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di Andrea Barbetti

CAMPIONI

Un coach di basket, arrestato per guida in stato di ebbrezza, è costretto ad allenare per tre mesi una squadra di giovani con disabilità. Remake del film spagnolo del 2018 “Non ci resta che vincere”, tratto da una storia vera

Abbasso il remake! Viva il remake! L’hater dirà: in estate chi scrive s’è flashato mojiti a Ibiza ed ora posta il già visto; vergogna! Macché. Tra mille film sciolti nell’afa è sbucato un soggetto che parte da “Campeones” – oltre tre milioni di spagnoli in sala nel 2019 – e arriva all’arguzia di un Bobby Farrelly in debutto solitario in regia dopo scorrettissime commedie come “Scemo+scemo” e “Tutti pazzi per Mary”, firmate a quattro mani col bro Peter. Risultato? Una copia originale, due ore che per vitalità, divertimento, emozioni variano con intelligenza un canovaccio noto. Parliamo di Markus Marakovich, coach sopravvalutato ma solo da sé stesso e secondo allenatore di basket in una categoria ultra minore. Caratteraccio impossibile, legami sociali e sentimentali da terzo tempo sbagliato senza difensori.

Si fa cacciare dalla squadra e ha la bella idea di prendere in pieno la volante della polizia dell’Iowa. La giudice lo affida ai servizi sociali: almeno per 90 giorni dovrà allenare una squadra di ragazze e ragazzi affetti da disturbi psichici o malattie genetiche e guidarla nel campionato di categoria. Per uno che si sente nato per l’NBA il primo contatto con loro è da alieno. Solo un attore come Woody Harrelson – avete presente “Natural born killer” e “Non è un paese per vecchi”? – sarebbe stato capace di portare in palestra e per strade innevate e dentro case di dignitosa decadenza la faccia stralunata di un allenatore alle prese con un gruppo che più scoordinato non si può: e Woody è infatti un Markus da Oscar! Certo la storia è piuttosto lineare: si comincia da scontri e incomprensioni e si finisce tra abbracci, lacrime e amore.

Il regista sa coniugare la vena irriverente delle sue precedenti commedie ad un tema che l’America di oggi prescrive di trattare coi guanti del politicamente corretto: la disabilità. Ne esce un film molto godibile, che sa unire sport, amore, amicizia, tradimenti, illusioni, disincanto, un racconto verosimile quanto basta per il cinema, perché, bene ricordarlo, si parte da una storia reale accaduta anni fa alla squadra di basket spagnola Aderes Burjassot e al suo allenatore.

Nel mezzo del parquet, sotto canestro, sull’eccentrico pullmino che li porta in trasferta, troviamo autentiche persone con disabilità fisiche e mentali: “ognuno a rincorrere i suoi guai, ognuno col suo viaggio e ognuno diverso, perso dentro i fatti suoi”. Proprio come quell’irriverente incompiuto di Marakovich, l’allenatore nel pallone a spicchi, che per fortuna loro e nostra, un giorno, decide di mettere l’umanità al centro del villaggio.

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