LA LUNGA STRADA DI SABBIA Le rotte dei migranti verso il Mediterraneo
CHERRY PICKING chi sceglie l’Europa?
issue 04 | novembre - dicembre 2017
issue 04
bimestrale tematico novembre - dicembre 2017
SOLA ANDATA
numeri, storie e ragioni dietro l’attuale “emergenza” migratoria
LONTANO DAGLI OCCHI LONTANO DAL CUORE Intervista a Emma Bonino
LA PRIMA RIVISTA SCRITTA, DIRETTA E VOLUTA DA PROFESSIONISTI
UNDER 35
Ogni numero della rivista si caratterizza per la scelta di una tematica da indagare. Lo scopo di The New’s Room è quello di offrire, in ogni sua release, un punto di vista diverso, snello e specifico riguardo ad un argomento di largo interesse. FONDATORI Pierangelo Fabiano Raffaele Dipierdomenico DIRETTORE Sofia Gorgoni DIRETTORI EDITORIALI Sara D’Agati Lorenzo Castellani
REDAZIONE Velia Angiolillo Davide Bartoccini Antonio Carnevale Cinzia Maria Caserio Claudia Cavaliere Carlo Cauti Ilaria Danesi Matteo Di Paolo Gerardo Fortuna Maurizio Franco Maria Genovesi Barbara Hugonin Marta Leggio Andrea Palazzo Niccolò Piccioni Luigi Maria Rossiello Cosimo Rubino Simone Rubino Mariastella Ruvolo Nicolò Scarano
editoriale
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Alberto Negri Uno, nessuno, centomila Simone Rubino Si fa presto a dire migranti Ilaria Danesi L’eredità dei confini d’Occidente Davide Bartoccini La lunga strada di sabbia Ilaria Danesi In trappola nei Balcani Luigi Rossiello
cover story 14 UE. I nodi di un’unione incompiuta Gerardo Fortuna 16 I migranti europei nella Londra post Brexit Lorenzo Castellani 17 Cherry picking. Chi sceglie l’Europa? Andrea Palazzo 18 Il caso libanese. Uno sprone per l’Europa a fare di più Sara D’Agati 20 Accordo Italia Libia: Realpolitik o patto col diavolo? Carlo Cauti Cosa sappiamo dal fronte Simone Rubino 21 Un mare di polemiche per un mare di morti: ONG e SAR Mariastella Ruvolo 22 Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Intervista a Emma Bonino Sara D’Agati approfondimenti 25 26 28 30 34
Aiutiamoli a casa loro. Sì, ma non banalizziamo Matteo Di Paolo Aiutiamoli a casa loro. Sì, ma come? Velia Angiolillo · Nicolò Scarano Essere o non essere (italiani)? Effetti dello ius soli Sofia Gorgoni Roma. Gente senza case, case senza gente Maurizio Franco I migranti in numeri. Luoghi comuni ed evidenze per frenare la polemica Claudia Cavaliere
rubriche 35 36 38 40 41
Innovazione e territorio Ilaria Danesi Il punto di vista delle aziende Sara D’Agati Gerardo Fortuna Start-up world Antonio Carnevale ¡ Maria Genovesi Policy room a cura di Reti Health & science Barbara Hugonin
in the mood 44 Food & Furious
Cinzia Caserio
45 Lifestyle Cosimo Rubino 46 Cinema
Marta Leggio
Coltiviamo l’Italia
#coltiviamolitalia #noisiamoconfagricoltura www.confagricoltura.it
EDITORIALE Il coach di questo numero è Alberto Negri de Il Sole 24 ore Il mondo è in movimento: non si può fermare ma si può comprendere. Il più alto numero di persone mai registrato dalla seconda guerra mondiale è costretto oggi ad abbandonare la propria terra per l’aumento dei conflitti e dell’instabilità politica. Ma anche la fame, la povertà ed eventi meteorologici estremi, legati ai cambiamenti climatici, sono fattori importanti che contribuiscono alla sfida della migrazione. Il numero di migranti internazionali è aumentato del 40% tra il 2000 ed il 2015. Nel 2015 ci sono stati 244 milioni di migranti internazionali. Guerre, terrorismo, migrazioni, crisi economica. Temi su cui spesso i social network e i nuovi mezzi di informazione alimentano paure, disorientamento e populismo. Le ultime elezioni in Europa, dall’Austria alla Repubblica Ceca, confermano che migrazioni e insicurezza identitaria e culturale dominano i discorsi dei politici e catturano i voti degli elettori. Che ruolo possono svolgere i mass media per contrastare immagini distorte e fuorvianti? Cosa possono fare per parlare più alla testa che alla pancia dei cittadini? Come possono migliorare il loro ruolo i mezzi di informazione? Anche questa è una sfida, forse la maggiore, che questo dossier, sintetico ma esaustivo, il lavoro di giovani e capaci giornalisti, cerca di affrontare. Le migrazioni sono inevitabili quando le economie cambiano e le persone cercano migliori opportunità di lavoro e di vita. Ma le persone dovrebbero poter scegliere se migrare o restare. Una migrazione sicura, ordinata e regolare può contribuire alla crescita economica, migliorare la sicurezza alimentare e incidere positivamente anche sulla vita politica e sociale. Ma spesso prevalgono la paura, gli istinti più irrazionali, soprattutto in questo Mediterraneo che, chiusa la rotta balcanica, è la vera frontiera delle migrazioni verso l’Europa e dove l’Italia è in prima linea. Qualche cifra di questo dossier smentisce le visioni più apocalittiche. I rifugiati e gli sfollati nel mondo sono oggi 65,6 milioni. I numeri non sono mai stati così alti ma secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) l’84% resta nei Paesi in via di sviluppo. Quello che vediamo arrivare qui è un flusso minimo: centinaia di migliaia non milioni di persone. In tutto il continente europeo risiedono 2 milioni di rifugiati. Sembra una cifra alta ma facciamo qualche esempio: in Turchia, dopo la guerra di Siria, sono 3,4 milioni, in Libano su sei milioni di abitanti circa 1,5-2 milioni. In Africa e in Asia centrale ci sono campi profughi che sono quasi delle città dove i rifugiati hanno vissuto anche 15-20 anni della loro vita: quasi due generazioni. Appare quasi assurdo parlare di emergenza se non fosse per la crisi di solidarietà dentro l’Unione europea: Polonia, Ungheria, Paesi Baltici, rifiutano la ricollocazione degli immigrati chiesta da Bruxelles ma certo non respingono i consistenti fondi europei che hanno rilanciato le loro imprese e le loro economie. E veniamo all’Italia. Gli sbarchi sono diminuiti soprattutto dopo gli accordi del governo con le tribù e le municipalità libiche: stiamo comprando sicurezza rifornendo di soldi e forse anche di altro i clan libici. E’ inutile farsi illusioni: in Libia non ci sono angeli e demoni ma soprattutto diavoli. Abbiamo scaricato i migranti africani alle cure dei trafficanti, come ha dimostrato il caso di Sabrata, uno dei centri dell’economia che in questi anni dopo la fine di Gheddafi nel 2011 ha sostituito in gran parte quella del petrolio. Ma non c’erano forse molte alternative, vista la clamorosa inefficienza dell’Europa. Soltanto adesso si è cominciato ad affrontare i flussi migratori nei Paesi d’origine dell’Africa del Sahel e sub-sahariana. Siamo all’inizio di un’impresa, non della fine del mondo, di quello che insistiamo a chiamare con qualche protervia il “nostro” mondo.
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uno nessuno
Il Mediterraneo molto più di un mare. Un’identità messa alla dura prova dalle rotte migratorie, dalla storia e dalla corruzione
centomila
di Simone Rubino · fotografie di Michele Amoruso
Il Mediterraneo è, ancora una volta, l’immagine di una crisi. È lo spazio aggredito dalle rotte migratorie e la sintesi della relazione di un continente, quello europeo, con gli altri mondi che si affacciano sulla sua porta, venendo bagnati dallo stesso mare: l’Africa a Nord e l’Asia ad Ovest. Condivisione e conflitto, questo porta in dono il Mediterraneo, in una cornice frastagliata, movimentata e in divenire, che mette in crisi innanzitutto chi ha qualche cosa da perdere: l’Europa e il suo sogno incompiuto di essere unita. Scompaiono anche le certezze, per questo c’è chi le pretende indietro, come la frontiera dei confini, la purezza delle identità e l’ideale degli Stati-nazione: nostalgie d’antan, revanscismo incattivito o resistenza al passo spedito di un mondo che, per errori o virtù degli uomini, cambia velocemente? Chi ha poco da perdere, o ha già perso tutto, o vuol inventarsi un’altra vita, o ha in tasca quale altra motivazione, scappa, lascia il proprio Paese alla volta del Vecchio Continente. Tutto ciò, ricondotto all’interno di processi migratori particolari quanto complessi, fisiologici o chimerici, mette in scacco la tenuta sistemica dell’Unione Europea: i suoi Stati membri sullo scoglio dei migranti hanno adottato policy non troppo dissimili, benché a prima vista possa apparire il contrario, riconducendo aprioristicamente tutto nella divisione fra “buoni” e “cattivi”. L’Italia, che abita nel mar Mediterraneo, “condannata” dal Trattato di Dublino, regolamento europeo che obbliga il Paese dove il migrante sbarca a farsi carico dello stesso, merita, nel bene o nel male, un discorso a parte. Il problema resta comunque irrisolto: 6
costui sarà il “canto del cigno” dell’Unione Europea? Con questo numero abbiamo voluto indagare ciò, superando le semplici cronache sulle migrazioni e cercando risposte ad interrogativi, più che mai attuali, che è necessario porsi per comprendere le dinamiche che ruotano attorno ai flussi e alle loro narrazioni: da dove partono le rotte migratorie e perché, quali sono stati i feedback dati dall’Italia e dagli Stati europei e quali possono essere le strade dell’integrazione, “a casa loro” o nella nostra. Diritti di proprietà. “Mare nostrum”. Così l’Impero romano definì il Mediterraneo dopo aver vinto battaglie, conquistato territori ed allargato la propria egemonia ai danni della nemica Cartagine, liquidata dopo un secolo di guerre puniche. Solo dopo che Roma cadde venne coniata l’espressione “Mediterraneum Mare” per indicare le acque che bagnano e collegano tre grandi continenti. Nuove invasioni. Le similitudini della storia a volte permettono ricostruzioni ed anatemi gaudenti ma farseschi. Oggi uno dei più grandi dibattiti in Europa è determinato dalla narrazione sull’invasione migratoria dai Sud del mondo. Ma davvero è in atto un sacco che farà capitolare l’Europa come avvenne per l’Impero romano, che si sgretolo’ per le sue frizioni interne (altra analogia, anche nell’Unione Europea non trionfa la concordia) e per l’avanzata dei celebri barbari? Quelli che scappano. «I rifugiati e gli sfollati nel mondo sono oggi 65,6 milioni: 22 milioni sono rifugiati in fuga per ottenere protezione internazionale mentre tutti gli altri sono sfollati, i quali rimangono nei loro Paesi ben-
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ché fuori dalle loro case. I numeri non sono mai stati così alti. Questa crescita esponenziale è iniziata dal 2012» afferma Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che poi asserisce: «L’84% di queste persone vive in Paesi in via di sviluppo. Quindi quello che vediamo arrivare qui è veramente una porzione minima, stiamo parlando dell’ordine della centinaia di migliaia, non dei milioni: in tutto il continente europeo risiedono 2 milioni di rifugiati». La storia determina. L’Europa alla luce di quel che è accaduto in nevralgiche parti del mondo in questi anni dalle rivoluzioni arabe al defenestramento di Muammar Gheddafi in Libia, passando per la guerra in Siria ed il proliferare del terrorismo islamista - deve fronteggiare le spinte di una crisi umanitaria e una pressione migratoria senza precedenti: ma quanto ciò è anche un effetto collaterale, per le cancellerie dei Paesi occidentali, delle scelte da loro stesse compiute in politica estera in merito ad Africa e Medio Oriente? Check-in Europa. Scremare i flussi migratori, operando la distinzione fra richiedenti asilo e migranti economici, è complesso: sancire una divaricazione netta su dove cominci e dove finisca il diritto a migrare è scivoloso. Alcune rotte conoscono la tipologia dei “movimenti misti”, cioè della compresenza di status migratori differenti ma le storie, i loro epiloghi (negli ultimi anni ci sono stati oltre 15mila morti solo nel Mediterraneo mentre nel deserto fra Niger e Libia, segmento di una delle rotte più battute, non esiste nemmeno una contabilità dei tanti decessi), suggeriscono di adottare un approccio accorto. Trafficanti globali. Ogni fuga, da qualunque parte del mondo, ha alla radice un perché. A volte alle legislazioni internazionali sfugge la complessità delle zone da cui si muovono le carovane dei migranti. Qui prende forma e sostanza il mercato dei trafficanti di esseri umani, della criminalità transnazionale e anche del terrorismo islamista (esempio celebre: tre degli attentatori di Parigi sono sbarcati sull’isola di Leros, in Grecia, mischiandosi in mezzo ai migranti). Un mercato illegale di uomini, donne e bambini, che segue innanzitutto la forza della domanda, registrando, nella sua
illegalità, il ricatto dell’offerta: chi vuole migrare lo deve fare alle condizioni degli “scafisti” di terra e di mare, anche perché una via legale non esiste. Le rotte cambiano. I trafficanti sfruttano le rotte migratorie, non le inventano. I flussi sono flessibili e resilienti, si adattano all’insorgere dei muri, reali o fittizi che essi siano. La migrazione è un fenomeno strutturale e molteplice. Resistono le rotte storiche, soprattutto per quel che riguarda l’Africa, facendo il paio con problemi irrisolti o novelli, come evidenziato anche dalla Sami dell’Unhcr: «Le rotte cambiano e si diversificano nel momento in cui si attuano dei blocchi. In assenza di vie legali le vie illegali continuano a prosperare. Questo sicuramente avviene dal Marocco verso la Spagna, in misura minore dall’Algeria, adesso verifichiamo un’attività di partenza maggiore dalla Tunisia. Poi la Libia, che rimane molto preoccupante per la sua instabilità e per la condizione di migliaia di persone nei centri di detenzione ufficiali e non». Supermarket Libia. “Tutte le strade portano in Libia”, o quasi. Non è possibile discernere di Mediterraneo e migrazioni senza fare i conti con il Paese devastato dalla deflagrazione della guerra civile, dalle incursioni dello Stato Islamico e dal soffocamento di una rivolta popolare anche grazie all’intervento militare capitanato da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il post-Gheddafi è ancora caos: due governi e molteplici milizie armate che si spartiscono il controllo delle zone in combutta con leader locali, istituzionalizzati per via elettiva, familiare o criminale. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a luglio ha aggiornato il computo degli arrivi nel Mediterraneo dei migranti: è stata superata la soglia dei 100mila (101.219), numero che rapisce l’attenzione ma che è ben altra cosa rispetto ai 363.401 del 2016. L’85% delle traversate via mare, che sono solo l’ultimo e nemmeno, per assurdo, il più pericoloso tratto delle rotte, si è diretta in Italia mentre il resto si è sparso tra Grecia, Spagna e Cipro. I morti sono stati 2.247, necrologio che gonfia il numero dei sommersi nel Mediterraneo, insinuando ancora il dubbio su quanto questo mare sia solo “nostrum”.
La struttura CAS Galdo Scalo, Sicignano degli Alburni (SA) ospita per la quasi totalità ragazzi di provenienza sub-sahariana, giunti in Italia nell’ultimo anno di sbarchi. Il progetto fotografico Red Line, di Michele Amoruso vuole rendere lo sforzo di memoria atto concreto, visibile e duraturo, chiedendo a ciascun ospite della struttura di tracciare con un pennarello rosso su una cartina la traversata compiuta, dal punto di partenza a quello di arrivo, che per tutti era identico: la Sicilia. Così come uguale per tutti è il passaggio per la Libia, e la rotta attraverso il Niger. Ritratti in sequenza, simili tra loro ma con protagonisti e storie assai diverse. Red Line è un infinitesimale atlante dei viaggi migratori nella vastità del fenomeno in atto, una microscopica testimonianza di un processo assai più grande, ma che ci dice una cosa: non esistono migrazioni generiche e generali. Ognuno porta con sé un viaggio proprio, diverso, unico, la cui profonda umanità va restituita.
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rotta mediterranea
SI FA PRESTO A DIRE MIGRANTI “Nel suo Paese non c’è la guerra, perché è rifugiato?” Vige non poca confusione terminologica sugli status con i quali vengono definiti i migranti. Un glossario per capire le tante sfaccettature delle migrazioni. Richiedente asilo migrante che, avendo lasciato il proprio Paese, richiede lo status di rifugiato o altra forma di protezione internazionale. Ha diritto a soggiornare nel Paese in cui ha presentato domanda fino alla decisione delle autorità competenti.
L’eredità dei “confini” disegnati dall’Occidente
Rifugiato per la Convenzione di Ginevra del 1951 è lo status conferito a colui che non può o non vuole richiedere la protezione del proprio Stato d’origine, per fondati timori di essere perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale ed opinioni politiche. Dà diritto ad un permesso di soggiorno di 5 anni su territorio italiano.
Nessuna emergenza; i fenomeni migratori sono una bomba ad orologeria innescata dal tempo, che oggi mette l’Occidente colonizzatore di fronte alle proprie responsabilità: saremo pronti a raccogliere ciò che abbiamo seminato? di Davide Bartoccini
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Protezione sussidiaria permesso di soggiorno di 3 anni che l’Italia garantisce a chi tornando nel proprio Paese rischierebbe di subire un grave danno (condanna a morte, tortura, presenza di conflitti armati o violenza generalizzata). Protezione umanitaria permesso di soggiorno di 1 anno assegnato per seri motivi di carattere umanitario. Migrante economico non rappresenta una categoria giuridica, è una locuzione giornalistica per indicare chi emigra per motivi economici e potrebbe teoricamente fare ritorno al Paese d’origine senza rischi per la propria vita. Migrante irregolare chi entra in Italia senza documenti o chi, entrato regolarmente, perde in seguito i requisiti per rimanervi.
Piccola Asia, Nuova Persia, Tripolitania, Corno d’Africa; nomi desueti, che avevamo inventato e dimenticato - e che tanti non hanno neppure mai sentito. Per molto tempo luoghi come Macallè, Suez, Mosul, Medina, sono stati in cima ai dossier dei progenitori di quelli che oggi sono i servizi d’intelligence; al centro di conversazioni segrete, intrattenute da ambasciatori, spie, faccendieri, generali, notabili di tribù stracolmi di ambizioni (sempre ben pagate): vecchie o nuove monarchie alla ricerca di risorse cui attingere e di nuove rotte commerciali. Oggi quei luoghi sono, insieme al Sahel, già colonizzato in passato dai medesimi, i maggiori focolai dei flussi migratori che preoccupano un’Occidente perpetuamente afflitto da amnesie. Dove un tempo si espandeva l’Impero Ottomano, suddiviso nelle sue sterminate vilayet che si affacciavano dalle rigide steppe caucasiche alle calde coste d’Africa, i vincitori della Prima Guerra Mondiale, ignorando ogni sorta di costume tribale o confessione religiosa, delimitarono le proprie aree d’influenza, che passeranno alla storia come i ‘protettorati’. Gran Bretagna e Francia, tenendo conto anche di un alleato minore, il dimissionario bolscevico, tracciavano incuranti linee rosse per dare vita a paesi nuovi come Iran, Iraq, Siria, Libano, Palestina, Giordania; e attraverso due plenipotenziari di nome Mark Sykes e François Georges-Picot ratificavano l’accordo per governare quello che sarebbe presto divenuto noto come il Medio Oriente. Di concerto, e in due fasi scandite dall’estero, il giovane Regno d’Italia, che si era stabilito nel Corno d’Africa sfilando al Negus un piccola parte dell’Impero d’Etiopia prima, l’intero impero poi, coniava per i suoi primi domini coloniali nomi come Eritrea e Somalia, e si apprestava, nonostante conclamate disfatte militari, a consolidare i suoi territori d’oltremare. Sarebbero seguite la conquista della Libia nel 1911 in nome
del Re; e quella dell’Etiopia in nome del Duce nel 1935, componendo così l’A.O.I.: Africa Orientale Italiana. Al termine del secondo conflitto mondiale, i medesimi vincitori ad eccezione dell’Italia, ma con al fianco un nuovo, preponderante, protagonista internazionale: gli Stati Uniti d’America, rivendicarono nuovamente i loro interessi sui territori disegnando ulteriori confini, esempio eclatante per le sue conseguenze, il nuovo Stato di Israele. Confini arbitrari, quindi, disegnati a tavolino da potenze straniere su territori lontani e segnati da profonde differenze etnico-religiose. Confini che, per dirla con Bauman, non sono semplici barriere ma “interfacce tra i luoghi che separano” e, “in quanto tali, soggetti a pressioni contrapposte e fonti di potenziali conflitti e tensioni”. Nulla di nuovo, quindi. Rivendicazioni di identità etniche o religiose, combutte tribali sfociate in guerre civili o conflitti regionali annunciati, dove gli Stati protettori tornano in scena come “vittime” di flussi migratori inarrestabili, o delle rivendicazioni del terrorismo internazionale. Un’ “emergenza senza precedenti” che emergenza non è; semmai la prevedibile, e già prevista, conseguenza strutturale di scelte di interesse basate su logiche prevaricanti, dispotiche e non sostenibili, i cui nodi oggi vengono al pettine. Ciò che non era stato previsto, è l’incapacità di un Occidente in declino e, apparentemente, privo delle risorse e della volontà politica necessaria per rispondere alle pressioni di richiedenti asilo, migranti economici e fuggitivi da territori spezzati dove appare lontana ogni possibilità di ripresa economica o modifica dello status quo. Il sogno di un nuovo mondo resta però un sogno, anche nel Vecchio Continente che non è ancora pronto a raccogliere e coltivare ciò che ha seminato: sogni.
IL GIOCO PUÒ CAUSARE DIPENDENZA PATOLOGICA
IL GIOCO È VIETATO AI MINORI DI 18 ANNI
africa
Ilaria Danesi
La lunga strada di sabbia Le rotte dei migranti africani verso il Mediterraneo
Con l’immigrazione divenuta argomento di discussione quotidiana, sappiamo ormai tutto di sbarchi e naufragi nel Mediterraneo, ma quasi nulla conosciamo dell’altra parte del viaggio, quella per arrivare sulle coste del Nordafrica, prima di prendere il mare. Non è semplice definire un quadro preciso dei movimenti e delle ragioni di chi scappa dal cuore dell’Africa verso l’Europa. Non solo conflitti in senso tradizionale, ma forme statuali fallite, guerre civili, persecuzioni religiose, dittature palesi o mascherate e, non ultimi, marcati squilibri economici: un mix di fattori di instabilità che spinge migliaia di persone ad attraversare la fascia del Sahel per lasciare il continente, lungo tre direttrici principali. Da Sud-Est arriva una buona parte di coloro che ottengono protezione internazionale. Sono soprattutto eritrei, somali e sudanesi, stretti nella morsa di conflitti e regimi che insanguinano la regione, insieme ad una gravissima crisi alimentare. Fuggono dalla fame e da dittature come quella di Afewerki in Eritrea, che ha schiacciato qualsiasi forma di democrazia e costringe i giovani ad una leva militare obbligatoria “a tempo indeterminato”; o da guerre civili e dagli islamisti di Al-Shabaab, come i somali di Mogadiscio. Dal Corno d’Africa s’incamminano verso la Libia per poi traversare il Canale di Sicilia, o più raramente verso l’Egitto, ad Alessandria. Talvolta fermano nel campo profughi etiope di Mai-Aini o in quello sudanese di Shagrab; proseguono verso la città di Kassala, per arrivare a Khartoum, dove per oltre mille euro si ammassano sui pick-up che passano per Kufra e fanno la spola tra il deserto e la Libia. Qui comincia una nuova tappa del viaggio, le loro vite passano in mano ad altri mercanti: se tutto va bene partiranno alla volta dell’Europa, da Zuwara, oppure da Agedabia, Bengasi o altre località del Golfo della Sirte. Ma in Libia i migranti possono rimanere per mesi, senza mai partire via mare né fare ritorno, schiavi dei ricatti e degli abusi dei trafficanti. È una sorte che li accomuna ai migranti provenienti dal Centro-Ovest dell’Africa Subsahariana. Nigeria, Mali, Senegal, Gambia, Guinea, Costa d’Avorio e Ghana: terre lasciate per un insieme di concause, dalla negazione dei diritti umani a motivazioni più meramente economi10
africa
che. Da queste regioni deriva il maggior numero di rifugiati ma anche di richieste d’asilo respinte, nonostante la minaccia islamista di Boko Haram in Nigeria e in Ciad, o dei gruppi Aqmi e Ansar Dine nel Mali. I migranti di questo versante cercano di guadagnare il Mediterraneo attraverso due percorsi principali: la strada centro-occidentale che attraversa il Mali dalla capitale Bamako a Gao, per poi attraversare l’Algeria e giungere nell’area di Tripoli, o in alternativa virare verso il Marocco e le enclave spagnole di Ceuta e Melilla; e la rotta centrale, che attraverso il Niger e le città di Niamey e Agadez sfocia in Libia dal Fezzan. Percorsi che richiedono anche venti mesi di tempo: lungo la cosiddetta “via per l’inferno” si stima perdano la vita ben più persone che nel Mediterraneo, con tappe obbligate
Rotta Africa Occidentale
Principali paesi coinvolti nel traffico dei migranti
Rotta Africa Orientale Rotta Atlantica Città di transito rotta Occidentale Città di transito rotta Orientale Città di transito rotta Atlantica
Campi profughi
Principali paesi coinvolti nel transito dei migranti
Sahel
controllate da trafficanti e case di transito (i foyer) in cui molti finiscono per stazionare per mesi, privi dei soldi per il prosieguo del viaggio. Su questo confine, sull’erosione del racket, si gioca molto della partita del contenimento migratorio per i governi europei. Si potrebbe aggiungere un’altra rotta, quella atlantica che coinvolge le regioni occidentali e volge alle Canarie. Ed altre ancora, perché le rotte sono mutevoli, dipendono da conflitti e lotte di potere, cambiamenti climatici e carestie. E accordi politici, come l’ultimo tra Italia e Libia. Cambiano le rotte, non la sostanza. Non i motivi alla radice delle fughe.
Il Sahel, letteralmente “bordo del deserto”, è un’area dell’Africa subsahariana che si estende per 3.053.000 km² nel continente africano - tra il Sahara e la savana sudanese - ed attraversa principalmente gli Stati di Gambia, Senegal, Mauritania, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan ed Eritrea. È stato colonizzato principalmente dalla Francia, in percentuale minore da Gran Bretagna e Italia: ha poi avuto un processo di decolonizzazione più o meno omogeneo nel 1960. A causa della sua naturale morfologia semi-desertica, aggravatasi a seguito dei cambiamenti climatici provocati dal surriscaldamento globale, è teatro di una gravissima crisi umanitaria che secondo l’UNICEF coinvolge 15 milioni di abitanti. Infestata da numerose cellule qaediste e jihadiste: è oggetto della risoluzione 2071 dell’ONU e al centro dell’Operazione Barkhane condotta dalle forze armate francesi. Scenario di persecuzioni perpetrate nei confronti della popolazione di religione cristiana e sorgente di ingenti flussi migratori indirizzati verso l’Europa. Il 71% dei migranti provenienti dal Sahel vengono considerati migranti economici.
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rotta balcanica Luigi Rossiello
La Libia è lo Stato nordafricano maggiormente interessato delle rotte migratorie poiché di centrale importanza per quella mediterranea. Ex dominio ottomano, è stata colonizzata dagli italiani nel 1911. In seguito al secondo conflitto mondiale è stata oggetto di contese per chi dovesse esercitarvi la propria ingerenza tra USA, UK e in seguito Francia. Indipendente dal 1951 è suddivisa in tre regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. È stata sottoposta al regime del dittatore e militare libico Mu’ammar Gheddafi, che in seguito al colpo di Stato del 1969 ha esercitato il controllo del territorio libico fino al suo assassinio nel 2011, quando la NATO è intervenuta militarmente. Dopodiché è esplosa la guerra civile. Oggi la Libia, infestata dalla presenza jihadista, è al centro di una contesa politica tra il generale Haftar e il presidente del governo d’unità nazionale al-Sarrãj. Funge da “culmine dell’imbuto” perché è la principale area di transito di migranti del continente africano. Il 75% del PIL è generato dai trafficanti di vite umane, chiamati gergalmente ‘scafisti’, che portano in prossimità delle acque internazionali tutti i migranti che superano i blocchi libici. Davide Bartoccini
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In trappola nei Balcani Tra nuove e vecchie piste i migranti si muovono confusi sulla rotta balcanica
Dopo le limitazioni imposte dall’accordo UE-Libia, si è aperta nei Balcani una nuova rotta per l’Europa: la rotta del mar Nero, che dalla Turchia conduce alle coste di Bulgaria e Romania. L’apertura di questo nuovo percorso sta mettendo a rischio l’accesso di Romania e Bulgaria all’area Schengen. L’Ue aveva già provato ad arginare la crisi dei migranti che ha investito il Vecchio Continente attraverso l’accordo con la Turchia del marzo 2016 che, al costo complessivo di 3 miliardi di euro (di cui 1,3 già versati), impegna Ankara ad adottare qualsiasi misura per evitare nuove rotte marittime o terrestri, oltre a prevedere il rimpatrio verso il confine turco di tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dell’Egeo. La Turchia si trova oggi a gestire in loco attualmente più di 3,4 milioni di rifugiati registrati, per la maggior parte rappresentati da siriani, oltre ad iracheni, afghani, iraniani e somali. Misure, queste, volte ad alleggerire il peso dei flussi migratori nei confronti della Grecia, dove le strutture delle isole egee di Samos, Lesbo, Chios, Leros e Kos sono ormai stracolme. Secondo Save The Children sarebbero attualmente 10mila le persone attualmente presenti nelle strutture dalla capacità totale di 5.576 posti. Situazione simile a Salonicco e dintorni, dove in moltissimi sono ammassati nei vari campi governativi. Il dilatarsi dei tempi per ricevere lo status di rifugiato, è una delle cause alla radice di tale “ingorgo.” Dall’ottobre 2015 a settembre 2017 oltre 19.200 rifugiati sono stati ricollocati dalla Grecia verso altri Paesi dell’Ue. Nello stesso periodo oltre 27.000 richieste di ricollocamento sono state presentate dai rifugiati all’istituzione greca competente a pronunciarsi sulle domande di protezione internazionale. La Grecia è stata il fronte più caldo della crisi dei rifugiati dall’inizio del 2015. Più di un
milione tra rifugiati e migranti è approdato sulle coste del Paese nei due anni passati, in cerca di sicurezza e di un futuro migliore in Europa centrale e settentrionale. Dopo la chiusura delle frontiere lungo il corridoio balcanico, nell’inverno del 2016, più di 60mila rifugiati e migranti sono rimasti bloccati in Grecia. Altri sulla dorsale balcanica. Se le cronache non riportano più di intere colonne umane, composte prevalentemente da afghani, pakistani e iracheni, intente ad attraversare la penisola balcanica ai confini tra Turchia e Bulgaria o tra Grecia e Macedonia per risalire l’area verso Nord, è comunque pur vero che qualcosa ancora si muove. In piccoli gruppi si aggirano tra i boschi dei Balcani meridionali seguendo un debole segnale gps sul cellulare. Altri in balia dei trafficanti di esseri umani si muovono su ruota, su vecchi tracciati usati in passato per traffici di armi e auto rubate. Molti sono fermi in campi di accoglienza o nascosti in attesa di soldi per pagare gli “smuggler”. Solo in Serbia ad oggi ce ne sono 3.800 sparsi nei vari centri di accoglienza del Paese. In tanti, giovanissimi, si aggirano a Belgrado nella zona della stazione ormai dal 2015. Il centro di seconda accoglienza Miksalište, il cui status è ad oggi ancora indefinito, lavora nell’ombra. Ogni giorno, circa 200 persone si presentano lì in cerca di un giacchetto nuovo o di un paio di scarpe, per sostituire quelle con cui erano partiti ormai deformate e usurate. E se alcuni sperano ancora di raggiungere l’Europa, per altri si prospetta l’ipotesi di trovare accoglienza qui. Per esempio a Šid, località del Nord della Serbia al confine con la Croazia, è stato raggiunto un accordo tra autorità e popolazione locale che consentirà a circa un centinaio di bambini, figli di migranti e profughi, di frequentare regolarmente i corsi scolastici insieme ai coetanei serbi. SERBIA 3.800 i rifugiati presenti nei centri di accoglienza
GRECIA oltre 1 milione i rifugiati approdati sulle coste greche dal 2015 ad oggi 19.200 i rifugiati ricollocati verso altri Paesi dell’Ue. dal 2015 ad oggi 60.000 i rifugiati rimasti bloccati dopo la chiusura delle forntiere lungo il corridoio balcanico
TURCHIA 3.4 milioni i rifugiati gestiti in loco
cover story Gerardo Fortuna
ue. i nodi di un’unione incompiuta
Sui migranti l’Europa ha mostrato inaspettate fragilità. Lasciate alle spalle le scelte sbagliate, si prova a voltare pagina. Mettere d’accordo tutti, però, resta difficile.
In pochi avrebbero immaginato che a far scricchiolare pericolosamente la costruzione europea sarebbe stata una crisi migratoria, per quanto epocale. Si è dovuto ricredere anche chi era certo che i maggiori rischi di implosione derivassero dai problemi atavici di convergenza economica tra Stati membri o da quel deficit democratico, forse insanabile. Oggi è invece la gestione delle frontiere esterne e interne ad aver generato la principale forza disgregante all’interno dell’Unione. Anche adesso che l’Europa sembra essere uscita fuori dall’emergenza, restano ferite difficili da rimarginare. La crisi migratoria ha infatti evidenziato una falla ben più profonda: a non funzionare in questi anni è stata infatti la mera condivisione degli oneri tra i ventotto. Tutti i fallimenti sono collegati da questo fil rouge, a partire dalla mancata “europeizzazione” dei salvataggi, passando per il deludente meccanismo dei ricollocamenti della Commissione, fino all’incapacità di andare oltre il dettato della Convenzione di Dublino sul diritto d’asilo. Concepito nel 1990, il sistema di Dublino si è mostrato inadeguato a regolare i flussi eccezionali degli ultimi anni. Così i border countries sono rimasti prigionieri del principio secondo cui il richiedente asilo può fare domanda di protezione internazionale esclusivamente nel Paese di primo approdo. L’enorme pressione su Italia e Grecia che ne è conseguita sarebbe stata comunque alleviata qualora fossero scattati meccanismi di solidarietà interna. Ma gli altri Stati membri hanno provato inizialmente a non vedere, fingendo che il fenomeno non riguardasse tutti. A questo si è aggiunta la mancanza di polso della Commissione europea, come dimostra la questione del meccanismo di ricollocamento di 120mila richiedenti asilo da Italia e Grecia e che avrebbero dovuto essere ripartiti tra gli altri Paesi. Il programma è durato due anni e alla sua scadenza erano stati ricollocati poco meno di 30mila rifugiati. Di fronte agli iterati rifiuti a collaborare da parte dei Paesi dell’Est, la Commissione ha agitato ripetutamente la minaccia di prendere prov14
vedimenti, senza però farlo. Sospendere l’accesso ai fondi europei, da cui Polonia e Ungheria dipendono economicamente, avrebbe sicuramente avuto l’effetto di conformare il loro comportamento. Superati senza scossoni i delicati appuntamenti elettorali di Francia, Olanda e – soprattutto – Germania, ci si aspetta ora uno slancio per un ripensamento generale della materia. Una riforma del sistema di Dublino è stata avanzata nel maggio 2016 dalla Commissione, prevedendo un meccanismo automatico attivabile quando le richieste d’asilo in un Paese superino del 150% la quota di riferimento per le capacità di accoglienza. Un compromesso al ribasso che non tocca il punto più delicato della clausola del Paese di primo ingresso, ma che ha il vantaggio di essere vincolante. Si proverà comunque a migliorare la proposta al Parlamento europeo, dove attualmente è in discussione, anche se l’impresa sarà farla uscire indenne dal Consiglio europeo, dove i soliti noti dell’Est (ma anche Austria e in parte Francia) promettono di dare battaglia per annacquare ulteriormente la riforma. Da come Dublino IV uscirà da Bruxelles e da quanto caleranno effettivamente gli sbarchi dipenderà anche la modifica di Schengen. Negli ultimi tempi Germania e Francia hanno iniziato a sondare il terreno per portare il periodo di sospensione provvisoria della libera circolazione dagli attuali sei mesi a due anni. Anche se motivato dal rischio terroristico, il fine è anche quello di mettere un argine ai movimenti secondari dei migranti all’interno dell’Ue. Una richiesta del genere sarebbe considerata eccessiva se gli arrivi di migranti diminu-
le pagelle i protagonisti: diamo i voti paese / ente
voto
motivazione
comm. europea
5,5
Gestire le frontiere è competenza degli Stati membri, ma dalla Commissione era lecito aspettarsi di più. ha il merito di aver stimolato le partnership con i Paesi africani. Dopo il passaggio a vuoto dei ricollocamenti, sta provando a far approvare una riforma (al ribasso) di Dublino che poteva essere, almeno in prima lettura, più ambiziosa.
italia
7
Non solo persone, l’italia ha anche “salvato l’onore dell’Europa nel Mediterraneo” come ha sottolineato il presidente della Commissione europeaJen-Claude Juncker. Al netto degli errori e delle battaglie diplomatiche perse, c’è da essere orgo gliosi per tutte le vite salvate.
paesi costieri
issero sensibilmente o se ci fosse un sistema affidabile di ripartizione dei rifugiati nella nuova Dublino, in modo da disinnescare un ulteriore limite a una delle libertà fondamentali nello spazio europeo. Su una cosa gli Stati membri sono tutti d’accordo: spingere il confine dell’Europa sempre più a Sud. Si è ormai virato sul modello di esternalizzazione delle frontiere, introdotto con l’accordo Ue-Turchia e riprodotto anche in Nord Africa. Se per molto tempo il problema principale è stato come far sì che i migranti non uscissero da Italia e Grecia, ora ci si concentra quasi esclusivamente sull’Africa. Si sta cercando di stimolare il coinvolgimento diretto dei Paesi della sponda Sud per bloccare i migranti prima che raggiungano il suolo europeo. Nuovo obiettivo è quello di creare hotspot addirittura in paesi di transito come Ciad e Niger, per disincentivare i migranti economici prima che intraprendano la traversata del deserto e allo stesso tempo identificare chi ha diritto di protezione internazionale aprendo anche canali legali di ingresso.
grecia malta spagna
asse franco-tedesco
germania francia
6 5
paesi dell’est
4
altri paesi
I primi risultati positivi evidenziano come siano necessarie delle soluzioni durevoli. Il passo successivo prevede di allargare il campo per non considerare più singolarmente i vari pezzi del puzzle migratorio. Serve una strategia complessiva che parta dal riuscito rafforzamento delle frontiere e abbracci il superamento di Dublino e gli investimenti in Africa. In questo processo di riforma capiremo che strascichi si è portata dietro l’ultima crisi migratoria e come si redistribuirà la responsabilità tra Paesi rispetto all’ultima volta, quando l’Europa aveva dimostrato di non essere ancora pronta a fare l’Europa.
6 6 5
finlandia svezia norvegia olanda austria
7 7 7 5,5 4,5
Sufficienza per la Grecia coinvolta in una crisi migratoria decisamente più grande di lei. È stata lasciata da sola nella prima parte dell’emergenza, diventandone suo malgrado emblema delle inefficienze. Malta tiene botta, per quello che può: sui ricollocamenti è impeccabile ma resta ambigua sui salvataggi. La Spagna è stata graziata dall’esplosione dei flussi. Ci si aspettava dunque più solidarietà, ha invece ricollocato solo il 10% della quota stabilita Il legame tra i due motori d’Europa sembra meno solido sul fronte migratorio. Francia e Germania hanno avuto anche problemi di gestione interna, dalla giungla di Calais all’apertura di Merkel ai siriani, senza contare la minaccia terrorista. Di conseguenza in vista delle elezioni, hanno bloccato del tutto l’agenda di Bruxelles. Scampato il pericolo dei populismi, la Germania ora spalleggia l’Italia sulla riforma di Dublino, mentre non è ancora ben chiaro dove voglia arrivare il gioco di Macron, ondivago tra europeismo e interesse nazionale. Nel complesso, meglio Berlino di Parigi. Declinando in modo diverso il concetto di solidarietà, il gruppo di Visegrad (Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria) ha sfidato il sistema valoriale dei Paesi fondatori. Non può esistere però un’Unione di soli benefici senza condivisione degli oneri: voto al di sotto la sufficienza per loro Bene i paesi nordici: la Finlandia è riuscita a rispettare la sua quota di migranti accolti da Italia e Grecia, ma anche la Svezia si è distinta con un’ottima performance in termini di ricollocamenti, così come la Norvegia che ha dato una mano senza essere neanche Stato membro. In altri Paesi la questione migratoria è tornata nell’agenda politica interna. È il caso dell’Olanda il cui governo di coalizione è stato in stallo per mesi per via del no dei Verdi alle partnership della Commissione con i Paesi africani. In Austria la crisi è stata strumentalizzata a fini elettorali. Ricollocati in due anni solo 15 su quasi 2mila rifugiati, ha spesso avanzato la minaccia di chiudere o addirittura militarizzare il Brennero, anche quando i numeri non avrebbero giustificato una tale misura.
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cover story Lorenzo Castellani
i “migranti”europei nella londra post-brexit Mentre l’Europa fatica ad accogliere i migranti. Londra continua ad ospitare milioni Europei. Ma cosa cambia nella loro condizione dopo la Brexit?
Londra, 23 giugno 2016. La Brexit irrompe sul Continente come una meteora. Il popolo britannico decide di uscire dall’Unione Europea al grido di “Take back control!”, si forma un nuovo governo a guida Theresa May e arriva subito la conferma di una linea dura: Brexit means Brexit, il Regno Unito se ne andrà indipendentemente dall’esito delle contrattazioni con Bruxelles. Inizia un periodo di caos che ancora oggi non sembra risolto. Servono due anni almeno per completare lo sganciamento, le trattative sull’accesso al mercato europeo e la circolazione dei cittadini sono ancora in alto mare. Governi e burocrazie s’incagliano tra leggi, documenti preparatori, interpretazioni costituzionali dei Trattati Europei, voti del Parlamento di Westminster. Mentre la politica è in affanno sulle due sponde della Manica, Londra e la sua area metropolitana continuano ad ospitare milioni di giovani cittadini europei che lavorano, studiano, investono nel Regno Unito. Gli europei nell’isola britannica sono quasi quattro milioni, cittadini per cui le regole sull’immigrazione cambieranno radicalmente perché nei prossimi due anni passeranno dall’essere comunitari ad extracomunitari. Ad oggi, infatti, gli europei che lavorano nel Regno Unito sono, secondo il diritto europeo, dei “permanent resident” e non hanno bisogno di richiedere nulla di equivalente ad un permesso di soggiorno. Da oggi fino a quando Brexit entrerà in vigore, nella primavera del 2019, i cittadini europei dovranno richiedere un permesso di “temporary resident” e dopo quella data dovranno richiedere un altro permesso di “settled status”. Per questo status sarà necessario avere una assicurazione sanitaria e superare un test, ma al momento il governo non ha ancora stabilito i contenuti della prova. Come si può notare il processo si complica e burocratizza anche per chi da anni risiede nel Regno Unito. Per gli studenti, invece, nulla cambierà per coloro che arriveranno prima della fine di marzo del 2019 e potranno continuare a fruire del servizio sanitario nazionale e a ricevere prestiti di studio e sussidi per la casa. Tuttavia, da marzo 2019 tutti coloro che emigreranno verso il Regno Unito ricadranno solo le regole per l’immigrazione extracomunitaria e questi diritti oggi riservati agli studenti europei potrebbero non essere garantiti. E l’Unione Euro-
pea cosa fa? Ad oggi applica un principio di reciprocità: ai cittadini britannici saranno riservati gli stessi diritti dei cittadini europei nel Regno Unito. Resta probabile, proprio per il principio di reciprocità con un’area così vasta, che i cittadini dell’Unione Europea possano avere delle agevolazioni rispetto agli altri cittadini extracomunitari che vogliano emigrare verso il Regno Unito. Tuttavia, da europei, è bene non farsi troppe illusioni perché come ogni pulsione sovranista la Brexit ha un significato di fondo riassumibile in “British First”, prima i cittadini dell’isola e poi tutti gli altri. Un assaggio di questo nuovo nazionalismo si è manifestato anche agli inizi di ottobre quando The Guardian ha pubblicato un documento riservato del governo britannico proprio sull’immigrazione. I più qualificati, si legge in quello che è per ora un documento di lavoro e non una proposta di legge, otterranno il nullaosta per un periodo tra i tre e i cinque anni, mentre per la manodopera generalizzata, e quindi anche per le migliaia di giovani italiani che vengono qui ogni anno a fare i baristi, camerieri e parrucchieri, il tetto massimo della permanenza nel Regno Unito sarà fissato a due anni. È il diverso trattamento dei cittadini europei l’aspetto più severo del progetto dell’esecutivo May: non saranno uguali a quelli dei britannici i loro diritti. Non potranno, ad esempio, candidarsi per tutti i lavori, né potranno automaticamente ottenere l’avvicinamento della famiglia. Britain first, in pratica: «È una priorità che, soprattutto in questo clima economico, i datori di lavoro britannici diano la precedenza alla forza lavorativa che già risiede nel Regno Unito». È il ritorno delle nazioni, con i loro confini, le loro burocrazie e quelle differenze che mettono al primo posto i legami di sangue invece che la libera circolazione tra europei. Più che una uscita sembra un passo indietro.
I PERMESSI DEI CITTADINI EUROPEI IN GB Permanent resident Cittadini UE che lavorano in UK e non necessitano del permesso di soggiorno
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Temporary resident Cittadini UE che hanno il permesso di lavorare in UK solamente fino a che la Brexit non entrerà in vigore.
Settled status È un permesso che garantisce ai cittadini UE e alle loro famiglie, che hanno vissuto per più di cinque anni in UK, gli stessi diritti di residenza di un cittadino britannico dopo la Brexit.
cover story Andrea Palazzo
cherry picking. chi sceglie l’europa?
Da una parte ci sono donne e uomini in fuga dai loro paesi, dall’altra gli stati europei mete di rifugiati e migranti. Esistono però meccanismi dove è il paese d’arrivo a scegliere chi far entrare? Siriani in Germania, le ragioni. «Gli immigrati cambieranno la Germania», fu questo l’annuncio di Angela Merkel per l’accoglienza di tutti i rifugiati siriani. Così dal 2015 i nuovi ingressi nel paese hanno toccato quota 890mila unità, e 745mila nel 2016, per la maggior parte siriani -secondo i dati diffusi da asylumineurope.org-. Perché aprire soltanto a loro? Come spiega Open Democracy le ragioni possono essere sintetizzate nel calo della popolazione e nel bisogno dell’economia locale di lavoratori qualificati. «Diversi studi suggeriscono che siano necessari circa 400mila immigrati qualificati all’anno per mantenere efficiente l’economia» si legge nel documento e da qui la scelta dei siriani: «più facilmente integrabili rispetto alle altre nazionalità, generalmente più ricchi e con un livello di scolarizzazione elevato utile a considerarli una risorsa dal punto di vista professionale». Un recente articolo del Washington Post - “Why some European countries reject refugees, and others love them” - conferma che «le ragioni del rifiuto/ accettazione sono molte, ma su tutte c’è l’aspetto demografico che prevale», così si compara l’accoglienza tedesca data progressivo invecchiamento della popolazione a casi di diffidenza verso l’accoglienza come nel Regno Unito con popolazione in crescita del 10% per i prossimi 50 anni. Relocation e preferenze. Eccezione tedesca a parte, difficile rintracciare dichiarazioni ufficiali o prese di posizione nette a favore (soprattutto contro) precisi gruppi etnici o nazionalità. In un clima di diffusa “political correctness”, per rintracciare scelte e desideri viene in aiuto lo strumento delle preferenze, previsto nel meccanismo di reinsediamenti della Commissione Europea. Originariamente inteso come un mezzo per facilitare l’integrazione – si legge nel primo “Report on relocation and resettlement” - il sistema delle preferenze è diventato al contrario strumento di esclusione: «Alcuni tra gli stati membri si sono dimostrati riluttanti alla ricollocazione di specifiche nazionalità (…) La maggior parte gli Stati utilizza le preferenze più per escludere determinate persone anziché favorire un migliore processo di integrazione». Così spulciando tra i successivi rapporti della Commissione si possono leggere precise scelte legate in particolare all’utilità dei migranti all’interno dei contesti nazionali: è il caso di paesi come Croazia, Malta, Slovenia e Romania in-
teressati a figure con professioni e qualifiche in grado di favorire l’integrazione all’interno dei singoli contesti nazionali (undicesimo rapporto) oppure determinate nicchie di persone, come nel caso della Slovacchia interessata a far entrare quella minoranza riconducibile alle donne single con bambini (dodicesimo rapporto). In termini di nazionalità invece è curioso il caso degli eritrei indesiderati da paesi come la Bulgaria (undicesimo e dodicesimo rapporto) e voluti da nazioni come «la Francia che» – si legge nel quattordicesimo rapporto - «punta ad accettare famiglie e donne di nazionalità eritrea»: un ruolo essenziale viene giocato dalle affinità linguistiche e dalla presenza di comunità già radicate sul territorio di destinazione. Cosa succede da noi. E il cherry picking italiano? Non punta all’eccellenza, almeno secondo l’ultimo studio dell’agenzia europea Eurostat su “Come cambiano i migranti e rifugiati in Italia rispetto a quelli negli altri Paesi” che chiarisce come da noi arrivino persone poco qualificate in controtendenza rispetto alle altre nazioni europee: il 47% della popolazione residente nata all’estero con licenza media, dato che scende a meno di un terzo in nazioni come Germania e Francia. Il mancato cherry picking nostrano si spiega con un sistema economico interessato esclusivamente a lavoratori interscambiabili e con skills ridotte come rivela l’Istat secondo cui dal 2014 ad oggi il tasso di occupazione degli stranieri nel nostro Paese - dall’agricoltura all’edilizia, passando per le mansioni più usuranti - è cresciuto a un ritmo più sostenuto (59,7%) rispetto a quello degli italiani (56,9%).
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cover story Sara D’Agati
il caso libanese. uno sprone per l’europa a fare di più Con un rifugiato ogni quattro abitanti, il Libano è il paese con la più elevata concentrazione di profughi al mondo. Ne parlo con Lia Quartapelle, la capogruppo PD Esteri alla camera , che dal 2015 è impegnata a promuovere la costituzione di un fondo internazionale per la scolarizzazione dei minori rifugiati e il rafforzamento dei i finanziamenti per i programmi di protezione e di assistenza dei profughi. Nel quadro del conflitto arabo-israeliano, il Libano ha accolto un numero molto significativo di profughi palestinesi. Oggi, in proporzione alla sua popolazione, è il paese che più di tutti assorbe l’esodo dalla Siria. Cosa comporta questo per il Paese, e che riflessioni apre in relazione all’approccio Europeo e Italiano ai flussi? Il caso libanese rispetto all’ accoglienza dei profughi deve essere uno sprone perché ciascun paese europeo faccia di più. I numeri sono impressionanti. Al mezzo milione di profughi palestinesi, si sono aggiunti più di un milione di rifugiati siriani registrati dall’UNHCR. Basti pensare che il rapporto tra rifugiati e abitanti, in questo piccolo Paese grande poco più della metà del Lazio, è di uno a quattro. E il reddito pro capite dei libanesi è di 8 mila dollari, un quarto di quello degli italiani, ed è sensibilmente diminuito dall’inizio del conflitto siriano, mentre la disoccupazione cresce. Tutto ciò sta mettendo la fragile economia libanese sotto stress, in particolare dal punto di vista dell’adeguata offerta dei servizi pubblici e delle infrastrutture, e questo non fa che aumentare le tensioni sociali. È indegno che il Libano, così come la Giordania, riceva tante parole di incoraggiamento, ma pochi sostegni materiali per fare fronte all’emergenza. Sono poche le riflessioni che questa situazione dovrebbe scatenare, e molte più le azioni. Su circa un milione di profughi siriani in Libano, oltre il 50% è minore. Un’intera generazioni di giovani, di fatto, è relegata nei campi profughi. Quali sono gli strumenti da mettere in campo per far sì che non si tratti di una “generazione perduta”? Serve soprattutto un investimento sulla scolarità. E il problema non si limita ai profughi, perché nel Paese i minori vulnerabili sono più di un 18
milione, tra cui molti libanesi. È per questo che abbiamo sempre chiesto un impegno per la creazione di uno specifico fondo per l’educazione di questi bambini. E per i ragazzi abbiamo avanzato anche alcune proposte per lanciare programmi e collaborazioni innovativi con le nostre università per servizi in e-learning. Dobbiamo offrire a questi giovani qualche opportunità. Altrimenti a perdersi non sarà soltanto una generazione, ma anche ogni prospettiva di pace e di ricostruzione in Siria. Con l’accordo UE-Turchia, l’Europa ha stanziato 3miliardi di euro come pacchetto di sostegno per far fronte alla crisi siriana. L’Italia, nell’ambito del recente accordo con la Libia, ha messo in campo una somma sostanziosa per rendere effettivo il contenimento dei flussi sulla sponda sud. Tali aiuti, seguono soltanto la logica dell’acquisto di sicurezza o c’è una reale volontà di alleggerire i Paesi che hanno l’onere dell’accoglienza, e garantire un futuro migliore a queste persone? Non si può pensare di scaricare sui paesi di transito e di prima accoglienza dei profughi tutti gli oneri della situazione. Voltarsi dall’altra parte è inutile, perché il problema resta e, anzi, rischia di peggiorare. Le direttrici per farlo, però, sono diverse e bisogna seguirle tutte con un approccio organico. Prima di tutto, i paesi europei devono aiutare i Paesi di prima accoglienza, sostenendoli materialmente e finanziariamente. Questo però è efficace soltanto se ci si impegna per irrobustire le capacità di risposta istituzionale dei paesi in questione. Così si spiega il nostro sostegno alla guardia costiera libica, essenziale per lottare contro il traffico di esseri umani, che sfrutta le crisi umanitarie
8 mila dollari
400 milioni di dollari
impegnati dal governo italiano dal 2016 al 2018 per rispondere all’emergenza nella regione
Lia Quartapelle
Informal Tented Settlements, Saadanayel, Valle della Beqa’, Libano
il reddito pro capite dei libanesi, un quarto di quello degli italiani
e le peggiora. Certo che bisogna condividere anche le responsabilità dell’accoglienza, ma bisogna farlo privilegiando una gestione ordinata dei flussi. Infine, bisogna guardare oltre l’emergenza e impegnarsi per la soluzione delle crisi e per garantire un futuro di sviluppo e di opportunità nei Paesi d’origine dei migranti e dei rifugiati. Questa è una priorità per l’Italia, e stiamo cercando di farla diventare una priorità di tutta l’Europa. Tu sei impegnata dal 2015 nel chiedere una maggiore attenzione dell’Italia verso la questione del Libano sia in termini di reinsediamenti che di programmi di scolarizzazione. A due anni di distanza, come giudichi l’azione del governo in questo senso? L’Italia, con la sua storica presenza nel paese, gode di una positiva e importante considerazione della popolazione e delle autorità libanesi. Siamo anche il principale partner commerciale del Libano e tutto questo ci offre un’interlocuzione privilegiata, ma anche delle responsabilità. Già nell’ottobre 2015 ho presentato una risoluzione parlamentare per promuovere la costituzione di un fondo internazionale per la scolarizzazione. Chiedevamo anche di rafforzare i finanziamenti. E poi, importantissimo, c’era l’impegno a rafforzare il programma italiano di re-insediamento. Abbiamo fatto cose significative, a partire dai corridoi umanitari e con i 400 milioni di dollari impegnati dal governo italiano nel triennio 2016-2018 per rispondere all’emergenza nella regione. Gli sviluppi geopolitici recenti che purtroppo minacciano il Libano devono confermarci nel nostro sostegno al Paese che oggi più di ieri ha bisogno di un sostegno, non solo economico ma anche di
un investimento politico. Così come in Libia, l’Italia deve e può essere un attore regionale che sa intervenire in Nord Africa e nel Medioriente per sostenere gli sforzi di ciascun paese dell’area per la stabilizzazione interna e la pace. Il Libano è da sempre un paese che, sia per gli esistenti equilibri politici e religiosi, sia per la posizione geopolitica, è sottoposto a una pressione derivante dal contesto regionale. Recentemente, al “rischio contagio” dalla Siria si sono aggiunte pericolosissime dinamiche regionali che minacciano lo stesso ufficio del primo ministro. Quali scenari prevedi? Le tensioni non sono mancate e non mancano e certamente l’escalation tra Iran e Arabia saudita che si sta scaricando sul primo ministro Hariri è particolarmente preoccupante. La situazione rischia di evolvere in modo inaspettato e pericoloso. Va però colto un elemento di positività in un scenario certamente fosco: la reazione del popolo libanese ai tentativi di combattere una guerra per procura sulla pelle del Libano. Sia in occasione della crisi umanitaria, nel fronteggiare la quale il popolo libanese ha dimostrato grande generosità, sia rispetto alle interferenze sul primo ministro, che è stato nominato come rappresentante di una delle fazioni politico-religiose che compongono il paese ma è stato difeso nel suo ruolo da tutti, raccontano di un Libano molto più maturo rispetto a qualche decennio fa. Si può forse dire che la lunga guerra civile ha sviluppato alcune capacità di auto-regolamentazione del sistema politico in una regione che fa dei contrasti tra gruppi una ragione di conflitti senza fine. C’è quindi una specificità libanese che dimostra maturazione e resilienza e che speriamo non venga soffocata dagli sviluppi regionali. 19
cover story Carlo Cauti
accordo italia-libia: realpolitik o patto col diavolo? Quando il confine tra pragmatismo necessario e cinismo di Stato si fa labile “Di tempo in tempo io veggo volentieri questo Antico, e mi guardo dal rompere seco. È proprio bello a un sì gran signore il parlare così alla buona anche col diavolo”. Così il Faust di Goethe, poco prima di vendere l’anima a Mefistofele in cambio dei piaceri e delle bellezze del mondo. A volte, tuttavia, nel corso degli umani eventi è necessario venire a patti con il demonio non per ottenere vantaggi lussuriosi ma per evitare mali maggiori. È il caso della politica estera italiana in Libia. Lo scorso febbraio il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, e il primo ministro libico di unità nazionale, Fayez al Sarraj, hanno firmato a Roma un memorandum con l’obiettivo di ridurre il flusso di migranti che da anni sbarcano in Italia. Il trattato prevede aiuti italiani alle autorità locali per il contrasto all’immigrazione clandestina. Un accordo che però è mera formalità con dietro ben poca sostanza. Sarraj controlla a malapena l’area urbana di Tripoli e non ha forze sufficienti neanche per garantire la propria incolumità, figurarsi contrastare organizzazioni criminali fortemente armate e tremendamente strutturate, che da anni spediscono centinaia di migliaia di persone via mare. Secondo fonti diplomatiche, nel primo semestre 2017 i migranti arrivati via mare sono aumentati di circa il 20% rispetto allo stesso periodo del 2016. Solo a luglio e agosto si è registrata una riduzione: da 44 mila sbarchi nel 2016 a 14.800 nel 2017. Ma se l’accordo Gentiloni-Sarraj altro non era che un “pezzo di carta”, cosa ha reso possibile questa diminuzione estiva? La svolta del ministro dell’Interno Marco Minniti: alla formalità del premier ha contrapposto una politica talmente pragmatica da superare abbondantemente la barriera del cinismo di Stato. Tra aprile e luglio Minniti ha raggiunto una serie di accordi con 60 tribù libiche e 14 municipalità, per sostituire un modello economico basato sul
traffico di migranti con uno alternativo, capace di produrre reddito con il sostegno dell’Italia. Un modello, quello dell’acquisto di sicurezza, che trova il suo antecedente nel recente accordo UE-Turchia e rischia di ridursi in un facilmente liquidabile quanto pericoloso “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Realpolitik impeccabile che però si trascina dietro una serie di questioni morali e giuridiche. Queste intese sono state siglate dal Viminale con entità politiche e tribali che spesso neanche riconoscono il governo Sarraj, quindi il problema sostanziale è: cosa fare con le centinaia di migliaia di disperati già presenti sul territorio libico? Orde di nigeriani, ivoriani, congolesi, bengalesi, e di altre nazionalità, affluiti in Libia con la speranza che, pagando salato, sarebbero stati portati sulle coste italiane. Oggi rinchiusi in centri di detenzione le cui condizioni sono state definite scandalose dallo stesso presidente delle Commissione Europea Jean-Claude Juncker, in attesa di essere trasferiti su una bagnarola e spediti verso Nord. Un limbo la cui durata non è dato di sapere. Non a caso, sono fioccate da più parti dure accuse al governo italiano di aver stretto veri e propri patti col diavolo. Ma l’alternativa quale sarebbe? Continuare a sorbire masse di disperati che sbarcano sulle nostre coste? Tollerare migliaia di annegati a poche miglia dalla Sicilia? Offrire sponda a destre ultra-nazionaliste e partiti populisti che sfruttano l’emergenza per raccogliere seggi in parlamento? La politica è l’arte del possibile, non del desiderato. E spesso per evitare una male maggiore è necessario sopportare un male minore. La “tenuta democratica del Paese”, purtroppo, si garantisce anche così. Scendendo a compromessi con i Mefistofele della quarta sponda. Perché, senza scomodare Goethe, come diceva Rino Formica, la politica, anche quella estera, rimane sempre “sangue e merda”.
COSA SAPPIAMO DAL FRONTE Simone Rubino
Ma cosa avviene a meno di 500 chilometri dall’Italia? Nancy Porsia è stata l’unica giornalista italiana presente in Libia durante la guerra civile, ha abitato a Tripoli per quattro anni, ora è di stanza a Tunisi e da nove mesi non le viene più rilasciato il visto per la Libia in seguito alla sua inchiesta sul traffico di migranti ad Ovest di Tripoli: «Ho raccolto i nomi e i cognomi di alcuni di quelli che sono dietro al sistema mafioso libico. Sapevo perfettamente che pubblicando si sarebbe verificato un “turning point”: ho deciso di farlo, pensavo addirittura che ciò potesse cambiare l’equazione finale delle dinamiche geopolitiche fra Italia e Libia». «Pubblicare i nomi dei personaggi che ho citato, come Ahmed Dabbashi, nome di battaglia “Al Ammu”, uno 20
dei più grandi “smuggler” di Sabrata, e il capo della guardia costiera di Zawiya, Abdul Rahman Milud, insieme ai suoi due cugini Khushlaf, uno capo del porto e l’altro responsabile della sicurezza della raffineria a Zawiya, significava mettere in crisi l’impianto narrativo del governo italiano e di quello europeo circa la cooperazione con le istituzioni libiche». L’inchiesta sui traffici di esseri umani in Libia è uscita su importanti media nazionali ed internazionali a partire dal marzo 2016 ma solo oggi si stanno riaccendendo i riflettori sul profilo di “Al Ammu”, vecchia conoscenza dello scacchiere libico, cugino, fra l’altro, di Abdallah Dabbashi, capo della cellula dello Stato Islamico a Sabrata.
cover story UN MARE DI POLEMICHE PER UN MARE DI MORTI: ONG E SAR Mariastella Ruvolo
L’emergenza umanitaria che ha visto morire in poco più di tre anni oltre quindicimila migranti nel tentativo di raggiungere le coste europee, ha portato a un crescente coinvolgimento nell’attività di Search & Rescue (ricerca e soccorso) delle Organizzazioni Non Governative (Ong). Queste hanno cominciato a operare nel Mediterraneo a partire dall’agosto 2014, inizialmente per colmare il vuoto nato dall’incapacità di Ue e Stati membri nel coordinare in modo efficace i salvataggi. Fino ad allora, l’onere era stato lasciato ai soli border countries: in Italia, ad esempio, erano state la Marina Militare, insieme alla Guardia Costiera e alla Guardia di Finanza, ad accollarsi costi e responsabilità dell’operazione Mare Nostrum, mentre navi commerciali di passaggio si facevano carico dei restanti recuperi. Le Ong hanno mantenuto il loro impegno anche quando lo sforzo italiano è diventato europeo, con la trasformazione di Mare Nostrum nell’operazione sotto l’egida Ue Triton nell’ottobre 2014. Dopo i due tragici naufragi di fine giugno 2015, in cui morirono in mare oltre 1200 persone, l’Ue è scesa in campo con l’altra missione militare Eunavfor Med, lanciata per smantellare le rotte dei trafficanti e ribattezzata poi Operazio-
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ne Sophia dal nome della bambina nata sulla nave che aveva appena salvato la madre di nazionalità somala. Nonostante la presa di coscienza collettiva del problema e le iniziative europee, le Ong hanno incrementato con il tempo le loro attività: in tutto il 2016 hanno contribuito a portare a terra il 26% dei 178.415 migranti arrivati in Italia, numero salito al 41% nei primi sette mesi del 2017. Tra le critiche ricevute dalle Ong, quella di essere un pull factor, cioè di incentivare i disperati a lasciare i Paesi d’origine per tentare una pericolosa traversata. L’accusa è arrivata anche dall’agenzia europea Frontex nel suo rapporto annuale pubblicato lo scorso dicembre. Un altro effetto indesiderato della presenza delle Ong nel Mediterraneo sarebbe anche uno spostamento delle operazioni di salvataggio verso le coste libiche, spesso al punto di invadere le acque territoriali del Paese nordafricano. La certezza del salvataggio “a metà strada” avrebbe inoltre modificato il business model del traffico di migranti. Secondo una nota della Commissione europea, i trafficanti hanno sostituito le grandi imbarcazioni, in grado di raggiungere almeno le sponde di Lampedusa,
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con altre «gonfiabili da quattro soldi, del tutto inadeguate alla navigazione», che il più delle volte è affidata a uno degli stessi migranti a bordo. Dalla fine dello scorso aprile sono partite indagini di alcune procure che hanno gettato ulteriormente ombra sull’operato delle Ong. Il vortice di polemiche che ne è scaturito ha coinvolto anche alcune organizzazioni insospettabili come Medici senza Frontiere e Save the Children, mentre altre hanno scelto di ritirare le proprie navi dai mari in attesa – è il caso di dirlo – che le acque si calmassero. Un’ulteriore giro di vite è arrivato con il Codice di Condotta proposto a luglio dal Viminale alle Ong per regolamentare le operazioni SAR. Non tutte hanno deciso di firmare, giudicando inaccettabili obblighi come il divieto di ingresso in acque libiche. Chi ha deciso di non sottostare alle direttive del governo italiano si difende considerando questi punti controversi come dei limiti all’unica loro missione, quella di salvare vite umane. Resta, infatti, il fatto che nel Mediterraneo si continua a morire. Il dato allarmante è proprio l’incremento di persone che hanno perso la vita tentando la traversata della speranza: da 644 nel 2014 a 4579 nel 2016.
2015
2016
2017
MARE NOSTRUM TRITON SOPHIA MOAS MEDICI SENZA FRONTIERE SOS MEDITERRANEE SEA-WATCH SEA-EYE PROACTIVIA OPEN ARMS JUGEND RETTET LIFEBOAT PROJECT SAVE THE CHILDREN
Le persone arrivate vive
62.692
Le persone morte o disperse 1.822
Operazioni istituzionali
ONG
13.267
42.925
170.100
153.842
181.436
283
644
3.161
2.869
4.579
Sospeso
La Libia dichiara la sua zona di intervento
Sottoposto a sequestro dalla Procura 21
cover story Sara D’Agati
“lontano dagli occhi, lontano dal cuore.” L’egoismo degli Stati europei, la difficoltà della stabilizzazione in Libia e in Siria, la questione umanitaria, e la miopia di politiche elettorali che non tengono conto delle conseguenze di lungo periodo. Una chiacchierata con l’ex Ministra degli Esteri Emma Bonino.
Per la Bonino ho sempre avuto un debole, chi mi segue lo sa. E come in ogni grande ‘amore’, ci sono elementi razionali ed elementi irrazionali. A noi nate negli anni ottanta, la Bonino ha consegnato una serie di battaglie già vinte, a partire dal divorzio e dall’aborto; e altre da continuare a combattere insieme, quelle contro la pena di morte, per i diritti umani e per i diritti delle donne in tutto il mondo. Oggi Emma Bonino combatte una nuova battaglia, quella per l’inclusione dei cittadini stranieri in Italia con la sua campagna Ero Straniero, e quella contro l’indifferenza verso una questione migratoria che non può risolversi, e non si risolverà, a suon di accordi con dittatori e milizie in loco. La gestione dei flussi migratori è oggi lo scoglio contro cui rischia di infrangersi l’Europa. Laddove la stabilizzazione in loco dei paesi di origine dei flussi appare complessa quanto lontana, e sembra mancare la volontà politica di dividere equamente tra gli stati l’onere degli arrivi; sia nel caso della Turchia, che del recente accordo Italia-Libia, si è scelto di appaltare la gestione dei flussi al paese d’origine, o di transito, sostenendoli finanziariamente. Quali sono le principali criticità che vede in questo modello? Quello che si sta facendo con la Libia, è una caricatura dell’accordo fatto dall’EU con la Turchia di Erdogan, che certamente è un dittatore, ma perlomeno ha il controllo del territorio. La caricatura sta nel fatto che si tenti un accordo simile, ma in un Paese dove esistono perlomeno due governi, due parlamenti e centinaia di milizie. Ed è noto a tutti che il governo Serraj, con cui l’accordo è stato stipulato, non controlla il territorio. Questo vuol dire che, direttamente o via Serraj, questo sarà di fatto implementato dagli scafisti e dalle milizie locali. Il che complica la situazione, perché si da’ a queste milizie una credibilità di interlocutore che certamente le rafforza e non aiuta il processo di stabilizzazione del Paese. La seconda questione, di pari importanza, è la questione umanitaria. Sono emerse chiaramente dai vari report di organismi internazionali e di osservatori in loco, poi riportate anche dai media nazionali ed esteri,
le condizioni all’interno dei centri di detenzione in Libia dove torture, violenze e stupri sono all’ordine del giorno. Peraltro segnalo che soltanto una decina su trenta di questi centri ufficiali di detenzione sono visitabili, o visitati, da funzionari libici delle Nazioni Unite, o da missioni internazionali. Che la Libia non sia un posto sicuro, lo dimostra il fatto che tutto il corpo diplomatico libico è basato a Tunisi, incluso lo stesso rappresentante delle Nazioni Unite. Se il Paese non è sicuro per i diplomatici, mi sembra difficile che lo sia per i rifugiati. Sfido chiunque a non comprendere la criticità della questione umanitaria in ballo. Infine, è ovvio che l’accordo con Serraj, o chi per esso, può essere un accordo finanziario, ma può anche essere (come accaduto in altre circostanze e in altri paesi) un accordo in cui, a condizione che venga fermato il traffico di esseri umani, si finisca per chiudere un occhio su altri tipi di traffici: armi, droga, oro etc., altrettanto lucrativi, di cui le milizie si alimentano. E questo significa un ulteriore elemento di rafforzamento a loro favore. Per tutte queste ragioni, da quest’accordo mi sento tutt’altro che rassicurata. Sono in molti però a non vedere alternative ad accordi di questo tipo. Milena Gabbanelli, ad esempio, ha dichiarato che il Ministro dell’Interno Marco Minniti è stato il solo in grado di dare una risposta ferma ad un problema complesso. Superando così da una parte le velleità dei muscolari, che urlano alla chiusura totale delle frontiere ma non hanno idea di come farlo, e dall’altra delle “anime belle” che parlano di frontiere aperte, ignorando l’insostenibilità di una soluzione di questo tipo. Lei, invece, che soluzione vede a questi due estremi? Innanzitutto, si poteva fare uno sforzo per negoziare una tempistica diversa. Prima bisognava prevedere l’arrivo delle Nazioni Unite, e poi si dava inizio ai respingimenti. La Libia, tra l’altro, non ha mai firmato la Convenzione dei Rifugiati del 1951. Qui non si tratta di anime belle. Con questo accordo, di fatto, abbiamo messo un tappo ai flussi appaltando la gestione a paesi terzi, instabili, mettendoci nelle mani o di dittatori o di gruppi che vivono nell’illegalità. E non è neppure un tappo stagno, dato che si stanno già
“In Libia e ci siamo regalati un’illusione di tranquillità mettendo un tappo ai flussi. e non è neppure un tappo stagno.”
aprendo altre rotte: da Tripoli ovest, da Tripoli est da Misurata, e ancora da Algeria, Spagna e Sardegna, oppure attraverso il Mar Nero e la Romania. È come di fronte alla maree, si può pensare di governarle, ma non di fermarle. Secondo lei siamo alla resa dei conti di un sistema, quello occidentale, che troppo a lungo ha basato la propria crescita economica sullo sfruttamento di altre aree del mondo? E adesso con il mantra ‘aiutiamoli a casa loro’, e con accordi di questo tipo, si applica il principio del “lontano dagli occhi lontano dal cuore”? Questo è evidente, e per indorare un po’ la pillola si dice arriveranno le nazioni unite o le Ong. È sempre stato così nella mia esperienza, ogni qualvolta che la politica inciampa procurando tragedie, che si trattasse di Kosovo, Grandi Laghi, Afghanistan, poi si chiamano gli umanitari per lenire come possono le sofferenze. Dopodiché inizia la polemica con gli umanitari, perché o fanno troppo, o fanno troppo poco, oppure non fanno ciò che i governi hanno chiesto. Detto questo, la situazione in loco, in Libia e ancor di più in Siria, è di fatto estremamente complicata e noi come europei non abbiamo certamente la forza necessaria per risolverle. In campo sono coinvolti, direttamente o per procura, una serie di attori regionali o internazionali -penso a Iran, Turchia, Arabia Saudita-, con interessi profondamente divergenti. Non siamo quindi più allo schema “occidente come sentinella del mondo”. Senza contare che nella guerra Libica sono in ballo interessi contrapposti tra le stesse potenze europee, basti pensare ad Italia e Francia. C’è poi la questione dell’Egitto, oggi sempre più vicino alla Russia. Non essendo quindi gli unici protagonisti, e anzi, essendo noi stessi vittime di divisioni interne, la stabilizzazione in Libia, come in Siria, risultano estremamente complesse e si tirano dietro la questione dell’ Iraq, la questione Curda. Quindi, più che di emergenza migratoria, avrebbe senso parlare di una situazione strutturale che esige una soluzione di lungo periodo? Certamente la soluzione a portata di mano non c’è. E la questione della mobilità globale è vecchia come il mondo. Lasciare casa in cerca di
una vita migliore è una spinta umana. Sono 20 milioni gli italiani che se ne sono andati nel periodo tra le due guerre, e questo sarebbe bene non dimenticarlo. La memoria è fondamentale, e deve partire dalle scuole, portando per esempio i ragazzi a visitare uno di quei meravigliosi musei della migrazione che abbiamo in Italia. Per non parlare dei Paesi di nuovo ingresso in Europa, penso all’Ungheria, che anch’essa non viene certo da una storia semplice, ed ha appena rifiutato di accogliere una quota di migranti irrisoria, neppure 1.300 persone, prevista dalla proposta di riallocazione dell’EU. E la situazione si fa ancora più kafkiana se pensiamo cha la Polonia l’anno scorso ha integrato senza colpo ferire, con diverse modalità, oltre 600mila ucraini. Per rispondere alla tua domanda, una soluzione diversa ci sarebbe, ma è risultata difficile perché gli altri Stati Europei hanno esigenze politiche ed elettorali per cui l’Italia, che era un paese di transito, è divenuta di fatto un paese stanziale poiché le frontiere sono chiuse. Altrimenti voi capite che in un continente di 500 milioni di abitanti, l’arrivo di 200 mila persone non è certamente uno scoglio insormontabile. Così come è vero che se in Italia la politica di integrazione, e quindi di assorbimento legale dei circa 500 mila irregolari o clandestini già presenti sul territorio, fosse stata attuata ne avremmo giovato, poiché sono le nostre necessità economiche e demografiche a dirci che abbiamo bisogno di nuovi arrivi. Sento però dire che il ministro intende lanciare un grande piano per l’integrazione, che aspettiamo da giugno, e ci auguriamo che molte delle idee contenute nella proposta di legge di iniziativa popolare di “Ero straniero” facciano parte di questo piano. Per cui la strada, che è altrettanto complessa e lunga, ma secondo me più attinente sia al rispetto dei diritti umani che alla tenuta istituzionale del nostro Paese, e dell’Europa nel suo insieme, doveva certamente essere diversa. Se poi adesso mi si dice che c’era urgenza di mettere un tappo, e allora abbiamo messo un tappo, la mia impressione è che sia un tappo pericoloso, contro producente e, certamente, non molto stabile.
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AIUTIAMOLI A CASA LORO Sì, ma non banalizziamo Si dice che gli investimenti nell’istruzione in loco e la tendenza a migrare siano inversamente proporzionali. Ma è veramente così? Cosa succede ai flussi migratori quando, anche grazie alle politiche di cooperazione internazionale, aumenta il numero di cittadini istruiti in loco? Matteo Di Paolo
La litania “Aiutiamoli a casa loro” viene ripetutamente avanzata come soluzione più ovvia al problema migratorio: la logica secondo cui si potrà dare un giro di vite al fenomeno migratorio solo quando i Paesi più poveri potranno uscire dal sottosviluppo. L’assunto di base è che la causa delle migrazioni è solo economica e che per rendere meno conveniente il viaggio della speranza serva soltanto investire somme ingenti per garantire a tutti istruzione, istituzioni efficienti e una economia solida. Ma è davvero così? La scelta di migrare è in primis un calcolo di costi e benefici. Oltre ai rischi insiti nel viaggio, un migrante deve affrontare anche altre valutazioni come l’allontanamento dal Paese di origine e l’integrazione sociale e culturale nel Paese di destinazione. D’altra parte, se escludiamo profughi di guerre, carestie e persecuzioni, i benefici per chi tenta il viaggio sono prima di tutto economici e derivano dall’incremento di reddito atteso in seguito al trasferimento in un’area economica più sviluppata e adeguata al suo profilo. Investire nella crescita del paese di origine al fine di aumentare il benessere significa investire in primis nell’istruzione e nella cultura. Più in generale vuol dire sforzarsi di aumentare il capitale umano, inteso come capacità di svolgere mansioni lavorative più complesse, confidando in esso come molla di sviluppo. Ci domandiamo però cosa succeda ai flussi migratori quando un paese inizia ad incrementare il numero di cittadini mediamente istruiti, anche grazie alle politiche di cooperazione internazionale, senza aver raggiunto un livello di sviluppo sufficiente ad assorbire tale forza lavoro specializzata e istruita, forza
lavoro che inizia ad avere gli strumenti economici per il viaggio (che costa, comunque, tant’è che i paesi in fondo alle classifiche hanno emigrazione mediamente bassa) e anche gli strumenti culturali per migliorare le chance di integrazione nel paese di destinazione. La risposta è che la migrazione aumenta! Gli studiosi Martin e Taylor hanno teorizzato quella che è stata definita “gobba migratoria”, dalla forma della curva che hanno ricavato disegnando in un grafico l’evoluzione del tasso di migrazione rispetto al grado di sviluppo del Paese di partenza. In una prima fase di crescita economica e culturale, al contrario di quanto si possa pensare, l’emigrazione continua a salire. Questo perché il Paese non è in grado di assorbire la nuova forza lavoro qualificata che, invece, ha paradossalmente più chance di prima di essere allocata all’estero. È solo con il raggiungimento di una soglia critica di sviluppo sociale, economico e culturale che il flusso torna a diminuire fino ad arrivare (auspi-
cabilmente) con il tempo a un saldo negativo, cioè con più rientri che nuovi emigranti. Un caso tipico è quello albanese. La caduta del regime comunista ha avviato una fase di crisi economica che ha fatto esplodere l’emigrazione. Il flusso è aumentato anche quando la situazione si stava stabilizzando e l’economia riprendendo. Successivamente, grazie a riforme e investimenti esteri, l’emorragia si è arrestata e pare aver imboccato la fase discendente della gobba, (il saldo tra rientri e partenze è in negativo nel 2016). Le conclusioni dei due economisti non portano a dire che forme di cooperazione e investimenti nei Paesi sottosviluppati sono da evitare per non incrementare i flussi. In questo incidono elementi etici, politici, strategici. Piuttosto ci invitano da una parte a migliorare il coordinamento degli aiuti per evitare di generare crisi migratorie difficilmente gestibili, dall’altra ad accelerare il periodo di transizione verso la parte discendente della gobba. A non banalizzare, mai.
soglia di reddito
emigrazione internazionale
Zona A
Zona B
Zona C
livello di sviluppo
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AIUTIAMOLI A CASA LORO Sì, ma come? Per l’UNHCR, nel 2017 solo in Italia, Grecia e Spagna sono arrivate dall’Africa quasi 73.000 persone, che vanno ad aggiungersi alle 286.000 giunte l’anno precedente attraverso la stessa rotta. Si tratta quasi sempre di “migranti economici”; ovvero persone che abbandonano il proprio paese alla ricerca di lavoro e migliori condizioni di vita. Numeri che sollevano diversi interrogativi: cosa non ha funzionato nella cooperazione allo sviluppo nei confronti dell’Africa? Velia Angiolillo - Nicolò Scarano
La missione salvifica dell’Occidente In Occidente i primi sforzi tesi allo sviluppo dei paesi arretrati risalgono al ’48, quando Harry Truman definisce fra le missioni della politica estera degli USA l’eliminazione di fame, malattie e miseria nei paesi arretrati. In verità il programma era funzionale anche al contenimento dell’influenza comunista; questo ha fatto sì che gli aiuti americani prima ed europei poi si caratterizzassero per il mix di condizionalità (aiuti contro riforme politiche) e paternalismo (idea che lo sviluppo derivasse da precise impostazioni socioculturali), tralasciando gli aspetti più strettamente legati allo sviluppo economico dei beneficiari. La cooperazione moderna porta ancora oggi i segni di questo mito fondatore: basti pensare al raggio d’azione degli Obiettivi del Millennio ONU, o a come quasi il 45% degli aiuti dei paesi OECD all’Africa si focalizzino su iniziative di sviluppo sociale piuttosto che su progetti con priorità economiche. Con risultati discutibili: la quota sul PIL della produzione industriale dell’Africa subsahariana oscilla fra il 10 ed il 12%, mentre a seconda degli stati il settore dell’economia informale continua a rappresentare tra il 25 ed il 65% del PIL. Non è un caso che in molti paesi la disoccupazione superi la soglia del 50%. L’Europa dal canto suo lancia il proprio programma di aiuti all’Africa nel 1957 con la creazione dell’European Development Fund, che ha peraltro adottato gli Obiettivi del Mil26
lennio, con al centro della lotta contro la povertà globale. Poco più di un anno, invece, è passato da quando lo State of the Union del 2016 inaugurava per l’Europa un nuovo piano di cooperazione con l’Africa e il suo “vicinato” in via di sviluppo. Il piano si chiama External Investment Plan, ed è modellato su un approccio già sperimentato dall’Unione in progetti del passato, il cosiddetto blending. Quest’ultimo consiste nell’utilizzo di un ammontare limitato di fondi UE (sotto forma di grants) che fungono allo stesso tempo sia da fattore di mobilitazione che da assicurazione (sulle perdite) per i privati che vogliono investire su un determinato progetto, possibilmente portato avanti da una piccola o media impresa del paese partner. Tra le partnership pubblico-privato in questione, corroborate dai 4 miliardi dell’External Plan, figurano soprattutto progetti basati sull’equità, sull’occupazione di giovani e donne, e sulla sostenibilità, con un particolare focus sulle fonti rinnovabili, viste come opzione cardine non solo per l’occupazione ma anche per lo sviluppo industriale di un continente che nel 2050 conterà 450 milioni di disoccupati. Modelli alternativi Se nella cooperazione occidentale il coinvolgimento del settore privato è un fatto recente, altri attori non hanno mai separato nettamente business e aiuti. Fra questi la Cina, presente in Africa come donor già dagli anni ’60 (cioè da quando l’onda delle decolonizza-
zioni apre un nuovo fronte nella lotta d’influenze fra Occidente e blocco comunista), mossa anch’essa dallo scopo di accrescere attraverso la cooperazione il proprio peso in un clima internazionale teso. Rispetto ai rivali occidentali però, l’approccio è diverso: nel suo discorso in otto punti del ’67 (per certi versi speculare a quello di Truman) il premier Zhou Enlai pone come punto fermo della cooperazione cinese non l’unilateralità ma “l’uguaglianza ed il mutuo beneficio delle parti”. Da questo caposaldo derivano tutti gli elementi chiave che distinguono ancora oggi la cooperazione cinese da quella classica: trasferimento di materiali e tecnologia cinesi a prezzi di mercato, efficienza nell’esecuzione dei progetti, totale incondizionalità degli aiuti. A come Aiuti ?.. Buona parte degli aiuti arrivano in Africa come prestiti ai governi a tassi agevolati. Ma se i donors occidentali convogliano i fondi verso la realizzazione di progetti elaborati e realizzati con la partecipazione attiva dei governi locali, Pechino eroga i prestiti praticamente solo sotto forma di progetti edilizi già pronti, con materiali e personale propri, senza che i beneficiari gestiscano direttamente un soldo. Metodo perseguito con sempre più aggressività, e che pur non favorendo l’occupazione locale, garantisce rapidità di esecuzione ed allocazione efficiente dei fondi in paesi spesso schiacciati da corruzione, scarsità di risorse finanziarie e quasi tota-
le assenza di infrastrutture. E che assicura, vale la pena dirlo, uno sbocco stabile alla propria industria pesante, messa in serie difficoltà dalla crisi del 2008. ...o A come Affari? La Cina ha poi spesso accoppiato i suoi prestiti alla concessione di crediti all’export a prezzi inferiori a quelli di mercato. Per quanto non classificabili come aiuti classici, i crediti facili all’export (già usati da Germania e Giappone) sarebbero un buono stimolo allo sviluppo economico africano, se solo nella pratica non fossero stati il cavallo di Troia dell’export cinese verso l’Africa. In parole povere, pur di ottenere gli aiuti, molti Stati africani hanno dovuto accettare un’inondazione di manifattura cinese a basso costo che di fatto ha spiazzato il decollo delle industrie locali. Una situazione paradossale, nella quale gli aiuti allo sviluppo si combinano ad elementi che intralciano lo sviluppo stesso. Seppur perfettamente coerente con il principio del mutuo vantaggio postulato da Zhou Enlai, con la Cina non è sempre chiaro chi guadagni di più fra donante e ricevente.
Un’armonizzazione possibile? Preso singolarmente nessuno dei due modelli sembra adatto a promuovere lo sviluppo sostenibile dell’Africa: troppo idealista (o paternalista?) quello occidentale, troppo interessato quello cinese. All’Africa in realtà servono entrambi; lo sviluppo passa infatti sia per il miglioramento delle condizioni generali di vita e la costituzione di una forza lavoro qualificata (obiettivo degli aiuti classici) che per la creazione di infrastrutture (per l’AfDB sono proprio l’assenza di capitale immobiliare e reti di trasporto a bloccare lo sviluppo industriale africano). A questo scopo nasce nel 2003 l’Aid Effectiveness High Level Forum (HLF), che mira a mettere a regime diversi meccanismi di coordinamento tra le misure di aiuto di diversi paesi, ma che vede proprio la Cina fra i grandi assenti. E vuoi le profonde differenze filosofiche fra i due approcci, vuoi le tensioni politiche, diplomatiche e commerciali che oppongono di volta in volta la Cina agli Stati Uniti e all’Unione Europea, i margini di cooperazione sono risicati. È più probabile che l’Africa continui ad essere, almeno nel prossimo futuro, un terreno di scontro fra interessi opposti.
ODA verso l’Africa dal 1996 al 2014 % 45
Sociale
40
Economico
35
Produzione
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Umanitario
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Multisettore
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Programmi generali di aiuto
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Debito
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Altro
1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014
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Essere o non essere (italiani)? Effetti dello ius soli. Sofia Gorgoni
Quando lo scontro politico prende di mira una legge, allora dietro ci sono forti interessi di parte che magari hanno poco a che fare con l’applicazione pratica. Politica a parte, oggi chi nasce nel nostro Paese da genitori stranieri ha gli stessi diritti di un bambino con genitori italiani: ha la tessera sanitaria, può aprire un conto corrente, andare a scuola e accedere alla sanità pubblica. I dati diffusi dall’Istat dicono che nel 2016 circa 61 mila dei giovani nuovi cittadini sono nati in Italia. Molti di loro hanno fatto richiesta una volta diventati maggiorenni: se nel 2010 arrivavano solo 10mila richieste, nel 2016 gli uffici competenti ne hanno ricevute 76mila. Dall’altra parte, secondo le stime della Fondazione Leone Moressa circa 600mila figli di immigrati, nati in Italia dal 1998 a oggi (quindi ancora minorenni), rientrerebbero in questa norma. La fondazione sostiene che con lo ius culturae si regolarizzerebbero 178mila bambini nati all’estero che hanno già completato cinque anni di scuola in Italia. Che cosa cambia? Secondo le norme attuali è cittadino italiano chi ha almeno uno dei due genitori con cittadinanza italiana (ius sanguinis, diritto di sangue). Chi è nato in Italia, ma da genitori stranieri può richiedere la cittadinanza entro un anno dal compimento dei 18 anni (deve però essere stato residente in Italia senza interruzioni dalla nascita). Il nuovo disegno di legge introdurrebbe due princìpi correttivi alla norma: lo ius soli temperato e lo ius culturae. Con lo ius temperato potrà chiedere la cittadinanza italiana chi è nato in Italia da genitori stranieri, se almeno uno dei due ha un permesso di soggiorno permanente o europeo di lungo periodo (cioè risiede legalmente nel paese da almeno cinque anni). L’acquisizione dello status non sarà comunque automatico, dovranno essere i genitori a chiederlo prima che il figlio diventi maggiorenne. Con lo ius culturae, potrà ottenere la cittadinanza anche un bambino straniero nato in Italia o arrivato qui prima dei dodici anni che abbia frequentato regolarmente la scuola per almeno cinque anni (se ha frequentato la primaria, deve averla completata con successo) o che abbia seguito percorsi d’istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali. 28
Di sicuro, se c’è un problema non è lo ius soli, ma la questione immigrazione per cui ogni partito conosce una strada. Nel frattempo, nonostante abbia avuto meno risalto, la Camera ha dato il via libera a una legge per prevenire fenomeni di radicalizzazione di matrice jahadista, che servirà proprio a individuare chi si nasconde nel mucchio, non ha intenzione di integrarsi ed è potenzialmente pericoloso. Dal punto di vista degli oneri dello ius soli, l’economista Fabio Verna spiega che già oggi la nostra nazione offre un welfare sanitario ad ogni persona risieda o sia in transito nel nostro paese, e che i lavoratori stranieri che hanno versato contributi utili al raggiungimento dei requisiti, avranno comunque gli stessi diritti pensionistici al pari di un lavoratore italiano, dunque due capitoli di spesa rilevanti del bilancio pubblico non subirebbero un forte impatto. Tuttavia, tra le ripercussioni «un ulteriore aggravio – afferma - si porrebbe per il sussidio di disoccupazione calcolabile approssimativamente in un onere tra gli otto ed i dieci miliardi di euro». Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere punta il dito contro l’ipocrisia riguardo all’opportunità, in questa fase politica, dello ius soli (che non è un vero è proprio ius soli, perché la cittadinanza potrebbe essere concessa solo a chi è nato in Italia da genitori stranieri che risiedono qui da molto tempo). Tra i punti messi sotto la lente dall’autorevole editorialista, c’è la possibilità che, grazie allo ius culturae, un ragazzo nato in Italia o arrivato entro i 12 anni e che abbia completato un ciclo di studi di 5 anni possa ottenere la cittadinanza se anche uno solo dei genitori, che parli italiano, presenta la domanda relativa (la famiglia deve comunque avere un alloggio idoneo e godere di un reddito almeno equivalente all’assegno sociale). L’applicazione pratica è che ad esempio una famiglia di stretta osservanza musulmana, in cui solo il padre parli la nostra lingua e la madre non sia integrata nella società, possa far diventare italiano il figlio minorenne. Se l’integrazione è la meta, non è facile individuare la strada per raggiungerla, senza lasciare fuori nessuno.
ROMA. GENTE SENZA CASE CASESENZA GENTE Testo e immagini di Maurizio Franco
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Un viaggio nell’emergenza abitativa della città eterna, tra case occupate e cecità politica delle istituzioni “Questa è la mia casa” indicando un piccolo salone che dolcemente ricurva in una luminosa stanza da letto. Il bagno è nel corridoio e Alessandra non si fa problemi a mostrarlo. “Anche con poco si può vivere bene” dice sorridendo. Dalla finestra del suo appartamento si vedono le arterie della Tiburtina formicolanti di macchine e i muraglioni del Verano. Alessandra è qui fin dall’inizio. “Siamo in occupazione da 5 anni”, con l’accento ucraino che rimbomba sul pianerottolo. Guardando da fuori le due palazzine di viale delle Province 196-198, sembra che un braccio di lamiere e vetro fuoriesca dall’asfalto per toccare il cielo di Roma. Invece, dopo aver oltrepassato il cancello, si scopre una delle più grandi occupazioni a scopo abitativo della Capitale con dentro 150 famiglie. “Soprattutto nordafricani, marocchini e tunisini, ma anche peruviani, brasiliani, ucraini e italiani” puntualizza Alessandra.
cupazione è mancata una strategia concreta di intervento sociale ed abitativo, assente per le altre grandi occupazioni di rifugiati a Roma” è stato il commento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati sulla vicenda che ha traumatizzato i rotocalchi nazionali. “Man mano che si renderanno disponibili gli alloggi per l’emergenza abitativa”. Nella Capitale sono 74 i palazzi occupati, dove vivono 6.500 persone, molte delle quali hanno fatto domanda per una casa popolare. In totale, 10.500 famiglie ristagnano nelle graduatorie, aspettando che lo stallo della macchina politico-amministrativa di Roma si esaurisca. “La nostra non è una forma di estorsione ai danni dello Stato. Le occupazioni sono uno strumento di lotta per rivendicare una casa per tutti e per rispondere all’inadeguatezza delle istituzioni”. 490 case assegnate ogni anno – una cifra irrisoria se paragonata alle 7.092 richieste di sfratto nel solo 2016 – 22 mila persone senza un alloggio o con una sistemazione precaria e 1 milione e 200 mila abitazioni racchiuse nel Era il 6 dicembre del 2012 quando i Blocchi Precari Metropolitani, costola capiGrande Raccordo Anulare. Dati che rivelano tolina del movimento di lotta per la casa, occuparono i due stabili - di proprietà un clamoroso fallimento delle tante amminidel Fondo Immobili Pubblici (FIP) - abbandonati da un anno e mezzo circa. La strazioni che hanno presieduto gli scranni del Campidoglio, e l’assenza sistematica di un piagiornata, ribattezzata Tsunami Tour – lo stesso nome della campagna nazionale no di sviluppo. del Movimento 5 stelle – aveva inondato Roma con decine di nuove occupazioni. La Regione Lazio aveva previsto nel 2016 lo stanziamento di 197 milioni di euro per fron“Abbiamo ripristinato il valore sociale e pubblico di un immobile la cui teggiare l’emergenza abitativa, proponendo di destinare 764 alloggi rendita sicuramente avrebbe rimpinguato le tasche degli speculatori e Ater (azienda che gestisce le case popolari nella Capitale, con 1 miliardegli affaristi del cemento” era la risposta dei Blocchi Precari Metropo- do e 448 milioni di euro di debiti). Le vendite erano andate a vuoto con litani al disagio abitativo. le gare di appalto deserte - per ben due volte - e la soluzione tampone Viale delle Province è nella top list dei 15 immobili da liberare in da 40 milioni di euro, raffazzonata a maggio di quest’anno, è naufragavia prioritaria - “man mano che si renderanno disponibili gli alloggi ta per la mancata firma di una convezione con il Comune. per l’emergenza abitativa” - stilata dall’ex commissario straordinario L’ottanta per cento degli occupanti di viale delle Province è in lista e del Campidoglio Francesco Paolo Tronca, nella delibera 50 dell’a- aspetta un alloggio” spiega un attivista dei Blocchi Precari Metropoprile 2016. Il capolista era il palazzo di via Curtatone – sgomberato litani, smistando alcune scartoffie nello stanzone adibito a sportello. il 19 agosto, 450 persone per strada, etiopi ed eritrei con il permesso Una scrivania e alcune persone in fila, fogli e plichi in mano e la caffetdi soggiorno – e i rastrellamenti non si sono fatti attendere, con tanto tiera che sfrigola su un fornelletto a gas. “Il martedì, con la presenza di di guerriglia urbana travolta dal getto degli idranti. “In 4 anni di oc- un avvocato, diamo assistenza in media a 10 famiglie: Come reagire 31
ad uno sfratto, come compilare la domanda per l’alloggio popolare, come accedere ai servizi basilari e come entrare nelle nostre liste per andare ad occupare”. Maxwell annuisce, grattandosi il naso, mentre l’aroma di caffè si diffonde nello stanzone tappezzato di manifesti. “Dal 2010 sono in Italia, vengo dalla Sierra Leone – racconta - Nel mio paese ero un commerciante di tessuti e vestiti. Ho i documenti, sono un rifugiato, ma senza un lavoro è tutto difficile” stropicciandosi la faccia con le dita tozze. Scaduto il tempo di permanenza nel centro di accoglienza di borgata Finocchio, nella periferia est di Roma, Maxwell si è ritrovato senza un tetto, a vagabondare per le strade della città per poi conoscere il movimento di lotta per la casa. E non è il solo. Secondo i dati dell’Unhcr, sono 3mila i rifugiati politici che vivono in stabili occupati. Altri 9 mila sono smistati nei centri del Comune (circa 3.000) e della Prefettura (5.581): numeri ben al di sotto delle stime formulate dall’accordo Stato – Regioni, che aveva fissato ad 11 mila migranti la quota spettante all’accoglienza romana. Nessun affanno quindi, nessuna invasione, nonostante la lettera della sindaca Virginia Raggi al prefetto Paola Basilone, per scongiurare
nuovi arrivi, dica altro. Sempre l’Unhcr, attraverso il suo portavoce per il Sud Europa, Carlotta Sami, quasi a rispondere all’appello della giunta pentastellata, dichiara “Migliaia di migranti regolari vivono nelle occupazioni: è una situazione che è peggiorata negli anni e a cui va data una soluzione”. Se il prefetto e la questura ordinassero ulteriori sgomberi, paventati nella famosa lista di Tronca o andando a scavare nelle 74 occupazioni, Roma si ritroverebbe con migliaia di sfollati senza alternative. Il presidio umanitario di via del Frantoio, gestito dalla Croce Rossa, offre soltanto 80 posti letto e ogni sei mesi si rinnova il giro di valzer per la stipula della convenzione con il Comune. Il Baobab Experience a piazzale Maslax è stato sgomberato decine di volte: 250 persone trovavano ristoro nella tendopoli autogestita, mentre il Comune prometteva un hub sul modello Milano. Le gare di appalto dell’amministrazione capitolina per la gestione dei posti “extra Sprar” - per i richiedenti asilo che non possono tornare nei centri di accoglienza – non hanno avuto l’esito sperato. Anche qui, gli androni deserti e le seggiole vuote, mentre “le persone in fila ai nostri sportelli aumentano” dice l’attivista del Blocchi Precari Metropolitani.
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lo stanziamento della Regione, per far fronte all’emergenza abitativa 33
I migranti in numeri. Luoghi comuni ed evidenze per frenare la polemica Claudia Cavaliere
“I migranti stanno invadendo l’Italia. Ogni giorno ne arrivano a migliaia” Il numero di migranti sbarcati dall’inizio del 2017 è 108.497, pari al 25,11% in meno rispetto allo scorso anno. Nel 2016 i profughi che hanno raggiunto le coste italiane sono stati 181.440, 153.842 nel 2015 e 170.100 nel 2014. In generale in Europa, su una popolazione di oltre 500 milioni di persone, solo il 7% è rappresentato da immigrati. Perciò, i numeri non corrispondono a quelli di un’invasione, soprattutto se si considera che di questi la maggior parte ha intenzione di raggiungere una destinazione diversa dall’Italia.
La percezione che gli italiani hanno della presenza di migranti nella penisola corrisponde ad oltre il triplo rispetto alla presenza reale: 7% di immigrati reali, contro il 25% di immigrati fantasma. Questo dato è fuorviante se si tiene conto del fatto che in Italia il numero di migranti distribuiti sul territorio nazionale è addirittura inferiore rispetto alla maggioranza degli altri paesi europei ed è concentrato soprattutto nelle regioni del centro-nord: Lombardia ed Emilia Romagna in testa. Inoltre, va chiarito che i nuovi flussi si stanno dirigendo verso le coste di Libano, Turchia, Etiopia, Uganda, Afghanistan, Camerun e Giordania.
“I migranti ogni giorno ricevono 35 euro. Vivono in albergo e hanno tutti il cellulare”
“I migranti costano troppo allo Stato” Secondo dati Istat, in Italia risiedono circa 5 milioni di stranieri, l’8,3% della popolazione totale. Questi lavorano, producono reddito e versano ogni anno circa 8 miliardi di euro di contributi all’Inps, ricevendone in termini di pensione 3 miliardi. I migranti, inoltre, hanno apportato allo stato non solo benefici di ordine economico, ma anche demografico: bilanciando il calo della popolazione, l’invecchiamento dei cittadini e i sempre maggiori trasferimenti all’estero. Invece, l’ammontare complessivo della spesa per i migranti, al netto dei contributi dell’Unione Europea e relativo alle spese per l’accoglienza, il soccorso in mare, l’identificazione, il ricovero, il cibo, è stimato essere pari 4,2 miliardi di euro per il 2017 o a 4,6 miliardi in uno scenario di crescita, con un impatto sul Prodotto Interno Lordo rispettivamente dello 0,25% e dello 0,27.
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“I migranti sono troppi, vengono tutti in Italia. Dove li mettiamo?””
Ai migranti spettano 2,5 euro al giorno per le spese ordinarie giornaliere, quota corrispondente al cosiddetto poket money. I costi della gestione ordinaria dell’accoglienza ammontano sì a 35 euro per gli adulti e a circa 45 euro per i minori non accompagnati, ma questo denaro non viene accreditato ai migranti, bensì trasferito alle cooperative che si occupano della gestione dell’emergenza migratoria e che ne dispongono autonomamente per far fronte alla necessità di cibo, all’assistenza, al pagamento delle strutture e delle persone che ci lavorano.
“I migranti non possono avere gli stessi diritti dei cittadini. Non ci sono negri italiani” Secondo la legge attuale, un bambino nato sul territorio dello stato, ma da genitori stranieri non è italiano. La legge al vaglio del Senato che introdurrebbe lo Ius soli in Italia riguarda i bambini che sono figli di immigrati in possesso del permesso di soggiorno, e che hanno frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni. Quindi, è destinata a bambini che per nascita, formazione e cultura sono italiani e che probabilmente il paese dei loro genitori non lo hanno neppure mai visto.
innovazione e territorio
ILARIA DANESI
Territori di integrazione Nei piccoli Comuni dove l’accoglienza si fa inclusione sociale. Lo Stato garantisce l’asilo, ma la vera sfida comincia dopo. Ne pariamo col Sindaco di Massa, Alessandro Volpi. Superata la prima accoglienza, oltre gli hotspot e i centri di identificazione, comincia una nuova fase del viaggio di richiedenti asilo e rifugiati. L’Italia si fa carico dell’asilo, ma non è semplice organizzare l’accoglienza sul territorio, tantomeno affrontare la sfida della piena integrazione. Il sistema di “seconda accoglienza” nazionale, lo SPRAR, che vorrebbe andare oltre la garanzia di vitto e alloggio, si basa sulla redistribuzione dei rifugiati, affidando l’incarico ai Comuni che ne fanno richiesta, sovvenzionati attraverso uno specifico fondo. Una distribuzione definita per vari motivi “indispensabile” da chi affronta la questione sul proprio territorio, come il Sindaco di Massa, Alessandro Volpi: “i Comuni hanno un rapporto “vero” con il territorio, sono responsabili delle sue dinamiche sociali e culturali, costruiscono quotidianamente una nozione di cittadinanza condivisa”. Per questo rispetto alla dimensione urbana sembrano più a misura d’uomo, più adatti ad accogliere l’altro e superare le reciproche diffidenze: sono “luoghi della comunità”, in cui è possibile “limitare i rischi di segregazione e tensioni, favorendo una reale integrazione, costruita su piccoli gruppi diffusi”. Nel comune di Massa sono proprio piccoli gruppi, seguiti dalle associazioni e coinvolti in attività di partecipazione al bene collettivo, la forma di accoglienza più diffusa. I migranti grazie ai progetti
SPRAR apprendono la lingua, imparano un mestiere, entrano in più profondo contatto col luogo stesso in cui vivono. Non sempre è semplice nell’immediato, ma “al di fuori di alcune polemiche strumentali, il territorio sembra accogliere bene i rifugiati, che a loro volta dimostrano una crescente consapevolezza riguardo l’integrazione”, partecipando a giornate di sensibilizzazione come “Puliamo il Mondo”, sostenuta da Legambiente, in cui si occupano della manutenzione dei luoghi pubblici. Perché il sistema funzioni, la cooperazione tra le istituzioni comunali e le associazioni operanti sul territorio, ma anche con la Prefettura, la Questura, l’Asl e altre strutture interessate, è fondamentale. Ma è alle istituzioni comunali che spetta l’adesione volontaria al programma SPRAR, attraverso la partecipazione a bandi pubblici. I numeri dicono che se tutti i Comuni della penisola aderissero, l’onere dell’accoglienza verrebbe enormemente limitato, se non del tutto assorbito, in maniera fisiologica e certo meno traumatica dell’attuale ricorso ai CAS, i Centri di Accoglienza Straordinaria. Soluzione sulla carta di natura emergenziale, in realtà abbondantemente utilizzata, che porta l’amministrazione centrale in caso di necessità ad assegnare i richiedenti asilo, con le ovvie conseguenze in termini di tensioni sociali e di abbassamento degli standard
di accoglienza. Che all’origine del diniego vi siano motivazioni pratiche o di opportunismo politico, il successo di progetti seri, trasparenti e facilmente replicabili, che mirino all’integrazione del rifugiato nel tessuto sociale, è stimolo fondamentale per muovere verso un coinvolgimento più ampio dei Comuni sul territorio. Qualcosa, dice il Sindaco, pur lentamente si sta muovendo “verso un sistema di accoglienza più strutturato”, e dunque funzionale. Dal Nord al Sud dell’Italia, è dall’infrastruttura invisibile di relazioni e progettualità che si deve partire per uscire dalla dimensione emergenziale, che alimenta attività speculative e diffidenze, ed entrare nella dimensione delle buone prassi come quotidianità.
In collaborazione con
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il punto di vista delle aziende
SARA D’AGATI
IL MELTING PO(S)T Uffici postali multietnici e multilingue per rispondere alle esigenze nei ‘nuovi italiani’. Ghassan è laureato in economia, dopo aver lasciato la Siria ha svolto una serie di lavori occasionali in giro per l’Europa, giunto in Italia è stato assunto come operatore di sportello nell’ufficio postale multietnico di Roma Termini. La maggior parte dei suoi clienti parla in arabo, altri si rivolgono a lui in inglese o in un italiano stentato, ed hanno bisogno del suo aiuto per i numerosi adempimenti che permetteranno loro di integrarsi in Italia. I cinesi che si rivolgono a Dan, nel vicino ufficio postale di Piazza Dante, possono contare sui consigli di una connazionale e sui prodotti e servizi offerti per districarsi nella giungla burocratica di una grande città ancora sconosciuta. La comunità residente filippina ha trovato invece un punto di riferimento in Irenea, giovane laureata in Economia giunta in Italia 11 anni fa, e che oggi parla correntemente anche in italiano e in inglese. “Cosa faresti al posto mio?”, è la domanda che Lissette, nativa dell’Ecuador, si sente ripetere più spesso dai clienti del suo ufficio multietnico. Amina, marocchina, racconta che all’ufficio postale di Palermo, si trova a dare suggerimenti in arabo sui luoghi da visitare, o sui negozi presso i quali fare acquisti, oltre che sui prodotti postali in vendita allo sportello. Sono ormai circa una trentina gli sportelli multilingue di Poste Italiane sul territorio nazionale, dove arabi, romeni, cinesi, filippini e sudamericani, spesso disorientati e bisognosi di aiuto, hanno trovato un punto di riferimento prezioso nei loro connazionali. Che si tratti di rinnovare il permesso di soggiorno, spedire pacchi, compilare bollettini, depositare risparmi o 36
trasferire denaro verso i paesi d’origine, questi “nuovi italiani” possono contare su qualcuno che ne comprenda la lingua e le esigenze. All’ingresso negli uffici multilingue, il distributore dei tagliandi numerati per la gestione delle attese chiede per prima cosa in quale lingua si desidera effettuare un’operazione; cartelli, indicazioni, avvisi e le brochure informative sono “poliglotte” e, per venire incontro alle necessità degli oltre 2 milioni di stranieri titolari di un conto BancoPosta, un libretto di risparmio o di una carta Postepay. Ogni comunità ha richieste specifiche: i servizi di spedizione internazionale, per esempio, sono più gettonati tra i cittadini provenienti dall’Africa e dalla Cina, mentre chi proviene dalle Filippine ha in genere una particolare propensione al risparmio ed è più interessato a coperture previdenziali e Libretti di risparmio. Ma come accade in tutti gli uffici postali, anche in quelli
“multilingua”, il fattore critico di successo più importante è il rapporto di fiducia che l’operatore di sportello riesce a creare con il cliente. Le lettere cedono il passo alle email, i documenti e le transazioni viaggiano sotto forma di bit, e le aziende postali sono costrette a riprogettare la loro missione per il futuro. Nel mondo sempre più globalizzato e interconnesso, lo sviluppo tecnologico va di pari passo con la trasformazione delle comunità in senso multietnico, e la circostanza di parlare la stessa lingua – in molti casi come lingua madre – rappresenta ovviamente l’aspetto decisivo. E se è vero che l’integrazione non si nutre di dichiarazioni di principio e massimi sistemi, ma avviene sul territorio, ogni giorno, attraverso piccole azioni che rendono ‘vivibile’ la realtà quotidiana, la presenza di uffici postali multietnici e multilingue, è senz’altro un passo decisivo nella giusta direzione.
il punto di vista delle aziende
GERARDO FORTUNA
Gestire e superare la crisi migratoria: il modello di accoglienza del gruppo FS Dalla prima accoglienza all’inserimento nel tessuto sociale. Un nuovo modo di intendere i servizi al migrante
Tra i binari 2 e 5 di Firenze Santa Maria Novella c’è uno spazio gestito dall’associazione ACISJF – Protezione della Giovane, rivolto alle persone in cerca di aiuto che orbitano attorno alla stazione. Si tratta di uno dei 17 Help Center sparsi in tutta Italia e messi a disposizione in comodato d’uso gratuito dal Gruppo FS Italiane a Comuni e associazioni del terzo settore. Gli Help Center aiutano persone come H., ragazza somala sbarcata in Italia a 19 anni per inseguire un futuro migliore di quello che avrebbe trovato nel suo Paese, stremato da una guerra civile senza fine. A pochi passi dalla stazione c’è Casa Serena, gestita sempre da ACISJF, dove H. ha potuto iniziare una nuova vita, imparando l’italiano e completando i suoi studi per diventare infermiera. Senza mai dimenticare i suoi cari rimasti in Somalia: dopo aver trovato lavoro in una casa di riposo, ha conservato i suoi risparmi per portare il resto della sua famiglia in Italia. Quella di H. è solo una delle storie di riscatto sociale raccontate nell’ultimo rapporto ONDS che raccoglie le attività svolte nel 2016 dagli Help Center, considerati dall’ad Renato Mazzoncini uno dei più importanti progetti nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa del Gruppo FS Italiane. Quest’anno gli interventi sono stati 500mila, con un incremento significativo dovuto all’impatto dei flussi migratori. Tra i destinatari dei servizi infatti, ben 11mila sono stati ex-
tracomunitari, a fronte di 5mila stranieri comunitari e 6mila italiani. I rapporti ONDS costituiscono un vero e proprio “barometro sociale”, come è stato definito dal presidente Anci Antonio Decaro, utile a osservare e comprendere una società in continua evoluzione. “Tra il 2007 e il 2010 FS ha raccolto il segnale delle nuove povertà emerse dalla crisi economica” ci spiega Carlotta Ventura che dirige le Relazioni Esterne del Gruppo FS sovrintendendo alle sue Politiche Sociali “ma dal 2011 i flussi migratori sono stati il tema centrale dei rapporti ONDS. Praticamente tutti i migranti sbarcati in Italia sono passati attraverso le stazioni: ben 130mila solo nell’hub di Milano Centrale.” Milano, Ventimiglia e Bolzano sono le tre aree critiche a livello ferroviario per il flusso migratorio. È in queste stazioni “di confine” che si concentrano nei periodi di sospensione di Schengen i migranti transitanti, quelli cioè che cercano la via del Nord Europa. A questi si aggiungono i “dublinanti”, quelli che hanno provato a chiedere protezione internazionale oltre le Alpi ma sono stati rispediti in Italia in virtù della clausola di primo ingresso del sistema di Dublino. Il rischio sovraffollamento è dunque dietro l’angolo. “A Milano c’è stato nel 2014 un problema igienico-sanitario” continua Ventura “Per rispondere alle richieste della popolazione ferroviaria, abbiamo dotato ogni nostro hub di un presidio medico per fare uno screening sanitario delle persone che arrivano.”
Un impegno, quello del Gruppo FS per i migranti, che risale addirittura al 2002, quando l’ex Ferrotel di Roma Smistamento fu destinato al servizio dei gesuiti per rifugiati del Centro Astalli. Fu il primo esempio di un paradigma collaborativo per la gestione dei flussi che oggi ha il suo fiore all’occhiello nell’hub di Via Sammartini a Milano, gestito dalla Fondazione Progetto Arca. Per questo progetto, Grandi Stazioni ha messo a disposizione oltre 1500 mq, investendo 1 milione di euro allo scopo di coniugare solidarietà e sicurezza nello snodo ferroviario milanese. Un modello di inclusione sociale che il Gruppo FS vuole riprodurre anche a Roma, dove sarà ricavato dal Ferrotel della stazione Tiburtina un altro centro di assistenza e prima accoglienza con annesso un presidio sanitario, che sarà inaugurato nel primo semestre del prossimo anno. Il Gruppo FS contribuisce anche a dare un sostegno immediato alle categorie più deboli di migranti nell’ambito di iniziative come #aBracciaAperte, raccolta fondi promossa insieme a Save the Children e dedicata ai minori stranieri non accompagnati. Sono stati raccolti 350mila euro (un record per FS Italiane) che saranno destinati ai percorsi di integrazione del progetto CivicoZero. Nel 2016 sono sbarcati in Italia oltre 26mila minori senza nessun adulto al seguito, andando a costituire una categoria a forte rischio devianza, sfruttamento e abuso. 37
start-up world
ANTONIO CARNEVALE · MARIA GENOVESI
Le nuove tecnologie come strumento di accoglienza e integrazione Come la tecnologia può favorire i processi di integrazione tra sharing economy, videogames e nuove esperienze di alfabetizzazione digitale. Non basterà certo una piattaforma web, un’app o un qualsiasi dispositivo hi-tech a risolvere l’attuale crisi migratoria. È vero però che gli strumenti digitali possono aiutare quelle centinaia di migliaia di persone che ogni giorno varcano i confini dell’Unione europea nel tentativo riscrivere il proprio futuro. Sono tanti, tantissimi, i bisogni a cui far fronte, e la tecnologia, se ben utilizzata, può fare molto se non per risolvere, per semplificare. Uno dei primi scogli da superare ad esempio, per gli oltre 5 milioni di immigrati presenti oggi in Italia, è quello rappresentato dalla nostra burocrazia. Bashkim Sejdiu, albanese, ha ideato per questo un’applicazione per Android e IOS chiamata InfoStranieri. Il servizio, disponibile in 10 lingue, nasce dall’esperienza personale del suo ideatore e consente di reperire informazioni sulle procedure da seguire, trovare un professionista, un’associazione, sapere orari e funzioni di alcuni uffici e scaricare documenti nel proprio idioma. Un piccolo aiuto (gratuito) insomma, per risolvere problemi di immediata utilità, come il permesso di soggiorno, il ricongiungimento familiare, la cittadinanza. Ma, in realtà, è la sharing economy la grande protagonista di quello che possiamo definire il “sistema d’accoglienza 38
2.0”. Negli ultimi tempi infatti, le piattaforme collaborative dedicate ai rifugiati si stanno moltiplicando in tutto il Vecchio Continente. Airbnb, il famoso portale dedicato all’home sharing, ha appena lanciato a Milano (primo esperimento in Italia) Open Homes Refugees, in collaborazione con Comune di Milano, Refugees Welcome Italia e Comunità di Sant’Egidio. L’iniziativa punta a mobilitare l’intera comunità del portale per aiutare chi scappa da guerre e carestie: “Il semplice atto di aprire la propria casa, anche per poche notti, può cambiare la vita a una persona che ha dovuto lasciarsi tutto alle spalle”, spiega Joe Gebbia, co-fondatore di Airbnb. Obiettivo? Accogliere centomila persone in tutto il mondo nel corso dei prossimi cinque anni. All’accoglienza, deve però seguire un processo di integrazione che passa necessariamente attraverso l’istruzione. Uno dei progetti più validi in questo senso è quello portato avanti da Fondazione Mondo Digitale, che collabora anche con il centro di seconda accoglienza Enea di Roma e da oltre dieci anni ha introdotto con successo l’uso integrato delle nuove tecnologie nei programmi di alfabetizzazione per cittadini stranieri. Lo scorso giugno, dalla collaborazione tra Fondazione Mondo Digitale e Microsoft, è nato CoHost: un hub formativo digita-
Nella piccola realtà olandese di Utrecht, invece, è sorto il progetto De Voorkamer (stanza). Si tratta di una piattaforma per talenti nata all’interno di un centro rifugiati, che mira a esaltare le competenze di ciascuno di essi. Li indirizza a lavorare su ciò che per ciascuno è più significativo e adatto, a seconda del profilo, stimolandone così l’indipendenza e l’integrazione personale. Navigando online ci si può imbattere così nei cuscini cuciti a mano dal siriano Hassan o nei tavoli lavorati da Muhamad, oppure si può richiedere una consulenza su piante da arredamento al palestinese Zakaria, visto che ne conosce simbologie e benefici. Da questo punto di vista, anche i videogiochi possono rappresentare uno strumento “didattico” sia per preparare i migranti al loro arrivo che per informare chi dovrà accoglierli. Medici Senza fron-
tiere, ad esempio, ha lanciato il progetto #milionidipassi: indossando visori di realtà aumentata è possibile calarsi nella realtà dei migranti, vivendo i loro estenuanti viaggi, entrando all’interno di un ospedale o in un campo profughi. Inoltre, piattaforme, giochi ed esperienze di realtà virtuale possono aiutarci a raccogliere dati sui flussi, capire da dove e quando arriveranno i migranti e quali sono i loro progetti nel nostro Paese, per poter poi intervenire e non solamente dover affrontare l’emergenza. Di più ampio respiro è la piattaforma Techfugees fondata da Mike Butcher, editor di TechCrunch, che mette in contatto programmatori e startupper con ONG e altre realtà vicine ai rifugiati. Tramite questa piattaforma vengono lanciati degli Hackathon nei quali esperti digitali impiegano le loro abilità tecnologiche per risolvere situazioni di crisi. Il team vincitore dell’Hackathon di quest’anno ha presentato un’app che riunisce tutti i servizi disponibili per i rifugiati in Grecia, nelle lingue arabo, farsi e inglese. L’app
include inoltre la possibilità di creare dei profili-vetrina per gli immigrati, affinché datori di lavori possano entrare in contatto con loro e offrire opportunità lavorative. Del resto, basta guardare il video di un qualsiasi sbarco. I migranti che riescono ad arrivare sulle nostre coste non hanno nulla. Ma tanti di loro hanno un cellulare: per orientarsi, trovare informazioni, parlare con familiari e amici lontani. Non è un caso: la strada è davvero lunga e tortuosa, ma l’innovazione tecnologica è destinata a giocare un ruolo chiave per queste persone nel delicato percorso verso la propria autonomia.
tanja heffner @UNSPLASH
le, dove studenti italiani si fanno volontari per insegnare agli stranieri l’uso del computer, di internet, nonché lingua e cultura italiane.
policy room
A CURA DI RETI
IMMIGRAZIONE: DESTINAZIONE EUROPA In Italia, come in tutti i Paesi europei, l’immigrazione è diventato un cleavege che ha ridefinito il perimetro del confronto degli attori politici e istituzionali, con una rilevanza dell’arena europea. Nel 2014, per la prima volta nella storia della Commissione, la gestione dei flussi migratori è divenuta una delle priorità esplicite di “Un nuovo inizio per l’Europa”, il documento politico – programmatico su cui il presidente Juncker ha ottenuto la fiducia del Parlamento Europeo e ha inaugurato il suo mandato. Anche a fronte delle pressioni di molti Stati Membri, nel maggio 2015, la Commissione UE ha lanciato un’ ”Agenda europea sulla migrazione”, anzitutto per rispondere alla crisi dell’aumento degli arrivi via mare, ma anche per individuare soluzioni nel medio-lungo termine, ponendo al centro la riforma del quadro giuridico che disciplina il sistema di asilo europeo. L’iniziativa, guidata dal Presidente Juncker e dall’Alto Rappresentante Mogherini, ha ottenuto il sostegno formale degli Stati membri, con le conclusioni del Consiglio europeo del 18/19 febbraio 2016 e, poi, del Parlamento Europeo, con la risoluzione sulla necessità dell’approccio olistico all’immigrazione, approvata a larga maggioranza, il 12 aprile 2016. D’altro canto, la composizione degli arrivi e le dinamiche dei flussi indicano come la destinazione dei migranti sia non già il singolo Stato membro, quanto l’Euro40
pa. Tuttavia, secondo quanto stabilito dal Regolamento di Dublino III, la responsabilità dell’esame delle richieste di asilo è in capo allo Stato di primo arrivo dei migranti, con una conseguente notevole pressione per gli Stati di frontiera, specie della sponda mediterranea, come l’Italia e la Grecia. Nel 2016, l’80% delle richieste di asilo si è concentrata in 4 Paesi, in testa Germania ed Italia. Da qui il 4 maggio 2016 la Commissione Europea ha sottoposto alle istituzioni europee una proposta di riforma del Regolamento di Dublino, cuore del nuovo sistema di asilo, di cui è relatrice l’eurodeputata svedese Wikistrom (ALDE). Dopo le consultazioni con i rappresentanti di alcuni governi europei, in primis Italia e Germania, ha elaborato la sua proposta insieme ai shadow rapporteurs degli altri gruppi politici, seguendo la prassi parlamentare europea. I due principali partiti della maggioranza dell’emiciclo di Bruxelles, Socialisti e Popolari, hanno designato due eurodeputate italiane, che, al netto delle naturali distinzioni politiche, hanno posto al centro della discussione il superamento del criterio del primo Paese di accesso. Il risultato è stato un testo, ora in esame in Commissione LIBE, che ha modificato in maniera radicale la proposta della Commissione, fino ad includere un regime sanzionatorio per i Paesi che si sottraggono al meccanismo di redistribuzione.
L’approvazione della commissione responsabile è attesa a novembre, per poi procedere con il voto finale nella prima sessione plenaria utile e avviare la fase più delicata della procedura: il trilogo con Commissione e Consiglio. A influenzare il buon esito della riforma sarà l’accordo tra il Parlamento e il Consiglio, l’orientamento di quest’ultimo è influenzato dalla frattura tra il gruppo Visegrad, guidato dall’Ungheria di Orbán, con una posizione nazionalista e i Paesi che si sono riuniti a Parigi nell’agosto scorso, Italia, Francia, Spagna e Germania, che sostengono una politica migratoria autenticamente europea verso un’ equa distribuzione delle responsabilità tra tutti gli Stati membri: una dinamica che influenzerà la gestione dei flussi migratori e la tenuta del progetto europeo.
health & science
BARBARA HUGONIN
La Sanità multietnica: come è cambiata l’assistenza sanitaria in tempo di migrazione La salute in Italia è un diritto. Il nostro sistema sanitario garantisce assistenza da sempre a chiunque si trovi entro i confini del Paese, senza fare alcuna distinzione di etnia, ceto sociale o condizione economica. Con il fenomeno dell’ondata migratoria l’Italia è dovuta intervenire tanto nell’assistenza primaria quanto nella continuità. Solo nel 2016 sono sbarcati oltre 170mila migranti, spesso in condizioni critiche e di sofferenza. Sono stati moltiplicati gli sforzi per garantire un’assistenza immediata ai soggetti più fragili, spesso donne e bambini, cambiando anche l’accoglienza ospedaliera, che fino a qualche anno fa non era stata ancora coinvolta fino a questo punto nel fenomeno. Il personale specializzato è stato formato per dare assistenza alla popolazione immigrata, garantire interventi d’urgenza, cure pediatriche, ginecologiche, e fornire supporto psicologico. Tra i principali problemi agli arrivi c’è la malnutrizione e lo stress post-traumatico di chi proviene da zone di guerra, ha subito torture, abusi e violenze. In particolare sono i bambini ad avere maggiore bisogno di aiuto: spesso hanno perso i genitori e non hanno ancora gli strumenti per riuscire ad interpretare la realtà che li circonda. Inoltre alcune persone potrebbero essere portatrici di patologie non frequenti nella nostra geografica (infettive, patologie genetiche diffuse in dati gruppi etnici, malattie ematiche). L’organizzazione sanitaria si sta adeguando ad esempio a fronteggiare possibili emergenze infettive che potrebbero essere presenti nelle regioni dalle quali provengono i gruppi di migranti. Secondo i dati epidemiologici della Società italiana di Medicina dei Migranti, nell’80% dei casi non viene garantita nel Paese di origine una copertura vaccinale o una che sia adeguata. In questi casi si dovrebbe procedere con un primo screening per le patologie infettive abbinato a una somministrazione di vaccini necessari (dal morbillo all’antitubecolare). Ad oggi, non viene praticato lo screening infettivologico a tappeto per poi garantire la profilassi vaccinale, l’unica strada efficace, quindi, risulta la prevenzione. Ad incidere poi sulla qualità dell’assistenza è l’insieme di abitudini e di leggi etnico- religiose che talvolta possono mettere in difficoltà gli operatori sani-
tari, ad esempio può capitare che un marito non voglia che la propria moglie venga visitata da un medico uomo, anche se in quel momento non è disponibile un medico donna. In un contesto come quello attuale, di surplus di lavoro, ciò diventa un ostacolo alla gestione della cura dei migranti e al tempestivo intervento per i casi di emergenza. Insomma, in questo caso un’ assistenza inclusiva non basta, ma entra in gioco una visione di salute globale che tenga conto non solo di fattori clinici, ma anche di ostacoli di natura ideologica, psicologica e sociale. Molto spesso i finanziamenti non bastano a garantire lo stesso livello di servizi per ognuno. Far emergere il valore di una sanità per tutti risulta difficile, in un contesto in cui si assiste a una disparità territoriale (specie tra nord e sud): lo confermano i dati ISTAT che vedono una sanità italiana a due velocità. Per quanto riguarda i migranti le criticità sono legate oltre che alla disponibilità di accoglienza ospedaliera, ovviamente anche ai costi: non tutte le regioni riescono a sostenere un progetto di accoglienza se non attraverso il sostegno continuo dell’attività di volontariato sanitario. Tutte le spese sanitarie dei migranti sono a carico dei Sistemi sanitari delle varie regioni, per questo è indispensabile un sostegno soprattutto dall’Europa, oltre che da parte dello Stato. L’ultimo stanziamento europeo pari a 58 milioni di euro a favore delle politiche sui migranti non riguarda solo le spese sanitarie e potrebbe non essere sufficiente. Al 31 Agosto 2017 ci sono oltre 196mila persone richiedenti asilo, secondo il Piano nazionale di integrazione dei titolari di protezione internazionale, voluto dal Ministero degli interni, ai quali va garantita l’esenzione dei ticket sanitari e sostegno alle fasce più fragili. A questo scopo, secondo le fonti ministeriali, l’Europa avrebbe promesso altri 100mln. per far fronte all’emergenza sanitaria. Un passo avanti è stato fatto ma ancora molto c’è da fare perché accoglienza e integrazione vadano di pari passo, e non si assista ad una lotta per la sopravvivenza tra le fasce più deboli di italiani e di migranti.
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food and furious
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Una lasagna di nome Amir
In una villa confiscata alla mafia l’associazione Villa Amantea organizza corsi di cucina per giovani richiedenti asilo Sottili canne gialle separano una delle tante villette di Buccinasco dal suo stesso giardino: la linea di demarcazione continua all’interno dell’edificio, diviso in due da un muro. Da una parte vive Rocco Papalia, boss della ‘ndrangheta tornato a casa dopo 26 anni di carcere, dall’altra ci sono dei ragazzi che hanno lasciato il proprio Paese per costruirsi un nuovo futuro in Italia. Appeso al cancello accanto alla villa del boss c’è un cartellone giallo che ricorda tutte le vittime delle mafie. È qui che vivono Amir, Hasani (nomi di fantasia) e gli altri ragazzi di Villa Amantea, insieme alla mamma-cuoca Daniela, al papà Sandro e al cane Tobia. Con loro c’è anche la “zia” Federica, una delle operatrici del centro. Nella parte confiscata alla mafia, i giovani – tutti minorenni non accompagnati – cucinano ogni giorno specialità italiane e africane. Ma per loro non è un hobby. Si chiama “La cultura vien mangiando” ed è un progetto che dà la possibilità ai ragazzi di specializzarsi nella ristorazione per cominciare una nuova vita in Italia. Se si entra nella taverna di Villa Amantea può capitare di vederli preparare i Nam e i Fataya, panzerotti senegalesi ripieni di carne e fritti. È stata la loro “mamma” Daniela a tenere il corso nella cucina della villa e poi in quella del ristorante Dongiò di Milano. In quattro mesi i ragazzi non hanno imparato solo a cucinare, ma hanno studiato le proprietà nutritive dei cibi, gli standard igienici in cucina, le tecniche di cottura e le modalità di conservazione degli ingredienti. Poi hanno fatto pratica con la preparazione della pasta e con i catering. Hanno imparato ma hanno anche insegnato le proprie tradizioni, cucinando piatti tipici del loro Paese con l’aiuto dell’insegnante. «Il corso è stato un’occasione anche per me – racconta Daniela – perché i ragazzi mi hanno fatto assaggiare cibi che non conoscevo». Nella stessa cucina hanno sfornato teglie di parmigiana e lasagne, Koshari egiziano a base di verdure e Yassa senegalese con carne e riso. Uno dei ragazzi si è talmente appassionato alla cucina italiana che poi si è specializzato nella preparazione della pasta. 44
Un altro, durante una lezione, ha detto: «Queste lasagne sono così buone che voglio chiamarle con il mio nome: Amir!». Da quel momento, spiega Daniela, le lasagne sono diventate per tutti “Amir”. La storia di uno di loro, arrivato in Italia un anno fa dal Mali, comincia – o meglio, ricomincia – proprio dal corso di cucina di Villa Amantea. Talib, 17 anni, si è lasciato alle spalle gli attentati di Daesh, è riuscito ad attraversare la Libia senza subire furti o violenze, poi ha affrontato la traversata in mare ed è arrivato in Calabria. Da lì è stato trasferito a Genova e ora prepara specialità romane al “Giulio Pane e Ojo” di Milano. «Faccio un po’ di tutto: affetto patate e pomodori, taglio carne e pesce, accendo l’acqua per la pasta. Ma la cosa che mi piace fare di più è preparare i fiori di zucca con il ripieno di mozzarella e l’acciuga dentro», racconta. Samy, chef e capocuoco del ristorante, è convinto che il ragazzo farà strada. «Talib ha tanta voglia di imparare, e se continua così tra un paio di anni potrebbe diventare cuoco», dice. In cucina ci sono i “preparatori” come lui, poi l’aiuto cuoco, i cuochi e lo chef che oltre a cucinare coordina il team e sceglie il menu. Anche Samy è arrivato da lontano: ha lasciato l’Egitto 23 anni fa e ora prepara le migliori specialità romane di Milano. Storie di culture che si incontrano grazie al cibo, ma anche storie di riscatto. A soli tre mesi dalla fine del corso di cucina, cinque ragazzi sono stati inseriti in un tirocinio, due stanno svolgendo un apprendistato e altri due hanno ottenuto un contratto a tempo determinato. Hanno un’età compresa fra i 17 e i 19 anni e vengono da Nigeria, Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Egitto e Gambia. Intanto, nella taverna di Villa Amantea i ragazzi che non hanno ancora trovato un lavoro continuano a cucinare i Fataya. Sul muro in cortile qualcuno ha dipinto il mare, con la scritta: “Bene confiscato, qua la mafia ha perso”.
lifestyle cosimo rubino
Ma-rap nostrum: Ghali & co, se la giovane Italia canta in arabo Quando si parla di Ghali, nome con cui è noto al grande pubblico il 24enne rapper italiano di origini tunisine Ghali Amdouni, la narrazione mainstream segue l’andamento classico dell’eroe dickensiano. L’infanzia difficile nella periferia ovest di Milano, l’arresto del padre, il tumore che ha colpito la madre, fino ad arrivare al riscatto sociale per un ragazzo che con il suo primo album solista ha abbattuto il record italiano di ascolti nella prima settimana su Spotify e conquistato il disco di platino con oltre 50.000 copie vendute. La storia di Ghali è diventata un modello per l’affermazione delle seconde generazioni, attestando come anche quella del rap sia diventata una nuova rotta tra Nordafrica e Italia. Già nel 1999 l’mc di origini americane Joe Cassano parlava in Dio lodato di “gente araba con me qua come Saddam/salam alekum, alekum salam”, riferendosi ai rapper Nest e Lamaislam attivi nel suo collettivo Porzione Massiccia Crew. Dall’accettazione nella scena hip hop italiana si è passati alla totale integrazione: poco più di dieci anni dopo, quella gente araba si è presa i riflettori con rapper come Karkadan, il collettivo RRR Mob e Master Sina, riusciti ognuno con le proprie specificità a riscuotere un successo trasversale. Proprio Master Sina, nome d’arte del tunisino ma residente in Italia Anis Barka, sta portando avanti un percorso complementare a quello di Ghali. Accanto a pezzi come Clandestino, che racconta il trauma del viaggio e le difficoltà di adattamento alla nuova vita, c’è spazio per
brani come Bye bye, che parla della fase successiva della sua parabola, quella del successo, con tanto di videoclip girato su yacht e macchine di lusso. Anche se è difficile parlare in questi casi di pull factor, le canzoni di Master Sina contribuiscono a creare nel suo pubblico, composto in larghissima parte da giovani tunisini, un’immagine dell’Italia artefatta e per certi versi capace di generare quell’effetto Hollywood che traina il potere attrattivo del sogno americano. Un fenomeno diverso da quelli di Ghali, che mantiene un target di riferimento di adolescenti italiani. Il rapper di Baggio colora le basi trap del produttore milanese Charlie Charles con temi fortemente autobiografici e quindi inscindibilmente legati al rapporto con le proprie origini. I suoi testi rappresentano dunque un veicolo di dialogo multiculturale in un Paese in cui, secondo una ricerca del Pew Research Forum, il 69% della popolazione ha una visione negativa dei musulmani. Non solo il singolo Wily wily, che parla esplicitamente di stereotipi islamofobici, ha raggiunto le 24 milioni di visualizzazioni su Youtube, ma anche la pagina dedicata al pezzo sul sito internet Genius che analizza i testi musicali è stata visitata già 278mila volte. Segnale che non c’è solo voglia di ascoltare, ma anche di comprendere la musica di Ghali, quasi ad assegnarle un valore didascalico. Se è vero che l’ignoranza genera mostri, la speranza è che attraverso il rap le generazioni più giovani possano conoscere meglio aspetti della cultura e della lingua araba. Anche per riscoprire in ciò che oggi ci appare come nemico, un volto con dei tratti comuni ai nostri. Quel giorno, se dovesse arrivare, potrà esserci utile ricordare quello che cantava Ghali - e che aveva già capito Joe Cassano - “Salam alekum, sono venuto in pace”.
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CINEMA marta leggio
Nuovomondo, la vera identità del cinema italiano
Nell’arco di poco più di un decennio, siamo passati dal fare cinema di emigrazione, con Rocco di Visconti o Vesna di Mazzacurati, a un cinema di immigrazione. Da Io sto con la sposa, un viaggio di disobbedienza civile fatto da palestinesi e siriani verso la Svezia, a Scontri di civiltà per un ascensore in Piazza Vittorio, con le storie di ordinaria follia in un condominio di Piazza Vittorio, fino a La giusta distanza un noir che rivela le difficoltà (del pubblico) nell’essere oggettivi nei confronti di chi prova ad integrarsi. Era il 2008, quando Emanuele Crialese stupì la Mostra del Cinema Venezia con Nuovomondo, la storia del difficile rapporto tra la terra d’origine e quella promessa, con l’immagine degli italiani di allora nelle stive della nave diretta in America. Quasi dieci anni dopo, lo stesso Festival ha accolto positivamente un film che racconta le condizioni disumane dei migranti che giungono in Italia. Andrea Segre, nel L’ordine delle cose, affronta il tema, oggi quanto mai attuale, del traffico dei migranti dalla Libia, dal punto di vista del paese d’accoglienza, mettendo al centro della storia un dirigente del Ministero degli Interni 46
italiano, impegnato a contrastare l’immigrazione irregolare della Libia post Gheddafi. Lo sguardo non è quello dei migranti, quindi, come accade per la maggior parte dei film su questo tema, ma il nostro. “Non è un film sui migranti” sottolinea Segre, “ma su di noi”. Il dirigente italiano al servizio dell’Europa si troverà infatti a dover affrontare una scelta: proseguire dritto il suo cammino verso una soluzione lenta, ma uguale per tutti, oppure usare il suo potere per salvare subito una singola persona, bloccata nelle galere libiche e in balia del traffico di esseri umani. Un film “partecipato” in quanto sono stati gli stessi migranti di origine africana, le comparse del film, a suggerire al regista come realizzare la scena in modo credibile. Il cinema di Segre mostra come il gioco non si regga su posizioni monolitiche e su facili contrapposizioni tra buoni a cattivi, vittime e carnefici. E come la questione migratoria non sia soltanto il risultato di processi geopolitici ed economici, ma abbia al suo origine scelte intime e profonde che non sempre allo sguardo esterno è possibile vedere. L’ordine delle cose mostra non soltanto il conflitto interno di chi sceglie di lasciare tutto e ricominciare, ma anche di coloro che si trovano a dover gestire i flussi all’arrivo, rifuggendo facili dicotomie tra buoni e cattivi, e restituendoci l’umanità in tutta la sua complessità.
L’ordine delle cose
Quando il fuoco incrociato di giornalismo e politica si interrompe, inizia Fuocoammare. E facendosi largo tra entusiasti e detrattori, Gianfranco Rosi ha preso posto, col suo documentario, al Dolby Theatre di Los Angeles per gli Academy Awards. Nessun altro Paese come l’Italia è stato al contempo terra di emigrazione ed immigrazione. Nessun Paese come il nostro ha prestato attenzione al tema dei flussi migratori, giocando con i vari generi cinematografici dal documentaristico al comico, mantenendo nel contempo un tono intimo e rispettoso.
il nostro dream team
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Davide Bartoccini
Carlo Cauti
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Matteo Di Paolo
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Nicolò Scarano
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Lorenzo Castellani
Antonio Carnevale
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Claudia Cavaliere
Gerardo Fortuna
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Niccolò Piccioni
Luigi M. Rossiello
The New’s Room bimestrale tematico anno 1 - numero 4 novembre - dicembre 2017 Fondatori Pierangelo Fabiano @PierangeloFab Raffaele Dipierdomenico
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Direttore responsabile Sofia Gorgoni @GorgoniSofia
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Responsabile comunicazione Sofia Piomboni (Blind Sight) Responsabile PR Stefano Ragugini Social media manager Francesco Turri Crediti Fotografici Unsplash Shutterstock Michele Amoruso Dove non diversamente specificato le immagini sono state fornite dagli autori Icone Thenounproject Stampato presso POSTEL SPA Via Carlo Spinola 11 00154 Roma Registrazione Tribunale di Roma N.68 del 6/4/2017 Informazioni e pubblicità Via Isonzo 34 - 00198 Roma t. +39 0697848156 www.the-newsroom.it/ thenewsroom@agol.it
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