vivere nella stretta vicinanza creata dal nostro reciproco coinvolgimento elettrico” (McLuhan 1964, p. 45). 9 “This collapse of decision-making is, however, not the monopoly of one party or one president. It has been deepening since the early 1960’s, and reflects underling structural problems that no president – Republican or Democratic – can overcome within the framework of the present system” (Toffler 1981, p. 392). 10 “Not just in the United States but in many of the Second Wave countries being battered by the Third Wave of change, there is a spreading power vacuum – a ‘black hole’ in society” (p. 397). 11 “Diviene impossibile una scelta critica, etica, politica, e persino una scelta razionalmente economica. Tutto quel che si può fare è scegliere per appartenenza, cioè sulla base di un criterio che non è razionale (…)” (Berardi 1993, p. 49).

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te la condotta delle fasce di popolazione più marginali e antagoniste. La potenza simbolica del simulacro, che avrebbe dovuto epurare dal reale ogni traccia di singolarità, ha invece dato vita a una ricerca ossessiva di unicità, di storia, di realtà. A questo hanno concorso certamente gli anni Novanta, nella loro rivalutazione dell’autentico, dell’informale, del localistico, del tattico ecc. Ma tutto ciò ha subito un drastico ribaltamento quando si è capito che quel movimento centripeto assecondava un nuovo ordine mondiale, finalizzato allo “scontro delle inciviltà”. Così la rivalsa della storia non può tradursi in un ritorno alla linearità ascendente di stampo moderno. La novità di questo tremendo reale che ritorna non è sufficiente a ridare impulso e direzione agli eventi. Dalla processione dei simulacri alla minaccia del terrore cambia ben poco e la dimensione del presente mantiene la sua posizione di assoluta egemonia. Per questo forse in Italia alcuni autori hanno tentato di rimuovere il trauma, di ricucire lo strappo, di elaborare il lutto. Belpoliti, ad esempio, ha lavorato con la metafora del “crollo” per dare sostegno alla deriva dell’arte contemporanea dal kitsch al postumano. Ma quel “tempo penultimo” che è posto sull’orlo di una fine che “non finisce mai di finire” e che ci impone di sacrificare il concetto di apocalisse in favore dell’apocatastasi (Belpoliti 2005, p. 130), è solo il tentativo di anestetizzare lo shock della catastrofe, ripristinando il baudrillardiano “sciopero degli eventi” al di là della sua scomparsa. Tutto ciò in controtendenza con lo stesso autore francese che ha saputo problematizzare l’irruzione della violenza dell’evento nel cuore stesso dello spettacolo, anche quando questa strideva con la sua visione pregressa. Al di là della sua presunta fine, la storia è dunque tornata sul palcoscenico del mondo, ma questa forse è tutta un’altra storia…


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Mario Pireddu Nuovi media e realtà multiple Ciò che voglio dire è che i media, in quanto estensioni dei nostri sensi, quando agiscono l’uno sull’altro, istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro. (McLuhan, Understanding media) L’eventualità che si agisca in senso sociale sussiste per colui che agisce nel mondo sociale, o per noi che lo studiamo in quanto pratichiamo le scienze sociali. (Schutz, La fenomenologia del mondo sociale)

1. Per un orizzonte di studi che si presume abbia davanti a sé un minimo di longevità è forse un paradosso, quantomeno semantico, darsi come obiettivo lo studio del nuovo senza tener conto di ciò che l’ha preceduto. Eppure, nell’ambito degli studi sulla comunicazione, “la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì” pare riferita quasi unicamente alle nuove tecnologie, ai nuovi media. È ormai vastissima la letteratura in merito, peraltro arricchita da (non) sempre nuovi contributi, e l’interesse verso questo tipo di studi aumenta di giorno in giorno. Nell’Introduzione a Remediation Jay D. Bolter e Richard Grusin scrivevano: Nessun medium (…) sembra poter svolgere oggi la propria funzione di comunicazione in condizioni di isolamento dagli altri media o, tantomeno, dalle altre forze economiche e sociali. Sono nuove invece le modalità secondo le quali i nuovi media rimodellano i vecchi e, allo stesso tempo, i vecchi media provano a reinventarsi per rispondere alle sfide lanciate dalle nuove tecnologie (Bolter, Grusin 1999, p. 40).

Di frequente si parla di nuove tecnologie tralasciando la storia specifica di ogni medium, la sua “evoluzione”; è successo con la Realtà Virtuale, con la telefonia cellulare, con i videogame. Molti media, ritenuti quasi ontologicamente nuovi per una serie di caratteristiche o di possibilità dischiuse, hanno in realtà sulle spalle più di una generazione, e spesso hanno cambiato la propria natura col passare del tempo, con l’evolversi della tecnologia, con la diffusione “di massa” e l’uso sociale. È evidente che determinate categorie perdono oggi di efficacia metodologica, come si evince ad esempio dalla sempre più frequente fusione di linguaggi tra cinema, videogame, ipertesti e rete, elemento destabilizzante e disorientante per più di un osservatore. Il timore è che si ripeta per gli studi sulla comunicazione quanto già avvenuto in altri campi, ovverosia una paralisi dovuta alla confusione terminologica generata da un uso semplicistico o ingenuo delle definizioni. Spesso si ha l’impressione che la comunità scientifica abbia ereditato dal modernismo la convinzione che un medium, per essere


la vera novità consiste in effetti nel modo particolare con il quale ogni forma di innovazione ristruttura e ricostruisce il significato degli elementi presenti in precedenza. Ciò che appare nuovo nei nuovi media è perciò anche vecchio e familiare: la promessa del nuovo attraverso la rimediazione di quanto è già disponibile. (…) La sola previsione che ci sentiamo di avanzare è che ogni medium futuro dovrà definire il proprio significato culturale in riferimento a tecnologie già affermate.

2. Le variazioni grandi, in quest’ottica, sono dinamiche e pratiche relative all’innovazione. Innovazione sotto certi aspetti decisiva, per altri versi iscritta nel continuum dello sviluppo tecnologico degli artefatti umani. Paradossalmente, c’è chi afferma che la stessa “rivoluzione digitale” che sta aiutando a riscoprire in qualche modo il ruolo della sensorialità nell’agire comunicazionale stia consentendo allo stesso tempo all’informazione di sublimarsi nel regno del non-materiale. Ciò che costituisce forse la vera “rivoluzione” dei media della comunicazione – ossia la “leggerezza” delle nuove modalità comunicative (dalle onde radio ai bit), le possibilità di adattamento a differenti supporti (il digitale), dunque la flessibilità, la mobilità e la partecipazione dell’utente nel processo produttivo – è stato invece scambiato per una liberazione dalla schiavitù della fisicità e delle sue logiche, spesso identificando semplicisticamente il virtuale con il non-materiale. Un errore di questo tipo porta spesso a concentrarsi sul cosa si comunica, tralasciando il come e in quale forma ciò avvenga. Alcune tecnologie digitali, estendendo un processo già avviato con l’introduzione dell’elettricità, stanno introducendo modalità comunicative sempre più basate sulla multidirezionalità e l’immersione, oltre che sull’interattività, obbligando a rivedere i modelli comunicativi elaborati finora, compresi molti modelli reticolari della comunicazione. Nuove interazioni comportano non di rado nuove cornici mentali2. La stessa percezione dello spazio e del tempo varia con l’utilizzo diffuso delle nuove tecnologie, rendendo istantaneo il tempo della comunicazione ed estendendo lo spazio vissuto allo spazio

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soriale, i media hanno sempre contribuito a riconfigurare l’equilibrio cinestesico tra i sensi che la neurologia mette in relazione con un senso integrato del corpo alla base di ogni percezione. Dunque il digitale non “risveglia i sensi”, come anche è stato detto, bensì ne riconfigura i rapporti omeostatici, investendo spesso – ecco la novità – sull’intero campo dei sensi piuttosto che su singole facoltà sensoriali. Quel che cambia è la nostra percezione dell’informazione, perché diversi sono i sensi stimolati dai vari supporti (e questo pur nella consapevolezza dell’impossibilità scientifica di una misurazione dei diversi apporti sensoriali). Si può affermare equilibratamente che il digitale più dell’analogico sta aiutando a comprendere l’importanza della corporeità e delle strategie comunicazionali immersive. Alcune tecnologie digitali della comunicazione consentono all’organismo approcci nuovi – questi sì – ai contenuti della comunicazione, e i dispositivi per il trattamento dell’informazione che rimettono in discussione le modalità tradizionali e acquisite del comunicare non possono che essere quelli che complessi processi di negoziazione sociale rendono tali. Come suggeriscono Bolter e Grusin (1999, p. 305):

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considerato significativo, debba essere nuovo1. Ma quando e per quanto tempo un medium può essere considerato nuovo? La televisione è ancora, nonostante l’introduzione del digitale, un nuovo medium? La stampa, il telegrafo, la radio? Il computer è un nuovo medium, o è già sorpassato? E soprattutto, si può parlare di computer? Che dire del Web 2.0? Più volte, trattando di nuovi media, alcuni studi si sono soffermati su tecnologie assolutamente non considerate in altri lavori dello stesso tipo. La distinzione implicita è dunque tra nuovi e vecchi media, e appare difficile attribuire con sicurezza lo status di nuovo a un qualsiasi mezzo di comunicazione, così come difficile risulta inserirlo nella lista dei vecchi media. Negli anni sono state avanzate varie proposte per sempre nuove distinzioni dei media per tipologie: media elettrici, media audiovisivi, media analogici e digitali, media interattivi ecc. Di particolare importanza per la storia dello sviluppo dei mezzi di comunicazione, di massa e non, è l’accento posto da molti sulle conseguenze dell’uso dell’elettricità per la comunicazione a distanza, ciò che ha potuto garantire quel senso di immediatezza al quale siamo ormai abituati. È evidente, d’altra parte, che suddividere i mezzi di comunicazione secondo il parametro dell’immediatezza comporta il dover tenere insieme media analogici con media digitali, media audiovisivi e media immersivi ecc. Nel tempo, entusiasti e critici dei nuovi media si sono spesso impegnati in apologie o atti di accusa verso qualcosa che né gli studiosi né gli addetti ai lavori sono ancora riusciti a definire chiaramente. Al di là della scarsa delimitazione dell’oggetto di studio, ad ogni modo (e senza soffermarsi sulle retoriche del nuovo e del futuribile che caratterizzano il linguaggio di molta produzione scientifica, oltre che dell’advertising e della politica), è parere unanime che tra i nuovi media debbano rientrare per forza di cose le tecnologie digitali, in primo luogo per la loro (relativa) giovinezza, e in secondo luogo per le evidenti differenze con i media precedenti. Ma è sempre così “rivoluzionaria” la tecnologia digitale rispetto a quella analogica, o – come pare – in alcune previsioni è spesso riscontrabile un’enfasi non del tutto giustificata? Molto più sensato appare porre l’attenzione sui mutamenti legati all’introduzione, alla diffusione e all’utilizzo dei vari media nel tessuto sociale in prospettiva sincronica e diacronica. Per comprendere a fondo le dinamiche dei nuovi media, è necessario considerare l’evoluzione del sistema mediale nel suo complesso: nessun medium esiste o ha significanza da solo, ma soltanto in un continuo rapporto con altri media (McLuhan 1964). Non si può dimenticare che i vecchi media sono stati nuovi, un tempo. Solo così si può tracciare il percorso che dalla parola e dall’alfabeto ha condotto al linguaggio binario e alle tecnologie digitali. I nuovi media – qualunque cosa si intenda con questa definizione – sono stati da più parti messi in stretta relazione con la riscoperta della corporeità, ora per sancire la definitiva liberazione della mente dal corpo, ora per mettere in guardia contro una presunta “digitalizzazione del sentire”. Ma i nuovi media, al di là di ogni enfasi apocalittica o entusiastica, condividono spesso molti aspetti delle tecnologie precedenti. Ogni medium, se seguiamo il ragionamento di McLuhan, ha sempre implicato uno stretto legame con la sensorialità umana, con il corpo. Estendendo ora questa ora quella facoltà sen-


I fruitori (…) vivono la macchina come legame sociale, dispiegando una creatività sempre vincolata. Il vincolo è costituito dalla resistenza della tecnica, che impone dei limiti al funzionamento dell’oggetto, aprendo un solo campo di possibilità (p. 91).

I progettisti negoziano con rappresentazioni degli usi, i fruitori negoziano con l’oggetto stesso, dotato di una propria specifica resistenza. Dalla negoziazione degli utenti con gli oggetti deriva dunque la gran parte degli usi sociali delle nuove tecnologie (e col tempo si scoprono sempre nuovi usi anche per i vecchi dispositivi). Quel che si potrebbe suggerire è che nel caso di Second Life i progettisti si sono limitati a essere “costruttori di mondi” piuttosto che registi di un processo, prevedendo e in qualche modo progettando proprio la flessibilità che garantisce agli utenti gradi di autonomia più elevati rispetto ad altre realtà on line. Scrive ancora Flichy: Di fronte a un quadro di funzionamento, di fronte a una macchina che impone le proprie modalità operative e gli resiste, il fruitore può dare prova delle proprie capacità tattiche. (…) In ogni caso, la macchina possiede in se stessa, in profondità, il progetto del fruitore (…). Inversamente, il fruitore sa ciò che può chiedere alla macchina, e gli adeguamenti fra fruitore e macchina possono eventualmente darsi anche al di qua delle prestazioni tecniche a disposizione (pp. 138-139).

Le capacità tattiche degli utenti di Second Life si sono rivelate già durante il caso “Copybot”, con quella che è stata definita “la più importante protesta collettiva messa in piedi contro una regola della Linden Lab dalla tax protest del 2003”. Il caso “Copybot” rimane nella storia di Second Life come la prote-

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3. Il 27 gennaio del 2007, migliaia di persone si sono riunite a Washington per una “marcia per la pace”. Per supportare la manifestazione, il gruppo Netroots ha organizzato per il 30 gennaio una dimostrazione parallela. Più di 120 persone da tutti gli Stati Uniti e da altre sette nazioni si sono incontrate in un primo momento in un luogo chiamato RootCampSL per la distribuzione di cartelli e magliette a tema, e hanno poi manifestato sui gradini di Capitol Hill con balli, coreografie e slogan contro la politica estera del governo americano. La dimostrazione si è tenuta nel metaverso3 di Second Life, e a manifestare sono stati gli avatar degli utenti, uniti dallo slogan “Avatars against the War: a Second Life protest for peace”4. Second Life non è un gioco, e neanche un MMORPG (Massive Multiplayer Online Role Playing Game): è un ambiente immersivo senza scopi o obiettivi precisi, se non quelli che gli stessi utenti si danno. Dal punto di vista puramente tecnico, il sistema offre un motore grafico non certo paragonabile a quelli dei più recenti giochi in 3D. Il sistema risiede su circa duemila server dislocati tra San Francisco e Dallas5, e viene aggiornato periodicamente attraverso il rilascio di nuove versioni del software. Cosa c’è di nuovo in Second Life, quale la “variazione grande”? Dopotutto, di mondi virtuali – e di mondi virtuali on line – ne esistono tanti, e da più tempo (dai MUD fino ai RPG, ai MMORPG, e alle varianti delle arene di scontro di molti videogame). Esattamente come accade per gli altri mondi virtuali, al mondo di Second Life si accede di norma attraverso interfacce “primitive” come la tastiera, il mouse, lo schermo del computer. Eppure, e a dispetto di queste premesse, il vero motore di Second Life sembra essere l’innovazione. Il metaverso di SL riunisce l’interattività propria dei videogame, l’interconnessione tra gli utenti tipica delle modalità multipla-

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yer, le logiche di quel che viene definito Web 2.0 (sintetizzabili schematicamente nelle formule “web come piattaforma” e “architettura della partecipazione”), la flessibilità di un ambiente aperto e manipolabile, e un conseguente livello di complessità difficilmente riducibile. Nessuna delle caratteristiche appena elencate è prerogativa unica di Second Life, ma tutti questi elementi danno vita in Second Life a un intreccio di variabili originale, che ha molto a che fare con l’incontro ideale tra progettisti e fruitori al centro di ogni riflessione sulla negoziazione e sugli usi sociali delle tecnologie. Nel suo libro dedicato all’innovazione tecnologica, in un paragrafo intitolato La tecnologia culturale, Patrice Flichy (1995) analizza i legami fra tecnica e cultura, in vista della costruzione di una nuova antropologia della tecnica: “per ogni artefatto tecnico – scrive – si possono determinare ‘quadri tecnologici’ che costituiscono l’ambiente sociale e cognitivo nel quale costruttori e utenti concepiscono e utilizzano l’oggetto” (p. 87). Flichy si ricollega alle analisi di altri sociologi e ricercatori europei, prevalentemente francesi e anglosassoni, e mette in evidenza le differenze di vedute tra progettisti e fruitori delle tecnologie. Non è affatto necessario, sostiene, postulare una falsa simmetria tra i due gruppi. Spesso l’uso che i progettisti prevedono in laboratorio per le macchine da immettere sul mercato non trova esatto riscontro tra i fruitori.

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virtuale creato dall’ambiente tecnologico. E se dunque è il corpo a “comprendere” il mondo e a trovarsi compreso in esso (Merleau-Ponty 1945), lo fa attraverso le proprie estensioni tecnologiche, immerso in un ambiente plasmato dai media. Un’analisi delle tecnologie della comunicazione centrata sul corpo può aiutare a comprendere la reale portata dell’interiorizzazione – passata, presente e futura – delle nuove modalità comunicative, di diffusione della conoscenza, di archiviazione del sapere, di consumo culturale. Appare dunque di fondamentale importanza analizzare i media da un punto di vista sempre più interdisciplinare, per cercare di delineare con più precisione il ruolo svolto dalla tecnologia, quando il suo utilizzo diventa abituale, nei processi di mutamento: ogni società è condizionata in qualche modo – non determinata – dalle proprie tecniche e dal rapporto che si decide di instaurare con esse (Lévy 1995). Dalle tecnologie della parola alle tecnologie tattili, dall’alfabeto agli ambienti virtuali, la misura di qualsiasi cambiamento è sempre il corpo, sul quale vengono tracciate le coordinate di ogni modificazione negli assetti sociali, economici, e politici di un gruppo sociale. Se si colloca questo ragionamento nella più ampia riflessione sulle tensioni tra umanesimo e postumanesimo, appare chiaro come ogni discorso sull’evoluzione della tecnologia sia anche un discorso sull’evoluzione dell’uomo.


Al di là dell’enfasi aziendale, il valore aggiunto di Second Life risiede nella consapevolezza da parte dell’utente di non trovarsi in un videogame ma in un complesso spazio creativo e relazionale, che alcuni assimilano in modo riduttivo a una chat un po’ più evoluta. L’analogia con la chat, seppur fuorviante, lascia comunque intendere la forza della valenza comunicativa e sociale di Second Life, che, con Edward Castronova (2005), potremmo definire un mondo sintetico centrato sulle comunità e non sugli individui, sul software e non sull’hardware, sul mercato e non sui laboratori di ricerca. La flessibilità di Second Life la rende, rispetto alle altre realtà sintetiche, allo stesso tempo la più vicina al e la più lontana dal mondo quotidiano, quel mondo che Alfred Schutz, sulla scorta di William James, definiva “realtà preminente” (2005). James e Schutz fondavano le proprie analisi sull’assunto che mondi diversi come quello delle cose fisiche, della fantasia, della religione e della scienza possono essere considerati reali e ordinati in una logica di “sub-universi” (Schutz li definisce “province finite di senso”)6. Per Schutz il nostro vissuto è esperienza di contesti che selezioniamo come reali, di mondi nei quali ci immergiamo orientando l’attenzione in modo diverso su ciò che ci circonda, anche se dal punto di vista del mondo quotidiano, le altre province di senso si presentano come “quasi-realtà”: “vi sono vari ordini di realtà, probabilmente un numero infinito di ordini diversi, ognuno con il suo specifico e distinto stile di esistenza” (pp. 125-126). Non è naturalmente questa la sede per affrontare il tema della costruzione sociale della realtà e delle realtà sintetiche, e le poche pagine di questo saggio vogliono essere unicamente un richiamo a un percorso di ricerca stimolante a cavallo tra sociologia, mediologia e new media studies. La fenomenologia del mondo sociale di Schutz, in particolare, può aiutare a comprendere il senso dell’immersione e della relazione con gli altri da sé in uno spazio tridimensionale attraverso i corpi digitali degli avatar7: il tu appartiene al mio mondo sociale ambiente quando coesiste con me spazialmente e temporalmente (…) è essenziale alla relazione socio-ambientale che l’io e il tu abbiano un solo identico ambiente circostante (Umgebung). Fin dall’inizio l’io attribuisce al tu un ambiente corrispondente al suo proprio. Nel caso della relazio-

Per Schutz i vari ordini di realtà sociali sono potenzialmente infiniti, e questo è vero anche in Second Life: le possibilità di creare sub-universi e province di senso autonome sono pressoché illimitate. Nel suo eXistenZ, David Cronenberg aveva rappresentato l’immersione in realtà multiple contenute dentro altre realtà come in una indecifrabile matrioska, e di recente uno spot pubblicitario ha mostrato un ragazzo che rientra a casa, accende il proprio notebook e si collega a Second Life, si immerge nel mondo sintetico, quindi il suo avatar rientra a casa, accende il proprio notebook e si collega a Third Life. Sotto molti aspetti, dunque, il modello della “realtà preminente” (che viene definita “First life” o “Real Life”) in Second Life presenta aspetti interessanti dal punto di vista della costruzione sociale delle realtà condivise. Rispetto agli altri mondi virtuali, Second Life sta ormai diventando il luogo in cui anche aziende, associazioni, enti, istituzioni pubbliche e private di tutto il mondo stanno comprando terre e costruendo edifici per le proprie sedi, e questo rende il metaverso creato dalla Linden Lab qualcosa di molto vicino a una moltiplicazione delle province di senso, a una virtualizzazione esponenziale della realtà. Davanti alla Moschea Chebi, riproduzione sintetica fedele della Grande Moschea di Cordoba, gli avatar si tolgono le scarpe prima di entrare.

Note 1 Comunità scientifica evidentemente non esente dall’attitudine tutta moderna alla neofilia che già Benjamin, riflettendo sulla moda, definiva “l’eterno ritorno del nuovo”. 2 Nel senso che Goffman, riprendendo Bateson, dava al concetto di frame: una cornice cognitiva che rende possibile gli scambi comunicativi in un contesto delimitato, in accordo con il coinvolgimento soggettivo e con alcuni principi di organizzazione che regolano i fatti sociali. Sulla stessa linea le proposte teoriche di de Kerckhove sul concetto di “brainframe”. 3 Così è anche definito il mondo virtuale tridimensionale di Second Life, creato nel 2003 dalla società americana Linden Lab. Il termine metaverso è stato coniato dallo scrittore Neal Stephenson nel suo romanzo Snow Crash (1992). 4 http://slnn.com/article/peacemarch/ 5 L’architettura di Second Life è basata su ambienti, aree, terre. Ogni area geografica gira su una singola applicazione server software chiamata simulator (o sim). A sua volta ogni sim sfrutta un singolo processore sul server. Dunque, un avatar che cammina o vola si sposta da una sim all’altra, e da un server all’altro. 6 “L’immagine di una ‘provincia finita’ sottolinea che ogni regione del reale vede i propri confini definiti e delimitati dall’attenzione che gli viene rivolta (…). L’idea di una ‘provincia di senso’ dotata di un proprio ‘stile cognitivo’ vuole invece togliere all’espressione utilizzata da James il suo residuale sapore ontologico: l’accento di realtà non ha a che vedere con una presunta realtà oggettiva dell’og-

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Un gioco, uno strumento, un luogo di svago, una nazione, e pressoché tutto in essa è costruito dai residenti. Uno spazio digitale in cui tutti possono essere quel che desiderano, creare quel che desiderano, e fare quel che desiderano, e sta crescendo rapidamente. SL ha una base diversificata e globale di utenti che sono entusiasti del mondo che sta creando.

ne sociale, e solo in esso, si deve applicare questo presupposto, e ciò nella misura in cui nel mondo ambiente posso ammettere che il tavolo che vedo io è identico a quello che vedi tu (di una identità che permane in tutte le maniere di profilarsi del tavolo) (…). Solo a partire da qui, dalla relazione socio-ambientale del vivere in comune un mondo nell’ambito del noi, può costituirsi un mondo intersoggettivo, ed è su questa base che questo riceve la sua propria ed originaria legittimazione (Schutz 1960, pp. 231, 241, 242).

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sta contro gli sviluppatori di un software che consentiva la modifica e la vendita illecita di oggetti e contenuti prodotti dagli utenti e teoricamente protetti da copyright. Uno degli aspetti interessanti in Second Life è infatti la possibilità per gli utenti di creare qualsiasi tipo di oggetti (non c’è alcun vincolo, è unicamente necessario conoscere il linguaggio di scripting del software), e di possederli e rivenderli con regolare copyright. La Linden Lab definisce la sua creazione nei seguenti termini:


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getto o del contesto, bensì con il senso che all’oggetto o al contesto viene soggettivamente o intersoggettivamente attribuito” (Possenti 2005, p. 19). 7 Da un punto di vista etimologico, il termine avatar richiama la reincarnazione.

Carlo Formenti Neo, ovvero la fine della storia nel mito di Matrix

Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Bolter, J. D., Grusin, R., 1999, Remediation. Understanding New Media, Cambridge (Mass.), MIT; trad. it. 2002, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini e Associati. Castronova, E., 2005, Synthetic Worlds. The Business and Culture of Online Games, Chicago, University of Chicago Press. Flichy, P., 1995, L’innovation technique. Récents développements en sciences sociales, vers une nouvelle théorie de l’innovation, Paris, La Découverte; trad. it. 1996, L’innovazione tecnologica. Le teorie dell’innovazione di fronte alla rivoluzione digitale, Milano, Feltrinelli. Goffman, E., 1974, Frame Analysis. An Essay on the Organization of Experience, London, Harper and Row; trad. it. 2001, Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Roma, Armando Editore. James, W., Schutz, A., 2005, Le realtà multiple e altri scritti, a cura di I. Possenti, Pisa, ETS. Lévy, P., 1995, Qu’est-ce que le virtuel?, Paris, La Découverte; trad. it. 1997, Il virtuale, Milano, Raffaello Cortina. McLuhan, M., 1964, Understanding Media. The Extensions of Man, New York, McGraw-Hill; trad. it. 1967, Gli strumenti del comunicare, Milano, il Saggiatore. Merleau-Ponty, M., 1945, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard; trad. it. 1965, Fenomenologia della percezione, Milano, il Saggiatore. Possenti, I., 2005, “Introduzione”, in James, Schutz 2005, pp. 13-51. Schutz, A., 1960, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, Wien, Springer-Verlag; trad. it. 1974, Fenomenologia del mondo sociale, Bologna, il Mulino.

Il mito Chi (o che cosa) è Matrix? Nella trilogia filmica dei fratelli Wachowski questo sembra essere l’interrogativo metafisico intorno a cui ruota l’intera saga fantascientifica. Poco importa se già all’inizio del primo film lo spettatore viene edotto del fatto che il “nemico” è un computer, una potente intelligenza artificiale che governa un mondo di fantasmagorie virtuali dopo avere reso schiava l’intera umanità. Questa è solo una minima parte della verità, perché il vero mistero riguarda lo statuto ontologico dell’avversario: è solo una macchina, ancorché dotata di mostruose capacità di memorizzazione ed elaborazione delle informazioni, oppure un software che, dopo avere superato la soglia dell’autocoscienza – come attestano le “personalità” dei programmi che popolano il suo mondo –, ha raggiunto vette di comprensione sublimi, attingendo lo stato di divinità? A mano a mano che la narrazione prosegue, obbligando l’antagonista umano di Matrix ad affrontare sfide sempre più ardue, superate solo per scoprire che si tratta di trappole per farlo arrivare esattamente laddove l’onnisciente avversario vuole condurlo, il dubbio si fa sempre più radicale. Fino all’esito conclusivo del terzo e ultimo film, in cui assistiamo alla fusione-matrimonio fra i due antagonisti, celebrato in un tripudio kitsch di effetti speciali. Tutto qui? Il senso dell’intera vicenda si riduce quindi alla presa d’atto che non è più possibile tracciare un confine netto fra naturale e artificiale, che l’ibridazione della specie umana con le sue protesi “psicotecnologiche” (de Kerckhove 1995) ha oltrepassato l’orizzonte fenomenico del cyborg per approdare felicemente alla condizione postumana (Marchesini 2002)? Ci troviamo semplicemente di fronte all’ennesima versione del tormentone che ha ispirato la narrativa e la filmografia di fantascienza negli ultimi trenta-quarant’anni, e che ritroviamo in versione appena meno ingenua nelle celebrazioni ideologiche dei teorici della rivoluzione digitale (Negroponte 1995)? Se davvero questo fosse tutto, resterebbe da spiegare il fascino – paragonabile a quello di un mito classico – che Matrix ha esercitato non solo nei confronti del pubblico di massa, ma anche di filosofi e intellettuali che lo hanno


Le visioni di Philip Dick La fantascienza è nata in America (né avrebbe potuto nascere altrove!) fra le due guerre mondiali, come tentativo di aprire – letteralmente – nuovi spazi immaginari alla moderna mitologia del progresso. Esaurita la corsa verso ovest – dopo avere raggiunto, secondo l’efficace metafora di J. F. Lyotard (1979), il “muro del Pacifico” –, e avendo già compromesso il proprio sogno nel macello per la spartizione del bottino coloniale con le altre potenze occidentali, l’imperialismo americano aveva bisogno di immaginare un futuro in cui rilanciare la corsa verso la frontiera, con tutto il suo corredo ideologico di libera iniziativa individuale e dominio tecnologico sulla natura (strade ferrate a divorare gli spazi e fucili a “pacificare” i selvaggi). La fantascienza inventa questo futuro, ma soprattutto inventa i luoghi (lo spazio esterno) in cui proiettare la rinascita dell’utopia americana (con le astronavi al posto del treno e gli alieni al posto dei pellerossa). Ma dopo la seconda guerra mondiale, mentre incalzano gli incubi della guerra fredda e dell’olocausto nucleare, il gioco non funziona più. La fantascienza abbandona progressivamente gli spazi esterni e ripiega su una Terra che appare sempre più “senza futuro”. Esaurita anche la spinta propulsiva delle imprese spaziali, spetta agli epigoni cyberpunk sostituire gli spazi interplanetari con “l’allucinazione condivisa” del cyberspazio, ma questo nuovo “luogo” ospita incubi da Medioevo elettronico più che sogni di progresso. Prima del cyberpunk, tuttavia, è proprio Dick a ridefinire canoni narrativi e prospettive temporali del genere. A coronamento di un’annata ricca di contributi critici sull’opera di questo autore, preziosa per capire la contemporaneità americana, Gabriele Frasca (2007) ci offre una sintesi particolarmente efficace di alcuni snodi fondamentali.

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que intesa nell’originario significato astronomico del termine, vale a dire come ritorno all’orginario punto di partenza di una traiettoria, il “nuovo” che Neo incarna ai loro occhi è una reintegrazione dell’originaria identità mitica della specie. Se Matrix è un incubo divenuto realtà – come avviene appunto per i sogni del cattivo demiurgo nel mito gnostico (Filoramo 1987) – Neo deve “ricordare” la sua vera natura per dissolvere l’incubo. Come si vede, in questo gioco di specchi fra “mondo uno e mondo zero” (Frasca 2007) diventa sempre più difficile stabilire dove stanno la “vera” realtà e l’illusione. Forse, come sembra insinuare a più riprese il film, i mondi si incastrano all’infinito l’uno nell’altro senza permetterci di scoprire in quale di essi dimori la (o anche solo una) verità. Forse la prospettiva temporale fra passato, presente e futuro non è stata solo invertita: si è irreversibilmente confusa, al punto che qualsiasi rivoluzionario “ritorno” alle origini appare del tutto impossibile. Un dubbio che ci consente di assumere il mito di Matrix come il superamento definitivo della prospettiva temporale del genere fantascientifico e che, al tempo stesso, rivela il debito dei fratelli Wachowski nei confronti di Philip K. Dick, l’autore che aveva inaugurato tale superamento decenni prima.

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celebrato come rivelazione-metafora di una mutazione culturale di portata epocale (Cappuccio, a cura, 2004). Per rendere conto di questa fascinazione, provo a suggerire un’altra domanda: chi è Neo? Perché il protagonista di Matrix si chiama così? Qual è il “tempo nuovo” evocato dal suo nome? Provo a rispondere analizzando alcuni elementi dell’intreccio narrativo della saga. Neo viene contattato e arruolato dai ribelli che si oppongono a Matrix perché il suo identikit sembra corrispondere a quello del messia che, secondo una profezia, dovrà guidare la liberazione dell’umanità dal potere delle macchine. Ecco i primi indizi: qui si parla di profezia e rivoluzione, si parla, dunque, di una prospettiva temporale apocalittico-escatologica. Qualcuno ha detto giungerà il tempo della salvezza, e ora sembra che questo tempo sia arrivato. Il futuro dell’utopia irrompe nella realtà del qui e ora. Ma le cose sono un po’ più complicate. Quando i ribelli “svelano” (il che avviene attraverso la somministrazione di una droga: particolare che apparirà significativo più avanti) a Neo la sua condizione di schiavo di Matrix, egli scopre che il mondo illusorio in cui vive appartiene al passato, è una ricostruzione virtuale del tempo in cui gli esseri umani vivevano liberamente sulla Terra. Nella realtà – cioè nel futuro distopico creato dalle macchine dopo una guerra con gli esseri umani – il corpo di Neo, imprigionato come quelli di milioni di suoi simili in una sorta di enorme “coltivazione”, serve a fornire bioenergia alle macchine che non possono più attingere all’energia solare, schermata dall’inverno nucleare seguito alla guerra (una metafora del potere biopolitico?), mentre la sua mente si nutre di un’allucinatoria “normalità” alimentata dagli “effetti speciali” generati da realtà virtuale e droghe chimiche. Una volta “risvegliato” (le metafore religiose proliferano, qui con risonanze gnostiche), Neo entra a far parte della ristretta cerchia di eletti che conoscono la verità e lottano contro la tirannia delle macchine. Mentre attendono l’ora del riscatto, i rivoluzionari sono costretti a vivere nelle viscere della Terra (come i protocristiani che si rifugiavano nelle catacombe) e a nutrirsi di disgustose pappette sintetiche (uno degli episodi più riusciti del film è il tradimento di uno dei congiurati, disposto a vendersi, non per un piatto di lenticchie, bensì per il gusto – che sa essere frutto di una simulazione, ma non per questo meno delizioso – di una bistecca). Trascurando le avventurose vicissitudini che seguono alla rivelazione e all’arruolamento, con il succedersi di prove iniziatiche che consentono a Neo di conquistare una crescente padronanza “pneumatica” del mondo illusorio generato dal suo antagonista (il “cattivo demiurgo” Matrix), fino alla già citata soluzione dell’inatteso quanto improbabile amplesso fra duellanti, torniamo a concentrarci sulle coordinate temporali del mito. Come si è detto, Neo scopre che la sua mente vive nel passato (simulato), mentre il suo corpo abita inconsapevolmente il miserabile futuro-presente (reale) creato dalle macchine. Dunque la salvezza, il tempo nuovo, che i ribelli si aspettano da lui non si apre, come generalmente avviene nelle utopie rivoluzionarie, sul futuro, ma consiste piuttosto in una inversione di statuto ontologico fra passato e futuro: la passata felicità deve tornare a essere reale, il distopico futuro-presente deve invece dissolversi come un incubo. La “rivoluzione” sognata dai ribelli va dun-


La lezione di Reinhart Koselleck Quella che è senza dubbio una delle più raffinate analisi delle origini della moderna concezione del tempo storico (Koselleck 1979) inizia con la descrizione del quadro della Battaglia di Alessandro, del pittore Albrecht Altdofer. Il dipinto si riferisce alla battaglia di Isso, che oppose le truppe del condottiero macedone all’esercito del re persiano Dario III nel 333 a.C. Sulla tela, scrive Koselleck, non compaiono ricostruzioni più o meno attendibili delle armi e delle divise dell’epoca, bensì immagini anacronistiche che evocano schiere di lanzichenecchi, come se l’evento si fosse svolto pochi anni prima. Quella che oggi ci appare una bizzarra incongruenza, spiega Koselleck, non è il frutto di un’arbitraria neutralizzazione della differenza temporale, ma deriva dal fatto

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prospettive vanno a braccetto) di utopici orizzonti futuri: è arrivato il momento di vivere qui e ora, abbandonando le velleità apocalittico-escatologiche di una generazione – quella degli anni Sessanta – che non aveva capito che “combattere l’Impero significa essere contagiati dalla sua follia” (Frasca 2007, p. 201), che “chiunque sconfigge un segmento dell’Impero diventa l’Impero” (ib.) La lucida quanto spietata descrizione della cultura “radical” che ci ha consegnato l’ultimo Dick, sostiene Frasca, può aiutarci a capire come il ’68 americano abbia poco da spartire con le aspettative “sovversive” di quello europeo, come quel movimento si identificasse sostanzialmente con le frange radicali della prima generazione formata dalla televisione, come quella generazione psichedelica (in cerca, al pari di Neo, di “rivelazioni” chimiche) non fosse protesa alla rivoluzione bensì all’affermazione di nuovi modelli di comportamento e stili di vita. Come a dire: in quegli anni nascono le basi culturali per la transizione alla New Economy (Castells 2001), per una “rivoluzione culturale” che – grazie all’avvento del digitale – non avrebbe tentato di superare il capitalismo bensì di “smaterializzarne” il dominio, elevandolo a più sofisticati livelli di sfruttamento della “intelligenza collettiva” (Lévy 1994). In altre parole, se fosse stato questo Dick “rinsavito” a scrivere la sceneggiatura di Matrix, avrebbe lasciato perdere tanto i sogni di ritorno a un passato umano quanto quelli di proiezione verso un futuro di riconciliazione-ibridazione con le macchine. Il suo Neo avrebbe invitato i rivoluzionari a fare come la protagonista de La tramisgrazione di Thimoty Archer, cioè a mangiare un “vero” panino (magari schifoso, viste le condizioni di degrado del mondo reale) invece di cercare immaginari nutrimenti spirituali. A questo punto, siamo però indotti a chiederci se questa esortazione a vivere qui e ora non suoni a sua volta come un’illusione utopistica. Siamo sicuri che ciò sia possibile nella dimensione temporale instaurata dai media digitali? Siamo sicuri che il mito di Matrix e i deliri del Dick “visionario” (prima del tardivo quanto ipotetico rinsavimento) non colgano, malgrado le (o meglio grazie alle) incongruenze un reale e irreversibile passaggio d’epoca? Ritorna insomma la domanda: qual è il tempo nuovo inaugurato da Neo?

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Prima suggestione. Come in Matrix, il passato – la storia – non offre alcuna garanzia di “autenticità”, e non solo perché la sua narrazione può essere inaffidabile, ma perché nemmeno il passato è esente da manipolazioni. Nel romanzo La svastica sul Sole, Dick immagina infatti un mondo parallelo in cui i nazisti hanno vinto la guerra e si sono spartiti con il Giappone il continente americano. Un mondo che, a mano a mano che le vicende del romanzo si dipanano, si contamina sempre più con il mondo “reale”, quasi a suggerire che la vittoria sul nazismo è stata solo apparente, perché la democrazia americana (impegnata nella guerra contro il Vietnam ai tempi in cui uscì il romanzo), fra espropriazione del potere decisionale dei propri cittadini, alienazione tecnomediatica e ascesa del sistema militare-industriale, si avvia a somigliare sempre più al totalitarismo sconfitto. Ancora più “paranoicamente” – Dick è stato maestro di quella cultura del complotto che, analogamente a quanto avviene nella trilogia dei fratelli Wachowski, implica “una sorta di tradimento costante ai danni dell’uomo comune” (p. 16) da parte dei detentori del potere –, in alcuni romanzi dell’ultimo Dick – ricchi di suggestioni mistico-religiose di derivazione gnostica – si immagina che l’intera storia dalla morte di Cristo a oggi non sia altro che un’illusione: l’Impero non ha mai cessato di esistere e conserva il suo dominio sui propri sudditi, ai quali fa credere (come capita alle vittime umane di Matrix) di vivere nel mondo che appare ai loro sensi, ma che non è altro che il prodotto allucinatorio di droghe e media elettrici. Seconda suggestione. Diversamente da quanto avviene nella versione filmica che ne ha offerto Ridley Scott, nel Blade Runner dickiano gli androidi non sono vittime innocenti dell’avidità umana – che li ha dotati di consapevolezza per aumentarne la produttività, ignorando le dolorose conseguenze del “desiderio di umanità” che tale consapevolezza comporta –, bensì “elettrodomestici” sostanzialmente stupidi quanto crudeli, per cui la “storia d’amore” fra il cacciatore di androidi e una delle sue prede appare come l’estrema manifestazione di una narcisistica infatuazione per le proprie protesi mediali (McLuhan 1951). Gli androidi di Dick sono insomma “cattivi” come gli agenti-software di Matrix. Dick muterà però atteggiamento nei confronti della tecnica nelle ultime opere, vale a dire in quella “trilogia di Valis” in cui, ispirandosi al concetto di noosfera elaborato dal misticismo-evoluzionista di Teilhard de Chardin, subirà la fascinazione del “cervello collettivo” che emergerebbe dalla sfera dei media elettronici e delle menti umane “interconnesse” tramite tale sfera (una visione anticipatoria di internet), un matrimonio mistico fra umanità e tecnosfera che prospetta per la parabola dickiana un esito non meno contraddittorio del finale del terzo e ultimo film della serie di Matrix. Terza suggestione. A sanare questa palese contraddizione fra critica politico-culturale e infatuazione nei confronti della tecnosfera, provvede, secondo Frasca, l’ultimo romanzo della trilogia che, rinnegando tanto il terreno delle speculazioni gnostiche quanto il genere letterario della fantascienza, assume, attraverso la protagonista femminile, un punto di vista “realistico” sul mondo. Basta con la paranoia del complotto, basta con la metafisica d’accatto, basta con i sogni di reintegrazione di un’origine incontaminata e/o (si sa che le due


Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Capuccio, M., a cura, 2004, Dentro la matrice. Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix, Milano, Alboversorio. Castells, M., 2001, The Internet Galaxy, Oxford, Oxford University Press; trad. it. 2002, Galassia Internet, Milano, Feltrinelli. de Kerckhove, D., 1995, The Skin of Culture, Toronto, Somerville House Books; trad. it. 1996, La pelle della cultura, Genova, Costa & Nolan. Filoramo, G., 1987, L’attesa della fine. Storia della gnosi, Bari, Laterza. Frasca, G., 2007, L’oscuro scrutare di Philip K. Dick, Roma, Meltemi. Koselleck, R., 1979, Vergangene Zukufunt. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag; trad. it. 1986, Futuro passato, Genova, Marietti. Lévy, P., 1994, L’intelligence collective, Paris, La Découverte; trad. it. 1996, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Milano, Feltrinelli. Lyotard, J.-F., 1979, Le mur du Pacifique, Paris, Galilée. Marchesini, R., 2002, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri. McLuhan, M., 1951, The Mechanical Bride. Folklore of Industrial Man, New York, The Vanguard Press; trad. it. 1994, La sposa meccanica. Il folclore dell’uomo industriale, Milano, Sugarco. Negroponte, N., 1995, Being Digital, New York, A. Knopf; trad. it. 1995, Essere digitali, Milano, Sperling & Kupfer.

59 Neo, ovvero la fine della storia nel mito di Matrix

Bibliografia

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che tale differenza non appariva come tale agli occhi dell’artista e dei suoi contemporanei. Benché il tempo della modernità – scandito dalle grandi scoperte geografiche, dalle innovazioni tecnologiche e dalla Riforma protestante – già bussasse alla porta, argomenta lo storico tedesco, il mondo rinascimentale non aveva ancora rotto con la visione medievale-cristiana del tempo, per cui, come nel Medioevo, si viveva ancora in una condizione di sostanziale contemporaneità di tutte le epoche storiche. Niente di veramente nuovo può accadere laddove si è in costante attesa della fine del mondo, dell’evento escatologico. È vero che la Chiesa aveva sradicato le eresie millenaristiche, impedendo che l’Apocalisse, proiettando la propria ombra sull’immediato presente, rendesse impossibile qualsiasi orizzonte di esperienza temporale, ma questo differimento a un futuro indeterminato del secondo avvento non aveva ancora inaugurato una vera e propria prospettiva storica. Perché ciò avvenisse, sostiene Koselleck, occorreva passare attraverso il caos delle guerre civili di religione del Cinque-Seicento. Solo allorché il moderno Stato-nazione emerge dalle rovine di quel caos per rivendicare “il monopolio del futuro”, dopo averlo strappato dalle mani dei profetismi religiosi e politici di ogni tipo, si dischiude finalmente lo spazio ideale per il riconoscimento della differenza temporale e del nuovo. L’Illuminismo e la filosofia della storia completano l’opera, coniando la moderna idea di progresso e liberando il concetto di rivoluzione dai residui dell’originario significato astronomico: dopo il 1789, rivoluzione non significa più ricostituzione di un originario ordine naturale, bensì consapevole e volontaria progettazione del futuro. La prospettiva rivoluzionaria si universalizza e diviene permanente, e dichiarando permanente la rivoluzione – in quanto costante apertura del mondo all’irruzione dell’assolutamente nuovo – “si mettono a nudo sia l’anticipazione volontaria e cosciente del futuro, sia la tacita premessa che questa rivoluzione non potrà mai essere portata a termine” (p. 68). Il differimento della realizzazione dell’utopia, del “programma rivoluzionario”, consente di aumentare la divaricazione fra passato e avvenire; così il tempo viene esperito come salto e rottura, età di transizione in cui emergono continuamente cose nuove e inattese. L’equazione di questa “temporalizzazione della storia”, secondo Koselleck, può essere formulata anche così “quanto più scarso è il contenuto di esperienza, tanto maggiore è l’aspettativa” (p. 321). Ma cosa succede se l’accelerazione della tecnica supera le aspettative rivoluzionarie, se l’esperienza (mediata) si ipertrofizza rendendo più cauta e al tempo stesso più aperta (cioè meno progettualmente determinata) l’aspettativa? Allora si raggiungerebbe, scrive Koselleck, “quella che possiamo chiamare, senza enfasi, la fine della ‘età moderna’ intesa come progresso lanciato verso la perfezione” (ib.). Ma non sarà precisamente questo il “tempo nuovo” annunciato dal messia Neo e dal visionario Dick: una dimensione in cui l’accelerazione assoluta della tecnica e dell’informazione tornano a farci percepire come contemporanee tutte le epoche storiche? Se le cose stanno così, a finire non sarebbe la storia, ma piuttosto le aspettative che nutrivamo nei suoi confronti. E a questo punto possiamo davvero aspettarci di tutto...


Ferdinando Boero Evoluzione graduale e per salti: quale futuro per le specie?

Senza deviazione dalla norma il progresso è impossibile. Lo ha detto uno dei più grandi devianti del mondo musicale del secolo scorso: Frank Zappa. Zappa era un genio assoluto in campo musicale, ma questa frase non è proprio così geniale, molti prima di lui hanno espresso questo concetto. La teoria delle catastrofi, di René Thom, vede nelle catastrofi, nei cambiamenti di paradigma, il motore del cambiamento. E anche Khun, con le rivoluzioni scientifiche, vede nella storia del pensiero una serie di rivoluzioni, di catastrofi, che segnano il passaggio da un’era all’altra. Zappa ha espresso gli stessi concetti con altre parole, e la sua frase non è geniale proprio perché non devia dalla norma, ma identifica una norma, la norma dell’anormalità per ottenere innovazione, già individuata da altri prima di lui. Una delle grandi rivoluzioni è stata quella darwiniana. Si può dire che la rivoluzione copernicana abbia tolto la Terra dal centro dell’universo, e si può anche dire che la rivoluzione darwiniana abbia tolto l’uomo dal centro della natura, della vita. Prima di Darwin l’uomo era visto come qualcosa di divino, fatto a immagine e somiglianza di Dio, come dicono i testi sacri. Darwin intuì, riprendendo il trasformismo di Lamarck, che la vita non resta mai uguale a se stessa e che le specie si trasformano nel tempo, passando da uno stato a un altro stato, attraverso la somma di tante piccole modificazioni. Questa visione dell’evoluzione viene chiamata gradualismo darwiniano. Prima di Darwin, lo stesso Linneo, un fissista, scrisse una frase lapidaria (scritta ancora prima da Leibniz): Natura non facit saltus. La natura non fa salti. Possono tante piccole modificazioni, piano piano, portare da una lumaca a un cavallo? È facile che portino da una specie di lumaca a un’altra specie di lumaca, ma se da lumaca si passa a lumaca, come si può pensare che da tante modificazioni dell’architettura “lumaca” si possa arrivare a un cavallo? Per non parlare dell’essere più perfetto, magnifico e meraviglioso che mai abbia calcato i suoli di questo sgangherato pianeta: l’uomo! È facile pensare come si possano avere passaggi che portino da zebre a cavalli, da leoni a tigri, ma il passaggio da vermi a insetti risulta ben più difficile da immaginare. Perché ci sia evoluzione graduale ci vogliono le forme intermedie.


Negli anni Settanta, Eldredge e Gould proposero il saltazionismo. I due grandi paleontologi statunitensi dissero che le piccole modificazioni graduali non portano da nessuna parte e che l’evoluzione non si realizza con la gradualità ma con i salti. Ci sono, quindi, lunghi periodi di stasi, di equilibrio, punteggiati da periodi brevi ma di grande cambiamento. Per i paleontologi, breve significa magari mezzo milione di anni. Un tempo breve se si confronta con le centinaia di milioni di anni, i miliardi di anni, con cui si misurano i tempi evolutivi. I saltazionisti affermarono che la presenza di salti evolutivi falsificava il gradualismo e questo innescò una guerra fratricida tra gli evoluzionisti, accecati dal paradigma popperiano del falsificazionismo. I gradualisti, infatti, per tutta risposta affermarono di aver falsificato il saltazionismo ogni volta che trovarono un esempio di gradualismo. Nessuno dei due schieramenti si sognò, per un certo tempo, che entrambi potessero avere ragione, come in effetti poi compresero: l’evoluzione è sia graduale sia per salti. Entrambe le spiegazioni – i “modelli” – sono valide e quando vige una magari l’altra non trova riscontro, ma questo non significa che in altre circostanze non valga il contrario. Evoluzione graduale ed evoluzione per salti semplicemente coesistono come modalità, come meccanismi, dell’evoluzione. Lo stesso avviene nella storia. Sono nato nel 1951 e ricordo una serie di eventi che hanno segnato il corso della storia. Ricordo l’assassinio dei Kennedy, lo sbarco dell’uomo sulla Luna, l’assassinio di Martin Luther King, i concerti dei Beatles (ne ho visto uno, nel 1965), la caduta di Saigon, la guerra dei Sei giorni, l’empeachment di Nixon, la caduta del muro di Berlino, la caduta dell’URSS, la caduta della Democrazia Cristiana, l’Unione monetaria europea, l’attacco alle torri gemelle. Ricordo l’arrivo della televisione, del telefono cellulare, del computer, dell’Ipod, del GPS, di internet. E ricordo la fine dei transatlantici, l’avvento dei jet. Il passaggio da lavagna a lavagna luminosa, e poi a videoproiettore. Queste cose sono avvenute così, di botto. Bam! Non c’è più l’Unione Sovietica. Bam! Le cassette sono finite, ci sono i CD. E i DVD. Tra poco bam! E la musica sarà solo files. A me, comunque, non sembra che il mondo sia cambiato così tanto. Anche se a volte mi chiedo, ma come facevo a scrivere quando non c’era il computer? Me lo ricordo. Mi ricordo la meraviglia nel vedere la prima macchina da scrivere IBM con la testina rotante. C’era un nastro bianco correttore. Se si sbagliava battuta si poteva tornare indietro, si doveva poi battere il tasto errato tenendone premuto anche un altro e invece di battere sul nastro con l’inchiostro la testina batteva su quello correttore: come per incanto, l’errore era cancellato. Un miracolo. Che relegò in soffitta il bianchetto. Il mondo è cambiato in modo molto radicale, e in modo rapidissimo. E quasi non ce ne siamo accorti. Persino questi salti sono sembrati graduali, e poi ci accorgiamo della differenza solo cercando di immaginarci oggi senza

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Ci si interrogò spesso, in passato, sull’esistenza degli anelli mancanti tra gli antenati dell’uomo e l’uomo stesso. O degli anelli mancanti tra organismi di qualunque tipo che sembrano avere un qualche grado di affinità evolutiva. E molti antievoluzionisti hanno trovato nell’assenza di “anelli mancanti” la dimostrazione che l’evoluzione non è un dato di fatto. Non è mia intenzione qui argomentare sulla fattualità dell’evoluzione, farlo significherebbe cercare di convincere qualcuno che la Terra non è piatta. Se, oggi, qualcuno dice che la Terra è piatta, allora quel qualcuno non può partecipare a discussioni scientifiche perché, semplicemente, ignora i presupposti del parlar scientifico. Non è che l’evoluzione non avviene perché non si trovano anelli mancanti. Ma facciamo finta che tale questione sia importante. Gli anelli mancanti si possono fare molto facilmente. In modo sperimentale. Se una tigre si accoppia con un leone si ottiene un tigone. Un ibrido. Questo essere infelice, privo tra l’altro della possibilità di lasciare discendenti, è intermedio tra tigre e leone. Non è l’anello mancante tra le due specie, è, piuttosto, l’anello che le congiunge. È un essere che ci dimostra che tigre e leone sono uniti da stretta parentela, così come lo sono il cavallo e l’asino che, accoppiandosi, danno l’anello congiungente le due specie: il mulo. Anzi, gli anelli, perché a seconda che sia un asino ad accoppiarsi con una cavalla, o un cavallo ad accoppiarsi con un’asina, si ottengono mulo oppure bardotto. Organismi diversi tra loro, ma congiunti dal possesso di caratteri intermedi tra cavallo e asino. Oggi sappiamo che uomo e scimpanzè hanno la quasi totalità del genoma in comune e, quindi, ci sono altissime probabilità che possano dare origine a ibridi, ad anelli congiungenti. Meglio non pensare a questi infelici possibili ma, speriamo, mai realizzati. Se non per dire che potrebbero esser lì per farci pensare a quanto siamo vicini agli altri animali. Nessun problema, quindi, a spiegare come si possano avere passaggi graduali da una specie a un’altra. Ma si tratta di collegamenti tra specie dello stesso genere, tra specie molto vicine, separate da piccoli dettagli. Specie che, accoppiandosi, possono dare origine a ibridi. Ma bastano cambiamenti di questo tipo, graduali, a originare grosse novità? Per grosse novità intendo animali molto diversi da quelli che potrebbero essere i loro antenati. Magari un passaggio da vermi a insetti. Gli insetti sono il gruppo con il maggior numero di specie. Le piccole modificazioni che portano al cambiamento graduale si sono moltiplicate in questo gruppo di animaletti a sei zampe. Ci sono milioni di specie di insetti. Milioni di piccole modificazioni hanno dato milioni di specie, ma nessuna ha fatto la rivoluzione, il cambiamento di paradigma. La somma di tante piccole modificazioni produce comunque e sempre una variazione sul tema. Ci vuole qualcosa di più drastico per saltare il fosso, per fare qualcosa di radicale, per il cambio di paradigma, per la rivoluzione.

Gradualismo o saltazionismo?

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Le forme intermedie, o anelli mancanti


Vincoli e contingenze Un vincolo è qualcosa che determina il corso degli accadimenti, mantenendoli come su un binario, vincolandoli, appunto, a un certo corso. I vincoli sono praticamente quelle che noi chiamiamo leggi. L’Unione Sovietica è crollata per un vincolo semplicissimo, stava consumando molto di più di quel che produceva, e non era abbastanza forte da prendersi quel che le serviva, contrastando gli Stati Uniti. Un paese che consuma più di quel che produce non può durare in eterno. Questo è un vincolo. Certo, può fare debiti usando la propria moneta come garanzia, e può armarsi pesantemente in modo che se qualcuno dovesse mai esigere il pagamento dei debiti si ritroverebbe con un mucchio di pezzi di carta se la questione si dovesse risolvere con la finanza, o con un po’ di missili atomici puntati alla tempia se la questione si dovesse risolvere con la forza. A questo punto il vincolo della forza prevale e quel paese in effetti non consuma più di quel che produce, semplicemente perché ottiene quel che consuma prendendolo agli altri, senza pagarlo. E funzionalmente è come se lo avesse prodotto. Una situazione del genere si potrebbe anche risolvere con una contingenza, con qualche accadimento inatteso, non prevedibile, ma di portata molto grande. Un presidente perde le elezioni perché sorpreso ad amoreggiare con una collaboratrice. Oppure comunque le perde il suo partito. Per un pugno di voti. Magari derivanti dalla mobilitazione di un gruppo di persone che di solito non vota ma che in quell’occasione è andato a votare per contrastare la depravazione dell’amore extraconiugale. I vincoli possono essere visti come qualcosa che, anche se all’improvviso, porta comunque ad accadimenti che erano nell’ordine delle cose. Sono avve-

Il bene e il male Si dice sempre che la storia la scrivono i vincitori. Non a caso sembra sempre che poi, alla fin fine, il bene abbia sempre trionfato. I cattivi perdono sempre, alla lunga. Ma per la già citata storia dell’America del Sud, e anche di quella del Nord, i cattivi siamo noi. E abbiamo vinto. Abbiamo invaso la terra di popoli sovrani, abbiamo ammazzato quasi tutti i proprietari legittimi di quelle terre e abbiamo poi detto che quelle terre erano nostre. Oggi quei popoli sono culturalmente estinti e noi dominiamo quelle che un tempo erano le loro terre. I cattivi siamo noi, abbiamo vinto, e ci guardiamo bene

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nuti in un modo, ma sarebbero comunque avvenuti in un altro modo. I tempi erano maturi perché avvenissero. Lo stesso funziona con le idee. Darwin ha avuto l’idea della selezione naturale, ma senza di lui la stessa idea sarebbe scaturita comunque dall’intelletto umano, e infatti Wallace ci arrivò indipendentemente da Darwin. Era il momento giusto perché quell’idea venisse fuori, e sarebbe venuta fuori in un modo o nell’altro. Le contingenze, invece, sono inaspettate, e sconvolgono gli accadimenti in modo improvviso, portando a situazioni che non rientrano in una logica prevedibile. L’eruzione del Vesuvio che portò alla cancellazione di Pompei è una di quelle. O quella di Santorini, con l’estinzione della civiltà minoica. La scoperta del Nuovo Mondo da parte di Colombo ci sarebbe stata comunque, prima o poi, da parte di altri. E tutto sarebbe andato forse nello stesso modo. L’arrivo di Cortés in Sud America sconvolse il corso della storia delle civiltà precolombiane. Se al posto suo fosse arrivato un altro, magari le cose sarebbero andate in modo diverso, anche se non lo credo molto (basta vedere quel che è successo agli indiani del Nord America). Se ci pensate, i vincoli sembrano più frequenti delle contingenze. E tutte le cose che apparentemente ci sembrano salti sono in effetti parte di un disegno che, se guardato da lontano, ha una sua fisionomia ben precisa. Si potrebbe quasi dire che il corso degli eventi sia prevedibile. Lo aveva intuito Vico, parlando di corsi e ricorsi storici. Sembra quasi che il corso della storia ripercorra sempre la stessa via. Grandi civiltà sorgono, si affermano, dominano il mondo per un po’ e poi si afflosciano, e al loro posto ne vengono fuori altre. A grandi linee è così, ma poi ognuno di questi cicli, di questi corsi e ricorsi, avviene in un modo tutto suo, governato dalle contingenze. Marx previde crisi ricorrenti del capitalismo che, in effetti, si verificano, ma previde anche che il socialismo sarebbe stato realizzato dagli operai, e invece fu realizzato principalmente da popoli contadini, a bassissimo livello tecnologico. La storia è fatta di una mescolanza inestricabile di vincoli e di contingenze. Col senno di poi è facile capire perché le cose sono andate in un certo modo. Ma a volte quel modo è stato determinato da un ordine eseguito male da un drappello di soldati. Magari perché gli ufficiali parlavano in modo incomprensibile per i soldati.

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tutti gli ammennicoli che stanno segnando in modo così pesante il nostro modo di vivere. La storia è segnata da grandi accadimenti improvvisi. Ma potremmo anche dire che questi accadimenti hanno senso solo se rientrano in un corso delle cose che, prima o poi, avrebbe portato a quella situazione, magari con un altro accadimento. Prendiamo l’11 settembre. La politica degli Stati Uniti sta dando l’impressione, a una parte del mondo, che ci sia uno Stato che si erge a tutore di tutti gli altri Stati. Se qualcuno prende questa parte deve essere pronto a pagarne le conseguenze, soprattutto se il tenore di vita del tutore è immensamente superiore a quello di molti altri Stati e se quel tenore di vita dipende anche da ricchezze presenti in quegli Stati. Prima o poi una situazione del genere sfocia in qualcosa di pericoloso. E se non avviene in un modo, la manifestazione di “critica”, per usare un eufemismo, avviene in un altro. Certo, se le elezioni a presidente degli Stati Uniti fossero state vinte da Al Gore invece che da Bush, magari l’11 settembre non ci sarebbe stato. E se Napoleone fosse caduto da un albero mentre giocava da bambino, magari oggi il mondo sarebbe differente. Queste cose si chiamano vincoli e contingenze, e valgono sia nella storia umana sia in quella naturale.


Dopo la caduta dell’Unione Sovietica uno storico previde la fine della storia. Venuto a mancare il suo contendente principale, lo Stato più potente del mondo avrebbe preso in mano le redini della storia e nulla di strano sarebbe più avvenuto. Tutto il sistema avrebbe ruotato attorno al sole statunitense. Quanto si sbagliava quel signore. Chi avrebbe previsto un ritorno al fanatismo religioso sia nella parte più povera del mondo (dove magari lo si sarebbe potuto prevedere) sia in quella più progredita e ricca? Chi avrebbe scommesso un centesimo che ci saremmo ritrovati nel bel mezzo di una guerra di religioni contrapposte? Qualcuno lo ha chiamato scontro di civiltà. Qualche anno fa, quando ero giovane io, i giovani pensavano che, una volta morte le vecchiette, nessuno sarebbe andato in chiesa, e l’istituzione Chiesa sarebbe morta con loro, con le vecchiette. E invece c’è un proliferare di chiese, di religioni, con un fortissimo seguito per le forme religiose più estreme, i fondamentalismi. Queste persone condizionano le scelte politiche dei loro paesi e rendono difficile la coesistenza di differenti visioni del mondo. I giovani degli anni Sessanta volevano fare la rivoluzione, e la fecero in un certo senso. I giovani degli anni Settanta provarono a farla in modo più radicale, con la lotta armata, e innescarono un processo di restaurazione. Negli anni Ottanta i giovani più impegnati, in Italia, erano quelli di Comunione e Liberazione, i papa boy. Altro che vecchiette. La violenza degli scontri tra comunisti e fascisti, tra loro e la polizia, fu deviata nella violenza degli ultra delle varie squadre. Sempre con i poveri poliziotti a farne le spese (oggi più che allora). Ci sono eccezioni, come gli scontri del G8 di Genova, ma sono eccezioni. Le ideologie sostituite dal tifo calcistico e dalla religione. La razionalità sonoramente battuta dall’irrazionalità.

Una costante tendenza al progresso, inteso come miglioramento tecnologico, sanitario, culturale, sta avendo una battuta d’arresto. La scienza viene guardata con diffidenza, confusa con la tecnologia. Ci sono strati della popolazione che negano il valore dell’indagine scientifica e chiedono che la religione sostituisca la scienza. La parola “scientismo”, intesa come “fiducia nella scienza” viene usata con senso negativo. La parola “relativismo” fa il paio con questa posizione. Ovviamente se si nega la validità della scienza come strumento di conoscenza, se si nega la relatività delle posizioni, si propone l’alternativa dell’assolutismo e della fede religiosa. Ancora una volta si passa dai Lumi all’Oscurantismo. Questo non avviene in paesi retrogradi, avviene negli Stati Uniti, dove si chiede che creazione ed evoluzione siano insegnati ricevendo pari dignità. O l’Italia, dove addirittura si toglie dignità all’evoluzione mentre si reitera l’ora di religione. Ma queste cose sono già avvenute. La Controriforma, la Restaurazione. L’elastico viene tirato da qualcuno, e poi da qualcun altro, nella direzione opposta. Quando si è andati oltre tutte le aspettative, si arriva spesso al limite della tensione dell’elastico e quello che sembrava un fulgido traguardo diventa l’inizio del ritorno al passato. A quello che si è sempre combattuto. Questo concetto vale anche per l’evoluzione delle specie, e conferma, forse, la generalità di un assunto. Perché si estinguono le specie? Ci sono tanti motivi che possono portare all’estinzione di una specie. Se volessimo far estinguere le balene, potremmo farlo in pochi mesi. Ma sono decenni che vogliamo far estinguere topi e insetti dannosi, e non ci riusciamo. Ma non parliamo di cose fatte da noi. La maggior parte delle specie che si sono evolute si è anche estinta. A volte l’estinzione è finale (una linea evolutiva si estingue e non lascia discendenti) a volte è per speciazione (una linea evolutiva si estingue, trasformandosi in un’altra linea; una specie muore trasformandosi in un’altra specie). Nelle testimonianze fossili vediamo che spesso avvenne che forme di grandissimo successo, dominanti il mondo, improvvisamente scomparvero. Vi vengono in mente i dinosauri, lo so. Ma ci sono i trilobiti, prima di loro, e altri ancora. Cosa li ha uccisi? Certo, può essere la contingenza dell’asteroide che si schianta sulla penisola dello Yucatan, ma forse ci sono anche vincoli. Il successo di una specie si misura dal numero di individui che la rappresenta. Se guardiamo le testimonianze fossili e ci chiediamo quale fosse la specie di maggior successo in un certo periodo, è ovvio che la identifichiamo in base alla sua abbondanza. La più abbondante è quella di maggior successo. Semplicissimo. Ogni specie ha dei requisiti ben precisi, in termini di risorse su cui contare per la propria sopravvivenza. Una specie di grande successo consuma tantissime risorse, perché è rappresentata da tantissimi

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Vincolati dalla storia

Inversioni storiche

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dall’ammettere la nostra cattiveria. È ovvio che se Hitler avesse vinto la seconda guerra mondiale, gli alleati che ci hanno liberato da quel folle sarebbero dipinti come una masnada di avventurieri invasori dell’Europa sovrana, comunisti bolscevichi da est e ultracapitalisti plutocrati da ovest. Fortunatamente respinti dall’eroismo nazionalsocialista. Il genocidio degli ebrei è giudicato in modo molto più duro del genocidio degli indiani d’America. Gli indiani del Nord, inoltre, tentarono persino di opporsi al proprio sterminio, e questo li rese particolarmente cattivi ai nostri occhi. Nessuno ricorda che la raccolta degli scalpi fu insegnata loro proprio da noi. L’uccisione di un indiano veniva premiata in danaro, e il danaro si prendeva se si dava prova dell’uccisione. Quell’uccisone era provata dallo scalpo. Quella barbarie la impararono da noi. Si trattava comunque di popoli destinati a soccombere rispetto ai bianchi. E questo potrebbe essere visto come un vincolo. I popoli forti schiacciano i popoli deboli.


I mostri speranzosi Un grande evoluzionista, Goldschmit, propose la metafora dei mostri speranzosi. Propose che l’evoluzione desse origine a novità radicali a partire da profonde modificazioni di specie preesistenti. Una profonda modificazione, una modificazione radicale, porta una qualunque specie a diventare un “mostro”, se il nuovo assetto viene paragonato con il precedente, soprattutto se si prende il punto di vista di chi precede. Tutte le scimmie sono coperte da un folto pelame, con varie colorazioni e livree cromatiche. Solo la nostra è spelacchiata, nuda. Visti dal punto di vista delle scimmie, siamo mostri, siamo completamente diversi da loro per qualche aspetto. Non sappiamo arrampicarci molto bene, usiamo solo due arti per muoverci, siamo carnivori e cacciatori, usiamo armi. Insomma ci discostiamo molto dalla “norma” scimmiesca. Goldschmidt chiamò “speranzosi” i possibili mostri perché in loro c’è la speranza del progresso, inteso come intrapresa di nuove vie evolutive, di nuove strade che permettano il rinnovo delle risorse usurate dai dominatori precedenti e l’utilizzo di risorse da essi trascurate. Ovviamente la nuova via all’utilizzo delle risorse potrà portare al successo, alla crescita numerica dei nuovi mostri, nel frattempo diventati la norma. E quando la loro pressione sull’ambiente sarà insostenibile a causa del loro successo, sarà la loro volta di cadere nel baratro dell’estinzione. Estinzione per

Storia naturale, storia umana Lo stesso è avvenuto per la nostra storia. I grandi popoli del passato sono passati dal successo alla disfatta in tempi relativamente brevi. La prima causa di insuccesso è il troppo successo, l’invasione di troppo territorio, la perdita del controllo, l’arrivo di nuovi popoli meno cullati dal successo. Con niente da perdere. Oppure ci possono essere grandi catastrofi naturali, terremoti, vulcani, lunghi periodi di siccità, con collasso dei sistemi agricoli. Le grandi civiltà possono morire per cause intrinseche, legate alle loro caratteristiche, o per cause estrinseche, legate a fenomeni ambientali non causati dalle loro attività. Le due tipologie causali, comunque, possono coesistere e il mosaico di possibilità è molto grande e imprevedibile a priori, almeno con la precisione che si chiederebbe a predizioni di tipo scientifico. La storia naturale e la storia umana insegnano che il dominio perpetuo non è di questo mondo e che tutto quel che avviene ha vita limitata (questo vale per le specie e per le civiltà), e che avviene spesso che i dominanti comincino a declinare nel momento stesso in cui arrivano all’apice del loro dominio. Tornando all’allegoria dell’elastico, quando si arriva al punto più lontano dal punto di partenza, quando si è maggiormente in alto, dopo essere partiti dal basso, l’elastico della storia trae la forza di trascinare tutto indietro con altrettanta forza, e quella stessa forza spinge poi avanti altri e mai va nella stessa direzione. Ci sono eccezioni? Non credo che tutto questo possa metterci il cuore in pace. È normale che chi ha successo si estingua, e quindi toccherà anche a noi. Ma forse è meglio che il cuore sia in pace, forse le preoccupazioni non sono parte della nostra natura. Dopotutto, in quanto organismi individuali e dotati di raziocinio, sappiamo benissimo, qualche anno dopo la nostra nascita, che prima o poi moriremo. Questa consapevolezza potrebbe gettarci nello sconforto più grande, ma ciò avviene solo in casi patologici. Le persone normali, pur sapendo di dover morire, non si lasciano troppo condizionare dall’ineluttabilità della morte e continuano fino in fondo a vivere come se la vita fosse eterna. Così stiamo facendo anche come specie. Stiamo consumando allegramente tutte le risorse disponibili, stiamo rosicchiando tutto quel che c’è da rosicchiare e poi... ci affidiamo alla Provvidenza. Non siamo preoccupati per il futuro remoto, e questo forse sarà il motivo della nostra scomparsa.

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competizione intraspecifica nell’uso di risorse limitate. Dalla caduta dei vecchi mostri, ne sorgeranno altri, e il gioco ricomincerà. La storia della vita, ricostruibile dalle testimonianze fossili, dura da circa quattro miliardi di anni e questo è quel che è successo finora.

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individui, ognuno con le sue esigenze. Dato che il mondo è formato da una quantità limitata di materia, le risorse sono in quantità limitata. Certo, possono essere riciclate ma, per essere sostenibile, il loro uso deve essere fatto a un tasso inferiore rispetto al tasso di riciclo. Una specie che sia rappresentata da numeri abnormi di individui, prima o poi arriva a consumare a un tasso che supera il tasso di rinnovamento delle risorse che le sono indispensabili. E quando quel superamento diventa drammatico, la specie può crollare, il numero dei suoi individui può passare da abnorme a irrisorio. Il primo a capire queste cose è stato Malthus, grande ispiratore di Darwin. Quando il numero di individui diminuisce bruscamente, si dice che la specie sta attraversando un collo di bottiglia, passando quindi da tanti a pochi individui. Quei pochi possono diventare i fondatori di nuove popolazioni. Il più delle volte, la variabilità genetica dei pochi superstiti non basta a reggere il vaglio della selezione naturale, e la specie semplicemente si estingue. Ma avviene anche che i pochi superstiti rimescolino le carte genetiche e diano origine a qualcosa di nuovo, a una nuova specie, a una nuova linea evolutiva. In questo caso la specie si è estinta per speciazione. I pochi individui rimasti, rapidamente danno origine a nuovi individui, diversi dai genitori. E il ciclo ricomincia. La differenza, di solito, deve consistere in un uso differente delle risorse, in modo da non subire le carenze che hanno portato i genitori sull’orlo dell’estinzione. Si deve deviare dalla norma, e il progresso magari arriva.


La semplicità Le meduse sono semplici e meravigliosamente funzionali. Hanno pochi organi, pochi tessuti, poche complicazioni, e funzionano benissimo. Più parti ci sono, in una macchina, più è facile che si rompa. Noi siamo macchine complicatissime. E questa complicazione è la nostra fragilità in termini evolutivi. Non possiamo pensare di diminuire la semplicità del nostro organismo. Così siamo e così ci dobbiamo accettare. Ma forse possiamo aumentare la semplicità del nostro modo di vivere, nel nostro modo di consumare le risorse, nel riciclarle. Possiamo aumentare la semplicità con cui ci confrontiamo con le malattie, senza arrivare ad avere un accanimento terapeutico che tiene in vita gli esemplari della nostra specie per periodi anomalmente lunghi, senza trarre gran beneficio dal prolungamento dell’esistenza. Possiamo aumentare la semplicità vivendo in modo più semplice. La semplicità è difficilissima da ottenere. Certo, si possono ridurre moltissimo le complicazioni delle nostre cose. Ma questo non significa renderle più semplici. Una cosa semplice deve funzionare benissimo, altrettanto bene o addirittura meglio di una cosa complicata. La semplicità deve comunque funzionare benissimo. Proprio come una medusa funziona meravigliosamente e semplicemente bene. Abbiamo esempi di come si potrebbe fare per semplificare il mondo? L’UCAS Un tempo tutti i maschi dovevano fare il servizio militare. Io sono un antimilitarista, ma sono contento di averlo fatto. La cosa che ho imparato, durante

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il servizio militare, è lo strapotere dell’UCAS. Non lo avete mai sentito nominare? Chi ha fatto il militare lo conosce. Ha molti nomi, molte sigle si nascondono sotto l’UCAS, ma niente rende meglio l’idea dell’onnipotenza dell’UCAS della rivelazione dell’acronimo: Ufficio complicazione affari semplici. Le cose si possono fare in modo semplice, con poco sforzo, ma che fanno quelli che non vogliono fare le cose ma vogliono comunque giocare un ruolo importante? Inventano procedure complicatissime per fare cose semplicissime, e alla fine la procedura diventa più importante dell’obiettivo. E tutto si complica. Il sistema di complicazione diventa più importante di qualunque altra cosa e si autoalimenta, succhiando tutto, e le energie innovative vengono tarpate oppure cooptate per inventare nuovi modi per complicare le cose. Vi pare esagerato? Ora faccio un esempio. Il paese che funziona meglio in campo scientifico sono gli Stati Uniti. Ho ricevuto un finanziamento dalla National Science Foundation degli USA (NSF), per un progetto di ricerca. Quando mi hanno comunicato la cifra assegnatami ero molto contento, e attendevo che la somma fosse versata nelle casse dell’Università. Ma questo non vale per i fondi che vengono dagli USA. Un giorno ricevetti una busta dalla NSF, conteneva un assegno a mio nome. Non mi era mai capitato. Mi era capitato che mi fosse comunicato che la somma era stata erogata e che poi avessi aspettato mesi prima di poter spendere una lira, in attesa che l’UCAS si mettesse in moto. In quel caso, invece, gli americani mi avevano mandato i soldi con un normalissimo assegno recapitato per posta. In seguito seppi che avrei potuto girare l’assegno a me stesso, riscuoterlo, e spendere i soldi come pareva a me. Io invece andai all’ufficio amministrativo dell’università a versare l’assegno. La prima cosa che fecero fu di prendersi il dieci per cento della cifra. Poi l’UCAS entrò in funzione. Come vuoi dividere i fondi? E perché dovrei dividerli? Ma è chiaro, mi devi dire quanti ti serviranno per comprare attrezzature, quanti ne userai per materiale di consumo, quanti per missioni ecc. È logico, no? Ma io che ne so? Magari mi si rompe il computer domani e lo devo comprare, magari viene fuori un congresso importante e ci devo andare. Come faccio a saperlo? Lo devi sapere! Poi magari cambiamo le voci, ma ora DOBBIAMO dividere i fondi per capitoli. È la procedura. Se poi capita, e capita sempre, che i fondi siano spesi in altro modo, la prima reazione è: non puoi spenderli, hai già esaurito quella voce di bilancio. E allora usiamo gli altri, quelli sotto la voce che non ho utilizzato. Ma questo significa una variazione di bilancio! E la proposta viene percepita come una bestemmia durante una cerimonia religiosa. La NSF ha ricevuto da me tutti i risultati del mio lavoro, man mano che uscivano. E ne è stata molto soddisfatta. Non mi ha MAI chiesto un resoconto del mio operato, semplicemente perché ho inviato tutti i risultati. Non ho dovuto scrivere relazioni. Nessuno ha chiesto conto di come avevo speso i soldi. I risultati erano lì a testimoniare che li avevo spesi bene. Le richieste ci sarebbero state se non ci fossero stati risultati. Tutti lo sanno, in USA, e si comportano di conseguenza. Il risultato è che sono la prima comunità scientifica del mondo. E anche loro, comunque, si lamentano della loro burocrazia.

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Ci sono linee evolutive, comunque, che persistono immodificate da centinaia di milioni di anni. Rappresentano le eccezioni all’ineluttabilità del cambiamento. Le meduse, per esempio, popolano i mari del globo da seicento milioni di anni, e non sono cambiate molto rispetto ai loro lontanissimi antenati. Se ci paragoniamo a una medusa, ovviamente pensiamo che siamo noi gli esseri più perfetti, più “evoluti”. Ma la storia potrebbe essere letta anche in un altro modo. Loro sono in giro da seicento milioni di anni e non sono cambiate molto. Noi siamo in giro, come inizio della linea evolutiva che porta a noi, da circa quattro milioni di anni (ma su queste date non c’è pieno accordo). La selezione naturale agisce sulle meduse da seicento milioni di anni e non ha causato grandi cambiamenti nel loro assetto morfologico e fisiologico. Le meduse di oggi non sono mostri, rispetto a quelle di ieri. Per quel che ci riguarda, invece, noi siamo un prodotto che ha retto per pochissimo tempo al vaglio della selezione naturale nel suo assetto attuale, e siamo mostri rispetto ai nostri antenati (anche se noi percepiamo loro come mostri). Chi è più evoluto? Qualcuno che resiste immodificato da centinaia di milioni di anni o chi è stato costretto a cambiare continuamente?


Le regole Ma se non ci sono regole ognuno fa quel che vuole, ti dicono i gestori dell’UCAS. Hanno ragione, bisogna trovare un modo per impedire che ognuno

Esseri razionali Siamo esseri razionali, abbiamo tutte le conoscenze necessarie per renderci conto che il nostro modo di essere è una minaccia alla nostra sopravvivenza, ma non ci importa. È normale. Come ho detto, tutti sappiamo di dover morire, ma questo non ci porta ad agire diversamente. Viviamo come se fossimo eterni, come se le risorse di cui abbiamo bisogno fossero inesauribili. Probabilmente questa difesa dall’ineluttabilità ci permette di vivere, altrimenti saremmo una specie molto depressa. E forse abbiamo trasferito questa posizione nei confronti della morte a una posizione analoga verso la morte della natura che ci sostiene. Non ci facciamo caso, viviamo come se fosse impossibile, come se le risorse fossero eterne. Forse fa parte della nostra natura non preoccuparci. È una difesa dalla depressione derivante dalla coscienza della propria pochezza.

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faccia quel che vuole, soprattutto se quel che vuole è contrario agli interessi comuni e persegue interessi personalistici. Però questo risultato, la neutralizzazione dei furbi che approfittano, si ottiene vagliando gli obiettivi raggiunti e non le procedure eseguite. Perché i furbi sono scaltrissimi (altrimenti non sarebbero furbi) e sanno fare tutto seguendo le procedure. Usano tutte le loro energie per rispettare le procedure, e sono i beniamini degli UCAS. I competenti, quelli che tengono ai risultati, sono visti come fanatici rompiscatole. Ma chi si credono di essere? E li si tiene d’occhio e prima o poi li si becca con le mani nel sacco. Hanno infranto qualche procedura. E la crocifissione arriva implacabile. Gli altri, quelli che non producono risultati ma hanno tutte le scartoffie in regola, sono felici e salvi. Possono dimostrare che non ci sono alternative. Non sto dipingendo una realtà fantasiosa ed esagerata. Questo è quel che avviene. Ci sono manager che portano aziende alla rovina, e intanto si assegnano liquidazioni e pensioni da capogiro. I Consigli di amministrazione non pagano mai. Pagano i piccoli azionisti, i dipendenti. Poi, a un certo punto, il sistema non regge più. L’Italia era il paese della fantasia e della sregolatezza. Ma la mancanza di regole serviva per innovare, per esplorare, per intraprendere cose nuove. Oggi, per ovviare alla sregolatezza che ci è naturale, siamo imbrigliati da un mare di regole. Tutti parlano di semplificazione delle procedure, ma poi nessuno riesce a farlo. C’è troppa resistenza. Gli amministrativi prevalgono sui creativi. Ci sono regole più cogenti, comunque, di quelle inventate dai vari UCAS. Sono le regole del funzionamento dei sistemi produttivi. Le scartoffie non si mangiano. Quando saremo sommersi dalle scartoffie (anche elettroniche) e non avremo risultati tangibili che non siano le scartoffie stesse, dovremo rispondere alla selezione naturale. La transizione dal sistema della produzione a quello dell’adempimento burocratico (e finanziario) ci porterà prima o poi a fare un brusco salto all’indietro. Il processo è già cominciato, si chiama esaurimento delle risorse, cambiamento climatico, deterioramento ambientale.

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Ho avuto anche soldi da enti finanziatori italiani ed europei. In questo caso i risultati non erano interessanti. Volevano relazioni. Non bastava allegare una monografia monumentale per dimostrare di aver lavorato (visto che i soldi erano stati chiesti per redigerla). Volevano una relazione. Ma soprattutto volevano vedere come avevo speso i soldi, se le voci di bilancio erano rispettate, se tutte le fatture erano in ordine, se tutte le ricevute andavano bene. Il vero controllo era sulle procedure, i risultati non interessano a nessuno. Esagero? L’Unione Europea, dopo sei programmi quadro, ne sta lanciando uno sul recupero dei dati ricavati da quei progetti. Si chiama data rescue, o data mining. Sono stracerto che non ci sarebbe bisogno di nessun progetto per rintracciare i dati amministrativi. Sono certissimo che quelli sono ordinatissimi negli scaffali dell’UCAS di turno, mentre i risultati per cui quei fondi sono stati impiegati non ci sono! È evidente che non riusciremo mai a vincere la competizione scientifica con gli USA. I nostri UCAS sono troppo potenti. Ci vorrà una rivoluzione, con le ghigliottine sulle piazze, le teste infilate sui pali. Ma gli impiegati dell’UCAS soverchiano gli altri, sono ormai il fine e non il mezzo. Ho sentito persone dire che gli ospedali sarebbero perfetti se non ci fossero i malati, e l’università senza studenti e senza professori sarebbe un luogo ideale! La semplificazione avverrà con l’abolizione dei tanti UCAS che ci affliggono. Con l’abolizione di moduli. Un ministro, il ministro Bassanini, provò a fare una riforma tesa all’abolizione degli UCAS. Privilegiando gli obiettivi rispetto agli adempimenti. Ma la sua riforma è fallita. E la complicazione aumenta sempre di più, la semplicità si allontana e la catastrofe si avvicina. L’inutile complessità ci soffoca e il suo mantenimento consuma le nostre migliori risorse. La nostra unica speranza è l’abbattimento degli UCAS e l’uso delle nostre energie verso fini più funzionali alla nostra sopravvivenza. Ma pensare di semplificare la nostra vita usando gli UCAS è suicida. La prima grande transizione, il primo grande salto che potremo fare per salvarci sarà il passaggio dall’UCAS all’USACI, l’Ufficio semplificazione affari complicati inutilmente. E non potrà essere diretto dal capoufficio dell’UCAS. Qualcuno adibito all’ottenimento di risultati, e non al rispetto delle procedure, dovrà prendersi l’onere di snellire le procedure. Nella speranza che non sia preso nel gorgo delle complicazioni e non rifondi un altro UCAS, il NUCAS, il Nuovo ufficio complicazione affari semplici. Finora è sempre stato così. Ma ricordo il caso dell’assegno e dei risultati. Si può far funzionare il sistema senza l’UCAS. Si può. Basta volerlo. Lo sanno tutti, e gli USA sono lì a provare che si può, che tutto funziona meglio. Ma dato che l’UCAS ha preso il potere, potrà mai l’UCAS decidere di sopprimersi?


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Un tempo questo poteva essere giusto. Ma oggi non più. Oggi stiamo davvero distruggendo il pianeta che ci sostiene, che ci permette di vivere. E, se siamo davvero razionali, dobbiamo preoccuparci tantissimo. Una condizione del tutto nuova. A meno di assumere un atteggiamento tipo: “dopo di me il diluvio”. Viviamo al massimo ora che ce lo possiamo permettere: “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza” o, se volete, “voglio una vita spericolata!”. Ma poi, forse, queste condizioni non sono così nuove. Da sempre l’uomo non si preoccupa e da sempre chi si preoccupa è etichettato con il nome di Cassandra. E ci si dimentica che le predizioni di Cassandra si avveravano sempre, anche se non piacevano a chi le chiedeva! La globalizzazione è la condizione del tutto nuova, rispetto al passato. Prima potevamo far estinguere molte specie, come i mammut, come tutti i grossi mammiferi terrestri, ma oggi il nostro impatto non è più così diretto. Oggi gli organismi non muoiono perché li uccidiamo, muoiono perché li facciamo morire. E la nostra azione distruttrice non colpisce in modo selettivo, come succedeva all’uomo sterminatore di mammut, e anche noi siamo bersaglio della nostra corsa a quel che chiamiamo benessere e prosperità. Un po’ di anidride carbonica in più, un po’ di ossigeno in meno, ed eccoci sorpresi da cose del tutto nuove. Il bello di queste cose è che non si sa mai come vanno a finire. Anche se la storia della vita ci avrebbe dovuto insegnare qualcosa: il troppo successo non porta a niente di buono. E noi siamo una specie all’apice del suo successo.

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Il nuovo come rimediazione Oggi, proprio a causa del rapido sviluppo delle nuove tecnologie digitali e della risposta quasi simultanea dei media tradizionali, ci troviamo nella particolare posizione di poter apprezzare questa rimediazione. Minacciati dalle nuove tecnologie digitali, i vecchi media elettronici e a stampa stanno cercando di riaffermare la loro posizione all’interno della nostra cultura (Bolter, Grusin 1999).

Una frase di questo genere mi è venuta in mente cercando una chiave da adottare per svolgere la riflessione sulla categoria del nuovo nell’ambito del rapporto esistente tra nuove tecnologie, nuovi saperi, nuova didattica. Il concetto di rimediazione, infatti, mi pare il più attuale, soprattutto, il più interessante, per cercare di declinare il tema del nuovo in tale ambito: il processo di rimediazione, infatti, permette di rovesciare lo schema, diffuso e interiorizzato nella coscienza individuale e collettiva, secondo il quale media nuovi sostituiscono media vecchi, per affermare, invece, che tra media vecchi e nuovi si attiva un processo continuo di rimodellamento, di ridefinizione delle caratteristiche di ciascuno in funzione di ciascuno degli altri e di tutti in una dimensione di sistema. Un processo di ri-attualizzazione che contraddistingue in questo modo la storia dei media, già prima della diffusione della stampa, con grande evidenza nel confronto tra questi ultimi e i media elettronici; attualmente, in modo travolgente per effetto dell’irrompere frastornante e planetario delle tecnologie digitali. Solo per fare un esempio, il più attuale e dirompente nel contesto economico e sociale che stiamo vivendo, le tecnologie di rete, contrariamente a quanto si sente continuamente dichiarare, non eliminano la tecnologia della scrittura, ma complessivamente la rimediano, ovvero, pur modificandola, la rendono più disponibile, personale, condivisa, fluida, dinamica, orale, allo stesso tempo “più trasparente e ipermediata” (ib.): “ipermediata” perché messa in forma in numerosi e diversi contesti pubblici e privati delle dinamiche comunicative di rete, “trasparente” perché la sua presenza è a tal punto


I media sono oggi parte del tessuto generale dell’esperienza. Ciò è ancora più vero includendo nel novero dei mezzi di comunicazione il linguaggio e si potrebbero considerare le continuità fra parola, scrittura, stampa e rappresentazione audiovisiva come indicative del genere di risposte possibili a partire dalla mia premessa: vale a dire del fatto che senza porre attenzione alle forme e ai contenuti, alle condizioni di possibilità della comunicazione, tanto nell’ambito di ciò che è dato per scontato nella vita quotidiana quanto nell’ambito di ciò che si oppone al dato per scontato, non riusciremmo a comprendere questa stessa vita (Silverstone 1999, p. 19).

Rifiutare l’idea che i media siano normali fattori di cambiamento, dunque matrici specifiche di senso e di esperienza del mondo, significa riprodurre costantemente schemi oppositivi nei quali il nuovo mina la solidità, l’autorevolezza, la dignità, del vecchio, il basso svuota, involgarisce, contamina, l’alto, e così via. Si tratta di una sorta di principio contro che porta a contrapporre, per paura, al noto l’ignoto come elemento corruttore e, nel caso delle tecnologie, a volerle considerare come meri strumenti per non doverne vedere la funzione di determinazione. Strettamente legata, la seconda ragione produce, preferirei dire ri-produce, instancabile, uno stile di pensiero filosofico e scientifico (le cui origini, radicamenti, articolazioni e derive, di cui ovviamente non posso parlare qui) di tipo assertorio, maturato all’interno della cultura formale e scientifica occidentale: ciò implica un processo costante di frammentazione (disciplinare, tematico, e via dicendo), di distanziamento (tra soggetto e oggetto, ad esempio), di scissione, spesso di ignorato vero e proprio conflitto (tra teoria ed esperienza, tra natura e cultura, tra corpo e mente). Qui si tratta di una sorta di principio di esclusione che porta sempre e comunque a separare, a contrapporre, a distinguere, per principio. La vera razionalità, aperta per natura, dialoga con un reale che le resiste. Fa incessantemente la spola fra istanza logica e istanza empirica; è il frutto del dibattito argomentato delle idee, e non già la proprietà di un sistema di idee. Un razionalismo che ignora gli esseri, la soggettività, l’affettività, la vita, è irrazionale. La razionalità deve riconoscere l’importanza dell’affetto, dell’amore, del pentimento. La vera razionalità conosce i limiti della logica, del determinismo, del mecca-

Il quadro che ne viene, dunque, è quello di un contesto complessivo nel quale le tecnologie sono ogni volta considerate utensili più o meno utili e non matrici culturali, vuote di senso e di valore, elementi portatori di distrazione e di disordine in un organismo precedentemente sano. I media, in un orizzonte così definito, non sono considerati normali e quotidiani agenti del reale, ma escrescenze malsane che lo corrompono con i loro poteri mostruosi di finzione e spettacolarizzazione; il pensiero che li pensa è abituato a utilizzare categorie oppositive, che contrappongono il sapere formale, la vita reale, il sacrificio e la fatica dell’apprendere al caos spettacolare, all’inganno dell’eterno carnevale, al divertimento insensato delle esperienze elettroniche e digitali. Questo contesto, a sua volta determinato storicamente e socialmente dalla centralità e dall’autorità della scrittura prima e della stampa poi, si è alimentato di una visione del mondo fondata sulla esclusività del libro come matrice e copia di ogni forma di sapere e di esperienza: in quanto chiusa necessariamente ordinata, lineare, formale, astratta (Ong 1982). Una tecnologia, il libro stampato, la cui articolazione e regolazione tecnica è stata nel tempo così interiorizzata da risultare immediatamente trasparente, naturalmente umana (come se, appunto, lo status di tecnologia fosse troppo inferiore e rischiasse di contaminare questo suo valore eccezionale). Risulta abbastanza comprensibile come si sia determinata una visione criticamente assoluta, che contrappone il vecchio, sano ordine delle cose a un nuovo groviglio di temi e suggestioni che lo mina alla radice: in questo nuovo che avanza minaccioso il libro, per un verso, perde la sua centralità, per un altro, essendo tenuto fuori da una logica di sistema ma non dalla contrapposizione lineare tra vecchio e nuovo, in quanto tecnologia che non si vede come tale, non viene fatto misurare con altri media, con le trasformazioni di cui sono portatori, con le potenzialità di trasformazione con le quali il libro potrebbe misurarsi. Non è difficile riconoscere questa visione negativa ed emergenziale del nuovo contro la cultura del libro espressa soprattutto negli ambienti preposti alla trasmissione di quel sapere che esso rappresenta: la scuola, in tutti i suoi ordini e gradi, e l’università. A titolo d’esempio di questa parte del mio ragionamento vorrei provare a dare qualche elemento di lettura di una accesa controversia che vede in campo un gruppo di accademici, nella fattispecie critici letterari e storici della letteratura, schierati contro una congerie di scrittori-divi, capitanati, suo malgrado, da Alessandro Baricco. La materia del contendere è, dal punto di vista dello scrittore, il diritto-potere del critico di a) fare recensioni, b) fare stroncature; dal punto di vista del critico letterario il diritto-dovere di a) non recensire libri per i quali non si nutre interesse, b) stroncare l’autore tout court in quanto personaggio pubblico, di fama e di successo. La controversia, nata sulle pagine del quotidiano «la

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nicismo; sa che la mente umana non potrebbe essere onnisciente, che la realtà comporta mistero. Negozia con l’irrazionalizzabile. Non solo è critica, ma è autocritica. Si riconosce la vera razionalità dalla capacità di riconoscere le sue insufficienze (Morin 1999, p. 22).

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diffusa, la sua funzione così fondamentale, da non essere neppure più percepita come la forma principale attraverso la quale la rete vive e agisce. Che cosa provoca una sorta di doppia visione, con esiti contrapposti e inconciliabili: da una parte diffuse reazioni aggressive di difesa, dall’altra isolati e inascoltati atteggiamenti di accoglimento curioso e di ricerca? In linea di massima, credo insistano due ragioni di fondo, tra loro strettamente intrecciate: il rifiuto profondamente interiorizzato della “normalità dei media” e l’accettazione quasi indiscussa della funzione di oggettivazione. Provo a spiegare sinteticamente entrambe. La prima ragione comporta la difficoltà di accogliere come normali i processi di trasformazione nei quali svolgono un ruolo di determinazione anche le tecnologie. Tutte1. I media svolgono la loro quotidiana azione di mediazione, contribuendo significativamente alla costruzione del mondo.


Le incomprensioni tra le due visioni del mondo non potrebbero essere più irriducibili, più inconciliabili: le critiche non hanno tanto a che fare con la natura delle argomentazioni esposte, quanto con un fortissimo sentimento di irritazione che una sorta d’invidia per la fama da divo dello spettacolo della comunicazione multimediale dell’autore. Ne viene un bisogno di vendicarsi del successo dell’interlocutore-avversario, implicitamente considerato ingiusto e immeritato, in quanto derivante dall’aura sacrale conquistata sulla scena pubblica dello spettacolo mediale, nel quale certa letteratura si trasforma per questo in letteratura di successo2. Avevo promesso di non occuparmi più dello scrittore Alessandro Baricco, considerandolo del resto meritevole di ben altre penne/tasti che non la mia/i miei. Ma molto mi ha turbato il suo filosofico allarme per incombenti invasioni barbariche, che egli sta lanciando in un’opera che si prospetta come davvero unica nella presente letteratura; libro/romanzo/saggio/trattato/discettazione/elucubrazione che si dipana a puntate sul quotidiano di cui egli è firma superprestigiosa, «la Repubblica». Feuilleton, saggio d’appendice non confinato in appendice, né relegato nelle paludate pagine culturali, ma disteso su di una pagina intera, in tutto rilievo (con finestra già in prima pagina) tra le più essenziali notizie del giorno, fiore e luce del quotidiano. L’annuncio di sì importante operazione letteraria e l’evidenza stessa del titolo I barbari (prima puntata 12 maggio 2006) mi hanno portato a credere che qualche nuovo più acuto turbamento fosse entrato nell’animo entusia-

Se questi mondi sono destinati a non incontrarsi se non per disconoscersi, è immaginabile una visione alternativa, nella quale sia possibile praticare il dialogo come modo costitutivo del pensiero, a partire dall’idea di strutturali convivenze e trasformazioni del sistema dei media? Le vecchie novità della didattica Nella visione che condivido, e che con la mia ricerca contribuisco a costruire, la portata di novità di una nuova tecnologia non appare mai come minacciosa tout court né, all’estremo opposto, si riveste di poteri salvifici assoluti, perché, da un lato, è considerata sempre in modo sistemico, circolare e non lineare, inserita cioè in un sistema complessivo, che cerca di evidenziare le relazioni tra l’uno e l’altro, le loro reciproche influenze e modificazioni, dall’altro, è valutata ogni volta in modo relativo, per farne emergere proprio gli aspetti di rimediazione di media precedenti, aspetti che contraddittoriamente riemergono molto spesso con forza proprio quando le caratteristiche di una nuova tecnologia sembrerebbero invece essere sul punto di annullare. Per cercare di capire in che termini sia possibile maturare un atteggiamento problematico sì, ma non distruttivo, comprensivo delle trasformazioni in atto, ritengo sia necessario adottare la visione sistemica, contestuale, interdipendente, nel rapporto tra vecchi e nuovi media nell’ambito della comunicazione didattica, come paradigma della mediazione cognitiva intenzionale e, dunque, consapevole. Proviamo a vedere come sia possibile rimediare la didattica a partire da una contrapposizione considerata insanabile, frutto marcio di tutte le derive negative della nostra società (adulti senza più autorevolezza, giovani senza più consapevolezza, istituzioni politiche senza più principi né saperi, collettività senza più regole né certezze, e così via): la pervasività delle nuove tecnologie digitali di rete distrugge la sistematicità delle tecnologie della stampa, il caos e l’indeterminatezza della navigazione in superficie consumano irreparabilmente la certezza e la profondità del sapere costituito, la dimensione di finzione delle interazioni giocose si sostituisce alla densità delle relazioni interpersonali “rea-

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stico di questo elegante scrittore: i barbari forse, con la loro minacciosa avanzata, lo avrebbero costretto a essere un po’ meno accattivante e piacente, a inserire un po’ di autentico veleno nella sua scrittura; e certo, a confrontarsi con la barbarie contemporanea, con fondamentalismi etnici e religiosi, terrorismi, criminalità grande e piccola, guerre e rapimenti, egoismo di massa, disastri ambientali, qualche scatto nuovo doveva sprigionare dalla luccicante prosa baricchiana. Mi sono però dovuto accorgere molto presto che i barbari di cui egli si occupa sono semplicemente quelli che assediano il villaggio dei libri, i nuovi soggetti che fruiscono della cultura tra eventi e apparenze, che contaminano i resti della tradizione con le emergenze della comunicazione contemporanea, compratori e consumatori, assetati di spettacolo e di serialità ecc.: barbari che non versano sulla pagina del feuilleton nessun nuovo veleno, ma le offrono un surplus di ammiccante dolcezza, di conversevole e dinoccolata cordialità (pp. 8-9).

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Repubblica», a proposito delle opinioni espresse da Baricco sullo stile poco trasparente secondo lui adottato dai recensori del suo romanzo più recente, Questa storia (2005), si è intrecciata con le reazioni di uno di questi interlocutori competenti nei confronti de I barbari (2006), il suo curioso esperimento trans-mediatico (tra stampa e rete) sulle mutazioni antropologiche in atto. Ecco: lui non cercava mai di capire cos’era il mondo, ma, sempre, cosa stava per diventare il mondo. Voglio dire che ad affascinarlo, nel presente, erano gli indizi delle mutazioni che, quel presente, avrebbero dissolto. Erano le trasformazioni, che lo interessavano: dei momenti in cui il mondo riposava su se stesso non gliene fregava niente. Da Baudelaire alle pubblicità, qualsiasi cosa su cui si chinava diventava la profezia di un mondo a venire, e l’annuncio di una nuova civiltà. Provo a essere più preciso: per lui capire non significava collocare l’oggetto di studio nella mappa conosciuta del reale, definendo cos’era, ma intuire in cosa, quell’oggetto, avrebbe modificato la mappa, rendendola irriconoscibile (p. 26). Questo è il modo in cui Baricco presenta Walter Benjamin nel terzo capitolo/puntata, come una delle epigrafi di cui si serve per stigmatizzare lo stile e il procedere della sua ricognizione. Quello che segue, invece, è il modo in cui questa scelta viene criticata. In Benjamin egli sembra riconoscere, come da sempre fanno peraltro certi mediocri professori di evanescenti facoltà universitarie, un sorta di apologeta delle comunicazioni di massa: ci dice, nella terza puntata, che era uno capace di servirsi dei libri come di “una porta d’accesso privilegiata alla mente del mondo”, pronto a “usare, altrettanto bene, qualsiasi altra cosa”, oltre i libri. Ricorda poi che “non gli riuscì praticamente mai di confezionare un bel libro, completo e compiuto” e che la frammentaria congerie dei suoi scritti è cosa “da far diventare pazzo un editore” (Ferroni et al. 2006, p. 13).


Concordo con tutti, ero un po’ scettica all’idea di questo corso on line, ma più andava avanti più mi coinvolgeva... sono sempre stata la lettrice “silenziosa” di quello che in questo forum veniva scritto, manifestato, comunicato... questo modo di fare lezione mi ha conquistato perché ho capito che dietro tanti studenti divisi in gruppetti e restii a fare nuove amicizie... (al di là della superficiale conoscenza) esistono persone sensibili come me, che hanno voglia di raccontarsi e di raccontare... cosa che io ho avuto il coraggio di fare solo purtroppo attraverso il compito... sarà per la prossima! in bocca al lupo a tutti per l’esame6!!!

Note 1 “Sul finire del Medioevo compare la forchetta, che è lo strumento destinato a prendere le vivande dal piatto comune. Tra gli oggetti preziosi appartenenti a Carlo V, compare un’intera dozzina di forchette, ma l’inventario di Carlo di Savoia, ricchissimo di vasellame pregiato, ne contiene una sola. (...) In verità, i comportamenti a tavola non sono affatto un fenomeno isolato: costituiscono un aspetto – e un aspetto quanto mai caratteristico – del complessivo comportamento dettato dalla società. Il loro standard corrispondeva ad una determinata struttura della società. Resta dunque da esaminare quale fosse tale struttura. Le forme di comportamento dell’uomo medievale erano legate alla globalità delle sue forme di vita e a tutta la struttura del suo essere non meno saldamente di quanto il nostro tipo di comportamento e il nostro codice sociale siano legati al nostro modo di vivere e alla struttura

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cognitiva (non esclusivamente linguistica, perciò), e ha dunque bisogno di disporre di ambienti nei quali i soggetti coinvolti – docenti e studenti – lavorano insieme per costruire i propri oggetti di conoscenza. Il mio (nostro)3 modo di pensare e praticare la didattica in rete, sporco e barbaro, valorizza il più possibile il dialogo e la collaborazione, la partecipazione e la condivisione: per queste ragioni adotta l’ambiente free Moodle, molto duttile e aperto ad ogni forma di interazione. Le nostre ormai numerose e molto frequentate attività didattiche totalmente on line4, si svolgono in condizioni di intensa interattività, perché non sono basate sul modello trasmissivo di semplice fornitura di contenuti, ma sul modello collaborativo di costruzione condivisa di conoscenze5. Ciò comporta la presenza di più spazi di scrittura perché è proprio attraverso la scrittura, fondamentalmente, che in rete si costruisce sapere. Forum, chat, blog, messaggistica, sono alcuni degli spazi d’interazione, molto spesso in termini di racconto, nei quali la vecchia tecnologia della scrittura, ben lungi dallo scomparire, rimedia se stessa, con ciò dando senso e valore alla nuova tecnologia di rete. Dall’insieme dei tratti che sinteticamente ho descritto, come significativi della didattica del dialogo e del racconto, emergono alcuni aspetti fondamentali che rendono necessario rovesciare il punto di vista: cioè assumere il nuovo della distanza in rete non come minaccia della scomparsa della vecchia didattica in presenza, ma come condizione perché questa possa avere ancora un senso, a patto di considerare la nuova barbarie testimone della natura complessa, nel senso di plurivalente e di straniera, della comunicazione, del linguaggio, del pensiero. Per questa ragione, la vecchia forma del dialogo esprime bene la forza del dubbio che disvela, traduce, racconta, come esigenza nuova di un antico bisogno.

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li”. In questa contrapposizione gli adulti sono scherniti dai giovani, la scuola fugge dal mercato, i libri sono dispersi nella rete. La nostalgia per un fantasticato ieri positivo e promettente è cifra comunicativa condivisa. I barbari metaforici sono presi per barbari reali. Diversamente, in una visione di sistema, tutti i media, compreso il libro (e la varietà delle sue possibili tipologie), concorrono a determinare forme diverse dell’esperienza e dei saperi: la loro molteplicità e azione reciproca e complementare scardina del tutto, verticalmente, la struttura gerarchica dei saperi frammentati in discipline e auto-referenziali secondo le regole della chiusura dello spazio tipografico (v. Ong 1982); orizzontalmente, la separazione tra saperi formali e informali, astratti e concreti, duri e deboli. In uno scenario in tal modo contaminato, la moltiplicazione delle rappresentazioni di un medesimo sapere, la mobilità dei confini interdisciplinari, l’ibridazione dei livelli e degli stili della comunicazione, producono contemporaneamente rumore, certo, ma anche innumerevoli, disponibili, amichevoli, modalità di conoscere. Poiché è nel rumore del mondo, nella sua confusa e vitale complessità, che i soggetti sono immersi, è lì che contattano le conoscenze, è lì che costruiscono i loro saperi, dentro l’esperienza, dentro la concretezza (questa è data dall’intensità emotiva del coinvolgimento personale, non necessariamente dalla materialità degli oggetti). È dunque lì che la didattica dovrebbe attingere i modi per mettere in forma i suoi contenuti, è lì dove la natura pulita, nel senso di ordinata e distaccata, dell’insegnare dovrebbe specchiarsi nella natura sporca, nel senso di empirica e affettiva, degli apprendimenti. Nel contesto tecnologico nel quale ci muoviamo, caratterizzato dall’azione dei molti media multimediali, l’azione della Rete amplifica la portata di queste dinamiche, rendendole massimamente fluide, centrali. “In questa nuova forma, prismatica e a volte anche caotica, la conoscenza entra negli orizzonti di esperienza di categorie sempre più ampie e differenziate di individui che, a loro volta, con le loro domande, con le loro pratiche la modificano ulteriormente” (Maragliano 2004). La natura barbara, nel senso di estranea e assimilatrice, di internet mette in azione un’immensa bottega artigiana della conoscenza, nella quale individui e comunità apprendono per contatto, spalla a spalla, tramite l’esempio e il contributo di altri. Partecipazione, condivisione, connessione, trasversalità, utilità, caratterizzano il pensiero bricoleur che anima la costruzione della conoscenza (distribuita e connettiva) in rete: “sistemi passanti” (Baricco 2006), dinamici e provvisori, volgari forse e però critici, costantemente in bilico tra il dubbio e l’ironia, vibranti di passione personale. Forma privilegiata attraverso la quale opera il pensiero concreto e operativo on line è l’interazione dialogica, modalità antica delle interazioni umane totalmente orali, rimediata dalla scrittura già in Platone, centrale oggi nell’universo della comunicazione di rete, come ibrido “di ritorno” (Ong 1982) dell’oralità. Assumendo nei termini che ho proposto la complessità del quadro che i vecchi e i nuovi media contribuiscono a definire, la forma attraverso la quale l’azione didattica on line opera non può che essere questa rimediazione del dialogo, perché si fonda su un’idea concreta e operativa della comunicazione


Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Baricco, A., 2005, Questa storia, Milano, Fandango Libri. Baricco, A., 2006, I barbari. Saggio sulla mutazione, Roma, L’espresso. Baricco, A., Tarasco, R., Vacis, G., 2003, Totem. L’ultima tournée, Torino, Einaudi.

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Bolter, J. D., Grusin, A., 1999, Remediation. Understanding New Media, Cambridge-London, The MIT Press; trad. it. 2002, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini. Burke, P., Briggs, A., 2000, A Social History of the Media. From Gutenberg to the Internet, Cambridge-Oxford, Polity Press-Blackwell; trad. it. 2002, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, Bologna, il Mulino. Elias, N., 1969, Über den Prozess der Zivilisation. Wandlungen des Verbaltens in den Weltlichen Oberschichten des Abendlandes, Frankfurt am Main, Suhrkamp; trad. it. 1998, La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi nel mondo aristocratico occidentale, Bologna, il Mulino. Ferroni, G., 2006, “Profondità di superficie”, in Ferroni et al. 2006, pp. 9-31. Ferroni, G., Onofri, M., La Porta, F., Berardinelli, A., 2006, Sul banco dei cattivi. A proposito di Baricco e di altri scrittori alla moda, Roma, Donzelli. Maragliano, R., 2004, Manuale di didattica multimediale, Roma-Bari, Laterza. Maragliano, R., a cura, 2004, Pedagogie dell’e-learning, Bari-Roma, Laterza. McLuhan, M., 1964, Understanding Media, New York, Mc Graw-Hill; trad. it. 1997, Gli strumenti del comunicare, Milano, il Saggiatore. Morin, E., 1999, Les septs savoirs nécessaires à l’éducation du futur, Paris, Organisation des Nations Unies; trad. it. 2001, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina. Ong, D. J., 1982, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London-New York, Methuen; trad. it. 1986, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, il Mulino. Papert, S., 1993, The Children’s Machine. Rethinking School in the Age of Computer, New York, HarperCollins Publishers; trad. it. 1994, I bambini e il computer, Milano, Rizzoli. Silverstone, R., 1999, Why Study the Media?, Oaks and New Delhi, London, Sage; trad. it. 2002, Perché studiare i media?, Bologna, il Mulino. Tagliagambe, S., 2006, Più colta e meno gentile. Una scuola di massa e di qualità, Roma, Armando.

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della nostra società. Talvolta, qualche piccola notizia rende chiara la solidità di quelle usanze e mette in evidenza come esse possano essere intese non soltanto come qualcosa di negativo, come una ‘mancanza di civiltà’ o anche di ‘conoscenza’, come facilmente può apparire a noi, bensì come qualcosa che corrispondeva alle esigenze di quegli uomini, e che appariva ad essi fornito di senso e necessario appunto sotto quella forma. Nell’XI secolo, un doge veneziano sposò una principessa greca nella cui cerchia – bizantina – le forchette erano evidentemente già in uso. Infatti, apprendiamo che essa portava il cibo alla bocca au moyen de petites fourches en or et à deux dents (‘mediante piccole forchette d’oro a due rebbi’). A Venezia ciò suscitò un tremendo scandalo ‘Tale novità parve un segno di raffinatezza talmente eccessivo che la dogaressa fu severamente disapprovata dai preti, i quali invocarono su di lei la collera divina. Poco tempo dopo fu colta da una malattia innominabile, e San Bonaventura non esitò a dichiarare che era stato un castigo di Dio’. Ci vollero ancora cinque secoli prima che la struttura dei rapporti umani mutasse al punto da far sentire l’uso della forchetta come un’esigenza generale” (Elias 1969, pp. 191-192). Ciò a dire che le tecnologie, anche le più apparentemente insignificanti come, ad esempio, un mestolo con una certa forma, estendono il loro portato culturale ben al di là dell’ambito strettamente tecnico e funzionale. Ancora, Elias dimostra come imparare a tenere a freno l’aggressività, nel processo di civilizzazione, costituisce una forma di tecnologizzazione del comportamento sociale. 2 Il tono di dileggio e gli argomenti addotti risultano ancor più ingenerosi pensando anche soltanto all’impegno pluriennale di Alessandro Baricco, del regista teatrale Gabriele Vacis e di Roberto Tarasco con le sue “scenofonie”, nel portare la lettura di grandi libri su ogni tipo di palcoscenico, in una sorta di teatro minimo. Si tratta della lunga esperienza di Totem, tra l’altro conclusa nel momento culminante del successo di pubblico proprio per evitare, secondo la testimonianza degli autori, che l’adesione entusiastica degenerasse in culto della personalità. I protagonisti la raccontano in Baricco, Tarasco, Vacis 2003. 3 L’uso del plurale richiama la mia “militanza” professionale nel Laboratorio di Tecnologie Audiovisive, piccola e agguerrita struttura operante nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, nella quale si ritrova a fare ricerca didattica e produzione una piccola congerie di persone molto diverse tra loro, ma incredibilmente solidali e in sintonia sul piano teorico e operativo nel campo della didattica dentro i media. Attualmente il Laboratorio concentra le sue attività in diverse esperienze di e-learning, nel campo della didattica universitaria e dell’alta formazione (con due Master totalmente on line). Lascia traccia di sé nel sito http://host.uniroma3.it/laboratori/ltaonline 4 O meglio: gli insegnamenti dell’area pedagogica del Corso triennale e magistrale di Scienze della comunicazione, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre, di cui sono responsabili i tre docenti che fanno capo al Laboratorio di Tecnologie Audiovisive, e che si aggiungono agli insegnamenti da essi stessi tenuti presso la Facoltà di appartenenza (Scienze della Formazione) una quota dei quali in rete. Di fatto, dunque, abbiamo predisposto un ambiente didattico di rete specifico, nel quale gestiamo l’insieme di questi insegnamenti. Quelli attuati a Lettere e Filosofia per l’anno accademico 2005-06 sono alla loro prima edizione. 5 Naturalmente non è questo il contesto in cui posso approfondire il mio/nostro modo di concepire e praticare l’e-learning: rimando, pertanto, a Maragliano, a cura, 2004, un volume collettivo (e non una semplice raccolta di saggi) che raccoglie contributi del gruppo allargato che presso il Laboratorio di Tecnologie Audiovisive è attivo nei progetti di e-learning. 6 Una studentessa dell’insegnamento on line Comunicazione di rete per l’apprendimento, del corso di laurea in Scienze della Comunicazione della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università Roma Tre.


Angelo Centonze Arte contemporanea: la ricerca identitaria

Ipotesi Per prima cosa, è utile approfondire il contesto entro il quale si innesta la nostra indagine, partendo da presupposti diversi rispetto ai secoli scorsi. Bisognerebbe ragionare in termini di “campo esteso” e formulare delle ipotesi sull’identità dell’arte contemporanea. Cerchiamo allora di capire come dovrebbe rapportarsi l’uomo contemporaneo di fronte all’arte del suo tempo, poiché si avverte una pressante necessità di orientamento. Per evitare una condizione di spaesamento, egli dovrebbe anzitutto distaccarsi dagli stereotipi della visione che condizionano lo sguardo. Per secoli, ad esempio, si è sedimentata nel campo dell’arte l’idea dell’esistenza di un unico tipo di prospettiva nell’ambito della quale le proiezioni ortogonali servono a creare concordanze in base a una certa forma mentis. In realtà ne esistono molte altre ma il fruitore dell’opera d’arte si è abituato a questo pregiudizio pagandolo in termini di disorientamento. Risulta dunque fondamentale considerare i cambiamenti dei punti di vista e le conseguenti ricollocazioni. Un ulteriore elemento di spaesamento è, per esempio, considerare l’illustrazione fotografica di un libro come uno strumento di comprensione dell’immagine; in realtà si tratta solo di una visione frontale che certamente non aiuta a capire fino in fondo. La nostra ricerca comincia proprio dall’esame di opere che evidenziano il disorientamento dello spettatore di fronte all’arte contemporanea. Un’immagine significativa è quella relativa a un’installazione di Robert Morris1. L’opera s’intitola Observatory e rappresenta un tipico esempio di Land Art. L’immagine ci mostra un enorme osservatorio in cemento con al centro una persona. Questa installazione è paradigmatica della solitudine, della difficoltà di orientamento del fruitore; egli è lì, solo al centro dell’osservatorio e non riesce a cogliere particolari significativi di ciò che lo circonda, nonostante si trovi in un punto d’osservazione apparentemente privilegiato. Ma cosa si intende per senso e significato in ambito artistico? Il senso è la sensibilità, mentre il significato è la direzione di quest’ultima. Naturalmente


Testimonianze visive Molti artisti trasformano la propria posizione estetica in prassi: nella loro opera, l’arte interviene sulla natura e nasce così l’Arte Processuale. Tra i principali esponenti vi sono il summenzionato Robert Morris, Joseph Beuys4 e Felix Gonzales-Torres5. Caratteristica di Beuys è la creazione di oggetti-sculture-installazioni, come El Loko, basate sull’utilizzo di materiali quali il feltro e il grasso, concepibili come il risultato finale di operazioni artistiche volte a generare consapevolezza critica nel pubblico. La scultura rappresenta per Beuys “la cristallizzazione di un pensiero”, e attraverso la tecnica, la trasformazione della sensibilità in cognizione. Da ciò risulta ben chiaro come molte rivoluzioni abbiano avuto il loro clou nella distruzione di immagini. Torres è noto per le pile e le accumulazioni di caramelle e stampe che i visitatori dei musei erano invitati a prelevare, interagendo con l’opera stessa e in alcuni casi distruggendola. Scopo di Torres era quello di abbattere le barriere esistenti tra arte e vita; rivelare la propria arte a chiunque si trovasse di fronte a una sua opera come, ad esempio, accadeva in Untitled: Portrait of Rose in L.A. Vorrei poi parlare del padovano Maurizio Cattelan, autore di sculture e installazioni, che sulla scia di artisti del passato come Duschamp, approfondisce le capacità conoscitive e comunicative dell’arte contemporanea, sperimentandone, forzandone le potenzialità formali ed espressive fino all’eccesso, ai limiti più estremi. Egli lo fa attraverso i mezzi a lui più congeniali come l’ironia, il gioco e il gusto della provocazione. Tra i suoi lavori più celebri vi sono la scultura fotorealistica Him che presenta un Adolf Hitler in miniatura nell’atto di pregare: una vera icona della paura! La Nonaora, altra scultura fotorealistica, in cui viene rappresentata l’uccisione di papa Giovanni Paolo II ad opera di un meteorite. Queste due performances costituiscono, insieme a Kennedy, un ideale di trittico. In Cattelan’s Tree egli rappresenta un albero d’ulivo secolare racchiuso all’interno di una vetrina. Naturalmente è un atto provocatorio, che vuol portare a riflettere sulla sconsiderata e molto attuale “musealizzazione” della bellezza, dell’antico, che in questo caso è di tipo naturalistico ma può anche riguardare chiese, sculture ecc. Altro artista legato alla contaminazione dei linguaggi e dei materiali, alla provocazione finalizzata a una riflessione sulla contemporaneità, è lo scultore Flavio Lucchini6, di cui segnalerei la serie Dress Memory e Dolls. Stilizzate, simili una all’altra, con grandi volti ovali senza occhi e senza identità, queste Dolls rappresentano il sentimento di tante ragazzine che con ingenuità deside-

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di riflessione sulla condizione umana e diviene, attraverso la metafora (esaltazione della vita), una posizione estetica che ingloba in sé l’unità del rapporto locale-globale; complesso-contraddittorio.

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parlando di arte, il mezzo attraverso il quale la sensibilità diventa “significante” è lo sguardo. Quest’ultimo rappresenta lo strumento di conoscenza dello spettatore. C’è infatti una bella differenza tra il vedere e il guardare. Il primo termine è circoscritto all’ambito dell’occhio che “comprende tutto ma non sempre capisce”. Il secondo ha delle potenzialità conoscitive maggiori e permette di interagire con l’immagine che è un veicolo di comunicazione: la sensibilità serve a conoscere anche attraverso le immagini. Queste ultime permettono infatti di costruire dei racconti caratterizzati da grammatiche, modi di composizione; l’arte non rappresenta ma diviene qualcosa attraverso processi associativi. Ma l’opera d’arte contemporanea è concettualmente il risultato di operazioni associative non sempre congrue. Vorrei fare a questo proposito l’esempio del collage, che combina delle cose originariamente incongrue nel tentativo di fare chiarezza; esso infatti unisce materiali pittorici con altri extrapittorici ma alla base vi è un progetto. L’identità dell’arte nel “campo esteso” è dunque complessa e contraddittoria. Fondamentali risultano allora la sinestesia (allargamenti semantici) e i passaggi. Tra questi ultimi bisognerebbe anzitutto riconoscere quelli relativi alla maieutica (in questo contesto va intesa come la trasformazione degli stereotipi in topoi): vi sono infatti delle regole che si sono oramai stratificate nel tempo. Importante nell’ambito di questo discorso sui passaggi anche il tema dello spazio e del luogo. Lo spazio può essere definito in vari modi: astratto, misurabile, geometrico. Quest’ultimo, che è costituito da linee, segmenti ecc., è alla base del minimalismo nell’arte contemporanea. I lavori relativi a questa corrente sono molto concettuali, spesso di grandi dimensioni e caratterizzati dall’utilizzo di colori perlopiù neutri. La geometria in questo caso ha la valenza di un archetipo e viene eliminato ogni tipo di trascendenza. Queste opere cercano di dare un ordine alla natura. Partendo dal punto di vista dell’artista, pensare per spazi ha più vantaggi che pensare per luoghi; agevola il processo creativo e permette di orientarsi meglio. Anche il processo di astrazione (che aiuta a giungere alla spiritualità delle cose) facilita l’orientamento: sempre che non si confonda l’astrazione con la semplificazione, che provoca soltanto un impoverimento culturale. In ambito architettonico vorrei fare l’esempio di Matta2: il minimalismo di questo artista parte dall’assunto teorico che l’architettura e la figura dell’architetto hanno delle implicazioni politiche: l’architetto nasce difatti come il “consigliere del principe”; egli, utilizzando l’architettura occupa degli spazi ma se ciò avviene erroneamente ci rovina l’esistenza! Matta, come possiamo osservare in Splitting, decostruisce l’architettura tagliando a fette gli edifici. Parlando di minimalismo, mi sembra rappresentativo il lavoro di Eva Hesse3 dal titolo Tomorrow’s Apples: 5 in White dove c’è tutto un discorso sul filo, sulla tela. Quest’opera è fortemente minimalista perché esprime il concetto dell’accumulo, della ripetizione dell’identico. Per orientarsi, il fruitore non può però prescindere dalla conoscenza della cultura contemporanea che rappresenta, in un contesto artistico, il rapporto tra oggetto e quadro. Questa, per essere tale, deve costituire una storia condivisa da una comunità. Per l’artista la cultura contemporanea è uno strumento


questa mostra non si basa su una proposta ideologica o teorica onnipervasiva. Piuttosto si fonda su un atteggiamento di base nei confronti dell’arte, suppone che le dicotomie analitiche tra il percettivo e il concettuale, tra pensiero e sentimento, piacere e dolore, intuizione e criticità troppo spesso oscurino o neghino la presenza complessa di tutti questi fattori nella nostra esperienza del mondo e la compresenza di tutte queste dimensioni nell’arte che ne deriva. Ogni opera nella mostra sarà lì a parlare di sé. Insieme le corrispondenze tra le opere – che siano esse dissonanti o armoniche – solleciteranno l’attenzione del pubblico, io credo, verso la diversità di atteggiamenti, materiali, temi e modi di coinvolgere il visitatore che caratterizzano opere d’arte create in linguaggi diversi e tutte, ciò non di meno, coniugate al presente.

Il discorso di Storr trova una concreta attuazione nella scelta degli artisti italiani per la Biennale. Anzitutto bisogna dire che il nostro paese negli ultimi anni non era più rappresentato dal Padiglione Italia, che in realtà ospitava artisti internazionali. Quest’anno però gli italiani avranno una nuova sede: Le Tese delle Vergini. Qui saranno presenti le opere del trentaseienne fotografo Francesco Vezzoli, eclettico manipolatore di miti e icone, che in pochi anni è passato dal telaio allo schermo e dal ricamo al video. In Scatti d’autore, egli espone un nuovo progetto di ricerca che intreccia curiosamente la fotografia e l’arte del ricamo, elaborando a suo modo grandi scatti di dive del cinema come Sophia Loren, Liz Taylor e Lauren Hutton. Ci sarà assieme a lui anche il sessantenne Giuseppe Penone, grande seguace di Beuys, del quale riprende le tematiche dell’uomo vegetale e della natura antropo-

Costruzione del senso Siamo partiti da una riflessione incentrata su ciò che intendiamo per arte contemporanea; abbiamo esaminato le difficoltà di comprensione, di orientamento che una novità assoluta comporta ma anche le potenzialità cognitive, comunicative insite nella sua natura. In questo complesso ingranaggio, la storia dell’arte riveste un ruolo importante; essa illustra la costruzione del senso; rappresenta un’interpretazione dei fatti che, nel corso dei secoli, ha permesso di tradurre ciò che era considerato astratto, in qualcosa di concreto. Lo strumento che aiuta però lo spettatore, il fruitore di arte contemporanea, a penetrare questo senso, a dargli una direzione trasformandolo in significato, è la didattica dell’arte. Per assolvere a questo compito essa ricorre spesso al meccanismo del gioco (rappresentano dunque importante iniziative come quella della Tate Gallery dove vi è un sistema di School Education affidata a dei Teachers Kid e viene offerto gratuitamente del materiale didattico). In questo modo “il contemporaneo” è aiutato a trasformare la propria sensibilità in cognizione e l’arte può diventare uno strumento di conoscenza della contemporaneità.

Note 1 Robert Morris, artista americano vivente ed ex studente d’ingegneria, è uno dei fondatori dell’Arte Processuale. A partire dagli anni Settanta si è dedicato alla Land Art con progetti per installazioni su larga scala in diverse parti del mondo.

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morfizzata, utilizzando materiali quali foglie, tronchi e terra. Entrambi sono stati scelti perché rappresentano esattamente il nostro oggi: Penone crede nelle forme più tradizionali della scultura ma riviste e rivisitate e Vezzoli è un occhio critico del sistema dell’arte di cui è parte ma di cui avverte i limiti e i pericoli. Due artisti che hanno una forte risonanza nel mondo della moda: Vezzoli è molto apprezzato da Miuccia Prada (i suoi film come Comizi di Non Amore sono sostenuti dalla Fondazione Prada) mentre Penone è fortemente presente nella collezione Pinault, il magnate che controlla Gucci ed è attualmente proprietario del veneziano Palazzo Grassi. Abbiamo dunque visto in Penone come anche il concetto di rivisitazione della tradizione possa costituire il punto di partenza per approdare a una novità assoluta nell’arte contemporanea. Ulteriore esempio di tale approccio è Ivan Lardschneider8, giovane artista della Val Gardena, le cui opere sono incentrate sullo studio delle potenzialità espressive del legno. La sua peculiarità è il trattamento di questo materiale, con cui riesce a infondere grande senso plastico a un materiale rigido come il legno, creando un’opera fortemente espressionistica e originale. Lardschneider, pur nel solco della tradizione della scultura in legno della Val Gardena, riesce a creare un’opera davvero nuova in questo genere d’arte.

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rano il rivestimento che le renda uniche; queste bambole, in realtà, sono figure moltiplicate, replicate, una “folla”, che rappresenta quello che molte adolescenti vorrebbero essere ma non sono. Rimanendo nell’ambito della “provocazione” non si può non parlare di Allen Jones, le cui opere, spesso di matrice Pop, sono caratterizzate da una forte carica sensuale e da un abbondante uso di immagini metaforiche. In Chair, Jones presenta un’accattivante donna-mobile. La figura femminile forma un corpo unico con una moderna sedia anni Settanta (le sue gambe costituiscono lo schienale dell’oggetto); vi è una compenetrazione tra la figura umana e la sedia e sembrerebbe che l’artista voglia affermare come l’esistenza umana vada di pari passo, quasi in simbiosi, con il progresso. In realtà la donna è schiacciata dall’oggetto e in una posizione subalterna rispetto a esso. L’essere umano, secondo Jones, subisce la modernità! Abbiamo formulato delle ipotesi sull’identità dell’arte contemporanea e cercato di capire, vedendo alcune immagini, cosa intendiamo per tutto nuovo, oggi. Vorrei a tal proposito citare un estratto dell’intervista per il «Venerdì di Repubblica» a Robert Storr7, direttore della LII edizione della Biennale di Arti Visive di Venezia, che si terrà dal 10 giugno al 21 settembre 2007. Egli commenta la scelta del titolo della Biennale: Think with the Senses / Feel with the Mind Art in the Present Tense (“Pensa con i sensi / Senti con la Mente l’arte al presente”), affermando che


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2 Gordon Matta-Clark (22 giugno 1943-27 agosto 1978), artista americano, è uno degli esponenti di spicco della corrente Anarchitecture, fondata nel 1973 dallo stesso Matta insieme a Suzanne Harris e Tina Girouard. Egli è famoso per i suoi Buildings Cuts, una serie di lavori eseguiti su edifici abbandonati dei quali rimosse artisticamente sezioni di pavimenti, soffitti e muri. 3 Eva Hesse (1936-70) è stata una grande artista americana. Pittrice e scultrice, è tuttora un esempio imprescindibile nell’ambito del minimalismo. 4 Joseph Beuys (1921-86), artista tedesco, è certamente da considerare un altro dei fondatori dell’Arte Processuale. La LII edizione della Biennale di Arti Visive di Venezia, vista la grande attualità della sua opera, dedica a lui e a Matthew Barney una mostra. 5 Felix Gonzales-Torres, morto nel 1996, rappresenterà gli Stati Uniti nell’ambito della LII edizione della Biennale di Arti Visive di Venezia. Gli Stati Uniti vogliono rendergli omaggio scegliendolo come artista rappresentativo del proprio padiglione. 6 Flavio Lucchini inizia la propria carriera artistica nel mondo della moda. Egli a partire dagli anni Sessanta è Art Director dei più importanti periodici di moda, come «Vogue», «Donna» ecc. Dagli anni Novanta si dedica alla scultura creando opere legate sempre alla moda e al tema dell’abito femminile. 7 Robert Storr, direttore della Yale School of Art per 12 anni, dal 1990 al 2002, è Curator e Senior Curator al Department of Painting and Sculpture del MOMA (Museum of Modern Art ) di New York. 8 Ivan Lardschneider fa parte di un gruppo di artisti della Val Gardena: Unika, specializzato nella lavorazione del legno (tipica di questa zona). Essi danno vita a sculture, installazioni che seguono la tradizione della loro zona d’origine ma nello stesso tempo se ne discostano per la contemporaneità dei soggetti, dello stile ecc.

Cristina Caiulo, Stefano Pallara Architettura, il nuovo che non c’è

Nihil novi sub sole (Eccle. 1, 9 - III secolo a.C.): in realtà il del tutto nuovo in Architettura non c’è, oggi. Sembrerà un’affermazione quantomeno paradossale, viste le continue immagini di meraviglie pseudoarchitettoniche che i media ci propongono, una per tutte l’arcinoto Museo Guggenheim di Bilbao dell’archistar statunitense Frank Owen Gehry (Toronto, 1929) inaugurato nel 1997 (Foto 1-2). Ma quanti saprebbero dire quali collezioni d’arte sono ospitate al suo interno? O quali esposizioni temporanee vi si sono svolte o vi si stanno svolgendo? Il Museo Guggenheim di Gerhy è un seducente contenitore di non si sa bene che cosa dalla struttura assolutamente ordinaria rivestita internamente da lastre di cartongesso a simulare uno spazio fluido e scenografico ed esternamente da lastre di titanio a simulare una forma fluttuante dalla pelle riflettente. Appare chiaro che siamo di fronte a una operazione di marketing urbano, un atto di contaminazione delle arti, per utilizzare un termine abusato (Pavia 2005, p. 104), in cui l’Architettura gioca un ruolo alquanto marginale. La vera e nuova Architettura, lo impariamo umilmente dal passato, è una sintesi mirabile di forma e funzione, di arte e tecnica, di immagine e materia, ed è privilegio di pochi ispirati: gli altri è sufficiente che facciano il proprio mestiere con onestà intellettuale. Per questo, neppure il fatto di vivere in piena società dello spettacolo (Debord, 1967) e quindi in un mondo dominato dalle immagini e dalla velocità di trasmissione delle stesse: può giustificare l’osses-

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sione per l’apparenza degli architetti attualmente più famosi a livello planetario, non solo nei riguardi delle proprie opere ma anche della propria persona. Noi pensiamo che l’Architettura non si possa e non si debba ridurre all’unico problema di come fare l’edificio dalla forma più bizzarra o meno rassicurante… alla ricerca spasmodica dell’originale e del nuovo a tutti i costi. Ma che cos’è il nuovo? Il nuovo, nel significato corrente, è ciò che non si era mai visto, conosciuto o pensato prima, è qualcosa che irrompe nella nostra realtà senza preavviso, è qualcosa che modifica radicalmente e profondamente il presente: niente sarà più come prima. Per questa sua caratteristica di radicalità il nuovo – e a maggior ragione il del tutto nuovo – non può limitarsi a cambiare solo uno o alcuni degli aspetti della realtà nella quale irrompe, ma, soprattutto in Architettura, deve essere sostanziale, non ridursi a una mera questione di forma o immagine, di spazio o di struttura. Le opere contemporanee che tanto ci affascinano ritrovano tutte una loro genesi, formale o tecnica, in un passato più o meno remoto. Nel 1839 il fisico Edmond Becquerel (Parigi, 1820-91) scopre l’effetto fotovoltaico, cioè la possibilità di convertire direttamente la luce solare in elettricità. Nel primo ventennio del secolo scorso Antonio Sant’Elia (Como, 1888Monfalcone, 1916) anticipa visioni inquietanti di un futuro architettonico alle porte con i suoi innumerevoli disegni dall’espressività dirompente: altri costruiranno quanto da lui immaginato, un esempio per tutti, le Case a gradinata (Foto 3). Tra il 2003 e il 2005 lo studio MCA dell’architetto italiano Mario Cucinella (Palermo, 1960), allievo di Renzo Piano, progetta e realizza a Pechino un edificio destinato a centro italo-cinese di educazione e ricerca per la salvaguardia dell’ambiente e la conservazione energetica accolto dalla critica come un modello altamente innovativo (Foto 4). La costruzione a gradinata, per una maggiore esposizione solare delle terrazze di pertinenza di ogni piano, è dotata di 190 moduli fotovoltaici e, tra le altre cose, è previsto un siste-

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ma di raccolta e riutilizzo dell’acqua piovana (care vecchie cisterne ipogee…) (Moretti, Bori 2005). Lo stesso schema a gradinata si può vedere al porto di Otranto (Foto 5). Negli anni Venti del secolo scorso l’architetto austriaco Frederick John Kiesler (Tschernowitz, Austria-Ungheria, ora Chernivtsi, Ucraina, 1890New York 1965) elabora le sue teorie sullo spazio senza fine, poi concettualizzato nella Endless House, la casa liberata dal cubo prigione, mai costruita, e nell’Endless Theatre, fondato sulla figura della doppia spirale. Sentenziando l’abolizione della distinzione tra pavimenti, pareti e soffitti e la creazione di uno spazio elastico, continuo, curvo con piani d’acqua e spazi intersecati, Kiesler dà vita a una delle concezioni ritenuta tra le più originali del XX secolo. Nel 1998 Frank O. Gerhy riceve The 1st Austrian Frederick Kiesler Prize for Architecture and the Arts per la sua abilità nel creare “emotional and mental spaces constantly searching for new surfaces” in ossequio al principio del maestro “Form does not follow function. Function follows vision. Vision follows reality” (cfr. www.kiesler.org). Nella sua ultima creazione, l’Hotel Marqués de Riscal a Elciego, in Spagna, un albergo extralussuoso all’interno di un complesso vinicolo, Gehry supera se stesso: non si tratta neanche più del risultato di una ricerca formale spinta alle estreme conseguenze, bensì di pura scenografia. Il fabbricato che contiene le camere è letteralmente incartato da una specie di sovrastruttura nastriforme, in


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scenza profonda del passato, e poi, ma non solo, un confronto costante con gli effetti delle proprie opere sui luoghi e sulle persone. Le idee progettuali che elaboriamo e realizziamo, se nascono e vivono in un luogo ben definito e tra le persone che lo abitano, non possono ripetersi uguali dovunque, perché hanno un’anima che si manifesta in carne e sangue, qui e ora, e non dappertutto e in qualunque momento. Sono così perché non potrebbero essere altrimenti, mentre le opere di cui trattiamo o giocano sulla riscoperta di tecnologie antiche, oppure sono come sono, accidentalmente anche se volontariamente, e avrebbero potuto essere in mille modi diversi, tutte più o meno eccentriche e accattivanti, e in questa apparenza ripetono se stesse in un gioco di specchi deformanti o trasformanti. Per la Casa da Musica dell’architetto olandese Rem Koolhaas (Rotterdam, 1944), inaugurata a Oporto nel 2005, invece, il discorso non sembra limitarsi alla pura forma perché il contenitore viene effettivamente e, pare, soddisfacentemente utilizzato per concerti. Ma anche in questo caso la forma che lo contraddistingue, intenzionalmente incombente, non è dettata da necessità tipologiche o funzionali né estetiche o strutturali: l’ordinarietà dello spazio interno, forzato da pareti esterne fortemente inclinate, risulta ancora una volta assoggettato alla propria immagine esteriore, fotogenica ed extraordinaria nel senso letterale del termine (Foto 8). Sono forme esemplificative dello stile del progettista, unico criterio di giudizio possibile per i profani e, quindi, di grande consenso mediatico, ma spesso un limite per gli addetti ai lavori. Lo stile si può copiare, cosa ancora più agevole, oggi, con il calcolatore elettronico, perché è un insieme di regole codificate, e, inoltre, può conside-

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parte di colore rosa acceso, che richiama alla mente il fiocco uscito male di un pacco regalo (Foto 6). A cavallo del Duemila lo studio olandese Nio Architecten realizza nei Paesi Bassi, a Hoofddorp, una piccola stazione per gli autobus dalla forma gelatinosa (Fluid Vehicle - Amazing Whale Jaw), in cui la distinzione tra pareti, pavimenti e soffitti si annulla in uno spazio liquido che scorre in un flusso continuo (Foto 7). Nel 2001, a Memphis, nel Tennessee, Acconci Studio progetta il Center for the Performing Arts, dotato di una piccola struttura per happening (Roof like a liquid flung over the Plaza) che appare come un getto di metallo liquido solidificatosi in un attimo. Sempre Acconci Studio, nel 2004, elabora per un edificio a Milano (Façade on a Façade) la soluzione di una seconda facciata esterna fluida, che pare scivolare dall’alto a coprire il prospetto reale come un velo semitrasparente. Nel 2002 l’architetto Massimiliano Fuksas (Roma 1944) progetta il nuovo mastodontico Polo fieristico di Milano, una serie di padiglioni vetrati prefabbricati dalla forma regolare disposti ai lati di un corridoio centrale a due livelli lungo circa un chilometro e mezzo, coperto da una vela ondulata a struttura reticolare vetrata che precipita, a volte, in crateri simili a getti di cristallo fuso. I pochi ma significativi esempi sopra accennati sono più che sufficienti per evidenziare quanto la spettacolarizzazione della forma o la soluzione tecnologica presentata come avanguardia, possano distrarre la nostra attenzione da un tipo di ricerca e di sperimentazione che presuppongono, innanzitutto, la cono-


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rarsi uno stile anche il non averne uno in particolare. Lo stile consente di classificare qualunque espressione umana, ma il del tutto nuovo sfugge a qualunque classificazione perché è sempre archetipico per definizione. Certo si può riconoscere un percorso, con delle caratteristiche peculiari, che contraddistingue quel progettista invece di un altro, ma forse preferiremmo si parlasse di linguaggio architettonico e non di stile. Il linguaggio trasmette, e, quando questo accade, si può parlare di maestri e di allievi, di trasferimento di conoscenza, e non di semplice imitazione. Nel 2006 l’archistar Steven Holl (Bremerton, Washington, 1947) ha progettato a Shenzen, in Cina, il Vanke Center, a floating horizontal skyscraper (Foto 9). Ma il grattacielo – novella cattedrale laica – non rappresenta l’aspirazione dell’uomo a dominare le forze della natura e quindi a spostare sempre più in alto i propri limiti umani? Questa lunga stecca orizzontale di ordinari edifici destinati a uffici, residenze e alberghi ci comunica soltanto che le aspirazioni del progettista hanno invertito la rotta… Qui siamo persino oltre la società delle immagini, siamo nella società della pura comunicazione verbale (ma non intendevamo questo per linguaggio architettonico): le note che illustrano brevemente il progetto sul web spiegano grosso modo che stiamo osservando una lunga stecca di edifici sospesi su pilastri che rappresenta un grattacielo orizzontale fluttuante, il quale, nei suoi continui cambi di direzione, riproduce la frammentazione della vita di Shenzen. In realtà, per onestà intellettuale, dobbiamo ammettere che la responsabilità di questa reductio ad formam non è ascrivibile solo allo smisurato ego delle

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archistar. Se si analizza la storia di questi edifici dal punto di vista amministrativo, per esempio, si scopre che nella maggior parte dei casi, almeno in Italia, la loro realizzazione è stata resa possibile dal meccanismo della variante allo strumento urbanistico comunale, cioè a quell’apparato di regole cui sono soggetti tutti coloro che vogliono modificare il territorio costruendo. Nonostante l’attività costruttiva non sia mai stata più regolamentata di oggi e irrigidita in norme spesso contraddittorie (nel migliore dei casi poco chiare), mai come ora subiamo l’oltraggio di pezzi nuovi di città che si ripetono uguali e brutti ovunque, salvo attendere poi di essere riscattati dalla nuova meraviglia dell’archistar di turno, chiamata a dare lustro e visibilità, effimeri, in primis a chi l’ha voluta a caro prezzo e, forse, anche al contesto. E qui introduciamo un elemento determinante nel buon esito di un’Architettura: senz’altro la fiducia della committenza. Fiducia nell’architetto, innanzitutto, ma fiducia anche in se stessa e nella propria chiarezza di pensiero, ciò che fa grandi le architetture del passato. Ma quando la committenza, pubblica soprattutto, o privata ma di interesse pubblico, anziché scegliere il progetto sulla scorta di una chiara consapevolezza delle proprie esigenze mediante un sistema aperto concorsuale, sceglie il progettista in base a valutazioni che hanno molto a che fare con la sua risonanza mediatica, il risultato è quell’apparentemente nuovo e originale spesso foriero di costi altissimi sia in termini economici che di spreco o di cattivo utilizzo del territorio. Come accade per la moda, per la musica o per il comune sentire, noi subiamo più o meno inconsapevolmente l’influenza sottile e pervasiva delle idee


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che qualcuno ha già pensato per noi, delle scelte che qualcuno ha già fatto per nostro conto. Allo stesso modo l’Architettura si è trasformata in un oggetto mediatico da desiderare come un’automobile o un abito firmato, e non a caso molte aziende hanno utilizzato per i propri spot pubblicitari citazioni di queste fabbriche stupefacenti, e talvolta persino l’architetto, come nel caso di Massimiliano Fuksas e della sua famosa nuvola, disegnata per il Centro Congressi dell’EUR a Roma (Foto 10). Certo, nell’ottica della accennata verifica degli effetti delle proprie opere sul contesto, il Museo Guggenheim di Gerhy ci viene presentato come un’opera riuscita, al punto che si parla ancora di effetto Bilbao: una incredibile quantità di visitatori ogni anno, ci informano i media, che costituiscono l’arma di difesa più affilata per i suoi estimatori. Se in così tanti lo apprezzano vorrà dire che ha raggiunto il suo obiettivo: conferire alla città di Bilbao un’improvvisa e planetaria risonanza, con probabili ricadute economiche immediate su un tessuto urbano che, tuttavia, era già largamente apprezzato come una tra le più belle espansioni ottocentesche della Spagna. Ciò nondimeno, dal punto di vista spaziale e strutturale può rappresentare una rivoluzione pari a quella borrominiana tanto cara a Gerhy? No senz’altro. Francesco Castelli, detto Borromini (Bissone, Canton Ticino, 1599-Roma, 1667), non disdegnò la fama derivante dallo stupore che suscitavano le sue architetture, ma il suo linguaggio espressivo non si limitò a una pur feconda ricerca formale, bensì si estrinsecò in una straordinaria padronanza tecnica, che sola presuppone una autentica libertà figurativa. Le sue eccezionali capacità di

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Per concludere: potrebbe esserci qualcosa di del tutto nuovo in Architettura, oggi? Forse sì, e allora dovrebbe essere un’Architettura dalla forte valenza simbolica, che si configuri come un sincretismo di funzioni paradigmatiche di ciò a cui più anela il mondo in questo momento: il multiculturalismo. Provocatoriamente riteniamo che un grandioso esempio di multiculturalismo realizzato, allora come oggi, sia la Mezquita Catedral di Cordoba in Spagna (Mezquita 785-Catedral 1236) (Foto 11-12). La straniante esperienza di vagare con gli occhi in una moschea, rapiti dalla splendida ornamentazione finemente intagliata nella pietra, per poi ritrovarsi come per incanto all’interno di una cattedrale dalla decorazione altrettanto pregevole, entrambe tuttora utilizzate, crediamo possa essere l’immagine architettonica più concreta e universale del multiculturalismo realizzato. La parola alle immagini.

Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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La valenza simbolica

Bellini, F., 2004, Le cupole di Borromini. La “scienza” costruttiva in età barocca, Milano, Mondadori Electa. Colombo, F., 2003, La città è altrove. Riflessioni sull’architettura, Roma, Mancosu. Costanzo, M., De Propris, M., 2006, Sant’Elia e Boccioni. Le origini dell’architettura futurista, Roma, Mancosu. De Botton, A., 2006, The Architecture of Happiness, New York, Pantheon Books; trad. it. 2006, Architettura e Felicità, Parma, Guanda. Eliade, M., 1943, Comentarii la legenda Meflterului Manole, Bucuresˆti, Publicom; 1940-42, La mandragore et les mytes de la “naissance miraculeuse”, «Zalmoxis. Revue des études religieuses», Bucarest-Paris, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, vol. III, pp. 3-48; 1939, Ierburile de sub cruce…, «Revista Fundasˆiilor Regale», n. 11, pp. 353-369; trad. it. 1990, I Riti del costruire. Commenti alla leggenda di Mastro Manole. La Mandragola e i miti della “Nascita miracolosa”. Le erbe sotto la croce…, Milano, Jaca Book. Ilardi, M., 2004, Nei territori del consumo totale. Il disobbediente e l’architetto, Roma, DeriveApprodi. Lenoci, S., 2005, Tra arte, ecologia e urbanistica, Roma, Meltemi. Masini, L. V., 1989, Arte contemporanea. La linea dell’unicità. La linea del Modello, Firenze, Giunti. Moretti, G., Bori, D., 2005, La casa di Hatra. Uso delle risorse ambientali e climatiche nella tradizione abitativa mediterranea, Ozzano Emilia (Bo), Tipoarte. Pavia, R., 2005, Le paure dell’urbanistica, Roma, Meltemi. Prestinenza Puglisi, L., 2002, This is Tomorrow. Avanguardie e architettura contemporanea, Torino, Testo&Immagine. Severino, E., 2003, Tecnica e architettura, Milano, Raffaello Cortina. Zevi, B., 1994a, Architettura della Modernità, Roma, Newton Compton. Zevi, B., 1994b, Architettura concetti di una controstoria, Roma, Newton Compton.

Cristina Caiulo, Stefano Pallara

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modellare la materia in una fusione di forma e funzione dalle peculiarità uniche e distintive, ci consentono di parlare delle architetture del Borromini come di un qualcosa del tutto nuovo nel panorama dell’epoca, e di universalmente riconosciuto. Un giorno le sue creazioni saranno rovine che qualcuno andrà a studiare o semplicemente ad ammirare, ma delle costruzioni contemporanee, noi pensiamo, rimarranno solo macerie (Augè 2003).


Lelio Semeraro Pubblicità: la rivoluzione creativa

Per iniziare bisognerebbe avere vicino un goccio del rhum più bevuto nei peggiori bar di Caracas. Queste parole le avrete già sentite. E più le assaggiamo e più ci piacciono. Ce lo meritiamo tutto quel “peggiore”. E poi ci evoca il vero, il buono, il genuino. È il segno odierno di una rivoluzione linguistica iniziata già più di 50 anni fa negli States, a opera di un certo William Bernbach. Propose le auto Volskwagen, molto più piccole rispetto ai consueti macchinoni americani (think small invitò). Introdusse variazioni alle solite scelte iperboliche intrise di stagnanti ripetizioni quali “l’unico”, “il primo”, “il solo”. Aveva capito una cosa fondamentale, che anche un difetto del prodotto può essere usato come una leva, e risultare fascinoso. È l’inizio del “negative approach”, una vera e propria rivoluzione creativa. È la caduta di un muro di retorica, la fine del martellamento e l’inizio del divertimento. Una serie di giochi nuovi, che oggi potremmo e dovremmo riprenderci per uscire dallo stagno, una volta smaltita la sbornia degli anni Ottanta e superate le paure da 11 settembre. Vi dedicheremo meno tempo possibile, così ha detto un mio amico per una campagna utile a “DHL” lo spedizioniere. Ero tranquillo in vacanza invece quando leggevo l’annuncio di un albergo di Amsterdam: vi offriremo meno servizio degli altri. Un modo elegante per dire che in quest’albergo non sarete disturbati. Quando torno a casa scrivo una campagna per Studio Universal: contro gli inestetismi della celluloide. È gioco intelligente, irriverenza, parodia, che va a braccetto con quello che gli inglesi chiamano understatement, “sottostima”, il contrario dell’iperbole. È rispetto dell’intelligenza del tuo interlocutore. Il consumatore non è stupido, è tua moglie, diceva Olgivy (1963). Con tua cognata suo suocero e suo nipote che ti intercettano, aggiungerei. Dagli anni Cinquanta si scopre anche che le idee è meglio produrle in due: un copywriter e un art director insieme, in coppia. A litigare e ad amoreggiare sul senso della campagna, per partorire un’idea, senza litigi sulla paternità del testo visivo e del testo verbale. La stessa coppia creativa che deve farsi forza per aggirare le regole del marketing (la strategia dev’essere questa), e difendersi dagli ordini dei committenti (che non vogliono mai rischiare nulla e che vo-


L’ambient media Piacere, Wolf. Risolvo problemi. Come in una specie di Pulp Fiction, dopo aver fatto secca la realtà, in un delitto quasi perfetto, è il creativo, il pubblicitario a dover risolvere i problemi di un’azienda. Mai porre dubbi, né sollevare problemi. Risolverli. Fare conoscere un prodotto nel modo più semplice, veloce e mirato. Il prodotto e il suo linguaggio sono legati a doppio filo. Ma purtroppo non c’è mai silenzio nel mondo della comunicazione. C’è rumore, tanto rumore. Siamo allo stadio, tanto per dare l’idea. Non al concerto di musica classica. Perciò molti urlano ma sarebbe meglio distinguersi. Inventare un gioco, un gioco a più parti, a più ruoli. Consumatore sei anche tu. Le grandi marche ti amano. Eppure sei infedele, cinico, disincantato smaliziato, viziato. Difficile da accontentare. Per questo la pubblicità non può accontentarsi di scrivere una bella frase, la grande affissione, lo spottino carino. Deve colpire alla mente, al cuore, alla pancia, ai genitali quando meno te l’aspetti. Quando le tue soglie di difesa sono basse, arrendevoli e il tuo inconscio è aperto, ricettivo, indifeso. Il mercato non ritiene estraneo niente di ciò che è umano. L’advertising tradizionale è in lento, inesorabile declino. Perciò ci sono nuove frontiere. I banner entrano e si muovono mentre stai navigando, lanciano messaggi attinenti alla pagina che stai leggendo, ti chiamano al gioco, al quiz, alla risposta.

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L’ambient media è la foresta vergine del creativo, specialmente quello italiano. Il luogo dei luoghi pubblicitari. Vuoi parlare ai più giovani? Fai cartoline e le sistemi nel loro locale preferito, proprio vicino alla spillatrice delle birre. Si chiamano promocard e sono poco invasive. Sono pull non push direbbero gli esperti di marketing. Sono gli stessi ragazzi a prenderle, leggerle e passarle. Ma ci sono altri usi dell’ambiente a effetto chiamati generalmente guerriglia marketing. Più che guerre sono battaglie per la conquista di nuovi spazi, nuove terre della comunicazione (per avere un’idea vedi il sito dell’agenzia guerrigliamarketing.it). Passando dall’aereoporto Marco Polo, puoi vedere un nastro trasportatore di bagagli modificato. Dal punto di vista funzionale è uguale a prima. Le valigie scorrono lo stesso. Ma ora è roulette. Rosso Nero Rosso Nero. Non sono impazziti. È la pubblicità del Casinò di Venezia. Un palo della luce fa presto a diventare un palo per la lap dance. Il coperchio di un cestino della spazzatura può fornire uno spunto per una campagna sociale a sostegno dei barboni. È quel vecchio gioco teatrale di trasformazione degli oggetti. Solo che ora il teatro è brandizzato e si agita dappertutto, non solo nei centri commerciali, ma per strada, sulle strisce pedonali, nei reggimani sui bus, in finte conversazioni, tazze di caffè, bagni pubblici, scrittura sul corpo umano. Ogni spazio può essere territorio di conquista se si integra bene con contesto, prodotto e messaggio da diffondere. Oggi il medium è massaggio. Esperienza sensoriale, visiva, auditiva, olfattiva, tattile. Nuova regola matematica dove uno più uno deve far tre. Se fa due, ti conviene rifare tutto daccapo. Qui è un altro sistema di riferimento, nuove dimensioni. Atmosfere, magie, emozioni. Per prodotti nuovi. O antichissimi come la pace. Ma soprattutto idee nuove, originali, di rottura, rivoluzionarie, trasgressive. Che riescano a ottenere il consenso del target. Incontrarlo, parlargli, divertirlo, coinvolgerlo: “tirarlo dentro”. Il contagio delle idee, come un’influenza virale. Esiste un’agenzia di spot virali (ebolaindustries.com) che spiega una felice conseguenza della sua missione. È il consumatore stesso a diventare evangelista: adotta e distribuisce il tuo messaggio. In rete, in chat, nella varie tribù e community, o semplicemente con il passaparola. Pensare in piccolo, in modo spettacolare ma senza grossi budget (in fondo basta un’idea e una telecamera digitale). Spendere poco per ottenere il massimo risultato, ottenere il consenso con la precisione chirurgica di un raggio laser. Queste strategie sconfinano a volte nell’arte di strada, nei murales, e ricordano tattiche situazioniste. Il target si umanizza, l’advertising entra nel quotidiano, si trasforma in un gioco con persone reali con un corpo e un cervello. Il consumatore in un individuo attivo. Questo è un modo per far uscire la creatività italiana dall’impasse. E per farlo ci vuole talento. Séguéla ama raccontare la storiella di quel creativo che per andare al lavoro tutti i giorni incontra un cieco in metropolitana che chiede l’elemosina senza grossi risultati. Un giorno il creativo gli scarabocchia due parole sul cartello dove c’era scritto “cieco dalla nascita”. Il cieco il giorno dopo lo chiama e gli chiede: “ehi, ma cosa hai scritto? Ieri ho incassato il doppio del solito”. “Il concetto è lo stesso. Ho solo cambiato strategia”, risponde il creativo. “Ci ho scritto: ‘Oggi è il primo giorno di primavera. E io non lo posso vedere’”.

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gliono vedere il loro marchio bello & grosso) che come un filo spinato circondano le pagine dei creativi in luoghi concentrazionari. La pubblicità non è né teoria né tecnica, è mito, super-metafora, sogno, o al massimo è creazione di una star per strizzare l’occhio a un grande pubblicitario come Jacques Séguéla, che usò i suoi felici ossimori anche per l’elezione di François Mitterand (la force tranquille) (Séguéla 1979). Come in Fight Club, la sola regola è che non ci sono regole. Nessuna divinità o moltissime. Tutte però subordinate al Senso, al concetto nelle sue mille sfaccettature. Esiste sempre e comunque un senso, anche quando si scivola nell’irrazionale, nel non-senso. Il creativo è un samurai che lotta con la contemporaneità nella contemporaneità. Animale onnivoro che si mangia minestroni di tutte le arti. Alfiere che muove in diagonale la cultura, passando da quella alta a quella più bassa. Da Rachmaninov alla Gasolina. Fino alle sottoculture. È quello strano tipo che tende le orecchie per sapere cosa si dicono i ragazzini in metro, di cosa ciarlano le vecchiette alle Poste. Anche quello fa parte del lavoro. Può darsi che in fin dei conti la pubblicità stufi, perché è peggio di Sanremo, perché c’è n’è troppa, perché si riduce a un mucchio di canzonette, ma che almeno siano canzoni mai sentite. È per questo che è in continua trasformazione. È per questo che può avere mille paure, ma non può mai necessariamente avere paura del nuovo.


Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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Oggi non c’è più tempo. Il marketing usa la tattica del mordi e fuggi. Serve fiuto e istinto. Riflessi pronti e poche riflessioni. L’headline, il titolo di una campagna è l’incipit di una breve storia che il lettore deve completare. Nel prodotto si condensano stati emotivi. Rassicura e protegge dalle paure. Si integra con i tuoi ricordi. Il cervello umano non è un album fotografico in cui i ricordi sono immagazzinati separatamente, bensì una costellazione di attività creativa di immagini e dati sensoriali. Anche le parole devono formare immagini, concretizzare realtà psichiche, spurie, contaminate. In pubblicità gli animali vengono usati per la loro immediatezza e universalità. Un leone a guardia del tuo cancello di casa. Un bradipo per fare da contrasto alla velocità della tua Alfa Romeo. Macchine, mostri, animali, uomini sono inseriti in un ricco universo artificiale, aperto all’alterità. Si usano con sagacia bricolatrice stereotipi e archetipi radicati nell’immaginario umano. Per offrire identità nuove. Angeli, demoni, folletti. È l’elogio dell’ibrido di cui parla Marchesini in Posthuman. “Immagini-messaggio senza bisogno di spiegazioni che rispondono a quell’ideale di pregnanza e concisione che sono le parole d’ordine di una qualsiasi campagna pubblicitaria” (2002). Si aprono quindi mondi possibili, visioni al plurale, modelli transidentitari. Un’estetica relazionale, dove l’arte pur parlando all’individuo non è pensata in maniera distaccata dal mondo, ma al contrario come ingrediente essenziale della vita sociale. Spesso il senso è dato dall’esperienza, ancora di più in quel campo che abbiamo chiamato ambient media, dove è fondamentale il feedback continuo tra soggetto e oggetto e tra attore e spettatore, capace così di produrre ecosistemi temporanei e parziali che creano comunità. Grazie al rovesciamento dei consueti schemi, tutti si possono distinguere. Ognuno si può sentire originale nel tradimento di vecchi testi e vecchi stereotipi. Il baubau non fa più paura. Il fantasma si muta in fantasia.

Testatina

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Arte post-umana

Reset


Fulvio Papi Microgenealogia di una scrittura

La prima forma oggettiva di comunicazione che attraversò la mia infanzia fu certamente la lettura del «Corriere dei Piccoli», che mio padre mi comprava ogni settimana immaginando di ottenere il doppio risultato di farmi divertire con quei racconti e di stimolarmi alla lettura. Entrambi i risultati sono stati raggiunti con alcune conseguenze non prevedibili: il testo a stampa al quale dedicavo una grande attenzione prendeva il posto del “lessico familiare” che mio padre non aveva proprio, se non in alcune esclamazioni che mostravano la loro radice reggiana e che io, vittima dell’educazione materna, consideravo fuori luogo, e comunque non ripetibili. Nel caso di mia madre più che una parlata triestina, all’italiano pieno non riuscì mai ad arrivare, valevano alcuni detti proverbiali sulla fioritura delle foglie a Pasqua, sull’interpretazione delle stagioni future a seconda della presenza del vento in certe giornate cruciali, o una saggezza stoica sull’accadere delle cose al mondo, espressa in un proverbio che solo molti anni dopo rivalutai come un callido esempio di cultura popolare: “fata la xe disea quel che gà dà lo sciafo al bocal de piso”, della cui traduzione credo sia inutile il mio cimento. Devo dire, quella resistenza a ereditare almeno frammenti di lessico familiare, era del tutto pari alla mia disponibilità a essere costruito dal lessico dello “spirito oggettivo” che era rappresentato dalla costante lettura del «Corriere dei Piccoli» e da un avvenimento scolastico che capitava una volta all’anno, ma con una certa solennità. Era il giornalino domenicale dei bambini che mi introduceva nello spazio del mondo: i suoi racconti mi toglievano dal mio ambito piccolo-borghese cittadino per proiettare, almeno la mia attenzione, in una dimensione molto più ampia. Ero un bambino che doveva essere consapevole che la patria era impegnata in una guerra in Abissinia necessaria alla stessa vita degli italiani. Credo che siano molto astratti coloro che ritengono che le ideologie abbiano a che vedere con “la coscienza”. In realtà le ideologie insegnano frammenti di un lessico che, come un atomo democriteo, si compongono in un tessuto che prende la sua consistenza. Quel piccolo esperimento di uno “spirito oggettivo” infantile venne poi coinvolto da quell’evento comunicativo drammatico che è il giuramento, dove un “io” indifeso, né pubblico né segreto, è chiamato al rischio della fedel-


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gliene importava niente, aveva importanza solo quello che si diceva, e per lui, ancora di più avevano valore i conti (ai quali teneva anche Calvino) che dovevano risultare esatti. Non fu una rivoluzione del “mezzo” del tutto indolore. Infatti, ogni mezzo, ovviamente in proporzioni molto diverse, è una protesi del corpo, e in quelle scritture disordinate, irte come capelli mal pettinati, scarpe slacciate, colletti storti, molte madri vedevano un elemento di decadenza e di corruzione rispetto alla bella scrittura dei tempi della maestra. Per quanto mi riguarda fu la prima liberazione nell’orizzonte della comunicazione. E per essere precisi non fu una liberazione per (al fine di raggiungere uno scopo), ma fu una liberazione da, cioè dalla paura delle macchie, del pennino infido, del giudizio supercilioso sulle mie “c” e sulle mie “l”, come ragazze al ballo delle diciottenni o, peggio, matrone stringate nel bustino. E una liberazione deve dare necessariamente qualche frutto. Accadde anche nel mio caso. Un vecchio amico di mio padre mi regalò una collezione rilegata di giornali illustrati, e io, piuttosto che frequentare Pinocchio o David Copperfield, diventai un appassionato lettore di vicende a puntate della Legione straniera. Probabilmente un certo effetto la militarizzazione dell’infanzia l’aveva ottenuto. Ma quello fu soprattutto un caso precoce dell’identità tra lettore e scrittore e viceversa, poiché quella lettura faceva di me un narratore. E il narrare divenne un altro modo per frequentare la comunicazione sociale. Giovanni e io facevamo la stessa strada per andare a scuola, e io gli raccontavo le avventure dei legionari nel deserto: pattuglie perdute, fortini assediati, eroismi e viltà, soccorsi appena in tempo. Tuttavia i testi da cui ricavavo i miei racconti si esaurirono abbastanza alla svelta, non così la curiosità e l’attenzione del mio compagno che mi chiedeva di proseguire nella narrazione. Fu allora che feci la scoperta involontaria del “genere letterario” poiché, sulla base delle avventure che avevo letto, ero perfettamente in grado di inventarne delle altre del tutto simili, e il piccolo narratore onnisciente poté proseguire nel suo compito sino alla fine della scuola. Avevo imparato non solo il genere letterario ma anche la figura del destinatario e del suo “orizzonte d’attesa”. Secondo me per l’età non era poco, ma a buttare completamente all’aria la mia “competenza”, arrivò poco tempo dopo la riforma Bottai che, quanto alle prove di italiano, esigeva che si scrivessero cronache di esperienza vissuta, in ossequio alla “spontaneità del fanciullo”. Bottai fu anche responsabile (via Dewey e Kerschensteiner) dell’introduzione del lavoro nella scuola, con il risultato che a me toccò il traforo del legno compensato, che si risolse sempre in un disastroso scempio di materiale. Tuttavia la questione vera riguarda la comunicazione, e qui c’era una rivoluzione. Come lettore-narratore mi ero installato abbastanza bene in un genere letterario, e avrei potuto proseguire questa carriera, per esempio, imitando i romanzi di Salgari. Invece il ministro voleva la spontaneità e l’espressione. A questo punto mi si chiedeva di passare da una estetica illuminista – il piacere come scopo dell’arte – a una romantica, cioè ero costretto a inventare una figura della comunicazione, celeberrima, ma per la quale ero del tutto impreparato, l’“io”. Credo che, in questa faccenda, Bottai fosse il colpevole terminale poiché il tracciato Gentile – Lombardo Radice era già pronto, e forse il puerocentrismo svizzero (da grandi signori) era già filtrato. Purtroppo l’“io” un ragazzo non se lo può inventare, parlo

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tà. Non ricordo proprio bene la formula ma mi si chiedeva una dedizione totale alla causa della rivoluzione fascista sino al sacrificio del mio sangue. La formula era impegnativa e intimidatoria, e trasferivo la mia avventurosa ed esotica immaginazione nel gelo di una parola che risuonava nel perimetro di una comunità invisibile: “lo giuro”. Ras Salam del Fitaurar, il personaggio del «Corrierino», mi aveva trasportato in uno spirito oggettivo dove valevano ancora le confezioni familiari del mondo, nella loro versione di concessioni alla fantasia. Ma ora la situazione era profondamente diversa, perché lo spirito oggettivo come disciplina scolastica richiedeva che simulassimo la risposta a un attacco di gas asfissianti con maschere della prima guerra mondiale i cui filtri non furono mai ripuliti, con l’effetto di produrre il soffocamento quasi immediato dei minuscoli candidati eroi. Questo ha poco a che vedere con la comunicazione, se non come obbligo a una modalità comportamentale, che invece diviene decisiva nella frequentazione della scuola. Il maggiore ostacolo che trovai nelle varie discipline, oltre l’ascesa alle pertiche, fu senz’altro la calligrafia. Allora non esisteva per nulla l’idea di un apprendimento globalizzante della scrittura e della lettura ma, come nella teoria empirista della conoscenza le percezioni, l’una dopo l’altra, entrano a costituire il patrimonio intellettuale, così l’imparare a scrivere derivava dall’acquisizione della abilità a disegnare determinate forme che poi sarebbero entrate a comporre le lettere. Senza entrare nel tema della psicologia dell’apprendimento, questo costume relativo alla costruzione delle parti che poi dovevano entrare a costituire la lettera, aveva senso perché, infine, la lettera non era un segno qualsiasi, ma avrebbe dovuto appartenere a una calligrafia, letteralmente a uno “scrivere bello”. Senza andare troppo per le lunghe alla fine una frase compiuta doveva apparire, proprio in quanto calligrafia, come un paesaggio intellettuale perfettamente riconoscibile da chiunque sapesse leggere. La calligrafia doveva supplire, in certe forme di comunicazione, alla stampa, e questa non era una pretesa inutile perché in molti uffici pubblici, dove era ancora carente la presenza di macchine da scrivere, la calligrafia rappresentava la possibilità concreta sia di un successo comunicativo immediato, sia la certezza che la notazione sarebbe stata tramandata per calcoli e memorie future. Non sapevo evidentemente nulla della tradizione della scrittura che, anche in epoche della diffusione della stampa, costituiva un mezzo di comunicazione per opere che era bene restassero in un circuito privato, e nemmeno sapevo del fatto che ogni editore a stampa per secoli reclamava dal suo autore un testo scritto bene, cioè attraverso quelle convenzioni che lo rendevano perfettamente comprensibile. Anche più tardi, leggendo le Confessioni di Rousseau, rimasi stupito della sua pazienza nel riscrivere le sue opere (raramente leggére) per offrire ad altri la “primizia” di una lettura. Ma allora il mio problema vero era il dominio del pennino, poiché bisognava bene dosare il carico dell’inchiostro per riuscire a scrivere una lettera nel chiaroscuro richiesto, e più di una volta questa impresa era destinata all’insuccesso, con l’esito catastrofico di una macchia sul quaderno che, allora, suonava come una vergogna, per lo sventurato autore, simile a una macchia sull’anima. Non so di preciso quando vennero abolite le cattedre di calligrafia, ma l’abolizione di questo servaggio, per quanto mi riguarda, arrivò in quarta elementare, quando il mio maestro, un bellissimo siciliano normanno, ci disse che della bella scrittura non


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mio ordine intellettuale e alla responsabilità di quello che dicevo. Il “noi” apparteneva all’idioletto della comunità e l’ingresso nella comunità – in questo caso filosofica – richiedeva l’osservanza di una serie di criteri piuttosto rigorosi, pena il rischio, se c’era deviazione, di essere espulso dalla comunità medesima. Quali fossero questi criteri è superfluo ricordarlo agli attuali destinatari di questo discorso poiché li conoscono meglio di me. Il “noi” nasceva senz’altro come un “rito di passaggio”, e poi diventava un’abitudine comunicativa del candidato alla cooptazione che voleva dire: quello che sto dicendo non l’ho inventato “io” (quell’“io” che voi percepite come eccesso, possibilità di trasgressione) ma è invece la voce di un’intera comunità di studiosi, libri, saggi che stanno alle mie spalle: quindi il luogo della enunciazione corretto è il “noi”. Che, naturalmente, apparteneva solo allo scritto, al pubblicato, proprio nel senso di renderlo stabilmente pubblico, un ingresso consapevole e prudente per lo più in un ambiente dove sarebbe stato accolto, più che come un’etichetta sociale, come una necessità che corrispondeva, grosso modo, al sistema castale del luogo. Ovviamente il “noi” scompariva nell’orale, dove avrebbe preso un’enfasi fuori luogo, e anche un po’ comica, quella che Castiglioni rimproverava al mio modo di esporre l’argomento della tesi. Il “noi” però ha anche un’altra caratteristica che appartiene alla stessa natura del testo, anzi talvolta il “noi” è talmente forte e sottinteso che è bene scompaia del tutto. È il caso di un sapere di natura metafisica. In questa circostanza, senza sottilizzare, l’autore, attraverso la struttura formale del discorso, non è altro che il tramite di una rivelazione. Per esempio nella Logica di Hegel, alla fine della filosofia del concetto, sappiamo che è stata l’Idea a parlare sin dal principio. Oppure il caso di un testo scientifico cui si addice particolarmente bene la tesi di Foucault sull’autore come funzione del testo. Nel caso del tradizionale testo filosofico, in particolare di natura accademica, quando la narrazione ha dalla sua sufficienti garanzie logiche e retoriche, il “noi” di solito appare a una svolta interpretativa. Naturalmente anche a me è capitato di dover transitare nei “riti di passaggio” come a chiunque desideri, quali che siano le sue ragioni, essere cooptato da una comunità che si riconosce in alcune regole fondamentali. Tuttavia ciò di cui sono sempre stato sicuro, a causa di una caratteriale miscredenza, è che le parole che appartengono al modo di scrivere filosofico non sono mai un dipinto mimetico (nel significato platonico) del mondo. Così che quando, alla scuola di Banfi, mi trovai di fronte al tema teoretico del “realismo concettuale” e del suo vizio, non feci che riconoscere un modo per poter tradurre in un ambito teorico serio la mia miscredenza. Oggi chiunque immagina che, sollecitato teoreticamente, parlerei, probabilmente in modo complicato, di configurazioni di linguaggio, di comunità della comunicazione, di temporalità dei significati, di etica della verità (quella verità che già Husserl nel 1936 temeva non facesse più parte del repertorio intellettuale dominante nell’Occidente). Tuttavia vorrei proseguire la narrazione del mio viaggio come tramite di comunicazione. Per un lungo periodo, soprattutto inteso come lunga latenza, mi trovai di fronte al problema della narrazione della temporalità, nel senso di trovare una modalità di linguaggio che tentasse di far ri-nascere, ovviamente in un campo emotivo, la qualità di un tempo perduto. Le ultime parole fanno capire

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dell’io riflesso, di quello che medita sulla sua esperienza, e poi è capace di provare la sua esperienza proprio tentando la strada della scrittura. Più d’uno non ci arriva per tutta la vita anche se ripete che la sua vita è un romanzo, e il fatto che oggi esistano scuole e maestri di un tal genere di scrittura dall’imperativo “comunica con te stesso”, non fa che rafforzarmi nell’idea che l’impresa sia proprio difficile e quasi contro la natura dell’uomo d’oggi. Infatti le “cronache”, così si chiamava questo genere scolastico di espressione-comunicazione, furono un fallimento totale. Certamente Proust sui campanili di Martinville può scrivere pagine, ma un ragazzo non sa e non può vedere nemmeno il duomo della città dove abita e nemmeno riesce a comprendere il senso dei gesti di sua madre che gli scodella la minestra. Così che le “cronache” spontanee si popolano di vicende banali e stravaganti, insulse e inventate, nelle quali aveva un posto d’onore l’arrivo della zia da qualche località nemmeno impervia. L’“io” come luogo della enunciazione falliva miseramente, ma quello che è peggio è che questa incapacità della comunicazione finiva con l’avere un riflesso sul ragazzo stesso che si interrogava vanamente: “ma a me non succede mai niente?”. Eravamo invece nell’età che gli psicologi chiamavano “evolutiva” e qualcosa sarà pur successo, ma il modo imposto per dire qualcosa di sé e del proprio vivere era sbagliato del tutto. Per fortuna c’era il pallone, e lì la comunicazione orale fermentava benissimo, per lo più a urla, anzi stabiliva una tradizione della comunicazione latina. Non riesco a togliermi dalla mente che i comunicatori in internet subiscono una sconosciuta nostalgia della voce e, come si fa con i volti, credo che, in qualche modo, ne immaginino una. Al liceo venne l’epoca della macchina da scrivere diffusa, con cui, per la gioia dei miei insegnanti, tradussi in modo leggibile le mie riflessioni sul problema del male in Agostino e sulla famosa frase di Flaubert “Madame Bovary sono io”. Qui la situazione comunicativa era percepita nel rapporto tra “pensiero” e “mezzo”. Il “pensiero” apparteneva a me stesso, era la mia invisibile proprietà di stile lockiano, il mezzo era il modo per comunicare socialmente, con qualche somiglianza con il significante di Saussure, se non ci fosse dietro il lavoro di una tecnologia meccanica. Da un punto di vista teorico le cose sono più complicate, ma quello che conta è che allora le vivevo così per una certa composizione tra una ipertrofia immaginaria dell’io (“io penso”, addirittura) e lo sviluppo dell’industria olivettiana le cui radici tuttavia erano all’inizio del Novecento. Devo riconoscere che questo “io” (come luogo della enunciazione) era incoraggiato dal topos letterario, allora inflazionato, della “personalità dell’autore”, talmente inflazionato che i critici riuscirono ad affibbiarne una anche a Lucrezio, della cui vita in verità non si sa nulla. In complesso questo “io” rischiava più che altro un narcisismo dilettantesco, e aveva bisogno di una educazione gentile ma severa che lo mettesse alla prova in un intrico di cose serie come fosse la Metafisica di Aristotele o la Scienza della logica di Hegel. Nessuno me l’ha mai detto, e forse io stesso l’ho pensato più tardi, e solo in sordina: “qui è Rodi e qui salta”. Intanto la mia scrittura cambiava il luogo della enunciazione, diventava “noi”. Durante la discussione della tesi di laurea il presidente della commissione, il magnifico latinista Luigi Castiglioni mi chiese perché, usando il noi, parlassi come il papa. Non sapeva il professor Castiglioni quanto questo “noi” avesse giovato al


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subito che, nel profondo, agiva una potente sollecitazione proustiana che conduceva all’esperienza comune la dimensione idealistica diltheiana della temporalità e tutti i suoi interessanti epigoni ermeneutici. Allora in astratto ponevo un problema teorico, ma in concreto stavo ripetendo l’essenziale di una ricerca che era già stata realizzata nel solo campo possibile, la narrazione letteraria, ed era accaduta fondamentalmente per una poetica della letteratura che nasceva in contrasto con il realismo dominante in Francia. Ormai quella ricerca era diventata un genere letterario, anche in disuso. Il vantaggio filosofico c’era: mi trovavo su una linea prossima alla teoria di Ricœur secondo cui il solo modo di svelare la temporalità umana (agostiniana, non aristotelica) era la narrazione. Il proseguire in questa direzione poneva però il problema della genealogia del mio stesso modo di parlare. Da quale scrittura più antica in realtà venivo scritto? Quale universo della comunicazione, e soprattutto della sua forma, agiva in un vecchio filosofo in modo simile, se pure in un clima del tutto diverso, a quello dei banali versetti del «Corriere dei Piccoli»? Però solo nell’ultimo caso emergeva un “io” che, guardandosi tra memoria e immaginazione – come aveva cominciato a dire Rousseau – poteva anche tracciare una storia. Tuttavia sapendo che sono stati, nell’essenziale, i modi di dire il mondo e il “se stesso” nel mondo a segnare i graffiti filosofici nei quali quasi involontariamente finivo col riconoscermi. D’altra parte le possibilità di dire filosoficamente “me stesso” sono tutte circoscritte in questo spazio, un’isola sempre più sconosciuta avendo in sorte di essere gettato in una grandiosa e ininterrotta comunicazione, con la capacità, del tutto minore, di trovare solo alcuni significati e di lasciarne scorrere molti altri come suoni insignificanti (e non lo sono). Una specie di anfratto dove si ferma, in un lento mulinello, la grande corrente del fiume. Senza però alcun bisogno di raccontare, in lessici misterici, tramonti nihilisti che sono un altro mare della totalità filosofica, mentre le cose del mondo per la verità sono molto peggio. E pensare che in giovinezza trovavo strano che Lévi-Strauss dicesse che le vere rivoluzioni hanno a che vedere con la trasformazione delle modalità comunicative o che il pensiero di Sartre non era altro che una mitologia umanistica condivisa dagli intellettuali (eredi del giuramento della Pallacorda). L’idea di avere un punto sicuro da cui ricominciare, la potenza di una coscienza condivisa come motore aristotelico applicato al mondo storico, era del resto comprensibile, sia nel sentimento pubblico della vita d’allora che nella mia giovinezza capace di grandi fedeltà immaginarie. E poi c’è quella navigazione involontaria che non è partita da nessun porto scelto da un soggetto, che altro non è se non proprio il modo, in sostanza passivo (ma senza alcuna colpa originaria alla Dostoevskij), di partecipare a quella rivoluzione della comunicazione, a quell’accadere precipitoso della tecnologia, che invita a dire “cambia tutto”. Ma tutto questo accade tuttavia in modo simile a quello che Spinoza descrive relativamente alle passioni. Non ci sono passioni del soggetto, nascono le passioni che ti sono affette (afficere) dal mondo, e tuttavia queste passioni esistono, durano o scompaiono, e in ogni caso ti rigettano nel mondo. Come capita con quella antica decisione a giocare, immer wieder, con il famoso pronome della prima persona singolare, la carta che segna un certo dovere di verità.

Claude Poissenot L’individu nouveau: être un individu aujourd’hui

Dans l’analyse des phénomènes sociaux, la notion de nouveauté suscite la méfiance de certains sociologues. À trop mettre l’accent sur la nouveauté, on finit par négliger les permanences et les effets de structure sociale. Il convient donc d’adopter un point de vue équilibré. Pourtant, s’agissant de la manière dont les sociétés occidentales pensent les membres qui les composent, le changement est réel. Nos sociétés sont inscrites dans un processus historique de longue durée donnant à l’individu un statut particulier. De nombreux penseurs ont analysé ces évolutions en montrant à travers l’histoire des idées, la démographie, la politique ou le droit social comment l’individu est devenu une catégorie pertinente en ce qu’il a acquis une autonomie même si elle reste limitée. L’individu est donc une nouveauté mais quelle est cette nouveauté? Qui est cet homme nouveau? En quoi est-il si nouveau? Quel portrait en faire? De façon synthétique, nous essayerons d’identifier d’abord les valeurs de l’individu contemporain. Il s’agira ensuite d’étudier les moyens par lesquels les individus se construisent comme tels pour finir par l’étude des formes de reconnaissance dont il dépend. Les valeurs de l’individu contemporain La modernité s’inscrit dans les individus à travers des valeurs dont ils deviennent porteurs. Chacun devient attaché à des valeurs indissociablement sociales et personnelles. Ces valeurs définissent la manière dont les individus appréhendent leur manière d’être au monde. Être soi-même L’individu contemporain se pense comme porteur d’une identité qui le spécifie. Si la “première modernité” met l’accent sur l’appartenance à la “commu-


Être multiple Dans la recherche d’une consistance personnelle, les individus attachent de l’importance à la possibilité de multiplier les appartenances, les rôles, les lieux et tout ce qui peut contribuer à les particulariser. Ils apprécient alors d’avoir accès à des outils leur permettant de vivre une existence multiple. Chaque élément de leur vie multiple contribue à leur construction comme individu singulier. La voiture constitue un instrument particulièrement apprécié pour se démultiplier. Les femmes ont adopté la voiture qui leur permet de multiplier les activités et les identités: temps personnel, temps de travail, temps familial etc. En lieu et place d’une identité réduite au seul domicile familial, elles élargissent leurs horizons et glissent d’une identité à une autre en conservant une unité grâce à leur voiture, espace stable et familier, qui les fait passer d’une version d’elles-mêmes à une autre. Le téléphone portable reçoit un succès comparable, si ce n’est plus important, car il remplit une fonction semblable. Il abolit les distances et rend possible d’entrer en relation avec celui de son choix. Par exemple, les adolescents peuvent à la fois être chez leurs parents et en relation avec leur ami(e). Ils ont ainsi la possibilité de développer au choix leur identité de fils ou fille de leurs parents ou bien de membre d’un groupe d’âge avec des relations étroites. À l’instar de leurs parents, les enfants ont, grâce au téléphone portable, la possibilité de se démultiplier.

En France, Dubet ou Kaufmann, par exemple, ont montré comment les sociétés contemporaines se caractérisent par la coexistence de principes partiellement contradictoires parmi lesquels les individus doivent choisir au risque de devoir supporter une posture inconfortable de contradiction entre principes incompatibles. La réflexivité résulte de cet émiettement de l’expérience du monde entre des valeurs contradictoires et coprésentes. La conséquence de cette évolution est que les individus sont en permanence confrontés à des situations qui leur impose de faire des choix. Pour celui (plus souvent celle) qui fait à manger dans la famille, il lui faut tenir compte d’une multitude de critères pour déterminer les repas: équilibre diététique, préférences de chacun des membres de la famille, temps disponible pour la préparation, coût etc. (cf. Kaufmann 2005). La vie quotidienne est marquée par l’expérience régulière de situation de choix dans des domaines aussi variés que la consommation, les modes de déplacement, la vie conjugale, l’éducation des enfants ou le rapport à la religion. Cela n’est pas toujours confortable car cela rend la vie difficile, pesante. C’est d’ailleurs pour sortir de cet inconfort que les individus cherchent à entrer leurs gestes dans des routines (cf. 1997). Ils échappent à la nécessité de choisir grâce aux habitudes: on fait comme d’habitude pour ne pas ouvrir “la boîte aux questions” qui risquerait de ralentir les gestes et encombrer l’esprit. Choisir sa vie L’individu contemporain a à cœur de mettre en avant et défendre son autonomie. Il veut être celui qui prend des décisions au nom de principes qu’il définit comme étant les siens. Il ne rejette pas toute règle mais revendique de les choisir et de les respecter ou d’en changer. Le monde social n’est plus la projection sur les individus de principes qui s’imposent à eux. C’est le résultat d’une alchimie qui mêle modèles sociaux, normes sociales, lois et choix individuels. Ainsi, les individus choisissent leur vie parce qu’ils sont souvent contraints d’arbitrer entre des visions du monde. Ils prennent goût à cette activité (le plus souvent) et acceptent mal qu’on décide à leur place ou qu’on leur impose des principes. L’affaire Welby (ce malade italien qui a fini par obtenir qu’on le laisse mourir) apparaît ainsi intéressante à cet égard: le refus de la hiérarchie catholique de lui permettre de bénéficier de funérailles religieuses du fait de sa mort par sa propre décision a choqué une partie du peuple italien: quelle est la légitimité des principes au nom desquels ce désir lui est refusé? Piergiorgio Welby ne fait qu’incarner le désir de ses contemporains d’être maître de leur vie jusqu’à son terme. Pourquoi lui interdire cette aspiration? C’est la liberté de l’individu qui paraît en jeu dans ce type de choix. L’individu revendique la possibilité de déterminer comment il entend vivre, selon quels principes.

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Toujours choisir

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ne humanité” (de Singly 2005) c’est-à-dire que les individus sont d’abord perçus comme égaux, la seconde modernité insiste davantage sur ce qui différencie les individus les uns des autres. Dans ce contexte, les individus se pensent comme détenteurs d’une irréductible singularité qu’il leur s’agit de découvrir. C’est ainsi qu’un magazine français («Psychologie magazine») définit sa ligne éditoriale par la formule: “mieux se connaître pour mieux vivre”. La psychologie et sa vulgarisation repose sur l’idée selon laquelle il convient de s’intéresser à soi-même y compris parce que ne pas le faire peut conduire à des malaises. Être soi-même signifie aussi que notre identité ne saurait être réduite à celle que nous confèrent les rôles ou les institutions qui nous encadrent. Il existe une aspiration à développer une identité perçue comme personnelle car détachée des cadres qui nous entourent collectivement. Dès lors se multiplient les situations de décalage entre les rôles et ceux en situation de les jouer. Ainsi par exemple, les enseignants mettent en scène le rôle du professeur et renoncent à incarner le rôle de professeur. Pour cela, ils tendent à entrer en relation personnelle avec leurs élèves. Ceux-ci apprécient le plus souvent de ne pas être réduits à leur statut d’élève tant ils souhaitent eux-aussi ne pas être limités à leur rôle de circonstance. Être soi-même revient donc à penser que, par-delà les situations dans lesquelles nous sommes engagés, nous sommes porteurs d’une consistance qui nous singularise.


La construction de l’individu contemporain L’individu contemporain se caractérise par un ensemble de traits qui le distingue des membres de nos sociétés au cours des générations précédentes. L’accent mis sur le soi, le choix et l’autonomie nous autorise à penser qu’il s’agit bien d’un homme nouveau et non simplement d’une mode passagère et superficielle. La conception de l’individu a donc changé et se pose alors la question de la manière dont il se construit. Comment les individus deviennentils eux-mêmes? Quelle place occupent les autres dans cette construction?

Choisir ses appartenances Le désir d’autonomie des individus contemporains ne doit pas être confondu avec la disparition de toute ses attaches sociales. Choisir son monde ne veut pas dire renoncer au monde extérieur. Être maître de soi-même passe par la souveraineté sur la manière de prendre part à la vie sociale. Pour schématiser, plutôt qu’être défini par nos statuts, nous revendiquons une liberté dans la manière de nous définir. Par exemple, le personnel administratif d’une entreprise peut souhaiter ne pas être exposé aux regards des clients ou des autres catégories de personnel. Il entend ne pas être réduit à sa définition statutaire en se ménageant la possibilité de développer d’autres manières de se définir par des relations entre collègues ou par le développement d’activités personnelles indépendantes de l’activité de travail (téléphoner, lire, rêver etc.). La défense de l’intimité (y compris au travail) repose sur cet attachement à pouvoir maintenir une identité personnelle au-delà de l’identité statutaire. C’est le cas du prisonnier qui voudrait pouvoir disposer d’intimité pour pouvoir se retrouver lui-même c’est-à-dire ne pas être réduit à son identité de prisonnier. C’est aussi le cas du conjoint qui revendique des espaces et des temps personnels pour pouvoir maintenir une définition de lui-même qui ne soit pas réduite à son identité de conjoint. Une autre manière d’exprimer le désir de choix de ses appartenances réside dans la manière d’interpréter les rôles. Goffman a bien montré comment les interactions prennent place dans un cadre qui leur donne sens. Les rôles sont associés à des situations qui les définissent. Néanmoins, il reste une certaine liberté aux acteurs dans la manière dont ils interprètent leur rôle. Les individus s’emparent de cette liberté pour définir leur singularité. Par exemple, si le professeur en situation face à ses élèves est tenu par son rôle, il peut le jouer de mille façons à travers la manière dont il impose son autorité, ses regards, le matériel qu’il utilise etc. L’aspiration à la liberté dans la manière de se définir, résultat de la division extrême du travail, contribue à la diversification des relations sociales. Dans notre monde peuplé d’individus, les situations et les

“Construis-toi toi-même!” L’individu se construit lui-même à travers ses choix qui sont et qu’il pense être personnels. La somme de ses choix constitue sa singularité. Lahire (2005, p. 192) a montré à propos des pratiques culturelles que, pour 3.000 personnes interrogées, on repère 1.283 façon de combiner sept activités: télévision, cinéma, lecture, musique, divertissement, sortie culturelle, visite culturelle. Contrairement à l’idée d’individus presque interchangeables car soumis à des déterminants sociaux identiques, l’observation des comportements effectifs des choix des individus conduit à la conclusion d’une grande diversité interindividuelle. Les individus se distinguent ainsi les uns des autres par leurs choix. Ces choix sont vécus comme personnels car ils sont faits au nom de valeurs et de préférences personnelles. Ils constituent une modalité de l’expression de l’autonomie individuelle. Car en effet, être un individu suppose d’être autonome et de le revendiquer. Les acteurs sociaux se construisent ainsi comme des individus à travers l’affirmation de leur autonomie. Dans la famille, les enfants négocient progressivement des activités, des espaces ou des temps personnels. Ils revendiquent de se définir eux-mêmes par des choix qu’ils opèrent séparément de leurs parents. Dans le couple, les conjoints entendent préserver leur autonomie. Ils ne veulent pas être réduits à leur lien conjugal auquel ils attachent par ailleurs de l’importance. Dans le domaine du travail aussi on repère cette aspiration à l’autonomie: les travailleurs souhaitent disposer de liberté dans l’exécution de leurs tâches. Les contraintes imposées par la standardisation des procédures viennent, y compris négativement, souligner l’importance du désir d’autonomie. Les travailleurs apprécient de pouvoir s’approprier leur travail, de l’effectuer à leur manière pour ne pas être réduits à la fonction qu’ils occupent. Comment mettre en forme la multiplicité de ses choix et son désir d’autonomie? Comment réunir dans un individu l’ensemble de ses choix dans ce

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comportements sont moins prévisibles qu’ils ne l’ont sans doute jamais été. Les individus participent à cet éclatement de l’expérience d’un monde qu’ils doivent apprendre à décrypter.

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L’importance accordée par les individus contemporains au choix de leur conjoint est symptomatique de cette profonde aspiration à la maîtrise de sa propre existence. L’intervention des parents dans la formation des couples qui fut longtemps la norme est désormais devenue impossible. Comment construire une relation d’élection avec un conjoint qui nous est imposé ou même proposé? Au-delà, toute intervention d’autrui dans le choix du conjoint pose problème au couple qui doit se vivre comme le résultat d’un choix souverain et non d’un arrangement organisé par des tiers. Les sites Internet de rencontres doivent leur succès à leur proposition d’un outil utile et sans doute efficace pour trouver un conjoint. Il appartient ensuite au couple de réinterpréter l’origine de sa formation en minimisant le rôle de ce tiers quand bien même celuici est virtuel.


La nécessaire reconnaissance des autres Les individus s’inventent, ils choisissent parmi des versions probables d’eux-mêmes. Cette liberté dont ils disposent ne doit pas être confondue avec la disparition de tout lien social. La croyance en chaque version que nous proposons de nous-même dépend largement de leur reconnaissance par les autres. Si nous sommes seuls à nous définir d’une manière cela reste plus fragile que si

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nombreux sont ceux qui partagent cette définition. La validation par les autres confère une autre dimension à notre identité. S’ils nous voient comme nous souhaitons qu’ils nous voient, notre image acquiert une “vérité” qui résulte du fait qu’ils pourraient aussi nous voir autrement. La construction de l’individu ne passe pas nécessairement par des réponses personnelles à des questions métaphysiques. En tant que membre d’une société, nous disposons d’un éventail d’appartenances collectives parmi lesquelles nous pouvons en choisir certaines. L’affiliation à ces groupes partageant des références et valeurs communes, permet de se donner un contenu, un ensemble de significations. Par exemple, dans l’Italie du Sud, le passage de la dénomination “Università di Lecce” à “Università del Salento” consacre l’idée selon laquelle il existe une unité régionale du Salento qui inclut la ville de Lecce mais aussi d’autres espaces ruraux ou littoraux. Ces appartenances collectives apparaissent de façon d’autant plus visibles et tendent à s’exprimer d’autant plus qu’elles sont menacées (par exemple le projet de route 275 bis à 4 voies à travers le Salento) ou contrariées (par exemple les unions homosexuelles). Les individus peuvent se construire à partir de ces appartenances collectives d’autant plus nombreuses que la société est différenciée et accorde à ses membres une liberté dans le choix de leurs appartenances. La combinaison originale de ces appartenances construit leur singularité. La vie sociale se compose aussi de toutes les situations d’interaction dans lesquelles se croisent des regards anonymes. Elles forment à la fois le moment de production et d’expression de normes sociales largement partagées même si elles peuvent être en mouvement. Les individus impliqués dans ces interactions mettent en jeu et en scène certains fragments de leur identité. Nous nous attendons à ce que le regard des autres confirment la manière dont nous nous définissons. Dans la rue, le policier en uniforme est perçu comme tel (il suscite le respect des règles) ce qui le confirme dans son identité de policier. Le regard des autres reconnaît le statut social mais il sanctionne aussi la conformité à certaines normes d’apparence ou de comportement. Une belle personne peut se sentir telle si elle sent sur elle converger les regards. De même les regards repèrent très vite et de façon quasi unanimes les comportements qui dérogent aux normes en vigueur dans l’espace public: respect des distances entre personnes anonymes, discrétion etc. Les individus se construisent et sont construits par la somme de ces regards qui valident (le plus souvent) ou invalident (plus rarement) les manières dont ils se définissent. Une autre façon d’être reconnu consiste à s’approprier des personnages publics. L’intérêt pour une star de la chanson, du sport ou du cinéma relève à la fois d’une pratique personnelle puisqu’une relation particulière, et le plus souvent à sens unique, se construit entre l’individu et la personnalité choisie mais c’est aussi une relation socialement construite. La star représente des valeurs et une image qui la dépassent. Elle découle de ce “désir mimétique” (Girard 1972) qui relie tous ceux qui partagent un attrait pour elle. Les individus s’immergent dans cet univers qui devient le leur. Ils s’affirment comme individu à travers leur(s) idoles qui révèlent une partie d’eux-mêmes.

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qu’ils comportent y compris de contradictoire? De façon plus proche de l’expérience des individus contemporains, qu’est-ce qui fait l’unité du moi face à cette importante multiplicité? Kaufmann (2004) a bien montré qu’il existe deux grandes modalités pour composer cette unité: la première réside dans l’identité narrative ou biographique, la seconde se situe dans les impressions sensibles d’être soi. L’identité narrative peut être résumée comme l’histoire que nous nous racontons de nous-même à un moment donné du temps. Ce récit se construit plus facilement à partir d’un point d’origine. C’est la raison pour laquelle les individus d’aujourd’hui accordent toujours de l’importance à leur origine familiale ou culturelle. Nous mettons ensuite en perspective les éléments de notre histoire dans un récit ordonné et cohérent. Pour y arriver, nous oublions certains événements qui entrent en contradiction avec la manière dont on se définit désormais. Nous nous racontons une histoire finalisée en partant de la situation présente. Nous interprétons notre histoire personnelle (choix, événements etc.) à la lumière du présent. De cette façon, nous nous donnons le sentiment d’une unité de notre moi. Si nous sommes multiples, nous sommes aussi uniques et notre interprétation de notre histoire en apporte la preuve. L’unité de soi se construit par l’écriture et réécriture de son histoire, elle résulte aussi d’impressions instantanées plus ou moins fugitives. Il existe des moments où les individus éprouvent la sensation physique de leur unité. La fragmentation de leur moi s’interrompt pour laisser une impression d’harmonie. Le corps est un bon support par lequel on accède à ce sentiment. Qu’il soit recouvert d’eau chaude sous la douche, qu’il soit baigné par le soleil ou qu’il soit en mouvement dans le sport, le corps opère comme un élément de clôture de soi (Bromberger, Duret et al. 2005). La “boîte à questions” se referme devant ces impressions physiques. L’unité de soi peut aussi se construire par l’imagination. On peut se projeter en rêve éveillé dans des situations plus ou moins probables (vivre avec telle personne, occuper un nouvel emploi, devenir riche ou président de la république etc.). On se propose alors à soi-même des versions de soi parmi lesquelles on peut choisir et que l’on peut ajuster à notre convenance. On se construit des identités imaginaires qui ont vocation à le rester ou au contraire à nous préparer à des identités réelles. À travers ce “petit cinéma”, nous pouvons choisir des identités et éclairer les choix que nous devons faire.


Se construire ou être construit? Si nos contemporains sont nombreux à vouloir s’affirmer comme individus autonomes, cette façon de se définir n’est pas toujours agréable: l’instabilité est forte avec des moments de tension, il n’est pas toujours aisé de se faire reconnaître comme on le souhaiterait et les individus ne disposent pas nécessairement de ressources pour se construire comme multiples et autonomes. C’est d’ailleurs dans les classes moyennes et supérieures que se développe cette thématique de l’individu. Cela signifie qu’il existe des inégalités sociales dans la possibilité de s’affirmer comme individu et donc dans le désir de le faire. La définition normative de l’individu apparaît comme une caractéristique du jeu de différenciation et hiérarchisation sociale. Le risque de fracture entre des élites sociales et les classes populaires est important. Les premières revendiquent leur liberté, leur cosmopolitisme et leur autonomie. Elles peinent à comprendre et accepter que les membres de notre société puissent se définir autrement. Par opposition, il existe de nombreuses personnes qui sont méfiantes et soupçonneuses à l’égard de cette manière d’envisager l’individu. Pour elles, les individus sont définis de l’extérieur par leurs origines, leur quartier, leur village, leurs parents et tout un ensemble d’évidences (le masculin versus le féminin, l’identité nationale, la hiérarchie sociale etc.). En Europe, les élections ont donné lieu à l’expression croissante d’un vote populiste et extrémiste. Celui-ci résulte en partie de la montée en puissance d’un sentiment de mépris des classes moyennes et supérieures à l’égard de certaines fractions des classes populaires. Ces dernières ont le sentiment de ne pas entrer dans le “jeu” de la construction de l’identité, de ne pas en avoir les moyens (notamment économiques) et d’être dévalorisés du fait de leur distance par rapport à ce processus. Ce vote traduit donc un profond malaise au

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stitue. Choisir son conjoint revient à choisir celui (ou celle) qui aura accès à une multitude d’aspects de notre individualité. La vie conjugale est plus fragile et sans doute plus captivante aujourd’hui qu’avant car elle accorde une place plus importante aux individus. La rupture ou l’absence de couple mettent en péril la reconnaissance de soi-même. Les relations amicales forment une autre modalité de la reconnaissance des individus. Les amis d’enfance sont ainsi les témoins du chemin qui nous a conduit où nous sommes, ils attestent à la fois de notre unité mais aussi de nos évolutions. Au fil de l’existence, nous rencontrons des personnes parmi lesquelles nous établissons des relations plus proches. Ces “amis” se distinguent du conjoint par un spectre plus réduit des dimensions qu’ils reconnaissent à notre individualité. Ils valident une version de nous-même propre à une activité. C’est quand les affinités se multiplient que les amis peuvent reconnaître une plus large palette de dimensions de nous-mêmes et donc élargir le spectre.

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Chez les adolescents, les affiches de star remplissent cette fonction d’affirmation et de construction d’un univers personnel qui se distingue de celui des parents à l’égard duquel ils veulent prendre leur distance (de Singly 2006). Les nouveaux outils de communication offrent les moyens aux individus de se faire reconnaître certaines dimensions de leur identité. Internet offre une multiplicité de possibilité de relations. Les internautes peuvent trouver des sites web sur leur passion (la FIAT 500, les chevaux arabes, la musique underground etc.) et partager avec d’autres un aspect important de leur existence. Ils se confirment mutuellement dans le bien-fondé, la légitimité de leur centre d’intérêt. À travers les forums de discussion, les individus peuvent aussi se confronter à d’autres et mettre en débat des points de vue. Les sites de rencontre forment aussi un outil très utilisé grâce auxquels les individus ont l’occasion de se mettre en scène et de trouver quelqu’un qui les apprécie. De façon encore plus virtuelle, certains entrent dans un monde virtuel (par exemple secondlife.com) et se construisent une identité fictive à laquelle ils accordent une place qui peut être importante. Ils entendent se faire reconnaître autrement ou dans une autre réalité que celle de leur vie réelle. Dans tous les cas, internet apparaît comme un support pour la construction des individus. Ils peuvent s’exprimer et trouver chez d’autres individus une reconnaissance de leurs centre d’intérêt pouvant aller vers une relation débordant l’échange virtuel. On retrouve l’importance de l’expression dans le couple et la famille. Les relations parents-enfants ne se réduisent pas à leur dimension éducative au sens de transmission de règles et de savoirs. Elles incluent une dimension affective et de communication. Les enfants souhaitent que leurs parents reconnaissent certains de leurs choix. Ils aspirent à une relation dans laquelle ils sont reconnus pour eux-mêmes c’est-à-dire conformément à leur position d’enfant mais aussi à l’identité qu’ils se sont construite. Les parents voient (ou espèrent voir) dans leurs enfants le bien-fondé de leur choix d’avoir une descendance. Les relations avec leur(s) enfant(s) peuvent être l’occasion d’un épanouissement pour chaque parent qui actualise une dimension de l’existence qu’il n’aurait pas eu l’occasion de connaître sans ce statut de parent. Les parents contribuent à la construction de leurs enfants qui, en retour, les construisent également. Dans le couple, les enjeux de reconnaissance individuelle sont présents. La relation conjugale inclut désormais et de façon presque normative la reconnaissance des dimensions personnelles du conjoint. Il s’agit de reconnaître toutes ses qualités (physiques, sociales, sexuelles, relationnelles etc.). L’équilibre doit se faire entre la reconnaissance dont chaque conjoint fait l’objet et celle qu’il exprime. Le couple est aussi l’association de deux individus souhaitant être reconnus comme tels par leur conjoint. La relation amoureuse repose sur l’idée que le partenaire est celui qui connaît et reconnaît le mieux l’autre dans toutes ses dimensions. Chaque conjoint, parce qu’il est dans cette relation affective, se donne à voir dans les éléments fondamentaux qui le con-


La nouveauté du monde contemporain tient à la démocratisation de la liberté. Depuis longtemps les individus sont libres et égaux en principe. Mais depuis peu seulement, ils revendiquent en masse une telle autonomie dans leurs décisions quotidiennes. Voilà ce qui, selon nous, spécifie l’univers des individus contemporains. Il n’est plus possible de revenir à un monde d’évidences dans lequel les individus obtiendraient des réponses avant d’avoir à se poser des questions. Qui accepterait de renoncer à sa souveraineté dans ses choix personnels? Qui accepterait qu’on choisisse pour lui son conjoint, le nombre de ses enfants, ses responsables politiques, sa religion etc.? Sauf à rompre avec une évolution lointaine et profonde des sociétés occidentales, le processus engagé ne semble pas devoir s’arrêter. Jusqu’où ira-t-il? Quelles sont encore ses possibilités de développement? L’autonomie peut encore sans doute se démocratiser et affecter d’autres sociétés. Mais ce mouvement conduit à de nouvelles questions qui en découlent: comment faire coexister l’autonomie individuelle et la vie collective? La somme des libertés individuelles ne génère-t-elle pas des problèmes sociaux? Par exemple: le développement de la voiture individuelle ne conduit-il pas à la congestion des centres urbains et à la pollution atmosphérique? Comment faire vivre les démocraties dans un contexte de remise en question des représentants? Jusqu’où autoriser le choix des parents quant à leur enfant? L’eugénisme n’est-il pas en germe dans leur désir d’avoir des enfants que l’on choisit? En matière de comportements à l’égard des autres, jusqu’où autoriser la liberté individuelle? Toutes ces questions émergent du fait de la nouveauté de notre société, elles ne relèvent pas de l’interrogation fondatrice de la sociologie sur l’ordre social. Plus précisément, elles sont la déclinaison contemporaine de cette interrogation. Pour permettre à nos sociétés de poursuivre dans ce processus, elles doivent parvenir à répondre à ces questions, à réguler les attentes individuelles. Dans certains domaines, elles y parviennent même si c’est avec difficulté. Dans le domaine du couple, le PACS, l’allègement de la procédure du divorce mais aussi des outils comme Meetic aident les individus contemporains à exercer leur autonomie dans ce domaine. Ils peuvent choisir leur conjoint et leur mode d’association tout en conservant la possibilité de mettre fin à leur relation sans pour autant renoncer à tout espoir de reformer un nouveau couple. L’individu nouveau interroge nos sociétés mais il est possible de mettre en place ou de renouveler des institutions permettant d’assurer sa pérennité. Plus que jamais, le défi des sociétés occidentales contempo-

Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Bromberger, C., Duret, P., et al., 2005, Un corps pour soi, Paris, PUF. de Singly, F., 1996, Le soi, le couple et la famille, Paris, Nathan. de Singly, F., 2000, Libres ensemble, Paris, Nathan; trad. it. 2006, Liberi insieme, Roma, Armando. de Singly, F., 2003, Les uns avec les autres, Paris, A. Colin. de Singly, F., 2005, L’individualisme est un humanisme, La Tour d’Aigues, Ed. de l’Aube. de Singly, F., 2006, Les adonaissants, Paris, A. Colin. Dubet, F., 1994, Sociologie de l’expérience, Paris, Seuil. Dubet, F., 2002, Le déclin de l’institution, Paris, Seuil. Girard, R., 1972, La violence et le sacré, Paris, Grasset; trad. it. 1980, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi. Goffman, E., 1974, Frame Analysis, New York, Harper Colophon; trad. it. 2001, L’organizzazione dell’esperienza, Roma, Armando. Kaufmann, J.-C., 1997, Le cœur à l’ouvrage, Paris, Nathan. Kaufmann, J.-C., 2001, Ego, Paris, Nathan. Kaufmann, J.-C., 2004, L’invention de soi, Paris, A. Colin. Kaufmann, J.-C., 2005, Casseroles, amours et crises, Paris, A. Colin. Lahire, B., 1998, L’homme pluriel, Paris, Nathan. Lahire, B., 2004, La culture des individus, Paris, La Découverte. Martuccelli, D., 2002, Grammaires de l’individu, Paris, Gallimard. Martuccelli, D., 2006, Forgé par l’épreuve, Paris, A. Colin. Taylor, C., 1989, Sources of the Self, Cambridge (Mass.), Harvard University Press; trad. it. 1993, Radici dell’io, Milano, Feltrinelli. Yonnet, P., 2006, Le recul de la mort, Paris, Gallimard.

125 L’individu nouveau: être un individu aujourd’hui

Conclusion: la question sociale de la régulation des individus

raines réside dans leur capacité à rendre possible la coexistence des individus qui les composent dans le respect de cette nouvelle définition.

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cœur de nos sociétés. En France, le succès du thème de l’identité nationale chez les deux principaux candidats à l’élection présidentielle 2007 résulte de la prise de conscience de ce risque. Ils souhaitent ne pas se couper des fractions populaires de l’électorat attachées à cette dimension importante de leur identité et laisser ses voix à l’extrême droite.


Francesco Vitale L’invenzione della decostruzione

“La decostruzione è inventiva o non è”. (Derrida 1986a, p. 35)

Questo asserto di Jacques Derrida, pronunciato nell’ambito di una conferenza dedicata all’invenzione1, è perentorio, ha l’aspetto di un assioma ma allo stesso tempo la forza di una presa di posizione, è insieme constativo e performativo, mette in gioco i due piani, approfittando della polisemia implicita nel termine “invenzione”, lasciandola in qualche modo sospesa, indecisa. In che senso? In che senso appunto intendere l’inventività della decostruzione? Come invenzione artistica e geniale, opera unica e originale dovuta al talento di un singolo? Oppure come invenzione di un insieme di procedure regolate e regolari, iterabili, dunque disponibili all’uso, indipendentemente dall’evento unico dell’invenzione e dalla singolarità dell’inventore: invenzione scientifica di una tecnica del discorso? Ammesso che sia possibile regolare e decidere di questa polisemia dell’invenzione semplicemente in base all’uso e al contesto2. Proprio questa possibilità si trova già messa in gioco in questo asserto, ma non solo e non semplicemente come tale e per se stessa, ma per delle ragioni essenziali in cui ne va di ciò che è la decostruzione, di come viene interpretata in certi contesti determinati per essere di fatto, il più delle volte, denegata3. Dunque non si può non tenere conto della portata strategica, in qualche modo inventiva, di questo asserto. Sostenere che la decostruzione sia invenzione nel primo senso menzionato, e cioè come l’opera del talento di un singolo, può avere, ha avuto e probabilmente ha ancora un significato polemico: la decostruzione è pura invenzione, un gioco retorico che può avere al massimo un valore letterario, estetico ed estetizzante. Non è filosofia, non rispetta l’ordine dell’argomentazione scientifica, non è un metodo, la sua pretesa di intervenire e farsi valere nelle istituzioni del sapere è illegittima, se non addirittura pericolosa, si tratterebbe di una nuova sofistica, incapace di produrre qualcosa di veramente nuovo e quindi partecipare al progresso che orienta e giustifica l’impresa del sapere. L’invenzione della decostruzione non inventa un bel niente, è solo un’invenzione. Sostenere che la decostruzione sia invenzione nel secondo senso menzionato può allora servire da difesa contro queste accuse: la decostruzione è un insieme di procedure regolate e regolari, utilizzabile da chiunque sia disposto ad


La decostruzione è inventiva o non è; essa non si contenta di procedure metodiche, essa apre (fraye) un passaggio, marcia e marca; la sua scrittura non è soltanto performativa, produce delle regole – altre convenzioni – per delle nuove performatività e non si accomoda mai nell’assicurazione teorica di un’opposizione semplice tra performativo e constativo. Il suo cammino impegna un’affermazione. Questa si lega al venire dell’evento, dell’avvento e dell’invenzione. Ma non può farlo se non decostruendo una struttura concettuale e istituzionale dell’invenzione che avrebbe arrangiato qualcosa dell’invenzione, della forza d’invenzione: come se bisognasse, al di là di un certo statuto tradizionale dell’invenzione, re-inventare l’avvenire (ib.).

Per intendere in che senso la decostruzione è invenzione bisogna ricostruire l’elaborazione storica e concettuale di questo termine che, all’ordine di certi valori più o meno stabili, ne ha potuto regolare l’uso corrente nel senso comune e soprattutto gli usi dominanti in certi ambiti istituzionali, l’elaborazione attraverso la quale l’invenzione ha ricevuto lo statuto che noi oggi le riconosciamo e che solo oggi rivela la sua natura paradossale, se non addirittura aporetica. E cioè nel momento in cui – nota Derrida – emerge un desiderio di invenzione, il desiderio di re-inventare l’invenzione, sintomo del fatto che l’invenzione – nel senso corrente e dominante – in qualche modo ha esaurito il suo potenziale inventivo e innovatore5. Lo statuto dell’invenzione oggi dominante è paradossale proprio perché richiede uno statuto dell’invenzione e cioè di ciò che dovrebbe essere irriducibilmente nuovo rispetto al contesto in cui emerge e che viene a modificare, un contesto che in linea di principio non dovrebbe essere preparato ad accogliere l’invenzione proprio perché per essere tale, l’invenzione deve eccedere l’ordine costituito dal contesto; se così non fosse l’invenzione non inventerebbe nulla di nuovo ma sarebbe solo l’esecuzione di un programma già noto:

E tuttavia l’invenzione per essere tale deve sì eccedere l’ordine costituito ma deve anche essere riconosciuta e legittimata come tale all’interno dell’ordine costituito che eccede. Per essere tale un’invenzione deve trasgredire l’ordine costituito e tuttavia rispettare l’ordine costituito che le conferisce il suo statuto di invenzione. Soprattutto, per essere tale, l’invenzione deve sì introdurre una novità irriducibile ma questa allo stesso tempo deve valere per l’avvenire: singolarità e iterabilità, novità e ripetizione definiscono le condizioni di emergenza dell’invenzione. Nel momento stesso, unico e irripetibile, in cui irrompe, l’invenzione deve implicare in se stessa la possibilità della ripetizione a venire, altrimenti si tratterebbe di un evento effimero e contingente. L’invenzione dunque non solo ha bisogno di uno statuto, dell’istituzione di un significato generale, stabile e condiviso dell’invenzione che la rende riconoscibile in un contesto di emergenza determinato, ma è in se stessa istituzione: il nuovo che produce deve essere riconosciuto come tale e deve poter valere per l’avvenire: Se un’invenzione sembra dover sorprendere o perturbare delle condizioni statutarie, bisogna pure che a sua volta implichi o produca altre condizioni statutarie, non soltanto per essere riconosciuta, identificata, legittimata, istituzionalizzata come tale (brevettata, si potrebbe dire) ma anche per prodursi, diciamo per sopravvenire (p. 37).

Il paradosso consisterebbe in questo: da un lato l’invenzione è irruzione di una novità assoluta, senza precedenti, dall’altro deve rispondere a certi criteri prestabiliti, istituzionalizzati e farsi a sua volta istituzione. Nell’uso dominante del concetto di invenzione è compreso il nuovo e la sua neutralizzazione. L’invenzione del nuovo avviene nell’orizzonte più generale dello stesso: la trasgressione dell’invenzione resta comunque al servizio di ciò che trasgredisce, di un’economia generale capace di integrare il nuovo e sfruttarlo per proprio tornaconto, per sé, in vista di sé. L’invenzione sarebbe dunque al servizio di una più generale economia identitaria capace addirittura di programmare l’invenzione e quindi annullare il potenziale innovatore che pure si attribuisce all’invenzione e che tuttavia potrebbe costituire una minaccia per tale economia. Questo paradosso certo non ha impedito il progresso nella produzione dell’invenzione tecno-scientifica, anzi lo ha sostenuto e incentivato e tuttavia a spese di un altro senso dell’invenzione che proprio quello tecno-scientifico avrebbe contribuito a rimuovere: a spese dell’altro, del tutt’altro che per essere tale dovrebbe essere irriducibile allo stesso, all’identità che riduce l’altro a proprio momento, e che si tratta di re-inventare in quanto ne va, tra l’altro, della possibilità stessa dell’invenzione.

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In tutti i casi e attraverso tutti gli spostamenti semantici della parola “invenzione”, questa resta il venire, l’evento di una novità che deve sorprendere: nel momento in cui sopravviene, uno statuto non poteva essere preparato per attenderla e ridurla allo stesso (p. 36).

Francesco Vitale

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apprenderle, un metodo. Lo si può insegnare e quindi la sue pretese istituzionali sono legittime, ha pieno titolo per partecipare all’impresa del sapere. L’invenzione della decostruzione è l’invenzione di un nuovo metodo per produrre qualcosa di nuovo nell’orizzonte del sapere. E tuttavia, intesa in questo senso, difesa in questi termini, la decostruzione potrebbe correre un pericolo forse più grave ancora: lascerebbe intendere infatti che la decostruzione è solo un nuovo metodo all’interno di una tradizione continua e consolidata – la filosofia, il pensiero occidentale – di cui sarebbe in qualche modo l’esito, si vedrebbe così neutralizzare proprio quella differenza presunta irriducibile che la decostruzione pretende di aver marcato nell’ordine di questa tradizione alla quale, al contrario, apparterrebbe a pieno titolo, rispetto alla quale non costituirebbe nulla di assolutamente nuovo4. L’invenzione della decostruzione non è nulla di assolutamente nuovo, è solo un nuovo prodotto dell’impresa del sapere. E allora se la decostruzione è inventiva, dovrà pure inventare qualcosa? Che cosa inventa la decostruzione? E come? Per saperlo è necessario decostruire l’invenzione:


Se la parola “invenzione” conosce una nuova vita, sullo sfondo di un esaurimento angosciato ma anche a partire dal desiderio di re-inventare l’invenzione stessa, e fino al suo statuto, è senza dubbio perché su una scala senza misura comune con quella del passato, ciò che si chiama l’“invenzione” da brevettare si trova programmata, vale a dire sottomessa a dei potenti movimenti di prescrizione e di anticipazioni autoritarie i cui modi sono i più diversi. E questo tanto negli ambiti detti dell’arte e delle belle-arti quanto nell’ambito tecno-scientifico. Dappertutto il progetto di sapere e di ricerca è innanzitutto una programmatica delle invenzioni. (…) La programmazione pretende, e a volte vi perviene fino ad un certo punto, di assegnare finanche il margine aleatorio con il quale deve fare i conti. Lo integra nei suoi calcoli probabilistici. Qualche secolo fa, ci si rappresentava l’invenzione come un evento erratico, l’effetto di un colpo di genio individuale o di una chance imprevedibile. Questo spesso per un misconoscimento, inegualmente diffuso è vero, dei sotterfugi secondo i quali si lasciava costringere, prescrivere, se non prevedere, l’invenzione. Oggi, è forse perché conosciamo troppo almeno l’esistenza, se non il funzionamento delle macchine per programmare l’invenzione, che sogniamo di reinventare l’invenzione al di là delle matrici di programma. Giacché un’invenzione programmata è ancora un’invenzione? È ancora un evento da cui l’avvenire viene a noi (p. 40)?

Ma qual è l’altro senso di invenzione a spese del quale si è venuto affermando quello che noi conosciamo – il senso tecno-scientifico – e che oggi sembra aver esaurito il proprio potenziale innovatore, riducendo l’invenzione del nuovo all’esecuzione di un programma già noto, capace di integrare e neutralizzare la chance, il caso, la possibilità stessa dell’evento che per essere tale dev’essere necessariamente inanticipabile? Per coglierlo è necessario risalire all’elaborazione storica del concetto di invenzione oggi dominante. E quindi alla matrice latina della parola e in particolare a una sua occorrenza in uno specifico ordine del discorso, non a caso proprio l’ordine del discorso della retorica: il De inventione di Cicerone, destinato a prolungare la sua influenza ben al di là della cultura latina. Nel De inventione (1. VII) è possibile riconoscere un particolare senso dell’invenzione: “excogitatio rerum verarum, aut verisimilium, quae causam probabilem reddant”. L’invenzione dunque come l’atto che trova, scopre, svela un’esistenza che si trovava già lì, che non è creata e nemmeno prodotta ex ni-

Per non trovare per il caso di un incontro fortuito o di una trovata6 la verità che si trova già lì, c’è bisogno di un programma di ricerca, di un metodo, e di un metodo analitico che viene chiamato metodo di invenzione.

Il metodo d’invenzione è a sua volta distinto dal “metodo di composizione” destinato all’esposizione della verità che si è trovata in virtù del “metodo di invenzione” e che deve risolversi nella produzione di proposizioni vere e cioè in un dispositivo di predicazioni stabili e quindi interabili, vere secondo un’altra concezione del vero, ma che si fonda sulla prima, e cioè come verità universa-

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hilo dall’invenzione. In particolare, come testimonia il caso di Cicerone, si può parlare di invenzione della verità, nel senso di trovare, svelare una verità già presente. Una verità che è possibile incontrare per caso ma che tuttavia il retore deve saper trovare. Questo significato dell’invenzione come svelamento di qualcosa non è stato semplicemente soppiantato da quello moderno, tecno-scientifico e produttivo, al contrario, questo si è venuto organizzando in articolazione con quello: anche l’invenzione tecnica più moderna conserva il senso dell’evento eccezionale che svela nuove possibilità operatorie, che certamente non crea dal nulla. Per la decostruzione dell’invenzione e quindi per l’invenzione della decostruzione è essenziale osservare come il senso moderno dell’invenzione si è venuto sedimentando su quello antico, e cioè attraverso quali procedure e per rispondere a quali esigenze, con quali effetti sul concetto di invenzione e quindi sulle possibilità di ciò che resta da pensare come invenzione, su ciò che resta da inventare. Non è possibile seguire qui nel dettaglio il cammino di Derrida, tentiamo di descriverne in estrema sintesi le coordinate e le principali scansioni, in vista di ciò che più ci interessa: chiarire in che senso la decostruzione è invenzione. Secondo Derrida la fase cruciale in cui è possibile rilevare ancora la coesistenza quanto la separazione dei due significati di invenzione, quello più antico e quello moderno, è, come sarebbe facile prevedere, il XVII secolo e tuttavia secondo un’angolazione molto precisa e particolare: l’elaborazione della tradizione logica e retorica ne La logique ou l’art de penser di Arnauld e Nicole (1662) e soprattutto nei progetti di “lingua universale” di Descartes e Leibniz. In questo orizzonte ristretto ma secondo Derrida decisivo, il problema dell’invenzione è sempre relativo alla verità, marcando l’articolazione tra due diverse concezioni del vero e quindi della sua invenzione o produzione ma sempre nella prospettiva dell’elaborazione di un metodo, di un insieme di procedure iterabili e quindi di una tecnica – intesa in senso largo – la tecnica del discorso scientifico. Ne La logique ou l’art de penser è possibile ravvisare ancora la coesistenza di entrambi i sensi dell’invenzione nella distinzione tra ars inveniendi e ordo inveniendi: sono entrambi relativi alla ricerca della verità (della materia, del contenuto, dell’idea che deve venire esposta) intesa come ricerca analitica, e cioè volta a trovare una verità che è presente nelle cose e che si tratta di svelare, tuttavia, osserva Derrida (1986a, p. 46):

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Non a caso Derrida insiste sulla questione dello statuto dell’invenzione: non si tratta soltanto della definizione concettuale di ciò che è l’invenzione, ma di una questione immediatamente politica, giuridica ed economica. La storia del concetto lo dimostra: la stabilizzazione del concetto di invenzione nell’ordine del discorso tecno-scientifico si è venuta affermando in stretta articolazione con esigenze giuridiche di grande rilevanza politica, economica, in particolare, industriale. Bisogna definire che cos’è invenzione per regolare tutta una serie di questioni giuridiche – i diritti d’autore, i brevetti, i diritti di sfruttamento industriale… – con una serie di effetti di natura politica, particolarmente evidenti oggi e tali da suscitare quel desiderio di invenzione, di re-inventare l’invenzione, che Derrida rileva anche a proposito della decostruzione:


È vero che spesso un esempio, considerato per caso, serve da occasione ad un uomo ingegnoso per accorgersi di cercare la verità generale, ma è tutt’altro affare trovarla; oltre al fatto che questa via d’invenzione non è la migliore né la più impiegata da quelli che procedono per ordine e per metodo, e se ne servono solo nelle occasioni in cui metodi migliori si trovano insufficienti (ib.).

E se è vero, come Leibniz pure ammette, che nel passato il caso ha potuto dare l’occasione per un’invenzione, l’inventore deve essere capace di ridurre al minimo, se non annullare, la casualità aleatoria legata alla contingenza dell’esperienza, alla sua stessa singolarità. Fino al punto di annullare la possibilità stessa dell’evento casuale e inanticipabile, fino ad annullare cioè la possibilità stessa dell’invenzione, almeno nel senso che a lungo abbiamo creduto di poterle riconoscere, nel senso attraverso il quale abbiamo creduto di poterla riconoscere e che oggi appare in qualche modo estenuato, esaurito. L’invenzione leibniziana non solo annuncia l’invenzione tecno-scientifica attuale ma anche, e già da subito, gli effetti di neutralizzazione dell’invenzione stessa che il concetto di invenzione così istituito sembra rivelare solo oggi: Dall’integrazione dell’alea sotto il Principio di Ragione fino alla politica moderna dell’invenzione, l’omogeneità resta profonda, che si tratti di ricerca tecno-scientifica civile o militare – e come distinguere tra le due oggi? –, che si tratti di programmazione statale o meno, delle scienze o delle arti – e tutte queste distinzioni si cancellano progressivamente. Questa omogeneità è l’omogeneità stessa, la legge dello stesso, la potenza assimilatrice che neutralizza la novità tanto quanto il caso. Questa potenza è all’opera prima ancora che l’integrazione dell’altro aleatorio, dell’altra alea non sia effettiva; è sufficiente che essa sia possibile, progettata, significante. È sufficiente che prenda senso sullo sfondo di un orizzonte economico: legge domestica dell’ôikos e regno della produttività o della redditività. L’economia politica dell’invenzione moderna, quella che ne regola o domina lo statuto attuale, appartiene alla recente tradizione di ciò che Leibniz nel suo tempo chiamava “una nuova specie di logica” (Derrida 1986a, p. 54).

Vale a dire una logica che “tratterebbe dei gradi di probabilità” (Leibniz 1765, IV, XVI), una scienza che, posta al servizio del principio di ragione, attraverso lo studio dei giochi d’azzardo, sarà in grado d’integrare anche il caso, in vista del perfezionamento dell’arte di inventare: Sarebbe bene che colui che volesse trattare questa materia perseguisse l’esame dei giochi d’azzardo; e generalmente mi augurerei che un abile matematico volesse fare un’opera ampiamente circostanziata e ben ragionata su ogni sorta di gioco, il che sarebbe di grande utilità per perfezionare l’arte di inventare, in quanto lo spirito umano appare meglio nei giochi che nelle materie le più serie (ib.).

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to dell’invenzione, l’inventore vi si deve conformare nel suo stesso inventare, deve cioè seguire un metodo, delle regole oggettive e iterabili all’ordine del principio di ragione:

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le, oggettività ideale, disponibile per tutti a prescindere dal momento della sua invenzione disvelante. Per questo Derrida può definire il metodo di composizione come una tecnica in senso largo (ib.). Quando Descartes (1657, pp. 498-502), nella famosa lettera a Marsenne del 20 novembre 1629, prende in considerazione l’invenzione di una lingua universale, un tema scientifico all’epoca all’ordine del giorno, la pensa nell’ordine del metodo di composizione, e cioè quale dispositivo proposizionale per la diffusione pedagogica della verità trovata per via analitica e indipendentemente dal dispositivo che resta subordinato al metodo analitico. Per Leibniz, al contrario, la caratteristica universale, non si limita a esporre il vero rilevato per via analitica ma anche lo produce, portando in primo piano l’altra concezione del vero e cioè quella di produzione di enunciati sintetici universali e universalizzabili, sul modello degli enunciati matematici: “Allora ragionare e calcolare sarà la stessa cosa” annuncia Leibniz (1903, p. 448) commentando la lettera di Descartes. “La sua invenzione serve a inventare” osserva Derrida (1986a, p. 49), e proprio nel senso dell’invenzione tecno-scientifica che qui vediamo annunciarsi: invenzione di un metodo, di una procedura iterabile al di là dell’evento inventivo, disponibile per altri e volta alla produzione di enunciati veri perché rispettano le condizioni dell’universalità oggettiva. Tuttavia questo rovesciamento che ha avuto delle conseguenze essenziali nell’affermazione del concetto moderno di invenzione (e non solo di questo) resta orientato, teleologicamente orientato, da “un analitismo fondamentale” (ib.). La caratteristica universale è l’invenzione di un metodo per inventare ma subordinata all’ordine delle cose presenti e in ultima istanza al principio di ragione. La sua utilità è propriamente economica: risparmiare allo spirito il dispendio inutile dovuto alla pluralità delle lingue naturali e alla pluralità di senso delle parole di queste, dispendiosità di cui approfitta l’immaginazione con effetti che possono essere fuorvianti per il principio di ragione (inventio come fictio). L’invenzione della caratteristica universale serve proprio a liberare l’invenzione metodica e scientifica dal dispendio dell’immaginazione e cioè da quella componente empirica e contingente che viene dall’esperienza nella sua singolarità irriducibile e che Leibniz pretende di escludere dall’ordine della scoperta scientifica. Nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, nel contesto di quella che potremmo definire una teoria dell’invenzione, Leibniz afferma che un’invenzione per essere tale deve riguardare sempre una verità universale – come ad esempio il teorema di Pitagora – e cioè valida per tutti e in ogni tempo, un’oggettività ideale direbbe Husserl. Una verità necessaria che sta nelle cose e cioè indipendente sia dalla singolarità dell’inventore sia dalla singolarità dell’occasione, dell’evento che di fatto l’ha resa possibile, singolarità inestricabilmente congiunte nell’atto dell’invenzione. L’invenzione del teorema di Pitagora è tale perché ciò che Pitagora ha scoperto a partire da un particolare triangolo è valido per tutti i triangoli e tutti lo possono verificare (Leibniz 1765, IV, VII). Se questo è lo statu-


È in questa paradossia che è impegnata una decostruzione. È dell’invenzione dello stesso e del possibile, dell’invenzione sempre possibile che siamo stanchi. Non è contro di essa ma al di là di essa che cerchiamo di re-inventare l’invenzione stessa, un’altra invenzione, o piuttosto un’invenzione dell’altro che verrebbe, attraverso l’economia dello stesso, cioè mimandola o ripetendola (…) a dare luogo all’altro, lasciar venire l’altro. Dico proprio lasciar venire giacché se l’altro, è giustamente ciò che non s’inventa, l’iniziativa o l’inventività decostruttiva non possono consistere che nell’aprire, disserrare, destabilizzare delle strutture di forclusione per lasciare il passaggio all’altro. Ma non si fa venire l’altro, lo si lascia venire preparandosi alla sua venuta. Il venire dell’altro o il suo rivenire, è la sola sopravvenuta possibile, ma essa non si inventa, anche se c’è bisogno della inventività più geniale che ci sia per prepararsi ad accoglierlo: per prepararsi ad affermare l’alea di un incontro che non soltanto non sia più calcolabile ma che non sia nemmeno un incalcolabile ancora omogeneo al calcolabile, un indecidibile ancora in attesa di decisione (Derrida 1986a, pp. 59-60).

La decostruzione del concetto di invenzione mostra che lo statuto tecnoscientifico dell’invenzione si è istituito, fondato, sulla rimozione delle sue stesse condizioni di possibilità: la singolarità irriducibile dell’evento. L’invenzione, la novità, della decostruzione consiste dunque nel liberare la possibilità dell’evento dalla rimozione che si è rivelata necessaria all’istituirsi di un determinato statuto dell’invenzione all’ordine di un determinato statuto di verità. La decostruzione intende desedimentare questa rimozione perché questa, come tale e nei suoi effetti a cascata, non riguarda solo lo statuto dell’invenzione ma la possibilità stessa dell’esperienza per un essere finito qual è l’uomo: La venuta aleatoria del tutt’altro, al di là dell’incalcolabile come calcolo ancora possibile, al di là dell’ordine stesso del calcolo, ecco la vera invenzione, che non è più invenzione della verità e non può avvenire se non per un essere finito: la chance stessa della finitezza (p. 59, nota).

Se la relazione all’altro – all’alterità in generale – è la condizione irriducibile dell’esperienza, di ciò che noi stessi siamo, allora annullare – sia pure nell’ordine di un calcolo previsionale – la possibilità dell’evento irriducibilmente inanticipabile, significa annullare le condizioni di possibilità affinché si dia la relazione all’altro, e cioè la possibilità stessa dell’avvenire quale condizione

Note 1 Psyché. Invention de l’autre (Derrida 1986a) è il risultato di due conferenze pronunciate una all’Università di Cornell nell’aprile del 1984, l’altra ad Harvard nell’aprile del 1986. La trad. it. dei passi citati è nostra. 2 Fin dalle prime battute Derrida (p. 21) indica esplicitamente il paradigma moderno all’interno del quale intende intervenire: “All’interno di un’area di discorso che si è approssimativamente stabilizzata dalla fine del XVII secolo europeo, non ci sono che due grandi tipi di esempio autorizzati per l’invenzione. Si inventano, da una parte, delle storie (racconti fittizi o favolosi) e, d’altra parte, delle macchine, dei dispositivi tecnici, nel senso più largo di questa parola. Si inventa affabulando, con la produzione di racconti ai quali non corrisponde una ‘realtà’ fuori del racconto (un alibi per esempio) oppure si inventa producendo una nuova possibilità operatoria (la stampa o un’arma nucleare, e associo di proposito questi due esempi, la politica dell’invenzione – che sarà il mio tema – essendo sempre in una volta politica della cultura e politica della guerra). Invenzione come produzione nei due casi – e lascio per il momento a questa ultima parola una certa indeterminazione”. 3 Il contesto in cui si inscrive il saggio di Derrida induce in questo senso la lettura: non a caso le conferenze sono dedicate entrambe a Paul de Man, morto nel 1983, ricordato e citato a più riprese. L’affaire de Man è forse noto. Proprio in quegli anni, la scoperta di documenti che avrebbero dovuto dimostrare la partecipazione di de Man alle attività della truppe tedesche che occupavano il Belgio durante la seconda guerra mondiale, fu usata negli Stati Uniti in modo strumentale anche contro Derrida nel contesto di una violenta polemica contro la diffusione dell’insegnamento della decostruzione nelle università nord-americane. Parte attiva ebbero autorevoli rappresentanti accademici e le maggiori testate del paese: René Wellek e Arthur Danto per esempio, e tra giornali e riviste la «New York Review of Book» e il «Time Literary Supplement». Il «Wall Street Journal» ospitò addirittura un duro intervento dell’allora presidente del fondo nazionale per la ricerca. Le accuse rivolte allora alla decostruzione possono essere riassunte, edulcorate dai toni feroci (“frode intellettuale”, “terrorismo”…), nella posizione che sostiene che la decostruzione sia un’invenzione

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dell’incontro dell’altro nella sua irriducibile singolarità. Se la relazione all’altro è ciò che ci costituisce irriducibilmente, allora annullare l’avvenire – sia pure nell’ordine dell’anticipazione – significa minacciare radicalmente la possibilità stessa di ciò che siamo. È in questo senso che la decostruzione è invenzione e cioè come invenire, incontrare, un senso ancora attivo nella matrice latina ma non del tutto estraneo al concetto moderno d’invenzione, un senso più antico che costituisce, in un certo modo – e di questo modo oggi ne sappiamo qualcosa in più – non solo il rimosso, quanto piuttosto, il perturbante (Unheimlich) di quello moderno. La decostruzione forse sarà inventiva per la strategia interpretativa che esercita nell’ordine del discorso costituito, e certo è abile e per certi versi geniale, nel giocare contro se stesso l’ordine del discorso costituito, nel mostrare nei suoi stessi termini l’intrinseca aporeticità di certi concetti su cui si fonda tale ordine. Tuttavia, la descostruzione lo è perché vuole essere invenzione, disporsi all’incontro dell’altro, liberare la possibilità dell’evento nella sua singolarità irriducibile. Allora la decostruzione è invenzione nell’unico senso forse possibile per sfuggire a quella struttura aporetica che non governa solo il concetto di invenzione ma anche la sua applicazione effettiva i cui esiti rischiano di essere nefasti: non è un caso infatti che l’invenzione tecno-scientifica, al giorno d’oggi, non solo non inventa più nulla di veramente nuovo ma rischia di annientare la possibilità stessa non solo dell’invenzione, ma della vita stessa7.

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E così se Leibniz nel suo tempo si è limitato ad esprimere la necessità di una scienza nuova che per lui restava a venire, il calcolo delle probabilità, la statistica, quelle scienze moderne essenziali alla realizzazione della programmazione dell’invenzione che oggi costituisce il nostro orizzonte, erano già nel programma leibnziano (e non solo evidentemente in virtù di un semplice annuncio) del quale costituiscono l’esecuzione ma – osserva Derrida – secondo una matrice più antica e generale: l’assimilazione, l’integrazione, la riduzione dell’altro allo stesso, la riduzione dell’alterità dell’altro nell’economia identitaria dello stesso. È a questo punto della decostruzione dell’invenzione che finalmente incontriamo l’invenzione della decostruzione:


Bibliografia Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Arnauld, A., Nicole, P., 1662, La logique ou l’art de penser, Paris; trad. it. 1728, La logica o l’arte del pensare, Venezia. Cicerone, Marco Tullio, De inventione; trad. it. in 1978, Opere retoriche, Torino, UTET. Derrida, J., 1986a, “Psyché. Invention de l’autre”, in Psyché. Inventions de l’autre, Paris, Galilée. Derrida, J., 1986b, Mémoires, New York, Columbia University Press; trad. it. 1995, Memorie per Paul de Man, Milano, Jaca Book. Derrida, J., 1986c, “No apocalypse, not now. À toute vitesse, sept missive, sept missiles”, in Psyché. Inventions de l’autre, Paris, Galilée. Descartes, R., 1657, Lettres, Paris, vol. I. Leibniz, G. W., 1765, Nouveaux essais sur l’entendement humain, Amsterdam-Leipzig; trad. it. 1982, Nuovi saggi sull’intelletto umano, Roma, Editori Riuniti. Leibniz, G. W., 1903, Opuscules et fragments inédits, Paris, Alcan; trad. it. parziale in 1992, Scritti di logica, Roma-Bari, Laterza. Negri, A., 1999, “The Specter’s Smile”, in M. Sprinker, a cura, Ghostly Demarcations. A Simposium on Jacques Derrida’s Specters of Marx, London, Verso. Regazzoni, S., 2006, La decostruzione del politico. Undici tesi su Derrida, Genova, Il Melangolo. Rorty, R, 1978, Philosophy as a Kind of Writing: an Essay on Jacques Derrida, «New Literary History», n. 10, pp. 141-160; trad. it. in 1986, Conseguenze del pragmatismo, Milano, Feltrinelli, pp. 107-123.

137 L’invenzione Testatina della decostruzione ÁGALMA

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nel senso di qualcosa di privo di fondamento, ma pericolosa dal momento che ha la pretesa di partecipare all’impresa del sapere. Questo tipo di accuse sono apparse anche in Europa ma certamente con altri toni e con fini forse più nobili. Derrida naturalmente non rinnegò mai la sua amicizia con Paul de Man, anzi, gli dedicò un libro pubblicato negli Stati Uniti in cui riprende tutta la questione e risponde alle accuse mossegli (Derrida 1986b). Tra quelli che nel contesto nord-americano hanno avvalorato l’idea che la decostruzione sia invenzione letteraria va ricordato naturalmente anche Richard Rorty (1978). Su queste come su altre critiche rivolte alla decostruzione v. Regazzoni 2006, pp. 25-71. 4 È questa l’accusa che gli muove per es. Toni Negri (1999) per il quale Derrida è in fondo l’ultimo nostalgico della metafisica. 5 A tale proposito Derrida (1986a, p. 34) cita una serie di pubblicazioni di quegli anni che recano nel titolo la parola invenzione: dall’invenzione della democrazia a quella del razzismo, passando per L’invenzione dell’America. 6 “Trouvaille” indica tanto la scoperta fortuita, puramente casuale, quanto la cosa così trovata ma anche la trovata creativa e inventiva. 7 È forse il caso di ricordare che negli anni in cui Derrida scrive la minaccia nucleare era particolarmente sentita ed era all’ordine del giorno del dibattito fra gli intellettuali nord-americani. Non è un caso che nella stessa settimana in cui tiene la conferenza dedicata all’invenzione, Derrida ne tiene un’altra presso la stessa Università di Cornell dedicata appunto alla minaccia nucleare: No apocalypse, not now. À toute vitesse, sept missives, sept missiles (1986c). In realtà i rimandi tra le due conferenze sono numerosi e sarebbe molto interessante ricostruirli (su questo dibattito si rinvia ancora al preziosissimo Regazzoni 2006). Una volta riconosciuto il contesto, pur volendo sostenere che la minaccia della distruzione totale non è più all’ordine del giorno, cosa dovremo pensare dell’invenzione della clonazione, dei progetti più o meno censurati di clonazione umana? Non è forse questa l’invenzione tecno-scientifica più eclatante dei nostri tempi e allo stesso tempo la minaccia più potente per la vita nella sua singolarità irriducibile ridotta alla ripetizione indefinita di un programma genetico tecnicamente programmato?


Escobar, R. La libertà negli occhi Bologna, il Mulino, 2006, pp. 163, € 12,00.

Curi, U. La forza dello sguardo Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 248, € 25,00.

Farné, R. Diletto e giovamento. Le immagini e l’educazione Torino, UTET, 2006, pp. 272, € 19,90. Ha scritto Citati che, per qualche maledizione, abbiamo perduto il dono di vedere ciò che esiste: l’evidente, il palpabile, il superficiale o il profondo. E per ciò non capiamo più. Riguadagnare la capacità di un occhio libero, partecipe e compassionevole, nel senso latino di questo termine, è una terapia cognitiva che va accompagnata da molte attenzioni, dal momento che i presupposti di un occhio interiore sagace, sincero alleato delle cose, attento alla loro non prevaricazione, capace di farcele sentire, sta nella libertà degli occhi, ossia in uno sguardo liberato.

Già gli studi di Snell degli anni Cinquanta avevano posto in evidenza come le forme verbali che i greci avevano a disposizione per designare il vedere fossero molto più ricche di ogni altro futuro vocabolario, dal momento che il vedere riceveva significato dal modo di guardare, che attribuisce valore o disvalore all’oggetto veduto, o lo lascia del tutto indifferente allo sguardo umano. Su questo punto disponiamo ora di ricerche raffinate, come quelle di Paolo Gambazzi (L’occhio e il suo inconscio, Milano, Cortina, 1999) e di Umberto Curi (La forza dello sguardo, Torino, Bollati-Boringhieri, 2004) che ci accompagnano nel lungo viaggio delle culture indoeuropee e del pensiero classico fino alla modernità matura, traendone tutte le conseguenze sullo stato attuale di una paidéia visiva che ha bisogno di essere profondamente ripensata, dal momento che il tentativo di arginare la potenza delle sensazioni, di cui l’occhio umano è il più perspicuo e immediato conduttore; di espungervi ogni elemento conturbante, si è prolungato per molti secoli, anzi per qualche millennio. E la storia dell’educazione può documentarne con facilità, come fa ora Farné, gli opposti sentimenti nei confronti dello “sguardo”; la permanente oscillazione tra vigilanza e repressione. Alle immagini, sostiene Farné, era sì assegnato un ruolo attivo,


co bene-rifugio. Affidato alla memoria elettronica, l’evento è differito a un tempo a venire, perdendo così di rilevanza lo spazio e il tempo in cui esso si svolge. Su questo bisogno di differimento in immagini del presente in svolgimento, l’industria multimediale incrementa l’offerta prosumer, che ci ha reso produttori e al tempo stesso consumatori in proprio di immagini e suoni; accumulatori per un indeterminato tempo a venire. Barattiamo insomma presenze con memorie elettroniche per un improbabile, indefinito secondo tempo: una polizza iconica sulla vita che ci sfugge. La implacabile sostituzione delle immagini alle cose, l’assoluto trionfo della finzione sulla vita, rende più urgente che mai un’ecologia dello sguardo in grado di correggere gli eccessi visivi della vita quotidiana, responsabili di un’atrofizzazione della sensibilità e di un calo di attenzione rispetto alla fenomenicità delle cose. Riflettere sul nostro modo di guardare, per provare a elevare la nostra capacità di comprensione, richiede l’esercizio di un secondo sguardo, e la scelta di luoghi dove il tempo abbia rallentato la sua corsa. Richiede in altri termini un’estetica delle immagini per avviare un’etica visiva capace di stimolare un pensiero sensibile, partecipativo, che ci apra al karisma, ossia a quella misteriosa qualità delle cose che più facilmente si conserva nel loro habitat naturale. Vedere vuol dire percepire le differenze. Ad aiutarci in un aggiornamento di riflessioni sul ruolo dello sguardo e della vista sono ora a disposizione due preziose ricerche di Umberto Curi, che insegna Storia della Filosofia a Padova, e di Roberto Escobar che insegna Filosofia Politica a Milano, più noto forse per le recensioni filmiche de «Il Sole 24 Ore». Curi ci offre una interpretazione del mito platonico della “dimora sotterranea simile a una caverna” fuori da ogni intento emancipatorio, sviluppando un itinerario in cui illuminazione e accecamento proce-

dono di pari passo. Una interpretazione resa possibile dal fatto che i greci avevano a disposizione, come si è detto, molte forme verbali per designare lo sguardo, e che uno di questi verbi è leússo, che ha radice in leukós (“abbagliante, accecante”). I prigionieri, destinati alla cecità nella dimora sotterranea, se e quando tentano di uscirne, vengono colpiti da una luce che li acceca. Nella caverna essi non possono vedere che le skiái, le ombre delle cose esterne, ma fuori di essa vengono abbagliati dalla violenza della luce. Questa condizione di vedere e non vedere insieme, di cecità sulle cose visibili e chiaroveggenza delle essenze delle cose, che si dà sia all’interno che all’esterno della caverna, chiarisce ciò a cui davvero allude la paidéia platonica, che di per sé non guarisce dalla cecità e non dà la vista. Si limita semmai a modificare i termini e le condizioni in cui si svolge una battaglia che resta inconcludibile tra il vedere e il non vedere (sapere e non sapere). Il mito platonico insomma resta ancora un’istruttiva metafora della condizione umana, in perpetua tensione tra due forme di cecità. Attraverso la paideia è possibile rendersi capaci di vedere ciò che altrimenti resterebbe inaccessibile: il prigioniero potrà sì venir fuori dalla caverna accedendo a un’altra forma di visione, ma il prezzo che dovrà pagare per questa uscita dai ranghi è la rinuncia a quel mondo delle ombre in cui restano gli altri suoi simili. Una condizione che l’Ecclesiaste rende più drammatica: quanta più scienza, tanto più dolore; quanto più sapere, tanta più pena. La conoscenza è dolore (ma il dolore è anche ciò che accomuna, ciò che consente di riconoscersi, come accadrà negli ultimi versi dell’Iliade a Priamo e ad Achille). La paidéia insomma non solo non elimina il conflitto, ma lo acuisce. Può solo dislocarlo su un altro terreno senza poter tuttavia estinguere il tratto più significativo della hemetéra physis, ossia il perpetuo contendere (agon) tra diversi modi di

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di una conquista solo apparentemente democratica, dal momento che il seriale ha finito con l’erodere tutto lo spazio del reale, e l’immagine ha soverchiato le cose, a danno del loro valore specifico di evento/documento. La trama del narrato sembra interamente affidata allo sguardo, ma laddove tutto è esibito e nulla più resta da disvelare, le cose si derealizzano: dove tutto è esibito, l’immaginazione si atrofizza. E con essa s’indebolisce la nostra capacità di elaborazione, di compensazione e scomposizione delle immagini che riceviamo. Occorrerebbe insomma guadagnare nuovi punti di osservazione, e opporre alla curiosità frenestetica un atteggiamento che domanda, indaga, esamina. Capire è un procedimento lento. L’homo videns non s’interroga più, o non abbastanza. Il Moderno maturo è un accanito roditore di immagini. Apprende tutto e con precocità, cedendo tuttavia interesse alle cose per come esse si danno nella loro realtà fisica e materiale. La perdita di sensibilità per le cose in sé, la loro fattuità, comporta tuttavia un impoverimento dello sguardo umano. L’incapacità di attivare pienamente i sensi, di immergersi nei reticoli corporei più profondi e nascosti, nelle nervature interne che contengono le vibrazioni delle cose, quelle che le rendono uniche e distinte le une alle altre, ha impoverito la memoria e la fantastica, che insieme alla “cogitativa” costituiscono i sensi interni. Avendo smarrito la capacità di stabilire legami simbolici (simbiosis) con la vita delle cose, anche le vite si sono inaridite. La potenza della manipolazione delle cose attraverso le immagini se da una parte crea condivisione, dall’altra opera uno sterminio delle differenze. Se la fiction prende il sopravvento sulla realtà, la realtà s’impoverisce, e lo spazio delle esistenze reali si omologa. Così, più cresce l’alta definizione tecnologica più utilizziamo il tempo per archiviare e meno viviamo l’esperienza del presente con occhi che ci appartengono. E l’archivio diventa l’uni-

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ma a condizione che il “diletto” fosse temperato dal “giovamento”. Tenere gli occhi bassi è stato nel tempo il più insistente dei precetti: una pratica educativa che dal magistero dei padri della Chiesa si estende sul Medioevo cortese, rafforzandosi poi nel secolo tridentino, e insistendo nei galatei del comportamento conveniente, a uso dei giovanotti e delle giovanette, per non dire delle pratiche prescrittive dei seminari. Agli umili non è consentito alzare gli occhi per incontrare quelli del signore. Le raccomandazioni delle madri a tenere gli occhi bassi in chiesa, per strada, innanzi ai superiori, ai padroni, si sono ogni volta infrante nella pre-potenza dello sguardo, costretto a farsi obliquo e furtivo: sguardo laterale, sottecchi, bigotto, unica pratica possibile nel panottico educativo, non privo di effetti distorsivi sull’occhio interno, sulla vitalità del pensiero. La storia dell’uso distorto e represso dello sguardo è una storia di lunga durata. Il furto dello sguardo andava emendato attraverso una pedagogia inculcativa, cui solo l’educazione politica dei grandi movimenti popolari avrebbe opposto la fierezza e dignità insieme dello sguardo diretto. La custodia degli occhi al fine di evitare le emozioni e raffrenare le passioni ha tenuto a lungo dunque la scena pedagogica. Se ne sono affrancate, e solo di recente, le generazioni più prossime: una vera rivoluzione resa possibile dall’esplosione mediatica, che ha contribuito a disinibire lo sguardo. Ma come tutte le liberazioni, la disinibizione paga oggi un forte tributo di contrappasso, e l’occhio liberato è precipitato nella primitività del teoreín dello spettatore. L’età mediatica, al centro di molte e contrastanti analisi nel corso dell’ultimo mezzo secolo, offre simulazioni a bassa definizione, nonostante la potenza tecnologica delle immagini. E l’età digitale, quella in cui oggi siamo pienamente immersi, se da una parte rende disponibile il tutto a tutti (che costituì l’utopia rinascimentale di Locke e di Comenio), dall’altra rivela come si tratti


Lo “sguardo” di Roberto Escobar vuol essere invece immediatamente “politico”. Pochi (il Ciclope odisseo, la macchina panottica, dilatata dallo sviluppo delle tecnologie) tengono d’occhio i molti, ma nella disumanità dell’occhio predatore, pronto a ghermire o semplicemente assoggettare attraverso l’introiezione di

della segretezza, acquiescenza. Se le vittime siamo noi ci si può anche convincere a diventare oltre che sorvegliati, anche parte attiva nella sorveglianza, come spie e delatori, ha scritto Lyon (Massima sicurezza, 2005). Se il Male legittima il Bene si può accettare anche il Peggio: le immagini di Abu Ghraib, gli sgozzamenti in differita TG. Quando e se prevarrà l’orrore, ognuno, senza costi, potrà confermarsi nella propria presunzione d’innocenza. Il lavoro di macelleria è toccato ad altri, e noi siamo lì, guerrieri umanitari che addestrano le polizie per la democrazia a venire. Sul silenzio dei persecutori vale il richiamo di Canetti: gli esseri umani non possono guardare impunemente, ossia: senza temere una reazione, una qualche forma di reciprocità (p. 51). Guardare è per noi un rischio. L’occhio che raggiunge l’altro non solo ci espone, ma anche ci apre a un rischio. Quello che io vedo dell’altro, scriveva Simmel a proposito di una sociologia dei sensi, è “il ponte per il quale pervengo a lui”: la promessa di un suo riconoscimento; un inizio di reciprocità. “Guardarsi negli occhi presuppone uno starsi di fronte” scriveva Canetti. L’occhio “svela all’altro l’anima che cerca di svelarlo”, aggiungeva Simmel. Questa reciprocità, “la più perfetta nell’ambito delle relazioni umane” contiene insieme promesse e minacce, e mentre Girard la pone all’origine di ogni umana crudeltà: potenzialità mortale di sguardi che guerreggiano tra loro per avere il sopravvento, Simmel ce ne offre una lettura buona. L’occhio ci racconta un viso; lo vede non solo nella mimica di un istante, ma in quanto vita che si è svolta e lo ha sagomato attraverso il tempo. Nella frontalità degli sguardi il volto umano si mostra nella sua durata, e noi vediamo “dar Dauernde an him”, “ciò che in lui è durevole”. Proprio a ragione della sua mobilità, e della sua imperfezione, “i nostri occhi sono capaci di produrre e tener viva la relazione; le mille e una storia che, tutte insieme, raccontano il mon-

do”. Anzi, proprio a ragione di questa loro fragilità possono impostare una buona reciprocità (pp. 57 sgg.). Così come col semplice gesto di abbassare gli occhi, come prescriveva la pedagogia post-tridentina, possiamo preservare la nostra soggettività agli occhi degli altri; interrompere la relazione. Esistiamo per gli altri non quando il loro sguardo ci raggiunge e ci sorprende, ma se quello sguardo decidiamo di sostenere. Ma ci è anche data la possibilità di negarci a quello sguardo, e in questa libera decisione Escobar coglie “un cenno di dignità”. Per quanto le nostre azioni e i nostri corpi possano essere sottratti all’una o all’altra, ossia alla dignità e alla speranza, nei nostri occhi c’è ancora una libertà possibile. Non tutti potremo imitare Sisifo e sottoporci alle sue fatiche, ma se lo sguardo è insieme rischio e apertura, come non sospettare che possa anche riuscirgli di contraddire la staticità e la chiusura della macchina della paura e dell’obbedienza, che su di esso si fonda? “Proprio lì, dove il potere più confida di vincerci, possono cominciare a muoversi un rifiuto, un no, una rivolta” (p. 59). Angelo Semeraro

Semeraro, A. Del sensibile e dell’immaginale. Introduzione alla media education Lecce, Icaro, 2006, pp. 142, € 10,00. “Aderire, finalmente, alle cose!”. Era la frase che esternava il tormento e lo slancio di Alain, protagonista di Fuoco fatuo (Le feu folett, 1931), romanzo cult di Pierre Drieu La Rochelle e metafora di una Europa che trascorreva la convalescenza dalla grande guerra con una cura a base di esistenzialismo e fenomenolo-

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una visione immaginativa, si apre la possibilità di un controcampo, il più filosofico movimento di una macchina da presa, che illumina quel che altrimenti rimarrebbe non visto. E proprio nell’occhio rovesciato si colloca la promessa di una imprevista libertà. C’è un vedere liberato che va oltre ogni noto e oltre noi stessi, sostiene l’A., pur rimanendo nostro: “una trascendenza che apre l’io, incuriosendolo dell’altro, che lo libera dai confini delle sue abitudini e alla fine lo induce a mutare e ampliare la visione che guida la sua storia di vita”. Ma per arrivare alla conquista dell’occhio liberato bisogna innanzitutto “diffidare dei pensieri fanatici che vanno facendosi sempre più padroni del nostro immaginario politico e religioso” (p. 12), per poi lasciarsi guidare dall’acutezza antropologica di Elias Canetti (accecare ogni volta il grande occhio circolare del Ciclope), affidandosi all’ironia tragica di don Giovanni e alla tenacia di Sisifo. Un’altra realtà è possibile, oltre quella vincente: le pagine di Escobar si rivolgono a Camus e Pasolini, a Simmel e Adam Smith e a Girard, per rimettere in circolazione un pensiero forte in grado di contrastare la crisi di fiducia che attraversa l’umanità. Lo sguardo iniziale è irrigidito e bloccato da quelle due torri che implodono, precipitando dal cielo di Manhattan per incistarsi nell’immaginario collettivo dell’Occidente. Da quel fatale martedì di settembre i simulacri del potere ci chiedono affidamento. Se all’improvviso crolla il cardine di un mondo, se lo spazio che implode e scompare trascina con sé anche un luogo immateriale di significati condivisi, è ben comprensibile come a quell’appello non si possa sfuggire, e allora si accetta che il Bene possa difendersi anche attraverso mali minori; che uccida per salvare la Civiltà; che torturi per garantire i diritti umani, che invada gli Stati per portarvi democrazia (p. 9). L’apparato panottico amplifica la paura, e così la governa; produce cultura del sospetto e

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vedere. Dal momento che il vedere qualcosa implica pure il non vedere altro, e che un vedere assoluto non sarà mai possibile. La cultura classica è costantemente scandita da metafore legate alla visione. Le Metamorfosi di Ovidio sono ricche di esempi. Se Narciso rivolgerà su se stesso lo sguardo, se vorrà ammirare la propria immagine, non potrà “vedere” il tempo di una lunga vecchiaia. E Orfeo perderà Euridice, sottratta con dura fatica agli inferi, proprio a causa della irrefrenabilità dello sguardo. Mentre Tiresia, privo di quel bene essenziale che è la vista, verrà compensato dalla capacità di prevedere il futuro. Ed Edipo, che nella più tragica tra le tragedie di Sofocle, rinfaccia a Tiresia la cecità, perderà a sua volta la vista dopo il suo fatale errore: l’illuminazione che segue all’uccisione del padre e all’incesto della madre lo accecherà. Il problema insomma, secondo Curi, non è se il prigioniero della caverna, o Edipo, o Tiresia vedano o se siano ciechi, quanto piuttosto il “domandarsi che cosa essi vedano, e rispetto a che cosa siano ciechi”, come dire in quali modi questa physis possa essere modificata tramite una paidéia, che si configura così come agon, luogo agonistico dagli esiti sempre incerti: gli stessi a cui dà luogo la comunicazione. In questo senso paidéia non è acquisto di conoscenze, come se si trattasse di infondere la vista in occhi ciechi, bensì cimento, pólemos appunto. Il processo educativo-eduttivo non dissolve lo sguardo precedente, ma lo orienta in modo diverso. Un invito all’apaideusìa, ossia a disimparare per poter apprendere nuovamente e diversamente.


tà che lo sguardo detiene, tra le quali spiccano il verbo dérkestai, espressione del “lampeggiare dello sguardo” di Achille in battaglia o del “guardare lontano” di Ulisse, il verbo leùsso, che indicava lo sguardo brillante e libero dai condizionamenti, e infine il verbo estropico per eccellenza: l’òssestai dello sguardo preveggente, del co-sentire e dell’insight emozionale. Tante accezioni del vedere, dunque, e tanti modi per liberare la sua pratica da quella custodia degli occhi che per lunghi anni è stata trasmessa ai figli come unico comportamento conveniente e consigliabile, al fine di evitare le emozioni e frenare le passioni, in una pedagogia dello sguardo basso che imponeva divieti e dinieghi tra il riserbo del pudore e la nevrosi del malocchio. E proprio questo passaggio, mi pare, costituisce l’anello di congiunzione fra le tre componenti di questo libro. Scorrendo le agili pagine di Del sensibile e dell’immaginale, infatti, si passa, in maniera mai improvvisa, attraverso tre piani di discorso: innanzitutto dall’analisi delle modalità di liberazione dello sguardo, che costituisce un vero e proprio “trattato del sentire”, all’intenzione propriamente pedagogica del saggio, che spiega il sottotitolo. La rieducazione al sensibile attraverso lo sguardo, infatti, porta necessariamente a una riflessione matura sul ruolo dell’immagine nell’età dei media digitali, i quali hanno legittimato una tendenza incontrovertibile allo stoccaggio delle immagini stesse, che perdono l’emotività del momento che le ha generate e divengono semplicemente dati da archiviare. Il problema della comunicazione, oggi, non è tanto la precarietà del linguaggio, quanto la differenza tra un Sé intronato e tutto il resto detronizzato. Non riusciamo più ad accostarci alle cose se non mossi da una smaniosa bramosia di possederle per classificarle, scrive Semeraro, e in questa riflessione incrociata tra una pedagogia “della perplessità” che avanza passo dopo passo nella scoperta del mondo, e l’inevitabile

pensiero sul futuro ruolo dei mezzi di comunicazione, si tratteggia una nuova modalità di riflettere sullo statuto di una disciplina recente qual è, appunto, la media education. Ma il passaggio dall’estetico al pedagogico costituisce solo il primo transito del saggio. Infatti la terza componente, che segue in modo “creativo” le prime due, è l’elemento di maggiore Zuhandenheit, tanto per usare un termine di Heidegger che significa “utilizzabilità”, ma letteralmente “essere-alla-mano”. E proprio la mano è l’estensione ideale del discorso sulla media education, nel momento in cui, dopo aver ri-educato lo sguardo e dopo aver messo in pratica l’apaideusìa del dis-apprendere quotidiano, la ricerca dell’immaginale passa dal cuore agli occhi e da questi alla mano che scrive. Proprio la scrittura, infatti, è l’organo che i mestieri dell’informazione dovrebbero raffinare e re-imparare a utilizzare, per riscrivere il mondo consegnandone un’immagine liberata dai condizionamenti dei poteri forti. E l’utilizzabilità di questa proposta viene offerta dall’autore attraverso i tre preziosissimi paradigmi della scrittura di Calvino, che ne delinea il metodo d’osservazione e le tecniche di immaginazione empatica, di McEwan, che nella descrizione dei quotidiani esercizi minimalisti di una Europa apprensiva, rivela il rapporto tra paura e fiducia nelle metropoli occidentali, e di Kapuscinski, che insegna le pratiche dell’attesa e della lentezza, imprescindibili per la riuscita di un genere complesso e ricco di suggestioni qual è il reportage. L’estetica, la pedagogia, lo stile. In un percorso organico queste tre componenti portano a quel riconoscimento trasformativo che Aristotele nella Poetica definisce “agnizione” e che riesce a giungere a forme di conoscenza raffinate, anche senza passare per le idee, dalle quali, come amava ripetere Don Chisciotte, “non sempre viene la guarigione”. Mimmo Pesare

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ticipata (già nell’esergo dell’Introduzione) da una frase dell’Ulisse di Joyce: “Il pensiero attraverso i miei occhi” ed esplicitata nuovamente nell’idea secondo la quale le capacità immaginative, elaborative e intuitive dell’uomo hanno subito lo scacco di quel delitto perfetto (Baudrillard) a opera di una mediacrazia che ha avuto come effetto deteriore l’incapacità di far sentire la differenza tra le cose e i loro simulacri. Il frastuono infocomunicativo, in altre parole, ha neutralizzato e reso apatico “il sensibile e l’immaginale” che delle capacità complessive del pensiero, dovrebbero costituire non solo il vettore desiderativo ma anche gran parte della stessa disposizione all’apprendere. Per questo, scrive l’autore, “non possiamo prevedere perché non sappiamo più vedere”, portando inequivocabilmente il discorso nell’alveo tracciato da una sensibilità che sta diventando condivisa all’interno delle scienze sociali, e che probabilmente nasce spontanea come urgenza di una risposta agli innumerevoli segnali del panorama sociale. Per questo motivo, Del sensibile e dell’immaginale può senza dubbio essere considerato il quarto anello di un discorso sincronico che negli ultimi tempi ha visto il tema dello sguardo al centro delle produzioni saggistiche di Curi (La forza dello sguardo), di Farné (Diletto e giovamento) e di Escobar (La libertà negli occhi), tanto da far pensare che la questione di una auspicabile ri-educazione del visivo al riconoscimento della carica emozionale umana vada costituendosi come nuova koiné per quel “clima culturale-educativo” che Gramsci invocava quale antidoto ai deficit libertari delle tirannie ideologiche. La pratica del guardare, spiega Semeraro, possiede una varietà molto ricca di accezioni che la lingua italiana stenta a rendere in modo esauriente e che invece il greco antico della filosofia classica e dei poemi omerici ci restituisce in tutta la gamma semantica di possibili-

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gia. E a dispetto della carica per così dire “immateriale” di queste due correnti filosofiche, tutte protese all’essenza dell’uomo più che alle condizioni storicodialettiche del suo vivere pratico, la nostalgia di quel rapporto sempre complesso tra le parole e le cose, costituiva, già nella letteratura di quegli anni, un dato mancante, una urgenza da colmare e un lutto da elaborare. Quasi quattro secoli di Illuminismo, razionalismi di ogni foggia e poi dell’avvento delle logiche modali – da una parte – e filosofie spiritualistiche, neghittosità teoriche di matrice clericale e pensiero neocon – dall’altra – hanno per lungo tempo tolto legittimità a un sapere “immaginale” (indiziario, direbbe Spinoza), che ha molto più a che fare con gli organi di senso che con il freddo raziocinio e molta più sintonia con le cose che con le parole. Insomma, il famigerato logocentrismo, sulla cui pericolosità “monoteistica” Derrida ha ampiamente ammonito, minaccia di atrofizzare altre dimensioni conoscitive dell’umanità: le capacità immaginative che invece si basano sullo sguardo, sulla osservazione delle cose e sulla possibilità di “allearsi alle cose”, cioè al mondo circostante, la cui rappresentazione appare denudata dalla forza di un logos che oggi è immagine onnipotente e onnipervasiva, all’interno di una società dello spettacolo che ha trasceso la sua carica mediatica virtuosa e che, invece, minaccia di derealizzare le cose, facendone perdere la significanza. A questa ri-attribuzione di senso nei confronti di una epistemologia sensualis, fornisce un lucido e salace contributo l’ultimo volume di Angelo Semeraro, edito nella nuova collana scientifica “Scritture Multimediali” de I libri di Icaro, che nella sua proposta etica ed estetica di un paradigma empatetico che faccia guadagnare “uno sguardo libero e fiero sul mondo”, costruisce, in realtà, anche e soprattutto l’impianto metodologico per una introduzione alla media education. La tesi centrale del libro è an-


Roma, Editori Riuniti, 2007, pp. 98, € 8,00. L’immaginario collettivo occidentale ha spesso rappresentato il racconto mediatico della contemporaneità attraverso il susseguirsi delle decadi del Novecento come “contenitori” di un senso aggregante che decennio dopo decennio dava una immagine organica di sé. Così, in seno alla narrazione tracciata da storia, politica, letteratura, cinema, musica e ogni forma di prodotto culturale, ogni decade si è iconizzata univocamente in base alle grandi trasformazioni che ha determinato sulla percezione dell’umanità; per cui gli anni Venti sono stati quelli della belle époque, i Quaranta quelli dell’orrore bellico, i Cinquanta quelli della ripresa e della guerra fredda, i Sessanta quelli del boom economico e delle grandi rivoluzioni giovanili e musicali, i Settanta quelli della militanza politica e delle rivendicazioni sindacali, gli Ottanta quelli del riflusso, dell’edonismo e del disgelo. Gli anni Novanta, per la verità, sono stati difficilmente riconducibili a una caratterizzazione forte e unitaria, come è successo per i decenni precedenti; e questo un po’ perché ce li siamo lasciati alle spalle da poco, un po’ perché, al di là dei singoli avvenimenti politici che li hanno caratterizzati (due su tutti: la caduta del muro di Berlino e la guerra nel Golfo del ’91), la comprensione organica di un presunto “senso della decade” è risultata molto più complessa e in progress che in passato. Oggi possiamo senza dubbio affermare che gli anni Novanta sono stati gli anni della globalizzazione e di internet solo perché ne abbiamo compreso il significato verso la fine del decennio e perché le prime analisi mature sulla pregnanza di questi due

aleggia come un bel proposito nell’iperuranio dei neologismi. Come può essere pensata, programmaticamente, la pratica della traduzione culturale? Ma soprattutto, la si può considerare quale ente per l’analisi (e le possibili forme di soluzione) delle tensioni sociali e antropologiche che le differenze culturali trasformano da simbolizzazioni del diverso a barriere culturali? A tali questioni si propone di fornire una soluzione teoretica e propositiva al tempo stesso l’agile lavoro di Vania Baldi, attraverso una tessitura originale tra le teorie novissime degli studi postcoloniali (di autori come Bhabha, Chambers, Gilroy, Said), la sociologia di Bourdieu e una forte disposizione all’estetica postmoderna, con il Grund e il collante metodologico dell’antropologia filosofica di Arnold Gehlen. Il punto di partenza di tale riflessione è costituito dalla ambiguità semantica di un concetto come quello di appartenenza, che già nell’etimo e nella struttura riconduce alla velleità di una padronanza-proprietà alla quale rimanda il senso di una pensabilità dell’altro. Che sia politica, religiosa, sessuale, etnica, sociale, l’appartenenza “appartiene” e “pertiene” ai detentori di una cultura in maniera sovrastrutturale, come il linguaggio, e ne disegna i dispositivi di possesso o estromissione proprio quando viene in contatto/cortocircuito con altre appartenenze. Esistono, tuttavia, se non (ancora) strategie, quanto meno modalità e “attitudini” a pensare e trattare il senso dell’appartenenza in una conciliante dimensione di esperienza storicamente, socialmente e psicologicamente acquisita, attraverso un partecipato riconoscimento (non a caso l’autore cita Honneth) della propria storia culturale come percorso prospettico, non intorpidito e dunque “abilitato” alla coesistenza. Gli analisti sociali legano le loro riflessioni al fenomeno della slippery, ovvero l’orizzonte culturale caratterizzato da una frammentazione, da una disarticolazione e una in-

sensatezza comunitaria che i sincretismi di una globalizzazione immatura hanno reso sdrucciolevoli; ma “la mappatura del sociale non si esaurisce in uno scenario così sconfortante”, scrive l’autore, e dunque è possibile, sebbene in un lavoro parziale e di nicchia, deframmentare e riarticolare il rapporto tra culture e identità attraverso una programmazione di pratiche di traduzione culturale. Tradurre una cultura non significa appiattirne i motivi di ostilità verso le altre per mezzo di un’opera di mediazione culturale impossibile quanto pericolosa, ma alimentare i processi di auto-comprensione e auto-riconoscimento della stessa cultura “al suo interno”, in maniera da decifrarne i nodi simbolici che impediscono la tolleranza e l’apertura. Nell’incontro tra culture molto distanti tra loro, “chi traduce chi?”, si chiede Baldi; e propone una possibile risposta a tale questione articolando il riesame di una serie di avventure in cui è incorso il concetto di cultura: dalla nozione bourdieiana di oggettivazione partecipante, alla teoria del crinale Gramsci-Foucault di Edward Said; dalla metafora dell’Atlantico nero di Paul Gilroy a quella del mistero del samba di Hermano Vianna; dall’elogio del margine di Bell Hooks al fenomeno antropologico dei cosiddetti Punjabi-Londoners. Il momento di traduzione culturale che riconoscendo se stessa riconosce le altre espressioni identitarie, conclude allora l’autore, è quello di una esperienza che trasformi la “modernità in polvere” di Appadurai in una dimensione heideggeriana di Ereignis, ossia di interpretazione della storia e della vita come “evento”, sempre meglio definibile e sempre in via di ulteriore scoperta estetica, in “uno snodo tra le rispettive sensibilità, un cortocircuito possibile tra una questione sociale da dibattere e una condizione relazionale da continuare a tra-durre, a largo spettro”. Mimmo Pesare

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fenomeni sono state disegnate a partire dall’inizio del decennio attuale. La complessità dell’analisi degli anni Novanta, probabilmente, sta proprio nel fatto che i due macrofenomeni sociali che li hanno contraddistinti hanno in realtà determinato una serie di fenomeni-corollario secondari che hanno alimentato la complessa leggibilità di questo periodo storico. Sembra legittimo, allora, affermare che il decennio passato in qualche modo non abbia concluso la sua carica trasformativa: i Novanta “continuano” a lavorare in background sui processi socioculturali dei nostri giorni. Per questo un fenomeno attuale, problematico e di difficile soluzione come quello dello scontro tra culture che determina i fondamentalismi e il terrorismo, deve essere considerato una conseguenza diretta di un gap della globalizzazione, che ha creato un dissidio tra la moltiplicazione delle immagini del mondo e le identità di resistenza dei bacini locali meno pronti a fruirne il consumo. Il saggio Appartenenze sconosciute, si muove proprio in questa “archeologia del nuovo” che analizza il presente alla luce del passato prossimo, non ancora concluso, ancora da rileggere e comprendere. La dialettica composta dalle appartenenze identitarie, da una parte, e dalle forme di “traduzione culturale”, dall’altra, probabilmente rintraccia i propri elementi problematici in una sorta di squilibrio che esiste tra le prime e la seconda. In altri termini, mentre i dissidi antropologici, storici e socio-economici sono la manifestazione quotidiana di un problema politico della più urgente attualità e costituiscono la conseguenza tangibile delle questioni legate alle identità culturali nella frattura tra sfere locali e dimensioni globalizzate, il loro naturale e auspicabile antidoto, ossia la teorizzazione/programmazione di una serie di politiche per la traduzione culturale che ne armonizzi le istanze discordanti, è ancora pensata come una buona prassi che, lungi dal trovare impiego nelle istituzioni quotidiane,

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Baldi, V., Appartenenze sconosciute. Politiche della traduzione culturale


Milano, Raffaello Cortina, 2006, pp. 99, € 9,00. In un fascicolo monografico dedicato ai temi del “del tutto nuovo”, non poteva mancare, tra le segnalazioni di libri pubblicati negli ultimi mesi, la recensione di un volume sulle cosiddette pratiche filosofiche e in particolare sulla consulenza filosofica, che nel panorama delle novità disciplinari (ammesso che di disciplina si possa parlare) costituisce appunto una novità, i cui contenuti e il cui statuto si stanno ritagliando sempre più spazio nel dibattito internazionale. Dell’ordinamento teorico della consulenza filosofica si è parlato già nel numero precedente del «Quaderno», a proposito della monografia di Umberto Galimberti (La casa di psiche, Feltrinelli, 2005), all’interno della cui recensione si diceva, appunto, della sua progressiva affermazione quale esercizio di dialogo e di saggezza che individuano nel sapere del filosofo la pratica di una foucaultiana cura del sé che nulla ha a che vedere con la cura psicopatologica. Nel frattempo i segnali della fortuna di questo tipo di studi si sono moltiplicati: l’editore Apogeo (Milano) dedica gran parte della sua produzione alla saggistica italiana e internazionale sulla consulenza filosofica, passando velocemente e prepotentemente da casa editrice di nicchia a una delle più presenti nei ripiani delle librerie italiane; e una definitiva consacrazione di queste tematiche all’interno del palinsesto scientifico degli addetti ai lavori è avvenuta proprio un paio di mesi fa, quando «Aut Aut», la rivista filosofica fondata da Enzo Paci, che raccoglie ancora oggi le firme del gotha del pensiero occidentale, ha interamente dedicato l’ultimo numero (332) proprio alla discussione sul counselling filosofico. In questa cornice, quindi, non stupisce

“cura” si tira subito dietro la parola “terapia”, scrive Rovatti, e proprio contro questa tendenza alla medicalizzazione del sentire e di una presunta guarigione normotipica, si dovrebbe scagliare la filosofia, perché il suo compito è stato sempre quello di smascherare i poteri forti che proprio sotto l’egida di una mentalità “da guarigione del sentire” conservano il proprio status e le proprie discrezionalità, come teorizzava Foucault. La pratica della filosofia dovrebbe innanzitutto liberare il concetto di “malattia” dalle sovrastrutture ideologiche che ne alimentano l’illusorietà e ne ingrassano gli effetti di governo delle anime, come accade negli uffici meglio arredati dei grattacieli di Wall Street, in cui una massa di coach, counsellor e guru d’ogni sorta, insegnano ai manager quarantenni con il conto in banca straripante e il colesterolo alto a sentire le “giuste sensazioni” per migliorare il marketing dell’azienda. La filosofia, allora, può curare a patto che il farmaco in essa contenuto, sia, nella sua accezione semantica più antica, prima di tutto un veleno e non una medicina. Un veleno che il consulente filosofico (sulla cui formazione e immissione nel mondo del lavoro, peraltro, Rovatti non è affatto contrario, soddisfatte alcune condizioni) dovrebbe instillare continuamente nei cosiddetti consultanti – siano essi singoli o aziende –, poiché dalla saggezza e dalla maieutica non dovrebbe venire alcuna consolazione in quanto tale; egli, al contrario, alle domande di un senso solido dell’esistenza, si troverà nella situazione di smontare o decostruire pazientemente le sue attese, in vista – forse – di un nuovo scenario in cui parole come “rischio” e “spaesamento” dovrebbero funzionare, piuttosto che come sintomi di un disagio, cioè di qualcosa da curare, come aperture di esperienza, cioè – paradossalmente – come la cura stessa o un suo primo affacciarsi. Parole, queste, che sintetizzano l’intero spirito del libro, rendendone gli esiti e il messaggio molto più forti e legittimati di tanta letteratura del settore che poco incide sulla freschezza di tale riflessione e che

spesso, spessissimo, tutela, ancora una volta, interessi di casta, come accade nelle numerosissime associazioni, scuole e master che tentano (spesso pretenziosamente) di insegnare a “praticare” la filosofia nella vita di tutti i giorni, imbastendo tecniche e stilando manuali puntualmente stroncati dalle letture critiche più intelligenti e libere. Oggi, infatti, entrare nei percorsi formativi che rilasciano il diplomino di consulente filosofico, significa sborsare parecchie migliaia di euro solo per acquisire materiale didattico, studiare libri e imparare strategie dialogiche di discutibili premesse scientifiche, un’attività lunga e dispendiosa, come spesso succede nel panorama delle formazioni professionalizzanti, dalle scuole SSIS ai corsi abilitanti di enti privati. E in questo scenario, osserva Rovatti, si alimentano le speranze di giovani laureati in Filosofia che vedono la messa in pratica del sapere “immateriale” accumulato nei loro anni universitari, sempre meno attuabile nei percorsi tradizionali (l’insegnamento su tutti) e che, dunque, tentano di rendere utilizzabile in una pratica che, tuttavia, sarebbe sicuramente utilissima nel mondo del lavoro e, lungi dal provocare danni di sorta, se improntata a quel “senso di sospetto” che la filosofia dovrebbe raffinare, non porterebbe che giovamento nell’esperienza di verità che il pensiero, come cura di sé, detiene. Mimmo Pesare

Marrone, G., Pezzini, I. (a cura) Senso e metropoli. Per una semiotica posturbana Roma, Meltemi, 2006, pp. 223, € 19,50. Quando si parla del concetto di nuovo non si può prescindere dal dibattito filosofico che tra la fine degli anni Settanta e

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che il libro in questione porti la firma di un altro grande nome della filosofia italiana, l’ex “debolista” Pier Aldo Rovatti, e che il pamphlet sia stato pubblicato dall’editore Raffaello Cortina, come ulteriore corroborazione dell’urgente attualità del dibattito in questione. Diciamo subito che la scrittura di Rovatti non entra esclusivamente nel merito dei contenuti scientifici di tale pratica, come invece succedeva nel saggio di Galimberti, che offriva un’ampia e puntuale rassegna dei tropoi e delle ancillarità che la consulenza filosofica riconosce al sapere umanistico e dei punti di differenziazione con la clinica delle psicoterapie. Il pamphlet di Rovatti potrebbe esser meglio definito all’interno di quella tipologia editoriale che in passato si soleva definire “saggio di costume”, in quanto, alle riflessioni che entrano esplicitamente nel merito dello statuto disciplinare del counselling, si unisce l’arguta mise en place dello stato dell’arte dei corsi di laurea di Filosofia, oggi, e il sarcasmo, molto più che legittimo, nei confronti dei meccanismi di strozzamento delle carriere dell’aspirante insegnante di Filosofia e di baronato e cooptazione dei percorsi di immissione al ruolo all’interno delle lobby accademiche. Il titolo del saggio è programmaticamente interlocutorio: alla domanda “la filosofia può curare?”, la risposta dell’autore è, senza mezzi termini, “dipende da cosa si intende per cura”. La faccenda della concettualizzazione del termine cura è infatti centrale per Rovatti, secondo il quale siamo immersi e andiamo sempre più immergendoci in una cultura terapeutica che dal mondo angloamericano si sta estendendo pervicacemente anche al modo di sentire di una Europa sempre più malsicura e spaesata, in cui si sta cristallizzando la sindrome, tutta statunitense, della proliferazione delle più variegate pratiche di assistenza psicologica, la cui domanda si è moltiplicata sulla base di uno scenario caratterizzato dalla vulnerabilità dell’individuo e dal “deficit emotivo”. La parola

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Rovatti, P. A. La filosofia può curare?


lare, la prima parte, che propone al lettore i principali problemi teorici dei fenomeni posturbani (al cui interno uno dei nomi più presenti è quello di Walter Benjamin...), offre una interpretazione della contemporaneità metropolitana che costruisce la propria narrazione socio-culturale attraverso nuclei tematici quali la lettura cartografica delle metropoli, la dinamica delle nuove forme urbanistiche, il racconto letterario delle realtà cittadine, l’analisi semiotica dei grandi monumenti. A questa prima sezione, per così dire, teoretica, ne segue una seconda che la completa attraverso una riflessione più comparativa e che, invece, tenta una lettura borderline fra le trasformazioni storiche e i panorami contemporanei della città. E allora il dialogo tra sociologi, urbanisti, studiosi di processi culturali, si apre in un ventaglio di possibili declinazioni di significato che via via riflettono sull’organizzazione dello spazio e i processi di socializzazione territoriale, sul rapporto tra moda e città, sul fenomeno di ri-semantizzazione delle città-collage e della cosiddetta consumosfera. Se queste prime due sezioni, tuttavia, aprono lo sguardo ai nuovi paradigmi semiotici della realtà metropolitana contemporanea, la terza e la quarta parte del volume hanno l’interessante pregio di “mettere le mani in pasta” all’argomento, offrendo analisi particolareggiate di una possibile flessione della letteratura sulle realtà territoriali quotidiane. In particolare la terza parte è dedicata a vere e proprie “letture semiotiche” di città quali Palmyra, Torino, Arezzo, Las Vegas, Los Angeles; infine la quarta e ultima parte di Senso e metropoli è costituita da quattro esperienze di laboratori scientifici che raccolgono le sensazioni e gli umori del XXXIV Congresso dell’Associazione italiana di studi semiotici, in una trattazione tematica che va dalle mappe e rappresentazioni metropolitane alla città come spazio culturale, passando per lo studio della nuova etnografia urbana e delle forme

di messa in comune del territorio tra il pubblico e il commerciale. Senso e metropoli, insomma, possiede il merito di costituire uno strumento versatile, aggiornato e scientificamente solido, del “nuovo che avanza” in termini di leggibilità del rapporto tra spazi e luoghi. Mimmo Pesare

Hall, S. Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali Roma, Meltemi, 2006, pp. 335, € 24,00.

Politiche del quotidiano Milano, il Saggiatore, 2006, pp. 256 , € 25,00. “Non parliamo ancora il linguaggio del futuro”. (Stuart Hall 1989) È legittimo, o meglio, può essere utile ragionare in termini archeologici a proposito degli Studi Culturali? E perché, ragionando delle “variazioni grandi”, può essere utile recuperare alcuni testi di Stuart Hall non proprio recenti? Il pretesto per le domande è offerto dai libri pubblicati rispettivamente da Meltemi (Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali) e dal Saggiatore (Politiche del quotidiano, 2006). Nello specifico si tratta di due raccolte monografiche dedicate appunto a Stuart Hall, che rappresenta una delle figure chiave per la storia dei Cultural Studies, e alle quali potrebbe essere affiancata utilmente, per un approfondimento, l’ultimissima traduzione dello studio di James

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zione che della postmodernità culturale rappresenta uno dei picchi di novità, dal punto di vista delle modificazioni semiotiche e, alla lunga, epistemologiche. Il settantesimo volume pubblicato nella collana meltemi.edu dell’editrice romana, dedica proprio le sue pagine alla trattazione di tale fenomeno, attraverso una elaborazione e una analisi corale che tuttavia mantengono il proprio filo rosso grazie alla continuità metodologica data dal fatto che gran parte dei contributi vengono dalle penne di autori che fanno ricerca all’interno dell’Associazione italiana di studi semiotici. E proprio i segni che la città irradia sulla percezione dei suoi fruitori, sono il soggetto attivo di questa raccolta, in cui il passaggio dall’abitato alla metropoli si snoda nella miriade di possibili sensi che l’osservazione degli scienziati sociali registra di volta in volta. La città e le metropoli come cartografia infinita e come semiosi antropologica che non è mai indagata nelle sue rappresentazioni reificate ma sempre come possibile mappa disvelatrice delle pratiche quotidiane di una umanità che sperimenta nuovi sensi di cittadinanza e di communitas. Certo, descrivere il senso complessivo di una raccolta di saggi è sempre molto difficile, ma i diciannove contributi di Senso e metropoli (tra i quali troviamo i nomi di Franco Farinelli, Patrizia Calefato, Manar Hammad, solo per citarne alcuni) si muovono in una cornice di coerente eclettismo che ha come centro di riflessione la città quale “oggetto semiotico”. In realtà l’ordine dei saggi in questione possiede una più chiara leggibilità non tanto nella sistemazione e nell’accostamento disciplinare che vede susseguirsi contributi di architetti, geografi, semiologi, antropologi, quanto nella organizzazione del suo impianto che è quadripartita e strutturata in modo che la riflessione sugli spazi e sulle modificazioni cittadine abbia una trattazione progressiva dalla letteratura generale agli studi sulle singole realtà cittadine. In partico-

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l’inizio degli Ottanta del secolo scorso ha monopolizzato l’attenzione dell’intellighenzia occidentale in merito alla pruriginosa questione del postmoderno. In particolare Vattimo prendeva a prestito la nozione di Gehlen (da La secolarizzazione del progresso), secondo cui saremmo ormai nella cosiddetta “post-histoire”, ovvero in una condizione temporale caratterizzata da una serializzazione dell’esperienza quotidiana in base alla quale, grazie all’ipersviluppo tecnologico, “il progresso è diventato routine”. La Modernità, allora, è l’epoca in cui il valore fondamentale era rappresentato dalla categoria del nuovo, che equivale alla formula più generale secondo cui essa costituirebbe l’epoca della storia, ossia il periodo in cui trionfa la dottrina dell’essere come “novità” e “superamento”, all’insegna dell’equazione nuovo = migliore. Il postmoderno, dunque, si presentava come un atteggiamento che privilegiava, al contrario, le visioni “orizzontali” del sapere, e che dunque ridava dignità a letture del sociale che non fossero necessariamente di carattere storico e logico, in base a spiegazioni fondative e ultime della realtà. Per questo motivo, quando parliamo di postmodernità ci viene in mente una serie di nuovi studi molto più pop che rivolgono le loro analisi agli aspetti più “geografici” della produzione culturale e di discipline che, per statuto teorico, privilegiano una riflessione partecipativa e abitativa della contemporaneità, come l’antropologia, la semiologia, gli studi culturali. Oggi siamo arrivati a un tale grado di digestione auto-ironica del postmoderno che ne osserviamo gli esiti con occhi forse più “laici” e disincantati, al punto da riuscire a immaginare che anche la sua fenomenologia sia descrivibile attraverso le immagini del nuovo che appartengono, ormai, anche all’epoca della “fine del nuovo”. Per questo motivo un altro post, quello del fenomeno sociale, architettonico e culturale del posturbanesimo, può a buon diritto considerarsi come una manifesta-


riflessione del sociologo su quegli aspetti diversi del mutamento sociale in genere condensati con espressioni come “postindustriale”, “postfordismo” o ancora “postmoderno”. Il punto è che per Hall tali espressioni sono insoddisfacenti, rimandano al passato che si accosta al “post” piuttosto che descrivere ciò verso cui si avanza. Da qui la scelta per l’espressione “nuovi tempi”. Le sue idee vengono esposte per la prima volta in una serie di saggi pubblicati sulla rivista «Marxism Today», poi, assunte dal comitato esecutivo del Partito comunista britannico, vengono rese pubbliche nel numero speciale «Manifesto for New Times». Molti dei saggi originari verranno raccolti nel volume, a cura dello stesso Hall e di Jacques, New Times (London, Lawrence & Wishart, 1991). “Cosa hanno di nuovo questi nuovi tempi? – scrive Hall, e continua – Sono l’alba di una nuova era o soltanto il bisbiglio di una vecchia? Qual è il ‘nuovo’ che annunciano?”. Si fa opportuno rileggere Hall a distanza di quasi vent’anni. Intanto la denuncia della incapacità cronica della Sinistra di parlare “il linguaggio del futuro”, la mancanza di “audacia intellettuale” insieme a quella più banale di non riuscire a districarsi almeno dal presente. Poi la necessità di riconoscere nei processi di globalizzazione alcune “opportunità” piuttosto che le minacce. Infine, costantemente, il riferimento e una rilettura aggiornata del lavoro di Gramsci. I nuovi tempi sembrano essersi costituiti come “globali” e “locali” allo stesso tempo – siamo nel 1989 – e richiedono necessariamente una nuova concezione del rapporto tra gli esseri umani e “il pianeta Terra”. “I tempi nuovi – scrive – stanno preparando un nuovo mondo”. Ma il vero protagonista dei New Times è la rivoluzione del soggetto, un soggetto in perenne mutamento, che ha radici “immaginate” ma certe, è il soggetto della diaspora globalizzata che richiede alla politica il ripensare completamente se

stessa, ma che a distanza di vent’anni soffre del non trovare risposte. Il soggetto individuale si fa corpo sociale rispetto allo scivolare in secondo piano dei soggetti sociali collettivi. Il sé diventa frammentato, incompleto, “composto da sé molteplici o da identità contestuali, come qualcosa che ha una storia, qualcosa di prodotto e sempre in processo. Il soggetto appare differentemente situato o posizionato da pratiche e discorsi differenti”. È già il changing same di Paul Gilroy, l’identico che cambia a porre più domande che risposte, e di fronte al quale non si può rimanere uguali. Per cercare di comprendere le complessità e le ambiguità dei “nuovi tempi” Hall ritorna al carattere profondamente culturale della rivoluzione in atto. Il termine “culturale – scrive – è così materiale quanto il mondo (…) e la cultura moderna è implacabilmente materiale nelle sue pratiche e nei suoi modi di produzione”. Si apre un confronto con l’avanzare del capitale simultaneamente attraverso il mondo e oltre le linee di protezione delle nostre soggettività. È nella pratica del consumo che si moltiplicano i punti di potere e di conflitto, proliferano le nuove forme d’antagonismo, dalla famiglia alla salute, dall’alimentazione alla sessualità, al corpo. Il discorso tocca inevitabilmente i nuovi consumi mediali: “prendete, per esempio le nuove tecnologie. Non introducono soltanto nuove capacità e nuove pratiche. Richiedono anche nuovi modi di pensare”. Per ritornare più ampiamente alle pratiche di un consumo che vede sempre più persone – magari con pochi soldi a disposizione – “giocare al gioco di utilizzare gli oggetti per significare chi sono”. Ormai tutti, anche soggetti appartenenti a società molto povere e di cui in Occidente parliamo come se vivessero fuori dalla cultura, sanno che le merci hanno un potere sdoppiante di segni sociali, “producono tanto significati quanto energia”. Giovanni Fiorentino

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turale – si può arrivare a registrare comunque una sorta di struttura costante e profonda che attraversa l’intera produzione, un qualcosa che permane “mentre – scrive il curatore – si trasforma e si contamina con i linguaggi specifici di ogni stagione politica e culturale”. Il contesto ampio sullo sfondo è la dimensione postmoderna o, evidentemente, postcoloniale. La prospettiva di ricerca implica necessariamente una condizione materiale vissuta, l’essere parte in causa della diaspora afro-caraibica, l’essere insieme più cose, più relazioni, più identità. Il fulcro della riflessione è quindi la rivoluzione del soggetto, l’emergenza di nuove forme di soggettività dentro e contro. E poi i temi portanti, continuamente in discussione per principio: la cultura e la comunicazione di massa, l’etnicità e il razzismo, la globalizzazione e il multiculturalismo. Con un nucleo problematico che emerge a partire dai primi articoli scritti per la «New Left Review» tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Prima, un forte accento sul ruolo attivo della cultura nei processi sociali. Poi, la percezione netta che alcuni elementi del capitalismo postbellico – un benessere diffuso, il consumo di massa, la crescita dell’economia dei servizi, lo sviluppo dei media – stessero cambiando strutturalmente il volto della società britannica rendendo obsoleta la tradizionale cassetta degli attrezzi della teoria “critica” classica. In ultimo e in maniera fondante, l’invito a non considerare la cultura popolare come uno spazio di semplice alienazione, e a concepirla invece sia come un campo di potenziali resistenze al potere costituito che come un laboratorio privilegiato per la messa a punto di nuove strategie politiche. Tra il 1989 e i primi anni Novanta, Stuart Hall produrrà un discorso programmatico legato alla riflessione sui New Times che nel volume Meltemi viene sintetizzato dal saggio Il significato dei tempi nuovi. Si tratta della specifica

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Procter, Stuart Hall e gli studi culturali (Raffaello Cortina, 2007). Giamaicano di origine, animatore della Nuova sinistra britannica, fondatore della popolare «New Left Review», nel 1961 avvia l’insegnamento di “Film, Media and Popular Culture” al Chelsea College; nel 1964 Hall inizia a collaborare con il Centre for Contemporary Cultural Studies dell’Università di Birmingham, per assumerne la direzione nel 1969 e mantenerla fino al 1979: un decennio chiave, in cui il centro avvia studi e ricerche fondanti sulla cultura popolare britannica, sulle sottoculture e le mode giovanili, sui mass-media, sulle arti visive, sul razzismo e sull’etnicità, destinati a lasciare traccia tanto nel dibattito britannico che in quello internazionale. Il lavoro intrapreso da Meltemi e il Saggiatore resta fondamentale, intanto perché mancavano in Italia raccolte sistematiche dei principali scritti di Hall, ma ancora di più perché si tratta di un autore atipico, più citato che conosciuto, considerato dall’esegesi ufficiale quanto meno “discontinuo”, dalla produzione frammentaria e intensamente sperimentale. La raccolta Meltemi – sulla quale intendo soffermarmi – si apre con il classico Encoding-Decoding televisivo (1980) e si sviluppa con la maggior parte dei saggi pubblicati da Hall tra gli anni Ottanta e Novanta, cuciti dall’intelligente lavoro di Miguel Mellino alla sua produzione precedente. Hall usa teorie e frammenti di teorie magari distanti tra di loro, generando continue fratture con le tradizioni culturali e disciplinari, produce più che altro articoli e saggi brevi, spesso su temi apparentemente poco organici ma che fanno sempre riferimento a un contesto, a una totalità più complessa, attaccando sempre il rapporto esistente tra cultura e potere. In una grande eterogeneità dei testi – dalla specificità mediale agli approfondimenti sulle radici dei Cultural Studies, dagli interventi sul thatcherismo alla riflessione su Gramsci, fino alla questione multicul-


Milano, Guerini e Associati, 2006, pp. 214, € 21,50. La voce post-human si diffonde negli anni Ottanta più o meno contemporaneamente alla nascita del fenomeno cyberpunk. Il termine viene usato in parte da gruppi della sottocultura new age e cyberdelica, dall’altra da scienziati visionari – ad esempio Hans Moravec – convinti che le nuove frontiere della ricerca consentiranno presto agli individui di controllare e modificare la propria morfologia. Il termine esce dalla nicchia con la dirompente mostra Post Human – Nuove forme della figurazione nell’arte contemporanea, ideata da Jeffrey Deitch e tenuta a battesimo al Castello di Rivoli nel 1992. L’esposizione mette al suo centro il corpo, l’io, il sé. La mostra fa il giro del mondo e fa parlare il mondo. Con la mostra, al centro del dibattito, un’identità che non può essere statica, l’essere che è vivente proprio nel mutamento. Alla base del discorso di Deitch, il riconoscimento delle possibilità offerte dalla scienza di intervenire sul proprio corpo e mutare artificialmente l’evoluzione genetica, in prospettiva ideale il rilancio per un’integrazione sempre più forte tra scienza, comunicazione e arte. In Italia il dibattito si è animato molto più lentamente. Sicuramente funziona da riferimento il fondamentale saggio di Roberto Marchesini Post-human, uscito nel 2002 per Bollati Boringhieri. Prima che il tema venga definitivamente sdoganato da Stefano Rodotà sulla grande stampa nazionale passerà ancora qualche anno. Nel frattempo – siamo nel 2005 – nel contesto della Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza, i corsi di Sociologia delle Comunicazioni di Massa e di Teoria e Tecnica dei Nuovi

che di un nuovo linguaggio postumanistico, più che in Heidegger, attingendo alla ricerca di Charles Darwin e Friedrich Nietzsche: nel caso del primo la teoria dell’evoluzione che integra natura e storia, nel caso del secondo assumendo a essenza dell’uomo il corpo stesso, o meglio un insieme biodeterminato in cui anima, condizione sociale e corpo fanno un unico organismo vivente? Probabilmente è indispensabile ripartire dal corpo essenza dell’uomo, da un corpo oggetto e soggetto di un dibattito che si sposta sempre più dall’ambito dell’immaginario, della fiction, a quello dell’esperienza reale. Le necessità naturali del corpo, ribadisce Prospero dalla sua prospettiva di una filosofia del diritto, rappresentano la radice inestirpabile del politico che si avvale di relazioni giuridiche. E il corpo non a caso è essenza della mostra di Deitch, citata da Caronia, ma soprattutto punto di partenza del saggio della Valeriani che da un percorso strettamente artistico deborda, come è giusto che sia, sul piano della politica del quotidiano socio-tecnologico. Il corpo, il suo rapporto con la natura o con ciò che natura non è, diventa il soggetto delle relazioni di questo denso volume, in entrambe le declinazioni scelte: la sua carnalità e il suo esser politicizzato. Il corpo è il fluido mutante, un diaframma che fende qualsiasi dicotomia, le più tradizionali in primis, natura e cultura, materiale e immateriale, appunto mente e corpo. Dal corpo, dalla sua natura biologica parte la centralità e l’apertura della ricerca di un personaggio come Marchesini, che ha fatto della messa in discussione disciplinare un metodo e la cui posizione viene contestualizzata e sviluppata sistematicamente nel saggio introduttivo di Pireddu. È Marchesini a individuare il tratto comune delle diverse filosofie post-human nel considerare l’uomo non più autosufficiente per fondare l’umano. “Più che una filosofia di superamento dell’umano – scrive lo studioso – ritengo sia corretto

considerare il post-umanesimo un pensiero inclusivo del non-umano”. Nella definizione di umano non si può prescindere da ciò che umano non è, e soprattutto non si può prescindere dall’organico. “Non solo il corpo deborda oltre i confini della propria pelle attraverso estensioni tecnologiche, ma accoglie al suo interno l’alterità, ed è ‘agito’ dal complesso relazionale che si produce tra sé e il mondo”. Difficile non pensare alla ordinarietà della medicina e delle pratiche mediche, oltre che magari alla straordinarietà delle tecniche di conservazione e produzione della vita, dunque alla bioetica. Nel richiamo all’organico mi sembra coincida anche la prospettiva di Esposito nella necessità di ripartire dal bíos. L’umanità dell’uomo – scrive il filosofo napoletano – non può più essere pensata al di fuori del concetto, e anzi della realtà naturale, del bíos. La vita singolare e collettiva, nelle sue esigenze di conservazione e di sviluppo, è oggi l’unico criterio di legittimazione universale che dia senso alle pratiche politiche, sociali, culturali del nostro mondo. Lo scatto vero consiste nel ripartire dal corpo per rovesciare l’antropocentrismo, per scoprire un uomo che non può più considerarsi misura del mondo, né tanto meno misura di se stesso. L’umano diventa la soglia di sviluppo data dal dialogo con il non umano. E qui Marchesini, attraverso Maturana e Varela, esalta una poiesi dell’uomo in quanto atto di ibridazione. Il post-umano si descrive idealmente come uno spazio virtualizzante, una “liturgia di ospitalità”, una sorta di “grammatica generativa di dialogo”. Le prospettive necessariamente si moltiplicano, anzi perdono la possibilità di essere prospettiva: ospitare l’alterità vuol dire lasciarsi contaminare dall’alterità, e allo stesso tempo farsi ospitare dall’alterità, assumendo un punto di vista completamente differente. Giovanni Fiorentino

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Media, aprono un seminario-laboratorio per discutere l’idea del post-umano (“Il post-umano nelle reti. Dalla carne alla politica”) e mettere a confronto sul tema non solo la ricerca sui media, ma aree di studio più distanti tra loro: la ricerca umanistica con quella scientifica, la filosofia con la sociologia, la biologia con la politica, il diritto con la bioetica. “Delle cose che non si sanno – scrive, e non a caso, Alberto Abruzzese – conviene dire”. I testi vengono poi raccolti dai giovani ricercatori Mario Pireddu e Antonio Tursi e pubblicati nel volume Post-umano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti per un’eterogeneità di quindici saggi, compresi quelli dei curatori, dove ogni autore traduce una prospettiva differente, ed è utile ricordarli tutti, proprio per disegnare l’ampiezza dello spettro attraversato e sondato dall’antologia: Alberto Abruzzese, Sergio Brancato, Massimo Canevacci, Pier Luigi Capucci, Antonio Caronia, Derrick de Kerckhove, Roberto Esposito, Giuseppe Longo, Roberto Marchesini, Alberto Marinelli, Michele Prospero, Stefano Rodotà, Luisa Valeriani. Come poter dar conto sinteticamente di una tale varietà di esperienze e prospettive? Seguire la prudenza del limite, delle relazioni tra diritto, cultura e tecnologia, dei rischi del controllo del potere, del confine sottile tra lecito e illecito tracciata dalla prudenza documentata e avveduta di Rodotà? Recuperare le seduzioni dell’immaginario a partire da William Gibson in poi, la sua costante pressione sulla realtà, fino a incidere direttamente sull’esperienza della carne, come fa Caronia? Immergersi sulla scia di de Kerckhove nel circuito continuo corpomedium, nella continuità profonda tra fisico e mentale segnata dal cyberspazio, in una condizione immateriale e cognitiva, fino a rintracciare radici e destino sociale in una sorta di neototemismo digitale? O ancora affidarsi all’esperienza di Esposito per recuperare le radici filosofi-

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Pireddu, M., Tursi, A. (a cura) Post-umano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti


Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 109, € 11,00. Quando, nell’Ottocento borghese, l’insostenibile leggerezza del vetro entra nell’ordinario della scena metropolitana per non distaccarsene più, il mondo occidentale avvia uno straordinario processo di trasformazione che troverà poi compimento nella società dello spettacolo. Ecco la sequenza storica ideale che si sviluppa tra Otto e Novecento: la città, le grandi esposizioni universali, i grandi magazzini, la vetrina, lo schermo dei media. Ora il libro del sociologo dei consumi Vanni Codeluppi si inserisce nel solco tracciato, assumendo il filo logico della sequenza proposta e – spostandola in avanti – ci porta nel cuore della scena contemporanea, investendo il corpo del consumatore-spettatore di visibilità e consumabilità totale. La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società – questo il titolo del volume – in effetti se realizza una prima saldatura intensa tra il dispositivo ottico della vetrina e l’universo dei media visivi, poi attraverso il concetto di vetrinizzazione consente di interpretare in modo unitario una serie di fenomeni sociali del presente. Codeluppi, da una parte, sulla scorta dei precedenti lavori (basti ricordare qui almeno Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World, Bompiani, 2000), spiega la progressiva spettacolarizzazione che negli ultimi due secoli ha investito i principali ambiti della società occidentale, dall’altra elabora e propone una nuova modalità di rapporto dell’individuo con il mondo. La luce, quella artificiale, smaterializza e valorizza le forme. Il vetro esalta la messa in

ne è un modello sociale esportato ovunque per l’uso e il consumo dello sguardo del turista occidentale che riesce a togliere significato finanche alla morte stessa. Si pensi alla continua esposizione della morte in un acquario-vetrina a circuito chiuso che si fonda sul dialogo fitto tra videofonini, rete, schermo, informazione televisiva e giornalistica. Senza necessariamente pensare alla guerra o alla straordinarietà della morte del papa, basti citare, tra i tanti casi, quello dei ragazzini di Alessandria che filmano e inseriscono in internet la morte in diretta della donna infilzata dalle punte di un cancello. La morte viene reintrodotta impagliata nella vita, per citare Baudrillard, vetrinizzata per neutralizzare il suo carico di insopportabilità: ecco la morte che diventa oggetto da consumare nel caso di una società di Chicago che propone di trasformare le ceneri del caro estinto in un diamante da incastonare in un gioiello da mettere al collo. Troppo semplice pensare al rito del sesso adolescenziale che passa dal display di un cellulare all’altro. Il sociologo ricorda l’infinito popolo dei reality show, il gioco che espone i dettagli della vita personale in uno spettacolo inesauribile e perverso tra pubblico e privato che si è fatto a sua volta modello. Lo schermo della televisione è il medium che ha sciolto le barriere moderne tra scena e retroscena. E ha consegnato il diaframma infranto all’ultima vetrina del corpo: la sua pelle, i segni della vetrinizzazione sociale sono davanti agli occhi di tutti. Giovanni Fiorentino

Caputo, C. Semiotica e linguistica Roma, Carocci, 2006, pp. 152, € 16,00. Nella prospettiva di un ampio ripensamento dei fondamenti epistemologici della ricerca linguistica, questo libro di

Cosimo Caputo ci offre un’ulteriore occasione per arricchire il dibattito sullo statuto delle scienze dei segni, sul loro stato attuale, così da poter valutare i risultati del percorso intrapreso e le possibilità di aprire nuove strade o cambiare itinerari. Caputo torna a riflettere sull’approccio hjelmsleviano, suo tema d’elezione da sempre, mostrandoci però dei risvolti non ancora pienamente sviluppati in studi precedenti. Del resto lo stesso autore ci dice fin dall’inizio che in questo suo nuovo libro troveremo questioni già emerse in altre occasioni, ma che solo qui hanno modo di passare dal livello di accenno o suggestione a quello dell’approfondimento e dell’esplicitazione. Ciò che propone Semiotica e linguistica è di mettere a confronto le due discipline su un piano teorico, ma il fatto di porre una di fronte all’altra la semiotica e la linguistica – cosa cui potrebbe far pensare di primo acchito quella e copulativa se intesa a collegare due mondi, due sfere settoriali, due compartimenti stagni – non si traduce affatto in un’operazione oppositiva. Si potrebbe altresì dire, proprio con gli stessi termini hjelmsleviani che Caputo riprende spesso nella sua trattazione, che non si tratta di una contraddizione hegeliana tra due antitesi, ripresa poi dallo strutturalismo del celebre Jakobson, bensì di una “opposizione partecipativa” in cui “i due poli non si escludono a vicenda, sono contrari e non contraddittori, sono differenti ma non indifferenti” (p. 79). Ecco allora che la “legge di partecipazione” del “sistema sublogico” di hjelmsleviana memoria non è soltanto un’alternativa al binarismo jakobsoniano, idealista e riduzionista, come ci dice Caputo, ma diventa il modus operandi del suo stesso libro. Infatti, su questa linea di pensiero, come si può scartare la logica dicotomica, e quindi escludente, basata sul modello A/non A tipico di tanta linguistica, in favore di un rapporto inclusivo A/A + non A, così nel testo si può leggere che “linguistica e semiotica non si escludono ma si intersecano, anzi nascono da una stessa radi-

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scena delle cose, fa convergere l’intensità dello sguardo. La materia si fa più leggera, la pietra assume i caratteri dell’effimero, lo sguardo si muove eccitato come in un parco a tema, la pelle degli edifici si fa traslucida, opalescente, multimediale, assume il valore del riflesso e quello proiettivo dell’immagine. Siamo di fronte alla metropoli postindustriale che si imbeve di processi che prendono corpo in epoca industriale, oggi Tokyo vale Los Angeles, Berlino chiama Dubai. In effetti le esemplificazioni di Codeluppi partono da una metropoli palcoscenico – non a caso si cita Elvis Presley di “il mondo è un palco” – fino a investire la vita quotidiana di ogni individuo. Il testo ci presenta un palcoscenico permanente, una città che vive di luce e vetro appunto, tra cartoonia e le scenografie di un set, tra il modello Disneyland e le quinte di un Outlet, un luogo che trova sintesi in un multiplex o ancora meglio in un centro commerciale globalizzato che si esprime attraverso videowall, luci artificiali, pannelli pubblicitari multimediali o, semplicemente, con vetrine ben illuminate. Da qui il passaggio è rapido a una vetrina che incarna allo stesso tempo un modo di fare e di essere, dispositivo di organizzazione sociale, una macchina che serve a specchiarsi ma soprattutto a mostrarsi, esporsi, rendersi belli come merci appunto. In un processo di estetizzazione che vede coinvolti donne e, sempre più, uomini giovani e meno giovani. È un quadro almeno ansiogeno quello disegnato da Codeluppi, lucido, serrato, documentato e infine inquietante nel montaggio esemplificativo che ne viene fuori. La tensione scopica dell’Ottocento moderno si è trasformata nella pratica voyeuristica ordinaria postmoderna, la sovrastimolazione del senso della vista compensa il problema di affrontare la vita in solitudine: affetti, sessualità, sport, tempo libero, tutto consumabile sotto vetro. Persino i valori possono essere vetrinizzati, racconta il sociologo, ricordando la moda dei braccialetti colorati lanciata dal ciclista Lance Armstrong acquistati ed esibiti per supportare campagne umanitarie di vario genere. La vetrinizzazio-

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Codeluppi, V. La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società


logiche che svela la provenienza del nostro autore dalla filosofia (cfr. pp. 25-39). E filosofiche sono le pagine, soprattutto le ultime quaranta, in cui Caputo ritorna sulla materia, sviluppando il tema centrale di un suo libro di un decennio fa (Materia signata, Bari, Levante, 1996), che pure partiva da Hjelmslev per arrivare a Rossi-Landi e che ci pare di poter considerare come il punto di partenza delle commistioni qui mostrate e di ciò che ora si ritrova come “ermeneutica semiotica (…) ancorata alla materialità” (p. 16) o “semiotica materialistica ed esistenzialistica, leopardiana” (p. 17), “semiosi dell’alterità” (p. 35), rovesciamento dell’estetica nell’etica (cfr. p. 97), “impegno etico di far star bene la vita in tutte le sue forme”, “istanza critica (…) come recupero del senso del mondo e della vita” (p. 105). Seguendo la prospettiva globalizzante di Sebeok, infatti, nella semiotica trova spazio il “segnico non linguistico e non verbale del vivente in generale” (p. 100). Questo espandersi della semiotica oltre l’umano, nell’animale (zoosemiotica) e da qui addirittura nei regni delle piante e dei funghi, fino a scenari futuristici prospettati dalla cibersemiosi, cui dovrebbero aggiungersi quelli virtuali della fisiosemiosi di Deely (cfr. pp. 108-120), dice in maniera estrema dell’eccedere della semiotica fuori di sé (Garroni), verso l’altro, nel bíos (Sebeok). “La via dei segni sostituisce la via dell’essere e la via delle idee”, ci dice due volte Caputo (pp. 57, 107): la metasemiosi, in quanto riflessione sul linguaggio tipica dell’uomo, o la filosofia del linguaggio, intesa ancora nell’accezione hjelmsleviana, col “del” in valore di genitivo soggettivo esprimente il punto di vista del linguaggio sulla filosofia, laddove il primo è condizione stessa della seconda (cfr. p. 31), diventa il luogo dell’incontro/confronto col diverso, della “relazione tra uomo e natura, (…) pensiero e materia”; diventa semio(e)tica (p. 121). All’interno di un discorso di questo tipo, che implica il senso di responsabilità, l’impegno etico verso l’altro, umano e non umano, non potevano mancare dei riferi-

menti al maestro di quella che chiamiamo “alterità materialista”, cioè Michail Bachtin, non a caso citato insieme a Marx ed Engels nell’ultimo capitolo del libro. La questione ecologica su scala globale concerne, infatti, il rapporto dialogico tra coscienza (per Bachtin, sociale per definizione) e organizzazione materiale della società, poiché è questo che determina la produzione e riproduzione sociale; una problematica, quest’ultima, che ci riporta nuovamente a Rossi-Landi (cfr. pp. 135-137) che pone nel lavoro, caratteristica tutta umana, la capacità di fabbricare e (ri)modellare la materia, sia essa natura, segno, verbo, mente o nuovo prodotto finito. Possiamo allora affermare che in questo libro, i cui capitoli si rimandano vicendevolmente, troviamo un tentativo di conoscere in modo nuovo i contributi di certi nomi illustri delle scienze del linguaggio. Cosimo Caputo rin-traccia la loro personale concezione del segno e al contempo la ri-traccia, mettendone in evidenza i presupposti sui quali le diverse teorie linguistiche possono incontrarsi per una rivisitazione della semiotica e della linguistica. Andrea D’Urso

Signore, M. Lo sguardo della responsabilità. Politica, economia e tecnica. Per un antropocentrismo relazionale Roma, Edizioni Studium, 2006, pp. 248, € 15,00. Il titolo di questa nuova ricerca di Mario Signore dice in maniera chiara e forte dell’intenzione del guardare responsabile, dell’assunzione della responsabilità come condizione del vedere. Non sguardo sulla responsabilità resa oggetto teorico, oggetto di contemplazione, di discettazione più

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affrontare. Anche qui si può sentire un’eco della critica che Ferruccio Rossi-Landi rivolgeva a Lévi-Strauss in particolare, ma estendibile agli strutturalisti in generale, nell’affermare che questi “applica strutture glottologiche all’antropologia e passa così dal verbale al non-verbale. Io ritengo possibile anche l’operazione opposta, cioè il passaggio dal non-verbale al verbale”; cosicché la complementarietà dell’approccio rossilandiano consiste nella dichiarazione che “bisogna studiare il linguaggio anche con strumenti non glottologici” (Rossi-Landi, Semiotica e ideologia, Milano, Bompiani, [1972] 1994, p. 252). Così, nel rintracciare quel nesso e quel fondo comune summenzionati, Caputo mostra come la “linguistica” venga sfondata nei suoi stretti confini che la vogliono relegata ai concetti di “linguale” o “glottico”, e come invece si apra al linguaggio inteso sebeokianamente come “sintattica”, o “modellazione primaria”, col che essa si fa semiotica o metasemiosi (cfr. p. 23). È in Hjelmslev, liberato dalla vulgata strutturalista, che Caputo trova la chiave di volta per unire i due paradigmi sopracitati, individuando in particolar modo nel maestro danese una “metodica antiseparatista” (p. 64). È così che la tendenza alla globalità di quella che (a partire proprio da Hjelmslev) Caputo definisce già nel suo libro del 2003 (Semiotica del linguaggio e delle lingue, Bari, Graphis) semiotica glossematica trova un dialogo possibile con la semiotica globale di Sebeok, in quanto entrambe si pongono come una teoria, o una linguistica, generale della semiosi (cfr. pp. 35, 100-101). Sulla base di questa ri-cognizione non c’è perciò da stupirsi nel verificare che anche la semiotica attinge sovente al pozzo della linguistica. Per evitare fraintendimenti, si deve però dire che qui non ci si trova già al (de)grado irreversibile della disciplina in schemi, formule, partizioni e rapporti unoa-uno; anzi, il rischio di cadervi è limitato da quell’approccio alle questioni termino-

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ce” (p. 72). A tal proposito, l’Autore adotta un’espressione di Ferruccio Rossi-Landi e parla del rapporto di “omologia” esistente tra linguistica e semiotica in quanto aventi una sorgente comune a monte di un processo successivo di separazione che le vede divise a valle (cfr. p. 23). Semiotica e linguistica dice di una congiunzione che al primo impatto quasi pare un’identificazione tout court delle due discipline; più prudente sarebbe dire che si riflettono l’una nell’altra; meglio ancora che si ri-conoscono. Quest’ultimo termine è in effetti la seconda accezione in cui è intesa la “ricognizione” della semiotica e della linguistica che Caputo propone, riprendendo il titolo di un libro di Emilio Garroni. È quindi un’esplorazione nuova, che porta a un riconoscimento diverso, una conoscenza altra delle due scienze del linguaggio che sono state per lo più considerate in opposizione non dialettico-dialogica. La questione si fa interessante quando egli non esita a indicare alcuni maestri dell’uno o dell’altro campo: “Porre la questione del nesso fra semiotica e linguistica vuol dire porre il confronto tra due paradigmi: quello facente capo a Peirce-MorrisSebeok e quello facente capo alla linea Saussure-Hjelmslev” (p. 17). Caputo avverte che ciò significa rispettivamente mettere da un lato una tradizione più prettamente “semiotica”, legata al concetto di scienza globale dei segni tutti, senza alcuna predominanza delle lingue, ma pure con un approccio teorico che la fonde e confonde spesso con la filosofia del linguaggio; mentre dall’altro lato si ha una tendenza più strettamente “semiologica”, incentrata sul linguaggio verbale. È per quest’ultima ragione che la linguistica si è confinata sempre più nell’orticello che si è data come mera “semiotica delle lingue” e ha attirato su di sé copiose critiche nel momento in cui metteva il naso fuori dal suo recinto limitato e pretendeva di dare soluzioni esaustive con strumenti insufficienti a risolvere problemi più grandi di quelli che era abituata ad


posare lo sguardo, con nuova umiltà, sulle rovine di un mondo e di una storia che mostrano sempre di più macerie, e spingere la irrefrenabile fabbrilità dell’homo faber, liberatosi impunemente dalla fatica di pensare, ad aprirsi all’attitudine “trascendentale” della riflessione, che kantianamente, se non definitivamente sopita, si esprime nel “bisogno di pensare”.

Perciò la necessità dello “sguardo della responsabilità”, la necessità del passaggio, il prima possibile, diremmo, dal pensare gli altri, come oggetti e cose, al pensare agli

Un “pensare responsabile” apre a un’etica della responsabilità, capace di superare la tradizionale risposta antropocentrica dell’etica della modernità, riconoscendo lo status morale non solo per gli esseri dotati di ragione, bensì per tutti gli esseri passibili di sofferenza. In quest’ambito (del pensare responsabile) la teoria è essa stessa prassi (…). E anche se non determina la prassi (in un rapporto di causa ed effetto), apre la strada a una prassi migliore con la sua critica-smascheramento della falsa prassi o del determinismo della prassi espressa dalla convinzione che è così e non altrimenti (p. 31).

La tematica della responsabilità è affrontata nel libro di Signore attraversando, come il sottotitolo indica, politica, economia ed etica, quali “luoghi” in cui si esercita la responsabilità e da cui una riproblematizzazione dell’etica non può prescindere. Gli autori coinvolti in questa disamina, che va dalle condizioni, possibilità e sviluppi della responsabilità del pensare alla questione di una nuova antropologia e alla riproposizione del problema del senso, sono molti e diversi tra loro per orientamento e collocazione: Kant, Dilthey, Weber, Nietzsche, Husserl, Heidegger, Cassirer… Di quest’ultimo Signore (p. 37) sottolinea l’esigenza, rispetto a Kant, del passaggio da una critica della ragione a una critica della cultura o dell’allargamento dell’analitica dell’intelletto in modo da comprendere l’“ambito intero della comprensione del mondo”. In questa interpretazione Cassirer non parte più dal semplice fatto della cultura, ma dal fatto della cultura di tutte le “possibili, effettuali e vissute comprensioni del mondo”. La questione dell’umanesimo dell’alterità è collegata con la questione del linguaggio per la connessione tra linguaggio e “relazione pacifica” con l’altro. Sotto questo riguardo sono interessanti le considerazioni di Mario

Signore in Il silenzio primordiale al brusio della parola (in La filosofia del linguaggio come arte dell’ascolto. Sulla ricerca scientifica di A. Ponzio, a cura di S. Petrilli, Bari, Edizioni dal Sud, 2007, pp. 213-236) sul rapporto tra lingua e silenzio per il rischio insito nella lingua di isterilirsi in formulazioni logiche sempre più prive di senso, di ridursi a segno senza significato: Il programma della fenomenologia, che porta Husserl a fare i conti con la crisi della ragione e con la crisi della scienza, finisce con il dover inserire anche il problema della lingua (…). La Crisi delle scienze europee diventa, conseguentemente, anche se non esplicitamente, l’opera non soltanto dei limiti della scienza moderna, ma anche di una nuova teoria del segno e del linguaggio che ne arresti il processo degenerativo (…) (p. 235).

Questa nuova teoria del segno non può prescindere dall’ascolto dell’altro, in uno scenario che, come leggiamo in Lo sguardo della responsabilità, “mette a dura prova la ragione moderna con i suoi prodotti e invoca un’analisi spregiudicata dei paradigmi e dei loro esiti in una prospettiva di ‘complessità’ che indica ‘crisi’” (p. 11). Riprendendo un testo di Heidegger del 1962, La tecnica e la svolta, Signore sottolinea il significato medico di “crisi”, che come tale richiede una terapia, la quale non è possibile senza diagnosi. La crisi della razionalità moderna richiede un’adeguata diagnosi, richiede l’ascolto, nel senso della semeiotica medica, dei suoi sintomi. La semiotica, la scienza generale dei segni, sotto questo riguardo recupera nell’attitudine all’ascolto il suo antico rapporto con la semeiotica medica, da cui storicamente deriva. Essa come semiotica globale, individua l’inscindibilità di processo segnico (semiosi) e vita, e si occupa della vita anche nel senso che se ne preoccupa, cioè non solo nel senso conoscitivo ma anche nel senso che contribuisce umilmente e

responsabilmente al compito di farla stare bene. La semiotica, malgrado tutti gli alibi che può fornirle lo specialismo e il settorialismo delle branche disciplinari in cui è articolabile, non può sottrarsi a questa responsabilità. Questo compito è specificamente umano, essendo l’uomo l’unico animale capace di semiotica, ossia capace di usare i segni per riflettere sui segni, l’unico animale capace di presa di coscienza, dunque di responsabilità, una responsabilità che non riguarda solo la sua specie ma l’intera vita sul pianeta. Se si tiene conto dunque della responsabilità dell’uomo a livello planetario e della necessità, come Mario Signore si esprime, di una “nuova teoria del segno e del linguaggio” che questa responsabilità evidenzi e sostenga, si comprende quanto sia pertinente, per “richiamare” ciascuno alla propria responsabilità senza alibi, il sottotitolo del libro qui presentato: per un antropocentrismo relazionale. Con esso si intende “una centralità non più egemonica, ma relazionata, dialogante, responsabilmente impegnata a muoversi in una realtà non più semplificabile o riducibile” (p. 11). Susan Petrilli

Fadda, E. Lingua e mente sociale. Per una teoria delle istituzioni linguistiche a partire da Saussure e Mead Acireale-Roma, Bonanno, 2006, pp. 254, € 18,00. La riconosciuta centralità della comunicazione in tutte le sue forme non è solo un fatto di carattere socio-economico che ha condotto alla istituzione dei corsi di laurea in Scienze della Comunicazione, ma è anche un fatto di carattere teorico

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altri e anche, quindi, al pensare agli oggetti e alle cose: pensare a come essere in pensiero per il mondo e per gli altri, assumendosene in pieno la responsabilità.

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o meno approfondita, ma sguardo della responsabilità, dal punto di vista della responsabilità, di un soggetto che si riconosce responsabile, che non può esssere il “soggetto solo”, ma soggetto in relazione, indissolubilmente coinvolto nel rapporto con il mondo e con gli altri. Il titolo, come Signore stesso dichiara, vuole avere un significato provocatorio, accostando lo sguardo all’“inevitabile tensione della responsabilità” (p. 9). Ne consegue la messa in discussione della distrazione dello sguardo, della sua “leggerezza”, delle sue possibilità di alibi, di scappatoie, della possibilità di fingere, o di riuscire addirittura a convincersi, di non vedere. Guardare senza vedere: una fuga insostenibile di fronte alla necessità di presa di posizione, all’obbligo di assunzione di responsabilità, una “perdita secca” di un’“opportunità tutta umana benché scomoda” (ib.) di rispondere agli altri e noi stessi del senso delle nostre azioni, dei nostri rapporti, delle nostre progettazioni e dei nostri immaginari. La questione è specificamente filosofica, perché si tratta della ragione, della ragione occidentale, che anziché continuare a esaltarsi nella sua capacità di avere ragione dell’altro, con tutti i mezzi necessari, ivi compresa l’extrema ratio della guerra, può ormai facilmente trovare, nel mondo odierno minacciato com’è di distruzione totale, “una ragione forte”, come si esprime Mario Signore (p. 10), per


tare ancora Fadda –, egli paragona la lingua alla superficie del mare, o a un torrente, o a un ghiacciaio; evita di parlare di “morte” delle lingue e parla piuttosto di “cessazione” o di “arresto della trasmissione” (v. p. 59). “Non ci sono lingue figlie, né lingue madri”, leggiamo nella Prima prolusione ginevrina (p. 96). Le lingue non hanno nascita né morte: “nessuna lingua può morire, se non è soppressa violentemente”; “nessuna ha una vecchiaia, e nessuna ha un’infanzia” (Terza prolusione, p. 111). Saussure prospetta così l’unità della realtà linguistica nel suo continuo divenire. Tutte le lingue hanno avuto una sola nascita, quella avvenuta nella filogenesi umana; la loro successione è una questione nominale, “viene unicamente dal fatto che ci aggrada dare due nomi successivi allo stesso idioma, e di conseguenza di farne arbitrariamente due cose separate nel tempo” (pp. 111-112). La vita delle lingue è, in termini glossematici, una “determinazione”, o una relazione semiotica tra un fenomeno costante (l’ininterrotta continuità del “parlare”) e tante variabili (il mutamento delle lingue nel tempo e la loro variazione geografica) (v. p. 94). Il parlare è la materia vivente, l’enérgeia che garantisce la vita, vale a dire la trasmissione delle lingue storico-naturali. In L’essenza doppia del linguaggio (uno degli inediti trovati nel 1996 durante i lavori di sgombero dell’antica dimora della famiglia Saussure a Ginevra) il linguista svizzero precisa che “Per vita del linguaggio [“qui linguaggio non designa la facoltà innata” quanto piuttosto lingua: De Mauro, nota 73 a F. de Saussure, Scritti inediti di linguistica generale (SLG), Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 57] si può intendere anzitutto che il linguaggio vive attraverso il tempo, vale a dire è suscettibile di trasmettersi” (ib.). “Vita” quindi non ha una connotazione biologistica. La trasmissibilità infatti non è organicamente interna alle lingue, “ma è piuttosto assolutamente [ad esse estranea]” (ib.). La vita delle lingue di-

pende da Altro, dal tempo. Il tempo è l’Altro (Lévinas), è di Altro, non è delle lingue, non è in loro potere. Una lingua è un’unità simbolica che come un corpo cambia lentamente e “lentamente ma inevitabilmente si sviluppa incorporando nuovi elementi ed eliminando i vecchi residui”. Sono parole di Peirce (Opere, Milano, Bompiani, 2003, pp. 134, 2222). Convergenze tematiche. E con il corpo che cambia lentamente, impercettibilmente ma inevitabilmente, che è sempre “lo stesso altro”, come il corpo (la materia) delle lingue (piegature dell’ininterrotta continuità del parlare), Saussure inizia la Seconda prolusione ginevrina raccontando di una strana mostra di “un tipo originale di nome Boguslawski”: 480 ritratti fotografici rappresentanti tutti lo stesso Boguslawski, e sempre nella stessa posa. Da vent’anni, con regolarità ammirevole, il primo e il quindici di ogni mese, quest’uomo (…) si recava dal suo fotografo (…). Non ho bisogno di dirvi che, se in quest’esposizione si prendessero due fotografie contigue qualsiasi sulla parete, si avrebbe lo stesso Boguslawski, ma se si prendessero la n. 480 e la n. 1 si avrebbero due Boguslawski (p. 101). Saussure, mentre rifiuta il riduzionismo biologistico e vitalistico, reimposta la relazione fra linguaggio e bíos sostenendo che – come osserva ancora Fadda – “la peculiarità del linguaggio tra le altre istituzioni è data dal fatto che esso implica un legame diretto con la costituzione biologica dell’uomo” (p. 59). C’è una facoltà naturale del linguaggio, ma – dice Saussure – il suo esercizio si esplica socio-storicamente, nelle “lingue esistenti” (v. Prima prolusione, p. 89). Il dato biologico si lega inestricabilmente al dato socio-storico. Questa correlazione costituisce la peculiarità della semiosi umana, come sarà più chiaramente esplicitato dalla ricerca semiolinguistica successiva; pensiamo, ad esempio, a Rossi-Landi e a quanto dice dei “livelli” della sostanza semiotica un linguista come Hjelmslev che si pone più direttamente nel solco tracciato da Saussure.

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che fa capo a Charles S. Peirce, il che dice della non indifferenza dei due grandi percorsi teorici della semiotica contemporanea e della persistenza di alcuni nodi fondamentali della ricerca sui segni e sul linguaggio. La storia della scienza ha da tempo fatto vedere che le grandi cesure e contrapposizioni cui spesso si ricorre per motivi didattici o di “comunicazione (talvolta di polemica) scientifica” non reggono alla prova, quando si smonta una teoria per vedere come funziona, a quali problemi risponde e come si concilia, oppure no, con altre teorie. Fadda considera il Corso della vulgata saussuriana “come punto di arrivo di istanze già da tempo presenti nella riflessione del linguista” (p. 23). Ne riattraversa velocemente i testi venuti alla luce successivamente per soffermarsi poi sulle tre Prolusioni ginevrine del novembre 1891 che pubblica in traduzione italiana. È così possibile entrare nell’officina saussuriana, venire a contatto con i dubbi, le esitazioni, le revisioni, le questioni terminologiche, le strategie comunicative messe in atto per introdurre le nuove idee. Saussure, come s’accennava, pone questioni che oggi trovano pieno sviluppo nella ricerca semiolinguistica, come quella del nesso tra linguaggio e bíos. Fadda la evidenzia nel confronto tra Whitney e lo stesso Saussure: l’idea whitneiana della società come soggetto della lingua è ancora, in qualche modo (…) criptohumboldtista: la mente collettiva è vista come una sorta di genio della lingua, che plasma la lingua stessa in accordo con un proprio carattere generale, che si manifesta in ogni aspetto della cultura di un popolo. Whitney inoltre “lascia negletto il rapporto privilegiato del linguaggio con la biologia, che Saussure ha invece ben presente” (pp. 42-43), pur rifuggendo dall’organicismo schleicheriano, ossia dall’idea che le lingue siano organismi biotici che come tutte le entità biotiche nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Il Maestro svizzero inoltre cerca di evitare metafore biologiche. Ad esempio – fa no-

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che porta a ricentrare sul paradigma comunicativo la riflessione sulla vita, sul mondo, ovvero a una visione integrata dei saperi intorno al linguaggio. Questo libro di Emanuele Fadda intende esplorare la costituzione delle istituzioni sociali, e fra queste la mente, intesa appunto come istituzione sociale e che nella socialità si costituisce, dall’interno del paradigma semiolinguistico, attraverso una rilettura di Saussure e di George Herbert Mead che evidenzia alcune possibili convergenze al riguardo a cominciare dalla “fortuna” delle loro idee. Entrambi infatti sono conosciuti attraverso due opere postume, collazionate in base ad appunti di studenti presenti ai loro corsi, il Corso di linguistica generale e Mind, Self and Society; entrambi hanno esplicitato le proprie idee attraverso le lezioni, mettendole alla prova della didattica. Questa tardiva reviviscenza è dovuta in particolare al fatto che – scrive Fadda – i temi trattati dai due, e il modo di trattarli, non erano adatti all’epoca in cui essi si trovarono a operare, tanto è vero che a tutti e due toccò in sorte di essere “eletti” padri fondatori di scienze – rispettivamente, la semiologia e la psicologia sociale, immaginate da entrambi in rapporto tra loro – che hanno conosciuto il proprio maggiore sviluppo dopo la loro morte (p. 14). Bally e Sechehaye, gli editori del più noto Corso di Saussure pubblicato nel 1916, hanno in qualche modo soffocato le “rivoluzioni saussuriane”. Il progressivo rinvenimento di manoscritti, appunti del maestro di segni svizzero e dei suoi studenti sta permettendo una rilettura e una ricognizione generale della sua opera e delle rotture epistemologiche che essa ha provocato oltre che nella linguistica anche nell’antropologia e nelle altre scienze sociali. Oggi si scopre che la riflessione saussuriana è in grado di supportare un progetto rifondatore della scienza della cultura e della mente, su cui converge in maniera essenziale l’opera di Mead, maestro di Charles Morris e discendente dalla tradizione di ricerca


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Questo doppio livello del linguistico o del semiotico amplia l’orizzonte della linguistica che acquisisce anche una portata teorica più generale e investe questioni di carattere cognitivo. Saussure è abbastanza esplicito quando sostiene che “i più elementari fenomeni del linguaggio” non saranno chiaramente compresi se non si ricorre in prima e in ultima istanza allo studio delle lingue. (…) Ma, per converso, lo studio di tali lingue esistenti si condannerebbe a rimanere pressoché sterile, e in ogni caso a restare sprovvisto sia di metodo che di qualsiasi principio direttivo, se esso non tendesse costantemente a illustrare il problema generale del linguaggio (pp. 88-89). Un inedito “Saussure ‘cognitivo’ (ma non cognivista!)”, dice Fadda (p. 67), che tiene in conto un più ampio sfondo mentale in cui operano il linguaggio e le lingue, come nel citato L’essenza doppia del linguaggio, dove si parla di un “dominio non linguistico del pensiero puro, o senza segno vocale, e fuori del segno vocale” (SLG, p. 44). Affiora uno sfondo semiosico non verbale che apparenta Saussure e Mead e di cui è parte costitutiva l’interazione o comunicazione sociale. Il lógos non è immediatamente legato al verbum; e il sorgere del soggetto presuppone una condizione eminentemente semiosica e prelinguale. Ciò porta a una concezione funzionale, non introspettiva e non sostanzializzante, della mente, che è una concezione psico-socio-semiotica e dialogica. La mente, o la soggettività, la razionalità, le lingue e il linguaggio non si costituiscono da soli bensì nell’interazione, nella socialità e nell’esperienza della comunicazione. Sia in Mead che in Saussure – scrive Fadda – è presente un primato della comunicazione, la quale è allo stesso tempo condizione e strumento della condivisione delle conoscenze. Ma per conoscere, e per comunicare, c’è bisogno della specifica forma di riconoscimento

(…) che è data dal, col, e nel linguaggio. Solo il linguaggio (…) mi permette di riconoscere me e l’altro come individui responsabili (…). La comunicazione, e dunque il ruolo comunicativo del linguaggio, vengono dunque prima rispetto al ruolo semplicemente cognitivo: senza comunicazione non ci può essere conoscenza, né vera soggettività, né linguaggio (pp. 159-160). L’esperienza semiolinguistica è esemplare per la sua capacità di indicare nuove vie alla relazione; essa ci inserisce in una fenomenologia delle relazioni che più adeguatamente ci consente di guadagnare un punto di vista non totalizzante della relazione con l’Altro, e quindi un nuovo approccio all’etica della responsabilità. Cosimo Caputo

Gli autori

Alberto Abruzzese è professore ordinario di Sociologia della Comunicazione e insegna Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi alla IULM di Milano. Si occupa di politiche culturali ricoprendo il ruolo di direttore del Master in Ideazione, Management e Marketing degli Eventi Culturali presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma. Ha svolto attività di ricerca (varietà, telefilm, palinsesto, soap-opera ecc.) per la RAI e per Mediaset, per il CNR e per il Ministero dei Beni Culturali. Ha pubblicato numerosi saggi tra i quali, recentemente, Lessico della comunicazione (2003); La città infinita (2004); Progetto mosé. Comunicare le grandi opere d’arte (2005); L’occhio di Joker. Cinema e modernità (2006); La splendeur de la télévision. Origines et développement des médias de masse (2007). alberto.abruzzese@iulm.it Nello Barile è dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione presso l’Università “La Sapienza” di Roma. La sua ricerca verte sulla Sociologia della Comunicazione declinata ai temi della moda e del consumo culturale. Insegna Cambiamento Sociale e Consumi Culturali alla IULM di Milano. Ha ideato e diretto la rivista «C:Cube. CUltura Consumo Comunicazione». Tra le ultime

pubblicazioni Fenomenologia del consumo globale (2004), Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda, vol. II (2005). nello.barile@iulm.it Nando Boero è professore ordinario di Zoologia presso l’Università di Lecce, segretario generale della Società italiana di Ecologia e membro di comitati scientifici e di associazioni internazionali di Biologia. Ha diretto negli ultimi dieci anni progetti finanziati da Comunità Europea, Nazioni Unite, National Science Foundation of the USA, CNR, MIUR, MIRAF e amministrazioni locali. A Lecce ha fondato un laboratorio che, nel 2003, è entrato a far parte del network europeo di eccellenza “Marine Biodiversity and Ecosystem Functioning”. Ha pubblicato svariate monografie e saggi su riviste nazionali e internazionali in materia di biodiversità marina e biologia evoluzionistica e, recentemente, il saggio Ecologia della bellezza (2006). Nel 2005 gli è stato attribuito il Premio internazionale Manley Bendall per l’Oceanografia, Medaglia Albert 1er, dell’Institut Océanographique de Paris. boero@unile.it Sergio Brancato è professore associato presso l’Università degli Studi di Salerno, dove insegna Sociologia della


Cristina Caiulo, architetto, e Stefano Pallara, ingegnere, fondano nel 2003 Studio AERREKAPPA. Guidati da una peculiare sensibilità alle problematiche del risparmio energetico e di un costruire eco-sostenibile, si occupano di restauro dell’antico, di ristrutturazione e realizzazione del contemporaneo, di architettura d’interni, di impiantistica edile, civile e industriale. Svolgono anche una ricerca su città e territorio, che ha portato nel 2004 alla promozione di un Laboratorio Urbano. Cristina Caiulo è responsabile per la Puglia della Sez. It. Union Inter.le des Femmes Architectes (SIUIFA), con la quale ha promosso un concorso fotografico (2005) e un Convegno internazionale sui “non-luoghi” (2006). Con Stefano Pallara ha realizzato, nel 2006, un documentario intitolato Un etnologo nel Salento (inserito nel programma televisivo di RAI Educational L’Era Urbana Europea), in occasione della presenza di Marc Augé, ospite del Convegno. www.studioaerrekappa.com info@studioaerrekappa.com Angelo Centonze è laureato in Conservazione dei Beni Culturali (indirizzo Arte Contemporanea) presso

Carlo Formenti, giornalista collaboratore del «Corriere della Sera», è stato dirigente sindacale, caporedattore della rivista «Alfabeta», redattore dell’«Europeo», consulente della Società di ricerche sociali AASTER e ha fondato e diretto la testata online «Quintostato». Attualmente svolge attività di ricerca e insegna Teoria e Tecnica dei Nuovi Media presso l’Università di Lecce. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui Piccole apocalissi (1991), Incantati dalla Rete (2000), Mercanti di futuro (2002), Not Economy (2003). http://www.pazlab.net/formenti/ carlo.formenti@alice.it Ornella Martini insegna Tecnologie dell’Istruzione e dell’Apprendimento e di Comunicazione di Rete per l’Apprendimento all’Università Roma Tre, dove è anche impegnata nello staff che gestisce il master on line di II livello Multimedialità per l’e-learning e il master on line di I livello La scuola in rete, di cui è coordinatrice. Svolge numerose attività didattiche e formative on line come responsabile del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive, insieme al direttore Roberto Maragliano. Sui temi dell’e-learning, ha pubblicato, all’interno di volumi collettanei a cura di Maragliano, Essere studente on line (2004) e Percorsi nella didattica (2005). o.martini@uniroma3.it

Fulvio Papi è professore emerito di Filosofia Teoretica nell’Università di Pavia. Presidente del Comitato scientifico della Fondazione “Corrente”. Vice presidente della Casa della cultura di Milano. Direttore della rivista «Controcorrente». Si è occupato di Storia della Filosofia, Estetica e di Filosofia Contemporanea. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Ontologia (2005), La memoria destinata (2005), Il lusso e la catastrofe (2006). Mario Pireddu è dottorando di ricerca in Teoria dell’Informazione e della Comunicazione presso l’Università di Macerata; collabora con la cattedra di Teoria e Tecniche dei Nuovi Media presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma “La Sapienza” e con il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Roma Tre; è redattore di «NIM Newsletter Italiana di Mediologia». Ha pubblicato di recente il volume Post-umano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti (2006, a cura, con A. Tursi). http://www.mariopireddu.net mario.pireddu@gmail.com Claude Poissenot è professore di Sociologia presso l’Università Nancy/2. Insegna allo IUT Nancy-Charlemagne, Dipartimento Informazione e Comunicazione, di cui è il direttore. Appartiene al centro di studi ELICO (Équipe de recherche de Lyon en sciences de l’information et de la communication) di Lyon/1. La sua ricerca verte sui rapporti tra le biblioteche e gli utenti e sulle modalità di vita dell’individuo contemporaneo. Con S. Ranjard, ha publicato Usages des bibliothèques (2005). poisseno@univ-nancy2.fr Augusto Ponzio è professore ordinario di Filosofia del Linguaggio e di Linguistica Generale nell’Università di Bari. Fra i suoi libri: Tra semiotica e letteratura.

Introduzione a M. Bachtin (1992 e 2003), I segni dell’altro (1994), Elogio dell’infunzionale (1997 e 2004), Testo come ipertesto e traduzione letteraria (2005). Ha tradotto in italiano le Summule logicales di Pietro Ispano (2004), e i Manoscritti matematici di Marx (2005). augustoponio@libero.it Angelo Semeraro è professore ordinario di Pedagogia della Comunicazione e docente di Scritture nella Media Education all’Università di Lecce, Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali. Ha insegnato nelle Università di Siena, Bari, Napoli Orientale e si è occupato di Istruzione, Infanzie, Mezzogiorno, EduComunicazione. Di recente ha pubblicato: Lo stupore dell’altro (2004), Omero a Bagdad (2005), Del sensibile e dell’immaginale (2006), Pedagogia e comunicazione (2007). angelo.semeraro@unile.it Lelio Semeraro è copywriter e giornalista free-lance. Collabora con il quadrimestrale di Informazione e Cultura Letteraria e Artistica «Le voci della luna» ed è redattore del bimestrale sportivo «Super Tele». Tra le sue pubblicazioni più recenti: Far sorridere la principessa, nell’«Indice dei libri del mese», marzo 2006 e il racconto Omar al prestito in «Tabula Rasa» (2004), finalista al concorso letterario premio Arturo Loria 2005. lelio.semeraro@fastwebnet.it Francesco Vitale è ricercatore di Estetica nell’Università di Salerno. La sua ricerca verte sui temi della Decostruzione e dell’Estetica Classica tedesca. Ha pubblicato numerosi saggi presso riviste e volumi collettanei, la monografia Natura morta. Natura e arte nell’estetica di Hegel (2002) e ha curato la traduzione e l’introduzione di Economimesis. Politiche del bello (2005), di Jacques Derrida. fvitale@unisa.it

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l’Università del Salento. Dal 2004 è Personal Assistent del professor Bernard Hickey, presidente onorario della Sezione Studi australiani del Dipartimento di Scienze Sociali e della Comunicazione presso la stessa Università. In virtù di questo ruolo si occupa dei rapporti culturali tra l’Italia e i paesi del Commonwealth organizzando convegni di studi, seminari e pubblicazioni. Inoltre lavora come critico d’arte per privati e per riviste specializzate come «EuroArte» e ha presentato diverse mostre sia a Lecce che in altre città tra cui Milano. onze77@tiscali.it

Gli autori

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Comunicazione. Inoltre, insegna Sociologia dell’Industria Culturale ed Elementi di Sceneggiatura presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Tra il 1990 e il 1993 ha lavorato in ambito radiotelevisivo come consulente scientifico per la vice direzione generale della RAI - Nuove tecnologie. Ha realizzato ricerche per RAI e Mediaset sulle trasformazioni del modello televisivo e dei suoi linguaggi, pubblicando numerosi saggi, tra cui Sociologie dell’immaginario. Forme del fantastico e industria culturale (2000); Introduzione alla sociologia del cinema (2001); La città delle luci. Itinerari per una storia sociale del cinema (2003); Senza fine. Immaginario e scrittura della fiction seriale in Italia (2007). sergiobrancato@libero.it


Indice dei numeri precedenti N. 1. Oltre il senso del luogo Presentazione Parte prima - Oltre i luoghi Da questo glocale di Angelo Semeraro I luoghi delle idee di Ennio Capasa Banca 121 nelle reti di Lorenzo Gorgoni Il sangue del luogo di Edoardo Winspeare Il nuovo Atlantide di Francesco Spada La mia piccola editrice di Piero Manni Un consorzio per l’innovazione tecnologica di Luigi Barone Un consorzio per l’abbigliamento di Pantaleo Pagliula L’gire mercuriale di Stefano Cristante L’altra faccia della new economy di Aldo Bonomi Il kitsch di Alberto Abruzzese Lessico post-fordista di Carlo Formenti L’identità sospesa di Mauro Protti Il fascino del complesso di Alberto Abruzzese Parte seconda - Il glocale degli innocenti Infanzie nelle reti di Angelo Semeraro Nuovi minori, nuovi media di Mario Morcellini Antropologia delle infanzie di Alessandro Simonicca Risorse immaginarie dell’identità e life corse di Catherine Pugeault Double bind e comunicazione nelle famiglie con giovani adulti di Vincenzo Cicchelli Adolescenze al cinema di Vito Luperto Il principe dei mutanti di Giovanni Fiorentino Pedofili in rete di Ferruccio De Salvatore Adolescenze al limite di Fernanda Rizzo Come parlarne? di Federico Pirro Il padre ritrovato di Luigi Vaccari Parte Terza - Ricerche Sondaggio sull’orientamento politico degli studenti universitari leccesi nel voto del 13 maggio a cura di Gian Maria Greco Schede Libertà a rischio di Ornella Quarta Vivere in un mondo connesso di Fabio Ingrosso Dimensioni nuove per una realtà globale di Roberta Maci Dalla routine alla flessibilità nel nuovo mercato del lavoro di Antonella Epifanio “Domani” e “Domenica”, due film sull’abbandono di Miriam Mariano Gli autori Appendice Inaugurazione dell’indirizzo di studi (novembre 2000). Prolusione Editore Manni, Lecce


N. 2. Mezzogiorno di radio. Cento anni di storia/e

N. 3. Del desiderio

G(iovanni) F(iorentino), Un bilancio provvisorio Angelo Semeraro, Cento anni, e non li dimostra Giovanni De Luna, La radio, fonte storica

Questo numero (a.s.)

Radio e storia. Il Mezzogiorno Michele Campione, Radio Bari ’43, voce dell’Italia libera Vito A. Leuzzi, Radio Bari 1943-1944 Antonio Ghirelli, Radio Napoli Franco Nicastro, Radio Palermo, l’avamposto della libertà Antonio Santoni Rugiu, Da Radio Sardegna al radiodramma Lucia Denitto, Radio e mezzogiorno nelle strategie confindustriali degli anni Cinquanta Linguaggi & società Alberto Sobrero, La radio modello di lingua? Che cosa ne pensano i giovani, all’inizio del 2000 Sergio Raffaelli, La pronuncia alla radio nel periodo fascista Lucio Giannone, Radio e letteratura: momenti di un (contrastato) rapporto Mario Proto, Lettura, scolto, visione: radio e media system Daniele Pitteri, Vocazioni culturali, vocazioni di consumo. Radio locali, syndacation e identità culturali giovanili. Radio in rete Gianluca Nicoletti, Radionet Alessandra Scaglioni, Lavorare alla radio Enrico Menduni, La terza generazione Michele Sorice, Glocal medium Interventi Antonio Bottiglieri, Radio & Regioni Stefano Cristante, Radio & Università Enrico Fedi, Web & Radio Alberto Abruzzese, Dalla parte dell’ascoltatore. Osservatorio A cura del centro interdipartimentale internazionale sulle infanzie e le adolescenze dell’Universiità di Lecce A. Semeraro, Comunicare le infanzie. Un osservatorio Loredana De Vitis, Adolescenti di carta. Indagine sull’immaginario dei media a stampa Giovanni Fiorentino, Play. Sul videogioco Catherine Peugeault, Vincenzo Cicchelli, Les spectateurs d’Orange mécanique en 1970 et en l’an 2000 Alessandra De Giovanni, Giurisdizione europea su minori in internet Ferruccio De Salvatore, Libertà di comunicare e tutela della persona minorenne nel cyberspazio Gli autori Editore Manni, Lecce

Comunicazione di desiderio Angelo Semeraro, Regine cannibali (desideri scomunicanti) Mimmo Pesare, Sehnsucht e comunicazione Luigi. A. Armando, Donne e pastasciutta Myriam Mariano, Doct Faust e dom Giovanni Geografie Paolo Pellegrino, I mille volti del desiderio Albarosa Macrì Tronci, Società di conoscenza/società di desiderio Sergio Duma, L’america non desidera guerre Stefano Cristante, Spagna, 11 marzo: voglia di verità Desiderio di comunicazione Guglielmo Forges Davanzati, Le emozioni dell’oeconomicus Mauro Ingrosso, Glocale musicale salentino Annacarla De Vito, Voci di desiderio: un progetto di radio Valentina Donno, Narrazioni cyborgpunk Nuove generazioni Egle Becchi, Bambini in Mediaset tra cartoni e spot pubblicitari Carlo Gelosi, Globali o locali? media e giovani L.S., Il piacere di sondare (ovvero la ricerca di lavoro del laureato in scienzecom) Tessiture Giovanni Fiorentino legge: Ortoleva e Scaramucci/ Radio Calefato/Lusso, Reinghold/Smart mobs, Abruzzese/Lessico, Semeraro/Calypso, Robins & Webster/Tecnoculture, Sorrentino/Giornalismo, Pinto Minerva&Gallelli/Pedagogia post-human, Ferri/Fine dei media, Ardizzone, Rivoltella, Galliani, Maragliano/E-larning, C:Cube/Annata 2003, Bianco & nero su giallo: obiettivo sul Salento di Ronny Leva. Angelo Semeraro legge: Nancy/Ascolto, Fiorentino/Silenzio, Perniola/Controcom, Mattelart/Utopie, Maffesoli/Tragico, Dahrendorf/Libertà. Carlo Formenti legge: Castells/Reti Smeralda Tornese legge: Semeraro/Calypso la nasconditrice Albarosa Macrì Tronci: Tra memoria e progetto: un convegno a Fisciano Gli autori pagine gialle Scienzecom a Lecce (a cura di Raffaella Scorrano) Editore Manni, Lecce


N. 4. Riconoscersi Questo numero (a.s.) L’ira e le lacrime di Angelo Semeraro Spaesamento e riconoscimento di Mimmo Pesare Ritornare a Parmenide di Nello Barile Virtualità e crisi della rappresentanza di Carlo Formenti La sympathy nelle relazioni industriali di Guglielmo Forges Davanzati Lo sguardo e l’immaginario di Giovanni Fiorentino Van Gogh e Gauguin: colori sonori, di Anna Gentile Reset Storie di riconoscimenti e di risentimenti: ScienzeCom. di Stefano Cristante Old Education & Media Education di Antonio Santoni Rugiu Glocali Meraviglie occidentali per giovanotti mondani di città di Livio Romano Italian Sud-Est di Alessio Pepe Adolescenze: dodici scuole rispondono sull’aggressività di Stefano Mangia Tessiture Letti da: Semeraro: Benasayag, Schmitt / Passioni tristi; Carnevali / Romanticismo & risentimento; Veca / Amore infinito; Bauman / Amore liquido; Marchesini, Post-human / Anima appeal; Eco / Misteriosa fiamma. Duma: Icke / Alice; Heinein / Fanteria dello Spazio; Anais Nin / Mistica del sesso; Caccia / David Linch. Barile: Gibson / Accademia dei sogni. Fiorentino: Chambers / Ad limina mundi; Temple Grandin / Pensare in immagini; Lurija / Mondo perduto/ritrovato. Caputo: Sebeck / Signs. Introduction to Semiotics; Peirce / Opere [g. f.] Una giornata di desiderio [a. s.] A margine di un convegno Gli autori Editore BESA, Nardò (Le)

N. 5. Del segreto Questo numero (a.s.) Andrea Tagliapietra, Ontologie del segreto Franco La Cecla, Un dispositivo di verità Stefano Cristante, Informazioni particolari Carlo Formenti, Luci di retroscena Mimmo Pesare, Disvelamento come trasformazione Paolo Pellegrino, L’opera d’arte e il suo enigma Carlo Gelosi, Pubblica amministrazione: trasparenza ed ostacoli Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella, Cosa e perché conviene non dire: gli effetti esconomici della corruzione Paola Nestola, Arcani vaticani Sergio Duma, Note angloamericane Gino Frezza, Doppia identità e mutazioni nei fumetti dei supereroi Angelo Semeraro, Tende e velami Reset Santa De Siena, Il paradigma spezzato Elena M. Fabrizio, Il pluralismo negato Elena Pulcini, Autenticità e riconoscimento Vincenzo Susca, Turbamenti della postmodernità, intervista a Michel Maffesoli Matteo Greco, Le metafore pedagogiche nel cinema di Burton Tessiture Giorello: Nessuna chiesa (M. Pesare); Scalfari: Laicità/laicismo; Badaloni: Inquietudini e fermenti; Herbert, Vico e laici credenti; Ruggenini, Paltrinieri: La comunicazione, ciò che si dice e ciò che non si lascia dire; Bauman: Scarti (A. Semeraro); Esposito: Bios (S. De Siena); Florida: Classi creative (C. Formenti); Gibelli: Popolo bambino; Marra: Ombre di un sogno; Lyon: Massima sicurezza; De Luna, D’autilia, Crescenti: Italia fotografica (G. Fiorentino); Semeraro: Omero a Baghdad (M. Pesare); Latour: Culto moderno dei fatticci (M. Pesare); Trione: Sopralluoghi (P. Pellegrino); Ferretti, Gambarara: Com. & scienze cognitive; Gambarara: Bipede implume; Cimatti: Mente e vita; Mazzone: Menti simboliche. Riconoscersi a Lecce: un convegno (G. Fiorentino). Eugenio Scalfari: la motivazione della laurea Honoris causa. Gli autori


N. 6. fiducia/sicurezza Questo numero (a. s.) Raffaele De Giorgi, Evoluzione della fiducia e periferie dell’accadere Davide Torsello, Contesti di prevalente incertezza sociale. Il caso dell’Italia meridionale e dell’Europa postsocialista Augusto Ponzio, Fiducia, sicurezza, alterità Egle Becchi, Per una storia libidica della fiducia Francesco Vitale, C’è da fidarsi. Sulla fiducia in Jacques Derrida Ferdinando Boero, La storia di Mae Marc Augé, Una scommessa sull’avvenire (dialogo con Mimmo Pesare) Mimmo Pesare, La sicurezza dei luoghi. Abitare come aver-cura Ernesto Mola, Dalla compliance all’empowerment: due approcci alla malattia Guglielmo Forges Davanzati, Andrea Pacella, La fiducia come risorsa e il suo rendimento economico Carlo Gelosi, La fiducia nelle istituzioni Sergio Duma, Sfiduciati e fiduciosi Angelo Semeraro, Vigilia del dì di festa per metropoli occidentali Tessiture «Contatti»/Paura e paure; Volli, Laboratorio di semiotica; Bauman, Fiducia e paura nella città; Peters, Parole al vento. Storia dell’idea di comunicazione (A. Semeraro) AA.VV., Tesi per il futuro anteriore della semiotica (E. Dell’Atti) Morin, Étique, La Méthode 6 (S. De Siena) Tundo Ferente, Moralità e storia (E. Fabrizio) AA.VV., Il bello del relativismo; Galimberti, La casa di psiche (M. Pesare) Ricuperati, Fucked Up; Casetti, L’occhio del Novecento; Frezza, Effetto Notte; Molotch, Fenomenologia del tostapane. Come gli oggetti quotidiani diventano quello che sono (Giovanni Fiorentino) Thom, Morfologia del semiotico (a cura di P. Fabbri); «Athanor». Semiotica, filosofia, arte, letteratura (1990-2005) (Cosimo Caputo) Reset Antonio Santoni Rugiu, A proposito di segreti Gli autori Editore Meltemi, Roma

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