Numero10

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numero 10 Settembre / Ottobre 2018 the-newsroom.it

L’Italia con gli occhi di domani, raccontata dagli under 35

POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% S/CE/16/2018

FARE in Italia

Impresa, artigianato e Made in Italy: gli italiani che rimettono l'uomo al centro

P. 5 editoriale di vittorio macioce

P. 46 intervista a gianfranco vissani



VISVERBI l.l�V::1S1/\

letteralmente Il primo CONTEST ONLINE riservato agli UNDER 30

che vogliono pubblicare il proprio manoscritto

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cover story

PROLOGO

The New’s Room è nata per raccontare l’Italia e il mondo con gli occhi dei professionisti under 35. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo scelto un metodo nuovo, un contest aperto, da cui ha preso forma la redazione per l’anno 2018, il nostro secondo anno. Con questo numero abbiamo deciso di indagare chi in effetti muove il Paese: gli imprenditori che decidono di FARE IN ITALIA e così garantiscono lavoro e sviluppo. I nostri redattori hanno scoperto le decine e decine di settori in cui le imprese italiane si fanno strada, dalla medicina alla mobilità sostenibile, dalla robotica ai nostri punti di forza tradizionali come food, moda e design. Abbiamo indagato per capire come scelgono il futuro i nostri giovani e quali invece sarebbero le aspirazioni dei nostri genitori. Il denominatore comune è la capacità di fare, che non vuol dire per forza produrre, ma anche scrivere il codice di un app. Questa capacità di fare non riguarda solo l’Italia: è il nodo che viene discusso da Washington a Pechino a Bruxelles quando si parla di dazi. Quel che sa fare un Paese è ciò ne definirà il successo. È questo il compito delicato di The New’s Room: raccontare il quotidiano per capire il futuro. Pierangelo Fabiano, Fondatore


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the new’s room

INDICE p. 5

Editoriale

p. 8

Mappamondo

p. 10

Facts

di VITTORIO MACIOCE

di ANTONIO CARNEVALE

COVER STORY p. 12

Perchè l'Italia, nello sforzo per riportare l'uomo al centro, può avere un ruolo fondamentale

p. 14

Il ribelle ha spesso ragione

p. 18

Non solo figli di: intervista a Giacomo Riello

p. 20

Manifattura 4.0

p. 23

BASE Milano

di SARA D'AGATI

di CARLO BRENNER

di VITTORIA BECCI

di SIMONE RUBINO

di LORENZO BERNARDI

FOCUS p. 26

Il lato oscuro del Made in Italy

p. 29

Artigianato e mestieri, la forza del fare in Italia Pasticciera

di MAURIZIO FRANCO

di LORENZO SASSI

Costumista di ALICE MILITELLO

Ceramista di LAURA BONAIUTI

Meccanico di CARMEN BAFFI

Idraulico di DANIELE PRIORI

p. 39

Dalle 3F al 3D

p. 42

La Silicon Valley veneta che innova il Made in Italy

p. 44

Chi vuol (e può) essere imprenditore

p. 46

Di cucina e amore: intervista a Gianfranco Vissani

di ILARIA DANESI

di NICOLÒ ROSATO

di GERARDO FORTUNA

di SOFIA GORGONI


editoriale

VITTORIO MACIOCE

5

Caporedattore de Il Giornale

S

ono uno che ha tradito. Non ho seguito le strade di famiglia. Mio padre era meccanico, come mio fratello. Mia nonna e mia madre avevano un forno, mio zio e mia sorella pasticcieri. Io ho scritto solo parole: frasi sulla sabbia. Non starei bene in una canzone di Paolo

Conte. Non so fare un gelato al limone. Non ho l’intelligenza degli elettricisti. Quando si parla di

creatività, di innovazione, di futuro si pensa spesso a qualcosa di immateriale, qualcosa che ha la stessa sostanza dei sogni. Non è un peccato, solo che con il tempo si è perso il resto: le cose, la materia, le mani, l’artigianato. Quelli che sanno fare, quelli che creano, quelli che aggiustano, quelli che trasformano l’indefinito in qualcosa di bello e di buono. Quelli che danno forma all’invisibile. Il guaio è che sono una razza in via d’estinzione. L’artigiano adesso è un mestiere per vecchi. Uno su quattro ha più di 55 anni. Fra dieci anni dovranno affrontare il problema della successione. E non sanno a chi lasciare il mestiere e l'azienda. La verità è che fare questo mestiere sta diventando una condanna. E c'è quasi la paura di dare ai figli questa croce. Allora questa volta vi voglio raccontare un paio di storie di gente così. Penso a una coppia artigiani che per tutta la vita hanno pensato a come scaldare gli altri. Sono marito e moglie e stanno tirando la pensione ogni anno più in là, con la fatica tra i denti. I figli hanno scelto strade diverse, più comode. Vivono in un paesino ligure, non lontano da Genova e per cultura e stile di vita non amano apparire sui giornali. È gente che non ha mai messo in piazza gli affari privati. Sono invecchiati in un mondo dove il talento è senza show. Per tutta la vita hanno fabbricato stufe, quelle in ceramica, a legna, antiche signore del calore, quelle che sono pezzi unici, di artigianato, e per questo costano, ma sarebbe un peccato non farle più. Oppure al signor Mario, che fa lo stesso mestiere di suo padre o di suo nonno, in un piccolo paese dell’Appennino. Lo chiamano il “funaro”, perché fa corde, funi, lavora e intreccia il cuoio. Sarà l’ultimo della sua schiatta a fare questo mestiere. Penso a una donna che ha superato i sessanta e si è rifugiata in una pasticceria, dove sforna capolavori che sono diventati famosi con il passa parola, di bocca in bocca. Si sveglia da trent'anni alle 6 del mattino e tutti i santi giorni cerca di trovare un senso alla sua vita cercando la perfezione. Certe cose non si fanno solo per i soldi. È il dovere, è la passione, è che non ti hanno tramandato l'arte della resa. Non ha figli. Tutto rischia di finire con lei. Le ricette, le dosi, i segreti, l'armonia, la bellezza, la bontà. Chissà quanti sapori si sono estinti perché non c'è più nessuno al mondo in grado di crearli. È una spoon river di mestieri e di alchimie, di pane che non diventa pietra dopo mezza giornata, di ebanisti senza più legni, di meccanici che parlavano con i motori, di calzolai che donavano alle scarpe anni di viaggi extra, di mastri scalpellini con l'arte tra le mani. Non è nostalgia. Non è solo dire come era bello il mondo di una volta. È qualcosa di più serio, strutturale. È la malattia di un Paese che sta perdendo l'arte dell'impresa e del rischio, di chi lavora controvento, la memoria di un mestiere, una classe sociale che non si è mai veramente riconosciuta come classe, che nasce con gli antichi, regge nel Medio Evo, si esalta con il Rinascimento e sopravvive all'industria, alle guerre, ai secoli neri e bui. Il guaio è che proprio qui in Italia, terra di artigiani, questa razza umana sta scomparendo, si eclissa senza lasciare eredi. Non ero nato per la moto. Anche se qualcosa nelle vene è rimasto e anche se non so smontare un motore il mio orecchio, per istinto, ne riconosce il malessere. Lo sento il motore, so riconoscerlo e mi resta, invecchiando, la nostalgia per un mondo che non ho mai voluto conoscere, per seguire altre strade, altre curve, altra scrittura.




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the new’s room

DIECI COSE che NON SAPEVAMO FOSSERO PRODOTTE in ITALIA Dalla medicina alla mobilità sostenibile, l’Italia detiene diversi primati, anche se tendiamo a pensare che tutto vada male: ecco i 10 settori nei quali siamo all’avanguardia, nonostante pochi nel nostro Paese ne siano al corrente.

Testo di Antonio Carnevale L’Italia rappresenta uno dei Paesi al mondo in cui è maggiore la forbice tra percezione interna spesso negativa e percezione esterna spesso molto positiva e favorevole rispetto agli asset del nostro paese. Secondo un’indagine condotta da Ipsos sull’immagine e l’attrattività del Bel Paese in 19 stati infatti, il nostro Paese risulta essere al terzo posto, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, tra i Paesi più noti e apprezzati al mondo. Non solo arte, cibo, buon vino, moda e design. Il Made in Italy che si afferma nel mondo ha il volto di tanti piccoli e grandi imprenditori, talenti creativi e innovatori che coltivano la tradizione senza aver paura di innovare, intrecciando creatività, cultura, qualità e sostenibilità. Se nella percezione degli italiani dunque, il nostro Paese sembra essere immobile, c’è un’Italia che già da molti anni è protagonista di diversi passaggi della scienza e dell’innovazione. Abbiamo voluto mettere insieme 10 prodotti che presto potranno entrare a far parte della nostra quotidianità – o ne fanno già parte – e pochi sanno siano prodotti in Italia.


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mappamondo

1. Treno a levitazione magnetica Tutti parlano di Hyperloop, il treno a levitazione magnetica ideato dal papà di tesla, Elon Musk, ma pochissimi sanno che ci sono degli ingegneri italiani che stanno insidiando il primato dello stesso Musk nel business del treno superveloce. La startup pisana Ales Tech ha infatti brevettato IronLev, un carrello a levitazione magnetica tutto made in Italy, pensato per funzionare su binari d’acciaio già esistenti. Veloce (quasi) come quello di Hyperloop e molto più conveniente, dovrebbe entrare in funzione già nel 2020. 3. Telefonino invisibile Lo smartphone è ormai diventato una parte di noi. Ecco perché i fratelli Edoardo ed Emiliano Parini, di Roma, con la loro startup Deed, hanno pensato ad un braccialetto - chiamato Get - che sfrutta la tecnologia basata sulla conduzione ossea per farci telefonare (o inviare sms) semplicemente avvicinando il dito all’orecchio. Presto i telefonini scompariranno? Non lo sappiamo: intanto il bracciale Get entrerà a far parte del percorso di visita del museo Maxxi di Roma, che lo utilizzerà come audioguida. 5. Medicina La ricerca in campo medico è uno di quei settori nei quali l’Italia può fare scuola. Solo restando all’ultimo anno abbiamo prodotto la prima descrizione di un meccanismo biologico la cui inibizione è in grado di bloccare la crescita tumorale, la prima cura al mondo per la leucemia e un modo per selezionare cellule staminali da tessuto “di scarto” per la cura delle malattie degenerative. Dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova è poi arrivata la prima retina artificiale: uno strumento hi-tech in grado di curare diverse patologie dell’occhio, avvicinandoci sempre più a dei cyborg.

7. Finestre solari Trovare fonti altenative di energia è una delle sfide del prossimo futuro. All'Università Bicocca stanno sviluppando lastre di plastica dotate di nanoparticelle in grado di catturare la luce e trasformare una finestra in un pannello solare. Sono le prime al mondo.

9. Nuovi effetti speciali per il cinema Da sempre l’Italia e gli italiani sono primi nel mondo per quanto riguarda musiche e costumi per il cinema. Con l’introduzione della computer grafica però, gli effetti speciali hanno avuto un peso sempre più forte e determinato il primato di altri Paesi, in primis gli Stati uniti. Ora l’italiana Makinarium ha introdotto un nuovo metodo per la creazione di effetti combinati fisici e visivi, a partire da “Il racconto dei racconti” di Matteo Garrone. La tecnica si basa sulla sovrapposizione di postproduzione digitale, animazione 3D, effetti meccanici, special make up e tecniche tradizionali. La possiamo ritrovare anche tra gli effetti speciali della nuova avventura cinematografica di Lara Croft, “Tomb Raider”.

2. Abbigliamento vegano La moda è da sempre un’eccellenza italiana riconosciuta nel mondo. Ma i cambiamenti negli stili di vita e nelle abitudini dei consumatori, stanno rapidamente modificando anche le esigenze dei brand. Secondo l'Eurispes, nel 2050 circa la metà degli italiani starà seguendo una dieta vegetariana. Per vestirci con stile ed eleganza, rispettando allo stesso tempo gli esseri viventi che abitano il pianeta, diverse aziende stanno dunque ripensando la moda in chiave sostenibile. La startup Fera Libens, ad esempio, porta il made in Italy nel mondo attraverso borse, scarpe e accessori, tutti “cruelty free”. L’azienda trentina Vegea di Gianpiero Tessitore, invece, è riuscita a realizzare la prima pelle vegetale ricavata dal vino e intende stringere partnership con i più grandi brand della moda mondiale. 4. Robot Dopo il Giappone, l’Italia è il paese più all’avanguardia nel campo della robotica, davanti anche a colossi come Stati Uniti, Francia e Germania. Un settore che a breve rivoluzionerà le nostre vite e l’intera economia mondiale e che ci vede grandi protagonisti con realtà come l’Istituto Italiano di Tecnologia – dove sono nati, tra gli altri, i robot umanoidi iCub e Walkman (specializzato nelle emergenze) e R1 (per l’assistenza domestica) – e l’Istituto di BioRobotica della Scuola Sant’Anna di Pisa, specializzato in protesi robotiche, riabilitazione robotica ed esoscheletri per disabili.

6. Macchine volanti Le auto, soprattutto quelle di lusso, sono un’altra voce importante dell’export italiano: Fiat, Ferrari o Lamborghini sono marchi italiani conosciuti in tutto il mondo. In futuro però, delle auto volanti potrebbero iniziare a solcare i cieli delle nostre città: a Parigi accade già, con i taxi volanti entrati in funzione pochi mesi fa sulla Senna. Nel nostro Paese, il viterbese Pierpaolo Lazzarini ha ideato l’IFO, che sta per Identified Flying Object. Si tratta di un gigantesco drone: una capsula montata su un velivolo mosso da otto eliche, alimentate a batteria, in grado di trasportare due persone. Al momento è in fase di sperimentazione a Dubai. 8. Auto a guida autonoma L’Italia è in prima fila anche per quanto riguarda i progetti di mobilità sostenibile. Next Future Transportation è una startup partita da Padova che realizza dei moduli a guida autonoma che possono trasportare fino a 6 persone: si uniscono per i tragitti comuni, ma si possono anche dividere in maniera indipendente. Intanto, già dallo scorso anno, FCA fornisce a Waymo, la divisione di Google impegnata nel progetto driverless car, migliaia di auto a guida autonoma per la propria flotta.

10. Grafene È il materiale del futuro. Directa Plus, di Como, primo produttore europeo e quarto a livello mondiale del materiale innovativo ha depositato ben 16 brevetti basati sull’innovativo materiale, tra cui tessuti con proprietà antifiamma per proteggere lavoratori ed edifici da incendi e spugne al grafene per pulire il mare dagli inquinanti.


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the new’s room

UNO SGUARDO QUANTO VALE IL FARE? VALORE DELLA PRODUZIONE valori in migliaia

( fonte ISTAT 2015) 2.171.040.773

VALORE AGGIUNTO valori in migliaia

715.914.061

OCCUPATI

15.719.090

TOTALE IMPRESE

MANIFATTUR A

QUALI SONO I PRODOTTI PIÙ IMPORTANTI DI INDUSTRIA E MANIFATTURA ALIMENTARE BEVANDE ESCLUSE

( fonte ISTAT 2015)

113.226.750

CONFEZIONI ARTICOLI ABBIGLIAMENTO

28.522.977

DERIVATI DALLA R AFFINAZIONE DEL PETROLIO

35.595.676

FABBRICAZIONE DI PRODOTTI CHIMICI

50.162.825

FABBRICAZIONE DI ARTICOLI IN GOMMA E MATERIE PLASTICHE

43.733.092

INDUSTRIA METALLURGICA

52.579.336

FABBRICAZIONE DI PRODOTTI IN METALLO (esclusi macchinari e attrezzature)

76.313.275

APPARECCHIATURE ELETTRICHE E NON PER USO DOMESTICO

38.284.868

FABBRICAZIONE DI MACCHINARI ED APPARECCHIATURE NCA FABBRICAZIONE DI AUTOVEICOLI, RIMORCHI E SEMIRIMORCHI

111.737.695 68.672.080 FATTUR ATO in migliaia di euro

NUMERO DI IMPRESE

QUALI SONO I PRODOTTI PIÙ ESPORTATI DALL'ITALIA ALL'ESTERO

( fonte ISTAT 2018)

7.970 mln € / 5,4% del tot.

7.630 mln € / 5,1% del tot.

7.546 mln € / 5,1% del tot.

7.283 mln € / 4,9% del tot.

6.657 mln € / 4,5% del tot.

ALTRE MACCHINE DI IMPIEGO GENER ALE

MACCHINE DI IMPIEGO GENER ALE

AUTOVEICOLI

MEDICINALI E PREPARATI FARMACEUTICI

ALTRE MACCHINE PER IMPIEGHI SPECIALI

QUANTE SONO LE IMPRESE ARTIGIANE IN ITALIA

( fonte Movimprese)

1.470.942 1.438.601

1.461.183 1.438.601

1.382.773

2010

2011

2012

2013

2014

1.361.014

2015

1.342.389

2016

1.327.180

1.315.895

2017

2018


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facts

AI NUMERI QUALI SONO LE PRIME ATTIVITÀ ARTIGIANALI PER NUMERO AGRICOLTUR A, SILVICOLTUR A, PESCA

le cifre

fonte:

del FARE

( fonte Elaborazione CNA su dati Movimprese)

10.608

10.474

10.345

10.221

10.101

10.029

9.980

945

906

872

826

777

747

724

704

ATTIVITÀ MANIFATTURIERE

359.128

352.526

347.242

339.455

331.344

324.636

318.535

312.361

INDUSTRIAE ALIMENTARI

39.069

39.003

39.119

39.200

39.722

40.047

40.297

40.258

812

816

820

808

830

855

883

894

11.621

11.226

11.012

10.693

10.337

10020

9.759

9.505

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

ESTR AZIONE DI MINER ALI DA CAVE E MINIERE

INDUSTRIA DELLE BEVANDE INDUSTRIE TESSILI

QUANTO VALGONO I BRAND DEL MADE IN ITALY (USD mil)

9.861

( fonte Mark Up)

#1

#2

#3

#4

#5

16,723 $

9,259 $

7,355 $

6,904 $

4,082 $

QUALI SONO I MESTIERI / PROFESSIONI PIÙ AMBITI DAI GIOVANI UNDER 35 18%

IMPRENDITORE (ATTIVITÀ PROPRIA) IMPIEGATO PUBBLICO

8%

5%

16% 13%

26%

20%

13%

9%

BLOGGER

9%

IMPRENDITORE (ATTIVITÀ PROPRIA)

5%

7%

FOTOGR AFO

5%

5%

10%

PROFESSORE

6%

5%

GIUDICE

5%

5%

10%

CHEF/PASTICCERE

6%

GIUDICE

5%

CREATIVO

COMMERCIALISTA

7%

4%

16%

IMPIEGATO PUBBLICO

17%

3% 10%

PROFESSORE

6%

3%

9%

BANCARIO

ARTISTA

4%

5%

9%

MEDICO

5%

4%

5%

3% 4%

INFLUENCER

5%

2%

CHEF/PASTICCERE

3% 3%

6%

TR ADUTTORE/INTERPRETE

4%

3%

ARTIGIANO/A

4% 2%

6%

ORGANIZZATORE DI EVENTI

4%

2%

PRIMA RISPOSTA

ALTRE

12% 11% 10%

1%

MEDICO

7%

13% 12%

5%

7%

29%

17%

9% 7% 7% 6%

TOTALE %

QUALI SONO I MESTIERI / PROFESSIONI CHE I GENITORI VORREBBERO PER I FIGLI 12%

INGEGNERE

8%

10%

IMPIEGATO PUBBLICO

9%

INFORMATICO/ESPERTO IT

7%

9%

IMPRENDITORE (ATTIVITÀ PROPRIA)

8%

7%

MEDICO

7%

MANAGER D’AZIENDA PROFESSORE

7%

8%

FORZE DELL’ORDINE

5%

6% 5%

7% 5%

AVVOCATO

3%

5%

NOTAIO

4%

4%

DENTISTA

5%

3%

20% 19%

16% 15%

15%

MEDICO

INFORMATICO/ESPERTO IT

14%

PILOTA

4%

9%

4%

BANCARIO

3%

4%

INGEGNERE

3%

4%

8%

GIUDICE

2%

ALTRE

TOTALE %

9%

3% 7%

8%

PRIMA RISPOSTA

10%

4%

5% 2%

12%

6%

5%

TR ADUTTORE/INTERPRETE GIORNALISTA

9%

8%

IMPRENDITORE (ATTIVITÀ PROPRIA)

14%

13%

8%

9%

IMPIEGATO PUBBLICO

9%

5%

11%

PROFESSORE

4%

9% 8% 8% 8%

6%

20% 19% 18%


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the new’s room

Perché l’Italia, nello sforzo per riportare l’uomo al centro, può avere un ruolo fondamentale. Testo di Sara D'Agati Foto di Andrea Altellini

L’uomo è la macchina più longeva che ci sia. E’ un dato di fatto. Un computer, anche il migliore, dopo cinque anni circa comincia a dare segni di cedimento. Un essere umano oggi vive in media più di settant’anni, media che va oltre gli ottanta nei paesi più sviluppati, e aumentano i casi di persone che superano i cento anni. E tale media continua a crescere. Si fa un gran parlare di intelligenza artificiale, con annessa la paura (affatto moderna, da sempre va di pari passo con lo sviluppo della tecnica, e affatto ingiustificata, per questo è necessario a mio avviso che vi siano dei limiti chiari e definiti) che si giunga a perdere il controllo delle macchine, fino ad esserne sopraffatti. Quella dei robot che ci controllano è una suggestione che fa parte dell’immaginario da oltre un secolo, oggi in voga più che mai a causa della rapidità dei progressi nel settore dell’a.i. Tuttavia, se non vi è dubbio rispetto all’ ‘artificiale’, sull’intelligenza vi sono alcune considerazioni da fare, che in qualche misura rimettono al centro l’uomo. La prima, è che i famosi algoritmi che derivano dall’aggregazione dei dati, altro non sono che l’insieme delle informazioni che noi stessi gli forniamo. Essi, quindi, sono di fatto un moltiplicatore del sapere e delle preferenze che noi esprimiamo. La seconda, appunto, è che noi, allo stato attuale, nasciamo prima delle macchine e gli sopravviviamo.

Nell’epoca della omogeneizzazione globalizzata a tutti i costi, acquistano sempre più rilevanza le specificità locali. Non è un segreto che la globalizzazione porti con sé due spinte opposte, una verso l’omologazione e l’altra verso un sempre maggiore localismo. Localismo che fa leva sulla specificità di ciascun popolo, e sulla sua capacità di creare, o in termini generali, sul suo “saper fare". E l’Italia è un paese che, nella sua miriade di conclamati difetti, sa fare; e sa fare bene. Non a caso il Made in Italy è, in se stesso, un brand riconosciuto in tutto il mondo, garanzia di qualità, imprenditorialità e creatività. Non a caso non esiste un “French” o un “German sounding”, ma esiste un “Italian sounding” a sancire la contraffazione e strumentalizzazione del brand Italia legata ad alcuni prodotti per fini economici. Ma non è della percezione estera del brand Italia (tema cui peraltro abbiamo dedicato un’ intera uscita della rivista lo scorso anno), che si parla in questo numero; bensì della percezione che noi stessi abbiamo del saper fare in Italia. Siamo realmente consapevoli dei nostri asset? Sosteniamo l’imprenditorialità, valorizziamo l’artigianato, esiste un’adeguata formazione nel campo dell’imprenditoria e dei mestieri artigianali? In che modo la digitalizzazione e lo sviluppo tecnologico possono fare da volano, e non da freno, alla capacità italiana di creare prodotti di qualità?

Dallo “stato dell’arte” dell’artigianato in Italia, Non siamo sostituibili. Siamo individui uni- al lato oscuro del Made in Italy, alla manifatci. E la nostra unicità, creatività e quello che tura 4.0, alle innovazioni portate dalle nuove siamo in grado di fare, acquista ancora più tecnologie nei settori tradizionali delle tre valore in quest’ottica. “F”, al divario tra formazione e competenze richieste dal mercato del lavoro, alla necessità


cover story

di una rivalutazione socio-culturale dei mestieri e del saper fare, a fronte di quell’ossessione per il pezzo di carta che, in diversi casi, ha prodotto e continua a produrre schiere di disoccupati. Non è un segreto che finire giurisprudenza a pieni voti oggi, non garantisce una sfolgorante carriera da avvocato, lo stesso vale per medicina ed ingegneria; in quest’ottica, quindi, forse è questo il momento storico migliore per seguire le proprie passioni, se fatto in modo intelligente. L’Italia è il paese dell’arte, della bellezza, della creatività, delle piccole e medie imprese, dell’artigianato. E’ anche il Paese dove i maggiori difetti: l’estrema farraginosità della burocrazia, la corruzione endemica (che poi endemica non è, e guai a considerarla tale, che altrimenti ci dichiariamo sconfitti in partenza prima ancora di provare ad estirparla) e la scarsa trasparenza hanno dato vita ad un popolo estremamente flessibile e capace nel districarsi e nel trovare strade alternative (nel bene e nel male). Flessibilità e creatività sono caratteristiche che una macchina non può avere. In questo sforzo per rimettere al centro l’uomo, potremmo avere un ruolo cruciale. E noi siamo una delle popolazioni più longeve al mondo. Non ce lo dimentichiamo.

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the new’s room

Il ribelle ha spesso ragione. Quando i tuoi genitori ti vorrebbero un rispettabile avvocato

Testo di Carlo Brenner

Non ho mai avuto una particolare simpatia per la figura del ribelle. Credo che siano dei furbi, degli approfittatori, gente che trova il proprio successo nelle fatiche altrui. Soprattutto non ho mai avuto simpatia di chi fa il ribelle quando ha una famiglia che paga l’affitto per lui, lo manda a scuola, gli dà la paghetta per uscire con gli amici, e fa una serie di sacrifici per mantenerlo, mentre lui vive alle spalle dei genitori opponendosi però a loro. È chiaro che l’argomento è più complesso, e se nessun ragazzo si ribellasse alla famiglia non vi sarebbe confronto generazionale e neanche evoluzione, ma è molto più difficile creare che distruggere e per poter distruggere bisogna aver prima creato. Eppure, al di là che io ne abbia simpatia o meno, il ribelle ha spesso ragione. Bisogna, infatti, riconoscere i suoi meriti. Gran parte delle scoperte più importanti sono state il frutto di atti, anche piccoli, di ribellione. Per non immergersi troppo negli abusati esempi storici limitiamoci qui a ricordare solo un grande ribelle: Galileo Galilei. Galileo fu condannato nel 1633 da illustri Cardinali per aver sostenuto la dottrina copernicana dell’eliocentrismo. Questo piccolo atto di ribellione, poi ripudiato dallo stesso Galileo, è all’origine della concezione odierna del sistema solare. Per ricorrere ad esempi più vicini a noi, c’è la diffusione della Radio. Un tempo monopolio di Stato, è diventata pubblica grazie a piccoli atti di ribellione. Bisognerà aspettare il 1976 perché vengano liberalizzate le radio private. Questo risultato si deve a 400 piccoli atti di ribellione delle corrispondenti radio “pirata”: radio fatte in casa da persone

che, ribellandosi alla legge, avevano iniziato a trasmettere i propri programmi. Con la Sentenza 202 della Corte Costituzionale le Radio “pirata” diventarono improvvisamente radio “libere”. Un esempio contemporaneo invece può essere quello dei vari servizi online come Itunes, Spotify, Netflix, e tanti altri che prendono spunto da comportamenti illegali, di ribellione, come la diffusissima condivisione di file audio e video iniziata alla fine degli anni 90, inizio 2000, con siti come Napster ed Emule. Ma tornando alla domanda originaria: chi è il “ribelle” che, oggi, ha ragione? Il ragazzo che, in contrasto con il volere dei genitori, sceglie di studiare le materie che oggi sono più indispensabili o che lo appassionano, il ragazzo che, deludendo i genitori, sceglie di non studiare per apprendere un lavoro sul campo. Oggi il mercato del lavoro è profondamente cambiato e continua a mutare rapidamente. Sono diverse le competenze richieste, il modo di lavorare, i settori di punta e i tipi di contratto. Eppure, i nostri genitori, sembrano essere rimasti intrappolati in un mondo che non esiste più, e tale “ignoranza”, spesso, ha conseguenze deleterie sulle scelte dei figli che ne subiscono l’influenza. Molti, troppi di noi, si sono sentiti dire “fai il classico”, “studia giurisprudenza”, “economia” o “medicina”; nella convinzione che le lauree tradizionali, che hanno determinato il facile successo di molti negli anni ’50, ’60 o ’70, siano ancora oggi la chiave per inserirsi nel mondo del lavoro.


cover story

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L’infografica di questo numero mostra una discrepanza significativa tra quello che i figli vorrebbero fare da grandi, e quello che i loro genitori si aspettano da loro. Il lavoro preferito dei genitori per il figlio maschio è l’ingegnere (20%), seguito dall’impiegato pubblico (19%), quasi nessuno immagina un figlio imprenditore, e solo il 3% dei genitori vorrebbe che il figlio facesse il creativo o l’artigiano; contro il 26% dei figli che aspira ad un ruolo da imprenditore e il 34% che ambisce ad un mestiere legato ad arte, artigianato o comunque in settori creativi. Le aspettative di entrambi, ovviamente, devono fare i conti con ciò che realmente richiede il mercato. Al primo posto le professioni legate alla progettazione e analisi di software, ingegneri energetici e meccanici, ma c’è anche sempre più spazio per la creazione di contenuti visivi e audio, per i graphic designers e, infine, c’è bisogno di operai, in particolare saldatori e tagliatori a fiamma e attrezzisti di macchine utensili, e apprendisti artigiani in varie discipline. La formazione in settori legati all’ICT (information and communication technology) è più richiesta delle lauree classiche, la creatività e l’abilità nel creare contenuti legati all’immagine e al suono ed una spiccata sensibilità estetica per cui un tempo non c’era spazio, oggi trova diverse applicazioni nelle aziende, nel mondo della pubblicità, della moda e degli eventi. Insomma, le lauree tradizionali non sono più, nella maggior parte dei casi, la porta d’ingresso principale per il mondo del lavoro. Così come la scelta “virtuosa”, non è più tra classico e scientifico. L’aspirazione a vedere i figli laureati solo e soltanto in giurisprudenza e medicina, appartiene ad un'altra epoca. La vera ribellione, oggi, è la capacità di leggere una realtà che cambia rapidamente e che richiede nuove competenze, sempre più trasversali, per non restare intrappolati in certi schemi che non funzionano più. E questo deve partire dalla scuola, che ha un enorme responsabilità in questo, per fare in modo che la ribellione sia, non solo momento di rottura ma di crescita armoniosa, per se stessi e per la società tutta.

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Non solo figli di Una chiacchierata con Giordano Riello, nipote di quel Giordano Riello, che negli anni sessanta introdusse per la prima volta in Europa l’aria condizionata. Abbiamo parlato della difficoltà di fare impresa e di innovare un brand consolidato senza perderne l’identità, del futuro, della gestione dei dati e dell’importanza di saper volare.

Intervista di Vittoria Becci

Cosa significa fare impresa oggi per chi si ritrova già un posto privilegiato e di responsabilità sin dalla nascita. Negli ultimi afosi giorni di luglio, mi rinfresco chiamando Giordano Riello. Giordano rappresenta la quinta generazione della sua dinastia e visto che si parla di aria, lui è quella del futuro, sia per la sua azienda che per il nostro made in italy. E’ stato vicepresidente nazionale di Confindustria giovani e ha guidato dal 2015 al 2017 i giovani imprenditori di Confindustria Veneto. La sua impresa di famiglia nasce a Legnago, in provincia di Verona, nel 1922 come Riello caldaie e suo nonno fonda poi Aermec che si sviluppa nel settore del condizionamento dell’aria. È oggi presidente della Nplus srl, azienda manifatturiera con focus nella progettazione e produzione di schede elettroniche per differenti applicazioni. Fa inoltre parte del board di RPM Spa, azienda leader nella produzione di motori elettrici.

Cosa sognavi di diventare, da piccolo? “Inizialmente avrei voluto fare il pilota di linea, ma poi sono stato richiamato in maniera naturale dallo spirito imprenditoriale, prendendo comunque il brevetto da pilota. Nella nostra famiglia abbiamo sempre dovuto provare di saper fare imprenditoria. Prima di me mio padre. Mio nonno lo mise alla prova per riuscire a dimostrare a lui e a se stesso le sue capacità. Così fondò la RPM. La differenza tra autorità e autorevolezza è labile, ma fondamentale. Io ho fatto lo stesso lanciandomi in una avventura imprenditoriale mia e ho fondato con due soci la Nplus un paio di anni fa, un azienda che produce schede elettroniche per diversi tipi di applicazioni, partendo senza capitali avendoli dovuti cercare non con poche difficoltà nel mercato. Una delle regole di famiglia e dell’azienda è quella che se i figli iniziano una propria attività devono farla senza i capitali della famiglia perché,” aggiunge in veneto, “Xe tuti boni a far impresa co i schei de i altri”( sono tutti buoni a fare impresa con i soldi degli altri). La Nplus ha sede a Rovereto in Trentino, perché? “La mia azienda l’ho fatta in Trentino dove la provincia autonoma di Trento mi ha dato delle condizioni agevolate. L’Italia purtroppo non è il Trentino-Alto Adige”. Quali sono gli ostacoli più grandi alla libertà di impresa nel resto d’Italia? “L’Italia è un paese che è nato ed è cresciuto su un sistema industriale manifatturiero. Per fare manifattura in Italia e creare nuove aziende o si hanno dei capitali o è veramente molto complesso accedere al credito. Siamo un paese che vuole fare fabbrica e sa fare fabbrica, ma il mondo della politica tarda a capirlo, e se non lo si capisce ed interiorizza non andremo molto distanti. Non si capisce fino in fondo nemmeno l’importanza del Made in Italy che, se fosse un marchio, sarebbe il terzo al mondo dopo Visa e Coca-Cola. È un asset importantissimo che in


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Italia abbiamo e di cui non conosciamo abbastanza le potenzialità. La bellezza in cui siamo cresciuti, non aiuta solo il turismo ma anche la produzione di una scheda elettronica, di un pezzo di ferro, di un motore elettrico, inoltre la mancanza totale di flessibilità del nostro sistema lavorativo, insieme alle condizioni antindustriali e un approccio burocratico ingessato rendono il fare impresa quasi impossibile. La burocrazia è un costo nascosto inconcepibile e un fattore di non competitività, che insieme anche al costo del lavoro tolgono liquidità all’economia reale.”

Quali sono le sfide future per la tua azienda? “Il modello imprenditoriale è cambiato nell’ultimo decennio e alcune cose vanno interpretate con chiavi di lettura diverse. Ho la fortuna di avere un dialogo costante con mio padre e con mio nonno. Nonostante lui rappresenti il “vecchio modello imprenditoriale” a cui ispirarsi, nell’era digitale pensare di rimanere ancorati a certi schemi è fallimentare, non è facile ma è fondamentale”. Qual è allora la tua idea di impresa del futuro? “Io vedo un fattore determinante che è l’interconnessione e la gestione dei dati. La gestione del dato, anche sul banale impianto di condizionamento, mi permette di sapere quello che l’utente vuole e io riesco a darglielo prima che me lo richieda. Il futuro prossimo è la gestione delle connessioni tra tutte le cose che utilizziamo e la gestione del dato per la creazione del confort delle persone”. Anticipare è quello a cui pensa Giordano, come si fa negli aerei, quando si vola. Hai detto che hai il brevetto per volare, cosa significa per te il volo? Henri Ford diceva: “quando sembra che tutto deve andare male, ricordati che l’aeroplano decolla contro vento”. Il volo è sempre stata una passione e mi ha dato tantissimo anche per il mio lavoro. Mi ha insegnato a saper prevenire l’emergenza e gestirla in modo lucido”. Perché non hai continuato con la carriera di pilota? “Perché, alla fine, il richiamo della “fabbrica” è forte e spero mi permetta di volare più alto assieme a tutti i miei collaboratori nei mercati di tutto il mondo”. L’intervista è finita, si rilassa e si lascia andare in un sorriso.

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Manifattura 4.0: il “ritorno al futuro” di Milano

Riportare le imprese manifatturiere in città che, grazie ai processi di innovazione tecnologica, oggi occupano meno spazio e non inquinano come un tempo.

Testo di Simone Rubino

Robert Zemeckis non c'entra. La saga cinematografica diretta dal regista americano, popolarissima negli anni '80 e '90, presta solo l'immaginario: c'è poco di fantascientifico nel progetto “Manifattura Milano”, dove invece abita la modernità di una metropoli e di un Paese che per correre in avanti ha necessità di fare i conti con quel che è avvenuto e con quel che di ieri è rimasto. Il peso dell'Italia manifatturiera è noto grazie alle sue eccellenze che difendono il made in Italy nel mondo, e grazie anche al drastico ridimensionamento che ha subito a causa del persistere della crisi, e (secondo alcuni) delle insufficienti tutele da parte della politica.

slogan che ne restituisce l'idea: “Fabbricare in città per fabbricare la città”. La manifattura 4.0., per chi se lo stesse chiedendo, è tutt’altro che un ritorno alle città industriali del secolo scorso. Al contrario, guarda al futuro, e si fa uno degli elementi delle città del domani. Il progetto è quello di una produzione urbana inserita in un piano di sviluppo economico e sociale più ampio, che ha tra i suoi obiettivi la sostenibilità a tutti i livelli, la risposta alle sfide del cambiamento climatico, la valorizzazione del match fra società civile ed economia locale, oltre alla determinazione di una dimensione di scambio (di culture, innovazioni e conoscenze, non merci) su un livello glocal.

Molte grandi imprese sono state perse, gli in- Al Fab City Summit di Parigi, in rappresentanvestimenti rispetto ai competitor sono rima- za dell'Italia, ha partecipato solamente Milano: sti bassi e l'obolo costituito dal mix tra debito «Ci piacerebbe poter condividere questi perpubblico, corruzione e farraginosità ammini- corsi anche con altre città italiane invece che strativa ci ha portati, in poco più di dieci anni, “in solitudine” come a Parigi, dove comunque dall’essere la quinta potenza manifatturiera siamo stati in compagnia di molte città alleate mondiale, a trovarci in coda all’India e alla – esordisce l'assessora milanese alle Politiche Corea del Sud. del Lavoro, delle Attività produttive, del Commercio e della Risorse umane, Cristina TajaChe fare? ni – Milano è oramai inserita dentro una rete Milano, con il suo fare borghese e calmierato, di città internazionali ed il nostro termine di ma non privo di ambizione, ha lanciato –di paragone non deve essere più soltanto l'Italia: i concerto con Parigi e Barcellona – una sfida: nostri partner sono su scala europea». ritornare a produrre in città. Fare della città La Tajani, dagli uffici del suo assessorato in via il luogo della manifattura. Anne Hildalgo, la Dogana, sotto il Duomo, seppur con assoluto sindaca della capitale francese, ha coniato uno


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L'assessora Cristina Tajani

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garbo, non le manda certo a dire: Milano punta oltre il conosciuto, nutre traguardi e genera aspettative. La più giovane donna della giunta meneghina è nata 37 anni fa a Terlizzi, in provincia di Bari – come testimonia il suo accento, ben custodito nonostante viva a Milano da vent'anni – ed è a Palazzo Marino dal 2011, nominata dal sindaco Giuliano Pisapia e poi confermata da Giuseppe Sala: è espressione di una politica giovane che vuole innovare. “Manifattura Milano” ne è esempio. «È un progetto che il Comune ha lanciato poco più di un anno fa. L'obiettivo è favorire il reinsediamento di imprese manifatturiere in città: queste oggi possono occupare, grazie ai processi di innovazione tecnologica che chiamiamo 4.0 (perciò manifattura 4.0, ndr), spazi di dimensioni ridotte senza inquinare come avveniva un tempo» chiarisce la Tajani. «Si tratta di uno strumento di rigenerazione urbana: un nuovo laboratorio artigiano o una nuova officina digitale contribuisce a riqualificare aree dismesse ed a creare attorno un piccolo ecosistema», aggiunge poi. «Nella sua politicità è anche riqualificazione sociale: queste produzioni possono offrire risposte occupazionali ai tanti che negli anni della crisi economica sono stati spinti verso il basso dal crescere delle diseguaglianze; in pochi ce l'hanno fatta a fare il percorso inverso». La ricetta per la nuova manifattura milanese fin qui è stata quella di un sistema di micro-incentivi alle startup ed all'insediamento soprattutto nelle periferie, insieme alla garanzia, attraverso le scuole civiche, di corsi di formazione professionale. “Manifattura Milano” è un progetto giovane, i prossimi passaggi testeranno la sua concretezza, sulla quale l'assessora Tajani non dubita: «L'onda positiva che la città ha saputo cavalcare in questi anni non si è fermata. Questo non deve farci adagiare sugli allori, bisogna andare avanti, migliorarsi e mettere a disposizione di altri il nostro portato, senza essere né presuntuosi né egoisti». Una disponibilità di intelligenze ed idee che il sistema Italia farebbe bene a raccogliere, per costruire quella città del futuro che – secondo la Tajani – sarà molto più umana e meno spersonalizzata del paventato: «La tecnologia ci sarà ma non si vedrà. Emergerà la forza della comunità».


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BASE Milano

La cultura al centro per una città meno “smart” e più intelligente. Testo di Lorenzo Bernardi

“Là dove c'era l'erba ora c'è una città”, cantava Celentano mezzo secolo fa. Quella colata di cemento contro cui si scagliava il Molleggiato è tuttora lì, nelle tante via Gluck d'Italia, e ha dato origine alle famigerate “periferie”. I luoghi del degrado, su cui oggi sindaci, urbanisti e sociologi si arrovellano nel tentativo di trovare la chiave per una “riqualificazione”. Questa è diventata la parola d'ordine delle metropoli del terzo millennio, uscite malconce dalla delocalizzazione produttiva, dalla globalizzazione e dalla crisi economica. Luoghi su cui pesa l'eredità scomoda di palazzoni ammassati in aree disagiate e di fabbriche dismesse inglobate in quartieri residenziali, ormai inutili ma costosissime da radere al suolo, per cui si cerca disperatamente di un nuovo perché. A Milano c'è chi questo perché l'ha trovato. Siamo nel quartiere Tortona, speculare al centro rispetto alla via Gluck di Celentano e non distante da un altro angolo della Milano popolare reso famoso dai cantautori, il Giambellino di Gaber. Intendiamoci, Tortona non è una banlieue, anzi è da tempo zona iper-gentrificata. Ma il suo volto mostra uno sfregio: lo stabilimento ex Ansaldo. Un tempo industria pesante, metalmeccanica, in cui negli anni '60 si costruivano treni e tram. Uno spazio da settantamila metri quadrati dismesso anni fa e rimasto a lungo in attesa di uno scopo. E ripartito dall'inizio, anzi, dalla BASE, nel 2016. Descrivere BASE Milano non è semplice, poiché si tratta di un modello unico in Italia. Chiamiamolo un hub interdisciplinare, un luogo dove arte, cultura, socialità e impresa si incontrano. Un luogo dove le persone, le


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aziende e il pubblico provano a costruire un modello di sviluppo urbano e sociale a partire dal “saper fare” italiano, e dove il legame con l'Italia è forte a partire dalla lingua. Qui si parla italiano, nessun co-working o guest houses, ma spazi di lavoro condiviso e residenze. Qui Milano si apre all'Europa e al mondo, ma senza la paura di mostrare le proprie radici. BASE Milano è in sintesi un'ex fabbrica metalmeccanica convertita in acceleratore per le industrie creative. Ma è molto di più. In un'area da 12mila metri quadrati troviamo spazi dedicati a spettacoli teatrali e musicali, una residenza per artisti e avventori, uffici e sedi aziendali e perfino un'officina. Qui si lavorano legno e ferro e si costruiscono arredi e mobili per tutta la struttura. Rigorosamente Made in Italy. «Il nostro obiettivo, nel tempo, è di aprirci al quartiere e diventare un'officina sociale» spiega Giulia Cugnasca, il direttore operativo di BASE. Ma cos'è davvero BASE? Soltanto l'ennesimo esempio di “riqualificazione” post-industriale? Secondo i suoi promotori, non si tratta di questo soltanto. «Stiamo costruendo un enorme simulatore, un luogo dove si ridisegnano le politiche sociali, culturali ed economiche del futuro – approfondisce Daniela Cattaneo, vicepresidente di BASE – Un'esperienza plasmata da molte persone e aperta a molti pubblici. Sperimentiamo nuovi sistemi per stare insieme e per collaborare, e inventiamo formati nuovi, nel tentativo di capire cosa serve alle città del futuro». All'ex Ansaldo, che sta già “brandizzando” il quartiere Tortona, si punta quindi a creare un modello esportabile, che possa trainare la società di domani un po' come le locomotive costruite nello stabilimento trainavano i convogli ferroviari. E come in tutti gli esperimenti, si procede anche per tentativi. L'ultimo? «Abbiamo lanciato la portineria di quartiere – rivela Cattaneo – È il corrispettivo del vecchio portiere di condominio, figura ormai quasi scomparsa. Quando la nostra portineria si aprirà alla città, ciascuno potrà lasciarvi le proprie chiavi, ritirare i propri pacchi, e più in generale avere un punto di riferimento in zona in cui egli stesso sarà riconoscibile». Un modo per contribuire a ricostruire un senso di comunità.

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Certo, siamo a Milano, la capitale degli affari, e quindi a BASE molto ruota attorno al business. Il concetto è a metà fra il coworking allargato, e l'incubatore d'impresa. Nel “burò”, le start-up del digitale che hanno preso casa qui si confrontano con imprese di piccola manifattura e con i professionisti, facendo rete e creando occasioni di sviluppo. A BASE si lavora quindi sul nuovo artigianato, ma anche sulla comunicazione e sulla frontiera del digitale. La particolarità è che a fare da collante c'è la cultura. Il calendario di concerti e appuntamenti organizzati negli spazi comuni dell'ex stabilimento è già fitto, e nel corso del 2018 è previsto il taglio del nastro di atelier di moda e di un centro di produzione musicale. Un altra peculiarità è la CasaBase, la residenza che ospita gli artisti che transitano per la struttura ma che è anche aperta ai semplici turisti. «Di fatto è un ostello, ma con un look da albergo 5 Stelle. Qui gli ospiti possono vivere un’esperienza turistica diversa, vivere Milano e il suo fermento culturale da un osservatorio privilegiato» spiega la Catteneo Diaz. Un ultimo concetto fondamentale del progetto è il "Learning machine”. BASE, intesa come l’insieme delle persone che la compongono, è concepita come una macchina che apprende continuamente, per esempio grazie ai continui workshop, e che produce i frutti di questo apprendimento. «In fondo, l’essere umano è una “macchina” ben più longevo del migliore dei computer», spiega la Cattaneo Diaz. L'esperienza poggia su un assunto: la valorizzazione delle differenze fra chi condivide questo spazio e la condivisione di idee e progetti: «Attenzione, celebrare la differenza non significa essere diseguali – avverte la vice presidente – Noi qui cerchiamo prima di tutto un nuovo sistema di organizzazione. E vogliamo che esso poggi su un nuovo concetto di Made in Italy. Ci proponiamo di lavorare a ritmi rilassati, meno “corri-corri, mangia-mangia, lavora-lavora” e più legati alla filosofia dello scambio. Siamo convinti che le aziende saranno “premium” solo se avranno qualcosa da dire. Questi concetti non si applicano solo ai campi tradizionali dell'eccellenza italiana, come la moda e il design, ma a varie realtà economiche. Il nostro è un sistema orizzontale in cui le realtà coinvolte adottano un codice etico. E collaborano».

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Per entrare a BASE Milano non basta volerlo: la governance è affidata a cinque società -Arci Milano, Avanzi, esterni, H+, Make a Cube³-, che si sono aggiudicate un bando promosso dal Comune per la ristrutturazione e la gestione degli spazi dell'ex Ansaldo. L'intervento di riqualificazione , che ammonta a 14 milioni di euro, è stato cofinanziato per circa un terzo dalla pubblica amministrazione. «Per partecipare alle selezioni è necessario presentare la domanda ed esporre i proprio progetto» informa la Cattaneo Diaz. Questo è centrale per capire se chi aspira a entrare nello spazio è funzionale al progetto di fondo. In quest’ottica, anche i prezzi di affitto degli spazi sono differenziati. L'obiettivo è mantenere un equilibrio gestionale, nella prospettiva a lungo termine di 18 anni, la durata del bando del Comune. È presto per dire se l'esperimento di BASE avrà successo e soprattutto se sarà replicabile in contesti più difficili rispetto a Milano Tortona. È chiaro che costruire un modello di città del futuro a poche fermate di metro dal cuore della capitale italiana degli affari è cosa ben diversa dal farlo a Secondigliano a Napoli, alle Vallette di Torino o allo Zen di Palermo. Però le premesse, per ora, sembrano positive. Se poi la filosofia di BASE avrà successo, allora si potrà davvero dire che a Tortona, sulla sponda opposta della via Gluck di Celentano e a due passi dal Giambellino, si è costruito un pezzo importante della città di domani. Una città intelligente, nel senso umano del termine.


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IL LATO DEL MADE Non è tutto rose e fiori, quel che si cela dietro il brand nazionale che da sempre è garanzia di qualità e, nel settore alimentare, di mangiar bene e sano. Mangiare bene, mangiare sano. La mitragliata mattutina, il rintocco pomeridiano e il gorgheggio prima di andare a dormire. E ancora, anche nel pieno della notte, lo slogan tutto italiano del ventunesimo secolo non ci lascia soli. Lo ripetiamo, sognando di addentare un pomodoro o di refrigerare lo stomaco con un succo di arancia. Un condensato organico della nostra nuova identità nazionale. Siamo consapevoli che le ricchezze enogastronomiche del nostro Paese fanno impallidire le migliori economie produttive del mondo. È il Made in Italy, il marchio di fabbrica delle eccellenze, che garantisce qualità. Un “brand” che vende in tutto il mondo. Secondo un'analisi della Coldiretti sui dati Istat relativi al commercio estero, nel 2017 si è registrato un incremento del 7 per cento delle esportazioni agroalimentari rispetto al 2016. Anno in cui i fatturati avevano raggiunto il valore record di 38,4 miliardi. Una delle mete più gettonate sono gli Stati Uniti. 4,801 miliardi di dollari nel 2017 e nei primi 4 mesi del 2018 un balzello del 18,5 per cento. Tutti vogliono mangiare italiano.

Ma siamo così sicuri – una volta aperti gli occhi dopo sogni convulsi – che la formula magica non nasconda sotto alchimie di omertà, sfruttamento e alienazione? In molti casi – denunciati nel corso degli anni, raccontati da una miriade di giornalisti e associazioni - le scorie radioattive del profitto incondizionato hanno generato nuove forme di schiavismo nelle campagne. Succede in Italia. Le arance della Calabria. Succose. Dalla polpa venosa, rosse. Nei campi della Piana di Gioia Tauro – dove, in lontananza, sulla costa, oscillano le gru del porto più grande del Mediterraneo – migliaia di persone lavorano per 12 ore filate a 25 euro. A cottimo, con contratti fittizi o a giornata. Nella zona industriale che unisce in una filigrana di fallimenti aziendali i comuni di Rosarno e San Ferdinando, c'è una baraccopoli. Una città di legno e ferro, nylon e scotch, costruita dai braccianti per avere un tetto sopra la testa. Senza luce e acqua. All'alba si sgobba e la sera si ritorna in bicicletta nel limbo. Accanto, le tende squadrate installate dalla Protezione civile. Lo scorso 27 gennaio un incendio divampato nel ghetto ha ucciso la giovane Becky Moses. Il 2 giugno Soumaila Sacko, un giovane bracciante e sindacalista, è stato assassinato in una fabbrica abbandonata, sotto sequestro da 10 anni, men-


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OSCURO IN ITALY Testo di Maurizio Franco tre cercava delle lamiere per rinforzare un rifugio di fortuna. Un colpo di pistola alla testa. Il pomodoro. In Puglia ancora ghetti e sfruttamento. La pista di Borgo Mezzanone è una spianata di esistenze tra le baracche dell'ex aeroporto a pochi chilometri da Foggia. A Nardò, Abdullah Muhamed è morto il 20 luglio 2015. Arresto cardiaco sotto il sole cocente. La fatica disumana remunerata 7 euro per ogni cassone da tre quintali di pepite rosse. I pomodori raccolti sarebbero stati consegnati alle più importanti aziende italiane e internazionali di trasformazione. E poi riversati negli scaffali dei supermercati. Anche a 39 centesimi, il prezzo di una passata di oro rosso. È il sottocosto tricolore che vessa gli agricoltori, ma che rende la spesa “intelligente”. Secondo il Rapporto Sfruttati curato da Oxfam e Terra!Onlus, una delle cause dello sfruttamento del lavoro nella filiera del pomodoro “è legata alle pratiche scorrette perpetrate da pochi soggetti della Grande Distribuzione Organizzata per spingere verso il basso i prezzi dei prodotti trasformati e della stessa materia prima”. I vertici della piramide ingrossano i portafogli e gli anelli più deboli della catena ne pagano le conseguenze.In Italia ci sono all'incirca

80 ghetti. Ad ogni latitudine dello stivale, sacche di alienazione. A Saluzzo, in Piemonte, centinaia di braccianti dormono per strada, lungo il viale alberato del foro Boario. Altri hanno occupato un capannone in disuso dal 2015. Il comune ha allestito un dormitorio con 368 posti letto. Ogni anno, si assiste alla transumanza di un proletariato agricolo che gira l'Italia seguendo le stagioni della raccolta. Forza lavoro da smistare illegalmente, assoldata da un caporale. Spesso, l'unico intermediario tra l'imprenditore agricolo e i braccianti. Le stime dell'Osservatorio Placido Rizzotto raccontano di 430mila lavoratori irregolari nelle campagne, 100mila “in condizioni di sfruttamento e grave vulnerabilità”. Nel 2015, le ispezioni condotte dalla Flai Cgil su 8.862 aziende agricole in oltre 80 zone di produzione, hanno documentato la presenza di 6.158 lavoratori irregolari e 713 casi di caporalato. È anche questo made in Italy. O una sua dolorosa parte. Turismo e cibi squisiti: una colata di frattaglie e scorci paradisiaci sulle spalle di migliaia di lavoratori. Lo slogan è sempre lo stesso. Ripetiamolo tutti : mangiare bene, mangiare sano. Stavolta con un'altra intonazione.



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ARTIGIANATO e MESTIERI

La forza del fare in Italia Foto di Ilaria Lagioia


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La pasticcera Da Iginio Massari a Isabella Potì. Intervista alla Pasticcera rottamatrice che ha infiammato Masterchef (e non solo) Se c’è una cosa che terrorizza i concorrenti e che fa sobbalzare su quel comodo divano gli spettatori (tutti), è il momento in cui Iginio Massari, stella del mondo della pasticceria italiana (e non solo) serafico e schietto come di consueto, fa la sua entrata nella sempre più tragicomica cucina di Masterchef. In quel momento non ha importanza se sai sfilettare un’orata in cinque secondi; non devi fare cazzate. Ma quell’imperativo - il non-fare-cazzate - non è tanto indotto dalla complessità della sfida (vale a dire saper cucinare un dolce). Quell’imperativo ha radici altrove, nello sguardo di Massari. È una puntata particolare del programma, perché per qualche minuto i protagonisti non sono i piatti, i concorrenti, gli sguardi languidi di Cracco o Anaconda, bensì il “modo” in cui Il Pasticcere vigila, consiglia, bacchetta, schernisce, incoraggia. Il “modo”, insomma, in cui Il Pasticcere ti fa percepire la sua portata ontologica all’interno di una cucina, stellata o meno. Quest’anno Iginio Massari non c’era (è arrivato per un cameo quasi imbarazzante). La sua assenza aveva un duplice significato recondito. Il primo, scontato, era una questione d’intrattenimento: bisognava fare qualcosa, evitare di ripetere la storia (di Masterchef) sempre uguale a sé stessa. E poi segnava il cambio della guardia. Una cosa tipo: adesso-vi-rottamiamo-per-davvero (con solenne rispetto e decenza). Al posto di Massari c’era Isabella Potì, sous chef del Bros, classe 1995, tra le personalità europee under 30 “da tenere d’occhio” secondo Forbes. Quando - coordinandomi plasticamente coi concorrenti - mi resi conto che sarebbe stata lei la “puntata Massari” -, morimmo tutti dalla paura e sobbalzammo. L’atmosfera era la stessa del Pasticcere, solo meglio. C’erano sgomento, angoscia, terrore, senso di redenzione per tutti i peccati commessi (aver cannato il piatto o non aver mai assaggiato una cassata come dio comanda

Testo di Lorenzo Sassi

prima dei diciotto anni). Ma poi c’era orgoglio: l’idea che una di noi - generazione x, y, zeta- avesse spodestato la vecchia guardia. Isabella trascorre al ristorante quasi 18 ore al giorno tra preparazione e servizio. Nelle poche ore libere a disposizione , studia dizione e va in palestra. (Non ho idea di quando/ come/dove dorma). Ha viaggiato, si è fatta le ossa con le più brillanti teste della cucina in Europa (Claude Bosi, Martin Berasategui), distorcendo radicalmente la composizione papillare della sua lingua per poi tornare a Lecce, mischiando ciò che era di casa, con ciò che non lo era, ma che poi è diventato a sua volta di casa (tenete conto che lei è originariamente polacca, ma chi se ne importa). “Tutto si lega all'infanzia, ai profumi e ai sapori che mi riportano indietro con la mente, a quando durante i viaggi in Polonia, mi destreggiavo nell'inventare dolci di ogni tipo, a volte con risultati poco soddisfacenti”. Perseveranza, dedizione, con la necessaria ma ben bilanciata dose di follia, hanno fatto il resto. “Mi piace la precisione, l'equilibrio, la pulizia delle forme e la scrupolositàà delle tecniche: forse è anche questa una delle ragioni della mia scelta”. È una tra le figure femminili più influenti del mondo della cucina italiana. Sicuramente dorme male. Quella puntata me la sono ricordata.


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Il costumista Massimo Cantini Parrini: tra tradizione, interpretazione e contemporaneità. 3 David di Donatello e innumerevoli riconoscimenti, ha lavorato, tra gli altri, con Garrone, Pescucci, De Angelis, e la sua professionalità è apprezzata in tutto il mondo. Massimo Cantini Parrini ci racconta cosa significa, per lui, essere un costumista.

Testo di Alice Militello

Che l’Italia sia un eccellenza nel campo della moda e dell’eleganza, è cosa riconosciuta. Così come è noto che i costumisti italiani, sono tra i più ammirati e ricercati al mondo. Parrini, costumista, 3 volte David di Donatello per la categoria “migliori costumi” e vincitore di numerosi altri premi, è un esempio d’eccellenza del Made In Italy. Lo abbiamo incontrato per conoscere qualcosa in più del suo mestiere. Anche la sua storia, racconta di una passione e un’abilita ereditata dalla famiglia, ed impregnata di una tradizione che caratterizza il nostro Paese da sempre. Come nasce il tuo amore per il costume? La passione per i costumi l’ho ereditata da mia nonna, che lavorava in una sartoria. Sin da bambino ero affascinato dai tessuti, dal passaggio della stoffa da supporto bidimensionale a forma tridimensionale, già appoggiandola sul manichino. All’età di 13 anni ho iniziato a collezionare costumi. Possiedo oltre 4000 capi che vanno dal ‘700 agli anni ‘80. Sono mosso da sempre dal desiderio di salvare i vestiti da un destino incerto, come se fossero reperti archeologici. Che tipo di studi hai compiuto? Dopo l’Istituto d’arte, mi sono diplomato al Polimoda di Firenze e, sempre qui, ho conseguito la Laurea in Costume alla Facoltà di

Lettere. Quindi, ho studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia con il maestro Piero Tosi. Tosi, Gabriella Pescucci e Maurizio Millenotti, rappresentano 3 figure cardine della mia formazione. Hai avuto qualche esperienza all’estero e quanto ha pesato nel tuo lavoro? Ho collaborato 10 anni con il Premio Oscar Pescucci, sin dall’inizio mi sono misurato con produzioni enormi e internazionali, che mi hanno dato un’impostazione organizzativa rivelatasi determinate nel corso di tutta la mia carriera. Oggi il lavoro del costumista non è solo artistico ma anche manageriale. Bisogna sapersi districare tra burocrazie e conti. Osservando i tuoi abiti emerge una conoscenza enciclopedica della tradizione ma, al tempo stesso, la capacità di rapportarsi al presente. Raccontaci qualcosa di più. Il punto di partenza è lo studio della storia del costume, che si combina con tutte le arti visive. L’ibridazione tra le culture è una componente essenziale del mio modus operandi. Ad esempio, i pizzi in metallo invece che in tessuto ne Il Racconto dei Racconti sono ispirati da statue del ‘600 che mi avevano colpito per la loro solidità. Le influenze glam rock di Riccardo Va All’Inferno trovano le


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loro matrici nella mostra su David Bowie. Un lavoro funziona quando riesco a trasportare nella dimensione contemporanea il passato. Solo conoscendo la tradizione puoi prenderti delle libertà interpretative che, altrimenti, perderebbero di spessore. Quando ricevi un copione, come inizi a ragionare? Mi prendo 1 settimana per pensare, scavo, cerco il fil rouge per connettere sul piano artistico tutte le singole componenti che ho rintracciato. Successivamente, riunisco il mio team con cui pianifico il lavoro, iniziando da stoffe, campionature, documentazione, ecc. I miei costumi devono aiutare il pubblico a definire i caratteri dei personaggi. Per intenderci, la forza degli abiti de Il Racconto dei Racconti sta nella tradizione, di Indivisibili è nella contemporaneità; per Riccardo Va All’Inferno ho lasciato correre la fantasia. Dopo Il Racconto dei Racconti, Matteo Garrone ti ha voluto anche per Dogman. Come hai lavorato per questo film? Dogman incarna la realtà, anche nei suoi aspetti più scoperti e dolenti. Estrapolare e ridare consistenza alla verità è uno degli aspetti più ardui del mio lavoro. Che consiglio daresti a chi vuole intraprendere la tua professione? Di crederci sempre e lavorare sodo. Non sentirsi mai arrivati. La bibbia è la storia del costume, solo la conoscenza dà la possibilità di osare.

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Il ceramista In un mondo dove standardizzazione e riproducibilità fanno sempre più da padrone, nella bottega della famiglia Sbigoli, non esiste un pezzo uguale all’altro. Lorenza siede sullo sgabello. Ha le braccia muscolose, le mani ferme. Davanti a lei, un tavolino circolare che lei fa ruotare. Sul tavolino, un vaso bianco affusolato. Il vaso è di terracotta, fatto con l’argilla di una cava toscana. È bianco perché ha già ricevuto la passata di smalto, un liquido che contiene invisibili pezzetti di vetro e che, una volta in forno a 900 gradi, donerà al vaso la lucidità


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della maiolica. Lorenza dipinge a mano. Le piccole case sulle colline di campagna si intravedono già sopra il vaso. Il dipinto che sua madre Antonella, adesso 85enne, ha inventato, e che potrebbe diventare un quadro se invece delle terrecotte ci fosse una tela. Questo dipinto caratterizza la loro collezione sin dagli anni ’70, quando i genitori di Lorenza sentirono il dovere di far sopravvivere questa bottega fondata a metà dell’800 dalla famiglia Sbigoli e allora distrutta dalla violenza dell’alluvione. Il negozio si chiama ancora Sbigoli, ha sede nel centro di Firenze in Via San’Egidio. Lorenza arriva ogni giorno in laboratorio alle 8 del mattino e chiude il bandone alle 7 e mezzo la sera. Ad aiutarla c’è la sorella Chiara che si occupa degli ordini, delle consegne, della contabilità. Lorenza e Chiara Sono cresciute in quel negozio. Hanno visto la madre Antonella al tornio a pedale, l’hanno vista

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infornare vasi, vassoi, tazze, e hanno visto questi oggetti uscire dal forno, trasformati, lucidissimi, pronti da esporre sugli scaffali, oppure in qualche mostra, come è successo al MET di New York qualche mese fa.

Testo di Laura Bonaiuti

“Le guide vengono qui a portare gente di tutto il mondo”, racconta Chiara, “perché noi siamo rappresentativi di una città. Più Made in Italy di così, si muore”. In effetti, questo è l’unico negozio della zona ad essere sopravvissuto ai cambiamenti del tempo. Antonella ricorda tutte le botteghe dei fiorentini che c’erano intorno. Adesso, più niente. Solo ristoranti e pub per i turisti o piccoli supermarket che vendono alcolici per tutta la notte. Più di una volta le due sorelle sono arrivate ad aprire il bandone la mattina e hanno dovuto buttare via i bicchieri e le bottiglie lasciati sulla soglia. La loro è una guerra contro la riconversione del centro in una Gardaland per turisti, contro la meccanizzazione che produce in serie, contro il consumismo, ma non contro il nuovo. Chi dipinge è un artista, ha studiato molto. Antonella è andata a Faenza ad imparare il mestiere. È rimasta là 5 anni. Quando è arrivata, era appena tredicenne. Era il 1946. Da “una massa informe di argilla”, dice Lorenza, due mani possono creare un’opera d’arte. Come cresce piano piano il prodotto, così cresce chi lo lavora. E dopo ogni oggetto che esce dal forno, una parte di te si arricchisce, mentre un’altra resta dentro quell’oggetto ed entra nelle case, sulle tavole, nei salotti, di tutto il mondo. E ti rende, in qualche modo, immortale. “Non esiste un pezzo uguale all’altro”, spiega il marito di Antonella, Valentino. Indica un grande vassoio ovale sul muro. “Vedi, questa linea è più sottile di quest’altra”. Dettagli quasi invisibili all’occhio comune ma ben chiari a quelli di Valentino. Non esiste un pezzo uguale all’altro. E il punto è proprio questo.


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Il meccanico Quel mestiere che ti sporca le mani Testo di Carmen Baffi

Quindici anni. Di mattina a scuola e poi di corsa in garage. Già da ragazzino, Dario Manna, meccanico cosentino, era un appassionato di macchine e motori. Sulle orme del fratello maggiore, che lavorava in una concessionaria, si divertiva a riparare le auto di amici e parenti. Poi è diventato il lavoro della sua vita. Crescendo, sempre insieme al fratello, decide di aprire un’officina a Castrolibero, comune della provincia di Cosenza. Loro e altri cinque operai. Era grande, oltre 400 metri quadrati, si lavorava molto e in maniera completamente diversa rispetto a oggi. «Vent’anni fa, il lavoro era più tranquillo. C’era più tempo a disposizione. Ora è molto più stressante: nessuno è disposto a rimanere per più di qualche ora senza macchina, è diventata indispensabile, quindi si fa tutto di corsa». Mezzo indispensabile, mestiere in via d’estinzione: il paradosso è questo. «Ai giovani non interessa questo lavoro. È faticoso, ti sporchi le mani e loro preferiscono stare più comodi: ci pensa qualcun altro, a loro che importa? Qui ci sono io col mio operaio e un ingegnere, che va a prendere i pezzi di ricambio e fa le fatture per i clienti. Qualche tempo fa mi hanno contattato dalla Regione per chiedermi se avessi bisogno di ragazzi, ma non erano italiani, tutti extra-comunitari. Avrebbero pagato tutto loro, ma alla fine non ho preso nessuno, il posto è piccolo, in due ce la facciamo». Infatti, Dario, dopo anni accanto al fratello, decide di mettersi in proprio. Si avvicina alla città, mentre il maggiore, per conto suo, apre una seconda officina a contrada Motta, sempre nei pressi del comune di Castrolibero. La sua passione lo fa vivere tutti i giorni tra pneumatici, motori e automobili da mettere a posto. Dario alza la saracinesca alle otto del

Numero autofficine in Italia: 83.460 Numero totale dei veicoli: 37 milioni con un rapporto di circa 444 veicoli per ogni meccanico Spesa annua degli italiani per la riparazione di veicoli: 30,9 miliardi con un aumento del 4,8% rispetto al 2016 Reddito medio annuo di un meccanico: 34.055 euro Produzione di autovetture e moto nel 2018: +7,3%

Fonte: Autopromotec, Neuvoo, Federmeccanica

mattino per abbassarla solo alle venti di sera. Un ora scarsa di pausa pranzo e poi di nuovo al lavoro. L’odore che ti arriva appena entri dà alla testa, ma lui, probabilmente, dopo quasi quarant’anni, non lo avverte più. Se lo sentirà addosso, quel forte odore. Tre, quattro macchine è la media giornaliera, in alcuni giorni qualcuna in più, in altri qualcuna in meno, ma sempre tutto sotto l’occhio battente dell’orologio che segna lo scadere del tempo prima della consegna ai clienti. Il costo delle riparazioni varia in base alla manodopera. La stessa per cui nessuno è disposto ad avere le mani nere. Ma come faranno quando tra molti anni, persone come Dario chiuderanno bottega? Se le auto e la loro importanza aumentano diventando vitali, chi ci sarà a ripararle in tempi record? Se i ragazzi, le mani, non vogliono più sporcarsele, chi luciderà le loro quattro ruote fiammanti? Dario è di poche parole. Dice l’essenziale e torna a mettersi sotto una macchina scura. Alla seconda ci pensa il suo operaio. Sono le quattordici e trenta. I quaranta gradi di fine luglio e, come ogni giorno, mancano “solo” sei ore e mezza prima di tornare a casa.


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L'idraulico Come ci si forma, quanto si guadagna, qual è lo stato dell’arte e il futuro di un mestiere del quale non si può fare a meno. Dai 1500 euro al mese in su, basta essere disposti ad imparare il mestiere, e a portarlo avanti con serietà. Questo è lo stipendio che Fabio Martella, idraulico, classe ’63, dei Castelli Romani, oggi a capo di una ditta sua, paga ad un operaio. Non molti giovani laureati o pluri-laureati in Italia (quasi nessuno), possono aspirare ad una tale somma, come primo stipendio. “Oggi, un giovane che lavora da me guadagna 1480 euro netti che con gli straordinari e i vari conguagli possono diventare anche 2mila. Il contratto è a tempo indeterminato nel settore metalmeccanico. Ha iniziato con me a 19 anni, oggi ne ha 26. Non c’è stato bisogno di una scuola professionale, si è formato qui. Come formazione obbligatoria i dipendenti attualmente hanno un corso l’anno”. Diversa la storia di Fabio, cresciuto come idraulico “figlio d’arte” ci confida tra ironia e orgoglio. “Ho imparato a lavorare da mio padre e mio zio che avevano iniziato nel periodo della ricostruzione postbellica. “Va detto che prima il lavoro dell’idraulico era di fatica. Si operava a mano, senza attrezzature elettriche, poi dagli anni ‘90 la tecnologia è diventata disponibile per tutti, tanto che ormai il mestiere si impara in due/ tre anni, quando prima prima ce ne volevano dieci”. “I miei orari di allora – prosegue il racconto di Fabio - si protraevano sempre dalle 7.30 del mattino fino alle 8 di sera, compreso il sabato”. Una palestra rigorosa che però, adesso, da imprenditore consente a Fabio di organizzare il lavoro in maniera scientifica. “La giornata tipo inizia la sera prima. A fine turno si fa riunione e si spartiscono gli incarichi, i posti dove andare, i materiali da comprare. Questo tipo di strutturazione ci consente di portare a termine anche 8/10 interventi al giorno”.

Testo di Lorenzo Sassi


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“Negli anni ‘90 la mia ditta aveva quindici operai, poi è sempre cresciuta fino alla fine dell’ultima crisi, nel 2014, quando, paradossalmente ma in realtà grazie a tutte le certificazioni ottenute - aria condizionata, antincendi, acquedotto e fognature - ho avuto il numero massimo di operai, venti, senza però riuscire più a tirare su i guadagni che mi avrebbero consentito di pagarli. Se prima dell’euro in capo al mese si guadagnavano 20 milioni di lire, dal 2002 in poi le cifre si sono dimezzate e ancora di più, fino a strozzare l’imprenditore che, come me, si è visto costretto a mandare a casa gli operai”, il dolore più grande per Fabio, “consapevole che molti altri hanno addirittura chiuso l’attività” ci dice. “Attualmente ho un operaio qualificato, un apprendista, un generico e un operaio edile a chiamata ma più che mai oggi, superata la crisi, per lavorare in maniera decente servono, oltre a esperienza e capacità, anche le conoscenze e le referenze giuste”. Per guardare con più ottimismo al futuro del mestiere, Fabio ci spiega che dovrà avvenire “una osmosi tra generazioni. La creazione di corsi, anche regionali, che formino davvero i giovani. Io se servirà, anche gratuitamente, sono pronto a mettermi a disposizione”.

Il settore dell’impiantistica in Italia coinvolge circa 200mila realtà locali per un totale di 750mila addetti distribuiti fra industrie, laboratori di fabbricazione, esercizi commerciali e installatori.

Il fatturato complessivo della filiera impiantistica nel 2017 è stato di 119 miliardi di euro con una crescita del 4,4% nella distribuzione e del 5,3% nell’installazione. (Fonte Cresme)

Gli idraulici nel 2017 hanno inviato preventivi e raggiunto clientela tramite app per un totale di 8 milioni 588mila euro (Fonte ProntoPro)

Reddito medio di un idraulico: tra i 15mila 600 euro di un operaio generico ai 48mila di un operaio specializzato

Non ci sono particolari corsi di formazione ma dei tempi necessari a formarsi sul campo: 12 mesi di apprendistato per esercitare la professione, 24 mesi per la qualifica professionale, non meno di 36 mesi per essere riconosciuto come operaio specializzato.


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DALLE 3F

(Food, Fashion and Forniture)

AL 3D Dieci cose made in Italy che non immaginavi stampate in 3d Testo di Ilaria Danesi


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LA CASA Per noi italiani è il (bene) rifugio per eccellenza e forse siamo un po’ restii ad abbandonare la tradizione, ma sempre in prima linea per creatività e progettazione: la casa presentata da Massimiliano Locatelli in occasione della Milano Design Week è la prima in Europa realizzata in cemento. Costruita in meno di u mese, può essere trasportata, demolita e ricostruita a piacimento utilizzando lo stesso materiale di cui è composta.

L' ABITO Sconfinate le possibilità di applicazione delle nuove tecnologie nel mondo della moda, dai vestiti homemade all’haute couture. Sicuramente fashion-tech l’abito Smoke disegnato dall’architetto italiano Niccolò Casas e da Anouk Wipprecht stampato in 3D e munito di sensori che attivano un sistema di fumogeni.

LA PASTA Lo chef Eugenio Boer ha creato con l’aiuto del progettista Gioacchino Acampora il primo piatto, ovviamente di pasta, interamente realizzato in digitale. Gli ingredienti vengono ridotti in forma liquida come fossero inchiostro e collegati alla stampante; quest’ultima seguendo la “ricetta” del software va a cuocerli e ricomporli attraverso un estrusore, dando forma al piatto. Finire con pomodoro, basilico e un filo di olio a crudo. Tempo di cottura: 4 minuti.

LA BORSA L’accessorio per eccellenza ha trovato nella stampa 3D nuovi livelli di personalizzazione, a livello artigianale e non solo: aziende come la torinese XYZBag permettono ai clienti di customizzare online la propria borsa scegliendo tra vari design e inserendo nomi o frasi personalizzate

LA SEDIA Non proprio una stampante 3D, ma una fresa CNC ad intagliare il legno e complessi algoritmi, hanno dato vita ad Elbo Chair, una delle proposte design del “digital fabrication” del Salone del Mobile. È un esempio di cosiddetto “Design Generativo”, per molti il futuro della progettazione: si impostano tutti i parametri (peso, materiale, costo etc.) e il software restituisce migliaia di possibili varianti pronte da realizzare (spiegato semplice).


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LA MOTOCICLETTA È uno dei brand italiani più famosi nel mondo e non ha intenzione di lasciare inesplorate le strade offerte dalle nuove tecnologie: Ducati ha già sperimentato processi industriali di produzione 3D, stampando il motore della sua Desmosedici.

IL CAPPUCCINO L’azienda produttrice è israeliana, il tema tipicamente italiano. Ripple Maker è un macchinario in grado di realizzare pressoché qualsiasi disegno sulla schiuma del cappuccino e di altre bevande, consentendo anche ai baristi con meno manualità di augurare il buongiorno in modo artistico ai propri clienti.

LA CERAMICA Un’arte antica che si reinventa grazie ai pionieri degli studi sui materiali. Se la stampa di polimeri che si raffreddano velocemente non crea troppi problemi, ben più difficile era la sfida con materiali fluidi densi, come l’argilla. L’azienda di Massa Lombarda WASP l’ha vinta e permette ora di stampare oggetti ceramici fino a un metro. Nella patria delle ceramiche, Faenza, artisti come Ivo Sassi l’hanno già provata e apprezzata.

I GIOIELLI C’è ancora poco mercato per i gioielli stampati con materiali preziosi, ma la tecnologia si presta eccome, e con il “compositing” delle polveri metalliche consentirà di creare nuove miscele ed effetti mai visti prima. Ha già spiccato il volo invece la bigiotteria, decretando il successo di studi come l’italianissimo Maison 203.

L' ARTE Se è possibile ricreare attraverso processi digitali, con precisione e in poco tempo praticamente qualsiasi cosa perché non stamparsi un capolavoro? È quel che hanno pensato alcuni brillanti startupper. Fuor di business, la tecnologia può aiutare i non vedenti a toccare l’arte con mano, ricreando l’opera tridimensionalmente e senza danneggiarla. In Italia ne abbiamo diversi esempi, come il percorso tattile del Museo Archeologico di Ferrara.


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La silicon valley veneta che innova il Made in Italy H-FARM nasce da una visione imprenditoriale coinvolgente e non convenzionale dove "fare" è preferito al "progettare". Con sede a Ca'Tron, in provincia di Treviso, H-FARM è uno dei luoghi dove nascono le idee che hanno l'ambizione di cambiare l'imprenditoria italiana. Ma non solo

FOOD | Eattiamo

Testo di Nicolò Rosato

FORNITURE | BigRock

Una parte della sede di H-FARM

E’ tradizione, prima di tutto. Nel mangiare, Uno ha lavorato a “Star Wars - The last Jedi”. però, c’è anche la volontà di coccolarsi per Un altro a “Il pianeta delle scimmie”. Un tergodersi il buon cibo. Proprio qui, in questa zo a “The Martian”. Per non dimenticarsi di finestra, si inserisce Eattiamo, una realtà quel ragazzo che ha lavorato a “007 - Spectre”. che per prima ama il buon cibo e si impe- E potremmo andare avanti ancora per molto, gna a promuovere quell’eccellenza che ci perché BigRock vanta il nome di un suo alucontraddistingue in tutto il mondo. Ogni mno tra i titoli di coda del 99% dei film che giorno il team ricerca e seleziona i migliori troviamo nelle sale cinematografiche. prodotti culinari italiani conoscendo, incontrando e parlando con gli artigiani del Un biglietto da visita niente male per la cibo. Così nelle case degli amanti del buon “scuola elementare della computer graficibo arriva solo alta qualità. ca dove si vuole insegnare una mentalità piuttosto che la tecnica”. Così la presenta FASHION | deSwag e la descrive Marco Savini, il fondatore di BigRock.Dietro a queste parole c’è la conL’ultimo modello di sciarpa, l’abbinamento vinzione di quanto detto: c’è un ambiente della camicia con il calzino e pure l’attenzio- unico. Nuovo. ne nell’avere l’orecchino della stessa colle- Un ambiente in cui entri e ti trasformi. Poi zione di collana e bracciale. Il fashio in Italia sei pronto di fare a modo tuo perché hai imha la sua influenza, si sa. parato a inventare qualcosa di nuovo, mai Se poi provi a pensare che tra virtuale e rea- visto. le non ci sia un netto confile, allora deSwag è l’app che fa per te. Perché con lo smartpho- Forse sono poco conosciute, eppure vanne puoi viaggiare tra Milano, Parigi e New no considerate eccellenze. Perché nel loro York passeggiando per le vie più fashion di stanno cambiando il modo di fare le cose, e tutto il mondo. E se trovi qualcosa che ti lo stanno facendo in Italia. Portandosi diepiace lo provi e lo compri. Semplice no? tro i nostri valori.



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Chi vuol (e può) essere imprenditore? Una scuola aiuta gli studenti migliori a diventarlo, creando un ponte tra i concetti astratti delle aule universitarie e la giungla del mondo reale. Testo di Gerardo Fortuna

C’è un posto in Italia che permette a giovani talenti di realizzare le proprie idee. Alla School of Entrepreneurship and Innovation (SEI) di Torino si insegna come fare impresa, mettendo in pratica gli insegnamenti teorici appresi negli anni accademici. Ed è un po’ università, un po’ boot camp, ma anche un po’ Hogwarts, la scuola per maghi del mondo di Harry Potter. Perché con full immersion in cui fare appiglio al proprio background di conoscenze, si arrivano a realizzare prototipi a così alto contenuto di innovazione da far sembrare l’imprenditoria quasi magia. Prototipi come Soundbubble, cuffie capaci di annullare qualsiasi rumore circostante tranne alcuni suoni, permettendo ad esempio a un operaio di restare isolato dal trambusto dei macchinari eccetto i sistemi d’allarme. O come Novis, piattaforma hardware e software per sviluppare giochi elettronici dedicati a ragazzi non vedenti, non più esclusi da forme di intrattenimento dei loro coetanei. O ancora come Matherialize, un’app di realtà aumentata per visualizzare concetti astratti: fotografando una formula matematica si può avere una sua rappresentazione tridimensionale.

In sostanza, quello che una scuola del genere può fare è allenare tutta una serie di così dette soft-skill: lavoro di gruppo, self awareness, capacità di prendere decisioni e risoluzione delle controversie, ma anche comprensione del proprio ruolo in un’organizzazione complessa. E poi insegnare concetti pratici che vanno a implementare la propria formazione teorica acquisita in ore e ore di studio universitario. Portando in aula professionisti che fanno impresa ogni giorno e ogni giorno si confrontano con problemi concreti. Come ad esempio redigere un business plan o valutare il funzionamento dei mercati per definire meglio un investimento. L’obiettivo è anche quello di far acquisire ai ragazzi familiarità con tecnologie avanzate, maturando una visione su che impatto avranno le principali innovazioni sulle nostre vite in un futuro (sempre più vicino). Un insieme di competenze che non servono solo a immaginare e creare nuovi modelli di business, ma che si possono mettere anche al servizio delle proprie idee. “Probabilmente non tutti i nostri studenti fonderanno una nuova impresa” aggiunge il responsabile della Fondazione Agnelli “ma tutti avranno ricevuto basi solide per qualsiasi cosa vogliano fare nella vita.”

A scuola di imprenditorialità Ma si può davvero insegnare a essere imprenditori? “C’è un solo modo per imparaIdee ad alto tasso di innovazione re a esserlo: provarci” ci dice Andrea Griva, “Sono i ragazzi che si impegnano, noi diamo responsabile imprenditorialità e innovazio- loro soltanto un set di aiuti, di strumenti e ne della Fondazione Agnelli, che insieme al capacità.” Per portare a terra idee che prima Collège des Ingénieurs Italia ha promosso erano nel loro iperuranio. La nuova scuola il progetto SEI. “La nostra scuola porta gli mira a colmare un vuoto sul lato imprendistudenti ad acquisire strumenti e un orienta- toriale, laddove su quello manageriale sono mento personale utili innanzitutto a essere previsti da anni percorsi come gli MBA. E intraprendenti, a pensare da imprenditori.” grazie agli accordi con l’Università di Tori-


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no e i Politecnici di Torino e Milano, chi frequenta i corsi della SEI riceve crediti formativi validi per il conseguimento del proprio titolo di studio, andando a far parte anche del percorso accademico dei laureandi. Queste scuole di imprenditorialità stanno nascendo un po’ ovunque nel mondo, e fanno quasi sempre affidamento sul supporto dei poli universitari. Come conferma Andrea Griva, “noi pensiamo a un’imprenditorialità che si basa su tecnologia e innovazione. Senza università non è possibile fare innovazione e i più grandi progressi vengono dall’applicazione di nuove tecnologie.” Il progetto vede anche la collaborazione di partner pubblici e privati come UniCredit, Club degli Investitori, Camera di Commercio e Gruppo Giovani Imprenditori di Torino. Sono quattro i percorsi di formazione per sviluppare la visione e la capacità di far impresa: Explorer per studenti di triennale, Pioneer per quelli magistrali, Changer è invece il programma per neolaureati mentre Inventor è aperto a tutti. “L’ultimo è un vero e proprio boot camp” e parlandone Griva non riesce a nascondere una punta d’orgoglio. “Al FabLab di Torino i ragazzi vivono assieme 24 ore su 24 per 10 giorni in questa scuola per inventori. E alla fine escono con un prototipo.” Possono poi accedere alle strutture per un anno intero, affinché possano produrre nuove release migliorate della propria idea originaria.

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Identikit dell’apprendista imprenditore Per insegnare la magia, è necessario che l’apprendista stregone sia in possesso di una bacchetta. Allo stesso modo l’aspirante imprenditore deve avere un solido background, generalmente in materie scientifiche o economiche. Si vuole tuttavia favorire l’interdisciplinarietà, mescolando le carte e mettendo assieme gente che non c’entra niente. “All’università finisci a frequentare persone che fanno la tua stessa facoltà, ma più è variegata la base del team da cui sta nascendo l’idea, meglio è” sostiene Griva. In generale si tratta di ragazzi che guardano positivamente alla tecnologia o sono quantomeno incuriositi dall’innovazione. Genuinamente nerd e “smanettoni”, insomma. Hanno tra i 20 e i 24 anni, ma alcuni moduli prevedono la partecipazione di ogni classe d’età. Sono ancora in maggioranza maschi, con percentuali di donne in crescita e comunque superiori rispetto alla media in Italia nel mondo imprenditoriale (e “non siamo distanti dalla parità di genere, a cui vogliamo arrivare”). Ragazzi con vocazione internazionale, anche se il fine della scuola è quello di valorizzare quello che c’è sul territorio, collegandolo all’arena globale. “Il talento imprenditoriale in Italia non è mai mancato. Da questo punto di vista, se si riescono ad attivare meccanismi positivi come quello della SEI, non c’è veramente nulla nel lungo periodo che possa impedire al sistema italiano di primeggiare” ha concluso Andrea Griva.


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Di cucina e amore Il segreto? L’autenticità. Una chiacchierata con lo chef Gianfranco Vissani.

Intervista di Sofia Gorgoni Direttrice Responsabile di The New's Room

Gianfranco Vissani ha un’irresistibile e prorompente carica di energia quando parla di cucina. Nonostante si tratti di una chiacchierata telefonica in pieno agosto a mezzogiorno, arriva tutta la sua forza esplosiva tra parole, parolacce, battute e risate. A quell’ora si trova immerso nel verde del Ristorante di Casa Vissani. Ascoltando i suoni che provengono dal telefono si riesce a immaginare l’ambiente e il ritmo della cucina in piena organizzazione. “Oggi in tv fanno i talent, la cucina è un’altra cosa” - Gianfranco Vissani è subito categorico - “altrimenti che prendessero un ristorante in gestione e si mettessero alla prova”. C’è una cosa che emerge in tutta l’intervista: prima di pensare a come preparare un piatto bisogna scegliere i prodotti giusti, quelli di qualità e guai a usare la cottura a bassa temperatura - tanto in voga nei ristoranti stellati - “distrugge le materie prime, le rende in poltiglia ed è un’offesa per la nostra tradizione”. Lo chef Umbro, critico gastronomico e autore di molti libri, ce l’ha a morte con chi esalta questa tecnica che consiste nel chiudere i cibi in appositi sacchetti sottovuoto, facendoli cucinare lentamente a basse temperature: “praticamente bollirli con la scusa di non perdere profumi e sapori – tuona - oppure rigenerarli con il Roner”. Come e dove scegli i tuoi prodotti? Li scelgo quando vado in giro per le piccole aziende che sono il frutto di una tradizione. Osservo i prodotti, li assaggio e me li porto via. Ad esempio i meloni di Nadalini che si trovano nel basso ferrarese ancora vengono coltivati come una volta, sono zucchero, se ne mangi una cucchiaiata è come assaggiare un gelato. Spesso sono le piccole conduzioni a mantenere la qualità dei prodotti, come lo stracchino della Fattoria di San Michele che ha una qualità eccezionale. Quali sono le materie prime più difficili da trovare? La gente ama il design, ma quest’ultimo è quasi sempre il frutto della grande industria. Un buon olio ad esempio, come per me è quello dell’A zienda Cipolloni, è difficile da trovare, Carlo il proprietario ha deciso di lasciare la bottiglia originaria perché per lui la differenza la fa il prodotto e non il design. Succede molte volte che un ottimo prodotto genuino rinunci all’etichettatura, quindi bisogna essere in grado di saperlo riconoscere. Oggi tutti sono fissati con il Pata negra e non hanno capito niente, lo sai quanto è grasso il Jamon Serrano? È talmente grasso che si attacca al piatto. Il più grande prosciutto al mondo è la nostra Cinta senese, soltanto che ce n’è poca. La notizia che l’Onu avrebbe inserito olio d’oliva, parmigiano e prosciutto tra i prodotti potenzialmente dannosi perché ricchi di grassi (con una possibile tassazione annessa) ha sollevato uno tzunami di polemiche. Mr. Keys, ha introdotto il concetto di dieta mediterranea già negli anni ’40 e i nostri prodotti agroalimentari rientrano in un modello riconosciuto come patrimonio dell’umanità già dagli anni ’50. La nostra qualità non si batte, sulla micro produzione siamo l’eccellenza al


Lo chef Gianfranco Vissani

intervista

mondo. Gli americani non possono venire a parlare di alimentazione, con la melma che mangiano. In America ho sentito insinuare che in ogni goccia d’olio c’è la mafia dentro, ma questo non è vero. Loro si basano su allevamenti e coltivazioni intensive e vogliono spiegare a noi come nutrirci? Insomma non ci devono rompere le scatole, perché li abbiamo tirati su noi con i nostri prodotti, a suon di Parmigiano, Prosciutto San Daniele e Mortazza. Che non mi venissero a dire che i nostri son formaggi grassi, perché loro mangiano il burro di arachidi. Quindi come facciamo a difendere i nostri prodotti in un contesto che tende verso la globalizzazione? I prodotti purtroppo non sono più quelli di una volta. Oggi bisogna capire da dove vengono, come vengono trattati e da chi vengono distribuiti in Italia. Ci sono prodotti che fanno male al nostro corpo, come ad esempio la carne che proviene dagli allevamenti intensivi ed è colma di antibiotici. La riconosci perché quando prendi un fettina e la metti sulla padella calda, è talmente gonfia d’acqua che diventa la metà. Oggi non possiamo più avere i maiali sotto casa, perché abbiamo costruito tanto, ma non sappiamo più da dove arrivano. Lo speck è italiano, ma ci arriva dall’Austria e da Monaco di Baviera. I nostri prodotti non ci sono più. D’A lema, di recente, parlando della Palestina ha detto che i territori palestinesi sono ormai come piccole riserve indiane. Così i nostri prodotti: sono piccole riserve indiane, dobbiamo andare a cercarli. Questo grande patrimonio che abbiamo è senza uguali, anche in Europa. In un convegno a Bruxelles, poco tempo fa, una signora austriaca mi ha parlato della qualità dell’acqua utilizzata per la coltura dei pesci che poi vengono distribuiti in tutta Europa. Io mi chiedo: ma perché mai dovrei mangiare un rombo che viene dalla Spagna? Io voglio mangiare un pesce che viene dal mio Paese, che ha sbattuto sui nostri scogli ed ha mangiato le nostre alghe, prima di andare nell’oceano aperto e ha un sapore diverso. Non sappiamo neanche come li stanno alimentando questi pesci d’allevamento. Per non parlare delle farine, che non sono allo stesso livello di una volta. Vegani, fruttariani e crudisti. Cosa pensi di loro? Hai presente il film Notting Hill, mi viene in mente la scena in cui sono seduti a tavola e lei dice di essere fruttariana e che quelle carote sono state ammazzate. Io posso capire Pitagora che era vegetariano, come anche Veronesi, ma vegano o fruttariano è un’altra cosa e poi

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sono quelli che mangiano la frutta che è già caduta per terra e ha i vermi… ma andassero a quel paese. Sei un innovatore, ma ti batti per difendere la tradizione del buon cibo. Quali sono i principali nemici? La cottura a bassa temperatura, perché distrugge le materie prime ed è l’abbattimento dei cuochi. Ad esempio un maialino che è stato bollito per trentacinque ore ed è stato messo sottovuoto ha il sapore del petrolio, perché è stato cucinato avvolto nella plastica. La nostra cucina è un’altra cosa, fa parte del nostro patrimonio culturale, quello costruito dai contadini e oggi ci ritroviamo a distruggerla con queste procedure che abbattono le molecole e rendono i cibi insapore, come delle specie di pappette, simili agli omogeneizzati. Non sono questi i nostri valori e la nostra tradizione che ci hanno reso grandi nel mondo. Anche in casa dovremmo cucinare la pasta con l’acqua minerale? Certo, ci sono appositi macchinari che eliminano il calcare e purificano l’acqua.

La prima volta che ti sei messo ai fornelli? Sarà stato con qualche ragazzetta. Per conquistare una donna cosa le prepari? Oggi le donne non si conquistano più, vogliono tutte la fama. Vogliamo fare un sondaggio e vedere quante donne vorrebbero dedicarsi alla famiglia e quante invece aspirano soltanto a rilassarsi sotto l’ombrellone? Ce l’ho io una domanda da farti: esiste ancora l’amore? Vuoi dire che non siamo più disposti a fare sacrifici per l’altro? Lo so, è un po’ pesante, ma per me oggi l’amore non c’è più.


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L’open innovation per il Made in Italy TIM mette a disposizione delle Pmi italiane piattaforme avanzate per lo sviluppo e l’offerta di applicazioni innovative TIM per The New's Room

Concorrere a portare l’innovazione (anche) al mondo delle imprese italiane. Con questo obiettivo TIM ha realizzato un vero e proprio ecosistema che si avvale del contributo di start up, software house e sviluppatori nazionali, secondo il modello di “Open innovation”, per favorire la diffusione di soluzioni digitali per il business. Con la piattaforma TIM OPEN, infatti, i “developer” possono dotarsi delle risorse informatiche e degli strumenti per realizzare le proprie soluzioni applicative in modo semplice e rapido e renderle disponibili alle imprese tramite i canali commerciali di TIM. In questo modo, attraverso il marketplace di servizi cloud B2B TIM Digital Store, TIM è in grado di offrire alle piccole e medie imprese non solo soluzioni dei big internazionali dell’IT ma anche applicazioni software realizzate da piccole realtà nazionali pensando alle specificità del contesto di riferimento. Tra le oltre 100 soluzioni presenti su TIM Digital Store, numerose sono proposte da startup italiane per rispondere alle diverse esigenze di business delle imprese. Ampio spazio, in particolare, viene dato ai servizi dedicati alle aziende che desiderano aumentare la propria visibilità su web e social media e avvalersi di strumenti di digital marketing. Tra questi, per esempio: Spidwit Social è un’applicazione in cloud a supporto di chi utilizza le pagine social per promuovere la propria attività e intrattenere i propri clienti. Consente di individuare, realizzare e pubblicare quotidianamente contenuti di qualità (notizie, foto e citazioni su specifici settori verticali) per le pagine social di PMI, professionisti e attività commerciali. Spotonway è una soluzione di “fidelity card digitale”, utilizzabile per qualsiasi categoria merceologica. Permette infatti di creare una raccolta punti digitale per invogliare il cliente a tornare ed acquistare, con punti che sono spendibili soltanto nel proprio negozio; inoltre consente l’invio di offerte e promozioni mirate. Joykos è un “social market place” che ha l’obiettivo di aiutare le imprese a vendere online e a fidelizzare la clientela. Offre infatti alle aziende che si registrano una vetrina digitale per esporre e commercializzare beni e servizi. I clienti possono così accedere, anche in mobilità, ad un “catalogo” di imprese e negozi italiani, effettuare acquisti online e interagire con gli esercenti tramite chat. Nubytics è uno strumento di analisi dei dati al servizio della performance di vendita per il proprio business. Permette di analizzare i dati sulle vendite passate, corredati eventualmente di informazioni aggiuntive (quali, per esempio, condizioni meteo oppure presenza o meno di eventi in determinati giorni) per costruire un modello, base di partenza per effettuare le previsioni. Scopri di più su digitalstore.tim.it e open.tim.it


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L’Italia con gli occhi di domani, raccontata dagli under 35

fondatori

Pierangelo Fabiano Raffaele Dipierdomenico

progetto grafico

Andrea Altellini art direction

direttore responsabile

Sofia Gorgoni direttore editoriale

Sara D’agati

progetto digital

Blind Sight responsabile comunicazione

Sofia Piomboni

advisor editoriale

Beniamino Pagliaro

pr

Stefano Ragugini

editore

The New’s Room Srl

social media manager

Francesco Turri

coach di questo numero

Vittorio Macioce

fotografia focus

Ilaria La Gioia

la redazione

Carmen Baffi Vittoria Becci Lorenzo Bernardi Laura Bonaiuti Carlo Brenner Antonio Carnevale Riccardo Ceccarelli Ilaria Danesi Francesca Del Vecchio Gerardo Fortuna Maurizio Franco Fiorella Elisa Georgel Alessia Laudati Alice Militello Mirko Paradiso Daniele Priori Margherita Puca Nicolò Rosato Simone Rubino Roberta Russo Alessia Tozzi Lorenzo Sassi Riccardo Venturi art direction

ulteriori crediti fotografici

Andrea Altellini Shutterstock / Unsplash stampato presso

Grafica Nappa Srl Via Antonio Gramsci, 19 81031 Aversa (CE) pubblicità

Emotional Pubblicità Via F. Melzi D’eril, 29 20154 Milano T. 02/76318838 F. 02/33601695 M: info@emotionalsrl.com per informazioni

thenewsroom@agol.it Registrazione Tribunale di Roma N.68 Del 6/04/2017




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