Numero09

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numero 9 Luglio / Agosto 2018 the-newsroom.it

L’Italia con gli occhi di domani, raccontata dagli under 35

Tutti a casa Come cambiano le nostre famiglie poste italiane s.p.a.- spedizione in abbonamento postale-

70% s/ce/16/2018

p. 15 Qualcuno ha detto "famiglia tradizionale? p. 23 Generazione post-femminista


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viaggio, un viaggio attraverso il presente, la realtà in cui viviamo, un viaggio nella nostra vita e nel profondo della nostra coscienza, un viaggio che guarda il passato e dal passato il futuro, ne cerca le tracce, le memorie di quello che è stato e i segni di quello che sarà. Un viaggio evocato da due parole, anzi da una che , da sempre, ne richiama un'altra. È la Casa, la parola che inesorabilmente evoca la famiglia, il nucleo di affetti che dal primo grumo embrionale, si dilata al mondo affettivo personale, sociale, economico in cui la nostra vita è immersa. Dalla prima bolla, come la definisce il filosofo tedesco (controverso quanto ugualmente amato e odiato) Peter Sloterdijk in cui si raccoglie il proprio io, alla sfera sociale, e poi alla schiuma che circonda le dimore della ‘costituzione ontologica’ che raccoglie tutti gli esseri. Ognuno ha una casa. Un luogo dove la persona trova, o si ri-trova, o si perde. E una famiglia. Un nucleo sociale costruito da affettività e rapporti. Il nostro viaggio ne delinea il cambiamento, soprattutto nell’ ultima metà del secolo. Da quando si perdono le ultime tracce della casa-domus, agglomerato parentale e sociale che definiva il clan, casa in muratura o tende nel deserto, sempre legata ad un sistema di vita globale, (non è certo un caso che la parola economia deriva dall’ oikia , la casa greca appunto) fino al diritto

amministrativo odierno che ancor oggi definisce la buona amministrazione della casa a partire dal comportamento del buon pater familias, colui che è custode del patrimonio ma anche della memoria e della identità della sua gentes. Ma ognuno ha una casa interiore, la prima sfera, non solo fisica e uterina. Nei sogni ricorrenti che si affollano negli studi degli psicanalisti compare spesso una casa, ricca, povera, diroccata, con ampi spazi o in-consce cantine. Cosa resta di tutto questo? Cosa è mutato? È quello che abbiamo cercato di capire, ponendoci più domande che risposte. Negli anni ’80 il futurologo Alvin Toffler aveva pronosticato nuovi modelli di vita, di famiglia e di morale che inevitabilmente sarebbero scaturiti dalla ‘terza ondata’ tecnologica, dopo l’agricoltura e l’industria la terza rivoluzione digitale che si apprestava a cambiare ben altro che la metodologia di lavoro. Ne vediamo gli effetti, sempre meno le grandi case-grandi famiglie, sempre di più le mini case, e gli esperimenti di nuove forme di coabitazione, ora imposti più dal sistema economico e di sviluppo che dai (quasi) svaniti sogni comunitari hippies degli anni ’70. E intorno alle nuove case del futuro, ai boschi verticali, ai mini appartamenti, le tendopoli e i campi delle nuove migra-

zioni, fino agli homeless, che in realtà una casa ce l’hanno, fatta di sacchetti e carrelli del supermercato, avendo come residenza anagrafica una stazione ferroviaria. Sono effetti che in realtà non definiscono un nuovo sistema chiuso, una realtà omogena: si abita, e si coabita più volte nella stessa vita, e la vita cambia e costruisce e distrugge nuove dimore. E nuove famiglie. Una parola unificante è forse una non parola: l’ incertezza. Chi nasce oggi non sa, non può sapere dove e come abiterà. Quale sarà la sua mononucleare o allargata famiglia, può immaginare che molto cambierà e molte volte. L’incertezza è la cosa più certa. Del resto il mondo è costellato di rovine di mura, tracce arrugginite di filo spinato e trincee, barriere e muraglie. Tutti (inutili) tentativi di arginare il grande movimento delle genti, originato dalla ricerca di nuovi spazi o dalla necessità di fuggire carestie e guerre. Basterebbe un esame del DNA per scoprire quanti e equali antenati, clan e famiglie, patrie e case abbiamo avuto e abbandonato nella nostra lunga genealogia. Ecco, siamo certi, almeno più certi, della nostra incertezza: è questo il fil rouge che in qualche modo guida il nostro percorso. Lo stesso che più o meno consapevolmente seguono le generazioni 2.0. Sperando in una nuova parola, accoglienza, che dia dimora (fisica e mentale) a chi non ha dimora.

L'EDITORIALE

di Giancarlo Giojelli, Vicedirettore Rai News24 e Coach di questo numero


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Prologo

The New’s Room è nata per raccontare l’Italia e il mondo con gli occhi dei professionisti under 35. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo scelto un metodo nuovo, un contest aperto, da cui ha preso forma la redazione per l’anno 2018, il nostro secondo anno. Nel primo numero abbiamo indagato 24 ore del nostro Paese dopo il voto che ha lasciato l’Italia a lungo senza un governo, nel secondo numero abbiamo studiamo la società del “Mi piace”, dai social media all fast fashion. Con questo terzo numero entriamo nel cuore della vita degli italiani: Casa e Famiglia. Raccontiamo le famiglie che cambiano e le nostre case che diventano sempre più condivise. Siamo davvero liberi di scegliere per il nostro futuro?

Colophon

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la redazione

stampato presso

Pierangelo Fabiano Raffaele Dipierdomenico

Carmen Baffi Vittoria Becci Lorenzo Bernardi Laura Bonaiuti Carlo Brenner Antonio Carnevale Riccardo Ceccarelli Ilaria Danesi Francesca del Vecchio Gerardo Fortuna Maurizio Franco Fiorella Elisa Georgel Alessia Laudati Arianna Marchente Alice Militello Mirko Paradiso Daniele Priori Margherita Puca Nicolò Rosato Simone Rubino Roberta Russo Alessia Tozzi Lorenzo Sassi Riccardo Venturi

Grafica Nappa Srl Via Antonio Gramsci, 19 81031 Aversa (CE)

direttore responsabile

Sofia Gorgoni direttore editoriale

Sono domande che dobbiamo farci per raccontare la realtà di oggi, le nuove generazioni, senza pre-giudizi, con la volontà di capire. È questo il compito delicato di The New’s Room: raccontare il quotidiano per capire il futuro.

Sara D’Agati advisor editoriale

Beniamino Pagliaro editore

The New’s Room Srl coach di questo numero

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thenewsroom@agol.it Registrazione Tribunale di Roma N.68 del 6/04/2017 Bimestrale Tematico. Anno 2 - Numero 9 Luglio / Agosto 2018

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INDICE

n° 9

Luglio / Agosto 2018

editoriali

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facts

01 ― L’Editoriale del Coach

15 ― Qualcuno ha detto “Famiglia Tradizionale”?

10 ― Mappamondo

di Giancarlo Giojelli

di Lorenzo Bernardi, fotografia di Ilaria LaGioia

19 ― Rainbow children. I Figli dell’A rcobaleno di Alessia Tozzi, fotografia di Ilaria LaGioia

08 ― L’epoca dell’Incertezza

23 ― Generazione post-femminista

12 ― Infografica

di Lorenzo Sassi, fotografia di Ilaria LaGioia

di Sara D’Agati

focus casa

28 ― Come sono cambiate le forme delle case? di Vittoria Becci, fotografia di Simone Hutsch

32 ― Come saranno le case del futuro? di Antonio Carnevale, fotografia di Fontanet Castillo

38 ― Senzatetto con residenza di Carmen Baffi

41 ― Airbnb. I migliori host? I “palazzinari” di Simone Rubino approfondimenti focus famiglia

44 ― Famiglie numerose. I magnifici 8 di Mauro e Cristina

20 ― Legge Cirinnà. A che punto siamo?

di Daniele Priori, fotografia di Ilaria LaGioia

di Margherita Puca

46 ― Childless Women

48 ― Chiamateli Peter Pan

36 ― La casa del futuro secondo Samsung

di Sofia Gorgoni

di Antonio Carnevale

di Alessia Laudati, fotografia di Ilaria LaGioia


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Negli ultimi dieci anni ho cambiato 3 continenti, 9 città, diversi lavori, innumerevoli case e un’incalcolabile numero di coinquilini. Ho fallito 3 convivenze e altrettante relazioni, a patto che una relazione finita debba per forza considerarsi un fallimento, e sono soggetta a continui girl’s crush. Mia nonna, in compenso, ha smesso di chiedermi quando mi sposo e ogni volta che mi vede mi chiede: “Che lavoro fai, ora?”. I miei amici di una vita, quando mi incontrano per strada a Roma mi dicono: “Sei a Roma.” Con un tono che non è ne’ una domanda, dato

che la riposta è auto-evidente, né uno statement che richieda un qualche approfondimento; ma più che altro una constatazione. Del tipo “Ah ok, sei qui. Brava.” I miei vestiti sono sparsi per quattro case: quella di mia madre, quella del mio fidanzato, quella che ho preso in affitto e in cui non ho praticamente mai dormito, e quella dell’anima pia di turno che decide di ospitarmi all’occorrenza a Milano, Palermo, o dovunque mi trovi in quel momento per lavoro. Ogni tanto faccio qualche viaggio lungo per cercare me stessa. Per fortuna non mi trovo mai.

Siccome tra le altre cose faccio la giornalista, le persone spesso chiedono la mia opinione su questo, o quest’altro argomento. Quando famiglie senza casa occupano spazi sfitti da decenni, istintivamente mi ritrovo a pensare che sia giusto così, poi c’è sempre l’interlocutore di turno che mi dice che “la quesitone è molto più complicata di così”, e allora io mi dico che sarebbe bello, però, se a volte le cose fossero più semplici, di così. Quando mi chiedono se sono d’accordo sul matrimonio gay, mi viene subito da ridere all’idea che qualcuno pensi si debba avere un’opi-

CASA, FAMIGLIA E ALTRI ANIMALI

La mia su matrimonio, figli, Dio, libertà e altre cose poco importanti. di sara d'agati, direttore editoriale

l'editoriale

nione su una cosa del tutto inopinabile. E’ come dire “Piove, sei d’accordo?” Famiglia tradizionale? I miei genitori non sono insieme da che io ho ricordi. Non sono una di quelle che hanno avuto il “trauma del divorzio”, e mi è sembrato piuttosto normale quando entrambi si sono innamorati di altre persone. Sono cresciuta con mia madre, mia zia, il marito americano di mia zia, e una serie di figure che di volta in volta i miei ospitavano a casa per periodi più o meno lunghi. Una volta, dopo il terremoto dell’Aquila, mia zia si è unita ai soccorsi e poi è tornata a casa con questo Gigi che, per un po’ di tempo, è stato per tutti noi “Gigi il terremotato.” Poi, per più di un anno, con noi c’è stata anche Jalila, la badante marocchina di mio nonno, che però quando mio nonno ci ha lasciati si è fatta male a una gamba e non trovava altri lavori. Allora è rimasta con noi, anche se non c’era più nessuno a cui badare. Ogni giorno, mattina e sera, stendeva il tappetino di fronte alla sua stanza e pregava, e quando andavamo in campagna d’estate veniva con noi, ma non poteva fare il bagno in piscina né mettersi in costume, così se ne stava sempre in veranda coperta dal velo a giocare con l’Ipad. Ho due “fratellastri” che amo, una “matrigna”, e tutte quelle figure con quei nomi da cartone di Walt Disney che

però non mi maltrattano, né mi obbligano a pulire casa, né niente. Per anni ho sognato di vivere in una “comune” in campagna con tutta una serie di altre persone praticando la sussistenza e cose del genere. Poi ho parlato con chi lo fa davvero, ho capito che è una gran fatica; e mi è passata completamente la voglia. Alterno vagheggiamenti utopici ad aspettative di inquadramento borghese e conformista. La coerenza non è mai stata un mio problema, e diffido profondamente di chi dice “è una questione di principio” e professa coerenza a destra e manca. Il mio psicologo dice sempre questa frase: “Ti devi centrare”. E io dico ok. Ma non sono sicura di aver capito esattamente cosa intenda. Da grande mi vedo ancora appassionata del mio lavoro, qualsiasi esso sia; sposata, con due figli, e una casa mia. Poi mi ricordo che sono grande. E un po’ mi viene da sorridere. Il matrimonio lo vedo come una grande festa, con il karaoke stonato e la musica brutta, in cui dire al mondo intero che ho scelto la persona che ho scelto perché la amo, è la migliore per me, e voglio starci tutta la vita. Dietro deve esserci un filmino dove scorrono una serie di foto di dubbio gusto; gli amici stretti devono fare dei discor-

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si dove raccontano aneddoti ridicoli, dicono che siamo la coppia più bella del mondo, e ci augurano un sacco di felicità; nel frattempo si commuovono e ci commuoviamo anche noi. Quando mi chiedono se credo in Dio, dico che non lo so se si chiama Dio; ma di sicuro qualcosa c’è. Non so se sia esattamente quello che penso, ma mi piace dirlo e mi pare suoni parecchio bene. La vera libertà, per me, è la possibilità di scegliere. Chi essere, chi amare, dove vivere, cosa diventare. Chi ha una simile libertà è fortunato. E ha il dovere di tenerlo presente anche nei momenti, tanti, in cui tanta libertà fa paura. E deve tenerlo presente di fronte a chi lascia casa propria, perché tale scelta non ce l’ha, e ne cerca un’altra di casa: quella in cui essere libero. L’uomo, per sua natura, tenderà sempre alla libertà, o all’illusione di essa, e non c’è muro che tenga. E per quanto questa, a leggerla, possa apparire una banalità ai più, di fatto per molti (forse la maggioranza) non lo è. Altrimenti non si spiegherebbe il successo di una certa retorica politica. Famiglia per me è quella di ieri, unita agli amici vecchi e nuovi, e a quella che un giorno costruirò. Casa? Casa è dove sono io.


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il mappamondo

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44 Torino

p.44 ― Una Grande Famiglia italiana: otto figli. Entriamo in casa loro

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Di Daniele Priori

Venezia

p.33 ― Scopriamo le case del futuro con una startup veneziana

San Francisco

p. 41 ― La rivoluzione Airbnb è nata qui. Di Simone Rubino

Di Antonio Los Angeles

p.19 ― Nic e Jules sono una perfetta coppia lesbica, protagoniste di un film che ci racconta i figli arcobaleno. Di Alessia Tozzi

Carnevale

Roma

p.29 ― Partiamo dall’antica Roma per capire il significato di casa Di Vittoria Becci

Il mappamondo.

Le storie del nostro numero ci fanno viaggiare in tutto il mondo

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Uno sguardo ai numeri

facts

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Italia: Giovani celibi e nubili, che vivono in famiglia con almeno un genitore

18-34 anni 6.937.000 63,5% Matrimoni e Separazioni in Italia

25-29 anni 2.055.000 64,4%

Fonte Istat, 2016

30-34 anni 1.077.000 30,0%

Fonte Istat / Storiologia.it

Estero: Adulti 25-29 che vivono con i genitori

Matrimoni Divorzi / Separaz.

1960

1970

1980

1990

2000

2010

2014

397.000 4.800

385.000 5.600

305.000 26.000

310.000 50.000

284.410 109.542

217.700 142.351

189.765 141.658

Matrimoni con Entrambi i Coniugi Under 30

Fonte Eurostat, 2016

Croazia Malta Slovacchia Grecia

Serbia Italia Portogallo Spagna Slovacchia

Bulgaria Polonia Romania Ungheria

Cipro Irlanda Rep. Ceca Lussemburgo Lettonia Lituania

― 75% - 70%

― 66% - 60%

― 58% - 53%

― 49% - 40%

Belgio Estonia

Austria Germania Svizzera Islanda Regno Unito Francia Olanda

Norvegia Svezia Finlandia Danimarca

― 35% - 31%

― 28% - 17%

― 9% - 5%

Fonte Istat / Storiologia.it

Totale Matrimoni Con entrambi i coniugi sotto i 30 anni Percentuale

1996

2006

2016

272.000 82.345 30%

245.992 61.857 25%

203.258 36.790 18%

Età Media della Donna al Primo Parto Estero: Età Media in cui i giovani lasciano casa Irlanda Liechtenstein Spagna ― 32 anni

Cipro Danimarca Grecia Italia Lussemburgo Olanda Portogallo Svezia Svizzera ― 31 anni

Austria Belgio Croazia Estonia Finlandia Francia Germania Islanda Malta Norvegia Regno Unito Rep. Ceca Slovenia ― 30 anni

Lituania Lettonia Montenegro Polonia Serbia Ungheria ― 29 anni

Albania Bielorussia Slovacchia Turchia ― 28 anni

Armenia Bulgaria Georgia Romania Ucraina ― 27 anni

Azerbaijan ― 25 anni

Fonte Eurostat, 2016

Svezia Danimarca Finlandia

Olanda Francia Germania Regno Unito Estonia Lettonia Belgio

Austria Irlanda Lituania

Lussemburgo Rep. Ceca Cipro Ungheria

Polonia Romania Slovenia Spagna

Portogallo Bulgaria Grecia Italia

Malta Slovacchia Croazia

― 19/22 anni

― 23/25 anni

― 25/26 anni

― 26/27 anni

― 28/29 anni

― 29/30 anni

― 30/31 anni

Italia: Proprietari di immobili e quote immobiliari Coppie Omosessuali in Italia

Totale Italia Di cui effettuate all'estero e poi trascritte in Italia

Fonte Arcigay, Dicembre 2017

7.073 1.000

Under 35 2.313.000 9%

35-65 anni 15.008.800 58,4%

Over 65 8.378.200 32,6%

Fonte Repubblica Economia & Finanza (Agenzie delle Entrate)


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Qualcuno ha detto “Famiglia Tradizionale”?

Dal 2011 a oggi si sono celebrati 1000 matrimoni in meno, le nascite sono calate di 62mila unità e sono cresciuti vertiginosamente i divorzi, arrivati a 82mila l'anno. E gli sposi sono sempre più vecchi.

Testo di Lorenzo Bernardi

Fotografia di Ilaria LaGioia


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Siamo una generazione stanca cresciuta in una società stanchissima. Facciamo fatica a fare qualunque cosa, figuriamoci un figlio. Perché sposarsi ora, perché fare un figlio ora, e precludersi la possibilità di cambiare programma?

Mamma e papà si sposano, vanno a vivere assieme e fanno un paio di bambini. Ecco a voi la “famiglia tradizionale”. Ma la famiglia tradizionale è come il panda: è quasi estinta. Almeno secondo una certa retorica – che a qualcuno piace alimentare – questa realtà, intesa come madre, padre (sposati) e figli, starebbe scomparendo. Soprattutto fra i giovani. Chiunque abbia fra i 25 e i 35 anni non potrà negare che siano relativamente poche le coppie di coetanei su cui si possa appiccicare l'etichetta di “famiglia tradizionale”. Di famiglie ne conosciamo moltissime, ma la sensazione è che quasi tutte abbiano qualcosa “che non va”, quanto a tradizionalità. Chiara e Marco hanno due bambini, ma non si sono mai sposati. Alessia e Davide invece sì, ma di figli non ne vogliono sapere. Alice e Franco stanno insieme ma i loro figli sono nati da precedenti unioni. E Fabio e Luca sono sposati e hanno un bambino. Ma tutto sono, meno che “tradizionali.” Insomma, sono in molti ad avere la sensazione che la classica coppia sposata con figli sia una specie in via d'estinzione. È davvero così? Naturalmente no, ma qualcosa di vero c'è. Lo dice l'Istat, secondo cui in Italia le famiglie sono 25 milioni. Non sono poche, ma a scorporare i dati ci si rende conto che effettivamente stanno cambiando. Tanto per cominciare ci si sposa di meno. E non c’è bisogno di fare il paragone con la generazione dei

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nostri genitori. Basta guardare indietro di cinque anni. Nel 2016 si sono celebrati 203mila matrimoni, circa 1000 in meno rispetto al 2011, 100mila in meno rispetto al 1985 e quasi 200mila in meno rispetto al 1960 (quando peraltro c'erano 8 milioni di italiani in meno). Il “sì” arriva sempre più avanti negli anni e questo vale principalmente per le donne: nel 2011 la fascia d'età più propensa al matrimonio era quella 24-29 anni, oggi è 30-34. Un cambiamento figlio di molti fattori: su tutti la maggior scolarizzazione e la disoccupazione giovanile, che scoraggiano i giovani ad andar via di casa. Facciamo anche meno figli: nel 2016, rispetto al 2011, sono nati 62mila bambini in meno. Conseguentemente, calano le coppie con figli, soprattutto fra i giovani. Nella fascia d'età fra i 24 e i 34 anni, in cinque anni queste si sono ridotte dell'1,2%, centocinquantamila in meno. Non solo: i bambini arrivano sempre più tardi. In media si diventa mamma a 32 anni, papà a 35. Qualcosa che ai tempi delle nostre nonne sarebbe stato impensabile. Insomma, le famiglie italiane tendono a farsi sempre più piccole e più “rilassate” nel loro percorso di crescita. Per contro, i divorzi (82mila l'anno) sono vertiginosamente aumentati (+57) soprattutto fra il 2014 e il 2015, per l'introduzione della legge sul divorzio breve. Tuttavia non è vero che a divorziare sono soprattutto i giovani: la durata media dei matrimoni, al mo-

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mento della separazione, è infatti 17 anni.

gli usi che si sono consolidati storicamente.

I bambini che vivono con i genitori naturali sono sempre meno: solo nel 2016 i figli affidati in seguito a separazioni e divorzi sono stati 95mila, cioè quasi un quarto dei nati in quello stesso anno. Significa che, a spanne, ogni bambino che nasce ha una possibilità su quattro che mamma e papà si separino.

In realtà a entrare in crisi è più che altro quel tracciato. Nella società odierna, per vari motivi, è molto più facile che le famiglie si rimodellino – o addirittura si disgreghino – rispetto al passato. Se questa di per sé non è una bella notizia, non è neanche necessariamente un male. Perché non traduce per forza un deterioramento della morale né un indebolimento dell'istituzione del matrimonio. Può voler dire anche che le donne sono tendenzialmente più libere, che il divorzio (quasi ovunque) non porta con sé stigma sociale e che, in generale, l'integrità della famiglia non rappresenta più un dogma ineluttabile.

C'è poi il capitolo riguardante le famiglie omosessuali. La legge Cirinnà, che ha sdoganato le unioni civili fra persone dello stesso sesso, è entrate in vigore solo nel luglio 2016 e non ci sono ancora rilevazioni Istat sulla sua applicazione. Ci si può comunque fare un'idea della situazione analizzando alcuni dati. Repubblica stima che, da luglio 2016 a marzo 2017 le unioni fra persone dello stesso sesso siano state circa 2800. Secondo una stima de Il Post, intorno al 2% delle unioni totali, compresi i matrimoni. Insomma, che la “famiglia tradizionale” accusi segni di crisi lo certificano i dati. Anche se, a ben guardare, probabilmente è il concetto stesso di famiglia tradizionale – qualunque cosa voglia dire – ad essere ormai inadatto a raccontare la società di oggi. La sua stessa definizione si basa su una prassi, più che su un concetto: la famiglia tradizionale è quella coppia con figli in cui non subentrano separazioni, divorzi o in generale “incidenti di percorso” rispetto a un tracciato definito da-

C'è poi un'altra questione. Siamo una generazione stanca cresciuta in una società stanchissima. Facciamo fatica a fare qualunque cosa, figuriamoci un figlio. La fatica è conseguenza di almeno due fattori: da un lato la maggiore difficoltà dei trentenni di oggi di “farsi una posizione” rispetto ai loro genitori (anche perché una società più vecchia offre meno possibilità), dall'altro la convinzione, un po' figlia dell'ottimismo ereditato da mamma e papà, di avere in fondo tutto il tempo del mondo per realizzare i nostri sogni. Insomma, perché sposarsi ora, perché fare un figlio ora, e precludersi la possibilità di cambiare programma? Ecco perché i passi “definitivi” si fanno sempre più da vecchi: siamo cresciuti cambiando programma. Non poterlo più fare ci spaventa.


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Rainbow children. I Figli dell’A rcobaleno.

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Sull’adozione gay hanno tutti un opinione. La più comune, è che un figlio per crescere ha bisogno di un padre e una madre. Siamo sicuri?

Testo di Alessia Tozzi

Fotografia di Ilaria LaGioia


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Nic e Jules sono una perfetta coppia lesbica middle-aged. Profondamente innamorate l’una dell’altra, hanno costruito nel tempo un sereno ambiente familiare assieme ai figli Joni e Laser, nati con inseminazione artificiale. In questa pellicola dal titolo provocatorio I ragazzi stanno bene, la regista Lisa Cholodenko decide di ribaltare la tipica prospettiva delle commedie sull’omosessualità, raccontando un incidente di percorso nel rapporto di coppia per enfatizzare la normalità dell’amore. Ma la realtà fuori dalle sale cinematografiche qual è? L’adozione gay è questione magmatica e complessa. Soprattutto in Italia. Soprattutto col nuovo governo e le posizioni del neo-ministro alla famiglia Lorenzo Fontana, che sui nuclei arcobaleno sostiene lapidario: “una legge in proposito non c’è, quindi non esistono”. E a ben vedere, a determinare la zona d’ombra è proprio un vuoto normativo. Ricerche alla mano, i bambini non sembrano subire alcun danno nel vivere e crescere con due padri o due madri. Il tranello

LEGGE CIRINNÀ. A CHE PUNTO SIAMO? Testo di Margherita Puca

non si annida tanto nell’eventuale incapacità genitoriale, quanto nella scarsa cultura e sensibilità generale.

11 maggio 2016: il disegno di legge Cirinnà viene approvato dalla Camera dei Deputati. 372 favorevoli, 51 contrari. La norma, entrata in vigore il 5 giugno dello stesso anno, introduce l’istituto dell’unione civile all’interno del nostro ordinamento giuridico, riconoscendo alle coppie omosessuali gran parte dei diritti

Ma facciamo un passo indietro. In principio fu la battaglia per il riconoscimento dei matrimoni celebrati all’estero fra persone dello stesso sesso, per arrivare nel mag-

e dei doveri previsti dal matrimonio. Obbligo all’assistenza morale e materiale, obbligo alla coabitazione. Ma da questo momento si può anche scegliere tra comunione legale e separazione dei beni, adottare un indirizzo di residenza comune e cambiare il proprio cognome con quello del partner. Salta l’accordo sulla

stepchild adoption: non è permesso adottare il figlio del coniuge. Viene eliminato l’obbligo di fedeltà. Alcuni definiscono la legge lacunosa, insoddisfacente, compromissoria: tutti però riconoscono l’importanza del primo passo compiuto dall’Italia in materia di diritti della comunità LGBTQIA+.

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gio 2016 all’approvazione della legge Cirinnà e all’introduzione nell’ordinamento italiano delle unioni civili. Il testo originario riconosceva anche la stepchild adoption, ovvero la possibilità di adottare il figlio del partner, poi eliminata per ottenere i voti dell’allora Nuovo Centrodestra e quindi approvare la legge. Allo stato dell’arte l’adozione gay non è quindi riconosciuta. Ma non è neppure espressamente proibita. Motivo per cui a tutelare i rainbow children sono proprio i giudici. Per i garanti del diritto l’omogenitorialità non si pone al di fuori del nostro ordinamento, ma ne è parte integrante. Del resto non esiste un solo modello di famiglia ma tanti quanti ne concepisce la società umana. Non serve una profonda capacità analitica per rendersi conto di come sia cambiato il concetto di famiglia negli ultimi decenni. Il nucleo tradizionale si scompone e ricompone sempre più spesso in forme differenti, con figli affidati a settimane alterne o cresciuti da nonni, mamme o papà single. Coppie che ricorrono a fecondazione assistita, alla gestazione per altri o al seme di terzi. E poi, le famiglie

Al 31 dicembre 2017 in Italia sono state celebrate 6.073 unioni civili, con un aumento del 149% rispetto al 2016. Se le previsioni saranno rispettate, entro la fine di quest’anno diventeranno 10-11 mila, alle quali si aggiungeranno le circa 1000 celebrate all’estero ed in seguito trascritte in Italia. La regione che ha registrato il

omosessuali. “Non essendo riconosciute è molto difficile quantificarle, ma in Italia siamo nell’ordine delle migliaia”, sostiene Marilena Grassadonia, presidente dell’A ssociazione Famiglie Arcobaleno che, da sola, conta oltre 1600 nuclei iscritti e 700 bambini. A tal riguardo sono tanti gli studi che hanno messo a confronto i diversi contesti in cui crescere un figlio, per rispondere a domande che giustamente la società deve porsi. Se per l’opinione comune si cresce meglio con un padre e una madre, non ci sono ad oggi evidenze scientifiche in grado di confermare questa affermazione. Di contro, esperti di genere e famiglia, come la psicologa britannica Susan Golombok, o i sociologi statunitensi Timothy Biblarz e Judith Stacey, hanno osservato e analizzato famiglie omosessuali, dimostrando che la crescita psicologica del bambino non dipende dal sesso dei genitori. Il nucleo migliore è sempre quello responsabile. Meglio se i genitori sono due e se la coppia è stabile, ma un solo genitore “molto buono” è preferibile a due mediocri. Insomma, ricerche alla mano, i bambini non sembrano subire al-

numero più alto di unioni è la Lombardia (1514), a seguire il Lazio (915) e l’Emilia-Romagna (645). La città in testa alla classifica è la Capitale, nella quale sono state celebrate 845 unioni civili, al secondo e terzo posto Milano (799) e Torino (378).

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cun danno nel vivere e crescere con due padri o due madri. Difatti, il tranello non si annida tanto nell’eventuale incapacità genitoriale, quanto nella scarsa cultura e sensibilità generale: quella che trasmette alle coppie gay il senso di colpa delle proprie scelte, la pressione nel dimostrare di essere all’altezza, di non commettere errori, di riuscire a crescere figli perfetti e senza sbavature. Ma soprattutto quella che considera diversi gli stessi bambini. Anna e Francesca, mamme di Thomas e Mattia, hanno deciso per questo motivo di trasferirsi a Londra: “lo stato italiano non tutelava la nostra famiglia e avevamo paura che i nostri bimbi fossero discriminati. In Inghilterra ci siamo dimenticate di essere una coppia gay, siamo semplicemente una famiglia come tutte le altre. Alle prese con le continue sfide e le immense gioie legate al privilegio di crescere due figli”. È pur vero che da qualche parte bisogna cominciare e, forse, a pagare il prezzo più alto saranno le prime famiglie. Poi diventerà più semplice. Nel frattempo conta educare mostrando che la felicità scavalca le tradizioni. Che poi di tradizionale ci è rimasto ben poco. E quel che è rimasto non sempre garantisce amore ed equilibrio.


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Generazione post-femminista Analisi della prima generazione, quella dai nati dagli anni ’80 in poi, in cui i ruoli sono davvero cambiati. Testo di Lorenzo Sassi, fotografia di Ilaria LaGioia

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La fede sorge dove incomincia il mistero: Dio, la morte, la vita nella sua pienezza. Per il femminismo il mistero era la libertà, l’uguaglianza di genere e un certo tipo di equipollenza antropologica (semplificando). Che oggi quel mistero sia stato interamente disvelato è menzogna. Ma l’empietà differisce dall’apostasia. L’empietà riconosce il sacro, senza però condividerne la ritualità simbolica, le istituzioni della fede, i modi. La Littizzetto, per dirne una. E questa è parresìa. Quando “Dio è morto” sono decadute anche tutte quelle prassi di vita che avevano tranquillizzato i maschi egotomani che vedevano nella donna un semplice corredo, una necessità (auto)imposta dalla società. Ma il mistero rimaneva, ancora, destabilizzante. Poi è arrivata la messa in onda di The Handmaid’s Tale, tratta dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood. Quel concentrato di lirismo distopico che ammicca a P.K. Dick e rimaneggia il Manifesto Cyborg di Donna Haraway ha riacceso il dibattito sul tema. La Atwood si impone empiamente davanti al mistero: le rivoluzioni di genere e i movimenti femministi - pur nelle loro contraddizioni - hanno imposto la liquidità dei ruoli, l’annichilimento delle dicotomie e il superamento del maschilismo. Di più. Tali battaglie ci hanno aperto un mondo, il nostro, dove la prospettiva femminile è l’altro sguardo di Giano.

Quando “Dio è morto” sono decadute anche tutte quelle prassi di vita che avevano tranquillizzato i maschi egotomani che vedevano nella donna un semplice corredo, una necessità (auto)imposta dalla società. Ma il mistero rimaneva, ancora, destabilizzante.

La trama è semplice. In un futuro non troppo distante la società rendiconta a sé stessa che gli schemi narrativi, relazionali e amorosi - che fino a quel momento avevano offerto una precaria, ipocrita e illusoria stabilità emotiva a chiunque -, essendo venuti meno, ci hanno riconsegnato un mondo in cui: 1) chi non vuole avere figli è libero di non volerli; 2) chi non vuole sposarsi è libero di non sposarsi; 3) il mito della famiglia (cristiana) è ormai decaduto. Vale a dire il mondo in cui viviamo oggi, intriso di libertà sessuali e dove una donna può piacevolmente definirsi autarchica, non più insomma vincolata dalla volontà di un uomo (indipendentemente dal fatto che questo sia marito, padre, datore di lavoro etc.).

Comunque sia, nella serie, la libertà liquida conquistata a suon di battaglie per i diritti di genere - per una forzatura logica che non risponde al principio di ragione, bensì al pensiero magico - viene concepita come causa principale del calo delle nascite. Il mondo è nel panico. Un gruppo di facinorosi (una sorta di postmoderna cellula di Al-Qaida iper-cattolica), travisando un passaggio biblico a dir poco fumoso (Genesi 30, 1-4), instaura una teocrazia all’insegna del timore di Dio. Le donne vengono epurate da qualsiasi istituzione pubblica, vengono rimosse dall’Università e viene proibito loro perfino di leggere: siamo a Nomadelfia, solo grande come gli USA e radicalizzata. Le donne vengono cacciate come animali e convertite in “ancelle”: involucri di carne adibite al solo dopo di procreare. Il risultato è un angoscioso ritratto di un’umanità priva di umanità - o comunque di una società che rasenta le deformità morali dell’alto medioevo (o i più recenti anni ’50). Tutto è grigio, triste, gli uomini assetati di potere, quasi robotizzati, privi di qualsivoglia accenno di empatia. Questo per dire che l’opera della Atwood, prima ancora di essere un prodotto d’intrattenimento (o letteratura tout court), mostra come eravamo prima che si raggiungesse la maturità emozionale necessaria per ammettere, apertis verbis, che la decostruzione pressoché totale delle tradizionali pratiche tra uomo e donna, benché possano averci consegnato un mondo costellato da instabilità (emotiva e sociale), è un mondo multiforme, sfaccettato, frutto della commistione di prospettive diverse, ruoli che si sganciano dalle proprie anacronistiche e secolari ancore. Intrufolarsi nella narrazione atwoodiana significa credere empiamente al femminismo. Significa avvicinarsi a ciò che fortunatamente, nella vita reale, è stato scongiurato e riconsegnato surrettiziamente alla finzionalità dei prodotti dell’immaginazione. E lentamente il mistero si disvela, relegando la fede agli apostati, creduloni.

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Il primo contest online riservato agli under 30 che vogliano pubblicare il proprio manoscritto

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Come sono cambiate le forme delle case? Usi, costumi e significati che caratterizzano le geometrie dell’abitare tra ieri e oggi. Testo di Vittoria Becci, fotografia di Simone Hutsch


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Non si invita più a casa, non si cucina più nemmeno per noi stessi. Ognuno nel suo loculo, come nei film di fantascienza ormai datati. Cosa resterà allora delle forme geometriche che suggerivano i rituali della famiglia nella propria vita di casa?

“Tesoro, apparecchia la tavola”; “È pronto!”; “Metti in ordine”. Quante volte si è pronunciato o ci hanno detto queste frasi nel nostro abitare la casa? La cucina, la sala da pranzo, il salotto, le stanze o l’ingresso dove lasciare i cappotti possono essere semplici divisioni dello spazio, ma anche definizioni di riti, di tempi, di usi per condividere la vita tra le quattro mura. Le case non hanno sempre servito e non servono un unico tipo di famiglia, ma senza addentrarci nelle molteplici sfaccettature della nostra realtà, possiamo dire che il legame tra le forme e gli spazi delle case è sempre stato ed è strettamente legato a idee e costruzioni sociali che si hanno della famiglia. Penso ai cerchi delle capanne, i quadrati e i rettangoli romani e greci, i cunicoli delle kasbe. Heidegger parlava di abitare in termini esistenziali: lo spazio diventa esistenza quando si riesce ad orientarsi e ad identificarsi in un

ambiente. La casa è quindi un rifugio, un qualcosa di prezioso e intimo all’interno del quale si crea un’identità; chi è che non ha avuto una cameretta, mausoleo della propria adolescenza? A Roma, nell’età arcaica la forma ovale delle capanne cingeva un focolare, fulcro della vita familiare. Queste casae furono poi sostituite dalla domus che si sviluppava in forme rettangolari non perfette intorno all’atrium. Nell’Urbe, queste strutture, oltre all’intimità e alla quiete del proprio vivere, avevano anche altre funzioni, ad esempio quella del ricevere. Lo spazio che riceve è diverso da quello dove si cucina e il ricevere è anche un atto di mostrare e mostrarsi alla societas, allora come ora. I luoghi definiscono lo spazio dell’abitare ma anche altri rituali; i pasti ad esempio, scandiscono il ritmo della giornata nella casa. Insieme, le azioni e lo spazio, sono capaci di

focus ― casa

misurare il rito. La merenda, la colazione, l’aperitivo, il pranzo o la cena, il film, l’ozio, a seconda della stanza in cui vengono consumati possono avere un gusto più o meno formale. Osservare la struttura e le forme geometriche delle case non è quindi solo un esame di architettura, ma è anche un esercizio di storia e di società. Dalle capanne, alla domus, passando per il Rinascimento, dove la razionalità pensa la vita familiare all’interno di case dalle linee pulite, ampie e su tre piani solitamente. Quadrati per lo più, come le ville medicee, con un cortile all’interno, sale per ricevere, per stare insieme, per studiare (Leon Battista Alberti -uno degli architetti del Risorgimento- scrive “I Quattro Libri sulla Famiglia”), mentre le stanze più piccole per i propri momenti privati. Infine, dal Rinascimento al novecento dove gli spazi e le città

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cambiano, e la vita nella casa sembra prendere un’altra piega. Sulle spiagge della Normandia spicca Le Havre, la prova concreta del legame architettura e società, la città interamente ricostruita dopo che fu rasa al suolo negli ultimi attacchi della Seconda Guerra Mondiale. Il modernismo dell’architetto incaricato della ricostruzione, Auguste Perret, introduce i blocchi di cemento come migliori forme modulabili ed economiche per una nuova vita di elettrodomestici, spazi aperti e trasformabili. Con lui Mies van der Rohe, Le Corbusier, e il minimalismo in generale introducono una maniera di abitare gli spazi della casa in maniera più libera, più comoda e più veloce; adattabile alla vita cittadina, dove oggi, sempre più persone chiedono sempre più spazio. Prendiamo ad esempio una passeggiata per Parigi: nel suo polveroso romanticismo, se si sceglie di guar-

dare più attentamente tra le finestre delle case, appare abbastanza evidente di come da quelle parti si viva come sardine. Mono-appartamenti uno sopra l’altro con il letto in vista e due piastre precarie appoggiate su un piano qualsiasi e magari qualche pianta grassa qua e là, le uniche che sopravvivono nel deserto, per l’appunto. Abitazioni minime e ottimali - vedi la teoria dell’existenzminimum di LeCorbusier- provvedono sicuramente alla alta richiesta di alloggi, ma distruggono la dimensione casa, portando chi abita questi spazi a pensare al solo soddisfacimento dei propri bisogni primari. Cosa succede allora ai riti della casa? Se la cucina, la sala da pranzo, il salotto e l’ingresso diventano sempre lo stesso spazio, ogni azione si perde nella monotonia. E se stessimo diventando monotoni? Se stessimo confondendo la semplicità e l’informale con la noia dell’abitare? Non si invita più a casa, non si cucina più nemmeno per noi stessi. Ognuno nel suo loculo, come nei film di fantascienza ormai datati. Cosa resterà allora delle forme geometriche che suggerivano i rituali della famiglia nella propria vita di casa? Cosa resterà del mangiare a tavola, divertirsi, oziare sul divano, riposare, occuparsi delle faccende? L’individualismo e l’incertezza nei quali ci troviamo a sguazzare ripercuotono anche la nostra idea di abitare. Com’è liberatorio dire: “Vivo in una casa troppo piccola per invitare, per avere un fidanzato, per sposarmi, per fare un figlio”; oppure “Vivo in una casa troppo grande per starci da sola”; e “Non so in che città voglio vivere per questo non mi decido a prendere un mutuo”? L’incertezza uccide il rito perché non crede nel futuro, ma soprattutto nel presente al quale si rifiuta di dare un ordine, e disegna delle forme che non hanno regole, né tantomeno, gusto.


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Come saranno le case del futuro? Testo di Antonio Carnevale Foto Anna Fontanet Castillo

Renato Pozzetto aveva ragione. Nelle città del futuro vivremo in abitazioni di 9 mq. Esistono già e sono super tecnologiche e a impatto zero.


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Stanno cambiando le abitudini, cambia il lavoro, la tecnologia modifica il volto delle nostre città. E dunque cambiano anche le nostre case. In futuro vivremo in abitazioni dalle dimensioni contenute, ma modulari e smart. Innovative in termini di materiali e autosostenibili, ma anche facili da costruire. E poi, saranno mobili e facilmente personalizzabili, per creare villaggi temporanei, utili in diverse condizioni di sicurezza. Insomma, avete presente il Renato Pozzetto del film “Ragazzo di campagna”? Certo, il paragone può sembrare abbastanza azzardato, ma se date un’occhiata al design delle nuove soluzioni abitative del futuro, non potrete non essere d’accordo. «Tavolo ribaltabile, TAC! Sedia rotante, TAC! Posto per commensali che non ci sono, TAC!». In pochi metri quadrati, tutto può cambiare e diventare funzionale alle nostre esigenze. Poi si aggiunge la tecnologia - dalla domotica all’Internet of Things, fino a soluzioni per l’efficienza energetica - e il gioco è fatto.

aVoid, la Tiny House del giovane architetto pesarese Leonardo Di Chiara. . Azionando differenti dispositivi mobili, lo spazio si trasforma, ricreando i vari ambienti casalinghi, dalla cucina al bagno in uno spazio di soli 9 metri quadri.

Diversi di questi avveniristici progetti per le città e le forme dell’abitare del futuro arrivano dall'Italia. L’esempio forse più famoso di “living unit” tricolore è aVoid, la Tiny House di un giovane architetto pesarese, Leonardo Di Chiara. Si tratta della più piccola casa mobile mai realizzata in Italia. Un’unica stanza, priva di qualsiasi arredo: tutti gli elementi sono nascosti all’interno delle pareti (ricordate? “TAC!”). Azionando differenti dispositivi mobili, lo spazio si trasforma, ricreando i vari ambienti casalinghi, dalla cucina al bagno. In uno spazio di soli 9 metri

quadrati dunque, troviamo ogni comfort. aVoid poi, è completamente autosufficiente, perché sfrutta l’energia solare e un innovativo sistema di riciclo dell’acqua. Inoltre, è pensata per essere trainabile da un'auto: “Oggi molti giovani sono nomadi in cerca di lavoro e anche all’interno della stessa città sono necessari spostamenti frequenti”, ha spiegato il suo creatore. Di qui l’idea di creare un modello di quartiere urbano migratorio su ruote, che si possa spostare facilmente e in altre aree (magari inutilizzate o colpite da emergenze, come un terremoto). Stesso concetto della casa Genesi di La Maggio, società veneziana che ha realizzato questa unità abitativa modulare, flessibile e trasportabile che mira a fondersi in maniera armonica e funzionale con l'ambiente che la circonda. Qualunque esso sia. La mobilità infatti, è il suo punto di forza anche se, come sottolineano i suoi ideatori, si è posta grande attenzione anche sulla sicurezza. L’abitazione infatti risulta essere solida, durevole e antisismica. Anche in questo caso gli interni (e anche l’esterno) sono personalizzabili. La casa è praticamente smontabile e rimontabile: si possono facilmente riorganizzare gli spazi, togliendo o aggiungendo moduli per gestire gli spazi secondo le proprie esigenze e la propria creatività. Aumentano (leggermente) le dimensioni, non cambia però la filosofia con M.A.Di, il Modulo Abitativo Dispiegabile in arrivo da Pescara. È una costruzione di 27mq a impatto ambientale zero: quando l'edificio alla fine ha cessato di essere utilizzato, è possibile piegarlo e spostarlo in un altro luo-


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go. Oppure conservarlo in un magazzino pronto per essere riutilizzato all’occorrenza. Ideale in caso di calamità naturali, M.A.Di è antisismica, ben isolata e può essere personalizzata scegliendo dimensioni e materiali in base alle esigenze e alla disponibilità economica. Inoltre, la costruzione può essere abitabile in due giorni e questo significa, tra le altre cose, ridurre notevolmente i costi di gestione del cantiere. Come visto già con questi esempi, in futuro tutte le abitazioni dovranno avere un occhio di riguardo per l’ambiente. Ci sono due progetti, su tutti, che fanno della sostenibilità ambientale la loro “mission”. La prima è la Rubner Haus Spaceship, di Rubner Haus e IED Istituto Tecnico di Design di Torino. Il modulo abitativo, completamente in legno, sfrutta la perfetta combinazione tra tradizione e tecnologia, utilizzando il sole e la fotosintesi per produrre l'energia,

Ormai è chiaro. In futuro le nostre case saranno completamente diverse da come le conosciamo oggi. Ne abbiamo parlato con Antonio Bosio, Product & Solutions Director di Samsung Italia.

renderanno possibile abilitare nuovi servizi che vedranno sfumare i confini dei mercati tradizionali, coinvolgendo una moltitudine di attori: dagli operatori delle Telco ai provider di infrastrutture (cloud in particolare), dalle utilities alla pubblica amministrazione, dalle compagnie assicurative alle banche.

Come sarà la casa del futuro? La casa del futuro sarà sicuramente una casa connessa, intelligente ed in grado di interpretare ed anticipare le nostre necessità. Per fare questo ci sarà bisogno di un ecosistema IOT aperto e scalabile. La moltitudine di oggetti connessi che dialogano tra loro

Quali sono le tecnologie che cambieranno per sempre il modo di vivere le abitazioni? In un futuro non troppo lontano le diverse tecnologie ci consentiranno sicuramente di svolgere attività che prima non riuscivamo nemmeno ad immaginare. Tra queste tecnologie siamo fermamen-

LA CASA DEL FUTURO SECONDO SAMSUNG Testo di Antonio Carnevale

te convinti che l'Internet of Things, grazie ad una piattaforma cloud come ad esempio Samsung SmartThings, possa davvero trasformare la nostra società, la nostra economia e il modo in cui viviamo le nostre vite. Quali progetti sta mettendo in campo Samsung in questo settore? L’obiettivo di Samsung è quello di trasformare l’ambiente domestico in un luogo dove le persone sono al centro. Parte integrante della visione di Samsung è rendere i dispositivi non solo connessi, ma anche intelligenti. Ecco perché per Samsung il concetto di intelligenza artificiale rappresenta l’elemento cen-

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il cibo, l'ossigeno e l'acqua necessari a chi lo occupa. Biosphera 2.0 invece, è un modulo abitativo di 25 mq che utilizza tutte le più avanzate tecnologie volte al minimo consumo energetico: pannelli fotovoltaici abbinati a batterie d’accumulo, pompa di calore, ventilazione meccanica controllata, serramenti e pannelli ad altissimo isolamento termico e acustico. Per le sue caratteristiche viene indicata per essere utilizzata in condizioni climatiche estreme. Ribattezzata, la “casa della zero energy generation”, Biosphera2.0 non è soltanto un’abitazione ma anche un progetto itinerante. Lo scopo del suo road show (che la sta portando in giro per l’Italia) è divulgare una nuova cultura dell’abitare e mostrare gli standard altissimi raggiungibili adottando le nuove tecnologie. Che presto entreranno, in pianta stabile, anche all’interno delle nostre case. Qualsiasi siano le loro dimensioni.

trale dell’intero ecosistema. Questo, tra le tante applicazioni, renderà ad esempio possibile già nei prossimi anni aumentare l’efficienza e ridurre i consumi energetici ed idrici delle proprie abitazioni salvaguardando maggiormente l’ambiente e ovviamente contenendo i costi. Inoltre, stiamo preparando il lancio di Bixby, la nostra piattaforma di Intelligenza Artificiale, che riteniamo possa semplificare notevolmente l’interazione tra i prodotti, i servizi e gli utenti che li utilizzano. Fare in modo che l’innovazione possa essere accessibile a tutti, anche grazie alla semplificazione dell’utilizzo della tecnologia, è la nostra priorità.

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Le candeline le spegne il 13 d’agosto. È una leonessa, Livia. Una leonessa invisibile, perché, come tanti altri, non ha più una casa. Se poi Termini può definirsi tale, allora una casa ce l’ha anche lei. Da febbraio 2017, i distretti comunali di Roma assegnano agli homeless una residenza fittizia: una roulotte, una stazione o addirittura una panchina. Un luogo per poterli localizzare, insomma. Senza, queste persone non potrebbero rinnovare la carta d’identità, non godrebbero del diritto alla salute, non potrebbero aprire una partita IVA e nemmeno offrirsi per prestazioni occasionali. Livia, la sua, ce l’ha a Termini. Vaga in cerca di sguardi, di sorrisi. Di qualcuno che abbia anche solo un minuto da dedicarle, ma corrono tutti. Chi fa l’errore di ascoltarla la guarda con aria schifata, l’attimo prima di voltarle le spalle. Lei risponde col suo sorriso sgangherato: voleva solo dare una mano a fare i biglietti per la metro. Quello che arriva potente come un pugno in pieno petto, ascoltandola, è la nitidezza dei suoi ricordi: «Io so’ dell’A lberone, sull’Appia. Mo ‘n ce sta più, è cascato». Di colpo, un po' come la sua vita.

Senzatetto con residenza La storia di Livia, leonessa invisibile, la senzatetto che dallo scorso febbraio ha registrato la sua residenza alla stazione Termini. Testo di Carmen Baffi, fotografie di N.Dumlao e L. Grandahl

Ricorda tutto, anche i dettagli. Momenti della sua infanzia e momenti tramandati, di quando lei al mondo nemmeno c’era. «Mi’ madre era de Urbino. Poi mi’ nonna ha avuto ’n’infarto ed è morta. Mo te poi salva’, ma a quei tempi morivi subito. Allora mi’ madre se n’è venuta a Roma a fa’ la domestica. Se l’era presa un’ostetrica che c’aveva du’ figlie piccole e voleva ’na mano in casa. Me la ricordo pure io, me ce portava spesso. Me ricordo pure le figlie e tutti quei macchinari che usava pe’ fa nasce’ i bambini in casa. Io pure so’ nata là dentro». «Poi me so’ fatta donna. Me so’ sposata il 7 luglio, l’anno non me lo

ricordo, ma c’avevo 25 anni: l’ho fatto aspetta’ 10 anni, prima. So’ nati subito i bambini. Ma un giorno me l’hanno investito, gli è andata addosso na macchina: du’ morti e du’ figli senza padre. Me so’ rimboccata le maniche e me so’ messa a lavora’. I miei figli stavano co’ mi’ madre, ché in quegli anni se li lasciavi da soli era n’attimo e te li toglievano».

ca l’aria. «Me piace l’acqua fresca: so’ na viziata! Qua le fontanelle o so’ calde o non funzionano. Allora ogni tanto sai che faccio? Salgo sul 64 e arrivo fino al capolinea, che ce stanno i distributori dell’acqua. C’è pure quella frizzantina: mica me piace tanto a me, però con quel caldo te dà più sollievo. Io scendo, me bevo qualche bicchiere, poi riempio la bottiglia e torno qua».

Adesso dove sono i tuoi figli? «La femmina a Brescia e il maschio a Firenze. Nun me pare vero che l’altra settimana lui è tornato pe’ sta co’ me. Da sabato fino a martedì. Poi se n’è annato di nuovo».

Ha gli occhi che brillano. Un fiume di parole in piena, Livia. Ma è invisibile: nessuno la vede, nessuno l’ascolta.

Livia lavorava giorno e notte pur di farli studiare: «Lo studio è la cosa più importante, soprattutto oggi. Ché la vita è tanto dura. A me nun me danno niente. Né il sussidio, né la pensione: ancora so’ troppo giovane, ma ho lavorato sempre». Del futuro non ne parla, nemmeno del presente. La sua casa sono i ricordi. E stasera che fai? «Niente. Me siedo lì sotto (indica le pensiline degli autobus) e me riposo un po’, tanto io sto sempre qua, ‘ndò vado?». Inizia a fare caldo, a Roma man-

Mentre le dico che devo andar via, il suo sguardo si spegne. Insieme al mio.


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AIRBNB. I migliori host? I “palazzinari” Testo di Simone Rubino

Le quattro mura dell'incertezza: casa, da passaggio imprescindibile per costruire un futuro a patrimonio immobiliare da condividere per guadagnare. La rivoluzione di Airbnb ha svuotato le città: il “caso estremo” Firenze


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Condividiamo tutto o quasi, non solo sui social. Anche il bene più prezioso ed intimo come narravano le cronache di un tempo conquistato con sacrificio e fatica, abbinato al macigno del ventennale mutuo bancario: la casa. Non è stata solo colpa della bolla americana dei mutui subprime e della crisi che ha poi colpito anche il mercato immobiliare di mezzo mondo. È cambiato il rapporto con il concetto di casa, si è modificata la relazione con il luogo al quale spesso si accede pestando quell'orribile tappetino che saluta ogni arrivato: “Home sweet home”. Ad imprimere una svolta, anticipando ed interpretando i tempi, ha contributo anche Airbnb, piattaforma online che occupa un posto in prima fila nel romanzo della “sharing economy”: chi vuole condividere una stanza o un alloggio per un breve periodo può pubblicare un annuncio e poi mettersi in contatto, senza mediazioni, con l'inquilino in pectore. L'ex startup della Silicon Valley è diventata un colosso globale: l'idea di Brian Chesky e Joe Gebbia ha rivoluzionato l'universo mondo, non solo il pilastro sul quale era fondata la società di ieri, cioè la casa: step costituente per la creazione di una famiglia. Quel che dieci anni fa è nato per gioco, affittando un materassino di gomma per una notte, ha sbancato: Airbnb oggi vale 31 miliardi di dollari, dispone di 4,8 milioni di alloggi, ha fatto ospitare 300 milioni di persone e guadagnare 41 miliardi di dollari ai suoi host.

L'Italia è la terza meta del mondo per gli utenti AirBnb e Firenze è una delle tappe preferite: negli ultimi anni gli host sono raddoppiati, raggiungendo quota 7500 e permettendo ad Airbnb di conquistare il 18% del centro storico.

Le premesse di Airbnb erano fondate sull'abc del “peer-to-peer”, volte all'integrazione del reddito condividendo uno spazio. Il risultato ha superato ogni aspettativa: su un fatturato di quasi 3 miliardi di dollari solo il 20% degli host guadagna l'80% dei ricavi, il che crea una polarizzazione dettata dalla natura dei privati che affittano, i quali molte volte dispongono di una molteplicità di appartamenti, non semplicemente di stanze. Gli affitti Airbnb sono per il 75% di case e solo il 25% di stanze: il gigante californiano è diventato una malcelata vetrina per le società immobiliari, il che ha determinato un rialzo nel prezzo degli affitti ed una svalutazione del mattone. La cornice dentro la quale si muove la multinazionale di San Francisco è turistica (l'88% degli affitti è per le vacanze): ciò ha influito sulle realtà delle 81mila città di tutto il mondo nelle quali è presente.

Secondo Inside Airbnb, sito investigativo che misura l'impatto urbano di Airbnb, l'opera di gentrification è in corso: i centri storici vengono svuotati dall'onda del turismo, i residenti si spostano verso la periferia svendendo i loro alloggi nell'impossibilità di mercato di affittarli ed i commercianti, alberghieri e non, sono messi a dura prova dalla concorrenza di Airbnb, che in ogni Paese profitta dei vuoti normativi in materia di affitti brevi. L'Italia è la terza meta del mondo per gli utenti della piattaforma: è sul podio grazie alle 365mila case o camere disponibili, agli oltre 218mila host ed al fascino della sua bellezza. Firenze è una delle tappe preferite, infatti la città che fu delle famiglie dei Medici e dei Lorena, in virtù dei suoi 10 milioni di visitatori annuali, viene definito un “caso estremo”: negli ultimi anni gli host sono raddoppiati, raggiungendo quota 7500 e permettendo ad Airbnb di conquistare il 18% del centro storico fiorentino. Per comprendere quel che sta succedendo basta dare uno sguardo in giro: in piazza della Signoria Augusta Massangioli, 28enne laureata in Lingue e letterature straniere, indica i palazzi poco più in là: «Molti appartamenti sono in affitto. La città è cambiata: i residenti storici si stanno spostando fuori e anche gli studenti hanno qualche problema ad affittare». La giovane fiorentina conosce bene la situazione perché lavora nell'agenzia “Keys of Florence”, la quale gestisce gli affitti di case via Airbnb e Booking: «Mi occupo delle prenotazioni in arrivo. Fornisco ai turisti tutte le informazioni sulla casa e sulla città. Gli host Airbnb ci affidano tutto il processo dell'affitto, che non è sempre breve. Si appoggiano alla piattaforma poi a noi: con Airbnb sono tutelati, hanno più guadagni e meno rischi». Alla stazione Santa Maria Novella Augusta guarda il treno che prenderà, come quasi ogni giorno, per tornare a casa dopo il lavoro: «È la mia seconda casa. Sono una pendolare: abito anch'io fuori, ho affittato in campagna», aggiungendo poi, collateralmente al come cambia Firenze: «Nel “progetto classico” di vita, quello che hanno seguito i nostri genitori, noi siamo fermi alla prima tappa: cercare di capire quello che vogliamo e possiamo fare. Alla famiglia ed alla casa penseremo poi. È l'epoca dell'incertezza, tutto è fugace, come l'affitto Airbnb».


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La loro casa, prima a Torino e da undici anni a Roma, sembra a volte anche un albergo ma alla fine, in un modo o nell’altro, “ci si aspetta sempre perché ci si vuole bene”. Perché, per quanto inusuali e mastodontiche, più simili a squadre di calcio, sono e restano comunque delle famiglie. Numerose, rare, complicate ma anche normali: basta prendere le misure giuste. Ci infiltriamo perciò nella giornata tipo della famiglia Bazzani: otto figli, oltre a mamma e papà. Incontriamo proprio loro, i genitori, Mauro di 56 anni e Cristina di 57, perché i figli, 33 anni la più grande, 16 la più giovane, sono impegnati qua e là, in Italia e nel mondo, ognuno a condurre la propria vita, anche questo come è normale che sia.

Inusuali e mastodontiche, più simili a squadre di calcio: sono le famiglie numerose. Rare, complicate, ma anche normali: basta prendere le misure giuste.

FAMIGLIE NUMEROSE I magnifici 8 di Mauro e Cristina La famiglia Bazzani: un team di dieci persone tra Torino e Roma. amore, naturalezza e nessun proselitismo: serve consapevolezza e molta pazienza, soprattutto con scuole e istituzioni.

Testo di Daniele Priori, fotografia di Ilaria LaGioia

Dirigenti dell’associazione Famiglie numerose, Mauro, il papà, è un fotografo per il cinema con trent’anni di esperienza e lavori anche per la tv, come Le nozze di Laura del 2014 dove ha collaborato con il grande regista Pupi Avati. La moglie Cristina è educatrice di professione. I figli si chiamano Giulia, 33 anni, impiegata in una agenzia di stampa, Nicolò 28, in cerca di lavoro, Francesca 27 anni, commessa, Lorenzo 25, nello stesso giro del papà, fa l’attrezzista scenografo, Diego 22 anni, è attualmente in Canada e studia ingegneria, Filippo 21 vive a Londra con un contratto di apprendistato nella ristorazione e sogna di diventare attore, Carolina 17 anni e Federica 16 frequentano ancora le scuole superiori. Quattro maschi e quattro femmine. “A casa nostra le pari opportunità sono state rispettate” scherzano. E sui normali confronti che qualche volta possono anche sfociare in piccoli scontri dicono: “Quando erano piccoli stavano anche in quattro in una stanza e quel tipo di convivenza spesso generava conflitti”. Un confronto che diventa più visibile a pranzo e cena. “È normale che quando erano più piccoli, avendo tutti ritmi di vita abbastanza simili, ci si incontrasse sempre a tavola. Adesso la situazione è molto diversa: come orari la casa somiglia un po’ a un hotel, c'è chi lavora al centro commerciale e torna magari alle 10 di sera, resta in ogni modo il

clima di una famiglia in cui comunque ci si incontra anche se non si fanno cose in contemporanea”. Diverso è quando si tratta di feste e riunioni di famiglia: “Si invitano sempre tutti, non c'è un limite, anzi tutt'altro! Più gente c'è, più ci si diverte. Questo è un po' una regola di casa: o si invitano tutti o non si invita nessuno”. Quello che potrebbe spaventare, è la spesa al supermercato che in realtà, invece, ci raccontano Mauro e Cristina, è cambiata negli anni. “Quando i figli erano più piccoli si faceva lo spesone settimanale e poi qualcosa giorno per giorno, ora vige una sorta di autogestione perché ognuno segue un po’ i propri gusti…” I veri problemi, però, la famiglia numerosa li ha di più nella relazione con l’esterno a partire dall’auto da scegliere: se lo staff famigliare supera infatti le nove persone, la vettura diventa necessariamente più grande e sarà necessario, per chi guida, un cambio di patente. Mauro e Cristina hanno avuto negli anni una Renault Espace e un Mercedes Vito, tutte auto più simili a furgoncini, appunto. Guai anche con le scuole: dalle iscrizioni “quando andavamo a iscrivere i figli bisognava segnare i fratelli e al massimo c’erano quattro posti disponibili” per non parlare dei problemi all’uscita: le deleghe ai figli grandi finché sono stati i minorenni non ce le hanno mai accettate, quindi era sempre una corsa contro il tempo per andare a recuperare a portare tutti”. Tanto che Mauro e Cristina arrivano a parlare di vere e proprie discriminazioni “di ogni genere e in ogni dove: in vacanza, nella ricerca di una casa e in tante altre situazioni purtroppo c'è il pensiero comune per cui se sei famiglia numerosa o sei un po' matto o sei comunque un integralista religioso”. Da parte di Mauro e Cristina non c’è nessuna volontà di fare proseliti, a partire dai loro stessi figli: “Per ora solo la più grande, aspetta il suo primo bambino, gli altri non sono ancora sposati. In ogni caso crediamo che queste siano scelte che appartengono alla coppia e che la coppia deve condividere. Ci auguriamo che l'aver vissuto in una famiglia numerosa li aiuti a fare una scelta consapevole”.


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focus ― famiglia

CHILDLESS WOMEN

In Italia il fenomeno delle donne childfree è in aumento. Nella generazione del 1950 la quota delle donne senza figli è stata dell'11,1%, nella generazione del 1960 del 13% e in quella del 1976 si stima che raggiungerà (alla fine del ciclo di vita riproduttiva) il 21,8%.

La maternità non è più un destino. Chi sono le donne senza figli. Testo di Alessia Laudati

Fotografia di Ilaria LaGioia

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Oggi parliamo di loro soprattutto come childless women: donne senza figli e femmine definite in sottrazione. In futuro forse potremmo descriverle in maniera più affermativa; ma per ora abbiamo ancora bisogno del dualismo di una privazione. Nel nostro Paese le childless si dividono tra donne non-madri per circostanza, anche drammatica, e donne non-madri per libera scelta. Quando la volontà è netta, allora meglio usare il termine childfree. In Italia secondo l’Istat, il fenomeno è in aumento. Nella generazione del 1950 la quota delle donne senza figli è stata dell'11,1%, nella generazione del 1960 del 13% e in quella del 1976 si stima che raggiungerà (alla fine del ciclo di vita riproduttiva) il 21,8%. Tra di esse c’è di chi rinnega la maternità come obbligo sociale, chi con maggiore ambiguità ha procrastinato la decisione fino a farsi scivolare via la possibilità per questioni biologiche, chi ha subìto la scelta per motivi di salute e chi infine fa della decisione di lasciar crescere l’edera sulla culla, un nuovo diritto da conquistare. Come ci racconta Betty Senatore, speaker di Radio Capital che ha parlato pubblicamente della propria scelta: “In certi contesti sono ancora percepita come strana. Per molti è bizzarro che una donna non voglia fare la madre”. Perché se è vero che tutte le madri sono madri allo stesso modo, è vero anche che ogni donna childless può essere non-madre in un modo personalissimo. “Non ho mai avuto un istinto materno – continua la speaker - non ho mai desiderato coccolare bambini e non ho mai sentito quel tipo di trasporto lì”. E allora, posto che non viviamo in una società che in maniera palese nega il diritto a uno stile di vita alternativo, qual è il problema? Il problema è capire se esiste un’opzione sociale soddisfacente e non discrimi-

natoria al di fuori della maternità pensata come principio organizzatore della vita adulta. Perché per le donne childfree lo spauracchio più grande non è tanto un neonato da accudire, ma la solitudine. Il nido vuoto. La coperta gelida. L’immaginario castrato tra la casalinga disperata e la party harder indefessa che beve Cosmopolitan come fossero acqua fresca. O magari l’individualità bloccata nella perenne militanza di dover dimostrare a lungo come i propri amori goffi, per un partner, per il lavoro, per la famiglia, per la comunità, non siano inferiori all’amore provato per un figlio mai nato. Un’altra donna childfree che preferisce rimanere anonima ci spiega meglio la relazione tra non-maternità, vita affettiva instabile e precarietà lavorativa: “Non ho avuto figli per scelta e per circostanza. Per precarietà lavorativa, per relazioni che si sono concluse o che comunque intrattenevo con persone che non mettevano i figli al primo posto. In ogni caso credo che anche in circostanze diverse avrei preferito investire il tempo restante nei miei interessi. Non amo avere troppi vincoli a parte quelli lavorativi”. Le sue parole confermano che non è sempre la difficile armonizzazione tra vita personale e vita lavorativa il vero aspetto discriminante per non avere figli. Secondo uno studio del 2013 dell’Università di Firenze e della Warsaw School of Economics su dati Istat, la relazione più significativa delle childless è tra storia riproduttiva e storia sentimentale. Significa che la percentuale maggiore di donne senza figli è accomunata dal fatto di non avere una relazione affettiva stabile o di non averla mai avuta. “Nel mio caso il lavoro non c’entra – spiega Betty Senatore - c’entra il sapersi mettere al secondo posto e io non sono in grado”. E l’assenza o la debolezza dell’istinto materno viene o non viene mal giudicata? “Mal giudicata no – conclude la commentatrice anonima - a volte mi sento incompresa. Molti si chiedono come mai non amo i bambini e pensano sia segno di egoismo. Ma non ho mai vissuto la maternità come un assillo. Non da parte della famiglia o degli amici che in buona parte la pensano come me”. Conclude poi Betty: “Non siamo strane. Non siamo matte. Non odiamo i bambini. E abbiamo profonda stima per le donne che sono madri e insieme lavoratrici”.


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Chiamateli Peter Pan I nuovi quarantenni: tante feste e poche responsabilità. Testo di Sofia Gorgoni, Direttore Responsabile The New's Room

All’ora dell’aperitivo i tavoli all’aperto del bar che affaccia su viale Parioli si riempiono di comitive di amici. C’è chi arriva dall’ufficio e chi dalla palestra. Si beve qualcosa, si fa il punto della serata e poi si prosegue da qualche parte. Non si tratta certo di neolaureati, l’età media infatti supera i quarant’anni. La maggior parte sono single, benestanti, dall’aspetto ben curato e non sembra abbiano voglia d’invecchiare (d’altronde, chi è che ne ha). L’immagine dei nostri nonni, alle prese con figli già grandi e dediti al lavoro e alla famiglia, dimenticatevela. Oggi i quaranta sono l’inizio di una nuova adolescenza, per chi se lo può permettere. E se il fenomeno si osserva meglio nelle grandi città, come Roma. Ma anche nei piccoli centri qualcosa sta cambiando. Gli ultra quarantenni di cui parliamo non hanno fretta di mettere su famiglia, e forse non è un caso che Gianluca Vacchi sia diventato un modello a cui ispirarsi. Nonostante le critiche, i balletti sul web in costume da bagno, addominali scolpiti e sorriso stampato sono la fotografia di questa nuova età. La prova che si può avere la spensieratezza dei vent’anni, anche se sono passati da un bel pezzo. Il messaggio è semplice: “enjoy”. Stavolta la crisi non c’entra – parliamoci chiaro, la famiglia costa – ma questa è la generazione che ha iniziato a lavorare prima del tracollo

finanziario, ha avuto il tempo di ingranare la marcia e sarebbe l’unica, nella maggior parte dei casi, a potersi permettere una famiglia. Allora cosa sta succedendo? A confermare che non sia pura immaginazione, ma un vero e proprio trend in aumento, ci sono i dati Istat: l’Italia cambia stato di famiglia a una velocità impressionante. Una famiglia su tre è composta da un'unica persona e i single non vedovi sono più che raddoppiati in vent’anni: parliamo di quasi 5 milioni di persone. E gli italiani non sono un caso eccezionale. Tanto che i dati Eurostat, rivelano un nuovo nucleo familiare: quello composto da una sola persona. Per quanto sia difficile immaginare come una famiglia possa essere composta da una sola persona, a quanto pare è una categoria oggi, ed esiste. Addirittura in Europa, secondo i dati Eurostat, questi nuclei solitari sarebbero il il 33,1%, dieci anni fa erano il 29,3%. Ad aggiungere distanze ci pensano anche i social, per la scienza porteranno a un ulteriore incremento dei single

in futuro. La durata media della vita, più lunga, di certo incide – la speranza di vita è passata da 80,1 a 80,6 anni per gli uomini e da 84,6 a 85,1 per le donne. Di fatto, però, la famiglia sembra interessare sempre meno. Se la “singletudine” è ormai uno status (ancora difficile da spiegare alla nonna), gli psicologi sono tutti d’accordo nell’associarlo a una parola chiave: individualismo. La carenza di lavoro e la mancanza di stabilità e prospettive è il mantra che riguarda noi trentenni, al di là ci sono i fattori voglia e tempo. Se già comporta impegno costruire e mantenere una relazione a 30 anni, figuriamoci superati i 40. Di tempo ne abbiamo sempre meno e i rapporti tendono ad essere più labili e frammentati. Viviamo in modo sempre più veloce: le giornate, il lavoro, le relazioni. E l’essere single appare quasi come un modo di vivere. E così i 40 anni diventano una nuova adolescenza, con più disponibilità economica e con meno sogni. Di aperitivi ed eventi ce ne sono ogni sera. A guardarli sembra che si godano la vita, ma con una velata insofferenza: cercano comunque compagnia, almeno così dichiarano. Alla fine ti accorgi che nessuno cerca l’anima gemella, ma qualcuno da coinvolgere nel tempo libero, da chiamare per una cena, una serata in compagnia o al massimo per una vacanza. Oppure semplicemente qualcuno in cui trovare la conferma che è meglio stare da soli.

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