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Il viaggio educativo di don Claudio Burgio

Accoglienza, sport e comunità

di Leonio Callioni e Laura Sanvito

UN DIALOGO APPASSIONATO PER SPIEGARE COME IL VERO CAMBIAMENTO NASCA DALLA CAPACITÀ DI ACCOGLIERE E DALLA VOLONTÀ DI NON TEMERE CIÒ CHE È DIVERSO

Di questi tempi uno dei temi più dibattuti è quello del disagio giovanile e delle sue conseguenze. Si tratta di un tema delicato, da affrontare con rispetto e amore, ma anche con tanta umiltà, perché una soluzione univoca non esiste. Ogni percorso verso il dialogo e la valorizzazione di tutte le età nella nostra società è come una lunga escursione in montagna: ci vogliono costanza, rispetto e una volontà indomita di “aprirsi”. Abbiamo quindi deciso di incontrare don Claudio Burgio, fondatore e Presidente dell’associazione Kayrós, che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti. Appassionato di musica, che vive anche come strumento di relazione con i giovani, don Claudio, dopo dieci anni di parrocchia sempre coinvolto nella pastorale giovanile degli oratori, è diventato collaboratore di don Gino Rigoldi come cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano.

Eccoci qua con don Claudio Burgio, sacerdote che, nella sua missione, ha incontrato i giovani come vicario parrocchiale, o “coadiutore”, come si dice nella sua diocesi. Esatto. Quando ero coadiutore, come diciamo noi, nelle prime parrocchie dove facevo il prete dell’oratorio, ho incontrato anche il CSI e per me lo sport è sempre stato un metodo educativo, uno strumento importantissimo. Fin da quando ero giovane prete nel primo oratorio in periferia di Milano, ho allenato i ragazzi. Ho anche conseguito il patentino del CSI e fatto molte attività con l’Associazione, oltre ad aver anche allenato i ragazzi dell’oratorio CSI.

Lì è nata l’idea di Kayrós?Fondamentalmente sì, da lì è nata anche la storia di Kayrós. Uno di questi ragazzi era un minore straniero non accompagnato, arrivato dal Camerun. Si chiama Alain, era un giovane calciatore importato clandestinamente dall’Africa e messo a disposizione dei grandi Club. Quando poi è stato abbandonato per strada, un giorno ha visto un campo da calcio e un campanile: è entrato ed era il mio oratorio. L’abbiamo ospitato, inserito nella nostra squadra di calcio, e ha fatto il campionato con noi. Da lì è iniziata anche l’avventura di Kayrós, perché questo ragazzo è stato il primo ospite della Comunità. Dallo sport siamo passati a un intervento sociale per aiutare lui e tutti gli altri che poi sono venuti ad abitare con noi. Sono ormai 25 anni che accogliamo i ragazzi in Comunità.

Come sono cambiati i tempi? Com’era l’accoglienza della comunità, rispetto a questo ragazzo, allora e come è invece oggi?La cosa incredibile è che all’epoca questo ragazzo sia stato accolto dalle famiglie a turno. Anzi a quei tempi forse era ancora normale. Oggi sarebbe impensabile. In effetti, la Comunità è nata per regolarizzare questa accoglienza, perché comunque Alain era sempre un clandestino, un ragazzo senza documenti. L’accoglienza si basava troppo sull’emotività, sul proprio cuore e sul cercare di vivere il Vangelo in un certo modo. Poi l’accoglienza da parte dei ragazzi stessi e delle famiglie che ospitarono Alain a turno ha dato vita all’associazione Kayrós. Oggi Alain non solo è padre di tre figli, ma è anche nostro educatore e l’allenatore della nostra squadra. Ovviamente il calcio per lui è rimasto un’esperienza bella e significativa. Purtroppo, oggi c’è una tendenza alla chiusura verso ciò che rappresenta il diverso, il lontano. Questa idea dello straniero come fonte di minaccia o paura, seppur presente anche all’epoca, oggi è molto più forte. Anche nelle società sportive e negli oratori c’è una tendenza a chiudersi, ad escludere ragazzi che appartengono a storie diverse da quelle definite “normali”, a restare in una bolla di protezione che illude i genitori e gli adulti che questa sia la strada per educare bene i figli. Io non la penso così, perché vedo che più ci si chiude e più i ragazzi crescono insicuri quando devono confrontarsi con la realtà. La realtà, a scuola o in altri contesti, è fatta comunque di persone diverse. Per quanto cerchi di proteggere tuo figlio in un ambiente chiuso, non lo stai davvero preparando alla vita. Anche lo sport, se rimane un ambiente aperto e inclusivo, può essere un vero esercizio di adultità futura. Se invece l’ambiente sportivo è chiuso e restrittivo, non educa al futuro.

Cosa intende quando dice “ambiente sportivo chiuso e restrittivo”? Come può l’ambiente sportivo essere così? Perché le società sportive fanno fatica, come gli oratori del resto, come le scuole. Tutti facciamo fatica con questi giovani. Ci sono ragazzi, anche se non sono stranieri, ma italiani o di seconda generazione, che sono comunque difficili, che non appartengono ai nostri valori condivisi, magari non sono seguiti a casa, quindi arrivano anche da contesti svantaggiati. Oggi la povertà educativa ed economica è abbastanza evidente, per cui ci sono ragazzi che non si uniformano a quello che la società sportiva o l’oratorio rappresenta. Tendenzialmente qual è il pensiero? O si uniformano ai nostri schemi, al nostro modo di fare sport, di essere oratorio, oppure qui non ci devono stare. Io invece penso che una società sportiva, un oratorio, possa crescere solo se si apre anche a nuovi ragazzi e quindi a nuovi valori. Per esempio, il fatto di avere anche dei ragazzi musulmani oppure ragazzi di seconda o terza generazione è chiaro che può rappresentare una difficoltà, ma questo non può che far crescere la società sportiva e chi deve provare a dare un’educazione che sia interculturale, aperta alla prossimità e non chiusa.

Le strutture hanno difficoltà ad adattarsi a una dinamica sociale in rapido cambiamento. Ci ha già spiegato il rapporto con la comunità. E con le istituzioni invece, quelle direttamente coinvolte nei temi dei giovani e della fragilità, com’era allora e com’è oggi?Beh, le istituzioni per antonomasia sono quelle storiche e tradizionali: la famiglia, lo Stato, la Chiesa e la scuola. All’epoca, parlo di 2530 anni fa, queste realtà spesso coincidevano e vivevano un rapporto molto spontaneo. C’era una stretta collaborazione tra figure come il prete, il sindaco, gli enti locali e la scuola, soprattutto nei piccoli territori. Oggi si fa un grande sforzo in questa direzione, e c’è la consapevolezza dell’importanza di lavorare in rete; tuttavia il processo risulta complicato a causa di un certo livello di autoreferenzialità e individualismo tra le istituzioni, che spesso impedisce una vera collaborazione per il benessere dei ragazzi. Ciò nonostante, esistono esperienze virtuose di realtà che collaborano efficacemente; e, quando questo accade, si riesce davvero a incidere positivamente su un territorio. In questo modo, i ragazzi non si sentono più dispersi o isolati, ma percepiscono un’importante rete di supporto attorno a loro. Per questo, è fondamentale continuare a promuovere il lavoro in rete. Non è sempre facile, soprattutto perché oggi le figure di riferimento cambiano continuamente. In passato c’era maggiore stabilità: ad esempio, l’assistente sociale o l’insegnante rimanevano spesso la stessa persona per decenni. Oggi, invece, assistiamo a un ricambio costante delle figure adulte di riferimento. Ogni volta, anche nei lodevoli tentativi dei Comuni di riunire diverse realtà, comprese quelle del Terzo Settore, ci troviamo di fronte a un ricambio continuo degli interlocutori a causa della conclusione dei progetti. Sebbene i finanziamenti siano assolutamente utili, rappresentano anche un limite: la loro breve durata spesso porta a iniziare molti progetti che finiscono nel giro di pochi mesi. Alla fine del finanziamento, non rimane nulla, e ci si ritrova a dover ripartire da zero. Questo vale anche per i quartieri a rischio di Milano, San Siro per esempio. Non possiamo dire che non ci siano stati interventi in questi anni, ma tutti poco lungimiranti, di breve durata, che quindi non hanno creato davvero un cambiamento del quartiere. Sono tutti a spot, tutti interventi che, sì, intervengono sull’emergenza, sulla contingenza, ma non hanno un respiro ampio. Questo è un po’ il guaio di certi finanziamenti o di bandi a durata molto breve che non riescono a trasformare un territorio, una situazione. Ci si raduna insieme solo quando ci sono i soldi — pochi, per la verità — e allora a quel punto si è tutti interessati a sedere a quei tavoli di concertazione. Poi, quando il finanziamento finisce... Mi sono sempre chiesto: ma quei soldi, quei finanziamenti, a chi vanno realmente? In teoria, sono messi a disposizione dallo Stato per i ragazzi, per lo sport, per varie iniziative. Tuttavia, spesso finiscono per coprire le spese degli adulti che progettano questi servizi. I servizi stessi, poi, tendono a spegnersi rapidamente perché i finanziamenti sono limitati e di breve durata. La maggior parte dei fondi viene impiegata altrove, non direttamente per i ragazzi, ed è questo il problema principale che noto.

Lo sport si fonda sulle regole e, in qualche modo, richiede ai ragazzi di rispettare un insieme di norme condivise. Qual è il motivo, la magia, per cui i giovani, nello sport, si sentono supportati nel seguire queste regole, mentre nella società questo non accade? Cosa rende lo sport così speciale?Beh, innanzitutto, la regola ci vuole perché non c’è una libertà vera senza vincolo. Quindi anche nel mondo dello sport è importante, imprescindibile, che ci siano regole. È anche vero che la regola da sola non basta; la legge dei codici nella società, nello Stato, come nell’ambito sportivo, non è sufficiente da sola per aiutare un ragazzo a cambiare, per includerlo, per aiutarlo a fare gruppo se sono sport di squadra... L’altra parte è costituita dal rapporto educativo con un adulto. Chi è l’interprete della legge? Chi riesce a significare la legge, a dare un motivo per cui bisogna stare dentro le regole, se non l’adulto, l’allenatore, il dirigente, colui che, nella società sportiva, aiuta i ragazzi a percepire la necessità di una legge, proprio perché senza regola non si vince? Quindi, a un certo punto, l’adulto è chiamato non semplicemente ad affermare la regola fine a sé stessa, ma a far capire, attraverso la propria azione, il proprio esempio, la propria testimonianza, come la regola sia anche un’occasione d’oro per fare squadra, per poter svolgere un cammino di senso e per educare fondamentalmente. E anche per vincere perché, nell’ambito degli sport a squadre, se non ti dai delle regole c’è poco da fare. Puoi avere anche tanti campioni, ma, se il gioco non si organizza intorno a qualche regola, non si vedono nemmeno i risultati.

Quanto è importante, secondo la sua esperienza, che un ragazzo percepisca l’amore dell’educatore nei suoi confronti? Intendo dire, quanto è fondamentale che il ragazzo si senta valorizzato come persona, indipendentemente dai risultati ottenuti, ma sapendo che è comunque amato e apprezzato? Questo è fondamentale. E dipende da quali sono le motivazioni che spingono un adulto a mettere a disposizione il proprio tempo dentro una società sportiva. Perché c’è chi lo fa per una passione personale, chi lo fa per ottenere risultati, e chi invece è davvero mosso da una passione educativa e vuole aiutare questi ragazzi. È fondamentale aiutare ogni società sportiva a comprendere con chi collabora, chi sono i collaboratori, quali sono le loro motivazioni, quali obiettivi condividono e quali sono i loro obiettivi personali. Tu fai l’allenatore perché? Che obiettivi ti dai? Se gli obiettivi sono esclusivamente legati alla prestazione sportiva, diventano limitanti. Quando i risultati non arrivano, purtroppo emerge l’altra faccia della medaglia: accuse, giudizi e difficoltà nel gestire i rapporti con i ragazzi. È importante che ogni società sportiva rinnovi periodicamente la consapevolezza del proprio ruolo: capire perché esiste, quali sono le motivazioni che spingono allenatori, dirigenti e adulti ad esserci, e qual è l’obiettivo comune da perseguire. I ragazzi percepiscono immediatamente le nostre vere motivazioni, spesso meglio e più rapidamente di noi adulti. Se replichiamo ciò che purtroppo accade in molte famiglie e scuole, dove l’unico valore è la prestazione e il risultato, non stiamo realmente educando o aiutando. Oggi siamo immersi in una cultura del profitto, una dittatura del risultato in cui il valore di una persona è determinato dalla sua capacità di produrre risultati. E allora ecco che abbiamo bisogno di allenatori adulti che invece offrano uno spunto diverso, uno sguardo diverso su come accogliere e recepire i ragazzi, con o senza risultati. I risultati variano: alcune squadre, calcisticamente parlando, potrebbero avere come massimo traguardo arrivare a metà classifica. Ed è giusto così, quello sarà il loro obiettivo. Non è necessario inculcare l’idea che debbano sempre arrivare primi, ma piuttosto riconoscere che ogni squadra e ogni atleta ha i propri obiettivi, misurati in base alla realtà. La realtà è la migliore maestra, non i sogni o le aspettative degli adulti. Bisogna far capire ai ragazzi che ognuno ha il proprio percorso e, come squadra, dobbiamo puntare al massimo obiettivo che sia realisticamente raggiungibile.

Lei dice che per i ragazzi di oggi l’adulto è irrilevante. Può aiutarci a capire meglio Dicendo “adulti”, parliamo anche di educatori, allenatori. In che senso possono risultare irrilevanti? Lo dico perché sono i ragazzi stessi a dirmelo. Ovviamente, il mio contesto riguarda ragazzi con situazioni particolari, ma credo che il mio punto di osservazione, sia qui in Comunità che al carcere minorile, sia abbastanza rappresentativo e fornisca molti spunti. L’adulto è irrilevante quando non aggiunge nulla di nuovo a ciò che i ragazzi già conoscono. Tradotto nell’ambito sportivo, se un allenatore non è competente e non ti dà la sensazione di insegnarti qualcosa che non sai, quell’adulto è irrilevante, inutile. Ricordo che in passato criticavo molto questa situazione, ma devo dire che si sono fatti dei progressi, anche all’interno del CSI. Tuttavia, la competenza e la formazione rimangono fondamentali. Se chi allena una squadra di bambini non ha né formazione né competenza, inizialmente può anche funzionare, ma presto il bambino si rende conto che non può imparare nulla di nuovo, né ricevere affetto o competenza tecnica. A quel punto, semplicemente, smette di ascoltare e perde interesse. Per scendere nel concreto, avendo fatto l’allenatore anch’io, posso dire che, se un ragazzo entra in un campo senza trovare attrezzi pronti, senza una chiara idea di allenamento o una preparazione adeguata, facilmente si perde: prende il pallone, lo calcia e fa ciò che vuole. Tutto parte da una preparazione remota: io allenatore devo capire che obiettivi ho in quell’allenamento, cosa voglio trasmettere. Può essere un gesto atletico, un gesto tecnico, ma devo darmi degli obiettivi. Altrimenti, se questi ragazzi entrano in campo e l’unica proposta è “facciamo una partitella e basta”, tutto si sfalda. Questo è il problema; ancora di più per questi miei ragazzi che sono sregolati per antonomasia, sono ragazzi che non hanno regole, non le hanno osservate, hanno commesso dei reati, quindi sono piuttosto refrattari a vivere dentro un contesto organizzato, già stabilito. Invece, quando l’ambiente è ben strutturato e l’attività sportiva è preparata con cura, i ragazzi partecipano con grande entusiasmo e attivamente. L’allenamento al Beccaria, quando è stato svolto con il CSI, è sempre stato ben preparato e coinvolgente per i ragazzi, che si sentono parte di un’azione collettiva e supportata da adulti competenti. Quando i ragazzi sentono che possono fidarsi, allora non sei più irrilevante. Purtroppo invece l’improvvisazione è ancora troppo comune in molti ambiti di allenamento. In quei casi si perde l’attenzione dei ragazzi, perché ciò che loro si aspettano è un allenamento strutturato e ben organizzato. I ragazzi chiedono competenza, non bisogna sottovalutarli, nemmeno quelli del Beccaria, nemmeno quelli che magari sono sregolati e quindi ti danno la sensazione di non partecipare. Invece partecipano eccome, quando ci sono cose organizzate bene.

Come CSI realizziamo vari progetti nelle carceri, ma, secondo lei, qual è il tipo di progetto che funziona davvero e porta beneficio ai ragazzi? È sufficiente portare tecnici preparati o serve anche essere educatori, oltre che allenatori qualificati? Che cosa funziona meglio?Quello che, secondo me, funziona oggi in un carcere è certamente il prepararsi bene, ma in vista di qualcosa. Quindi la cosa più importante oggi sarebbe permettere al mondo delle società sportive di accedere al Beccaria. Molti anni fa questo era possibile: c’era persino una squadra del Beccaria, composta da agenti di polizia penitenziaria e ragazzi detenuti, che partecipava regolarmente al campionato a 11, con la possibilità di fare trasferte. Successivamente, tuttavia, a causa di una crescente attenzione alla sicurezza e al regime blindato, tutto questo è stato interrotto. Oggi, per molte ragioni legate al Beccaria e agli eventi recenti, è complicato organizzare persino un allenamento, poiché si evita di riunire dieci ragazzi insieme, temendo possibili episodi di violenza o disordini, invece di avere fiducia che, se si offre loro un’attività positiva, possano partecipare senza problemi. Questa paura di perdere il controllo e la preoccupazione per la sicurezza rendono l’attività sportiva al Beccaria un’opportunità riservata a pochi, talvolta solo a due, tre o quattro ragazzi. Questo, ovviamente, limita il CSI e altre organizzazioni nello svolgere attività significative. Lo stesso vale per il rugby e altre discipline che purtroppo, al momento, non riescono a coinvolgere numeri adeguati. La soluzione migliore sarebbe questa: non necessariamente un campionato, se non è fattibile, ma sicuramente delle amichevoli o piccoli tornei interni. E sarebbe utile per due motivi: primo, per i ragazzi del Beccaria, che vedono concretizzarsi la loro preparazione e il loro allenamento attraverso un’esperienza reale sul campo. Ma soprattutto per le società sportive e i loro ragazzi: in un’ottica di prevenzione, entrare in un carcere minorile e giocare una partita con i ragazzi detenuti è un’esperienza profondamente arricchente, che offre una lezione di vita importante. Non si tratta di creare paura, ma di far capire cosa significa realmente aver sbagliato e vivere in quelle condizioni. Io favorirei moltissimo questo rapporto tra le società sportive fuori e un’eventuale società sportiva interna alle carceri.

Dice “eventuale” perché non esiste?Esatto, attualmente non esiste. La nostra Comunità è chiaramente penale e accoglie i ragazzi del Beccaria. Appena hanno la possibilità di uscire, molti vengono qui. In questo momento, la nostra società sportiva Kayrós rappresenta, in un certo senso, il Beccaria, con tutte le difficoltà e le espulsioni che questo comporta. Tuttavia, a volte questo viene compreso e valorizzato, ed è qualcosa di positivo. Quando lo scambio con le società sportive è motivato non da obiettivi educativi, ma solo dalla volontà di ottenere risultati, questo diventa evidente. In questi casi vediamo ancora genitori agitarsi sugli spalti e allenatori incitare i ragazzi a “non aver paura di quelli del Beccaria”, creando le condizioni per situazioni complesse. Al contrario, quando una società sportiva ha chiari obiettivi educativi, vi è una preparazione preventiva, uno scambio costruttivo, e magari anche un momento di riflessione dopo la partita. In questi casi allora lo sport diventa un vero strumento di educazione. Cioè, se l’obiettivo diventa solo dimostrare che “noi siamo più forti di quelli del Beccaria”, allora si entra in un terreno pericoloso. È davvero rischioso, perché si finisce per mettersi sullo stesso piano dei ragazzi, ed è ancor più grave quando questa dinamica viene guidata o incoraggiata da un adulto. Non è sempre facile evitare queste situazioni. Tuttavia, ci sono anche bellissimi esempi in cui, nonostante la partita sia stata tesa, dopo ci si ritrova insieme per bere qualcosa e tutto si conclude serenamente.

Con la squadra di Kayrós riuscite a partecipare regolarmente al campionato con i ragazzi?Sì, sì. Noi siamo da sempre iscritti al campionato CSI. Quest’anno abbiamo due squadre, una degli ex ragazzi e una dei ragazzi attuali, e quindi partecipano. Fino a qualche anno fa partecipavano e vincevano. Adesso è un disastro, però vabbè... (ride). La paura che degenera è uno dei problemi della nostra società: l’allarmismo e la paura dell’altro, del diverso, contribuiscono a moltiplicare i comportamenti violenti. La paura porta all’isolamento e l’isolamento aumenta solo le distanze e le incomprensioni. Lo sport, invece, può essere un ponte straordinario se praticato con apertura e con l’obiettivo di includere, mai di escludere.

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