Numero05

Page 1

MEZZOGIORNO intervista a Michele GuardĂŹ

STRISCIA POMERIDIANA siamo tutti il grande fratello

issue 05

bimestrale tematico novembre - dicembre 2017

LO HANNO DETTO ALLA TV La televisione ai tempi dei social network

PRIMA SERATA uno spritz con Paolo Bonolis


LA PRIMA RIVISTA SCRITTA, DIRETTA E VOLUTA DA PROFESSIONISTI

UNDER 35

Ogni numero della rivista si caratterizza per la scelta di una tematica da indagare. Lo scopo di The New’s Room è quello di offrire, in ogni sua release, un punto di vista diverso, snello e specifico riguardo ad un argomento di largo interesse. FONDATORI Pierangelo Fabiano Raffaele Dipierdomenico DIRETTORE Sofia Gorgoni DIRETTORI EDITORIALI Sara D’Agati Lorenzo Castellani

REDAZIONE Velia Angiolillo Davide Bartoccini Antonio Carnevale Cinzia Maria Caserio Carlo Cauti Claudia Cavaliere Ilaria Danesi Matteo Di Paolo Gerardo Fortuna Maurizio Franco Maria Genovesi Barbara Hugonin Marta Leggio Andrea Palazzo Niccolò Piccioni Luigi Maria Rossiello Cosimo Rubino Simone Rubino Mariastella Ruvolo Nicolò Scarano


5 7

Pierangelo Fabiano Lettera di saluto Alla scoperta di Maurizio Costanzo Sara D’Agati news del mattino

10 12

millennials news La tv è morta, viva la tv 26 #ansiadamillennials Antonio Carnevale - Claudia Cavaliere Luigi Rossiello - Sara D’Agati La politica come X - Factor 27 Match Point Lorenzo Castellani Cosimo Rubino - Maria Genovesi 29 Sarebbero stati famosi? T I T D A IG Davide Bartoccini - Sara D’Agati IF UA DÌ R

14

I Fatti di Michele Guardì Sara D’Agati

POMERIGGIO insieme

31 16 Televisão meravilhão: fenomenologia delle telenovelas brasiliane 32 Carlo Cauti 18 Il dolore, quello degli altri Cinzia Caserio - Matteo Di Paolo 34 20 Sesso? No grazie, c’è Gomorra Marta Leggio - Antonio Carnevale 36 21 L’incompreso 22 Siamo tutti Grande Fratello! 37 Ilaria Danesi - Cosimo Rubino a tavola!

24

Uno Spritz con Bonolis Sofia Gorgoni

L’hanno detto alla tv Andrea Palazzo - Mariastella Ruvolo Giornalismo d’inchiesta, incontri ravvici nanti del terzo tipo Maurizio Franco - Simone Rubino Tutti pazzi per Alberto Angela Ilaria Danesi - Niccolò Piccioni Finché il carrozzone va... Gerardo Fortuna Il talk show nell’interregno della comunicazione politica Nicolò Scarano



SCOPRI DI PIÙ SU TRENITALIA.COM OFFERTA SOGGETTA A CONDIZIONI.


“If you have built castles in the air, your work need not to be lost; that is where they should be. Now its about putting the foundations under them.” Henry David Throeau Con questo numero si chiude il primo anno di questo nuovo e ambizioso progetto. The New’s Room è nato come una scommessa, quella di lanciare un prodotto cartaceo edito e diretto da giovani, allo scopo di portare nel panorama italiano una voce nuova e diversa, che troppo spesso viene ignorata. The New’s Room è stato pensato sia come laboratorio di formazione, dove giovani giornalisti potessero formarsi all’interno di una vera redazione, – guidati da un comitato scientifico, formato da giornalisti delle più importanti testate italiane – sia come uno strumento che desse la possibilità a dei ragazzi di raccontare la realtà del Paese attraverso il loro occhi e fare agenda setting. Portare, quindi, al centro del dibattito tematiche spesso trascurate –penso a temi come il soft power, inteso come potenziamento del racconto che dell’Italia si fa all’estero o l’innovazione sociale e i progetti di riqualificazione urbana e culturale presenti su tutto il territorio – e declinarle in modo approfondito, e con uno sguardo nuovo e diverso. Innovativo è stato anche il metodo di selezione, che ha visto una call on-line, dove il requisito essenziale non era tanto il curriculum vitae o le esperienze precedenti, ma la capacità di analisi e l’originalità nella scrittura. È stata un esperienza complessa, quanto ricca di soddisfazioni. Mi ha dato modo di imparare molto di un settore, quello dell’editoria, che sta cambiando rapidamente, ma mantiene un ruolo cruciale all’interno della società, oltre all’opportunità di stare a contatto con giovani professionisti e progetti stimolanti. Tutto questo mi ha portato a voler fare un salto in avanti e rendere il progetto ancora più ambizioso e strutturato, migliorandone la qualità dei contenuti e della grafica, e dandogli un obiettivo, in termini di posizionamento, più definito e distintivo: quello, cioè, di diventare il punto di osservazione per comprendere e raccontare la realtà italiana vista dagli occhi delle nuove generazioni. A partire da Gennaio 2018, la direzione editoriale sarà arricchita da Beniamino Pagliaro (La Stampa e Good Morning Italia), che affiancherà Sara D’Agati Sara D’agati e Sofia Gorgoni nella definizione dei contenuti e della linea editoriale. La grafica sarà completamente rivoluzionata grazie all’apporto di giovani art director, illustratori e fotografi selezionati tramite una call aperta. Al fianco della redazione cartacea, ci sarà una redazione web che declinerà i contenuti anche in video. Aumenteremo la tiratura delle copie cartacee, diversificando ed ampliando ulteriormente i canali distributivi. Al Comitato Scientifico, si aggiungeranno Gianni Letta e Maurizio Molinari ed altri nomi delle principali testate Italiane. È stata una bella sfida, e ancora più ricca di stimoli è quella che ci attende. Colgo l’occasione per ringraziare di cuore i ragazzi della redazione che sono cresciuti insieme a noi in questo anno, non è mai semplice essere i pionieri di un progetto pilota, e loro ci sono riusciti al meglio, dandoci un apporto insostituibile in termini di idee ed energie. I tre direttori, che hanno disegnato i contenuti da zero e coordinato l’attività della redazione in tempi stretti e senza risparmiarsi, nonostante la ristrettezza dei mezzi, i grafici per l’ottimo lavoro svolto, e tutti i collaboratori che hanno reso possibile questo traguardo. Un ringraziamento particolare è rivolto soprattutto a chi ci ha sostenuto e ai nostri lettori. Se avete consigli o indicazioni per il prossimo anno, vi invito a scrivere, li leggerò tutti con molta attenzione. Grazie mille, Pierangelo Fabiano

5



Sara D’Agati

Alla scoperta di Maurizio Costanzo Da pontefice dell’interruzione a maestro d’empatia. Una chiacchierata con l’uomo che ha fatto la storia del giornalismo televisivo italiano. Maurizio Costanzo mi riceve nel suo ufficio in Prati. Seduto dietro un’ampia scrivania, le pareti tappezzate di foto, da Totò, Vittorio Gassman, Giovanni Falcone, Alberto Sordi, Giulio Andreotti, fino a Matteo Renzi. Alcune vecchie locandine di Cinecittà incorniciate. Di fronte, una serie schermi televisivi sintonizzati su diversi canali. Ho subito avuto la sensazione che mi scorresse davanti un pezzo cruciale della storia del nostro paese. Spesso, quando si tratta di un personaggio così noto, si arriva alle interviste con un’idea più o meno chiara di chi si va ad intervistare, che può essere confermata o smentita dall’incontro. In questo caso è stato diverso. Io, del personaggio Costanzo, non avevo un’idea predefinita. Forse perché ho fatto sempre fatica a tenere insieme i pezzi. Giornalista, con all’attivo oltre 40mila interviste a personaggi che vanno da Totò a Woody Allen, da Giulio Andreotti a Donald Trump; autore radiofonico e televisivo, ideatore e conduttore del talk-show più longevo d’Italia, che porta il suo nome; talent scout, co-autore (tra gli altri) del brano Se Telefonando di Mina, ha scritto pièce teatrali e contribuito alla sceneggiatura di film di Scola, Pasolini e Pupi Avanti. I miei ricordi della televisione, in qualche modo, iniziano con lui. Quando sono nata, il Maurizio Costanzo Show era alla già sua terza edizione, e salvo brevi interruzioni, oggi è ancora lì. Ricordo quando ho iniziato ad uscire la sera, e tornando a casa trovavo i miei in salotto sul divano a guardarlo; o di ritorno dalle gite fuori porta, a volte ci fermavamo in quei ristoranti di passaggio dove si fa tappa prima di ripartire, e lo vedevo trasmesso in quelle televisioni vecchio stile appese al lato della sala. Per noi nati negli anni ottanta, Maurizio Costanzo, in qualche modo, c’è sempre stato. La prima cosa che avrei voluto chiedergli, è cosa si prova ad avere uno show che si chiama con il proprio nome. Forse è qualcosa a cui ci si abitua, e diventa normale, come tutto il resto. In ogni caso non sono riuscita a chiederglielo, perché la prima domanda l’ha fatta lui a me. Mi ha chiesto se fossi pugliese, gli ho risposto che lo era mio padre, mi ha detto che la Puglia gli piaceva moltissimo e che Lecce è una della città in Italia che ama di più. Poi di domande me ne ha fatte altre, sembrava sinceramente interessato, e io in pochi istanti ho dimenticato di trovarmi di fronte all’uomo che è anche uno show, che ha ideato il personaggio di Fantozzi e scoperto, tra gli altri, talenti televisivi come Dario Vergassola, Giobbe Covatta, Enzo Iacchietti e Daniele Luttazzi. Ero a mio agio, e senza che me ne accorgessi, mi sono ritrovata a parlare di me. Allora ho capito che la particolare tecnica d’intervista che attribuiscono a Costanzo, che gli è valsa l’appellativo di “pontefice dell’interruzione” -perché riesce “a far dire; a far seguitare la conversazione e il ragionare, inframmezzandosi al discorso altrui e allo stesso tempo rendendolo possibile”- in realtà non è una tecnica, ma un modo di essere. Così gli ho fatto la prima domanda, di cui avevo già compreso la risposta. Qual è il segreto del suo successo? So ascoltare. Tutti quanti non vogliono altro che essere ascoltati. E non si tratta soltanto di ascoltare in modo superficiale, ha a che fare più con la capacità di vedere le persone per come sono. 7


Qual è il ruolo della televisione oggi, secondo lei? È ancora rilevante come quando ha iniziato? La TV resta indispensabile, ma guarda ad un target sempre più elevato, in termini di età. La media del pubblico RAI ha oltre quarant’anni, e trova un picco nelle donne over 65. Quello di Canale 5 è un pubblico più giovane, con picchi per particolari programmi, in primis i talent. Direi che la televisione è in una fase di consolidamento, resta centrale per molti. Di recente, la replica della prima puntata di Montalbano ha raggiunto i 6.5 milioni di telespettatori, una cifra sorprendente, tenendo presente si trattava di una replica. Quanto alla qualità dei programmi, gli investimenti sono minori oggi di trent’anni fa, e questo espone al rischio di prodotti meno ricchi. Parlando di qualità. Il suo show è stato una fucina di grandi talenti televisivi, oltre a quelli già citati: Vittorio Sgarbi, Ricky Memphis, Valerio Mastrandrea. Come si fa a scovare un talento televisivo? Ancora una volta, bisogna saper ascoltare, seguire con attenzione quello che accade nel mondo fuori, sondare gli umori. I cabaret, per alcuni sono stati un trampolino di lancio, per altri è valso il passaparola. Quando il programma andava in onda tutti i giorni, la mia troupe era sempre in giro in cerca di nuovi personaggi, poi me li segnalava, e io li testavo in tv. Se funzionavano, era fatta. Quali sono i volti televisivi che ha scoperto di cui va più fiero? Enzo Iacchetti, ma anche Giobbe Covatta. E adesso? Adesso che il programma non va più in onda tutti i giorni, funziona diversamente, abbiamo meno bisogno di fare scouting. Lei crede nella funzione pedagogica della televisione, o piuttosto la vede come uno specchio della società, senza alcuna funzione di indirizzo? La televisione, se fatta bene, può e deve aiutare a riflettere. Ma io non ho mai avuto l’ambizione di educare il pubblico. Stimolare delle riflessioni, quello si. Lasciato a se stesso, il rischio è che il pubblico faccia scelte poco edificanti. Penso all’interesse morboso per la TV del dolore, ad esempio, o per la cronaca nera. Perché, secondo lei, trasmissioni che mettono in piazza il dolore e la brutalità altrui, hanno tanto seguito? Perché attivano sentimenti istintivi, elementi inconsci che fanno parte di ciascuno di noi, e che teniamo nascosti nel profondo, repressi. Assistere al dolore degli altri, in qualche modo, ha una funzione catartica. Quanto alla rabbia, e alle risse in televisione, la prima è scoppiata durante un mio programma, poi sono stato io stesso a chiedere che non accadesse più. Non ho più voluto risse nella mia trasmissione. E il suo programma preferito, oggi? Seguo sempre “Chi l’ha Visto”. Qual è la prima immagine che le viene in mente pensando alla televisione? ‘Lascia e Raddoppia’ di Mike Buongiorno. Tu non eri neppure nata, ma è stato un format rivoluzionario. Tornando al tema dei giovani, lei realizzerebbe oggi un format televisivo rivolto soltanto ai giovani? Probabilmente no. I giovani oggi sono attirati altrove, non guardano molto la televisione. Eppure una cosa mi ha stupito molto: dai dati relativi allo share del Maurizio Costanzo Show, è emerso che è molto seguito dalle ragazzine tra i 14 e i 17 anni.

8


E come mai? Non ne ho idea. I talent, invece, continuano ad essere estremamente attrattivi per i giovani. Come mai, secondo lei? Perché regalano un sogno. Quello di potercela fare. Gli chiedo se non sia pericoloso, se più che un sogno non si riduca, di fatto, ad un’ illusione. È un’ occasione, un punto di partenza, per molti. Ma dall’impegno, dal duro lavoro e dalla fatica non si scappa. E neppure dalla sofferenza. I giovani devono imparare a non aver paura dei fallimenti e della sofferenza. Lei ne ha incontrati, di fallimenti? Certamente. Tutti ne abbiamo incontrati, è la vita. E qual era il suo sogno, da ragazzo? Fare il giornalista. E ci è riuscito” dico io, mentre penso a quanto appaia riduttivo definirlo soltanto un giornalista. Avrebbe mai immaginato di avere un programma che porta il suo nome? Si mette a ridere e non mi risponde. Capisco che l’intervista è finita, e che si sarebbe comunque divertito molto di più a farla lui a me, interrompendomi ogni tanto, inframmezzandosi al mio discorso, e allo stesso tempo rendendolo possibile.

9


LA TV È MORTA, VIVA LA TV Muoiono i “contenuti” ma non il “contenitore”, che i millennials utilizzano insieme ad una moltitudine di altri schermi. Parola d’ordine? Condivisione Antonio Carnevale - Claudia Cavaliere

“Lo ha detto Facebook”. Basterebbe questa affermazione a riassumere quello che è un trend sempre più evidente. Internet ha sostituito la TV? Non proprio, ma oggi sono i blogger, gli youtuber, gli influencer a dettare tendenze e nuovi miti. I Millennials sono quella generazione seduta a cavalcioni tra due secoli che si porta dietro gli usi e i costumi di un tempo e che va verso un nuovo modo di condividerli. Vissuti in un periodo di transizione, sono in grado di alternare (o di usare contemporaneamente, da buona generazione multitasking) strumenti analogici e digitali. Ma, come dicono quelli bravi, la loro “dieta mediatica” è totalmente diversa da quella delle generazioni precedenti. La TV non rappresenta più il centro del loro mondo (e del loro immaginario), ma sono internet e i social in particolare a orientare le scelte. “La TV è morta”, mi ha confidato Giulio, 24 anni da Roma. “Davvero? Io non credo”, rispondo secco. Del resto, a quanto pare, i dati rivelati da uno studio Nielsen raccontano di una nuova centralità della televisione. Ma, in realtà, sto barando. E lo sa anche Giulio. “Certo che la guardo – ammette – ma nel frattempo commento il programma su Twitter e chatto con gli amici su Facebook”. È proprio questo il punto. È proprio questo il punto. Il 62% dei giovani utenti guarda i programmi tv per poi poterne discutere. Ecco perché, mentre lo fanno, il 66% naviga su internet e il 58% è sui social. Per i Millennials infatti, i social network sono diventati un aggregatore sociale e una piattaforma di incontro e condivisione di opinioni. Tweet al vetriolo sull’ultima puntata del Grande Fratello, gruppo WhatsApp per commentare i nuovi corteggiatori di Uomini e donne, mamma che scrive su Messenger “Come stai? Dove sei? Con chi sei?” mentre guarda Chi l’ha visto?. Non solo. Interazione e condivisione in tempo reale trovano spazio anche sulle chat private come Whatsapp (42%) e Messenger (18%). Per confrontarsi e commentare i programmi, ma anche per decidere cosa guardare in 10

Tv. “Tuo padre si sentiva importante col telecomando in mano - mi dice Giulio, puntandomi con l’indice mentre il pollice continua a scorrere sul display del suo iPhone (come farà?) – io invece faccio tutto con lo smartphone”. E anche stavolta non posso dargli torto.

Fino a pochi anni fa il telecomando era ancora il simbolo del potere familiare. Ora anche lo zapping è diventato social. E Facebook ha mandato in pensione pure Tv Sorrisi & Canzoni e il televideo. Circa il 70% dei Millennials infatti, sceglie cosa vedere sulla base dei suggerimenti letti on line prima dell’inizio del programma e oltre il 60% lo fa a programma già in onda. “E poi io dal mio smartphone guardo anche la tv”. Bingo! Quello che per i nostri genitori era uno strumento imprescindibile del focolare domestico, può essere oggi facilmente sostituito da una miriade di schermi diversi. E sul telefono i giovani non guardano la tv generalista. Guardano Netflix, Apple TV, Amazon Video, You Tube. “Ma tu puoi anche guardare gli stessi show sulla tua Tv di casa - rilancio. “Certo, se collego il pc o lo smartphone – non lo frego mica! – Che volevi che guardassi, Domenica In?”. “In effetti…”. Il punto è che televisione e televisore sono ormai concetti definitivamente separati. C’è il televisore – un semplice schermo che può assumere mille forme diverse grazie a pc, console e smartphone - e poi ci sono i contenuti, sui quali (“finalmente”, chiosa Giulio) - gli utenti hanno il massimo controllo.


news del mattino

Quello che caratterizza oggi i nati tra il 1979 e il 2000 infatti, è il desiderio di guardare in differita i loro programmi preferiti. Non è più la Tv a scandire gli appuntamenti della giornata dettando il proprio menu, con il TG a pranzo, “La vita in diretta” a merenda e Striscia la Notizia “per” cena. “Siamo noi i padroni della nostra programmazione!” Quindi non è vero che si guarda meno Tv. Tutt’altro. Si guarda una Tv diversa, più personale. I Millennials viaggiano così veloci e sono talmente capaci di superare l’etere del multitasking da benedire nelle programmazioni in differita l’assenza dei 5 minuti di pubblicità. E poi voglio incidere nelle scelte, commentare e far capire a tutti cosa gli piace e cosa no. Altro che Auditel! In più, amano condividere, anche creando dei piccoli gruppi d’ascolto in famiglia, con gli amici, oltre che sui social. Vogliono fare tutto, ovuqnue. Ma sono cambiati anche i contenuti, che vengono ormai prodotti con la logica di essere veicolati in modi e su dispositivi diversi. Pensiamo alle serie Tv. Questi prodotti seriali sono in assoluto gli show più visti (Game of Thrones, su tutti). “La cosa migliore è fare binge watching”, ammette Giulio. Del resto lo fa il 62% dei Millennials. E non si tratta di una pratica erotica particolare, ma semplicemente della tendenza a “divorare” una serie televisiva in un’unica giornata. Impossibile aspettare una settimana, meglio vederla tutta d’un fiato. Anche a pagamento. I Millennials infatti, risultano essere maggiormente disposti a pagare per la visione di contenuti video online

e time-shifted rispetto alle generazioni precedenti. Pagano Netflix e guardano programmi di intrattenimento e serie tv su smartphone (6,6 ore a settimana), sul pc al bar (il 23%) o mentre sono in viaggio (24%). Mi gioco il jolly. “Ma se devi pagare per vedere la Tv è come pagare per la pay Tv”. Tentativo disperato. Giulio mi guarda perplesso: “Ma guarda che io condividono il mio account su Netflix con i miei amici e pago una sciocchezza”. Ecco. Mentre i cosiddetti Baby Boomers per risparmiare non rinnoverebbero l’abbonamento ai canali TV a pagamento (e non vogliono pagare il canone Rai neanche sotto tortura), i Millennials si uniscono - del resto, sono economicamente più deboli dei loro predecessori e, forse anche per questo, sono la generazione più favorevole alla sharing economy – per godere di uno spettacolo qualitativamente superiore. È vero, è possibile che il proliferare di questi servizi - Netflix, Amazon e così via - possa portare in futuro a una moltiplicazione dei costi da sostenere per poter fruire di più abbonamenti e seguire i propri programmi preferiti. Ma questo a Giulio non lo dirò. Sono sicuro che lui avrebbe già in mente la soluzione. E poi, ora ho le risposte che mi servivano. Più schermi, più contenuti, più controllo. Sono queste le chiavi che hanno portato ad un aumento dei tempi di fruizione del mezzo televisivo. Di certo dunque, la Tv non è morta. Ma la nostra “dieta mediatica” è definitivamente cambiata.

BINGE WATCHING

È BEN IL

SONO

divorare una serie televisiva in un’unica giornata

dei giovani che naviga on-line mentre guarda la TV

quelle trascorse a settimana guardando on-line serie tv e programmi

OVVERO 66%

6,6 ore

11


news del mattino

Lorenzo Castellani

La politica come X-Factor Così diversi eppure così simili Cosa c’è in comune tra la politica e X Factor? A prima vista poco, da un lato le mediazioni noiose, le promesse serie, personaggi ingessati, goffi, improbabili che cercano di guadagnare consenso districandosi tra giornalisti, talkshow e beghe di partito, dall’altro giovani talenti musicali che cercano un posto al sole nel vasto e complicato mondo dello spettacolo. Eppure, la politica è così cambiata negli ultimi due decenni che la costruzione di un leader politico sembra essere drammaticamente simile a quella di un’artista che vuole sfondare sul mercato. Entrambi hanno due elementi in comune: essere presenti sulla scena mediatica e convincere gli altri che le propri idee (o meglio la propria voce) sia buona. Certo, si opterà che chi canta deve intercettare i gusti del pubblico, mentre chi fa politica… pure. Già perché la politica è sempre meno agorà, piazza della discussione pubblica, e sempre più mercato, commercializzazione di persone e slogan. Se prima contavano organizzazione, clientele, presenza sul territorio e relazioni internazionali oggi il leader politico non può sopravvivere senza addetto stampa, social media manager e trovate capaci di tenere sempre proiettata l’attenzione su di sé. Come i giovani concorrenti di X-Factor essi vengono messi alla frusta dai giudici, che nel caso del politico sono giornalisti, opinionisti, magistrati e via dicendo. Per i politici quanto per gli aspiranti cantanti quando conta, siano elezioni o il tilt del talent show, è il pubblico a decidere chi resta in gara. Cioè, nel caso della politica, chi resta al governo o in parlamento e chi invece viene mandato a casa. Prendete i più giovani leader politici italiani, come Renzi, Salvini e Di Maio, in tutti e tre i loro percorsi troverete la ricerca di uno stile, una narrazione personale. Quante volte avete sentito un tenebroso Manuel Agnelli rimbrottare i concorrenti di X-Factor dicendo “devi crearti uno stile più personale?”. Personalizzazione è la parola chiave della politica contemporanea, non solo della musica. Per cui la celebrità può diventare politico, è il caso di Silvio Berlusconi o Beppe Grillo, oppure è il politico a diventare celebrità. Per dirla con Marco Damilano è l’avvento della “repubblica del selfie”. D’altronde un leader politico non fa meno storie Instagram di Fedez e non rinuncia, proprio come il rapper milanese, a fare della propria paternità un evento mediatico, è il caso del leader pentastellato Alessandro Di Battista. 12

Non solo, ma i concorrenti di X-Factor e la nuova generazione di leader politici ha anche in comune la regola delle montagne russe. Cosa significa? Che ascesa e caduta possono essere estremamente repentine. Quante volte è capitato ai musicisti del talent di essere in vetta per preferenze del pubblico la prima puntata ed essere sommersi da fischi e insulti due mesi dopo? Se prendiamo alcune carriere politiche possiamo vedere un andamento simile con passaggi dal gradimento altissimo al vero e proprio oblio mediatico. Il supporto della folla social che twitta, mette mi piace o dispensa cuori su Instagram è fondamentale tanto per i concorrenti del talent quanto per i leader politici. Le probabilità che un politico vinca le elezioni vengono stabilite anche dall’analisi delle interazioni social che questo riesce ad avere con il pubblico, le probabilità di vittoria del musicista a X-Factor… pure. La politica, come si può notare da questi esempi ironici ma non troppo, si è sempre più spettacolarizzata tanto che oggi il politico vive con l’i-pad in faccia e il polso dei social sotto mano. Lo stesso vale per l’artista. Per usare una metafora De Andre stava a Berlinguer come Fedez sta a Salvini. I destini dei due sono così legati a livello social e pop che lo stesso rapper milanese cita il leader leghista in una delle sue canzoni di maggior successo. Come dimenticare quel “Salvini sul suo blog ha scritto un post” in Vorrei ma non posto? E come non ricordare i video del leader del carroccio che in spiaggia balla e canta “col trattore in tangenziale, andiamo a comandare” di Fabio Rovazzi? Oppure le canzonette pop mandate da Matteo Renzi in diretta nazionale alla Leopolda e alle assemblee del PD? A testimonianza di come la comunicazione sia davvero il grande vettore di trasformazione del secolo capace di travolgere ogni confine, incluso quello tra arte e politica. E’ la postmodernità fluida, quel profluvio di informazione, interazione e disintermediazione che ha cambiato tutto: musica, politica e persino la televisione. Oramai non esistono più dei programmi televisivi, ma un’esperienza di interazione multimediale tra partecipanti, conduttori e pubblico social. Così come non esiste più la politica, nel senso novecentesco del termine, ma il racconto della politica, come vita dei leader politici e del proprio brand. Una storia a colpi di tweet, felpe, telecamere, Instagram e canzoni. Così diversi eppure così simili.


IL GIOCO PUÒ CAUSARE DIPENDENZA PATOLOGICA

IL GIOCO È VIETATO AI MINORI DI 18 ANNI


ATTI DI G IF U

A R DÌ

Sara D’Agati

I FATTI DI MICHELE GUARDÌ L’autore per eccellenza, Michele Guardì ha realizzato format come Domenica in, Scommettiamo Che, Uno Mattina, Papaveri e Papere e i Fatti Vostri. Pilastro della televisione Italiana, è noto, tra le altre cose, per essere allergico alle interviste. Noi di The New’s Room siamo riusciti ad incontrarlo, gli abbiamo chiesto della televisione di ieri e di oggi, e ci siamo ritrovati a parlare della vita Molti lo conoscono per la voce fuori campo con cui, durante la diretta de “I Fatti Vostri”, la sua creatura più longeva, parla a conduttori e cameramen con lo pseudonimo de il comitato. Siciliano, debutta come autore televisivo per la RAI nel 1977 con Pippo Baudo, nel 1980 porta il varietà in Italia con Giochiamo al Varieté e cinque anni dopo è tra gli autori di Domenica in, il primo “programma a fiume”, nato come misura di austerity in seguito ai rincari petroliferi, per dissuadere gli Italiani dalla gita in macchina della domenica e tenerli a casa incollati allo schermo. Un pezzo di storia italiana, quella attraversata da Michele Guardì, che raggiunge il culmine con l’ideazione nel 1990 del contenitore del mezzogiorno per eccellenza: I Fatti Vostri, con cui porta in televisione la piazza italiana, e le storie di vita di persone più o meno note. Un’ avventura che dura ancora oggi e, dopo quasi trent’anni, riesce ad intercettare il pubblico e portare ascolti record in una fascia oraria tutt’altro che semplice. Dopo tanto tempo, non si è stancato de I Fatti Vostri? I Fatti Vostri è una piazza, ogni giorno si raccontano cose diverse, si segue la normale evoluzione della vita. Lei si stanca di andare in piazza la mattina a fare due chiacchere al bar? L’evoluzione normale delle cose non può stancare, è questa la sua forza. I Fatti Vostri resiste perché racconta la vita per quello che è, e nel suo mutare quotidiano. Se pensa che nel primo anno di diretta, mi ostinai ad ospitare in trasmissione un transessuale, ricevendo critiche da ogni lato, può immaginare. Oggi vedere un transessuale in televisione è diventato normale, non stupisce più nessuno. È questa l’evoluzione di cui parlo, e di cui la televisione è uno specchio. Anzi, una polaroid: che all’istante ti regala l’immagine di quello che sta accadendo. 14

Quindi la televisione non ha un ruolo di guida, di indirizzo per la società? Io non ho mai la pretesa della guida. Diffido di chi vuole insegnare agli altri, nella mia esperienza sono sempre coloro che hanno più bisogno di imparare. Lei è noto per essere un uomo che comprende il pubblico. Per questo non ha mai sbagliato un colpo. Il suo pubblico lo ha mai stupito? Direi di no. Io mi pongo sempre dalla parte del pubblico. Prima di realizzare una trasmissione, o una singola puntata, mi chiedo sempre: “Ma io la guarderei questa roba?”, se mi rispondo no, allora non la faccio. Quando durante una puntata mi accorgo che mi sto annoiando, so già che gli ascolti saranno più bassi. E accade sempre così. Non mi ha mai stupito il pubblico, quindi. Mi ha gratificato semmai. Quando feci Papaveri e Papere, fu una scommessa, la mattina dopo mi svegliai ed aveva fatto ascolti record. Me l’aspettavo, ma ricordo la soddisfazione. A proposito di ascolti record. I giovani guardano sempre meno la tv. Se lei dovesse ideare un format per giovani oggi, che programma scriverebbe? Se decidessi di farlo, come prima cosa, chiamerei un gruppo di giovani e me li metterei al fianco. Mi confronterei con loro, cercando di capire cosa vogliono, per costruire insieme. Il confronto generazionale è fondamentale per tirare fuori idee valide. Giovanna Flora e Rori Zamponi, le due autrici dei Fatti Vostri con le quali collaboro da quasi trent’anni, quando hanno cominciato erano delle ragazze. Con loro mi sono confrontato, e mi confronto tutt’ora proprio per trovare il raccordo tra la mia generazione e la loro .


ATTI DI G IF U

Un format che resiste tra i giovani, effettivamente, c’è: il Talent. Cosa ne pensa? I talent qualche volta sono pericolosi perchè possono creare illusioni. Possono lasciar credere che basti parteciparvi per avere successo immediato e duraturo, bisognerebbe scrivere nei titoli di coda: : “Attenzione, può gravemente alterare i sogni”. Proprio come si fa con i pacchetti delle sigarette. La prima immagine che le viene in mente quando pensa alla televisione. Mi viene in mente il circolo culturale di Casteltermini in Sicilia. Era il circolo nel quale ci riunivamo dopo il 1956, davanti a uno dei primi televisori arrivati in paese. Guardavamo insieme i primi programmi. Una sera, mentre trasmettevano il Musichiere che andava in onda dallo studio un di via Teulada mi lasciai scappare: “Un giorno in quello studio ci farò i miei programmi.” Avevo poco più di tredici anni. Mi guardarono tutti con pietosa aria di condiscendenza. Sono ventisette ani che da quello studio va in onda ogni giorno I fatti Vostri. Che insegnamento si può trarre, da questo? Che mentre da un lato non ha senso illuderli, dall’altro non è giusto togliere i sogni ai ragazzi. Se a casa mi avessero detto: “Tu sei matto. Lascia stare”, oggi forse non sarei qui. Quando i genitori di ragazzi vengono e mi dicono “Mio

A R DÌ

figlio vuole fare il regista, l’attore,il cantante. Glielo dica lei di lasciar perdere. Io rispondo sempre che non posso farlo. Poiché sono l’esempio vivente che se ci si impegna a fondo, e con un p di fortuna, le cose possono andare per il verso giusto. Da giovane di provincia mi sono visto sbattere in faccia diverse porte, eppure ce l’ho fatta. Quindi rischia di essere una scusa, il mantra che per noi giovani oggi è tutto più difficile? Negli anni venti tra i teatranti era in voga una macchietta che si intitolava: La Crisi. Lamentava la crisi dell’economia, il lavoro che mancava, la sanità al collasso. Lo stesso testo, oggi, calza alla perfezione. Ogni generazione vive più o meno le stesse difficoltà. Quando cominciai a bussare alle porte della RAI, c’erano già fior fiore di autori. Ricordo una funzionaria che senza tanti complimenti mi liquidò dicendomi che non c’era bisogno di me. Poi arrivò Pippo Baudo che aveva visto uno spettacolo firmato da me e da mio cugino Enzo Di Pisa, e ci portò a Milano per una trasmissione legata alla lotteria Italia. Si chiamava Secondo voi: Che consiglio vuole dare, ai giovani? A chi vi dice: “Ascolta me, dai retta a me, te lo spiego io come funziona. La vita segue regole e riserva sorprese che nessuno è in grado di prevedere.

15


POMERIGGIO insieme

Carlo Cauti

televisão meravilhão: fenomenologia delle telenovelas brasiliane “Una singola telenovela è più importante di tutto il cinema brasiliano”. Così Silvio Eduardo de Abreu, attore, regista, ma soprattutto sceneggiatore di telenovelas brasiliane, ha definito la centralità della telenovela in Brasile. E ha perfettamente ragione, sia sotto il profilo del pubblico, che dei costi, che per la qualità delle produzioni ma, soprattutto, per l’impatto che una telenovela ha sulla società e sulla cultura brasiliana. Queste soap opera a puntate, infiniti polpettoni strappalacrime, scandiscono non solo le giornate televisive locali, dato che su tutti i canali dalle 17:00 alle 22:00 sono trasmesse solo telenovelas. Ma, data la loro lunghezza, puntellano anche le stagioni dell’anno al di sotto dell’Equatore. Arrivano a cadenzare la vita del brasiliano medio, che scandisce la propria storia sulla base due eventi: le coppe del mondo di calcio e le telenovelas più famose. Ogni sera, religiosamente, 130 milioni di brasiliani di tutte le razze, età e ceti sociali, si fermano, si accomodano sul divano con parentela al seguito, e si sorbiscono almeno un’ora di sceneggiato. E questo vale per i più morigerati. Perché buona parte del paese segue contemporaneamente almeno 3-4 telenovelas a stagione, trasmesse da diversi canali. I network locali ne sono perfettamente consapevoli, e per questo scatenano una guerra senza limiti per accaparrarsi l’attenzione dei telespettatori. Non a caso, nelle telenovelas brasiliane succede di tutto: intrighi familiari, lotte per il potere, figli che spuntano come funghi, ondate di corna, omicidi efferati (di solito per coprire i tradimenti o sbarazzarsi dei figli), gente drogata, alcolizzata o ludopatica e, recentemente, anche relazioni gay e operazioni chirurgiche per cambiare sesso. Insomma, una bolgia di umanità varia, che in settimane di rimasugli emotivi ne combina di tutti i colori, ma con rigorosamente un lieto fine. Per il bene del tasso di suicidi in Brasile, che altrimenti dopo mesi di sberle catodiche schizzerebbe alle stelle. Tivvù responsabile. Le telenovelas sono nate insieme alla televisione brasiliana, negli anni ’50, e hanno non solo accompagnato la storia, la cultura e la società del Brasile, ma le hanno spesso influenzate e determinate. Se la RAI del maestro Manzi e dei Promessi Sposi ha unificato linguisticamente l’Italia nel dopoguerra, le telenovelas, principalmente quelle della Rede Globo – potentissimo conglomerato mediatico brasiliano – hanno fatto molto di più. In settant’anni hanno plasmato il gigante latinoamericano. Hanno imposto stili di vita, reso

16

il Brasile “Rio-de-Janeiro-centrico” dato che gli studios sono quasi tutti nella città carioca, stabilito mode nel vestiario, come i bikini microscopici, piercing o tatuaggi, comportamenti familiari (spesso negativi), dettato il dibattito pubblico sulla stampa e persino orientato la politica. Ad esempio, sono state trasmesse telenovelas più leggere durante la dittatura militare, appoggiata dalla Globo, e più “impegnate” durante i governi di Lula e Dilma Rousseff, osteggiati dalla Globo. Gli argomenti trattati, come aborto, anoressia, violenza domestica o temi LGBT, sono stati ripresi dalla stampa locale il giorno dopo la messa in onda degli episodi. Come se i giornalisti fossero davanti alla TV col taccuino in mano. E, addirittura, telenovelas hanno modificato il modo di vivere dei brasiliani. Uno studio del Banco Interamericano di Sviluppo (IDB) del 2009 ha mostrato un picco di divorzi in Brasile dopo la messa in onda dell’ultimo capitolo delle soap trasmesse tra il 1965 e il 1999 (colpa delle solite corna). Insomma, le telenovelas sono il motore della storia brasiliana. Ciò che è notevole, tuttavia, è il successo planetario di questo format televisivo. Evidentemente corna e travestiti non sono una peculiarità brasiliana, perché le telenovelas verde-oro sono trasmesse in 130 paesi. Il più importante prodotto di esportazione della bilancia commerciale brasiliana. La parziale spiegazione è che le soap brasiliane sono qualcosa di speciale, molto peculiare e completamente diverso da ciò che si vede nel resto dell’America Latina. Le telenovelas hanno introdotto realismo, integrato la vita quotidiana di persone in modo quasi giornalistico. Un melodramma che si è evoluto, abbracciando la realtà del popolo. Il Brasile, in sostanza, plasma la sua cultura e racconta la sua società usando le telenovelas, che ormai sono parte integrante del patrimonio nazionale. I più colti (o snob) obietteranno che in Italia abbiamo fatto lo stesso col neorealismo, con Pasolini o con Moretti. Ma quello brasiliano non è un modo sbagliato di mostrare la realtà, è semplicemente diverso. E forse, considerati i numeri del successo, anche più efficace. Perché, come disse Roberto Marinho, patron della Globo, “Balzac ha prodotto la cronaca della vita, della cultura del popolo francese. Perpetuandola. È quello che, modestamente, cerchiamo di fare con le telenovelas qui in Brasile”.



POMERIGGIO insieme

Cinzia Caserio - Matteo Di Paolo

il dolore, quello degli altri

Breve viaggio nella TV del dolore tra plastici, giornalisti invadenti e ospiti e conduttori dalla lacrima facile.

“Mario era un ragazzo basso”, “Mario era magro e aveva gli occhi castani”. È la parafrasi di Maccio Capatonda, nel suo nuovo film Omicidio all’italiana, del classico “Mario era una brava persona, salutava sempre”. Ma è molto di più. Tra dirette giornalistiche in cittadine dai nomipiù strani, da Schiattasogliole sul Marmo ad Acitrullo, con abitanti grotteschi sottoposti ad interrogatori tragicomici e reporter invadenti che scandagliano nel passato delle vittime con tanto di sondaggi sul presunto movente, il comico ha portato in scena la versione caricaturale della tv del dolore. Ciliegina sulla torta, il sindaco di Acitrullo, che decide di inscenare un omicidio pur di far comparire lo sconosciuto paesino in diretta televisiva dalla Dott.ssa Spruzzone, conduttrice di un rinomato programma costruito intorno a sciagure ed omicidi. Paradossale, si, ma quanto lontano dalla realtà? Una volta era guardare il Grande Fratello. Oggi – ammettiamolo – tra le cose che si fanno ma non si dicono c’è la sintonizzazione, rituale e un po’ catartica, su determinati programmi televisivi che trovano il loro comun denominatore in un elemento fluido che trascende confini e distinzioni; adattabile, capace di prendere la forma del contenitore (televisivo) in cui si trova, inodore e insapore come l’acqua o, meglio, come le lacrime. È il dolore, quello degli altri. A suo agio nei talk show, nei telegiornali e negli approfondimenti del pomeriggio e della sera, il dolore tiene attaccati allo schermo ad ascoltare storie e frugare tra le immagini di tragedie pubbliche e private. Terremoti, violenze domestiche, genitori e figli che si perdono per anni e poi si ritrovano sotto i riflettori, tra le lacrime e gli applausi generali, omicidi mai risolti che ingombrano telegiornali e trasmissioni prestan-

dosi a ricostruzioni e ipotesi di ogni tipo, fino ad arrivare al famigerato plastico, manifestazione ultima del processo mediatico, che più non trova soluzione, più appassiona. Fino a dar vita a nuovi idoli dell’orrore, veri e propri fenomeni televisivi che dividono tra chi li vuole colpevoli e chi candidi come agnellini.

Ma cosa c’è di così attraente, nel dolore degli altri? Siamo tutti alla ricerca di una catarsi, come nella tragedia greca; o lo facciamo per pura, morbosa curiosità, per quel desiderio che tutti abbiamo di spiare dal buco della serratura? Oppure c’è qualcosa di più profondo che permette, attraverso le orribili azioni altrui, di stimolare quel lato nero che ciascuno ha ma tiene nascosto? E qual è il confine, in questa continua spettacolarizzazione della tragedia, tra ciò che consideriamo accettabile e ciò che invece non lo è? Non ci si limita alle singole notizie di cronaca nera ma ogni storia occupa intere maratone televisive in cui si alternano esperti o presunti tali, parenti, amici, vicini, zoom aggressivi verso una casa, una finestra, un cancello accompagnati da sottofondi musicali degni del peggior Dario Argento. Esiste un limite alla crescente mediatizzazione dello strazio privato? Quanto più in là è lecito andare, a vantaggio dello share? Interrogativi, questi, che vale la pena porsi. Poiché dalla televisione del dolore, nessuno di noi è immune.

La tragedia privata sbarca in TV È il 1981 quando il piccolo Alfredino, sei anni, cade in un pozzo a Vermicino, nei pressi di Roma. Seguono 18 ore ininterrotte di diretta Rai dei soccorsi, con interventi in tempo reale di parenti, forze dell’ordine, e curiosi accorsi sul luogo della tragedia. Nel periodo della diretta succede di tutto: dai centralini della Rai che vanno in tilt nei pochi minuti in cui la trasmis18

sione viene momentaneamente sospesa, all’inviato Piero Badaloni che si scioglie in lacrime di fronte alle telecamere, all’arrivo a sorpresa del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Era nata la tv del dolore, e il caso di Alfredino è divenuto un vero e proprio caso di studio entrato nei libri di comunicazione e nella cultura popolare attraverso canzoni, film e piece teatrali.



POMERIGGIO insieme

Marta Leggio - Antonio Carnevale

sesso? no grazie, c’è gomorra Serie tv is the new mal di testa

Cambiano le abitudini di coppia dei millennials, che preferiscono passare la serata a guardare la terza stagione di Stranger Things, piuttosto che avere rapporti sessuali

Siamo tutti pazzi per le serie tv, non è una novità. A pagarne le conseguenze: il sesso. Se negli anni sessanta, infatti, questo era divenuto il simbolo della rivolta generazionale, e negli anni ottanta e novanta era un elemento centrale delle notti “giovani”, oggi i millennials ne fanno sempre meno. Uno studio della San Diego State University rivela che negli anni ’90 in media i giovani americani avevano oltre 60 rapporti l’anno, oggi meno di 50. Colpa della miriade di chat e app di incontri virtuali, che canalizza fino ad anestetizzare certi impulsi sessuali. E ovviamente, delle maratone di serie tv in streaming, che distolgono sempre di più dal tempo da dedicare all’altro, e ritardano progressivamente il momento di andare “a letto”. Il consiglio così caldamente ripetuto da parte dei nostri genitori di “non stare sempre davanti al computer” ha oggi un risvolto quasi paradossale: i giovani non sono più interessati al sesso, e gli unici ad aver aumentato la media dei rapporti sessuali annuali, passando dalle 9 volte di 25 anni fa alle 11 di adesso, sono gli over 70. Dopotutto le repliche de La signora in giallo vanno avanti oramai da troppo tempo.

LA VERSIONE DI LEI Per noi ragazze non è facile approcciarsi all’amore dopo che abbiamo appurato che c’è sempre qualcuno che muore a fine stagione (Dawson’s Creek), che i partner non fanno che tradirti con la tua migliore amica (Gossip Girl) e che la probabilità di diventare giovani madri è altissima (Vita segreta di una Teenager Americana). Come si può anche solo pensare di avvicinarsi al proprio uomo, dopo aver visto una puntata di The Walking Dead? Psicopatico, sadico, violento, sociopatico, sagace, Negan (interpretato da Jeffrey Dean Morgan) è in grado di attrarre (e distrarre) noi donne ben più del nostro ragazzo sdraiato accanto che si dimena per aver dimenticato di aggiornare la formazione del Fantacalcio. Per non parlare di Hank Moody, lo scrittore tormentato di Californication, o del chirurgo sexy di Grace Anatomy, o dell’oscuro protagonista di Vampire Diary. E se un tempo le cottarelle da serie tv trovavano sfogo soltanto una volta la settimana quando la televisione decideva di trasmettere Beverly Hills 90210, l’arrivo di Netflix ha annullato l’attesa e amplificato gli effetti/affetti. Così, spesso, si preferisce perdersi in fantasie platoniche avvolte da un plaid, 20

piuttosto che concedersi ad un universo maschile che appare sempre più spaventato e deludente. Ma le serie sono anche un affare di coppia, dove alla condivisione di aspirazioni e progetti, si sostituisce quella del catalogo di Netflix. E se lui ti lascia guardare quattro puntate di seguito di “Una mamma per amica” senza protestare, è il caso che lo sposi subito, poi il sesso si vedrà.

LA VERSIONE DI LUI Questa sera niente sesso. La tua ragazza ha mal di testa, direte voi. No, sta benissimo. Il fatto è che proprio oggi su Netflix parte la terza stagione di Gomorra. Bisogna fare binge watching, dice lei (ossia vedere una puntata dietro l’altra senza interruzione). Se no poi come si fa a vincere l’attesa? Vogliamo avere tutto e subito. Insomma, televisivamente parlando. Perché, per il resto, ci rimane assai poco. Però insomma, non mi sembra di essere messo così male. In fondo questo Netflix, nome da antibiotico a parte, è proprio una figata. Prima del suo avvento, ogni volta che provavo a vedere un film su internet si aprivano tutte quelle finestre pop-up, decine di concorsi milionari, truffe (più o meno) esplicite e un sacco di donne nude (non mi sto lamentando), prima di riuscire a far partire lo streaming video. E, con esso, un virus che avrebbe inesorabilmente infettato il pc per le prossime tre generazioni. Ora è tutto diverso. Semplice, rapido, con una scelta enorme e una qualità elevatissima. Ma su questo, devo ammetterlo, lei ha una marcia in più. Sa scegliere. Io mi sarei accontentato di “godere” della visione di un film con una qualità delle immagini di quart’ordine e audio pessimo, rigorosamente registrato in sala. E invece, qui tutto è perfetto, bellissimo. Di più, ipnotizzante. Ad una puntata ne segue un’altra e poi un’altra ancora. E, nelle pause, si commenta, o meglio, lei commenta nella chat di gruppo con le amiche. Io me sto seduto lì sul divano, accanto a lei, abbozzo un timido tentativo: “Sono un po’ preoccupato per noi”, le dico, “Sta senz’ penzier”, mi tranquillizza lei. Non faccio in tempo a risponderle che si è già addormentata. Questa puntata finirò di vederla da solo. E, se tanto mi da tanto, d’ora in avanti sarà così anche per tutto il resto.


POMERIGGIO insieme

L’INCOMPRESO In principio sono le citazioni. Qualcuno rovescia del vino a tavola, e subito qualcuno fa un gesto solenne con la mano e dice “Viett a piglià il perdono” e tutti scoppiano a ridere, e tu fingi ilarità senza cognizione alcuna di cosa stiano parlando. Su whatssup fioccano i meme del lunedì equiparato a Joffrey Baratheon di Games of Thrones. Poi arriva il giovedì sera, siete pronti per andare all’inaugurazione di quel posto in centro, o da qualsiasi altra parte, così vi lanciate in un giro di chiamate a cui la risposta è sempre, inesorabilmente, la stessa: “Ma che sei matto? C’è Gomorra.” A rubrica finita, quando anche il fantaamico appena conosciuto con cui vi siete scambiati il numero l’altra sera ubriachi manifesta il suo sconcerto di fronte all’intenzione di uscire di casa “proprio” la sera di Gomorra, ti rassegni ad un Deliveroo sul divano di fronte alla replica Foggia-Avellino. Ma questo è niente. Il problema, quello vero, è quando dopo un periodo di magra, la ragazza del

vostro migliore amico decide finalmente di presentarvi quella sua amica che “è simpaticissima e ti piacerebbe troppo, avete anche un sacco di cose in comune” e poi la serata, senza che tu capisca come e quando sia accaduto, si trasforma in una discettazione tra i tre, con tanto di classifica di gradimento, delle ultime trecentosessantasette serie uscite su tutte le reti del mondo occidentale libero, intervallata di quando in quando da un “davvero non hai mai visto House of Cards?”, “Dai però Games of Thrones si, giusto?”, “E Stranger Things?”, e quando finalmente riesci a convincerli che no, nemmeno quella; che non ne hai vista proprio nessuna e no, non stai mentendo, è proprio così; inizia la parte in cui ti consigliano da quale cominciare. Come se si trattasse di una cura, o una dieta, o uno sport, che se inizi da quella giusta, che per ciascuno dei tre interlocutori ovviamente è una diversa, poi tutto andrà come deve andare e finalmente anche la tua vita avrà un senso, e questo non fa

che stimolare una nuova discussione tra di loro sul perché, quella che consiglia ciascuno è migliore dell’altra, per “iniziare” Distrutto, te ne vai mesto a casa, non senza prima aver promesso varie volte che si, la guarderai, la guarderai la sera stessa, e si, poi gli farai sapere se ti è piaciuta, e certo, lì capirai cosa ti perdevi. E li ringrazierai. E così, dopo l’era paleolitica, il medioevo, il rinascimento, gli anni sessanta, gli anni di piombo, è venuta l’era delle serie tv, e come sempre accade, i cambiamenti epocali portano con sè nuovi termini, nuovi codici sociali e nuove proprietà. E allora va bene rubare, che è all’ordine del giorno, per non parlare di desiderare la donna altrui, che è la regola, sempre che non sia ancora iniziata la nuova stagione di Black Mirror, che in quel caso non c’è tempo per desiderare neppure la propria, ma c’è una cosa che non bisogna mai, e ripeto mai fare, pena il più impietoso stigma sociale. È vietato spoilerare.

SAPEVATELO

OGGI dichiara di aver avuto rapporti sessuali 44% delle ragazze 47% dei ragazzi adolescenti

25 ANNI FA lo dichiarava il 58% delle ragazze 69% dei ragazzi 21


POMERIGGIO insieme

Ilaria Danesi - Cosimo Rubino

siamo tutti grande fratello!

Video killed the radio star, cantavano qualche anno fa i The Buggles. Se è vero che la Storia non si ripete, qualcosa di comunque molto simile sta accadendo alla TV nell’era dei social network. L’edizione italiana del reality show per antonomasia, quel Grande Fratello che ha portato la Casa abitata da illustri sconosciuti nelle nostre case h24, è passato dal 37% di share della prima edizione (2000) al meno del 19% dell’ultima andata in onda (2015).

Che si tratti soltanto di una fisiologica decrescita della curva di interesse dopo il boom iniziale di un programma che non ha saputo rinnovarsi e ha lasciato il passo ad altre forme di reality più caratterizzate, per location o notorietà dei partecipanti? Sicuramente, ma la curiosità da vicina del pianerottolo che il GF incanalava ha trovato anche nuovi e potentissimi sfoghi sul web: i social network.

E poi il tempo: gli italiani passano oltre 2 ore al giorno sui social. Un dato che ha anche conseguenze sulle nostre capacità di concentrazione, sulla vista e sul ciclo del sonno, fra le altre cose. Prima di andare a dormire si controlla un’ultima volta quanti “mi piace” ha preso una foto e il rischio è quello di ritrovarsi alle tre di notte a sfogliare i post del 2008 della ex maestra delle elementari. Dell’altra classe.

Alzi la mano chi, stimolato dall’immediatezza della “rete” che Facebook, Instagram e co. propongono a distanza di un semplice click, non ha mai ceduto a “investigazioni” degne della CIA, o per contro non si è mai trasformato nell’”illustre sconosciuto” sotto i riflettori pronto a raccogliere gli apprezzamenti del pubblico. L’aperitivo tra amici? Un book fotografico degno di un matrimonio reale. E la pesata quotidiana del pargolo? Un’esigenza di divulgazione scientifica. I piatti si gustano rigorosamente freddi dopo aver trovato il filtro giusto che metta in risalto i germogli di soia, mentre fotografia e contorsionismo si fondono nei selfie al mare. Ma non ci si limita di certo alle frivolezze: difficile esimersi dal commentare la crisi venezuelana (se tanto mi dà tanto è colpa dei politici), e volendo, con la pratica funzione di Facebook si ha la possibilità di certificare di essere al sicuro a Busto Arsizio nonostante il terribile terremoto inSri Lanka. Ci sono poi i poke o i mi piace “sulla fiducia”, una sorta di evoluzione dei vecchi squilli sul cellulare., mentre per certe crisi diplomatiche da “ha visualizzato ma non ha risposto” servirebbero gli uffici del Segretario Generale dell’ ONU, anche se dopo i quaranta a volte basta il cane Mugsy col cuore.

Niente di anomalo, niente di troppo preoccupante: fa tutto parte di quella piccola fenomenologia del nostro quotidiano, dove piazza del mercato e feed dei social sono ormai inscindibili, pur mantenendo (per ora), le loro peculiarità. “Tutti tuttologi col web”, e anche un po’ narcisisti. Se la tendenza della società era già da prima dell’avvento dei social volta a un individualismo sempre più marcato, l’ingresso in scena di queste nuove piattaforme ha giocato con il nostro ego attraverso un meccanismo di premi e sanzioni capace di autoalimentarsi. L’immagine, in primis quella di se stessi, è diventata un contenuto privilegiato ed appunto “premiato”; contestualmente le opinioni hanno assunto la forma di sentenze, polarizzando il dibattito e facendo dunque venire meno quell’empatia che dovrebbe essere il primo anticorpo contro il narcisismo.

22

A rendere ancora più appetibile (e quindi a suo modo perfetto) il sistema ci sono poi gli esempi virtuosi di chi è riuscito a sfruttare appieno quello che potremmo definire l’ascensore social. Tra le tante rivoluzioni apportate nella società dal mondo del web, infatti, vi è anche quella della categoria di “celebrità”: capita sempre più di frequente che normalissimi


POMERIGGIO insieme

utenti diventati (per le più svariati ragioni) seguitissimi sui social riescano a sfondare lo schermo degli smartphone per approdare ai media tradizionali, a loro volta impazienti di raccogliere fanbase solide abbastanza da spostare dati di audience e vendite di giornali. Dei personaggi partiti dal basso che vivono una storia vicina e in cui è facile immedesimarsi. Ricorda niente? La logica è grossomodo la stessa che ha caratterizzato il successo del Grande Fratello. Ma una volta consumata e resa ancora più accessibile, una volta che a tentare la scalata possiamo essere noi, con le nostre foto da Starbucks e Instagram Stories in pigiama, cosa resta di questo format? Poco o niente, se per sopravvivere ha bisogno di far entrare nella Casa i “VIP” (in senso classico, si intende, guai a pensare ai fenomeni del web). Operazione riuscita, almeno a guardare i dati, con una risalita che ha toccato le punte del 28% di share. Una mossa gattopardiana insomma, che per tenere il ritmo della rivoluzione in atto si affida alla vecchia cara carta del rotocalco rosa: dopotutto, constatare che senza i filtri di Instagram il fisico di Cecilia Rodriguez è un po’ meno perfetto ci lascia sempre una certa, narcisistica, soddisfazione.

23


a tavola!

Sofia Gorgoni

uno spritz con bonolis A tu per tu con uno dei volti più amati della tv

Trentotto anni «di una televisione che è cambiata parecchio». Paolo Bonolis, uno dei volti più amati della tv, capace di attraversare intere generazioni, da Bim Bum Bam a Chi ha incastrato Peter Pan, si racconta sorridente e rilassato. Da piccolo voleva fare l’astronauta o ha sempre voluto fare il conduttore televisivo? No, è stato casuale, studiavo scienze politiche all’università, dovevo fare la carriera diplomatica. Poi un giorno accompagnando un mio amico a fare un provino in Rai nell’81, mi hanno costretto a dire qualche stupidaggine davanti alla telecamera. Tutto è cominciato così. Ha fatto sempre la tv da protagonista, ma come spettatore che rapporto ha? La guardo più per dovere professionale, per rintracciare cosa manca e provare a mettermi in gioco in qualcosa che ancora non c’è. Attore, comico e presentatore: cosa la rappresenta di più ? Io non credo di essere un attore, un comico o un conduttore, sono una specie di ibrido che si diverte a fare la televisione evitando tutte le affettazioni della professione, mi piace una conduzione molto personale. Lo spettatore cerca lo stupore per qualcosa di diverso. Se sei abituato a guardare determinati tipi di comportamento, quasi da protocollo da parte di chi conduce, quando non li vedi la cosa ti diverte. L’emozione del palcoscenico è sempre la stessa o è cambiato qualcosa? Tutto cambia, te ne accorgerai, gli anni ti fanno cambiare la percezione stessa delle circostanze. Quando sei più giovane ciò che ti accade tendenzialmente genera stupore, specialmente se succede per la prima volta; quando le cose continuano a ripetersi, quello stupore finisce. Questo non capita solamente nel lavoro, ma anche nella vita di coppia, nei viaggi e in tutte le esperienze della vita. Invecchiando quello che finisce per mancare fondamentalmente è lo stupore. Qual è il programma che l’ha rappresentata di più? Ognuno ha avuto un investimento di attenzione diversa dagli altri. Se fai un programma come Avanti un Altro ti getti anima e corpo in una circense esibizione del racconto di persone... sono tutte micro commedie dell’arte che si susseguono l’una all’altra. In un programma come San24

remo o come Music, invece, cerchi di lavorare anche sulla qualità della confezione, in modo che ogni singolo racconto venga rispettato nella bellezza che gli si può concedere. E ogni volta cambiano le alchimie con cui crei quello che stai facendo... è difficile dire qual è stato il programma che più mi è piaciuto, perché ognuno è stato un viaggio diverso dagli altri. Insomma è un lavoro divertente se lo fai senza presumere che tu possa diventare più importante degli altri, è solo il tuo lavoro. Quando le ho chiesto una mail, mi ha detto che non ce l’ha. Che rapporto ha Paolo Bonolis con la tecnologia? Molto scarso, ma non perché non l’apprezzi, ma ho vissuto per decenni in chiave analogica e di conseguenza questa digitalizzazione dell’esistenza un po’ mi inquieta. Cosa la spaventa di più? La digitalizzazione fondamentalmente asseconda una velocità esistenziale di cui non sento la necessità, non ho fretta e non mi occorre, mi piace ancora aspettare, attendere. Credo che se mi avvicinassi a quella complessità, il tempo che mi rimane da vivere sarebbe molto minore rispetto a quello che ho già vissuto, quindi acquisirei forse un atteggiamento esistenziale addirittura meno consono ai miei anni... I figli, invece, sto cercando di crescerli in una maniera sia analogica che digitale, perché poi i figli assomigliano più ai loro tempi che ai loro padri, quindi è giusto che assorbano quello che sarà il loro futuro, ma se riescono a crearsi una struttura scheletrica analogica probabilmente saranno più robusti nell’esistenza. Come vede la tv del futuro? Non ho la più pallida idea, ma se la velocità è il nuovo parametro di oggi, la televisione stessa dovrà essere più rapida nei tempi di esecuzione e di narrazione, ancora oggi ci sono dei prodotti televisivi di lunghissima durata, anche per ottimizzare l’investimento e coprire un lasso di tempo maggiore. Negli Stati Uniti già la televisione non prevede quasi mai spettacoli che siano più lunghi di un’oretta, da noi durano anche due ore e mezza/tre ore, è abbastanza sfiancante. A suo figlio consiglierebbe di fare televisione? No, cerco di offrire a tutti i figli un delta più ampio possibile di conoscenza, affinché, in base alla loro personalità, attecchisca quello che può essere migliore per loro.


a tavola!

“Io non credo di essere un attore, un comico o un conduttore, sono una specie di ibrido che si diverte a fare la televisione evitando tutte le affettazioni della professione”

Lo ha domandato a molti, oggi lo chiedo a lei: qual è il suo senso della vita? [Sorride] Il senso della vita di una persona muta col passare del tempo: per un bambino è la scoperta del circostante, quando diventi adolescente rimane la scoperta del circostante, ma si rivolge anche verso l’interno e cominci a cercare di conoscere te stesso e un territorio nuovo che è quello della sessualità; quando diventi adulto, invece, il tuo senso della vita possono diventare tante cose, come la tua famiglia, il tuo lavoro, le tue ideologie, ma le cose cambiano costantemente. Non credo che ci sia un senso della vita, ma credo che ci siano, come dicevamo anche in trasmissione, tanti sensi della vita, quanti sono gli attori di questa esistenza: ognuno ha il suo ed è un mutante. Una volta ha detto che se qualcuno riesce a trasformare ciò che ha dentro, quindi a prendere il proprio mondo interiore e trasformarlo in qualcosa, generalmente quel prodotto funziona. Cosa sente di dire ai giovani che oggi, in questa difficile situazione economica, hanno più difficoltà a realizzare i propri sogni? Ci sono limiti oggettivi, sia economici, ma anche figli di questa velocità che ti impone una mancanza di riflessione, quasi una sorta di bulimia disperata nel rintracciare qualunque cosa tu possa desiderare. La tecnologia stessa riduce le opportunità di lavoro: se prima per fare una macchina servivano cinquanta persone, ora ne bastano cinque. Continuo a pensare che una grande fortuna nella vita di una persona è riconoscere le proprie eccellenze, tutti quanti le abbiamo e la fortuna è nel poterle riconoscere con un fatto della vita, un qualcosa che accade e ti fa accorgere che quel qualcosa ti appartiene. Questa fortuna a me è capitata. Tu adesso fai la

giornalista, scrivi libri, ma magari saresti stata una straordinaria violinista, forse la prima violinista del mondo, però non ti è mai capitato di suonare un violino, ecco questo non lo possiamo sapere, c’è qualcosa di molto bello dentro di noi, bisognerebbe avere la fortuna di accorgersi di che cosa è fatto. Allo stesso modo, il nostro pensiero è qualcosa che ci rende unici e irripetibili, se tu riuscissi a raccontare ciò che vedi - che è lo stesso che vedono gli altri - ma attraverso i tuoi occhi, il racconto sarebbe unico e quindi interessante. Molto spesso quando si fa televisione la domanda che si pongono quelli che scrivono è “che cosa la gente vuole vedere”, la domanda che invece bisognerebbe farsi è “che cos’è che ho io da raccontare”, perché se no parti già col piede sbagliato, ti vesti come tutti gli altri e automaticamente non sei speciale. Quindi partire da un altro punto, cambiare paradigma. Sì, secondo me ovviamente, ma non è che sta parlando Buddha [sorride]. Chiudo in bellezza con una domanda sull’Inter, so che è un grande tifoso. Dopo anni di difficoltà, sembra finalmente essere tornato ad alti livelli, fin dove può arrivare e che cosa è cambiato? È cambiata la proprietà: la grande proprietà della famiglia Moratti non era in grado economicamente di sostenere le qualità di ambizione di una società storica come l’Inter a fronte di altre società europee che avevano grandi economie alle loro spalle. Allora è contento... Io? E certo, vado a vedere uno spettacolo che ha più probabilità di entusiasmarmi per una vittoria che per una sconfitta.

25


millennials

luigi rossiello

news

- sara d’agati

#ansiadamillennials Mentre tutto è precario e incerto, c’è una condizione che per i millennials appare piuttosto stabile: l’ansia. Secondo una recente ricerca dell’American Psychological Association, il livello di ansia tra i nati tra gli anni ’80 e ’90 si attesta su un valore medio di circa dieci punti superiore a quello della generazione precedente. Il Guardian lo definisce uno stile di vita per i giovani oggi, Wired parla di società dell’ansia e Repubblica D parla di “generazione esaurita”. Il rischio, quello di addossarci l’ennesima etichetta, ridurre il discorso all’analisi dei sintomi senza indagare le cause profonde, e intrappolarci nel contenitore di “generazione di ansiosi” offrendo un ulteriore spunto per titoli e titoletti di giornali. Proprio per la sua caratteristica onnicomprensiva e difficilmente quantificabile -come spiega David Spiegel, docente di psicologia a Stanford, l’ansia indica di fatto una condizione generalizzata di vulnerabilità- si presta ad offrire una definizione alle manifestazioni più disparate, dallo stress all’insonnia, fino alla depressione. Così, a forme d’ansia oramai consolidate nella retorica comune, come l’ansia da prestazione o una più generalizzata ansia per il futuro, se ne aggiungono di nuove, come l’ansia da relazione, oggi sempre più accentuata in virtù della crescente virtualizzazione delle interazioni, o l’ansia da separazione dallo smartphone. Secondo un’indagine di LendEdu – che ha come oggetto i giovani studenti - su un campione di 7.000 Millennials, il 70% degli intervistati ammette di entrare in uno stato di ansia e agitazione se non ha lo smartphone con sé. E se questo non bastasse, studi recenti dimostrano che l’alternarsi incessante di mail, notifiche, badge, suoni, e l’apertura di decine di tab simultaneamente; mentre ci danno la sensazione di essere occupati ed efficienti, di fatto stimolano la produzione di cortisolo, noto anche come ormone dello stress, poiché viene prodotto in maggiori quantità in situazioni di agitazione. Il multitasking, o l’illusione di efficienza, è quindi l’ennesimo generatore di ansia. 26

Indipendentemente dai fattori specifici, tuttavia, l’ansia è di fatto una condizione ambientale, indistinta ma profonda, che si lega ad una serie di elementi che trovano il minimo comun denominatore nell’incertezza. Incertezza nel lavoro, nel futuro, sovraesposizione ad un carico di informazioni troppo elevato rispetto alla capita effettiva di processarle e decodificarle, che a sua volta ci espone alla sensazione che tutto attorno a noi si muove troppo velocemente, mettendoci di fronte, attraverso i social media, sia a casi di successo ed ostentazione di ricchezza che inevitabilmente generano una sensazione di inadeguatezza a chi non vi ha accesso, sia a situazioni drammatiche su cui non si ha (o si ha la sensazione di non avere) alcun controllo, dalle guerre, alle catastrofi naturali al cambiamento climatico. Nel piccolo, quindi, la combinazione tra l’oggettiva situazione di incertezza lavorativa ed economica, il ribaltamento del sistema di valori che ha visto il successo e l’individualismo scavalcare completamente l’etica collettiva e la condivisione, e il continuo confronto con l’esterno favorito dalla dittatura dei social, amplificano l’insicurezza e quindi, l’ansia. Su larga scala, i grandi temi rimbalzano sugli schermi dei nostri smartphone in tempo reale e ridotti in pillole senza che vi sia tempo di riprocessarli e senza che vi siano efficienti meccanismi di controllo rispetto alla veridicità di esse. E in questa corsa sfiancante ad anticipare tutto, la crisi di mezza età ha lasciato alla quarter-life crisis (QLC), crisi dei 25 anni. Classificata dagli esperti come un periodo di profonda confusione e depressione, che ha trasformato quella che dovrebbe essere l’età dei sogni e delle opportunità, in una paura del futuro che rischia di gettare l’individuo in uno stato di ansia profondo e prolungato al punto da diventare disabilitante nei confronti del presente. Indefinita ed inafferrabile, l’ansia, eppure i dati mostrano una condizione diffusa abbastanza da far pensare ad un fenomeno sociale, che non può essere ascritta alla fragilità del singolo individuo, ma trova le cause in processi socio-economici ed è li che deve trovare soluzione.


millennials

news

COSIMO RUBINO - MARIA GENOVIESI

match point Guida ragionata alle dating app

“Che cos’è la felicità?” Una domanda fondamentale, da sempre oggetto di raffinate speculazioni filosofiche. Se né Aristotele né Kant sono riusciti a fornire una risposta universalmente soddisfacente ad una domanda perlopiù soggettiva, ai giorni nostri il tentativo più rappresentativo sembra essere la triade che fior fior di astrologi individuano nei loro oroscopi: amore, soldi e salute. Ma in un’era, quella dell’homo digitalis, in cui tramite il proprio smartphone è possibile prenotare una visita cardiologica e acquistare titoli finanziari, poteva forse il caro vecchio eros esser fatto salvo dal processo di digitalizzazione? Proprio no, almeno a giudicare dal travolgente successo che stanno riscuotendo le cosiddette dating app, i servizi online per favorire gli appuntamenti fra cuori solitari...e non solo! Solo il 54% degli utenti, infatti, si dichiara single o divorziato, mentre il 12% risulta essere impegnato in una relazione e il 34% addirittura sposato. Qualora ci fosse ancora qualcuno che non conosce i meccanismi di funzionamento di una dating app, ecco a voi un breve e semplice manuale d’istruzione. Tinder, Happn, Once, Meetic, Lovoo e simili sono alcune tra le più diffuse app per appuntamenti. L’utilizzo è semplice e molto simile per ciascuna di esse:

sensazione di trasparenza, ma senza superare il limite massimo di 3 o 4, per non apparire troppo egocentrici. Ben accetti i selfie, meglio ancora se in compagnia di un tenero animale (. Un’altra possibilità molto gradita dagli utenti è quella di attivare l’invisibilità all’interno del radar dell’app, per scongiurare imbarazzanti pettegolezzi fra colleghi e soprattutto indesiderate incursioni da parte di amici di, mogli e mariti. Al di sopra di ogni consiglio e strategia però, c’è un’autorità insindacabile in grado di decidere il destino dei nostri incontri virtuali: Elo, il sofisticato algoritmo che utilizza parametri come tasso di risposta, informazioni incluse nel profilo, tempo trascorso sull’app e numero di interazioni collezionate, per assegnare un punteggio a ogni profilo. Attraverso questo punteggio, il sistema crea una sorta di graduatoria e favorisce i contatti fra persone della stessa “fascia di desiderabilità”. Una sorta di classifica dei più cool della classe, ma molto più accurata. Per una volta ancora, insomma, la lezione del digitale è che non esiste settore che sfugga ad analisi e calcolo. A noi, esseri imperfetti e sentimentali, non resta la speranza che dietro le stringhe del freddo algoritmo Elo si celi il volto impertinente dell’imprevedibile Cupido.

1 Si crea un profilo includendo immagini, informazioni personali e interessi (per gli uomini: Piccolo Principe SÌ, modellismo NO, mi raccomando) 2 S’includono preferenze rispetto all’ipotetico partner, tra cui ovviamente l’età, il genere e la geo-localizzazione (per evitare di imbattersi in utenti di Katmandu, laddove fosse troppo tardi, suggeriamo un primo incontro a metà strada, Teheran ha dei localini deliziosi) 3 Completata l’impostazione dell’account, si inizia a sfogliare il catalogo dei profili, mettendo like, stelline o cuoricini a quelli graditi 4 A questo punto non resta che sperare che il soggetto verso cui si è manifestato gradimento visualizzi il nostro profilo e ricambi l’interesse, dando così vita a un “match” 5 Quando il tanto agognato match tra due profili avviene, si apre finalmente un canale di comunicazione diretto per mezzo di una chat: da lì i due virtual lovers inizieranno a conoscersi, confermando o smentendo il colpo di fulmine fra i loro profili Cercando attentamente sul web, vi sono una serie di utilissimi consigli per rendere più efficace l’utilizzo dello strumento. Un esempio fra i più diffusi è quello di inserire più di una immagine del profilo, per dare una 27



millennials

davide bartoccini

news

- sara d’agati

SAREBBERO STATI FAMOSI? Quando “l’inedito” era condizione di partenza imprescindibile

semblati insieme, oltre che per competenza, per la capacità di tenere sveglio il pubblico con qualche battibecco improvvisato, e dai votanti a casa che spingono il tasto di un telefonino al ritmo convulso del calderone televisivo. E non ci è dato di sapere se un giorno Michele Bravi, Lorenzo Fragola o Giosada si avvicineranno a quell’idea di artista di talento che noi nati negli anni ottanta, e quelli prima di noi, abbiamo avuto il privilegio di apprezzare. Ma quelli erano cantautori, (la maggior parte) poeti (alcuni), intellettuali infarciti di battaglie politiche (altri ancora). C’era chi addirittura era tutte e tre le cose insieme. Senza dubbio, unici. E forse è l’idea stessa di artista che è cambiata. E allora inutile rimpiangere il passato. Che quella generazione di cantautori difficilmente torneranno; e se un genere, pur con la dovuta cautela nel fare paragoni, vi si avvicina saltando il passaggio del talent e ci da qualche soddisfazione, subito vira verso la hit estiva sotto il sole di Riccione, che oggi conviene così. Mentre per i pezzi “da talent”, salvo alcuni, la canzone è confinata a un ruolo marginale, e si limita a quei quattro accordi da assuefazione che vengono usati per comporre praticamente tutta la musica contemporanea, e che qualcuno rielabora in favore del presunto artista. Fotocopie di fotocopie, con 6 mesi di vita prima di finire in una cesta di cd dell’Autogrill a 4 euro e 99. Ecco la “ricetta del campione”, come cantava Luca Dirisio, uno di quelli che come odierno talento sarebbe stato perfetto, ma si è bruciato troppo presto ed è già tornato a cantare nelle osterie del centro. Forse perché siamo arrivati ad un punto morto, come molti dicono, in cui musicalmente è già stato fatto e detto tutto, e il rischio è quello dell’eterna replica, o della forzatura futuristica al solo scopo di innovare. O magari si sono soltanto abbassate le pretese del pubblico “interattivo” che denunciava Carmelo Bene. Dunque “saranno famosi” per 15 minuti, tutti quanti. E avanti i prossimi. matt-botsford @unsplash

Francesco De Gregori, travestito da Frank Sinatra, che arrangia una cover di Malafemmena mentre balla il tip-tap; Lucio Dalla che imita Cindy Lauper con canotta di spugna e occhiali rotondi, sperando che le mani di Mara Maionchi non si incrocino in un lapidario: per me è no; e Lucio Battisti, che per passare indenne i boot-camp deve vestire i magnifici panni di Mr. Trololo per sofisticata scelta di Fred Bongusto. Avrebbe funzionato? Probabilmente no. Quegli artisti per cui l’inedito era il punto di partenza, e non una conquista cui arrivare a suon di cover, sondaggi del pubblico ed effetti speciali, si limitavano al massimo a sognare Sanremo (quando Sanremo era davvero Sanremo) fra concerti dal vivo ed esibizioni in vecchie osterie del centro città. E chissà se si sarebbero prestati alla recita del talent, che ti costringe in un loft con gli “altri della squadra”, alternando gorgheggi a storie personali struggenti, al prezzo di qualche lacrima per far volare lo share. I talent, salvo rari casi, sfornano talenti usa e getta, che durano il tempo di una hit, o di una stagione al massimo. Eppure la popolarità di format come X Factor e Amici continua a crescere. Forse perché il punto non sta tanto nel talento, quanto nell’illusione dell’accessibilità al successo. Agiscono su quel meccanismo inconscio che ci dice che al posto di uno di quei ragazzi ci potremmo essere noi, non importa se non sappiamo cantare, e se non ci è neppure mai balenata per il cervello l’idea di cantare; c’è quella scintilla interna, impercettibile, che vede nel riscatto di questi ragazzi fragili, tutti (o quasi) rigorosamente con delle storie tragiche alle spalle, il riscatto di ciascuno di noi. Il talento poi è un’altra cosa. E nessuno nega che molti di questi ragazzi siano bravi a cantare, alcuni anche eccezionali. Ma il talento, e il riconoscimento esterno di esso, è qualcosa che si costruisce ed afferma nel tempo, difficilmente quantificabile nel giro di poche puntate, da quattro giudici as-

29


your staffing and logistics partner

THE PERFECT MATCH.

www.hostesspro.com - info@hostesspro.com


Andrea Palazzo - Mariastella Ruvolo

L’hanno detto alla tv l’inchiesta giornalistica tra bufale e infontaiment Una maga sudamericana capace di curare qualsiasi malattia è soltanto uno dei dieci servizi andati in onda su Striscia la Notizia che sarebbero stati inventati di sana pianta dall’inviato della trasmissione Mingo. Una serie di video sul fenomeno autolesionista della Blue Whale, testimonianze raccolte da Le Iene, salvo poi riconoscere di non aver effettuato tutte le verifiche necessarie sul materiale ricevuto. Un’inchiesta sui danni del vaccino anti-papilloma virus, presentata dal programma Report tra mille polemiche di allarmismo e senza solide basi scientifiche. Sono alcuni dei casi più recenti di scoop televisivi finiti dritti nell’occhio del ciclone. L’hanno detto in tv. Il nodo della questione è perché e come le inchieste televisive abbiano acquisito tale autorevolezza. Al di là della veste di intrattenimento di un programma che, quindi, può avere maggiore appeal sul pubblico, affascinato dal packaging più sbrilluccicante, mondano, fashion, e talvolta folkloristico, come possono questi programmi sembrare rappresentare una fonte veritiera e imparziale di informazione? Il fatto che facciano leva sul sentimento di rottura nei confronti del sistema canonico è un primo elemento. Questi programmi si presentano come strumenti di informazione e fonti di notizie in controtendenza, si collocano come alternativa, quasi in contrapposizione con i sistemi classici di informazione e questo riesce, di per sé, a dare la parvenza di autenticità. Inoltre utilizzano spesso metodi, come inviati in incognito o telecamere nascoste, all’altezza dei migliori 007 e l’idea dello “spionaggio”, dell’indagine dall’interno, sotto copertura, contribuisce non poco a creare quell’aura di veridicità assoluta poiché vengono fornite prove inconfutabili attraverso video e testimonianze dirette. In fondo, però, questi programmi saziano la curiosità più profonda del telespettatore e colmano il vuoto di informazione che il giornalismo tradizionale sembra non essere più in grado di colmare, o tuttalpiù riesce a farlo solo in maniera parziale e talvolta faziosa.

Tra giornalismo e infontaiment. Reportage e inchieste in tv hanno una storia lunga e profondissima: a partire dal programma statunitense “60 Minutes”, una tra le più autorevoli trasmissioni di approfondimento giornalistico creata da Don Hewitt regolarmente in onda sulla CBS dal 1968. La televisione è un medium dove, rispetto alla carta stampata, il servizio di impatto corredato da immagini e registrazioni riesce a catturare meglio l’attenzione e l’empatia del pubblico. Proprio questo pubblico, però, è sempre più esigente così come la concorrenza tra le emittenti è spietata, ragion per cui a volte capita di dover alzare l’asticella: è così che le logiche di infontaiment, commistione tra gli aspetti contenutistici (i’information) e di spettacolarizzazione (entertainment), coinvolgono anche il contenuto dei programmi di inchiesta. Stuart Allan, professore di giornalismo e comunicazione alla Cardiff University, scrive nel saggio ‘Journalism: critical issues’: «Anche il giornalismo talvolta può sembrare non distinguibile dall’intrattenimento e portare a sospetti che sia adoperato solo per gli interessi economici e commerciali dei media e dei loro proprietari». Come uscire dalle sabbie mobili. Se non si sa più a chi credere la prima conseguenza è un senso di disorientamento diffuso. Anche in tv, anche nei programmi di inchiesta e approfondimento, si affaccia prepotente il tema delle “fake news” che soprattutto in rete, in questi ultimi tempi, ha trovato linfa vitale. L’unico antidoto per proteggersi dalla cattiva informazione rimane allora la capacità critica per ciò che concerne spettatori, mentre da parte dei programmi di inchiesta diviene essenziale l’assunzione di responsabilità: ammettere l’errore, quando c’è stato, è l’unica maniera per vedere scalfita, ma non distrutta, la propria autorevolezza. E sulla scia di quanto si sta già facendo in rete e sui quotidiani (si vedano gli esempi di Google e de La Stampa) sarebbe bene intensificare le azioni di fact checking – la verifica delle informazioni trasmesse – anche sul piccolo schermo.

31


Maurizio Franco - Simone Rubino

Giornalismo d’inchiesta, incontri ravvicinanti del terzo tipo Quando il linguaggio televisivo si integra con il Web. Intervista a Milena Gabanelli

«Con la tv ho chiuso». Detto da lei fa un certo effetto. Non è un vecchio dinosauro del cosiddetto “piccolo schermo” ad alzare bandiera bianca, annunciando il suo ritiro dopo una vita passata davanti alle telecamere. A prendere la via di uscita dagli studi televisivi è il volto riconosciuto del servizio pubblico, in virtù del suo ventennale lavoro in Rai e della potenza comunicativa dei programmi che ha inventato: Milena Gabanelli. Non fu un caso e nemmeno un gioco (per quanto lei declinò l’invito per continuare a svolgere il suo lavoro, la giornalista), se nel 2013, quando in Italia vi fu l’impasse legata all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, il suo nome finì nella rosa presidenziale. Da “Report” al Quirinale, il passaggio sarebbe potuto essere questo, alla faccia di chi reputa la televisione come morta. La Gabanelli ha reinventato il formato dell’inchiesta televisiva, anticipando con il suo programma “Professione Reporter”, nel 1994, quel che oggi possono fare più o meno tutti, almeno nelle intenzioni, con lo smartphone: con semplici fotocamere, inquadrature rudimentali e un montaggio spartano ha ideato un format che ha tirato su una nuova leva di giornalisti, pronti a sporcarsi le mani. Prima ancora ha lavorato per “Mixer” di Giovanni Minoli e fatto l’inviata di guerra. Dopodiché ha creato “Report”, programma di inchiesta giornalistica diventato brand di eccellenza della terza rete Rai, che la giornalista piacentina ha salutato lo scorso anno per dedicarsi 32

ad altro, nonostante poi non tutto sia andato come previsto: «Speravo di poter fare il lavoro per il quale sono stata assunta, cioè avviare un portale unico di news che la Rai non ha. Se questo non è successo e non sembra stia succedendo significa che la dirigenza Rai non sta assolvendo al suo compito, che è quello di garantire attraverso tutte le piattaforme un servizio pubblico d’informazione». Il contendere era un sito online che gareggiasse con i network internazionali, come ad esempio i rotocalchi web della “Bbc” e di “Al Jazeera”, con milioni di follower sui social e una copertura informativa sul digitale h24. Invece il rumore della porta sbattuta si è sentito, qualità Dolby Surround. «Se questo avviene per incompetenza, la responsabilità è politica, perché sono le politiche le nomine. Altre ragioni mi sfuggono» rincara la giornalista. Ma “the fundamental thinghs apply, as time goes by”, cantava Frank Sinatra in una delle sue canzoni più celebri, brano non casualmente scelto per accompagnare in diretta televisiva la calata del sipario del “Report” firmato dalla Gabanelli, che conserva anche oggi la sua attualità di senso, con l’ex giornalista Rai incamminata verso una strada diversa da quella della Tv. La Gabanelli vuole oggi sperimentare un linguaggio diverso, staccandosi da quello che si è troppo incancrenito sul modello televisivo. La rottura è palese e la domanda sorge spontanea: ma che cosa non le piace più del formato Tv? «La ripetitività e l’appiattimento sui target abitudinari», risponde risoluta nel viaggio sui treni

che da Roma, passando per Bologna, la stanno portando a Milano. E l’inchiesta televisiva? Le grandi scorpacciate in prima serata, seduti e impallinati davanti allo schermo, ad aspettare che l’intervistato risponda nervosamente alla sventagliata di domande? Dicevano addirittura che la radio sarebbe morta, sorpassata e sepolta dalla televisione e invece è ancora lì, nelle frequenze di uno smartphone, di un computer o in macchina, ascoltata da milioni di persone. La stessa litania per la televisione.

“Non credo che sia né morta né morente. Salvo rare eccezioni, la Tv soddisfa una larghissima fetta di pubblico, quello più anziano - ancora Milena Gabanelli - Il servizio pubblico però ha una missione diversa, ed è quella di raggiungere tutte le fasce e categorie di popolazione”. Nella scelta operata dall’ex giornalista Rai, la televisione e il web si incontrano. Sul Corriere della Sera curerà una striscia video, con animazioni, mappe, grafici - dove “traformare temi complessi di attualità in contenuti fruibili per tutti” - contribuendo alla creazione di “un


database con dati e notizie, continuamente aggiornato”. Una sorta di puzzle (complesso ma semplice) che agganci più punti di vista, li confronti, mettendo al centro i fatti. Nel marasma della piazza virtuale, nello spazio pubblico attraversato e lambito da miliardi di informazioni, la sperimentazione e l’ibridazione dei linguaggi sono la frontiera del nuovo giornalismo. Gli esempi non mancano: da “ProPublica”, il primo sito di inchieste e reportage a vincere il Premio Pulitzer nel 2010, alle recenti trasformazioni del “New York Times”. E la televisione non è esentata da questa sfida che riguarda da vicino le giovani generazioni. «I Millennials la guardano meno, ma occorre raggiungerli attraverso la piattaforme social che loro frequentano, dove si formano e si informano» incalza Milena Gabanelli.

Ma tutto questo è veramente possibile e realizzabile in Italia? La crisi – e poi gli strascichi del paradigma economico sociale imposto nel mondo dell’editoria - ha colpito il tubo catodico e le testate online, sempre meno redditizie: gli investimenti e l’innovazione sono fermi al palo con uno sciame di giornalisti, giovani, forti ed energici, dispersi e sottopagati, tra partite Iva, collaborazioni e ritenute d’acconto. E il proliferare dei social network ha posto in maniera ancora più evidente il problema. A risentirne è l’inchiesta giornalistica, nelle sue forme e nei suoi contenuti. Il web potrebbe essere il nuovo porto da cui ripartire? «Non ne ho idea, credo solo che i contenuti debbano essere espressi attraverso linguaggi adeguati ai mezzi utilizzati per diffonderli – risponde

la neo assunta del “Corriere della Sera” - E questo non è un lavoro banale, se si vuole convogliare dentro al mezzo anche l’esperienza che porta valore e qualità». Quasi a parafrasare Il Principe di Machiavelli (o storpiandolo, secondo gli storici di critica letteraria) il fine sembra giustificare i mezzi. Web doc, data journalism, pillole video per raggiungere istantaneamente un pubblico eterogeneo e nuovi format per invertire la rotta “aprendo insieme nuove strade per il futuro della nostra professione” (Luciano Fontana, direttore del “Corriere della Sera”): la forma precipita nel contenuto con prospettive inedite e terre da esplorare. «Quindi prima si comincia e meglio è» conclude Milena Gabanelli.

33


Ilaria Danesi - Niccolò Piccioni

TUTTI PAZZI PER ALBERTO ANGELA Colto, raffinato, terribilmente sexy: il pubblico sovrano ha incoronato Alberto Angela come “personaggio dell’anno” al Macchianera Internet Awards 2017. Da brillante divulgatore a beniamino del web e sex symbol, il figlio di Piero Angela, vero campione di ascolti, è diventato un punto di riferimento per tanti, giovani e meno giovani Lontani i tempi in cui la sua cadenza e il suo proverbiale gesticolare venivano bonariamente presi di mira dalle imitazioni di Neri Marcorè. Il giovane Angela ha in poco tempo spazzato via la nomea di “figlio di” grazie alle sue indubbie capacità, dapprima affiancandosi al padre nel Ghota dei divulgatori televisivi, poi intrufolandosi -con sua sorpresain quello degli uomini più desiderati d’Italia. Eloquio rassicurante, modi garbati, sorriso affabile. Il golden boy della programmazione Rai ha proiettato la sua immagine fuori dagli schermi televisivi per affermarsi, in particolare grazie al web, in una nuova veste, quella del sex symbol intergenerazionale. Dalle spettatrici affezionate e un po’ attempate, alle giovanissime studentesse che asserragliano come groupies le sue conferenze, fino all’ampio consenso raccolto nell’universo omosessuale: Alberto Angela piace davvero a tutti. E riaccende una piccola speranza in chi temeva che la figura maschile fosse ormai standardizzata in canoni tra machismo e “tronismo”, espressi da tutt’altro genere di trasmissione TV. Nient’affatto: per l’uomo di cultura c’è ancora spazio, anche e soprattutto quando passeggia con giacchette demodè per la Valle dei Templi, narrando le gesta degli antichi Greci con flemma ponderata. L’Angela dei meme è un uomo che divulga forte, facendo il verso a Christian Grey, e strappa promesse di matrimonio citando la formula 34

chimica del carbonato di calcio; mentre una schiera di fan si offre volontaria per “donare il proprio corpo alla scienza”, e discute senza troppi giri di parole sulle sue presunte doti nascoste, ovviamente al solo scopo di aggiornare il Canone di Policleto. Una figura in questo senso pienamente pop e altrettanto trasversale: un volto da stampare sul merchandising fai-da-te come Simon Le Bon, ma anche in grado di riunire la famiglia per un Sabato sera in compagnia di Celti e Romani su Rai3. Da Indiana Jones a Jurassic Park, ci aveva già pensato il Cinema a far uscire archeologi e co. dalla dimensione “nerd “per approdare in quella dell’avventuriero alla scoperta del Mondo e dei suoi segreti. Ovviamente non tutti i professori hanno il fascino di Harrison Ford o dell’Alberto nazionale, ma l’intrusione degli scienziati, degli studiosi, insomma, degli “sfigati” nel mondo del pop ha avuto ed ha una valenza molto importante, in particolare per una generazione, quella dei millenials, che ha spesso come unici riferimenti culturali calciatori e veline. Per quei (pochissimi) che non ne subiscono il fascino vitruviano, Angela è prima di tutto un professionista in grado di rendere la cultura accattivante, e come tale fonte di ispirazione per quei ragazzi che non considerano affatto la cultura qualcosa di accessorio. “Devo studiare per non deludere gli Angela!”, si legge tra il serio e il faceto i uno dei tanti gruppi Facebook dove giovani di ogni età, perlopiù liceali, discutono di Socrate, Brexit e Guerre del Peloponneso a suon di meme ironici.


Un modo leggero per trattare temi “seri”, in maniera a volte un po’ semplicistica ma decisamente coinvolgente. Con buona pace dei puristi è questa svolta pop veicolata dai social, che strizza l’occhio alla ricerca di visibilità online e di cui la figura di Alberto Angela è un caposaldo, a rendere la cultura qualcosa di “figo” per i ragazzi, aiutando indirettamente molti di loro a trovare la propria strada. Una componente di esagerazione, come per ogni moda ed ogni mito, c’è sicuramente, così come è evidente il rischio citazionismo: una vignetta sull’inutilità dell’esercito francese porta un carico di “mi piace”, ma non rende un esperto di storia; ed è lecito sospettare che non tutti gli “Angelers” del web guardino in realtà Ulisse e Superquark.

Ma che il successo di Alberto e della famiglia Angela non si limiti a fenomeno di costume è immediatamente evidente se si guardano i dati auditel: nel periodo storico in cui molti professionisti di settore si chiedono quale sia il tasso di conversione reale tra il mondo del digitale e quello televisivo, Alberto Angela dimostra che esiste una stretta correlazione tra numero di interazioni ad un post sulla sua pagina ufficiale (in media, oltre 10mila) ed il livello di share raggiunto dopo la nascita del suo “mito digitale”.

Un picco che, se paragonato al caso Sanremo o alla finale di Amici (edizione 2017), non avrebbe neanche senso. Se non fosse, però, che il modello televisivo proposto da Alberto Angela è statico, classico: lo spettatore fa lo spettatore. Ed in questo gioco di passività televisiva è lo stesso pubblico a decidere quale deve essere il grado di interazione online. Non ci sono hashtag da rilanciare o votazioni da fare: c’è il piacere di essere sedotti, sia nel format “Stanotte a ..” sia in “Ulisse, il piacere della scoperta” da opere, accadimenti e ricostruzioni molto più vicine a noi di quanto non lo sia un giovane ballerino alla ribalta. Non che quel giovane desti meno interesse; ma, probabilmente, Piazza San Marco continua ad avere il suo fascino; se c’è Alberto Angela, poi, diventa un’esplosione d’emozioni. “Quando mi sono insediato uno dei principali obiettivi era fare nuove mosse professionali con Alberto Angela [..] Ci siamo riusciti; i suoi sono prodotti che piacciono agli italiani ma anche in altri Paesi. Alberto resterà a lungo con noi e Ulisse non sarà il suo unico progetto per questa stagione” sono le parole di Mario Orfeo, nominato Direttore Generale della Rai il 9 giugno 2017. Non solo, quindi, rampollo della Famiglia Angela apprezzato dal pubblico online ed offline, ma elemento di orgoglio per un’intera rete nazionale che, grazie a lui, può proporsi all’estero, vendendo contenuti televisivi e, allo stesso tempo, il fascino del Bel Paese. Un successo tangibile, che appare tutt’altro che passeggero e che sembra aver instaurato un circolo virtuoso nel dialogo tra domanda e offerta di intrattenimento culturale in TV. Lui con signorilità offre il merito agli italiani, a suo dire spettatori curiosi e attenti come nessun altro popolo. Di certo una parte del merito va anche alla famiglia Angela: al padre Piero, anima per decenni di un format che funziona, e al figlio che ha saputo rinnovarlo col suo ipnotico gesticolare.

Sì, perché quei famosi 25% di share in prima serata, su Rai Uno, raggiunti con “Stanotte a San Pietro” (Dicembre 2016) e “Stanotte a Venezia” (Giugno 2017) dimostrano che esiste una fetta di mercato importante che rinuncia, anche solo per una sera, ad un’offerta televisiva standardizzata o ad una serie su Netflix.

ONLY ALBERTO CAN JUDGE ME 35


Gerardo Fortuna

Finché il carrozzone va... Le mille e una Sanremo: giri d’affari e nuove tendenze attorno al business dei grandi eventi “La domenica sera trovi solo transenne e cartacce a terra.” Sono le ultime tracce del carrozzone che è appena andato via. Francesco ripercorre mentalmente via Matteotti, la strada pedonale che porta all’Ariston. Vive in Emilia, ma come altri semplici curiosi e turisti della canzone italiana, va spesso a Sanremo nella settimana del Festival. Ci racconta di chi orbita attorno al grande spettacolo: avventurieri del jet set e personalità più o meno note del mondo dello spettacolo. Arrivati per farsi vedere, lì dove tutti gli occhi sono puntati per una settimana. È questo l’effetto dei carrozzoni, eventi che riescono a muovere grandi risorse e ad attrarre l’attenzione di un vasto pubblico, ma che durano un battito di ciglia. Finito il grande spettacolo, la città torna silenziosa in attesa della bella stagione quando riprenderà a essere assalita da forestieri. “Perlopiù arabi e russi”. Di carrozzoni ce n’è per tutti i gusti. Quelli periodici, di solito manifestazioni fieristiche internazionali ma anche festival del cinema e musicali. E poi ci sono i grandi eventi isolati, di respiro globale. Olimpiadi ed Expo, per intenderci. I più ambiti per il loro carattere di eccezionalità, ma allo stesso tempo i più difficili da trasformare in valore aggiunto per il territorio che li ospita. Arrivano, e quando partono non tornano più (se non dopo molti decenni).

Business “temporanei” I carrozzoni possono generare indotti da capogiro. Se eventi globali come la maratona di New York hanno un impatto economico stimato in 400 milioni di dollari, nel tennis gli Internazionali d’Italia portano a Roma un giro d’affari annuo di 100 milioni di euro. Un evento singolo come la finale di Champions League ha portato nelle casse di Milano 25 milioni solo di indotto turistico. Ma valutazione del ritorno commerciale non è più limitata al mero traffico di turisti e tiene sempre più in considerazione anche la valorizzazione del brand del luogo ospitante. Ciò porta alla creazione di carrozzoni sempre più spettacolari per offrire al visitatore un’esperienza 36

che lo leghi al territorio, trascendendo l’evento stesso. Il mercato del lavoro richiede sempre più figure stabili per carrozzoni temporanei e ormai un intero settore del mondo della comunicazione si è buttato sui soli grandi eventi. Nascono nuove professionalità come project manager e promoter specifici, senza contare prestatori di servizi tradizionali che vanno dall’interpretariato agli allestimenti, passando per l’accoglienza vip ai catering. Con un occhio di riguardo alla sicurezza, dopo il giro di vite normativo per il pericolo attentati: un addetto ai servizi di controllo può costare dai 100 ai 180 euro al giorno agli organizzatori di un evento.

Tra big data e sostenibilità La tecnologia giocherà un ruolo centrale nei carrozzoni del futuro. Roskilde, cittadina danese di 80mila anime, accoglie ogni anno a inizio luglio 130mila visitatori, 3mila musicisti e 21mila volontari per uno dei più grandi festival rock d’Europa. Per far fronte a questo flusso, gli organizzatori dell’evento utilizzano un software di raccolta e analisi in tempo reali di dati. Grazie alle elaborazioni sugli spostamenti dei frequentatori, sono ad esempio in grado di smistare agenti di sicurezza e venditori ambulanti dove c’è bisogno o di ridurre le code ai servizi igienici e ai punti di ristoro. Ma la vera sfida è far sì che, dopo il passaggio di un carrozzone, non restino solo transenne e cartacce a terra. Tokyo e Parigi saranno chiamate a creare delle Olimpiadi sostenibili e a impatto zero grazie all’utilizzo di strutture temporanee e al riammodernamento di ciò che già c’è. La Ville Lumière sfrutterà l’occasione per promuovere l’immagine della città: le gare di equitazione si terranno a Versailles, la Senna bonificata farà da scenario alle gare di canottaggio, mentre lo stadio del beach volley sarà montato all’ombra della Tour Eiffel. Proprio quel simbolo della città ereditato da un altro carrozzone, l’esposizione universale del 1889.


Nicolò Scarano

Il talk show nell’interregno della comunicazione politica Partiamo da un dato semplice, una percentuale: 95,5%. Sono gli italiani che si informano attraverso la tv secondo il Censis. Si dirà, tutti guardano ancora la televisione, certo, ma questo vale solo per programmi di intrattenimento come il Grande Fratello Vip e Tù Sì Que Vales! o per le fiction Rai. Invece, sempre per il Censis, più del 60% degli italiani usa la tv addirittura come fonte di informazione primaria, accanto ad altre meno diffuse. Con un caveat sulla percentuale dei giovani tra 14 e 29 anni che scelgono il mezzo televisivo per restare aggiornati, calata al 53,9% e ormai insidiata pericolosamente da Facebook, che si ferma al 48,8%. Si era pensato che la rete avesse dato - e stesse dando - immense possibilità ai leader politici di espandere la loro voice, di dettare l’agenda senza più bisogno di quel corteggiamento continuo dei media tradizionali. Senza più quegli studi pieni di fumo modello Tribuna Politica, o quelle pantomime da confronto all’americana. A gran voce si erano decantate le lodi della cosiddetta disintermediazione, un metodo della comunicazione politica che saltava a piè pari il mediatore culturale, per definizione il giornalista, per arrivare direttamente nelle nostre case tra tramite un social media, una mail, un sms, un video girato e diffuso attraverso Whatsapp. Non è andata soltanto così. La politica ha perlopiù cercato di attuare quella che potremmo definire una “disintermediazione comandata” attraverso diverse tecniche, come la messinscena del retroscena individuata dal professor Boccia Artieri, o la vox populi via social media, cioè l’innalzamento del “senso comune” a opinione capace di spostare gli equilibri del dibattito. Tutto questo tramite un utilizzo dei social media, visto dapprima con Grillo e poi con Trump, come grimaldello

per entrare nelle case degli elettori proprio attraverso… la tv, che resta il mezzo di gran lunga più influente. E così i comizi pirateschi di Beppe Grillo contro le tv finivano in diretta tv, le varie Leopolde di Matteo Renzi contro il chiacchiericcio dei talk show finivano proprio nei talk show, i tweet di Donald Trump contro le fake news e l’establishment mediatico finivano (dopo pochissimi secondi) dritti dritti nell’infotainment dei grandi network statunitensi. Senza neanche il bisogno di passare per qualche talk show. E a proposito di talk show, se il Giovanni Floris dei tempi d’oro di Ballarò su RaiTre aveva una media del 13% di share con punte del 15% nei momenti caldi, oggi DiMartedì su La7 riesce a spuntare un 9% in puntate come il “Renzi contro tutti” di inizio novembre, ma si attesta solitamente sotto al 5%. Proprio un network come La7, che sulla politica e sui talk show che la riguardano ha basato la sua stessa identità, viaggia attorno al 3% medio di share. La “terza camera” di Bruno Vespa, Porta a Porta su RaiUno, raggiunge il 9% solo quando c’è Silvio Berlusconi, che guarda a tutto questo chiacchiericcio dall’alto, sornione, lui che proprio sulla TV - di cui è padrone, in più di un senso - ha fondato il suo successo politico e non solo. Il talk show è insomma un format in costante crisi di ascolti e di linguaggi, ma che costantemente si moltiplica nelle sue micro-nicchie. Specchi sui quali, allo stesso tempo, si riflettono le crociate da social network. Un format in mezzo al guado nell’attraversamento del grande fiume, in quell’interregno tra la grande comunicazione generalista e il predominio finale del palinsesto personale. Anche in politica, sì, dove finalmente si potrà badare solo e soltanto a quello che interessa a ognuno di noi. Alla faccia del talk, alla faccia del dialogo.

95,5% i dati

gli italiani che si informano attraverso la tv

PER IL

60%

è la forma di informazione primaria 37


con gli interventi di

marco bardazzi (Direttore comunicazione ENI) federico fabretti (Direttore relazioni esterne Leonardo) antonio funiciello (Capo staff del Presidente del Consiglio) maurizio gasparri (Vice Presidente del Senato) mario sechi (Giornalista ) carlotta ventura (Direttore Centrale Brand Strategy e Comunicazione) in tutte le migliori librerie


il nostro dream team

Velia Angiolillo

Davide Bartoccini

Carlo Cauti

Ilaria Danesi

Matteo Di Paolo

Maria Genovesi

Barbara Hugonin

Marta Leggio

Andrea Palazzo

Cosimo Rubino

Simone Rubino

Mariastella Ruvolo

Nicolò Scarano

Sofia Gorgoni

Sara D’Agati

Lorenzo Castellani

Antonio Carnevale

Cinzia M. Caserio

Claudia Cavaliere

Gerardo Fortuna

Maurizio Franco

Niccolò Piccioni

Luigi M. Rossiello


The New’s Room bimestrale tematico anno 1 - numero 5 dicembre 2017 Fondatori Pierangelo Fabiano @PierangeloFab Raffaele Dipierdomenico

Art direction e progetto grafico Anna Mercurio annamercurio.it

Direttore responsabile Sofia Gorgoni @GorgoniSofia

Art direction e progetto digital Blind Sight

Direttori editoriali Sara D’Agati @sara_dagati Lorenzo Castellani @LorenzoCast89 Coach Maurizio Costanzo Editore The New’s Room srl Resp. segreteria organizzativa Flaminia Di Meo Giornalisti Velia Angiolillo @veliamente Davide Bartoccini @DBinTweet Antonio Carnevale @antcar83 Cinzia Maria Caserio @CinziaCaserio Claudia Cavaliere @CCavaliere3 Carlo Cauti @carlocauti Ilaria Danesi @Ilaria_Danesi Matteo Di Paolo @matteodipaolo89 Gerardo Fortuna @gerardofortuna Maurizio Franco @maofranco56 Maria Genovesi Barbara Hugonin @barbarahugonin Marta Leggio @martaleggio1 Andrea Palazzo @andreapalazzo Niccolò Piccioni @MrArancione Luigi Maria Rossiello @luigirossiello Cosimo Rubino @lockedusername Simone Rubino @srubino0 Mariastella Ruvolo @mariastella_ruv Nicolò Scarano @nicoloscarano

40

Responsabile comunicazione Sofia Piomboni (Blind Sight) Responsabile PR Stefano Ragugini Social media manager Francesco Turri Crediti Fotografici Unsplash Shutterstock Dove non diversamente specificato le immagini sono state fornite dagli autori Icone Thenounproject Stampato presso POSTEL SPA Via Carlo Spinola 11 00154 Roma Registrazione Tribunale di Roma N.68 del 6/4/2017 Informazioni e pubblicità Via Isonzo 34 - 00198 Roma t. +39 0697848156 www.the-newsroom.it/ thenewsroom@agol.it

Scarica l’App per Android e Apple


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.