Numero 18 28 Settembre 2019 OTTOBRE 2019
L'economia raccontata dagli under 35
COPIA OMAGGIO the-newsroom.it
CON LA CULTURA SI MANGIA
IL MAGO DEGLI UFFIZI
Intervista a Eike Dieter Schmidt
LA SVOLTA DELLE LIBRERIE
Non solo crisi: si può ancora cambiare
LIFELONG LEARNING
Le università sono pronte a insegnare ai nuovi studenti?
POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% S/CE/16/2018
Scrivere, studiare, immaginare: come l'Italia dal cinema all'editoria può scrivere una nuova pagina di crescita
PROLOGO
Con la cultura si mangia: il comparto vale quasi il 17 per cento del Pil italiano. Dobbiamo essere consapevoli della forza di questo settore trasversale. L’Italia nel mondo è cultura, sotto forma di food, di design o di un bel romanzo. Eppure migliaia di musei lamentano la carenza di fondi, opere importanti vengono lasciate senza manutenzione, spesso la politica vuole dominare invece che aiutare la cultura. Le storie che abbiamo scelto di far emergere in questo numero di The New’s Room raccontano una parte di Italia importante e che dovrebbe esserlo ancora di più. Pierangelo Fabiano, Fondatore
INDICE
EDITORIALE di Sofia Gorgoni
S
iamo il primo Paese al mondo per influenza culturale, secondo un’indagine della rivista
US News e dell’Università della Pennsylvania. Abbiamo un potenziale enorme che non
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Editoriale
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Uno sguardo ai numeri
di Sofia Gorgoni
di Pietro Mecarozzi
forza dell’Italia, con il suo immenso patrimonio storico e artistico, capace di trasmettere la propria identità culturale attraverso le produzioni cinematografiche, la moda, il design e la manifattura, massima espressione del nostro Made in Italy. Il design e la moda sono infatti due settori culturali trainanti per l’economia italiana, sia in casa che all’estero. Tutto l’insieme del soft-power è un’eredità del nostro passato ma anche una chiave per il futuro.
La cultura, infatti, è arricchimento economico, uno dei motori della nostra economia e della ripresa. Basti pensare che il Sistema Produttivo Culturale e Creativo, fatto da imprese, Pubblica Amministrazione e non profit, genera quasi 96 miliardi di euro e attiva altri settori dell’economia, arrivando a muovere, nell’insieme, 265,4 miliardi. Il settore cultura allargato dà occupazione a oltre un milione e mezzo di persone (il 6,1% del totale degli occupati in Italia). La cultura si promuove anche attraverso i festival letterari, artistici e
Numero 18 | Settembre 2019 the-newsroom.it
riusciamo a valorizzare del tutto, come emerge dai numeri. La bellezza è uno dei punti di
Cover Story 8 13
Pagherò - Storie di chi vive di cultura di Roberto Moliterni
Lifelong learning: evoluzione e rivoluzione della formazione di Danila Giancipoli
Intervista 16
Educhiamo, è divertente
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La galleria che investe
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La rivoluzione degli Uffizi
di Greta Ubbiali
di Eugenio Giannetta di Pietro Mecarozzi
musicali che stanno crescendo in tutto il Paese e portano valore ai luoghi che li ospitano.
Focus
Quest’estate la Valle d’Itria ha avuto artisti internazionali con un’unica tappa in Italia, grazie a iniziative come il Viva Festival, il Locusfestival o il Polifonic. I piccoli borghi della Valle di Comino a fine estate si sono riempiti di personaggi illustri, scrittori e registi, ma soprattutto di gente da tutta Italia grazie al Festival delle Storie. Sono solo due esempi di iniziative partite da piccoli centri, ma l’Italia è piena da nord a sud di iniziative culturali portate avanti con passione da persone che
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Abbiamo un problema con l’università
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Le piccole librerie chiudono: di chi è la colpa?
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Andiamo al museo. La rinascita e il ruolo per le città
Quello della conoscenza e della sua divulgazione è un settore che si rivolge a 60 milioni di italiani pensare che le case d'aste Sotheby's e Christie's fatturano 10 miliardi di dollari l’anno e lo Stato italiano impiega 50 anni per investire la stessa cifra sul suo enorme patrimonio artistico.
di Vittoria Patanè
di Laura Bonaiuti
amano il proprio territorio.
e a 560 milioni di turisti che bussano ogni anno in Europa. Eppure investiamo ancora poco. Basti
di Elena Pompei
Top 5 32
Le pagine social che fanno cultura
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Nuovi lavori nella cultura
di Salvatore Tancovi di Alessia Laudati
Chi invece ha un titolo di studio per lavorare nel settore dell’arte e della cultura è spesso destinato a una vita da precario e ad avere stipendi bassissimi. Secondo i dati ufficiali, pubblicati dal Mibac, sono decine i musei e i siti archeologici statali da 0 a 3 visitatori paganti al giorno. Questo numero è il racconto di un’Italia consapevole della propria forza, ma che tarda a spiccare il volo.
Rubriche 37
L'oggetto: il termometro
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Libreria
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Il lavoro del futuro
di Eugenio Giannetta di Lorenzo Sassi
di Sofia Gorgoni
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NUMERI
uno sguard0 ai numeri di Pietro Mecarozzi
I
l quadro non è dei migliori. L’Italia, dati alla mano, conferma il primato con 54 beni Patrimonio mondiale dell’Unesco (pari a circa il 5 per cento del totale) e allo stesso tempo concentra la spesa per i servizi culturali - che includono tutela e valorizzazione del patrimonio - nello 0,31% del Pil, meno dell’anno precedente e al di sotto della media Ue. Ebbene sì, l’Italia del Brunelleschi, del Vasari, del Giotto e del Bernini paga uno scotto culturale e artistico indegno del suo retaggio storico. Come se non bastasse, i pochi investimenti statali non fanno fede a quello che è realmente il mercato italiano: secondo l'ultimo rapporto 2019 “Io sono cultura” di Fondazione Symbola e Unioncamere, vale 255,5 miliardi di euro la ricchezza prodotta dalle industrie culturali propriamente dette, da quelle creative driven (che generano da sole 92 miliardi) e dall’indotto (che vale oltre 163 miliardi). Per capirci: si tratta di poco meno del 17 per cento del Pil italiano. Non male per un settore sempre più spesso denigrato e oggetto, negli ultimi anni, di sostanziosi tagli finanziari. Il cuore pulsante di questa economia è la sponda cultura: con 57 miliardi di euro l’anno le industrie culturali sono quelle che producono più valore aggiunto e vantano ben 488mila occupati. Ci sono poi le industrie creative (con oltre 13,4 miliardi e 261mila posti di lavoro), seguite dalle perfoming arts che producono quasi 8 miliardi e danno lavoro a 141mila persone. L’unica nota dolente, per l’appunto, è la voce sul patrimonio storico artistico. Secondo l’ultima relazione tecnica stilata per l’attuazione delle norme antincendio, i monumenti che non hanno attivate misure antincendio adeguate alla norma sono almeno 314 (all’appello mancano ancora regioni come Lombardia, Liguria, Marche e Molise, Val D’Aosta e Trentino). Un numero spaventoso, con l’aggravante esterna dei rischi sismici e idrogeologici. Questo si traduce anche in termini di efficienza: fanalino di coda con 2,8 miliardi di valore aggiunto, questo settore impiega “solo” 51mila addetti.
NUMERI
Anno d’oro anche per il sottosettore dell’editoria e stampa (13,8 miliardi), videogiochi e software (12 miliardi) e architettura e design (quasi 8,6 miliardi). Nondimeno, l’indotto di cinema e teatro conferma un trend in crescita nonostante l’avvento dello streaming. La spesa al botteghino, lo shopping, i trasporti e i pasti fuori triplicano la spesa culturale di base: ogni euro in biglietti di ingresso genera 2 euro di spese extra. Nei consumi extra degli spettatori, a fronte di 5,3 miliardi di spese, si genera un valore aggiunto annuale da 4,7 miliardi di euro, una produzione aggiuntiva da 10,8 miliardi, e circa 99 mila unità di lavoro. Facendo una proporzione di abitanti ed estensione territoriale, l’Italia nel settore artistico - no, non è una battuta! - può solo imparare dagli Stati Uniti. Il mercato artistico/culturale genera in Usa 764 miliardi di dollari di valore aggiunto all’anno, molto di più di quello agricolo, dei trasporti e dell’ingrosso. Questo valore rappresenterebbe secondo lo studio il 4,2 per cento del prodotto interno lordo, andando a impiegare circa 4.9 milioni di persone in tutti gli Stati Uniti. Gli Usa esportano inoltre circa 20 miliardi di prodotti culturali e artistici, creando, più in generale, quello che considerano una “culturalizzazione dell’economia”, secondo cui tutti i sistemi di produzione sono potenzialmente culturali. Come ogni tassello industriale, anche il settore artistico-culturale italiano, però, ha bisogno della sua classe dirigente e, in primis, di laureati ad hoc. Almalaurea evidenzia come le lauree in storia dell’arte e archeologia, assieme a quella in psicologia e giurisprudenza, portano a impieghi pagati pochissimo o molto spesso ad alti tassi di disoccupazione. Un ingegnere meccanico, per citare solo un caso, guadagna in media oltre 600 euro in più al mese rispetto a chi ha studiato storia dell’arte. Nel 2019, tuttavia, emerge l’aumento del valore aggiunto del 2 per cento rispetto al 2016 che ha portato con sé anche la crescita dell’occupazione dell’1,6 per cento. Il dato interessante riguarda il genere e il titolo di studio dei lavoratori del settore: le percentuali premiano le donne e i giovani, con un 42 per cento degli occupati in possesso almeno di una laurea. Questo è dovuto anche al fatto che le imprese del comparto sono oltre 414mila e incidono per il 6,7 per cento sul totale delle attività economiche del Paese. Tuttavia, circa il 60 per cento dei siti di interesse storico artistico è attualmente sottosfruttato e non valorizzato in maniera adeguata, il che fa pensare visto che il nostro Paese, con il suo patrimonio, attira (per una seconda volta) circa il 94 per cento dei turisti stranieri entrati in Italia per una vacanza. C’è poi l’evoluzione del fatturato delle aste: dopo la Francia seguono la Germania con 255,9 milioni di euro e l'Italia al sesto posto con 172,6 milioni di dollari per 24.614 lotti venduti e con ben 21 artisti tra i più quotati (Lucio Fontana, Rudold Stingel, Francesco Guardi, Amedeo Modigliani e Alberto Burri). Insomma, se l’Europa con il nuovo programma Europa Creativa per il periodo 2021-2027 ha raddoppiato i fondi a 2,8 miliardi di euro dedicando misure e bandi specifici anche per la musica dal vivo e i concerti, l'Italia, che si è posizionata soltanto quarta tra i Paesi dell'Unione che hanno attinto a Europa Creativa 2014-2020, investe nei programmi di finanziamenti per i settori creativo e culturale, a mo’ di yo-yo: ora generosa, ora refrattaria. Speriamo quindi che questo filo, prima o poi, non si rompa.
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NUMERI
IN NUMERI
L’Italia conferma il primato: 54 beni Patrimonio mondiale dell’Unesco pari a circa il 5% del totale
Ricchezza prodotta dalle industrie culturali Usa: 764 miliardi di dollari di valore aggiunto all’anno
Ricchezza prodotta dalle industrie culturali propriamente dette: 255,5 miliardi di euro
Occupazioni industrie culturali: 488mila persone
Creative driven: 92 miliardi
Indotto: oltre 163 miliardi
Industrie creative: 261mila posti di lavoro
Peso sul Pil italiano: circa il 17%
Introiti editoria e stampa: 13,8 miliardi
Videogiochi e software: 12 miliardi
Imprese del settore: oltre 414 mila Peso delle imprese: 6,7% sul totale delle attività economiche del Paese
Stipendio di uno studente di storia dell’arte: 600 euro in meno di un ingegnere meccanico Valore aggiunto 2019: aumento 2% rispetto al 2016 Crescita dell’occupazione: 1,6% Genere e titolo di studio dei lavoratori del settore: donne e giovani il 42% in possesso almeno di una laurea
Condizione siti di interesse storico: il 60% è attualmente sottosfruttato
In the heart of the Fashion District, Turismo: 94% dei turisti stranieri tornano una seconda volta in Italia
Fatturato delle aste: 172,6 milioni di dollari per 24.614 lotti venduti
Fondi Europa 2021-2027: 2,8 miliardi di euro
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Multifunctional Spaces
200
Guests
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COVER STORY
Pagherò Storie di chi vive di cultura La cultura è in grado di muovere grandi capitali, ma raramente arrivano a chi quella cultura la pensa e la produce. Due casi esemplari - editoria e cinema - per capire come funziona il mercato culturale dal punto di vista dei creatori di Roberto Moliterni
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erso i 16 anni lessi Due di due di Andrea De Carlo e, oltre a cambiarmi il modo di vedere la vita, mi fece entrare nella testa un pensiero che avrei fatto poi molta fatica a levarmi dalla testa: con quel libro Andrea De Carlo aveva venduto più di un milione di copie, quindi - pensai - scrivendo libri si diventa ricchi. Mi misi a fare un rapido calcolo. Anche considerando il prezzo più basso, cioè quello delle uscite in edicola a 6900 lire, Andrea De Carlo da Due di due aveva guadagnato 6 miliardi e 900 mila lire. Mi sembrava una cifra adeguata per vivere dignitosamente. A quel tempo non mi ponevo il problema di chi editasse i libri, di chi li stampasse, di chi li distribuisse e dei margini di guadagno delle librerie. Ero convinto che tutti quei soldi fossero andati a De Carlo. La deduzione successiva fu che anche io dovevo diventare come De Carlo. Crescendo, e avendo a che fare con questo mondo, mi resi presto conto che i miei calcoli erano sbagliati. La cultura non era la città dorata che avevo creduto - un paradiso in cui uno poteva fare quello che massimamente voleva e nel frattempo diventava pure ricco. Era invece più simile a una di quelle città del Sud del Mondo, dove ci sono alcuni che guadagnano moltissimo e altri - i più - che cercano di sopravvivere. Quando ci chiediamo se la cultura riesca a incidere sull'economia dobbiamo distinguere due ordini di problemi. Da una parte c'è l'impatto che la cultura ha sulla macroeconomia, i capitali che riesce a generare considerando non solo il processo di produzione artistica - quanti soldi si muovono per realizzare un prodotto culturale - e la successiva fruizione - quanti soldi si spendono per godere di quel prodotto culturale
COVER STORY
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-, ma anche l'indotto. La cultura ha spesso un forte impatto nell'immaginario collettivo e questo porta introiti collaterali. Una ricerca recente, svolta su 14 festival italiani nel 2018, resa nota all'Umbria Jazz e pubblicata sul Sole 24 Ore, conferma un dato emerso anche da altre ricerche: ogni euro speso in cultura ne genera 2,5 di ricaduta sul territorio. Un esempio tipico è quello del cinema in relazione alle regioni che fanno da set ai film. Il ritorno è non solo quello immediato - i soldi che una produzione spende sul territorio per alloggiare e nutrire la troupe - ma anche quello successivo, dei turisti che vanno a passare le vacanze in quella regione perché l'hanno vista nel film. È molto difficile misurare l'ampiezza di questo ritorno, perché i film, o più in generale l'arte, hanno il grande potere di ridefinire il valore di interesse di un territorio: Brescello sarà per sempre il paese di Don Camillo e Peppone, e nemmeno la cronaca, che ha visto il comune per ben due volte coinvolto in fatti di mafia, è riuscita a sovrascrivere questo mito. Dall'altra parte c'è però l'impatto che la cultura ha sulle economie individuali, sui bilanci domestici di quei tanti “operai culturali” che sono i terminali di questo processo. Prendiamo lo stesso esempio di una produzione cinematografica che va a girare in provincia. Da questa operazione ci guadagneranno alberghi e ristoranti, ma non gli “operai culturali” del territorio: per quanto i bandi delle film commission prevedano che una parte degli attori e delle troupe sia locale, molto spesso le produzioni preferiscono portarsi le proprie maestranze e i propri attori. Ai locali vengono lasciati ruoli marginali, sul territorio si scelgono quasi esclusivamente le comparse. In questo caso, quando cioè si parla di chi - nel suo piccolo, ognuno col suo contributo - produce cultura, le cose cambiano di segno - ed è stata la sostanza della mia scoperta da adulto, diventando un “operaio culturale”. Torniamo ad Andrea De Carlo, ai miei calcoli sull'editoria. Ogni anno in Italia escono circa sessantamila libri. La maggior parte non supera le mille copie. Nonostante questi dati, si stampano molti libri nella speranza di trovare un best-seller e per occupare più spazio nelle librerie, ovvero essere più visibili ai potenziali lettori. Settemila copie vendute - la tiratura media di un grande editore per un autore medio o poco noto - si considerano già un successo e scattano i trenini nelle case editrici. Il 60 per cento degli incassi va alla distribuzione, il 40 per cento all'editore, che deve anche pagare l'autore: a questi spetta una percentuale che oscilla tra il 7 e il 10 per cento. In sostanza, su un libro che costa 15 euro, all'autore entra in tasca, netto, circa 1 euro per ogni copia, che gli verrà corrisposto - salvo che non abbia ricevuto un anticipo - nella primavera dell'anno successivo a quello di uscita del libro. In pratica, la maggior parte degli autori aspetta un anno per vedere sul proprio conto corrente cifre che, se va bene, superano i 1000 euro. Naturalmente esistono delle eccezioni, e cioè gli autori noti e amati dal pubblico in Italia, quelli che finiscono sempre in cima alla classifica. Mi sono messo a contarli, non dovrebbero superare la trentina. Andrea De Carlo, secondo quanto lui stesso ha dichiarato in un'intervista al Giornale, oggi vende sulle ottantamila copie per ogni nuovo romanzo. De Carlo ha avuto successo abbastanza giovane, a 37 anni. Com'è noto, De Crescenzo e Camilleri, scomparsi in questi giorni, prima che il successo li raggiungesse, svolgevano rispettivamente la professione di ingegnere e di delegato di produzione alla Rai. Negli anni d'oro del cinema italiano molti scrittori si davano ai film per sopravvivere. Nello stesso periodo di Due di due, guardavo Nuovo Cinema Paradiso: il protagonista era un regista, aveva una bellissima casa, girava per via del Corso a Roma su una Mercedes e tornava da sua madre, in Sicilia, in taxi. A un certo punto, anche io pensai di fare cinema.
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Nel 2007 fui preso a un corso per sceneggiatori organizzato dalla Rai e dalla rivista script. La selezione fu durissima. Da centinaia che avevamo fatto domanda ci scelsero in 24; di questi solo 12, dopo un mese, potevano proseguire. Era l'anno in cui iniziò la crisi della fiction, che, in quel momento, equivaleva al cinema degli anni d'oro - tutti volevano fare la tv perché si guadagnava. Gli ascolti precipitarono da 10 milioni a 4. Dei 12 che eravamo solo un paio vivono oggi esclusivamente di sceneggiatura. Gli altri hanno cambiato mestiere, sono diventati insegnanti nella scuola pubblica o videomaker, oppure scrivono libri, collaborano con i giornali, insegnano cinema in scuole private, si fanno sostenere della famiglie. Nel frattempo provano a vendere le loro sceneggiature ai produttori oppure a farsele finanziare dal Ministero. Oggi, la maggior parte del cinema vive grazie ai contributi pubblici, in forma di bandi ministeriali o delle film commission, tax credit (uno sconto fiscale per le aziende private che investono nel cinema) o supporto da parte della televisione. Dal punto di vista di chi scrive o pensa il progetto questo significa prima di tutto buttare giù quelle che i produttori chiamano “due paginette”, che non sono mai due, ma un soggetto o un trattamento e qualche volta una prima bozza delle sceneggiatura (circa 100 pagine, alcuni mesi di lavoro). Da quando il film viene pensato a quando, forse, viene realizzato, passano in media quattro anni. Lo sceneggiatore viene pagato di solito se e quando la produzione prende i finanziamenti o se il film va sul set. Il problema principale di chi lavora nell'industria
culturale è infatti non solo la capienza dei guadagni, ma anche la certezza e la continuità dei pagamenti, vincolati ai ritmi della burocrazia. Questo implica l'assenza di una progettualità economica. E l'overbooking, che compromette la qualità del prodotto artistico: per tentare di avere sufficiente denaro il 5 del mese, si prendono più incarichi di quelli che si possono reggere. Perché mentre un committente ha facoltà di dire “Pagherò”, a un proprietario di casa questo non si può mai dire. In questi anni ho visto scrittori, sceneggiatori, registi, artisti e poeti dormire per mesi sui divani a casa di amici, chiedere prestiti, prendere anticipi per libri che, da lettori, non avrebbero mai letto o per fiction che, da spettatori, non avrebbero mai guardato, redattori di case editrici fare da baby sitter per arrotondare, studiosi di letteratura italiana scrivere tesi di infermieristica a pagamento, scenografi che se ne sono andati in Australia, montatori che hanno aperto vinerie, produttori a cui hanno staccato la luce, archeologi diventare bigliettai di musei, pianisti comporre jingle, teatranti spendere l'intero incasso della serata per pagare a malapena la pizza del dopo spettacolo, pittori che si sono messi a dipingere quadri di paesaggio, perché “la gente li compra per fare arredamento”. Ho visto qualcuno diventare ricco e famoso. È il mercato e la cultura è un'industria solo un po' diversa dalle altre. La maggior parte di quelli che la fanno non riescono a viverci, ma, forse, a sopravviverci. Quanto a me, non vado in giro per Roma con una Mercedes, ma con una Smart di quelle che si noleggiano al minuto. Se dentro ci trovo un biglietto, un paio di occhiali o un orecchino che qualcuno ha dimenticato, inizio a fantasticare su una storia che proverò a vendere. Un giorno troverò anche un portafogli e, ne sono certo, sarà pienissimo di soldi.
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COVER STORY
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Lifelong learning: evoluzione e rivoluzione della formazione AI, open source e investimenti. Il mondo dell’e-learning e gli sviluppi in Italia tra Mooc, H-Farm, Docebo e l’incremento dell’editoria professionale
di Danila Giancipoli
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na cosa che ci hanno sempre detto che possiamo fare è studiare tutta la vita. Trovare il modo quindi, di levigare i nostri spigoli più accademici e rimanere con occhi e mente ben aperta perché, non si sa mai, il sapere possa rendere un individuo libero e consapevole. Ma se la digital transformation plasma le professioni, le abitudini e le scelte aziendali, non può che farsi avida di una riqualificazione professionale 4.0. Per capire l’universo del lifelong learning, dobbiamo calarci nei panni di studenti, liberi professionisti, dipendenti, hr, clienti, ceo, manager.
Cybersecurity, blockchain, tech trends, algoritmi, IoT: studiare diventa core business a 360 gradi. Se guardiamo i numeri, la realtà italiana sembra faticare e si posiziona al 24esimo posto sulle competenze digitali in Europa (dato fornito dal Digital Economy and Society Index). Non solo l’Italia: secondo il rapporto 2018 The Future of Job, presentato dal World Economic Forum, entro il 2022 circa il 54 per cento dei lavoratori avranno bisogno di riqualificarsi. La Technical University di Monaco rincara la dose: nove aziende su dieci nel mondo non hanno ancora una strategia per formare i propri dipendenti. Per partecipare alla maratona, dobbiamo allenarci guardando chi sta costruendo un’idea (grande) di futuro digitale.
Storie che cominciano in Italia, da H-Farm a Docebo C’è una sorta di fantasma, o timore, o paura, che aleggia nel mondo contemporaneo. Quanto l’automazione riuscirà a sostituire il dipendente fisico in azienda? Quali ruoli non esisteranno più? Un riflessio-
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COVER STORY
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UN BISOGNO IMPELLENTE DI LIBERA FORMAZIONE INDIVIDUALE: IL MONDO DEI MOOC 2011: il bisogno di formazione ha avuto la sua risposta virtuale senza confini geografici. La mia esperienza con i Mooc (Massive Open Online Courses) comincia nel 2015, in un momento di curiosità dove nella mia testa risuonava un continuo “perché no?”. Ho avuto modo di seguire tre corsi free, con possibilità di certificazione a pagamento, in tre settori completamente differenti: The Science of Cancer (The Ohio State University), Super-Earths and Life (Harvard), a Management of Fashion and Luxury Companies (Bocconi). L’euforia di poter selezionare ciò che volevo liberamente tra tutte le università proposte e interagire con una community online attiva anche a centinaia di chilometri, aveva sicuramente prevalso. L’illimitato mondo del web ci dona la consapevolezza di poter accedere a conoscenze che vanno al di à dei nostri percorsi universitari o professionali. Se vuoi, puoi, e non c’è bisogno di andare fino in Ohio.
EDITORIA PROFESSIONALE: UN MERCATO DA 537 MILIONI DI EURO Ce lo dice l’ultima Indagine sull’Editoria Professionale di Cerved-Databand. Si rafforza il filo rosso che lega professionisti ed editori grazie alla produzione elettronica online e alla diffusione dei software gestionali. Tra banche date, riviste e contenuti elettronici, il digitale fattura più del cartaceo con un 60 per cento dedicato alle aree giuridica e fiscale. Proposte di affiliazione con cloud e gestionali semplificano la vita dei professionisti, tra consulenti del lavoro, avvocati e commercialisti che necessitano di risposte rapide e dirette alle loro richieste. Il Sole 24 Ore, Wolters Kluwer Italia e Giuffrè Francis Lefebre si prendono una fetta di mercato pari al 57 per cento, sfruttando le previsioni positive per il prossimo anno.
IL FATTORE TEMPO: VOLERE (ONLINE) È POTERE
ne ce la fornisce Doxa nel suo primo rapporto Aidp-LabLaw su robot, intelligenza artificiale e lavoro in Italia: il 74 per cento dei casi analizzati ha timore per la propria professione in mancanza di giusta qualificazione. L’87 per cento degli intervistati esclude persino la possibilità che macchine, chatbot e algoritmi possano sostituire del tutto le persone. Forse abbiamo parlato di automazione troppo presto, ancor prima di considerare un fattore X: quello umano. Vi parlo allora di H-Farm e Docebo: realtà che non hanno paura di migliorare e migliorarsi. H-Farm nasce nel 2005 da un’idea di Riccardo Donadon. Supportano e trasformano startup, si occupano di formazione e consulenza sotto forma di Silicon Valley tutta italiana per geografia e modus operandi. A giugno H-Farm lancia Maize.Plus, il tech food for thought. Questo il claim presentato alla fine del video introduttivo della piattaforma dai numeri già consolidati: più di 50mila dipendenti la stanno già utilizzando. Maze.Plus ci fa fare un ulteriore salto che parte dal concetto di e-learning individuale come lo conosciamo, comunicando da imprenditori per imprenditori. La piattaforma prevede due tipi di dashboard, una per il dipendente e una per il personale dell’HR, in un assetto di digital upskilling che ci spinge a rivedere il nostro concetto di cultura aziendale. Il caso di Docebo è invece autonomo, ma parte sempre dall’Italia, ovvero dalla Brianza per arrivare poi a Toronto. Fondata da Claudio Erba, in dieci anni passa da startup a multinazionale. Parlare di Docebo vuol dire poter usare termini freschi e digital: gamification, social learning, mobile learning, usability. AI e 5g forniscono un’esperienza intelligente e personalizzata, mentre il catalogo corsi sfrutta partner come LinkedIn e OpenSesame per ampliare l’offerta. Docebo dà la possibilità di vivere un’esperienza di branding e formazione, creando una sorta di Academy privata a cui possono accedere dipendenti, clienti o partner. Questo vuol dire migliorare i rapporti, aumentare le vendite o i profitti. Nel Report Tech SKills 2019 di Docebo, su 400 intervistati italiano il 57 per cento vorrebbe maggiore formazione in analisi dei dati, coding e software. Quant’è importante allora, avere un datore di lavoro che crede nella formazione?
Il tempo è denaro, questo forse ci è chiaro o forse lo consideriamo solo quando siamo a lavoro (mentre ci chiediamo quando e dove poter tornare a studiare). L’e-learning non è solo una rivoluzione nella cultura aziendale, è anche un’ala virtuale delle realtà accademiche private. Analista? Scrittore? Esperto digitale? Non possiamo essere lì, ma possiamo essere parte di qualcosa e diventare qualcuno. Allora sì, dopo tutto, possiamo ribadire che il sapere può renderci liberi.
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INTERVISTA
INTERVISTA
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EDUCHIAMO, è DIVERTENTE
LA GALLERIA CHE INVESTE
Lucrezia Bisignani, la startupper che vuole sconfiggere l’analfabetismo in Africa con l'aiuto di Super Sema
Cecilia Gaburro, con Box Art Gallery investe direttamente sull’arte
di Greta Ubbiali
L
ucrezia Bisignani nel 2014 ha fondato Kukua, un sistema di apprendimento informale che mira a sconfiggere l’analfabetismo infantile in Africa con l'aiuto del digitale e di una eroina in cui i piccoli utenti possano riconoscersi: Super Sema. “Lavorando con esperti di alfabetizzazione e gaming abbiamo creato un'app altamente coinvolgente con un percorso educativo strutturato", spiega Bisignani. L'azienda è composta da un team di 11 donne, distribuite tra Nairobi, Londra e Modena, e nel 2018 ha chiuso un seed-round di 2,5 milioni di dollari guidato da Echovc Partners. Ora nuove avventure attendono Super Sema, racconta l'imprenditrice: "Il franchise si espanderà. Dall'app nasceranno libri e una serie tv, attualmente in pre-produzione. Vogliamo espandere l'universo Kukua raccontando storie positive e aspirazionali perché oltre a skill primarie di alfabetizzazione come leggere, scrivere e fare di conto ai bambini africani servono role model che li ispirino a credere nelle loro potenzialità".
di Eugenio Giannetta
N
el cuore di Verona sorge una galleria d'arte che aspira a essere diversa dalle altre: si tratta di Boxart, nata nel 1995 dalla passione del suo fondatore Giorgio Gaburro; dal 2006 co-diretta da Beatrice Benedetti, che ne cura l'aspetto artistico e Cecilia Gaburro, figlia di Giorgio, che si occupa di artisti, collezionisti, comunicazione ed eventi.
The New's room ha intervistato Cecilia Gaburro, per sapere in cosa Boxart è innovativa rispetto al mercato dell'arte: “Siamo una galleria diversa dalle altre - spiega Cecilia Gaburro, proprietaria di Boxart -, perché i progetti sono totalmente finanziati da noi, che cerchiamo di dare il massimo della visibilità agli artisti e lavoriamo direttamente con loro. Facciamo quasi da agenti, cercando così di creare un valore aggiunto”. Linea guida dell’attività è il concetto di project gallery: “Come project gallery - continua Gaburro - costruiamo progetti insieme agli artisti e investiamo su di loro quando non sono conosciuti. Li scopriamo e lavoriamo al loro fianco, offrendo supporto economico e logistico». Esistono modelli simili all'estero? Qual è l'elemento di novità in fase espositiva? “Non sono a conoscenza di esperienze simili all'estero, ma i collezionisti più grandi si spostano sempre meno e le persone che visitano le gallerie vogliono vivere un'esperienza. Oltre all'aspetto artistico, l'ambiente deve essere stimolante. I nostri progetti nascono dallo scambio tra artisti, curatori e galleria, e sono concepiti per Boxart, per mettere in risalto il messaggio artistico”.
INTERVISTA
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LA RIVOLUZIONE DEGLI UFFIZI Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi, racconta le grandi sfide che sta portando avanti per valorizzare il patrimonio e i suoi dipendenti
di Pietro Mecarozzi
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entro nevralgico dell’arte italiana, gli Uffizi sono l’esempio perfetto di un matrimonio riuscito tra cultura ed economia. Il direttore Eike Schmidt ha saputo rilanciare un patrimonio inestimabile, senza tuttavia perdere il contatto con un retaggio storico importante. Dando vita così a un archetipo inedito in Italia.
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Direttore Schmidt, durante il suo mandato ha portato avanti una campagna per la restituzione delle opere sottratte all'Italia. È stato un modo per riportare al centro del nostro Paese arte e cultura? “Per quanto riguarda il dipinto con “Vaso di Fiori” di van Huysum, sapevamo dal 1991 che ancora esisteva, perché c’era stata la possibilità di vederlo in una fotografia scattata in quegli anni, mentre per la maggior parte delle altre opere che ancora mancano spesso non abbiamo idea di dove si trovino, questa è la differenza. Per il “Vaso di fiori”, avevamo indizi e tracce che lo rendevano molto più localizzabile. La vera sfida ora è mettere in atto una ‘moral suasion’ anche attraverso i governi esteri. Occorre un’interazione con le forze dell’ordine internazionali per far sì che vengano restituiti – anche volontariamente – il maggior numero di opere d’arte e beni culturali”.
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INTERVISTA
INTERVISTA
Le Gallerie degli Uffizi con lei hanno saputo modernizzarsi senza abbandonare tuttavia l’importante retaggio alle spalle.
L’identità fiorentina e quella italiana richiedono un legame col territorio. Sono in atto i giusti incentivi per avvicinare i cittadini alla cultura?
“La sfida più difficile era senza dubbio lo sviluppo del sistema per cancellare le code agli Uffizi: quando la annunciai, al mio arrivo agli Uffizi, nessuno la credeva possibile. Ora è in corso, sta diventando realtà, grazie a un algoritmo elaborato da un gruppo di giovani studiosi e professori dell’Università dell’Aquila. Altri cambiamenti mi hanno procurato molta soddisfazione, e tra questi, la possibilità di offrire a svariati studiosi, che fino al mio arrivo erano impiegati in galleria come guardiani, incarichi consoni alla loro preparazione scientifica, in molti casi brillantissima. Quando, da poco agli Uffizi, mi resi conto di questa situazione, non credevo ai miei occhi. Era come se la Apple avesse usato i suoi informatici per inscatolare gli iPhone: una follia a cui sono stato ben felice di poter rimediare. Poi, ovviamente, c’è l’attenzione alla tutela del grande patrimonio che custodiamo”.
“Possiamo dire senza ombra di dubbio che in questi anni gli Uffizi si sono avvicinati a Firenze e all’Italia. Ogni anno apriamo mostre sul territorio – particolarmente nei due territori di principale riferimento per gli Uffizi, la Toscana e le Marche. Alle Marche siamo legati da un rapporto di riconoscenza storica, perché da Urbino provengono, attraverso l’eredità di Vittoria della Rovere, sposa di Ferdinando II de’ Medici, moltissimi capolavori che oggi sono tra i più famosi degli Uffizi. In altri casi, abbiamo potuto organizzare mostre di studio, con opere legate storicamente o concettualmente ai centri periferici con cui ci siamo trovati di volta in volta a collaborare. Qui alle Gallerie degli Uffizi abbiamo un programma di mostre fortemente diversificato che va dall’arte classica a quella contemporanea: con questa scelta abbiamo tenuto in considerazione tutte le categorie di visitatori”.
Che visione della cultura sussiste in Italia? “Frequento l’Italia da più di 30 anni, e vi ho vissuto a lungo negli anni '90. Allora come oggi quello che colpisce di più di questo Paese è la sua naturale bellezza e l'incredibile senso estetico che pervade tutto: non solo l'arte, i musei, ma anche le architetture e persino lo stile delle persone nella vita quotidiana. In Germania, in Usa, all'estero molto spesso non è così. C'è, in Italia, un culto e una pratica della bellezza, delle forme e della forma che altrove non ha eguali; il che, però, ha anche conseguenze negative. Penso alla burocrazia, elefantiaca, che spesso si perde nella forma, perdendo di vista merito e funzione, e che affligge quasi ogni aspetto della vita del Paese”. Cosa consiglia a un giovane che decide di studiare materie artistiche-umanistiche in Italia? “Intanto non dimentichiamoci che, diversamente dalla maggioranza degli altri paesi, l’istruzione in Italia è praticamente gratuita e democratica. Quanto ai musei, pur con le difficoltà imposte dall’attuale crisi economica, nel corso degli ultimi anni sono ricominciate le assunzioni per incrementare il personale. Naturalmente questo non basta, ma è comunque un buon inizio.Personalmente non mi farei ingannare dalla pletora di nuovi corsi di studio che hanno titoli alla moda, spesso con la parola “management” o “digitale” nel titolo. Raccomando invece di studiare una materia vasta e solida – non necessariamente la storia dell’arte o l’archeologia, ma anche giurisprudenza, economia, lettere o lingue straniere”.
Cosa manca secondo lei per rendere l’Italia un polo di riferimento? “Secondo una recente indagine dell’Enit il turismo culturale in Italia attira uno straniero su quattro, si tratta del 40% del fatturato del settore. I primi attrattori sono Roma, Firenze e Venezia. Ovvero le grandi città d’arte, già sovraffollate dalle grandi masse. Quindi direi che l’incremento dei flussi turistici in termini meramente quantitativi e non qualitativi è un obiettivo miope, a breve termine, che nel lungo periodo può creare più problemi che vantaggi. L’obiettivo al quale bisogna puntare è migliorare l’esperienza dei visitatori. Abbiamo bisogno di una visione differente che va promossa proprio a partire dai musei. Se cambia la percezione del museo migliorerà anche la percezione del centro storico, e di conseguenza quella della città. Per questo agli Uffizi, ad esempio, puntiamo a destagionalizzare i flussi turistici e privilegiare i piccoli gruppi di visitatori anziché il turismo di massa mordi e fuggi”. Le istituzioni locali e statali, secondo lei, investono e amministrano in maniera adeguata sul patrimonio artistico? “Per chi lavora nella cultura, la sete di investimenti è inesauribile, si vorrebbe sempre di più, ma certo bisogna considerare ogni aspetto della vita, dalla sanità ai trasporti alle pensioni. Per questi aspetti cruciali l’Italia non è messa male, come invece lamentano i cittadini, rispetto ad altri paesi, dove ad esempio curarsi è un lusso. Ci si augura che aumenti la percentuale del Pil dedicata all’educazione e alla ricerca. Per i beni culturali, gli investimenti sono differenti nei vari centri della Penisola. L’Italia è quarta in Europa per fondi all’industria culturale in una graduatoria dominata dalla Francia”.
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Abbiamo un problema con l’università La platea degli studenti si ampia, ma quanto sono pronti gli atenei italiani alla sfida della competizione? di Elena Pompei
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e dinamiche di sviluppo delle università italiane sono da sempre fortemente connesse a quelle dei contesti urbani in cui esse agiscono. In Italia, gli atenei devono tenere conto dei cambiamenti economici, sociali e culturali dei contesti in cui operano e farsene interpreti, in un dialogo costante tra le due realtà, perché quella italiana è una storia di università che permeano profondamente la città che abitano e che ne condividono la storia, l’evoluzione e dunque le sorti.
Per loro natura, gli atenei sono un polo di attrazione per le giovani generazioni e hanno come scopo primario quello di fornirgli gli strumenti per accompagnare la società verso nuovi orizzonti. Tuttavia, l’Italia presenta talvolta ancora oggi un’idea degli atenei ormai appartenente ad altra epoca, delle università come istituti chiusi, fermi in una certa visione della cultura fatta per eletti, che non può che restituire eletti. L’università, in verità, proprio perché inserita per sua vocazione nel contesto territoriale, si apre oggi alla diversità in senso largo, “accogliendo e dando spazio a ciò che la società percepisce all’inizio con diffidenza, metabolizzando l’insolito e restituendolo all’urbe con una veste leggibile”, come afferma Stefano Paleari, già presidente Crui. Un ruolo tanto importante si accompagna dunque ad un onere per le università: quello di restituire alle proprie comunità talenti, idee, prospettive, un punto da cui ripartire per crescere. Perché questo sia
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vero oggi, affinché gli studenti ed i laureati siano parte di un nuovo processo, e perché le università siano ancora accompagnatrici e interpreti del cambiamento, c’è senz’altro bisogno di rivalutare il modo in cui concepiamo l’istruzione. Anche le analisi più recenti mostrano che c’è un’esigenza di rinnovamento: i dati Ocse rivelano che siamo terzultimi in Europa, su 36 paesi analizzati, per attrattività dei cervelli. Le ultime cifre Eurostat sulle università italiane mostrano che nella fascia di età tra i 25 ed i 64 anni solo il 16 per cento degli italiani è laureato, quasi la metà della media europea del 28 per cento. Se è vero che le università italiane formano talenti ineccepibili, e che la sola criticità sta nel fatto che simili talenti vanno a contribuire poi alle economie di altri paesi, per quale ragione i nostri atenei sono vuoti? I laureati sono pochi, ed anch’essi non riescono a trovare lavoro, poiché la grande maggioranza si specializza in discipline che non sono richieste dal mercato. Meno di un terzo dei giovani, in Italia, si laurea in discipline Stem – ed è forse tempo di iniziare a valutare l’efficacia dei nostri atenei in base a quanto il piano formativo risponde alle esigenze del mercato e del contesto socioeconomico su cui si riflette, non secondo una generica idea di ciò che è cultura. È proprio il modo in cui ancora si concepisce la cultura, in Italia, che mette un freno alla crescita sia del paese sia della sua più giovane generazione. Gran parte del problema è costituito dagli stadi precedenti dell’istruzione, i licei, la cui struttura rigida e ferma ad un’epoca ormai lontana guarda ancora alla cultura come intrinsecamente legata ad alcune discipline, notoriamente quelle più vicine alla tradizione umanistica. Permane ancora oggi un certo snobismo verso i ragazzi che intraprendono strade differenti dal liceo – si pensi agli Istituti Tecnico-Industriali – nonostante i dati smentiscano la superiorità del primo sui secondi, e anzi evidenzino tassi d’impiego altissimi dei diplomati in simili istituti. Perché, allora, continuiamo a guardare alla cultura come a un approccio nozionistico al sapere, invece che come un set di competenze trasversali ed orizzontali, che danno la possibilità all’individuo di fiorire e spendersi per la società in cui vive? Con ciò, non necessariamente si vuole seguire la scia di chi lotta per abolire il liceo classico ed il latino obbligatorio nei licei, ma si riconosce senz’altro la necessità di riformare l’istruzione secondaria perché prepari gli studenti ad una reale alternativa, alla scelta di una carriera al passo con il cambiamento e con il mercato, più orientata a gettare le basi per quelle discipline che stanno attualmente emergendo e che non trovano, in Italia, lavoratori specializzati. Quello che abbiamo nelle nostre scuole, un approccio verticale all’istruzione, è lo stesso che si trasmette poi nelle università, le quali stanno fallendo nel loro ruolo primario: quello di dare nuovi spunti e nuova vita al paese che abitano. È necessario riformare l’approccio all’insegnamento perché diventi più fluido, pragmatico, e perché investa l’aspetto esperienziale tanto quanto quello teorico. È il momento di riconoscerlo: abbiamo un problema nelle università. Solo la volontà congiunta delle istituzioni e del mondo accademico può risolverlo, se uniti in un’unica consapevolezza: perché la cultura torni ad essere il motore dell’Italia, bisogna ripartire dall’istruzione. Da un modo di educare i ragazzi che sia trasversale, pragmatico ed orizzontale, perché il capitale umano delle generazioni presenti è una ricchezza da coltivare, e sta alle università per prime piantarne il seme.
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Le piccole librerie chiudono: di chi è la colpa?
ROMANZO VINCITORE DEL PREMIO LETTERARIO
Non solo di Amazon, né delle grandi catene. Vi diamo un indizio: a farle chiudere siamo anche noi
di Vittoria Patanè
ORGANIZZATO DA &
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IN COLLABORAZIONE CON MEDIA PARTNER GRAZIE AL CONTRIBUTO DI PARTNER UFFICIALE
NELLE MIGLIORI LIBRERIE ITALIANE
’Italia è un Paese fondato sulla sua tradizione culturale e letteraria, eppure oggi sono sempre meno le persone che decidono di aprire un libro per il puro gusto di leggere, di perdersi in una storia, di sapere qualcosa in più. Una tendenza che, con la diffusione delle grandi catene e l’esplosione dell’e-commerce, ha trasformato le librerie di quartiere in una specie in via di estinzione. Un feticcio da ricordare, da guardare nei film romantici come C’è Post@ per te, dove Meg Ryan e Tom Hanks ricreano la guerra tra grandi colossi e piccole librerie attraverso una storia d’amore a lieto fine. Sono passati 21 anni da quel film e nell’editoria, quella vera, Golia continua a cibarsi di un Davide sempre più in difficoltà.
A livello generale, dopo tre anni di rialzi, nel 2018 il fatturato italiano del mercato del libro è sceso dello 0,4 per cento. Parliamo dei ricavi totali di librerie a conduzione familiare, catene, store online, banchi libri della Gdo, cui si aggiungono le stime dell’A ie (Associazione Italiana Editori) sui ricavi in Italia di Amazon. Si tratta di 1,442 miliardi di euro a prezzo di copertina. È andata meglio nei primi quattro mesi del 2019, quando il fatturato è tornato a crescere (+0,6 per
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cento) toccando i 393,2 milioni dai 390,5 dello stesso periodo dell’anno scorso. Lo specchio del mercato editoriale italiano è tutto qua, nei dati presentati a giugno dall’A ie al convegno “2019: dati e prospettive del libro in Italia” tenutosi al Salone Internazionale del Libro di Torino. Sono i dettagli però a dare il quadro completo.
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difficile nelle grandi città, figuriamoci nelle piccole. Uno studio di Nielsen mostra come al Sud un terzo dei Comuni con più diecimila abitanti non ha una libreria, mentre per l’Istat Calabria, Campania, Puglia e Sicilia sono le regioni che ne hanno meno. Da anni continua la ricerca dei colpevoli cui imputare la crisi delle librerie indipendenti. Oltre alle grandi catene, accusate di cannibalizzare i piccoli negozi, il principale sospettato è Amazon, colosso da 232,9 miliardi di ricavi contro il quale nessuno può competere. Il suo fondatore, Jeff Bezos, ama definirsi librario, ricordando gli albori della sua società vissuti in un garage di Seattle. Oggi Amazon ha un catalogo di 15 milioni di titoli che vende a prezzi scontati e consegna gratuitamente ovunque entro un giorno. A fine luglio, ha lanciato il servizio Business per le Librerie: 800mila titoli e sconti fino al 35 per cento.
Secondo lo studio, gli italiani continuano ad acquistare libri nelle librerie, il 43,5 per cento in quelle di catena, il 24 per cento in quelle indipendenti o a conduzione familiare. In totale, nei primi mesi del 2019, si arriva al 67,5 per cento, era il 70,8 per cento nel 2018, il 79 per cento nel 2007. Il primo quadrimestre del 2019 ha però segnato una svolta: gli store online, con una quota di mercato del 25, per cento% hanno superato per la prima volta le piccole librerie, dimostrando l’impatto dell’e-commerce sul mondo dell’editoria. Il restante 6,6 per cento è in capo alla grande distribuzione.
Imputare tutte le colpe della crisi ad Amazon significherebbe affrontare solo in parte il tema. Difficile non citare anche l’incessante aumento della produzione - 72.059 titoli tra novità e nuove edizioni nel 2017 - a fronte di una continua riduzione delle copie vendute (-2,2 per cento a 22 milioni nel 2019, 494mila in meno dell’anno precedente), o la permanenza sempre più breve dei libri sugli scaffali. C’è anche dell’altro, più importante. “Il problema delle librerie indipendenti non è solo Amazon, con cui non possiamo né vogliamo competere - analizza Giussani - quanto il fatto che in Italia si legge pochissimo. Poco più del 40 per cento degli italiani legge un libro l’anno. La media europea è pari al 75 per cento, in Francia si arriva all’88 per cento, gli scandinavi toccano addirittura il 90 per cento”. I dati in effetti sono sconfortanti. Secondo l’Istat nel 2016 il numero di lettori dai 6 anni in su che hanno letto almeno un libro in un anno è pari al 40,5 per cento della popolazione, circa 23 milioni di persone. Significa che 6 persone su 10 non leggono. Peggio di noi solo Cipro, Romania, Grecia e Portogallo. Per cercare di aiutare le piccole librerie, la Camera ha approvato una proposta di legge sul libro che, tra le altre cose, prevede di porre un limite agli sconti sui libri. Una norma che ha creato forti polemiche tra gli esperti. The New’s Room ha raccolto le posizioni dell’A ie - secondo cui questa scelta servirà solo a “sottrarre 70 milioni alle famiglie, senza portare benefici” - e quelle del Sil che invece la considera una misura volta a riequilibrare la concorrenza. Nonostante le posizioni opposte sugli sconti però, su una cosa concordando entrambe le parti: senza una legge che incentivi la lettura e contribuisca ad incrementare il numero di lettori, il mercato editoriale soffrirà ancora a lungo.
Il risvolto pratico di questi dati è che, dopo anni di crisi e nonostante sporadici segnali incoraggianti, le librerie indipendenti continuano a chiudere. Le piccole realtà a conduzione familiare erano 1.115 nel 2010, sono diventate 811 nel 2016 (Rapporto sull’Editoria 2017 dell’A ie). E gli ultimi due anni non sembrano aver invertito la rotta: “Nel 2018, l’attivazione del tax credit, il credito d’imposta per gli esercenti attivi nella vendita al dettaglio di libri, ha fornito una fotografia del settore. Considerando le sole librerie pure, il tasso di chiusura annuale è pari al 6 per cento”, spiega a The New’s Room Cristiana Giussani, presidente del Sil (Sindacato Italiano Librai di Confesercenti). Opposto il percorso delle catene e dei franchising: 9 anni fa erano 786, nel 2016 sono arrivate a quota 1.502. Insomma a soffrire, su un totale di 1.863 librerie, sono proprio quelle più piccole. “Per le piccole realtà, la tendenza è ancora negativa - conferma Paolo Ambrosini, presidente dell’Associazione Librai Italiani - anche se si comincia a vedere uno spiraglio. Nelle grandi città come Roma, Milano e Torino stanno tornando le librerie di quartiere. Purtroppo la loro diffusione continua ad essere scarsa, anche perché chi decide di aprire una libreria si affida al franchising per avere più chance. La stessa scelta viene fatta da molti librai indipendenti che passano al franchising per sopravvivere”. E se è
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Andiamo al museo. La rinascita e il ruolo per le città
di Laura Bonaiuti
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a cultura non serve a niente. Non si può fare carriera né trovare un lavoro stabile. Quante volte ce lo siamo sentiti ripetere? Eppure l’Italia vive di cultura. Vive di storia, di opere, di turismo. È chiaro che in un mondo come il nostro, dove per sopravvivere bisogna produrre e vendere, anche la cultura diventa un prodotto. Questo ci ha aiutato a mangiare, grazie alla cultura, in un paese che non possiede materie prime né fonti energetiche. E negli ultimi anni ci abbiamo mangiato pure meglio rispetto ad altri settori.
I musei sono diventati imprese. Hanno ricevuto, grazie a una riforma del 2014, la responsabilità della progettazione culturale. I direttori dei musei si sono trasformati in piccoli o grandi manager. E i numeri parlano chiaro. I visitatori sono aumentati del 18,5 per cento (+7 milioni), arrivando al record di 45,5 milioni di ingressi nel 2016 e confermando un positivo trend di crescita anche nel 2017. Garantire la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale sono stati i presupposti che hanno determinato un mutamento storico: il riconoscimento, nel 2015, del ruolo della cultura come servizio pubblico essenziale. Si è anche previsto l’A rt bonus, cioè una detrazione fiscale del 65% sulle somme che i nuovi “mecenati” donano per il recupero e il restauro del patrimonio culturale di proprietà dei musei pubblici italiani. Con la riforma, la presenza digitale del Mibact si è intensificata e strutturata, in particolare sulle principali piattaforme social: non soltanto su Facebook e Twitter, ma anche su Instagram colmando una mancanza con l’apertura del profilo ufficiale dedicato al raccon-
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to delle collezioni dei #museitaliani. Con un lavoro che ha messo a sistema gli Uffici promozione comunicazione dei principali Istituti e dei Poli museali, il Ministero ha dato vita alla rete dei musei sia con la creazione del gruppo Telegram #MuseiSocial, dove vengono condivisi i principali contenuti digitali, sia con la realizzazione di campagne che, ogni mese, esplorano le collezioni italiane secondo temi diversi, proponendo inedite interpretazioni. Grazie anche alle campagne social, in poco meno di un anno e mezzo il nuovo profilo Instagram si è posizionato al livello nazionale come luogo di valorizzazione, scambio e condivisione delle collezioni museali e del racconto di curiosità, aneddoti e storie delle opere e degli artisti. Quanti sono in Italia i musei, i siti archeologici e i monumenti, a gestione statale, locale o dei privati che possono essere visitati? Secondo una ricerca del 2015 erano quasi cinquemila. Quelli statali sono una piccola parte, 472, riconducibili al Mibact, pari al 9,5 per cento dell’intero patrimonio museale dell’Italia. I musei statali italiani nel 2018 hanno avuto 55 milioni di visitatori e dalla vendita dei biglietti di ingresso sono stati ricavati quasi 230 milioni di euro, per un incremento rispetto al 2017 del 10 per cento nelle visite e di oltre il 18% per i ricavi. Escludendo i siti archeologici come ad esempio il Colosseo, il Foro romano e gli scavi di Pompei, i maggiori musei per visitatori sono gli Uffizi di Firenze con oltre 2 milioni, la galleria dell’Accademia sempre a Firenze, con 1,7 milioni di ingressi, e il museo nazionale di Castel Sant’A ngelo con 1,1 milioni. Al quarto posto la reggia reale di Venaria vicino a Torino, con 960.000 visitatori e sempre a Torino il museo Egizio con 850.000. Altri dati ci fanno capire quanto siano importanti le innovazioni organizzative introdotte con la riforma degli anni passati. Se infatti mettiamo a confronto i dati di bilancio dei musei che hanno autonomia (un proprio bilancio ed una gestione per così dire manageriale, meno soggetta a vincoli burocratici) si osserva che il rapporto tra il totale delle entrate (fatto pari a 100) e i ricavi derivanti dalla loro attività (vendita biglietti, e altri servizi messi a disposizione) è pari al 75 per cento. Ciò significa che queste istituzioni culturali riescono da sole a coprire i tre quarti delle loro entrate. Mediamente, tuttavia, il numero dei visitatori per sito è inferiore a quello di altri paesi, e questo significa che l’offerta italiana è molto più ampia, ma che spesso i musei e i siti archeologici minori sono poco noti e poco pubblicizzati. Anche qui si potrebbe fare di più.
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Quanti conoscono la bellissima Certosa di Calci? Si trova in provincia di Pisa, 18.000 visitatori (7000 non paganti) nel 2018 diminuiti però del 20 per cento rispetto all’anno precedente; o quanti hanno percepito il fascino delle Tavole Palatine di Metaponto, vicino a Matera, 23.000 visitatori nel 2018, anch’essi diminuiti del 10% rispetto al 2017? La spiegazione che spesso viene fornita è che “non ci sono risorse pubbliche”: il personale ha un’età spesso avanzata, le ore di apertura limitate, il materiale informativo assente. Perché accade questo? La principale spiegazione risiede nell’approccio “vecchio” seguito a lungo tempo in Italia verso il patrimonio culturale. Sovvenzioni solo pubbliche, diffidenza - se non vera e propria ostilità- verso l’intervento dei privati e verso tutto ciò che potrebbe, anche marginalmente, vedere nel patrimonio culturale una fonte di reddito. Nonostante la riforma avviata cinque anni fa, ci sono ancora difficoltà nel superare la dicotomia che vede contrapposte la tutela del patrimonio artistico e la “produzione” culturale, come se la seconda andasse a danneggiare irreparabilmente la prima. Valorizzare il patrimonio artistico e culturale non significa necessariamente ragionare solo in termini aziendalistici, ma attribuire a questo importante settore la valenza di vero e proprio “fattore di sviluppo” e di prodotto. La città d’arte deve diventare un punto di riferimento per l’offerta di cultura affinché il turismo non sia solo una toccata e fuga tra una pizza e un gelato, ma un’esperienza immersiva, a 360 gradi, nella bellezza che il nostro Paese ha ereditato. Vivere di rendita senza innovare è uno spreco che non possiamo permetterci.
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le pagine social che fanno cultura di Salvatore Tancovi
>>>Treccanigram
@treccanigram è l’account Instagram ufficiale dell’Enciclopedia Italiana Treccani. La svolta social del marchio è stata particolarmente sagace considerato che ha mantenuto integra l’ottima reputazione dell’Istituto puntando a un’utenza giovane. Il risultato sono stories su “Paracetamolo” di Calcutta in cui si spiega il significato del testo, quello metaforico, ma anche cosa sia in termini chimici il paracetamolo stesso. La cultura si fa pop e ci ricorda che la nostra lingua è più viva che mai.
>>>Chi ha paura del buio e link4universe La divulgazione scientifica generalmente oscilla tra l’estremo tecnicismo dell’accademia all’eccessiva approssimazione dei media mainstream. In questo enorme solco si colloca Chi ha paura del buio, una pagina Facebook che tratta argomenti quali astrofisica, geologia, climatologia con voce esperta, specifica, eppure estremamente chiara. La stessa formula è usata anche da Adrian Fartade, del canale YouTube link4universe, che in più aggiunge la sua simpatia e presenza scenica. Da recuperare post e video sul cinquantesimo anniversario dello sbarco sulla luna.
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>>>Una
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foto diversa della prima Repubblica. Ogni giorno.
Questa pagina, su Facebook da oltre 4 anni, attinge dall’enorme ricchezza iconografica della prima Repubblica per tracciare un racconto di quel tempo fatto di scatti e succosi aneddoti. Alla base del progetto c’è un amore nostalgico per un modo di fare politica totalmente mutato, ma possiamo riconoscere anche una valenza storica a questo amarcord che racconta l’Italia a colpi di foto in bianco e nero. Ad arricchire il contenuto della pagina anche i commenti degli oltre 95mila, appassionatissimi, fan.
>>>Art Garments Distinguersi nel piacevole mare di arte che è possibile trovare su Instagram non è affatto semplice, serve un taglio particolare. Incantevole quello trovato da @artgarments, pagina newyorkese che pubblica dipinti, anche piuttosto famosi, focalizzandosi sui dettagli delle vesti e dei gioielli dei personaggi. La storia dell’arte s’intreccia a quella della moda e restituisce un mosaico delicato e sorprendente, così lo zoom su un merletto o una tiara svela un’immagine conosciuta eppure del tutto nuova.
>>>Gli account instagram dei musei Pura benzina artistica per la propria bacheca. Le pagine dei centri più importanti, va da sé, fanno soprattutto riferimento alla vastità di opere in galleria come per il Louvre, il Moma, gli Uffizi. Anche più attraenti sono le pagine di musei meno conosciuti che danno importanza sia all’immagine che allo stile complessivo dell’account, ad esempio l’Amsterdam Tattoo Museum o il Museum of Sex di New York. Restando sui musei, ma spostandoci su Twitter, non può mancare un follow all’account MiBAC per non perdersi mai un’iniziativa delle gallerie nostrane.
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nuovi lavori nella cultura
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>>>Autore di podcast Questo nuovo mestiere viene direttamente dalla sezione Jobs di Spotify. Si cerca una figura di autore per film-audio della piattaforma Parcast. Servono figure in grado di scrivere contenuti e vere e proprie sceneggiature accurate e ci vogliono capacità di scrittura e inventiva per produrre storie originali. Certo per ora il luogo di lavoro è la California ma magari c’è qualcuno che ha voglia di fare un viaggio oltreoceano o desidera inventarsi come vero e proprio autore della modernità.
di Alessia Laudati
>>>Il colorist
Il suo ‘ciak, si gira!’ è importantissimo ma arriva solo dopo che le scene di un film sono state girate. Parliamo di una figura nuova dell’industria cinematografica che ha il compito di correggere luce e colore durante le fasi di post-produzione di un film o di un documentario. Suo l’onere di migliorare la color correction e il color grading. Può persino essere la naturale evoluzione del classico direttore della fotografia; basta che sappia far brillare il colore in maniera originale e creativa.
>>>Social media manager Comunicare l’arte è una bella sfida nell’epoca in cui grazie a uno scatto un’opera esposta in un museo lontano può arrivare fino a noi. Le istituzioni culturali sono però organismi delicati che hanno bisogno di trasmettere all’esterno il valore del loro patrimonio artistico. Per questo l’esperto di arte e di comunicazione è un ibrido professionale che deve focalizzare bene il target di riferimento e veicolare in maniera efficace il proprio messaggio. Tutto realizzato a base di hashtag, ovviamente.
>>>Fact-checker In un mondo dell’informazione e della comunicazione dove chiunque può prendere uno smartphone e dire la propria verità, compresi capi di stato e ministri, è molto importante verificare in maniera accurata le informazioni disponibili. Il fact-checker è un professionista che sa leggere i dati, metterli in relazione e allo stesso tempo è un appassionato dall’industria editoriale mosso persino da un po’ di passione politica. Un po’ detective un po’ militante.
>>>Brand manager Ossessionato dall’immagine e molto determinato nel formare l’identità di un marchio, di un’azienda o di una realtà culturale. Dal cinema, alla televisione, all’immagine di un attore o di un’attrice, passando per un museo o un’istituzione culturale, il brand manager non si occupa solo di prodotti ma anche di persone. L’importante è sapere cosa si vuole comunicare all’esterno. Per il resto ci penserà lui, magari appoggiandosi a un digital pr, professionista delle relazioni pubbliche ma via digital.
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IL TERMOMETRO la nuova agenzia di Relazioni pubbliche e istituzionali la nuova agenzia di Relazioni Pubbliche e Istituzionali
Lo strumento che conosciamo fin da bambini ha un significato importante anche per la nostra economia
di Eugenio Giannetta
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ato a cavallo tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, il primo termometro, chiamato termoscopio, fu opera di Galileo Galilei. A questo primo modello seguirono nel 1709 quello ad alcool, realizzato da Daniel Gabriel Fahrenheit, nel 1725 quello a mercurio, e infine quello digitale. Dal 2009 non è più in commercio il termometro a mercurio, per via di un rilascio di metallo liquido nocivo alla salute. La scala centigrada fu introdotta nel 1732 da Celsius, ed è ancora oggi in uso.
ROMA: Via Emanuele Gianturco, 1 - Tel: +39 7686 7405 MILANO: Corso Monforte, 20 - Tel: +39 02 8345 0000 info@core.it | www.sg-core.it
Nel settecento, ai pazienti che utilizzavano il termometro occorreva quasi un’ora per conoscere la loro temperatura corporea, ma gli usi del termometro sono di varia natura, dal controllo delle temperature delle città a quello degli alimenti. I termometri funzionano per dilatazione termica, resistenza elettrica, ad alto flusso, quindi liquido, come il termometro a ranocchietta e il cinquantigrado, utilizzati e ideati in particolare dalla famiglia Medici, fondatori dell'Accademia del Cimento, prima associazione scientifica a utilizzare il metodo sperimentale galileano in Europa.
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7 cose che non sapevi SUL termometro
Il termometro più alto del mondo è a Baker, California. Alto 40 mt, misura fino a 134°C. Costruito nel 1991 da Willis Herron per 750mila dollari, crollò per una tempesta e fu ricostruito nel 1992. Chiuso nel 2012 per le bollette troppo alte (8mila dollari al mese) e riacceso il 10 luglio 2014 dalla famiglia Herron, in occasione del 101esimo anniversario del giorno più caldo del mondo (56.6°C).
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Nell'agosto del 2010, in Antartide, tramite satelliti della Nasa, il National Snow Data Center ha rilevato la temperatura più bassa mai registrata sulla Terra: -93.2°C. Il record rilevato con termometro appartiene a Vostok, in Russia: -89.2 °C. La città più fredda al mondo, invece, è Ojmjakon, in Siberia (-67°C), dove vivono circa 800 persone.
5 Il termometro più preciso al mondo può misurare la temperatura di cellule e nanocircuiti elettronici ed è stato progettato da Gerardo Adesso, coordinatore di un gruppo di ricercatori dell'università di Nottingham. La misurazione si basa su un sistema quantistico con due livelli: un solo quanto per il livello minimo di energia, molti stati quantistici per livelli superiori.
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La più grande collezione di termometri al mondo appartiene all'americano Richard T. Porter, che ne possiede 4.580, accumulati a partire dal 1978 e ospitati nel Porter Thermometer Museum di Onset, nel Massachusetts; la città di Onset è in effetti definita capitale mondiale del termometro. Qualche anno fa Porter ha venduto la collezione a Joel N. Myers, fondatore e presidente di AccuWeather, società americana fornitrice di previsioni meteorologiche in tutto il mondo.
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Tra le varie tipologie di termometro esiste quello a infrarossi, chiamato anche termometro laser, o senza contatto, che permette di misurare la temperatura a distanza. È utilizzato per diverse funzioni di monitoraggio della temperatura, compresa la misurazione della febbre in pazienti durante periodi di epidemia di malattie come Sars o Ebola.
Nel film del 1984 “Non ci resta che piangere”, scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi, i due protagonisti, Mario e Saverio, si ritrovano improvvisamente nel passato, dove incontrano Leonardo da Vinci - cui ricorrono proprio quest'anno i 500 anni dalla morte - e provano a spiegargli il funzionamento del termometro a mercurio.
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Il termine termometro è ricorrente in letteratura, da un sonetto romanesco di Pietro Belli del 1833 (chiamato tremò) passando per "Al Polo Nord" di Salgari, fino a Giacomo Leopardi, che in "Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura" (Zibaldone) ne utilizza il termine a misura di costumi, opinioni e segno dei tempi.
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LIBRERIA Letture per capire l'economia di oggi
a cura di Lorenzo Sassi
LA GRANDE CONVERGENZA Richard Baldwin Richard Baldwin, professore al Graduate Institute di Ginevra e presidente del Cepr, ha condensato in “La Grande Convergenza” (Il Mulino) il precipitato semantico di oltre trent’anni di studi su globalizzazione e commercio. Nella ricerca viene ricostruita la storia della globalizzazione fin dagli esordi, cioè duemila anni fa, divisa in tre grandi fasi: la prima, in cui si è cominciato a scambiare merci; la seconda, in cui a spostarsi sono idee e conoscenza; e infine la terza, dove a muoversi sono le persone. Il libro è un’istantanea dalla quale emerge l’eminente rilevanza che la tecnologia ha avuto in questo processo. Un processo ben lontano dal suo epilogo e che è destinato ad accelerare a ritmi sempre più elevati. La terza fase è alle porte. Si fa sempre più urgente dunque, sostiene Baldwin, una comprensione più accurata della globalizzazione; una comprensione che sia secolarizzata dalla “totemica” fede - così la definì il Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney - che gli economisti hanno nel libero mercato.
LE SEDUZIONI ECONOMICHE DI FAUST Geminello Alvi Come Nietzsche aveva filosofato col martello contro i metafisici, così Geminello Alvi alza la scure, nell’intento (riuscitissimo) di decapitare il passatismo speculativo in cui la dottrina economica dominante (post Keynes e Sraffa) si è incancrenita. Ed è così che, a suon di aforismi, un’altra storia si ripete.
REALISMO CAPITALISTA Mark Fisher
UN FUTURO MIGLIORE Paul Mason Il neoliberismo “ha creato una realtà in cui è diventato impossibile immaginare alternative”, così si apre “Un Futuro Migliore”. È tuttavia ancora possibile aprirsi un varco, armandosi contro il monopolio delle tech companies, contro la globalizzazione ultraliberista e i rigurgiti xenofobi della società civile.
Uscito a ridosso della crisi del 2008 in America (e anche per questo molto discusso), il testo di Mark Fisher mette in luce come l’ideologica “cappa capitalistica” ci abbia rimbambito così tanto da aver introiettato quel “there’s no alternative” quasi fosse ossigeno: indispensabile alla sopravvivenza (del capitalismo stesso).
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il lavoro del futuro
le di ognuno di noi, per questo serviranno sempre di più figure altamente specializzate. La cybersecurity riguarda anche monumenti, musei e luoghi in cui la cultura trova la sua massima espressione. Le città diventano smart e tutto ciò che è il dato interviene anche nel nostro mondo reale. Ammonta a 3,43 milioni di dollari il costo medio causato dal danno derivante da impatti e frodi provocate da furto di dati. L’87% delle imprese a livello globale e il 97% di quelle italiane ad oggi non dispone di risorse sufficienti a garantire la sicurezza informatica. Chi sono gli esperti di cybersecurity ?
Nelle aziende manca personale specializzato, in Italia è partita la corsa per formare hackers buoni
di Sofia Gorgoni
DA GRANDE FARÒ L’ESPERTO DI CYBERSECURITY
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Si tratta di figure altamente specializzate, capaci di gestire le minacce più recenti ed evolute. Per le aziende, l’80% dei tentativi di sabotaggio arrivano attraverso l’e-mail, le app di chat e messaggi SMS. Possono essere attacchi di phishing, minacce malware o attacchi BEC (per guadagnare l’accesso a un account email aziendale e frodare l’azienda o i clienti, viene imitata l’identità del possessore). In Italia nell’ultimo anno è partita la corsa per formare hackers buoni. Sono state ben undici le università italiane che hanno allestito corsi di laurea, master e dottorati sulla sicurezza informatica e il cyber crime. Dal 2019 il Politecnico di Milano e La Sapienza hanno avviato un corso di laurea magistrale. Quanto guadagnano?
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on possiamo più fare a meno di internet. Le nostre case sono piene di oggetti “intelligenti”, cioè connessi a Internet. Tra smartphone, tablet, termostati e frigoriferi, braccialetti bluetooth e altoparlanti wireless, la cosiddetta “superficie d’attacco” cresce a dismisura. In altre parole, siamo sempre più interconnessi e quindi sempre più “hackerabili”. Stesso rischio riguarda le aziende: moltissime hanno già subìto un attacco e il più delle volte non possono comunicarlo all’esterno per non danneggiare la propria reputazione.
Emergono forti differenze tra realtà private e pubbliche e tra l’Italia e il resto d’Europa e USA. Nella Pubblica Amministrazione italiana non esistono ancora figure specifiche riguardanti la cyber security. Esiste unicamente la figura del funzionario o analista. Il corrispettivo trattamento economico, quindi, non si discosta da quello di un qualsiasi funzionario: 25.000-35.000 euro annui lordi. Situazione ben diversa nel mercato americano che offre posizioni di alto livello, con retribuzioni che superano i 200.000 euro lordi annui.
Secondo il report “State of the industrial cybersecurity 2019” di Kaspersky più della metà degli incidenti sono stati causati da comportamenti “umani” e secondo Morten Lehn è “urgente affrontare i rischi legati alla mancanza di personale specializzato”. I criminali informatici si servono anche dei siti web delle aziende per lanciare le proprie “esche”. Con metodi sempre più sofisticati, sfruttano psicologia, comportamenti e abitudini umane per raggiungere il bersaglio. Oggi i dati fanno parte dell’incolumità persona-
Nel 2022, 1,8 milioni di posti di lavoro nel settore della security rimarranno scoperti (dati Center for Cybersecurity and Education). Le donne rappresentano solo l’11% della forza lavoro nella security. Il 51% possiede un master in cyber security (contro il 45% degli uomini) eppure gli uomini hanno 4 volte più possibilità di avere posizioni C Level e 9 volte quelle manageriali.
Quanti posti di lavoro nasceranno in futuro?
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L'economia raccontata dagli under 35.
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