10 minute read

«Lo sport? Una poesia performante»

«Lo sport? Una poesia performante»

Ad un anno dal Giubileo, intervista a tutto campo con il Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione

di Felice Alborghetti

IL CARDINALE JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA, RIVOLGENDOSI AL MONDO GIOVANILE DEL CSI, USA IL LINGUAGGIO DELLO SPORT E DELLA POESIA. AI DIRIGENTI E AGLI ALLENATORI RICORDA: «IL SEGRETO DELL’EDUCAZIONE È AMARE; EDUCARE È UN ESERCIZIO DI SPERANZA. LO SI VEDE BENE NELLA PRATICA SPORTIVA»

Da più di un anno è stato nominato dal Papa Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione. È un grande appassionato di calcio il cardinale José Tolentino de Mendonça. Ad un anno dal prossimo Giubileo, Stadium lo ha avvicinato per promuovere lo sport come espressione di cultura e opportunità di crescita sociale secondo l’insegnamento di Papa Francesco. Il porporato portoghese usa il linguaggio dello sport e della poesia per parlare con noi di atleti e di giovani.

Lo sport, si afferma spesso, è visto come scuola di vita o esperanto del mondo. Possiamo dirlo?

Sì. Lo sport è veramente scuola di vita, perché il corpo rappresenta l’espressione della totalità della persona. Non si tratta solo di fisicità, ma di un’attività in cui tutti gli aspetti umani sono coinvolti: così, dunque, nel movimento dei piedi c’è anche quello del cuore, della testa, dell’anima... Tutto ciò ci permette di apprendere l’arte dell’essere non solo un bravo praticante in una determinata disciplina, ma soprattutto una bella persona.

Atleta non solo muscoli, quindi, ma cuore, interiorità, anima e sogni. Come dialogano in questo momento sport, educazione e cultura?

Mi piace pensare alla metafora della palestra, in cui i nostri muscoli sono messi alla prova nello sforzo fisico per guadagnare flessibilità. Nella tradizione monastica, cristiana, si parla molto della lotta spirituale che è una sorta di judo dell’anima che prepara a diventare più attenti nei confronti della vita in generale. Dunque lo sport ci prepara a cose più grandi, che non sono solo fare una corsa o affrontare una partita, ma riuscire ad avere una visione del mondo che ci permetta di comprendere e vedere ciò che ci accade sotto angolature nuove, per avvicinarci ad orizzonti sempre più ampi, rendendo lo sport un’attività culturale, un orizzonte di ricerca. Abbiamo infatti bisogno di aria e luce per far respirare non solo i nostri polmoni, ma anche la nostra anima.

Ha spesso citato nei suoi discorsi, come elementi portanti, visione e creatività, qualità associate ai talenti degli sportivi. Nello sport quali altre virtù occorre rintracciare e rincorrere a suo avviso?

Penso che lo sport ci prepari alla perseveranza, perché non c’è sport che ne sia privo, e alla fine è come la fedeltà praticata in rapporto ad una promessa che abbiamo fatto. Questa perseveranza e questa fedeltà sono qualcosa di indispensabile per chi pratica sport. C’è poi la capacità di trascendersi, di andare oltre, superare sé stessi, che è un’altra qualità importante. Ricordo di un grande atleta che ho conosciuto che diceva: «Quando salto, salto verso l’infinito». Possiamo allora dire che, quando nuoto, corro o cammino, non cammino solo verso la meta fisica ma piuttosto verso l’infinito.

Passiamo alla poesia. Lei è un affermato compositore di versi e di armonie. Possiamo osare, Eminenza, nel dire che lo sport sia poesia in movimento?

Tanti scrittori, parlando di diverse discipline sportive, hanno utilizzato la parola poesia: è veramente una poesia performante ciò che lo sport permette, una poesia incarnata nel nostro corpo. Quando assistiamo a questo passaggio, dalla pesantezza alla leggerezza, dal chiuso all’aperto, dall’impossibile al possibile, scopriamo che il corpo, da ciò che era solo un’espressione utilitaristica, è invece capace anche di una danza, di una coreografia che apparentemente è senza un perché.

Anche nello sport il nostro corpo è senza un perché, ma per il puro piacere di esistere, di essere, sentirsi vivi e provare la pienezza di abitare il momento. E tutto questo non può avere un altro nome che non sia “poesia”.

Ha parlato di loisir, amatorialità, piacere. Come ama dire Papa Francesco, proprio quello spirito dell’amateur. Quali sono le parole del Papa sullo sport che più l’hanno colpita in questi dieci anni di pontificato?

È uno dei motti del suo pontificato. L’immagine della Chiesa in uscita come sinonimo di movimento... Una chiamata anche a vivere lo sport a tutte le età. Ricordo il Papa che parlava della nobiltà dello sport, perché esso rende l’uomo più umano, dunque lo sport è al servizio della nostra umanizzazione anche perché è un luogo in cui praticare l’inclusione. Non solo gara solitaria, autoreferenziale, narcisistica, ma anche un modo per essere solidale in tutte le modalità sportive; fare gruppo, includendo tutti gli altri, compresi coloro i quali non hanno condizioni fisiche adatte per praticare sport. Ecco, noi corriamo, nuotiamo, giochiamo partite anche in nome degli altri e a beneficio degli altri.

Mettersi in gioco: importante in un’esperienza che è sì fisica ma anche valoriale. Non è solo corporeità…

Oggi un discorso importantissimo è quello dell’etica sportiva, che non vuol dire solo rispetto preciso delle norme, ma è anche questo scoprire, questo mettersi in gioco, senza lasciare indietro nessuno. Siamo tutti dentro lo stesso gioco, ed in questa capacità di celebrare l’incontro si trova la grande risorsa della gioia nella pratica sportiva.

Lei ha pubblicato articoli e volumi in ambito teologico ed esegetico. C’è una figura di sportivo, campione o non campione, da ammirare nelle grandi pagine sportive? E perché?

Ognuno ha i suoi eroi. Penso ad Eusebio, la Pantera nera, un giocatore nato in Mozambico, che giocava nella Nazionale portoghese e nella mia squadra del cuore che è il Benfica. La sua fisicità rappresentava la cultura di un popolo e la gioia di vivere: Eusebio può essere veramente ricordato per questo. Sono molto sensibile agli sportivi, perché vedo una vicinanza spirituale, come ho già detto. Parlare del corpo ci avvicina molto al discorso sulla vita interiore, sulla ricerca di senso... Ad esempio gli amanti della montagna dicono cose straordinarie al riguardo, ma anche gli “sportisti” che raccontano non solo le loro vittorie ma anche i loro “fracassi”, che rappresentano così la vera umanità.

“Sportista” lega forse sportivo ad artista, legando arte e sport, dimensioni umane delle condizioni di vita. Noi del CSI parliamo spesso ai giovani. Nello sport, nell’impegno, una ragazza e un ragazzo possono veramente realizzare la loro vita. C’è la grazia di Dio in tutto ciò?

Assolutamente sì. Lo sport è un momento di grazia, in cui lo spirito penetra la materia e le offre una capacità di trascendenza, di bellezza, di speranza, che ricrea e fa nuove tutte le cose.

Rovescio della medaglia. Occorre non dimenticare però i rischi diseducativi del doping, delle scorciatoie. Cosa pensa al riguardo?

Io penso che l’etica sportiva sia fondamentale e, grazie a Dio, oggi esiste una maggiore sensibilità generale per affermare i valori etici.

Dopo Eusebio, un altro grande uomo di sport portoghese è universalmente José Mourinho. Più volte lo Special One ha detto di guardare al calciatore, all’atleta, comunque prima come persona umana. Quanto è importante?

José Mourinho in questo senso è un maestro di vita: ascoltandolo capiamo che non esistono giocatori, ma persone, uomini e donne che giocano. Al centro sta la persona umana. Mourinho è un esempio altissimo dell’attenzione all’umano: è generativo, fecondo, motivo di orgoglio e di gioia per noi portoghesi.

Ci leggono dirigenti, educatori, allenatori. Cosa sente di dire loro?

Lo sintetizzo così: il segreto dell’educazione è amare; educare è un esercizio di speranza. Lo si vede bene nella pratica sportiva, nelle persone che amano profondamente lo sport, gli “amatori sportivi”, in coloro i quali cercano un campo da tennis per uscire a giocare all’aperto: lo vedo in quel desiderio di qualcosa in più. E questo, a mio avviso, non ha altro nome se non la donazione di sé stessi, se non l’amore. Amore per il mondo, per sé stessi e per gli altri.

L’incontro del cardinale con José Mourinho

«Papa Francesco? Uno di noi! Quando sono stato un professore “eccezionale”? Con i bambini con sindrome di Down, quello che avevo da dare era amore e l’ho dato». È il tecnico della Roma, José Mourinho, a raccontarsi così nel dialogo intrecciato con il cardinale José Tolentino de Mendonça alla Pontificia Università Gregoriana nella Capitale. In un colloquio aperto, cui ha partecipato il CSI, davvero ricco di sollecitazioni e suggestioni, dal porporato è arrivato il primo assist: «Il segreto dell’educazione è amare ed educare è un esercizio di speranza». Assist che ha spinto Mou a ricordare: «Dopo l’università sono andato, come primo lavoro, in una scuola di bambini con sindrome di Down senza alcuna esperienza o formazione. Avevo paura. Sentivo la responsabilità di essere un giovane 23enne inesperto senza le capacità giuste. Alla fine di quei due anni, quando sono andato via, bambini, colleghi e genitori erano molto tristi: mi hanno detto che ero stato un professore “eccezionale”. Perché l’unica cosa che avevo da dare era l’amore e l’ho dato. È stato l’amore a farmi diventare “eccezionale” e a fare qualcosa di fantastico per la loro formazione. Come ho sempre fatto poi con i miei giocatori, cerco di conoscere che persone sono, prima di che calciatori sono in campo. Ho creato un rapporto con quei bambini, che ancora oggi vedo e vado a trovare quando sono in Portogallo». Il cardinal Tolentino ha confidato, nel faccia a faccia, di essere impressionato dal «modo di pensare, per immagini» del Pontefice, dalla sua «capacità di vicinanza» e del suo continuo incoraggiamento ad andare «avanti!». Ed ecco allora lo Special One come un tifoso: «Papa Francesco? Uno di noi! Parla in modo che tutti capiscano e il messaggio passa sempre».

Arriva infine il gol di Mourinho, quando, imbeccato dal cardinale sul valore dell’esperienza sportiva, l’allenatore giallorosso ha raccontato di una “calcio industria” che non lascia più scampo al “calcio di base”.

«Il mio sport purtroppo è un mondo diverso dallo sport che noi vogliamo per i nostri bambini. Lo sport di alto rendimento è crudele. Non c’è spazio per i più deboli. L’obiettivo è molto chiaro per noi professionisti: vincere. Anche per i proprietari e la gente che controlla l’aspetto economico gli obiettivi sono molto chiari. Lo sport di cui hanno bisogno i bambini è un altro, ma non c’è più. Soprattutto i genitori hanno bisogno di capirlo, perché spesso sono proprio loro, con le loro ambizioni e frustrazioni, a portare i ragazzi alla crudeltà. Ci sono genitori che dicono ai ragazzi di non passare la palla a un compagno perché altrimenti segna più gol di lui. È crudeltà».

Fuoriclasse vero della parola. Ne è consapevole anche il cardinale, che conosce bene Zé Mourinho – così lo chiamano i suoi vecchi amici lusitani – e gli chiede allora, parlando di giovani, fragilità, e frustrazione: «Ma cosa è il fallimento?». Smorfia caratteristica e la risposta prospettica: «Nel mio caso è perdere una partita? No. Il vero fallimento è avere le capacità innate e non riuscire a svilupparle, per poi arrivare a dire “Potevo, ma non ci sono riuscito”. Chi ha il coraggio di fare, di sfidare, non vive mai un fallimento».

La riflessione e l’incontro fra i due portoghesi, il cardinale e l’allenatore, entrambi sportivi e “sportisti”, si sono conclusi con un riferimento al pensiero del loro filosofo connazionale Manuel Sérgio. «Ci insegna a trovare il senso nello sport», la sintesi di Tolentino. «Mi ha detto: “Non sei un allenatore di calciatori, ma un allenatore di ragazzi che giocano a calcio”», il passaggio di Mourinho.

This article is from: