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Alessandro Pugi
Come il volo di una farfalla Romanzo
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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. © 2016 Segmenti Editore - Francavilla al Mare
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La vita è come il volo di una farfalla: impossibile prevederne il percorso. Alessandro Pugi (2012)
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Questo romanzo è dedicato a tutte quelle persone che ogni giorno lottano contro l’indifferenza, perché questo le rende umane
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PROLOGO
Sperimentare è l’insegnamento più grande nella nostra esistenza. Siamo nati per sperimentare. Lo facciamo dal primo vagito fino all’ultimo respiro della nostra vita. Sperimentiamo l’amicizia, l’amore, le emozioni; sperimentiamo il dolore, la gioia, le relazioni, i percorsi di vita. Ma per sperimentare è fondamentale che tutto passi sulla nostra pelle, che ci tocchi dal vivo, che ci sfiori l’anima, lasciandoci addosso il peso dei ricordi che il tempo trasforma in cicatrici indelebili. Non per sentito dire, non per averlo letto, ma per averlo toccato con mano, solo così possiamo sperimentare l’essenza. Questa è stata la mia vita: una continua, inesorabile, ricerca dell’essenza. Fino a quando qualcosa l’ha cambiata, deviando d’improvviso il corso degli eventi. Toccare con mano il dolore, vivere la difficoltà della diversità, sprofondare fino ai meandri più nascosti della mia anima, per poi risalire verso la superficie e respirare aria pulita, vedere con occhi diversi, toccare con nuova consapevolezza, tornare a vivere. Il tutto guidato da una forza ancestrale, da un’entità che governa il mondo, le cose, la 9 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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vita e che non può essere spiegata. Questa, è la storia di una farfalla e del suo difficile volo. Mark D’Angelo
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CAPITOLO 1
L’inverno era arrivato in anticipo quell’anno e aveva imperversato insistentemente per circa un mese, seppellendo sotto un pesante manto bianco i tristi colori dell’autunno. Neve, solo neve, che si estendeva a perdita d’occhio impedendo allo sguardo di distinguere l’immaginaria linea dell’orizzonte. Boschi di abeti affioravano come fantasmi illuminati dai fanali dell’auto che, a passo d’uomo, risaliva la strada. Al passaggio delle luci ombre minacciose prendevano vita e svanivano subito dopo, inghiottite dalle tenebre. In cima alla collina la macchina faticò a oltrepassare uno spesso cumulo di neve. Superato, una breve discesa diede respiro al motore che emetteva un sibilante rantolo ogni volta che il cambio automatico scalava le marce. Quando l’auto attraversò il basso torrente, l’uomo alla guida rallentò, fino quasi a fermarsi. Il lento movimento delle ruote incrinò la sottile lastra di ghiaccio finendo per frantumarla in uno scintillio di cristalli. In quello strano gioco di luci il riflesso della luna e delle stelle si mescolò a quello dell’acqua increspata, restituendogli la visione di un dipinto che aveva visto in un settimanale sfogliato qualche giorno prima. Gli era rimasto stranamente impresso 11 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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anche il titolo dell’opera: Notte stellata. Forse si trattava di Van Gogh, ma non ne era certo. Accantonò quel pensiero e arrestò l’auto. Per un lungo istante rimase immobile, fissando il vuoto, poi abbassò il finestrino e pose fine alle fatiche del motore girando la chiave. Si sentì crudelmente colpito dall’aria gelida che penetrò nell’abitacolo, ma sorrise, inspirando a pieni polmoni l’odore di quel posto selvaggio dove l’unica forma di vita umana era la sua. Spostò lo sguardo ancora in basso e vide che l’acqua era tornata quasi immobile; la luna aveva ricomposto il suo riflesso. Per qualche istante i suoi occhi fissarono la straordinaria quantità di orme che si sovrapponevano lungo la sponda del torrente: il cacciatore nascosto in lui si risvegliò. “Wapiti, un enorme branco di Wapiti” pensò, mentre il finestrino si richiudeva al leggero tocco del suo dito. Il freddo svanì, sostituito in pochi istanti dall’aria calda proveniente dalle bocchette del riscaldamento. Riprese la marcia, pervaso da un senso di calma. Pensò a quanto fosse incredibile e affascinante la natura lasciata a se stessa, libera, selvaggia, là dove la mano dell’uomo non interveniva a modificarla in alcun modo. Ogni volta che si ritrovava in quel luogo era come se fosse la prima. Gli piaceva restare semplicemente a guardare, in silenzio, stregato dalla vista di ciò che i migliori tra i pittori avrebbero faticato a riprodurre. Il tratto di strada piana fu meno difficoltoso. Gli pneumatici invernali dentellati riuscivano a mordere il terreno senza fatica. Dopo aver abbandonato la statale 20 nel punto in cui la biforcazione di White Ice costeggiava il Lago Ontario, attraversò il bosco di Wishire: un’infinita distesa di larici, abeti, betulle e pioppi. Capitava a volte che qualche turista inesperto si perdesse lungo le diramazioni che l’attraversavano; in più occa12 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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sioni il suo intervento era stato fondamentale per evitare che quelle anime smarrite finissero per morire assiderate. Ricordò in particolare un incidente avvenuto un anno prima. Era la mattina del 13 ottobre 2011 quando era saltato in macchina per una fugace sortita in paese. A poche miglia dalla sua capanna si era imbattuto in qualcosa che al suo guardo esperto non poteva sfuggire. Rami troncati di netto erano il chiaro indizio che un’auto era uscita fuori strada a causa del maltempo. Quel periodo era stato particolarmente prolifico quanto a nevicate e il bosco era stato sommerso da uno spettrale e silenzioso manto bianco. Le ruote dovevano essere finite oltre la strada sterrata, tradite da una cunetta nascosta dalla neve alla visuale inesperta del guidatore, e non erano più riuscite a ritornare in carreggiata. L’auto era precipitata per qualche metro. Quando Mark si era accorto di quello che era successo, aveva fermato la sua auto lasciandola prudentemente con il motore acceso e la ventola dell’aria calda al massimo della potenza. Sapeva, per averlo già sperimentato, che in quei casi il primo importante intervento di pronto soccorso consisteva nel far risalire il più velocemente possibile la temperatura corporea dei malcapitati per evitare un assideramento. Era sceso e si era mosso con difficoltà nella neve fresca. Quando era arrivato in prossimità del veicolo si era reso conto che la situazione era piuttosto grave. Le portiere erano bloccate, forse a causa di un guasto all’impianto elettrico, e un uomo e una donna, abbracciati, sembravano in avanzato stato di ipotermia. I loro corpi assomigliavano ormai a due statue di ghiaccio. Lui indossava un piumino rosso e un paio di jeans; lei invece una salopette nera sotto un giaccone bianco. Mark si era avvicinato e aveva scardinato la portiera con un piede di porco. Le condizioni della coppia gli erano apparse critiche. Accostandosi, aveva no13 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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tato la respirazione rallentata e la pelle del viso secca. “Brutte notizie” aveva pensato toccando il collo dell’uomo. In quegli istanti il battito del suo cuore forte e sano sembrava un suono di tamburo. Aveva tentato invano di raggiungere telefonicamente il pronto soccorso del Saint James Hospital. Sapeva che in quella zona i cellulari servivano a poco. Allora si era avvicinato ancora ai due e aveva spiegato all’uomo come avrebbe cercato di tirarli fuori da quel pasticcio. Lui aveva annuito con alcuni movimenti rallentati della testa. La donna aveva gli occhi chiusi e sembrava in condizioni peggiori rispetto al compagno. Mark aveva faticato non poco a estrarre i loro corpi e a trasportarli nella sua auto. Dopo averli sistemati sul sedile posteriore li aveva spogliati dei giacconi, poi li aveva ricoperti con un caldo plaid di lana che teneva sempre nell’abitacolo ed era ripartito in direzione dell’ospedale. L’altissima temperatura interna della sua autovettura aveva contribuito certamente a salvare loro la vita. Superata una doppia curva intravide il breve rettilineo e la sua meta finale. La capanna, sulla cui facciata si distingueva una tiepida luce, era circondata da uno steccato in legno scuro costruito a mano. Aveva usato molta cura nello sverniciamento e nel ripristino del legname ormai usurato. Mark lo osservò ancora una volta soddisfatto. Fece un respiro profondo e arrestò definitivamente il mezzo. Si voltò e dal sedile posteriore prese il sacco bianco con le provviste. Una volta fuori sentì gli scarponi affondare nella neve fresca. Dopo pochi passi lo scricchiolio del porticato sotto il peso del suo corpo annunciò il suo arrivo. Prima d’entrare diede un’occhiata sfuggente al dondolo in ferro e al tavolo sul quale erano poggiati un bicchiere e 14 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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una bottiglia di Bourbon vuota. Nonostante le temperature gelide di quel periodo amava rimanere seduto in silenzio a dondolarsi, sorseggiando un buon bicchiere di whisky. Spesso sentiva impellente il bisogno di rifugiarsi in quei momenti di solitudine in cui cullare ricordi colmi di dolori mai veramente sopiti. Quando aprì la porta un flebile guaito accompagnò il suo ingresso. Un vecchio alaskan malamute si avvicinò quasi strisciando sul parquet. Mark lo guardò con occhi tristi, compassionevoli, poi si chinò su di lui. «Ciao... cucciolo... come stai?» Le articolazioni delle sue ginocchia scattarono con uno schiocco secco e una smorfia di dolore si disegnò sul suo volto. «Vecchio mio... non abbiamo più l’età.» In un gesto d’affetto gli passò due dita sulla testa, con l’altra mano chiuse la porta, lasciandosi alle spalle il gelo dell’inverno. L’animale sembrò osservarlo ansioso, cercando a fatica di alzarsi sulle quattro zampe. Quello sguardo gli parve come una disperata richiesta d’aiuto. «No... no... stai giù... non serve, ho capito che ti sono mancato» disse con dolcezza. Prese un paio di biscotti dalla sacca poggiandoli davanti al suo muso. Gli occhi azzurri e supplicanti dell’animale si posarono sul suo viso, come per ringraziarlo di quel gesto amorevole, poi la sua attenzione si spostò sui biscotti, afferrandoli con i denti iniziò lentamente a sgranocchiarli. Mark sorrise. Rimase in quella posizione finché il cane non ebbe finito. Poi si diresse alla bocca del camino. La riempì con alcune pigne e arbusti secchi, vi sistemò sopra diversi ciocchi leggermente più grossi, infine, dopo averli cosparsi di liquido infiammabile, vi gettò sopra un fiammifero acceso. Il fuoco divampò come generato da un’e15 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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nergia invisibile e il calore a poco a poco invase la stanza. Mark adorava ascoltare lo scoppiettio prodotto dagli arbusti e dalle pigne che per primi venivano avvolti dalle fiamme. Rimase così, immobile, a fissare le sottili lingue di fuoco fino a quando non avvolsero i ciocchi, avviando la lenta combustione che li avrebbe ridotti in cenere. Ogni tanto, con la coda dell’occhio, osservava l’amico a quattro zampe che, acciambellato sul pavimento in legno, sembrava ormai tranquillo. Quando le sue mani riacquistarono il loro colore naturale si spostò verso il tavolo, raccogliendo la sacca con le provviste che aveva acquistato al market vicino al negozio di Ralph, l’amico che gestiva una rivendita di articoli per animali. La cucina era costruita rigorosamente in abete trattato. Il lavello, a una sola vasca, conteneva ancora le stoviglie usate per il pranzo. La piastra in acciaio dei fornelli era collocata accanto a un pianale in ceramica. Vi posò sopra la sacca. La sua mano scivolò all’interno afferrando un barattolo di carne in scatola. La osservò per qualche istante poi sussurrò: «Caro Bull, stasera tonno e piselli...». Sorrise rivolgendosi all’amico a quattro zampe. «Mi dispiace ma non ho alcuna voglia di cucinare.» Tirò fuori dalla sacca un altro barattolo. Erano ravioli al ragù già pronti. «Una cena veloce per tutti e due» sbuffò. Fu in quel momento che alcuni rumori spostarono la sua attenzione su quello che stava succedendo all’esterno. Mosse la tenda della finestra ma l’oscurità gli impedì di vedere. Osservò il buio per qualche istante, poi decise di agire. Si diresse verso il muro e da una teca in legno prese il fucile semiautomatico. Lo caricò, lo appoggiò sul tavolo per il tempo necessario a infilarsi il giaccone, infine uscì. Dall’estremità opposta della boscaglia latrati e rumori di 16 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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arbusti spezzati ruppero il silenzio della notte. Mark riconobbe l’inconfondibile bramito di un orso e il guaito di un lupo. «Maledetto grizzly... ci siamo» disse a voce bassa. Non era usuale vedere un esemplare di orso grigio da quelle parti, specialmente in quel periodo dell’anno. Di norma vivevano a est, nelle montagne rocciose canadesi, ma per un qualche particolare motivo che Mark faticava a capire, quell’esemplare, da qualche settimana, aveva invaso il suo territorio. Pensò che dovesse aver attraversato lo Stato rinchiuso in una gabbia a bordo di un furgone di qualche cacciatore maldestro, per finire venduto a uno zoo o a un circo. Qualcosa però doveva essere andato storto e l’orso si era ritrovato a girovagare per i boschi di Oshawa, vicino Toronto. Il fatto che fosse stato strappato al suo habitat naturale gli aveva forse impedito di cadere in letargo. La prima volta che Mark lo aveva incontrato era successo di sfuggita, mentre si spostava silenzioso nella boscaglia a caccia di Wapiti. Si era mosso all’imbrunire, quando la luce del sole si confonde con il buio della notte. Il bosco era silenzioso e calmo e sembrava attenderlo. Il suo sguardo si era fissato su uno splendido esemplare maschio di Wapiti intento a brucare i rari ciuffi d’erba che erano riusciti a resistere alle gelide temperature invernali. Mark vedeva il suo respiro tramutarsi in vapore acqueo ogni volta che tirava su il muso per guardarsi intorno. Lo sentiva sbuffare, poteva quasi percepirne il battito del cuore. Era stato in quel momento fatidico, quando l’occhio del cacciatore incontra quello della sua preda e il dito si muove lentamente sul grilletto del fucile, che aveva intravisto quella gigantesca ombra grigia muoversi in direzione della carcassa di un cervo dalle lunghe orecchie. Quella distrazione aveva permesso alla sua futura preda di accor17 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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gersi della sua presenza e fuggire. Mark era un cacciatore esperto e conosceva quasi tutte le numerose specie animali che vivevano in Canada e proprio grazie a quell’esperienza aveva riconosciuto, in quell’enorme sagoma, la figura di un Grizzly. Sapeva distinguere un Grizzly da un Baribal - un’altra specie di orso canadese - per la presenza di una gobba particolarmente pronunciata all’altezza delle spalle e per il classico manto brizzolato che nel Baribal, invece, era nero. Oltre a quelle due specie anche una terza popolava i territori del Nord-Ovest, l’Ontario, il Quebec e l’isola di Terranova: l’orso bianco o polare. Quell’esemplare di notevoli dimensioni, dal peso che si aggirava presumibilmente intorno alle novecento libbre, doveva essere un maschio e a giudicare da come si muoveva doveva essere particolarmente affamato. Mark si era rannicchiato in silenzio sulle sue gambe, poi, lentamente, era scivolato sulla neve fresca tentando di non fare il minimo rumore. Una volta prono era rimasto immobile a osservare quella mastodontica figura muoversi goffamente sulla carcassa del cervo e ridurla a brandelli con le enormi fauci. Mentre era sdraiato sentiva la neve gelargli le mani e le guance. La prima reazione era stata quella di sparargli, ma poi aveva accantonato quell’idea. Aveva considerato di avvisare di quell’incontro i Mounties, come venivano chiamati familiarmente gli agenti della Royal Canadian Mounted Police, le famose Giubbe Rosse, ma poi aveva pensato che in quel territorio di caccia c’era posto per tutti e due e aveva lasciato che quell’idea cadesse nel dimenticatoio. Inoltre, aveva pensato, di lì a poco l’animale sarebbe caduto in letargo. Prima che l’orso finisse il suo banchetto aveva deciso di dileguarsi tra gli alberi sperando di non incontrarlo mai più. Invece dopo quel primo incontro Mark lo aveva rivisto 18 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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in un paio di occasioni. Si era sempre tenuto alla larga, evitando che la loro “amicizia” divenisse troppo stretta: sapeva bene che con una zampata il Grizzly era in grado di spezzare il collo a un bisonte, figuriamoci a un uomo. Aveva letto, di tanto in tanto, di aggressioni mortali di orsi grigi agli esseri umani e non intendeva fornire ulteriore materiale alla stampa. Quella notte, però, non poté evitare che il suo destino si incrociasse con quello dell’orso e che il corso della sua vita cambiasse bruscamente direzione.
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CAPITOLO 2
L’ufficio di polizia di Toronto distava circa settantaquattro miglia da Oshawa e almeno un’ottantina dalla capanna di Mark. Era situato al piano terra di uno stabile alto tre piani in una delle zone migliori della città. L’ufficio contava su una forza operativa di quindici agenti in servizio effettivo e tre relegati in ufficio a sbrigare la miriade di pratiche giornaliere. Altri, circa una decina, erano invece impiegati nella sezione omicidi e in quella antidroga. All’interno di una piccola stanza, con il capo dritto sulla scrivania, Mirna Loser stava sistemando alcuni fogli che i colleghi di pattuglia, di rientro dal servizio operativo, le avevano lasciato alla fine del turno. Per lo più si trattava di contravvenzioni per guida in stato di ebbrezza o per guida pericolosa, che lei doveva mettere in ordine e registrare poi nell’apposito programma on-line. Ne prese una e la osservò per alcuni istanti. «Come diavolo si fa a guidare a questa velocità con la strada invasa dalla neve?» disse a voce alta. Quando squillò il telefono del centralino aveva in mano una tazza di caffè caldo. «Mirna... sono Martine, c’è un’emergenza.» La voce della donna le sembrò isterica. 21 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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Mirna alzò la cornetta, eliminando il vivavoce. «Pronto? Pronto... Martine... che succede?» «Sono in prossimità dello svincolo per Oshawa, ho ricevuto una chiamata da Mark... sembrava... o mio Dio.» La voce le si spezzò in gola. «Martine... Martine... mi senti? Che cos’è successo?» «Non... non lo so. Mark è... ferito... mi ha chiamata al cellulare e mi ha detto di essere stato aggredito da... da un orso. La sua voce sembrava così lontana...» «Un orso?» domandò Mirna. «In quella zona? In questo periodo?» «Non farmi domande stupide, per favore, Mirna.» «Scusami» rispose la collega con voce mortificata. «È ferito gravemente?» domandò. «Non lo so ma... credo di sì, la linea era disturbata, sono riuscita a malapena a capire che era stato aggredito e che stava perdendo molto sangue, ma non ho capito se parlasse dell’orso o... mio Dio, chiama subito un’ambulanza e mandala...» Si zittì. “Dove?” pensò. “Come glielo spiego?” Poi un colpo di genio: «Digli di seguire a ritroso il torrente Ottawa. A un certo punto il suo corso si restringe e la strada lo oltrepassa trasformandosi in una specie di sentiero. Devono seguirlo fino a quando non vedranno una capanna, è l’unica nel raggio di un paio di miglia. Non possono sbagliare. Dagli il mio numero di cellulare, anche se in alcuni punti la linea non prende. Ti prego, di’ di fare in fretta: non so quanto Mark... sia... sia grave». «Va bene...» «Ah...» aggiunse «eventualmente chiedi l’ausilio dell’elicottero.» Troncò la comunicazione appoggiando il cellulare nel vano portaoggetti. Voleva che fosse subito disponibile nel caso Mark l’avesse richiamata, ma sapeva anche di dover 22 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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rimanere concentrata sulla guida. Quel sentiero non era facile da percorrere meno che mai nel suo stato d’animo. Subito dopo aver attraversato la città, la strada si dirigeva verso le Borough Mountain, una piccola catena montuosa ricca di vegetazione. Martine non la conosceva molto bene. Dopo aver percorso due miglia deviò verso l’interno. Anche se ormai i loro destini si erano separati da più di tre anni, Martine era rimasta molto legata al suo ex marito. Aveva conosciuto Mark D’Angelo durante un corso di specializzazione. Il loro era stato il classico colpo di fulmine. Era rimasta affascinata dai modi gentili con i quali quel giovane poliziotto dal bell’aspetto e dalle origini italiane si era presentato alla lezione. Proprio le sue origini avevano contribuito a far scoccare tra loro la scintilla dell’amore. Lorenzo D’Angelo, il nonno di Mark, era originario di Castel San Vincenzo, un piccolo paese del Molise. Si era trasferito in Canada in cerca di lavoro subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Lì, aveva conosciuto Marianne, una ragazza canadese, con la quale si era sposato, acquisendo la cittadinanza. Dal loro matrimonio erano nati i gemelli Mat e Anthony. Mat si era trasferito a New York, mentre Anthony era rimasto a Oshawa e aveva messo su famiglia. Il 30 aprile 1972 era nato Mark. Grazie agli insegnamenti del nonno, Mark conosceva bene la lingua italiana. In seguito, dopo la tragica morte della moglie, avvenuta a causa di un incidente stradale, Lorenzo aveva fatto ritorno a Castel San Vincenzo, per trascorrere in pace il resto dei suoi giorni. Mark non aveva mai visitato il suo paese d’origine, anche se a Martine avrebbe fatto piacere. Si erano sposati a ventisette anni e dopo dieci si erano separati. Non era successo per colpa di uno o dell’altra, semplicemente il loro matrimonio si era consumato lenta23 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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mente, fino a perdere il suo naturale significato. Lavoravano entrambi nella polizia di Toronto. Lui, assegnato alla squadra omicidi, lei alla sezione stradale. Mark era sempre stato un uomo attento alle esigenze della moglie, ma nell’ultimo periodo del loro matrimonio si era dedicato quasi esclusivamente al lavoro, seguendo ogni indagine con una tenacia e una dedizione che sfioravano la paranoia, mentre la sua vita coniugale passava silenziosamente in secondo piano. Quando la sera si ritrovavano nella loro villetta, tutto sembrava avvolto da una sottile patina di polvere che non riuscivano a scrollarsi di dosso. Spesso Martine rinunciava a discutere con lui, presa da una sorta di apatia mista a fatalismo e, forse, a disinteresse. Conosceva bene le difficoltà del suo lavoro e sapeva che effettivamente le indagini potevano costringerlo a rimanere anche alcuni giorni lontano da casa, ma non tollerava che i loro momenti d’intimità trascorressero dominati da lunghi silenzi e da un gelo che sembrava averli avvolti senza rimedio. Alla fine, dopo un anno di lenta agonia, avevano preso la drastica ma ragionevole decisione di separarsi. «Siamo giovani, abbiamo ancora molto tempo davanti a noi e io non voglio continuare questo rapporto vivacchiando di un amore che non è più lo stesso» gli aveva detto Martine dopo una notte passata insonne a pensare e ripensare. Mark aveva annuito, abbassando lo sguardo. Sembrava una gelida statua di ghiaccio. «Hai ragione...» le aveva risposto «è vero, le cose sono cambiate e mi dispiace, ma non so trovare una soluzione per uscire da queste... sabbie mobili in cui è finito il nostro rapporto. Probabilmente è colpa mia e di questo dannato lavoro e quindi è meglio che ognuno prenda la propria 24 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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strada.» Lei era rimasta di stucco di fronte a quelle parole. Sperava in una risposta diversa, avrebbe voluto vedere nei suoi occhi uno spiraglio di luce, una fiamma ancora accesa, ma non era stato così. Mark l’aveva guardata e aveva strinto forte le mascelle in attesa di una risposta. Sapeva che la vera causa di quei lunghi silenzi e delle giornate passate volutamente lontano da lei era un’altra. Qualcosa che aveva a che fare con il futuro, qualcosa che mancava e che sembrava, per uno strano disegno del destino, non poter far parte della loro vita. Martine si era rassegnata. «Non c’entra il lavoro e lo sai bene…» lo aveva ammonito afferrandogli una mano. «È… che le cose… a volte non vanno come vorremmo. Ci eravamo immaginati una vita che non è la nostra. Ti ricordi... i sogni, le promesse... i bambini... sembra che tutto sia svanito, che tutto si sia appassito sotto il peso della noia, dell’apatia. Non c’è più energia nel nostro rapporto e so che tu dai la colpa a me di questo, anche se non me lo hai mai detto apertamente.» Aveva gli occhi pieni di lacrime mentre pronunciava quelle parole. «Mi dispiace» aveva rispoto Mark, voltandole le spalle. Si sentiva in colpa ma nello stesso tempo, nel profondo di sé, le addossava veramente la responsabilità di non aver fatto tutto il possibile, di non aver creduto fino in fondo alla speranza di un futuro migliore, diverso. Un mese dopo avevano avviato le pratiche del divorzio. Su quella decisione aveva pesato in maniera devastante il fatto di non aver avuto figli, nonostante fossero tutti e due fisicamente sani. Avevano provato anche con tecniche invasive ed erano ricorsi ad alcuni specialisti dell’inseminazione artificiale, senza però ottenere i risultati sperati, poi Martine 25 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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si era arresa. Aveva pensato che forse non era quello il destino che quel Dio, che pregava ogni giorno da quando era bambina, aveva previsto per loro. Non capiva perché, ma sapeva che doveva esserci una spiegazione diversa, qualcosa di più grande che a lei, in quel momento, non era dato di comprendere. Doveva per forza esserci un senso però, perché il suo Dio non poteva averla tradita così. Anche se Mark percepiva la sua sofferenza, non le aveva mai perdonato fino in fondo di essersi arresa. Non poteva fare a meno di attribuirle silenziosamente la responsabilità di aver chiuso i loro sogni in un cassetto, buttando via la chiave. Assorta in quei dolorosi pensieri, Martine aveva attraversato la biforcazione di White Ice, imboccando la strada verso il bosco. Sapeva che se Mark le aveva chiesto aiuto doveva trovarsi in un brutto pasticcio. Mark era disteso a terra. La neve, tutt’intorno, aveva assunto un colore cremisi: le ferite al petto e al volto continuavano a sanguinare incessantemente. Si rese conto di non riuscire più a muovere il braccio destro, mentre con il sinistro tentava di recuperare a tentoni il cellulare caduto nella neve dopo che aveva terminato la conversazione con Martine. Ringraziò il cielo di averlo lasciato nel giaccone quando era entrato in casa. Lo sentì squillare nuovamente. Vide la luce del display accendersi e poi svanire nel buio alcuni istanti dopo l’ultimo squillo. Cercò di fare leva sulle gambe, spingendosi con i piedi, ma sembrava non avere forza e a ogni affondo gli scarponi scivolavano sulla neve, rendendo vano ogni suo sforzo. Una dolorosa fitta gli pervase la schiena quando riuscì a raggiungerlo con la mano. Mosse leggermente la testa in direzione opposta e vide la sagoma dell’orso distesa poco più in là. Non respirava più. 26 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
CAPITOLO 3
Mentre sentiva le forze abbandonarlo, ripercorse con la mente quello che era successo e i fatti che lo avevano portato a scontrarsi con il Grizzly, chiedendosi dove avesse sbagliato. Dopo aver sentito i rumori all’esterno della capanna era uscito imbracciando il fucile. Alcuni strazianti guaiti si erano sostituiti ai latrati. Aveva oltrepassato l’auto parcheggiata e si era avvicinato velocemente al sentiero che si srotolava dietro la collina, sparando un colpo d’avvertimento in aria. Il rumore era riecheggiato più volte, fino a divenire un sibilo lontano. Infine era calato il silenzio. Si era spostato di alcuni metri, poi aveva puntato nuovamente il fucile verso gli arbusti e aveva atteso qualche istante. D’un tratto, rischiarata dalla luce della luna, la sagoma di un lupo zoppicante gli si era fatta incontro, seguita da una lunga scia di sangue. L’animale sembrava avere una zampa rotta e il ventre squarciato. Mark lo aveva tenuto sotto tiro fino a quando non era stato a una distanza ravvicinata. A quel punto il lupo era crollato. In un gesto disperato, aveva tentato di caricare il peso sulle tre zampe per alzarsi, ma era ricaduto nella neve. I suoi occhi si erano chiusi subito dopo. Per un attimo il corpo era stato preda di spasmi 27 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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incontrollati, poi non si era più mosso. Mark si era avvicinato con cautela, tenendo sempre la canna del suo fucile puntata sul corpo dell’animale. Conosceva la pericolosità e la fierezza di quella specie: anche se sembrava morto non c’era da fidarsi. Si era chinato e con un leggero tocco gli aveva sfiorato il pelo, mentre con l’altra mano teneva ben saldo il fucile. Il sangue continuava a uscire dal ventre della bestia. Mark aveva notato un lungo squarcio nella parte inferiore del corpo, dal quale sembravano fuoriuscire alcuni pezzi di carne. Scuotendo la testa aveva appurato che era morto. “Deve averlo preso ben bene per ridurlo in queste condizioni.” D’improvviso, mentre la sua mente era impegnata in quel ragionamento, aveva sentito un rumore provenire da dietro. Si era spaventato, ed era scivolato nel tentativo di girarsi velocemente. Dal sottobosco un batuffolo bianco, quasi perfettamente mimetizzato nella neve, era uscito zampettando. Si era avvicinato al corpo inanime del lupo tentando di spostarlo con il piccolo muso. Brevi mugolii si erano levati leggeri. Mark aveva esitato qualche istante, poi lo aveva accarezzato. Senza proferire parola aveva raccolto il fucile da terra e aveva preso il cucciolo sotto braccio per portarlo all’interno della capanna. “Forse è stato questo il mio errore...” pensò, sentendo i suoi occhi chiudersi. “Aver creduto che tutto fosse finito.” Proveniente dalla boscaglia, il Grizzly era apparso come un fantasma silenzioso, avventandosi su di lui. Con le zampe anteriori aveva caricato tutto il peso sulla schiena di Mark, gettandolo a terra. Il cucciolo era stato sbalzato lontano, il fucile era scivolato pochi passi più avanti. Lui era affondato con la faccia nella neve mentre l’orso sembrava osservare incuriosito i suoi movimenti. Si era 28 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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girato lentamente. Aveva visto gli occhi dell’animale farsi sempre più grandi e minacciosi. Il terrore lo aveva paralizzato a terra. D’un tratto il Grizzly si era alzato sulle zampe posteriori. Mark aveva sentito nitidamente il suo ruglio infrangere il silenzio del bosco. Poi aveva provato una fitta lancinante alla spalla destra e un bruciore sulla guancia. La fitta si era trasformata in un dolore insopportabile. Il sangue aveva iniziato ad affiorare dalle ferite che le unghie dell’animale avevano provocato nella sua pelle. Non aveva avuto il tempo di reagire: l’altra zampa si era avventata su di lui, raggiungendolo al bacino. La forza con cui l’orso l’aveva colpito, lo aveva spinto indietro; la sua testa aveva urtato un masso sporgente dalla neve. Mark, dolorante, si era ritrovato accanto al fucile. Lo aveva raccolto mentre l’animale muoveva un passo verso di lui. Aveva avvicinato il muso al suo viso. Mark aveva sentito l’odore nauseabondo del suo alito mentre i suoi occhi terrorizzati incrociavano quelli del Grizzly. I loro sguardi concentrati sembravano dialogare in un silenzioso linguaggio ancestrale. Poi la canna del fucile aveva penetrato la bocca dell’animale; Mark aveva chiuso gli occhi e aveva tirato indietro il grilletto con la poca forza che gli era rimasta. Aveva sentito l’esplosione e si era ritrovato sommerso dal caldo liquido dell’animale. Per fortuna l’impatto del colpo aveva contribuito a rovesciare all’indietro il corpo dell’orso, che altrimenti avrebbe schiacciato sotto di sé l’uomo immobilizzato nella neve. L’animale era rotolato distante. In quel momento Mark aveva sospirato pensando che fosse davvero finita, ma da esperto poliziotto, prima ancora che da cacciatore, sapeva che con ferite così profonde probabilmente non sarebbe riuscito a sopravvivere. Aveva bisogno di aiuto immediato. Si era ricordato del telefono nella tasca del giaccone. L’aveva preso e con il pollice 29 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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aveva digitato il numero di Martine, nella speranza che fosse raggiungibile. Lei aveva risposto. Mentre ripensava alla felicità provata nel sentire la voce di quella donna il dolore era divenuto sempre più forte, poi d’un tratto era sembrato attenuarsi fino quasi a scomparire. Non muoveva più le gambe. Aveva sentito le forze abbandonarlo e non aveva opposto resistenza a quella sensazione di calma che lo aveva pervaso. Aveva chiuso gli occhi e si era lasciato andare. Martine viaggiava cercando di mantenere l’assetto sulla strada ghiacciata. Il tempo e la distanza sembravano dilatarsi all’infinito. Superò il torrente Ottawa e si diresse spedita in direzione della capanna. Vi arrivò in pochi minuti. L’auto di Mark era parcheggiata al solito posto. Notò la porta d’ingresso della capanna semiaperta. Sfilò la pistola dalla fondina del cinturone e si diresse rapida verso il porticato. Regnava uno strano silenzio. Bull, riconobbe la figura che si muoveva dentro la casa. Lanciò un flebile guaito. «Ciao cucciolo...» disse distrattamente Martine, senza guardarlo. «Dov’è il tuo padrone?» domandò mentre, prudente, con una mano girava la maniglia della porta della camera. Mark non era in casa e non c’erano tracce di sangue, quindi pensò che dovesse trovarsi fuori, nei boschi. Si diresse all’esterno. Aprì la portiera della sua auto e prese la torcia elettrica. Si inoltrò nella boscaglia. Le bastarono pochi passi per notare il corpo dell’uomo disteso a terra. Tutt’intorno la neve era impregnata di sangue; pensò che Mark dovesse essere lì da almeno mezz’ora. Si avvicinò, tenendo sempre l’arma ben salda nella mano. «Mio Dio, ma che diavolo è successo qui?» si doman30 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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dò mentre oltrepassava il corpo straziato del lupo. Vide la monumentale massa pelosa dell’orso distesa nelle vicinanze del corpo di Mark e prima di chinarsi su di lui si assicurò che l’animale fosse morto. Quando si voltò capì immediatamente la gravità della situazione. Mark era privo di sensi. Il suo corpo aveva assunto una posizione innaturale, il bacino sembrava uscito dalla propria sede e una brutta ferita, evidentemente provocata da tre diverse incisioni nella carne, partiva dall’orecchio, percorreva tutta la guancia, finendo sulla bocca. Un brandello del labbro inferiore era caduto nella neve, un altro lembo penzolava appena sotto il mento. La ferita al viso era piuttosto profonda, ma non era niente in confronto a quella nella parte sinistra del ventre, dove, attraverso il giaccone strappato, Martine riusciva a vedere la carne viva. Con una mano soffocò l’urlo che le stava uscendo dalla bocca. Prese il cellulare e digitò il numero dell’ufficio. La sua voce usciva singhiozzante. «Pronto... Martine?» Mirna era in evidente apprensione. «Mio Dio... credo... credo... che stia per morire. È... è una maschera di sangue, ha diverse ferite sul corpo e non si sveglia... Mirna, che devo fare?» «Prima di tutto stai calma» rispose l’amica. «Ho chiamato i soccorsi di Oshawa, dovrebbero essere lì in breve tempo. Ho contattato anche Peter, il suo elicottero dovrebbe essere sopra di voi a momenti.» Mirna Loser era stata compagna d’università di Martine; si erano laureate lo stesso giorno. Conosceva molto bene Mark, era stata una delle damigelle d’onore al loro matrimonio. In qualche occasione le aveva invidiato quell’uomo che trovava così affascinante. S’immaginò la scena che l’amica in quel momento aveva davanti agli oc31 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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chi e non poté trattenere la nausea che si mischiava alla preoccupazione. Martine sentì distintamente il rumore dell’elicottero che si avvicinava. Poi vide la luce che ne illuminava la parte inferiore. «Stanno arrivando.» Terminò la comunicazione. Al passaggio del velivolo gli abeti piegavano la testa come a inscenare un reverente inchino. Il faro dell’elicottero illuminò la scena dell’incidente. Martine si alzò in piedi e agitò con forza le braccia per farsi notare dal pilota, successivamente si voltò in direzione dell’ambulanza che si muoveva velocemente verso la capanna. I soccorritori posteggiarono il mezzo vicino alle due auto. Dal veicolo scesero un uomo e una donna, poi accanto a loro un’altra figura si mosse rapidamente, portando una piccola borsa con una croce rossa stampata al centro. Quando arrivarono in prossimità di Martine, compresero subito che la situazione era molto grave. «Cazzo! Cos’è successo?» domandò quello che sembrava essere il medico. Martine aveva ormai gli occhi devastati dalle lacrime. «Non... non lo so.» L’uomo si chinò sul corpo di Mark accostando l’orecchio alla sua bocca. «Respira» disse in tono soddisfatto. «Presto, la barella.» Senza spostare il ferito scrutò attentamente tutto il suo corpo, cercando di valutarne le condizioni. «Brutte ferite. Specialmente quella all’addome. Inoltre credo che abbia il bacino rotto» sentenziò. Cercò di tamponare l’emorragia al ventre. Quando lo caricarono sulla barella, il medico riuscì a toglierli il giaccone, tagliandolo in vari brandelli. Solo allora davanti ai 32 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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loro occhi apparve quell’immagine così raccapricciante: le ferite alla pancia sembravano molto profonde, probabilmente c’erano seri danni a una parte dell’intestino. La carne fuoriusciva dalla pelle. «Dobbiamo muoverci» disse l’uomo guardando con aria interrogativa Martine. Lei annuì. «Vi raggiungo immediatamente» rispose. «Devo fare ancora un paio di cose prima di seguirvi.» L’ambulanza ripartì un minuto dopo, preceduta dall’elicottero che le illuminava la strada con il suo potente faro. Martine raccolse la torcia. A ogni passo la neve si compattava sotto il peso del suo corpo. Prima di seguire Mark in ospedale doveva occuparsi di Bull. Si mosse ancora per qualche minuto intorno al corpo esanime dell’orso. Cercò d’immaginare la scena. Pensò che l’animale avesse attaccato il lupo e Mark fosse intervenuto: era andata sicuramente così. «Ma perché? Perché è intervenuto?» si domandò a voce alta. «E che cosa diavolo ci faceva un orso in questa zona e in questo periodo?» Domande alle quali solo Mark avrebbe potuto dare una risposta. Aveva fatto pochi passi verso la capanna quando sentì qualcosa muoversi vicino a lei. D’istinto estrasse l’arma e la puntò dritta sulla cosa animata che le si faceva incontro. Quando vide il batuffolo bianco a quattro zampe che si muoveva arrancando nella neve, ripose l’arma nella fondina. Si chinò. «Oddio... e tu da dove sbuchi?» Guardò il corpo dell’animale morto. «Era tua madre, piccolino. È così? Era tua madre?» Lo prese tra le braccia. Sentì il pelo morbido solleticarle il mento. Il cucciolo non mostrava paura, non faceva 33 Segmenti Editore © 2016 - Riproduzione vietata
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resistenza. Lo portò dentro la capanna. Bull era ancora acciambellato davanti al camino, proprio come quando era entrata, un’ora prima. Il riflesso delle fiamme ormai flebili si specchiò nei suoi occhi verdi. «Mi dispiace, Bull, ma dovrò portarti con me» disse accarezzando dolcemente l’animale. Il vecchio malamute le lanciò un’occhiata svogliata prima di muoversi con difficoltà per cercare di mettersi seduto. «Credo che il tuo padrone ne avrà per un po’.» Deglutì a fatica quando il pensiero che potesse non farcela le attraversò la mente. “Non pensarci neanche” si disse ammonendosi “Mark è un uomo forte... ce la farà.”
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