Archeo n. 356, Ottobre 2014

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2014

GROTTA CHAUVET

LACCA CINESE LUNIGIANA

FATICHE DI ERACLE

SPECIALE GLI ARABI ALLA CONQUISTA DELLA STORIA

€ 5,90

Mens. Anno XXX numero 10 (356) Ottobre 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 356 OTTOBRE

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ARABI ALLA CONQUISTA DELLA STORIA quando al-Baghdadi incontrò Cleopatra

MITOLOGIA

LA VERA STORIA DI HERCULES

GROTTA CHAUVET

RINASCE IL SANTuaRIO DELL’ARTE PREISTORICA

MISTERI

LE STATUE STELE DELLA LUNIGIANA

www.archeo.it



editoriale

lettori, venite a roma Il viaggiatore che a Roma arriva in treno, una volta conquistata l’uscita dalla stazione Termini e oltrepassato il chiassoso e caotico terminal degli autobus, si trova di fronte le maestose rovine di uno dei piú grandiosi monumenti mai costruiti a Roma. Le terme di Diocleziano, erette tra il 298 e il 306 d.C., coprivano una superficie di oltre 13 ettari e il turista può agevolmente intuirne le dimensioni e la magnificenza originarie osservando i due ottocenteschi porticati sormontati dai palazzi della vicina piazza della Repubblica (nota anche come piazza Esedra): furono innalzati dall’architetto Gaetano Koch in memoria delle antiche strutture che sorgevano proprio qui, lungo il perimetro dell’enorme esedra con gradinata che chiudeva, verso sud-ovest, l’impianto termale. Secoli prima di Koch, però, fu Michelangelo che sul frigidarium, sul tepidarium e sul calidarium delle terme costruí la basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri Cristiani e, sopra altre strutture del complesso, avviò la realizzazione della Certosa. Alcuni lettori assoceranno il nome delle terme di Diocleziano ai marmi della collezione Boncompagni-Ludovisi che, un tempo, erano conservati nell’omonimo chiostro, ma che, dal 1997, sono esposti in uno dei principali gioielli museali di Roma, il Palazzo Altemps. Sono in pochi, invece, a sapere degli straordinari lavori di restauro e riallestimento che la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma sta svolgendo nelle 15 aule sopravvissute delle terme: proprio in questi giorni, infatti, sono stati aperti al pubblico un ambiente enorme – la cosiddetta Aula VIII –, la vicina natatio (una piscina di oltre 4000 mq, in cui un tempo si rispecchiavano le grandiose architetture del suo prospetto), insieme al piccolo chiostro della Certosa michelangiolesca. Possiamo assicurare ai nostri lettori che l’incanto dei nuovi spazi rappresenta un’esperienza di spazi, luci e... silenzi che, da soli, valgono il viaggio. L’apertura dei nuovi ambienti delle terme di Diocleziano, però, è solo uno dei numerosi interventi di restauro e valorizzazione del patrimonio che la Soprintendenza sta mettendo in atto in questi anni e mesi: una vera e propria «rinascita archeologica» della Capitale che approfondiremo e illustreremo nei prossimi numeri. Andreas M. Steiner

Roma. Due immagini degli spazi delle terme di Diocleziano riaperti al pubblico: il chiostro della Certosa (in alto) e l’Aula VIII (qui sopra).


Sommario Editoriale

Lettori, venite a Roma

3

di Andreas M. Steiner

Attualità

la notizia del mese

dalla stampa internazionale Roma non conquistò mai l’Irlanda: ma quali furono i veri motivi della rinuncia? 30

da atene

Scoperto nel Nord della Francia un maestoso santuario d’età imperiale, arricchito da sculture di straordinaria fattura 6

Cercando Alessandro 32

di Daniela Fuganti

Grotta Chauvet

notiziario

8

scoperte Una croce incisa nella roccia di una grotta a Gibilterra prova che l’Uomo di Neandertal sapeva esprimersi anche come artista 8

di Valentina Di Napoli

arte preistorica Nella tana dell’orso 38 di Daniela Fuganti, con un’intervista a Jean Clottes

52 civiltà cinese/4 La lacca

Il rosso e il nero

52

di Marco Meccarelli

38

parola d’archeologo Ecco i pareri di Donatella Mazzeo e Francesco di Gennaro sull’annunciato trasferimento del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» 12 musei Alla scoperta del Nuovo Museo Archeologico di Ugento 16 In copertina La morte di Cleopatra, olio su tela di Achille Glisenti. 1878-1879 circa. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Anno XXX, n. 10 (356) - ottobre 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Germano Cavalli è presidente dell’Associazione Manfredo Giuliani per le ricerche storiche ed etnografiche della Lunigiana, Villafranca in Lunigiana (Ms). Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Maria Anna De Lucia Brolli è direttore del Museo Archeologico dell’Agro falisco di Civita Castellana. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Valentina Di Napoli è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Angelo Ghiretti è direttore del Museo delle Statue Stele Lunigianesi-Castello del Piagnaro, Pontremoli (Ms). Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Luca Mercuri è ispettore archeologo presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Luna Michelangeli è archeologa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: p. 85; A. Dagli Orti: copertina e pp. 94/95; G. Nimatallah: p. 65; G. Dagli Orti: pp. 86-87, 90, 92/93, 104; S. Vannini: pp. 94, 96; V. Pirozzi: p. 111 – AGF/Mimmo Frassineti: p. 3 – © Inrap: Denis Gliksman: pp. 6-7 (basso); Christophe Gaston: disegno alle pp. 6/7 – Cortesia Ufficio stampa CNRS/Francesco d’Errico: pp. 8-9 – Cortesia dell’autore: pp. 10, 12 (alto), 13, 16, 52-55, 60, 106-107, 110 (alto) – Cortesia VU University, Amsterdam: p. 11 – Paolo Leonini: pp. 12 (basso), 14 – Doc. red.: pp. 30/31, 33 (alto), 47 (alto), 58 (basso), 59, 66, 110 (basso) – Corbis Images: Aristidis Vafeiadakis/ZUMA Press: pp. 32, 33 (basso); Asian Art & Archaeology: p. 56; Bettmann: p. 57; Jack Fields: p. 58 (alto); Massimo Listri: pp. 62-63 (su concessione sella Soprintendenza


gli imperdibili

Rubriche

Quei misteriosi antenati scolpiti nella pietra 62

il mestiere dell’archeologo

Statue stele della Lunigiana

di Daniele F. Maras

Gli antichi in America?

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di Daniele Manacorda

antichi ieri e oggi

Per il dio della guerra e la fertilità dei campi 102 di Romolo A. Staccioli

a volte ritornano

L’enigma dell’aereo bomba

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di Flavio Russo

l’ordine rovesciato delle cose

Cronache da Narnia 108 di Andrea De Pascale

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mostre

Eracle per sempre a cura di Giuseppe M. Della Fina, con contributi di Maria Anna De Lucia Brolli e Luca Mercuri

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l’altra faccia della medaglia

Dopo il diluvio

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di Francesca Ceci

libri

per i Beni Archeologici della Toscana, Firenze); Vanni Archive: p. 102 – Getty Images: Sakis Mitrolidis/Stringer: p. 34 – © Jean Clottes-CNP: pp. 38/39, 48/49 – © SYCPA: pp. 40, 50 (alto, riquadri e basso), 50/51 – © Jean Clottes-MCC: pp. 41, 49 – Cortesia Jean Clottes: pp. 42-43, 44 – ©J.-M. Geneste-CNP-MCC: pp. 44/45, 45, 47 (basso), 50 (centro) – Archivi Alinari: Archivio SEAT: p. 67 – Cortesia Museo delle Statue Stele Lunigianesi, Castello del Piagnaro, Pontremoli (MS)/su concessione sella Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, Firenze: p. 68 – © 2014 Paramount Pictures and Metro-Goldwyn-Mayer Pictures/ Kerry Brown: p. 70/71 (primo piano) – Cortesia Ufficio stampa: pp. 70/71 (sfondo), 72-80 – Shutterstock: pp. 82/83, 88/89 – Bridgeman Images: Werner Forman Archive: p. 91; British Library: p. 93; Private Collection: p. 98; British Museum/Universal History Archive/UIG: p. 100 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 103 – Archivio Associazione Subterranea: p. 108 – Marco Santarelli: pp. 108/109 – Aroti Meloni: p. 109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 6, 31, 32, 40, 46, 64, 84/85. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352

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speciale

Quando Maometto interrogò la sfinge 82 di Marco Di Branco

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Amilcare Pizzi - Officine Grafiche Novara 1901 S.p.A., Cinisello Balsamo (MI) Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 00696.369 Posta: My Way Media Srl via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/ Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


la notizia del mese Daniela Fuganti

il mistero dei tredici archi

T

empio o altare monumentale? Gli archeologi dell’INRAP (Institut national de recherches archéologiques préventives) per il momento non si sbilanciano. Ma è davvero senza precedenti, a Pont-Sainte-Maxence, nell’Oise, nel Nord di quella che un tempo era la Gallia romana, la scoperta di un complesso architettonico della seconda metà del II secolo d.C. Costruito su resti d’epoca gallica, su una superficie di 70 x 105 m,

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questo insieme di edifici era dotato di una facciata maestosa (70 m di larghezza e 9,5 di altezza), ornata con sculture di qualità sorprendente. Il tutto in simmetria con la piattaforma centrale e con un pozzo posto ai limiti del secondo muro che delimitava l’area sacra. «La piattaforma al centro dello spiazzo, di cui resta solo il basamento di fondazione e che ha restituito numerose monete – spiega Véronique Brunet-Gaston,

Inghilterra Germania Pont-Sainte-Maxence Parigi

Francia Oceano Atlantico

Spagna

HYPOTHÈSE PROVISOIRE DE RESTITUTION DE LA FAÇADE (avec 13 arcades)

Italia

Corsica Mar Mediterraneo


responsabile dello scavo – somiglia a un podio, e potrebbe essere sia un luogo di culto che un altare. La seconda ipotesi è avvalorata dalla scoperta in situ di molti elementi di balaustra a forma di “S” affrontati e di lastre di rivestimento in marmo».

Una vita breve Ma è la facciata principale ad aver suscitato il massimo interesse: costituito da una serie di tredici arcate, il muro era crollato pochi decenni dopo essere stato innalzato, lasciando sul terreno sabbioso centinaia di blocchi in calcare locale, scolpiti con meandri alla greca, racemi, cantari, animali e personaggi. Allineati al suolo, i massi rivelano elementi degli attributi divini del pantheon greco-romano – come il pavone di Giunone e l’arco di Diana –, accanto ai visi di Vulcano e di Ade. Uno degli elementi meglio conservati del fregio rappresenta una Venere accucciata, ai cui piedi spicca il viso di una vecchia donna. La scultura evoca un episodio descritto da Omero (Odissea, canto VIII): dopo

un’avventura con Marte, la moglie di Vulcano si ritira nel bosco. Una vecchia svela il suo nascondiglio agli dèi che la cercavano e, per punirla, Venere la trasforma in roccia. Grifoni e teste gigantesche si alternavano sull’attico in cima alla facciata. Due di queste rappresentano rispettivamente Giove-Ammone, con corna d’ariete, e una medusa e suggeriscono un’iconografia associata al culto imperiale.

artisti stranieri? Ma perché proprio qui sorse un monumento cosí importante? La qualità della statuaria, ben piú raffinata, per esempio, di quella del vicino tempio di Champlieu, che dista 40 km, suggerisce di attribuirla ad artisti venuti da Roma o dalla Grecia. Anche se la fragilità dell’opera, molto sottile, di appena 1 m di larghezza – osserva Christophe Gaston, architettoarcheologo dell’Inrap – appare singolare, e ricorda quasi una decorazione di teatro. «Siamo alla fine dell’età antonina,

In alto: Pont-Sainte-Maxence (Oise, Francia). Il volto di una vecchia donna scolpito nel fregio. A sinistra: frammento della decorazione con una testa mutila, forse un’immagine di Apollo. In basso, sulle due pagine: disegno ricostruttivo della facciata del complesso recentemente scoperto. Nella pagina accanto, in alto: particolare del fregio, con decorazioni vegetali e geometriche. all’apogeo dell’impero – sottolinea Véronique Brunet-Gaston – e la costruzione potrebbe essere stata finanziata da un potente locale». A Pont-Sainte-Maxence passava la via romana Senlis-Beauvais, e le tracce di uno scalo mercantile trovate sulle rive dell’Oise, navigabile all’epoca, suggeriscono che la città fosse uno snodo importante per il commercio del calcare estratto dalle vicine e ricche cave.

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n otiz iari o scoperte Europa

mio cugino è un artista

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n gruppo di poco meno di cinquanta specialisti di varie nazionalità, tra cui alcuni italiani, ha recentemente reso noti i risultati di uno studio che getta ulteriore luce su uno dei momenti cruciali della nostra storia piú antica: la fase in cui le comunità neandertaliane (Homo neandertalensis) condivisero l’occupazione di vaste aree del nostro pianeta con i primi gruppi di uomini anatomicamente moderni (Homo sapiens). Si tratta di un passaggio decisivo, in quanto ebbe come epilogo la sopravvivenza di una sola delle due specie, la seconda, che è quella alla quale tutti noi apparteniamo. Fino a tempi non troppo lontani, nel segno di una visione sequenziale dell’evoluzione umana, si riteneva

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che tra i neandertaliani e i sapiens vi fosse stato un avvicendamento quasi meccanico. Poi, grazie all’affinarsi degli studi e, soprattutto, all’utilizzo di metodiche scientifiche diverse dalla sola classificazione, ha cominciato a farsi strada l’idea che il processo fosse stato piú articolato di un semplice «cambio della guardia». E, parallelamente, ha avuto inizio anche uno dei dibattiti piú animati nel campo della paleoantropologia e della preistoria: quello che riguarda la possibilità che tra le due specie non vi sia stata soltanto una convivenza, ma anche un vero e proprio incrocio genetico. Ebbene, la recente ricerca (pubblicata dalla rivista Nature), rinforza la visione di un trapasso tutt’altro che traumatico, che si

sarebbe consumato nell’arco di qualche migliaio d’anni. Lo studio ha preso in esame 40 siti europei distribuiti in un’area compresa tra la Spagna e la Russia e nei quali sono attestate fasi di frequentazione riferibili alla cultura musteriana (una della facies del Paleolitico Medio), considerata come una sorta di biglietto da visita dell’Homo neandertalensis. Campioni provenienti dai contesti selezionati sono stati sottoposti a determinazioni cronologiche basate sull’uso dell’AMS (Accelerator Mass Spectrometry, Spettrometria di Massa con Acceleratore) e hanno fornito un responso significativo: la fine del Musteriano si colloca, in prevalenza, in un momento compreso tra i 41 000 e i 39 000 anni fa circa (con un margine di


probabilità che supera il 90%), ma non mancano casi, come quello della grotta di Fumane (presso Verona), in cui l’episodio si verifica con circa 4000 anni d’anticipo. Associando queste indicazioni alle datazioni delle successive industrie «di transizione», come per esempio l’Uluzziano o il Castelperroniano, si ricava un quadro che fissa in un arco di tempo compreso tra i 2600 e i 5400 anni la sovrapposizione fra neandertaliani e uomini anatomicamente moderni. Una fase che, evidentemente, è lunga quanto basta per immaginare che tra le due specie possano esservi stati scambi di tipo culturale e genetico. Insomma, da sospetto suggestivo ma fondato, l’idea di una coabitazione ricca di implicazioni In alto: foto e restituzione grafica dei motivi incisi cruciformi scoperti su una superficie rocciosa nella grotta di Gorham (vedi foto a sinistra) e attribuiti all’Uomo di Neandertal.

sociali e materiali sembra avviata a trasformarsi in una certezza. E, quasi in contemporanea, dalla grotta di Gorham, a Gibilterra (che è peraltro uno dei 40 siti analizzati nello studio appena sintetizzato), è giunta un’altra rivelazione ricca di implicazioni e di cui, anche in questo caso, è protagonista l’Uomo di Neandertal. Nel fondo della cavità, su un piano roccioso, i

membri di una équipe internazionale di ricerca hanno infatti individuato una serie di solchi incisi intenzionalmente, a formare un motivo cruciforme, che è stato dunque interpretato come una raffigurazione di tipo astratto, nella quale si può individuare una manifestazione di tipo artistico. L’attribuzione del «disegno» all’Homo neandertalensis è data dalle circostanze del ritrovamento: i solchi sono stati infatti scoperti al di sotto di un livello di sedimenti datato a 39 000 anni fa con il metodo del C14 e che, in piú, conteneva anche strumenti ascrivibili alla già citata facies musteriana. L’intenzionalità dei solchi, come ha spiegato Francesco d’Errico, uno dei ricercatori a cui si deve la scoperta, è dimostrata dal fatto che la superficie rocciosa scelta per le incisioni è molto dura e compatta e, per ottenere le croci, è stato necessario servirsi di un utensile molto robusto, passato piú e piú volte, fino a scavare la pietra. Ma, al di là del dato tecnico, l’elemento di maggior interesse è costituito dalla prova che, ancora una volta, i neandertaliani erano assai meno rozzi di quanto si sia a lungo immaginato (soprattutto fra i non addetti ai lavori) e dovevano aver sviluppato forme di espressione artistica, astratta e figurativa, che si credevano appannaggio esclusivo dell’uomo anatomicamente moderno. Stefano Mammini

Errata corrige nello speciale La biblioteca infinita (vedi «Archeo» n. 355, settembre 2014) un improvvido taglio redazionale a p. 81 ha fatto sparire la parola Septuaginta (la versione dei «Settanta», appunto), sostituendola con il termine «Pentateuco», derivante invece dal greco penta (cinque) e indicante i primi cinque libri (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) dell’Antico Testamento.

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n otiz iario

SCAVI Roma

COLOSSEO, UNA SORPRESA... medievale

L’

anfiteatro romano per eccellenza, il Colosseo, attualmente sottoposto a restauro, non cessa di svelare nuovi tasselli della sua storia plurisecolare. Analizzato da sempre da prospettive diverse – architettonica, urbanistica e dal punto di vista delle fonti documentarie – l’Anfiteatro Flavio era stato finora poco indagato per quanto riguarda le sue trasformazioni nel corso del Medioevo; da tre anni, invece, sono in corso indagini stratigrafiche finalizzate proprio all’analisi di questo periodo. Insieme a quelli nel Foro della Pace, gli scavi sono condotti da Rossella Rea (Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma) e da Riccardo Santangeli Valenzani (docente di archeologia medievale all’Università di Roma Tre), sono coordinati sul campo da Giulia Facchin e fanno parte di un vasto progetto di ricerca finalizzato a conoscere l’evoluzione e la riconversione dei monumenti antichi durante l’età medievale. La campagna di scavo 2014 si è concentrata all’interno dei cunei IX e X (ambienti sottostanti la cavea),

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che, nel Medioevo, vennero sfruttati come magazzini o stalle oppure utilizzati come abitazioni. In particolare, nel cuneo X, alla fase databile al XII secolo è ascrivibile uno spazio rettangolare delimitato da muretti, al cui interno sono state localizzate tracce di un focolare. «L’ambiente – spiega Santangeli Valenzani – avrebbe potuto svolgere una funzione di deposito oppure di abitazione temporanea riferibile, forse, a un gruppo di bassa estrazione sociale. I muretti delimitatori, inoltre, potrebbero confermare che, in questo periodo, ogni cuneo del Colosseo era costituito da un vano singolo e autonomo». «Nel XIII secolo – continua lo studioso – lo stesso ambiente fu dismesso e trasformato in uno spazio che ospitava un impianto per la raccolta di acqua piovana, convogliata in una cisterna realizzata recuperando parte dell’antico impianto fognario». «Questa nuova sistemazione era legata, forse, a una nuova e piú grande proprietà, legata a una classe sociale piú agiata. In questo periodo infatti, il Colosseo era probabilmente gestito da alcune famiglie aristocratiche, tra cui quella dei Frangipane. Nel corso del XIV secolo il cuneo fu intaccato dalle grandi spoliazioni e l’attività precedente venne interrotta, determinando la fine di questo assetto». I numerosi reperti rinvenuti attestano la frequentazione continuativa di questi ambienti: tra questi, vi sono monete di età romana, ceramiche da cucina medievale, e un gran numero di medagliette votive risalenti all’epoca moderna (XVII-XVIII secolo). Queste ultime sono espressione di un rinnovato pellegrinaggio devozionale che, nel corso del Settecento e dell’Ottocento, riscopre il

In alto: il Colosseo, parzialmente coperto dai ponteggi installati per consentire l’esecuzione dei restauri. In basso: operazioni di setacciatura della terra di risulta proveniente da uno dei settori interessati dai recenti scavi nei cunei del monumento. Colosseo come luogo del martirio dei primi cristiani. «Tra il XII e il XIII secolo – aggiunge Santangeli Valenzani – la cavea del Colosseo era gestita dagli enti ecclesiastici, e i diversi settori vennero suddivisi in tante piccole unità. Queste istituzioni, tra cui la chiesa di S. Maria Nova, concedevano in affitto i vari ambienti del monumento a piccoli proprietari privati che li adattarono a molteplici scopi». Se dunque, in età medievale, la cavea e i cunei erano privatizzati, l’arena, invece, rimase un luogo pubblico a cui si accedeva attraverso alcune aperture appositamente realizzate: una di esse è stata individuata dagli scavi del cuneo IX ma attende di essere ancora indagata nelle prossime campagne archeologiche. «Solo dall’arena si poteva accedere direttamente agli ambienti sottostanti la cavea – conclude Santangeli Valenzani –, poiché gli ambulacri mediani non permettevano piú la libera circolazione, come in epoca romana. Il caso dell’arena come spazio pubblico è molto simile a quello dello stadio di Domiziano (l’attuale piazza Navona, n.d.r.) e andrebbe approfondito proprio perché rappresenta un temine di confronto molto significativo». Luna Michelangeli


SCoperte Olanda

un ufficiale previdente

Le monete in oro e i manufatti in argento che compongono il tesoretto rinvenuto a Echt (Olanda), databile agli inizi del V sec. d.C.

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chi non è successo di smarrire una monetina da 10 centesimi? Succede piú raramente, però, che, nel tentativo di ritrovarla, ci si imbatta, invece, in una banconota da 500 euro... Ma questo, in altri termini, è piú o meno quanto è capitato a un agricoltore di Echt (Olanda). Nel 1991, l’uomo aveva trovato fortuitamente due monete d’oro romane in un campo, ma ne aveva smarrita una; cosí, quest’anno, ha deciso di tornare sul posto, munito di metal detector per cercarla. E, con sua grande sorpresa, non l’ha ritrovata, ma ne ha individuate altre 5 decidendo poi di allertare la VU University di Amsterdam, che ha subito eseguito uno scavo di emergenza. L’indagine ha portato al recupero di un inestimabile tesoro romano, composto da un anello d’oro, un lingotto d’argento, nove strisce di argento tagliate da un lussuoso vassoio da tavola

decorato, e 12 monete d’oro. A giudicare dalla curvatura del bordo, sembra che il diametro del prezioso vassoio d’argento fosse di oltre 70 cm, con un peso stimato di oltre 2 kg. Ma perché un tesoro di questo valore si trovava sepolto in un terreno semipaludoso e lontano da insediamenti romani? Le ipotesi degli archeologi Nico Roymans e Stijn Heeren puntano verso una sepoltura rituale, forse associata alla volontà del proprietario di nascondere i beni a causa dell’incerta situazione politica e militare al tempo. Una moneta riporta l’effigie dell’imperatore Costantino III (407-411 d.C.), e permette di fissare dunque al 411 un termine post quem per la datazione del tesoro. Verso gli inizi del V secolo, la stabilità dell’impero romano in queste regioni era minacciata dalle

tribú germaniche che si espandevano oltre i confini. Secondo lo storico bizantino Zosimo, Costantino III cercò di tenere sotto controllo la situazione costruendo fortificazioni e stringendo alleanze locali, assoldando i capi delle stesse tribú, affinché proteggessero i confini, offrendo in cambio denaro e oggetti di valore. Il prezioso vassoio d’argento decorato e tagliato in pezzi (valutato quindi solo per il materiale prezioso) avvalorerebbe questa ipotesi; il tesoro potrebbe essere stato la paga di un ufficiale germanico per i servizi resi all’impero, e questi potrebbe averlo seppellito quando la situazione politica e militare in queste regioni precipitò rapidamente, poco dopo il 411. Paolo Leonini

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parola d’archeologo Flavia Marimpietri

palazzo brancaccio, addio? Dal 1958 il Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» ha sede in Palazzo Brancaccio, uno splendido edificio ottocentesco al centro di Roma. In queste settimane si è ventilata l’idea di spostare l’intera collezione in una sede decentrata. Il motivo? L’eccessiva spesa di gestione. Ma si tratta davvero della soluzione migliore? Ne abbiamo parlato con Donatella Mazzeo e Francesco di Gennaro

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l Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci», che da oltre cinquant’anni ha sede nello splendido Palazzo Brancaccio a Roma, con la riorganizzazione del Ministero dei Beni Culturali e i previsti tagli di spesa, rischia di essere spostato all’EUR (il quartiere romano fondato in previsione dell’Esposizione Universale del 1942, n.d.r.), in un edificio adiacente il complesso dell’Archivio Centrale dello Stato. Secondo gli addetti ai lavori, il risultato comporterebbe non solo uno sradicamento della collezione d’arte orientale dalla sua cornice naturale e storica – quel Palazzo Brancaccio in cui il museo nacque nel 1958 –, ma anche un aumento della spesa complessiva, e non un risparmio.

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Spiega Donatella Mazzeo, archeologa orientalista e curatrice della donazione Francesca Bonardi Tucci, che ha diretto il museo dal 1979 al 2005: «Il museo ospita circa 25 000 pezzi, che provengono dall’Iran fino all’Estremo Oriente, nonché reperti del Vicino e Medio Oriente, abbracciando un arco cronologico che va dalla protostoria all’arte moderna. Vi sono conservati i complessi archeologici degli scavi Roma. La facciata di Palazzo Brancaccio, che, dal 1958, ospita il Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci».

dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (ISMEO) in Pakistan, Afghanistan e Iran. C’è la piú importante collezione in Europa di arte del Gandhara (una regione del Pakistan nella quale hanno ripetutamente operato missioni archeologiche italiane). Non solo. Con l’ultima donazione della moglie del fondatore del museo, si è aggiunta la collezione di manufatti himalaiani piú grande e piú ricca al mondo.


Lo scalone di Palazzo Brancaccio che conduce al Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci». E, nel prossimo novembre, il MNAO ospiterà la grande mostra delle pitture tibetane raccolte dal professor Tucci durante le sue esplorazioni in Tibet». Secondo il MiBACT, il trasferimento all’EUR del Museo Nazionale d’Arte Orientale comporterebbe notevoli risparmi: è davvero cosí? «Assolutamente no. Si andrebbe a spendere molto di piú. Il motivo dello spostamento del museo, che verrebbe collocato in un edificio dell’Archivio Centrale attualmente adibito a magazzino di documenti, è legato alla spending review. Si vuole cioè risparmiare l’affitto del museo, dovuto in parte alla proprietà Brancaccio, in parte (tre sale espositive) alla Chiesa. La spesa, tuttavia, andrebbe ad aumentare e non a diminuire. Infatti, dai 700 000 euro l’anno di affitto che si pagano attualmente a Palazzo Brancaccio, si andrebbero a pagare 2 milioni e 200 000 euro l’anno di canone di locazione all’Ente EUR». Per non parlare della spese per il trasloco delle migliaia di delicati reperti custoditi nel museo… «...e poi vi è la questione della messa a norma dell’edificio. Il motivo dello spostamento, come ho detto, è la spending review, ma con questo trasferimento andremmo a spendere molto di piú». L’edificio dell’Archivio dello Stato che dovrebbe ospitare i reperti dell’attuale Museo dell’Arte Orientale non è a norma: occorrerebbero dunque ulteriori lavori (e ulteriori spese)? «Certo. Tanto che il dirigente dell’Archivio Centrale dello Stato, Agostino Attanasio, desideroso di spiegare come mai aveva optato per lo spostamento a Pomezia dei documenti cartacei che sono conservati nell’edificio in cui il MNAO dovrebbe essere trasferito, ha scritto – in un comunicato riportato sul sito dell’ACS e su

quello del MiBACT – che i solai delle sale sono poco solidi e che le grandi vetrate, pur belle esteticamente, fanno in modo che all’interno vi sia un gran caldo d’estate e freddo d’inverno. Se l’edificio è inadeguato e insalubre per le carte, non si vede perché dovrebbe essere adatto a ospitare un museo archeologico. Pensare all’installazione di sistemi di condizionamento, con volumi cosí ampi “avrebbe naturalmente costi incalcolabili – afferma lo stesso Attanasio –, in contrasto con qualsiasi moderna logica di sostenibilità economica”. Senza contare, poi, i costi di manutenzione». C’è poi la preziosa collezione donata dalla moglie del fondatore del museo, la cui esposizione all’interno di Palazzo Brancaccio è stata appena inaugurata: dove andrà a finire?

«Questo è il problema. Francesca Bonardi Tucci, moglie del professor Giuseppe Tucci, a cui il museo è intitolato, ha donato oltre 2000 pezzi provenienti da tutto il mondo asiatico, dal Tibet, al Nepal, all’Iran, al Vicino, Medio ed Estremo Oriente, appartenenti a tutte le categorie (statue, gioielli, mobili, tessuti). E il museo è stato autorizzato a espandersi, occupando tutto il piano nobile di Palazzo Brancaccio, proprio per ospitare questa donazione. Le quattro sale che la ospitano sono state inaugurate il 22 luglio scorso. La donazione è stata fatta sapendo il museo in Palazzo Brancaccio». Con lo spostamento all’EUR, inoltre, la collezione del Museo Nazionale d’Arte Orientale verrebbe sradicata dalla sua sede storica… «Esatto. Si perderebbe la

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a colloquio con francesco di gennaro

Ma ci sono alcune possibili soluzioni alternative Sul futuro del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» il direttore, Soprintendente Francesco di Gennaro, ha una posizione piú articolata... «Il tema dello spostamento della sede è secondario rispetto a quello della funzione del museo e della sua percezione da parte della cittadinanza, delle istituzioni, e di chi complessivamente le amministra; il tema è dunque anche politico. Il Museo Nazionale d’Arte Orientale ha sviluppato nel tempo una nodale funzione diplomatica sul versante della cultura. Considerando che il museo ha un propulsivo ruolo di ponte culturale tra l’Oriente, ovvero tra le nazioni asiatiche, molte delle quali in rapidissimo sviluppo, e la civiltà occidentale di cui proprio Roma è stata a lungo la capitale, ora servirebbe un salto in avanti nelle sue funzioni e nell’articolazione espositiva. Gli aspetti interculturali e diplomatici costituiscono una potenzialità enorme e lasciano intravedere l’opportunità di una crescita del ruolo del MNAO, che però dovrebbe dipendere anche dal Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale, perché la sua attività non possa essere, a ragione, percepita come scomoda duplicazione. La riforma in corso comporta la previsione di una perdita dello spazio di autonomia del MNAO; ciò induce a perseguire l’unione amministrativa, già indicata dal ministro Bray, del Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” e del MNAO, che consiglierebbe e consentirebbe per il nuovo “Museo delle culture preistoriche ed extraeuropee” l’inclusione tra gli “organismi autonomi”». Quindi, quale è la sua posizione in merito a un eventuale spostamento del museo in altra sede? «Lasciamo da parte le considerazioni, sempre poco oggettive, sui maggiori o minori oneri connessi a un trasloco, perché basta osservare che nella contabilità di uno Stato un tragico onere si trasforma, con un piccola manovra, in un lusinghiero “investimento“. D’altro canto a ogni singolo Ministero sono imposti risparmi, e da qualche parte vanno operati. Il mantenimento del Museo Nazionale d’Arte Orientale a Palazzo Brancaccio, quale vorrebbero la maggioranza dei dipendenti e una parte della cittadinanza locale – che teme di perdere quello che considera un importante tesoro –, da un lato cozza con l’intento di chi oggi governa di orientare la spending review precipuamente all’abbattimento delle “locazioni passive” e, dall’altro,

dimensione naturale del museo, che è nato all’interno di un palazzo, come il Brancaccio, della fine dell’Ottocento, realizzato secondo i dettami dell’eclettismo, con splendidi affreschi e stucchi, dove

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non vede che lo storico (e occasionale) legame tra ISMEO (poi ISIAO), Palazzo Brancaccio e MNAO costituisce un limite favorendo un ripiegamento introversivo e perpetuando la confusione dei valori dinamici e mutevoli del museo con quelli statici di un, non ameno, tardo palazzo nobiliare; ma è anche un ostacolo per l’auspicata crescita, dal momento che, persa a suo tempo l’occasione di acquisire alla cosa pubblica l’intero edificio, oggi sembra impossibile perseguirla. In accordo con la Direzione Generale Antichità del MiBACT, che la percepiva come investimento, sostenni un’ipotesi diversa (forse ancora percorribile): la concentrazione del Museo Nazionale d’Arte Orientale, del Museo “Pigorini” e della sezione antichistico-archeologica del CNR nell’area delle ex caserme di via Guido Reni, accanto al MAXXI. Tale operazione avrebbe avuto come corollario la formazione della prima grande biblioteca di archeologia e antichistica italiana in Roma (ove gli studiosi sono sudditi dell’Istituto Germanico), unendo le importanti biblioteche di tutti questi enti e quella dell’ISIAO oggi contesa e dal futuro incerto. La proposta, tuttavia, ai livelli superiori dell’amministrazione non fu ritenuta sostenibile. L’attuale ubicazione non consente una comparabile crescita e un ampliamento dei settori disciplinari. In ogni caso occorre poi disporre di uno specifico spazio per congressi, che funzionerebbe a pieno ritmo, considerata la forte richiesta di confronto culturale degli stakeholder esteri. A Palazzo Brancaccio questa espansione culturale e fisica non è possibile. La vicenda di una piccola sala espositiva voluta e finanziata dalla Repubblica di Corea ci fa comprendere quante e quante nazioni desidererebbero avere un analogo biglietto da visita della propria realtà culturale a Roma, finanziando il MNAO: ma iniziative simili non sono possibili nella sede attuale. Restano vive altre due possibilità di collocazione del MNAO. Una è quella di trasferirlo in un qualche edificio pubblico non utilizzato ma compreso nel rione Esquilino o nei pressi. In proposito ho indicato Villa Rivaldi (con accesso da via dei Fori Imperiali!), su cui però ci sono diversi appetiti. L’altra, quella ora perseguita dal Ministero, è di spostare il Museo nel Padiglione Nord delle Forze Armate dell’inesitata Esposizione EUR del 1942 (quindi in locazione passiva dall’EUR, Società p.a. al 90% di proprietà pubblica)».

ogni stanza è diversa dall’altra e che ben si adatta a ospitare le diverse sezioni. Con il trasloco si perderebbe quella suggestione, questo dialogo continuo tra il palazzo e la collezione. Per

esempio, la sala con le Cariatidi è perfetta per ospitare le ceramiche, le porcellane e le giade estremoorientali». Qual è l’aspetto piú rischioso di questo spostamento?


Lei vede nell’eventuale spostamento del museo all’EUR un’opportunità di crescita o una diminutio delle potenzialità della struttura? «Una diminutio, come detto, potrebbe derivare dall’inclusione del MNAO, come del “Pigorini”, in un polo museale, con la perdita delle funzioni di Soprintendenza (tutela e ricerca di settore, rapporti internazionali, autonomia di intervento), che di fatto hanno sempre utilmente rivestito i due Musei, che ben vedrei riuniti in un istituto che possa continuare a interfacciarsi con le comparabili realtà europee e mondiali. Per quanto riguarda il padiglione delle Forze Armate è chiaro, naturalmente in primo luogo al MiBACT, che esso deve essere adeguato alla funzione secondo regole e standard ormai “globalizzati” di statica, climatizzazione, accessibilità, sicurezza. L’edificio offre uno spazio sufficientemente scenografico, piú razionale e luminoso di Palazzo Brancaccio. Il Ministero ha fatto sua la condizione che nulla si sposti dalle vetrine finché non siano pronte quelle della nuova sede. Mi sembrano tuttavia essenziali altre due condizioni. La prima è che lo spazio destinato in prima istanza al Museo non si debba poco dopo contendere con altri settori del Ministero, aggregati frettolosamente per mancanza di alternative. Ma le maggiori perplessità riguardano la funzionalità della “cittadella della cultura e dei musei” e anche del diletto, all’EUR, che si formerebbe di fatto portandovi altri musei accanto a quelli esistenti, ai Palazzi dei Congressi, ai parchi, Luna Park e laghetti. Per farla funzionare, anche con il valore aggiunto della Nuvola di Massimiliano Fuksas, si dovrebbero potenziare alcune delle attività a scapito di altre in modo che l’EUR della Cultura viva di per sé e non come appendice della città. Infatti l’EUR assomma ormai molteplici funzioni: residenziale, commerciale, alberghiera, di uffici, del tempo libero, della cultura, di asse di traffico. Lo spostamento del MNAO all’EUR avrà successo solo se si riuscirà a rendere vivibile l’area. Bisognerebbe per esempio impedire che i due grandi complessi architettonici che si stanno ristrutturando diventino, come si vuole, uffici, facendone invece parcheggi (altrimenti dove stazioneranno i pullman?), luoghi di ristoro, riposo, svago per famiglie e gruppi. In particolare la disponibilità di parcheggi non può essere sottovalutata, perché il riferimento alla sempre insufficiente Metropolitana B riporterebbe a una situazione di stretta dipendenza da Roma, mentre si dovrebbe fare dell’EUR un obiettivo a sé, giacché nessun turista che si trattiene per 3 giorni a Roma può dedicarne 1 (ma ce ne vorrebbero 2!) all’EUR. Si sarà capaci di farlo in Italia e a Roma? Lo scetticismo è d’obbligo, e in caso negativo il risultato sarà solo quello di ridurre ulteriormente il numero dei visitatori dei nostri musei».

«Tutto. Occorre riflettere, innanzitutto, su come avviene lo spostamento. Smontare un museo cosí ampio e complesso, chiuderlo in casse, trasportarlo, riaprirlo… ci vorrà oltre un anno di tempo.

Due immagini dell’allestimento attuale del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» nelle sale di Palazzo Brancaccio.

E se il museo rimane chiuso per un periodo cosí lungo il pubblico se ne dimentica. È come se ci fosse un’eclissi. Poi si perderebbero i legami culturali con il palazzo, adattato nel tempo affinché

accogliesse al meglio il museo. Anche la proprietà, al tempo dei lavori, aveva effettuato un intervento di consolidamento di portata superiore a quanto richiesto per garantire la solidità del palazzo, proprio per soddisfare le necessità del museo. Inoltre, la collocazione attuale all’Esquilino, che è un quartiere multiculturale, permette, per esempio, di svolgere attività con i bambini stranieri, facendo vedere loro le opere dei Paesi da cui provengono, come Pakistan, Iran o Cina. Insomma, se non ci fosse il museo a Palazzo Brancaccio si dovrebbe inventarlo».

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n otiz iario

musei Puglia

nel regno dei messapi

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l Nuovo Museo Archeologico di Ugento (Lecce) ha sede nel quattrocentesco convento di S. Maria della Pietà, nel cuore della cittadina, che si sviluppa nel sito dell’insediamento messapico di Ozan. Tra l’VIII e il III secolo a.C. l’abitato visse una fioritura eccezionale, e divenne uno dei centri piú importanti nell’amministrazione e nel controllo del territorio che coincide con l’attuale Salento. Gli spazi espositivi del Museo si distribuiscono su due livelli. Il chiostro, al piano terra, è interamente dedicato all’imponente Tomba dell’Atleta, scoperta nel 1970 sulla via Salentina. La tomba è stata posizionata ricollocando sul basamento le lastre delle fiancate e delle testate dell’originaria forma a cassa. All’interno presenta un’intonacatura con decorazione pittorica a fasce rosse, bianche, blu e nastri ondulati. La copertura, collocata di fianco, è costituita da due lastroni a doppio spiovente, intonacati all’interno. La tomba, detta «dell’Atleta» perché il corredo funerario comprende manufatti legati all’attività ginnica, aveva ospitato due deposizioni, una collocabile tra il 510 e il 490 a. C. e l’altra agli inizi del IV secolo a.C. Le vetrine lungo il perimetro del primo livello conservano poi il corredo bronzeo e ceramico delle due deposizioni, tra cui strigili, una preziosa oinochoe con ansa antropomorfa, un bacino

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Due reperti conservati nel Nuovo Museo Archeologico di Ugento. A sinistra: hydria (vaso per acqua) attica a figure rosse. V sec. a.C. In basso: oinochoe (brocca da vino) trilobata con decorazione sovradipinta. V sec. a.C.

tripode, vasi a figure rosse di produzione attica e protoitaliota e a vernice nera. In altre sale del piano terra sono esposti il plastico della città, il materiale proveniente da sepolture infantili, oggetti rinvenuti in una tomba appartenente a un membro dell’aristocrazia guerriera e una trozzella databile alla seconda metà del V secolo a.C., che è uno dei reperti piú importanti collocati in questo settore. Al primo piano è collocata l’ala dedicata alle necropoli di Ugento e alle mura della città antica. Un secondo spazio è incentrato sui culti indigeni della Messapia: le sette sale espongono oggetti votivi e statuette in terracotta, di età ellenistica, provenienti dal santuario di Artemide, localizzato nei pressi dell’antico porto ugentino di Torre San Giovanni; statuette fittili votive raffiguranti divinità di età arcaica e la copia della statua dello

Zeus di Ugento (vedi «Archeo» n. 354, agosto 2014). Seguono tre sale dedicate alla ceramica medievale di produzione ugentina e una corposa sezione numismatica. A pochi metri dal Museo Archeologico si trova Palazzo Colosso, che conserva una delle poche raccolte storiche pugliesi, formatesi con materiali rinvenuti a Ugento e nel suo territorio nel XIX secolo: è la Collezione Archeologica «Adolfo Colosso», che conta circa 800 reperti, databili tra il VII secolo a.C. e l’età altomedievale. Una parte della collezione è dedicata ai reperti databili tra il VI secolo a.C. e l’età ellenistica (trozzelle e piatti a vernice bruno-rossiccia, tipici del repertorio ceramico indigeno dei Messapi), ed è poi rappresentata la produzione ceramica importata dalla Grecia. Non mancano i reperti scultorei, tra i quali si distinguono una testa di impronta scopadea e un torso maschile. Elemento di punta della raccolta è un capitello dorico con abaco decorato da rosette, strettamente confrontabile con il capitello sul quale era collocata la statua dello Zeus stilita. Giampiero Galasso

Dove e quando Nuovo Museo Archeologico Ugento, largo Sant’Antonio 1 Orario tutti i giorni, 10,00-12,00 e 17,00-21,00 Info tel. 0833 555819 o 554843; cell. 329 3915527; e-mail: info@archeostudio.com


incontri Paestum

i quattro giorni della borsa

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Paestum. La cosiddetta Basilica (tempio di Hera). ospiterà «Digital Museum Expo», esposizione delle tecnologie piú recenti create per i musei del futuro, che si terrà oltre che a Paestum in 4 prestigiosi sedi: Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano (Roma), Biblioteca Alessandrina (Alessandria D’Egitto), Museo Allard Pierson (Amsterdam), City Hall (Sarajevo). La Borsa si conferma un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone Internazionale di Archeologia; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per addetti ai lavori, operatori turistici e culturali, viaggiatori, appassionati; opportunità di business nella suggestiva sede del Museo Archeologico con il Workshop tra la domanda estera e l’offerta del turismo culturale e archeologico (sabato 1° novembre). Nel sottolineare l’importanza del patrimonio culturale come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze: il Paese Ospite Ufficiale nel 2014 è l’Azerbaijan. Altra novità è data dall’attenzione dei media internazionali, che quest’anno si traduce nella presenza quali media partner di Antike Welt, AS., Clio, Current Archaeology, Dossiers d’archéologie, Rutas del Mundo. Infine, la Borsa da questa edizione diventa l’evento ufficiale di «Archeo», il piú importante mensile di archeologia. Per ulteriori informazioni: www.bmta.it a r c h e o 17

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

a XVII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio di Expo Milano 2015, UNESCO e UNWTO, torna a svolgersi nell’area archeologica di Paestum: nella zona adiacente al tempio di Cerere (Salone Espositivo, Laboratori di Archeologia Sperimentale, ArcheoIncontri), nel Museo Archeologico Nazionale (ArcheoVirtual, Conferenze, Workshop con i buyer esteri) e nella Basilica Paleocristiana (Conferenza di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti). La prima novità di questa XVII edizione riguarda il periodo di svolgimento: la Borsa, infatti, solitamente collocata alla metà di novembre, nel 2014 avrà luogo nei giorni 30-31 ottobre 1-2 novembre, in un fine settimana che comprende due festività, al fine di incrementare il numero dei visitatori e dare agli albergatori l’opportunità di offrire pacchetti ad hoc. La XVII edizione è ricca di novità e di contenuti: Social Media & Archaeological Heritage Forum, giovedí 30 ottobre, che ospiterà «Archeoblog. Raccontare l’archeologia nel web», il secondo incontro dei blogger culturali, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo dei beni culturali attraverso i social network; ArcheOpenData Forum. Trasparenza dell’informazione in archeologia, venerdí 31 ottobre, momento di discussione dedicato agli open data; ArcheoStartUp, sabato 1° novembre, presentazione di nuove imprese culturali e progetti innovativi; la mostra ArcheoVirtual, realizzata in collaborazione con la piú importante Rete di ricerca Europea sui Musei Virtuali, V-Must, coordinata da ITABC Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR,


n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

arte preistorica In questo fascicolo viene ripercorsa la storia della scoperta della Grotta Chauvet (vedi l’articolo alle pp. 38-51), al cui interno si conservano testimonianze d’arte preistorica davvero eccezionali. Non poteva esserci occasione migliore, quindi, per proporre una panoramica filatelica con il materiale che riproduce alcuni dei graffiti e delle pitture ritrovati in molti siti francesi, partendo proprio dai pezzi che riguardano Vallon-Pont-d’Arc, la località dove lo speleologo e fotografo Jean-Marie Chauvet li scoprí una ventina d’anni fa nel dicembre del 1994. Il primo francobollo che si riferisce alla Grotta Chauvet, che è anche l’unica emissione della Francia, almeno per il momento, è un annullo automatico del 2 2004 (1); speriamo che per il decennale, il Paese transalpino emetta un francobollo, prassi seguita per altri siti, come vedremo. Ma Grotta Chauvet è stata ricordata anche da un francobollo della Romania del 2001, che raffigura un bisonte (2). Ancora la Romania, il 16 ottobre del 2012, ha utilizzato un annullo a Craiova per ricordare l’arte rupestre (3); l’annullo è stato apposto su una busta privata che raffigura, nel falso francobollo prestampato, un altro dei graffiti di Grotta Chauvet; il pezzo è filatelicamente valido solo per l’annullo (apposto su un vero francobollo raffigurante fiori) e non per l’impronta stampata del francobollo e per il disegno sulla sinistra che sono di fattura privata. Da Vallon-Pont-d’Arc ci spostiamo nella valle della Vézère, nella regione dell’Aquitania, e precisamente nell’altro famosissimo sito definito la «Cappella Sistina» della preistoria: la Grotta di Lascaux, immortalata da un bel francobollo del 1968, ancora francese, qui usato su una cartolina maximum con annullo del giorno di emissione di Montgnac (4). Le grotte della Vézère, patrimonio dell’UNESCO, sono state onorate anche da San Marino nel 1996 proprio per ricordare i 50 anni dell’organizzazione internazionale (5). Ora, ecco altri pezzi che riproducono testimonianze conservate in altre grotte del territorio francese. Un annullo del 1987 (6) mostra il disegno di un bisonte nelle grotte di Les Eyzies, nella regione dell’Aquitania; un francobollo del 1979, sempre di Francia, riproduce i graffiti di animali rinvenuti nella grotta di Niaux, nella regione dei Pirenei (7). Infine, il piú recente in ordine cronologico, è un bel francobollo francese del 2006 che raffigura un mammut e altri animali nei graffiti della grotta di Rouffignac, nella regione del Poitou-Charentes (8).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



calendario

Italia roma Le leggendarie tombe di Mawangdui

Civita Castellana Eracle tra i Falisci

Il sogno dell’immortalità Museo Archeologico dell’Agro falisco, fino al 09.11.14

Arte e vita nella Cina del II secolo a.C. Palazzo Venezia fino al 16.02.15

fiesole Fiesole e i Longobardi

Le Chiavi di Roma La Città di Augusto Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano fino al 12.04.15

Gladiatores e agone sportivo

Armi ed armature dell’impero romano Stadio di Domiziano fino al 30.03.15

Museo Civico Archeologico fino al 31.10.14

In alto: l’area del Foro e dei Mercati di Traiano.

Bolzano Frozen stories

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

Castelnovo ne’ Monti (Re) Antichissima Bismantova

Il sito pre-protostorico di Campo Pianelli. 150 anni di ricerche Biblioteca Comunale «Raffaele Crovi» fino al 02.11.14

chieti Secoli augustei

Messaggi da Amiternum e dall’Abruzzo antico Palazzo de’ Mayo fino all’11.01.15

bologna Il viaggio oltre la vita

Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 03.05.15

Modena Mimmo Jodice. Arcipelago del mondo antico

Artegna Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii Castello Savorgnan fino al 13.11.14

gambettola Dalla fattoria al Palazzone

Mostra fotografica Foro Boario fino all’11.01.15 Statua virile con testa ritratto, da Foruli.

paestum (capaccio) e Santa Maria Capua Vetere Immaginando Città Racconti di fondazioni mitiche, forma e funzioni delle città campane Museo Archeologico Nazionale di Paestum e Museo Archeologico dell’Antica Capua fino al 30.10.14

palermo Del Museo di Palermo e del suo avvenire Il «Salinas» ricorda Salinas 1914/2014 Museo Archeologico Regionale «Antonino Salinas» fino all’08.11.14

ravenna Imperiituro

Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 06.01.15

Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale La mostra si articola in due settori distinti, ma profondamente intrecciati. Il primo, dedicato alla realtà virtuale, è costituito dalla ricostruzione digitalizzata in scala reale del Sarcofago degli Sposi (conservato nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma). Il secondo è piú specificamente dedicato all’ideologia funeraria degli Etruschi e quindi alla ricostruzione del viaggio verso l’Aldilà attraverso l’esposizione di alcuni capolavori del Museo di Villa Giulia (tra cui le pitture della Tomba della Nave) e materiali della Bologna etrusca. Tra i secondi, spiccano tre stele felsinee figurate, di cui una di recentissima scoperta.

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Qui sopra: una delle foto di Mimmo Jodice in mostra a Modena. Qui sotto: placca in avorio con la famiglia di Ottone II. X sec.

Dove e quando Palazzo Pepoli, Museo della Storia di Bologna fino al 22 febbraio 2015 (dal 25 ottobre) Orario ma-do, 10,00-19,00; gio, 10,00-22,00; lu chiuso Info tel. 051 19936305; www.genusbononiae.it


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

tivoli-Villa Adriana Adriano e la Grecia

Völklingen Egitto. Dèi, uomini e Faraoni

torino I Greci a Torino

Gran Bretagna

Villa Adriana tra classicità ed ellenismo Antiquarium del Canopo fino al 02.11.14

Tesori del Museo Egizio di Torino Völklingen Ironworks fino al 22.02.15

Storie di collezionismo epigrafico Museo di Antichità fino al 26.10.14

Londra Antiche vite, nuove scoperte

Vallo della Lucania (SA) Cilento patrimonio dell’umanità

Dalla Preistoria al Risorgimento. Storia di una civiltà Fiere di Vallo, Località Pattano fino al 31.12.14

vetulonia, orvieto e grotte di castro Circoli di Pietra in Etruria Una forma peculiare di sepoltura dell’Italia centrale tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Orvieto, Museo Archeologico Nazionale Grotte di Castro, Museo Civico Archeologico «Civita» fino all’11.01.15

Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 30.11.14

Paesi Bassi leida Medioevo dorato

Rijksmuseum van Oudheden fino al 26.10.14

Svizzera berna Le palafitte

Belgio

Ai bordi dell’acqua e attraverso le Alpi Museo Storico di Berna fino al 26.10.14

Ename L’eredità di Carlo Magno Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30.11.14

Un arco e la sua faretra rinvenuti in un sito palafitticolo e associati al disegno che ne ricostruisce l’utilizzo.

Francia parigi Splendori degli Han

La fioritura del Celeste Impero Musée national des arts asiatiques-Guimet fino al 01.03.15 (dal 22.10.14)

les-eyzies-de-tayac Grandi siti dell’arte maddaleniana

La Madeleine e Laugerie Basse15 000 anni fa Musée national de Préhistoire fino al 10.11.14

Saint-Germain-en-Laye La Grecia delle origini, tra sogno e archeologia Musée d’Archéologie nationale fino al 19.01.15

Germania berlino I Vichinghi

Martin Gropius Bau fino al 04.01.15

In alto: figurina femminile in terracotta policroma. In basso: tre pezzi degli scacchi Lewis. Fine del XII sec.

basilea Roma eterna

2000 anni di scultura dalle collezioni Santarelli e Zeri Antikenmuseum fino al 16.11.14

USA new york Dall’Assiria all’Iberia all’alba dell’età classica The Metropolitan Museum of Art fino al 04.01.15

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l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

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iviamo in un epoca di rimescolamenti geopolitici, alcuni in corso, altri auspicati (o scongiurati, dipende dai punti di vista). Può allora essere utile volgere lo sguardo al passato, non tanto per rincorrere facili soluzioni a dubbi e indecisioni, quanto, semmai, per riconoscervi elementi e circostanze che, ancora oggi, sembrano giocare un ruolo importante nel determinare il quadro e le sorti di Paesi e popoli del nostro stesso continente. È quello che ha fatto la rivista tedesca di divulgazione scentifica SPEKTRUM, interpellando lo storico Patrick Reinard (dell’Università di Marburgo) a proposito di una curiosità degna di nota: come mai infatti – si è chiesta la redazione di SPEKTRUM – l’impero di Roma si fermò alle frontiere della Scozia? E perché gli imperatori non conquistarono mai l’Irlanda, dove, secondo la testimonianza di Tacito, «l’erba era talmente grassa da far scoppiare le mucche»?

hibernia non capta Già alla metà del I secolo d.C., ampia parte del mondo antico era occupata da Roma: l’impero si estendeva dal Mediterraneo alle Isole Britanniche, dalle province dell’Asia Minore all’Africa settentrionale. Solo l’odierna Scozia e, soprattutto, la verde Irlanda non erano state conquistate. Eppure, per la posizione geografica delle due terre (basta osservare una cartina geopolitica dell’impero romano!), quel passo sarebbe apparso piú che comprensibile. E allora, quali furono i motivi di questa mancata espansione imperiale? «Gli storici sono

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sempre stati dell’opinione che l’Irlanda non rientrasse negli interessi di Roma – spiega l’antichista Patrick Reinard – anche se, come ricorda lo stesso Tacito (Agricola I, 24) “l’Hibernia poteva esser debellata e occupata con una sola legione e poche truppe ausiliarie”». E ciò nonostante la storia imperiale appaia caratterizzata da un progetto politico di costante e mirata espansione. Ma, afferma sempre Reinard, questa immagine inganna: «Non esisteva qualcosa che potremmo definire un “imperialismo romano a tutti i costi”. I Romani soppesavano a lungo le motivazioni politiche, militari ed economiche prima di decidere un intervento oltre frontiera». Prendiamo l’esempio delle due spedizioni in Britannia, intraprese da Cesare negli anni 55 e 54 a.C.: «A Roma l’utilità politica e economica dell’impresa di Cesare fu discussa a lungo, fino a giungere alla conclusione che non sussistevano motivi sufficienti a giustificare un maggiore impegno nell’area, tanto piú che la Britannia non rappresentava un pericolo diretto per l’Urbe». Se per Cesare e, poi, anche per Augusto poteva valere lo slogan «Britannia, no grazie», le cose dovettero cambiare con la conquista da parte di Claudio, nell’anno 43 d.C., quando, all’improvviso, la Britannia entra a far parte del mondo romano. «Anche in questo caso, però – spiega Reinard –, le ragioni dell’impresa non erano di ordine militare o economico. L’imperatore Claudio era in cerca di una legittimazione del proprio potere, gli urgeva dunque un qualche successo in politica estera». In seguito, anche l’Hibernia (cosí i Romani chiamarono l’Irlanda) entra a far parte dei luoghi di cui si parla. Dalle fonti (le principali sono

Giovenale e Tacito) risulta che i Romani conoscevano assai bene la topografia dell’isola, che ne apprezzassero la fertilità (vedi il citato riferimento alle vacche grasse), nonché il particolare che in Hibernia non esistessero… i serpenti. Giovenale stesso era stato, con molta probabilità, di stazione in Britannia e, verosimilmente, aveva partecipato a esplorazioni in Hibernia, mentre il suocero di Tacito, Giulio Agricola, era procuratore in Britannia. «Per Tacito, non aver trasformato l’isola in provincia di Roma era stata un’occasione mancata, imputabile alla scarsa visione dell’imperatore Domiziano – afferma ancora Reinard –, ma lo storico tace sulle vere motivazioni del non intervento. Infatti, per estendere la propria influenza su territori e popoli oltre frontiera senza esporsi militarmente, i Romani disponevano di mezzi altrettanto efficaci: per esempio il favoreggiamento di alcune parti amiche della popolazione, con finanziamenti e aiuti militari mirati, cosí da non dover instaurare un dominio politico diretto». Conquistare o meno l’Hibernia era, dunque, una decisione che Roma avrebbe preso dopo un attento esame del rapporto costi/benefici. E se prevalsero le ragioni del no, ciò significa che l’invasione dell’Irlanda era stata valutata troppo impegnativa e troppo poco remunerativa. Per Tacito (che di Domiziano aveva una pessima opinione), la mancata presa dell’Hibernia non era altro che l’ennesima riprova d’inettitudine dell’imperatore che, cosí, aveva derogato al compito di potenziare l’identità ideale dell’impero romano. Su un piano piú concreto, però (e questo Tacito lo… tace), Domiziano aveva dato prova di saper far bene i conti…


Sulle due pagine: le scogliere di Moher, sulla costa occidentale dell’Irlanda, l’antica Hibernia. Nella pagina, in basso: la massima espansione dell’impero romano, al tempo di Traiano (117 d.C.).

Caledonia

Mare del Nord

Hibernia

Mar Baltico

Thracia

Britannia Germania . Bel Inf. up gica Nugdu aS nen ani m sis r Ge Noricum Raetia no Pan Aquitania

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Oceano Atlantico is ns

Lusitania

Epirus

Cilicia

Mauretania Caesariensis

Mar Mediterraneo

Armenia

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Mauretania Tingitana

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ROMA

a Daci Moesia Dalmatia Inf. (Illyricum) Mar Nero Moesia Thracia a Sup. ad oc i

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Tarr ac

Palestina Iudaea Arabia Aegyptus

Mar Rosso

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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

cercando alessandro Dieci volte piú grande del celebre sepolcro attribuito a Filippo il Macedone, il monumentale tumulo in corso di scavo ad Anfipoli ha portato a nuove e sensazionali scoperte. Su chi fosse il titolare della grandiosa tomba, però, gli archeologi mantengono ancora uno stretto riserbo...

A

un anno esatto dalle prime, eclatanti notizie sul ritrovamento della tomba di Alesandro Magno (vedi «Archeo» n. 345, novembre 2013; anche on line su archeo.it), tornano a riaccendersi i riflettori sul tumulo della collina di Kastà, presso Anfipoli (nella Macedonia Centrale). Sarà l’effetto del solleone di agosto, sarà l’annosa questione dell’identità macedone,

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sarà ancora – come affermano i piú maldicenti – che il Primo Ministro greco è alla ricerca spasmodica di consensi, ma i lavori proseguono e continuano a dare frutti davvero significativi. I lettori di «Archeo» ricorderanno che la scoperta del tumulo di Anfipoli, già individuato negli anni Sessanta del secolo scorso da Dimitrios Lazaridis, era stata annunciata nel 2012 dalla

Anfipoli

GRECIA Atene

Mar Ionio

Mare Egeo


responsabile degli scavi, la Direttrice della 28a Soprintendenza alle Antichità Preistoriche e Classiche, Katerina Peristeri.

quant’è piccola verghina... Il tumulo è un maestoso apprestamento funerario dell’ultimo quarto del IV secolo a.C., dotato di un peribolo circolare di marmo bianco di Taso che ha un diametro di 160 m e una circonferenza di 498 m: il decuplo delle dimensioni del tumulo di Verghina attribuito a Filippo II di Macedonia (vedi «Archeo» n. 330, agosto 2012; anche on line su archeo.it), tanto per dare un’idea della monumentalità di questa costruzione. Si tratta di un rinvenimento talmente imponente da non poter passare inosservato; e cosí le autorità greche, soprattutto la classe politica, stanno esercitando forti pressioni perché si proseguano gli scavi a ritmo

In questa pagina: Anfipoli. Le teste delle cariatidi venute alla luce nell’anticamera della tomba monumentale che si ipotizza possa aver accolto le spoglie di Alessandro Magno. Nella pagina accanto: la coppia di sfingi che sormonta l’architrave della porta d’ingresso. Le teste e le ali delle due sculture erano state inserite a parte e, al momento, solo le seconde sono state recuperate.

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serrato, spesso ignorando le proteste degli archeologi, che richiedono piú tempo e una maggiore tranquillità, cosí da poter lavorare secondo le necessità che la disciplina di scavo imporrebbe. Nel frattempo, tra polemiche e curiosità, i rinvenimenti non si fanno attendere e sono senz’altro molto interessanti. Al momento in cui scriviamo, è stato riportato alla luce l’intero peribolo ed è stata individuata la facciata del monumento funerario, costituita da un ingresso preceduto

volta e con un pavimento composto da ciottoli disposti a formare motivi rettangolari e quadrati circondati da rombi. In questo vano si è inoltre scoperta un’ulteriore facciata, che doveva condurre a un’altra camera interna, dotata di architrave decorato da due belle figure di cariatidi in marmo di Taso, il materiale che predomina nel tumulo. Un aspetto particolarmente interessante di questi ritrovamenti è l’abbondanza di reperti che conservano il colore originale: dalla

da un ampio corridoio (4,5 m di larghezza) fiancheggiato da ortostati.

fascia affrescata sulla parte inferiore della facciata d’ingresso fino ai capitelli posti a lati della porta e agli elementi decorativi del soffitto dell’anticamera, con motivi a rosette rosse dal centro dorato. La conservazione dei colori antichi, una delle principali preoccupazioni del team di archeologi e restauratori al lavoro, va di pari passo con le opere di contenimento delle ingenti masse di terreno e di consolidamento delle strutture; inoltre le acque piovane,

sfingi come guardiani La porta d’ingresso, che era sigillata da lastre litiche, è sormontata da un architrave dominato da una coppia di sfingi dalle ali e teste un tempo inserite a parte (al momento sono state ritrovate soltanto le ali). Rimosse le lastre che bloccavano l’ingresso, si è giunti a un’anticamera coperta a

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abbondanti in questo periodo, sono convogliate in condutture che ne evitano il ristagno e tutta la facciata esterna è stata protetta da una copertura.

una tentazione irresistibile Le scoperte della collina di Kastà sono sorprendenti; non è facile resistere alla tentazione di tirare a indovinare chi fosse il titolare (o i titolari?) di questa tomba grandiosa. I nomi piú spesso chiamati in causa nelle ultime

Anfipoli (Macedonia, Grecia). Il grandioso tumulo in corso di scavo sulla collina di Kastà. settimane sono quelli di Rossane, moglie di Alessandro Magno, e dell’ammiraglio dello stesso condottiero, Nearco. Gli archeologi per il momento mantengono uno stretto riserbo e non si pronunciano, in attesa di entrare nella camera funeraria. Non resta dunque che aspettare: l’avventura continua.



arte preistorica • grotta chauvet

nella tana

dell’orso vent’anni fa venne scoperta, nella Francia sud-orientale, una grotta con straordinarie pitture preistoriche. Oggi, un ambizioso progetto sta creando una «copia perfetta» di questo santuario dell’arte paleolitica, la cui apertura al pubblico è prevista per la primavera del 2015 di Daniela Fuganti

Grotta Chauvet-Pont-d’Arc (Ardèche, Francia sud-orientale). Una delle pareti della grande sala di fondo, sulla quale sono raffigurati animali di varie specie, tra cui si riconoscono rinoceronti (a sinistra) e felini (a destra). Grazie alle datazioni al 14C, è stato possibile attribuire le pitture a

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genti di cultura aurignaziana, che le eseguirono 35 000 anni fa circa. Salvo diversa indicazione, tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono al sito e le figure riprodotte sono dunque attribuibili al medesimo orizzonte culturale.


S

iamo nell’Ardèche, nel SudEst della Francia. L’altopiano calcareo che fa da corona al maestoso Pont d’Arc – un arco naturale ritagliato nella roccia, formatosi almeno 500 000 anni fa – è il paradiso degli speleologi: le cavità sotterranee non si contano. Qui, il 18 dicembre 1994, Jean-Marie Chauvet, Eliette Brunel e Christiane Hillaire scoprono una spettacolare «grotta dipinta»: la piú antica a oggi rinvenuta in Europa, con decorazioni parietali di bellezza e perizia tecnica eccezionali. «Quando sono entrato nella caverna per la prima volta, pochi giorni dopo il rinvenimento, ho avuto l’impressione – ricorda Jean-Michel

Geneste, specialista in arte rupestre, direttore del Centro nazionale francese della preistoria, nonché responsabile dell’équipe che studia attualmente l’ormai celebre antro, iscritto da pochi mesi nella lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO – di trovarmi di fronte a una replica della perfezione di Lascaux, considerata fino ad allora l’apogeo artistico della creatività preistorica».

crollano le certezze «Ma tutte le certezze riguardo all’arte di quel periodo, il Paleolitico Superiore, sono andate in frantumi quando si è constatato che i capolavori immortalati sulle pareti della Grotta Chauvet sono piú antichi

rispetto a quelli di Lascaux di una buona ventina di millenni, essendo stati dipinti 37 000 anni fa». Si scopre cosí che gli uomini appartenenti alla cultura dell’epoca, l’Aurignaziano (che prende nome dal sito di Aurignac, nell’Alta Garonna, ed è la prima del Paleolitico Superiore e dunque riferibile alla specie Homo sapiens, l’uomo anatomicamente moderno, n.d.r.) erano capaci di astrazione intellettuale. Che padroneggiavano tecniche complesse, come quella dello sfumato e della prospettiva, in grado di dare volume alle rappresentazioni, ma perfino di raffigurare un autentico dinamismo. Soprattutto, ci si rende conto che anche l’arte preistorica

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arte preistorica • grotta chauvet

rifiuta la nozione di progresso, e che, d’ora in poi, non potrà piú essere letta come un movimento evolutivo lineare, bensí come un susseguirsi di apogei e di declini. E che quindi Chauvet costituisce appunto un picco di straordinaria riuscita tecnica e artistica. Chiusa 22 000 anni fa da una frana, che l’ha sigillata e fatta pervenire fino a noi in condizioni pressoché perfette, la cavità sotterranea si compone di una successione di am-

Inghilterra Germania Parigi

Francia

Oceano Atlantico

Italia

Grotta Chauvet Corsica Mar Mediterraneo

Spagna

pie sale e gallerie dalle pareti dipinte con quasi mille pitture e incisioni, raffiguranti una ventina di specie animali immortalate con varie tecniche pittoriche, alcune inedite. Come quella usata per creare il pigmento prodotto impastando il carbone di legno con il bianco dell’argilla presente sul calcare delle pareti, che è capace di creare sfumature, secondo le proporzioni del carbone e il vigore dei gesti, dal bruno profondo al marrone.

Nella pagina accanto: un particolare della sala di fondo, con le figure di felino. A Grotta Chauvet sono attestate iene e pantere, mai rappresentate in altri siti dell’Ardèche. In basso: planimetria della Grotta Chauvet, con l’ubicazione delle pitture e delle incisioni piú importanti. 1 Pannello del bue muschiato

6. Pannello dei leoni e dei rinoceronti

6

1

2 Pannello del cavallo inciso

7

7 Pannello dei cavalli e dei Cervidi

2

8 3

3 Pannello della pantera

4 Segni rossi

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4-5

9

8 Fregio dei rinoceronti rossi

5 Stalattite delle farfalle

9 L’orso rosso


Si dipinge con le dita e con le mani. do di datare soltanto il risultato di avanzare; persi per strada gli altri membri della famiglia, la mammaAlcune grandi forme sono disegna- alcune attività umane. te tramite centinaia di punti realiz- Il suolo – 9000 mq circa che si svi- orso continua il suo cammino in zati con la pelliccia degli animali, luppano per una lunghezza di 800 un’altra galleria… In fondo all’anoppure spruzzando il colore con la m – è letteralmente coperto di ossa, tro, sul grande pannello centrale – bocca. Quest’ultimo metodo viene crani e impronte degli enormi orsi uno dei piú spettacolari –, un’orda usato anche per la rappresentazione delle caverne (l’Ursus spelaeus), che di leoni insegue un gruppo di bi«in negativo» delle numerose forme lí dentro passavano l’inverno.Tracce sonti. Ma c’è anche una pantera, di mani, ottenuta colorando la pa- di carbone di legno, usato per dar mai comparsa finora in nessun’altra rete intorno alla mano con tintura luce alle torce, lasciano immaginare immagine dell’Ardèche! L’impronrossa o nera (mentre la rappresenta- le condizioni di misteriosa oscurità ta d’una mano color rosso ematite, ripetuta tante volte, apzione «in positivo» si otpartiene sempre alla stessa tiene applicando sulla suGli artisti che dipinsero persona: un uomo alto perficie rocciosa la mano circa un metro e ottanta, intrisa di colore). Le canella grotta si servirono riconoscibile dal mignolo scate di cristalli – drapun po’ storto… peggi di travertino, stalatdi mani, «pennelli», Quasi la metà degli anititi e stalagmiti, che decoma anche della bocca! mali è raffigurata in movirano la grotta – sono ogmento. Per quanto riguargetto di particolare attenzione da parte degli studiosi. La nelle quali l’artista concepisce i suoi da il solo cavallo, per esempio, la datazione delle stalattiti è di prima- disegni, mai disposti a caso. Mam- testa è effigiata in un centinaio di ria importanza per correlare la cre- mut, leoni e orsi delle caverne, ri- posizioni. I felini offrono uno stuscita delle stalagmiti, le varie fasi di noceronti, cavalli, bisonti, Cervidi, pefacente repertorio di espressioni occupazione animale e umana, e le insieme a un’infinità di enigmatici facciali: variazioni discrete, quando variazioni climatiche: e ciò nella segni geometrici, sembrano sorgere viene messo in evidenza l’impercetprospettiva di un quadro cronologi- dalla roccia. Si vede un cavallo che tibile spostamento di un orecchio, co che sia il piú completo e rigoro- incede per riapparire nettamente di un occhio o della coda; oppure so possibile, in quanto basato su rimpicciolito, una decina di metri spettacolari, quando si tratta di rapiapprocci multidisciplinari indipen- piú lontano, nell’atto di andarsene. de andature. Si percepisce che gli denti, e non unicamente sul meto- Una famiglia di orsi, maschio e artisti sono abituati a osservare la do del radiocarbonio, che è in gra- femmina con il piccolo, sembrano natura. I piú dotati riescono a dilaa r c h e o 41


arte preistorica • grotta chauvet

tare l’immediatezza di un breve istante tramite la sovrapposizione di immagini successive che, associate fra loro, sono capaci di dare vita – secondo Philippe Sohet, professore del dipartimento di Comunicazione Sociale dell’Università del Québec di Montréal – a una vera e propria «narrazione iconica». Si tratta di racconti che costituirebbero la prova della sofisticata modernità dell’uomo del Paleolitico Superiore.

La strana coppia In questo regno della penombra, immerso nelle viscere della terra, si respira un’atmosfera densa di riferimenti sessuali. Cosí una coppia di leoni assorti nei preliminari dell’accoppiamento si confronta con un’altra, di concezione piú complessa, formata da un bisonte dalle braccia umane sovrapposto a un corpo di donna visto di fronte, con gambe e triangolo pubico e vulva, ma terminante con fattezze di leone. Un animale, quest’ultimo, che doveva affascinare le comunità aurignaziane, e con il quale i nostri antenati condividevano una preoccupazione fondamentale: l’accesso all’alimentazione carnea, ossia la predazione. Secondo l’antropologa Joëlle Robert-Lamblin, se ci si basa sulle analogie con i cacciatori-raccoglitoripescatori delle regioni artiche, le

scene di caccia potrebbero essere un’identificazione allegor ica dell’uomo cacciatore con il leone delle caverne, incarnazione della virilità, piú che una sorta di reportage naturalistico. La statuetta aurignaziana, scolpita nell’avorio di mammut, di uomo (o donna) con la testa di leone, ritrovata a Hohlenstein-Stadel in Germania nel 1939, ed esposta al museo di Ulm, ne sarebbe la prova piú eclatante. «Quindici anni di indagini e studi su questo sito, nel quale tutto è rimasto perfettamente in loco fin dall’inizio – continua Jean-Michel Geneste – hanno modificato il nostro sguardo. Abbiamo imparato a vedere le cose secondo un’ottica diversa. Dall’inizio delle nostre esplorazioni a oggi, la grotta ha fornito una grande ricchezza di dati archeologici: innanzitutto, una densità di riproduzioni parietali davvero eccezionale per varietà tematica, tecnica e stilistica; inoltre, al suolo, numerose vestigia di attività umane (carbone, focolai, oggetti litici, tracce umane e animali) meravigliosamente ben conservate. In questi anni abbiamo potuto riflettere, e capire meglio come vivevano i nostri diretti antenati Cro-Magnon (una delle forme di Homo sapiens, che prende nome dai resti scheletrici rinvenuti nell’omonimo riparo sotto roccia sco(segue a p. 46)

La composizione nella quale si distingue una coppia di leoni, affiancata da una seconda coppia composta da un bisonte con braccia umane e una figura femminile. A sinistra: figure d’orso che sembrano comporre una «famiglia». All’epoca della realizzazione delle pitture, la grotta doveva essere utilizzata come tana da plantigradi appartenenti alla specie Ursus spelaeus, l’orso delle caverne.

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arte preistorica • grotta chauvet

seguendo un fil di fumo... Tutto si può dire, ma non che il rinvenimento di uno degli antri preistorici piú straordinari al mondo sia stato un evento puramente casuale. Si tratta, piuttosto, del frutto della costanza, della testardaggine e della professionalità di tre amici uniti da una stessa grande passione: la speleologia. Quel giorno, il 18 dicembre 1994, Jean-Marie Chauvet (appena nominato responsabile-guardiano delle « grotte istoriate » dell’Ardèche), Eliette Brunel (corrispondente delle Antichità Preistoriche, organo che sostituiva allora la DRAC, Direzione generale affari culturali, della regione Rhône-Alpes), e Christian Hillaire (scopritore, della Grotta delle Deux Ouvertures, dichiarata Monumento Storico), trascorrono il loro week end – come quasi sempre quando il tempo lo permette – perlustrando gli angoli piú reconditi del famoso altopiano calcareo francese, alla caccia di qualche piccolissima corrente d’aria dentro gli anfratti: indizio, generalmente, di un passaggio sotterraneo. Augurandosi un miracolo… I tre all’epoca hanno già al loro attivo numerose scoperte di cavità dipinte, alcune molto importanti. Benché conoscano ormai a memoria la zona chiamata «cirque d’Estre», Jean-Marie Chauvet insiste per

tornarci. Vuole riannusare quel luogo di cui avevano passato al setaccio ogni angolo, compreso il diverticolo destinato a sfociare – come sapranno fra poco – nella «Grotta Chauvet ». Un anfratto conosciuto da tutti, in verità: persino dalle coppiette che trovano lí il modo di isolarsi. Ma quel giorno Jean-Marie minaccia di andarci da solo, se gli amici non hanno voglia di accompagnarlo. In alto: una grande figura di bisonte e, sulla sinistra, alcuni felini. A sinistra: un settore nel quale si riconoscono un rinoceronte, un bisonte, visto di prospetto, e una coppia di felini. Nella pagina accanto: due crani d’orso, uno dei quali fu intenzionalmente collocato su un masso, componendo una sorta di altare.

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Giunti sul posto, i tre bruciano una spirale anti-zanzare davanti al condotto, precedentemente schedato, presso il quale avevano già effettuato varie volte l’operazione, senza successo. Ma questa volta si accorgono che il fumo si dirige verso l’esterno, che una leggera corrente d’aria filtra attraverso la ghiaia, e questo li induce ad avviare lo sgombero dei detriti. A turno, iniziano a scavare uno stretto passaggio, allungando le braccia in

avanti nell’asse del condotto, e tenendo la testa verso il basso, con la lampada frontale che si sposta continuamente di traverso. Sempre facendo la massima attenzione a ogni eventuale allargamento del budello, e sempre sperando di mettere le mani sul sasso la cui rimozione aprirà un enorme spazio. Come per tutti gli speleologi, ci vogliono muscoli, cervello, passione, e anche un briciolo di follia. Poco a poco, la strettissima galleria prende forma. Dopo molte ore e sette metri di scavi, incessanti va a vieni per sgombrare il passaggio dalla terra, e innumerevoli contorsioni, è Eliette – la piú minuta – che riesce a calarsi in una svasatura che le permette di alzarsi in piedi. Cosí le si spalanca di fronte la visione dell’insperato! Un promontorio, con un grande vuoto davanti a sé, e, sotto, una grande sala. Un sito straordinario, nulla in comune con le grotte dei dintorni. L’eco rivela che la sala non può essere isolata. Dunque cominciano tutti e tre con cautela, togliendosi le scarpe per preservare il suolo e la sua calcite immacolata, a penetrare nell’antro in fila indiana. Intorno a loro il suolo ondulato, modellato a forma di catini ovoidali: altrettante tane per gli orsi che svernano nella caverna… Ma ancora una volta l’emozione piú forte tocca a Eliette: è lei a scorgere per prima due tratti in ocra rossa disegnati su una parete. Anche gli uomini erano passati di lí, ma non li avevano notati. A questo punto lo sguardo dei tre cambia immediatamente, si fa ancora piú attento, e le emozioni si susseguono. Qui appare un orso, piú lontano una iena accompagnata da una pantera: animali mai raffigurati nelle altre grotte dell’Ardéche precedentemente visitate. Ed ecco una sala con un cranio d’orso disposto su un sasso, come si trattasse d’un altare. Non lontano, il disegno di una sagoma di bisonte, interamente coperta di macchie rosse. Appena tornati all’aria libera, ormai a notte fonda, l’evidenza si manifesta improvvisamente ai tre amici: sono stati in un santuario intatto, uno spazio rimasto inviolato per decine di migliaia di anni. Pochi giorni dopo, il 29 dicembre, saranno loro a guidare in una visita indimenticabile tre personalità di primo piano: Jean Clottes, all’epoca consigliere scientifico del ministero della Cultura per l’arte preistorica; Jean-Pierre Daugas, conservatore generale della DRAC della regione Rhône-Alpes; e Bernard Gély, responsabile per l’archeologia del dipartimento dell’Ardèche. Il resto è storia. Jean Clottes – molto emozionato – certificherà l’autenticità della magnifica caverna, che prenderà il nome del suo scopritore principale e sarà battezzata «Grotte Chauvet». a r c h e o 45


arte preistorica • grotta chauvet

arte preistorica: una cronologia 10 000 anni fa

Maddaleniano superiore

Teyjat

Maddaleniano medio 15 000 anni fa Font-de-Gaume, Niaux, Cap-Blanc, Altamira (fase piú recente) Maddaleniano antico

20 000 anni fa Solutreano Lascaux Tête-du-Lion, Altamira (fase piú antica) 25 000 anni fa Gravettiano

Cussac

Cosquer, Gargas

30 000 anni fa

Aurignaziano

Chauvet-Pont-d’Arc, Cellier, La Grèze

35 000 anni fa

Parigi

Nantes

O c eano At l a ntico

Teyjat Cellier Font-de-Gaume Cussac

F R A N C I A Cap-Blanc

La Grèze Lascaux Bordeaux Cougnac

niente è piú come prima A colloquio con Jean Clottes Nato nel 1933 a Espéraza (Aude), Jean Clottes è riconosciuto come uno dei massimi esperti d’arte preistorica del Paleolitico a livello mondiale. Oltre a essersi occupato della Grotta Chauvet, ha condotto studi di grande importanza, tra gli altri, sui complessi di Cosquer e Niaux. Ha insegnato in numerosi atenei, in Francia e all’estero, e, dal 2009, è presidente del Symposium «Lascaux et la conservation de l’art préhistorique».

◆ Professor Clottes, che cosa è

cambiato con la scoperta della Grotta Chauvet? Se fosse avvenuta cinquant’anni fa, la scoperta sarebbe stata importantr, ma non tale da modificare sostanzialmente la concezione che si aveva dell’arte preistorica. Si sarebbe pensato al periodo maddaleniano (18-11 000 anni fa), solutreano (25-18 000 anni fa), oppure gravettiano (29-20 000 anni fa). Oggi, invece, grazie al radiocarbonio (14 C), sappiamo che questi capolavori sono stati eseguiti in epoca aurignaziana, cioè nel periodo piú antico del Paleolitico Superiore. Cambia cosí la nostra concezione dell’arte preistorica. Fino a ieri, si riteneva che le genti aurignaziane fossero piuttosto rozze, e che avessero poi conosciuto un’evoluzione nei millenni. Ma Grotta Chauvet ci mostra che non è cosí, che l’epoca aurignaziana ha rappresentato un picco di creatività in cui operavano grandi artisti, grandi talenti,

Altamira

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ALL

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Chauvet-Pont-d’Arc Porto

POR

Lisbona

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Gargas

Tête-du-Lion Niaux

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Marsiglia Barcellona

Ma r Medi terra neo

A sinistra: cartina con la distribuzione dei piú importanti siti d’arte preistorica compresi nella regione franco-cantabrica. Nella pagina accanto: l’impronta di un orso in un settore della grotta sfruttato come tana dall’animale.


autentici geni, e anche maestri capaci di trasmettere il loro mestiere agli allievi piú dotati. Questa constatazione ha sollevato molte polemiche. Ci sono colleghi secondo i quali, nonostante le prove ormai inoppugnabili circa la datazione di Chauvet, la nuova interpretazione sarebbe insostenibile. ◆ Dunque, già fra i primissimi Homo sapiens esistevano grandi artisti… Le nuove acquisizioni contribuiscono a spiegare meglio ciò che si sapeva già da settant’anni: nel Giura svevo, in Germania, negli strati archeologici corrispondenti alla cultura aurignaziana (42-32 000 anni fa), si erano trovati oggetti molto raffinati, fra cui il famoso uomoleone scolpito in un avorio di mammut antico di circa 40 000 anni, rinvenuto nel sito di Hohlenstein-Stadel. Ma allora ci si era limitati a pensare che nel Paleolitico superiore la capacità di lavorare gli oggetti precedesse quella delle creazioni pittoriche. ◆ Esistono in Europa altre grotte della stessa epoca di Chauvet ? Cinque anni fa, a Coliboaia in Romania, sono venute alla luce alcune rappresentazioni pittoriche e iconografiche, datate a 35-32 000 anni fa con il 14C, simili a quelle di Chauvet. Un’altra prova che la specie umana è stata creativa fin dagli inizi dell’arte rupestre, la quale ormai ci appare, via via che si susseguono le scoperte, come

un fenomeno culturale «unitario» dell’era glaciale. ◆ Si può spiegare la ragione del ruolo cosí significativo del leone nell’arte aurignaziana? A quell’epoca il leone delle caverne era un animale impressionante, molto piú grande dell’attuale e aveva sicuramente un ruolo nelle credenze religiose. Quale, di preciso, ancora non si sa. Di certo, questa era una particolarità dell’Aurignaziano perché piú tardi, nel Maddaleniano e nel Gravettiano, il leone si incontra molto piú raramente. ◆ Come vivevano i primi Homo sapiens? Erano cacciatori-raccoglitori ben organizzati: gli uomini alla caccia e le donne al raccolto (anche se, probabilmente, le seconde partecipavano anche alle battute, per esempio radunando le prede, cosí da facilitarne l’abbattimento). Si spostavano in piccoli gruppi, come avviene ancora oggi fra gli aborigeni australiani, o in Amazzonia. ◆ Molte sono le teorie sul significato dei dipinti parietali preistorici. Lei avanza l’ipotesi che possano esprimere credenze e pratiche sciamaniche... Come già detto, i popoli delle ere glaciali erano cacciatoriraccoglitori, e lo sciamanesimo è stato, fino al XX secolo, la religione piú diffusa al mondo in simili culture. L’ipotesi secondo la quale le genti del Paleolitico Superiore avessero pratiche e credenze sciamaniche è dunque statisticamente la piú probabile. Inoltre, questa religione

era particolarmente diffusa in tutto il Nord America e in gran parte del Sud America. Le Americhe sono state popolate a partire della fine del Paleolitico Superiore: se ne può dedurre che certe credenze ancestrali si siano perpetuate nei millenni. Dopo tutto, la grande unità culturale dell’arte delle caverne europee, per un periodo di circa 25 000 anni, è un dato di fatto che testimonia la lunga persistenza delle religioni, al di là delle evoluzioni «tecniche». ◆ Infine, perché una tale concentrazione di grotte proprio sull’altopiano dell’Ardèche? Se qui ci sono caverne e ripari di tutte le epoche preistoriche, c’è una buona ragione: il Pont d’Arc, il ponte naturale ritagliato nella roccia sopra il fiume Ardèche, che somiglia a un mammut immortalato nella pietra. Quando si crea un fenomeno geologico di questa portata, nascono sempre leggende, e il sito diventa come un luogo sacro. Basti pensare che la sua sagoma inconfondibile si staglia da almeno 500 000 anni…

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arte preistorica • grotta chauvet

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perto in Dordogna, n.d.r.). Abbiamo molte piú informazioni su come gli uomini convivevano con gli animali: con i giganteschi orsi delle caverne, in particolare, ma anche con i lupi, frequentatori a loro volta della cavità sotterranea».

l’uomo, un animale come tanti Stiamo parlando di un’era glaciale durante la quale si registrano temperature massime di 5° C. Uomini e donne sono pochi, sull’intero pianeta non arrivano a 1 milione: sono animali fra gli altri. A Chauvet infatti, le rare rappresentazioni di esseri umani sono sempre caratterizzate almeno per metà dalla presenza di questi vicini che permettono agli uomini di vivere, di mangiare e di

In alto: particolare di una grande composizione raffigurante le teste di quattro cavalli, che appaiono rese con un sapiente gioco di sfumature. Nella pagina accanto: altre immagini di cavalli, che presentano una tecnica di realizzazione analoga. Entrambe le scene si trovano nel settore della grotta intitolato a Christian Hillaire, uno degli scopritori del sito.

vestirsi. Con gli animali si stabiliscono relazioni di vicinanza e di scambio, il loro comportamento è fonte quotidiana di ispirazione. Ma nella lotta per la sopravvivenza, grazie al suo cervello, l’uomo riesce ad avere il sopravvento, come dimostra il fatto – sottolinea Geneste – che oggi noi siamo qui. Da oltre cent’anni, cioè da quando a r c h e o 49


arte preistorica • grotta chauvet

Una replica in alta fedeltà La Caverne du Pont d’Arc, ovvero la fedele copia in scala 1:1 della Grotta Chauvet, è stata realizzata servendosi della tecnica dell’anamorfosi, che consiste nel compattare in soli 3000 mq la totalità della superficie dell’antro originale (che, come detto nell’articolo, ne misura circa 9000). I rilievi delle pareti sono stati restituiti al millimetro, e le pitture, incisioni e rappresentazioni piú importanti, come anche gli elementi paleontologici e geologici essenziali, sono stati riprodotti a grandezza naturale, a partire dagli originali digitali. Una volta aperta al pubblico, la replica potrà essere visitata seguendo un percorso che si snoda su una passerella scandita da 10 «stazioni», che permetteranno di osservare i diversi complessi figurativi. Come è stato piú volte ribadito dai curatori del progetto, la Caverne du Pont d’Arc, oltre a consentire la tutela della grotta originale, potrà favorire lo sviluppo del turismo culturale nella regione, con positive ricadute sull’occupazione. Info: lacavernedupontdarc.org

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Sulle due pagine: immagini del cantiere che sta portando a termine la realizzazione di un facsimile di Grotta Chauvet, la cui inaugurazione è prevista per l’aprile 2015. In particolare, si noti (nella pagina accanto, in basso) il confronto tra l’incisione originale di un cavallo e la copia, la cui fedeltà è stata assicurata dalle moderne tecnologie adottate nel rilievo sistematico della grotta.

arte in 3D Alla realizzazione della replica della Grotta Chauvet si è accompagnata, tra le altre, la pubblicazione di Chauvet-Pont d’Arc: le premier chef-d’œuvre de l’humanité révélé par la 3D, opera che, come si intuisce dal titolo si è avvalsa anche del ricco repertorio di immagini tridimensionali acquisite per ottenere una copia perfetta delle pitture e delle incisioni originali. Curato da Pedro Lima, il volume, disponibile anche in lingua inglese e riccamente illustrato, ripercorre l’intera storia del sito, dal momento della sua scoperta sino alla decisione di dare vita alla Caverne-Pont-d’Arc, ormai prossima all’inaugurazione. Info lepremierchefdoeuvre.com

di questi racconti figurati avvicinabili a una vera e propria scrittura, emerge con evidenza il bisogno di comunicare che accomuna gli abitanti del pianeta di 40 000 anni fa, i quali producono immagini contemporaneamente in luoghi diversi, e senza relazione fra loro. Non hanno la scrittura, ma ci sono gli animali. Gli specialisti evidenziano che a Chauvet non vengono disegnate tutte le specie, ma solo una ventina, scelte fra i mammiferi piú impressionanti: mammut, rinoceronti, cervi, orsi e leoni delle caverne, per citarne solo alcuni. E ci sono fondati motivi per ipotizzare che questi animali corrispondano ad altrettanti simboli.

Una scelta obbligata Gli studi su questo sito inesauribile sono appena all’inizio, e non mancheranno ulteriori sorprese. La grotta non è mai stata aperta al pubblico per non innescare fenomeni di degrado simili a quelli che hanno portato alla chiusura della Grotta di Lascaux (vedi «Archeo» n. 276, febbraio 2008; anviene riconosciuta che on line su archeo.it). Si potrà l’esistenza di un’ar- però visitarne il facsimile, in via di te rupestre, le ragio- completamento, la «Caverne du ni che hanno dato Pont d’Arc» (vedi box a p. 50). Sarà vita a questi affre- un capolavoro, assicura l’équipe di schi in tempi cosí archeologi, geologi, specialisti remoti alimentano della preistoria, artisti: una copia vivi dibattiti. Rapi- perfetta, capace di restituire emodamente scartata l’ipotesi di esse- zioni, sensazioni uditive, umidità, re alle prese con una creatività luce e perfino odori! fine a se stessa, varie teorie si sus- Il progetto, uno dei cantieri piú seguono: magia della caccia, tote- ambiziosi operativi in Francia, mismo, animismo, sciamanesimo. comprende la creazione di un Quest’ultima tesi – basata sulla «Centre de découverte» (presso il concezione fluida e permeabile quale sarà possibile familiarizzare delle cose, sull’esclusione di bar- con il Paleolitico, la fauna, la flora riere rigide fra uomini, animali, e l’umanità di 37 000 anni fa), e, oggetti e spiriti – viene sostenuta inoltre, un polo pedagogico, uno da Jean Clottes, specialista di fama spazio per le mostre temporanee, mondiale dell’arte rupestre (vedi un ristorante e un punto vendita. L’insieme delle costruzioni, visto l’intervista alle pp. 46-47). Oggi la figura centrale dell’ani- dall’alto, somiglierà all’impronta male e il suo ruolo non chiara- di un orso, in onore del vero pamente definito rispetto alle varie drone di casa della grotta Chauriproduzioni sono al centro della vet-Pont-d’Arc. L’apertura è preriflessione scientifica. Nell’analisi vista per il 25 aprile 2015. a r c h e o 51


civiltà cinese • la lacca

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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Specchio (a sinistra) e scatola (nella pagina accanto) in lacche policrome. Dinastia Ming (1368-1644). Collezione privata.


IL ROSSO E IL NERO al pari della giada o dei rotoli dipinti, la lacca è uno dei «biglietti da visita» della cultura artistica cinese. ma quando ebbe inizio la sua produzione? e, soprattutto, È corretto attribuirne la lavorazione al solo impero celeste? di Marco Meccarelli

U

na delle piú antiche testimonianze del fascino esercitato in Europa dalle arti orientali proviene dal mercante e viaggiatore fiorentino Francesco Carletti (1573-1636), il quale notava con profondo stupore come fosse: «Tutto indorato e rabescato bizzar-

ramente sopra una vernice nera composta d’una materia che si cava dalla scorza d’un albero [...] e diviene soda talmente che regge all’acqua, ed ha in sé una lucentezza cosi mirabile che uno vi si specchia dentro benissimo» (da Jacopo Carlieri, a cura di, Ragionamenti di Francesco Carletti Fiorentino sopra le

cose da lui vedute ne’ suoi viaggi si dell’Indie Occidentali, e Orientali come d’altri paesi…, Firenze 1701). La forte impermeabilità all’acqua e un considerevole grado di resistenza agli acidi e al calore, hanno permesso alla lacca di divenire il materiale piú idoneo ai rivestimenti protettivi: a r c h e o 53


civiltà cinese • la lacca

si tratta, in pratica, di una delle prime o forse della prima materia «plastica» al mondo di cui sia stato fatto uso. Ma cosa si intende per lacca? Il termine deriva dal latino medievale, che prende origine dall’arabo (lakk, di provenienza persiana) e dal sanscrito (laksa o raksa). Al mondo esistono due tipi principali di lacche: una è prodotta da alcune specie di insetti omotteri, allevati sin dall’antichità su piante (acacia, butea, ecc.) coltivate nella zona indiana e in Asia sud-orientale; viene comunenemente detta «lacca rossa»

o anche «gommalacca», per il colorante rosso (laddía) e per le sue caratteristiche di durezza, brillantezza e solubilità. L’altra invece, tipica dell’Estremo Oriente, viene chiamata di solito «lacca vegetale» ma anche, impropriamente, «gommalacca», ed è una resina lattiginosa estratta per incisione dalla corteccia di alcune piante (Rhus verniciflua o vernicifera, ecc.), che al contatto con l’aria, una volta filtrata, si coagula e, imbrunendo, assume un aspetto pastoso.Viene poi lavorata, con o senza aggiunta di pigmenti, mentre è ancora allo stato

plastico per ricavarne oggetti, o viene usata come vernice, in strati sottilissimi sovrapposti in gran numero.

un passaggio significativo Ma con il termine «lacca» ci si riferisce anche a quegli oggetti, di uso domestico o sacro, prodotti in Oriente, con cui veniva ricoperto un nucleo, per lo piú di legno leggero e sottile e accuratamente levigato, sovrapponendovi numerosi strati di lacca vegetale, su cui venivano inserite eventuali decorazioni e incrostazioni. Il passaggio è significativo perché la materia prima, la lacca, va a denominare anche la decorazione stessa e persino il procedimento con cui la si ottiene, andando a contrassegnare, per estensione, anche l’oggetto artistico: da qui nascono i vari «cofanetti di lacca» o la «lacca incrostata di madreperla», cosí come la «lacca con venature dorate» o ancora la «lacca cancellata» (detta suri hagashi dai Giapponesi, dal fondo nero, decorata con sottili venature evanescenti in rosso) o la «lacca secca» (jiazhu), procedimento anticamente praticato in Cina, consistente nel modellare statue con stoffe imbevute di lacca su un sostegno di arNella pagina accanto: ciotola in legno rivestita con lacca rossa, dal distretto Yuyao, provincia del Zhejiang. Cultura neolitica di Hemudu (5000-3200 a.C.). Hangzhou, Museo Provinciale del Zhejiang. A sinistra: vaso laccato a fondo nero, decorato con motivi policromi. Dinastia degli Han Occidentali (206 a.C.-9 d.C.).

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a chi spetta il primato? Gli studi tendono a sostenere che, dalla Cina, la conoscenza della tecnologia della lacca sia stata introdotta in Corea, e successivamente in Giappone. È opportuno precisare che la lacca fu utilizzata sin da tempi antichissimi anche nell’arcipelago giapponese, ma il processo sistematico di applicazione e di raffinamento della tecnica si deve ai Cinesi. La scoperta di lacche in Giappone risalenti al lungo periodo della cultura Jomon (10 000-300 a.C.), ha però indotto piú d’uno studioso a sostenere che le tecniche in questo Paese potrebbero essere state sviluppate in maniera indipendente. Non va dimenticato che, sin dall’antichità, si è assistito a uno scambio commerciale, oltre che culturale, tra popolazioni straniere che si trovavano non solamente a est della Cina, ma anche a ovest: lo scambio di oggetti laccati infatti viaggiava lungo varie rotte fino a raggiungere il Medio Oriente. L’équipe di artigiani che realizzava i manufatti in lacca includeva principalmente colui che preparava la base o la canapa sul legno, il laccatore che doveva eseguire i vari strati per poi farli asciugare in un ambiente umido (tra i 21° e i 26°C) nelle «camere dell’ombra», scavate nel terreno; il lucidatore assieme all’«operaio superiore», invece, si dedicava allo strato esterno prima che il pittore addetto alla decorazione desse il «tocco finale», sotto il controllo del capo di laboratorio, responsabile dell’intero ciclo produttivo.

gilla che, a indurimento avvenuto, veniva eliminato. Le fonti scritte cinesi tramandano l’utilizzo della sostanza vegetale già dal periodo preistorico, almeno all’epoca del sovrano predinastico Shun e del successore Yu-il-grande, fondatore della semi-mitica dinastia Xia (XXI-XVI secolo a.C. circa). Nel Libro delle odi (Shijing) e nel Libro dei documenti (Shujing), probabilmente composti tra il IX e il VI secolo a.C., si accenna alla lacca utiliz-

zata per decorare gli strumenti musicali e si narra che il leggendario sovrano Shun adoperasse piatti di legno laccato, e che vasi rivestiti di questo materale, in nero all’esterno e rossi all’interno, fossero usati per i sacrifici. Successivamente, nei Riti dei Zhou (Zhouli), opera risalente probabilmente al IV o al III secolo a.C., i riferimenti al suo impiego sono molteplici: archi, frecce, finimenti, veicoli e cosí via. In ambito archeologico è possibile

sostenere che la lacca fosse in uso in Cina almeno nel V-IV millennio a.C., come testimonia, tra l’altro, una ciotola di legno rinvenuta in un villaggio della cultura neolitica di Hemudu (5000-3200 a.C., distretto Yuyao, provincia del Zhejiang). Il manufatto è rivestito da un sottile strato di pittura rossa che, all’analisi spettroscopica, si è rivelata simile agli esemplari risalenti persino al tardo II secolo a.C., scoperti a Mawangdui (Changsha, Hunan). L’uso della lacca viene attestato anche nella cultura neolitica di Liangzhu (3300-2200 a.C.), presso la quale veniva solitamente impiegata per ricoprire la superficie dei sarcofagi delle sepolture piú importanti. Si tratta, comunque, di ritrovamenti sporadici, perché i materiali sono delicati, ma testimoniano, tuttavia, un’indiscussa abilità di lavorazione, inimmaginabile prima di tali scoperte.

la perizia degli artigiani Possiamo dunque sostenere che l’alta qualità del materiale e la perfetta padronanza delle tecniche di realizzazione dimostrate dagli artigiani della dinastia Shang (16001050 a.C.), derivino da una secolare se non millenaria produzione le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Lo attestano il pregevole vasellame in legno con lacca dipinta rinvenuto a Taixicun (Hebei) e, all’interno delle camere sepolcrali di Anyang (Henan), i decori di legno laccato in rosso con intarsi di conchiglie e altri materiali, realizzati tra il XIII e l’XI secolo a. C. I motivi rappresentati sulle lacche Shang riprendono e rielaborano quelli che, contestualmente, decoravano i bronzi rituali e prima ancora gli oggetti in giada del Tardo Neolitico (3000-2000 a.C.): dalla maschera zoomorfa del taotie, con i suoi ampi e ipnotici occhi sgranati, ai disegni di spirali squadrate immutabili, simboli presumibilmente della nuvola (yunwen) o del fulmine (leiwen), che richiamano il motivo della greca a forma di «T», assieme a r c h e o 55


civiltà cinese • la lacca

a linee parallele, disegni a forma di losanga, sagome circolari, serpeggianti e draghizzanti.Tutte le decorazioni in lacca condividono con la solenne arte del bronzo la stessa valenza sacrale e sociale, conferitagli dalla storia. Numerose tombe del periodo dei Zhou Occidentali (1050-771 a.C. circa) hanno restituito vasellame molto simile a quello di epoca Shang, ma un significativo sviluppo della lavorazione della lacca si registra durante il periodo degli Stati

Vaso da vino laccato rosso e nero (qui sotto) e bara in lacca policroma su sfondo rosso (in basso), dal corredo funerario della Marchesa di Dai a Mawangdui (Changsha, Hunan). 174-145 a.C. Changsha, Museo Provinciale dello Hunan.

Combattenti (475-221 a.C.), in particolare nella Cina meridionale, nello stato di Chu. Nei sepolcri, infatti, sono stati recuperati numerosi oggetti di uso quotidiano (recipienti per vino, calici, ma anche scatole per cosmetici, tazze con manici, piatti, cucchiai, ecc.), strumenti musicali, arredi funerari, archi, frecce, guaine di spade, scudi, mobili, pannelli, ecc., tutti ricoperti di strati di lacca. Si sostiene che a partire dal IV secolo a.C. sia stata introdotta la tecnica del legno incurvato,

LE LACCHE DI MAWANGDUI I ritrovamenti di epoca Han (206 a.C.-220 d.C.), soprattutto dalle tombe di Mawangdui a Changsha (Hunan), databili tra il 174 e il 145 a.C, testimoniano l’alto livello raggiunto dagli artigiani cinesi. Nella tomba 1 sono stati recuperati oltre 180 reperti di lacca, tra vasellame e mobili, usata soprattutto per l’arredo funerario. Le bare, di numero variabile e sistemate, secondo un’antica tradizione locale, le une dentro le altre, sono decorate esternamente con dipinti in lacca policroma su fondo alternativamente

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rosso o nero. Il nero era prodotto con solfato di ferro, il rosso dal cinabro. I colori sono luminosi e sono utilizzati anche il grigio, il bianco, il giallo, ottenuto dal cadmio e dall’ocra, ecc., mentre lo schema decorativo privilegia disegni di nuvole, spirali, figure zoomorfe e personaggi mitici. Attualmente, vari esemplari di lacche Han sono esposti nella mostra «Le leggendarie tombe di Mawangdui. Arte e vita nella Cina del II secolo a.C.», allestita in Palazzo Venezia, a Roma, fino al 16 febbraio 2015 (info: mondomostre.it).


Set da cosmesi costituito da scatole laccate, contenenti nove scatole piú piccole, anch’esse laccate, guanti, specchio, sciarpe di seta, ciocche di capelli, pettini, ecc. I sec. a.C.

ottenuta da sottili assicelle che, pie- creature mitiche e ibride, dotate di mento assai lungo ed elaborato, che gate e ammorbidite con il calore e una forte componente magico-re- vedeva coinvolta una vera e propria il vapore, permettevano di creare ligiosa. Non è un caso, forse, che équipe di artigiani dediti alla vernidei supporti modellati a piacere, molti dei solventi utilizzati per la ciatura, alla levigatura e all’asciugaottenendo forme curve o cilindri- lavorazione e per la cromatura della tura, prima che l’artista desse il tocche, con cui realizzare tazze, bic- lacca (come per esempio il cinabro), co finale: la qualità di un oggetto chieri e vasi, a imitazione degli og- siano gli stessi che venivano impie- laccato, infatti, non si basa solamengati per i famosi elisir di lunga vita te su quanto sia antico, sul suo getti in bronzo. aspetto estetico o sulla raffinatezza Le oltre 200 lacche rinvenute, in degli alchimisti del taoismo. del decoro, ma si giudica ottimo stato di conservaanche in base al numero zione, nella tomba del La curvatura del legno di strati sovrapposti l’uno marchese Yi di Zeng sull’altro, almeno 30 per (Leigudun, Hubei), con arricchisce in maniera gli oggetti di maggior ogni probabilità databili al pregio. Tra uno strato e 433 a.C., presentano instraordinaria la gamma l’altro erano necessari trecci di draghi, volatili delle forme vascolari giorni di asciugatura in stilizzati, che si ritrovano un ambiente umido e e si confondono con lo stile di altri motivi a spirale, onde e In questo momento i manufatti in oscuro, al riparo dalla polvere: si nuvole, dai delicati ricami e arabe- lacca superano per importanza i può facilmente intuire quale mole schi di linee sottili, dei numerosi solenni utensili in bronzo, che dopo di lavoro, di tempo e di perizia tecmanufatti in lacca, di epoca impe- oltre due millenni di storia, tendo- nica richiedesse la realizzazione di riale, scoperti a Mawangdui, e data- no a diminuire numericamente e a ogni singolo oggetto. bili tra il 174 e il 145 a.C. Le vivaci perdere progressivamente di impor- Cosí come Plinio denunciava con qualità cromatiche del rosso e del tanza, tra i corredi funerari. D’al- severità lo sperpero per il lusso che nero, e la natura lucida e compatta tronde, non va dimenticato che la avrebbe portato l’impero romano del materiale invadono tutti gli og- lavorazione della lacca comprende- alla rovina, anche in Cina nascono i getti, insieme a motivi zoomorfi e a va, sin dall’antichità, un procedi- «censori» delle lacche lussuose proa r c h e o 57


civiltà cinese • la lacca A destra: la lavorazione di un manufatto laccato in Giappone. In basso: mobiletto giapponese, lavorato con la tecnica della lacca d’oro makie su sfondo nero. Monaco, Museum Fünf Kontinente. Nella pagina accanto: paravento laccato, dalla tomba del Grande Generale Sima Jinlong, morto nel 484 d.C. Datong, Museo di Datong.

venienti dal Sichuan, come riportano le fonti scritte (Libro degli Han Anteriori, Qian Hanshu, del II secolo d.C.). E come gli storici romani lodavano gli imperatori che non si concedevano al lusso delle sete cinesi, cosí nel Libro degli Han Posteriori (Hou Hanshu,V secolo) veniva lodata la moglie dell’imperatore Hedi (regno dall’89 al 106 d.C.), per aver rinunciato a costose lacche con orli di bronzo dorato: la lacca era ufficialmente diventata un prestigioso oggetto di lusso, elevato a status symbol.

tecniche sempre piú raffinate Dalla seconda metà del VI secolo, con il procedimento della lacca secca, si realizzano numerose statue buddhiste, su cui furono applicati nuovi strati da dipingere e da decorare con pigmenti minerali e vegetali; tra le tonalità cromatiche prevalsero il rosso e il nero, ma non mancarono anche il bruno e il giallo. Col tempo le tecniche si raffinarono sempre piú: fasce ricavate da sottili foglie d’oro e d’argento vennero applicate sul supporto laccato, ulteriormente ricoperto da strati trasparenti (procedimento denominato pingtuo), cosí come si iniziò a cospargere il fondo laccato con polvere d’oro, secondo una tecnica che raggiunse l’apice in Giappone per qualità artistica (makie). Con la lacca vennero realizzati anche intarsi e applicazioni di altri materiali, come la madreperla e le pietre preziose, assieme a motivi incisi con oro (tecnica qiangjin) o argento (qiangyin), ottenendo un effetto ornamentale di grande raffinatezza. Queste tecniche polimateriche divennero uno dei vanti dell’arte della 58 a r c h e o

variazioni sul tema La lacca intagliata viene ritenuta la tecnica cinese per eccellenza, proprio come la lacca d’oro makie (pittura cosparsa), diviene la tecnica giapponese per antonomasia e di gran lunga la piú famosa e apprezzata. Il metodo consiste nel formare disegni e decorazioni cospargendo polveri d’oro e d’argento sulla lacca attraverso cannucce di bambú schermate di garza. Il fondo cosparso a tratti (usumaki), mediamente (chumaki), o interamente coperto (ikakeji), può anche assumere l’aspetto di una solida superficie metallica; in altri casi può presentare effetti particolari come il «fondo buccia di pera» (nashiji), ottenuto da strati di lacca gialla trasparente che coprono particelle metalliche fino

ad assumere l’aspetto della buccia della pera giapponese (nashi). Le decorazioni possono essere piane (hiramakie), a rilievo (takamakie) e inglobate nel fondo (togidashimakie). L’arte del rivestimento e della decorazione laccata raggiunse l’apice del virtuosismo con il periodo Edo (1603-1868), quando le invenzioni tecniche e stilistiche si moltiplicarono per creare opere di notevole varietà e raffinatezza. Vennero lavorati, incorporati e protetti con strati di lacca i materiali piú disparati: metalli nobili in polvere, in foglia e lamina, madreperla bianca e iridescente, avorio, tartaruga, ceramica, materiali duri e perfino il guscio d’uovo e la pelle di alcune particolari specie ittiche.


lacca in epoca Tang (618-907), quando si affermò probabilmente anche l’intaglio a rilievo (in cinese xipi o tixi, in giapponese guri), con cui gli artigiani poterono assecondare al meglio la propria vena creativa, realizzando motivi decorativi geometrici di curve che si intersecano senza soluzione di continuità. In questo periodo inizia a diffondersi anche il «rosso scolpito cesellato» (tihong), con cui si praticavano profondi incavi, dallo strato piú esterno fino a raggiungere quello piú interno, lungo i contorni dei motivi decorativi. Uccelli, rami, fiori, vennero quindi rappresentati con grande abilità su piatti o scatole rotonde, con i bordi ornati a volute o spirali, soprattutto durante la dinastia Ming (1368-1644), quando la produzione delle lacche riacquistò una notevole importanza. In questo periodo furono adottate tutte le tecniche note, senza disdegnare anche uno stile giapponese.

sottili strati d’oro Soprattutto nel tardo periodo Ming, i motivi acquistarono ancor piú intensità cromatica: su di uno spesso strato di lacca levigata, sovente color camoscio o rossa, arancione o chiara, i motivi decorativi vennero prima asportati, poi riempiti di altre lacche colorate (verdi, brune, ocra, rosso vivo e nere) e infine levigati con la pietra pomice (tecnica diaotian o tianqi). Le linee esterne e alcuni particolari presentano spesso un sottile strato d’oro, quasi traslucido, che lascia intravedere l’incisione. Comparsa sin dall’XI secolo, questa tecnica, raggiunse però l’apice durante i regni di Jiajing (15221566) e Wanli (1573-1620). Furono proprio gli imperatori delle ultime dinastie cinesi a promuovere la grande rinascita dell’arte della lacca, commissionando oggetti per la propria persona e per le residenze reali. Molti di questi manufatti furono realizzati in botteghe sotto il diretto controllo imperiale, alcune delle quali ubicate all’interno del recinto di mura della Città Proibita nella capitale Pechino.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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civiltà cinese • la lacca

da paravento a tavolino Particolarmente apprezzati in Europa, soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo, i paraventi realizzati a partire dall’epoca della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), presentano un fondo bruno sul quale veniva applicata e incollata una tela sottile, coperta da numerosi strati di lacca. La decorazione veniva successivamente incisa, ricoprendo le parti incavate con colori dai toni sfumati e opachi. Esempi di notevole pregio risalgono al regno dell’imperatore Kangxi (1654-1722). Piú rari sono i paraventi che facevano da

schermo ai troni, che invece presentano un pannello al centro, in origine destinato a essere collocato proprio dietro al trono. Nel XVIII secolo i colori si fanno piú vivaci e meno delicati e, successivamente, il numero degli strati di lacca si riduce. Il valore dei paraventi si basa sulla loro antichità, sullo stato di conservazione, sulla qualità della decorazione, sulla composizione e, infine, sulla loro altezza che varia da 1,20 a 3,50 m. Molti paraventi antichi sono stati in seguito smembrati, trasformandone i pannelli in ripiani di tavolini.

Paravento in legno laccato con intarsi di giada di epoca Qing (1644-1911). Collezione privata.

Grande fu anche la produzione di mobili madreperlati, a cui si aggiunsero, arredi sempre piú sovraccarichi di incrostazioni, dai lapislazzuli, all’avorio, fino al corallo, quarzo, agata, turchese, giadeite, ecc., che conquistarono i canoni estetici del Sei e Settecento europeo, affascinato dal gusto dell’eccesso e dai cabinets des chinoiseries, Wunderkammer esotiche allestite all’insegna di una bizzarra ispirazione orientale. Da allora, grandi quantità di manufatti cinesi in lacca raggiunsero il vecchio continente, molti dei quali caratterizzati da forme e da decori che potessero soddisfare esplicitamente il gusto straniero.

l’imitazione europea In Europa si tentò di imitarla, tanto che la «lacca contraffatta» o alla cinese (in Inghilterra fu chiamata japanning), segnò l’epopea artistica del Settecento veneziano sino a divenirne forse il simbolo per eccellenza. È la fase storica in cui l’affabulazione creativa e una stravagante vis comica conquistano l’inflessione gioiosa del rococò, che si prestò alle influenze esotiche, per cui, come scriveva la studiosa Clelia Alberici, «mandarini e dame veneziane, fumatori d’oppio e guerrieri reggono vessilli con il drago dei Ming (...) in un contesto di particolari lagunari camuffati alla cinese» (Il mobile veneto, Electa, Milano 1980). In Cina, soprattutto nel XVIII secolo, le composizioni divennero pesantemente decorate, in concomitanza con un virtuosismo stilistico che, pur diventando sterile nel contenuto, testimonia l’indiscussa abilità tecnica raggiunta dagli artigiani. Allora nacque in Occidente un mito che ancora oggi rimane saldamente ancorato nell’immaginario collettivo, per il quale la lacca orientale costituisce, senza dubbio, il piú prezioso e creativo tra i rivestimenti che la natura abbia mai offerto. (4 – continua) 60 a r c h e o



gli imperdibili • statue stele

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La statua stele Bigliolo, appartenente al gruppo C, raffigurante un guerriero armato di ascia e con un’iscrizione etrusca sul petto (VI sec. a.C.), e (nella pagina accanto) la testa della statua stele Filetto XI di gruppo B, dalla caratteristica forma «a cappello di carabiniere». Età del Rame. Entrambe sono conservate a Pontremoli, nel Museo delle Statue Stele della Lunigiana.


quei misteriosi antenati SCOLPITi nella pietra Erette presso i luoghi di culto delle antiche popolazioni della valle del Magra, le statue stele della Lunigiana mantennero per millenni la loro funzione di «simboli sacri». Rispettate e conservate per generazioni, rappresentano un segno di appartenenza e distinzione per gli abitanti della regione di Daniele F. Maras

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rgomento di questa puntata non è un singolo oggetto, ma un’intera classe di monumenti, che ha avuto una lunga storia di abbandono e r iscoperta g ià nell’antichità e che ancora oggi affascina studiosi e appassionati. Le statue stele della Lunigiana, infatti, costituiscono un patrimonio sacro della preistoria, che ha continuato a contrassegnare il territorio della valle del Magra per piú di quattromila anni, alternando periodi di oblio a momenti di ripresa del loro valore culturale, simbolico ed etnico (vedi «Archeo» n. 227, gennaio 2004).

stele e pietre lunghe La tradizione di scolpire figure umane stilizzate nella pietra arenaria risale all’avanzata età del Rame, nella regione oggi posta al confine tra le provincie di La Spezia e Massa-Carrara. Tale tradizione appartiene al piú vasto fenomeno del megalitismo, che ha interessato buona parte dell’Europa, fino alle regioni piú meridionali d’Italia; ma, a differenza dei menhir (dal bretone, letteralmente «pietre lunghe»), maggiormente diffusi, e che contrassegnano i luoghi del sacro in modo anonimo e fortemente simbolico, le statue stele della Lunigiana


gli imperdibili • statue stele

aggiunsero un piú marcato riferimento antropomorfo, forse alludendo a figure di divinità e spiriti o, piú probabilmente, di antenati divinizzati. Figure affini si sono trovate in Corsica, da sempre in stretto rapporto etnico e culturale con la costa ligure, e in Puglia, nella Daunia, con uno sviluppo culturale parallelo e del tutto indipendente. A ogni modo, nella piccola porzione di territorio della valle del Magra, le pietre scolpite, erette nei boschi presso i luoghi di culto delle antiche popolazioni locali, mantennero per millenni la loro funzione di segni sacri fortemente simbolici, garantendo agli abitanti della regione un senso di appartenenza e di distinzione. Per questo motivo, le statue stele, quali reliquie degli antenati, a volte continuarono a essere oggetto di culti ancestrali ovvero, nel caso fossero dimenticate o abbandonate, vennero comunque rispettate e conservate generazione dopo generazione, nonostante i cambiamenti culturali e la mobilità di persone e popoli che interessarono la penisola italiana nel corso dei secoli.

da dea a guerriero La scultura da cui prendiamo le mosse, come molte delle statue stele, fu ritrovata accidentalmente, all’inizio del secolo scorso, nel corso di lavori agricoli nella cosiddetta «Selva di Filetto» lungo la sponda sinistra del fiume Magra. Come spesso accade in questi casi, il monumento è rimasto privo di un contesto archeologico, nell’impossibilità di realizzare uno scavo documentato del sito. L’impostazione rettangolare della statua, con la testa «a cappello di carabiniere», collo massiccio e il volto stilizzato, incorniciato da una linea circolare a rilievo e ridotto all’indicazione del naso e degli occhi, denuncia la sua appartenenza al tipo B (vedi box a p. 66). La decorazione a rilievo si limitava originariamente alla rappresentazione delle braccia, che pendevano da una fascia a rilievo all’altezza delle spalle (la cosiddetta linea sca64 a r c h e o

polare) e si è supposto che sul petto fossero raffigurati i seni, che caratterizzavano la figura come femminile. Di essi, però, oggi non v’è traccia, poiché la statua è stata rilavorata attorno alla fine del VII secolo, presumibilmente per diventare il segnacolo della sepoltura di un guerriero di alto rango: sul ventre liscio furono scolpiti a bassorilievo i contorni di un’ascia a lama quadrata e di due giavellotti, raffigurati come se fossero tenuti in mano dal personaggio, mentre una cintura a fascia corre attorno alla vita. Sul fianco destro è assicurata una spada ad antenne del tipo caratteristico della cultura di Hallstatt, attestata in Europa nella prima metà del I millennio a.C. L’artigiano intervenne inoltre sul volto, aggiungendo il taglio orizzontale della bocca, considerato ormai indispensabile nella scultura dell’età del Ferro, e scolpí un’iscrizione in alfabeto etrusco sul petto (lasciato libero dall’asportazione dei seni, ammesso che ci siano mai stati), della quale purtroppo resta solo la prima lettera: un segno a M, chiamato tsade, che designava un suono sibilante. All’epoca della rilavorazione della statua, nella Liguria orientale si era sviluppata un’aristocrazia guerriera, in costante rapporto commerciale e militare con i vicini Etruschi, dai quali aveva appreso alcune tradizioni di ostentazione del lusso e del rango, specialmente in ambito funerario. Le stele funerarie dell’Etruria settentrionale, spesso iscritte e decorate con rappresentazioni di armati, erano un modello forte e facile da se-

Cartina dell’Europa con le aree di maggior concentrazione delle statue stele preistoriche. Le stelline in giallo indicano i tre territori italiani piú importanti in proposito: la Val d’Aosta, la Lunigiana e il Trentino-Alto Adige.

guire; ma lo spirito di indipendenza che continuò a caratterizzare i Liguri fino a oltre la romanizzazione, impedí che si verificasse un semplice fenomeno di imitazione. Il recupero e riutilizzo delle statue stele tramandate dagli antenati offrí ai principi liguri la possibilità di rinnovare il senso di appartenenza alle proprie origini e di rappresentare allo stesso tempo il proprio «moderno» potere aristocratico e militare.

linee essenziali La stele di Zignago è per molti versi un monumento eccentrico e isolato nel panorama lunigianese, a partire dal luogo di ritrovamento: l’unico al di fuori della valle del Magra, nella Pieve di Zignago in provincia di La Spezia, piú a ovest di ogni altra stele a oggi nota.Anche in questo caso, la scoperta da parte di un «rozzo agricoltore» fu piuttosto precoce, già a fine dicembre del 1827, e rimase priva di informazioni sul contesto archeologico. L’elaborazione scultorea si limita alla sola testa, del tipo «a cappello di carabiniere», con un collo tozzo e massiccio che la separa da un vero e proprio cippo a forma di parallelepipedo. Il volto è ancora dell’antico tipo a «U», non circondato da una linea a rilievo; ma presenta un naso realistico, allargato in basso, e occhi


filetto I - carta d’identità • Nome Stele di Filetto I • Definizione Stele antropomorfa in pietra arenaria, decorata a rilievo • Cronologia Tra la tarda età del Rame e la prima età del Bronzo (terzo-secondo millennio a.C.) rilavorata alla fine del VII secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Villafranca (loc. Filetto), presso il torrente Taverone • Luogo di conservazione La Spezia, Museo Civico Archeologico «Ubaldo Formentini»

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gli imperdibili • statue stele

a rilievo, che si direbbero di un tipo piuttosto evoluto. Sebbene sia un esemplare unico, le caratteristiche stilistiche sembrano puntare verso una realizzazione avanzata del gruppo B, forse databile ai primi secoli dell’età del Bronzo. Nell’insieme la scultura mantiene un aspetto enigmatico e ieratico, che dovette ispirare anche i principi liguri dell’età arcaica, che riutilizzarono la stele, presumibilmente come segnacolo funerario. In questo caso, però, non vennero aggiunte armi o altre caratterizzazioni somatiche, per «aggiornare» la scultura preistorica; ma l’artigiano si limitò a incidere una lunga iscrizione in grafia etrusca in verticale lungo il lato sinistro della faccia anteriore: mezu nemusus. Una lettura nemunius del secondo nome, pure possibile, è sconsigliata dal riconoscimento della presenza del segno a M (tsade) nell’iscrizione di Filetto già ricordata e dal confronto del nome con alcuni nomi celtici, tra cui quelli delle città galliche di Nemossos (menzionata da Strabone) e Nemausus (oggi Nîmes). Con ogni probabilità, la formula onomastica a due membri è composta da un nome personale e dal patronimico, secondo la piú comune tradizione mediterranea ed europea, prima della diffusione del sistema gentilizio etrusco-latino.

i tesori della pieve L’ascendenza celtica dei nomi conferma la commistione e sovrapposizione di elementi d’Oltralpe con l’antico popolamento ligure in tutta l’area dell’Italia nord-occidentale, cosí come ricordato dalle fonti letterarie, che a volte definivano gli stessi gruppi etnici come galli o come liguri, aggiungendo perfino denominazioni ibride come «semigalli» o «celto-liguri», nell’impossibilità di distinguerli con chiarezza. Nell’alta valle del Magra, non lontano da Pontremoli, la pieve di S. Stefano di Sorano ha restituito i resti di ben sei diverse statue stele frammentarie, riutilizzate come 66 a r c h e o

tre «famiglie» principali Le statue stele ritrovate fino a oggi sono circa un’ottantina e sono state divise dagli studiosi in tre gruppi principali, definiti sulla base delle caratteristiche morfologiche delle sculture, anche se non mancano varianti e pezzi unici, che non si inquadrano facilmente nella tipologia. Gruppo A Un primo tipo di statue, piú antico e stilizzato, è caratterizzato dalla testa emisferica, unita direttamente alle spalle senza distinzione del collo e con volto a forma di «U» che incornicia la rappresentazione del solo naso; ma a volte sono segnati anche gli occhi, a rilievo o a incavo. La lavorazione a rilievo interessa solo la faccia anteriore e si limita alle braccia, che pendono da una fascia all’altezza delle spalle (linea clavicolare). Gruppo B L’aggiunta del collo, corto e massiccio, conferisce alla testa una caratteristica forma «a cappello di carabiniere»; i volti sono spesso incorniciati da una fascia circolare e il rilievo di armi e accessori si fa progressivamente piú dettagliato. Molte statue dei tipi A e B sono infatti caratterizzate come maschili con l’aggiunta di armi, come asce e pugnali a lama triangolare, ovvero come femminili dalla rappresentazione a rilievo di seni piccoli e ravvicinati e a volte di gioielli. L’analisi antiquaria dei dettagli e degli attributi indica una cronologia di questi tipi compresa tra l’età del Rame e la prima età del Bronzo. Gruppo C Un terzo tipo di statue stele è molto distanziato nel tempo rispetto ai precedenti, risalendo ormai alla piena età del Ferro, tra il VII e il VI secolo a.C.: la forma della testa è arrotondata, con volti circolari in cui è indicata anche la bocca; il rilievo interessa anche i fianchi e a volte il retro delle stele, che evidentemente era concepita

come una scultura a tutto tondo. Le rappresentazioni femminili spariscono e quasi tutti gli esemplari presentano armi «aggiornate», come spade ad antenne, asce quadrangolari «a tallone» e coppie di giavellotti.

A

B

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zignago - carta d’identità • Nome • Definizione

tele di Zignago S «Erma» in pietra arenaria, iscritta e decorata a rilievo • Cronologia Prima età del Bronzo (?) (fine del IIIinizi del II millennio a.C.); rilavorata nel VI secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Zignago (loc. Novà), nella valle del fiume Vara • Luogo di conservazione Genova (Pegli), Museo di Archeologia Ligure

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gli imperdibili • statue stele

sorano V - carta d’identità • Nome Stele di Sorano V • Definizione Stele antropomorfa in pietra arenaria, decorata a rilievo • Cronologia Età del Rame (III millennio a.C.); rilavorata alla fine del VI secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Filattiera, nell’alta valle del fiume Magra • Luogo di conservazione Filattiera, pieve di S. Stefano di Sorano

la stele «consacrata» La Lunigiana è una terra esostorica, nella quale le tracce di culto preistorico e pagano s’innestano visibilmente nel culto cristiano. Un quarto di tutti i ritrovamenti di statue stele hanno, direttamente o indirettamente, a che vedere con luoghi di culto ancora attuali, dalle pievi alle chiesette rurali e alle maestà, senza dimenticare il numero cospicuo di quelle recuperate sul luogo degli attuali cimiteri, antichi monasteri o santuari di valico. In quest’ambito una particolare curiosità ha destato la testa scoperta a oltre 3 m d’altezza in una casa antica del borgo di Caprio, presso Filattiera (Massa-Carrara). Si tratta di una testa di stele del Gruppo B, databile al piú tardi alla piena età del Rame (metà del III millennio a.C.), sul cui volto, evidentemente per allontanarne possibili influenze pagane, è stato inciso un monte Calvario, con tanto di croce sul colle piú alto. È possibile che quest’intervento sia avvenuto all’atto di inserire la testa nella muratura, ma non può essere esclusa una sua esecuzione anche precedente, forse non anteriore ai secoli XVII-XVIII. Angelo Ghiretti e Germano Cavalli

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materiale da costruzione nell’edificio sacro e nell’insediamento medievale circostante. L’insolita concentrazione fa supporre che la chiesa sorgesse sul sito di un luogo sacro preistorico, dove in origine le pietre scolpite erano state erette. Una concentrazione simile, infatti, è stata rinvenuta ancora in situ in località Pontevecchio, presso Fivizzano (Massa-Carrara), dove un gruppo di nove statue stele del gruppo A erano allineate ordinatamente da est verso ovest. Lavori di restauro della pieve di Sorano nell’agosto del 1999 hanno portato alla scoperta di un nuovo esemplare di statua stele monumentale, che presentava le tracce di successive rilavorazioni nel corso di vari millenni. La prima realizzazione della scultura ancora nell’età del Rame apparteneva al tipo A, privo di indicazione del collo, completato presumibilmente con il semplice volto a «U» e la scultura a rilievo delle sole braccia e mani (vedi box a p. 66). Attorno alla fine del VII secolo a.C. o poco dopo, la statua venne rilavorata per adattarla alle esigenze dell’età del Ferro, probabilmente allo scopo di essere riutilizzata come stele funeraria. La testa è stata definita meglio, riducendola a una forma circolare attorno all’ovale del volto, che fu a sua volta «aggiornato», con l’indicazione di occhi, naso e bocca a bassissimo rilievo. Nelle mani si aggiunsero due giavellotti e un’ascia, disegnati incidendo i contorni anziché a rilievo; con la stessa tecnica furono aggiunte in basso una cintura a fascia e due esili gambe in prospettiva laterale, secondo un rarissimo schema che concepisce la stele come una scultura a figura intera. Lungo il fianco destro venne scolpita una spada. Anche in questo caso, un’iscrizione in alfabeto etrusco correva nello spazio libero al centro del torace, ma solo alcune lettere danneggiate sono ancora visibili: …vem... Un’antica stele preistorica era divenuta cosí una scultura funeraria di stile etruschizzante. Ma la lunga

storia della pietra scolpita non finí cosí: in un momento imprecisato del Medioevo, essa venne riutilizzata come materiale da costruzione, danneggiando in piccola parte la raffigurazione per adattarla alla nuova funzione. Si può ben immaginare che la Chiesa cercasse di sradicare il valore sacrale e simbolico che le statue di pietra continuavano a esercitare presso la popolazione locale: un’iscrizione dell’VIII secolo ricorda infatti come nel corso delle sue funzioni un prelato cristiano (probabilmente il vescovo di Luni Leothecarius) si assunse il compito di distruggere gli idoli pagani (idola fregit) e volle essere sepolto nel luogo stesso che aveva «purificato»; e ancora mille anni dopo, nel 1779, un frammento di statua stele fu murato nel campanile della chiesa di S. Michele a Gigliana, non lontano da Filattiera, come supporto per un’iscrizione commemorativa.

Neppure il moderno confine tra le provincie di Massa-Carrara e La Spezia e tra le regioni Toscana e Liguria (che attraversa la valle del fiume Magra, ricalcando approssimativamente il limite delle corrispondenti regiones romane) ha spezzato l’unità culturale del territorio lunigianese. A testimonianza di ciò le due maggiori collezioni di statue stele sono ospitate in altrettanti castelli a Pontremoli (Museo delle Statue Stele Lunigianesi, nel Castello del Piagnaro), dove una moderna raccolta abbraccia la maggior parte degli esemplari noti in originale o in calco, e a La Spezia (Museo Civico Archeologico, nel Castello di S. Giorgio), dove alcuni dei ritrovamenti piú importanti e suggestivi sono inquadrati nel contesto dell’archeologia della regione. Occorre però segnalare che il Castello del Piagnaro resterà chiuso per lavori fino alla prossima primavera e una selezione di statue stele è esposta, fino al prossimo 2 noun prezioso materiale vembre, nella «Vetrina della Città» presso la Residenza Municipale di di recupero Non molto tempo piú tardi, la Pontremoli. nostra stele venne ancora una volta recuperata e riadattata come PER SAPERNE DI PIÚ: architrave di una delle porte laterali della pieve di S. Stefano, dove Augusto C. Ambrosi, Statue stele fu riscoperta solo in tempi recen- lunigianesi: il museo nel Castello tissimi. Lo spirito parsimonioso del Piagnaro, Sagep Editrice, dell’economia medievale non ave- Genova 1988 va voluto sprecare un’ottima pietra Marzia Ratti (a cura di), Antenati di di costruzione, al solo scopo di pietra. Statue stele della Lunigiana distruggere un idolo dei tempi an- e archeologia del territorio, tichi: cosí, per ironia della sorte, un catalogo della mostra, Sagep antico simbolo sacro fu conservato Editrice, Genova 1994 e tramandato fino a noi nella tessi- Giuseppina Spadea, Raffaele C. tura di un edificio sacro cristiano, de Marinis (a cura di), I Liguri. Un proprio grazie a coloro che aveva- antico popolo europeo tra Alpi e no voluto far sparire la stele. Mediterraneo, catalogo della In realtà, le avventure della stele di mostra, Skira, Milano 2004 Sorano V, cosí come quelle di tutte le altre statue stele fino a oggi ri- Museo delle Statue Stele trovate, non si sono ancora conclu- Lunigianesi, Pontremoli se: se il valore sacro è venuto meno (statuestele.org) con il passare dei secoli e il mutare della religione, i monumenti di pietra mantengono intatta la pro- nella prossima puntata pria funzione culturale e di simbolo etnico regionale. • La tomba del guerriero di Lanuvio a r c h e o 69


mostre • sulle orme di eracle

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eracle per sempre La recente riduzione cinematografica delle gesta del celebre eroe ne ha, se non altro, rinverdito la memoria. Ora, però, a chi voglia approfondire la vicenda delle dodici memorabili imprese di Ercole, suggeriamo di recarsi sulle sue orme, visitando una, anzi quattro affascinanti mostre in corso a Roma, Orvieto e Civita Castellana a cura di Giuseppe M. Della Fina, con contributi di Maria Anna De Lucia Brolli e Luca Mercuri

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ecentemente distribuito in Italia, il film Hercules. Il Guerriero racconta la storia dell’eroe che, a capo di un gruppo di mercenari, cerca di porre fine a una guerra civile scoppiata in Tracia. Non mancano scene d’azione ed effetti speciali, ma l’attenzione del regista – Brett Ratner – si concentra sui lati deboli del protagonista, interpretato da Dwayne Johnson: i suoi tormenti interiori, i lati oscuri della sua vita, le sofferenze del suo corpo pure eccezionalmente forte, la sua dolorosa e consapevole accettazione del destino.

una lettura ironica Insieme agli sceneggiatori Ryan J. Condal e Evan Spiliotopoulos, Ratner ha voluto inoltre demitizzare il mito, trattandolo in chiave ironica: niente, infatti, corrisponde a quanto è stato tradizionalmente narrato dalle fonti e alcune figure mitologiche – legate proprio alle fatiche di Ercole – vengono presentate quali trucchi geniali, ideati dai nemici dell’eroe per sorprenderlo. Sulle due pagine: particolare di un’anfora attica con la lotta tra Eracle e il leone di Nemea, da Cerveteri. 520-510 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A sinistra: Dwayne Johnson, protagonista del film Hercules. Il Guerriero, diretto da Brett Ratner.

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mostre • sulle orme di eracle

Il cinema ha le sue leggi, ma qual è l’immagine di Ercole o Eracle – se scegliamo il nome derivante da quello originario in lingua greca – che il mondo antico ci ha trasmesso? A voler approfondire il mito, si scopre che la sua vicenda è già piena di avventure, di trovate geniali, di amori, di donne fatali, di combattimenti, di colpi di scena, di esseri straordinari: segue, insomma, una «sceneggiatura» d’eccezione. Un’affermazione di cui è prova la mostra «Sulle orme di Eracle», che si articola attraverso quattro importanti musei dell’Italia centrale – il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e la Galleria Nazionale di Arte Antica a Roma, il Museo Archeologico dell’Agro Falisco a Civita Castellana e il Museo «Claudio Faina» in Orvieto – ed è incentrata A destra: Roma. Il giardino del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Qui sotto: anfora attica con la disputa tra Eracle e la personificazione della Vecchiaia. 480 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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sulle tradizionali dodici fatiche (vedi alle pp. 76-80) e sulla ricezione della saga dell’eroe tra gli Etruschi e i Falisci (vedi a p. 74).

etrusche. Tra le opere esposte si potrebbero segnalare capolavori assoluti, come le statue in terracotta del semidio provenienti da Veio – una era affiancata al celeberrimo Apollo sul colmo del tetto del tempio di la villa Portonaccio –, ma vogliamo invece degli etruschi Il nostro percorso di visita può par- soffermarci su un vaso di fattura non tire da Roma e da Villa Giulia, il eccezionale: è una pelike (un tipo di museo per eccellenza delle antichità anfora) attica a figure rosse, attribu-

dipinto o scolpito, È sempre mito Il mito di Eracle trova nelle collezioni del Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma uno spazio ampio, che copre quasi totalmente il variegato quadro delle sue fatiche. Dalla tomba del Kottabos di Vulci provengono ben tre vasi attici a figure nere con Cerbero, ma è senz’altro Cerveteri il centro etrusco che, nelle raccolte del museo romano, presenta la piú alta concentrazione di ceramiche raffiguranti episodi della vita dell’eroe. Tra le opere piú significative spicca una monumentale coppa firmata da Oltos con Eracle in lotta contro il dio marino Nereo (520 a.C.). Il tema piú ricorrente è quello della lotta contro il leone di Nemea, che ha diverse attestazioni anche nella collezione Castellani, con opere di maestri quale il Pittore di Kleophrades. Nello stesso nucleo spunta ripetutamente anche lo scontro con Kyknos, il gigante che minacciava con le sue scorribande i pellegrini diretti all’oracolo di Delfi. Il mito di Eracle ebbe notevole successo non solo nella produzione vascolare: nel museo spiccano preziosi specchi in bronzo nei quali l’eroe presenta un’iconografia piú rara, con aspetto efebico e volto imberbe. Il tema piú ricorrente in questi oggetti, probabilmente per le loro implicazioni amorose, è quello che vede l’eroe contrapporsi a Ippolita, regina delle Amazzoni, per il possesso della sua preziosa cintura. Infine, a Villa Giulia, la figura di Eracle giganteggia nelle maestose sculture in terracotta restituite dal santuario di Portonaccio a Veio, che rievocano il celebre nome dell’artista Vulca. (M. A. D. L. B.)


A destra: tavola dipinta raffigurante Eracle e le cavalle di Diomede. Attribuito a Gaspard Dughet e Francesco Allegrini, il dipinto è stato datato tra il 1635 e il 1650. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica.

ita al Gruppo Matsch e proveniente dalla tomba 432 della necropoli della Banditaccia a Cerveteri e databile intorno al 480 a.C. Vi è raffigurata la disputa tra Eracle e la personificazione della Vecchiaia. L’eroe appare giovane, prestante e quasi beffardo, opposto alla Vecchiaia, ritratta come un uomo scheletrico, curvo, sostenuto da una gruccia. Eppure sappiamo che tra i pochi fallimenti di Eracle va annoverata proprio l’incapacità di liberare – nonostante la sua forza – l’umanità da questo personaggio all’apparenza debolissimo. Il vaso non è stato realizzato da un pittore rinomato e presenta addirittura qualche difetto di cottura, ma rimane impresso: quei due corpi messi a confronto e cosí diversi riescono a parlarci, come la constatazione che è stato il piú debole a prevalere.

Le cavalle di Diomede Da Villa Giulia ci si può spostare – sempre a Roma – negli spazi della Galleria Nazionale di Arte Antica, ospitata in Palazzo Corsini alla Lungara. È uno dei musei piú interessanti e purtroppo meno noti della capitale, riallestito alcuni anni fa secondo un progetto suggestivo, basato sulla ricostruzione filologica dell’esposizione originaria desunta dagli inventari settecenteschi e ottocenteschi. Qui l’attenzione si sposta sulla fortuna avuta da Eracle nel mondo romano e nell’arte del Cinquecento e del Seicento. In particolare l’attenzione si può soffermare su un dipinto che raffigura Eracle alle prese con le cavalle di Diomede (vedi anche il box qui accanto). L’eroe, munito dell’inseparabile clava, cerca di domare una cavalla bianca imbizzarrita. Un’altra dello stesso colore sta brucando tranquillamente l’erba, due ulteriori cavalle nere stanno

L’eroe alla finestra Diverse sono le opere che hanno per soggetto Eracle nelle collezioni della Galleria Nazionale di Arte Antica ospitata, a Roma, all’interno di Palazzo Corsini alla Lungara. In particolare, l’eroe figura in due dipinti su tavola di dimensioni contenute che dovrebbero essere stati acquistati dal cardinale Neri Maria Corsini junior (1685-1752) e provenire da Palazzo Costaguti, dove decoravano gli sportelli di finestre. I quadri vengono attribuiti a Gaspard Dughet e a Francesco Allegrini e datati problematicamente tra il 1635 e il 1650. Una tavoletta raffigura Eracle e la cattura delle cavalle di Diomede, l’altra un episodio secondario, ricompreso nell’undicesima fatica: la lotta con il gigante Anteo.

Roma. Una sala di Palazzo Corsini alla Lungara.

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mostre • sulle orme di eracle

in viaggio tra due mondi di Maria Anna De Lucia Brolli

Il simbolismo della figura di Eracle ha favorito la diffusione del suo mito anche tra i Falisci sia nella sfera privata che in quella pubblica: vasi attici con la lotta contro il leone nemeo raggiunsero i principali centri del territorio fin dal VI secolo a.C. All’inizio del secolo successivo, il tempio dell’acropoli di Falerii, l’odierna Civita Castellana, recepí, negli altorilievi del frontone, alcuni episodi legati alla sua figura, tra i quali la lotta con un centauro, a testimonianza del fatto che l’immagine dell’eroe assumeva un chiaro significato politico. Il periodo che interessa maggiormente è comunque quello che prende le mosse dalla prima metà del IV secolo a.C., con l’avvio di una fiorente produzione di ceramica locale a figure rosse. Nella ceramica falisca manca la rappresentazione delle singole fatiche e rarissime sono le scene ispirate alle altre prove che l’eroe ha dovuto affrontare, come la lotta contro le Amazzoni o l’uccisione del centauro Nesso, mentre viene esaltato, al pari di quanto avviene in Etruria, il suo essere dio tra gli dèi. Fu l’esito di un processo che, nel passaggio dal mondo greco a quello etrusco e italico, vide Eracle acquisire tratti divini piú che eroici, con la diffusione di culti a lui tributati anche tra i Falisci, quale protettore della fertilità, delle sorgenti e delle acque termali, delle greggi, della transizione all’età adulta. Eracle divenne un eroe tra due mondi per il suo peregrinare fino agli estremi confini d’Occidente, perché uomo e nello stesso tempo dio e perché trait d’union tra la terra e l’Olimpo: a lui infatti, dopo

una vita trascorsa ad affrontare ogni sorta di prova, fu concesso di divenire immortale. La rappresentazione dell’apoteosi si esprime nella ceramografia falisca in alcuni vasi di forte impatto simbolico: una coppia di stamnoi (orci) da Falerii presenta la rara rappresentazione della pira sulla quale Eracle si gettò per togliersi la vita, vinto dalla sofferenza inflittagli da Deianira; l’eroe non compare nella scena, idealmente sostituito dalla sua corazza. In realtà egli è già asceso al cielo, sottratto alla fiamma purificatrice dal padre Zeus e introdotto all’Olimpo sul carro di Atena. In un cratere a calice falisco, oggi a Berlino, l’eroe è invece accompagnato sul carro da Nike: la presenza della dea alata ne sottolinea la figura di trionfatore in vita come sulla morte. In alto: Civita Castellana. Il cortile del Forte Sangallo, che ospita il Museo Archeologico dell’Agro Falisco. A sinistra: frammento di un cratere a calice di produzione falisca raffigurante Eracle adulto allattato da Hera. 360-350 a.C. Civita Castellana, Museo Archeologico dell’Agro Falisco.

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sempre in lotta, ma anche bevitore Lungo il percorso espositivo del Museo «Claudio Faina», che, costituito come raccolta pubblica nel 1954, occupa il piano nobile e il secondo piano dell’omonimo palazzo orvietano, piú d’un’opera presenta l’immagine di Eracle. In particolare, si segnalano due anfore attribuite a Exekias, uno fra i maggiori ceramografi attici nella tecnica a figure nere, attivo tra il 550 e il 525 a.C. Le due anfore vennero rinvenute nella necropoli di Crocifisso del Tufo, situata ai piedi della rupe di Orvieto; sicuramente dalla stessa necropoli proviene un’anfora attribuita al pittore di Eucharides. Dal medesimo sepolcreto sembrano provenire anche l’anfora attribuita al Pittore di Berlino 1686, lo stamnos (orcio) della cerchia del pittore di Antimenes, l’anfora riferita al pittore di Chiusi, l’anfora del pittore di Rycroft, l’anfora attribuibile al pittore di Andokides, un cratere a colonne e, infine, l’anfora da riferire al pittore delle Linee Rosse. Tra i vasi di piú che probabile provenienza orvietana, la fatica rappresentata con maggior frequenza è la lotta di Eracle con il leone nemeo (3 casi), seguita dalla contesa per il tripode di Delfi con Apollo (2 casi) – scoppiata dopo che all’eroe era stato negato un responso da parte dell’Oracolo di Delfi – e dalla lotta con la divinità marina Tritone (2 casi), mentre isolate risultano la battaglia con le Amazzoni e la lotta con Cerbero. L’apoteosi di Eracle e la sua presenza tra le divinità sono invece raffigurate sui lati A delle due anfore attribuite a Exekias. Su una applique figurata in bronzo compare la lotta tra Eracle e Kyknos, un personaggio crudele e selvaggio che assaliva i viandanti sulla strada tra Tempe

e le Termopili (un episodio che, tuttavia, non rientra nel novero nelle dodici fatiche). Nei bronzetti che fanno parte della collezione Faina, Eracle è rappresentato prevalentemente nella posizione di assalto, pur nella differenza dell’ambiente di produzione dei singoli manufatti (sabellico e umbro meridionale), mentre in un solo caso, databile all’epoca ellenistica, viene raffigurato l’Eracle bibax (bevitore). Orvieto. La facciata di Palazzo Faina, che ospita l’omonimo museo.

invece fuggendo; sulle sponde di un ruscello giace il corpo senza vita di Abdero, il compagno di Eracle che aveva avuto l’incarico di sorvegliare gli animali mentre l’eroe era impegnato a lottare contro Diomede e il suo popolo.

Eracle tra gli dèi Da Roma ci si può trasferire a Civita Castellana, al Museo Archeologico dell’Agro Falisco, che ha dedicato all’esposizione alcuni dei suoi spazi. Qui l’attenzione può concentrarsi su un frammento di uno stamnos (orcio) falisco attribuito al Pittore di Villa Giulia 42898 e databile intorno alla metà del IV secolo a.C. Vi sono raffigurate due donne che stanno versando acqua su un rogo funebre, sormontato da una corazza rimasta vuota: l’anonimo artista ha voluto cosí rappresentare simbolicamente l’ascesa all’Olimpo di Eracle. Un altro tema singolare è reso su un cratere a calice, anch’esso di produzione falisca e attribuito al Pittore di Herakles (360-350 a.C.): Eracle adulto viene allattato da Hera, un’altra allusione probabilmente – come ha osservato Maria Anna De Lucia Brolli – al destino di divinizzazione dell’eroe. Le vicende di Eracle si ritrovano su una eccezionale hydria (vaso per

attingere acqua) policroma a rilievo proveniente dalla tomba 7 della necropoli di Valsiarosa di Civita Castellana e realizzata intorno alla metà del III secolo a.C. L’ideale percorso di visita alla mostra si conclude nelle sale del Museo «Claudio Faina» in Orvieto, riunito dai conti Mauro ed Eugenio tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento. Qui l’attenzione può concentrarsi su due anfore attribuite a Exekias, entrambe databili al 550-540 a.C.: nella prima l’artista ha raffigurato, sul lato A del vaso, l’apoteosi di Eracle su un car ro contor nato da divinità dell’Olimpo quali Atena, Zeus, forse Artemide, Apollo, Poseidone e Hermes. Nella seconda l’eroe è presente su entrambi i lati: in un caso assiso tra gli dèi dell’Olimpo, nell’altro insieme a Cerbero e a ulteriori personaggi. Di particolare interesse è anche una applique figurata in bronzo (inizi del V secolo a.C.) che ritrae Eracle in lotta con il brigante Kyknos, e dovrebbe essere pertinente alla decorazione di un elmo rinvenuto in una delle tombe della necropoli di Crocifisso del Tufo: il guerriero che lo aveva indossato doveva avere visto con piacere il riferimento alla figura mitologica che incarnava la forza e il coraggio. a r c h e o 75


mostre • sulle orme di eracle

TUTTE LE FATICHE DELL’eroe di Luca Mercuri

E

racle nacque a Tebe da Zeus e da una donna mortale, Alcmena, sedotta dal dio che aveva assunto allo scopo l’aspetto del legittimo consorte, Anfitrione, assente quella notte. Poiché Zeus aveva annunciato che il primo discendente della sua stirpe a nascere sulla terra sarebbe stato re di Micene e Tirinto e avrebbe avuto immenso potere in Peloponneso, la dea Hera, che per gelosia odiava Eracle, anticipò prodigiosamente la nascita del cugino Euristeo, anch’egli discendente, seppur indiretto, di Zeus. Il debole e vile Euristeo nacque per primo: per lui, e non per Eracle, si compí dunque la profezia del dominio sul Peloponneso. Finalmente il piccolo Eracle nacque e l’arte dell’inganno si ritorse subito contro la gelosa Hera, la quale, raggirata da Atena, fu portata a passeggiare presso le mura di Tebe, 76 a r c h e o

dove Alcmena aveva deposto il neonato proprio per timore della collera della consorte di Zeus. Non riconoscendolo, Hera fu spinta da Atena a notare il vigore di quel magnifico bambino e a offrirgli il suo seno: Eracle succhiò con cosí tanta veemenza che un getto di latte schizzò verso il cielo dando origine alla via Lattea. Ma l’ira della dea continuava a non placarsi: il bimbo non aveva ancora un anno quando Hera mandò due terrificanti serpenti a uccidere lui e il gemello Ificle che dormivano beati nella loro stanza. Senza alcun timore, però, Eracle afferrò i serpenti, uno per mano, strangolandoli entrambi di fronte allo sguardo esterrefatto di Alcmena e Anfitrione, richiamati dalle grida di Ificle.

Le prime imprese Eracle compí le prime imprese da adulto in difesa di Creonte re di Tebe, il quale decise, in segno di ringraziamento, di dargli in sposa la figlia Megara, da cui Eracle ebbe numerosi figli, mentre il gemello Ificle, che aveva già generato Iolao, storico compagno di Eracle nelle sue fatiche, sposò Pirra, sorella minore di Megara. Non potendo sopportare questi primi successi, l’iraconda dea Hera compí un sortile-

Eracle lotta con il dio marino Tritone, particolare di un’anfora attica a figure nere (vedi a p. 79, in basso).

gio che accecò Eracle con una follia temporanea: l’eroe si scagliò cosí contro i suoi stessi figli, scambiandoli per nemici, e li uccise. Recatosi a Delfi come penitente, per chiedere alla sacerdotessa Pizia come potesse espiare un simile delitto, ricevette come responso l’invito a porsi al servizio del cugino Euristeo, re di Micene, per dodici anni e compiere tutte le fatiche che questi gli avesse ordinato. Eracle accettò. Ricevette una spada da Hermes, arco e frecce da Apollo, una corazza da Atena, elmo e schinieri da Efesto, mentre Poseidone gli donò una coppia di cavalli e Zeus, suo padre, uno scudo infrangibile. Ma Eracle non amava le armature e preferí sempre utilizzare la clava rudimentale che egli stesso aveva ricavato da un tronco di oleastro. Originariamente, le fatiche pensate da Euristeo per Eracle erano dieci, ma poiché il re non volle considerarne valide due, ne ordinò due ulteriori portando il numero finale a dodici. Il fidato nipote Iolao, figlio del gemello Ificle, partecipò a tutte le imprese come scudiero o guidatore del cocchio.


1. Il leone di Nemea Come prima fatica, Euristeo ordinò a Eracle di uccidere il famigerato leone, dalla pelle invulnerabile a qualsiasi arma, che viveva in una grotta presso la città di Nemea, in Argolide. Dopo una terribile lotta, l’eroe riuscí ad annientare la belva, strangolandola, ne sollevò la carcassa e la portò direttamente a Micene dove Euristeo, terrorizzato, gli intimò di lasciare d’ora in poi le prove dei suoi successi di fronte alle porte della città.

di neutralizzarla mozzandone le teste con la spada, scoprendo però con orrore che ogni qualvolta ne tagliava una, dalla stessa ne crescevano altre due. Fu allora che chiamò in aiuto Iolao, il quale, mentre l’eroe teneva il mostro immobilizzato, cauterizzò le teste tagliate con una torcia, impedendo loro di rigenerarsi.

In basso: gruppo scultoreo raffigurante la disputa tra Eracle e Apollo per la cerva di Cerinea, in origine posto sul tetto del tempio di Portonaccio a Veio. Attribuito al Maestro dell’Apollo, 510-500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

4. Il cinghiale di Erimanto 3. La cerva di Cerinea Dalle selvagge pendici del monte Nei boschi tra l’Attica e la Beozia, Erimanto, in Arcadia, un enorme viveva, libera, una cerva sacra ad cinghiale devastava le campagne Artemide, dea della caccia. Euristeo circostanti: Eracle venne inviato ordinò a Eracle di catturarla e l’eroe da Euristeo a neutralizzare la beldecise di portare a compimento va. Raggiunto il monte Erimanto, la sua terza fatica. Per un anno l’eroe stanò il cinghiale, gli saltò in Eracle inseguí la cerva rag- groppa, lo legò con pesanti catene giungendo l’Istria e da lí il e se lo caricò sulle spalle fino a favoloso paese degli Iperbo- Micene. rei, all’estremo nord del mondo. Alla fine, quando la bestia si fermò esausta, Eracle le trafisse con una freccia le zampe, sollevò l’animale di peso e iniziò il lungo viaggio di ritorno.

Anfora attica a figure nere da Cerveteri, raffigurante la lotta tra Eracle e il leone di Nemea. Attribuita al pittore di Boulogne 441, 520-510 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

2. L’Idra di Lerna Addestrata da Hera proprio perché fosse in grado di eliminare Eracle, l’idra era un mostro spaventoso, terribilmente velenoso, con il corpo di cane e nove teste di serpente di cui una immortale. Eracle tentò a r c h e o 77


mostre • sulle orme di eracle

5. Le stalle di Augia La quinta fatica imposta a Eracle prevedeva che l’eroe ripulisse le stalle di Augia, re dell’Elide, uomo ricchissimo in greggi e mandrie, e le cui strutture di ricovero per gli animali erano completamente ricoperte da un enorme strato di sterco, causa di una terribile pestilenza che affliggeva tutto il Peloponneso. Eracle deviò il corso dei fiumi vicini, le cui acque attraversarono stalle e ovili spazzando via ogni sporcizia.

Compito di Eracle fu quello di catturare le quattro cavalle selvagge del re, che venivano usualmente nutrite con i corpi degli stranieri che sventuratamente approdavano in quei lidi. L’eroe riuscí a catturare gli animali portandoli a Micene, al cospetto di Euristeo.

dell’eroe e decise di offrirgli la cintura come pegno d’amore; ma Hera, assunte le sembianze di amazzone, convinse le compagne della regina che Eracle stava per rapirla: queste allora si precipitarono in forze contro la nave dell’eroe, il quale, dopo aver resistito agli assalti, strappò la cintura a Ippolita e intra9. La cintura di Ippolita prese la via del ritorno. Euristeo ordinò a Eracle, come nona fatica, d’impadronirsi della cin- 10. Il bestiame tura che il dio Ares aveva donato a di Gerione sua figlia Ippolita, regina delle La decima fatica portò l’eroe molto Amazzoni, le mitiche donne guer- lontano dalla Grecia, ai limiti del 6. Gli uccelli riere. Giunto a destinazione, Eracle mondo conosciuto. Scopo era indi Stinfalo Sacri ad Ares, dio della guerra, uc- incontrò Ippolita, che si invaghí fatti quello di catturare il bestiame celli enormi e terribili abitavano le rive dalla palude di Stinfalo, presso Nemea. Dotati di becchi, artigli e ali di bronzo, erano in grado di divorare uomini e bestie e spargevano nei campi circostanti escrementi velenosi che bruciavano i raccolti. Per aiutare Eracle, che indugiava ai margini della palude senza trovare un modo per addentrarvisi, Atena gli donò le nacchere, al cui suono gli uccelli si alzarono in volo simultaneamente per scappare dalla palude. L’eroe poté cosí agevolmente ucciderne in gran numero con le sue frecce.

7. Il toro di Creta Per onorare la sua settima fatica, Eracle raggiunse l’isola di Creta, dove si trovava un terribile toro che sputava fiamme dalle narici e devastava l’isola con la sua furia selvaggia. Dopo aver r ifiutato l’aiuto del re Minosse, l’eroe vinse da solo la sua lotta con la bestia, che riuscí a trascinare a Micene, dove Euristeo la rimise in libertà, dedicandola a Hera. 8. Le cavalle di Diomede Diomede era il re dei Bistoni, barbara popolazione della Tracia. Anfora attica a figure nere con la lotta tra Eracle e le Amazzoni, dalla tomba 371 della necropoli della Banditaccia, a Cerveteri. 520-500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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di Gerione, custodito da un pastore, nell’isola di Erizia, oltre lo stretto che dal Mediterraneo dava accesso al misterioso Oceano. Eracle approdò in Libia, si diresse verso l’Oceano, attraversò lo stretto e vi eresse due colonne per lato, da allora note come colonne di Eracle; raggiunse l’isola, uccise il mandriano e il suo cane e s’impadroní degli armenti.

11. I pomi delle Esperidi I pomi delle Esperidi erano meravigliosi frutti d’oro che Eracle doveva cogliere da un melo, dono di nozze della Madre Terra a Hera, che

si trovava in un misterioso giardino alle pendici del Monte Atlante, custodito dalle ninfe Esperidi. Dopo diverse peripezie, Eracle riuscí a impadronirsene.

Anfora attica a figure nere raffigurante la lotta tra Eracle e il dio marino Tritone, da Cerveteri. 540 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

12. La cattura di Cerbero Ultima e piú faticosa impresa fu la cattura di Cerbero, l’enorme cane a tre teste che custodiva l’accesso al regno dei morti. Eracle scese negli Inferi e giunse al cospetto di Ade, che gli diede il permesso di portare Cerbero a Micene, purché lo catturasse senza usare alcuna arma. Afferrandolo per la gola, Eracle riuscí a domare il terribile mostro e portarlo cosí a Micene, dove Euristeo già In Alto: Hydria (vaso per acqua) ceretana con Eracle che conduce Cerbero, domato, a Micene: alla sua vista, Euristeo si nasconde terrorizzato in un calderone. 525 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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mostre • sulle orme di eracle

allora, per l’occasione, una tunica pulita dalla sposa Deianira. La donna, in preda a una folle gelosia, convinta che Eracle volesse ripudiarla per sposare Iole, immerse la tunica nel liquido stregato che il centauro NesLA MORTE E L’APOTEOSI so le aveva donato tempo prima, siEracle decise di ringraziare Zeus con cura che questo avrebbe legato per un grande sacrificio. Si fece mandare, sempre suo marito a lei. da tempo si era nascosto terrorizzato nella sua giara. Dimostrato il successo dell’impresa, come promesso, l’eroe riportò il mastino al suo compito, nell’Ade.

Gruppo in terracotta policroma di Eracle (a sinistra) accanto ad Atena, che lo conduce sul suo carro verso l’Olimpo, dove avrà un posto tra gli dèi, da Veio. 500 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Ma Nesso l’aveva tratta in inganno: il liquido era il sangue avvelenato del centauro e, appena, la stoffa sfiorò la pelle dell’eroe, il veleno iniziò a corroderne le carni, provocandogli un dolore insopportabile. Il tessuto s’incollò al corpo e mentre Eracle cercava di strapparselo di dosso, anche la carne si lacerava, a brandelli. Ormai in preda alle sofferenze piú atroci, Eracle capí che la sua vita mortale era giunta al termine e si fece trasportare a Trachine su una nave, mentre disponeva che fosse eretta una grande pira su cui essere cremato. L’eroe salí sulla pira e vi si sdraiò, sereno, con la sua pelle di leone. Ma quando le fiamme iniziarono a lambirlo, folgori prodigiose caddero dal cielo e la pira fu ridotta in cenere. Eracle non morí, perché Zeus gli concesse l’immortalità: chiese ad Atena di portare l’eroe sull’Olimpo col suo carro, convinse Hera ad adottarlo e gli offrí in moglie Ebe, coppiera degli dèi, da cui ebbe due figli. Eracle divenne cosí un simbolo, un esempio per tutti gli uomini: l’immortalità meritata attraverso la fatica, lo sforzo, la sofferenza e il coraggio. dove e quando «Sulle orme di Eracle» Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e Galleria Nazionale d’Arte Antica Civita Castellana, Museo Archeologico dell’Agro Falisco Orvieto, Museo «Claudio Faina» fino al 9 novembre Info orari e modalità di visita dei musei coinvolti sono disponibili all’indirizzo: www.movio. beniculturali.it/sbaem/ sulleormedieracle/

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speciale • egitto e islam

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Le piramidi, Alessandria e la regina Cleopatra nella percezione del mondo islamico

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Alla metà del VII secolo gli Arabi conquistano l’Egitto e si affermano come la nuova forza dominante sul piano politico, religioso e culturale. Un processo che, inevitabilmente, costringe i nuovi venuti a fare i conti con la complessa e millenaria vicenda storica della terra dei faraoni... di Marco Di Branco

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ra il 619 e il 621 d.C. i Sasanidi di Persia occuparono la Palestina e l’Egitto. Il 622, l’anno nel quale ebbe inizio la riscossa bizantina, coincide con l’ègira (dall’arabo hijra, migrazione, è appunto l’anno in cui Maometto lasciò Mecca per trasferirsi a Medina, evento che è considerato l’atto di nascita dell’Islam, n.d.r.): mentre l’imperatore Eraclio colpiva duramente l’impero persiano, il Profeta poneva le basi dell’unità religiosa, politica e militare degli Arabi. Pochi anni dopo la sua morte (632 d.C.), ebbero inizio le invasioni che condussero alla fondazione di un grande Stato islamico progressivamente dilatatosi su buona parte del mondo antico. Appena ultimata la conquista della Siria (636-638 d.C.), gli Arabi si misero sulla via dell’Egitto, agli ordini del grande generale ‘Amr ibn al-’As.

La moschea di Ibn Tulun al Cairo, detta anche moschea del Venerdí, una delle piú antiche testimonianze architettoniche islamiche ancora intatte in Egitto, sorta per volere del governatore abbaside Ahmad ibn Tulun tra l’876 e l’879.

una conquista indolore La conquista iniziò con effettivi numerici che potrebbero apparire irrisori (‘Amr si sarebbe presentato in Egitto con un corpo d’armata di appena 4000 cavalieri, solo in seguito rafforzato da altri 5000 uomini), e tuttavia essa fu rapida, completa e relativamente indolore. La spiegazione di questo dato di fatto è in buona parte da ricercarsi nelle condizioni interne egiziane: dopo la cacciata dei Persiani, il legame dell’Egitto con Costantinopoli, lungi dal rafforzarsi, si era deteriorato a causa dei contrasti religiosi e dell’oppressiva politica fiscale bizantina; in particolare, l’opera di Kyros, l’inviato di Eraclio, persecutoria nella sfera religiosa e vessatoria in quella fiscale, contribuí largamente a creare fra gli Egiziani un’atmosfera di simpatia nei confronti dei conquistatori. a r c h e o 83


speciale • egitto e islam

L’unico scontro terrestre di una certa entità nel quale i Bizantini contrastarono gli Arabi si svolse nel luglio 640 d.C. presso la fortezza di Babylon, all’apice del Delta (da non confondersi con la Babilonia mesopotamica, n.d.r.): ‘Amr conseguí una vittoria indiscutibile e Kyros fu costretto a trattare con gli invasori, tentando di ottenere per sé le migliori garanzie. Presentatosi a Costantinopoli per rendere conto del suo operato, Kyros fu sconfessato e bandito da Eraclio, ma poco dopo l’imperatore morí (641 d.C.) e venne meno ogni prospettiva di un intervento diretto dell’esercito imperiale a sostegno dell’Egitto. Pochi mesi dopo la morte di Eraclio, Babylon capitolò, e ‘Amr mosse alla volta di Alessandria, che si arrese il 29 settembre del 642 d.C. Secondo alcune fonti, in tale occasione – su ordine del califfo ‘Umar – sarebbe stata

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Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione e i conflitti interni Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico

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Rivolta abbaside (terza guerra civile). Fine della dinastia Omayyade e inizio dei Califfati Abbasidi (750) Sahi

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Nascita della dottrina islamica a opera di Maometto (610-622)

Conquiste arabe

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Conquiste dei Califfi Omayyadi (661-750) e data

«Egira»: nel 662 Maometto si reca a Medina

Impero persiano-sassanide all’inizio dell’espansione araba

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«Kaaba», santuario nazionale arabo

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‘Amr ibn al-’As († 664 d.C.) non fu soltanto un grande generale, ma anche e soprattutto un abile diplomatico e un notevole amministratore. Egli mise mano al riordino fiscale della provincia (e a questo scopo si serví dei preesistenti funzionari bizantini, rimasti in carica anche dopo la conquista) e si incaricò della scelta della sede del governo e della principale residenza dei conquistatori. Secondo una prassi consolidata nel corso delle grandi campagne militari dirette dai primi califfi, le guarnigioni islamiche venivano insediate in cittadelle fortificate (amsar), per separare fisicamente gli Arabi dalle popolazioni sottomesse, evitando cosí incidenti e abusi; di conseguenza, ‘Amr non elesse come sua capitale Alessandria, ma trasformò in centro urbano il

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Al-Fustat: la prima capitale dei conquistatori


campo militare dal quale aveva diretto le operazioni contro Babylon. Questo accampamento venne chiamato in arabo al-Fustat, dal termine greco-bizantino phossáton («campo militare»), e fu da allora la capitale della provincia araba d’Egitto fino al momento della fondazione del Cairo per opera dei Fatimidi. Dopo il ritiro di ‘Amr, il califfo ‘Uthman affidò il governo dell’Egitto ad Abu Yahyà ‘Abd Allah ibn Sa’d ibn Abi Sarh, che rese sicuri i confini meridionali della provincia stipulando un trattato politico-commerciale con il regno cristiano di Nubia, pose le basi per l’espansione araba verso Occidente e creò la prima flotta musulmana, per mezzo della quale gli antichi predoni del deserto si sarebbero lanciati sulle vie dei mari.

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In alto: frammento di pittura parietale da al-Fustat, il campo militare del generale arabo ‘Amr ibn al-‘As, conquistatore dell’Egitto, trasformato nella città capitale, oggi parte del Cairo. Epoca della dominazione fatimida (969-1171). A sinistra: l’espansione islamica tra il VII e il IX sec.

distrutta la celeberrima biblioteca alessandrina; ad ‘Amr ibn al-’As, propenso a risparmiare la biblioteca, il califfo avrebbe obiettato: «Se gli scritti dei Greci sono in accordo con il libro di Dio, sono inutili e non è necessario preservarli; se invece sono in disaccordo, sono perniciosi e vanno distrutti». In realtà, questo racconto non è altro che una tarda leggenda anti-islamica. A differenza dell’Iraq e della Siria, abitati per larga parte da popolazioni di origine semitica, l’Egitto rappresentava per gli invasori una terra totalmente straniera; tuttavia, nel giro di pochi secoli vi si compí un profondo processo di assimilazione etnica e culturale, che diede come risultato un Paese pienamente arabizzato e quasi del tutto islamizzato. La lingua araba si impose con grande rapidità e fu adottata anche dalla popolazione rimasta cristiana; il greco si mantenne in un primo tempo accanto all’arabo come lingua dell’amministrazione, ma poi finí per cedergli completamente il campo.

la forza dell’islam Come nelle altre regioni conquistate, anche in Egitto l’Islam non fu introdotto con la forza, ma fu adottato per la sua capacità di penetrazione religiosa e per motivi economico-sociali, il piú noto dei quali è l’esenzione dal testatico (jizya) di cui godevano i convertiti. I copti difesero tenacemente le loro tradizioni religiose, ma non giunsero mai a connotare la loro resistenza in senso antiarabo e anti-islamico: il loro destino fu quello di una progressiva marginalizzazione. I nuovi conquistatori, che in un primo moa r c h e o 85


speciale • egitto e islam

Un intellettuale musulmano a Giza Una delle piú ampie descrizioni arabe delle piramidi è quella di un grande medico, filosofo e viaggiatore, ‘Abd al-Latif al-Baghdadi (1162-1231), il quale, nella sua Relazione dell’Egitto, le considera una delle prove piú importanti del grande e brillante passato egiziano. Cosí, per esempio, egli afferma che «le piramidi sono quasi in grado di parlare del popolo che le costruí, di raccontare delle sue condizioni e di informarci sulla sua scienza e sul suo intelletto». Al-Baghdadi nota inoltre che le tre piramidi sono perfettamente allineate e si spinge a enunciare i motivi che dovrebbero spingere le autorità musulmane a preservarle, tra i quali il fatto che su di esse erano incisi pii graffiti dei compagni del Profeta che si erano spinti fino in Egitto. Poi egli cerca di spiegare perché esse non siano menzionate nel Corano e riferisce del dibattito tra i dotti musulmani che le ritenevano precedenti al diluvio e quelli che invece le datavano in un periodo successivo. L’autore si occupa anche di aspetti tecnici, come la localizzazione originaria degli ingressi, la misura e la qualità delle pietre, la tecnica costruttiva. Per quanto concerne la loro funzione, Al-Baghdadi ritiene siano le tombe di due grandi profeti dell’antichità, Hermes (identificato con il misterioso profeta pre-islamico Idris) e Agathodaimon.

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Nella pagina accanto: mappa dell’Egitto e del Nilo, da un manoscritto del Kitab Rujar (Libro di Ruggero) del geografo arabo al-Idrisi. XII sec. Collezione privata. In basso: la prima e la seconda piramide di Giza, in una litografia da un’incisione di Luigi Mayer. 1804. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

mento si erano mostrati consci della loro inferiorità culturale rispetto all’élite egiziana (alla quale avevano infatti affidato l’amministrazione del paese), con il passare del tempo si fecero sempre piú consapevoli della propria leadership. Un vero e proprio punto di svolta in questo senso fu costituto dal califfato di ‘Abd al-Malik (685-705 d.C.), che impose per decreto l’arabo come lingua della comunicazione e dell’amministrazione vietando l’uso del greco, fino ad allora impiegato largamente dai burocrati bizantini al servizio dei nuovi padroni.

ricostruire il passato Questo processo fu accompagnato da una rilettura critica della storia dell’Egitto i cui frutti, purtroppo, si possono cogliere solo a


partire dal X secolo d.C. Si tratta di un’operazione che potremmo definire di stampo «coloniale»: gli storici arabi ricostruiscono la vicenda millenaria e complessa del Paese da loro occupato al fine di legittimare il dominio islamico sia sul piano religioso sia su quello culturale. In questo senso, non sembra casuale che essi siano concentrati soprattutto a decostruire e ricostruire il passato ellenisticoromano (e bizantino) dell’Egitto, soffermandosi appena sulla lontana epoca faraonica, sentita come assai meno interessante dal punto di vista dell’attualità politica. Vale la pena, dunque, di soffermarsi sulle ricostruzioni di tre snodi fondamentali del passato egiziano offerte dagli storici arabi medievali – la costruzione delle piramidi e della sfinge, la fondazione di Alessandria, la morte di Cleopatra –, al fine di evidenziare i presupposti politici e culturali di cui esse sono il frutto.

Le descrizioni arabe dei monumenti faraonici danno ampio spazio all’elemento magico e favolistico che viene peraltro a fondersi con alcuni temi biblici, come quello dell’opposizione fra Musa, cioè Mosè (che nel testo coranico è concepito a immagine e somiglianza di Maometto) e Fir‘awn, il faraone (che invece rappresenta il male assoluto ed è utilizzato come metafora del sovrano tirannico e miscredente). Va comunque sottolineato un elemento fondamentale: nella tradizione araba, si assiste gradualmente a una sorta di rivalutazione del passato piú antico dell’Egitto, che procede in parallelo al progredire del processo di arabizzazione: a un maggiore controllo effettivo del Paese da parte dei musulmani – sia per quanto attiene alla sfera politica, sia per ciò che concerne la sfera culturale e religiosa – sembra infatti corrispondere un atteggiamento meno nega-

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speciale • egitto e islam

tivo e piú misurato e tollerante nei confronti della sua storia millenaria. Cosí, per esempio, se già allo storico arabo Mas‘udi (896-956) veniva attribuita l’idea che le piramidi sarebbero state edificate da un saggio re del passato, Surid bin Sahluq, come rifugi in previsione del diluvio, un’immagine estremamente positiva delle antichità egiziane si riscontra negli autori dell’età mamelucca (XIII-XVI secolo) come alIdrisi e al-Maqrizi, che spesso ne danno un’interpretazione in chiave ermetica o alchemica, sottolineando la grande saggezza degli antichi a paragone di quella dei musulmani della loro epoca. Tra la fine dell’età mamelucca e i primi secoli del dominio ottomano, le antichità egiziane divennero infine terreno di scontro tra musulmani moderati e rigoristi fautori della loro distruzione. Fortunatamente, a prevalere saranno i primi: nel mondo sunnita egiziano si impose infatti l’idea che i magnifici monumenti del passato dovessero essere rispettati e protetti, perché, come scrive lo storico alRashidi (morto intorno al 1400), «anche i venerabili compagni del Profeta che si erano stabiliti in Giza, non avevano fatto nulla alle piramidi e alla sfinge». Cosí, quando, nel XIV secolo, un derviscio fanatico mutilò il naso della sfinge, il suo atto fu quasi unanimemente considerato come dettato dalla malvagità e dal fanatismo.

un presagio di sventura Forse i salafiti che nell’Egitto dei nostri giorni tornano a sostenere la necessità di distruggere le piramidi e la sfinge in quanto idoli che offendono l’Islam, dovrebbero rileggere con attenzione i testi del cosiddetto «Medioevo islamico», assai piú moderno di quanto spesso non si creda. E veniamo alla fondazione di Alessandria, il cui racconto piú dettagliato è contenuto nel trattato intitolato I prati d’oro e le miniere di gemme del già citato Mas‘udi, il quale scrive in piena età abbaside, nel X secolo d.C. Narra Mas‘udi che Alessandro, dopo aver consolidato la sua autorità nel Paese, si mise in cerca di una contrada fertile e ben irrigata; giungendo nel luogo in cui sarebbe sorta Alessandria, trovò le vestigia di un grande edificio e un gran numero di colonne di marmo. Al centro se ne innalzava una altissima, che recava un’iscrizione in antichi caratteri sudarabici, in cui il mitico re Shaddad bin ‘Ad, costruttore della città di «Iram dalle alte colonne», (menzionata nella sura LXXXIX 88 a r c h e o

Il «pirata» Morgan contro le Piramidi La sfinge e le piramidi di Giza vanno distrutte, proprio come le statue di Buddha in Afghanistan. È quanto ha affermato il salafita Morgan Salem al-Gohary nel corso di un’intervista televisiva rilasciata nel 2012 all’emittente egiziana Dream 2, che, ovviamente, ha suscitato un enorme scalpore: «I musulmani devono seguire gli insegnamenti dell’Islam, compresi quelli che richiedono di eliminare gli idoli, come le statue di Buddha in Afghanistan». Gohary ha 50 anni, è un famoso jihadista condannato già due volte sotto il regime di Hosni Mubarak. Fuggito dall’Egitto in Afghanistan dove si è unito ai talebani, nel 2007 è stato riconsegnato all’Egitto dalla Siria ed è uscito di prigione poco dopo la rivoluzione del 2011. Le minacce dei salafiti sono state prese molto seriamente dal governo: le piramidi e la sfinge oltre a rappresentare un patrimonio artistico inestimabile, sono anche la principale fonte di attrazione turistica dell’Egitto, oggi in forte crisi economica.

Giza. La grande Sfinge, dal corpo di leone e volto umano, probabilmente ritratto del faraone Chefren. 2500 a.C. circa.

al-baghdadi e «Il Padre del Terrore» Da un altro passo della già citata Relazione dell’Egitto, ecco la descrizione della Sfinge che ci è stata lasciata dal medico, filosofo è viaggiatore al-Baghdadi: «A poco piú di un tiro di freccia dalle piramidi, si vedono le figure colossali di una testa e di un collo che escono da terra. Questa immagine è chiamata “Il Padre del Terrore” (Abu

‘l-Hawl) e si dice che il corpo al quale questa testa appartiene sia seppellito sottoterra. A giudicare dalle dimensioni della testa, il corpo dovrebbe essere lungo piú di settanta cubiti. Sulla figura si vedono una tinta rossastra e una vernice rossa che brilla come se sia stata applicata di fresco. Questa immagine è molto bella, e la sua bocca è


splendida e piena di grazia: si direbbe che essa stia sorridendo amabilmente. Un giorno, un uomo di spirito mi chiese quale fosse, fra tutti i monumenti egiziani, quello che aveva suscitato maggiormente la mia ammirazione: gli risposi che era la perfezione della testa della sfinge. In effetti, tra le varie parti di questa testa (il naso, gli occhi e le orecchie,

per esempio), si notano le stesse proporzioni che si trovano in natura (…). È davvero stupefacente che, in una figura cosí colossale, lo scultore abbia saputo conservare la giusta proporzione di tutte le parti: in natura, infatti, non ci sono simili colossi e anzi non esiste nulla che possa essere lontanamente paragonato alla grandezza della sfinge».

del Corano), affermava di aver desiderato fondare in quello stesso sito, «riparato dai colpi del tempo, dalle cure e dai mali», una città simile a Iram, ma di non aver avuto il tempo di farlo. L’iscrizione si concludeva con l’invito a non lasciarsi sedurre dall’ingannevole fortuna e dalle lusinghe del mondo. Dopo aver meditato su queste parole, Alessandro riunisce gli operai e dà inizio ai lavori, facendo affluire materiali dalla Sicilia, dal Nord-Africa, da Rodi, Creta e dai «confini del Mediterraneo». Per ordine del Macedone, viene disegnato il tracciato delle mura e, a una certa distanza l’uno dall’altro, si infiggono picchetti ai quali è attaccata una corda con molti campanelli, la cui estremità terminava a r c h e o 89


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davanti alla tenda del re, su una colonna di marmo in cima alla quale Alessandro aveva fatto porre una grande campana. Gli operai avrebbero dovuto cominciare il lavoro quando la corda si fosse mossa e la campana e i campanelli avessero suonato: in tal modo il sovrano avrebbe potuto scegliere il momento piú favorevole per l’inizio dell’opera. Ma mentre Alessandro è immerso nella lettura degli oroscopi il sonno cala su di lui, ed egli si addormenta: allora un corvo si posa sulla colonna e aziona la grande campana, che, a sua volta, mette in azione i campanelli. Gli operai, vedendo la corda vibrare e udendo suonare le campane, gettano le fondamenta della città, rendono grazie e pregano. Il Macedone si risveglia, si stupisce, apprendendo la causa di quel frastuono, ed esclama: «Avevo voluto una

Nella pagina accanto: busto in alabastro di Alessandro Magno, da Alessandria. I sec.a.C.I sec.d.C. New York, Brooklyn Museum.

lungo la riva. Quando i mostri escono dall’acqua per attaccare la città, vedendo le proprie immagini sui pilastri, si danno alla fuga, per non tornare mai piú. Cosí Alessandro fa incidere sulla porta della città questa iscrizione: «Ecco Alessandria: io volevo costruirla in piena sicurezza e assicurarle felicità e durata; ma Iddio onnipotente, il re del cielo e della terra, il distruttore dei popoli, ha deciso altrimenti. Io ho costruito questa città su solide fondamenta; ho innalzato le sue mura. Dio mi ha dato la scienza e la saggezza in tutte le cose, e ha spianato le mie vie. Nessuno dei miei voleri mondani è stato irrealizzabile,

cosa e Iddio ne ha voluta un’altra; Egli respinge ciò che è contrario alla Sua volontà. Desideravo assicurare la durata di questa città, Iddio ha deciso che essa perirà e sparirà presto, dopo essere appartenuta a diversi re».

Qui sopra: le colonne in granito dell’antico porto di Alessandria, in un’altra litografia a colori tratta da un’incisione di Luigi Mayer. 1804. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

tutto ciò che ho desiderato mi è stato accordato, per la grazia di Dio e la bontà che Egli mi ha testimoniato, per realizzare la felicità dei Suoi servi che hanno vissuto nel mio tempo. Gloria a Dio, Signore dei mondi, non c’è altri che Lui, il Signore di tutte le cose». Il seguito dell’epigrafe annunciava gli eventi futuri concernenti Alessandria, la sua prosperità, la sua rovina e, in generale, tutto ciò che l’attendeva in avvenire, fino alla fine del mondo. Poi il Macedone fa posizionare «su colonne chiamate obelischi» potenti talismani, perché proteggano, per quanto possibile, la città appena fondata. Questo racconto, che pure contiene molti riferimenti strutturali al Romanzo di Alessandro dello Pseudo-Callistene (un’opera com-

lotta ai mostri marini A questo punto, comincia una dura lotta contro alcuni mostri marini che distruggono tutto ciò che viene costruito: per Alessandro si tratta di un chiaro presagio della decadenza che attende la città, e tuttavia egli non si dà per vinto, e progetta una sorta di sottomarino con il quale studiare le belve nel loro habitat naturale; poi ordina di riprodurre le loro fattezze e di eseguire copie dei mostri in ferro, cuoio e pietra, che vengono poste su pilastri 90 a r c h e o


posita assemblata tra l’età ellenistica e l’epoca tardo-antica), se ne allontana alquanto, inglobando tradizioni apocrife e motivi provenienti da storie e leggende locali (come l’enfasi sugli aspetti magici e astrologici), che Mas‘udi attribuisce esplicitamente a «cantastorie» egiziani e alessandrini. In questo racconto, i presagi mutano di segno rispetto a quelli descritti nel Romanzo – che sono annunci di benessere e prosperità – e assumono una valenza assolutamente negativa, instaurando un rapporto «strutturale» fra il momento della costruzione e quello della rovina. La fondazione della città sotto cattivi auspici diviene il simbolo della caducità delle imprese umane e Alessandro viene qui a incarnare il mistico monoteista che rende gloria all’unico Dio Signore dei mondi e accetta con rassegnazione il suo volere. La filosofia sottesa alla narrazione di Mas‘udi è molto sottile: la figura del re macedone resta infatti sospesa fra la sfera della hybris (la tracotante superbia che spesso caratterizza gli eroi del mito greco), della jahiliyya (l’«ignoranza» che precede la Rivelazione di Dio a Maometto) e quella della prassi politico-religiosa del buon sovrano musulmano. In fondo, il destino ultimo del personaggio di Alessandro nella tradizione islamica resta quello di un’integrazione non perfettamente compiuta.

il trionfo di al-qahirah È ben possibile che al pessimismo espresso da Mas‘udi nei confronti della sorte di Alessandria abbia contribuito la situazione di grave instabilità politica dell’Egitto della sua epoca, conteso fra gli Ikhshididi, che governarono il Paese dal 935 al 969, e la dinastia sciita dei Fatimidi (909-1171); in effetti, l’autore, che dal 941 visse per la maggior parte del tempo proprio in Egitto, risentí certamente degli effetti della crisi in atto, e l’idea della rovina imminente della città piú impor tante del Paese, espressa profeticamente dal Macedone, può ben a r c h e o 91


speciale • egitto e islam

essere un portato delle convulse circostanze precedenti la conquista fatimide, che Mas‘udi, morto nel 956, comunque non vide. Al racconto di Mas‘udi, volutamente e «personalmente» improntato a una visione pessimistica non solo della storia antica dell’Egitto, ma anche di quella contemporanea, si contrappone una tarda leggenda sulla fondazione del Cairo da parte del generale Jawhar, che potrebbe ben risalire a una tradizione di epoca fatimide. In effetti – pur mancando ovviamente ogni riferimento diretto alla figura di Alessandro – la struttura narrativa è esattamente la medesima utilizzata da Mas‘udi, ma in questo caso l’intervento del corvo fa sí che l’inizio dei lavori venga a trovarsi sotto la tutela positiva del pianeta Marte, il cui soprannome di qahir al-falak, «il trionfatore del firmamento», si trasmette addirittura alla città stessa: al-Qahirah, «la Trionfante». Questo scoperto rovesciamento del segno del racconto di Mas‘udi non sembra privo di un certo intento polemico e propagandistico: alla 92 a r c h e o

triste decadenza di Alessandria, città senza futuro, simbolo del vecchio Egitto pagano e poi abbaside, fanno da contrappunto i preconizzati trionfi di al-Qahirah, la capitale dei Fatimidi, la nuova dinastia sciita governata da un messia incarnato, il luogo a partire dal quale un nuovo ordine sociale, politico e religioso cambierà per sempre il volto del mondo islamico.

morte di cleopatra Consideriamo, infine, l’episodio della morte di Cleopatra, anch’esso narrato da Mas‘udi, che fa largo uso di tradizioni estranee alla storiografia cristiana e riconducibili a leggende di origine islamica, simili a quelle già menzionate sulla fondazione di Alessandria. Scrive appunto Mas‘udi: «Salí al trono la figlia Cleopatra, e vi restò ventidue anni. Era una principessa consacrata alla saggezza e allo studio della filosofia, che favoriva i sapienti e onorava i saggi. Ella stessa compose sulla medicina, gli incantesimi e altre parti delle scienze mediche, alcune opere che portano il suo


Ponte sul Canale di Alessandria, litografia da un’incisione di Luigi Mayer. 1804. Parigi, Bibliothèque Des Arts Décoratifs. Sullo sfondo, si riconosce la colonna detta di Pompeo (ma in realtà venne eretta per Diocleziano), che è uno dei pochi resti attribuibili alla fase romana della città e conservatisi fino in epoca moderna. Monoliti non meno imponenti dovevano comunque far parte anche del paesaggio urbano di epoca piú antica, se pensiamo alla tradizione araba secondo la quale Alessandro Magno ne avrebbe visto uno con un’iscrizione nella quale veniva ricordato il mitico re Shaddad bin ‘Ad, costruttore della città di «Iram dalle alte colonne», (menzionata nella sura LXXXIX del Corano).

nome, le sono attribuite e sono conosciute dagli uomini esperti dell’arte della medicina. Con lei finí la dinastia dei re greci: da allora, il loro impero fu distrutto per sempre, i giorni del loro splendore furono cancellati, le vestigia della loro potenza disparvero, le loro scienze caddero nell’oblio, a parte i frammenti che restarono tra le mani dei loro saggi». «Quanto a questa regina, si narra di curiosi dettagli sul modo in cui ella si diede la morte. Costei aveva uno sposo di nome Antonio, che partecipava insieme a lei al governo della Maqaduniya, paese dell’Egitto che comprendeva Alessandria e altre città. Essi furono attaccati dal secondo degli imperatori romani, Augusto (...). Parleremo di lui piú oltre, nel capitolo consacrato ai re romani. Egli fece la guerra in Siria e in Egitto, contro la regina Cleopatra e il suo sposo Antonio, che finí per uccidere. La principessa restò allora nell’imMiniatura raffigurante Alessandro Magno calato in mare dentro una potenza di difendere il regno d’Egitto contro botte, dalla raccolta Shrewsbury Talbot Book of Romances. l’imperatore romano». 1445 circa. Londra, British Library. «Costui decise di impiegare l’astuzia per impaa r c h e o 93


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dronirsi della sua persona, perché sapeva a che punto ella fosse versata nello studio delle scienze naturali, e voleva apprendere da lei i preziosi segreti che ella possedeva, quale ultima rappresentante dei saggi della Grecia. In seguito l’avrebbe mandata al supplizio, facendola morire. Egli le inviò dunque un messaggio, ma ella conosceva le sue segrete intenzioni e si ricordava del danno che le aveva causato uccidendo il suo sposo e massacrando le sue truppe. Ella fece dunque cercare un serpente, della specie di quelli che si trovano tra l’Hijaz, l’Egitto e la Siria. Questo serpente spia l’uomo con molta attenzione fino a che non riesce a scorgere una delle sue membra; allora, rapido

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come il vento, fa un balzo di molti cubiti e, non mancando mai il suo obiettivo, sputa un veleno che opera immediatamente; la morte è talmente istantanea che addirittura non la si attribuisce al rettile, ma a un accidente puramente naturale (…)».

il serpente nel vaso «Questa regina Cleopatra si fece dunque portare uno dei serpenti che abbiamo descritto. Il giorno in cui ella apprese che Augusto doveva entrare nel suo palazzo reale, ordinò a una delle sue schiave che preferiva la morte prima della sua padrona al supplizio che l’attendeva dopo di lei, di mettere la mano nel vaso in cui

In basso, a sinistra: particolare di una testa in marmo di Ottaviano, dall’antica città di Athribis in Egitto. I sec. a.C. Alessandria, Museo Greco-Romano.


In basso, sulle due pagine: La morte di Cleopatra, olio su tela di Achille Glisenti. 1878-1879 circa. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.

era il serpente: ella obbedí e si raggelò sull’istante. Allora, la principessa si assise sul suo trono regale, con la corona sulla testa, i suoi abiti di apparato e le insegne regali. Nella sala in cui si trovava, davanti al trono, fece disporre qua e là ogni sorta di fiori, di frutta, di profumi e di quelle meravigliose piante aromatiche che si raccolgono in Egitto. Dopo aver dato i suoi ultimi ordini, ella si separò da quelli che formavano la sua corte. Quegli infelici, dimenticando la loro padrona, non pensavano piú ad altri che a sé stessi, poiché l’arrivo del loro nemico e la sua entrata nel palazzo li aveva fatti completamente perdere d’animo». «Quanto alla regina, appena ebbe avvicinato la

sua mano al vaso di vetro in cui era il serpente e ne ebbe toccato l’orifizio, quel rettile le sputò il suo tremendo veleno: immediatamente, in lei la vita si spense. Il serpente uscí dal vaso strisciando e, non trovando né buco né uscita per scappare – poiché il rivestimento di quella sala, fatto di lastre di marmo bianco o d’altri colori e di pitture era stato perfettamente eseguito – si lasciò scivolare fra le piante aromatiche. Nel frattempo, Augusto, entrato nel palazzo, venne fino alla sala del trono; alla vista della regina assisa, con la corona sulla testa, non dubitò che ella stesse per prendere la parola. Dunque si avvicinò, ma allora si accorse che ella era morta. Considerando con ammirazio-

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Particolare di una statuetta in basalto di Cleopatra VII raffigurata con cornucopia, di manifattura egiziana. 51-30 a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Hermitage.

ne tutte quelle piante aromatiche, posava la mano su alcune di esse, le tastava e ne aspirava il profumo. I suoi cortigiani non erano meno ammirati di lui». «Il principe non potendosi spiegare la morte di Cleopatra, si doleva di quello che la fortuna gli aveva portato via. Mentre cosí andava toccando tutte quelle piante, aspirandone il profumo, il serpente si lanciò su di lui e lo colpí con il suo veleno. All’istante, tutta la parte destra del suo corpo fu disseccata; nello stesso tempo, l’occhio destro e l’orecchio destro furono colpiti da paralisi. Lo stupore di Augusto raddoppiò al pensiero della regina che si era uccisa, preferendo la morte a una vita senza onore, e che gli aveva teso una trappola nascondendo un serpente fra le erbe». «A questo proposito, egli compose dei versi in latino, nei quali descriveva la sua situazione, ciò che gli era accaduto e la storia della sua rivale. Visse ancora un giorno dopo la sua ferita, poi morí. Se il serpente non avesse indebolito il suo veleno sulla schiava e poi su Cleopatra, Augusto sarebbe morto sul colpo e non avrebbe avuto questa leggera tregua. Quanto ai versi, sono rimasti celebri fino ai nostri giorni presso i Bizantini, che li recitano nelle loro lamentazioni funebri e li pronunciano in memoria dei loro re e di quelli di cui piangono la morte. Spesso inoltre, li si citano nelle canzoni, tanto essi sono conosciuti e popolari». L’episodio è evidentemente una variazione sul tema del suicidio della regina imperniata sulla sua rappresentazione – assai diffusa nel mondo islamico – come maga, alchimista e avvelenatrice. Ancora una volta, il passato pagano assume qui una connotazione pesantemente negativa e «barbarica» che tende a diffondersi a livello popolare e a divenire, per cosí dire, proverbiale. Non può esservi prova migliore del successo della ricostruzione ideologica del passato egiziano messa in atto dagli storici arabi. per saperne di piú Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani, Plus, Pisa 2009 Marco Di Branco, Alessandro Magno eroe arabo del Medioevo, Salerno editrice, Roma 2011 Marco Di Branco, L’eroe dei due mondi, in «Archeo» n. 348, febbraio 2014; anche on line su archeo.it

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

Gli antichi in America? le invenzioni che hanno cambiato la storia furono il frutto di una sola cultura? e la scoperta del nuovo mondo è davvero merito di colombo o già prima di lui navi provenienti dal vecchio continente avevano gettato l’ancora in quelle acque lontane? interrogativi avvincenti, ai quali offre una soluzione «razionale» l’ultimo saggio dello scienziato lucio russo

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ra Otto e Novecento ha avuto vigore nelle ricerche storiche e archeologiche una visione che tendeva a spiegare i cambiamenti culturali (tecnici, organizzativi, stilistici…) percepibili all’interno delle singole civiltà, attraverso fenomeni di adozione dall’esterno, cioè da altre culture, di nozioni e strumenti culturali innovativi. Queste teorie «diffusioniste», secondo le quali le conquiste che hanno accompagnato il progresso umano si sono appunto ‘diffuse’ nel corso dei millenni a partire dai centri che le avevano elaborate per primi, hanno avuto il merito di ampliare l’orizzonte delle ricerche, mettendo a confronto e in collegamento contesti storici, geografici e culturali molto diversi e lontani. Tale visione fu a sua volta influenzata da corpose ideologie eurocentriche, tipiche dell’età del colonialismo, che tendevano ad attribuire a determinati popoli e culture quelle innovazioni che altre culture non sarebbero state capaci di costruire da sole. Nel diffusionismo, dunque, c’era anche dell’acqua sporca, ma il suo superamento – che data a partire dalla metà del XX secolo – ha finito con il buttar via a volte anche il bambino. Le critiche antidiffusioniste, elaborate in Strabone, il grande storico e geografo greco (64/63 a.C.-20 d.C. circa), in una incisione del XVI sec.

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particolare dall’«archeologia processuale», hanno ribaltato la visione del problema dei cambiamenti culturali (dallo sviluppo dell’agricoltura a quello della metallurgia, dall’espandersi delle architetture megalitiche alla nascita della scrittura e via dicendo), sostituendo al diffusionismo una teoria generale secondo la quale le società umane seguirebbero tendenzialmente tutte le stesse leggi evolutive, sí che ciascuna, a un certo grado di sviluppo, dovrebbe raggiungere le diverse mete dell’evoluzione culturale. Ma questa rigidità di visione, fondata su un bagaglio di presunte leggi del comportamento umano, che anche le scienze dure non riconoscono ormai piú neppure nei fenomeni della natura, non era priva a sua volta di condizionamenti ideologici (forieri di atteggiamenti nazionalistici); e, pur essendo mossa dal nobile intento di riconoscere pari dignità alle diverse culture, anch’essa non ha retto agli sviluppi della ricerca. Oggi, infatti, sempre piú riconosciamo anche alle vicende storiche quelle caratteristiche di casualità e imprevedibilità assodate per l’evoluzione biologica, che ha abbandonato l’idea dell’esistenza di un progresso lineare, del quale la nostra specie rappresenterebbe il culmine. Naturalmente, come sempre, quando si contrappongono due visioni cosí opposte, occorre saper distinguere quanto di positivo ci sia nell’una e nell’altra: senza le intuizioni dell’archeologia processuale difficilmente sarebbe nata una disciplina come l’etnoarcheologia, che scommette sulla possibilità di studiare all’interno delle società ‘primitive’ ancora viventi le fasi iniziali e gli stadi evolutivi delle società estinte. Al tempo stesso, il riconoscimento che nel corso della storia umana si siano verificati ripetuti fenomeni di crisi (e talora veri e propri collassi culturali che condussero alla fine di

intere grandi civiltà) ha tolto argomenti ai fautori della ineluttabile evoluzione progressiva delle culture. Negli ultimi decenni la consapevolezza dei problemi ecologici a livello planetario e la crescente coscienza della limitatezza delle risorse disponibili hanno cominciato a intaccare la fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità. Oggi – con gli occhi pieni delle immagini della crisi in atto nella nostra civiltà occidentale – la convinzione che alcune leggi universali regolino l’evoluzione di tutte le società umane si va facendo sempre piú debole. Tra le due diverse posizioni il dibattito è comunque ancora aperto. A chi dare credito dunque?

tesi insostenibili Chi si occupa di antichità conosce bene i lavori del fisico Lucio Russo, docente di calcolo delle probabilità e al tempo stesso studioso quanto mai acuto e profondo della scienza ellenistica e della sua storia. Gli archeologi devono ora essergli assai grati per aver messo, con garbo e concretezza di argomenti, i piedi nel piatto della storiografia antica con un libro, L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo (Mondadori, Milano 2013) che apre uno squarcio nuovo in un dibattito antico ed è al tempo stesso una continua lezione di metodo. Lucio Russo si dice certo che la tesi neoevoluzionista che sostiene l’esistenza di sviluppi indipendenti e paralleli di civiltà assai diverse fra loro «sia chiaramente insostenibile». E su questa asserzione si fonda il suo bel libro. Se ormai sappiamo che l’invenzione della ruota è l’esempio di una innovazione che è avvenuta una volta sola e si è propagata al mondo intero, lo stesso potrebbe essere avvenuto per tante altre conquiste culturali. Addirittura anche per la stessa scienza, dunque, se con il termine «scienza» non intendiamo una generica conoscenza della natura,

ma piuttosto un corpo di conoscenze omogeneo, basato sui due pilastri fondamentali del metodo dimostrativo e di quello sperimentale. In questo senso – argomenta Russo – «la scienza, proprio come l’uomo, è nata una sola volta, e avrebbe potuto benissimo non nascere». E questo vale anche per la scienza geografica. «Tutti i popoli – scrive Russo – hanno sempre avuto nozioni di geografia empirica, cioè una conoscenza piú o meno estesa della posizione reciproca di vari luoghi, e spesso hanno anche rappresentato in forma simbolica tali conoscenze con disegni. La geografia matematica è invece un tipico prodotto culturale ellenistico e consiste nell’elaborazione di un modello matematico della terra in cui è possibile inserire dati numerici ricavati da misure e che può essere usato sia per eseguire calcoli utili a prevedere risultati di altre misure, sia per realizzare, attraverso procedimenti univocamente riproducibili, carte che incorporino informazioni quantitative». Detto in altri termini: non basta conoscere il mondo, occorre anche saperlo rappresentare, traendo da questa interpretazione nuovi strumenti di conoscenza del mondo stesso. Il mondo antico a questa rappresentazione era arrivato al punto tale non solo da raggiungere lidi remotissimi del pianeta attraversando distese infinite di oceano, ma da costruire un modello geografico che permetteva di ripetere quei viaggi e di inserirli in una conoscenza del globo scientificamente fondata. Nonostante la perdita della letteratura punica, qualche traccia di questi viaggi è rimasta nei pochi scritti antichi che abbiamo a disposizione. Strabone, per esempio, accenna a tentativi di navigazione attraverso l’Oceano, senza esito a causa delle fatiche e della durata della traversata, e descrive il mondo conosciuto parlando di «nostra ecumene»

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L’America centro-meridionale in una mappa francese del 1550. Londra, British Museum. una copiosa letteratura fantastica, giunta a noi purtroppo in parti limitatissime, in cui i dati reali, sempre meno compresi, si mescolavano con notizie fraintese e di seconda mano, riferite ormai senza alcun vaglio critico, tanto da trarne una limpida lezione di metodo: «Credo – osserva infatti Russo – che un criterio spesso utile per distinguere tra le conoscenze con un’origine reale poi sconfinate nel fantastico e racconti con elementi di plausibilità nati da leggende sia lo studio della loro evoluzione nel tempo.

le isole fortunate

sottintendendo cosí l’esistenza di un altro mondo sconosciuto al di là del mare. I resoconti di quei viaggi reali che portarono i primi navigatori a superare distese d’acqua infinite e con esse la paura dell’ignoto si fecero via via piú

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scarni e confusi, a mano a mano che il mondo conosciuto si richiuse su se stesso, e finirono col passare nel leggendario, lasciando una eco distorta di quelle traversate ormai non piú credute. Dettero anzi materia alla nascita di

Se i racconti divengono via via meno plausibili è lecito sospettarne un’origine realistica; quando invece gli elementi realistici aumentano al trascorrere del tempo, si può scommettere sull’origine leggendaria». Anticipando le conclusioni del libro (che non starò qui a sintetizzare: leggetelo!) mi limito a dire che la tesi sostenuta da Russo è che i risultati della ricerca «ci obbligano a credere» che nel II secolo a.C. navi provenienti dal Mediterraneo non solo avessero raggiunto i Caraibi ma fossero anche tornate indietro. Di piú: le celeberrime Isole Fortunate, poi identificate nel relativamente vicino arcipelago delle Canarie, che si estende non lontano dalle coste occidentali dell’Africa, possono essere localizzate niente di meno che nelle assai piú remote Piccole Antille caraibiche. Con la conseguenza che il mondo antico ebbe del continente americano una esperienza limitata, ma reale, tale da far quanto meno supporre la «diffusione» di elementi culturali dall’una all’altra di queste terre destinate a ignorarsi nei lunghi secoli avvenire. Il tema è affascinante e varrà la pena di tornarci sopra.



antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

per il dio della guerra e la fertilità dei campi una delle feste piú sentite del mese di ottobre era l’appuntamento del giorno 15, segnato da una cerimonia davvero particolare: durante il rito dell’«October equus», infatti, uno sventurato cavallo, adornato di pani, veniva immolato in onore di Marte e dell’inizio di un nuovo anno agricolo

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e feste di ottobre erano concentrate attorno alla metà del mese stesso. A distanza di un giorno, l’una dall’altra, l’11 e il 13, se ne celebravano due, per il vino e per l’acqua: elementi che non sembrano fatti per andare d’accordo, ma che per gli antichi erano perfettamente compatibili. Viene da pensare (a meno che si sia trattato d’una semplice coincidenza, certamente strana) che le due feste fossero cosí singolarmente contigue per l’uso di bere il vino sempre mescolato con acqua. Essendo infatti le uve mediterranee ricche di un elevato contenuto zuccherino, che nel processo di fermentazione portava il tasso alcolico fino a 16/18 gradi, per rendere il vino bevibile lo si riduceva con l’acqua a una media di 5/6 gradi. Senza che per noi sia facile farci un’idea di come fosse – e quanto gradevole – il «prodotto finito». Soprattutto considerando che l’acqua poteva essere quella di mare usata, peraltro, non tanto per «tagliare» il vino quanto per stabilizzarlo, assicurandone una buona conservazione e la possibilità del trasporto. Ateneo assicurava, inoltre, che il vino cosí trattato non provocava ubriachezza. Se l’acqua di mare non fosse stata disponibile, la si poteva ottenere «artificialmente», sciogliendo sale in acqua dolce. C’era però chi consigliava una salatura leggera… In ogni caso, la pratica

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dell’annacquamento era tanto normale che il verbo latino miscère, cioè «mescolare», usato per indicare l’operazione, peraltro assai delicata, dell’annacquamento stesso – o, piú correttamente, del dosaggio dell’acqua nel vino – è diventato in italiano «mescere»: che noi usiamo specificamente e solamente per il vino, mentre per l’acqua (e altri liquidi) si usa il piú generico «versare».

la dea che guarisce La festa del giorno 11 era quella dei Meditrinalia, dedicata alla dea delle guarigioni, Meditrina (la quale, non a caso, aveva nel suo nome la In alto: la rappresentazione di Ottobre nel mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.

stessa radice med- di medicina e anche medicamentum, medicatio, medicus, ecc.). In quel giorno si facevano libagioni in casa, usando vino vecchio e vino novello, allo scopo di esorcizzare malanni passati e futuri. Le libagioni erano infatti accompagnate, secondo Varrone, dalla recita di una sorta di giaculatoria magica ritenuta di sicura efficacia: vetus novum vinum bibo, veteri novo morbo medeor, ossia «bevo vino vecchio e vino nuovo e dei mali vecchi e di quelli nuovi mi curo». In pratica, si trattava di una sorta di terza festa del vino che veniva cronologicamente a trovarsi dopo


quella dei Vinalia rustica del 19 agosto, con la quale s’inaugurava il periodo della vendemmia, e prima di quella dei Vinalia priora, del 23 aprile, durante la quale si spillava il vino nuovo. La festa del giorno 13 era invece quella dei Fontinalia e si celebrava in onore della dea o ninfa delle sorgenti Fons (o Fontus) considerata figlia di Giano, dio che, tra le sue prerogative, aveva anche quella di far sgorgare le acque. Per l’occasione venivano confezionate corone di fiori che si gettavano nelle fontane, mentre con altre si ornavano le vere dei pozzi. I riti sacri si svolgevano presso il santuario di Fons ubicato ai piedi dell’Arce capitolina, nel versante settentrionale, appena fuori della Porta, detta perciò Fontinalis, che s’apriva nelle mura urbane repubblicane (press’a poco dov’è oggi il Museo del Risorgimento, sul fianco sinistro del Vittoriano): un tempio vi era stato dedicato, nel 231 a.C., dal console Caio Papirio Masone dopo che

questi, col suo esecito, in Corsica, s’era salvato dalla sete grazie alla fortuita (e «miracolosa») scoperta di una sorgente.

una festa singolare Una festa piuttosto singolare – soprattutto per il rito che la caratterizzava – e certamente la piú importante di tutte era quella dell’October Equus, «il cavallo di Particolari di pavimenti a mosaico, provenienti anch’essi da Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia) raffiguranti un grappolo d’uva (in alto) e una bottiglia affiancata da un calice da vino. Età imperiale. Sousse, Museo Archeologico.

ottobre». Celebrata il giorno 15 – quello delle Idi –, ne era momento fondamentale l’uccisione rituale, col giavellotto, di un cavallo: quello di destra della biga che aveva vinto un’apposita gara di corsa. Il sacrificio era dedicato a Marte, inteso, insieme, come dio della guerra ma anche come tutore contro le malattie degli uomini e degli animali e guardiano dei campi coltivati e della loro fertilità. Benché gli stessi antichi avessero perso, col tempo, il significato originario della festa (rimasta peraltro in uso fino alla fine del mondo antico), è molto probabile che si trattasse di una occasione con la quale si celebravano, congiuntamente, la fine della stagione della guerra e l’inizio del nuovo anno agricolo. Non a caso, il cavallo, prima di essere sacrificato, veniva adornato mettendogli indosso una fila di pani «per il buon esito del futuro raccolto», come scrive Catone (De re rust. 141). Quanto alla scelta del piú nobile degli animali come offerta al dio fecondatore, essa dipendeva dalla identificazione di questi con il Sole del quale proprio il cavallo rappresentava il «corso» quotidiano e la velocità. Le cerimonie, pur concludendosi nel Foro, si svolgevano soprattutto fuori della città vera e propria, nel Campo Marzio occidentale. In particolare, la corsa dei carri che precedeva il sacrificio, nell’ippodromo detto Trigarium – per l’uso arcaico di farvi correre le trigae, i tiri a tre cavalli – ubicato sulla sponda sinistra delTevere (nel tratto oggi compreso tra i ponti Sisto e Vittorio Emanuele II, in corrispondenza e con lo stesso andamento dell’odierna via Giulia). Il cavallo veniva ucciso nel vicino Tarentum, il santuario delle divinità degli Inferi, Plutone e Proserpina.

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Al cavallo sacrificato venivano recise la coda e la testa: la coda era portata alla Regia del Foro Romano, di corsa, perché il sangue, simbolo delle forze vitali della natura, non ancora coagulato, potesse sgocciolare sull’altare del sacrarium Martis che all’interno della Regia si trovava. La testa, invece, veniva fatta oggetto di una vivace contesa tra gli abitanti della Suburra (Suburanenses) e quelli della via Sacra (Sacravienses). Se vincevano i primi, essa finiva appesa alla cosiddettaTorre Mamilia (un’alta costruzione della stessa Suburra, appartenente alla gens che si diceva discendere dal fondatore diTuscolo,

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Mamilius). Se vincevano i secondi, la testa veniva affissa a un muro della Regia. Il sangue, intanto, veniva raccolto e conservato dalle Vestali, che lo impiegavano per preparare il suffimen (la mistura magica usata per i «suffumigi» dei Parilia, il 21 di aprile), insieme a gambi secchi di fave e con le ceneri dei feti dei vitelli sacrificati nella festa dei Fordicidia.

purificare le armi Alla festa dell’October Equus era infine collegato l’Armilustrium, celebrato il giorno 19 sull’Aventino, in un luogo nel quale, secondo la tradizione, sarebbe stato sepolto il re

Mosaico raffigurante una corsa di bighe. Età imperiale. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. La festa dell’October Equus prevedeva il sacrificio del cavallo di destra del carro vincitore di una gara svolta appositamente prima del rito. TitoTazio (e press’a poco corrispondente all’odierna piazza dei Cavalieri di Malta, appropriatamente ornata dal Piranesi con rilievi di trofei d’armi). Il rito era di carattere militare e consisteva infatti nella lustratio, o «purificazione», delle armi e dell’esercito che aveva appena concluso le campagne di guerra della stagione.



a volte ritornano Flavio Russo

l’enigma dell’aereo bomba inventato per scopi pacifici, l’odometro dei greci e dei romani fu riesumato dalla germania nella seconda guerra mondiale per mettere a punto uno dei piú micidiali ordigni aeronautici, la V1

L

a serie di cinque cifre che possiamo leggere nei moderni tachimetri è il contachilometri; per i Greci, che l’inventarono, e per i Romani, che lo usarono per collocare lungo le loro strade i cippi ogni 1000 passi, era l’odometro, da odos, strada, e metron, misura. Vitruvio lo descrive in dettaglio, sia nel caso di impiego terrestre che marino, azionato da una ruota il primo e da una girante idraulica il secondo. Fu però Erone, quasi un secolo piú tardi, a renderlo simile all’attuale tramite l’adozione di un treno di quattro ingranaggi, ciascuno dei quali solidale a un

indice rotante su un quadrante circolare, suddiviso in 10 gradi. Occorrevano 1000 giri del primo indice per farne compiere 100 al secondo, 10 al terzo e 1 al quarto, valori sempre indicati sui rispettivi quadranti. Il sofisticato strumento fu miniaturizzato e adattato da Leonardo a impieghi topografici, assumendo cosí, oltre al funzionamento, anche la forma che sostanzialmente conserva. Che il futuro potesse riservare all’odometro anche un utilizzo aereo sembrò a lungo una mera utopia e, piú ancora, che, suo tramite, si sarebbe provocata la caduta di un micidiale missile su un bersaglio prescelto. L’esordio avvenne alla periferia di Londra, nella notte del 13 giugno 1944, annunciato da uno strano rombo seguito da alcuni secondi di assoluto silenzio e subito dopo da una violenta esplosione.

arma di rappresaglia Di che cosa si trattasse e del perché di quel sinistro silenzio antecedente al boato, fu rivelato dalla stampa sulla base delle informazioni fornite dalle autorità politiche e militari. In estrema sintesi, quella che durante la veloce picchiata somigliava a un piccolo aereo abbandonato a se stesso, era in realtà una bomba volante, propulsa da un rozzo motore a reazione, un

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A sinistra: il vano comandi di una V1, la scatola nera è l’odometro di Erone, accanto al quale si vede la levetta che ne sbloccava i tamburi. quasi 2 t, metà delle quali di alto esplosivo, capace di colpire fino a 250 km di distanza volando alla velocità di oltre 600 km/h. Ai suoi impatti, susseguitisi per dieci mesi, venne attribuita l’uccisione di oltre 6000 Londinesi e il ferimento di altri 17 000! Misterioso risulta ancora oggi il sistema ideato per provocarne la caduta una volta giunto sul bersaglio: per alcuni tecnici implicava un radiocomando azionato da osservatori lontani o da spie vicine, per altri un avanzato timer, un’ennesima «diavoleria» teutonica. A ben vedere, la realtà è molto piú semplice, «antica» e «mediterranea».

conto alla rovescia

A sinistra: l’elica che fuoriusciva dall’ogiva delle V1 realizzate dalla Luftwaffe nel secondo conflitto mondiale. Nella pagina accanto: ricostruzione virtuale dell’odometro di Erone a lettura continua. antesignano drone secondo l’odierna definizione. La Luftwaffe, che l’aveva prodotta la identificò con la sigla Fi 103, ribattezzata dalla propaganda del III Reich V1,

Vergeltungswaffe 1 («Arma di rappresaglia n. 1»). Dal punto di vista tecnico, si trattava di un aeromobile di circa 5 m di apertura alare per 7,5 di lunghezza, pesante

Dall’ogiva della V1 fuoriusciva, attraverso una corta protuberanza, una piccola elica che, posta in rotazione durante il volo dalla resistenza dell’aria tramite il suo sottile asse, comunicava con un impulso elettrico i suoi giri a un odometro di Erone a quattro tamburi numerati. Lo strumento, però, veniva fatto funzionare alla rovescia, poiché non forniva al momento dell’arresto la distanza percorsa dal punto di partenza, ma stabiliva il momento dell’arresto dopo aver percorso una determinata distanza dal punto di partenza! In breve, in previsione del lancio, sollevando una levetta posta sulla destra della scatola dell’odometro, si sbloccavano i tamburi, portandoli manualmente a comporre la cifra della distanza stimata, che durante il volo si riduceva costantemente fino a pervenire a 0000 una volta sul bersaglio. A quel punto una elettrovalvola chiudeva l’alimentazione del reattore, ponendo cosí termine al suo rombare, e la bomba dopo una silenziosa planata piombava al suolo esplodendo fragorosamente.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

CRONACHE da NARNIA nel cuore dell’Umbria, Uno dei centri medievali piú belli d’Italia racchiude nel suo sottosuolo numerosi ambienti scavati nella roccia. offrendo la possibilità di compiere un viaggio attraverso duemila anni di storia

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ttraverso questa rubrica stiamo scoprendo le molteplici caratteristiche delle cavità artificiali realizzate dall’uomo nel sottosuolo, in epoche e per scopi assai differenti, generalmente accessibili solo a ricercatori che abbiano le necessarie capacità e competenze speleologiche, per poter operare

correttamente e in sicurezza. Da alcuni anni, però, piú di un ambiente ipogeo che si sviluppa al di sotto di grandi città e di centri abitati piú piccoli, è oggetto di valorizzazione e viene regolarmente aperto al pubblico per la visita. Uno dei primi casi, che ha festeggiato i 20 anni di apertura, A sinistra: Narni (TR). Un gruppo di visitatori esplora il traforo di monte Ippolito, una galleria lunga 700 m, compresa nel percorso dell’acquedotto romano della Formina, scavato forse nel 27 d.C. dal curator aquarum Marco Cocceio Nerva. Nella pagina accanto, in basso: un «frate inquisitore» mostra alcuni graffiti scolpiti dai prigionieri sui muri della cella costruita nei sotterranei dell’ex convento di S. Domenico.

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si trova nel cuore dell’Umbria, a Narni, cittadina che, non a caso, ospitò nel 1981 il primo convegno italiano dedicato a tale settore di studi, durante il quale venne istituita la Commissione Nazionale Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana. Qui, infatti, pochi anni prima, alcuni ragazzi del gruppo speleologico UTEC, esplorando i resti di un antico convento individuarono all’interno di un muro, tra rovi e macerie, uno stretto passaggio. Oltre quella fenditura si aprí un mondo sotterraneo di valore inestimabile che, dopo anni di lavoro, tra studi e restauri, ha portato alla nascita di una importante realtà, nota come Narni Sotterranea.

Dall’acquedotto della Formina… Il percorso consente di viaggiare non solo nelle viscere della città, ma anche attraverso il tempo. Un tratto particolarmente suggestivo è il traforo di monte Ippolito, circa 700 m dei 13 km totali dell’acquedotto della Formina, voluto, secondo la tradizione, nel 27 d.C. dal curator aquarum Marco Cocceio Nerva, console romano sotto l’impero di Tiberio e nonno del futuro omonimo imperatore originario della romana Narnia.


A sinistra: veduta di Narni, dominata dalla mole della Rocca albornoziana. splendido mosaico bizantino del VI secolo. Nei fondi del complesso monastico si accede anche a un luogo segreto e di dolore, che venne sigillato murando l’accesso nei secoli passati. Un lungo corridoio conduce in un’ampia sala definita in alcuni documenti rinvenuti negli Archivi Vaticani come la «Stanza dei tormenti». Qui il Santo Uffizio ebbe una sua sede dopo il Concilio di Trento, documentata dalla metà del XVII alla metà del XIX secolo. Oltre la sala vi è una cella carceraria con migliaia di segni L’acquedotto si snoda con gallerie scavate nella roccia lungo le colline intorno alla città, captando acqua da diverse sorgenti, e scavalca con cinque ponti, dei quali rimangono intatti il «Ponte Vecchio» e il «Ponte Cardona», alcune valli. Dotati di luci e caschetti, i visitatori sperimentano le difficoltà superate dagli operai durante la costruzione dell’opera, ne vedono le tracce di scavo lasciate con diversi attrezzi sulle pareti di roccia, ammirano le concrezioni di calcare formatesi nei secoli e quindi riemergono alla luce del sole, attraverso una ripida scala a chiocciola all’interno di un pozzo profondo 18 m.

…alle segrete dell’Inquisizione Proprio sotto la città di Narni si può scoprire un’altra opera idrica romana. Si tratta di una cisterna del I secolo a.C., dove, per chi non abbia voglia di infilarsi nell’angusta galleria dell’acquedotto della Formina, si può effettuare una visita virtuale, ammirando anche alcune fedeli riproduzioni di strumenti degli agrimensores, che accompagnano il turista alla scoperta dell’idraulica antica. Adiacente alla cisterna si trova un’opera ipogea ricca di fascino. Una chiesa del XII-XIII secolo con affreschi che, dopo i restauri, hanno

rivelato opere di artisti umbri del pieno Medioevo, raffiguranti il Cristo pietoso e sanguinante, i quattro simboli degli Evangelisti, l’incoronazione di Maria e, particolarmente importanti, numerosi ritratti di san Michele Arcangelo, al quale era dedicato l’edificio religioso. Il percorso include anche la maestosa chiesa di S. Maria Maggiore (oggi S. Domenico), trasformata in sala conferenze, che fino al XIII secolo fu la cattedrale di Narni e nella quale si possono ammirare le recenti scoperte archeologiche, fra le quali uno

graffiti sulle pareti e sulla bassa volta, che avvolgono il visitatore e permettono di immergersi in una testimonianza diretta lasciata dai prigionieri nel corso del tempo, con nomi, date e simboli, giunti fino a noi. Chi desideri effettuare la visita, può contattare l’Associazione Culturale Subterranea (tel. 0744 722292; www.narnisotterranea.it) e prepararsi con il libro Alla ricerca della verità, che narra la storia dei ritrovamenti, o, ancora, guardare l’omonimo documentario su DVD, che accompagna lo spettatore alla scoperta della Narni Sotterranea.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

DOPO IL DILUVIO Proviene da una città dell’Asia Minore una moneta romana con un’immagine davvero inaspettata: quella di Noè e della sua arca. Ma qual è l’origine di una scelta iconografica cosí lontana dal comune sentire «imperiale»?

L’

iconografia monetale romana fu sempre strettamente controllata dalle autorità preposte alla coniazione e la capillare diffusione del mezzo di scambio (si pensi ai ritrovamenti di monete di età antonina in Cina, o a quello recente di un solidus d’oro in Svezia a Sandby Borg, nell’isola di Öland) veicolava le figurazioni avallate – quando non direttamente prescelte – dall’imperatore stesso, destinate a celebrare la potenza e l’ideologia politico-religiosa di Roma. Come si è già visto, le emissioni provinciali si caratterizzano per una ricchezza e una libertà nella scelta delle immagini davvero notevoli.

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Queste ultime celebrano le «glorie patrie» locali e sono suggellate al dritto dal ritratto imperiale o dalla personificazione della città emittente, il tutto inserito nel sistema politico romanocentrico.

Una cesta per Noè Desta perciò particolare interesse la monetazione imperiale della città di Apamea Kibotos («cesta» in greco) in Frigia (odierna Turchia), dove alcune emissioni riportano un tipo eccezionale (almeno per come la può cogliere la sensibilità dello studioso contemporaneo), ovvero quello di Noè nell’arca, insieme

alle moglie (Genesi, 6,5-9,17). E non si tratta di conii battuti segretamente da gruppi giudaici ribelli a Roma, bensí di ordinarie monete in bronzo firmate dai vari magistrati locali, che emisero anche altri tipi con divinità patrone della città quali Zeus, Apollo e Marsyas. Al dritto, compaiono sempre i ritratti di Settimio Severo, Macrino, Severo Alessandro, Gordiano III, Filippo I e Treboniano Gallo. Tutti personaggi inseriti nel


Qui accanto: Roma, catacomba anonima di via Anapo. Particolare di un affresco raffigurante Noè nell’arca e la colomba in volo. Nella pagina accanto: moneta di Settimio Severo (192-211 d.C.), battuta dalla zecca di Apamea Kibotos di Frigia. Al dritto è il profilo dell’imperatore. Al rovescio (piú leggibile nella restituzione grafica, in alto) si vedono l’arca con Noè e la moglie, sormontata da due uccelli; accanto, due personaggi alzano il braccio destro in segno di saluto e ringraziamento; la leggenda indica la carica del magistrato che ha curato l’emissione, l’agonoteta (organizzatore dei giochi), Artemas.

loro tempo e senza alcuna personale propensione verso il giudaismo che, benché da essi benevolmente tollerato, era inconciliabile (cosí come il cristianesimo), con la tradizionale religiosità romana. Viene da chiedersi perché Roma abbia accettato una simile immagine, con tanto di leggenda in greco che definisce il personaggio, a scanso di equivoci. Sul retro delle monete, infatti, compare una scena sdoppiata: a destra vi sono un uomo e una donna entro una sorta di scatola, che rappresenta l’arca del diluvio universale, e sul fronte il nome NOÈ, in greco, che identifica il protagonista.

la colomba e il corvo Sui lati superiori dell’arca-cassa si poggiano, con alcune varianti, i due uccelli del racconto biblico: a sinistra la colomba con il ramoscello d’ulivo e, a destra, il corvo. Si tratta quindi del fatidico momento in cui la prima, riportando il rametto nel becco, indica la fine delle piogge, il ritiro delle acque e la riemersa terra ferma. La scena quindi cambia, come in un fumetto, e, a sinistra, la coppia non è piú nell’arca, ma è stante, riccamente abbigliata, con il braccio destro alzato in segno di saluto e ringraziamento. Intorno corre il nome del magistrato con la sua carica, e in esergo la denominazione della città, Apamea. I magistrati scelsero dunque di rappresentare il momento in cui le acque si sono ritirate e Noè con la moglie (anonima nella Bibbia, ma nella tradizione rabbinica chiamata Na’amah e nota anche con altri nomi) rendono grazie al Signore. L’arca si arenò presso il monte

Ararat e da qui gli eletti trovarono una terra ubertosa e felice sulla quale crescere e moltiplicare le forme di vita preservate. Secondo le tradizioni oracolari giudaiche (i cosiddetti Libri Sibillini ebraici, redatti probabilmente nel I-III secolo d.C.), il monte era da identificarsi con quello situato proprio nei pressi di Apamea Kibotos. L’abitato, fondato dai Frigi con il nome di Celaenae alla confluenza del fiume Marsyas con il Menandro, costituiva una tappa strategica lungo le vie carovaniere dell’Asia Minore, traendo da questa posizione grande floridezza.

nel nome della madre Divenuta base militare con Alessandro Magno, alla morte del Macedone la città entrò in possesso di Antioco I (280-261 a.C.), il quale la ribattezzò con il nome della madre, Apamea. In seguito Antioco III il Grande, nel 188 a.C. vi introdusse una folta colonia ebraica, concedendole numerosi privilegi e consentendo i culti patri, una colonia che raggiunse ben

presto un ampio prestigio sociale ed economico mantenuto anche nel corso dell’età romana. In questo contesto si inseriscono la monete romane con Noè, emesse per circa sessant’anni a partire da Settimio Severo: non è possibile affermare se i magistrati locali preposti alle emissioni fossero ebrei, dato che i loro nomi sono comuni nomi grecanici, le magistrature rivestite quelle consuete e gli altri conii a loro nome riprendono i consueti tipi «pagani». È però innegabile che tali immagini riflettono la posizione preminente della comunità giudaica apamea tra la fine del II e la metà del III secolo d.C. e, comunque sia, un’accettazione per vari decenni da parte di Roma (se mai arrivavano sino all’Urbe notizie di queste emissioni strettamente locali) di quella che è considerata la prima immagine religiosa di matrice giudaica nel mondo romano e che, forse, non fu chiaramente letta come tale. (1 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Jean-François Bernard (a cura di)

«Piazza Navona, ou Place Navone, la plus belle & la plus grande» du stade de Domitien à la place moderne, histoire d’une évolution urbaine Collection de l’École française de Rome, 493, École française de Rome, Roma, 877 pp., ill. col. e b/n 55,00 euro ISBN 978-2-7283-0982-5 publications.efrome.it

La citazione scelta per il titolo di questo corposo volume, di taglio specialistico, è tratta dal Voyage d’un François en Italie fait dans les années 1765 et 1766 scritto dall’astronomo francese Joseph-Jérôme Lefrançois de Lalande, il quale, nel descrivere cosí piazza Navona, ne colse il carattere simbolico, espressione di una gloriosa romanità: passata, rivissuta e riattualizzata nelle epoche successive.

Il volume fa da corollario alla lunga campagna di scavi condotta tra il 2006 e il 2010 nelle cantine dello stabile che ospita l’École française de Rome, al civico 62 di piazza Navona, grazie al contributo dell’Agence Nationale de la Recherche, e ne presenta i primi risultati. L’ampia raccolta di saggi si deve a specialisti francesi, italiani, spagnoli e statunitensi, delle piú varie discipline, riuniti in un incontro di studio tenutosi nel giugno del 2010, e offre un’eccellente panoramica del contesto architettonico che, in duemila anni, ha inciso profondamente sullo stesso assetto urbano della città, segnando l’evoluzione della piazza: da stadio voluto da Domiziano, e destinato alle gare di atletica, alla sua graduale metamorfosi in Campus Agonis nel Medioevo e, piú tardi, in Platea Agonis, con la

Pavimento in opus spicatum del XV sec. scoperto nelle cantine del civico 62 di piazza Navona, durante gli scavi condotti dall’École française de Rome tra il 2006 e il 2010. pavimentazione voluta da papa Sisto IV; sino a giungere, nel Seicento, agli arricchimenti barocchi ordinati da

papa Innocenzo X Pamphili. Un decorso storico in cui la piazza ha conosciuto e vissuto differenti

Gaspare Vanvitelli, La place Navone avec le marché. Olio su tela, 1699. Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

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Ricostruzione grafica dello stadio di Domiziano, a cura di Loïc Espinasse (Archéotransfert), Yves Ubelmann, Jean-François Bernard. riutilizzi dell’antico stadio agonale che, pur scomparendo lentamente, in seguito alla graduale incorporazione delle possenti strutture portanti nei nuovi edifici, lasciava un «vuoto» altrettanto significativo a riconoscimento delle funzioni sociali della piazza. Tre sono le macrosezioni in cui l’opera è organizzata – Architettura e urbanistica, Economia e società, Usi e rappresentazioni della piazza –, a loro volta articolate in sottosezioni che danno spazio a studi da cui emergono differenti punti di vista e nuove prospettive di ricerca. Partendo dalle origini del progetto dello stadio, e con esso dell’odeon riservato alle gare musicali – di cui non restano, oggi, che scarsissime tracce –, i vari saggi si soffermano sull’architettura del monumento e sulle sue relazioni con altre realtà architettoniche contigue; toccando anche tematiche come le tipologie di mattone utilizzate, oppure

gli impianti idraulici sottostanti lo stadio, per arrivare alle ipotesi interpretative riguardanti alcuni frammenti della Forma Urbis severiana. Nella seconda macrosezione viene esaminato uno dei momenti cruciali, ovvero il periodo medievale e rinascimentale, durante il quale il campus agonis lascia gradualmente spazio alla platea agonis, con quel che ciò comporta in termini di riassetto urbanistico. I contributi evidenziano dunque il passaggio da una fase in cui prevaleva la presenza di officine e di edifici pubblici, in pieno Medioevo, a una fase in cui questi ultimi vengono trasformati in residenze private, anche a seguito del sensibile incremento demografico che si registra nell’area durante i secoli XIV e XV. È cosí che il campus, per lo piú occupato da orti durante l’età di Mezzo, si trasforma nel XV secolo in platea, riportando al centro dell’attenzione la spettacolarità, stavolta architettonica, dei suoi edifici rinascimentali e barocchi che su di essa si

affacciano. È un dato di fatto che la spettacolarità sia geneticamente legata alla storia della piazza: inizialmente, nelle manifestazioni atletiche che avevano luogo nella stadio; molto piú tardi nella raffinatezza dei suoi palazzi e delle sue fontane. Nella sezione dedicata agli utilizzi della piazza, emerge un panorama che, in epoca moderna, vede l’antica platea diventare occasionalmente un centro della rappresentatività religiosa e/o politica di prim’ordine: luogo privilegiato di manifestazioni sacre e celebrazioni di eventi politici, in cui piazza Navona, attraverso gli apparati effimeri, si trasforma in una sorta di microcosmo rappresentativo delle differenti forze politiche. Le tematiche si estendono anche ad aspetti secondari, ma egualmente illuminanti nel descrivere le molteplici sfaccettature della storia del luogo: gli eventi musicali, la contigua

statua del Pasquino nell’omonima piazza, le raffigurazioni nella pittura sei-settecentesca, i commenti dei viaggiatori francesi, e ancora la piazza nelle sue manifestazioni cinematografiche. Quanto emerge è insomma un caleidoscopio di nuove conoscenze e nuovi dati, tratti sia dai recenti cantieri di scavo effettuati nello stabile dell’École française de Rome (di cui l’Appendice al volume evidenzia in dettaglio tutte le fasi), nonché dalle indagini archeologiche promosse dalle due Soprintendenze a cui compete la tutela dell’area in questione, sia dalle fondamentali ricerche condotte, per i secoli piú recenti, presso gli archivi storici romani: una sinergia straordinaria, che ha permesso di ricostruire, senza pretesa di esaustività ma aprendo nuovi percorsi di ricerca, la storia di una delle piazze piú famose di Roma, e davvero, «la plus belle & la plus grande». Franco Bruni

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