Silenzio muto

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Corrado Pace

Silenzio muto Romanzo

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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. © 2017 Segmenti Editore - Francavilla al Mare

In copertina L’attesa (olio su tela) di Corrado Pace

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Ad Annalisa per una vita insieme. A Luca, dimostrazione di come i figli possono essere migliori dei padri. A Lucrezia, luce dei miei occhi.

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Prima nota dell’autore

– La Terra è abbastanza grande. L’ho detto per sorprenderla e... perbacco, se ci sono riuscito! Asia, labbra dischiuse e occhi sgranati in una domanda costellata di pagliuzze d’oro, mi ha guardato stupita. Un lago, quegli occhi, un lago profondo. Capaci di far naufragare un incauto navigante. Per fortuna avevo già accumulato abbastanza anni da poter essere suo padre, e sono rimasto sulla riva. In un primo momento non avevo accettato d’incontrarla, sebbene di solito non mi neghi agli scrittori esordienti che nonostante le difficoltà riescono a contattarmi. Asia stava scrivendo un giallo, genere che non amo in modo particolare. Aveva insistito, precisando che nel suo racconto azione e indagine psicologica erano entrambe presenti, con prevalenza della seconda. – Allora ha scritto un giallo non giallo, un poliziesco che è molto più di un giallo? – le avevo domandato vigliaccamente. Dopo un attimo di perplessità, mi aveva risposto che il suo era semplicemente un racconto poliziesco. La trappola non aveva funzionato.

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A questo punto, per continuare a negarmi, avrei dovuto ammettere di avere dei pregiudizi nei confronti di quel genere di romanzi, cosa che ho sempre negato e che avrebbe richiesto un chiarimento con me stesso circa la presenza dei libri di Manuel Vazquez Montalban nella mia libreria. Per quelli di Asimov la risposta ce l’avevo già. La cosa più semplice era accettare l’incontro. Mi aspettavo la solita richiesta di segnalazione del libro al mio editore, cosa che non avrei fatto. Consigli sì, segnalazioni no. Il fatto è che nessuno mi chiedeva più consigli: tutto quello che c’è da sapere ormai lo insegnano nelle scuole di scrittura creativa. Il loro proliferare se da un lato aveva alleggerito il lavoro dei revisori dei testi di esordienti validi ma digiuni di tecnica narrativa, dall’altro aveva inondato le redazioni editoriali di migliaia di manoscritti di avvocati, medici, giudici, professori, gente comune, saltimbanchi e ballerine che, sia pure con una buona tecnica, parlavano di niente. Asia per fortuna era venuta per un consiglio. Il suo libro non andava avanti perché ambientare la storia in Italia le sembrava troppo domestico, e i nomi italiani inadeguati. All’estero tuttavia non aveva vissuto abbastanza a lungo per potervi ambientare in modo credibile una storia. – La Terra è abbastanza grande, – è stata la mia risposta. Quasi lasciata cadere dall’alto, essa ha avuto l’effetto di accrescere il suo imbarazzo. Tutta la sua persona si è trasformata in un punto di domanda. – Ha letto qualcosa di Asimov? – ho aggiunto. – No, dottor Amato, – ha risposto, – non amo la fantascienza. – Ovviamente. I due generi non vanno d’accordo. Lo stile deduttivo di quello poliziesco non si presta alla costruzione di una storia fantastica, a meno che non si voglia 8 Segmenti Editore © 2017 - Riproduzione vietata


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barare. Asimov, che io sappia, è l’unico scrittore che sia riuscito a conciliarli in modo accettabile. Dovrebbe leggere in proposito Abissi d’acciaio e Sole nudo. Li scrisse dietro pressione del suo editore. Accettò di farlo, ma pose una condizione a se stesso: non penalizzare la propria scrittura mentre immaginava dei buoni polizieschi, leali fino in fondo con il lettore. Niente effetti speciali futuristici, per intenderci. Asia mi ha guardato in silenzio, senza formulare la sua domanda, ma io le ho risposto lo stesso. – Le sto parlando di Asimov perché le sue storie sono coerenti e scientificamente verosimili, senza cedimenti al fantasy, e i suoi personaggi sono credibili in qualsiasi contesto li immerga. “Per scrivere di fantascienza” Asimov sosteneva, “non è indispensabile immaginare mondi e galassie lontani: la Terra è abbastanza grande”. E questo è anche il titolo di un’antologia di suoi racconti. Lasciando con riluttanza l’abbraccio della poltrona in cui ero sprofondato, ho estratto dall’ultimo ripiano dello scaffale il libro in questione. Prima di porgerglielo, ne ho soffiato via un po’ di polvere e l’ho invitata a leggere la quarta di copertina, cosa che ha cominciato a fare in silenzio. – Legga a voce alta, per favore. – Asimov ritiene che non ci sia bisogno di spingersi troppo lontano per incontrare il mistero, la meraviglia e la sorpresa. Perciò, nel preparare questa raccolta dei suoi migliori romanzi brevi, l’ha intitolata ‘La Terra è abbastanza grande’, e vi ha incluso soltanto storie che si svolgono sul nostro pianeta. Rendendomi il libro con un sorriso, ha detto: – Messaggio ricevuto. Qualsiasi città italiana è adatta

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per ambientarvi la mia storia! – Appunto. E non è il nome a dare sangue, vita e verità a un personaggio, badi piuttosto a non farlo parlare come se scrivesse. Nick o Roberto fa lo stesso. – Ha letto dei polizieschi, vedo. O è la fantascienza che le interessa? – Nessuno dei due generi, – ho risposto, – è Asimov che mi incuriosisce. Chimico, divulgatore, scrittore. Ha inventato il Mule, un personaggio che giunge al dominio di intere galassie grazie alla capacità, frutto di mutazione genetica, di condizionare e manipolare l’emotività dei singoli e delle masse. Non manipolazione della volontà, badi bene, ma dell’emotività. Ci pensi e vedrà che non c’è arma più efficace per sottomettere qualcuno. Sulla fronte di Asia, evidentemente non persuasa, è comparsa una piccola ruga e per un attimo i suoi occhi hanno fissato senza vedere. Poi con un rapido battito di ciglia ha momentaneamente accantonato la questione. Avrebbe avuto tempo, più tardi, per tornarci su. Questo mi è molto piaciuto perché non sopporto i bastian contrari che subito ti contraddicono, per amore di polemica, e a volte senza nemmeno lasciarti il tempo di esprimere compiutamente il tuo punto di vista. Se avesse espresso il suo dubbio, cosa che non ha fatto, avrei aggiunto che lo stesso Tolstoj in “Guerra e pace” dice che l’esito di una battaglia non dipende dal numero dei soldati, né dal loro armamento, né dal loro generale, ma da “quella forza indefinibile che si chiama spirito delle truppe”, cioè dallo stato d’animo dei soldati. Asia ha raccolto la borsetta sul grembo ma non si è alzata. Non ha voluto apparire scortese e ha aspettato che lo facessi io per primo. Nell’attesa, ha detto: 10 Segmenti Editore © 2017 - Riproduzione vietata


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– Posso chiederle cosa sta scrivendo? – Il titolo è: ‘Chi ha ucciso Tom?’ Di nuovo l’ho sorpresa e debbo ammettere d’averlo fatto apposta. – Un giallo? – ha domandato. Non parlo volentieri dei miei libri, specialmente mentre li sto scrivendo, ma siccome a quella povera figlia di frasi a effetto ne avevo indirizzate anche troppe, e in fondo mi stava piacendo il suo modo così simile al mio di essere curiosa, per lei ho fatto un’eccezione. – No, – ho risposto. – Anche se Tom è stato effettivamente ucciso e nonostante il titolo, il mio libro non è un giallo. Ed è la pura verità. In questo libro non c’è infatti ombra di poliziotto che indaghi, né a farlo è qualcuno degli abitanti della palazzina di Via Filomanni 11 di Civitella Salentina. Ciascuno di essi, tranne un paio, potrebbe essere il colpevole. Chi sia, se ne avrete voglia, lo deciderete voi, ma scoprirlo non è che sia poi così importante. Se vi va, sarete voi gli investigatori e voi i giudici. Vi avverto però che non ci sono prove nascoste o passi falsi del colpevole. Se giungerete a una conclusione, sarà un vostro convincimento personale basato unicamente sulla personalità dei protagonisti della storia. Se lo farete, vi prego allora di farmi conoscere le vostre deduzioni così che io possa comunicarle anche ad Asia. A me, lo ripeto, la cosa interessa poco perché il libro, in realtà, parla d’altro.

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La morte di Tom

Il giorno in cui morì, erano giusto sei mesi che Tom viveva con Maria Manteca e suo figlio Paolo Di Matteo, al primo piano della palazzina di Via Filomanni 11 di Civitella Salentina, piccola città di mare. La palazzina era stata costruita dal conte Giacomo Aquilino, proprietario di tutto il terreno che va da via Collebrincioni fino al lungomare. Per farlo, s’era avvalso di Lucianetti, noto costruttore di Civitella Salentina, al quale aveva ceduto in permuta parte del terreno. Al progetto aveva provveduto egli stesso, essendo architetto. In precedenza aveva progettato esclusivamente ville circondate da ampi parchi. Nessuno di quei progetti però, tranne la ristrutturazione della grande villa che abitava con la moglie ed il figlio Augusto, fu mai realizzato perché Giacomo Aquilino, conte di Civitella Salentina, proprietario di tutti gli oliveti che a perdita d’occhio si estendevano dal mare fino alle lontane colline, male avrebbe sopportato che altri abitassero case da lui progettate. La palazzina, un gioiello di estetica e funzionalità, era originariamente formata da tre grandi appartamenti, uno per piano e ciascuno con un ampio garage di pertinenza. Il conte l’aveva costruita per assecondare un desiderio di

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Maria Chiara, sua moglie. Il terzo piano destinato a loro e gli altri due al figlio Augusto, per lo studio professionale e per la sua futura famiglia. C’è da dire però che quando la costruzione fu ultimata, Augusto era ancora alle prese, e per la seconda volta, con gli esami di maturità che superò con difficoltà. All’università le cose non andarono meglio e quando quattro anni più tardi, l’autunno in cui sua madre Maria Chiara morì ed entrò nel novero degli studenti fuori corso, non aveva sostenuto nemmeno metà degli esami del secondo anno. Dopo la morte della moglie, il conte non sopportò più la vista delle diciotto stanze vuote della villa e si trasferì in città, nella palazzina di via Filomanni. Augusto non lo seguì e restò in villa, raggiunto dalla fidanzata Filomena che, fingendo di ricambiare il suo sentimento, in realtà era interessata unicamente al patrimonio che il giovane avrebbe ereditato. Niente di nuovo sotto il sole, si sarebbe detto: la furbizia che incontra la dabbenaggine. Invece no. Filomena non si accontentava di uscire dal suo mondo di miseria per entrare in quello dorato di Augusto, voleva impossessarsene. Abbandonò perciò i modi grossolani e sguaiati, spesso volgari, e non consentì più a nessuna parola dialettale di uscire dalla sua bocca. Si finse inappetente e disgustata dalla minima imperfezione dei cibi, buona parte dei quali restava regolarmente nel piatto. Si finse credente. Tutte le domeniche, la testa coperta da un leggero pizzo profumato, si recava a Messa riscuotendo la solidarietà del parroco don Maurizio al quale aveva manifestato il suo cruccio per una convivenza senza matrimonio. Con Augusto invece continuava a dirsi pienamente d’accordo nel non volere né matrimonio né figli. Per un anno fece finta di tutto e Augusto si convinse che lei avesse preso le distanze dal suo vecchio mondo e definitivamente cambiato 14 Segmenti Editore © 2017 - Riproduzione vietata


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abitudini. Fu a questo punto che Filomena calò l’asso che aveva in serbo. Anzi, in grembo. Non prese più pillole e rimase incinta. Augusto si arrabbiò moltissimo, ma credette alla buona fede di Filomena e presto s’adattò all’idea di quel figlio. Però di matrimonio non se ne parlava neppure. Filomena, neanche a dirlo, ancora una volta si disse d’accordo. Cosa c’è da stupirsi, se invece corse subito da don Maurizio? Il buon prete intervenne presso il conte Giacomo che il giorno stesso parlò a suo figlio. Non avrebbe permesso che un Aquilino nascesse fuori dal matrimonio. Augusto non poteva dirgli di no. A Roma ormai andava saltuariamente, tanto per accontentare il genitore, ma di sostenere esami non se ne parlava e alla laurea ci pensava sempre meno. Viveva con la rendita del podere di Scicoli che anche se non gli consentiva follie, era pur sempre ben superiore a qualsiasi stipendio che avrebbe potuto percepire con un buon impiego. A resistere ci provò, ma il padre fu irremovibile: matrimonio o addio alla rendita e all’uso della villa. Filomena naturalmente si finse assolutamente contraria. Si chiuse in bagno, si pizzicò le guance e, simulando una forte agitazione, ne uscì esclamando: – Che c’entra tuo padre? Il matrimonio è una questione nostra! – Amore, lo sai quant’è testardo papà, non cambierà idea. Se non ci sposiamo, addio stipendio. Dovremmo cercare un lavoro tutti e due e lasciare questa casa. Ragionarono in questi termini per alcuni giorni. Le parole magari cambiavano, ma le argomentazioni restavano quelle. Alla fine Filomena finse di lasciarsi convincere, con il volto atteggiato alla sconfitta, ma con il cuore esultante. Era fatta! Nella scommessa aveva rischiato, puntando se stessa, ma aveva vinto! Del resto si era trattato di un rischio calcolato, poiché sapeva di avere in pugno Augusto

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e riteneva bigotto suo padre. In realtà il conte Giacomo Aquilino non era bigotto. A Messa ci andava tutte le domeniche, è vero, ma questo voleva dire semplicemente che era un cristiano coerente, convinto che chi ha fede a Messa ci va perché vuole, non perché deve. Si può essere praticanti, pensava e diceva, anche nutrendo una fede incerta, vaga e non sincera. Osservare i precetti e praticare le devozioni era indizio, non prova di fede. Al contrario, non partecipare assiduamente alla Messa era prova di una fede debole e insicura. Su questo punto il conte, convertitosi in età adulta, più d’una volta s’era trovato in disaccordo con sua moglie, credente e praticante da sempre. – Se uno è invitato, che so, dal sindaco, dal presidente della Repubblica, dal Papa, che fa ci va o no? – le diceva. – E se ci va, lo fa distrattamente oppure è emozionato e comincia a pensare a quell’incontro già dal giorno prima? Un cristiano sa, o dovrebbe sapere, che andando a Messa incontrerà Gesù. E Gesù è più o meno del sindaco, più o meno di un presidente, più o meno del Papa? Maria Chiara gli rispondeva invariabilmente con un sorriso, accettando quell’intransigenza con la stessa semplicità e naturalezza con cui prima accettava il suo ateismo. Augusto e Filomena dunque si sposarono. Per lei quel matrimonio non rappresentava un lieto fine, il coronamento di un sogno, ma solamente una tappa importante di un progetto ben più ambizioso. I due fratelli del conte Giacomo erano entrambi morti senza prendere moglie, così Augusto restava l’unico erede del titolo e delle sostanze degli Aquilino. Alla morte del padre sarebbe rimasto senza famiglia. Avrebbe provveduto lei a dargliene una nuova: la sua. Tanto per cominciare, sin dal giorno del matrimonio 16 Segmenti Editore © 2017 - Riproduzione vietata


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sua madre Adelina aveva preso a trascorrere in villa l’intera giornata. Che c’è di strano, una figlia incinta andrà pure assistita! Ogni mattina il marito Amilcare l’accompagnava, per poi tornare a riprenderla. Dopo qualche tempo, ma solamente per rendersi utile con qualche lavoretto, si capisce, Amilcare prese a trattenersi un po’ più a lungo finché, e Augusto non avrebbe saputo dire con esattezza da quando, cominciò a fermarsi anche lui tutto il giorno. Per debilitare un organismo sano senza provocare crisi di rigetto, il veleno bisogna somministrarglielo a poco a poco, con dosi progressive, questo si sa. Perciò fu molto gradualmente e a intervalli piuttosto lunghi che i genitori di Filomena cominciarono a fermarsi nella villa anche per la notte. Con l’avvicinarsi della data del parto quegli intervalli si fecero sempre più brevi, fino a scomparire del tutto. Quando nacque la piccola Elena, i suoi nonni materni ormai s’erano già piazzati in pianta stabile nella villa che diventò meta di quotidiane intrusioni da parte degli altri numerosi parenti di Filomena, e sempre più spesso capitava che qualcuno di essi si fermasse anche a dormire. Diciotto stanze, figuriamoci! Anche il dialetto un po’ per volta tornò sulle loro bocche, ed era un dialetto stretto che in principio Augusto faceva fatica a decifrare. Imparò presto a non lamentarsene più, però, evitando così alterchi con Filomena che invariabilmente si concludevano con musi lunghi, porte sbattute e silenzi astiosi. Tanto, era sempre lui a dover cedere e chiedere scusa. Che Filomena avesse preso in pugno la situazione se ne rendeva conto, ma in fondo la cosa non gli dispiaceva: era così comodo lasciare che fosse lei a decidere e occuparsi di tutto. Bastava assecondarla, e in casa filava tutto liscio e si viveva tranquilli. Filomena naturalmente era fiera di sé.

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Con Augusto saldamente in pugno, doveva solamente attendere che il conte Giacomo si decidesse finalmente a morire. Non era molto avanti negli anni, purtroppo, ed era ancora vigoroso e in buona salute, ma alla provvidenza, si diceva, non bisogna mai porre limiti. I conti, però, li aveva fatti senza l’oste. Anzi, senza il conte Giacomo Aquilino, che non era stupido. Ben presto al conte alcune cose cominciarono a non quadrare più. Per esempio, il fatto che la domenica non incontrasse più la nuora a Messa. In principio poteva trattarsi della gravidanza, ma dopo la nascita di Elena? Che fine aveva fatto la sua fede? Gli tornò anche in mente un episodio avvenuto quando Filomena, che da poco conviveva con Augusto, era venuta a trovarlo in via Filomanni. Una visita di cortesia. Gli aveva espresso tutto il suo rammarico per lo scarso impegno che Augusto metteva nello studio, nonostante i suoi tentativi di persuaderlo a essere più diligente. Seduta nel salottino di fronte a lui, aveva accavallato le gambe in modo che, fingendo di coprirle, di lato restasse in vista l’intera coscia. Aquilino notò il gesto che ben conosceva in donne esperte, ma non volle darvi peso, continuando a parlare guardandola in viso. Filomena aveva allora cominciato a dondolare il piede sollevato, come se avesse voluto in ogni modo attirare il suo sguardo, anche a costo di uscire allo scoperto. Giacomo Aquilino ebbe netta la sensazione che tutto quel teatro di parole e gesti fosse finalizzato a creare una sorta di complicità fra loro due e conseguentemente una piccola frattura tra lui e Augusto. Non si sbagliava, ma allora scacciò e rimosse quel pensiero che ora però gli tornava in mente. Decise allora di vederci chiaro e per la prima volta dalla morte di Maria Chiara andò in villa. Gli aprì Adelina. – Stavo giusto prendendo il tè, vieni, accomodati, servi18 Segmenti Editore © 2017 - Riproduzione vietata


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ti pure, – gli disse precedendolo in salotto. Il conte sedé sulla poltrona indicatagli, ma si guardò bene dal servirsi il tè da solo. La nuora gli mandò i saluti dalla camera da letto dove passava le sue giornate, tanto alla casa ci pensava sua madre. Da quella stanza usciva solamente quando arrivavano le sorelle. Augusto stava ascoltando con aria deferente un racconto di mafia del suocero Amilcare, mentre bevevano birra. Il conte Giacomo Aquilino notò i bicchieri poggiati senza piattino sul piccolo tavolo del settecento. In silenzio osservò Adelina bere con lunghi sorsi il tè, il mignolo ben alzato, in una delle tazze di Limoges che sua moglie usava solamente per gli ospiti di riguardo. Si stupì di non sentire un risucchio. – Che piacere questa visita, – disse Adelina, nettandosi con il dorso della mano il labbro superiore, azzurrino per i baffi da poco rasati. – Così inaspettata poi. Hai fatto bene a venire, bisogna vincere la malinconia! Ma non hai preso il tuo tè. Vuoi dei biscotti? Non fare complimenti, tutto quello che vuoi! Il conte Giacomo Aquilino osservò in silenzio quella donna che gli stava facendo gli onori di casa, come se l’ospite fosse lui e lei la padrona. Guardò Augusto. Era evidente che per il figlio l’atteggiamento di Adelina fosse perfettamente normale. Dunque si trattava di ruoli già definiti e ormai accettati in quella casa. – Nulla, grazie, – rispose, – sono passato per un rapido saluto. – E si alzò. Amilcare fece la mossa d’alzarsi anche lui, senza però completare il gesto. Augusto salutò agitando la mano con cui reggeva il bicchiere. Di Filomena e della piccola Elena neanche l’ombra. Adelina l’accompagnò fino all’ingresso, ma non alla porta: i tempi in cui andava a servizio da uno

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dei fattori del conte erano ormai finiti. Il conte Giacomo Aquilino era andato per vederci chiaro, e ci aveva visto chiarissimo. Tornando a casa, prima ancora d’imboccare via Filomanni, aveva già preso la sua decisione. Il giorno dopo si recò, senza appuntamento, dal notaio Sperandini, vecchio amico che da un paio d’anni gli stava appresso perché vendesse qualche oliveto. Glielo chiedeva per conto di una società svizzera, che rappresentava. La sala d’attesa era piena, ma fu ricevuto subito. – Che spalle ha la società che vuole i miei terreni? – esordì entrando. – È solida e solvibile, stai tranquillo. Ti sei deciso? – Che sia solvibile è ovvio, se curi tu i suoi interessi. Che spalle robuste ha? – Che intendi? – Ce la fa a comperare tutto? – Tutto cosa? – Tutto. Case, campagne, terreni, piante. Tutto. Voglio vendere la nuda proprietà di tutto, anche della palazzina di via Filomanni. Sperandini lo osservò a lungo in silenzio. No, Aquilino non stava scherzando, cosa del resto non da lui, specialmente su una questione del genere. Non chiese perché, la finalità era evidente: se si dispone di abbastanza tempo, una somma di denaro, anche di quelle dimensioni, può essere dispersa prima che rivendicazioni di quote legittime possano venire accampate. – Anche la villa? – chiese a conferma, – e anche Scicoli? – Ho detto tutto. Ce la fa? – Sì, ce la fa. Ce la farebbe anche ad acquistare la pro20 Segmenti Editore © 2017 - Riproduzione vietata


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Prima Edizione: 2017 ISBN 9788899713089 © 2017 Segmenti Editore - Francavilla al Mare Psiconline® Srl - 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A

Sito web: www.segmentieditore.it e-mail: redazione@segmentieditore.it

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Finito di stampare nel mese di Aprile 2017 in Italia da Universal Book - Rende (CS) per conto di Segmenti Editore (Marchio Editoriale di Psiconline® Srl)

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