Numero03

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LE ESPERIENZE TERRITORIALI

Cattedrali nel deserto: la riscoperta dell’Incompiuto

I LAVORI DEL FUTURO

We make. Artigiani digitali. Intervista a Zoe Romano

issue 03 | settembre - ottobre 2017

issue 03

bimestrale tematico settembre - ottobre 2017

TRA INNOVAZIONE SOCIALE E SHARING ECONOMY nuovi percorsi di sostenibilità


LA PRIMA RIVISTA SCRITTA, DIRETTA E VOLUTA DA PROFESSIONISTI

UNDER 35

Ogni numero della rivista si caratterizza per la scelta di una tematica da indagare. Lo scopo di The New’s Room è quello di offrire, in ogni sua release, un punto di vista diverso, snello e specifico riguardo ad un argomento di largo interesse. FONDATORI Pierangelo Fabiano Raffaele Dipierdomenico DIRETTORE Sofia Gorgoni DIRETTORI EDITORIALI Sara D’Agati Lorenzo Castellani

REDAZIONE Velia Angiolillo Davide Bartoccini Antonio Carnevale Cinzia Maria Caserio Claudia Cavaliere Carlo Cauti Ilaria Danesi Matteo Di Paolo Gerardo Fortuna Maurizio Franco Maria Genovesi Barbara Hugonin Marta Leggio Andrea Palazzo Niccolò Piccioni Luigi Maria Rossiello Cosimo Rubino Simone Rubino Mariastella Ruvolo Nicolò Scarano


editoriale

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Vittorio Macioce L’innovazione sociale? Se la musica non ti piace prendi uno strumento e mettiti a suonare. Intervista a Annibale D’Elia Sara D’Agati Sharing economy. Una rivoluzione dai contorni indefiniti Sofia Gorgoni L’insostenibile leggerezza dell’Economia della condivisione Maurizio Franco Governi e pubblica amministrazione tra robotica smart cities e fast democracy Lorenzo Castellani Milano Smart City Maria Genovesi Favelas? No, smart city Carlo Cauti Italia: quanto siamo sostenibili? Simone Rubino

le esperienze territoriali 20 Aiutarli a casa propria Ilaria Danesi 21 Quando l’impresa si fa sociale Andrea Palazzo 22 Fra il dire e il fare c’è di mezzo Mare Milano. Cinzia Caserio 23 Costruire ponti verso il futuro. Benvenuti all’Ex Fadda Cosimo Rubino 24 Casa Netural, la casa di Matera che aggrega persone da tutto il mondo Sara D’Agati 25 Cattedrali nel deserto: la scoperta dell’incompiuto Velia Angiolillo 26 Addio Pizzo Travel Davide Bartoccini 27 OrtiAlti l’innovazione ecosostenibile sale sul tetto Simone Rubino 28 Abitare sostenibile: Basta volerlo Luigi Rossiello 30 Samex Matteo Di Paolo approfondimenti 31 32

L’economia circolare: la prossima killer application? in collaborazione con AmCham Sarà la finanza a salvare il mondo? Claudia Cavaliere


rubriche 33 35 37 38 39 40

Innovazione e territorio Nicolò Scarano Il punto di vista delle aziende Gerardo Fortuna Start up world Antonio Carnevale I lavori del futuro Niccolò Piccioni Health & science Barbara Hugonin Policy room a cura di Reti

in the mood 43 Fashion Mariastella Ruvolo

44 Lifestyle

Marika Aakesson -IED

Food & Furious

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Marta Leggio



il coach

EDITORIALE Qualche volta capita di incontrare persone che seguono i tuoi stessi territori di caccia. Per dirla con le parole di Ronald Everett Capps in Una canzone per Bobby Long «Sono quelli che sanno ascoltare ciò che gli occhi non possono vedere». Non sai bene come definirli, assomigliano ai vecchi cartografi, quelli che disegnano mappe, non sempre precise, di territori inesplorati o ancora tutti da scoprire. Immaginano e scrivono il futuro, provano a ridefinire la mappa del post Novecento, dopo che i muri sono caduti, le ideologie finite e i sogni ripudiati. Li trovi sparsi, spesso periferici, comunque in cammino, agli incroci di questa crisi economica che tutto consuma e sembra non finire mai. Sono sognatori, ma senza grandi utopie. Non pretendono di rivoluzionare il mondo, ma cercano terre che gli assomigliano: se ognuno si prende cura di quello che ha intorno, un quartiere, una valle, una collina, un pezzo di cielo, magari qualcosa può cambiare. Hanno le radici a casa e l’orizzonte che guarda lontano. Scommettono su quello che verrà. Pionieri, innovatori sociali, creativi , architetti, artigiani digitali e non. Tutti coloro che riprendono in mano il territorio, e credono che un progetto abbia un valore laddove generi esternalità positive per la collettività, e guardano all’economia e alla produzione in un ottica sostenibile di lungo periodo. Come si fa a ritrovare il futuro? Pensate agli anni incerti del Medioevo. Anche lì gli uomini cercavano una rotta, e in qualche modo la trovano deragliando dal centro. È l’azzardo di quel movimento globale che poi verrà chiamato monachesimo. Comincia tutto con un’abbazia, a Montecassino, in periferia. Il segreto è in tre mosse: innovazione, condivisione, territorio. È una storia che vale la pena di raccontare, con quell’Ora et labora che diventa una parola d’ordine, ma qui si può lasciare da parte la preghiera, la dimensione religiosa e spirituale, e guardare al lavoro, perché il metodo benedettino ha molti punti di contatto con i cartografi di questo scorcio di nuovo millennio. Non è un orizzonte sicuro quello dove si ritrova a vivere Benedetto da Norcia. Roma da tempo non è più un impero. Non c’è equilibrio. Non c’è legge. Non c’è una morale. Quella di Benedetto è una fuga verso terre di frontiera, lontane, periferiche. Dove? In alto. Sulla cima di un monte. Montecassino. L’idea è di mettere insieme una comunità di individui di buona volontà, dove si prega e si lavora e si ritrova se stessi. Quello di Benedetto è un progetto, una visione, un programma di vita. Quella Regola, vista con gli occhi del 2016, assomiglia a un software open source, un programma aperto, senza diritto d’autore, che ognuno può modificare e adattare alle proprie esigenze. Ed è per questo che sarà virale. Benedetto, che forse non era neppure prete, non crea un ordine rigido. Ogni comunità si organizza come meglio crede. La Regola viene così riformata e ogni volta si adatta ai tempi e ai luoghi. I monasteri sono luoghi dello spirito, ma si incarnano nella storia come crocicchi di arti, mestieri, saperi e creatività. Il lavoro degli amanuensi recupera la cultura classica e la mette in rete. I benedettini inventano l’orologio meccanico. Non è solo una questione tecnologica. È molto di più, perché cambia la percezione del tempo, e della mente. I benedettini ridisegnano la mappa del pensiero. E lo fanno con una fuga dal presente, con una mossa laterale, spiazzante, come chi intuisce un corridoio invisibile dove immaginare il futuro. Oltre le macerie.

Vittorio Macioce Il Giornale

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Sara D’Agati Intervista ad Annibale D’Elia

L’innovazione sociale? Se la musica non ti piace, prendi uno strumento e mettiti a suonare. Questi guerrieri moderni, pionieri, rivoluzionari, sognatori pragmatici, sono sparsi in tutti Italia, in luoghi che non ti aspetti, e più i territori sono impervi, più loro coltivano il seme e attendono che cresca. E spesso ci riescono, superando gli ostacoli del caso, e accogliendo il fallimento come parte del processo, come una tappa su cui ricostruire. Di molti dei loro progetti, mi sono innamorata quando ancora non sapevo esistesse un modo per definirli, né una categoria cui ascriverli. E come tutti i fenomeni multiformi e creativi che partono dal basso, ancora oggi è difficile dargli un nome. La formula che più si avvicina a raccontarli, tuttavia, è quella dell’innovazione sociale. Ma di che si tratta? L’ho chiesto ad Annibale D’Elia, esperto di innovazione nelle sue varie forme, dalle politiche pubbliche, alle imprese all’educazione e al modo di concepire le città e il territorio, tra gli ideatori del programma Bollenti Spiriti in Puglia oggi direttore della sezione innovazione economica e sostegno all’impresa del Comune di Milano.

non partirei da una definizione ma da un invito: se la musica non ti piace, non limitarti a protestare. Prendi uno strumento e mettiti a suonare. Perché se ne parla così tanto oggi? Quali sono le condizioni che hanno fatto sì che adesso il fenomeno abbia acquisito tanta rilevanza? Si parla tanto di innovazione sociale perché percepiamo tutti una grande distanza tra quel che accade nelle nostre comunità e quel che potrebbe accadere. Il progresso tecnologico non è mai stato così presente nelle nostre vite. Ogni giorno sperimentiamo innovazioni che stanno trasformando ogni aspetto della società: come lavoriamo, viaggiamo, abitiamo e ci relazioniamo con gli altri. Il mercato ci offre beni e servizi sempre più sofisticati, accessibili e personalizzati. Eppure abbiamo la percezione diffusa che alcune cose non stiano migliorando. Anzi. Pensiamo ad esempio agli impatti della globalizzazione, all’aumento delle disuguaglianze o alla sostenibilità ambientale, solo per citare alcuni dei temi più caldi. Sono problemi che, semplicemente, non si possono affrontare con la stessa mentalità che li ha creati, dall’alto verso il basso, senza il coinvolgimento attivo della società. Innovazione sociale vuol dire considerare le persone non solo come portatrici di bisogni, ma anche di soluzioni.

“L’innovazione sociale riguarda tutto ciò che facciamo per far funzionare meglio la società in cui viviamo. Vuol dire cambiare le cose quando ci accorgiamo che i sistemi che abbiamo sempre utilizzato non funziona- Innovazione sociale In questo quadro, che ruolo svolgono le no più. Non si tratta, quindi, di una novità ma di un vuol dire considerare le istituzioni? nuovo modo per descrivere ciò che esiste da sempre: persone non solo come le società umane cambiano e si adattano al mutaportatrici di bisogni, ma Di fronte a queste sfide, le istituzioni e la politica si stanno dimostrando poco efficaci e vivono una granre delle condizioni di contesto. Va così dall’alba dei de crisi di credibilità. Ovviamente non tutto può essetempi. Il punto è che siamo stati abituati a guardare anche di soluzioni. re risolto con l’innovazione sociale. Da una parte la queste trasformazioni da spettatori. Consideriamo politica deve recuperare la propria funzione di guida. Dev’essere capace il cambiamento come qualcosa che accade per effetto solo delle decisiodi indicare una direzione attraverso la tempesta e di ripensare il nostro ni della politica, dell’azione delle grandi organizzazioni o delle evoluzione modello di sviluppo per combinare innovazione, inclusione e sostenibilidella tecnologia e del mercato e su cui abbiamo poche o nulle possibilità tà. Dall’altra, chi abita il Palazzo deve accorgersi di ciò che accade nella di intervento diretto, se non come elettori o consumatori. Una serie di società. Deve incoraggiare e non ignorare o ostacolare le esperienze che esperienze che nascono dal basso, nelle città o nelle aree rurali di tutto nascono dal basso e che sperimentano soluzioni inedite. Per far questo, il mondo, dimostrano l’esatto contrario: non solo è possibile sperimentail cambiamento che si chiede alle istituzioni non è di poco conto: non re nuove soluzioni ai problemi delle nostre comunità ma talvolta queste solo definire regole, rilevare bisogni ed erogare servizi ma diventare un soluzioni possono rivelarsi più efficaci, creative e innovative di quelle che “abilitatore”, cioè un partner affidabile capace di aiutare la società anche vengono immaginate nelle stanze del Palazzo o nei laboratori ricerca e ad aiutarsi da sola. Il discorso vale a tutti i livelli, sia su grande che su picsviluppo di una multinazionale. Questa attività di ragionamento, coinvolcola scala, e su problemi attualissimi. Penso ad esempio alla gestione dei gimento e sperimentazione sul campo viene chiamata innovazione sociaflussi migratori, al recupero delle periferie degradate, alla cura delle parti le. Se dovessi spiegare di che si tratta a chi non ne ha mai sentito parlare 6


più fragili della società. Il tutto, mi preme sottolinearlo, senza abdicare al proprio ruolo e alle proprie responsabilità. Per intenderci: l’innovazione sociale non può e non deve diventare una scusa per tagliare indiscriminatamente le risorse per il welfare, la scuola pubblica, la sanità o i servizi sociali di base perché “tanto la società troverà un modo per cavarsela”. Quali sono i paesi più avanti, in termini di innovazione sociale? L’innovazione sociale nasce, come paradigma, nei paesi anglosassoni e da lì si è diffusa diventando un fenomeno globale. Un ruolo importante è stato svolto dall’Unione europea, che ha investito in azioni di ricerca e sperimentazione sia a livello locale che di stati membri. Ad oggi, i protagonisti delle esperienze più avanzate di innovazione sociale, più che i Paesi, sono le città: Seul, Amsterdam, Barcellona, Lisbona, Parigi, Berlino. Il fenomeno si sta allargando a macchia d’olio e coinvolge i soggetti e i territori più diversi. Sono da poco tornato da un ciclo di lezioni in Messico dove la più importante università del Paese, il Tecnologìco di Monterrey, ha deciso di investire sull’innovazione sociale come strumento per aumentare il proprio impatto sulle comunità locali.

innovazioni sociali: il movimento cooperativo, le esperienze di civismo e mutualismo, le forme di produzione distribuita dei distretti industriali e molto altro ancora. Oggi, alcune delle sfide più interessanti riguardano il tentativo di attualizzare queste innovazioni. Ad esempio, come ibridare le imprese cooperative attraverso i nuovi modelli di sharing economy? Come combinare tradizione artigianale, design industriale e nuove tecnologie digitali per dare nuova spinta al settore manifatturiero? Possiamo fare leva su una tradizione di amore e cura verso il territorio per rivitalizzare le aree interne del paese a rischio di spopolamento e così via.

In questo numero si parla di iniziative come Ex Fadda, Mare Milano, Casa Netural, We make. Esiste un filo che unisce tutti questi progetti, e se sì, quale? Conosco personalmente molti dei protagonisti e ho seguito la nascita e l’evoluzione di queste esperienze. I tratti comuni sono molti. Anzitutto li accomuna un particolare modo di progettare, avendo di capacità di usare tutte le risorse disponibili e di trasformare i problemi in opportunità. Poi, tutte queste esperienze sono portate avanti da organizzazioni ibride, che superano le tradizionali barriere tra profit e non profit; sono progetti radicati sul territorio ma collegati a reti nazionali e internazionali; nascono piccoli ma che E dove si colloca l’Italia, in questo conte- Vuole dire partire dall’esistente per puntano ad avere un impatto di trasformazione sul sto? proprio contesto e anche oltre. Un filo rosso lega tutte In Italia non c’è quadro nazionale di politiche sull’ar- realizzare qualcosa di gomento e potrebbe non essere un male. Anche da diverso, più rispondente queste iniziative tra loro e con un ampio movimento di persone e organizzazioni che, più o meno consanoi, negli ultimi anni, le esperienze più interessanti pevolmente, provano a trasformare la propria realtà sono state portate avanti a livello locale o regionale, a nuovi desideri e nuovi partendo da ciò che c’è e non da ciò che ci dovrebbe talvolta con un ruolo attivo delle istituzioni. Penso bisogni. essere. Come ha scritto l’antropologa Margaret Mead, alle iniziative del Comune di Milano su smart city e “non dubitate che un piccolo gruppo di cittadini coscienti e risoluti possa nuove economie urbane, al Comune di Bologna con il regolamento per cambiare il mondo. In realtà è l’unico modo in cui è sempre successo”. la gestione condivisa dei beni comuni, al Comune di Torino con azioni di rigenerazione delle periferie e alla Regione Puglia con il programma per le giovani generazioni. Altre iniziative sono nate in centri piccoli o piccolissimi, distribuite un po’ in tutte le regioni. Il punto chiave è che ritengo sbagliato considerare l’innovazione sociale come un modello fatto e finito da applicare. Magari per concludere, come accade quasi sempre, che l’Italia “è indietro”. Fare Innovazione sociale è una ricerca, un’esplorazione in cui si procede per prove ed errori. Vuole dire partire dall’esistente per realizzare qualcosa di diverso, più rispondente a nuovi desideri e nuovi bisogni. Nella storia del nostro Paese troviamo una grande tradizione di Fotografia di Jonatan Withfield @Unsplash 7


la scheda biografica

Annibale D’Elia, nato a Milano nel 1970, si occupa da diversi anni di innovazione delle politiche pubbliche. Dopo aver lasciato la carriera musicale, ha studiato all’Università di Bari e di Firenze, e ha cofondato una cooperativa premiata nel 2000 come migliore giovane impresa d’Italia. Negli ultimi anni ha diretto il programma della Regione Puglia per i giovani “Bollenti Spiriti” e ha fatto parte della task force del MISE che ha delineato la normativa italiana sulle startup innovative.

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Collabora con enti locali, università, regioni e ministeri sui temi dell’educazione, della rigenerazione urbana e dell’innovazione sociale. Al momento è Direttore di progetto Innovazione economica e sostegno all’impresa del Comune di Milano.


IL GIOCO PUÒ CAUSARE DIPENDENZA PATOLOGICA

IL GIOCO È VIETATO AI MINORI DI 18 ANNI


Sofia Gorgoni

Sharing economy. Una rivoluzione dai contorni indefiniti Le nuove tecnologie hanno aperto la strada a un nuovo modo di possedere le cose: condividendole o prendendole in prestito per un periodo di tempo limitato e in base alle proprie necessità. L’economia della condivisione fa sì che professionisti, consumatori e semplici cittadini condividano tempo, spazi, beni e conoscenze, rendendone massimo il valore e l’utilità sociale. Da qui nascono anche nuovi stili di vita, con una vocazione al risparmio, alla ridistribuzione delle risorse e alla salvaguardia dell’ambiente. In una parola: sostenibilità. Nel frattempo, nel nostro linguaggio comune hanno fatto ingresso espressioni come “home sharing”, “car pooling”, “bike e car sharing”, “taxi peer to peer” e “social eating”. Esperienze capaci di condizionare le nostre abitudini di consumo e le sorti delle vecchie imprese, ma anche di far nascere nuove realtà imprenditoriali. La sharing economy, di fatto, rappresenta un cambiamento di paradigma, perché si slega dai modelli classici di creazione del valore. Ci sono almeno due forme. Nella prima non c’è transazione monetaria, si pensi al couchsurfing o banca del tempo, in cui persone mettono a disposizione il proprio tempo 10

o risorse, per aiutarsi nelle piccole necessità quotidiane. Risponde alla crisi con un’economia alternativa, basata sulla fiducia “diffusa” più che sulla creazione di valore economico. Non impatta sull’economia del singolo, ma ne migliora la qualità della vita. Bob Kennedy diceva che il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. La seconda forma, invece, comprende i modelli di creazione di valore economico (scambi monetari su larga scala) che si basano su risorse diffuse. Si tratta di piattaforme che connettono la domanda e l’offerta di beni e servizi in modi mai visti prima della diffusione di Internet. Uber, ad esempio, non possiede automobili; Airbnb, che fa da ponte tra i proprietari di appartamenti liberi e i turisti che cercano affitti brevi, non possiede alcun immobile. Alibaba non possiede scorte in magazzino. La proprietà è nel software o nell’algoritmo, pensati per creare la miglior interfaccia possibile. Rachel Botsman, esperta del settore e founder del Collaborative Lab, in un intervento su TED ha suddiviso gli esempi di consumo collaborativo in 3 gruppi. Il primo è quello dei mercati di ridistribuzione. (Esempio: Swaptree, un sito per barattare cose di ogni tipo). Un bene usato viene spostato da un luogo in cui non è necessario a un luogo in cui lo è (le cosiddette 5 R: ridurre, ri-usare, riciclare, riparare e redistribuire, allungando così il ciclo di vita di un prodotto e riducendo gli sprechi). L’economia circolare, insomma, è capace di rigenerarsi da sola. Il secondo gruppo è quello degli stili di vita collaborativi. Comprende la comunio-

ne di risorse e di cose come il denaro, le competenze e il tempo, come ad esempio, Landshare che nel Regno Unito fa sì che un tale Mister Jones che ha dello spazio disponibile nel suo giardino condivida con la Signora Smith, una aspirante coltivatrice, il suo terreno ed insieme coltivino il cibo che mangiano (o anche esempi di coliving come Outside, Wework, cowork Talent Garden). Il terzo gruppo è quello dei prodotti a noleggio. Privilegia l’accesso a un bene rispetto alla proprietà ed è efficace soprattutto per le cose che hanno durata limitata nel tempo. Botsman fa l’esempio del trapano elettrico. Chi lo acquista lo usa nell’arco della vita per circa 13 minuti. Ciò di cui ha bisogno una persona è semplicemente un buco. Con le nuove tecnologie si può chiedere in prestito qualcosa o condividerla con altri (ad esempio, Peerby è un sito web per prendere in prestito oggetti di uso quotidiano dai propri vicini).

L’economia collaborativa ha fatto nascere anche nuove modalità di finanziamento che vengono dal basso. Il crowdfunding, ad esempio, va da modelli in cui i cittadini privati possono finzanziare nuove tecnologie o progetti creativi (ad esempio Kickstarter) a modelli piu avanzati in cui imprese finanziano altre imprese (è il caso di Credimi, startup tutta italiana). L’open knowledge, invece, permette a chiunque di utilizzare, riutilizzare e distribuire liberamente la conoscenza, sotto forma di contenuti, dati, codici o progetti. Questo


Riciclare

Riparare

Le 5 R

Redistribuire Ri-usare

principio è alla base della commons-based peer production (software libero, creative commons, open science ecc.) come pure delle pratiche di open education, open data e open governance. Insomma, lo scambio può avvenire ancora con il vicino di casa (come un tempo) ma tramite piattaforme digitali che connettono anche persone distanti e sconosciute tra loro. Per facilitare la socializzazione, gli iscritti vengono incoraggiati a condividere informazioni su di sé e sui propri gusti ed interessi, oppure ad accedere al servizio usando direttamente i profili social. Airbnb ha iniziato a promuovere il senso di “community” tra i suoi hosts attraverso i gruppi o meetups (“ritrovi”). Ma di esempi di piattaforme che hanno avuto successo ce ne sono di ogni tipo:

Bla Bla car, il social network dei passaggi in auto, ha più di 45 milioni di utenti iscritti e più di 12 milioni di viaggiatori ogni trimestre e fa risparmiare circa 1.000.000 di tonnellate di CO2 e 500.000 tonnellate di carburante ogni anno. I servizi vengono forniti dalla collettività, e non più dalle aziende (crown-based), sono comunque pagati e non offerti a titolo gratuito. Non è quindi un’economia della condivisione in senso stretto, ma una nuova forma di capitalismo in cui le competenze del singolo non vengono più messe a disposizione della società per

Ridurre

cui si lavora, ma dei portali online di cui ci si avvale. In Italia, secondo i dati di Shareitaly, nel 2016 le piattaforme italiane di sharing economy (comprese quelle internazionali con sede in Italia) sono arrivate a quota 138 e 68 quelle di crowdfunding, per un totale di 206 e un giro d’affari stimato oltre i 3,5 miliardi. Rispetto alle 187 complessive del 2015, l’incremento è del 10%. Ma la sharing economy, oltre ai buoni propositi, porta con sé aspetti controversi. L’economia della condivisione ad oggi ha ancora regole frammentarie o contraddittorie, sia sotto il profilo fiscale che su quello dei vincoli e dei diritti. L’urgenza di dettare linee guida sulla sharing economy è stata sottolineata anche dal Parlamento europeo il 15 giugno scorso, anche per non frenarne la crescita che risente delle diverse normative nazionali. Con la risoluzione (non legislativa), in sintesi, si chiede alla Ue di sostenere l’economia collaborativa sviluppatasi online e garantire la concorrenza leale, oltre al rispetto dei diritti dei lavoratori e degli obblighi fiscali. Insomma la sharing economy è un’opportunità ambivalente: da una parte crea ridistribuzione delle ricchezze, dall’altra porta con sé il rischio di accentramento di potere nelle mani di pochi i quali dettano le regole e muovono i flussi di denaro.

Fotografia di Anthony Jinsbrook @Unsplash

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Maurizio Franco

L’insostenibile leggerezza dell’Economia della condivisione Trangugiare del cibo ordinato a chilometri di distanza e caracollare per la città a bordo di “una macchina nera” con un semplice click. Connettere, unificare e omogeneizzare la domanda e l’offerta dei servizi. Il tutto gestito e manipolato da software e dispositivi, da processi digitali soverchiati da algoritmi che controllano ogni possibile movimento. È la Sharing Economy – l’economia della condivisione - sostenibile e funzionale alla ricostruzione della comunità appagante e dell’interazione tra esseri umani. Con un’app scaricabile, milioni di persone possono accedere ad una miriade di servizi forniti da centinaia di individui, loggati su piattaforme in rete. Individui appunto, una moltitudine anonima, smembrata da criteri interattivi di valutazione, la cui identità è miscelata nei server delle grandi aziende della condivisione. Uber, Airbnb, Foodora, Deliveroo e tanti altri ne sono l’espressione più marcata. “Ciò che mio è tuo” con l’avvento di un nuovo sistema che avrebbe appianato e semplificato le contraddizioni del capitalismo contemporaneo, asfaltando le gerarchie di potere e la rigida dicotomia cliente-lavoratore. A ben guardare però, non è questo che sta realmente accadendo, e la grande e abbacinante utopia si è trasformata in una distopia. Alcuni analisti – celebre il Manifesto per una sharing economy sostenibile e rispettosa dei diritti dei consumatori del 2015 – invece di parlare di Sharing Economy (una consegna del pranzo a domicilio è una forma post-moderna di condivisione?) racchiudono questa burrascosa ondata di startup e società on-demand, nella 12

definizione di Gig Economy – l’economia dei lavoretti. La differenza sta “nell’abbattere i costi condividendo azioni che si farebbero comunque” o “monetizzare risorse sotto utilizzate o non utilizzate” come spiega Antonio Aloisi, ricercatore dell’università Bocconi di Milano, in un articolo di Luca Zorloni (Wired). Foodora, il colosso tedesco delle consegne di pizze e fritture, leccornie da scatola colorata sul sellino di una bicicletta, è quotato in borsa 4,4miliardi di dollari. 70Miliardi per Uber, l’azienda di Travis Kalanick e Garrett Camp, nata quasi per gioco, aspettando un taxi che non sarebbe mai passato, e adesso, in 500 città e 66 paesi, a rivoluzionare la concezione dei trasporti, senza fare degli utili ma accumulando investimenti. “Tutta l’economia digitale passa dalle app. La Gig-Economy è la sua prima manifestazione e sfrutta le potenzialità delle tecnologie per favorire una diversa organizzazione del lavoro. Con alcuni elementi positivi: il fatto che il lavoratore possa decidere quando lavorare e no è una libertà consentita dalla tecnologia che non butterei via. Il potere resta tuttavia in mano alla piattaforma” dichiara Ivana Pais, docente di sociologia economica all’Università la Cattolica di Milano, in un intervista rilasciata a Roberto Ciccarelli de Il Manifesto.

“Le piattaforme della Gig Economy hanno bisogno di grandi numeri. All’inizio hanno condizioni di mercato molto favorevoli. Una volta ottenuti volumi importanti e raggiunto il monopolio del settore spesso cambiano le regole”. Plastificando il potere dell’algoritmo, la cooperazione autonoma scompare tra i numeri e le codifiche. Di per sé la tecnologia non è uno strumento di liberazione e la carica emancipatoria svanisce nella

deregulation e nello sfruttamento. Pedalare con una pettorina, il cappellino e la visiera bordata ai lati; scorrazzare per le strade, la segnaletica della città e il traffico – pagandosi la benzina, avendo una propria bicicletta, le gambe robuste e uno smartphone funzionante (ancora, di condiviso cosa c’è?). Un lavoro flessibile, da freelance e collaboratori, zero posto fisso e nessuno stralcio di contratto. Nessuna tutela e nessun diritto con turni assegnati attravero la messa a disposizione telematica e la macchina cibernetica che smista e assembla, il ranking e la digitalizzazione del tempo. Il “lavoretto” per la generazione dei neet e dei disoccupati, “la fase storica è quella che è” e la crisi morde le nuche dei giuslavoristi e di chi ha fame.

“Se avrai problemi, bucherai, sarai malato, partirai in vacanza, sospenderai per un po’ la collaborazione, perderai posizioni e la possibilità che altri slot orari ti vengano assegnati. È la dura legge del delivery food” e quest’anno i fattorini di Deliveroo hanno proclamato lo sciopero nella seconda metropoli più grande d’Italia. “Vi invitiamo tutte e tutti a partecipare sabato 15 luglio alla prima Deliverance Strike Mass che partirà alle 19:30 in Piazza XXIV Maggio a Milano. Una biciclettata per le strade della città, tra ristoranti e punti di ritrovo dei rider”. Rivendicavano un inquadramento contrattuale e salariale, dignità e diritti per le mansioni svolte. L’autunno prima i colleghi di Foodora avevano incrociato le braccia, pagati a cottimo (2,70 euro a consegna, divenuti poi 3,60 dopo la protesta) e la minaccia della partita iva – sfangati i 5mila euro da “collaboratori”.


Definizioni

In soldoni, precarizzazione endemica dei lavoratori con un’estrazione chirurgica di valore dall’esistenza stessa delle persone: l’intermediazione fisica totalmente assente (sindacati sfarinati, i centri di collocamento in disuso), l’immateriale della rete che determina e disciplina. Benedetto Vecchi, giornalista del Manifesto, nel suo ultimo libro – Il capitalismo delle piattafome (Manifestolibri, 2017) evidenzia la forza distruttrice e – nello stesso tempo ricompositiva – di un agglomerato di fenomeni economici strutturati da software e processi digitali. La Gig Economy e le aziende del E-commerce (Amazon in primis) Facebook e Google. Un capitalismo pervasivo e instabile, globale e tentacolare, senza regole e “lacci e lacciuoli” delle autorità nazionali, dove la macchina e l’automatizzazione ridicolizzano l’attività umana “ai fini dell’esecuzione di processi per la produzione, distribuzione e commercializzazione dei beni e servizi just in

time”. Una società fagocitata dai gangli del profitto, fabbrica dei precari. Lavoratori e ignari clienti si trasformano in utenti o beneficiari della cooperazione sociale per “costruire una città condivisa, in cui le persone sono micro-imprenditori” e lo spazio “non viene sprecato, ma condiviso con gli altri” secondo le esternazioni di Brian Chesky, fondatore di Airbnb, riportate da Fabio Chiusi sulle pagine dell’Espresso. Un’impresa, quella degli alloggi vacanzieri online, da 35miliardi di dollari, germogliata nelle menti del giovane designer e del collega-coinquilino Joe Gebbia, nell’ottobre 2007 nell’appartamento di San Francisco, dopo aver letto una missiva del proprietario di casa, che avrebbe aumentato l’affitto di mille dollari. Che fare, con una stanza vuota e una fiera straripante di persone? (l’afflato mitico del racconto è una costante narrativa dell’execution pragmatica e dell’idea geniale).

Sharing Economy La Sharing Economy o economia della condivisione è un modello che si basa su un insieme di pratiche di scambio e condivisione di beni e/o servizi . I beni possono essere sia tangibili (come la casa o l’auto) che intangibili (come il proprio tempo libero). Si applica in tre ambiti: • sistemi prodotti-servizi • mercati di redistribuzione • stili di vita collaborativi. Gig Economy La Gig Economy – l’economia dei lavoretti – è un termine coniato per definire un sistema economico dove la prestazione lavorativa è a richiesta e non esiste un rapporto contrattuale di subordinazione. Il tutto, domanda e offerta, è gestito da piattaforme digitali che mettono in relazione il lavoratore (che fornisce un servizio) e il cliente.

Fotografia di Viktor Kern @Unsplash

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Lorenzo Castellani

Governi e pubblica amministrazione tra robotica, smart cities e fast democracy Immaginate una città in cui bus e tram siano guidate da un robot, in cui le app permettano di giudicare i servizi pubblici che vengono modulati sulla base di commenti e valutazioni dei cittadini, di servizi sempre più personalizzati che permettono di ricevere on-line o direttamente a casa, come con Amazon, tutte le pratiche burocratiche individuali o aziendali oppure di vedersi diagnostica l’ultima influenza da una intelligenza artificiale o giudicati ad un processo da un computer. Fantascienza?

Ad oggi, almeno in Italia, sembrerebbe di sì ma il panorama potrebbe cambiare molto nei prossimi dieci anni. Un cambiamento che altrove sta già accadendo: nel 2019 arriva a Londra la prima sperimentazione di autobus con il pilota automatico, le app per valutare i servizi pubblici già esistono in città tecnologicamente avanzare come Singapore, la personalizzazione della burocrazia per mezzo della rete è già presente in Estonia, mentre gli esperimenti sull’intelligenza artificiale fanno passi da gigante.

C’è inoltre chi sta sperimentando spazi verdi con specie vegetali selezionate con interventi genetici per fornire una biologia artificiale a quelle metropoli che sono cresciute in un ambiente inospitale per l’uomo ed in grado di assorbire gli elevati livelli di inquinamento. Quali saranno le conseguenze per governi e amministrazioni che dovranno confrontarsi con questo notevole sviluppo tecnologico?

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I policy-makers, cioè politici, dirigenti pubblici e consulenti, si focalizzeranno sempre più sugli obiettivi, selezionati sulla base dei valori della società e sulle preferenze politiche, e sempre meno sui mezzi e sull’organizzazione, che saranno appannaggio delle nuove tecnologie. Saranno gli algoritmi ad indicare il come dopo che gli esseri umani avranno stabilito il che cosa fare.

Il numero degli impiegati pubblici può calare notevolmente. Ciò può accadere per due ragioni: molta tecnologia viene sviluppata dal settore privato e a questo possono essere affidati compiti di fornitura pubblica e l’innovazione ridurrà sempre di più il numero di impiegati operativi trasformandoli in supervisori del lavoro di computer e robot. Tutto questo determinerà, con buone probabilità, una riduzione del numero dei dipendenti pubblici che ancora oggi costituiscono mediamente, nell’area OSCE, il 20% del totale della forza lavoro. L’impatto può trasformare radicalmente lo Stato burocratico.

La divisione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni potrà essere abbattuta. Gli esseri umani sono in grado di lavorare su un argomento alla volta ed è per questo che i governi sono divisi in ministeri, dipartimenti, agenzie e via dicendo in cui ogni ente si occupa di una policy precisa (trasporti, ambiente, finanza ecc). I computer e le intelligenze artificiali, al contrario, saranno in grado di processare un grande numero di informazioni senza doverle dividere funzionalmente. È probabile che in futuro i “confini” e le divisioni interne all’amministrazione pubblica saranno molto meno rigidi e definiti. Andiamo verso una amministrazione tecnologica e multi-tasking.

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Proviamo a stilare un elenco ragionato.


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I dati e la loro raccolta saranno sempre più centralizzati a livello nazionale e, si pensi all’Unione Europea, a livello sovranazionale. Ciò significa che i governi centrali eseguiranno la raccolta dati perché saranno loro ad avere la costosa e complessa tecnologia necessaria a disposizione e li forniranno alle amministrazioni periferiche. Questo non comporta che anche le funzioni e le competenze debbano essere centralizzate, anzi gli enti locali potranno sfruttare i dati raccolti dalle tecnologie centralizzate per meglio sviluppare le proprie policy.

Alcuni settori potrebbero, però, essere riportati sotto il monopolio dello Stato. Se un governo sviluppa una tecnologia di intelligenza artificiale prima del mercato per un determinato settore (es. trasporti) è probabile che la politica deciderà di riportare quel settore, su cui applicare la nuova tecnologia, sotto la sua gestione. Benché siamo abituati a pensare che la tecnologia venga sviluppata da grandi multinazionali, in realtà, molto di essa viene dai settori militari dei governi. Non è detto, pertanto, che il settore pubblico non possa avere un nuovo ruolo importante nello sviluppo di servizi pubblici ad intelligenza artificiale.

Le democrazia potrebbe diventare sempre più real-time. Oggi siamo abituati a votare ogni qualche anno, ma a commentare tutto in tempo reale attraverso i social network. Quando la tecnologia farà un ulteriore balzo in avanti è probabile che i governi, le amministrazioni e i fornitori di servizi pubblici saranno in grado di adattarsi ai bisogni e alle preferenze espressi nell’immediato da ogni singolo utente. Le politiche pubbliche diventeranno sempre più personalizzate e reattive alle esigenze dell’individuo al quale, probabilmente, sarà chiesto di scegliere o giudicare in tempo reale i servizi pubblici attraverso i device tecnologici. Le implicazioni per la democrazia potrebbero essere profondi. La transizione verso la fast democracy, la democrazia in tempo reale in cui il cittadino vota o esprime una opinione verso il pubblico di cui si tenga conto quotidianamente, potrebbe non essere così lontana.

Fotografia di Markus Spiske @Unsplash

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Fotografia di Chris Barbalis @Unsplash

Maria Genovesi

Milano Smart City Milan l’è un gran Milan: competitiva, attenta ai propri cittadini e smart Sono sei i parametri che definiscono una città “smart”: Smart Economy, Smart Mobility, Smart Environment, Smart People, Smart Living e Smart Governance. Questo a dimostrazione del fatto che la cosiddetta Smart City è molto più che una realtà tecnologicamente avanzata e permeata dal digitale. È l’innalzamento della qualità di vita all’interno dell’area urbana grazie ad un uso sapiente delle risorse fisiche, sociali, economiche, umane ed intellettuali a disposizione. Fondamentale è ovviamente la collaborazione e cooperazione di molteplici attori, in primis cittadini, governo, imprese e università, affinché si massimizzi ogni elemento tramite lo sviluppo di progetti sostenibili come, ad esempio, l’aumento dell’ efficienza energetica, il miglioramento della mobilità o ancora la digitalizzazione dei processi amministrativi. Secondo lo Smart City Index 2016, sono Bologna e Milano le città più “intelligenti” d’Italia. Questo indice è calcolato su un mix di fattori tra cui i servizi per i cittadini, le infrastrutture, la cura per l’ambiente, la gestione da remoto e l’elaborazione e valorizzazione 16

dei big data, ovvero delle informazioni utili per analizzare e di conseguenza ottimizzare le performance gestionali. Sono moltissime le città oramai orientate in questa direzione. Milano dal 2013 ha iniziato a introdurre una serie di linee guida per diventare sempre più smart e ad oggi i risultati sono già visibili. In aumento e diversificati i servizi di car sharing disponibili (Enjoy, Car2Go, Drive Now, Sharengo) e più di 2.000 utilizzatori al giorno, 10.000 persone sfruttano il Bike sharing quotidianamente. La città ha implementato oltre 500 punti d’accesso al Wi-fi pubblico, più di 400.000€ sono destinati ogni anno al crowdfunding civico per aiutare finanziamenti di idee a impatto sociale. Sono 30 le isole digitali distribuite in 9 zone della città, ci sono 8 nuovi giardini condivisi per un totale di 34mila mq e sono stati resi disponibili 49 spazi di Co-working. Milano è stata inoltre la prima città italiana a mettere in atto le linee programmatiche del Governo per lo sviluppo della “Manifattura 4.0”, una sorta di quarta rivoluzione industriale volta a creare un ecosistema favorevole all’insediamento e allo sviluppo di realtà nel campo della manifattura digitale e dell’artigianato 4.0. Come? Da un lato investendo nel recupero di spazi urbani per creare luoghi di promozione e di in-

sediamento di nuove manifatture digitali. Dall’altro, mettendo a disposizione nuove tecnologie come stampanti 3D e internet delle cose, creando una piattaforma online dedicata per favorire gli scambi tra gli attori coinvolti, sviluppando strumenti utili come i fablab e i servizi di incubazione e accelerazione. Altro vanto per la città è la forte attenzione ad aumentare il verde urbano. Secondo il progetto Rotaie Verdi, gli scali ferroviari milanesi dismessi di Porta Genova, San Cristoforo e Porta Romana potrebbero diventare dei corridoi ecologici alternati a oasi naturalistiche. Aiuterebbero la viabilità ciclabile nella città e offrirebbero nuovi spazi di verde pubblico. Altro esempio riguarda l’ex area militare della caserma di Santa Barbara, dove dovrebbe sorgere il quartiere ecologico più grande d’Italia: un’enorme area verde di circa 27 ettari sarà perimetrata da 4.000 alloggi residenziali mentre solo pochi, piccoli edifici dedicati ai servizi nasceranno all’interno del parco. I cittadini, che siano milanesi DOC o generosamente adottati, percepiscono visibilmente il miglioramento costante della città e questo fa scaturire un benessere comune crescente per cui più volte si sente dire che Milano vive in questo momento un nuovo rinascimento.


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Carlo Cauti @San Paolo

Favelas? No, smart city

Nasce in Brasile la prima smart-city 100% sostenibile (e con un cuore italiano) che punta a risolvere il problema delle baraccopoli. “Um país chamado favela”. Un paese chiamato favela. È questo il titolo di un famoso libro pubblicato nel 2014 dai ricercatori brasiliani Renato Meirelles e Celso Athayde. Una radiografia della popolazione favelada del Brasile: oltre 12 milioni di persone che abitano immense baraccopoli ai margini delle grandi città. Comunità enormi ma prive di servizi idrici, di energia elettrica, gas e quasi sempre anche di umanità, considerando la violenza brutale che le attanaglia. Una piaga storica del Brasile. Una vergogna nazionale che potrebbe essere lasciata alle spalle grazie ad un progetto innovatore e dal cuore italiano. Una smart city che unisce sostenibilità urbana, sociale ed ambientale, nata grazie al supporto delle aziende italiane Idea Planet e SocialFare, insieme StarTAU, l´incubatrice di start up dell’Università di Tel Aviv in Israele. Croatá Laguna EcoPark: é questo il nome della new town in fase di costruzione nel municipio di São Gonçalo do Amarante, nello stato settentrionale del Ceará, tra i più poveri del Brasile. Un’area attualmente disabitata ma dove sta crescendo da qualche anno un importante polo industriale e portuale attorno al centro di Pecém. Una città intelligente costruita per la prima volta pensando alla popolazione a basso reddito, ovvero gli abitanti delle favelas, e che oltre a fornire servizi di base, come acqua, luce, gas, garantirà anche una serie di innovazioni come ad esempio il completo cablaggio internet ad alta velocità, reti wireless gratis, sistemi di riutilizzo delle acque di scarico, bike sharing e car pooling, piazze dotate di attrezzi sportivi per generare energia fino al controllo computerizzato dell’illuminazione pubblica. “Si tratta del primo esperimento al mondo di una città intelligente di edilizia popolare”, spiega Susanna Marchionni, responsabile della Idea Planet. Un agglomerato urbano di 330 ettari, 6.000 case per un totale di circa 21.000

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abitanti, con insediamenti artigianali, industriali e servizi. Il tutto rispettando i “sei pilastri” delineati dall’UE per determinare il grado di “intelligenza” della città, che vanno dalle aree verdi a quelle commerciali, dalla viabilità stradale al riciclo delle acque. La realizzazione di Laguna Ecopark è legata al programma di edilizia sociale “Minha Casa, Minha Vida”’ varato dal governo di Brasilia, che permette la vendita di lotti a prezzi molto bassi e finanziamenti di lunghissimo periodo, con interessi calmierati, destinati alle fasce di popolazione a basso reddito.

Il progetto vuole diventare un punto di riferimento urbanistico in tutto il Brasile, da riprodurre in altre regioni del paese che soffrono, con gravi deficit abitativi e di servizi, come ad esempio i grandi centri urbani di San Paolo, Rio de Janeiro o Salvador. Ma anche un modello che, rimodulato ed adattato a diversi contesti locali, può essere applicato in parti diverse del mondo. “Abbiamo già avuto contatti dal diversi Paesi del mondo, dagli Emirati Arabi Uniti fino alla Cina”, dichiara Marchionni. Un modo per includere ampie porzioni di società fino ad oggi lasciate ai margini coniugando protezione dell´ambiente e innovazione. Un modello di crescita economica ed urbana molto brasiliano, che da anni cerca di coniugare PIL, innovazione, ambiente e società. Entro il 2022 Laguna Ecopark diventerà una città intelligente ed umana, fornendo una nuova prospettiva a questo jeitinho brasileiro di sviluppo.


Fotografia di Sandro Mattei @Unsplash

Simone Rubino

Italia: quanto siamo sostenibili?

Entro il 2030 deve raggiungere i 17 obiettivi Onu. Cabina di regia spostata dal Ministero dell’Ambiente a Palazzo Chigi Anche le Nazioni Unite non hanno più potuto rimandare l’impegno, vista l’urgenza che accompagna da tempo l’interrogativo sulla sostenibilità del pianeta. Il 25 settembre 2015 l’Assemblea generale ha approvato “Agenda 2030”: un programma volto al raggiungimento, entro quindici anni, di 17 obiettivi di sviluppo sostenibile. “Una strada per evitare la catastrofe”, così viene pubblicizzata, anche se a fronte delle difficoltà del tempo è probabile che la strategia che verrà applicata sarà in una versione meno utopistica rispetto a quella di partenza. Due anni fa pure l’Italia sottoscrisse “Agenda 2030”, impegnandosi di immaginare e programmare una strada sostenibile. In questi ventiquattro mesi quel che è stato fatto è poco a differenza di Germania, Francia, Svizzera, Norvegia e altri Paesi non europei che hanno già presentato i primi rendiconti e illustrato i loro piani d’azione. Nel Belpaese l’Istituto Nazionale di Statistica dovrebbe elaborare gli indicatori nazionali per misurare il grado di attuazione del piano e il Governo dovrebbe rendere noto il documento strategico per concretizzare gli impegni. Nel frattempo un’importante novità è emersa all’inizio dello scorso luglio: il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha collocato la regia di questo poderoso processo di rilancio a Palazzo Chigi, spostandolo dal Ministero dell’Ambiente.

Questo cambio di direzione permette, oggi, di poter affrontare la questione dello sviluppo sostenibile in una sfera non prettamente ambientale. Quest’ultima ha un’importanza di rilievo ma non prende in considerazione anche la dimensione di sistema che “Agenda 2030” impone, la quale infatti dovrebbe diventare, anche

in Italia, uno strumento di cambiamento e innovazione, capace di modificare il piano di sviluppo economico e sociale e di condurre su livelli ambiziosi, per quanto in qualche accezione contraddittori: ad esempio, una minore disuguaglianza e povertà tanto quanto una maggiore liberalizzazione dei mercati. Nei prossimi mesi il Governo italiano dovrebbe definire il suo programma d’intenti. L’Italia parte da una posizione complessa e problematica. Insomma, il ritorno ad una situazione quanto più simile a quella pre-crisi è lontano. Sono i numeri e le classifiche internazionali di giudizio sull’attività dei Paesi e sulla realizzazione delle riforme ad esprimersi. Tra gli indici che hanno valutato ciò, relativamente alla vicinanza o meno con le mete fissate dai 17 “sustainable goals” dell’Onu, c’è il “Sustainable governance indicators” del think tank tedesco “Bertelsmann Stiftung” che, su 41 Paesi dell’area Ocse e Ue considerati, posiziona l’Italia al 32esimo posto. Il nostro Paese brilla in consumi energetici e aspettativa di vita ma viene bocciato in tema di lavoro, pensioni, corruzione, inquinamento, istruzione, famiglia e fisco. Pesa l’1.31% del Pil per gli investimenti e la salita del debito pubblico al 132.6% del Pil. Il “Sustainable development solution network”, nato nell’associazione dei centri di ricerca che lavorano con l’Onu, non è stato meno severo: rispetto ai 17 obiettivi di “Agenda 2030” ha respinto l’Italia in sette di questi (“zona rossa”) e l’ha rimandata per gli altri dieci, non promuovendola quindi neanche in uno (“zona verde”). Urge un cambio di marcia innovativo che veda la sostenibilità come strategia di rilancio. Le esperienze dei territori, nel loro piccolo, testimoniano quanto ciò anche in Italia sia possibile. 19


le esperienze territoriali

Ilaria Danesi

Aiutarli a casa propria Open Homes e le altre: pratiche di sharing economy per l’accoglienza dei rifugiati

Nell’Europa degli accordi mancati, dei tentennamenti e dei muri posti di fronte al movimento migratorio dei richiedenti asilo, sono spesso i cittadini a dare prova di responsabilità e a proporre soluzioni per un fenomeno ineluttabile ed entrato ormai nel vissuto quotidiano. Questo panorama di risposte bottom-up non può certo sostituirsi alle politiche di accoglienza, ma disegna un quadro di progetti d’impatto tangibile, che vanno spesso oltre la pura solidarietà e la dimensione emergenziale del problema, verso un’inclusione a vantaggio dell’intera società. Nel mondo interconnesso, la macchina dell’inclusione sociale muove sui binari della sharing economy e dell’innovazione e sono ormai diverse le piattaforme collaborative dedicate all’accoglienza dei rifugiati, dalle App che semplificano la vita quotidiana (come InfoAid, che offre informazioni su confini, permessi e mezzi di trasporto; RefUnite che favorisce i contatti con le famiglie nel paese d’origine; RefAid, che raccoglie e geolocalizza tutte le informazioni utili per rifugiati e membri delle ONG, o MakeSense, il sito che raccoglie le idee innovative di inclusione sociale dal basso) a più ambiziosi progetti incentrati sull’inclusione lavorativa (è il caso di Imnotarefugee, sorta di ufficio di collocamento online per rifugiati) e soprattutto abitativa.

Tra questi ultimi, il neonato Open Homes, progetto di accoglienza diffusa voluto dal colosso degli affitti brevi Air B&B in collaborazione con ONG e altre associazioni impegnate nel sociale. In Italia è stato lanciato a Milano ad inizio luglio, e vede come partner la comunità di Sant’Egidio e Refugees Welcome Italia. L’idea è semplice, con gli host che mettono a disposizione gratuitamente attraverso la nota piattaforma le proprie strutture per un periodo limitato. Queste vengono destinate a rifugiati già in contatto con le associazioni partner, dunque migranti che hanno già compiuto parte del loro percorso nella nazione ospitante ottenendo protezione internazionale, ma che usciti dai centri Sprar ancora non sono indipendenti. La rete consolidata di AirB&B, messa per la prima volta alla prova negli Usa dopo l’uragano Sandy, facilita e velocizza procedure altrimenti complesse e dispersive e si mostra facilmente replicabile in qualsiasi contesto d’emergenza. Refugees Welcome Italia, tra i promotori del programma, è il comitato italiano del network Refugees Welcome International, altro importante progetto nato in Germania nel 2014 e ora attivo in 12 Paesi. Anche in questo caso il privato che intende mettere a disposizione una stanza o abitazione può registrarsi alla

piattaforma dedicata, mentre l’associazione garantisce l’incontro col rifugiato “adatto” in cerca di alloggio e un supporto per tutta la durata del percorso, favorisce l’inserimento sociale e l’autonomia del migrante (attraverso la ripresa degli studi o la ricerca di un lavoro), ed organizza sulla piattaforma stessa forme di crowdfunding a copertura delle spese. Molto simile il progetto Refugee Hero, anch’esso made in Germany e basato sulla disponibilità abitativa non a scopo di lucro; mentre altri progetti più circoscritti trovano attuazione un po’ in tutta Europa, come il progetto Rifugiati in famiglia messo in pratica a Parma grazie ai fondi stanziati dal sistema Sprar e dal locale Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione; o il polo di cohousing organizzato da Fondazione Josefa a Bruxelles, dove rifugiati e migranti convivono con cittadini del posto per superare attraverso la reciproca conoscenza quella separazione anche fisica che spesso contraddistingue l’esperienza migratoria, con la nascita di quartieri-ghetto all’interno delle città. Non è un caso che il fattore abitativo raccolga la maggior parte degli sforzi. Realizzare spazi di condivisione e reciproca conoscenza significa anzitutto instaurare relazioni reali, superando da un lato la diffidenza della popolazione ospitante, dall’altro quella condizione psicologica di passività ed impotenza alimentata dalla lunga permanenza nei centri di accoglienza. Dall’abitare, dal sentirsi parte di una comunità, comincia il vero percorso di inclusione, ed è in questi spazi del quotidiano, talvolta troppo distanti dal welfare tradizionale, che le iniziative basate sullo spirito di innovazione e su un senso di condivisione possono davvero fare la differenza tra un presente di tensioni e un futuro di sostenibilità sociale costruita insieme. Nella foto, un rifugiato e la famiglia che lo ha ospitato

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Andrea Palazzo

Quando l’impresa si fa sociale Una chiacchierata con Paolo Venturi di AICCON Edifici inutilizzati, vecchi siti industriali, fabbriche e capannoni dismessi a cui dare nuova linfa. Da locali dimenticati si trasformano in spazi da condividere per nuove idee in ambito culturale. Sono stati 429 i “progetti innovativi che rigenerano e danno nuova vita a spazi abbandonati” presentati per l’ultimo bando Culturability. Rappresentano uno degli esempi, ma non l’unico, delle oltre 100mila imprese a finalità sociale presenti oggi in Italia. Tra cooperative sociali costituite ai sensi della legge n. 281/91 e organizzazioni con “potenziale di imprenditorialità sociale” costituiscono uno dei principali vettori dello sviluppo sostenibile. Ma che cos’è davvero un’impresa sociale? Ce lo racconta Paolo Venturi, Direttore dell’Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit. Cosa si intende con questa nuova economia sociale? «Vedere i giovani rigenerare asset abbandonati, trovare nuove soluzioni nell’uso dei beni comuni, inventare imprese culturali su base esperienziale, abilitare piattaforme di sharing economy: tutta questa è una nuova economia intenzionalmente sociale, a prescindere dalla forma giuridica. Si tratta di un’economia che non va intesa nel senso “sociale” come poteva esserlo vent’anni fa, ma è sociale dal momento in cui trova le proprie radici nei bisogni della società. Questa imprenditorialità rappresenta una delle risposte più interessanti per perseguire modelli di sviluppo sostenibili; infatti chi fa l’imprenditore sociale ha come orizzonte l’interesse generale della comunità». Perché si può parlare di imprese ibride? «L’impresa ibrida è quell’impresa che produce valore tenendo insieme le caratteristiche tipicamente produttive e commerciali con quelle sociali e comunitarie. L’ibridazione non è altro che un processo evolutivo sul modo in cui si produce valore: prima le imprese erano competitive nella misura in cui massimizzavano soltanto il profitto, oggi devono massimizzare “la qualità della relazione” con la propria comunità, con l’ambiente e con i lavoratori».

A proposito di lavoro, le imprese sociali possono essere una soluzione? «Le imprese sociali sono uno strumento preziosissimo. Se osserviamo i dati della cooperazione e delle imprese sociali in Italia sono quelle che nel periodo della crisi hanno aumentato gli occupati. Questo accade perché hanno nella loro funzione obiettivo il lavoro, per cui in tempi di crisi hanno sacrificato profitti e patrimonio per conservare occupati. Oltre a ciò bisogna ricordare che le imprese sociali sono particolarmente sensibili al capitale umano poiché gran parte dei loro servizi consiste nel generare beni relazionali e prestazioni: in una società che invecchia, con una spesa pubblica in calo, si avrà sempre più bisogno di questi nuovi imprenditori». Indietro o all’avanguardia? Qual è la situazione italiana? «Siamo sicuramente all’avanguardia, basti pensare che siamo il secondo paese al mondo ad avere un normativa sulle imprese benefit. Forse potremmo affermare che siamo uno dei paesi più avanzati in termini di imprenditorialità sociale: la si può realizzare con modelli associativi, con modelli fondazionali, con le cooperative ma anche mediante formule come le Srl e le Spa». Come incentivare, allora, la crescita di queste organizzazioni? «Non servono incentivi fiscali ma politiche che facciamo educazione imprenditoriale e comunicazione sul valore dell’impresa sociale. Bisogna raccontare che l’imprenditore non è soltanto chi produce dividendo economico ma è anche colui che realizza dividendo sociale. C’è ancora un retaggio culturale che identifica queste imprese come attività di serie B. È quindi necessario condurre una forte azione di informazione che parta dalle scuole fino alle università. La società ha bisogno di imprenditori e il sociale è il nuovo campo dove i giovani sono chiamati a produrre valore economico e comunitario».

Paolo Venturi è il Direttore di AICCON Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit il Centro Studi promosso dall’Università di Bologna e dall’Alleanza delle Cooperative Italiane. Economista ed esperto di fundrising, Venturi è autore di pubblicazioni sul non profit e rappresenta oggi uno dei più autorevoli esponenti in Italia in materia di impresa e innovazione sociale. 21


Cinzia Caserio

Fra il dire e il fare c’è di mezzo Mare Milano Nella periferia nord-ovest di Milano si esibiscono musicisti del Mali e artisti olandesi, nascono pomodori funky e c’è persino il mare. Non è l’inizio di un racconto di fantasia, ma la realtà quotidiana di “Mare culturale urbano”: una startup che vuole ripartire dalle periferie alla ricerca di un nuovo modello di sostenibilità sociale ed economica. L’obiettivo è creare qualcosa che in questa periferia ancora non c’è – esattamente come il mare a Milano – ovvero un’aggregazione fondata sulla produzione artistica. Andrea Capaldi, 38 anni, attore, è uno dei fondatori della startup e racconta come ha fatto a portare il mare della sua Napoli nel cortile di Cascina Torrette a Milano, cuore pulsante del progetto. «Questo – racconta – è un quartiere che ha sempre offerto poco dal punto di vista socio-culturale. Ci sono zone più povere e a rischio disagio accanto ad altre meno problematiche, ma in generale le possibilità per i giovani scarseggiano. Mare culturale urbano nasce proprio qui, e non in zone più centrali di Milano, per creare un luogo di produzione culturale dove le persone possano crescere e non solo incontrarsi saltuariamente». A chi vi rivolgete, oltre ai giovani di questo quartiere? «Mare culturale urbano è ben radicato nel territorio e si rivolge a tutti, giovani e non. Vogliamo far sì che questo luogo sia vivo, attraversato dalle persone che abitano in questa zona e da quelle che vengono da più lontano. Ci piacerebbe diventare un punto di riferimento per la comunità artistica internazionale, ed è quello che stiamo cercando di fare, sempre senza perdere di vista la nostra vocazione territoriale». Come fate ad attrarre artisti internazionali? «Ad esempio con le residenze artistiche. Mettiamo a loro disposizione degli spazi dove poter vivere per un certo periodo di tempo, realizzando e presentando le proprie creazioni al pubblico». Avete organizzato residenze artistiche di recente? «Sì, abbiamo ospitato una compagnia di attori olandesi per tre mesi, che ha costruito uno spettacolo trasformando gli abitanti del quartiere in protagonisti». 22

In questi giorni avete invitato Baba Sissoko e i Funky Tomato. Chi sono? «Baba Sissoko è un polistrumentista maliano molto apprezzato a livello internazionale e i Funky Tomato sono specializzati nella produzione di pomodoro a filiera partecipata, contro lo sfruttamento dei lavoratori e il caporalato» Che programmi avete per il futuro? «Stiamo per costruire un centro di produzione culturale di 9000 mq con due teatri, tre cinema, studi di registrazione, sale prova e atelier per artisti visivi in un terreno poco distante dalla cascina. Sarà un grande hub creativo». Qui a Cascina Torrette vi occupate di arte, ma anche di mestieri: Mare culturale urbano al momento dà lavoro a 24 persone, tra cucina, bar, coworking, sale prova e manutenzione dello spazio. Quali progetti state sviluppando per i giovani? «Abbiamo appena avviato un progetto di inserimento lavorativo in senso informale, ma vorremmo sistematizzarlo al più presto, con l’obiettivo di far crescere delle professionalità. Il nostro sogno sarebbe quello di inserire ragazzi senza competenze specifiche in un percorso professionale: al momento stiamo sperimentando l’area food and beverage, ma in futuro potremmo espanderci verso altri campi». Produzione artistica, inserimento lavorativo e produzione partecipata sono i tre motori di Mare culturale urbano. In cosa consiste il terzo? «Gli arredi del centro sono fatti da tutti. Questo perché accanto alla cascina c’è una falegnameria temporanea dove chiunque può dare il proprio contributo alla creazione dei progetti. Abbiamo collaborato anche con realtà importanti come Ied, Naba e Politecnico, avviando dei corsi per gli studenti di queste scuole». Cos’è per voi una periferia sostenibile? «Un luogo dove avviene uno sviluppo collettivo».

Fotografia di Cinzia Caserio


Cosimo Rubino

Costruire ponti verso il futuro. Benvenuti all’Ex Fadda

In Puglia uno spazio pubblico per l’aggregazione e l’innovazione sociale “Nel cuore della Puglia c’è un vecchio stabilimento enologico in disuso, abbandonato da decenni. Lo stiamo trasformando in un nuovo spazio pubblico per l’aggregazione, la creatività e l’innovazione sociale.” Le poche parole presenti nella sezione chi siamo del sito web dell’Ex Fadda descrivono alla perfezione chi sono i ragazzi dell’Ex Fadda e soprattutto come agiscono: con semplicità e concretezza. Caratteristiche che, almeno a prima vista, potrebbero sembrare in contrasto con un progetto visionario che si pone l’obiettivo di mettere in comune risorse quali spazio, relazioni, competenze e denaro per sostenere i giovani con un’idea da realizzare e fornire un canale per chi ha voglia di collaborare con le iniziative già esistenti. La genesi dell’Ex Fadda va ricercata nell’ambito del programma per le politiche giovanili Bollenti Spiriti, promosso dalla Regione Puglia per creare un coerente disegno di rinascita sociale, economica e culturale all’interno del territorio pugliese. A vincere uno dei bandi legati a Bollenti Spiriti è stata la società di comunicazione Sandei, che ha così ottenuto 60mila euro per riqualificare l’ex stabilimento enologico “Dentice di Frasso”, un imponente fabbricato di 3mila metri quadrati con circa 10mila di verde, situato a San Vito dei Normanni, comune in provincia di Brindisi, a pochi chilometri dalla costa adriatica. Da quel momento è partito un vero e proprio cantiere di auto-costruzione che ha coinvolto imprese locali, associazioni e singoli cittadini, sotto la guida del project manager Roberto Covolo, in arte Rombi. Sociologo per formazione, Covolo ha dapprima lavorato per la Regione Puglia, proprio all’interno di Bollenti Spiriti, per poi passare dall’altro lato della rete; un lavoro che gli ha permesso di entrare, nel 2013, nella top 100 annuale degli in-

novatori sociali stilata da Riccardo Luna (giornalista di Repubblica e Wired) nel suo libro Cambiamo tutto. Ad oggi, l’Ex Fadda rappresenta probabilmente il miglior laboratorio urbano della Puglia e uno dei più avanzati esperimenti di innovazione sociale in Italia. Gli spazi sorti al suo interno coinvolgono le attività più disparate: dalla danza alla scherma, dall’artigianato alla musica, passando per lo yoga, il parkour e la radio. Vera punta di diamante del laboratorio è il ristorante sociale XFood - nato in collaborazione con il Consorzio di Cooperative Sociali Nuvola - il primo in Puglia ad avvalersi di personale con disabilità impiegato in cucina e nel servizio in sala. I ragazzi si sono formati grazie al corso di job coaching “Progetti innovativi integrati per l’inclusione sociale di persone svantaggiate”, promosso dalla Regione Puglia, e hanno trovato all’interno di XFood una collocazione lavorativa oltre che una seconda famiglia. Tutto il ristorante è all’insegna della diversità come valore positivo: ogni elemento d’arredamento ha un design unico, secondo un concept della designer Sara Mondaini. Un esempio virtuoso e soprattutto emblematico di quella che è la ragion d’essere dell’Ex Fadda: accogliere iniziative, idee, e progetti e

convertirli in realtà concrete, a disposizione della comunità. E chissà che a disposizione della comunità, intesa in senso più lato come comunità nazionale, non possa essere anche il modello finanziario dell’Ex Fadda, basato su un iniziale finanziamento statale (o in questo caso regionale) che permette di sviluppare una o più attività in grado poi di rappresentare fonti di autofinanziamento. L’abbiamo chiesto proprio a Roberto Covolo: “ExFadda si inquadra nelle sperimentazioni relative al welfare generativo, un welfare cioè che non consuma più di quello che produce. Si tratta di un’ ipotesi di lavoro non sostitutiva ma complementare rispetto alle forme di welfare tradizionali concepite secondo la logica del servizio, ma a mio avviso particolarmente interessante per il ruolo attivo che esso attribuisce al soggetto: non più utente, ma co-produttore e co-responsabile della costruzione di processi di emancipazione.” Per verificare se una terza via fra l’assistenzialismo e l’impresa privata sia sostenibile su più ampia scala, serviranno però grandi dosi di coraggio e spirito d’iniziativa. In caso servisse ispirazione, citofonare all’Ex Fadda; ma solo per cortesia, la porta sarà sicuramente già aperta.

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Sara D’Agati

Casa Netural, la casa di Matera che aggrega persone da tutto il mondo Un luogo di ispirazione, rigenerazione e progettualità attorno ai temi dell’innovazione sociale, culturale e creativa. Una chiaccherata con la fondatrice, Mariella Stella. Ultimamente si parla molto di innovazione sociale. Tu cosa intendi per innovazione sociale? L’innovatore sociale, cos’è e cosa fa? L’innovazione sociale avviene ogni volta che un nuovo processo economico e sociale innescato innova il pre-esisente, ma soprattutto quando è in grado di incidere sulla vita delle persone migliorandola, quando si trovano soluzioni nuove e creative a problemi individuali e collettivi. Mi piace vedere l’innovazione sociale più che come un mestiere, come una competenza trasversale necessaria e imprescindibile per tutti coloro che lavorano con la collettività, che si occupano di problemi sociali, che operano nel pubblico impiego, che danno vita ad imprese che propongano nuovi servizi e prodotti che abbiano un impatto sulle comunità, che promuovano nuove economie. Parlaci di Casa Netural, il tuo progetto. Come nasce, come funziona e che obiettivi si propone? Casa Netural è una casa, a Matera, che aggrega persone da tutto il mondo, in cui ispirarsi, rigenerarsi e concretizzare le proprie idee attorno ai temi dell’innovazione sociale, culturale e creativa. Ospita al suo interno uno spazio di coworking, di coliving e un incubatore di imprese culturali e creative. Nasce nel 2012 dal desiderio mio e del mio compagno, Andrea Paoletti, di creare un luogo di aggregazione reale di comunità, in cui le persone potessero sperimentare concretamente l’innovazione sociale nelle pratiche di vita quotidiana, dal lavoro (il nostro spazio di coworking) all’abitare (il nostro progetto di vivere condiviso, il coliving) all’economia collaborativa (i numerosi progetti e iniziative anche formative dedicate al tema che portiamo avanti ogni anno). Casa Netural è anche Incubatore di imprese culturali e creative e promuove una nuova visione di impresa, più attenta al capitale umano, alla forza del network tra persone e idee e alla crescita della

comunità, come impatto fondamentale di ogni impresa innovativa. In cinque anni abbiamo ospitato a Casa Netural imprenditori e persone in cerca di ispirazione provenienti da tutto il mondo, abbiamo costruito un network forte di relazioni e sperimentazioni sui temi dell’innovazione sociale proprio grazie al match tra persone e idee locali e internazionali e abbiamo “incubato” numerose idee innovative per la comunità. A Casa Netural chi ha un’idea di innovazione sociale può testarla sulla nostra community proponendo prototipi di servizi e iniziative innovative da lanciare poi sul mercato. Che ruolo hanno (o dovrebbero avere) le istituzioni nel favorire un progetto come questo, e l’innovazione sociale in generale? Le istituzioni sono in ritardo sul tema. Per molte istituzioni l’innovazione sociale corrisponde ancora all’innovazione digitale, e purtroppo spesso si fa fatica a condividere con loro la stessa visione a lungo termine delle azioni portate avanti per le comunità. In cinque anni abbiamo notato, tuttavia, un’evoluzione nella percezione del nostro progetto, l’Istituzione ha iniziato ad incuriosirsi e ad interessarsi ma mancano ancora dispositivi efficaci per supportare realmente realtà come la nostra. Spesso l’innovazione sociale nasce dal basso e propone servizi che colmano il vuoto delle Istituzioni. Forse per questo capita, a volte, che le Istituzioni ci percepiscano più come competitors che come alleati nel processo di crescita delle città. Il nostro obiettivo nel dialogo con le Istituzioni, invece, è renderle consapevoli del potenziale enorme che una collaborazione efficace tra noi potrebbe sviluppare. Le Istituzioni, del resto, oberate dalla gestione di emergenze territoriali di varia natura non ce la fanno a star dietro a tutte le richieste e necessità della propria comunità e spesso non hanno all’interno, tra funzionari, dirigenti e politici, le competenze necessarie per sviluppare processi di innovazione sociale efficaci. La soluzione sarebbe cooperare con realtà come la nostra per coprire questo gap e far crescere i contesti territoriali di riferimento in un’ottica collettiva di benessere e sviluppo.


Velia Angiolillo

CATTEDRALI NEL DESERTO la scoperta dell’incompiuto Un buon modo per conoscere la storia d’Italia è quello di partire dalle sue rovine. Di molte di esse gli Italiani vanno generalmente fieri, arrivando a volte ad identificarcisi: basta pensare a Verona e alla sua arena, ai Nuraghe sardi o più banalmente al Colosseo, che spunta su braccia e polpacci di mezza Capitale. Ma ci sono altre rovine, legate ad un pezzo di storia italiana, che nessuno vuole ricordare.

Un patrimonio edilizio di oltre 750 opere pubbliche mai terminate, figlie degli anni del boom economico, della generosità della Cassa per il Mezzogiorno e dell’incontrollabile fantasia di politici e progettisti. Una storia che oggi trova solo due narratori: il Gabibbo e il progetto Incompiuto Siciliano – la nascita di uno stile, nato dalla collaborazione fra Claudia d’Aita, Enrico Sgarbi e il collettivo di artisti Alterazioni Video.

 “Di base lo scopo è quello di ufficializzare la parola e lo stile Incompiuto, che per noi è il più rappresentativo del Novecento” spiega Matteo Erenbourg, uno dei fondatori del collettivo, che aggiunge: “Uno stile è espressione di una cultura; e l’Incompiuto esprime la cultura nata nel secondo Dopoguerra attorno alle iniziative di sviluppo del meridione. I fondi provenienti da Roma destinati al recupero del gap infrastrutturale col Nord venivano usati perlopiù per far lavorare le maestranze locali. Nel tempo questi meccanismi si sono sedimentati fino a diventare una pratica che ha trasformato l’economia, i rapporti sociali, politici ed il paesaggio”. Fu così che Giarre (CT), la “capitale dell’incompiuto” si ritrovò fra le altre cose con un mezzo stadio da polo da 15.000 posti (ai tempi la città aveva la metà degli abitanti); costruzione che condivide con centinaia di altre opere inconcluse una bellezza metafisica che nasce dal dialogo fra natura e cemento armato, e in cui la tensione fra forma e funzione si risolve in una corrente artistica che ha come postulato, oltre all’inutilità, “la parziale esecuzione del progetto”. Sembrerebbe una provocazione, e invece no: “Uno stile può anche nascere inconsapevolmente ed essere messo a sistema in un secondo momento, vedi ad esempio Rem Koolhaas e il Manhattanesimo”. La “messa a sistema” dello stile Incompiuto inizia nel 2007 con la catalogazione dei progetti edilizi abbandonati partendo appunto da Giarre ed allargando gradualmente la mappatura al resto della penisola “perché come diceva Pietro Germi, la Sicilia è due volte Italia. La quantità e qualità dell’incompiuto siciliano rispetto a quello di altre regioni è straordinaria, solo lì si trovano 350 delle opere finora map-

pate, soprattutto strutture civili come stadi o ludoteche”. Si perché l’Incompiuto ha anche i suoi filoni: la Calabria è terra di dighe, la Puglia di ospedali; non per nulla Claudia D’Aita, in un’intervista del 2011 spiegava senza un filo di ironia che al pari del Barocco Nazionale e Siciliano, ci sono due Incompiuti; il Nazionale ed il Siciliano. Il fatto di essere forestieri ha sicuramente facilitato il cambio di prospettiva: “Avevamo sentito parlare di Giarre su Striscia e la scoperta dei luoghi è avvenuta quasi casualmente durante una vacanza. Per noi sono opere d’arte, ne siamo affascinati. Per chi è del posto è diverso; spesso quando chiediamo ai locali di una struttura non ne sanno nulla e i sentimenti che provano più comunemente nei confronti di queste opere sono rabbia e vergogna”. Per questo la pista della denuncia è stata abbandonata per quella della rivalutazione artistica, con l’avvio di diverse collaborazioni (Mibact, Triennale di Milano, Art Basel, Gabriele Basilico), l’organizzazione di un Festival con tanto di tour guidato nel “parco dell’Incompiuto” di Giarre e la pubblicazione del primo volume fotografico previsto nel 2018. Sorge però spontanea una domanda: perché non terminare queste costruzioni? “Molte di queste strutture non sono recuperabili o per errori progettuali che ne rendono impossibile il completamento, o semplicemente perché costa troppo abbatterle. Ad esempio sempre a Giarre c’è una piscina olimpionica che non sarà mai tale perché le vasche sono sotto le misure regolamentari. In assenza di risorse si può lasciarla lì e far finta che non esista; noi invece ci domandiamo se possa essere qualcos’altro”.

Stadio del Polo di Giarre. Fotografia di Gabriele Basilico

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Davide Bartoccini

ADDIO PIZZO TRAVEL Un viaggio alla scoperta della Sicilia della legalità In una stazione ferroviaria siciliana, nell’abitazione del capostazione - gentilmente concessa da FS a fitto calmierato a poca, pochissima distanza dal tratto di binari dove venne lasciato dalla mafia il corpo senza vita dell’attivista Peppino Impastato, sorge la sede di AddioPizzo Travel, un tour operator che ha l’obiettivo di portare turisti in Sicilia soltanto all’interno di percorsi di legalità. Come? Lo chiedo a Dario Riccobono, uno dei soci fondatori insieme a Francesca Vannini ed Edoardo Zaffuto. Il progetto nasce dalla costola di Addiopizzo, associazione palermitana che dal 2004 si occupa di lotta al racket delle estorsioni. Tour Operator dal 2014, AddioPizzo Travel si rivolge soltanto a fornitori (alberghi, B&B, ristoranti, etc.) che non pagano il pizzo, con l’obiettivo di valorizzare le bellezze della Sicilia, e allo stesso tempo sostenere i tanti imprenditori coraggiosi che hanno detto no alla mafia. Un progetto ambizioso, come riuscite a portarlo avanti? Giriamo la Sicilia alla ricerca di strutture che non pagano il pizzo, e Addiopizzo garantisce per noi. Spesso le strutture sorgono proprio su terreni confiscati alla mafia. In breve, proponiamo turismo etico a sostegno di chi ha detto no alla mafia, con l’obiettivo di regalare un’esperienza di vera partecipazione e con la consapevolezza di non lasciare nemmeno un centesimo alla mafia. Al contrario parte dei proventi servirà a sostenere le realtà impegnate in prima linea nella lotta contro la mafia (Casa Memoria Peppino Impastato, Libera e tante altre). I viaggiatori diventano così protagonisti di una riconquista del territorio e dello sviluppo economico dell’area nella legalità, insieme a noi siciliani. Cosa offrite ai turisti che si rivolgono a voi? Offriamo tour settimanali, week-end pizzo-free o anche gite di un giorno. Organizziamo tour in pullman – pensati soprattutto per gli studenti - o per chi preferisce con la propria auto, o in bicicletta. ‘Palermo No Mafia’ è la nostra proposta di maggior successo. Lungo il percorso la storia della mafia, e dell’impegno antimafia, prendono forma dal racconto diretto dei protagonisti, attraverso i i luoghi più significativi e rivivendo le tappe di una lotta ancora in corso, e che in molti sono determinati a vincere. Com’è la Sicilia che mostrate, quella che sceglie di non ‘pagare’ il pizzo? È un’Isola diversa da quella proposta dai media [fin troppo spesso]. Una Sicilia promotrice di idee e valori positivi, con la schiena dritta, che lotta e non vuole piegarsi alla mafia. Una Sicilia impegnata a mostrare come sviluppo e legalità possano camminare a braccetto. Il binomio Sicilia e Mafia, qui viene ribaltato e scardinato, valorizzando il meglio che la Sicilia può offrire. 26

Sta cambiando qualcosa? Quanto è radicata oggi la Mafia in Sicilia? Diversi segnali ci dicono che non è quella di qualche decennio fa. Rispetto alle altre, quella siciliana è una mafia in difficoltàà; ma il rischio è proprio quello di abbassare la guardia. Siamo ancora lontani dalla vittoria finale. Bisogna che si offra un’alternativa alle persone nella legalità. Se non si è indipendenti dal punto di vista economico, non si può essere liberi. È fondamentale portare avanti l’importante lavoro che si fa nelle scuole e nelle periferie. Perché la questione è, anche e soprattutto, culturale. In molte zone ancora ci si sente più vicini alla mafia piuttosto che allo stato. La nostra generazione incontra ancora la Mafia per strada? Come nei famosi Cento Passi di Marco Tullio Giordana? Dipende. Nei quartieri popolari e nei paesi si sa benissimo chi è il mafioso, chi controlla la zona. In città è tutto più sfumato. Quello che però è impossibile sapere è chi fa affari con la mafia: gli insospettabili, l’alta borghesia, i piccoli attori politici, i cosiddetti colletti grigi. Da quelli è più difficile difendersi. Avete mai ricevuto minacce o intimidazioni per il vostro progetto? No, mai. Nessuna minaccia. Cosa Nostra ha ben altri problemi al momento a cui pensare, e poi noi siamo tanti. Abbiamo creato una rete di attori sociali ampia ed efficace. Il modello in Sicilia è cambiato, non più eroi solitari da soli a combattere la mafia, ma una cittadinanza sempre più attiva e consapevole. A piccoli passi - cento, mille, un milione o quanti ce ne vorranno - proviamo a cambiare le cose. La mafia va combattuta su due piani, quello culturale/educativo e quello economico. Noi lo abbiamo capito da tempo e puntiamo su questo. C’è chi dice che la mafia, in Italia e nel mondo, avrebbe permeato finanza e politica, fino ad essere parte integrante della nostra economia: come si sconfigge la mafia di oggi? Quella che più che il pizzo, riciclerebbe i soldi accumulati per decenni? Difficile rispondere. Quello che abbiamo capito è che ognuno, nel proprio piccolo, può e deve dare il suo contributo. In famiglia, a scuola, nel proprio contesto lavorativo. Comportarsi con onestà ed evitare quelle scorciatoie e favoritismi su cui la mafia ha sempre marciato. Accettare di mettersi in gioco, tutti, per affrontare con fermezza e serietà il fenomeno della corruzione: perché è quella l’altra faccia della mafia. Come sarà la Sicilia una volta sconfitta la Mafia? Sarà la “terra bellissima” che Paolo Borsellino aveva tanto sognato.


Fotografia di Elisa Albarosa

Simone Rubino

OrtiAlti, l’innovazione ecosostenibile sale sul tetto Reportage sul tetto de “Le Fonderie Ozanam” di Torino In una metropoli con una storia bimillenaria come Torino lo stile che viene spesso assunto, quanto mai nel “fare impresa”, è influenzato anche dalla caratura del passato della città: ripartendo dalla riscoperta dello ieri, proiettandosi verso l’innovazione di domani. Ciò vale anche per una modernissima start up come “OrtiAlti”. L’hanno fondata due architetti: Elena Carmagnani ed Emanuela Saporito, coniugando il recupero di un’arte antica, quella del lavoro della terra, con un’idea innovativa, innanzitutto per la sua collocazione: sui tetti degli edifici. Non è un caso se “OrtiAlti”, nata nel 2010 sopra un atelier di architettura, cioè appunto sul tetto, abbia deciso di iniziare il suo progetto pilota nel quartiere Borgo Vittoria, in una grande ex zona industriale della Torino fordista, costruita attorno allo storytelling di “mamma Fiat”. La start up ha installato un orto sul tetto de “Le Fonderie Ozanam”, in via Foligno 14. La struttura fino agli anni ‘70 è stata un opificio, poi è diventata un dormitorio ed infine, oggi, è stata trasformata in un ristorante gestito dalla cooperativa sociale “Meeting service”, che si occupa del reinserimento di persone in difficoltà. Da qui la valenza sociale, innovatrice e rigeneratrice, di “OrtiAlti”: «A ‘Le Fonderie’ di Torino si vedono tutti gli elementi del

nostro progetto, il contesto degradato e gli attori sociali protagonisti. Questo luogo è la sintesi del nostro modello di azione» sottolinea Emanuela Saporito. L’orto è stato costruito grazie alla tecnologia del verde pensile, con l’utilizzo di materiali tessili e plastici che rendono le coperture degli edifici impermeabili. Per raggiungerlo bisogna necessariamente salire sul tetto. La prospettiva di sostenibilità del progetto va dal campo alimentare (verdura e ortaggi a chilometro zero) a quello ambientale (qualità dell’aria e inverdimento dello spazio), fino a quello economico (valore dell’immobile e risparmio energetico). Il valore aggiunto è però l’aspetto sociale del progetto: “OrtiAlti” non è solo rigenerazione urbana, trova compiutezza nello scambio fra persone di saperi, esperienze e culture. La start up, in un contesto già avviato come quello de “Le Fonderie”, si è inserita «come elemento disturbante in un luogo per di più molto chiuso», spiega Saporito, integrandosi ed agendo da scossa: ora il raccolto dell’orto finisce direttamente nella cucina del ristorante. È stato installato un apiario, grazie al quale viene prodotto e poi venduto il miele e l’ostello è diventato un Centro di accoglienza straordinario per migranti. Secondo la co-fondatrice di “OrtiAlti” non c’era posto migliore

dove sperimentare il progetto. «Questa è innovazione sociale. Risponde a dei bisogni collettivi in modo inedito. La cooperativa ha sempre lavorato in modo molto standardizzato, adesso non solo ha aggiunto nuovi servizi ma si sta anche rinnovando nel suo impianto imprenditoriale» racconta l’architetto Saporito. “Le Fonderie” sono state, inoltre, scelte dal progetto “Co-City” come uno degli spazi considerati dal Comune come beni condivisi da trasformare, finalità per la quale tutte le associazioni operative nella struttura stanno lavorando ad una proposta di riqualificazione, il che «è un cambio abbastanza radicale rispetto al passato, quando ognuno pensava solo al proprio spazio». Anche se «nel Comune di Torino denuncia Emanuela Saporito - l’interazione fra il settore dell’innovazione sociale e l’amministrazione ordinaria non c’è, o è molto limitata, ed in pochi casi la prima riesce ad intaccare la cultura mainstream dell’ente», “OrtiAlti” è riuscito a diventare un modello, che non ha ancora imitazioni altrove (qualcosa di simile è più facile trovarlo all’estero: a Parigi o Rotterdam) e sta investendo sugli orti di periferia, ma anche in quelli più vicini al centro, ad esempio in “OrTo”, allestito con “Eataly” nel celebre quartiere del Lingotto. 27


Fotografia di Grovemade @Unsplash

Luigi Rossiello

Abitare sostenibile: basta volerlo Il cohousing, modello abitativo collaborativo e sostenibile è, seppur da poco, realtà anche in Italia “Un’idea pratica e concreta del vivere condiviso diversa dal concetto, ormai superato di comune, fortemente contraddistinto, invece, da una scelta ideologica.” Spiega Chiara Gambarana, responsabile sviluppo progetti di HousingLab, associazione guidata da un team di professionisti tutti motivati ed ispirati dal cohousing. “La prima grande distinzione che bisogna fare è che nel cohousing ognuno ha il proprio spazio privato, la propria privacy, alla quale noi italiani teniamo molto. E poi ci sono gli spazi comuni: lavanderia, aree verdi, aree per bambini, orti, sale multiuso, spazi fai da te oltre a facility di ogni genere accessibili a tutti i cohouser.” Condivisione delle competenze e sperimentazione partecipativa sono alla base della mission di HousingLab che si occupa in particolare di divulgare e creare un dibattito socio-culturale intorno al cohousing. Ma non è tutto. L’associazione si è poi prodotta in quella che è la sua naturale estensione, il vero e proprio braccio operativo: Co Housing Lab che - come spiega Gam28

barana - accompagna e fornisce totale supporto ai futuri cohouser nella varie fasi di ideazione dell’abitare sociale. “L’approccio che utilizziamo è quello di essere di supporto ai gruppi. Non siamo noi a proporre un progetto, ma lo costruiamo insieme ai futuri cohouser. Così nelle iniziative che noi seguiamo è il gruppo ad essere imprenditore del proprio progetto seppur sotto la guida di figure specializzate”. L’associazione ha, inoltre, prodotto uno studio, una vera e propria mappatura che rende l’idea dello status quo del cohousing in Italia: da “BaseGaia”, progetto in cui – come rivela Gambarana - i chousing specialist di HousingLab si sono incontrati, a “CO-ventidue” passando per “Housing Giulia” o “Porto15”, solo alcune delle realtà italiane dislocate prevalentemente nel Nord del Paese. In tutti e 40 i progetti considerati di cui 30 abitati, 4 in costruzione e 6 in possesso di edificio o terreno, la sostenibilità è un requisito essenziale. Oltre a dotarsi, nella maggioranza dei casi, di una classe energetica “A”, altre pratiche sostenibili specifiche riguardano la ventilazione meccanica controllata, gli impianti fotovoltaici e geotermici e il recupero delle acque piovane. Le co-

munità ecosostenibili in cui si nota una grande attenzione ai consumi e dove si autoproduce, si auto-costruisce, si ripara e si acquisiscono nuove competenze sono considerabili delle vere e proprie realtà produttrici di welfare. Dallo studio si evince poi chi siano i cohouser italiani. Ad oggi chi sceglie di andare a vivere in cohousing sono per la maggior parte persone di età compresa tra i 35 e i 65 anni (38,2%), mentre il 28% è nella fascia 19-35. Gli over 60 sono il 19,2% e i minorenni il 14,1%. Le percentuali maggiori indicano come per compiere una scelta del genere siano elementi essenziali la maturità unita alla flessibilità di approcciare un “nuovo” concetto abitativo. L’inclusione sociale è poi un altro aspetto che oltre a contraddistinguere le realtà del vivere condiviso può essere considerata una delle soluzioni all’emarginazione sociale. Una piaga sempre più diffusa perché le relazioni umane vengono spesso confinate allo smartphone o al tablet. Se quindi l’idea di vivere in cohousing è per voi un pensiero ricorrente o se vi ha solo sfiorato la mente, passare dal dire al fare è, ora, più semplice.


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Matteo Di Paolo

Samex, la moneta virtuale che riposta l’economia torna al servizio dei cittadini

In principio fu Sardex, nel 2009. Oggi sono già 11 le realtà locali attive, federate alla casa madre fondata in terra di Sardegna. Cosa fanno? Hanno creato un sistema di credito commerciale attraverso una moneta virtuale dedicato ad aziende e liberi professionisti che, in tempi di crisi economica e finanziaria, dà respiro agli associati. Un meccanismo apparentemente semplice che, però, è oggetto di studio in prestigiose università del mondo, ha vinto numerosi premi internazionali ed è stato raccontato anche sul Financial Times. Ne abbiamo parlato con Gianni Ciao, Sara Piccirillo e Luigi Piccirillo. Sono i co-fondatori di Samex, il circuito attivo nel Sannio (Avellino e Benevento) e in Molise, con base a Isernia. La loro storia è già, di per sé, il paradigma del fare impresa sostenibile in Italia. Luigi e Sara sono fratelli, entrambi laureati (Relazioni Internazionali per Luigi, Economia per Sara), con varie esperienze ma tanti dubbi sul futuro. Gianni, lo zio, è un funzionario pubblico. Lavoro fisso e sicuro. Isernia, invece, vive un momento di desertificazione, industrie enormi che chiudono e negozi chiusi. I tre decidono di partecipare insieme a un bando per l’imprenditoria giovanile della Regione Molise. Ottengono il finanziamento, raccolgono da amici e conoscenti il resto dei soldi necessari e partono. Gianni lascia il suo lavoro per accompagnare i nipoti in questa avventura. Immaginate di essere un idraulico e di dover acquistare un’auto. Essendo soci di Samex, decidete di pagarla con la moneta virtuale (il cambio è 1:1 con l’euro). Il concessionario, anch’esso associato, riceve i Samex ed ha ora la disponibilità sul suo conto di una quantità di crediti pari al prezzo dell’automobile. Voi, invece, avrete attinto al vostro conto per pagarla con i Samex ricevuti con le vostre prestazioni. Nel caso il conto non avesse disponibilità sufficiente, attingerete al fido che il sistema mette a disposizione. Tale fido viene au-

torizzato in proporzione alla capacità del soggetto di produrre (o meglio, scambiare) beni e/o servizi nel sistema. Questo significa che altri si affideranno a voi per la vostra attività di idraulico, pagando con i Samex ricevuti precedentemente. Il sistema, dunque, può funzionare anche come fonte di finanziamento per un investimento: un ristorante vegano, ci ha raccontato Luigi, ha avviato l’attività coprendo parzialmente gli investimenti con il fido di Samex. Le transazioni in Samex sono totalmente in regola secondo il codice civile, essendo tracciate eliminano anche il nero. Non ci sono commissioni sulle transazioni ma una quota annuale commisurata alla dimensione dell’impresa. I Samex non possono essere né acquistati versando Euro né convertiti in Euro, pertanto i crediti possono essere spesi e guadagnati solo all’interno del sistema. Questo implica che il saldo non deve eccedere determinati valori negativi ma implica anche che nessuno è particolarmente invogliato a mantenere saldi eccessivamente elevati. Questo è fondamentale, insieme all’attività di brokerage e incontro tra le aziende di cui Luigi è responsabile, affinché questo sistema eroghi il massimo della sua utilità. In termini macroeconomici, infatti, il Samex circola 9 volte più velocemente dell’Euro. Per dirla con uno slogan abusato dalla politica, significa “far girare l’economia”. E non finisce qui: Samex organizza attività benefiche collegate attraverso una Onlus e sposa i principi dell’economia civile e circolare che mira a creare ambienti microeconomici sostenibili a livello locale. Inoltre, il circuito è utilizzato dalle aziende per creare iniziative di welfare aziendale e incentivi al personale. Potrà sembrare una goccia nel mare, ma non c’è dubbio che sia un tentativo virtuoso per cercare di risollevare l’economia, particolarmente depressa in alcune aree del paese.

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1 Iscriviti alla community, proponi il tuo profilo e consulta quelli degli altri membri

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Fotografia di Philip Strong @Unsplash

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L’economia circolare: la prossima killer application? Secondo quanto affermato dal CSER (Centre for the Study of Existential Risk dell’Università di Cambridge) lo scorso 2 agosto è stato il giorno in cui abbiamo utilizzato il limite delle risorse che il nostro pianeta è in grado di riprodurre. Dal giorno seguente in poi, il pianeta Terra è sovrautilizzato. Del resto non è certo una novita’, l’insostenibilita’ di un modello di sviluppo in la richiesta di risorse è superiore a quella effettivamente esistente, e dove le prospettve di sviluppo future sono a rischio. Per questo è necessario modificare radicalmente l’attuale modello economico, passando dal “make, take, waste” al “make, take, make, take”, o economia circolare. La Circular Economy ha come obiettivo quello di ottimizzare l’utilizzo delle risorse, creando valore laddove non si pensa che ve ne possa essere. Guardandola in termini economici: trasformare un costo (smaltimento rifiuti, scarti di produzione, ecc.) in una fonte di ricavo, fidelizzando il cliente e trasformando in modo decisivo il modello di business. Molti studiosi di strategia definiscono la Circular Economy la più grande trasformazione dalla Prima Rivoluzione Industriale di 250 anni fa. Non si tratta infatti soltanto di una “quick fix solution”, ma di un modello innovativo, economicamente sostenibile, e in grado di generare valore attraverso business innovativi e opposrtunita di occupazione. Questo nuovo modello economico, secondo alcune simulazioni, potrebbe portare nell’Unione europea un incremento di 23 miliardi di euro e creare fino a 200.000 posti di lavoro per un incremento pari a 1% nell’efficienza delle risorse.

con una profonda trasformazione della struttura dei costi aziendali, che normalmente vede il costo dei materiali pesare per il 40% contro il 20% di quello del lavoro. L’economia circolare permette la riprogettazione delle catene del valore creando nuove relazioni e partnership economiche tra settori tra loro non “comunicanti” secondo il modello classico. Ciò che è “scarto/ rifiuto” per un settore, può diventare materia prima da trasformarsi per un altro, innescando così nuove dinamiche di domanda/offerta di materiali senza utilizzare risorse aggiuntive, sviluppando innovazione tecnologica, di processo e di concetto, ampliando la possibilità di collaborazione e condivisione. Un esempio? Nel settore automotive è stato stipulato un accordo tra Ford e Kraft-Heinz per cooperare su materiali sostenibili per i veicoli. Kraft-Heinz fornirebbe gli scarti della lavorazione dei pomodori che verrebbero trasformati e lavorati per divenire materiale utile per gli interni dell’automobile. Tutto ciò, come si può ben comprendere, è pura economia di trasformazione in cui le capacità della forza lavoro sono fondamentali, creando nuove professionalità e opportunità d’impiego. Come AmCham stiamo studiando e lavorando su questi temi, convinti che questo modello possa essere la prossima “killer application”: le opportunità future di sviluppo sono sbalorditive, aspettano solo di essere colte.

Una delle caratteristiche che accompagna lo sviluppo di questo modello è la creazione di ecosistemi attorno a imprese pioniere, sia startup che multinazionali. Le nuove catene del valore che si creano in queste condizioni possono portare a massicci guadagni in produttività, 31


Fotografia di Rafa Espada @Unsplash

Claudia Cavaliere

Sarà la finanza a salvare il mondo? RITRATTO DI UN’EVOLUZIONE SOSTENIBILE

Appare difficile collegare la finanza con il concetto di sostenibilità. Eppure questa ricopre un ruolo nella crescente attenzione al tema del cambiamento climatico all’interno delle politiche aziendali e di investimento. La legge 221/2015 in materia di disposizioni ambientali e promozione della green economy richiede, infatti, la partecipazione attiva non soltanto dei cittadini, ma anche delle imprese, nella lotta al surriscaldamento globale. Ogni impresa è chiamata a indicare la propria impronta di carbonio, cioè a calcolare le tonnellate di gas a effetto serra che produce. Ed è qui che entra in gioco la finanza. La carbon footprint di un portafoglio di investimento, in finanza, consiste nel calcolo delle tonnellate di CO2 emesse dalle società in esso presenti. Questa misurazione rappresenta, di fatto, una risorsa per la gestione delle problematiche ambientali. Dati raccolti dal Forum per la finanza sostenibile (2016), mostrano quanto sia complesso misurare le emissioni di CO2. Non tutte le aziende, infatti, rendono pubblica la produzione di gas inquinanti e, perciò, per gli investitori è possibile decidere di disinvestire dalle società che non seguono politiche di trasparenza oppure affidarsi alle stime potenziali che i data provider offrono per le aziende che non foniscono documemntazione a riguardo. Un altro limite potrebbe essere rilevato dal doppio conteggio delle emissioni di CO2 all’interno di uno stesso portafoglio. Invece, per le società quotate, il calcolo della carbon footprint può sempre essere stabilito sugli investimenti azionari. Valutare l’impatto delle emissioni di CO2 è rilevante in relazione alle strategie di investimento adottate per ridurle. Pertanto, gli investitori possono seguire una politica di engagement, cioè di dialogo tra le 32

imprese investitrici per ridurne la portata; di disinvestimento, cioè la vendita delle azioni delle società a cui si appartiene la maggioranza delle emissioni – ma attenzione, quelle azioni restano sul mercato e potrebbero essere acquistate da investitori più aggressivi e meno sensibili alle tematiche ambientali; di riallocazione, la sostituzione, quindi, dei titoli a più elevata emissione con altri a minor impatto ambientale e l’orientamento verso strategie green. È in questo segmento che si inseriscono gli esempi virtuosi di progresso economico e climatico che trovano espressione nella policy aziendale di gruppi per cui la sostenibilità è un valore. Come COIMA – società specializzata nella gestione immobiliare - che ha collaborato alla progettazione delle torri residenziali del “Bosco Verticale” di Milano: la flora che abbraccia l’edificio funge da schermatura dai raggi solari, creando un ambiente confortevole e riducendo i consumi della climatizzazione, l’intera area è stata riqualificata ricorrendo all’energia geotermica delle falde acquifere milanesi, il ricorso alle fonti rinnovabili per fronteggiare il fabbisogno della popolazione. Anche il gruppo Intesa Sanpaolo, che nel 2016 ha stanziato il 3.1% del totale dei finanziamenti su progetti a impatto green e lo scorso giugno ha collocato un green bond da 500 milioni di euro destinato a progetti di efficienza energetica ed energia rinnovabile, ha abbracciato la Circular Economy. Questa consiste in una strategia di sviluppo sostenibile rigenerativa e sostitutiva del capitale naturale. La Circular Economy ha l’obiettivo di preservare il valore dei prodotti, delle loro componenti e dei materiali per l’intero ciclo di vita, dando alle imprese la possibilità di aumentare la produttività delle risorse utilizzate, ridurne i costi e migliorarne il valore l’impatto finale. Centonovantacinque Paesi hanno ratificato l’Accordo di Parigi sulla lotta al riscaldamento globale - era il 4 novembre 2016. Dieci mesi dopo, insieme a Nicaragua e Siria, gli Stati Uniti hanno scelto di non partecipare all’intesa. Politica in panchina, finanza e clima in pista: chi è pronto a seguirli in questo tango?


innovazione e territorio

In collaborazione con

NICOLÒ SCARANO

La sfida? Mettere in relazione le persone

Una chiaccherata con l’assessore Marco Giusta sui progetti di innovazione sociale a Torino L’innovazione sociale, prima di tutto: cos’è? “Difficile da dire, in una sola frase. A chiunque lo chiedi, ti dà una definizione diversa. Per me, per la mia esperienza, è descrivibile come lo spirito di trasformazione di una città che sperimenta nuovi modi, nuove procedure, nuove pratiche, e che in ogni sua attività, anche di impresa, si assicura che vi sia un impatto sociale positivo sulle comunità, sulle relazioni”, racconta Marco Giusta, che da poco più di un anno è Assessore alle Pari Opportunità della Giunta Appendino al Comune di Torino e assieme alla collega all’Innovazione Paola Pisano si occupa di questi temi da poco più di un anno. Nella vecchia capitale sabauda tutto comincia nel 2014, quando la precedente amministrazione inaugura l’iniziativa capofila dell’innovazione sociale, non a caso denominata Torino Social Innovation, un programma per sostenere la nascita di imprese in grado di rispondere a bisogni sociali emergenti: “Il tutto ruota attorno a un fondamentale cambio di paradigma: la realtà della Pubblica Amministrazione non è più un semplice attuatore di bandi e distributore di fondi, ma stabilisce un contatto costante e diffuso con la cittadinanza, ne ascolta e intercetta le proposte quando faticano a farsi sentire, costruisce un vero e proprio processo di accompagnamento che faccia fiorire quelle idee e renderle sostenibili”, dice Giusta. Sin dal 2014, insomma, l’iniziativa ha ricevuto 300 proposte, ne ha accompagnate 70 nella costruzione progettuale e nel reperimento delle risorse, e 32 le ha anche portate a finanziamento. Tra queste Pony Zero, una cooperativa di trasporti guidata da giovani torinesi che con un algoritmo gestiscono ordini e consegne a emissioni zero di qualunque oggetto, cibo compreso, un po’ come la criticatissima Foodora a Milano. Ma allora qual è la differenza tra certe azioni di innovazione sociale e la sharing o gig economy? “La differenza è sostanziale: si fa innovazione sociale spostando l’obiettivo dal profitto di

chi gestisce una piattaforma centrale all’impatto sociale che quell’impresa, quelle azioni producono. Sia per chi ci lavora, come i ragazzi che producono l’algoritmo o più semplicemente consegnano in bicicletta, sia per la comunità, il quartiere, la città, la sostenibilità ambientale del tutto”, afferma l’Assessore. La domanda vien da sé: ma l’innovazione sociale, allora, può anche generare nuovi posti di lavoro? “La condizione di chi, dal pubblico, sostiene progetti di innovazione sociale è che questi siano sostenibili non solo nel breve ma anche nel lungo termine, di fatto creando impiego. La visione generale è che le idee progettuali di un individuo, ad esempio, possano svilupparsi attraverso il confronto con più persone e realtà”, racconta Giusta. La sfida più importante e complicata, dunque, è proprio mettere insieme le persone. “La ricerca di ANCI Giovani, Always On, che punta a scoprire quali sono i canali di informazione che possano raggiungere e anche mobilitare anche i giovani più rassegnati e delusi, come i NEET, va proprio in questo senso”. La storia e la natura dell’uomo, tuttavia, insegnano che per mettere insieme idee e persone l’informazione e la comunicazione sono importanti, ma è ancor più fondamentale che esistano articolazioni fisiche per farlo. È il concetto che sta dietro le Case di Quartiere che stanno sorgendo in ogni quartiere di Torino: luoghi che, anche grazie a progetti di rigenerazione urbana - come Co-City, basato sul Regolamento dei Beni Comuni e vincitore del bando europeo Urban Innovative Actions - fanno da veri e propri acceleratori di proposte innovative e buone pratiche. “Con FirstLife, ad esempio, un vero e proprio social civico, uno spazio online dove idee dal basso possono crescere autonomamente e trovare sponsor tra i cittadini stessi, stiamo sviluppando un nuovo tipo di relazione tra cittadinanza e amministrazione, tra centro e periferia, tra imprese e utenti, un nuovo tipo di relazione finalmente generativa e sostenibile”. 33



il punto di vista delle aziende

GERARDO FORTUNA

Tra innovazione e opportunità di business. L’importanza della sostenibilità per Enel Accesso all’energia e sviluppo socio-economico sono 2 dei 4 obiettivi per lo sviluppo sostenibile che Enel ha abbracciato nel suo piano strategico. Quanto è importante questa dimensione per le imprese? In Enel crediamo che gli obiettivi nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile non si possano raggiungere solo a livello politico, ma richiedano anche un ruolo essenziale del settore privato. Le imprese globali più avanzate, ed Enel rientra pienamente in questo gruppo, vedono il fattore della sostenibilità socio-economica come un’opportunità. Di che tipo? Fornire energia a più di un miliardo di persone che oggi non vi hanno accesso, è già di per sé una grande opportunità di business. Ma c’è anche un discorso che lega la sostenibilità all’innovazione, che viene generata proprio nel momento in cui, approcciandosi a questi nuovi clienti, si comprende come le loro esigenze il più delle volte non possano essere soddisfatte da vecchie tecnologie. I miglioramenti tecnologici sono velocissimi proprio perché spinti dalla necessità di trovare soluzioni a esigenze nuove. Dunque si crea un valore condiviso, sia per le popolazioni locali che per le imprese? Esattamente. Dare un contributo al territorio in cui si investe non è “buonismo”, ma un elemento strategico. I nostri asset, come reti e centrali, sono presenti sul territorio per 30,40 e più anni, il che ci rende at-

tori di lungo periodo. La crescita complessiva delle comunità in cui operiamo diventa perciò anche un fattore di protezione dei nostri investimenti: non si può pensare di fare profitto se la crescita non è condivisa nell’ambiente circostante. Nuove opportunità di business portano anche a forme di competizione tra imprese? Certo, ma una competizione più che buona. C’è tantissimo lavoro da fare e ce n’è per tutti. Nascono anche forme di collaborazione tra imprese di settori diversi proprio per sviluppare risposte comuni a queste sfide gigantesche che nessuno può risolvere da solo. Senza contare un elemento di novità come lo spazio di collaborazione tra pubblico e privato.

Passando all’Italia, c’è del potenziale sostenibile dell’economia circolare? Sì e soprattutto nel concetto di circolarità delle risorse. Un progetto interessante che stiamo portando avanti si chiama Futur-e e riguarda la riqualificazione di 23 impianti di generazione non più competitivi. Non abbiamo intenzione di celebrarne il funerale, al contrario, vogliamo dare loro opportunità di nuova vita ascoltando idee progettuali degli stakeholders locali per trovare nuovi utilizzi, anche produttivi, per questi siti. Il territorio è uno degli elementi più preziosi che abbiamo in Italia: non occuparne altro per creare nuove attività economiche, grazie al riutilizzo di vecchi siti, è un grande valore che possiamo dare al Paese.

Al centro dei vostri scenari ci sono anche le megacity. Come far sì che questi grossi aggregati urbani diventino smart e non bidonville? Non solo l’urbanizzazione fa parte del nostro scenario strategico, ma anche le diseguaglianze che potrebbero crescere all’interno delle città. Guardiamo ad esempio ai clienti a basso reddito, per permettere loro accesso e un utilizzo efficiente dell’energia. La rete elettrica è la spina dorsale di queste smart cities grazie alla digitalizzazione, che permette agli stessi clienti di diventare produttori riportando in rete l’energia in eccesso. È un fenomeno che in parte sta già avvenendo e che è guidato da avanzamenti tecnologici che Enel ha contribuito a sviluppare, come nel caso del nostro lavoro pioneristico sui contatori digitali 35


il punto di vista delle aziende

GERARDO FORTUNA

Come muovere lo share value, dentro e fuori le stazioni. Il valore aggiunto che si può ricavare dagli spazi condivisi

La ricetta di sostenibilità sociale del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane è semplice e intuitiva: creare valore per la collettività mettendo in comune il proprio immenso patrimonio immobiliare. Ce ne ha parlato Fabrizio Torella, responsabile attività sociali del gruppo FS. E siamo partiti proprio da come coinvolgere maggiormente i giovani… Esiste un concreto impegno del Gruppo FS Italiane per avvicinare gli studenti universitari alla sostenibilità sociale e ambientale? Il Gruppo FS Italiane crede fortemente nel coinvolgimento dei giovani studenti, delle diverse università italiane, a tal punto da creare percorsi e progetti di sostenibilità sociale pensati esclusivamente per loro. Abbiamo già coinvolto circa 1500 giovani in una prima fase “comunicativa” e ne abbiamo previsto anche una seconda per stimolare elaborazioni di tesi di laurea su tematiche sociali e ambientali. Per chiudere il cerchio vogliamo promuovere sempre più un sistema premiante che selezioni le idee migliori, visto che dalle università ci arrivano spesso proposte innovative che il nostro gruppo potrebbe mettere in pratica da subito. Secondo Lei, quali gli aspetti che interessano maggiormente i giovani rispetto alle iniziative che il Gruppo FS Italiane sviluppa? Gli studenti sono molto incuriositi dalla gestione virtuosa del riuso del nostro patrimonio immobiliare aziendale, e dal tema 36

delle “greenways” ovvero, la riconversione di vecchie linee dismesse in piste ciclo-pedonali. Spesso i giovani restano sorpresi dalle nostre attività perché non immaginano che attorno alle stazioni possa ruotare un mondo così attento alla sostenibilità. Come può essere visto in quest’ottica il riutilizzo degli immobili del gruppo? Sono 450 le stazioni ridate al territorio per utilizzi diversi da quelli ferroviari per cui erano state concepite: diventano così teatri, centri d’arte, punti informativi per giovani. Il nostro approccio è quello di “share value” attuando a livello diffuso una politica di comodato d’uso gratuito: un vantaggio per noi nell’avere un immobile ristrutturato a costo zero, ma anche per la collettività locale con la creazione di sviluppo sociale, culturale ed economico. Un esempio? La stazione di Potenza superiore è un esempio valido di quanto stiamo facendo. Abbiamo dato in comodato d’uso gratuito un nostro fabbricato storico a Legambiente, che ne ha fatto una propria sede associativa e uno spazio mercato per produttori locali. La stazione è solo impresenziata, significa che anche se non è più previsto l’utilizzo di nostro personale, ha un servizio ferroviario regolare. Quindi oltre alla ristrutturazione, per cui Legambiente ha investito oltre 400.000 euro, abbiamo il vantaggio che i nostri clienti non dovranno più attraversare aree disagiate ma ripulite.

E tra i vantaggi per la collettività? Penso ad esempio al reinserimento sociale di alcune categorie. L’immobile è stato ristrutturato in una classe di quasi autosufficienza energetica e la coibentazione e la posa dei pannelli fotovoltaici è stata affidata a una cooperativa che ha impiegato dei richiedenti asilo, appositamente formati da un ingegnere e che ora sono professionalizzati. FS italiane è attenta anche al tema del disagio. Che Italia si trova nelle stazioni? La solidarietà è da sempre un valore fondamentale per il Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane. Ogni anno il nostro osservatorio ONDS fotografa la situazione di disagio nelle stazioni. Dalla crisi del 2007 abbiamo constatato l’emergere di nuove povertà, coinvolgendo non solo migranti ma anche un settore della società civile italiana prima immune. Gli Help Center di FS sono centrali nella gestione di queste nuove povertà. Gli “Help Center” sono stati pensati come rete di accoglienza e orientamento ai servizi sociali delle città. Ad oggi, sono 17 e sono strutturati sul modello teorico di sussidiarietà circolare che prevede un rapporto collaborativo tra imprese, terzo settore e istituzioni. Negli “Help Center” lavora un piccolo esercito di circa duemila operatori specializzati che interpreta i bisogni delle persone disagiate monitorando quotidianamente le stazioni.


start-up world

ANTONIO CARNEVALE

Nel futuro il traffico diventerà un gioco da ragazzi grazie a MUV Il modo in cui ci sposteremo nelle città di domani è destinato inevitabilmente a cambiare. Ma la tecnologia può aiutarci non solo a realizzare nuovi veicoli e infrastrutture più moderne, ma anche a far crescere una coscienza diversa nella popolazione. La startup We Push punta a cambiare i nostri stili di vita, attraverso un gioco. Settembre 2030: un gruppetto di persone prendono un caffè all’interno del modulo Starbucks della loro auto Next, mentre un taxi volante sfreccia di fianco alla funivia, le auto senza guidatore portano i passeggeri al lavoro e un gruppo di ciclisti a bordo delle loro bici elettriche si infila nel tunnel della metro per imboccare la nuova pista ciclabile sotterranea appena inaugurata dal sindaco. No, questo non è un film di fantascienza, ma soltanto una breve sintesi dei progetti di mobilità sostenibile più avanzati, a livello globale. Come ci sposteremo nelle città di domani? È una delle domande cruciali a cui la tecnologia sta cercando di dare una risposta. Non soltanto attraverso lo sviluppo di nuove auto o infrastrut-

ture più efficienti, ma anche incoraggiando i cittadini a muoversi in modo più sostenibile. Ed è proprio questo l’obiettivo di un gruppo di amici palermitani che ha dato vita a un progetto unico nel suo genere. «È un gioco a tutti gli effetti - racconta Salvatore Di Dio, tra i fondatori della startup WePush - con un’app per smartphone, classifiche in tempo reale, sfide tra amici, badge e premi». Tutto nasce nel 2012 dal progetto trafficO2, co-finanziato dal MIUR. Oggi, dopo diversi premi vinti, numerosi sacrifici e la partecipazione a un percorso di accelerazione di Google, è nato MUV, che sta per “Mobility Urban Values”. Presentato a Quito in occasione della conferenza ventennale sul futuro delle città “Habitat III”, è una versione evoluta di trafficO2, finanziata dall’Unione Europea attraverso la call Horizon 2020. E il gioco funziona. Già con la prima versione infatti, era stato possibile misurare - durante una fase di test effettuata a Palermo – un calo di più del 40% delle emissioni di CO2 da parte degli utenti. La regola è una sola: «se ti muovi in modo più sostenibile ricevi qualcosa in cambio», spiega Di Dio. A piedi, in bici, o facendo car-pooling, sarà sufficiente avere uno smartphone con sistema gps e sensori di movimento per giocare. L’obiettivo è «premiare i comportamenti più virtuosi e rispettosi dell’ambiente collaborando con aziende locali e sponsor».

Gli esercizi commerciali ospiteranno delle stazioni interattive in grado di raccogliere anche dati sull’inquinamento ambientale. Le informazioni circa le abitudini di mobilità saranno poi offerti, in forma anonima, alle pubbliche amministrazioni locali e rilasciati in Open Data, per stimolare la creazione di servizi a valore aggiunto. Il primo rilascio del gioco è previsto a maggio 2018. Sei, al momento, le città coinvolte: Palermo, Amsterdam, Barcellona, Helsinki, Ghent e Fundao. Il futuro dei trasporti non è dunque soltanto nelle auto senza conducente. Di Dio ne è convinto: «Dobbiamo modificare i nostri comportamenti - spiega - iniziare a consumare e sprecare meno». Ma quanto tempo ci vorrà prima che le persone acquistino consapevolezza dell’effettiva necessità di un cambiamento dei propri stili di vita? «In realtà – continua il founder di We Push - ci vuole molto poco per far salire su un autobus qualcuno che non l’ha mai fatto, far riesumare biciclette sepolte da anni in garage e far passeggiare gente abituata a utilizzare l’auto anche per affrontare poche centinaia di metri». Del resto, loro sono riusciti a farlo già a Palermo, dove una delle “peggiori piaghe” come sosteneva uno dei personaggi del film Johnny Stecchino, è proprio il traffico. Ma lui non sapeva che, per i ragazzi di We Push, il traffico è solo un gioco da ragazzi.

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i lavori del futuro

NICCOLÒ PICCIONI

WeMake. L’alternativa creativa e digitale alla società degli sprechi In un mondo dove gli oggetti hanno vita breve, e la parola d’ordine è divenuta gettare, sostituire, ricomprare; sostenibilità significa invertire questa tendenza, per tornare alla condivisione, al riciclo, al riuso, all’essenziale. Lo ha ben presente Zoe Zomano, fondatrice insieme a Costantino Bongiorno di WeMake. Makerspace di Milano dove, spiega Zoe «proviamo ad immaginare nuove tipologie di prodotti customizzabili, riparabili e producibili solo quando qualcuno li vuole acquistare. Il movimento dei maker, di cui facciamo parte, nasce dal rifiuto di quel consumismo dei prodotti usa e getta, progettati secondo le regole di un’obsolescenza programmata che ha a cuore soltanto il profitto». Un luogo di incontro, una palestra, una scuola: ognuna di queste parole ben si adatta al modello WeMake. Dai corsi per bambini, alle specializzazioni per professionisti, questo spazio altamente digitalizzato è finalizzato ad incentivare la collaborazione e la sostenibilità di ogni attività. «La fabbricazione digitale permette di creare un’alternativa alla produzione di massa, a prez38

zi contenuti, ed evitando sprechi ed esternalità negative» continua Zoe Romano. E questo non è l’unico impegno, in una prospettiva di lungo periodo che troppo spesso manca alle istituzioni. «Dedichiamo molto tempo a formare cittadini, istituzioni e imprese nel diventare soggetti attivi all’interno della produzione, attraverso il trasferimento di competenze tecnologiche, ma soprattutto sviluppando quelle soft skill fondamentali per lavorare nel contesto contemporaneo. Oggi, infatti, non è più sufficiente essere specialisti in qualche cosa: bisogna essere in grado di lavorare in gruppi interdisciplinari, avere competenze digitali e coltivare autonomia di progettazione e gestione». Al di là della produzione, è il concetto di “Collettivo” a riemergere: comunicare, mettere in comune, condividere per unire. Non solo innovazione tecnologica, quindi, ma sostenibilità sociale. WeMake si compone di due realtà distinte tra loro: da una parte l’impresa, dall’altra l’Associazione. «L’Associazione è nata un anno prima dell’impresa e attraverso di essa abbiamo creato un format di evento intitolato Popup Maker, che si è poi tenuto anche a Torino e Roma, appoggiandosi alle comunità di maker locali. L’evento mensile ed itinerante ci è servito per iniziare a far conoscere chi già era attivo in città. Ci si trovava alle 19 e, durante un aperitivo,

si presentavano 3 progetti. Potevano essere anche prototipi ma dovevano implicare un oggetto fisico da mostrare al pubblico, realizzato con tecnologie di fabbricazione digitale (stampanti 3d, Arduino o taglio laser). I partecipanti avevano così l’occasione di ricevere feedback sul progetto e, a volte, incontrare collaboratori, per portarlo avanti. Quando abbiamo aperto WeMake, abbiamo dovuto creare una SrL per riuscire più facilmente a gestire la varia burocrazia di un makerspace con strumenti direttamente accessibili dagli utenti. Ora, a seconda del tipo di progetto che dobbiamo fare, utilizziamo l’associazione o la srl». Zoe Romano e Costantino Bongiorno segnano, assieme a tantissimi makers, un nuovo corso della storia: «portare l’esperienza di progetti collettivi -nati in contesti di mediattivismo con un punto di vista critico sulle dinamiche della società contemporanea impregnata di tecnologia- per arrivare a una modalità di lavoro e produzione in grado di svincolarsi dalle narrative di consumo e successo della famiglia felice della pubblicità». E non importa se il prodotto finale è un orecchino, una borsa LED, o un vaso realizzato con stampante 3D; perché WeMake ridefinisce l’intero sistema produttivo, dando spazio alla creatività, senza obbligare una produzione massiva.


health & science BARBARA HUGONIN

Italia longeva: la sfida sanitaria del futuro Il nostro Paese invecchia. Si stima che nel 2050 un italiano su tre avrà superato i 65 anni. Se l’allungamento della vita media è il dato positivo, bisogna tenere conto anche della qualità: sono oltre tre milioni gli over 65 interessati da una patologia severa cronica che richiede un’assistenza continua. Un’indagine condotta da Italia Longeva mette in luce la situazione dell’assistenza sanitaria alla popolazione più anziana, rilevando in primo luogo una profonda disomogeneità nei servizi offerti dalle ASL italiane. L’aspetto positivo dell’aumento della vita media, legato a delle migliori condizioni generali, è bilanciato negativamente dall’incapacità di offrire un adeguato supporto a chi è interessato da patologie di lungo corso (malattieneurodegenerative, cardiovascolari, rare, diabete, solo per citarne alcune). La mancanza di un piano unitario a lungo raggio si sente, soprattutto nell’ambito dell’assistenza sanitaria domiciliare e nell’assenza di cooperazione tra i Comuni e le Aziende territoriali. Il problema di fondo è che mentre una fetta della popolazione occupa la fascia over 65, esiste anche la fascia 25-55 che si trova in mezzo. È composta da coloro che rivestono, contemporaneamente, il ruolo di genitore e di figlio, dividendosi tra accudimento della famiglia e di un genitore, magari non eccessivamente anziano, ma affetto da patologie importanti. Attualmen-

te sono 4 italiani su 10 a vivere questa situazione. Molto spesso si ricorre al ricovero perché le strutture sanitarie non offrono un servizio ambulatoriale e/o domiciliare adeguato, con il conseguente sovraccarico del pronto soccorso. Attualmente in Italia vengono assistiti a domicilio meno di 3 italiani su 100, contro il 20% dei Paesi del Nord Europa e questo è un dato non più trascurabile. Non è possibile parlare di longevità e buon invecchiamento se non si offrono servizi e strumenti adeguati alla popolazione più fragile. Quest’ultima, con l’adeguato sostegno, potrebbe raggiungere un’ottima qualità di vita. Inoltre pochissime ASL coprono tutti i servizi domiciliari necessari (l’Asl di Salerno è una delle poche), e vi è spesso una massiccia presenza di gruppi privati nell’ambito dell’assistenza sanitaria rispetto al pubblico (in Emilia Romagna è totalmente pubblica ad esempio). Ad incidere fortemente sulla gestione di una patologia cronica in una persona anziana è l’aspetto burocratico, fatto di richieste per visite o di qualsiasi altro servizio, con trafile lunghissime e tempi insostenibili. Da qui emerge l’importanza di una cooperazione tra le strutture sociali dei Comuni e le Aziende sanitarie territoriali. L’obiettivo è delineare una politica di organizzazione per la popolazione più anziana, al fine di snellire la burocrazia e rendere più semplice l’accesso ai farmaci. Il gruppo Mediolanum farmaceutici, ha appoggiato la ricerca di Italia Longeva, puntando sulla centralità del paziente come persona, e sottolineando quanto sia importante essere accuditi nella propria casa e avere accesso a cure sempre più mirate e gestibili. No-

nostante moltissime regioni ritengano sia dispendiosa, l’assistenza domiciliare oltre un certo numero di ore non costa di più, infatti le ricadute positive sul paziente si presentano in termini di miglioramento della condizione generale. L’obiettivo presente e futuro è uno Stato che fornisca un sostegno sanitario e sociale di qualità ad una popolazione anziana che tende a superare quella più giovane e non può essere lasciata sola o gravare sulle spalle della propria famiglia e vaccinazioni, con corredo di post a difesa delle proprie teorie. La disinformazione in internet corre anche più velocemente della corretta informazione, tra credenze, opinioni di ‘complottisti’ e associazioni di ‘pseudoscienziati’ pronti a giurare che il vaccino in ogni caso faccia male. Con il web sono nate anche le cyber-sette che inneggiano all’anoressia e propongono diete e metodi che peggiorano la malattia. La rete in questo caso unisce in maniera pericolosa utenti affetti dallo stesso disturbo, gli effetti sono imprevedibili. Per non parlare poi dei seguaci delle cure naturali per il cancro e per il diabete. In molti casi, una fetta della popolazione più fragile e toccata da situazioni personali difficili può diventare preda di chi si propone con titoli non ben specificati e linguaggi da similsantoni. I risvolti, come insegna la cronaca, possono essere anche drammatici. I dati sono sempre più inquietanti. È qui che subentra il ruolo della comunità scientifica, che ha il compito di vigilare e riappropriarsi del fattore umano della medicina, e delle istituzioni che devono educare attraverso la corretta informazione.

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policy room A CURA DI RETI

Digitale e sharing economy: le iniziative di questa legislatura Nel corso della XVII legislatura il Parlamento italiano si è confrontato con il tentativo, talvolta maldestro, di regolare modelli economici e culturali nuovi, fondati sulla sempre maggiore diffusione di tecnologie abilitanti come gli smartphone e i sistemi operativi aperti. Tra i tentativi messi in campo, si segnala anzitutto l’iniziativa della On. Tentori in materia di sharing economy. Sebbene la proposta abbia poche probabilità di vedere la luce nella legislatura in corso, essa ha avuto il pregio di attivare un’interlocuzione attiva tra legislatore e operatori del settore, ponendo le basi per alcuni dei successivi interventi normativi. Molto più risonante da un punto di vista mediatico la norma cosiddetta “tassa Airbnb”. La manovra correttiva (Decreto legge n. 50/2017) ha disposto che, per i contratti stipulati a partire dal primo giugno 2017 anche per mezzo di piattaforme di intermediazione quali Airbnb e simili, si applichino le disposizioni relative al regime della cedolare secca con ritenuta al 21%. Non è una novità: gli affittuari erano già obbligati a dichiare i canoni percepiti ma, secondo i sostenitori dell’iniziativa, questi redditi restano spesso non dichiarati. Particolarmente critico il tema della riscossione: i gestori delle piattaforme, spesso non residenti in italia, non sarebbero in grado di svolgere il ruolo di sostituto d’imposta. Anche l’opzione di nominare un rappresentante fiscale appare inadeguata, oltre al fatto che gli operatori lamentano l’impossibilità tecnica di adeguarsi nei tempi previsti dalla manovrina. La legge di conversione della manovra correttiva è stata inoltre scenario di uno dei più controversi “pasticci” normativi della legislatura. Un emendamento approvato “clandestinamente” in commissione Bilancio alla Camera ha ripristinato i limiti per le autorizzazioni ai servizi di linea interregionale, già introdotti dal Ddl Milleproroghe e abrogati dal decreto legge contenente la stessa manovrina. La norma prevede che solo i raggruppamenti di impresa il cui capogruppo esegue come attività principale quella di trasporto possano ottenere 40

l’autorizzazione ad operare, escludendo così Flixbus, il cui modello di business si fonda invece sull’offerta di servizi di marketing, di biglietteria e amministrativi alle imprese di trasporto locali. Nel momento in cui si scrive, nuovi emendamenti al Ddl Mezzogiorno, che chiedono di sostituire la norma anti-Flixbus con l’impegno ad istituire un tavolo per il riordino della disciplina in materia di servizi automobilistici interregionali di competenza statale, sono in attesa di essere posti al voto. Dalle recenti esperienze legislative si desumono due semplici lezioni. La prima è che norme troppo stringenti sui temi legati all’innovazione rischiano di tramutarsi in un flop, con danni non solo per gli operatori e i lavoratori del settore, ma per il progresso dell’intero ecosistema, che si basa, appunto, sulla promozione di una cultura dell’innovazione e sulla possibilità di adattare in maniera flessibile le norme alla rapida evoluzione della tecnologia. La seconda è che l’innovazione tecnologica deve calarsi nel quadro normativo per mettersi al servizio del tessuto culturale, sociale ed economico. A tale scopo, le piattaforme non possono che avviare un rapporto di collaborazione con le istituzioni, così da porsi come strumenti per la crescita e per il miglioramento delle condizioni di vita degli utenti e dei cittadini. In questa direzione va un’altra delle proposte contenute nella manovrina, volta a risolvere controversie di natura fiscale per tutte quelle aziende multinazionali, quindi anche quelle del web, per le quali non è semplice definire la base imponibile. La nuova “webtax” fortemente voluta dal presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, istituisce una procedura di cooperazione tra multinazionali che svolgono attività economica in Italia e l’Agenzia delle entrate. In attesa di soluzioni sovranazionali, la norma potrebbe portare all’erario fino a 5 miliardi all’anno, senza incidere in misura eccessiva sulle scelte strategiche delle aziende multinazionali che operano sul mercato italiano.


food and furious

lifestyle

fashion

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fashion mariastella ruvolo

Dagli scarti alla passerella. Con le arance si può! Gli scarti degli agrumi non si buttano più, anzi, diventano una risorsa utile per produrre tessuti sostenibili per la moda Orange Fiber è la prima azienda al mondo a produrre una stoffa realizzata a partire dal sottoprodotto dell’industria di trasformazione agrumicola dalle rimanenze della lavorazione degli agrumi: il pastazzo. E l’idea non poteva che venire in mente a due siciliane, due catanesi DOC per la precisione: Adriana Santanocito ed Enrica Arena. Nel 2011, nel corso dei suoi studi in Fashion Design e materiali innovativi all’AFOL Moda di Milano, Adriana intercetta il trend dei tessuti sostenibili e decide di approfondire l’argomento nella sua tesi. Parallelamente, entrando in contatto con i produttori di agrumi, rimane molto colpita dalla sofferenza del settore - le cui arance faticano ad entrare sul mercato - e ha l’intuizione di poter utilizzare gli agrumi per creare un tessuto innovativo. Dalla teoria, riesce ben presto ad arrivare alla pratica, e dopo aver provato la fattibilità del processo con il laboratorio di Chimica dei Materiali del Politecnico di Milano, deposita il brevetto italiano, esteso poi in PCT internazionale nel 2014. È durante lo sviluppo del processo che scopre l’altra grave questione che affligge il settore agrumicolo siciliano: lo smaltimento dei sottoprodotti della spremitura – ovvero di tutto quello che resta dopo la produzione industriale di succo - che vale circa 1 milione di tonnellate l’anno in Italia - e la cui gestione comporta ingenti costi economici per le industrie di trasformazione e impatta l’ambiente.Condivide la sua idea con la coinquilina Enrica, laureata in Cooperazione Internazionale per lo sviluppo e in Comunicazione, che ne resta colpita e sposa il progetto, diventando la responsabile marketing, comunicazione e fundraising della nuova azienda. Dalle arance oggi nascono tessuti come un raso e un popeline - ottenuti tessuto il nostro esclusivo filato insieme alla seta comasca e al cotone - e un twill 100% Orange Fiber, impalpabile e leggero, simile alla viscosa. L’anno successivo, il progetto ha partecipato a Changemakers for Expo, dove è stato premiato come il miglior progetto di sostenibilità am-

bientale e sociale. Un’azienda moderna e innovatrice, ma soprattutto sostenibile. I sottoprodotti agrumicoli costituiscono infatti uno dei maggiori problemi della filiera di trasformazione degli agrumi, data la difficoltà e i costi di smaltimento (soltanto in Italia vengono prodotti ogni anni circa 700.000 tonnellate di scarti). Orange Fiber è stata quindi in grado di trasformare un ostacolo in una soluzione innovativa e di tendenza. A credere nelle potenzialità di questo nuovo tessuto ecosostenibile, è stato anche un grande marchio del Made in Italy che ha tradotto il suo motto “Responsible Passion” in un dato di fatto: il 22 aprile scorso, in occasione 47° Earth Day, è stato siglato il sodalizio tra la maison Ferragamo e Orange Fiber. La maison ha lanciato infatti la capsule collection, composta da capi per tutti i giorni freschi e leggeri, realizzati con i tessuti prodotti da Orange Fiber, ideali per la stagione primavera-estate. Sono in tutto una decina tra pantaloni, camicie, abiti e foulard. Oltre a questo l’azienda fa oggi parte del portfolio Fashion Tech Lab – FTL Ventures, un fondo internazionale di venture capital fondato dall’icona della moda, imprenditrice e fashion editor Miroslava Duma. Le arance dalla Sicilia, ad Expo per finire sulle passerelle dell’alta moda. Chi sarà il prossimo a non perdere il filo?

Fotografia di Stefano Sciuto

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lifestyle Marika Aakesson -IED

Design for Smart Urban Commuting Immagina un viaggio in città: veloce, sicuro, respirando aria pulita. È quello che hanno fatto gli studenti dell’Istituto Europeo di Design durante il corso Triennale di Product Design presso IED Roma, attraverso lo sviluppo di concept concreti e innovativi legati al mondo della mobilità sostenibile. Per mostrare che muoversi dentro la città in modo sostenibile è possibile, la migliore strategia sta nel creare esperienze positive, in modo da aiutare le persone a cambiare e a mantenere nuove abitudini virtuose. Secondo The State of European Cities 2016 di EU e UN, oggi in Europa il 72% delle persone abitano in città e si prevede che il numero aumenterà. Lo sviluppo sostenibile delle aree urbane è una necessità che diventa sempre più complessa da assolvere e una delle sfide maggiori consiste nell’aumentare le infrastrutture per adeguarle alle esigenze dei cittadini mentre allo stesso tempo si deve ridurre l’inquinamento dell’aria. Una delle soluzioni è quella di scegliere la pratica multimodale: usare i mezzi pubblici collettivi insieme ad altri mezzi non-inquinanti e a tratti a piedi. Utilizzare la bicicletta oppure camminare quotidianamente, risolverebbe inoltre un altro enorme problema di oggi; la vita sedentaria. Secondo molte ricerche, inoltre andare in bici allungherebbe la vita. Allora, perché no? L’obiettivo del progetto dedicato alla mobilità sosteni44

bile, quindi, è quello di creare un’esperienza positiva per gli urban commuter, attraverso l’uso di prodotti e servizi fruibili singolarmente, in piccoli gruppi oppure aperti a tutti attraverso i social network. Per progettare un’esperienza si parte sempre dalla ricerca, dall’osservazione e dall’interazione con le persone a cui va proposta, in modo da capire se funziona e, aspetto da non sottovalutare, se è piacevole. Durante i tre anni in cui il progetto si è sviluppato gli studenti hanno progettato bici e monopattini elettrici, caschi interattivi, giacche tecniche, maschere antismog, sensori e app per scoprire le strade meno inquinate e condividere i dati e le mappe con altri utenti. Tutti i progetti mirano a rendere viaggi e spostamenti facili, piacevoli, sicuri e divertenti. Tutto questo è stato possibile anche grazie alla collaborazione tra IED e due aziende: F&N Compositi di Latina e ZEHUS di Milano. La prima è una piccola media impresa specializzata nella realizzazione di componenti e veicoli in fibra di carbonio, mentre la seconda è una startup che opera nel settore della smart mobility, famosa per il suo motore elettrico Bike+. Entrambe hanno una visione ampia, sono disponibili a condividere il loro know-how e sono alla ricerca di giovani talenti con voglia di fare. Insieme a loro, i progetti sono stati esposti in occasione di fiere ed eventi di settore, riscuotendo un notevole interesse da parte del pubblico e dei media. Al momento è in produzione, inoltre, la bici in fibra di carbonio Zash di Lorenzo Perna, diplomato IED Roma, prodotta da F&N Compositi e che porta il motore Bike+ di ZEHUS.


Gabriele Gurrola@unsplash

Fotografia di Thomas Gamstaetter

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food and furious marta leggio

Matrimoni & altri rimedi: come limitare lo spreco alimentare Alla scoperta del food sharing dove innovazione e buon senso possono vivere per sempre felice e contenti Il ricco aperitivo che inaugura le portate dei banchetti nunziali, il welcome coffe dei convegni e i buffet delle presentazioni, rispondono ad un binomio irrinunciabile: cibo di prima scelta in grande quantità. Non sta a noi condannare tanta abbondanza, ma non si può restare ciechi di fronte all’enorme quantità di avanzi non consumati. A livello globale, finiscono nella pattumiera oltre 1.3 miliardi di tonnellate di prodotti alimentari, un terzo del cibo che viene prodotto, per un valore di 2 miliardi di euro. Tre ragazzi romani, alla vista della quantità spropositata di cibo intatto che veniva gettato via al termine di un matrimonio, hanno deciso di fare qualcosa. È nata così Equoevento, un’associazione Onlus che recupera gli avanzi dagli eventi, offrendo un servizio di raccolta cibo e di redistribuzione a chi ne ha più bisogno. “Chi organizza l’evento, dal privato al catering incaricato fino alla società che lo promuove, contatta l’associazione con almeno una settimana di anticipo per chiedere il nostro intervento”, spiega la responsabile organizzativa Claudia Ciorciolini “I volontari di Equoevento, ad oggi più di 30 soltanto a Roma, si recano nel giorno ed orario concordati e provvedono al confezionamento delle eccedenze in apposite vaschette. Il cibo recuperato, viene poi trasportato immediatamente con un furgone refrigerato ad una mensa, casa famiglia o ente caritativo, che lo somministra entro 24 ore dalla consegna. In circa tre anni abbiamo partecipato a più di 300 eventi, recuperando oltre 150.000 porzioni di cibo”. Equoevento ha raggiunto nel giro di poco tempo città come Milano, Torino e Lecce e all’estero Parigi. Di solito sono propri gli sposi, ragazzi di 35-40 anni, con una spiccata sensibilità per le questioni sociali ed economiche, a contattare Avanzipopolo, un’altra organizzazione radicata sul territorio, che mette in contatto i luoghi dello spreco con quelli del bisogno. Una buona abitudine che si basa su rigide regole igieniche: vengono ritirati infatti solo piatti già cotti e che non sono stati portati in sala. Queste prerogative, in fatto di sicurezza e igiene, sono stabilite dalla Legge “del buon samaritano” (Legge

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n 155/2003), che facilita dal punto di vista legale le donazioni di cibo in eccedenza, sollevando i catering da responsabilità legate alla distribuzione del cibo. Organizzazioni come Avanzipopolo ed Equoevento stanno ponendo le basi per il foodsharing, pratica molto diffusa in Europa, che permette di condividere del cibo, in forma gratuita, superando la dicotomia tra donatore e beneficiario e costruendo una comunità sempre più sostenibile ed inclusiva. Il foodsharing è nato nel 2012 a Colonia con il portale Foodsharing.de, che si è diffuso velocemente in tutta la Germania. Poche le regole da seguire, molte le occasioni di scambio, di donazione e raccolta del cibo in eccedenza, catalogato in base alla scadenza. In Italia Ifoodshare.org è stato uno dei primi portali a consentire la condivisione di cibo proveniente da privati ma anche da aziende agricole e grandi distribuzione. Bring the food, S-Cambia Cibo o MyFoody permettono invece la raccolta di cibo tramite app, mettendo in contatto gli utenti tra loro. Nel food sharing l’innovazione si presta ancora una volta come importante facilitatore per combattere la lotta allo spreco. Il secondo facilitatore è invece l’informazione, su cui si potrebbe insistere sempre più.


il nostro dream team

Velia Angiolillo

Davide Bartoccini

Carlo Cauti

Ilaria Danesi

Matteo Di Paolo

Maria Genovesi

Barbara Hugonin

Marta Leggio

Andrea Palazzo

Cosimo Rubino

Simone Rubino

Mariastella Ruvolo

Nicolò Scarano

Sofia Gorgoni

Sara D’Agati

Lorenzo Castellani

Antonio Carnevale

Cinzia M. Caserio

Claudia Cavaliere

Gerardo Fortuna

Maurizio Franco

Gerardo Fortuna

Luigi M. Rossiello


The New’s Room bimestrale tematico anno 1 - numero 3 settembre - ottobre 2017 Fondatori Pierangelo Fabiano @PierangeloFab Raffaele Dipierdomenico

Art direction e progetto grafico Anna Mercurio annamercurio.it

Direttore responsabile Sofia Gorgoni @GorgoniSofia

Art direction e progetto digital Blind Sight

Direttori editoriali Sara D’Agati @sara_dagati Lorenzo Castellani @LorenzoCast89 Coach Vittorio Macioce Editore The New’s Room srl Resp. segreteria organizzativa Flaminia Di Meo Giornalisti Velia Angiolillo @veliamente Davide Bartoccini @DBinTweet Antonio Carnevale @antcar83 Cinzia Maria Caserio @CinziaCaserio Claudia Cavaliere @CCavaliere3 Carlo Cauti @carlocauti Ilaria Danesi @Ilaria_Danesi Matteo Di Paolo @matteodipaolo89 Gerardo Fortuna @gerardofortuna Maurizio Franco @maofranco56 Maria Genovesi Barbara Hugonin @barbarahugonin Marta Leggio @martaleggio1 Andrea Palazzo @andreapalazzo Niccolò Piccioni @MrArancione Luigi Maria Rossiello @luigirossiello Cosimo Rubino @lockedusername Simone Rubino @srubino0 Mariastella Ruvolo @mariastella_ruv Nicolò Scarano @nicoloscarano

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Responsabile comunicazione Sofia Piomboni (Blind Sight) Responsabile PR Stefano Ragugini Crediti Fotografici Unsplash Stampato presso POSTEL SPA Via Carlo Spinola 11 00154 Roma Registrazione Tribunale di Roma N.68 del 6/4/2017 Informazioni e pubblicità Via Isonzo 34 - 00198 Roma t. +39 0697848156 www.the-newsroom.it/ thenewsroom@agol.it Crediti delle immagini Dove non diversamente specificato le immagini sono state fornite dagli autori Icone Thenounproject

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