numero 12 Dicembre 2018 the-newsroom.it
L’Italia con gli occhi di domani, raccontata dagli under 35
POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% S/CE/16/2018
P. 30 intervista a
Siamo tutti(e) maschilisti(e) Dalla 194 al #metoo, la battaglia di oggi per il corpo della donna
alessia glaviano
P. 35 intervista a vladimir luxuria
Il nuovo look del Caffè BAglioni e della Montenapoleone Terrace Suite Due eccellenze italiane nel settore dell’hotellerie di lusso e dell’arredo, Baglioni Hotel Carlton e Jumbo Group si incontrano in un allestimento esclusivo capace di offrire un’esperienza immersiva e totalizzante, in cui l’arredo si trasforma in stile di vita, abbracciando una nuova dimensione del lusso.
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PROLOGO
L'anno che si chiude ha svariati protagonisti e un elemento comune associa i portatori del cambiamento: in molti casi sono le donne a ritrovare un protagonismo, essere in primo piano con azioni politiche, rivendicazioni, diritti che dovrebbero esserlo e non lo sono ancora. In questo 2018 siamo partiti da un viaggio nell'Italia, abbiamo parlato del bello (e dei "Mi piace"), scoperto cos'è la casa per i giovani under35, ripensato al "Fare in Italia", studiato i nuovi leader. L'ultimo numero dell'anno, dedicato alle donne che cambiano il mondo, è una tappa obbligata nel nostro lavoro: The New’s Room è nata per raccontare l’Italia e il mondo con gli occhi dei professionisti under 35. Sfogliando questo numero potremo capire meglio il presente e prepararci al futuro, capire come pensano le donne e come potrebbe migliorare la nostra società. Fortunatamente, non è più possibile togliere il tema dall'agenda politica. Pierangelo Fabiano, Fondatore
cover story
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the new’s room
INDICE p. 5
Editoriale
p. 6
Siamo tutti(e) maschilisti(e)
p. 8 p. 11
Facts Mappamondo
di NICOLA PERRONE
di SARA D'AGATI
COVER STORY p. 12
#Me too is the new feminism?
p. 13
La 194 tra cittadine pro-life e obiettori di coscienza.
p.14
Parità? Si, no, forse.
p. 16
La minigonna, l'assorbente, i tacchi. Breve storia di tre oggetti simbolo.
di VITTORIA BECCI
di MARGHERITA PUCA
di ALESSIA TOZZI
di ALESSIA LAUDATI e ROBERTA RUSSO
FOCUS p. 21
(in)sindaca(bili)
p. 24
Il corpo è mio decido io cosa farci.
p. 26
Storia di Blessing, che si è ripresa il suo corpo.
di LORENZO BERNARDI
di LORENZO SASSI
di ILARIA DANESI
INTERVISTA p. 30
Verso un nuovo maschile, e un nuovo femminile Vogue italia e la rivoluzione dello sguardo.
p. 35
In viaggio con Vladimir Luxuria.
p. 39
Diretto sinistro e gancio destro in uscita: i colpi vincenti di Martina La Piana.
p. 41
di SARA D'AGATI
di ALICE MILITELLO
di CARMEN BAFFI
"I Am the revolution" di SIMONE RUBINO
p. 45
Storie di 9 donne manager nel settore della comunicazione in Italia
p. 49
DIRE ha 30 anni ed è donna
p. 51
Parità salariale? Ancora un miraggio.
di LAURA BONAIUTI
di SILVIA MARI
di FRANCESCA JACOBONE
editoriale
NICOLA PERRONE
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Direttore Agenzia Stampa Dire
“T
utti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E’ l’art. 3 della nostra Costituzione, eppure a strada da fare è ancora tanta, troppa.
Bene hanno fatto i ragazzi e le ragazze di The New’s Room, giornalisti in formazione, a dedicare un numero della rivista al tema delle donne, della lotta alle discriminazioni e alla violenza di genere. Paiono tempi lontani, nella prospettiva di ragazzi così giovani, eppure meno di cinquant’anni fa le donne in Italia non avevano diritto di voto, fino a trent’anni fa non potevano disporre del proprio corpo in materia di interruzione di gravidanza, mentre il delitto d’onore è stato abolito soltanto negli anni ottanta. Ci sono volute battaglie estenuanti, per raggiungere quei diritti che oggi diamo per scontati, e non soltanto il percorso è ancora lungo, ma alcuni traguardi raggiunti, rischiano oggi di essere messi in discussione. Per questo bisogna restare vigili e continuare a lottare, perché i diritti conquistati non vengano meno, perché se ne raggiungano di nuovi, uno tra tutti la parità salariale e la tutela della maternità, perché le promesse non siano disattese. I giovani e le giovani hanno una responsabilità, che è quella di settare loro l’agenda e segnare loro la strada delle battaglie ancora da combattere. Tra le prime grandi battaglie quella dell’educazione, che deve necessariamente partire dalla scuola elementare, per sconfiggere la narrazione di violenza legata il più delle volte alla logica, tutta maschile, del dominio e del possesso. Una violenza che ha come vittime soprattutto le donne. Anche nel campo delle conquiste sociali c’è ancora tanto da fare: troppe donne, a parità di grado con gli uomini, si ritrovano meno soldi in busta paga. Ancora le penalizzazioni che colpiscono le madri sui luoghi di lavoro, perché i tempi non coincidono, e non sempre si riesce a fare tutto. Anche perché, ancora oggi, e vale la pena ricordarlo, la gran parte del lavoro domestico ricade sulle spalle delle donne. Per questo va salutata ogni iniziativa, come questa di The New’s Room, che punta a sensibilizzare a mantenere alta l’attenzione sul tema della donna, oggi al centro del dibattito con il movimento #metoo e le campagne pro e contro l’aborto. Finisco con il ribadire che le conquiste, vecchie e nuove, vanno salvaguardate, nutrite e mai date per scontate. Con l’obiettivo di costruire, finalmente, una società più libera, eguale e responsabile; dove le categorie non siano odiosi punti d’arrivo cui conformarsi, ma punti di partenza da cui costruire.
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the new’s room
Siamo tutti(e) maschilisti(e) “Mammamia, sei pesante, scherzavo!”, ci diranno, dove il sotto testo è: fammi dire la mia cosa superficiale e maschilista e non rompere le palle, non ti imbarcare in una discussione scomoda che nessuno ha voglia di sentire e crea soltanto un momento di imbarazzo durante la cena. di Sara D'Agati, Direttrice Editoriale
#Iocisono, #ancheio (metoo), #nonunadimeno. Questi gli hastag più usati in Italia durante la giornata internazionale contro le donne lo scorso 25 novembre. Come a dire eccoci, siamo qui, ci siamo tutte: insieme. Una richiesta di essere viste, davvero, nel profondo; perché è molto più semplice trovare una giustificazione nel far male a qualcosa che ignoriamo, che scegliamo di non vedere in tutta la sua umanità. Così si davano dei numeri agli ebrei, privandoli del proprio nome; altrimenti come fare ad accettare una simile, disumana violenza, se di mezzo ci fossero davvero stati degli esseri umani. Così si oggettivizzano le donne, per farne delle vittime generiche, deboli e quindi degne di prevaricazione. Perché così è sempre stato, e fa arrabbiare, ma non stupisce poi tanto. Perché il solo fatto che avvenga da sempre, e con una tale frequenza, ha reso concepibile l’inconcepibile. E così il fatto che dal 2000 ad oggi, in Italia siano state uccise 3100 donne, più di 3 alla settimana, molte delle quali per mano di un parente; pare un numero enorme,
inaccettabile, ma non inconcepibile. E solo quest’anno, che non si è ancora concluso, ad essere uccise in Italia sono più di cento donne. Per non parlare di quelle violentate, picchiate, abusate fisicamente e psicologicamente. Eppure c’è ancora chi storce il naso, a sentir parlare di femminismo. Le donne stesse, spesso, lo trovano un argomento noioso, datato. Che rimanda ad un immaginario anni settanta di collettivi autoreferenziali, capelli troppo corti e gambe non depilate. Perché è più semplice ridurre la battaglia delle donne ad una ridicola macchietta; questo permette da un lato di togliergli importanza ed ignorare l’evoluzione che tale fenomeno ha avuto nel corso del tempo; e allo stesso tempo di escludere dal quadro tutte quelle donne che invece hanno scelto di combattere senza rinunciare alla propria femminilità; alimentando così quel meccanismo sotteso per cui una donna più o meno bella, che ha cura di sé, che ricopra una qualche carica di potere senza atteggiarsi a virago,
cover story
debba sempre, in qualche misura, giustificarsi; fare più di quanto richiesto per dimostrare che non è lì per le sue doti seduttive o per essere andata a letto con questo o con quello. Perché in Italia, il maschilismo è così profondamente radicato nella cultura e nella società, che in qualche misura, più o meno consapevolmente, ne siamo vittime tutti. Che nessun uomo si sente a proprio agio, nel guadagnare meno di una donna –ammesso che questo accada, visti i dati sulla disparità salariale in Italia—per non parlare dell’ipotesi del paternity leave, oggi in vigore nei Pasi scandinavi e accolta qui, ogni qualvolta ne abbia parlato, con una grossa risata. E quante volte assistiamo a battute sessiste di basso livello in televisione, al lavoro, per strada. Più o meno consapevoli, ripeto. Perché il tizio becero e volgare che ti commenta il sedere non è il punto qui. Il punto sono tutte quelle persone, uomini e donne, che sono maschilisti senza saperlo; mentre si autodefiniscono progressisti e si fregiano della loro apertura mentale. E quante conferenze, talk, trasmissioni; dove i relatori, gli esperti sono sempre uomini. E quelle distese di teste calve e bianche alle assemblee e agli incontri ai vertici di qualsiasi foro, istituzione, associazione dove si predano decisioni, dalle più rilevanti alle più insignificanti. E la retorica continua sulle donne che si odiano, che non possono lavorare insieme, che se le metti nella stessa stanza litigano, perché sono invidiose. Quante volte ce lo siamo sentito dire, che noi donne non andiamo d’accordo, non possiamo lavorare bene insieme, siamo in competizione costante. E io non mi stancherò mai di scriverlo, chi mi segue lo sa; che noi a questo dobbiamo controbattere ogni volta. Perché il divide et impera è, ed è sempre stata, l’arma più efficace di qualsiasi supremazia capace di durare nel tempo. Per questo dobbiamo dirlo che non è vero, a rischio di essere noiose, scomode, pesanti. “Mammamia, sei pesante, scherzavo!”, ci diranno, dove il sotto testo è: fammi dire la mia cosa superficiale e maschilista e non rompere le palle, non ti imbarcare in una discussione scomoda che nessuno ha voglia di sentire e crea soltanto un momento di imbarazzo durante la cena. Perché l’ipotesi che lui questa cosa avrebbe e semplicemente potuto non dirla, e il problema non sussisterebbe, non la prende neppure in considerazione. Perché si è sempre detta, e va bene così.
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Eppure qualcosa per fortuna, sta cambiando. Gli uomini stanno cambiando, non solo le donne. Le categorie che definiscono i ruoli nel mondo occidentale si stanno dilatando fino a comprendere una porzione sempre più ampia e variegata della complessità che ci rende umani. E questo crea confusione e disorienta, perché apre infinite possibilità. Ma non bisogna crederci, quando ci dicono che le relazioni e le famiglie non durano più perché non esistono più i ruoli; perché la donna non fa più la donna (ergo: stare a casa, badare ai figli e avere pazienza per due) e l’uomo non fa più l’uomo (ergo: cambiare lampadine e sopprimere la propria emotività sfogandola in aggressività, nella migliore delle ipotesi passiva). Le famiglie, per chi lo vorrà, reggeranno al prezzo del sacrificio di entrambi allo stesso modo, e nel reciproco ascolto e riconoscimento dei bisogni e del ruolo che ciascuno vorrà attribuirsi nella costruzione di un progetto comune. La cose stanno cambiando, è vero. Ma devono cambiare di più e più velocemente. Perché una società democratica a nessun livello può più reggersi su una dinamica di vittima e carnefice. Devono cambiare perché non c’è ragione perché non sia così. E nel nostro mondo, perlomeno, c’è sufficiente informazione, elaborazione intellettuale e secolarizzazione perché appaia semplicemente ridicolo il contrario.
Siamo qui, ci siamo, tutte insieme. Non una contro l’altra.
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the new’s room
UNO SGUARDO STANDARD ISCED 11 / EDUCAZIONE TERZIARIA (percentuale di raggiungimento livello 5-8 nel gap 15 / 64 anni) Donne
IRLANDA
• 36,3
• 42,9
REGNO UNITO
• 36,9
• 40,7
SVIZZER A
• 40,3
• 33,1
SVEZIA
• 30,2
• 41,9
BELGIO
• 32,3
• 39,0
SPAGNA
• 30,6
• 35,8
OLANDA
• 31,3
• 32,9
FR ANCIA
• 29,0
• 33,7
AUSTRIA
• 29,5
• 29,9
GRECIA
• 25,3
• 29,0
POLONIA
• 21,2
• 31,4
GERMANIA
• 26,9
• 22,6
PORTOGALLO
• 17,0
• 26,1
TURCHIA
• 17,9
• 15,4
ITALIA
• 13,9
• 19,1
Uomini
RAPPORTO TRA REDDITO MEDIO DONNE / UOMINI (in percentuale 100 = parità) Donne / 26.273 $ pro capite
Uomini / 50.628 $ pro capite
80%
78%
78%
73%
72%
71%
70%
68%
Slovenia
Norvegia
Svezia
Francia
Islanda
Finlandia
Svizzera
Germania
64%
62%
58%
55%
52%
52%
48%
42%
USA
Norvegia
Brunei
Regno Unito
Giappone
Italia (103° posiz.)
Olanda
Kuwait
ETÀ MEDIA DELLA DONNA AL PRIMO PARTO 1•LIECHTENSTEIN 32, 3
10•PORTOGA LLO 31,1
19•BELGIO 30, 5
28•UNGHER IA 29,6
37•BULGA R IA 27,6
2•IR L A NDA 32,1
11•SVEZIA 31,1
20•FR A NCIA 30, 5
29•MONTENEGRO 29,6
38•UCR A INE 27,4
3•SPAGNA 32
1 2•DA NIM A RCA 31
21•R EGNO UNITO
30,4
30•POLONIA 29,4
39•GEORGIA 27,4
4•SVIZZER A 31,9
13•GER M A NIA 30,9
22•SLOVENIA 30, 3
31•SER BIA 29,1
40•A R MENIA 27
5•ITA LIA 31, 8
14•FINL A NDIA 30, 8
23•ESTONIA 30, 2
32•SLOVACCHIA 28, 8
41•A ZER BA IJA N 25, 5
6•LUSSEMBURGO 31, 7
15•NORVEGIA 30, 8
24•CROA ZIA 30,1
33•TURCHIA 28,6
7•CIPRO 31,4
16•M A LTA 30,6
25•REP. CECA
30
34•BIELORUSSIA 28,4
8•GR ECIA 31, 3
17•AUSTR IA 30,6
26•LITUA NIA 29, 7
35•A LBA NIA 28, 2
9•OL A NDA 31, 3
18•ISL A NDA 30,6
27•LET TONIA 29,6
36•ROM A NIA 27, 8
Dati relativi al 2016
9
facts
AI NUMERI
fonte:
LA DONNA
LA MATERNITÀ IN EUROPA Retribuzione 100% OPTIONAL 100% 100% 100% 100% 100% 100% 80% 100% 100% VARIABLE * 85% VARIABLE ** 100% 100% 72% 100% 80% 100% 70% 100% 70% 100% 65% VARIABLE *** VARIABLE **** 90%
Numero di settimane
PR ENATA LE
4 7 6 4 6 10 6 8 8 2 8 8 9 8 10 4 9 10 4 8 6 4 8 4 8 2 11 6
PT SE DE SI BE ES NL LU LV FR AT FI RO MT LT DK CY EE IT EL PL HU CZ HR SK IE UK BG
Retribuzione
6 7 8 11 9 6 10 8 8 14 8 9 9 10 8 14 9 10 16 12 14 20 20 26 26 40 41 52
POSTNATA LE
100% OPTIONAL 100% 100% 100% 100% 100% 100% 80% 100% 100% * VARIABLE 85% ** VARIABLE 100% 100% 72% 100% 80% 100% 70% 100% 70% 100% 65% *** VARIABLE **** VARIABLE 90%
PRIMO MINISTRO DONNA Nome Angela Merkel Doris Leuthard Sheikh Hasina Dalia Grybauskaitė Simonetta Sommaruga Erna Solberg Marie-Louise Coleiro Preca Kolinda Grabar-Kitarović Saara Kuugongelwa Bidhya Devi Bhandari Hilda Heine Aung San Suu Kyi Tsai Ing-Wen
Paese GERMANIA SVIZZER A BANGLADESH LITUANIA SVIZZER A NORVEGIA MALTA CROAZIA NAMIBIA NEPAL ISOLE MARSHALL MYANMAR TAIWAN
Inizio mandato 22 november 2005 1 august 2006 6 january 2009 1 2 july 2009 1 november 2010 16 october 2013 04-apr-14 19 february 2015 21 march 2015 29 october 2015 28 january 2016 06-apr-16 20 may 2016
Nome Theresa May Kersti Kaljulaid Ana Brnabić Halimah Yacob Jacinda Ardern Evelyn Wever-Croes Katrín Jakobsdóttir Leona Marlin-Romeo Viorica Dăncilă Paula-Mae Weekes Mia Mottley Sahle-Work Zewde
Paese REGNO UNITO ESTONIA SERBIA SINGAPORE NUOVA ZELANDA ARUBA ISLANDA SINT MA ARTEN ROMANIA TRINIDAD AND TOBAGO BARBADOS ETIOPIA
Inizio mandato 13 July 2016 10 October 2016 29 June 2017 14 September 2017 26 October 2017 17 November 2017 30 November 2017 15 January 2018 29 January 2018 19 March 2018 25 May 2018 25 October 2018
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mappamondo
New York
Londra
Tunisi
Benin City
Buenos Aires
USA
UK
Tunisia
Nigeria
Argentina
#meetoo
La minigonna
La prima sindaca
La città da dove è
La città che Martina
Il movimento nasce
debutta nella
della primavera
partita Blessing,
La Piana ricorderà
dopo le denunce
capitale del
araba.
che si è riuscita
per sempre.
delle violenze subite
Regno Unito.
a liberare dalla
e diventa globale.
pag. 12
prostituzione.
pag. 17
pag. 23
pag. 26
pag. 39
12
the new’s room
#ME TOO IS THE NEW FEMINISM?
Un punto sullo stato dell’arte del femminismo in Italia di Vittoria Becci
Sono rimaste tante cose incomprese, per noi che abbiamo in media trent’anni, sui movimenti degli anni ‘60 e ‘70. Non ho ancora davvero capito se il mito è all'altezza della realtà, o forse è stata la realtà che ha superato ogni tipo di fantasia. Resta il fatto che per la prima volta, chi prima non aveva voce in capitolo, ha cominciato a farsi sentire. I giovani, i lavoratori, le donne. La musica, la letteratura, la televisione hanno liberato i linguaggi e i corpi. Ostacolato, mal compreso, criticato, spesso dalle stesse donne; negli ultimi trent’anni il femminismo, sebbene abbia raggiunto alcune (tutt’altro che sufficienti) conquiste, sembra aver subito, perlomeno nella sua formulazione teorica, una battuta d’arresto. E oggi? A che punto siamo, oggi? Definire un punto d’arrivo, in un processo che è ancora lontano dall’aver raggiunto il traguardo, non è affatto semplice. Ma qualcosa da dire c’è. Nello svolgere le mie ricerche per questo articolo, mi sono imbattuta nelle evidenze più interessanti, e imbarazzanti. Una carrellata di televisione italiana degli ultimi trent’anni tra programmi sulla chirurgia estetica, su come vestirsi, trovare il fidanzato, cucinare, pulire. Trattati medioevali sulla donna, il suo clitoride, la riproduzione. Comizi, documentari e articoli al vetriolo scritti da femministe americane, europee e poi italiane, anche se con qualche anno di ritardo. E poi di
nuovo Non è la Rai, Mediaset e il progressivo, crescente sdoganamento delle tette e dei culi in tv. Nulla di nuovo, in tutto questo. Nulla che non sia stato detto. Nel 1964 Pier Paolo Pasolini, microfono alla mano, attraversò l’Italia in lungo e in largo intervistando il popolo sui temi dell’amore, della sessualità e dei sentimenti, per il documentario Comizi d’A more. Su una spiaggia calabrese un ragazzo, interrogato sulla possibilità di divorziare, dichiara con orgoglio che se sua moglie lo tradisse, si meriterebbe di essere ammazzata, per una questione d’onore, d’altronde “se lei rimanesse viva, lui resterebbe cornuto”. L’articolo 578 del codice penale permetteva una diminuzione della pena in caso di omicidio della moglie, della figlia o della sorella se commesso per difendere l’onore. L’articolo 544 prevedeva invece la possibilità del matrimonio riparatore, anche in caso di stupro; e quando nel 1965 la diciassettenne siciliana Franca Viola venne rapita e violentata, la sua resistenza al matrimonio riparatore divenne la prima battaglia italiana per la libertà di disporre della propria persona. Solo nel 1981 con la legge 442 del 10 agosto le disposizioni sul delitto d’onore, insieme al matrimonio riparatore verranno abrogate. Soltanto tre anni prima, la Legge 194 depenalizzava l’aborto, fino a quel momento punibile come reato dal codice
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cover story
penale. E’ seguito …sulla parità salariale, e la legge 38 del 2009 contro il reato di stalking. Tappe cruciali in un percorso di conquiste mai davvero raggiunte, basi pensare al dibattito sulla 194 in corso oggi, i numeri della violenza sulle donne, e i dati sulla disparità nei salari rispetto agli uomini. Ma pur sempre tappe. E il movimento #metoo? Un altro tassello, a mio avviso, nel processo che il femminismo ha iniziato, e che riguarda la sfera più intima della donna. Da un dibattito pubblico sulla libertà e sul riconoscimento di diritti per la partecipazione alla vita pubblica, siamo arrivati oggi alla necessità di un riconoscimento dei diritti nella sfera privata e intima delle donne, quella del loro corpo, e di ciò che rappresenta. In un libro uscito in Francia lo scorso ottobre “Le Corps des Femmes”, Camille Froidevaux-Metterie analizza proprio questo aspetto del movimento #metoo. Si può dire allora che la vera parità, arriva non solo dal riconoscimento del ruolo della donna nelle strutture pubbliche dello Stato - il diritto di voto, parità salariale, etc.- ma, più filosoficamente parlando, dal riconoscimento di se stessi, e del proprio corpo, anche nella sua accezione più intima. Mettere l’accento sulla violenza, o meglio, sulla violazione significa anche riappropriarsi della libertà di provare piacere e di scegliere di farlo quando si vuole e se si vuole, senza che il proprio corpo sia violato o soggetto a ricatto, piccolo o grande che sia. Se pensiamo che nel medioevo la Chiesa riprese le rappresentazioni della donna e della sessualità provenienti dal mondo arabo, riordinandole secondo la morale cattolica, si ha una vaga idea di come, e sotto quali auspici, l’idea dell’intimità femminile abbia attraversato i secoli. In un mondo dove ancora la figura della Vergine e di Maria Maddalena rappresentano la santità e il peccato, forse è arrivato il momento di chiederci: qual è oggi il modello di donna, e di uomo, che vogliamo? Il movimento #metoo che ci assilla in questi giorni, scremato dalle docce mediatiche hollywoodiane, non può che essere un momento, forse più importante di quanto si pensi, perché configura un nuovo diritto, più intimo, più profondo, e non meno politicamente rilevante in quanto rappresenta il fondamento filosofico di ogni legge di oggi e di ieri e, chissà, un nuovo modo di intendere le relazioni e la famiglia.
La 194 tra cittadine pro-life e obiettori di coscienza. La legge che tutela il diritto all’aborto non è soltanto una vittoria mutilata per le donne italiane: oggi più che mai, è nel mirino di fondamentalisti cattolici, movimenti pro-life e politica, che rischiano di farne carta straccia.
di Margherita Puca
A quarant’anni dalla sua approvazione, la legge 194 che garantiva il riconoscimento del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) è ancora al centro del dibattito. Da molti definita una “vittoria mutilata”, presenta diversi aspetti problematici. Sono 84.874, secondo l’ISTAT, le donne che nel 2016 hanno fatto ricorso alla L. 194; una cifra più che dimezzata rispetto ai 230mila casi registrati durante gli anni Ottanta, e ben più bassa ai 102.760 casi del 2013. Dall’ultimo rapporto del ministero della salute, emerge che a ricorrere all’interruzione della gravidanza, sono soprattutto donne comprese tra i 25 ed i 34 anni di età. Le stime, inoltre, evidenziano una correlazione tra il ricorso all’aborto ed alcune caratteristiche demografiche, come status, occupazione, età e titolo di studio. Non tutte, infatti, possono permettersi di abortire. Ma l’aborto non si pratica in strutture pubbliche? Chiederete voi. In teoria, sì. Nei fatti, in Italia la pratica dell’interruzione della gravidanza negli ospedali pubblici, incontra l’ostacolo dell’obiezione di coscienza. Garantita anch’essa dalla legge, questa permette a ginecologi e personale sanitario di astenersi dal prestare servizio alla donna che decide di interrompere la gravidanza, per motivi etici, morali o religiosi. In Italia il tasso di obiezione è del 70%, con un elevata incidenza in regioni come Basilicata,
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the new’s room
PARITÀ ? Sì, no, forse Oltre settant’anni di leggi hanno proiettato le donne verso la parità di genere. Eppure, rispetto ad altri paesi europei, diritti negati e gap applicativi rendono la strada da percorrere ancora lunga.
di Alessia Tozzi
Si parte dal tavolo da cucina di una mammana, da un intruglio al prezzemolo per indurre l’emorragia o un ferro da calza piantato in corpo. Poi un dolore atroce, magari un’infezione. La conseguenza per chi di nascosto rinunciava alla maternità era spesso la morte. Nel caso migliore un processo. Come quello a Gigliola Pierobon, la diciasettenne veneta che, dopo un’interruzione clandestina nel 1973, veniva accusata di procurato aborto, riconosciuta colpevole ma assolta con perdono giudiziale, frutto di una sentenza dal paternalismo ambiguo. Da qui ci sarebbero voluti altri cinque anni e la lunga onda di una rivoluzione culturale e ideologica per permettere alle donne di interrompere la gravidanza in strutture pubbliche, gratuitamente e in modo sicuro, grazie alla Legge 194/78. Eppure, a 40 anni di distanza, il presente di questo diritto è spesso la sua negazione e abortire può diventare questione di fortuna. Nel 2014, per esempio, all’ingresso del reparto per le interruzioni di gravidanza dell’Umberto I di Roma un foglio di carta comunica alle gestanti che “Le prenotazioni sono temporaneamente sospese”. Il motivo è semplice: l’unico medico disposto
a praticare aborti è andato in pensione, tutti gli altri sono obiettori di coscienza. Secondo l’ultima relazione del Ministero della Salute gli aborti sono diminuiti, ma i ginecologi che rifiutano di praticare interruzioni volontarie di gravidanza sono in costante aumento. Oggi, 7 medici su 10 sono infatti obiettori ed è evidente che i due diritti debbano essere riequilibrati per garantire alla donna la possibilità di scegliere, specialmente in regioni come il Lazio, la Campania, la Sicilia, la Basilicata e il Molise, dove la percentuale oscilla tra l’80 e il 90%. Mentre in paesi come la Francia o il Regno Unito non sfiora il 10%. Addirittura non si registra in quelli scandinavi.Eppure il nostro non è neanche un paese per mamme. “Sei fidanzata? Hai intenzione di sposarti? Vorresti dei figli?”: che tra maternità e lavoro il nesso strida si intuisce dai primi colloqui conoscitivi, quando il binomio compagno ed età fertile possono diventare uno sbarramento off the record e la candidata un soggetto a potenziale rischio improduttività. Alle donne che invece un impiego lo hanno la cicogna non porta solo il bebè, ma anche ansie e paure, specchio di una tutela che non rassicura. Secondo gli
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ultimi dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nel 2016 le madri che hanno dato le dimissioni volontarie sono quasi 25mila, dichiarando che il motivo principale è l’incompatibilità tra il ruolo di mamma e quello di lavoratrice. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda, per esempio, l’allattamento esclusivo al seno fino al sesto mese del bambino eppure, dopo il terzo, la maternità obbligatoria termina. “A quel punto diventa una caccia alla soluzione meno zoppicante, tra un congedo facoltativo a retribuzione ridotta, nonni che lavorano ancora, asili nido costosi e un bonus bebè da 90€ al mese, che forse mi rimborseranno a fine anno se sono brava a compilare correttamente chilometri di scartoffie”, racconta Barbara, neomamma di 30 anni. Succede quindi che la donna rientra a lavoro, magari con la volontà di riprendere un progetto o continuare nella carriera faticosamente raggiunta fino a quel momento per scoprire che, specialmente in posti di lavoro poco tutelati, è tornata indietro come al gioco dell’oca. Il suo ruolo non esiste più o diventa una lotta per recuperare lo spazio perduto. Ricomincia la scalata ma con nuove incombenze familiari che spesso, purtroppo, rendono chi non ha figli maggiormente competitivo. A prescindere poi dalla cicogna e a parità di mansioni e ore lavorate, in Italia le donne guadagnano meno degli uomini. Se per l’art 37 della Costituzione spetta la solita retribuzione, nella realtà è una questione di diritti negati. Secondo il Gender Pay Gap Report del World Economic Forum il Belpaese è all’82esimo posto su 144 e, nel settore privato, il divario retributivo tra uomini e donne sfiora il 18%. Ma concretamente a quanto ammonta? Il differenziale in busta paga è di quasi 3.000€ lordi all’anno. Come se la donna rispetto a un uomo cominciasse a guadagnare per il suo lavoro dalla seconda metà di febbraio. L’unica arma legislativa è un articolo che richiede la trasparenza per le aziende con oltre cento dipendenti ma, non prevedendo sanzioni, nella pratica è poco rilevante. Nonostante la legge sulle quote rosa che ha notevolmente incrementato la presenza femminile nei CdA delle società quotate, a limitare a priori il guadagno resta il cosiddetto soffitto di cristallo, la metafora che indica il problema di accesso alle posizioni di vertice. Eppure i dati dimostrano che laddove ci sono i profitti volano. Avere più donne a lavoro non solo è giusto ma conviene.
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Molise, Campania e Sicilia, dove oscilla tra l’80% ed il 92%. Di fatto, quindi, solo 6 ospedali italiani su 10 garantiscono un servizio che, secondo la stessa L. 194, dovrebbe essere disponibile in tutte le strutture sanitarie pubbliche. Una soluzione, in questo senso, potrebbe essere il ricorso all’aborto farmacologico. Ricorrendo cioè ad una pillola, la pillola RU486, e senza passare per la sala operatoria. Questo contribuirebbe anche a decostruire quell’immaginario costruito attorno all’IVG, che contribuisce ad alimentarne la patologizzazione. I dati sull’utilizzo dell’aborto farmacologico in Italia -ad oggisono tra i più bassi in Europa. La media è del 15%, contro il 49% dell’Inghilterra, e il 93% della Finlandia. Infine, c’è la battaglia culturale e politica che da sempre esiste attorno alla L. 194. Sin dal principio nel mirino di fondamentalisti cattolici e movimenti pro-life; ciò che sorprende è l’attacco portato avanti dalle forze politiche di maggioranza degli ultimi mesi. Dalle dichiarazioni antiabortiste di senatori e ministri del nuovo governo gialloverde; si è di recente passati ai fatti. Il 4 ottobre scorso il Consiglio Comunale di Verona ha approvato una mozione della Lega che prevede il finanziamento di associazioni cattoliche pro-life, arrivando a proclamare il capoluogo veneto “città a favore della vita”. Mozioni simili sono state presentate a Milano da Forza Italia ed a Roma da Fratelli d’Italia, così come aveva preannunciato il movimento femminista di Non Una Di Meno: “Verona è la città che da decenni si è imposta come laboratorio di ciò che ora vediamo in opera al governo”, si legge in un loro comunicato, “Il contesto politico da cui nasce tale proposta sono le stesse, punitive e vendicative nei confronti delle donne, che ritroviamo in Parlamento e al governo del paese con il Ddl Pillon e con i continui attacchi all’aborto del ministro Fontana.”
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La minigonna, l’assorbente, i tacchi
di Alessia Laudati e Roberta Russo foto di Ilaria Lagioia
Breve storia di tre oggetti simbolo
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La Minigonna Ieri serviva, oggi meno Le donne hanno cominciato a reclamare nuove libertà partendo dal voler portare i pantaloni e finendo per accorciare i tessuti delle gonne. Prima degli anni ‘20 le gonne erano infatti diffuse perlopiù con lunghezze sotto il ginocchio e quindi che fastidio, che inibizione del movimento, che controllo esterno delle armi di seduzione femminile, che oppressione di quelle gambe che invece misurano desideri, promesse e che per la prima volta dopo lo sdoganamento della minigonna, non subivano il processo di conquista ma provavano a controllarlo in maniera più esplicita grazie alla moda.
Mary Quant e la celebrazione della minigonna La stilista Mary Quant ha il coraggio di provarci per prima a esibire la minigonna con orgoglio in quella “Swinging London” piena di sgarbi alla tradizione da tanti punti di vista. La minigonna nasce come indumento di rottura. Oggi invece il corpo femminile è qualcosa di talmente esibito e palesato e sul quale si è insistito per decenni, che inevitabilmente l’abbigliamento più succinto è quasi diventato una nuova gabbia. Se una donna nelle sedi più diverse è chiamata a esprimere una competenza, spesso fa più notizia la moda che ha scelto, la quantità di corpo che ha scoperto, piuttosto che le idee che ha espresso. Tanto che di sovente in ambienti apicali, tradizionalmente attribuiti al controllo maschile, le donne spesso rinunciano a tratti femminili pur di sembrare più capaci, pur di non finire delegate nel ruolo di oggetto sessuale e basta. Mostrare centimetri di pelle doveva servire a liberare le donne da un’immagine della seduzione legata a gusti e abitudini più conservatrici. Però è stato un atto che è servito a portare avanti anche una nuova schiavitù. Ieri si fuggiva dal ruolo di madre che escludeva la conquista, oggi si scappa da quello di eterna seduttrice. Così i dubbi più feroci si discutono anche davanti a un armadio e di fronte a una minigonna. Non sembrerò troppo ‘qualcosa’ per...? Non penseranno di me che...? L’ambiguità purtroppo rimane e non c’è moda che la risolva. A volte si riesce a far coincidere direttamente l’immagine che vogliamo dare di noi con quella che produciamo sugli altri. A volte no. Perché in mezzo c’è una cultura ossessionata dal controllo dell’immagine femminile che ancora associa alle donne principalmente il ruolo di seduttrici più che di dottoresse. Allora la minigonna stessa finisce per rimanere qualche volta nell’armadio per colpa di quella stupida paura di essere troppo ‘scoperte per...’.
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L' Assorbente Il nemico amatissimo L’assorbente è l’artefice del delitto perfetto. Da quando è stato commercializzato come prodotto usa e getta nel 1988, è apparso, nelle pubblicità e nella cultura di massa, come il sostituto accettabile e moralmente tollerato del sangue mestruale. Dove c’è lui non c’è bisogno di vedere rosso. Invece si può arrampicare in metafore goffe per sostituire la naturale realtà del sangue che una volta al mese le donne gestiscono e che nascondono al mondo per vergogna. In tutte le pubblicità di ieri e di oggi, il sangue che percorre l’assorbente è di colore blu. Il blu è il colore dei detersivi, del mare e dell’acqua, non dei fluidi del corpo e della carne. Una tinta, il rosso, che sicuramente ci appartiene di più. L’assorbente è quindi l’unico oggetto in grado di raffigurare simbolicamente un tabù senza che il tema delle mestruazioni femminili produca quell’insieme di significati negativi ed emotivi che invece produce. Imbarazzo, risate, o vero e proprio senso di disgusto.
Pink tax, questa sconosciuta È un prodotto sanitario talmente slegato nell’immaginario attuale dall’idea del corpo femminile che fluttua nello spazio dei consumi senza essere prontamente associato alla salute. Ne deriva che un bene indispensabile di cui non si può fare a meno venga percepito invece come accessorio anche sul piano del costo. Per lui non si fa nessun trattamento speciale a livello fiscale, tanto che viene tassato come un bene di lusso con IVA al 22%. È quindi un amico utile ma anche un ostacolo nel raccontare il corpo delle donne e la sua differenza rispetto al maschile come una realtà. Così, per rivalsa, per atto politico e culturale, le donne hanno cominciato a glorificarlo. Sì, il sangue stesso. È nato il movimento del free bleeding. Un’iniziativa dal basso che dal 2014 vede le donne non indossare nessun prodotto sanitario durante il periodo del ciclo mestruale e andare in giro a sanguinare libere per protesta. Aspettando magari la consacrazione definitiva: una copertina di Vogue dove la modella indossa un pantalone macchiato di rosso.
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I Tacchi Donne in punta di stiletto. Da sinonimo di oppressione a strumento di empowerment. Caterina de’ Medici le indossò per stupire la corte francese durante il suo matrimonio con il duca d’Orleans. Le femministe le bandirono perché simbolo di controllo e oppressione. Carrie Bradshaw ne ha fatto il marchio di una donna single, di successo ed economicamente indipendente. Veronica Benini, alias Spora, le ha trasformate in strumento di empowerment, insegnando alle donne a camminarci e ad acquistare fiducia in sé stesse. La storia delle scarpe con il tacco va di pari passo con quella delle donne: negli anni 20, la nuova generazione femminile, le cosiddette flappers, amava esibirsi, flirtare e ballare fino a tarda notte sulle note del jazz. Le gonne e gli abiti corti mettevano in risalto gambe e caviglie e i tacchi erano rigorosamente alti. Si diffusero così calzature con l’allacciatura pratica, come le Mary Jane, fermate da un cinturino sul collo del piede. Per i conservatori quelle scarpe erano il simbolo dell’impudicizia così come per le flappers rappresentavano una libertà mai sperimentata prima. L’entusiasmo fu presto spazzato via dal crac finanziario del 1929, che diede vita a un’epoca di conservatorismo, che si tradusse in un abbassamento del tacco. La minaccia della Seconda Guerra Mondiale si stagliava all’orizzonte come un cupo dejà vu e quando nel 1939 uscì al cinema Il Mago di Oz, le scarpette rosse di Dorothy sembravano gridare che lo spazio per le cose futili e sofisticate era finito, le donne avevano bisogno di calzature pratiche e comode. Negli anni ’50 il tacco torna prepotentemente, alto e sottile: nasce lo stiletto, il tacco a spillo creato da Christian Dior e Roger Vivier, e menzionato per la prima volta dal Telegraph nel 1953. Lo stiletto ebbe però vita breve e dovette eclissarsi davanti alla nascita del movimento femminista per cui le scarpe alte rappresentavano una vera e propria “disgrazia contro le donne”, un oggetto creato a favore del maschio, che spingeva a una femminilità forzata. Gli anni ’60 e ’70 sono stati anni bui per il tacco, rimpiazzato da scarpe raso terra e zeppe, perfette sotto i pantaloni a zampa e i vestiti fiorati, ma non propriamente eleganti. È solo negli anni ’80 che la donna inizia a riconquistare la libertà di sentirsi elegante e sensuale anche sui tacchi. Stavolta però le scarpe alte non rappresentano solo un oggetto femminile ma un simbolo di potere e autorità, sottolineati da quei centimetri in più.
A scuola di tacchi Oggi abbiamo a disposizione una gamma pressoché infinita di modelli di scarpe con il tacco. Queste, però, non sono solo un accessorio di moda o un simbolo: indossarle modifica concretamente la postura del corpo, il modo in cui ci muoviamo e, di conseguenza, anche il nostro atteggiamento. Il primo a scoprirlo fu Salvatore Ferragamo, durante i suoi studi di anatomia in California. Fondendo le nozioni mediche al mestiere di calzolaio Ferragamo scoprì che camminare scalzi e camminare con le scarpe sono due attività completamente diverse e che le scarpe modificano il modo di farlo. Oggi, a un secolo di distanza, lo sa bene Veronica Benini, alias Spora, prima “heel coach” italiana, che nel 2010 ha creato la Stiletto Accademy, partita sul suo blog e diventata poi un’Associazione Internazionale. I suoi corsi non insegnano “solo” a camminare sui tacchi, impresa già di per sé non semplice, ma aiutano le donne ad adottare la postura giusta per non soffrire e allo stesso tempo acquistare fiducia in sé stesse e sentirsi bene nel proprio corpo, il tutto camminando su un bel paio di stiletto.
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sindaca(bili)
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Passionarie, trumpiane ante litteram, rivoluzionarie: profili di prime cittadine che, nel bene e nel male, hanno conquistato importanti metropoli e indicato un nuovo modo di fare politica.
di Lorenzo Bernardi
VIRGINIA RAGGI e CHIARA APPENDINO - Roma e Torino Se dici “sindaca”, nove su dieci pensi a una di loro: Virginia Raggi e Chiara Appendino. All'inizio, appena elette, erano le “ragazze meravigliose” di Beppe Grillo, giovani, pulite, promettenti. Virginia a Roma si è persa subito, travolta da un'ondata di guai giudiziari e triturata da un meccanismo spietato che nella Capitale hanno patito in tanti. Chiara, a Torino ha resistito un po' come il rassicurante volto di governo del Movimento 5 Stelle, tanto che qualcuno l'avrebbe ben vista a Palazzo Chigi. Poi anche lei, è capitolata, e con la tragedia di piazza San Carlo (un morto e più di 1000 feriti fra la folla riunitasi per la finale di Champions) si è aperta una crepa culminata lo scorso 10 novembre con una manifestazione che ha portato in piazza 30mila delusi del “nuovo corso”. Dopo lo schianto con la realtà, oggi Virginia Raggi e Chiara Appendino sono due sindache in crisi, e il loro essere donna probabilmente ha aggiunto difficoltà alla difficoltà. Per loro si potrebbe ribaltare il vecchio detto, per cui “dietro una grande donna c'è un grande uomo”. Che Raffaele Marra e Paolo Giordana, un tempo i più stretti collaboratori delle due sindache, siano stati davvero “grandi” è discutibile, considerato che sono entrambi finiti in disgrazia per vicende penali. Certo è che entrambe sono state accusate di essere soltanto “burattine” nelle mani di eminenze grigie (ovviamente maschili). La vita sentimentale della Raggi poi, dalla separazione con il marito al ricongiungimento, è finita su tutti giornali. Nel mezzo, sullo sfondo delle vicende giudiziarie, tante voci di presunti amanti e molte dicerie mai confermate, rimbalzate sulle cronache con una spietatezza che a un uomo sarebbe forse stata risparmiata. Almeno su questo fronte, Appendino ha avuto vita facile. Da brava “madamina” torinese ha sempre mostrato i suoi traguardi di mamma, dalla gravidanza rivelata via facebook (quand'era ancora semplice consigliera) alla partecipazione bimba al seguito a varie manifestazioni, passando per la “battaglia” per portare i fasciatoi in città. E a proposito di famiglie, al netto dei molti fallimenti amministrativi, Chiara Appendino sarà ricordata per una scelta storica: registrare in comune i figli delle coppie gay. Forse un uomo ci sarebbe arrivato più tardi.
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ADA COLAU - Barcellona In Italia ce la ricordiamo soprattutto per lo schiaffo politico rifilato a Matteo Salvini dopo la vicenda Proactiva Open Arms, la nave carica di rifugiati a cui l'Italia ha chiuso i porti e che lei voleva accogliere nella sua Barcellona. Ma Ada Colau, primo cittadino del capoluogo catalano, è considerato in patria già più di un astro nascente della sinistra. Perché lei, anche in quest'era post ideologica, è incontrovertibilmente di sinistra. Una pasionaria del terzo millennio che da noi si definirebbe “antagonista”. Una leader femminile, eppure non priva di doti stereotipicamente maschili. Quarantaquattro anni, un compagno e due figli, un passato da studentessa di filosofia (non si è mai laureata), prima di diventare sindaco ha raccontato di aver passato momenti di povertà, facendo oltre 20 lavori, ed è stata in Erasmus in Italia (dove ha anche avuto una relazione durata due anni con una donna). Si è fatta conoscere nel movimento contro gli sfratti a Barcellona per la sua veemente battaglia contro le banche titolari dei mutui. Fino a qualche anno fa, scrive il New York Times, era considerata “un personaggio rissoso” mentre per molti spagnoli stritolati dalle ipoteche e sull'orlo del suicidio era “qualcosa di simile a un angelo”. Insomma la Colau ha costruito la sua fortuna – e il suo potere – mostrandosi tanto protettiva e materna quanto volitiva e aspra nella lotta politica.
SARAH PALIN - Wasilla C'è stato un momento in cui una donna venuta dal freddo ha spaventato il mondo. Era il 2008, la corsa alla presidenza Usa di Obama sembrava lanciata. John McCain, quasi certo della sconfitta, giocò il suo jolly, e siglò il ticket con Sarah Palin. Da poco eletta Governatrice dell'Alaska, Palin prima di allora era stata a lungo sindaco della cittadina di Wasilla (8000 abitanti). Lei per un attimo sembrò spostare gli equilibri. Conservatrice, antiabortista, si era fatta strada nel Grand Old Party, tradizionalmente dominato dagli uomini, radicalizzando il proprio consenso e alzando il livello dello scontro – anche personale – con Obama, laddove McCain ostentava un fair play forse eccessivo. La sua parabola politica finì piuttosto rapidamente, ma Sarah Palin non fu una meteora. Piuttosto, un'anticipatrice dei tempi. Capace come nessun altro – almeno nei suoi anni d'oro – di polarizzare l'elettorato, fu una populista ante litteram e diede all'A merica una lezione che Donald Trump interiorizzò e perfezionò otto anni più tardi. Non a caso, dopo la parentesi nel movimento ultraconservatore repubblicano Tea Party, fu fra le prime leader a sposare la candidatura del tycoon. Possiamo dire che Sarah Palin fu una Donal Trump in gonnella? Forse, ma dando a Cesare quel che è di Cesare e a Sarah quel che è di Sarah, a questo punto potremmo anche ribaltare le gerarchie.
SOUAD ABDERRAHIM - Tunisi A Tunisi, il primo sindaco nominato da un consiglio comunale liberamente eletto è una donna. Si chiama Souad Abderrahim e dallo scorso luglio è la prima cittadina della capitale tunisina. Cresciuta come attivista sotto il regime, per cui è anche finita in carcere, è stata fra i volti più in vista della rivoluzione del 2011. Eletta all'assemblea costituente e membro indipendente del partito islamista moderato Ennahda, Abderrahim ha 54 anni e in passato è stata farmacista. Nella sua figura coesistono elementi contrastanti, almeno secondo gli schemi della politica occidentale. La prima donna sindaco di Tunisi (una delle prime del mondo islamico) non deve far pensare a un volto iper progressista. Abderrahim fa pur sempre parte di un partito islamista, dunque non laico, e alcune sue posizioni sulle madri sole definite “una piaga per la società tunisina” i cui diritti non andrebbero tutelati, le hanno scatenato contro varie critiche, per cui è stata costretta a smentirsi e a scusarsi. Ciononostante, la sindaca appare una rivoluzionaria già soltanto per come interpreta il proprio ruolo. Capelli ramati, nessun velo, vestita all'occidentale, “non si presenta come la maggioranza delle donne del suo partito”, rileva il Washington Post. “È il riflesso della donna tunisina: musulmana, solare, divertente”.
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Il corpo è mio, decido io cosa farci Una chiacchierata con Callipigia Venere, prostituta “per scelta” di Lorenzo Sassi foto di Ilaria Lagioia
1 • A farle la corte erano in molti, sia tra mortali che tra dei. Basti pensare non solo a Vulcano (il primo e brutto marito appiopatole da Zeus) o a Marte (il rozzo ma focoso amante con cui sfasciò il matrimonio e mezzo Olimpo), ma pensate pure al figlio, Cupido, il quale – una volta superato il fastidioso complesso edipico (a quei tempi “postdatato”) – si innamorò della madre. L’unico che resistette alla bellezza di Venere fu Narciso, che amava sé stesso più di tutti. 2 • Venere la si qualificava anche in termini corporei ben precisi. Aveva sette “difetti” (anche detti “buchi” – non pensate subito male – o “ali”): dito medio delle mani più lungo rispetto al palmo, ricrescita scura rispetto alla chioma bionda, righe sul collo, strabismo (poi diventato “di Venere”) e poi le fossette (anche queste dette poi “di Venere”), che non ho controllato in Kateryna; come non ho controllato [sic] se avesse le linee degli addominali oblique o il cosiddetto “piede alla greca”. 3 • Nato in Svezia nel 1999 e poi adottato in altri paesi dell’Europa settentrionale come Norvegia, Finlandia, Islanda, Irlanda e recentemente anche dalla Francia
Kateryna è alta circa 1m e 80cm. Tiene i capelli raccolti in maniera tale che l’aspetto dell’acconciatura ricordi più quello di una specie di fortezza follicolare aliena piuttosto che un vero e proprio chignon. Il trucco, sul viso, è a dir poco “abbondante”. Gli zigomi, alti, sporgono in avanti e sembrano due piccoli bernoccoli. Le labbra sono carnose e all’apparenza morbide, come se qualcuno le avesse levigate con del burro cacao e del miele fin dalla nascita. Il resto del corpo è da stereotipo: è il corpo ben rassodato che chiunque si figurerebbe in testa se dovesse immaginarsi una prostituta d’alto borgo, sui trent’anni, proveniente dall’Europa dell’est (più specificatamente, in questo caso, proveniente dall’Ucraina). Sebbene oggi lo si declini in maniera scherzosa, osservando Kateryna non si può non pensare al significato originario dell’epiteto proprio di Venere, immaginando altresì che quelle natiche abbiano effettivamente un qualcosa di divino – o quanto meno di irresistibile per parecchia gente, come per parecchi era irresistibile il lato B della Callipigia Dea: ecco, Callipige Kateryna 1. Non so dire con certezza se, oltre al didietro, Kateryna e Venere abbiano anche in comune tutti e sette i difetti che rendevano irresistibilmente imperfetta la dea della fertilità e della bellezza 2. Stando al Codacons a usufruire dei servizi di Kateryna e colleghe/colleghi sono 9 milioni di italiani/e. In Italia si contano 90mila persone che si fanno pagare, vuoi sulla strada, vuoi in albergo, vuoi un po’ dove vi pare, per soddisfare una libido tanto pantagruelica (ripeto: 9 milioni di persone) quanto eterogenea (sia nel gusto che nell’identità sessuale). Di quelle 90mila persone per il 95% si
parla di donne. Il resto del mercato è in mano a trans e uomini. Secondo i calcoli della commissione Affari Sociali della Camera, Kateryna e colleghe (quindi considerando solo la fetta femminile della torta) muoverebbero una cosa come 5 miliardi di euro all’anno. Un giro di soldi non tracciabile, non tassato e generalmente gestito da gruppi mafiosi. La regolamentazione del settore è quanto mai refrattaria alla chiarezza. La legge Merlin (1958) non ha abolito la prostituzione. La legge prevede infatti il reato di sfruttamento (della prostituzione) e il reato di favoreggiamento della stessa – oltre ad aver sancito la chiusura delle “case chiuse”. Parliamo di una legge che non solo non è riuscita a definire chiaramente il quadro normativo sul tema, ma lo ha addirittura reso più complesso. “Io non pago tasse, per lo Stato risulto disoccupata”. E se anche aprisse una partita IVA, Kateryna rischierebbe comunque il penale per via di un decreto (Visco-Bersani nda) che impedisce di tassare “redditi derivanti da attività criminali” (confermato in Cassazione). Kateryna di questo dibattito sulla legalità se ne “infischia”. “A un certo punto mi sono detta che se avessi continuato a preoccuparmi di cosa fosse legale oppure no avrei dovuto cambiare mestiere, o paese, rischiando di non riuscire a guadagnare abbastanza, quindi ho smesso di pensarci. Ho due figlie e ho le mie spese. Le mie priorità sono altre”. Kateryna è partita dall’Ucraina quando aveva 24 anni. Partì una settimana dopo la morte di suo padre (avvenuta, da quello che mi sembra di capire, per quello che Kateryna descrive come una “scossa nel cervello” e che io presumo essere un aneurisma – ma non ne sono molto
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sicuro), e poi arrivò in Italia, quando il sogno di diventare una modella di Elle si era trasformato in un vero e proprio flop. All’inizio aveva trovato un “agente”, un tipo che “aveva dei contatti”, che pareva “un tipo a posto” e che l’avrebbe introdotta senza troppi problemi al jet-set. “Sembrava”, sottolinea Kateryna, “ma voleva solo portarmi a letto. In quella circostanza mi diede fastidio, mi sono sentita presa in giro”. Ora è diverso? “Si, c’è trasparenza. Io so che cosa sto facendo, so per cosa vengo pagata e le persone che vengono da me vengono esplicitamente [e appositamente nda] per fare sesso. Lo trovo molto onesto”. Da modella mancata a prostituta insomma, tramite una via della seta aperta circa quarant’anni fa, da parecchie donne dell’est che, dopo essersi stabilite in Italia, hanno creato una vasta e fitta rete sociale che ingloba e imbriglia molte giovani e disperate (e belle) ragazze nel mondo della prostituzione. Sulla legalizzazione, che a Kateryna, okay, “non interessa” ma presume “essere preferibile per molte colleghe”, c’è una spaccatura, anche tra gli addetti ai lavori. Donatella Martini ad esempio, presidente di “Donne in Quota”, è una sostenitrice del “modello nordico” 3, che criminalizza i clienti e per cui la prostituzione – regolamentata o meno che sia – è una violazione dei diritti umani. Ma questo è un assunto giurisprudenziale che dipende da un sistema di valori ben preciso; un sistema di valori per il quale “la prostituzione non può più essere considerata un istituto necessario al buon funzionamento della società”, dichiarava Martini. “Il problema è che se si facesse in questo modo non elimineresti i clienti e nemmeno la prostituzione, ma sposteresti il problema altrove, in luoghi meno controllati e più periferici”, chiosa Kateryna quando gliene parlo, “e quindi più pericolosi per noi, soprattutto se e quando lavoriamo da sole”. A contestare il “modello nordico” sono in molti, come Amnesty International per esempio, che nel 2015 si è schierata a favore della depenalizzazione della prostituzione, chiedendo una maggiore tutela legale per tutti i/le (the) sex worker(s) e una più completa e limpida tessittura normativa di fondo (tutela giudiziaria per gli abusi sessuali, cure medico sanitarie, diritto all’abitazione). Altre voci schierate sono quelle di Pia Covre, 68 anni, prostituta navigata, che insieme a Carla Corso (collega) ha fondato il Comitato per i diritti
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civili delle prostitute (1982): l’unico sindacato in Italia che si batte per i diritti degli operatori del settore. “Se anche si mettessero d’accordo su cosa fare qualcuno finirebbe comunque con l’essere scontento. Non puoi accontentare tutti. È così che va il mondo”. Ma se potessi cambiare lo faresti? Voglio dire, al di là della legalità, il tuo corpo sembra come in balia dei desiderata altrui, in balia delle richieste degli altri, una specie di tavolo da lavoro di un carpentiere che picchia, inchioda e fa tutto su quel tavolo, fregandosene se il tavolo si scheggia o altro. . “Quello che faccio non mi svilisce. Ho sempre posto dei paletti a me stessa. Si tratta comunque di un lavoro, che ha delle regole per me. Il problema è pensare che siamo tutte uguali, che quello che facciamo possa essere qualcosa di male per tutte”. Che intendi? “Alcune di noi lavorano sulla strada, lì è diverso. Alcune di noi scelgono di farlo e ognuno sceglie di farlo per una ragione diversa”. In Germania o in Olanda le prostitute hanno diritti, pagano le tasse e stanno rispondendo a una domanda che da sempre richiede quei servizi, “quindi perché non ci mettiamo l’anima in pace e accettiamo il fatto che la gente vuole pagare per fare sesso?”. Allora a questo punto forse vale la pena legalizzare e regolamentare il settore? Kateryna non risponde, di nuovo. In compenso risponde ad una domanda ben più intima, che ha a che fare con il suo corpo e la sua dignità. Kateryna ci racconta di un corpo che, con il tempo, ha imparato a conoscere e valorizzare: “non è che avessi molte alternative, so fare poche altre cose. Il mio corpo è il mio corpo. Non è certo il corpo di chi non ha mai fatto ciò che faccio – e quindi non ha idea di che cosa significhi – o il corpo di chi lo fa, ma resta segnato e ci sta male. Decido io cosa farci, e decido come convivere con quello che faccio e quello che sono”.
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Storia di Blessing, che si è ripresa il suo corpo In Italia ci sono 70.000 donne vittime di tratta costrette a prostituirsi, in gran parte nigeriane. Blessing Okoedion era una di loro, ma ha trovato il coraggio di denunciare. E ora aiuta le altre donne a difendersi.
di Ilaria Danesi foto di Ilaria Lagioia
70.000 donne, giovani, a volte giovanissime. Le si vede illuminate dai fari lungo le strade italiane, si passa loro a fianco senza la dovuta amarezza che dovrebbe suscitare saperle preda di un mercato illegale, se non indispettiti per quella mancanza di decoro urbano. Donne-oggetto, anche nella noncuranza della società nei loro confronti, certamente nelle intenzioni di chi quel mercato lo alimenta, e ancor più di chi lo organizza. Sono oltre 20 milioni le persone vittime di tratta di esseri umani nel mondo, il 70% di loro sono donne e bambini, per un giro d’affari che si stima superiore ai 32milioni di dollari, più del traffico di droga o armi.
carnefici. Blessing non lo aveva sospettato, nemmeno quando arrivata in Spagna con un permesso di lavoro di due anni le dissero che il lavoro sarebbe stato in Italia. “Ero completamente sola in un paese straniero, senza sapere la lingua. Arrivata in Italia mi presero i documenti e mi dissero che quel che mi attendeva era la strada”. In un istante avevano strappato via tutto quello che aveva: i documenti, la vita che si era costruita, i suoi diritti e la sua dignità. “Le altre dicevano: ti ci abituerai. Ma io sapevo che non avrei mai potuto e decisi di scappare. Trovai la forza di andare dalle forze dell’ordine e lasciarmi aiutare”.
Donne vendute, ma soprattutto ingannate. “Come ho fatto ad essere così stupida? Come ho fatto a non accorgermene?” si chiede Blessing Okoedion nelle pagine del libro Il coraggio della libertà, cui ha affidato i suoi ricordi perché quell’esperienza non sia vana ma possa mettere in guardia altre donne. Per quanto possa sembrare assurda la sua storia è tragicamente normale sulla rotta Nigeria-Italia, e assomiglia a migliaia di altre storie che ragazze come lei vivono quotidianamente nel silenzio generale.
Non fu facile vincere la paura e tornare a fidarsi degli altri e ancor più delle minacce, del timore di ritorsioni, di debiti da ripagare e riti di giuramento vudù, spesso è proprio questo che frena le vittime di tratta. “Molte ragazze hanno alle spalle storie tremende, a volte con violenze pregresse sin dal paese di origine, altre accumulate durante il viaggio. Sono state tradite, ingannate, violate: come possono fidarsi di qualcuno?”.
“Tutto cominciò nel 2013”, racconta al telefono. “Sono laureata in informatica e all’epoca riparavo computer a Benin City. Conobbi una donna, una mia cliente. Era entusiasta del mio lavoro, sembrava una brava persona, frequentava la chiesa… mi disse che il fratello aveva un negozio di computer in Europa e cercava un collaboratore laureato. Pensavo fosse la mia grande occasione, capii troppo tardi che era un lupo vestito da agnello”. La donna era una madam, figura mediatrice dei trafficanti, in genere ex vittime diventate
Blessing, che ora fa la mediatrice culturale e la traduttrice, e porta alle ragazze nelle strade la sua testimonianza diretta per aiutarle a liberarsi dalle catene, sa bene quanto sia difficile e cruciale questo passaggio. “Are you sure?, mi ripetono titubanti. La Nigeria è un paese in via di sviluppo e ad essere tutelato da polizia e istituzioni è solo chi può permetterselo. Ho conosciuto una donna che scappata dalle violenze in Francia è stata arrestata una volta tornata in patria, è un network potente. Per chi nasce in contesti simili è difficile anche solo concepire che qualcuno possa proteggerti, spe-
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“Con Casa Rut andiamo sulla strada per parlare con le vittime e dire loro che c’è una via di uscita, Anche lei inizialmente era timorosa, quan- facciamo accompagnamento sanitario e negli uffici pubblici, lavoriamo per il dopo, con progetdo i poliziotti che presero in carico il suo caso la condussero a Casa Rut, una comu- ti come il laboratorio tessile NewHope. Esistono belle realtà sui territori, come l’Associazione nità di Caserta che ha aiutato decine di Slaves no more che supporta le donne che vogliodonne a riprendersi la propria vita e con no tornare in Nigeria a reinserirsi nella società”. cui ora collabora. cialmente dopo aver subìto tanto”.
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Blessing è stata più volte in Nigeria a portare la sua testimonianza, e per l’importanza del suo lavoro è stata da poco insignita dal Dipartimento di Stato USA del premio Trafficking in Persons Report Heroes. Sa che non si possono sconfiggere i trafficanti senza colmare il gap informativo che sfruttano quando reclutano le ragazze: “nelle città e soprattutto nei villaggi della Nigeria trovano terreno fertile per i loro traffici. Le persone non sanno cosa le aspetta, ignorano i rischi del viaggio e dei traffici. Magari sentono qualcosa ma non ne colgono la portata. Sono persone amiche, conoscenti fidati a tradirti, a volte persone che si presentano come pastori venuti a tendere una mano e vengono visti come una speranza di un futuro migliore. E le vittime non parlano, hanno paura o si vergognano, così il fenomeno continua”. Ma se per sensibilizzare e arginare la tratta occorre lavorare a livello informativo, c’è soprattutto da lavorare a livello culturale per erodere il mercato illecito che la alimenta qui in Europa. Il legame tra Italia e Nigeria in questo caso è tristemente noto. “Italo”, si dice di una ragazza che non studia e non s’impegna, da quelle parti. Nel nostro Paese la richiesta di mercato è una vergogna pari alla difficoltà nello sgominare il network di mafie e traffici illeciti, e stando alle organizzazioni internazionali è in crescita. “Finché le donne verranno viste come oggetti e continueranno ad esserci migliaia di uomini che alimentano la prostituzione non si riuscirà mai a cambiare davvero le cose. L’emigrazione nigeriana in Italia è vecchia di decenni ma ancora non si riesce a cambiare la mentalità: sa quante mie connazionali ricevono proposte sessuali se chiamano un tecnico a casa o vanno ad un colloquio di lavoro? Si deve agire con forza contro questa continua umiliazione e categorizzazione delle donne nigeriane”. E delle donne in generale: ma con 70.000 schiave sulle strade, per l’Italia il cammino sembra ancora molto lungo.
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Nella trappola dei trafficanti Un aumento del 633% in tre anni. 1500 persone nel 2014, 11mila nel 2016, e nel 2017 il trend non è diminuito. Sono i numeri dell'ultimo rapporto dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), sulla tratta di esseri umani attraverso la rotta del mediterraneo centrale. L'identikit? Donne, spesso minorenni e provenienti prevalentemente dalla Nigeria: secondo l'Istituto internazionale, l'80% delle migranti nigeriane sbarcate in Italia nel 2016 è una possibile vittima di tratta. 11 mila ragazze arrivate, 8.257 destinate allo sfruttamento sessuale. Soltanto 78 denunce. Un numero esiguo, conseguenza delle ritorsioni e delle minacce subite. Paura, vessazioni e ricatti contraddistinguono le storie di queste donne. Migliaia di chilometri percorsi dal cuore dell'Africa alle sponde europee. Le violenze in ogni tappa del viaggio. I trafficanti in attesa dei soldi (30 mila euro in media) negli hangar fatiscenti e nelle carceri dell'inferno libico. E alla base, un'organizzazione criminale che gestisce la tratta di esseri umani. Dall'adescamento alla strada con tutta una serie di ramificazioni e di corpi intermedi che rappresentano la capillarità del fenomeno: la madame, il boga, il ticket man, il connection man, sono le figure più rappresentative della filiera dell'abuso. Ma anche esoterismo e controllo psicologico, nell'industria della schiavitù sessuale. I trafficanti sottopongono le donne al rito magico voodoo Juju, molto diffuso in Nigeria. In un reportage pubblicato da Thomson Reuters Foundation e ripreso dalla giornalista Claudia Torrisi in una lunga e approfondita inchiesta apparsa su Open Migration, uno sciamano del villaggio di Amedokhian, nella Nigeria meridionale, spiega in che modo terrorizza le ragazze dopo aver fatto bere loro “miscugli in cui sono immersi pezzi di unghie, peli pubici, biancheria intima o gocce di sangue”: “Posso fare in modo che [la ragazza] non riesca mai a dormire bene né a trovare pace finché non avrà saldato il suo debito […] Qualcosa nella sua testa continuerà a ripeterle ‘Devi pagare!’”.
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Verso un nuovo maschile, e un nuovo femminile Vogue Italia e la rivoluzione dello sguardo Una chiacchierata con Alessia Glaviano, Brand Visual Director di Vogue Italia, sulla rappresentazione della diversità oggi, e sui nuovi orizzonti della mascolinità e della femminilità visti attraverso il linguaggio della fotografia di moda.
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di Sara D'Agati foto "Photo Vogue Festival" di Ilaria Lagioia
Quando sono entrata nella redazione di Vogue Italia a Milano per incontrare Alessia Glaviano, Senior Photo Editor di Vogue, nota fuori e dentro il mondo della moda come colei che sta rivoluzionando il modo di vedere la fashion photography, e con essa, il concetto stesso di estetica femminile e maschile; non sapevo esattamente cosa aspettarmi. Ho percorso un lungo corridoio tappezzato di immagini della moda degli ultimi cinquant’anni, e attraversato diverse stanze dove giovani donne picchiavano velocemente sui tasti dei pc; ma di assistenti anoressiche in minigonna e tacchi chilometrici neppure l’ombra. Giunta a destinazione, la Glaviano mi accoglie con un paio di jeans ed un maglione, struccata e sorridente; e mi fa segno di sedermi. Me lo dice quasi subito, che la moda per lei non è una manifestazione effimera e superficiale, ma l’espressione dell’identità profonda di ciascuno di noi e, su larga scala, della società tutta. In quest’ottica, la fotografia di moda è un linguaggio potentissimo, in grado di modellare la percezione di chi siamo e, ancor di più, di chi vorremmo essere. L’avvento dei social media poi, non ha fatto che amplificarne la pervasività, trasformandolo in una lente fondamentale per comprendere il nostro tempo. Per questo, da diversi anni Alessia Glaviano ha iniziato un percorso di riflessione sul ruolo che la fotografia di moda esercita oggi, e sul processo di costruzione e decostruzione dei modelli, maschili e femminili, che la moda contribuisce allo stesso tempo a creare e diffondere. Questo percorso trova uno dei suoi pilastri nel “Photo Vogue Festival”, quest’anno alla sua terza edizione. All’interno del festival due mostre collettive si concentrano, in maniera quasi speculare, sulla valorizzazione della diversità in ogni sua espressione. La prima, "All That Man Is – Fashion and Masculinity Now”, esplora l’evoluzione del concetto di mascolinità attraverso lo sguardo dei fotografi di moda contemporanei. "Embracing Diversity”, invece, è una potente celebrazione della diversità dove, tra le altre, l’immagine canonica del corpo della donna cui una certa fotografia di moda ci ha abituato ne esce profondamente rivoluzionata. Nel costruire questo numero tematico sul corpo della donna, abbiamo pensato immediatamente a te e al lavoro che stai facendo. Chi è Alessia Glaviano? Sono cresciuta in una famiglia di artisti, l’arte era ovunque attorno me, da quando sono nata. Sono passata dal teatro ad un master in Economia Politica in Bocconi, con l’idea di lavorare nella cooperazione internazionale. Dopo la laurea ho raggiunto mio padre a New York, e lì ho iniziato a lavorare per Pier59Studios, partendo dalla gavetta, lavorando di notte, lì ho lavorato come assi-
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© MARCO GLAVIANO
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stente per alcuni tra i più importanti fotografi di moda, e poi iniziato una collaborazione con Art + Commerce, un’agenzia di fotografi. Nel 2001, appena compiuti trent’anni, ho deciso di tornare, tramite Art + Commerce ho avuto un colloquio con Franca Sozzani, che all’epoca dirigeva Vogue Italia. E’ stato amore a prima vista. Ho iniziato con una sostituzione maternità, poi ho avuto un contratto da giornalista, ma sin dal principio ho lavorato con lei su tutto. Non ho mai creduto nella rigida divisione di ruoli, e neppure lei. Abbiamo condiviso da subito una visione, lei mi ha dato grande fiducia e mi ha lasciata molto libera. Oggi sono qui da vent’anni, e non c’è stato un giorno uguale all’altro, è un settore che si modifica costantemente ed offre tante occasioni per innovare, se si è pronti di coglierle. Da diverso tempo, il tuo focus è sull’offrire una diversa prospettiva rispetto alla percezione della bellezza, utilizzando la fotografia di moda. Per alcuni può sembrare un paradosso. Spiegaci perché non è così. Ho sempre creduto che la moda sia un linguaggio e non qualcosa di superficiale ed effimero che varia di semestre in semestre. Un interfaccia con la società. Mi interessava portare il discorso sulla moda ad un livello più profondo, per questo per il primo anno del Photo Vogue Festival ho scelto il tema del “Female Gaze”, e da quel momento in poi se ne è iniziato a parlare moltissimo. Il tema del corpo della donna e della sua rappresentazione negli ultimi anni, con i social media, si è estremamente ampliato. I media tradizionali hanno sempre solo offerto un modello di rappresentazione univoco, ed anche le donne fotografe cadevano in quel cliché dell’oggettivizzazione della donna, perché non c’erano altri modelli cui riferirsi. Oggi, con i social, attraverso figure come Petra Collins e Juno Calypso, assistiamo ad una riappropriazione dello sguardo della donna sulla donna. Questo ha dato inizio ad una rivoluzione dello sguardo, una rappresentazione più inclusiva e realistica della forma del corpo, delle diverse etnie e dei colori. In quest’ottica i social hanno un ruolo fondamentale nel mostrare la diversità, è vero. Ma è anche vero che se poi si va a guardare quali sono i modelli che le ragazzine e i ragazzini seguono e tendono ad emulare, il rischio non è quello opposto, ossia di un’esasperazione del conformismo? Questo è in parte vero, ma se devo fare un bilancio credo che i social media abbiano più aspetti positivi che negativi. Il tema delle ragazzine che si sovraespongono si lega più al tema di una società che si fa sempre più narcisistica, e che
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i social in qualche maniera enfatizzano. Ma se pensiamo all’immagine della donna offerta dalla televisione berlusconiana, sono stati fatti grossi passi avanti. Il rischio di cui parli tu c’è, e pone un problema di educazione all’immagine e all’uso dei social media che oggi non c’è e va pensato. Siamo all’inizio, le scuole si stanno già attivando per fare più educazione in questo senso. Dall’altro lato però, bisogna dire che i social hanno aperto il campo, fra le altre cose, a giovani donne che stanno combattendo contro lo stereotipo della vergogna attorno alle mestruazioni, le cicatrici, le smagliature, la cellulite o ai peli. Senza i social media questi temi non sarebbero mai emersi con così tanta forza. La mostra “All that Main is” è un’indagine visiva, a mio avviso necessaria, su cosa sia la mascolinità oggi. Cos’è per te? E a che punto siamo nel processo di liberazione, non soltanto della donna, ma anche dell’uomo, dai modelli di riferimento imposti dalla società? E’ una tematica estremamente complessa. Noi donne, di fatto, ce lo chiediamo da così tanto tempo, anche a causa delle diverse forme di oppressione cui da secoli siamo soggette, che abbiamo fatto passi da gigante nella consapevolezza di noi stesse, nella rappresentazione e autorappresentazione di ciò che siamo. Gli uomini oggi sempre di più soffrono la gamma così ridotta di modelli di riferimento a loro disposizione, ridotti troppo spesso a macchiette tra macho e gay. L’elemento che emerge più di altri, è il bisogno e la voglia di riappropriarsi della sfera emotiva e della sua espressione; il poter piangere liberamente, per esempio, che eterosessualità non significa soltanto durezza e impossibilità di mostrarsi fragili. Oggi l’uomo ha ampliato le proprie possibilità si sta costruendo ha una gamma molto più ampia di modelli. Tutto il tuo lavoro va nella direzione della costruzione di un concetto più inclusivo di bellezza. Tu credi che questo sia reale, e non soltanto un palliativo? Ossia che iniziative come “Embracing Diversity” possano davvero allargare il concetto di bellezza e avere un impatto, senza rischiare di restare esercizi virtuosi destinati ad avere un impatto estemporaneo su pochi. Delle belle foto di soggetti considerati brutti o strani, insomma, ma che non contribuiscono ad alterare la percezione comune della bellezza? Io credo che se non si fa niente, niente cambia. Magari non oggi, non domani. Ma giorno dopo giorno, venendo esposti ad un certo tipo di immagini, piano piano ci si abitua e l’immaginario finisce per ampliarsi. E’ l’inizio di un processo, di un dialogo, di una rivoluzione visiva e di contenuto. Io faccio questo percorso da anni e ne vedo già i frutti. Era impensabile fino a pochi anni fa che un agenzia di modelle decidesse di rappresentare una ragazza con disabilità, oggi è successo, e assistiamo sempre di più a campagne pubblicitarie realizzate con tipologie di donne diverse. Le ultime sfilate sono state quelle con una presenza maggiore di modelle di colore nella storia. Lo spettro di categorie rappresentate si è ampliato notevolmente, e questo è un dato di fatto. Eppure il discorso politico sembra andare in tutt’altra direzione. Che ne dici? Dico che stiamo vivendo una dicotomia profonda. Da un lato la rappresentazione artistica che cambia, che apre. Dall’altro lato la retorica politica razzista e populista, che va a chiudere. Ci troviamo in una congiuntura storica in cui il capitalismo così come lo conosciamo ha fallito, e non si è trovato ancora un altro modello. Per questo ogni azione oggi deve andare nella direzione della costruzione di consapevolezza, dei contenuti pensati; per non essere complice di questa gente, di questi messaggi. Io lo faccio come posso, attraverso le immagini. Le prime immagini che ti vengono in mense, se pensi al corpo della donna? Mi viene in mente Richard Learoyd. Mi viene in mente un nudo. Un corpo morbido, vero, sensuale, generoso ed inclusivo.
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In viaggio con Vladimir Luxuria L’universo femminile mi ha sempre affascinato, aspettavo solo il “permesso di soggiorno” per poterci entrare di Alice Militello
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Chiamo Vladimir Luxuria alle 17.30 di sabato pomeriggio, la intercetto mentre è in corsa su un treno, “un periodo molto intenso” della sua vita, mi dice. Sta partecipando “da protagonista”, al Tale e quale show, con Carlo Conti. Un programma che le sta dando la possibilità di conoscersi. Perchè sebbene possa apparire paradossale, l’esposizione mediatica può davvero essere uno strumento di introspezione. Tra una galleria e l’altra, parliamo del corpo, della sua auto-rappresentazione, che è la più importante, e di quella che ne da la società. E lei, che rapporto ha con il suo corpo? In generale, nel nostro caso, il rapporto con il corpo è spesso conflittuale. Sul piano estetico, in particolare, genera un forte senso di insoddisfazione. Io stessa, quando mi guardavo allo specchio, cercavo quelle rotondità che vedevo alle mie compagne di scuola. È stato abbastanza frustrante, tanto che per molto tempo ho evitato il confronto con lo specchio. Ringraziavo sempre per la salute, ma essere sani non vuol dire avere solo due gambe che camminano, bisogna trovare il giusto equilibrio tra psiche e fisicità. Per questa ragione, ho lavorato molto sulla ricerca di una identità mia più strutturata. «Trans si nasce, non si diventa», ha scritto in un suo recente tweet. Può spiegare meglio il significato di queste parole? Non c’è un momento particolare in cui ha iniziato a percepirsi come donna? Non esiste un momento preciso, il tutto avviene in maniera naturale e istintiva. La differenza sta nel fatto che una bambina viene educata a diventare donna, un bambino a formarsi come uomo. In altre parole, veniamo preparati in base al nostro sesso biologico. Chiaramente questo aspetto per persone come me comporta un processo di crescita diverso, più complesso, rispetto a quanto viene imposto dalla società. Dunque, si è sempre sentita così. Personalmente sì, anche sul piano sinestetico. Sin da piccola, ad esempio, adoravo l’odore dell’acqua di rose di mia madre, invece del dopobarba di mio padre. A livello visivo, in Tv mi esaltavo guardando Raffaella Carrà o Mina rispetto ad una partita di pallone. Al tatto mi piacevano le consistenze soffici più che le superfici ruvide. E così, anche sul piano uditivo, i miei
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gusti musicali erano molto più affini a quelli delle mie sorelle o cugine. L’universo femminile mi ha sempre affascinato, aspettavo solo il “permesso di soggiorno” per poterci entrare. Hanno provato ad ostacolarla? Come si definisce, oggi? Sì, certamente. Hanno provato molto spesso a chiudermi le porte dell’universo femminile. Io provengo da una realtà di provincia, da Foggia, il mio desiderio di esplorare l’altrove era un argomento tabù, almeno all’epoca. Era strano pensare, in ambito scolastico, familiare, sociale in genere, che io potessi reclamare un qualche diritto di fare parte di un mondo opposto al mio sesso di nascita. Oggi io mi dichiaro donna transgender. Oggi, una parte del femminismo, sembra essere confluito nella denuncia, emblematico il movimento #MeToo? Le sono mai state fatte promesse lavorative in cambio di favori sessuali? Le donne, finalmente, stanno prendendo coscienza di sé e fanno bene a denunciare i casi di molestie. Purtroppo i ricatti sessuali sono quasi sempre la prassi in molti settori lavorativi, in particolare nel mondo del cinema e dello spettacolo. Anche quando si pensa che sia la donna ad offrirsi, il problema è che il sistema è malato: crea la percezione che per sfondare si debba fare così! È successo anche a me di ricevere richieste “particolari” in cambio di un lavoro. Io mi sono rifiutata e, ovviamente, l’occasione professionale non si è concretizzata. Pensa che #MeToo sia una scintilla circoscritta, o fenomeno destinato ad evolversi? Io credo che ci troviamo in un punto di non ritorno ma è una battaglia ancora molto lunga. Per adesso parliamo di un ambiente particolare e circoscritto, come quello dello show-business. Ha fatto molto rumore perché si trattava di star internazionali, purtroppo la stessa risonanza non appartiene a settori lavorativi meno appariscenti dove, comunque, azioni di questo genere si consumano nel silenzio più assoluto. C’è ancora tanta paura a parlare. Di sicuro ci vogliono più donne in posizioni apicali. Bisognerebbe partire dalle scuole e insegnare alle bambine che possono esplorare qualsiasi territorio. E a che punto siamo, secondo lei. Lei crede che la donna oggi sia veramente libera, di muoversi, uscire da sola la sera, indossare una minigonna senza essere soggetta a molestie, anche solo verbali? Purtroppo c’è ancora una fetta dell’universo maschile che si arroga il diritto di provarci, toccare, di violarti anche solo con lo sguardo, senza alcuna esplicita richiesta dall’altra parte. Ti faccio un esempio, quando ero direttrice artistica della Mucca Assassina, una sera abbiamo deciso di organizzare una serata aperta anche agli eterosessuali, con l’obiettivo di abbattere certi muri culturali, pur consapevoli del rischio. Nel corso della serata, infatti, è venuta da me una coppia di lesbiche lamentandosi di essere stata palpeggiata da un uomo. Mi sono diretta verso l’uomo in questione, in barba al fatto che fosse uno dei Casamonica, l’ho affrontato e mi sono presa un bel cazzotto. Questo per dire che, ancora oggi, l’uomo si basa su un immaginario erotico in cui necessariamente egli deve giocare il ruolo di terzo elemento che si inserisce nello scambio di effusioni tra due donne, per avere
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un rapporto con entrambe. Vale anche per i commenti, la frase tipo che una donna omosessuale si sente dire è: «tu sei lesbica perché non hai ancora provato uno come me!». Per fortuna, non tutto il mondo maschile è così. Come sta cambiando l’immagine pubblica della donna? Non è solo un cambiamento d’immagine, si sta modificando anche il linguaggio nei confronti delle donne ed è giusto che sia così. D’altronde la lingua è viva e si adegua anch’essa ai cambiamenti sociali. Come ci appropriamo dei vari anglicismi, così dovremmo imparare ad usare parole tipo: sindaca, ministra, ecc. Le resistenze in questo senso cercano solo di nascondere che certi posti di comando ormai non sono più monopolio maschile. Io non mi sento di appartenere a quella frangia del femminismo per cui si devono buttare i reggiseni, non bisogna tingersi i capelli e via dicendo. Sono per l’autodeterminazione e autoconsapevolezza. Ognuno decide di esprimere la propria femminilità come meglio crede. Oggi anche le trans preferiscono forme meno appariscenti per dimostrare la propria consapevolezza e avvenenza. E che ruolo hanno la rete e i social media, nell’influenzare l’evoluzione della rappresentazione femminile? La rete può avere alcuni effetti positivi ma spesso si rivela una rete fognaria. Pensiamo a tutti quei suicidi di cui sentiamo o leggiamo, di ragazzini vittime di cyberbullismo; oppure di ragazzine e donne tradite dai loro compagni che danno in pasto al Web foto e video privati con tutte le conseguenze a cui assistiamo. È una battaglia lunga anche questa.
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Diretto sinistro e gancio destro in uscita: i colpi vincenti di Martina La Piana Una chiacchierata con la diciassettenne siciliana, medaglia d’oro alle Olimpiadi giovanili di boxe. di Carmen Baffi
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Se il pugilato è sempre stato considerato uno sport maschile, il 18 ottobre, da Buenos Aires è arrivata una bella smentita. Il cielo si è tinto d’azzurro, ma questa volta non per merito del “sesso forte”. La giovane catanese Martina La Piana, da poco diciassettenne, ha battuto, uno dopo l’altro, i precedenti titoli mondiali: l’indiana Jyioti e la statunitense Garcìa, prima di arrivare al match finale, durante il quale ha affrontato e sconfitto a testa alta e sicura di sé, la nigeriana Gbadamosi portando a casa la medaglia d’oro delle Olimpiadi giovanili di boxe. Guadagnarsi un titolo mondiale, in uno sport prettamente maschile, perlomeno nella rappresentazione dei più, non è affatto facile per una ragazza così giovane. Alle spalle, Martina ha 4 anni di sacrifici, di intere giornate chiusa in palestra a sollevare pesi, a “ farsi il fiato” saltando la corda, a muovere le gambe il più veloce possibile, a tirare pugni al sacco con la massima potenza, a confrontarsi con i compagni d’allenamento sul ring. Tutti i giorni, due volte al giorno. E quando sei una ragazza, forse l’unica in un ambiente fatto solo di testosterone, devi tirare fuori tutto e farti valere. Le abbiamo chiesto del suo rapporto con lo sport, con la competizione, e con il suo corpo. Partiamo dal principio: com’è nata questa tua grande passione, quando hai iniziato? Ho iniziato a fare pugilato quattro anni fa. Sono andata in palestra perché il mio papà praticava questo sport da ragazzo e volevo farlo anch’io. All’inizio sia lui che mamma erano spaventati però poi quando mi hanno vista agli allenamenti e combattere si sono fidati e mi hanno lasciato fare questo sport. Adesso Mi alleno tutti i giorni, due ore la mattina e due ore il pomeriggio. Tutto il mio tempo lo dedico al pugilato. Com’è stato vincere la finale dall’altra parte del mondo? L’avversaria la conoscevo già, in più avevo già battuto avversarie molto più forti: sapevo di potercela fare, anche se non si sa mai, perché il pugilato è sempre pieno di sorprese. Appena ho iniziato mi sono resa subito conto di essere nettamente in vantaggio: ho combattuto tranquilla e mi sono divertita. Ho vinto ed è stato bellissimo. Qual è stata la combinazione di colpi vincente? Diretto sinistro e gancio destro in uscita. Sono i miei colpi migliori, quelli che preferisco.
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Che impatto ha avuto questa vittoria? Insomma, sei molto giovane, avrai molti amici, come ti hanno accolta? Quando sono tornata ci sono stati due giorni di festa in grande con i compagni e i parenti che erano felicissimi di questo mio risultato. Allafine anche loro mi hanno aiutato molto a raggiungerlo, dandomi forza e sostegno morale: eravamo tutti molto felici. Che rapporto hai con il tuo corpo? Con tutti questi allenamenti non hai paura di diventare troppo muscolosa essendo una ragazza? In un mondo in cui invece la femminilità e gli stereotipi sono all’ordine del giorno, Martina dal “basso” della sua età riesce a insegnare che certi limiti possono essere superati quando ci sono amore e passione. Si è disposti a investire tutto il tempo a disposizione, e che importa se spuntano fuori bicipiti, tricipiti quadricipiti troppo definiti? L’importante è star bene con sé stessi: Martina ama il suo corpo, e poi le bastano i suoi occhi color cielo per far passare inosservato tutto il resto che di “mascolino” potrebbe esserci in lei (e che non c’è). Tra l’altro, da grande, dopo altre vittorie sul ring – si augura Tokyo tra due anni e poi Los Angeles – vuole entrare nel Gruppo Sportivo della polizia. Insomma, Martina ha le idee chiare su tutto. La vittoria alle giovanili è stata solo un primo assaggio della sua determinazione: combinazioni pulite, rapide, sempre a segno. Portate con così tanta sicurezza da tenere la guardia bassa e “permettersi” di non dare ascolto al suo maestro, Giovanni Cavallaro, che da bordo ring le urlava di alzarla, quella guardia. Ma lei lo sapeva già, sapeva che avrebbe portato a casa quella medaglia e così è stato, l’attimo prima di sorridere e abbracciarlo per poi saltare giù, passando tra le corde bianche e correre forte tra le braccia di mamma e papà.
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“I AM THE REVOLUTION” La storia di tre donne che in Siria, Afghanistan ed Iraq lottano per l'uguaglianza e libertà. Intervista alla regista Benedetta Argentieri.
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di Simone Rubino
«“I am the revolution” è un documentario sulle donne, realizzato da donne: dalle protagoniste alle cineoperatrici, montatrici, produttrici e fotografe» chiarisce Benedetta Argentieri, regista e giornalista indipendente italiana che vive a New York. La regia è la sua, ma preferisce parlare al plurale. Noi di The New’s Room abbiamo avuto il privilegio di vederlo in prima assoluta nazionale. I 70 minuti del lavoro della Argentieri ci portano in Siria, Afghanistan ed Iraq, attraverso i volti delle tre protagoniste. Selay Ghaffar, la portavoce del “Partito della Solidarietà” in Afghanistan, «è la più esposta, perché opera in un Paese estremamente complesso per le donne. L'A fghanistan mi ha scioccato: l'87% delle donne subisce violenza” spiega Benedetta. Selay subisce minacce continue dai talebani che le hanno promesso la morte, eppure gira per il Paese con la testa scoperta, si occupa di progetti di educazione delle donne e sfida l'ortodossia islamista. Durante un programma andato in onda sulla “Khurshid Tv” un religioso sciita le ha detto: «Sei una donna, resta al tuo posto. Realizzerai i tuoi scopi nella tomba, spero in un futuro prossimo». Rojda Felat è la comandante delle “Unità di Protezione delle Donne” delle Forze democratiche siriane: ha guidato 60mila donne e uomini nella riconquista di Raqqa, contro lo Stato Islamico. Questo le ha messo sulla testa una taglia da un milione di dollari. Rojda racconta gli aspetti più politici della lotta, non la guerra in sé. «Il punto non è combattere l’Isis ma una mentalità, che non scomparirà la caduta dello Stato Islamico”» spiega Benedetta. “I am the revolution”, anche laddove viene a mancare il parlato e si affida alle musiche straordinarie di Vittorio Cosma, fa emergere l'umanità delle storie: Rojda non trattiene le lacrime durante i funerali di una giovane combattente morta al fronte, porta in spalla la sua bara e scava lei stessa la buca per la martire. Comandante in capo, al femminile. Yanar Mohammed è la fondatrice dell' “Organizzazione per la libertà delle donne” in Iraq. «Lei invece è la più nascosta: ha aperto una decina di rifugi segreti per aiutare le donne che scappano dalla violenza, spesso familiare, o da pratiche legate al “delitto d’onore”. È tornata in Iraq nel 2003 dal Canada, dove si era rifugiata. Fa l’architetto» sottolinea Benedetta. In Iraq, infatti, vige ancora il “delitto d'onore”: la ragazza colta in atteggiamenti equivoci, o considerati tali, o peggio, vittima di violenza sessuale, rischia la morte o, nella migliore delle ipotesi, le viene tagliata una mano, che viene appesa alla porta della casa in difesa dell' “onore” della famiglia.
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«“I am the revolution” nasce dall'esigenza di raccontare un'altra faccia della medaglia: la narrazione mediatica che viene fatta delle donne in guerra è solo come vittime o, peggio ancora, svuotando di significato quel che fanno, come combattenti sexy (vedi storiella sulla morte “dell'A ngelina Jolie del Kurdistan”), mai come protagoniste della loro vita. Sono andata spesso in quei luoghi: lì come altrove ci sono donne forti, ben lontane dalla vittimizzazione che siamo abituati a percepire, che lottano strenuamente in difesa dei loro diritti. La rivoluzione delle donne non abita in un solo luogo o in una singola pratica: c'è una nuova presa di coscienza del movimento femminile e femminista. Le donne sanno che bisogna lottare, insieme: come fanno le tre protagoniste.» «Abbiamo voluto sfidare gli stereotipi, anche dell'industria cinematografica. Gli uomini, soprattutto in quei Paesi, sono molto più alti delle donne, quindi un cameraman, senza accorgersene, riprende dall'alto verso il basso. Io ho voluto che tutto fosse a livello degli occhi, per offrire una diversa accessibilità alle storie» spiega Benedetta. Il titolo nasce da una manifestazione per l'8 marzo avvenuta a Baghdad, dove le donne hanno urlato: “Io sono una donna, io sono la rivoluzione!”. «“I am the revolution” è un lavoro complicato, soprattutto in questo momento storico, benché si possa credere il contrario. Yanar, durante una ripresa, guardandomi dritta negli occhi ha domandato: “Quale rivoluzione è più difficile della rivoluzione delle donne?”.
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sinergie.org
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twico.it
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Progetti di comunicazione digital & new technologies per eventi
Sviluppo di concept, format e consulenza nel settore food & wine
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Storie di 9 donne manager nel settore della comunicazione in Italia di Laura Bonaiuti #comunicatrici racconta di donne vincenti, nove donne che hanno rotto il soffitto di cristallo e sfatato pregiudizi e stereotipi: Catia Augelli, Silvia De Blasio, Costanza Esclapon, Giuliana Paoletti, Simona Panseri, Carlotta Sami, Lucia Sciacca, Marita Spera e Carlotta Ventura. Tutte alla testa di grandi aziende nel settore della comunicazione. Potremmo pensare, leggendo le loro storie, che il gender gap non esista più. Ma è davvero così? Lo abbiamo chiesto a una delle due autrici, Janina Benedetta Landau, responsabile della sede romana di Class CNBC. Janina, tu e Antonella Dragotto, perché avete deciso di scrivere questo libro e come avete scelto le donne da intervistare? Il libro è nato da un dialogo che abbiamo avuto tra di noi. Avevamo sottomano i dati di una società di consulenza usciti dopo la festa della donna, dati che ci sono sembrati troppo positivi per essere veri. Ci siamo chieste se fosse davvero così. La situazione delle donne nel mondo del lavoro è tutt’altro che rosea. Quello che ci attirava del tema è che di donne e lavoro si parla solo in occasioni particolari, come appunto la festa dell’8 marzo. Volevamo finalmente accendere i riflettori sul problema non per un giorno soltanto, ma durante tutto l’anno. Abbiamo voluto raccontare la realtà delle donne manager nel settore a noi più vicino, quello della comunicazione. Simona Panseri, direttore Corporate Communications and Public Affairs Southern Europe di Google, nel vostro libro dice che “la comunicazione è femminile”. Credi che quindi in questo settore sia più facile trovare donne in posizioni di potere? Il gender gap si riduce davvero? Sì, è più facile. Questo è dovuto a delle caratteristiche intrinseche della donna, che in genere è più pronta ad ascoltare, a comunicare, a fare squadra. Queste donne non si pongono dei limiti. Molte altre, invece, sì. Ad esempio, ancora oggi continuano a prediligere percorsi di studio meno scientifici. Questo trend sta cambiando ma adesso ancora è così. Certi settori sono rimasti più appannaggio degli uomini. Adesso, con il passare del tempo, la situazione migliorerà: non ci saranno più i genitori a insegnarti che il marito lavora e la moglie sta a casa a occuparsi dei figli e della cena, o a limite può fare la maestra di scuola elementare. Catia Augelli, Managing director Kassiopea BC, parlando della sua esperienza, ha detto che “ad un certo punto ti considerano un uomo”, a furia di stare in mezzo agli uomini. Per Silvia de Blasio, invece, per fare carriera “bisogna sapersi costruire un’identità forte” ma “se ci sono realtà in cui ancora devi indossare un tailleur da uomo per farti accettare, vuol dire che non c’è una cultura manageriale solida”. Credi che il problema sia soltanto la cultura manageriale? La donna non si deve nascondere dietro un tailleur maschile. Non c’è relazione tra apparenza e ruolo. Le donne che abbiamo intervistato erano tutte estremamente femminili e anche sexy. La femminilità e l’eleganza vanno di pari passo con quello che sei, e quello è il tuo look.
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A questo proposito, che responsabilità hanno la comunicazione, e in particolare il giornalismo, nella costruzione o decostruzione dello stereotipo femminile? Non siamo più negli anni ’80. Le teorie sullo spettatore passivo sono superate. Tutto sta all’intelligenza di chi guarda, legge e ascolta. Il pubblico è in grado di capire se una persona ha spessore oppure no, indipendentemente dal genere. Siamo più abili adesso a smascherare gli stereotipi, oggi. Lo spettatore finalmente è attivo, gli viene data la parola. La comunicazione è totalmente cambiata. Pensiamo soltanto ai social network. Sì, però sui social network molte donne sono bersagliate da critiche e insulti gratuiti. Bisogna fare una differenza. La critica è costruttiva, l’insulto è sempre un insulto. È una violenza verbale, non aggiunge niente, non è una critica. Costanza Eclapon, Presidente CSC Vision, ha detto che spesso in passato le donne rinunciavano alla carriera per paura di non poter gestire contemporaneamente lavoro e famiglia. Però abbiamo anche un’altra voce, quella di Carlotta Sami, portavoce UNHCR, che racconta che quando è rimasta incinta (a quel tempo lavorava per Save the Children) il suo capo, americano, le ha detto: “allora sarai ancora più brava!”. Credi che se il capo di Carlotta fosse stato italiano, le avrebbe risposto la stessa cosa? Sotto questo punto di vista siamo messi molto male. Nel pubblico i sistemi di welfare aziendale non esistono, ma anche nel privato le aziende devono capire che welfare non significa buoni pasto, ma attenzione al dipendente e alle sue esigenze. Il welfare aziendale deve essere rivisto per tutti, non soltanto per le donne. Ci sono moltissimi casi di lavoratori, donne come uomini, che hanno parenti disabili o anziani da accudire, per non parlare dei genitori separati. Parliamo di un argomento spinoso, le quote rosa. Le vostre intervistate hanno dato risposte molto diverse. Per Lucia Sciacca, ad esempio, sono un “grimaldello per aprire una porta”, per Marita Spera “un male necessario”, per Carlotta Ventura “una forma di ghettizzazione”. La domanda è personale. Cosa ne pensi tu? Le quote rosa sono state un’occasione per le donne in contesti importanti per dimostrare quanto valgono. Secondo me, però, sono da considerare più un punto di partenza che uno strumento per arrivare al potere. Io sono una grande sostenitrice della meritocrazia. Ci deve essere un’evoluzione dopo le quote rosa, che hanno sì aiutato, ma da sole non bastano. Sono state uno stimolo ma adesso ne vediamo le conseguenze: in questi anni, ad esempio nei cda, le donne hanno sempre ricoperto ruoli di rappresentanza, anche alti, ma pur sempre marginali. Ruoli di supervisione, anche, ma mai di comando vero. Quello è sempre stato lasciato agli uomini. Il vostro è un libro sulle donne, ma non necessariamente per le donne. Qual è il messaggio che intendete dare? Questo è un libro che gli uomini dovrebbero leggere. Il messaggio è: “se vuoi, puoi”. Se vuoi veramente una cosa la puoi veramente ottenere. Tutte queste donne sono accomunate da alcuni elementi: tenacia, rinunce sul piano personale, si sono scontrate con dei muri ma li hanno abbattuti, poi hanno fatto leva sul gioco di squadra sfatando il mito che le donne non fanno squadra e sono competitive tra loro. Nessuna ha studiato per diventare quello che è. C’è chi si è laureata in filosofia, chi in lettere. Ma in un modo o nell’altro, possiedono delle qualità profonde, che le hanno portate in alto.
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DIRE ha 30 anni ed e’ donna Nasce un nuovo prodotto di approfondimento giornalistico dedicato al pensiero di genere. di Silvia Mari
Sono oltre 500. Donne di tutte le età. Rappresentanti delle Istituzioni, avvocati, medici, attiviste, ambasciatrici. Impegnate in tutti gli ambiti della vita pubblica. E’ una delle novità che l’agenzia Dire ha presentato, il 6 novembre scorso, per festeggiare 30 anni di storia. Un comitato permanente di donne che sarà coinvolto attivamente, ecco la seconda novità, nel nuovo canale informativo DireDonne: un prodotto di approfondimento giornalistico dedicato al pensiero di genere. Vogliamo portare il punto di vista delle donne sulle questioni della cronaca e sui temi cruciali della vita pubblica del Paese. Non rincorriamo le polemiche, ma valorizziamo la voce del mondo femminile. Politica, sanità, sociale, università, economia e finanza, cooperazione sono alcuni degli ambiti che saranno trattati quotidianamente con lanci d’agenzia, videoservizi, interviste, approfondimenti. Ascolteremo le donne del Comitato, presenteremo i loro studi, i loro commenti, appuntamenti ed eventi e mobiliteremo un dibattito d’opinione, un mondo di idee, di proposte fondate sulla differenza di genere come sentinella di tutte le altre. Un tema sempre più attuale nella nostra società, attraversata e anche afflitta dalla sfida contemporanea del dialogo tra culture, tra mondi diversi. La categoria della differenza è la cifra di questo tempo storico e abbiamo scelto il pensiero femminile per esplorarla e per conoscerla fino in fondo. Notizie quotidiane, appuntamenti, ma anche speciali. Iniziamo con il linguaggio e la letteratura e dialogheremo con giovani scrittrici. A loro chiederemo come la parola possa non perdere bellezza pur essendo inclusiva e se sia giusto plasmare un nuovo linguaggio. Passeremo poi al mondo del lavoro e al rapporto tra salute e diritti, con le testimonianze di alcune lavoratrici che racconteranno la loro esperienza e confronteremo la legislazione italiana con quella europea; passando attraverso gli studi più recenti sui rischi del lavoro, anche di quello domestico, che ha riguardato maggiormente e da sempre la popolazione femminile. DireDonne arriverà ai giornalisti delle testate quotidiane, anche radio-tv, ma sarà web e social. Realizzeremo un tg settimanale che darà la voce a cinque donne per ogni puntata con un’agenda di proposte e di innovazioni da portare alle Istituzioni e una sezione del sito della testata raccoglierà i principali contributi settimanali della rubrica. Non solo. DireDonne è anche una comunità culturale, un progetto condiviso e partecipato. Apriremo le porte della redazione a dibattiti, seminari, incontri, mostre che saranno parte integrante del nostro lavoro. Non vogliamo un prodotto per soli addetti ai lavori e non vogliamo sottrarci alla discussione sulle pagine piu’ difficili della cronaca che colpiscono soprattutto i diritti e il corpo delle donne. Dalla violenza domestica, alle molestie, ai femminicidi, al diritto di famiglia, alle frontiere della medicina e agli interrogativi della bioetica. Congedo di paternità, ddl Pillon, quota 100 e ricadute sull’occupazione femminile sono alcuni dei temi dell’agenda politica di cui ci occuperemo. Ma anche il privato, le relazioni, le scelte, la maternità. La parola alle donne su tutto: una rappresentanza capillare sui temi che attraversano la nostra vita, pubblica e privata, non soltanto sulle questioni tradizionalmente di competenza femminile. DireDonne nasce per sovvertire gli stereotipi, superare gli antagonismi storici e interrogarsi sul rinascimento di un nuovo femminismo.
IVAN BANDURA from UNSPLASH
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Parità salariale? Ancora un miraggio Zètema Progetto Cultura per The New's Room
Donne e lavoro: un rapporto ancora difficile. Lo conferma l’equal pay day, dello scorso 3 novembre, una giornata 'mobile' istituita dall'Unione europea per segnare il momento in cui ogni anno le donne iniziano simbolicamente a smettere di guadagnare se confrontate con i loro colleghi. Il problema, dunque, non è solo il limitato numero di donne che, ancora oggi, accede al mondo del lavoro; ma le condizioni di disparità retributiva in tutta Europa che fanno loro guadagnare il 16,2% in meno degli uomini. Questo divario costringe le donne in situazioni di precarietà nel corso delle loro carriere, ma anche dopo, con un gap di genere nelle pensioni del 36,6%. A determinare tali differenze, un mercato del lavoro che si regge su part-time femminili, la discriminazione che favorisce gli uomini nelle carriere, ma soprattutto una divisione sociale dei ruoli che ancora affida alle donne tutto il peso della cura dei familiari. Il primo passo da fare è dunque quello di puntare su leggi che agevolino la conciliazione tra vita e lavoro, permettendo ai padri di avere dei congedi parentali consistenti, obbligatori e retribuiti. Non solo, è fondamentale educare e formare le nuove generazioni, informare e sensibilizzare studenti, docenti e genitori, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. Una legge sulla parità da sola non porta a nulla se non si educano le nuove generazioni a superare gli stereotipi uomo-donna affinché le giovani possano avvicinarsi al mondo del lavoro con un atteggiamento paritario e vincente, acquistando fiducia in se stesse e condividendo idee, sfide, esperienze. D’altro canto è importante che anche le giovani siano ben preparate, in grado di offrire argomentazioni valide a supporto della loro abilità per superare eventuali idee preconcette e, soprattutto, che credano nei propri sogni e facciano rete tra loro. Sono molti gli esempi d’eccellenza tra le aziende italiane, che operano in ambiti disciplinari diversi, che dimostrano come favorire le attitudini di leadership femminile “conviene“, non solo per ragioni di equità, ma anche per il benessere economico delle imprese. Recenti dati confermano infatti come la performance economica delle aziende guidate dalle donne sia migliore e come, di fronte alla crisi, le aziende con una presenza di donne nel Cda abbiano resistito meglio di quelle a guida completamente maschile. Essere presidente di Zètema lo considero un onore. Oltre ad essere un’azienda con un ruolo fondamentale nella promozione culturale, è caratterizzata da una netta prevalenza femminile sia ai vertici, presidente e direttore generale, che tra i lavoratori. Oltre il 65% sono donne, di cui quasi la metà laureate. Francesca Jacobone, Presidente Zètema Progetto Cultura
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L’Italia con gli occhi di domani, raccontata dagli under 35
fondatori
Pierangelo Fabiano Raffaele Dipierdomenico direttore responsabile
Sofia Gorgoni
art direction progetto grafico
Andrea Altellini art direction progetto digital
Dodicidi
direttore editoriale
Sara D’agati
responsabile comunicazione
advisor editoriale
Beniamino Pagliaro
Sofia Piomboni pr
editore
The New’s Room Srl
Stefano Ragugini social media manager
coach di questo numero
Nicola Perrone
Francesco Turri crediti fotografici
la redazione
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