SEI DI MODA

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Numero 20 28 Novembre 2019 DICEMBRE 2019

L'economia raccontata dagli under 35

COPIA OMAGGIO the-newsroom.it

SEI DI MODA

INFLUENCER

Intervista alla regista che ha portato sullo schermo Chiara Ferragni

OBIETTIVO CINA

La rincorsa italiana al mercato più importante per dimensioni

ICONE

Le cinque campagne pubblicitarie che hanno fatto la storia

POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% S/CE/16/2018

Perché la fashion industry (4% del Pil) è una delle chiavi dell'Italia futura. Nel bene e nel male


PROLOGO

la nuova agenzia di Relazioni pubbliche e istituzionali la nuova agenzia di Relazioni Pubbliche e Istituzionali

La moda vale il 4% del Pil italiano, dicono le statistiche ufficiali. Ma il valore è ancora più imponente se prendiamo in considerazione il soft power garantito al Paese dal valore immateriale dei brand italiani. Per tutto l’anno abbiamo indagato l’economia italiana: siamo partiti dall'educazione finanziaria, abbiamo affrontato il mercato del lavoro, scoperto le frontiere del fintech, studiato il futuro dell'economia della salute, capito che la parola sostenibilità è qui per restare. Ci siamo immersi nella capacità di fare cultura e nelle opportunità del mondo dell'energia. Chiudiamo il 2019 con un numero dedicato alla nostra moda, il Made in Italy che offre molte risposte alle domande che il Paese dovrebbe saper fare. Pierangelo Fabiano, Fondatore

ROMA: Via Emanuele Gianturco, 1 - Tel: +39 7686 7405 MILANO: Corso Monforte, 20 - Tel: +39 02 8345 0000 info@core.it | www.sg-core.it


EDITORIALE

INDICE

di Sofia Gorgoni

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’inverno è solo all’inizio, ma le vetrine delle grandi case di moda sono pronte ad annunciare i colori della prossima stagione primavera-estate. Il buio, il freddo e la pioggia fanno da

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Editoriale

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Uno sguardo ai numeri di Pietro Mecarozzi

moda ha il potere di viaggiare nel futuro, scommettere e poi riportarsi nel presente. Un simbolo da sempre legato al nostro Made in Italy, oggi più nell’immaginario che nel reale. Sono infatti tante le case che hanno traslocato altrove, ma molte ancora restano nel Belpaese.

La moda è un settore emblema dell’eccellenza italiana nel mondo. Sinonimo di fascino e creatività, ma anche qualità e artigianato. E i dati lo dimostrano, cresce infatti lo shopping Made in Italy degli stranieri. In Italia operano 24 delle 100 più grandi realtà attive nella moda e nel lusso a livello

Numero 20 | Novembre 2019 the-newsroom.it

contrasto ai manichini dei negozi di via Condotti che già da mesi espongono cappotti e

tessuti invernali, mentre noi ci prepariamo con rassegnazione a indossare sciarpe e cappelli. La

Cover Story 6

Quanto vale la moda italiana? di Vittoria Patanè

Intervista 10

Influencer economy

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Un passo alla volta

mondiale e oggi si trovano di fronte a una sfida: soddisfare un nuovo consumatore, sempre più connesso e informato, che chiede unicità e personalizzazione, a ritmi di produzione sempre più

di Alessia Laudati

di Salvatore Tancovi

Focus

sostenuti, senza perdere di vista la sostenibilità. 17

La moda non è esclusa dall’economia circolare: fioriscono le piattaforme di scambio di vestiti

di Sofia Gorgoni

La Cina è vicina? di Danila Giancipoli

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Taglia oversize

poche centinaia di euro, l’abito visto in passerella. Anche le grandi firme si stanno attrezzando per

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Moda sostenibile

soddisfare le nuove generazioni, non affini alla logica del possesso. La moda italiana nel mondo

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Modello Brunello

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Il lusso diventa pop

usati oltre a fenomeni come il fashion renting che permettono di indossare per una sera, con

vale 28 miliardi nei primi sei mesi dell’anno che si sta per concludere. Un valore in crescita rispetto all’anno precedente. Nell’ultimo numero di the new’s room per il 2019 vi portiamo in viaggio in

di Lorenzo Sassi

di Barbara Polidori di Elena Pompei

di Barbara Polidori

uno dei settori chiave dell’economia italiana, per molti il più affascinante.

Top 5 32

Le startup che stanno innovando nell’industria della moda

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Cinque campagne pubblicitarie dei brand di moda italiani che hanno fatto la storia

di Greta Ubbiali

di Danila Giancipoli

Rubriche 37

L'oggetto: il biglietto da visita

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Libreria

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Il lavoro del futuro

di Laura Bonaiuti di Lorenzo Sassi e Eugenio Giannetta di Sofia Gorgoni


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NUMERI

uno sguardo ai numeri di Pietro Mecarozzi

95,7 miliardi di euro Il fatturato aggregato record del settore della moda in Italia vale circa il 4% del Pil, in aumento rispetto all’1,1% del 2013. Il 2018 si è chiuso con una crescita dello 0,9% a 95,7 miliardi di euro, mentre le esportazioni sono salite del 2,6% a 63,4 miliardi e il saldo commerciale positivo aumenta del 2,1% a 28,3 miliardi.

363 mila impiegati nel settore Tra il 2013 ed il 2017, le italiane della moda hanno visto lievitare le proprie vendite annuali del 6,6%, facendo lievitare il numero di assunzioni, con 59,8 mila impiegati in più che hanno portato a 363 mila il numero degli occupati nel settore.

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NUMERI

14 mila piccole medie imprese tessili e di abbigliamento Oggi sono circa 14 mila le imprese tessili e di abbigliamento, per un valore della produzione superiore ai 20 miliardi di euro. Numeri importanti ma significativamente inferiori a quelli del 2007. Rispetto al pre-crisi il tessile italiano sconta un gap di circa 3,5 miliardi in termini di produzione che si traduce in circa 4 mila imprese e 40 mila addetti in meno.

L'intero settore della moda sarebbe responsabile del 10% delle emissioni di diossido di carbonio in tutto il mondo In aggiunta, il cotone compone ormai soltanto il 40% degli indumenti, mentre le fibre sintetiche sarebbero, in media, il 75%. Da tempo il passaggio verso il poliestere, economico ma non biodegradabile, ha aumentato i livelli di inquinamento: ogni anno, per produrre il fabbisogno mondiale di poliestere, vengono impiegati 7mila barili di petrolio.

Il 35% della plastica negli oceani derivi dal lavaggio di tessuti sintetici in poliestere Un report dell’International Union for Conservation of Nature ha stimato che il 35% della plastica negli oceani deriva dal lavaggio di tessuti sintetici. Con l'aggravante per la quale tornare alle fibre naturali potrebbe essere ancor peggio: in quanto la coltivazione dello stesso cotone impiega il 16% del totale dei pesticidi utilizzati al mondo.

Per produrre un jeans sono necessari 7.500 litri di acqua Il 40% delle aziende è di proprietà internazionale Delle 100 società della moda italiane con un fatturato superiore ai 100 milioni di euro, 66 vengono controllate oltre i confini italiani. Sono in Europa i colossi del settore hanno registrato ricavi aggregati per 226,2 miliardi, in aumento del 33% rispetto al dato del 2013. Nonostante l'Italia sia la nazione numericamente più rappresentata, la Francia, con il 30,3% dei ricavi aggregati, si è aggiudicata il primato per giro d'affari, grazie proprio all'acquisizione di alcuni marchi italiani.

La tintura dei tessuti risulta essere al secondo posto fra le maggiori cause di inquinamento dell’acqua sul pianeta: basti pensare che per realizzare un paio di jeans ne sono necessari 7.500 litri. Secondo la Ellen Mac Arthur Foundation, il settore tessile, con i suoi 1,2 miliardi di tonnellate annuali di CO2 emessa, supera la somma delle emissioni dovute al trasporto aereo o marittimo.

Oggi un occidentale possiede il 60% in più di vestiti rispetto al suo omologo del 2000 L'export verso la Cina cresce del 13,6% Le vendite verso gli Stati Uniti rappresentano l'8,6% del totale e mostrano una moderata crescita, pari al +1,3%. Hong Kong sperimenta una flessione del -3,5%, mentre le esportazioni in Cina si mantengono tengono una dinamica esponenziale con un +13,6%. Per quanto riguarda la Russia, al recupero messo a segno nel corso del 2017 (+12,4%), è seguita una flessione pari al -3,2%.

Quantità non è sinonimo di qualità. Gli abiti infatti in media durano la metà e non si sa come disfarsene. A conferma: solo il 15-20% dei vestiti donati ai negozi delle charity arriva nei negozi delle charity. Tutto il resto è in eccesso. E finisce ad alimentare le discariche di tutto il mondo.


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COVER STORY

Quanto vale la moda italiana? L’epoca digitale consente ai marchi di prescindere dalla loro data di nascita e slegarsi da quella dei loro clienti. Ma la sfida è mantenere in Italia la creazione di valore aggiunto

di Vittoria Patanè

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ff White, Gucci, Versace, Prada, Valentino, Fendi, Moncler, Dolce & Gabbana, Bottega Veneta, Moschino. Sono 10 dei primi 20 marchi di moda più desiderati al mondo nel trimestre luglio-settembre 2019.

A dirlo è la classifica di Lyst, il cosiddetto Google del lusso, un motore di ricerca interamente dedicato al fashion che aggrega 5 milioni di prodotti dei 12mila marchi e rivenditori accessibili da un unico indirizzo. Il Lyst Index, diventato ormai un’istituzione, certifica come la moda continui ad essere uno dei settori chiave dell’industria italiana. Anche se alcuni di questi brand hanno nel corso degli anni traslocato altrove, portando eleganza e ricchezza oltre le Alpi, nella percezione della maggior parte dei clienti, essi rimangono legati ad un made in Italy simbolo di qualità e bellezza. Un universo iconico che fa della moda nostrana l’oggetto di un desiderio che attraversa più generazioni, dai più adulti ancora legati a camerini e negozi fisici, ai più giovani per i quali lo shopping si fa solo (o quasi) online. Anzi, se possibile, il web ha consentito a questi marchi di prescindere dalla loro data di nascita e slegarsi da quella dei loro clienti. Solo per fare un esempio, il primo negozio Gucci

COVER STORY

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fu aperto a Firenze nel 1921, Off White (azienda italiana che ha fatto diventare di lusso l’abbigliamento da strada) è stata fondata a Milano sette anni fa. Eppure, nonostante i loro 91 anni di differenza, è facile vedere i loro capi sapientemente abbinati indosso a uomini e donne di ogni età. Questa realtà che economicamente parlando si traduce in un comparto, quello che in gergo tecnico viene chiamato Tma (Tessile-moda-accessori), secondo i dati di Confindustria Moda, nel 2018 ha registrato un fatturato pari a 95,5 miliardi di euro, il 5,4% del Pil italiano. Lo scorso anno il settore ha esportato il 70% della sua produzione (63,4 miliardi), mentre nel primo semestre del 2019 l’export ha già toccato quota 33,5 miliardi (+7,2%) a fronte di un import pari a 17,8 miliardi. Il saldo commerciale arriva quindi a 15,7 miliardi (+13,6%): un’ottima notizia per un’industria che per l’Italia si compone di quasi 66mila aziende che danno lavoro a 580mila persone. A livello globale i numeri sono da capogiro. McKinsey e Business of Fashion per il 2018 calcolano per il lusso (che non comprende solo la moda) ricavi globali pari a 2,5 trilioni di dollari con vendite in crescita tra il 3,5% e il 4,5% nel 2019, grazie soprattutto al mercato cinese, diventato ormai lo sbocco principale dei brand di tutto il mondo. È ancora presto però per fare bilanci sul 2019. Da settembre le incertezze geopolitiche ed economiche sono aumentate. Dalla guerra dei dazi alla Brexit, passando per le turbolenze di Hong Kong, la forte vocazione internazionale delle imprese della moda, italiane ed estere, potrebbe determinare pericoli maggiori rispetto ad altri comparti: “Recentemente le aziende hanno dovuto fronteggiare inasprimenti delle politiche doganali e tariffarie che sono state delle esternalità negative che hanno impattato in maniera significativa. Le imprese hanno quindi dovuto di volta in volta attrezzarsi e adottare soluzioni organizzative, produttive e distributive diverse, per evitare che il prezzo di queste guerre venisse pagato interamente dal consumatore finale con effetti che sarebbero stati devastanti. Questo è stato uno sforzo enorme che ha confermato la grande capacità di adattamento e reazione delle realtà del settore moda”, ha spiegato Filippo Cavalli, Director di Style Capital SGR, durante un convegno organizzato da Cba.


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COVER STORY

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dello stile e sulla forte identità di ogni prodotto. I risultati della scalata di questi due colossi verso l’olimpo del lusso globale sono facilmente visibili nell’immaginario che sono riusciti a creare e nei bilanci annuali e trimestrali che pubblicano a cadenze regolari. Nel 2018, l’azienda di Bernard Arnault ha registrato vendite pari a 46,8 miliardi di euro, quella di François-Henri Pinault ha fatturato 13,6 miliardi di euro.

L’industria italiana della moda ha inoltre un altro grande problema da affrontare: l’emigrazione. Il Focus Moda dell’Area Studi Mediobanca (riferito al 2017) certifica come il 40% delle 163 grandi imprese della moda made in Italy sia in realtà di proprietà di aziende straniere: statunitensi, cinesi, francesi soprattutto. La prima azienda in ordine di tempo a lasciare l’Italia fu Fiorucci, che nel 1990 fu acquisita dalla giapponese Edwin International, l’ultima è stata Versace, che nel settembre del 2018 è stata comprata da Michael Kors per 1,83 miliardi di euro. In mezzo un elenco lunghissimo che contiene alcuni dei pezzi da 90 del fashion italiano: Valentino (acquistata nel 2011 dal fondo Mayhoola di proprietà della famiglia reale del Qatar), Ynap (passata alla svizzera Richemont nel 2018), Krizia (controllata dal colosso cinese Shenzhen Marisfrolg), Gianfranco Ferré (di proprietà della holding di Dubai, Paris Group). La meta preferita delle società italiane è però la Francia. Ad aprire le danze dei traslochi a Parigi è stata Gucci che, dopo aver resistito all’opa ostile di Bernard Arnault, nel 1999 è stata acquistata da Kering, che possiede anche Bottega Veneta, Brioni, Pomellato e Richard Ginori oltre ad alcuni tra i più importanti marchi del mondo come Saint Laurent, Balenciaga, Alexander McQueen, Boucheron. La rivale di sempre LVMH però non ha voluto essere da meno, prendendosi Emilio Pucci, Fendi, Bulgari, Loro Piana e Cova che si aggiungono a brand del calibro di Christian Dior, DKNY,

Céline, Guerlain, Givenchy, Kenzo, e ovviamente Louis Vuitton. A difendere l’onore italiano non sono rimasti però gli ultimi arrivati. Aziende come Prada, Moncler, Ferragamo, Cucinelli, Dolce & Gabbana, Armani, Tod’s, Damiani, Sergio Rossi hanno tutte sedi e proprietà italiane. Quest’ultima tra l’altro è l’unica società ad aver fatto il percorso inverso: acquistata da Kering insieme a Gucci, nel 2015 è tornata in Italia passando sotto il controllo del fondo Investindustrial di Andrea Bonomi. Il futuro dei nostri fiori all’occhiello però è messo in dubbio dalla loro dimensione. Lo dimostrano i dati. Nonostante l’Italia sia il paese più rappresentato a livello numerico in tutte le classifiche mondiali riguardanti moda e lusso, le aziende nostrane sono più piccole delle altre, con un livello medio di vendite che secondo Deloitte arriva a 1,4 miliardi di euro. Quelle francesi sono di meno, ma hanno una dimensione media di 8,2 miliardi, il che determina la (speriamo temporanea) vittoria dei cugini nella tradizionale sfida tra Milano e Parigi per il dominio della moda mondiale. Il dislivello si deve soprattutto all’indirizzo dei primi due colossi del lusso mondiale, LVMH e Kering, veri e propri conglomerati che nel giro di pochi anni hanno prima comprato e poi fatto crescere i più grandi marchi globali, sfidandosi a suon di acquisizioni e prestazioni borsistiche. La loro forza sta proprio nella strategia multibrand e in un portafoglio basato sulla diversificazione

Il 2019 non è da meno nonostante i rallentamenti economici e incognite geopolitiche: 11,5 miliardi nei nove mesi (+17%) per Kering, 25,1 miliardi di euro (+15%) in soli sei mesi per LVMH. In Italia, per intenderci, le aziende della moda che in un anno riescono a superare il miliardo di euro di ricavi - rimanendo però ben lontane dai due colossi francesi - sono solo dieci. La differenza è tutta qui: da noi singoli marchi storici e d’eccellenza, ma ben distinti e separati dal punto di vista societario e stilistico, da loro grandi holding proprietarie di molti brand che dialogano tra loro, completandosi e ingrassando i fatturati delle controllanti. Una cosa però è certa: nello stradominio francese c’è talmente tanta Italia da poter addirittura parlare di un pareggio.

1951 Giovanni Battista Giorgini organizza a Villa Torrigiani (Firenze) una sfilata di abiti sartoriali italiani, invitando giornalisti e compratori americani: è il giorno in cui nasce la moda italiana.

1966 Sono gli anni della rivoluzione giovanile e della minigonna. Il gruppo Benetton inaugura a Belluno il suo 1° negozio dedicato all’abbigliamento giovanile. La moda italiana smette di essere “un argomento per signore” e si apre ai giovani.

1979 Dopo il boom del prêt-à-porter, si tiene la prima sfilata di Milano Collezioni. Partecipano Krizia, Versace, Laura Biagiotti. L’anno dopo si unisce pure Giorgio Armani: Milano diventa la capitale della Moda.

1990 Il marchio Fiorucci viene venduto ai giapponesi di Edwin International: è la prima azienda della moda del made in Italy a passare in mani straniere.


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INTERVISTA

INFLUENCER ECONOMY Elisa Amoruso racconta Chiara Ferragni - Unposted e Bellissime

di Alessia Laudati

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a bellezza e lo stile producono utili, muovono l’economia e interrogano la psicologia. Ma per molti sono ancora sintomo di una degenerazione piuttosto che un’opportunità. C’è però chi ha provato a guardare il fenomeno senza pregiudizi. Ha accettato di essere invisibile per raccontare il desiderio di apparire degli altri.

Negli ultimi quattro mesi la regista romana ha diretto due documentari che fotografano molto bene il fenomeno influencer: “Chiara Ferragni – Unposted”, disponibile in tutto il mondo grazie a Amazon Prime e “Bellissime”, uscito il 18 novembre e tratto dal libro-inchiesta di Flavia Piccinni. Entrambi sono dedicati a comprendere il culto della bellezza e dell’esteriorità. Se il primo ha come protagonista la nota imprenditrice digitale, il secondo segue le vite della famiglia Goglino e di Giovanna Goglino, la baby modella sosia di Barbie e icona più pagata degli anni ’90. Del resto è un fatto: la voglia di apparire e l’ottimo utilizzo degli strumenti digitali hanno dato vita da qualche anno alla cosiddetta ‘influencer economy’. Una mole di denaro che si muove tra sponsorizzazioni su Instagram o progetti commerciali, come raccontano il successo del libro di Giulia De Lellis o il packaging firmato Ferragni dell’acqua Evian, ma che comunque si caratterizza per essere legato fortemente all’identità personale. Senza l‘Io di chi influenza non c’è business che tenga. Nonostante si faccia fatica ancora oggi a chiamarlo lavoro. Abbiamo in-

INTERVISTA

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tervistato la regista per capire se abbia intravisto qualcosa in più sull’innovativa attività culturale e imprenditoriale. Perché nell’era dei social media di massa essa partecipa a tutti gli effetti all’economia del Paese. Negli ultimi tre mesi sei stata a Venezia con Chiara Ferragni - Unposted e alla Festa di Roma con Bellissime. Come nasce il quasi-dittico sull’influencing? “Li accomuna il fatto che da quando sono arrivati i nuovi media tutti noi abbiamo la possibilità di costruire delle immagini delle nostre vite. Si è generato un narcisismo che fa parte della nostra società e che ci offre una pluralità di specchi. Da lì il bisogno di raccontare una realtà più bella per le persone che ci seguono. I miei due film raccontano un mutamento sociale declinato in famiglie diverse e modalità diverse”. In Bellissime ci sono due età, gioventù e maturità, ugualmente desiderose di visibilità. Cosa cambia? “Il personaggio della donna adulta e della madre delle Goglino in Bellissime è molto affascinante. Ero partita con il voler raccontare le figlie ma poi conoscendo Cristina Cattoni l’attenzione si è spostata su di lei. È camaleontica e ci siamo ritrovate tra le mani una donna di 60 anni con una vita passata di madre e casalinga che ha prima proiettato la propria voglia di emanciparsi sulle figlie e invece poi è riuscita davvero a farlo anche da non più giovanissima”. Una donna di 60 anni con un fisico muscoloso e la passione per la pole dance per cui i social sono una rivincita e una forma di libertà. Cristina Cattoni ci mette di fronte ai nostri pregiudizi? “È paradossale ma si sta emancipando alla sua età grazie al suo corpo. Le figlie le vanno contro e non sono affatto contente della sua popolarità. Nei documentari di persone ancora viventi cerco comunque di non dare un giudizio troppo forte ma preferisco che sia lo spettatore a giudicare”. Per Unposted ti hanno rimproverato di non essere riuscita a mostrare una Ferragni inedita... “Non condivido, secondo me criticavano a priori il personaggio. Nel film c’è l’infanzia inedita, le relazioni vere con i genitori, lo studio sui social,


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INTERVISTA

il rapporto con Riccardo Pozzoli, suo ex socio. Tutte cose che ho raccontato per la prima volta. Forse ci si aspettava una critica feroce al personaggio perché incarna tutte le cose che possono dare fastidio oggi: nuovi media, bellezza e gioventù, competenza femminile e successo”. Secondo te la bellezza, in senso più ampio possibile, che vediamo sui social, può essere uno strumento di emancipazione per le donne? “Per la prima volta da secoli e millenni da quando ce l’hanno riconosciuta dall’esterno o non riconosciuta affatto, possiamo disporne come vogliamo. In termini mediatici ed economici abbiamo il controllo. Questo spaventa e lo capisco”. Come hai incontrato Chiara e come hai lavorato sul documentario? “Sono stata chiamata da un produttore che conoscevo e mi ha detto del progetto. Mi pensava adatta e così ho incontrato Chiara mentre loro stavano visionavano diversi progetti. Semplicemente ci siamo confrontate e dopo essermi informata le ho esposto quella che secondo me poteva essere una linea da seguire. Volevano che si sottolineasse il lavoro dietro a Chiara, perché di lavoro si tratta, e il suo essere un’imprenditrice in grado di guadagnare molti milioni di euro l’anno. Il fatto che non lo si capisca e che non si capisca che non è casuale che una ventinovenne vada ad Harvard, è parte della diffidenza con cui guardiamo a questo nuovo fenomeno. Poi ci siamo piaciute subito e nel giorno stesso ho avuto la conferma che sarei stata io a girarlo”. Che reazioni hai avuto dopo la distribuzione di Unposted? “Mi hanno scritto molte persone che non la seguivano per dirmi che avevano capito molte cose di come funzionano i social. Penso che il risultato di raccontare un avvenimento non molto raccontato prima d’ora sia stato raggiunto”. Hai mostrato un fenomeno dal punto di vista femminile. Figlie che coinvolgono madri, sorelle che si aiutano nel successo: è un business dov’è c’è tanto matriarcato. Dove sono gli uomini? “In Bellissime ho cercato di coinvolgere il padre delle ragazze che però è rimasto estraneo alle vicende. È un momento particolare nelle loro vite e alla fine ha deciso di non prendere parte al nostro lavoro. Però emerge come un personaggio anche nell’assenza e comunque già avere quattro persone da filmare rappresentava un ottimo materiale di partenza”. Prossimo progetto in cantiere? “Ho appena finito di girare il mio primo lungometraggio di finzione, Maledetta primavera. È una storia di formazione di una giovane ragazza e della sua famiglia un po’ particolare. Gli attori sono Micaela Ramazzotti, Giampaolo Morelli e Federico Ielati, il protagonista di Pinocchio di Matteo Garrone insieme all’esordiente Emma Fasano. Ma non posso per ora svelarvi di più”.


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INTERVISTA

UN PASSO ALLA VOLTA Intervista alle fondatrici di Olivia Farietti, un brand nel settore delle scarpe di lusso

di Salvatore Tancovi

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l settore del lusso italiano primeggia nel mondo per numero di aziende attive. Il giro d’affari supera i 400 miliardi e l’appeal del prodotto made in Italy resta ineguagliato. All’ombra dei grandi brand però cresce un sottobosco di giovane imprenditoria che ha voglia di proporsi sul mercato con le proprie idee. Ci siamo fatti raccontare da chi ci ha provato come si passa dai corsi di gestione aziendale al lancio di un prodotto.

Non un prodotto qualsiasi: scarpe da donna, di lusso. L’idea è venuta ad Alessia Farina e Deborah Rietti, amiche e da qualche tempo anche socie che hanno deciso di investire in questa passione. Giovani, hanno da poco concluso la loro formazione, Alessia con un master in Fashion e Luxury Management del Sole 24 Ore e Deborah con una magistrale in Economia aziendale alla Luiss. Il progetto ha un nome e cognome: Olivia Farietti. Tutto nasce qualche anno fa, durante una rimpatriata le due pensano a una collaborazione, riflettono sulla passione comune delle scarpe e giocano già sul nome. Un annetto dopo su internet c’è il loro sito web e le foto della loro prima collezione, una scarpa col tacco da circa 500 euro prodotta in tre versioni.

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Ci raccontano che le scarpe sono interamente realizzate nelle Marche, regione che in fatto di calzature dispone di un know how di eccellenza. Dal tacco alla tomaia, passando per la fornitura dei materiali, è qui che il sogno disegnato su carta diventa realtà. Ma facciamo un passo indietro: come hanno fatto le due ragazze a passare dagli studi in management a diventare stiliste? Questione di contatti giusti, in questo gli anni dell’università sono stati indispensabili. Al momento di mettere su carta la loro idea di scarpa si fanno aiutare da un’amica che ha seguito un master, appunto, in borse e scarpe. Sotto le loro indicazioni nasce il primo modello, poi il prototipo, la prova e finalmente la produzione. Un anno e mezzo di lavoro che parte dalle riflessioni sulla mission aziendale e arriva ai primi modelli da mettere in vendita. Il numero effettivo delle scarpe è limitato, si tratta pur sempre di modelli dal costo elevato e quello che vi stiamo raccontando non è un progetto da budget milionario. Per contro la richiesta da parte di potenziali punti vendita fioccano: vogliono un’Olivia Farietti in vetrina. Le due ammettono che in questo caso non si sono fatte trovare pronte, qui tocchiamo il tasto dolente. Avrebbero dovuto investire di più sull’e-commerce, dicono, e puntare su un marketing avveniristico (si parla di 3D, ma con riserbo per non rivelare la strategia futura). Invece si sono trovate a fronteggiare il mercato italiano, di nicchia, e soprattutto uno sciame di fashion blogger attratte come il miele dalle loro scarpe. La formula proposta, da quest’ultime, potete immaginarla: “Scarpe in cambio di recensioni e visibilità”. Le ragazze non puntavano alla pubblicità delle influencer, ma ci si sono ritrovate. Il problema è che il loro è un prodotto di lusso e non può essere regalato in cambio di qualche views. D’altronde il fashion viaggia anche su questi binari, la promozione di una fashion blogger con 500 mila follower (del giusto target) non è un buon investimento? No, per una settimana il tuo nome gira molto, poi sempre meno, alla fine la conversione in vendite è pari a zero. Le ragazze hanno concluso che questa non può essere la giusta formula di promozione per un prodotto di nicchia come il loro. Non resta che pensare al futuro. Si comincia a cercare contatti per l’export, ampliare la nicchia di possibili acquirenti guardando anche all’estero. C’è da ripensare al marketing e riprendere le idee che non hanno ancora avuto modo di realizzare. Poi una nuova collezione, ovviamente. Sulla prima (che sa di esperimento) il giudizio è positivo: le vendite non sono andate male, dicono, in più c’è la preziosa lezione che completa quella, preziosissima, di master e specialistica: cosa può andare davvero storto quando ci si butta nella mischia?

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La Cina è vicina? Il Made in Italy esportato nel più grande mercato mondiale: da Tmall a WeChat

di Alessia Laudati

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a moda italiana sbarca in Cina. Come? La vendita al dettaglio passa per l’e-commerce e i social media. L’export extra Ue risponde a un nuovo mondo digitale, mentre la Cina spicca su tutti grazie ai suoi 800 milioni di utenti attivi sul fronte luxury Made in Italy. Da Triboo a Moschino: il successo sul marketplace cinese e la strategia su WeChat.

E-commerce e il caso Triboo

La vendita al dettaglio B2C ha bisogno di passare il confine nazionale e sbarcare nel minor tempo possibile su tutte le piattaforme disponibili online. L’obiettivo è posizionarsi sui due market principali rappresentati da Taobao e Tmall, entrambi figli di Alibaba. L’e-commerce crossborder in Cina ha le sue regole, come l’apertura di una sede legale in loco o la necessità di una partnership con un distributore cinese, ma in Italia c’è chi ha capito come trovare alleati. Triboo, la digital transformation company fondata da Giulio Corno, rende possibile il posizionamento del fashion italiano sul mercato cinese attraverso una strategia altrettanto Made in Italy. Triboo è l’unica azienda italiana che vanta di tutte le certificazioni necessarie per inserirsi sulle piattaforme digitali cinesi Alibaba e Baidu (principale motore di ricerca cinese). Si occupa inoltre dell’apertura e della gestione degli account WeChat dei brand.


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Partner ufficiale di Tmall, vanta inoltre una collaborazione con Fondazione Italia Cina, ponendosi quindi a fianco di oltre 200 aziende italiane. La presenza sui mercati asiatici ha bisogno di soluzioni smart - capaci di superare difficoltà, divergenze di comunicazione, approccio culturale e timing - come afferma Riccardo Maria Monti, Executive Director di Triboo. Grazie alle sue società specializzate in China & Far East (East Media & Triboo Shanghai), Triboo fornisce un asset strategico di visual e marketing capace di comunicare il brand italiano nella cultura cinese (advertising online-offline, customer care, content solutions). Il Gruppo Aeffe ha sfruttato l’occasione lanciando sul mercato cinese i suoi brand Alberta Ferretti, Philosophy e Moschino. Hanno collaborato con Triboo ulteriori brand italiani tra cui: Luisa Spagnoli, Colombo, Ciesse Piumini, Rifle, Fabiana Filippi, Piquadro, Gianvito Rossi.

WeChat: molto più di Instagram e Facebook

Nel 2018, secondo China Internet Watch, gli utenti attivi su WeChat sono stati 1,08 miliardi. WeChat Pay conta ad oggi 900 milioni di utenti attivi, 300 mila negozi che accettano questo metodo di pagamento (disponibile in 40 paesi), per un totale di un milione di transazioni al minuto. I brand possono infatti creare un account e far parte di un ecosistema formato da micro store. WeChat diventa un canale d’acquisto fondamentale per l’e-commerce, touch point del brand e tramite per info ufficiali sugli store fisici. Engagement, analisi dei dati e continuo aggiornamento sulle preferenze dei target coinvolti diventano le parole d’ordine per trasformare l’account WeChat in un’esperienza d’acquisto al 100%.

Case History:

Moschino ha aperto il suo canale WeChat in occasione del Chinese New Year. Dal sito dell’agenzia italiana Retex: “Per sfruttare appieno le potenzialità di WeChat Moschino ha scelto ICONIC, la piattaforma di gestione creata da Digital Retex […] Moschino ha così ottenuto un’ottima profilazione dei propri follower, creando attività speciali e comunicazioni esclusive per target selezionati. La possibilità di creare gruppi di follower grazie alla scansione di Qr code generati ora consente una gestione sofisticata della comunicazione su WeChat.” Grazie alla presenza sul luxury pavilion (app interna di Tmall dedicata ai brand di lusso), a circa un anno dal suo debutto sulla piattaforma B2C, Moschino ha visto arrivare dal mercato cinese il 14% circa del proprio fatturato, che nel 2018 è stato pari a oltre 250,8 milioni di euro (+13,6% sul 2017) e che nei primi tre mesi del 2019 ha segnato un’ulteriore crescita del 10,7% per un monte ricavi da 71,4 milioni. “È come avere un negozio al piano terra di uno dei più importanti department store al mondo, c’è un indotto di traffico, awareness e posizionamento che genera lo stesso Tmall”, ha affermato l’ex direttore del brand Giuseppe Maggio su Forbes. In partnership con Triboo, il debutto sul mercato cinese ha richiesto una fase di analisi e consulenza per garantire una user experience in linea con la filosofia del marchio e con le aspettative dei consumatori cinesi. Il flagship store di Moschino su Tmall e la pagina moschino.cn mettono a disposizione intere collezioni e prodotti extra studiati ad hoc per incentivare le vendite locali su target specifici.

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Taglia oversize di Lorenzo Sassi

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Eppure, da tre anni a questa parte, i principali gruppi italiani del lusso faticano a crescere (sia per fatturato, sia per redditività). E questo è un fatto, un dato, che nell’analisi dello “storico” degli andamenti dovrebbe essere considerato; se non altro per collocare i numeri del 2019 in una cornice più ampia - certo non sistemica ma, appunto, di più ampio respiro. Il paradosso è che oltre i confini nazionali, dove stanno i “big” - quei grandi marchi che valgono il doppio, se non addirittura il quadruplo dei brand nostrani -, si viaggia a tutt’altra velocità. A giocare un ruolo fondamentale è la grandezza, in quanto non sembra più sufficiente essere una billion company (al netto, dunque, delle variabili esogene menzionate da quelli che la sanno lunga, ovvero “guerra ai dazi eccetera”). Per analizzare il fenomeno, recentemente sono state comparate 15 aziende pasta-mandolino (quindi di proprietà italiana o di cui il principale azionista è italiano) di contro a sei colossi di proprietà internazionale.

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Allora. Prima forbice riguarda il fatturato aggregato: nel 2018 quello delle aziende italiane era di 27,5 miliardi di euro; quello dei gruppi internazionali arrivava a quasi 87 miliardi. Rapporto uno a tre. Facendo un esempio nello specifico. Prendiamo Lvmh: ha chiuso il 2018 con ricavi per 46,8 miliardi di euro (cioè il doppio del totale fatturato dalle pasta-mandolino). Burberry, la straniera che ha fatturato di meno, ha chiuso con quasi 3 miliardi: vale a dire la soglia liminale delle migliori italiane (Prada 3,1 mld; Luxottica 8,9 mld). Il fatturato medio delle italiane è infatti di quasi due miliardi (1,8), di contro alla media degli internazionali, che è quasi quindici miliardi (14,5). A incidere sono le dimensioni: più sono ridotte e più è difficile investire (e qui, al massimo, rientrano gli elementi esogeni di quelli che la sanno lunga: “guerra ai dazi eccetera”).

I principali gruppi italiani del lusso faticano a crescere. Per i concorrenti stranieri la storia è diversa

uando ho chiesto a un noto analista finanziario di spiegarmi più diffusamente le ragioni dietro ai trend di mercato relativi ai titoli di lusso (di moda) italiani degli ultimi tre anni, mi è stato risposto che era del tutto inutile a sapersi e che ponevo un non-problema, come se l’andamento di quei titoli dal 2016 al 2019 fosse una sinusoide accessoria all’analisi dei titoli stessi o dell’andamento del mercato tout court. Ok, ma allora questo vale anche per oggi? Risposta: “Mah, a incidere sono la guerra ai dazi, il rallentamento congiunturale dell’economia eccetera” [testuale].

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Redditività: l’Ebitda (aggregato) nel 2018 è arrivato a 23 miliardi, con una forchetta di margine del 26,6%. Gli italiani: Ebitda 3,6 miliardi e margine al 17,2 per cento. E qui arriviamo al punto, perché il fatturato aggregato tra 2016 e 2018 (il 2019 è ancora in corso) è rimasto invariato; quello degli stranieri ha subito un impennata di 20 miliardi (+27,6%). A giocare un ruolo è la capacità di adattamento, la flessibilità su investimenti. Discorso speculare per la redditività, passata nel triennio da 5 miliardi a 3,6 miliardi, con un margine in diminuzione dello 0,8%. Dall’altra parte, invece, crescita: si passa dai quasi 17 miliardi nel 2016 a 23 miliardi nel 2018. Tutto ciò non porta solo a una riflessione che dovrebbe abbracciare la questione sotto un profilo, come sopra si era detto, di ampio respiro (ragionando perciò oltre i meri elementi esogeni contingenti legati all’anno corrente). Sfortunatamente non c’è una ricetta scientifica per definire una pars construens. Vendere? Mettere in piedi un polo d’attrazione per gli investimenti? Difficile rispondere. L’unica certezza, mi verrebbe ora da dire all’analista finanziario, è che i grandi gruppi - guardando al trend storico, agli ultimi tre anni - sembrano destinati a papparsi pantagruelicamente tutto c’è che è finanziariamente edibile.


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Moda sostenibile Una domanda si impone: è possibile consumare fashion in modo etico?

di Barbara Polidori

IL VERDE GRAFICA NAPPA CAMBIA IL CONCETTO DI TIPOGRAFIA: PIÙ TECNOLOGIA, PIÙ INNOVAZIONE.

E SOPRATTUTTO PIÙ ATTENZIONE ALL’AMBIENTE. Energia da pannelli solari, macchinari a impatto zero, inchiostri e carte ecocompatibili: queste sono le basi della nostra rivoluzione. Perché stiamo inaugurando una nuova dimensione tipografica: stampe speciali, cartotecnica d’avanguardia, packaging innovativo, nuovi sistemi di etichettatura come le In Mould Label. Tenendo sempre presente che il pianeta chiede responsabilità. E che i clienti chiedono servizi e prodotti diversi e innovativi.

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l nostro bisogno di shopping è insostenibile. Non importa quanto sia capiente l’armadio, il 24% degli italiani acquista oltre alle proprie capacità economiche. A dirlo è Greenpeace con un report sulle nuove abitudini di consumo nell’era della fast fashion. Nonostante i movimenti ecologisti e una maggior consapevolezza sul destino del pianeta, la moda è infatti fra i settori più interessati dall’impatto ambientale. Si pensi a Primark per esempio, nota marca d’abbigliamento irlandese: quest’anno ha lanciato la sua prima collezione di jeans 100% cotone a suon di “Amazing price, amazing jeans”. Ma il prezzo dell’occasione taglia spesso su altri costi.

È il paradosso del Greenwashing, una tattica usata da aziende, organizzazioni e istituzioni politiche per costruire un’immagine di sé eco-friendly, nascondendo però comportamenti che non lo sono affatto. La trasparenza diventa così un distintivo, una forma di correttezza non solo verso il consumatore, ma in un’etica globale. I Green Carpet Fashion Awards sono il punto di arrivo di questo processo, perché celebrano chi eccelle nella moda ecologica diventando un modello per altri. Non è una conversione facile, diventare un marchio sostenibile vuol dire prima di tutto assumersi una responsabilità nella filiera produttiva e sui materiali impiegati per gli abiti. Compito delle aziende e dei brand che vogliono essere realmente sostenibili sarà allora investire su nuovi modelli di business, su tendenze di consumo e su campagne di sensibilizzazione che aiutino i

Via Gramsci 19 81031 Aversa (CE) Italy Tel. +39 081 890 6734 graficanappa.it


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consumatori ad acquisti responsabili. Il Made in Italy ha risposto certamente a questo appello. Burton Italia, azienda leader nell’ambito dello snowboard, organizza per esempio delle giornate per ripulire le montagne dai rifiuti accumulati in inverno. Una buona prassi che sta riscuotendo successo riguarda anche la circolarità, che impatta il meno possibile sul consumo di risorse naturali nel settore tessile, donando l’abito anziché buttarlo. Timberland la promuove da tempo nei suoi negozi, posizionando dei contenitori per i clienti che desiderano donare le loro scarpe. Non mancano realtà sul riciclo, come Ecodream, azienda del fiorentino che riutilizza scarti di produzione tessili e camere d’aria per produrre borse di qualità, oppure gioielli etici con materiali riciclati. Il brand Waistemade di Cigognola Pavia trasforma invece copertoni di biciclette usati in cinture ecosostenibili e vegane. Oltre alle numerose community online basate sul riciclo o a fenomeni come Depop, l’Italia si sta aprendo pian piano anche al “fashion renting”. Una tendenza che, secondo Allied Market Research, toccherà entro quattro anni 1,9 miliardi di dollari, con una crescita annua del 10,6% tra il 2017 e il 2023. DrexCode e DressYouCan anticipato questa tendenza, le due start up milanesi sono infatti specializzate nel renting di abiti a prezzi irrisori, circa 10-15% sul costo originale del capo.

Il Pantheon del luxury non è da meno in fatto di sostenibilità. Gucci fu la prima casa di alta moda ad aver avviato nel 2004 un processo di certificazione sulla responsabilità d’impresa. Prada ha lanciato da poco la capsule eco-friendly “Prada Re-Nylon”, ha iniziato poi a collaborare con Aquafil, azienda trentina che produce l’econyl, un filo di nylon brevettato e realizzato con rifiuti di plastica recuperati negli oceani. La maison Ferragamo si è concentrata invece su una varietà di progetti culturali, artistici e industriali altamente sostenibili, come la “Sustainable Thinking” a Firenze. Ilaria Venturini Fendi, ex direttrice creativa accessori della linea Fendissime e designer di scarpe di Fendi, nel 2006 ha fondato invece Carmina Campus, azienda molto attenta all’artigianalità e alla qualità delle lavorazioni, ai temi della sostenibilità, dell’ambiente e dell’etica del lavoro. La bellezza di questo processo ecologico riguarda anche i progetti locali o in via di sviluppo, come le start up Cascinet, Designforlongevity, Progettoquid e il recente Donne in Campo, piccoli vivai di un’innovazione che l’Italia sta finalmente imparando ad abbracciare.


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MODELLO BRUNELLO Cucinelli è riuscito a imporre un nuovo genere di imprenditoria

di Elena Pompei

visitare gli uffici veri e propri ci dirigiamo verso degli spazi verdi poco distanti, che presto scopriamo essere di proprietà della Fondazione di Brunello e Federica Cucinelli. Vittoria, che ci accompagna, spiega che la fondazione ha investito nella rivalutazione del borgo e dell’area circostante, ristrutturando alcuni edifici e costruendone di nuovi, come un frantoio, un teatro e, di recente, un monumento: il “Tributo alla dignità dell’uomo”. Mentre camminiamo, Vittoria ci racconta la storia della società, aneddoti su Brunello e sulla sua famiglia, evidenziando la fortissima impronta spirituale alla base dei loro valori.

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uando, nel 1978, Brunello Cucinelli propose di colorare il cashmere venduto dalla sua fidanzata in una bottega in Umbria, furono in molti a crederlo pazzo. Solo una tintoria del posto assecondò l’idea di Brunello, che a quarant’anni di distanza vede ripagata la sua lungimiranza: 52 milioni di euro di utili nel 2018, 1200 dipendenti e una filosofia imprenditoriale che ha fatto il giro del mondo.

Fondato sull’idea di un capitalismo umanistico, che ha per fulcro la dignità dell’uomo, il luxury brand di Brunello Cucinelli è diventato nel tempo l’esempio di come la moda possa generare utili ed essere rispettosa del territorio, dell’uomo e dell’ambiente. Poche settimane abbiamo avuto l’opportunità di visitare il luogo più esemplificativo della filosofia di Cucinelli, la sede dell’azienda, che ancora oggi si trova nel borgo umbro dove tutto iniziò, a Solomeo. Siamo accolti sulla strada che porta al borgo, e prima di

Il principio guida di Brunello è riconoscere valore all’uomo e al suo lavoro, una questione aperta che proviene dalla sua stessa esperienza, quando da bambino vedeva suo padre tornare a casa mortificato dai suoi superiori. Deciso a trattare i suoi dipendenti diversamente, Cucinelli ha sviluppato un modello imprenditoriale che si focalizza interamente sul valore dell’umano. Questo desiderio traspare da ogni sua parola e da ogni scelta imprenditoriale, oltre che dalla stessa architettura degli uffici aziendali.La sede di Brunello Cucinelli, immersa nel verde, è quasi interamente a vetri, “per permettere che i dipendenti possano sempre godere della vista delle colline umbre”. Camminando negli uffici, un susseguirsi di open space, non si può che notare la giovanissima età dei dipendenti, la maggior parte dei quali ha un’età compresa tra i 25 ed i 35 anni. Attraversando i vari showroom, notiamo che non mancano anche donne più adulte, protagoniste dei dipartimenti di sartoria e di controllo di qualità del prodotto, chine su schermi al led per verificare che gli abiti non abbiano alcun difetto di produzione. Emerge presto che la filosofia di Cucinelli ha un chiaro impatto sulle sue politiche aziendali. Gli uffici sono operativi dalle 8.30 alle 17 (orario oltre il quale nessuno può restare) e a pranzo c’è un’ora e mezzo di pausa “perché la cultura della nostra regione è molto attenta al cibo e al momento conviviale”. La sera e nel week end non c’è connessione o necessità di inviare e-mail, nella convinzione che salvo emergenze le questioni di lavoro si possano affrontare il lunedì. L’azienda è convinta che il “primato degli azionisti" non sia più l'unico scopo di un’impresa. C’è un impegno costante verso i clienti, i dipendenti, verso le comunità in cui l’impresa si inserisce. Lo scopo di Cucinelli è di perseguire un equilibrio tra profitto e dono, tra l’utile e la dignità del lavoro, ricercando nel processo di produzione una comunione con l’ambiente che va oltre la sostenibilità. Facendola quasi sembrare una vocazione francescana, Cucinelli sostiene che il suo reale desiderio è quello di vivere in armonia con il creato.


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Il lusso diventa pop

ROMANZO VINCITORE DEL PREMIO LETTERARIO

Alta moda a piccoli prezzi: perché i grandi stilisti aprono al commerciale?

di Barbara Polidori

ORGANIZZATO DA &

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’economia del lusso sfrutta il prestigio dell’edizione limitata. Lo fa insistendo sul bisogno del consumatore di possedere qualcosa di esclusivo, un capo ricercato sì, ma anche un’evidenza sociale. È il potere di accedere a uno stile di vita invidiabile, di sfoggiarlo per far parte di un’élite.

IN COLLABORAZIONE CON

La chiamano “democratizzazione del lusso” o “masstige” (da “mass market” e “prestige”), un fenomeno che partendo da H&M nel 2001, ha coinvolto numerosi brand e stilisti del Made in Italy. I consumatori possono acquistare in questo modo un capo firmato a poco prezzo e accedere a beni esclusivi, edizioni limitate o normalmente off limits per un consumatore medio.

MEDIA PARTNER GRAZIE AL CONTRIBUTO DI PARTNER UFFICIALE

NELLE MIGLIORI LIBRERIE ITALIANE

Ma perché uno stilista di alta moda dovrebbe disegnare per un marchio di largo consumo? Cosa spinge Fiorucci, Alberto Aspesi e Jean Paul Gaultier a collaborare con Ovs? Il vantaggio del co-branding è principalmente a senso unico, ma i grandi stilisti possono rafforzare ancor più la loro notorietà rivolgendosi ad altre fette di mercato. Non sono tanto Roberto Cavalli, Versace, Valli e Marni a trarre vantaggio dalla partnership con H&M, ma è quest’ultima che, ingaggiando i big dell’alta moda italiana, reinventa il marchio e rende i suoi abiti ricercati, andando a ruba. E così è stato con la collezione di Balmain, i cui abiti sono esauriti in pochi minuti, anche se alcuni sono ancora acquistabili su Ebay, come veri e propri oggetti da collezione. Il meccanismo sottile per cui siamo portati a desiderare un oggetto, a voler possedere la ricchezza che


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trasmette e a indossarla come fosse etichetta, deriva da un bisogno di spostare il significato di “inaccessibile” dalla sfera del prezzo a quella del significato. L’oggetto diventa il tramite con cui affermiamo il nostro valore socioeconomico, dimenticando però di mercificare anche noi stessi e di piegarci in questo modo al linguaggio da vetrina. È una strategia commerciale che forse attutisce anche l’impatto della Cina sul Made in Italy. Non è un caso che il settore risponda allora con logiche di re-branding: Gucci fu per esempio uno dei più importanti luxury brand che dal 2008 al 2010 resistette alla crisi economica con strategie competitive sul mercato internazionale. Una di queste riguarda l’apertura all’arredo di alta gamma e alla creazione di maison del lusso, come lo storico Palazzo della Mercanzia di Firenze, dove c’è oggi il Gucci Garden. Questa commistione tra lusso e lifestyle coinvolge anche Prada, che ha però abbracciato una narrativa più commerciale grazie al suo pop-up store, il Prada Silver Line, ricostruzione di un tradizionale bar italiano nel Galaxy Mall di Macao. Se parliamo di moda italiana poi, arredamento e automotive sono fra le nostre eccellenze. Per questo Poltrona Frau e Ferrari realizzarono una joint venture nel 2017 al Salone del Mobile di Milano, presentando una poltroncina da ufficio simile ai modelli realizzati per le Ferrari da strada. Per quanto la moda italiana possa reinventarsi però, molti economisti pensano che le grandi firme italiane non possano competere con il fenomeno crescente della manifattura a basso costo, tipicamente asiatica. Nel 2019 il settore luxury raccoglie circa il 40% del totale sul Made in Italy, ma viene da chiedersi se il masstige contribuisca ancora a raccontare la manifattura italiana come eccellenza, per i tagli sartoriali, le linee ricercate e una cultura che ha fatto scuola, tramandata dalle piccole botteghe ai grandi poli industriali. L’impressione è che oggi la sola manifattura italiana non basti più a garanzia di qualità. Le abitudini di consumo hanno sicuramente cambiato la percezione che abbiamo del valore di un prodotto: oggi tendiamo ad acquistare di più, ma per valore minore e questo non può che avere effetti anche sull’industria del lusso. L’ascesa del low-cost appare così una diretta conseguenza di una società che non cerca più la qualità, ma l’immaterialità dell’apparenza, in cui un abito, una borsa o un paio di scarpe diventano biglietto da visita sullo status sociale. Ma le apparenze, come si sa, spesso ingannano.

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Le startup che stanno innovando nell’industria della moda di Barbara Polidori

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>>> Provare un vestito direttamente su un ecommerce sta per trasformarsi da fantascienza a realtà grazie a Igoodi. La startup è la prima factory italiana di avatar realistici e ha dato il via al progetto The Digital You per ottenere il proprio sosia 3D. La startup, grazie alla collaborazione con il Politecnico di Milano e l'Università degli Studi di Verona, ha messo a punto una cabina di scansione automatizzata, chiamata The Gate, in cui le misure dell’utente vengono prese con precisione millimetrica.

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Tingere i vestiti con la grafite come facevano gli antichi Romani a Monterosso Calabro. È lo spunto che ha dato vita a Wrad, startup guidata da Matteo Ward che per trattare i capi utilizza la grafite recuperata dalla produzione degli elettrodi in alternativa ai pigmenti chimici. Nasce così Graphi-tee, la t-shirt dal caratteristico color grigio che nel 2017 ha vinto il RedDot Design Award. Il processo produttivo usato si chiama g_pwdr Technology ed è stato brevettato dall'azienda vicentina Alisea

Non solo di creatività vive la moda. Yocabè è la startup fondata da Vito Perrone, ex manager di Expedia, che dà supporto ai marchi che non hanno un know how interno per raggiungere le piattaforme di ecommerce. Ad oggi collabora con 25 aziende tra cui Superga, Diadora, K-Way e Carrera assistendo i clienti in tutti gli aspetti del processo di vendita online. L'azienda, che lo scorso giugno ha chiuso un round di finanziamento da 600mila euro, nel 2018 ha registrato un fatturato di circa tre milioni

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Nicolò Beretta è l'enfant prodige della moda: disegna scarpe dall’età di 15 anni e nel 2013 fonda Giannico, la sua startup di calzature di lusso, dopo avere ricevuto l'endorsement di Franca Sozzani e Manolo Blahnik. La prima collezione del marchio risale al 2015, quando Beretta, classe 1995, vince Who is on Next?, il concorso per giovani talenti di Altaroma e Vogue Italia. Il brand recentemente è passato di mano e è stato acquisito per un importo top secret dall'azienda marchigiana L’Autre Chose.

Con Dressyoucan la sharing economy arriva fin nel guardaroba. Il servizio, nato a fine 2014, permettere di affittare abiti da cerimonia e creazioni di atelier. L'idea è di Caterina Maestro che, durante un viaggio a Marrakech compra un abito molto bello e costoso e inizia a condividerlo con le amiche. Il magazzino dell'azienda oggi ha più di 1500 abiti, un centinaio di accessori e 300 paia di scarpe. A fine ottobre l'offerta si è arricchita con il servizio Bridal per il noleggio di abiti da sposa.

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Cinque campagne pubblicitarie dei brand di moda italiani che hanno fatto la storia

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>>> GUCCI, 2003 La campagna SS 2003 di Gucci “Public Enemy” by Mario Testino fu “bannata” poco dopo l’uscita ed è tutt’oggi la campagna più discussa del marchio di lusso. La lettera G ben incisa sotto l’intimo di Carmen Kass rispecchiava il forte desiderio di Tom Ford: portare un preciso sex theme nella creatività del brand. L’anno scorso la foto è tornata a far scalpore: i social media avrebbero difeso Ford? La sessualità è ancora un argomento di discussione o era meglio nel 2003 quando la si poteva collegare al fashion e alla provocazione?

>>> BENETTON, 2011 di Danila Giancipoli

>>> DOLCE&GABBANA, 1987 Recentemente in mostra presso la Galleria d’Arte di Palermo, gli scatti di Ferdinando Scianna ci portano in Sicilia per il catalogo del 1987 di Dolce&Gabbana, con attrice principale la modella Marpessa Hennink. La casa italiana voleva un più, voleva la narrazione, e l’avrebbe poi portata avanti. Le forme di Marpessa e la sua sensualità hanno ispirato i più recenti scatti di Steven Meisel con Madonna come protagonista. Un tributo al sud Italia e alla donna nel suo ambiente popolare: Scianna passa da fotoreporter a fotografo di moda, come Franco Pagetti dopo di lui.

>>> VERSACE, 1994 La grammatica degli anni ’90: la campagna AW 1994 vede protagoniste Cindy Crawford, Nadja Auermann, Christy Turlington, Claudia Schiffer e Stephanie Seymour in abiti succinti e pop, magistralmente fotografate da Richard Avedon. E’ il momento degli show in tv, del fitness di gruppo, delle minigonne più corte del secolo. Avedon è lo specchio di un percorso già cominciato nel 1991 con la Pop Collection ispirata a Warhol, così come con la AW Bondage del 1992 e quella che sarebbe stata la Punk del 1994. Versace ha seguito, e fatto nello stesso tempo, la storia.

Discriminazioni culturali, razziali e di genere hanno trovato da sempre filo da torcere grazie all’impegno culturale e politico di Benetton, supportato fino al 2000 dal grande Oliviero Toscani. Nel 2011 lo stupore si amalgama perfettamente con UNHATE, la campagna contro la cultura dell’odio. L’advertising vede protagonisti politici e personaggi di spicco durante atti d’amore reciproco, come la coppia Barack Obama e Hu Jintao. Precisi temi sociali vengono messi a nudo con un aggressivo sottotesto di global call to action.

>>> DIESEL, 2015 Modelli felici? Non se ne vedevano da un po’, quindi Diesel ha deciso di sbarcare per la sua SS 2015 con una campagna che comunicasse divertimento, spontaneità, self confidence. #DIESELHIGH è l’hashtag del concept firmato dal direttore creativo Nicola Formichetti. Gli scatti di Nick Knight vedono protagonista la modella Winnie Harlow (la sua vitiligine è ciò che fa innamorare), Gryphon O’Shea e la ribelle Charlotte Free. Diesel ha immaginato un legame che andasse oltre il viral sui social, prevedendo nella collezione delle t-shirt con slogan positivi come “Love is the way”.


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è lieta di presentarvi

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IL biglietto da visita Un piccolo baluardo della modernità: ha un ruolo centrale nella vita di tutti noi

di Laura Bonaiuti

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i sono diverse teorie sulla nascita del biglietto da visita. Pare che i primi fossero quelli che il politico ateniese Pericle aggiungeva ai doni che faceva recapitare all’amante Aspasia per anticiparle la sua imminente visita. Alcuni dicono che siano stati inventati in Cina: secondo gli antichi cerimoniali, ogni persona che si recava a visitare un mandarino si annunciava con una striscia di carta, sulla quale erano riportati il suo nome e gli eventuali attributi e titoli che gli competevano.

Il biglietto da visita venne inventato ufficialmente in Francia attorno al 1700. Prima nacque l’abitudine di consegnare un bigliettino col proprio nome al personale di servizio delle case in cui si andava ospiti, in modo che potessero annunciare l’arrivo in modo corretto. Era considerato più elegante se scritto a mano, poi col tempo venne introdotto quello stampato, che si diffuse verso il 1750. Se troviamo già i biglietti da visita personali nella Francia pre-rivoluzionaria, quelli di taglio commerciale e industriale iniziarono invece a diventare popolari fra i mercanti di Londra verso la fine del 1700. In quell’epoca le vie della città non avevano una numerazione, e sul biglietto venivano stampate le indicazioni corrette per raggiungere il negozio o il magazzino. L’importanza di questi biglietti era tale che molto spesso una firma apposta su uno di essi veniva fatta valere come contratto. E così, il foglietto rettangolare di carta è arrivato fino ai giorni nostri. Il galateo prevede tuttora che sia in cartoncino a sfondo bianco.


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7 cose che non sapevi SUL biglietto da visita

I biglietti più costosi sono realizzati solo su commissione dalla società inglese Black Astrum, prevedono diamanti incastonati e scritte d’oro in rilievo e possono arrivare a costare fino a 1.500 dollari.

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La scena più famosa di un film in cui compaiono dei biglietti da visita è in American Psycho del 2000 in cui i vicepresidenti di una società fanno a gara per chi ha il biglietto più bello e questo confronto diventa, intorno al tavolo, una competizione molto tesa.

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È famoso il biglietto da visita di Mark Zuckerberg (Amministratore delegato di Facebook), su cui c’è scritto: “I’m CEO, Bitch!”

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Il primo biglietto di Steve Jobs fu venduto all’asta per 10 mila dollari. Il biglietto del co-fondatore di Apple (Steve Wozniak) richiedeva di risolvere un enigma per trovare il suo numero di telefono.

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Il primato va al milionario eccentrico Chen Guangbiao, che si propone con un biglietto con foto e ben 11 titoli, ad esempio: “La persona più influente in Cina; Il filantropo più famoso in Cina; Leader morale della Cina; Il più carismatico della Cina”.

In Francia le carte di visita di una signora non portavano mai il suo nome di battesimo, perché il nome proprio era considerato troppo personale per essere condiviso con altri. Veniva inventato un nome maschile da sostituire, come la signora Emilio di Girardin, la signora Vittorio e la signora Carlo Hugo.

I biglietti giapponesi contengono un QRcode da leggere con lo smartphone. I biglietti devono essere stretti con entrambe le mani piegandosi in un profondo inchino e non bisogna mai darli all’altra persona con una mano sola.


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LIBRERIA Letture per capire l'economia di oggi

a cura di Lorenzo Sassi e Eugenio Giannetta

SCRITTO DI NOTTE

STORIA DELLA MIA GENTE

Ettore Sottsas - Adelphi, 300 pag, 30€

Edoardo Nesi - Bompiani, 128 pag, 12€

Senza arrivare a stiracchiare troppo il concetto di “moda”, estendendolo altresì a vettore che indicizza, in una maniera o nell’altra, il valore qualitativo di un prodotto culturale, artistico o - addirittura - la pervicacia argomentativa di una tesi financo economica, si potrebbe asserire con una relativa spensieratezza che la semantica del concetto “moda” abbia contaminato, attecchendo ab origine (e dove tutt’ora attecchisce), l’orizzonte che è solitamente abitato da quella cosa che chiamiamo “design”. A esplicitare la correlazione è l’Obi-Wan Kenobi del design, e cioè Ettore Sottsas, nel suo autobiografico “Scritto di notte”: catabasi narrativa che, prima ancora di condurci negli interstizi più bui della sua vita (e Sottsas, va detto, sa vuotare il sacco come pochi), ci riserva la puntualità dell’analisi: “la moda mi interessa molto. È sempre stata, un pò - o anche di più - la metafora dell’esistenza, il disegno di quello che un’intera società pensa di essere o vorrebbe essere”.

In questo romanzo del 2010 Edoardo Nesi (appena tornato in libreria con La mia ombra è tua, La nave di Teseo) racconta in prima persona la realtà tessile di Prato. A metà tra saggio e romanzo storico, nel racconto dello spaccato di Prato non c'è solo la vita industriale di provincia e gli effetti della globalizzazione sulla piccola e media impresa, ma c'è anche e soprattutto il valore e concetto di Made in Italy. Con questo libro Nesi ha vinto il Premio Strega.

HISTORY OF FASHION. NEW LOOK TO NOW June Marsh - Vivays Publishing, 288 pag. 30, 50€

D.V. Diana Vreeland - Donzelli, 268 pag, 18€ Quando sei un'icona della moda, il tuo libro può portare nel titolo anche solo le iniziali. La D sta per Diana, la V per Vreeland, giornalista statunitense di origine francese. Leggendaria direttrice di Vogue, fu un'icona di moda e stile negli anni '60, lasciando un segno nella storia. In questa biografia, uscita nel 2012, emerge una personalità carismatica, ma soprattutto viene fuori la vicenda umana - amicizie come Chanel, Jack Nicholson ed Andy Warhol - alternata a quella professionale.

June Marsh ha scritto di moda per oltre 40 anni sul Daily Mail e curato la pagina delle donne di Country Life Magazine. In questo libro (solo in inglese) c'è la magia delle sfilate, i sogni della moda e il fashion come industria globale. C'è la pubblicità e una riflessione su cosa significhi "fare tendenza". History of Fashion ripercorre la storia del design, anche attraverso illustrazioni e fotografie, diventando così una celebrazione della moda, le cui creazioni durano da oltre 60 anni.


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il lavoro del futuro

ma non ancora utilizzati. Non è una posizione difficile da immaginare visto molte aziende spendono già tempo e denaro per esaminare i dati delle persone per poi sviluppare prodotti specifici. Il passo successivo sarà quello di rintracciare più dati utili possibili attraverso tutti i nuovi mezzi introdotti dall’innovazione. I nuovi professionisti dovranno identificare ed esaminare, mescolare, confrontare e analizzare set di dati da più fonti; scrivere report e presentare i loro risultati alla società. I rilevatori di dati forniranno alle aziende e alle organizzazioni informazioni basate sui dati su come migliorare.

Cosa farò da grande?

di Sofia Gorgoni

Il data detective

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hi ama immergersi nelle serie investigative come CSI potrà finalmente coronare il proprio sogno, senza spargimenti di sangue. Nell’arco di 5 anni, infatti, tra i nuovi lavori richiesti dalle aziende spiccherà la figura del Data detective, chiamato ad indagare sui misteri del big data. Non si tratta di una nuova versione del Data Scientist, ma di uno specialista che lavorerà a stretto contatto con quest’ultimo. La nuova figura avrà maggiori doti investigative e di ricerca: dovrà analizzare i dati organizzativi di un'azienda e produrre risposte e raccomandazioni, basate sull’esame delle informazioni generate dagli endpoint di Internet of Things (IoT), dispositivi, sensori, monitor biometrici, infrastrutture informatiche tradizionali ecc… Di sicuro vedrà cose e correlazioni che gli altri non vedono. Nel prossimo futuro le aziende vorranno scoprire nuove fonti di dati e analizzare quelli già esistenti,

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Cosa fa un data detective? Identifica ed esamina i dati generati da più fonti (ad es. sensori ambientali dell'ufficio, fogli di calcolo finanziari, ecc.). Trova nuovi dati ancora inutilizzati (ad es. dati del parcheggio, tassi di rifornimento di forniture per ufficio, ecc.). Dialoga con i membri dello staff per formulare nuove domande e risposte da rintracciare nei dati. Scrive relazioni e presenta i risultati, oltre a stare al passo con la tecnologia e comprendere la gamma di

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strumenti tecnici disponibili per supportare il lavoro del team. Quali competenze ha? Ha esperienza nell'applicazione della legge, con un background legale, come avvocato o esperto qualificato. È preferibile una formazione in data scientist e qualifiche in matematica e / o scienze generali (ad es. fisica). Inoltre sono utili qualifiche in qualsiasi ramo della contabilità finanziaria e gestionale, una laurea in matematica, scienze fisiche, filosofia, economia, diritto o contabilità. In generale un candidato che dimostra interesse per i dati, il lavoro investigativo e la matematica può aspirare alla posizione. Quanto guadagna? Lo stipendio medio varia in base alle competenze individuali. Ad oggi è difficile fare una stima esatta, ma si parte dalla base percepita mediamente da un data scientist: per un neo laureato lo stipendio medio si aggira su 2835mila euro lordi l’anno, che possono arrivare fino a 55-65mila euro dopo cinque anni.


L'economia raccontata dagli under 35.

fondatori

art direction

Pierangelo Fabiano Raffaele Dipierdomenico

Gianluigi Servolini

direttore responsabile

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