Archeo n. 473, Luglio 2024

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CARRARA

DARDANELLI

SALVATORE SETTIS

MUSEO DI CANOSA

BORSA TURISMO DI PAESTUM

SPECIALE TEATRO NEL MONDO ANTICO

PAESTUM

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IL TEATRO NEL

MONDO ANTICO

LIBRI

SALVATORE SETTIS RACCONTA AMICI E MAESTRI

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TESORI NEL MUSEO DI CANOSA

UNA BORSA PER LA CULTURA

DARDANELLI

ARCHEOLOGIA DELLA GRANDE GUERRA

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 10 LUGLIO 2024

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2024

Mens. Anno XXXIX n. 473 luglio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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ARCHEO 473 LUGLIO

SPECIALE € 6,50



EDITORIALE

UN’ICONA DEGLI ANNI VENTI Fermo restando che l’epoca a cui il titolo fa riferimento è, naturalmente, il secolo scorso, la notorietà del ritratto femminile (che vediamo reinterpretato in serie nell’immagine) è talmente universale e imperitura da gareggiare con quella della Monna Lisa, se non addirittura superandola. Ricapitoliamone rapidamente la storia: è il 6 dicembre del 1912 e siamo a Tell el-Amarna quando l’archeologo Ludwig Borchardt annota nel suo diario una scoperta che segnerà la storia dell’egittologia: «Busto dipinto, a grandezza naturale, di una regina, alto 47 centimetri. Con la parrucca (la corona a elmo) blu tagliata di netto in alto e cinta da un nastro a metà altezza (…) Opera davvero straordinaria. Inutile descriverla, va vista». Con il permesso delle autorità egiziane il reperto prende la via per la Germania, dove si trova tutt’oggi (al Neues Museum di Berlino). La scultura è datata al 1338 a.C. e ritrae la regina Nefertiti, sposa (e forse sorella) del faraone Akhenaton – protagonista della rivoluzione amarniana –, nonché madre (anche qui si impone il «forse») del faraone fanciullo Tutankhamon. Di pietra calcarea rivestita da uno strato di stucco, non è di per sé «preziosa», ma si impone subito per la sua bellezza (nonostante sia priva dell’occhio sinistro!), che presto ne farà un’icona universale. A partire almeno dal 1° aprile del 1924, quando viene per la prima volta presentata in mostra al pubblico internazionale (Nefertiti, del resto, significa «È giunta la bella»). Da quel giorno, infatti, la regina inizia una sua nuova carriera che non sembra aver fine. All’argomento ha dedicato un’avvincente ricerca lo storico Sebastian Conrad – già noto ai lettori italiani per i suoi volumi Storia globale. Un’introduzione (Carocci, 2015) e Verso il mondo moderno. Una storia culturale (Einaudi, 2022) – confluita in un volume di quasi 400 pagine appena pubblicato in Germania, dal titolo Die Königin. Nofretetes globale Karriere (La regina. La carriera globale di Nefertiti). La quantità e la qualità delle «appropriazioni» che nel nome di Nefertiti sono state avanzate in questi ultimi cento anni, superando barriere sociali, politiche e religiose, si rivelano impressionanti: si va dalla lite tra Göring, Göbbels e Hitler (i primi due pronti a restituire il reperto all’Egitto, il terzo deciso «a non restituire mai quella testa»), al suo utilizzo identificatorio da parte di stelle della cultura pop come Rihanna e Beyoncé. Per non parlare, naturalmente, delle reiterate rivendicazioni «nazionali» da parte del Paese d’origine, l’Egitto. A chi appartiene Nefertiti, ci si chiede infine? Sicuramente, e definitivamente, al patrimonio iconografico globale. Andreas M. Steiner

Il busto di Nefertiti nella versione proposta dall’artista tedesca Isa Genzken in occasione di una mostra presentata nel 2016 al MartinGropius-Bau di Berlino.


SOMMARIO EDITORIALE

Un’icona degli anni Venti

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NOTIZIARIO

SCOPERTE Un trattamento speciale ALL’OMBRA DEL VULCANO Quadri di una decorazione

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8

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di Stefano Mammini

ARCHEOFILATELIA Per un atlante teatrale

di Andreas M. Steiner

Attualità

MOSTRE La fatica e la bellezza

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di Luciano Calenda

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA

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di Marina Cappabianca e Pippo Cappellano

LIBRI

1915: attacco all’impero 28

di Alessandra Randazzo

SCOPERTE Tracce di un’antica ricchezza 10

44

di Roberto Andreotti

MUSEI

Per ammirare i tesori della Daunia 60

di Giampiero Galasso

FRONTE DEL PORTO Una società si racconta

Profili crepuscolari di un’Italia migliore

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di Giampiero Galasso

di Alessandro D’Alessio e Cristina Genovese

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28 2024

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€ 6,50

www.archeo.it

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ARCHEO 473 LUGLIO

IN EDICOLA IL 10 LUGLIO 2024

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di Mara Sternini

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MUSEI Nel segno dell’accessibilità A TUTTO CAMPO Mitologie urbane

Presidente

SPECIALE

IL TEATRO NEL MONDO ANTICO

CARRARA

Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 473 luglio 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE TEATRO NEL MONDO ANTICO

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

BORSA TURISMO DI PAESTUM

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

MUSEO DI CANOSA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Federico Curti

SALVATORE SETTIS

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

DARDANELLI

Anno XL, n. 473 - luglio 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

In copertina il teatro di Erode Attico ad Atene. Seconda metà del Il sec. d.C. In realtà l’edificio era un odeum, cioè un teatro di grandi dimensioni, coperto, in cui si tenevano concerti.

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

LIBRI

SALVATORE SETTIS RACCONTA AMICI E MAESTRI PUGLIA

TESORI NEL MUSEO DI CANOSA PAESTUM

UNA BORSA PER LA CULTURA

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DARDANELLI ARCHEOLOGIA DELLA GRANDE GUERRA

28/06/24 16:20

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Roberto Andreotti è giornalista. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Marina Cappabianca è autrice e produttrice di documentari. Pippo Cappellano è giornalista e regista. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Paola Ciancio Rossetto è stata archeologa della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco Archeologico di Ostia Antica. Giampiero Galasso è giornalista. Cristina Genovese è funzionario architetto del Parco Archeologico di Ostia Antica. Flavia Marimpietri è giornalista. Salvatore Monda è curatore della mostra «Teatro. Autori, attori e pubblico nell’Antica Roma». Giuseppina Pisani Sartorio è stata dirigente della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Alessandra Randazzo è giornalista. Orietta Rossini è curatrice della mostra «Teatro. Autori, attori e pubblico nell’Antica Roma». Lucia Spagnuolo è curatrice della mostra «Teatro. Autori, attori e pubblico nell’Antica Roma». Mara Sternini è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.


INCONTRI

Dove il patrimonio fa rima con risorsa

68

di Flavia Marimpietri

68 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Il p(i)atto d’amore

110

di Francesca Ceci

76 SPECIALE

TEATRO Quando la vita è uno spettacolo

110 LIBRI

di Salvatore Monda, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo

Un’invenzione di successo 112

76 82

di Paola Ciancio Rossetto e Giuseppina Pisani Sartorio

Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 46/47, 56, 82/83, 84/85, 86/87 (alto), 87, 93, 94-95, 96, 103, 108-109 – Alamy Stock Photo: p. 3 – Cortesia Ufficio Stampa Università Statale di Milano: Archivio Progetto Tarquinia: pp. 6, 7 (alto); Lucrezia Rodella: p. 7 (basso) – Parco Archeologico di Pompei: pp. 8-9 – Cortesia Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia: pp. 10-11 – Parco Archeologico di Ostia antica: pp. 12-13 – Cortesia Museo Nazionale Romano, Ufficio Stampa: p. 14 – ©PichiAvo: pp. 16-17 – Cortesia CSArt-Comunicazione per l’Arte: pp. Giuseppe D’Aleo: pp. 18 (alto), 19 (centro, a sinistra), 20 (basso); Stefano Genovesi: pp. 18 (basso), 19 (alto) – Stefano Mammini: pp. 19 (destra), 20 (alto, a sinistra e a destra) – Cortesia degli autori: pp. 28/29, 32, 34-42 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 30, 31 (basso), 33, 90, 97 (sinistra); Album/Prisma: p. 84; Album/Sol 90: p. 89 (basso); Mithra-Index/Heritage Images: p. 99; Fototeca Gilardi: p. 104 – Doc. red.: pp. 48-55, 57, 91, 92, 97 (destra), 98/99, 106/107, 110-111; Giliola Chistè: p. 45; Francesco Corni: pp. 86/87 (basso), 102/103 – Cortesia Direzione Regionale Musei Puglia, Museo Archeologico Nazionale di Canosa di Puglia: pp. 60/61, 62-67 – Cortesia Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum: pp. 68-75 – Cortesia Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 76-80, 81 (basso), 100-101, 104/105; Monkeys Video Lab: p. 81 (alto) – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 89 (alto) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 31, 61.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Lazio

UN TRATTAMENTO SPECIALE

T

arquinia fu una delle piú importanti città dell’Etruria e se oggi deve la sua fama soprattutto alle tombe dipinte della necropoli dei Monterozzi, non meno importanti sono stati i risultati delle ricerche condotte sul pianoro della Civita, l’area che – come il toponimo lascia intuire – fu occupata dall’abitato. E proprio qui, in apparente contraddizione con la vocazione del sito, ha avuto luogo la scoperta di una ventina di scheletri, il cui studio, pubblicato nelle scorse settimane, ha sollevato piú di un interrogativo e ha aperto scenari inediti. I resti sono stati rinvenuti nell’area del «complesso monumentale», uno dei settori sui quali si sono concentrate le ricerche dell’Università Statale di Milano, che, insieme all’Università di Cambridge ha dato vita al Progetto Science@Tarquinia, nel cui ambito sono state condotte le analisi sugli scheletri. I ricercatori si sono concentrati, in particolare, su sei individui, vissuti fra il IX e il VII secolo a.C. cercando di trovare risposte convincenti ad alcuni quesiti ben precisi: perché questi individui sono stati sepolti in un’area sacra della città, quando la cremazione era la pratica funeraria normale nella necropoli? Perché tutti gli scheletri condividevano la stessa pratica di inumazione e commemorazione? C’erano altre caratteristiche che li accomunavano? Tutti gli individui provenivano da Tarquinia? Erano persone locali o straniere? Per rispondere si è seguita una metodologia innovativa, che

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coniuga la tradizione umanistica con l’analisi statistica propria della ricerca scientifica. Si tratta di un tipo di ricerca integrata particolarmente importante per la cultura etrusca preromana, priva di fonti storiche dirette, per la quale è diventato necessario fare luce sugli aspetti della vita delle comunità in modo da comprenderne meglio i risvolti culturali, religiosi e sociali nel loro divenire storico. Sono state avviate ricerche interdisciplinari, archeologiche e naturalistiche, messe in dialogo tra loro. In primo luogo ci si è potuti avvalere di una solida cronologia (grazie all’analisi del radiocarbonio integrata dall’indagine archeologica e

dall’analisi bayesiana), che ha permesso di agganciare ogni scheletro alle fasi di attività dell’area sacra. Poi un’analisi osteologica dettagliata, ottenuta attraverso gli strumenti della scienza forense e della paleopatologia (analizzati nel LABANOF-Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano), ha rivelato lo stato di salute degli inumati e la presenza di violenza, distinguendoli nettamente, anche da questo punto di vista, dalle sepolture standard del periodo. Una grande sorpresa è arrivata inoltre dalle analisi sul DNA antico, preservatosi in ben cinque casi su sei, che hanno rilevato la presenza di

Scavi nell’area del «complesso monumentale» della Civita di Tarquinia (Viterbo), da dove provengono gli scheletri oggetto di un recente studio.


In alto: la deposizione dell’individuo 19. A sinistra: analisi paleobotaniche di campioni provenienti dal «complesso monumentale», condotte nel laboratorio dell’Università di Cambridge.

un individuo femminile proveniente dalle zone baltiche. È questa la prima evidenza concreta di un alto livello di mobilità riguardante individui provenienti da quelle zone e non solo prodotti e materie prime, nel caso dell’ambra. Analisi di tipo chimico, infine, hanno contribuito a definire sia gli aspetti legati alla

dieta di queste persone, sia la loro mobilità e regime di vita. I risultati permettono di confermare che questi individui sono stati trattati in modo speciale, non solo per le pratiche di sepoltura, ma anche per motivi biologici: sembrano essere stati visibilmente diversi dal resto della comunità, se non altro per quanto riguarda le circostanze di vita e di morte e di conservazione del corpo per perpetuarne la memoria. (red.)

Errata corrige con riferimento all’articolo Ammone e l’oracolo nel deserto (vedi «Archeo» n. 473, giugno 2024), nel box La fonte del sole (p. 94), il termine mirabilia era inteso nella sua forma italianizzata di sostantivo femminile e dunque non andava stampato in corsivo, un dato che poteva ingenerare la possibile confusione con i mirabilia (le «cose meravigliose», sostantivo neutro plurale latino) della tradizione classica. Dell’imprecisione ci scusiamo con i nostri lettori.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

QUADRI DI UNA DECORAZIONE LO SCAVO DI UN SETTORE FINORA INESPLORATO DELLA «CASA DEI PITTORI AL LAVORO» HA RESTITUITO AMBIENTI IMPREZIOSITI DA RAFFIGURAZIONI DI GRANDE QUALITÀ E CON SOGGETTI INEDITI ED ENIGMATICI

O

ltre ad ambienti della Casa del Secondo Cenacolo, il procedere del cantiere di scavo avviato nel 2023 nell’ambito dei lavori di riconfigurazione dei fronti di scavo dell’Insula dei Casti Amanti nella Regio IX di Pompei – oggi visibile grazie all’apertura del nuovo percorso con passerelle in quota –, sta svelando anche gli ambienti della Casa dei Pittori al Lavoro connessi con il triportico che circonda l’area del viridarium.

A destra: uno dei nuovi ambienti della Casa dei Pittori al lavoro. In basso: quadretto con Perseo che fa specchiare il gorgoneion nell’acqua e lo mostra ad Andromeda. In un primo ambiente, oltre a quattro anfore poggiate a scolare su una stuoia di cui restano le impronte nella cenere vulcanica, sono stati rinvenuti gli scheletri di due individui, probabilmente un uomo e una donna in età senile con un sacchetto contenente tre monete legato alla vita lui e uno spillone per raccogliere i capelli lei.

NEI MODI DEL IV STILE Poco distante dalle vittime è l’ambiente 18 dove le pareti della stanza conservano quasi interamente il sistema decorativo con un linguaggio tipico del IV Stile maturo, coerente con altri ambienti già noti della stessa Casa dei Pittori al Lavoro o con le tecniche e i modi presenti, per esempio, alla Casa dei Vettii. La zona superiore delle pareti, la prima a essere realizzata

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A sinistra: quadretto raffigurante un bambino seduto fra melagrane e grappoli di frutta di dimensioni maggiori del vero. Accanto al fanciullo, che indossa una veste rosa scuro con cappuccio a punta, sta un cagnolino. A destra, in alto: quadretto forse raffigurante la sacerdotessa Ifigenia che purifica il prigioniero Oreste, mondandone con acqua il capo, mentre una bimba assiste al culto.

nella sequenza del cantiere della decorazione ad affresco, è occupata dalla successione di edicole architettoniche illusionistiche. Due dei quadri che spiccano al centro delle edicole a fondo rosso della zona mediana della stanza presentano dimensioni simili, con un’analoga cornice dipinta con banda rosso scuro separata dal fondo da un listello bianco. Un primo quadro raffigura Perseo che leva in alto il gorgoneion per specchiarlo in una pozza d’acqua e farlo ammirare ad Andromeda, appena liberata e seduta su un’altra roccia accanto all’eroe dai calzari alati. La particolare spada con la seconda lama a uncino, l’harpe o falchion – attributo tipico di Perseo – utilizzata per decapitare la gorgone Medusa, si staglia appoggiata sulla roccia, su uno

sperone della quale siede il figlio di Zeus e di Danae. Un secondo quadro raffigura una scena che gli studiosi tendono a identificare con la figura della sacerdotessa Ifigenia nell’atto di purificare il prigioniero Oreste mondando con acqua il capo dell’uomo mentre una bimbetta abbigliata alla romana assiste al culto dietro la tunica grigio violacea della sacerdotessa.

GRAPPOLI SMISURATI Un terzo quadro, ancora, è molto particolare e suggestivo, unico per ora nell’iconografia pompeiana. L’analisi degli studiosi prova che le dimensioni, strette e allungate rispetto agli altri due quadri, non siano un ripensamento dovuto all’apertura della finestra, ma la vera impostazione originaria del

progetto decorativo. La scena è suggestiva con un bambino di età compresa tra i due e i quattro anni con le gambe incrociate e seduto in mezzo a melagrane chiuse a buccia gialla e a grandi grappoli di frutta dalle dimensioni gigantesche rispetto a quelle dello stesso bimbo. Quest’ultimo è avvolto quasi interamente, a eccezione del viso, di una mano e di una gamba, da un’ampia veste rosa scuro con sfumature carminio, sagomata con un cappuccio a punta bordato di bianco e arricchita da un drappo frangiato che il piccolo ha riempito di grossi acini; con una mano sorregge il drappo e con l’altra protende un grande grappolo. In basso a destra, davanti al bambino e tra i frutti è ritratto un cagnolino fulvo con la bocca aperta e le orecchie dritte in posizione di sfida. Il volto, paffuto con bocca serrata, ha grandi occhi neri segnati da occhiaie, quasi spaventati e che fissano in lontananza; il viso, con corti capelli bruni è incorniciato dal cappuccio che lascia fuoriuscire l’orecchio sinistro. La veste del fanciullo richiama il cucullus indossato dal figlio o aiutante di Asclepio Telesforo, dio della giovinezza e della guarigione. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCOPERTE Calabria

TRACCE DI UN’ANTICA RICCHEZZA

R

ecenti indagini condotte a Vibo Valentia, nel quartiere di Sant’Aloe, all’interno del parco archeologico urbano, hanno riservato grandi e importanti sorprese. I lavori hanno interessato i livelli di fondazione di un complesso scolastico realizzato negli anni Settanta del secolo scorso e sono stati esplorati trentadue vani del piano terra. Si pensava che l’area, interessata da importanti attività edilizie negli anni Settanta e Ottanta, fosse ormai fortemente compromessa e, invece, al di sotto del piano pavimentale, sono stati portati alla luce dei significativi riempimenti di terra risparmiati dai cavi di fondazione dell’edificio, che in alcuni casi hanno mantenuto intatta la stratificazione archeologica dell’area. Di notevole interesse sono risultati tredici di

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questi vani, che hanno restituito una gran quantità di reperti e strutture murarie. «Le indagini – spiega Michele Mazza, funzionario archeologo di zona e direttore scientifico dello scavo – hanno rivelato resti di strade, strutture attribuibili sia a domus (abitazioni private) che a edifici di probabile destinazione pubblica, facenti parte di un importante settore urbano del municipium di Vibo Valentia. Tra questi, di particolare interesse, risultano le strutture pertinenti a un complesso termale, e nello specifico, a una grande vasca per il bagno, forse una natatio, conservatasi in buona parte in ottime condizioni. Questa era rivestita da preziosi marmi colorati, e inserita all’interno di un ambiente monumentale decorato da nicchie, colonne e statue in marmo,

all’interno di uno strato di crollo, sul piano pavimentale. Da questo vano provengono i reperti piú significativi, di recente trasferiti nel Museo Archeologico Nazionale “Vito Capialbi” di Vibo, tra i quali spicca una pregevole statua in marmo della dea Artemide, già inserita all’interno di un percorso museale inaugurato pochi mesi fa. La statua, faceva parte dell’apparato decorativo della stanza, che, considerato lo stato di crollo e la posizione del ritrovamento, doveva trovarsi su una nicchia o esedra, posta tra le due colonne. Il resto della decorazione dell’ambiente era completato da pregevoli tarsie di marmo colorato ed elementi architettonici, quali capitelli e architravi, anch’essi in marmo, il tutto funzionale a un ricercato gioco di sfumature e contrasti.


La stratigrafia indagata, i materiali raccolti e le tecniche murarie utilizzate, permettono di datare le scoperte a un periodo compreso tra la tarda età repubblicana (II-I secolo a.C.) e quella imperiale (II-III secolo d.C.). I ritrovamenti sono localizzati in prossimità delle domus e degli edifici termali, scoperti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, e l’orientamento delle strutture rinvenute all’interno della scuola coincide con quello delle strutture già conosciute, trattandosi, verosimilmente, di una naturale prosecuzione del quartiere pubblico/residenziale già parzialmente indagato. Le scoperte, che rappresentano il risultato di una oculata attività di archeologia preventiva, saranno oggetto di uno studio piú approfondito e aiuteranno a comprendere meglio la struttura urbana della città antica, soprattutto durante le fasi di frequentazione di età romana. Ci troviamo probabilmente, di fronte a uno dei settori piú importanti dell’antico centro urbano, come testimoniato dalle splendide strutture rinvenute in passato, riccamente adornate con mosaici di alto livello artistico, e dagli importanti ritrovamenti, tra i

Sulle due pagine: immagini degli scavi condotti a Vibo Valentia, nel quartiere di Sant’Aloe, che hanno restituito resti di strutture riferibili al municipium di Vibo e la cui frequentazione si colloca fra la tarda età repubblicana e quella imperiale. Fra i materiali recuperati spicca una statua in marmo della dea Artemide, visibile nella foto qui accanto. quali si ricordano diverse statue in marmo pari al vero, e il celebre Busto di Agrippa tipo Gabii, una delle riproduzioni meglio realizzate, oggi conservata nel locale Museo Archeologico Nazionale. Il rinvenimento della natatio, che ipotizziamo sia riconducibile a un complesso termale di notevoli dimensioni, rappresenta una

scoperta di grande importanza, ennesima conferma della ricchezza del municipium di Vibo Valentia, che aggiunge un nuovo e importante tassello per la conoscenza di quest’area, che sembra ormai sempre piú probabile doveva essere uno dei fulcri pubblico-residenziale su cui si sviluppava l’antica città». L’intervento di archeologia preventiva si è svolto durante lavori di adeguamento sismico realizzati dall’Amministrazione Comunale con finanziamenti del Ministero dell’Istruzione e svolti sotto la supervisione della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Reggio Calabria e Vibo Valentia. Gli scavi sono stati condotti sul campo dagli archeologi Fabio Lico e Manuel Zinnà della Limes Società Cooperativa, mentre i lavori sono a cura della ditta Cipullo Nicola srl di Trentola-Ducenta. Giampiero Galasso

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

UNA SOCIETÀ SI RACCONTA IL MUSEO OSTIENSE RIAPRE I BATTENTI CON UN NUOVO ALLESTIMENTO, REALIZZATO NEL SEGNO DELLA CONTINUITÀ CON LA SUA VOCAZIONE ORIGINARIA E DELL’ARRICCHIMENTO DEGLI APPARATI DIDATTICI

A

quattro anni dalla chiusura, il Museo Ostiense viene restituito alla pubblica fruizione, a seguito di interventi che hanno interessato, sotto il profilo strutturale, impiantistico e illuminotecnico, l’edificio che lo ospita dal 1934, il rinascimentale Casone del Sale, e che contemporaneamente ne hanno previsto il riordino delle collezioni. Sede espositiva cardine del «museo diffuso» del Parco archeologico di Ostia antica, il nuovo Museo Ostiense raccoglie la gloriosa eredità del suo, anzi dei suoi predecessori, e si pone ancora una volta come luogo in cui la cultura artistica si rinsalda con le magnificenti architetture e gli imponenti monumenti della città.

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Il riallestimento delle quasi 200 opere che lo costituiscono è avvenuto nella consapevolezza di dover contemperare, al fine di giungere a un ponderato equilibrio, le esigenze di rinnovamento del Museo, nelle forme e nei contenuti, con quelle di preservare i caratteri ormai storicizzati, identitari della collezione museale ostiense, nonché della sua mission originaria.

LE LINEE GUIDA DEL PROGETTO In tal senso, le linee progettuali si sono mosse in due direzioni: da un lato si è fatto fronte all’esigenza di assecondare le attuali tendenze Il Casone del Sale, divenuto sede del Museo Ostiense nel 1934.

museologiche e museografiche, soprattutto in tema di accessibilità (fisica e cognitiva), dall’altro si è cercato di intessere, attraverso un’ampia gamma di manufatti, un vero e proprio racconto, supportato da dispositivi multimediali, in cui si intrecciano le molteplici storie di uomini, imperatori, divinità e culti, a riflesso del peculiare panorama sociale e culturale di Ostia e del suo territorio. Un percorso


narrativo per immagini, costituito da statue, iscrizioni, sarcofagi, urne, rilievi, pitture e mosaici che illustrano, in diverse declinazioni, gli aspetti piú salienti della colonia, sintetizzati in cinque grandi temi: quello delle origini, con riferimento alle testimonianze di età repubblicana dagli scavi del Castrum e del Santuario di via della Foce, da cui proviene, tra l’altro, lo splendido torso in marmo di Asclepio; quello della città, ovvero lo spazio civico in cui convivono le istituzioni, il potere imperiale e la gente comune, quest’ultima immortalata in un suggestivo allestimento che ne enfatizza i tratti variegati e dinamici; quello delle religioni e dei culti, espressioni eclatanti del carattere multiculturale e cosmopolita del sistema «Ostia-Portus», nella convivenza di dèi e miti del pantheon greco-romano con quelli di provenienza «orientale», come Iside, Cibele/Magna Mater, Mitra, accanto ai quali figurano anche le grandi religioni monoteiste, ebraismo e cristianesimo; quello

delle necropoli, documentate dalle sontuose decorazioni marmoree e pittoriche dalle tombe dei grandi sepolcreti del suburbio (Isola Sacra, via Ostiense, Pianabella, Laurentina), che offrono interessantissimi indicatori per comprendere, forse meglio che altrove, le componenti sociali della città; infine, chiude idealmente il percorso il tema dell’abitare, con l’esposizione dei variopinti apprestamenti pittorici e musivi e degli arredi scultorei che ornavano le ricche dimore ostiensi, dove trovavano verosimilmente spazio anche le effigi di intellettuali.

LA CITTÀ E IL TERRITORIO Opere di altissima qualità, del tutto identitarie ed esemplificative della realtà ostiense, se si considera che la città con il suo territorio (e dunque l’intero Parco archeologico, con le monumentali aree dei Porti imperiali di Claudio e Traiano e della Necropoli di Porto all’Isola Sacra) rappresenta senza dubbio un caposaldo dell’archeologia e della storia A sinistra: la Sala X del Museo Ostiense, dedicata alle necropoli. In basso: un particolare della Sala VIII, Le religioni e i culti.

dell’arte romana, per quel che riguarda sia la produzione scultorea, sia e soprattutto quella musiva e pittorica (senza dimenticare quei sectilia opera fra cui quello dall’edificio fuori Porta Marina è capolavoro assoluto e che aspirerebbe un giorno a ritornare «a casa»). Ebbene tutto ciò vuole raccontare al pubblico (anzi ai pubblici) il nuovo Museo Ostiense, la cui prima ambizione è esattamente quella di ricomporre, come mai era stato prima e al netto dei pur imprescindibili aspetti museografici, la rete di relazioni, strettissime e biunivoche, che intercorre fra le opere e gli altri oggetti esposti e i contesti urbani, infrastrutturali e funerari di pertinenza. Mettere cioè a sistema la città (quella dei vivi e quella dei morti), le sue istituzioni e il suo funzionamento, con la cultura artistica e materiale che ne promanò; ovvero l’intera società ostiense in tutte le sue componenti e articolazioni, siano esse istituzionali, religiose, economicoproduttive, commerciali ecc., nel quadro appunto della storia urbana e civica della colonia, segnatamente di età imperiale. Alessandro D’Alessio e Cristina Genovese

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n otiz iario

MUSEI Roma

NEL SEGNO DELL’ACCESSIBILITÀ

I

l Museo Nazionale Romano ha compiuto un passo significativo sulla via dell’accessibilità del proprio patrimonio: è stato infatti attivato il nuovo portale delle opere e degli archivi «MNR Digitale-Collezioni e Archivi»: mnrdigitale.cultura.gov.it. Per realizzare il progetto, si è partiti dall’idea che a tutti debba essere garantita una migliore fruizione del patrimonio culturale nazionale e per questo si è puntato alla realizzazione di un’unica e condivisa piattaforma gestionale dei dati relativi ai singoli reperti, alle fotografie e ai monumenti che compongono il Museo Nazionale Romano, che consenta di associare a ogni oggetto tutte le informazioni a esso relative (catalografiche, fotografiche, archivistiche, ecc.). Attualmente i dati inseriti afferiscono alla documentazione relativa all’Archivio del Catalogo, del quale sono stati già inseriti 52 000 record, e all’Archivio Fotografico, del quale sono stati inseriti a oggi circa 500 000 record. Allo stato attuale nel front end è possibile navigare tutti i record

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In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca. dell’Archivio del Catalogo, molti dei quali con le relative immagini e solo una piccola parte della documentazione inerente le fotografie. Questa scelta è stata voluta per consentire a coloro che si avvicinano alle opere del Museo di avere la possibilità di visualizzare tutti i dati digitalizzati attualmente esistenti relativi ai reperti archeologici, anche quando sono lacunosi. Quanto alle fotografie, la

Qui sopra: foto dell’Archivio del Museo Nazionale Romano che documenta lavori in corso nel chiostro di Michelangelo.

In alto: la pagina della piattaforma «MNR DigitaleCollezioni e Archivi» da cui è possibile effettuare la ricerca dei dati. A sinistra: pannello in opus sectile con scena di circo, dalla domus di Giunio Basso. Roma, Museo Nazionale Romano.

disomogeneità dei dati archivistici ha portato a valutare di inserire le schede relative alle immagini in fasi successive, per garantire la visualizzazione di una maggior quantità di informazioni e consentire di effettuare ricerche anche per parole chiave. Il Museo sta lavorando alla strutturazione della scheda archivistica, affinché possano essere condivisi anche i dati relativi all’Archivio Storico e, in parallelo, all’implementazione e omogeneizzazione di tutti i dati a oggi pubblicati. (red.)



A TUTTO CAMPO Mara Sternini

MITOLOGIE URBANE RIVISITATA CON LE TECNICHE PROPRIE DELLA STREET ART, LA LEZIONE DELL’ANTICHITÀ CLASSICA DÀ PROVA DELLA SUA ATTUALITÀ: GLI INTERVENTI DEL DUO DEGLI ARTISTI SPAGNOLI PichiAvo

P

ichiAvo è il nome con cui si firmano due artisti spagnoli, che hanno riscosso in anni recenti un certo successo a livello internazionale, come dimostrano le numerose opere realizzate in Europa e nelle Americhe. Pichi (1977) e Avo (1985) sono originari di Valencia e dal loro incontro è nata l’idea di una collaborazione che ha portato in breve tempo a definire uno stile artistico ben riconoscibile e molto apprezzato dal pubblico. La tecnica di esecuzione dei loro murali prevede una prima fase in cui la parete viene ricoperta da diversi strati di vernice di vari

colori, con una chiara predilezione per le tonalità calde; vengono poi aggiunti i graffiti lettering e, per ultima, viene realizzata una riproduzione di una scultura classica o neoclassica, scelta in base al luogo in cui viene realizzato il murale. Infine, vengono aggiunti degli strati di pittura piú leggera, per creare un effetto di trasparenza.

COLORI INTENSI Entrambi gli artisti provengono dal mondo dei graffiti, che riescono a fondere con il linguaggio formale dell’arte classica e neoclassica, in un gioco di sovrapposizioni, citazioni e trasparenze, il tutto

Sulle due pagine: opere del duo PichiAvo. Dal basso, da sinistra a destra, Apollo’s chariot (2021, Fondation Fiminco, Romainville, Parigi); Zeus/Poseidon (2021, Göteborg, Svezia); Laocoön (2022, Blink Festival, Cincinnati, Ohio).

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caratterizzato dalla predilezione per i colori intensi. La scelta dei soggetti è adeguata di volta in volta al luogo prescelto per realizzare l’opera e alle persone che ci vivono. Un esempio è il bronzeo Poseidon (o Zeus?) di Capo Artemisio, riprodotto al centro di un murale realizzato nel 2021 nella cittadina svedese di Göteborg, per nascondere un cantiere lungo uno dei canali della città. Proprio la posizione deve aver suggerito la scelta del soggetto, con il risultato che il dio del mare sembra emergere dalle acque. Le citazioni riguardano per lo piú sculture che vengono riproposte


all’interno del murale in forma bidimensionale, cercando tuttavia di riprodurre i valori plastici con un’alternanza di toni chiari e scuri ben studiata. È questo il caso del Laocoön inserito nel murale realizzato a Cincinnati (Ohio) in occasione del Blink Festival del 2022, una manifestazione a cadenza annuale caratterizzata da proiezioni, performances ed esposizioni diffuse in diversi quartieri della città statunitense. Altro esempio è il murale realizzato a Poissy (Parigi), il cui protagonista è il celebre Discobolo di Mirone, artista greco della prima metà del V secolo a.C.; l’opera ha conosciuto una grande fortuna già nel mondo romano, come dimostrano le numerose copie conservate, ed è una delle sculture antiche piú note al grande pubblico. Anche in questo caso PichiAvo hanno scelto di riproporre l’immagine secondo prospettive diverse, ottenendo un risultato decisamente contemporaneo. Spettacolare è poi Apollo’s chariot, esposto alla

Fondation Fiminco, a Romainville (nei dintorni di Parigi), dove è raffigurato il dio in piedi su una quadriga; si tratta ancora una volta di una rielaborazione che richiama alla memoria opere dell’età classica come l’Apollo del Belvedere, conservato ai Musei Vaticani. Datato entro la metà del II secolo d.C., si tratta forse della copia di una statua in bronzo realizzata tra il 330 e il 320 a.C. da Leocare, uno degli artisti che lavorarono al mausoleo di Alicarnasso.

IL CAVALLO DI SELENE Un’ulteriore citazione si può ritrovare anche nei cavalli aggiogati al carro del dio, in particolare quelli alla destra dell’osservatore, che ricordano la meravigliosa testa del cavallo della quadriga di Selene, sporgente dal limite del frontone orientale del Partenone, ora conservata a Londra nel British Museum. In Italia si possono ammirare alcune opere dei due artisti, in particolare nel piccolo borgo di

Montecosaro, in provincia di Macerata, dove PichiAvo hanno realizzato, nel 2018, un grande murale con la figura del giovane Eros, il dio dell’amore. Ma qualche anno prima avevano già fatto tappa nella provincia di Latina, a Fondi, dove, in occasione del Festival della Street Art Memorie Urbane, era stata inaugurata una mostra delle loro opere. Il successo di questi artisti risiede nei due elementi chiave della loro produzione: da una parte i graffiti lettering, che ormai dagli anni Settanta del secolo scorso permeano i paesaggi urbani in cui viviamo e, dall’altra, l’eredità artistica classica e neoclassica, alle radici della nostra cultura occidentale. Si tratta, quindi, di due linguaggi visivi a noi cosí familiari che, quando vengono fusi insieme, sono immediatamente riconoscibili e ci fanno indugiare volentieri con lo sguardo sulle opere, attirati anche dai colori caldi che li avvolgono. (mara.sternini@unisi.it)

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n otiz iario

MOSTRE Toscana

LA FATICA E LA BELLEZZA

S

ulla parete della cava romana di Fossacava i segni dei picconi e dei cunei sono chiari e facilmente individuabili, testimonianze umili e silenziose di una storia che ebbe inizio in epoca etrusca, ma che visse le sue pagine piú importanti nel corso dell’età romana, soprattutto all’indomani della fondazione, nel 177 a.C., della colonia di Luni (oggi in provincia de La Spezia). Siamo a Carrara, nome che, fin da allora, è divenuto, di fatto, sinonimo di marmo,

Villa Fabbricotti, sede del CARMI museo Carrara e Michelangelo e ora della mostra «Marmora romana». In basso: la parete con le tracce di escavazione di epoca romana nella cava di Fossacava. perché qui, nelle Alpi Apuane, si concentra, ancora oggi, il maggior numero di cave del prezioso materiale. E qui, nel CARMI museo Carrara e di Michelangelo, che ha sede negli eleganti spazi di Villa Fabbricotti – immersa in un parco nel quale fanno bella mostra di sé opere site specific di nomi importanti dell’arte contemporanea –, si può visitare, fino al 12 gennaio 2025, la mostra «Marmora romana», il cui sottotitolo, «Storie di imperatori, dèi e cavatori», ne sintetizza efficacemente l’obiettivo. Il percorso espositivo permette infatti di ripercorrere l’intera catena operativa di un’attività che ebbe un ruolo decisivo nella fioritura di Roma, perché se è vero che Augusto rifece di marmo una città che aveva trovato fatta di mattoni, senza giacimenti come quello di Fossacava, difficilmente avrebbe potuto portare a termine l’impresa. Il racconto narrato dalla mostra si apre dunque con il lavoro, duro, dei cavatori. Il coordinamento dell’attività estrattiva era affidato solitamente a liberti o schiavi – in questo caso della colonia di Luni –, alle cui dipendenze operavano lavoratori stagionali. A Fossacava era stata individuata una ricca vena

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di bardiglio nuvolato, una qualità di marmo riconoscibile per il colore bianco venato di grigio, che veniva soprattutto impiegato in architettura e che trovò anche largo impiego nella produzione di bacini e vasche di fontana. Erano infatti molto apprezzati i giochi di luce e i riflessi che il suo colore generava a contatto con l’acqua. Nella cava, in ogni caso, la pietra veniva ridotta in blocchi semilavorati, ai quali si conferivano forme geometriche diverse, a seconda della destinazione finale, e che venivano poi fatti scendere a valle, fino al mare, affinché potessero essere imbarcati per poi raggiungere, per esempio, i porti di Roma, nei quali sono state riconosciute aree in cui dovevano essere in funzione macchine elevatorie che ne permettevano la movimentazione. Molte sono le tracce delle varie operazioni, dai nomi di cavatori incisi su alcuni blocchi – come Ephebus e Pudens –, alle piccozze e ai cunei in ferro impiegati per staccarli dalla parete. Un aspetto che i curatori del progetto espositivo hanno scelto di evidenziare è la religiosità diffusa fra gli addetti alle cave. Ne sono prova, fra gli altri, una statua della dea Luna – divinità nei confronti


della quale nutrivano una devozione particolare –, che proviene dalla stessa Fossacava, e un rilievo che mostra il dio Silvano, rinvenuto nell’area della Domus degli Affreschi di Luni. È peraltro verosimile immaginare che il simulacro della dea, in questo caso ritratta anche con gli attributi di Diana – divinità alla quale era spesso associata – fosse inserito in un piccolo luogo di culto ricavato all’interno della cava stessa. Specchio della diffusione del bardiglio lunense sono poi alcune interessanti testimonianze epigrafiche, come per esempio la dedica onoraria per Tettio Demostene, un liberto al quale fu

In alto: i nomi di Ephebus e Pudens incisi su un blocco semilavorato. Qui sopra: piccozze e cuneo in ferro, dall’area delle cave. Età romana. Carrara, Museo Civico del Marmo di Carrara. A destra: statua in marmo bianco di imperatore loricato. I sec.d.C. Carrara, Accademia di Belle Arti.

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n otiz iario Qui sopra: dedica onoraria per il liberto Tettio Demostene, proclamato augustale dall’aristocrazia locale (i decurioni) e dagli abitanti di Luni (i coloni). I sec. d.C. A destra: particolare di un rilievo raffigurante il dio Silvano, con un ramo frondoso nella mano sinistra, dall’area della Domus degli Affreschi di Luni. III-IV sec d.C. Luni, Museo Nazionale e zona archeologica di Luni. In basso: l’allestimento della sezione della mostra dedicata alla religiosità dei cavatori. Sulla destra, una statua della dea Luna, dall’area di Fossacava. conferita la prestigiosa carica di augustale. Oppure l’amorevole iscrizione funeraria voluta da una donna di nome Calemera per il

marito: il nome dell’uomo non si è purtroppo conservato, ma sappiamo che, per la donna, fu uno sposo «senza pari».

Completa il quadro la storia archeologica della cava romana di Fossacava, oggi visitabile grazie all’allestimento di un percorso attrezzato, ma grazie, soprattutto, all’intuizione di Luisa Banti, che nel 1911, quand’era ispettrice del Ministero della Pubblica Istruzione si adoperò affinché sul sito venisse apposto il vincolo che, da allora, ne ha permesso la conservazione. Stefano Mammini

DOVE E QUANDO «Romana marmora. Storie di imperatori, dei e cavatori» Carrara, CARMI museo Carrara e Michelangelo fino al 12 gennaio 2025 Orario martedí-domenica, 9,30-12,30 e 17,00-20.00; chiuso il lunedí; altre chiusure: pomeriggio del 14 agosto, 1° novembre, pomeriggi del 24 e del 31 dicembre, 25-26 dicembre, 1° gennaio, 6 gennaio Info tel. 335 1047450; e-mail: museo.carmi@comune. carrara.ms.it; https://carmi. museocarraraemichelangelo.it

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

PER UN ATLANTE TEATRALE Il Museo dell’Ara Pacis, a Roma, ospita, fino al prossimo 3 novembre, la mostra «Teatro. Autori, attori e pubblico 1 2 nell’antica Roma», rassegna da cui prende spunto lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 76-109), che analizza i molteplici aspetti del fenomeno, dalle sue origini fino all’epoca imperiale. Queste note filateliche si agganciano al tema della precedente rubrica (vedi 4 «Archeo» n. 472, giugno 2024; on line su issuu.com), 5 presentando edifici ancora oggi utilizzati, sia pure solo nella stagione turistica, per spettacoli teatrali, 3 musicali, operistici e di arte varia. Naturalmente si parte dalla Grecia, dove tutto è cominciato, nei primi anni del V secolo a.C., ma con una 6 7 eccezione dovuta all’importanza di un teatro oggi non piú in uso. Si tratta del teatro di Dioniso (1), ad Atene, uno dei piú antichi in assoluto, che poteva contenere fino a 15 000 spettatori e che fu utilizzato dai piú grandi autori, come Eschilo, Sofocle, Euripide, 8 9 10 Aristofane. Fra i teatri tuttora attivi, il primo e piú importante è quello di Epidauro (2), sorto nel IV secolo a.C. con una capienza di circa 15 000 persone, recuperato nel 1938 per essere utilizzato in occasione del festival annuale, giunto quest’anno alla 69ª edizione. A esso collegato per i programmi artistici è l’odeon di Erode Attico ad Atene (3), 11 12 costruito nel 161 d.C. alla base dell’Acropoli e originariamente coperto. Ancora in Grecia citiamo poi gli impianti piú importanti come il teatro di Delfi (4) e quelli conservati in Epiro: Dodona (5) e Nicopoli (6), l’unico, quest’ultimo, a essere stato innalzato in epoca romana, nel I secolo d.C. Dalla Grecia risaliamo lungo la costa adriatica e troviamo, in 13 14 Albania, il teatro di Butrinto (7), di origini greche (IV secolo a.C.), ma ampliato poi dai Romani nel III secolo d.C., e, nell’attuale Croazia, l’Arena di Pola, costruita da Augusto nel I secolo d.C. (8). A est della Grecia si contano i numerosi teatri della Turchia: i piú famosi sono ad Aspendos (9), vicino ad Antalya, di origini romane del II secolo d.C., molto ben conservato, e a Pergamo (10), assai noto anche per i festival che vi si svolgono. Tornando nell’Europa occidentale, possiamo poi ricordare i teatri di Lione (11) e Nîmes (12), in Francia, e quelli di Mérida (13) e 15 16 17 Tarragona (14) in Spagna. Concludiamo qui questo breve viaggio e, nell’impossibilità di segnalare tutti gli IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filateimpianti greco-romani situati nei Paesi mediterranei, lia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere invitiamo i lettori a visitare la mostra di Roma, dove si alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, possono ammirare molti di questi siti in versione ai seguenti indirizzi: virtuale e oltre 250 reperti originali. Tra questi ultimi, vi Segreteria c/o Luciano Calenda sono manufatti simili a quelli proposti dagli ultimi Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa francobolli: una maschera di scena per tragedie (15), Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma una statuetta raffigurante l’attore di una commedia segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it oppure www.cift.it (16) e attrezzature musicali (17).

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CALENDARIO

Italia ROMA Teatro

Autori, attori e pubblico nell’antica Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 03.11.24

ISERNIA La forma dell’oro

Storie di gioielli dall’Italia antica Museo Archeologico di Santa Maria delle Monache fino all’08.09.24

Un museo per l’École

MILANO Vulci

DeVoti Etruschi

POMPEI L’altra Pompei

La collezione di antichità dell’École française de Rome École française de Rome, Galleria (piazza Navona, 62) fino al 20.12.24 Da Veio a Modena e ritorno Museo delle Antichità etrusche e italiche. Sapienza Università di Roma fino al 31.03.25

CARRARA Romana marmora

Produrre per gli uomini. Produrre per gli dèi Fondazione Luigi Rovati fino al 04.08.24

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei, Palestra grande fino al 15.12.24

Storie di imperatori, dèi e cavatori CARMI, Museo Carrara e Michelangelo fino al 12.01.25

RIO NELL’ELBA (LIVORNO) Gladiatori

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

SESTO FIORENTINO Archeologia svelata a Sesto Fiorentino COMO Il catalogo del mondo

Plinio il Vecchio e la Storia della Natura Ex chiesa di S. Pietro in Atrio e Palazzo del Broletto fino al 31.08.24

GAVARDO (BRESCIA) L’età del Legno. 4000 anni fa al Lucone

Manufatti in legno e tessuti dal sito palafitticolo dell’età del Bronzo Museo Archeologico della Valle Sabbia fino al 31.12.24 24 a r c h e o

Momenti di vita nella piana prima, durante e dopo gli Etruschi Biblioteca Ernesto Ragionieri fino al 31.07.24

SIRACUSA Il regno di Ahhijawa

I Micenei e la Sicilia Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» fino al 09.10.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia Reloaded

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

La Scandalosa e la Magnifica 300 anni di ricerche su Industria e sul culto di Iside in Piemonte Galleria Sabauda, Spazio Scoperte fino al 10.11.24

Capolavori della Collezione Torlonia Museo del Louvre fino all’11.11.24

Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Il Met al Louvre

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

NÎMES Achille e la guerra di Troia TRENTO Con Spada e Croce

Longobardi a Civezzano Castello del Buonconsiglio fino al 20.10.24

TRENTO-SAN MICHELE ALL’ADIGE Sciamani

Comunicare con l’invisibile Palazzo delle Albere (Trento) METS-Museo etnografico trentino San Michele (San Michele all’Adige) fino al 06.10.24

Musée de la Romanité fino al 05.01.25

Germania BERLINO Il fascino di Roma

Maarten van Heemskerck disegna la città Kulturforum fino al 04.08.24

Elefantina

Isola dei millenni James-Simon-Galerie e Neues Museum fino al 27.10.24

Paesi Bassi LEIDA Paestum

Città delle dee Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

TRIESTE Un tesoro ritrovato

Banditi e carovane sul Carso nel Medioevo Museo d’Antichità «J.J. Winckelmann» fino al 29.09.24

Francia PARIGI L’olimpismo

Un’invenzione moderna, un’eredità dell’antico Museo del Louvre fino al 16.09.24

Ville romane nel Limburgo Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

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DA 16 C NO AP N OLA PE VO RD R ER I E

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

GLI IMPERDIBILI AVVENTURE, STORIE E MISTERI DI 16 CAPOLAVORI DELL’ANTICHITÀ

U

n viaggio attraverso l’intero territorio italiano, seguendo un percorso dettato da sedici capolavori dell’antichità: è questa la proposta della nuova Monografia di «Archeo», nella quale sono riunite eccezionali espressioni della creatività e dell’estro artistico di maestri dei quali mai conosceremo i nomi, ma che, grazie all’archeologia, ci hanno lasciato testimonianze di altissimo pregio. Testimonianze che oggi sono fra i vanti maggiori dei musei pubblici e privati che le custodiscono e che, anche grazie a loro, come scrive Daniele F. Maras nella presentazione della Monografia, assolvono al compito di «conservare la memoria e raccontare la storia allo scopo di produrre nuova cultura (un compito che, per inciso, deriva direttamente dalla nostra Costituzione, quando dice che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, art. 9)». Dal raffinato rilievo della patera di Parabiago all’enigmatica bellezza delle statue stele della Lunigiana, dallo sfavillio dei bronzi di Cartoceto ai magnifici riflessi della Tazza Farnese, dalla quiete elegante del Sarcofago degli Sposi alle pose marziali delle statue di Mont’e Prama: un trionfo di forme e di colori, che vuol essere soprattutto un invito a vedere da vicino opere davvero «imperdibili».

GLI ARGOMENTI • PATERA DI PARABIAGO • STELE DEI VENETI • FEGATO DI PIACENZA • STATUE STELE DELLA LUNIGIANA • BRONZI DI CARTOCETO • CHIMERA DI AREZZO • GUERRIERO DI CAPESTRANO • SARCOFAGO DEGLI SPOSI 26 a r c h e o

• OLPE CHIGI • GUERRIERO DI LANUVIO • TAZZA FARNESE • MOSAICO DI ALESSANDRO • TOMBA DEL TUFFATORE • ZEUS DI UGENTO • VENERE LANDOLINA • STATUE DI MONT’E PRAMA



ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • TURCHIA

1915: ATTACCO ALL’IMPERO

NEL TENTATIVO DI IMPRIMERE UNA SVOLTA ALL’ESITO DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE, LE MARINE DI INGHILTERRA E FRANCIA PROGETTARONO DI FORZARE LO STRETTO DEI DARDANELLI PER POI OCCUPARE COSTANTINOPOLI, COSÍ DA COSTRINGERE ALLA RESA L’IMPERO OTTOMANO. LA SPEDIZIONE SI RISOLSE IN UN FALLIMENTO DEGLI ALLEATI, CON UN ALTISSIMO TRIBUTO DI SANGUE. QUELLA DRAMMATICA PAGINA DI STORIA, CONSUMATASI AI CONFINI TRA EUROPA E ASIA E TESTIMONIATA DAI NUMEROSI RELITTI ADAGIATI SUI FONDALI DEL CELEBRE BRACCIO DI MARE, È OGGI AL CENTRO DI ESPLORAZIONI CONDOTTE DA UN’ÉQUIPE DI SUBACQUEI ITALIANI di Marina Cappabianca e Pippo Cappellano 28 a r c h e o


battaglie nel 1915, che culminarono in un’importante vittoria per le forze ottomane, affiancate da quelle germaniche, contro le potenze alleate dell’impero britannico e della Francia. Da qualche anno, le autorità turche hanno avviato un lavoro di censimento dei relitti che costellano queste acque e, nel 2021, per la prima volta, li hanno resi accessibili a subacquei stranieri. È nato cosí il progetto di documentario che la nostra troupe di subacquei e tecnici ha cominciato a realizzare nel 2023 e che si prevede di completare con le prossime spedizioni nel 2025, in collaborazione con il Ministero della Cultura e Turismo della Turchia, l’Agenzia per lo Sviluppo del Turismo della Turchia, l’Ente di Storia Territoriale di Gallipoli, la Turkish Airlines, il Diving ByemDive di Ali Eyüpoglu e il coordinamento operativo di Carlo Enver Foglino. Penisola dei Dardanelli, Turchia. Marina Cappabianca, con la telecamera subacquea, alla ricerca di alcuni dettagli identificativi del relitto di una delle navi che parteciparono alle operazioni militari di cui lo stretto fu teatro nel 1915.

I

n un mondo in cui tutto è già stato scoperto, visto e narrato, ci si sente un po’ pionieri quando si è tra i primi ad accedere a un sito storico sommerso. Tornano alla mente i primi racconti di JacquesYves Cousteau (1910-1997; oceanografo e cineasta francese i cui documentari furono trasmessi anche dalla RAI negli anni Sessanta, riscuotendo grande successo, n.d.r.) e dei suoi compagni di avventure quando, finalmente liberi di esplorare il mondo sommerso respirando in autonomia, portarono alla superficie immagini mai viste di navi affondate in varie epoche, diventate

ormai parte del paesaggio marino ma ancora cariche delle loro storie e delle loro tragedie. Abbiamo provato questa intensa emozione immergendoci sui relitti che furono protagonisti di un importante momento storico della prima guerra mondiale, forse non abbastanza noto a noi italiani. Siamo in Turchia, nelle acque che circondano la penisola di Gallipoli: quell’estremo lembo di continente europeo che lo strategico stretto dei Dardanelli separa dal continente asiatico. Un luogo che il popolo turco conserva come un sacrario. Teatro di un anno di sanguinose

MAUSOLEI E MUSEI L’importanza di questa pagina di storia si respira in ogni angolo della penisola: sulle alture ancora segnate da tratti di trincee dalle quali lo sguardo spazia sull’Egeo e sulle isole greche a oriente del Peloponneso. Tra le lapidi bianche dei tanti cimiteri che accolgono le spoglie di quanti morirono su entrambi i fronti di questo tragico massacro. Tra i mausolei e i musei che celebrano le gesta dell’esercito ottomano. L’operazione era nata come un attacco navale, o meglio una serie di attacchi navali che tra febbraio e marzo 1915 avrebbero dovuto portare allo sfondamento dello stretto dei Dardanelli e alla resa di Costantinopoli e dell’impero ottomano. Era stata pianificata dai vertici dell’Ammiragliato britannico in accordo con la Marina francese. Ne era stato un fautore particolarmente convinto Winston Churchill, Primo Lord dell’Ammiragliato, che tuttavia si era scontrato con posizioni non sempre favorevoli. a r c h e o 29


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • TURCHIA

L’idea di aprire un nuovo fronte orientale nasceva dalla stagnazione di quello occidentale, sul quale, da mesi, gli eserciti opposti si fronteggiavano in un’estenuante guerra di trincea priva di esiti significativi. Il successo dell’impresa avrebbe inoltre consentito di riaprire, attraverso i Dardanelli e il Bosforo, un canale di collegamento con l’alleato russo. L’importanza di tale canale – testimoniata dalla quantità di fortificazioni che vi si affacciano – aveva reso quello ottomano un alleato molto interessante, nei primi mesi di guerra, corteggiato da entrambe le coalizioni già in campo. Finché, ai primi di agosto del 1914, l’impero ottomano aveva stretto un’alleanza con la Germania imperiale. Certi della propria superiorità e di una rapida risoluzione dell’operazione a proprio vantaggio, i comandi militari britannici decisero di non impiegare nella spedizione navale unità di ultima generazione, avendo come maggiore preoccupazione quella di non sguarnire le proprie forze nel Mare del Nord contro la flotta germanica. Si decise, almeno inizialmente, di schierare corazzate di classe Pre-Dreadnought: tale definizione era nata con la costruzione di una nuova e rivoluzionaria corazzata nel 1906, la HMS Dreadnought appunto, considerata la piú armata e potente dell’epoca, al punto da far ritenere obsolete tutte le navi da guerra costruite fino ad allora. La fama della Royal Navy britannica era tale – e forse anche la sua presunzione – da far ritenere sufficiente la comparsa delle sue navi attraverso lo stretto, fino alle acque di Costantinopoli, per spingere il governo turco alla resa. E tuttavia, man mano che prendeva corpo l’operazione, si de30 a r c h e o

cise di aggiungere alla sempre piú nutrita flotta anche la corazzata HMS Queen Elizabeth, la piú potente dell’epoca, appartenente alla classe super-dreadnought definita dallo stesso nome della corazzata.

UNA FLOTTA IMPONENTE Alla metà di febbraio un convoglio navale mai visto prima nel Mediterraneo fece rotta verso lo stretto dei Dardanelli, sotto il comando del contrammiraglio Sackville Carden.

Dopo alcune brevi incursioni nelle settimane successive per bombardare le fortezze costiere e neutralizzare le mine poste dai Turchi a difesa dello stretto, il 18 marzo 1915 Francia e Inghilterra sferrarono il grande attacco navale, questa volta sotto il comando dell’ammiraglio John De Robeck, che aveva sostituito il troppo incerto Carden: schierate su tre linee a distanza di un miglio l’una dall’altra, entrarono nel canale 13 corazzate e un incro-

Truppe inglesi su un battello prossimo allo sbarco a Gallipoli nel maggio 1915. Nella pagina accanto, in alto: schema delle principali operazioni condotte nel corso della campagna di Gallipoli. Nella pagina accanto, in basso: un mezzo della Marina inglese trasporta un cannone da 155 mm in direzione di Capo Helles.


Attacco diversivo della Marina britannica

Grecia

Bulair

Mar di Marmara Gallipoli

Mar Egeo

Penisola di Gallipoli

Baia di Suvla

Sbarchi dell'ANZAC

Baia Anzac

Sbarco della 29a divisione e della 1a divisione australiana

V

ar

el

li

Impero ottomano (Turchia)

Sbarco simulato delle truppe francesi

Y Capo Helles X W

D

n da

Kum Kale S

ciatore della Royal Navy e quattro corazzate francesi, con il supporto di varie navi appoggio. L’attacco fallí. Dopo ore di fuoco incrociato, mentre le unità francesi, su ordine di De Robeck, ripiegavano verso l’uscita del canale per far avanzare i dragamine, la corazzata francese Bouvet, già piú volte colpita dall’artiglieria ottomana, urtò una mina e affondò in pochi minuti, trascinando con sé i 650 uomini dell’equipaggio. Poco piú tardi, l’incrociatore HMS Inflexible e la corazzata HMS Irresistible incapparono anch’esse in un campo minato. Mentre il primo riuscí ad allontanarsi, la seconda affondò insieme a un’altra corazzata, la HMS Ocean, che aveva urtato a sua volta un ordigno durante le operazioni di soccorso. Malgrado l’offensiva avesse intaccato gravemente le difese ottomane e scatenato un serio allarme presso il governo e gli alti comandi di Costantinopoli, l’ammiraglio De

Y, X, W, V, S

Forti ottomani Avanzate delle truppe turche Sbarchi della 29a divisione Sbarchi delle truppe alleate

Robeck decise di sospendere l’attacco, per evitare ulteriori gravi perdite, e di chiedere a Londra l’invio di truppe di terra a supporto dell’operazione. Tra gli alti comandi si era già a lungo discusso dell’opportunità di affiancare all’azione navale uno sbarco di forze armate nella penisola di Gallipoli, ma vi era stata una forte divergenza di opinioni sull’entità delle forze di terra necessarie e una

certa opposizione, soprattutto da parte del Ministro della Guerra, Lord Kitchener, all’idea di togliere divisioni da altri fronti.

SCARSA PREPARAZIONE Ora, persa l’illusione di una fulminea vittoria navale, i vertici militari britannici si risolsero per un ingente sbarco, la cui lenta preparazione, tuttavia, vanificò qualsiasi possibilità di effetto sorpresa. Non solo, ci si preparava allo sbarco su un territorio di cui non si possedevano nemmeno carte aggiornate che consentissero di elaborare una strategia di attacco e di garantire la sopravvivenza delle truppe, non si sapeva se

vi erano strade, se c’era acqua e dove, o case e villaggi… Né si conosceva la consistenza delle forze ottomane, che il comandante tedesco Otto Liman von Sanders insieme ai vertici militari turchi ebbe tutto il tempo di organizzare a difesa di una penisola, scelta dalle forze alleate perché priva di fortificazioni sulla costa nord. Di fatto, mancò un realistico piano d’azione. E tuttavia, la spedizione che seguí, a r c h e o 31


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • TURCHIA

denominata Mediterranean Expeditionary Force, sotto il comando del generale Ian Hamilton, fu la piú grande operazione del suo genere mai concepita fino ad allora. Dopo un periodo di addestramento delle truppe in Egitto, una grande quantità e varietà di imbarcazioni si radunò nella baia di Mudros, nell’isola greca di Lemno, scelta come base delle operazioni. Corazzate, incrociatori e navi militari, ma anche imbarcazioni da diporto, caicchi e

pescherecci requisiti per trasportare a terra uomini, merci e animali. L’entusiasmo dei soldati e la confusione generale erano tali che, a detta del corrispondente di guerra Ellis Ashmead-Bartlett, al seguito della spedizione, poteva quasi sembrare la partenza di una festosa regata. Prima dell’alba del 25 aprile, alcune decine di migliaia di militari sbarcarono in diversi punti della Penisola, tra questi gli uomini della 29ma divisione, una delle migliori Il monumento eretto in memoria di Mustafà Kemal Atatürk a Chunuk Bair, per celebrare il vittorioso assalto da lui guidato il 10 agosto 1915 alla baia di Suvla. Nella pagina accanto: la corazzata francese Bouvet in navigazione. Il 18 marzo 1915 il vascello urtò una mina, che ne causò l’affondamento.

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unità dell’esercito britannico, due divisioni australiane e neozelandesi, già di stanza in Egitto, denominate ANZAC (Australian and New Zealand Army Corps), che celebrarono su questa penisola la nascita della loro leggenda, e poi una divisione francese e una divisione della Royal Navy. Di nuovo, con grande ottimismo, si riteneva che in breve tempo la penisola sarebbe stata conquistata e le postazioni a difesa dello stretto neutralizzate, permettendo il successo dell’attacco navale. Ma, ancora una volta, l’ottimismo mancava di solide basi e opportune competenze.

UN TERRITORIO OSTILE A nord-ovest, nella baia di Gaba Tepe, sarebbero sbarcate le truppe australiane e neozelandesi, che si dovevano ricongiungere con i contingenti approdati nelle stesse ore in vari punti dell’estremità meridionale della penisola, in questo modo chiudendo i Turchi tra due fronti. Le forti correnti, tuttavia, spinsero i mezzi da sbarco dei primi molto piú a nord, oltre il promontorio di Ariburnu, su una spiaggia nota ancora oggi come baia Anzac, sovrastata dalle ripide falesie di Çunukbahir, che rendevano molto impervia un’avanzata verso l’interno. Una conformazione del territorio, questa, che caratterizza buona parte delle coste della penisola: alte scogliere scendono ripide al Mar Egeo, con gole e dirupi scavati nel tempo dall’azione del vento e della pioggia sulla tenera roccia calcarea. In queste condizioni era difficile pensare che i vari contingenti potessero ricongiungersi. Non solo: dall’alto delle pareti rocciose i Turchi godevano di una mobilità ben protetta e, in molti casi, di un facile tiro al bersaglio sugli invasori. Questi raggiungevano terra su lance e pontoni, stipati spalla contro spalla, impossibilitati perfino ad alzare i fucili per rispondere al fuoco. Venivano trainati fino a una certa


distanza dalla costa da piccole imbarcazioni a vapore, ma dovevano coprire gli ultimi metri a remi, sotto un incessante tiro nemico. Era una carneficina, molti soldati morivano senza aver nemmeno messo piede a terra, altri annegavano sotto il peso delle attrezzature saltando dalle imbarcazioni prima che queste avessero raggiunto acque sufficientemente basse. Chi riusciva a sbarcare era costretto a scavarsi rapidamente un riparo sotto le cengie di roccia e da qui sferrare attacchi frontali dagli esiti deleteri. Nei rari casi in cui la reazione delle truppe turche era scarsa o nulla, mancavano ordini precisi su come muoversi sul territorio. Alla fine di quella tragica

giornata nessuno degli obiettivi stabiliti era stato raggiunto. Ed ecco ricrearsi lo stesso scenario di quella drammatica guerra di trincea che già martoriava il fronte occidentale, in questo caso in un territorio remoto, disabitato e sconosciuto, la cui discontinuità rendeva estremamente difficili delle offensive coordinate: appena un gruppo risaliva una gola, perdeva contatto con i compagni anche solo 50 m piú in là. Obiettivi apparentemente a portata di mano diventavano, in queste condizioni, impossibili da raggiungere. Sull’altro fronte, i Turchi si dimostravano incrollabili nella loro difesa, sotto il comando di militari lucidi e infaticabili, come Mustafà Kemal

che conosceva bene il territorio e sapeva sempre come e dove rispondere agli attacchi nemici. Ben presto, il ruolo della Marina cambiò rispetto ai piani originari, in attesa di una terza fase nella quale – neutralizzate via terra le difese ottomane sui Dardanelli – avrebbe raggiunto trionfalmente il Mar di Marmara e Costantinopoli. A quella fase, tuttavia, non si arrivò mai.

TIRI IMPRECISI Le unità da guerra della Marina pattugliavano la costa, trasportando il quartier generale da un avamposto all’altro, sempre comunque troppo distante dagli uomini in trincea. Il compito della Marina era anche quello di coprire o anticipare le azioni militari con pesanti cannonate a distanza delle linee ottomane. E tuttavia, a parte la modernissima Queen Elizabeth, il resto della flotta era dotato di sistemi di tiro obsoleti e resi ancor piú imprecisi dalla posizione dei bersagli. La situazione cambiò ulteriormente quando, nel mese di maggio, fecero la loro comparsa i sommergibili. Sistemi di scansione dei fondali erano ancora allo studio, non si conosceva a sufficienza la propagazione delle onde sonore in acqua e le navi erano del tutto impotenti di fronte a una minaccia che proveniva dalle profondità marine. Due sottomarini inglesi, l’E14 del comandante Edward Boyle e l’E11 del comandante Martin Nasmith, avevano raggiunto il Mar di Marmara attraverso i Dardanelli tra la fine di aprile e il mese di maggio, affondando un buon numero di imbarcazioni turche, diffondendo ottimismo tra gli alleati e panico a Costantinopoli. Ma quando, il 25 maggio, il comandante tedesco Otto Hersing a bordo del sommergibile U21 affondò la corazzata Triuma r c h e o 33


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ph, il panico attanagliò anche la MaGli autori rina anglo-francese. dell’articolo, De Robeck, che già aveva spostato Marina il suo quartier generale dalla Queen Cappabianca e Elizabeth alla Lord Nelson, si trasferí Pippo Cappellano, in gran fretta sul Triad, un’imbarcasi preparano per zione da diporto che prima della un’immersione. guerra era in servizio per crociere Nella pagina lungo il Bosforo. Le navi piú imaccanto: portanti furono ritirate nella baia la baia Anzac di Mudros, lasciando un vuoto (o «di Ariburnu» lungo le coste che le truppe alleate per i Turchi). in trincea percepirono come un ulteriore segno di fallimento. E sotto gli occhi dei soldati di entrambe le parti del fronte, due giorni dopo l’affondamento della Triumph, fu la volta della corazzata Majestic, colpita da un siluro dello stesso U21. Il 4 luglio Hersing colpí un’ultima volta, per affondare il mercantile francese Carthage, infine lasciò le acque dei Dardanelli alla volta dell’Adriatico.

L’OMBRA DEL FALLIMENTO Sommergibili inglesi della classe E continuarono a percorrere i Dardanelli, non senza incidenti e affondamenti, raggiungendo comunque il risultato di spostare il trasporto dei rinforzi ottomani dall’acqua alla terra, lungo percorsi complessi che richiedevano tempi molto piú lunghi. Tuttavia, l’azione dell’U21 bastò a sconvolgere i piani della Marina e demoralizzare ulteriormente gli animi degli alleati, facendo percepire sempre piú imminente e necessaria la conclusione di questa offensiva. In autunno, dopo un nuovo sbarco in agosto, un numero enorme di vittime e l’inverno che incombeva con condizioni di vita insopportabili in trincea, non erano stati raggiunti nemmeno gli obiettivi di quel lontano 25 aprile. Ai primi di dicembre si incominciarono a evacuare le truppe dalle baie di Suvla e Anzac a nord, e poco dopo da Capo Helles. Malgrado i timori degli alti comandi, fu l’operazione 34 a r c h e o

meglio organizzata dell’intera campagna: si concluse il 9 gennaio 1916, senza lasciare sul campo nemmeno un morto. Negli otto mesi di combattimenti, il numero delle vittime su entrambi i fronti – tra morti, feriti e dispersi – fu però altissimo. Ellis AshmeadBartlett definí lo scontro «la battaglia delle Nazioni» per la varietà di provenienze dei soldati: accanto agli Inglesi e ai Francesi, vi erano infatti Scozzesi, Irlandesi, Australiani, Neozelandesi, Sikh, Punjabi, Gurkha, Algerini, Zuavi, Senegalesi e Marocchini, e poi Turchi, Tedeschi e Arabi sul fronte opposto. Il fallimento dell’operazione ebbe gravi conseguenze sui vertici militari e sul governo di Londra. Fu istituita una commissione di inchiesta per indagare sulle responsabilità: per il comandante della spedizione, Sir Ian Hamilton, fu la fine della carriera militare;Winston Churchill,

a sua volta, dovette dimettersi dalla carica di Primo Lord dell’Ammiragliato, ma seppe fare tesoro di questo insuccesso e, quasi trent’anni piú tardi, portò a compimento la piú grande operazione anfibia della storia: lo sbarco in Normandia (1944). L’impero ottomano resistette all’assedio, ma l’esito della guerra ne sancí il tramonto. Dalle sue ceneri nacque l’odierna Turchia, il cui primo presidente fu proprio Mustafà Kemal, il vero eroe della campagna dei Dardanelli, quel comandante della 19a Divisione capace di esortare i suoi uomini a fermare l’avanzata nemica galoppando con il suo cavallo da un fronte all’altro senza sosta per giorni, cosí amato dal suo popolo da ricevere in seguito l’appellativo di Atatürk, il «Padre dei Turchi». La vittoria forgiò un orgoglio nazionale che ancora si esprime in ogni forma sulla penisola di Galli-


poli: perfino il modernissimo ponte di Çanakkale, che unisce il continente europeo a quello asiatico, inaugurato il 18 marzo 2022, è dedicato alla gloriosa data del 1915. Per volontà di Atatürk, tutti i soldati morti nella campagna dei Dardanelli furono accolti come figli della Turchia: «Eroi che hanno versato il loro sangue e dato le loro vite su questo suolo ora giacciono in un Paese amico. Riposate in pace qui, per noi non c’è differenza tra i Johnny e i Mehmet che giacciono fianco a fianco nella nostra Terra. Madri che avete mandato i vostri figli da Paesi lontani asciugate le vostre lacrime: i vostri figli ora riposano in pace nel nostro ventre. Quando hanno perso la vita nel nostro Paese, sono diventati anch’essi nostri figli». Cimiteri, memoriali, fortezze trasformate in musei commemorano i luoghi delle principali battaglie, mi-

schiando i toponimi turchi a quelli che usarono gli Alleati nelle loro sommarie carte militari. A custodia di questi luoghi della memoria, si erge l’imponente statua di Atatürk sull’altura di Chunuk Bair, da dove lo sguardo spazia lungo questo importante tratto della costa egea.

LE COMMEMORAZIONI Se il 18 marzo è celebrato dal popolo turco come l’anniversario della vittoria navale dei Dardanelli e della commemorazione dei Martiri, nei giorni 24 e 25 aprile di ogni anno, si commemorano i caduti di entrambi i fronti, secondo un rito che commuove ed emoziona. Giovani discendenti di quei soldati, insieme a veterani di guerra, convergono da ogni parte del mondo – in particolare da Australia, Nuova Zelanda, Francia, Inghilterra e dai Paesi che nella prima guerra mondiale facevano parte delle forze armate di

queste ultime due nazioni – per radunarsi fin da prima dell’alba nei cimiteri che celebrano le battaglie, ripercorrendo nella memoria le ore cruciali di quelle due drammatiche giornate del 1915. Dal 1973, la direzione del Sito Storico della penisola di Gallipoli sovrintende con cura esemplare alla gestione di quest’area, che attrae visitatori non solo per la sua storia, ma per la quiete e la bellezza di un paesaggio mediterraneo intoccato. In anni piú recenti, il parco storico terrestre si è esteso a includere i relitti delle navi e dei sottomarini affondati durante la campagna di Gallipoli. A oggi, le autorità turche hanno censito oltre trenta relitti creando un Parco Storico Subacqueo in continua evoluzione. L’obiettivo è quello di portare in sicurezza subacquei di tutto il mondo ad apprezzare questo straordinario museo sottomarino. a r c h e o 35


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • TURCHIA

ESPLORANDO I FONDALI

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opo una prima spedizione nel 2022, riconosciuto il valore ineguagliabile di questo sito, nell’autunno del 2023 abbiamo iniziato a lavorare al primo documentario italiano sulla campagna di Gallipoli e sui suoi relitti, con una squadra di subacquei tecnici e

con una troupe altamente qualificata composta da: Pippo Cappellano, Marina Cappabianca, Marco Pasquini, Stefano Ruia, Marco Leopardi, Carlo Enver Foglino e Valentina Cornacchione. Esplorare questi fondali significa ritrovare le testimonianze di quell’anno di guerra in Il relitto di un mezzo da sbarco della Marina britannica mediante il quale le truppe venivano trasportate dalle navi alle spiagge.

una mappa che ne ripercorre i momenti piú significativi, cristallizzati in questo silenzio senza tempo. Non lontano dalle spiagge degli sbarchi, si incontrano le lance e i pontoni con cui, nella notte tra il 24 e il 25 aprile, furono portati a terra i primi contingenti di soldati: siamo di fronte alla punta di Capo Helles, estrema propaggine meridionale della penisola. A 25 m di profondità giacciono, una vicina all’altra, due di queste imbarcazioni. Sono entrambe in assetto di navigazione, le chiglie appena affondate nella sabbia. Nella quiete assoluta delle profondità marine, è ancora piú intenso immaginare quei giovani soldati carichi di armi, viveri e munizioni raggiungere terra sotto raffiche di proiettili che letteralmente piovevano dal cielo. Quanti morirono inermi… quanti saltarono in acqua andando incontro a un destino non migliore? Quanti raggiunsero incolumi un riparo? Le imbarcazioni sono ancora in ottimo stato di conservazione, la caldaia di quella piú vicina a terra sbalzata fuori bordo in prossimità dello specchio di poppa, le pulegge un tempo azionate dal motore a vapore ancora perfettamente integre. In genere, le lance procedevano in carovana: la prima della fila, dotata di un motore, trainava dietro a sé una o due altre imbarcazioni che, in prossimità della costa, proseguivano a remi. Soltanto alcune di queste lance erano dotate di un portellone per sbarcare le truppe, negli altri casi, come qui a Capo Helles, i mezzi dovevano letteralmente arenarsi sulla spiaggia e far scendere gli uomini il piú vicino possibile alla prua.

LA NAVE FRANGIFLUTTI Le condizioni di insicurezza che caratterizzavano questa modalità di sbarco spinsero a escogitare altre strategie e altri modi. Di fronte alla baia Anzac, o baia di Ariburnu per i Turchi, la S.S. Milo, una nave a vapore di 73 m, serví per tutto il a r c h e o 37


ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • TURCHIA

conflitto come una sorta di frangiflutti a protezione delle piccole imbarcazioni che dovevano raggiungere la spiaggia. Zavorrata con sacchi di cemento e incagliata sul basso fondale, era un solido avamposto che forniva, tra l’altro, corrente elettrica alle prime postazioni di terra. Dopo la guerra fu affondata e oggi è uno dei relitti piú facili da esplorare e da filmare, a pochi metri di profondità. Ben diversa l’immersione sulla corazzata HMS Triumph. Ci arriviamo in una giornata di forte mare e vento, e occorre tutta la bravura del comandante Ugur, al timone dell’imbarcazione del diving ByemDive, per mantenere la posizione mentre Ali, con l’assistenza di Carlo, scende a 72 m di profondità per fissare una cima guida sul relitto, collegata a una coppia di boe in superficie. E occorrono lunghe e snervanti manovre prima che la troupe possa saltare in acqua in sicurezza sul punto esatto, e iniziare la discesa verso il fondo con le attrezzature da ripresa. In prossimità della corazzata, una brutta sorpresa potrebbe compromettere l’immersione: il forte moto 38 a r c h e o

Sulle due pagine: una veduta dall’alto del relitto della S.S. Milo, la nave a vapore utilizzata dai Turchi come frangiflutti nella baia Anzac, con la barca del diving ByemDive e, a destra, Pippo Cappellano illumina una parte di relitto per l’operatore Marco Pasquini.


ondoso ha strappato via dal relitto la cima guida. Stefano Ruia, responsabile della sicurezza, con un grosso sforzo contro corrente, e contro l’effetto delle onde e del vento che in superficie allontanano con furia le boe, riesce a riportarne l’estremità al relitto e fissarla di nuovo, in modo da garantire la risalita come pianificato. L’operatore Marco Pasquini inizia le riprese per documentare l’esplorazione, in una corsa contro il breve tempo di fondo concesso a queste profondità.

NEL BLU PROFONDO Non è facile riconoscere le linee della nave nell’oscurità appena squarciata dalle luci delle lampade. Davanti ai nostri occhi appare immensa la carena, coperta da una

fitta vegetazione, che nella sua forma arrotondata ricorda una gigantesca balena. Percorrendo la murata di destra, l’elemento piú cospicuo che si incontra è un cannone che si protende nel blu. Man mano che la telecamera si avvicina con le sue luci, appaiono i vividi colori delle spugne, che lo ricoprono totalmente insieme a qualche brandello di rete e spezzoni di palamiti. Costruita nel 1903 su commissione della Marina cilena dai cantieri navali di Vickers, Sons & Maxim di Barrow-in-Furness, in Inghilterra, fu rimessa in vendita per problemi economici ancor prima che fosse completata e, per evitare che finisse a incrementare la flotta di un Paese non amico, fu acquistata dalla Royal Navy britannica, che le cambiò no-

me da Libertad a Triumph. Era una corazzata pre-dreadnought, classe Swiftsure e, sebbene fosse stata ormai surclassata dalle corazzate di ultima generazione, era ancora una nave da guerra imponente e ben armata. Dopo essere stata impiegata in missioni navali in varie parti del mondo, nel febbraio 1915 fu inviata ai Dardanelli dove partecipò ai primi bombardamenti delle fortezze e al tentativo di sfondamento dello stretto il 18 marzo. Dopo averne percorso parte della murata e della chiglia, il desiderio è quello di spingersi fino a prua per trovare lo squarcio del siluro lanciato dal sommergibile tedesco U21 il 25 maggio del 1915, che fece affondare la corazzata in meno di mezz’ora, causando oltre 70 vittime tra i

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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • TURCHIA

In alto: Carlo Enver Foglino e Stefano Ruia esaminano un proiettile che faceva parte dell’armamento della corazzata HMS Majestic, affondata da un siluro lanciato da un sommergibile U21 alle 6,40 del mattino del 27 maggio 1915. A destra, sulle due pagine: uno dei cannoni montati a bordo della corazzata HMS Triumph, affondata anch’essa da un siluro lanciato da un sommergibile.

membri dell’equipaggio.Vorremmo filmare le tracce ancora visibili di questa tragedia, ma a questa profondità il tempo a disposizione è limitato, ogni minuto sul fondo incrementa il tempo di decompressione in risalita e con queste condizioni del mare si decide di non prolungare oltre l’immersione. Con l’arrivo del sommergibile U21 nelle acque della battaglia e l’affondamento della Triumph, come abbiamo già visto, la situazione della Marina cambiò radicalmente. Si disposero immediate misure di sicurezza per l’altra corazzata, l’HMS Majestic, una delle poche rimaste sul 40 a r c h e o

campo. La notte del 26 maggio, il comandante Talbot la fece ormeggiare il piú vicino possibile alla costa, non solo per proteggersi da un attacco dell’U21 ritenuto ormai imminente, ma anche per offrire all’equipaggio maggiori possibilità di salvezza, se la nave fosse affondata in acque basse. Attorno alla Majestic furono stese le reti antisommergibile e alcune navi le si disposero intorno a protezione. Il racconto della tragica alba del 27 maggio rappresenta una delle pagine piú drammatiche del diario di Ellis Ashmead-Bartlett, raccolto nel suo libro The Uncensored Dardanelles.


GRANDE E POTENTE, MA NON INVINCIBILE La profondità alla quale giacciono i resti della HMS Majestic, 25 m circa, non lontano dalla costa di Capo Helles, permette l’esplorazione piú approfondita del relitto. E tuttavia, proprio la bassa profondità ha fatto sí che l’imponente vascello venisse quasi completamente smantellato per recuperare l’acciaio e le altre materie prime che scarseggiavano negli anni dopo la guerra. Nei primi anni Settanta, le operazioni di recupero – sempre meno remunerative – cessarono definitivamente, ma, proprio in quegli anni, la diffusione della subacquea permise di apprezzare sempre piú il valore storico di questi relitti, a prescindere dal loro valore economico misurato a peso. Scendiamo sulle lamiere contorte cercando di ritrovare i punti cospicui di quella che era, in origine, una dominatrice dei mari. Oggi è difficile perfino riconoscerne le strutture. Ancora si possono osservare parti significative della corazzatura: in alcuni tratti della murata è ben visibile il doppio scafo, che tuttavia non fu sufficiente a fermare la forza del siluro. O le enormi torri da fuoco, una a prua e una a poppa. Quando fu costruita, fra il 1893 e il 1895, nei cantieri Naval Construction & Armaments Co. di Portsmouth era la piú grande nave da guerra britannica, era armata con 4 nuovi cannoni da 305 mm Mk VIII, montati sulle due torri binate. Piú rapidi da caricare e con una portata

maggiore dei precedenti, furono usati nei successivi trent’anni su tutte le navi da guerra britanniche. Il suo armamento comprendeva anche 12 cannoni da 152 mm a tiro rapido e altri calibri minori, nonché 5 lanciasiluri da 457 mm. Pinneggiando lungo i suoi 128 m di lunghezza, cerchiamo con lo sguardo altri punti di riferimento che riconducano a quelle immagini di potenza bellica che incutevano ammirazione e timore quando solcava il mare. Si riconoscono i resti di una torretta di tiro adagiati sul fondale e al centro del relitto il camino di una caldaia che ancora si erge verticale, ma piú di tutto colpiscono alcuni proiettili dei cannoni sparsi un po’ ovunque: coperti di incrostazioni e all’apparenza inermi mantengono quella forza simbolica della violenza di una guerra. All’uscita dall’immersione, Alí ci porta con la barca del suo diving al molo ai piedi del faro battezzato Mehmetçik, nome che riprende l’affettuoso appellativo che veniva dato ai soldati turchi (letteralmente, «piccolo» o «caro Mehmet»). Una breve salita, che schiude alla vista un panorama sempre piú vasto, ci conduce alla base del faro, dove ci accoglie un piccolo museo, straordinariamente ricco e curato. Tra filmati e fotografie si possono approfondire le storie della Majestic e di altri relitti custoditi nelle acque del Parco Storico.

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ARCHEOLOGIA SUBACQUEA • TURCHIA

Il giornalista dormiva in coperta per essere pronto a un eventuale abbandono della nave. Alle 6,40 del mattino lo risvegliò un grido lacerante «Siluro in arrivo!». Seguí una forte esplosione, una colonna di fumo nero e denso invase l’aria mentre, con un sussulto, la nave incominciò a inclinarsi fortemente a babordo. In un momento le acque furono piene di uomini che gridavano aiuto cercando di mantenersi a galla o di raggiungere a nuoto le imbarcazioni che prestavano soccorso. Ashmead-Bartlett fu tirato a bordo di un piccolo cutter, stipato di naufraghi ben oltre le proprie capacità. In pochi minuti, davanti ai suoi occhi, la corazzata si capovolse e sparí sott’acqua (vedi box a p. 41). Grazie alla

poca profondità l’effetto di risucchio fu lieve; ciononostante, 48 uomini persero la vita. Ma il relitto che piú attira la nostra attenzione è quello di una nave non ancora identificata. La sua esplorazione richiederà altre immersioni e l’accurata bonifica dalle molte reti da pesca che la ricoprono. Un’operazione che, a oltre 50 m di profondità, necessita di una squadra di lavoro ben preparata e tempi prolungati.

UN COMPITO AFFASCINANTE Ridare il nome a una nave, che da oltre cent’anni giace sconosciuta su un fondale, significa restituirle la propria identità, ricostruire i dram-

matici momenti del suo affondamento e ritrovare la sua collocazione in uno scenario cosí importante della nostra storia. È questo uno dei lavori che piú affascina chiunque si avvicini a un sito storico sommerso: c’è ancora cosí tanto da capire e da scoprire e, come investigatori sulla scena di un delitto, sappiamo quanto possono rivelarci queste protagoniste di un tempo, custodite quasi intatte dalle profondità del mare. È un gesto estremamente importante che la Turchia abbia aperto questo museo sommerso a ricercatori di ogni parte del mondo, con l’intento di promuovere un turismo subacqueo rispettoso e consapevole, ed è per noi motivo di orgoglio contribuire a divulgarne il valore.

Ricognizione all’interno del relitto di una nave della quale, per il momento, non si è riusciti a stabilire la denominazione, ma la cui identificazione è uno degli obiettivi delle prossime campagne della troupe che lavora al documentario.

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LIBRI • SALVATORE SETTIS

PROFILI CREPUSCOLARI DI UN’ITALIA MIGLIORE

L’ARCHEOLOGO E STORICO DELL’ARTE SALVATORE SETTIS HA SCRITTO UN LIBRO SU «MAESTRI, COMPAGNI DI STRADA, AMICI». IL VOLUME RACCOGLIE UN PERSONALE CATALOGO DEGLI INCONTRI PIÚ SIGNIFICATIVI VERIFICATISI NELLA VITA DELL’AUTORE. TRACCIATI SULLO SFONDO DI UNA DELLE PIÚ PRESTIGIOSE ISTITUZIONI UNIVERSITARIE ITALIANE, QUEI RITRATTI DELINEANO UN APPASSIONANTE TRIBUTO ALLA RECENTE STORIA ACCADEMICA E INTELLETTUALE DEL NOSTRO PAESE di Roberto Andreotti 44 a r c h e o


P

er comprendere il valore di un libro come Registro delle assenze. Profili e paesaggi (Salani Editore, 2024) di Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte antica di chiara fama, occorre sottrarsi drasticamente alla diffusa convinzione che le opere realizzate riunendo contributi e articoli già pubblicati altrove (giornali, riviste) siano volumi di secondo momento. Spesso è vero il contrario: si tratta di libri felici, da tenere con sé e leggere senza obbligo di sequenza. Quel pregiudizio negativo però è, in primo luogo, l’esito di un

abbassamento della domanda e dell’offerta di cultura: diecimila romanzi mediocri soffocano lo spazio vitale della saggistica di qualità. Tutto ciò riflette anche la progressiva disaffezione al genere della «critica» – letteratura, storia, cinema, teatro –, che per decenni, almeno dal secondo dopoguerra, ha trovato proprio nella stampa quotidiana e periodica una piattaforma di lettori numericamente rilevante, anche per il pubblico delle librerie. Infatti, i giornali – fonte di molti testi confluiti in questo libro – sono stati un’officina pulsante di Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, ha diretto il Getty Research Institute (1994-99) di Los Angeles ed è stato professore ordinario di storia dell’arte e dell’archeologia classica della Scuola Normale Superiore di Pisa, di cui è stato allievo e poi direttore (dal 1999 al 2010).

idee e di proposte a suo modo unica, per l’opportunità editoriale di mettere uno accanto all’altro, senza barriere gerarchiche, il critico militante, il professore universitar io, lo scrittore («hai visto oggi Calvino su Repubblica?»). Per generazione (è nato nel 1941) e soprattutto per intima convinzione civile, Salvatore Settis è stato – ed è tuttora – un protagonista di questo panorama ormai al crepuscolo. Già nelle prime righe egli dichiara di aver messo insieme, su invito dell’editore, degli «scritti d’occasione», espressione da prendere alla lettera, ma non in senso limitativo. Intanto, il termine «occasione» è consustanziale alla prassi stessa del lavoro redazionale: quando arriva la notizia della morte di un personaggio di pubblico interesse – appunto le «assenze» evocate nel titolo del libro –, il giornale si rivolge di solito ai piú autorevoli e competenti collaboratori, chiedendo un ritratto/ricordo «a tambur battente». È questo il tipo di committenza – ecco una parola che meriterebbe di essere rivalutata – che ha prodotto una buona a r c h e o 45


LIBRI • SALVATORE SETTIS

parte dei «profili» contenuti in questa rassegna: cito, fra tanti altri, i casi di Francis Haskell, del matematico Edoardo Vesentini, di Norberto Bobbio, di Giulia Maria Crespi. Accanto agli articoli per i giornali – e in qualche caso fusi con loro, quando hanno come soggetto il medesimo personaggio –, figurano qui contributi scritti o pronunciati in occasione di commemorazioni ufficiali, anniversari, centenari: come per Arsenio Frugoni, Augusto Campana, Vittore Branca, Arnaldo Momigliano. In linea di massima, tanto l’occasione quanto la sede originaria di pubblicazione (sempre indicate in calce) determinano a priori l’estensione del testo e il suo registro: Palazzo della Carovana, sede storica della Scuola Normale Superiore di Pisa.

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registro ora piú confidenziale (come per Arbasino a Los Angeles, Ciampi filologo classico alla Normale di Pisa, Germano Celant progettista di mostre), ora piú ufficiale (Zeri, Chastel, Argan), ora piú memorialistico (Francesco Orlando, Giulio Einaudi e casa Briganti a Roma, nella stagione del commissariamento dello «Struzzo»).

DA ANNUNCIO A GENERE Giunto a questo punto mi accorgo di non aver mai impiegato – ma neppure Settis lo fa, se ho letto bene – la parola che la lingua italiana riserva a questo genere di profili: «necrologio». In realtà, nella prassi

giornalistica e nella lingua d’uso, «necrologio» (piú raramente «necrologia») è inteso anzitutto come «annuncio funebre» – la telegrafica inserzione a pagamento –, e non piuttosto come equivalente dell’inglese obituary, questo sí genere letterario nel quale eccellono da sempre proprio i prosatori anglosassoni. Senza tirare in ballo i «ritratti in miniatura» di Lytton Strachey, nei quali spadroneggiano malizia, humor e fisiognomica, l’obituary coglie nel segno quanto piú riesce a sdrammatizzare il protocollo dell’elogio funebre e delle res gestae attra-


verso un’aneddotica eloquente. Queste caratteristiche ricorrono in diversi degli scritti qui raccolti, anche se l’autore antepone di preferenza la biografia intellettuale a quella psicologica, la facies pubblica a quella strettamente privata. Nel sottotitolo del libro (Profili e paesaggi) la seconda parola rimanda inevitabilmente al Settis militante, a lungo impegnato – come fece Bianchi Bandinelli una volta avvicina-

tosi al comunismo – nelle campagne e nelle battaglie giornalistiche per la tutela del territorio e dei beni culturali; e qui balza in primo piano l’articolo 9 della Costituzione, difeso strenuamente da quanti non si sono arresi alla tragicommedia del «Bel Paese deturpato»:

tra essi Umberto Zanotti Bianco, mer idionalista europeista, che quand’era ragazzo aveva conosciuto, fra le macerie del terremoto di Messina, Salvemini e Gor’kij; o (segue a p. 54)

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LIBRI • SALVATORE SETTIS Arsenio Frugoni (1914-1970)

LE IMMAGINI «IN CONTROLUCE» Grande storico del Medioevo, Arsenio Frugoni ebbe eccezionale acume nel leggere le fonti non solo con implacabile filologia ma con penetrante empatia. La sua opera è ricca di inquietudini, stimoli e fermenti che la morte tragica e precoce ha lasciato incompiuti. Fra questi, a lungo meno noto fu un talento che egli coltivò e nascose, la sensibilità e la frequentazione della storia dell’arte. Virtú che nella sua opera di storico formano una trama segreta, emergendo talora a sorpresa. […] Nelle sue incursioni nella storia dell’arte Frugoni coglie, sulle immagini e nelle immagini, lo sguardo di anonime folle di spettatori, e dunque (in controluce, lui avrebbe detto) le intenzioni del committente e il compito dell’artista: un’esperienza condivisa. Ritorna dunque in tutto l’arco della sua vita – dalle lezioni postbelliche alla riflessione su Warburg – uno stesso spirito, l’insistenza sulla percezione collettiva come controparte della creazione artistica. Parlando della storia o dell’arte del passato, Arsenio Frugoni ebbe sempre in mente le necessità del presente. E quando chiudeva la sua recensione a Warburg con le forti parole «lo storico è un profeta volto all’indietro», non stava parlando forse anche di sé?

Le schede biografiche sono tratte dal volume di Salvatore Settis a cui l’articolo è dedicato e costituiscono una selezione degli eminenti personaggi che l’autore ha scelto di ricordare.

Paolo Enrico Arias (1907-1998)

DALLO SCAVO ALLA SCUOLA «Fare scuola» fu per Arias un’ambizione esplicita, la ragione vera del suo passaggio dalle Soprintendenze all’università. All’Istituto di Archeologia di Pisa, uno dei piú antichi d’Italia, dette nuova forma e nuovo personale, promuovendovi non solo la biblioteca ma anche ricerche, fra le prime in Italia, sull’uso dell’informatica per gli studi sulla ceramica greca; e fondò anche una Scuola Speciale per archeologi preistorici, classici e medievalisti, che poi diresse per molti anni. Presero con lui speciale risalto gli scavi didattici, specialmente a Sovana in Toscana e a Cavallino in Puglia. In quel sommarsi di esperienze di biblioteca e sul campo si può riconoscere la trama della sua stessa vita, che vedeva volentieri ripetersi nei suoi studenti. […] Rigoroso ed esigente nell’imporre numerose e spesso ardue letture e nell’additare agli allievi mete ambiziose, Arias al tempo stesso sapeva rispettare la nostra indipendenza di giudizio. Erano tempi, quelli, in cui l’autorità del professore era spesso dispotica; e perciò quel rispetto era segno di un animo generoso, di un apprezzamento per la libertà intellettuale che era assai piú forte del geloso senso delle gerarchie. Paolo Enrico Arias (a destra) con l’archeologo Nereo Alfieri nel 1953.

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Arnaldo Momigliano (1908-1987)

UN PIEMONTESE IN ESILIO Cacciato perché ebreo dalla cattedra di Storia antica a Torino che aveva meritato a ventott’anni, Arnaldo Momigliano non sarebbe mai tornato stabilmente in Italia, nemmeno dopo la guerra; eppure professò tutta la vita un autentico patriottismo italiano. Una scelta culturale e sentimentale prima che politica, che aveva radice nella secolare presenza della famiglia e della comunità ebraica nel Cuneese e nella convinzione che gli ebrei italiani siano stati una componente necessaria della coscienza nazionale al momento dell’unità del Paese. Del fascismo intese pienamente la cecità e la violenza quando le abiette leggi razziali mostrarono fino a che punto il regime fosse asservito alla Germania nazista, e soffrí per tutta la vita la sorte dei genitori e di altri congiunti assassinati nei campi di sterminio. Né volle dimenticare la viltà dei colleghi torinesi che nel 1938, dopo la sua espulsione dai ruoli, cambiavano strada per non incrociare il suo sguardo. Costretto all’esilio in Gran Bretagna, tenne casa a Londra fino alla morte, ma conservò sempre la cittadinanza italiana; […] Per chiunque lo abbia conosciuto resta memorabile il vigore del suo pensiero e il fascino di una tagliente lucidità intellettuale accompagnata alla sua cultura impareggiabile.

Giovanni Pugliese Carratelli (1911-2010)

UN’ANTICHITÀ SENZA CONFINI Nei suoi studi sull’età minoico-micenea convergono due preoccupazioni, l’intreccio fra varie culture e il carattere fondativo di tradizioni, miti e riti, forme d’arte che si dipanano senza interruzione fino ai piú visibili splendori della Grecia classica. Si allungano cosí i tempi della civiltà greca, in quell’attenzione alla longue durée che è altra e non minore costante dell’opera sua di studioso. […] Nell’Enciclopedia del Novecento, riflettendo sul celebre dictum di Benedetto Croce secondo cui «ogni vera storia è storia contemporanea», Pugliese aggiungeva che «la passione politica o la fede religiosa ha alimentato la vocazione alla storia» degli studiosi piú grandi. E, con movimento caratteristico, ricorre alle parole dell’opuscolo di Luciano Come scrivere la storia, II secolo d.C.: ottimo storico sarà chi possegga in egual grado «intelligenza politica [synesis politiké] e facoltà interpretativa [dynamis hermeneutiké]». Se a queste antiche parole aggiungiamo l’attenzione alla lunga durata, lo sguardo volto ai fili seminascosti della tradizione e la visione magistrale di un vastissimo orizzonte di spiritualità e di pensiero dall’India al Mediterraneo e dalla Creta minoica al presente, potremo leggerle come un implicito autoritratto.

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LIBRI • SALVATORE SETTIS Sergio Donadoni (1914-2015)

LA «MORALITÀ» DELL’ARTE EGIZIA

Quella di Donadoni è una narrazione argomentativa che insegue empaticamente nell’arte egizia «una natura umana e nostra», non per un’astratta universalità dei valori, ma al contrario perché «l’intuizione spaziale dell’artista egizio» non crea «uno spazio metafisico, ma il nostro spazio storico», al punto che tre teste del faraone Sesostri III (1879-1846 a.C.) sembrano «vivere nella nostra stessa atmosfera». Strumenti di questa intima conoscenza dell’arte egizia furono per lui l’esplorazione delle strategie compositive dell’artista antico e la dialettica fra due poli opposti, «edonismo» e «ascetismo», che convergono in una dimensione propriamente morale. In questa ricerca di moralità nell’arte egizia risiede l’ethos dello storico. Vero nemico di una critica storicamente fondata è la soggettività dell’interprete, se il suo «stato fittizio di ipersensibilità» lo spinge a un’analisi meramente formale, senza «moralità».

Umberto Zanotti Bianco (1889-1963)

L’ARCHEOLOGIA CONTRO LE DISUGUAGLIANZE La giovinezza di Umberto Zanotti Bianco va letta in sintonia con i grandi movimenti di opinione che portarono nel primo Novecento alla prima vera legge nazionale sul patrimonio (1909) e alla legge Croce sul Umberto Zanotti Bianco negli anni Trenta, sul sito dell’antica Sibari.

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paesaggio (1922). In quel processo di presa di coscienza Zanotti divenne presto un apostolo del valore educativo del patrimonio culturale e dell’importanza della ricerca in funzione della tutela. Le sue due «facce», filantropo meridionalista e archeologo militante, furono due aspetti di una stessa battaglia contro l’ineguaglianza, soprattutto (ma non solo) tra il Nord e il Sud d’Italia […] le ragioni del suo meridionalismo etico e culturale furono le stesse del suo impegno di archeologo. Si era laureato in giurisprudenza a Torino e aveva una ricca educazione classica ma nessuna formazione propriamente archeologica; eppure, per tradurre in pratica l’idea che sul patrimonio culturale si potesse far leva per l’emancipazione del Sud, seppe diventare, da autodidatta, archeologo di rango. Volle affrancare da emarginazione e oblio non solo i contadini calabresi, ma anche i monumenti e le memorie storiche della regione…


Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975)

IL MAESTRO DELLE IMPRESE DI TRAIANO

Sebbene abbia «fatto scuola» piú di ogni altro archeologo italiano del Novecento, Ranuccio Bianchi Bandinelli rischia di essere tanto piú celebrato e citato quanto piú dimenticato nella sostanza. […] Se vogliamo gettare uno sguardo nel laboratorio di Bianchi Bandinelli, forse la scelta migliore è un tema da lui prediletto, la Colonna Traiana, che nel 1972 illustrò in televisione in una puntata del programma Io e… di Anna Zanoli, con la regia di Luciano Emmer. Alla Colonna Bianchi Bandinelli aveva dedicato la memorabile prolusione alla cattedra fiorentina di Archeologia (1938), in cui «inventò», o per meglio dire comprese e battezzò, il «Maestro delle Imprese di Traiano», che da allora è nome convenzionale per l’anonimo artista a cui si devono i rilievi della Colonna. […] la statura di Bianchi Bandinelli brilla nella capacità di dialogare col Maestro della Colonna, riconoscendone la grandezza nell’orizzonte dell’arte romana ma sapendovi vedere al tempo stesso la traccia di problemi del nostro tempo come la ribellione dei popoli oppressi e la necessaria libertà del pensiero.

Ranuccio Bianchi Bandinelli a Mosca nel 1949, con Rossana Rossanda e il deputato Francesco Scotti. In alto, nello studio della villa di Geggiano nel 1952.

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LIBRI • SALVATORE SETTIS Mario Torelli (1937-2020)

ARCHEOLOGIA E IDEOLOGIA [In Mario Torelli] l’istanza di una percezione unitaria del mondo antico si formò alla luce dei maestri incontrati alla Sapienza di Roma: l’etruscologo Massimo Pallottino, l’epigrafista Attilio Degrassi, lo storico delle religioni Angelo Brelich, lo storico Giovanni Pugliese Carratelli, e soprattutto l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, di cui lo attrassero la militanza comunista e la vastissima cultura. […] L’«archeologia socio-culturale» di Torelli (la definizione è di Tonio Hölscher), accoglieva storia religiosa, cultura materiale, antropologia e storia dell’arte nel piú vasto ambito di un’analisi delle società. «Ideologia» è forse la parola che piú spesso ricorre nei suoi scritti; e per essa s’intendono le dinamiche del potere, le pratiche del culto, la normatività del diritto, la formazione di concetti religiosi o giuridici, l’immaginario collettivo riflesso nel mito e nella cultura artistica. La nozione sociologica di «modelli di comportamento» è sottesa a molti di questi studi come chiave per intendere la dinamica dei rapporti interculturali, e in particolare il trasferimento o l’adozione, da un luogo all’altro, di modalità del culto, tipologie urbanistiche e architettoniche, contrassegni e metafore delle gerarchie di potere […]

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Mauro Cristofani (1941-1997)

CONOSCENZA E DISCUSSIONE Mauro Cristofani non fu solo un archeologo di ineccepibile preparazione e rara dedizione alla ricerca ma anche uomo con forte senso delle istituzioni e cittadino che considerava l’impegno civile come un obbligo etico e politico. Fu appassionato e tenace nel difendere le cose in cui credeva come nell’attaccare, anche duramente, le posizioni opposte, ma insieme pronto al dialogo e aperto alle novità nella conoscenza e nel metodo. Fra gli aspetti del suo lavoro che piú lo caratterizzarono, emerge la spola fra la minuzia nella ricerca di dettaglio e la consapevolezza dei grandi quadri d’insieme. Dei quasi cinquecento titoli della sua bibliografia colpiscono per numero e costanza i lavori di epigrafia e paleografia etrusca, che includono l’intensificata produzione del Corpus delle iscrizioni etrusche negli anni in cui diresse l’Istituto per l’Archeologia Etrusco-Italica del Consiglio Nazionale delle Ricerche. […] non fu mai un ricercatore solitario, ma considerò il «fare scuola» come il modo piú efficace e naturale per far progredire la conoscenza mediante la discussione.


Riccardo Francovich (1946-2007)

UN MEDIOEVO DI FRONTIERA Per almeno due ragioni, la promozione dell’archeologia medievale e la battaglia per la tutela dei siti archeologici e dei paesaggi circostanti, Riccardo Francovich è figura e simbolo importante nell’archeologia italiana dell’ultimo Novecento. L’archeologia medievale ebbe a lungo scarsa cittadinanza in Italia, sia nelle università che nelle soprintendenze, a dispetto dell’enorme patrimonio di presenze medievali in Italia, che meritano di essere indagate non solo con gli strumenti della storia dell’arte, ma con le diagnostiche dell’archeologia di scavo. Francovich non corrispose affatto allo stereotipo dell’archeologo immerso tutto e solo nei propri studi privilegiati, e quanto al resto distaccato e distratto. Al contrario, la sua fu una vita in prima linea, dalla battaglia (vinta) per l’affermazione dell’archeologia medievale in Italia a quella per San Silvestro e i parchi della Val di Cornia, dove anzi dopo la sua morte i problemi si sono aggravati e moltiplicati, e la sua battaglia dev’essere ancora proseguita.

Marcello Gigante (1923-2001)

LE MUSE A LOS ANGELES Marcello Gigante venne a Los Angeles nel 1994, ed era, credo, il suo primo viaggio in America. Ma in quella città disorientante e «orizzontale» trovò un luogo subito familiare nel J. Paul Getty Museum, allora tutto raccolto nella Villa di Malibu, immaginativa replica della Villa dei Papiri di Ercolano, che per lui era un luogo non dell’archeologia ma dello spirito. Si aggirava nel giardino della Getty Villa, ricco di essenze arboree trapiantate da Ercolano, lussureggianti nella forma ma senza l’odore che in Campania avrebbero avuto. E quando fu invitato a casa di Bernie Frischer, professore a UCLA, a bordo piscina di uno scenario assai californiano Gigante avvistò una strana scultura (commissionata dal padrone di casa) che traduceva in pietra l’incipit dell’Ars poetica di Orazio, dove si parla di una figura ibrida (donna, cavallo, uccello, pesce), per concludere che poeti e artisti hanno piena libertà d’invenzione. In quell’inattesa statua di giardino vide il trionfo della cultura classica perfino in California, la perenne adattabilità dei classici ai capricci del Tempo. Insomma, come avrebbe detto Arbasino qualche anno dopo, Marcello cercava (e trovava) le Muse a Los Angeles.

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LIBRI • SALVATORE SETTIS

Elena Croce, con la sua «resistenza civile»; o la già citata Crespi, fondatrice del FAI, il cui ricordo si conclude con un episodio di colore che in qualche modo ne riscatta la severa distanza alto-borghese. L’altro termine del sottotitolo, «profili», abbraccia idealmente tutti gli assenti di cui ci viene offerto il ritratto. Sono poco meno di sessanta, suddivisi in tre sezioni: «maestri», «compagni di strada», «incontri e occasioni». In quest’ultima categoria miscellanea troviamo figure molto diverse per generazione e mestiere – Bobbio e Guttuso, Sciascia e Zanzotto, il fisico Katsanevas e l’ingegnere geotecnico Ja-

miolkowski, già presidente del Comitato internazionale per la salvaguardia della Torre di Pisa, di cui anche Settis fece parte.

RITRATTI FOTOGRAFICI Anche le «inquadrature» presentano di volta in volta scale fotografiche differenti, ora piú ravvicinate e perciò parziali – Eugenio Garin alla Normale (cui lo storico della filosofia donò la sua biblioteca come, prima di lui, Cantimori, Pasquali e Momigliano); Argan «politico» e senatore della Repubblica; Calvino in visita a Settefinestre e sulla Colonna Traiana ingabbiata dalle impalcature –; ora a figura

In basso: Veduta di Reggio e lo Stretto di Messina, olio di Edward Lear, 1852, Londra, Tate Britain.

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intera, come l’indimenticabile Marcello Gigante, a cui è dedicato uno dei ritratti piú affettuosi e spirituali (ci torneremo). Ma è soprattutto alle prime due sezioni che volgeremo la nostra attenzione, perché lí si ritrovano, piú allusivamente o piú esplicitamente, i mattoni dell’autobiografia intellettuale che l’autore non ha ancora scritto, e anche – si parva licet – i richiami piú familiari a chi, come me, ebbe la fortuna di averlo, alla fine degli anni Settanta, come giovane professore di archeologia romana a Pisa. Indimenticabili le sue lezioni proprio sulla Colonna Traiana, sempre a spron battuto e con corredo di diapositive, mentre sulla buia auletta di via Galvani volteggiava ancora il nume di Nella pagina accanto, in alto: la storica dell’arte Paola Barocchi (1927-2016). Dal 1968 ha insegnato storia della critica d’arte alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha diretto anche il Centro di elaborazione elettronica di dati e documenti storico-artistici. A destra: la storica dell’arte Maria Monica Donato (1959-2014) con lo storico del Rinascimento Nicolai Rubinstein, nel novembre del 2000.

Bianchi Bandinelli, morto pochi anni prima. Nell’ammetterci all’arte romana e alla storia degli studi, Settis placava per un verso – ma acuiva felicemente per un altro – la sete di conoscenza dell’antico tipica delle matricole.

ESSERE NORMALISTI: UN PRIVILEGIO E UN PESO La contagiosa verve didattica (Settis allora aveva meno di quarant’anni) che sperimentai da ragazzo a lezione oggi la ritrovo in molti passi di questa prima sezione venata dai ricordi giovanili dell’autore. Per esempio i seminari in Normale del papirologo Vittorio Bartoletti. Poche righe saranno sufficienti a rappresentare questo registro piú cordiale del libro: «Bartoletti amava lanciare gli allievi in medias res: estraeva dalla borsa alcuni frammenti papiracei rinserrati nelle loro gabbie di vetro, e ce li distribuiva facendo ciascuno di noi responsabile della conservazione del papiro assegnatogli e insieme della sua decifrazione. Un gesto semplice e naturale che valeva un’investitura: ci faceva avvertire – senza dirlo – il privilegio e il peso di essere normalisti [...] ciascuno si sentiva custode [...], per implicazione e per sineddoche, dell’intera antichità classica» (pp. 24-25). Tra gli storici dell’archeologia che Settis a lezione sentiva il dovere di «trasmetterci» c’erano due suoi am-

mirati maestri, Silvio Ferri, scomparso proprio in quel 1978, e il di lui piú giovane Paolo Enrico Arias (1907-1998). Il montaggio li presenta in sequenza, ma a un certo punto essi vengono stretti a confronto per esaltarne meglio virtú e differenze: «Con Ferri, gli esami si preparavano con brevi e dense “dispense” da lui stesso scritte [...]; Arias impose corposi manuali, grandi album fotografici appositamente approntati in piú copie, su cui si doveva assimilare non tanto e non solo un metodo di lettura, ma un’amplissima impalcatura di dati. Ferri ci aveva insegnato [...] un’erudizione tesa a mettere a fuoco problemi e domande; Arias ci insegnò i vantaggi dell’assimilare conoscenze vastissime con un duro, paziente apprendistato. Ferri lanciava provocazioni e stimoli, Arias esigeva disciplina e “sistema”» (pp. 48-49). Ranuccio Bianchi Bandinelli, invece, non fu propriamente insegnante di Settis, ma piuttosto un maestro putativo, elettivo, come chiarisce questo ricordo visivo registrato durante un semestre trascorso a Bonn, su invito di Nikolaus Himmelmann, alla metà degli anni Settanta: «fui lieto – riferisce Settis – di trovare la sua [di B.B., n.d.r.] fotografia sul tavolo di molti dottorandi tedeschi, accanto a quella dei maggiori maestri germanici di archeologia» (pp. 75-76).

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LIBRI • SALVATORE SETTIS

Intenso, quasi interiorizzato, è il necrologio dell’egittologo Sergio Donadoni, ultracentenario. Donadoni fu autore di un pionieristico capolavoro dell’antichistica italiana, uscito nel 1954, ma già ultimato alla fine del secondo conflitto mondiale, «in grado di trasportare l’arte egizia nel mondo contemporaneo» illustrandone la sin lí malintesa «moralità». Arte egizia – questo il titolo semplice di un libro di successo – offre a Settis l’opportunità di richiamare le tormentate vicende di una delle piú belle collane Einaudi del dopoguerra, la «Biblioteca d’arte» che, nonostante un ambizioso programma, ebbe vita assai breve. Veniamo alla seconda sezione, i «compagni di strada». A eccezione di Edoardo Vesentini, Francis Haskell, Paola Barocchi, e due allieve precocemente scomparse (Silvana Luppino e Monica Donato), gli amici radunati in questo gruppo sono tutti nati negli anni Trenta e Quaranta, e perciò assimilabili alla medesima generazione dell’autore. Fu proprio la Barocchi, austera e irreprensibile «signora delle fonti», a invitare periodicamente a Pisa il grande storico dell’arte Haskell. 56 a r c h e o

Settis l’avrebbe in seguito frequentato da vicino negli ultimi anni, al Getty Center di Los Angeles; tuttavia Haskell, a causa della sua forma mentis oxfordiana di allievo e poi di docente, sentiva certo piú congeniale il «seminario» della Normale, dove «passava molto tempo anche con gli studenti». Il carisma della sua mastership è racchiuso in questa commovente sintesi: «Fu tutta sua, e portata a perfezione, l’arte di parlare con la voce degli altri, attraverso un uso sapiente e intenso delle citazioni; ma anche di prestare agli altri la propria voce, costringendoli sulla pagina stampata a riprendere una conversazione fra loro che s’era interrotta da secoli ma si poteva riannodare mediante l’intreccio di opere d’arte e documenti» (p. 228).

UN RICORDO PUNGENTE Se l’elogio di Mario Torelli, intitolato significativamente «Archeologia e ideologia», si impenna nel commosso omaggio all’ultimo lavoro dello studioso, dedicato al santuario di Afrodite Urania-Venere Iovia a Paestum – lavoro scritto praticamente in articulo mortis e perciò testamento di un intero «per-

La Villa Getty, una delle sedi dell’omonimo museo, a Pacific Palisades (Los Angeles). La struttura dell’edificio è ispirata a quella della Villa dei Papiri di Ercolano. Nella pagina accanto: Salvatore Settis con l’architetto Rem Koolhaas alla mostra «Recycling Beauty» (Fondazione Prada di Milano) nel 2023.

corso di ricerca» –, al grecista Vincenzo Di Benedetto (di stretta osservanza marxista), calabrese come Settis, ma di qualche anno maggiore di lui, è agganciato, invece, un pungente ricordo giovanile: quello degli «indimenticabili seminari» alla Normale di Eduard Fraenkel sul Satyricon di Petronio, «nel mio primo anno di università 1959-60». Fu un’azzeccata congettura proposta nel corso di una lezione dalla «matricola» Settis, e súbito condivisa da Fraenkel, a innescare durante la pausa caffè un gustoso siparietto sulla presunta «inclinazione naturale dei calabresi verso la filologia» (p. 127). Si tratta, però, di due Calabrie diverse, precisa Settis: «settentrionale e interna, piú bizantina» quella di Di Benedetto, «meridionale e costiera, piú classica» la sua.


Cosí, la Normale di Pisa, non solo accomuna molti dei trapassati che affollano questo album di eccellenze italiane, ma costituisce una dorsale sentimentale – oltre che biografica – del libro e, in primis, del suo autore. Settis vi approdò infatti da ragazzo e, al culmine di un implacabile cursus honorum, ne divenne infine direttore nel 1999, di ritorno da Los Angeles. C’è uno «spirito della Scuola» che ritorna piú volte, e lo illustra bene questo passo tratto dal profilo di Umberto Carpi detto «Paci», un compagno di studi poi divenuto italianista: «Le amicizie di Normale sono (o almeno erano) radicate come un legame di sangue [...], per la forza di vita in comune [...]. Vivere insieme dalla mattina alla sera, negli stessi corridoi, nella stessa biblioteca, nella stessa mensa, nelle stesse aule, ci dava una comune impronta, di quelle che restano per la vita: riconoscere dei propri compagni la cadenza dei passi, l’intonazione della voce, le inclinazioni e le bizzarrie; “sapere” di ciascuno letture, simpatie, storie personali, ambizioni, delusioni, e seguirle poi nel corso degli anni. Come può accadere tra fratelli» (p. 145). Un’altra ricorrente presenza è la grecità dell’Italia meridionale. Due importanti antichisti napoletani, Giovanni Pugliese Carratelli, morto quasi centenario, e il papirologo Marcello Gigante, sono accomunati, oltre che dall’origine campana, dal-

la rivista La parola del Passato – della quale l’uno fu fondatore (nel 1946) e l’altro assiduo collaboratore – e, soprattutto, dal motto di Nietzsche che di essa ispirò il nome. Motto che, a conti fatti, è stato il programma scientifico ed esistenziale di entrambi (oltre che di molti dei protagonisti di questo libro e – azzardo – dello stesso Settis): «La parola del passato è sempre simile a una sentenza d’oracolo, e voi non la intenderete se non in quanto sarete gli intenditori del presente e i costruttori dell’avvenire».

ERCOLANO IN CALIFORNIA Pugliese Carratelli figura tra i «maestri», Gigante invece lo leggiamo negli «incontri», a motivo di un suo significativo soggiorno in California dove poté «sognare», visitandone la «immaginativa replica», la Villa dei Papiri di Ercolano sepolta dall’eruzione del 79. Di Pugliese Carratelli, «autore di cento studi eruditi, indagatore di epigrafi e di testi filosofici e storici, studioso della Grecia e dell’India, del Medioevo e dell’umanesimo, discepolo di Croce e di Omodeo, ma anche di Vico e di Socrate» (p. 58), Settis esalta la vocazione civile, non solo erudita, agli studia humanitatis intesi appunto «come r iflessione sul destino dell’uomo nel mondo e oltre il mondo». Nel ricordo di Gigante, invece, colpisce l’empatia del «ritrattista», impegnato a restituire, con

una generosità a tratti struggente, la sua «filologia globale», l’adesione alla cultura classica «come orizzonte di vita e di esperienza». Ho accennato alla «innaturale» presenza, in questo lunghissimo elenco di antenati e di coetanei, di due allieve dell’autore. Una di loro, la storica dell’arte Maria Monica Donato, era stata mia compagna di studi a Pisa. Impossibile, per chi la incontrasse quotidianamente in biblioteca o dividesse con lei la preparazione degli esami, non ammirarne l’acuta intelligenza cui si accompagnava, sotto l’involucro di grazia ed eleganza, un invidiabile rigore «teutonico». Al seminario annuale di letteratura latina Monica era sempre la piú generosa e la piú imitata, perciò rimanemmo increduli quando, ormai in dirittura d’arrivo, ci comunicò di volersi laureare con Settis (a me, in particolare, chiese in prestito gli appunti dei corsi sulla Colonna Traiana, scritti furiosamente a penna sul quaderno, come allora era consuetudine). Conclusa l’università ci perdemmo di vista, ma negli anni continuai a seguirla da lontano procurandomi i suoi lavori scientifici sulla funzione sociale delle immagini e sull’iconografia politica fra Medioevo e Rinascimento. In quei suoi studi intessuti di «memoria dell’antico», riconoscevo con orgoglio i segni dell’antica fiamma: la filologia classica che da ragazzi avevamo condiviso, apprendendola dai comuni maestri. PER SAPERNE DI PIÚ Salvatore Settis, Registro delle assenze. Profili e paesaggi, Salani Editore, Milano ISBN 978-88-310-2147-0 www.salani.it a r c h e o 57


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MUSEI • PUGLIA

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IL NUOVO ALLESTIMENTO DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI CANOSA DI PUGLIA ESALTA IL PREGIO DEI REPERTI DELLE SUE COLLEZIONI. TESTIMONIANZE DELLA FIORITURA DI QUESTO TERRITORIO NEI SECOLI CHE PRECEDETTERO LA ROMANIZZAZIONE di Giampiero Galasso

C

ostruito nel tardo XIX secolo e originariamente concepito sia come deposito dei tesori rinvenuti nel territorio, sia come spazio per esposizioni temporanee, il Palazzo Sinesi di Canosa di Puglia (Barletta-AndriaTrani) è stato trasformato nel 2015, con l’istituzione della Direzione Regionale Musei Puglia, in sede del Museo Archeologico Nazionale. La rinnovata esposizione del 2018 offre un’analisi della società canosina dall’età arcaica a quella ellenistica: attraverso il sistema di segnaletica e supporto didattico (in italiano e in inglese), il visitatore viene condotto in un suggestivo viaggio attraverso i momenti cruciali della storia millenaria della città. Canosa, il cui territorio viene frequentato da gruppi umani a partire dall’età del Bronzo, ha guadagnato importanza soprattutto in età arcaica (VII-VI secolo a.C.), emergendo

come uno dei centri principali della Daunia. Proprio in questo periodo, infatti, in località Toppicelli si sviluppa un insediamento che ha restituito unità abitative, fornaci e aree funerarie. Dal V al IV secolo Tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono al Museo Archeologico Nazionale di Canosa di Puglia e ai reperti in esso custoditi. Sulle due pagine: particolare della decorazione di una phiale apula a figure rosse con quadriga guidata da Eos. Fine del IV sec. a.C. Mare Adriatico Foggia

Canosa Bari Brindisi Taranto Mar Tirreno

Lecce

Mar Ionio

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a.C. vi emergono i primi gruppi dell’élite indigena, grazie allo sfruttamento agricolo intensivo: la ricchezza del centro in questo perioso è testimoniata dal ritrovamento di sontuose tombe a camera, ricche di preziosi corredi funerari. Dopo l’alleanza con Roma, nel 318 a.C., la città ha subito un graduale processo di romanizzazione, evolvendosi fino a diventare un municipio nel I secolo a.C. e specializzandosi nell’industria laniera. Alla metà del II secolo d.C., sotto Antonino Pio, con lo status di colonia, Canusium ha conosciuto un periodo di fervente attività edilizia, testimoniato dalle imponenti opere pubbliche, quali il tempio di Giove Toro, alcuni complessi termali, l’acquedotto e il ponte lungo la via Traiana. In età tardo-antica diventa sede dei governatori della provincia dioclezianea di Apulia et Calabria e di una diocesi di rilievo: a questo periodo risalgono le catacombe utilizzate dalla locale comunità cristiana scoperte in località Lamapopoli.

La ricca collezione del Museo Archeologico Nazionale comprende reperti selezionati dei corredi funerari delle tombe arcaiche e degli ipogei ellenistici, che offrono testimonianze sulle usanze e le mentalità della società canosina, nonché sull’alta qualità dell’artigianato locale tra il VI e il III secolo a.C.

NASCE UNA CIVILTÀ L’esposizione si apre con la Sala dell’Ariete, nella quale sono raccolti i corredi funerari del VI-V secolo a.C., periodo durante il quale una serie di trasformazioni sociali portano alla formazione della civiltà daunia (vedi foto qui accanto, sulle due pagine). All’interno della vetrina sono collocati i reperti vascolari di produzione subgeometrica daunia recuperati durante lo scavo della necropoli di vico Pasubio, dalle cui tombe a fossa terragna – che accoglievano i resti di uno o piú inumati verosimilmente appartententi allo stesso gruppo familiare – provengono numerosi contenitori (grandi Palazzo Sinesi, sede del Museo Archeologico Nazionale di Canosa di Puglia. In alto, sulle due pagine: uno scorcio della Sala dei Cavalli. Nella pagina accanto, in basso: olla con labbro a imbuto, decorazione geometrica bicroma e anse plastiche, dalla tomba 5 di vico Pasubio (Canosa). VI sec. a.C.

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olle, askoi e tazze-attingitoio con elementi decorativi plastici), armi e oggetti di ornamento personale che indicano la presenza di scambi commerciali anche su larga scala. Spiccano l’olla con labbro a imbuto con decorazione geometrica bicroma e anse plastiche dalla Tomba 5 (vedi foto a p. 63, in basso) e un vaso filtro arricchito di un elemento decorativo plastico a forma di figura femminile. Di rilievo anche il corredo di una sepoltura da via Legnano che conteneva oggetti importati, tra cui una coppa ionica di provenienza magno-greca, un bacile di bronzo di produzione etrusco-campana, un pendaglio da cintura in bronzo a forma di ariete stilizzato e una collana in vaghi d’ambra. La successiva Sala dei Crateri riunisce i corredi provenienti da un’area necropolare, forse appartenente a un solo gruppo familiare, intercettata in vico San Martino,


dove si data al IV secolo a.C. un ipogeo con tre celle ancora intatte al momento della scoperta, sigillate da tre lastre: proprio la straordinaria circostanza del rinvenimento ha consentito di identificare all’interno della tomba l’utilizzo della pratica della semicremazione, una particolare procedura funeraria che comportava l’accensione di una pira vicino al corpo del defunto, al fine di avviarne la parziale combustione. Le sepolture all’interno delle celle erano accompagnate da lussuosi corredi funerari comprendenti ceramiche apule a figure rosse (set destinati al consumo del vino), ceramiche dorate, acrome e sovradipinte policrome di produzione locale, ma anche fibule, armi (punte di

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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MUSEI • PUGLIA

lancia e giavellotto) e un ben conservato cinturone a fascia bronzea di tipo sannitico. Spiccano tra i reperti esposti nella sala, dalla cella A dell’ipogeo, due crateri a volute della seconda metà del IV secolo a.C., con scena di offerte al defunto presso il naiskos, e una phiale con scena di conversazione fra donne e un giovane uomo (vedi foto a p. 65, in alto), ma anche, dalla cella C, una pisside a deco-

Hydria apula a figure rosse con scena funeraria: nel naiskos, una coppia di defunti o la defunta con la sua ancella, opera del Pittore Varrese o dei suoi allievi. 355-340 a.C. 64 a r c h e o

razione policroma della fine del IV-inizi III secolo a.C. con immagine del gorgoneion a rilievo sul medaglione del coperchio. Attraverso la Sala degli Archeologi, spazio di approfondimento e di esposizioni temporanee, si passa alle sezioni successive, dedicate ai ricchi corredi recuperati agli inizi del secolo scorso nell’Ipogeo Varrese, una delle piú importanti tombe a camera scoperte a Canosa,

Nella pagina accanto, in alto: crateri apuli a volute a figure rosse con scena di offerte al defunto presso il naiskos, e phiale a figure rosse con scena di conversazione fra donne e giovane uomo, dalla cella A, deposizione 1, Ipogeo di vico San Martino (Canosa). Seconda metà del IV sec. a.C.


Oinochoe apula a figure rosse con quadriga guidata da un Erote alato. Fine del IV sec. a.C.

utilizzata da un gruppo familiare dove è esposta un’ampia selezione dell’élite indigena dalla fine del IV dei corredi funerari piú antichi dell’Ipogeo Varrese, appartenenti al II secolo a.C. all’omonima collezione in origine custodita nel MuUNA MADRE DISPERATA Nella Sala di Niobe sono collo- seo Nazionale di Tarancate ceramiche a figure rosse, pre- to. Primeggiano, nella valentemente di produzione apula, moderna vetrina che caratterizzate da una ricca decora- occupa un’intera pazione e da scene narrative elabo- rete, tre grandi hydriai rate. Si distingue una monumen- apule a figure rosse, tale anfora a figure rosse, attribuita attribuite al Pittore al Pittore Varrese (355-340 a.C.), Varrese o ai suoi secon la raffigurazione di Niobe che g u a c i ( 3 5 5 - 3 4 0 siede disperata sulla tomba dei a.C.), con rappresensuoi quattordici figli mentre una tazione di scene fudanza dionisiaca si trova nel regi- nerarie: al centro è il naiskos, raffigurato stro inferiore. Altri reperti di rilievo sono una con soffitto piano e phiale a figure rosse attribuita al tetto a doppio spiovenGruppo del Pittore di Arpi (315- te, decorato con fronto300 a.C.) con Andromeda e Niobe; ne e acroteri e sorretto un piatto a figure rosse con il dio da due colonne ioniche, Pan; un altro piatto attribuito al occupato da una coppia di Gruppo del Pittore della Lampas defunti o dalla defunta con la (360-350 a.C.) con la raffigurazio- sua ancella, mentre su piú regine del mito di Atteone; un lebete stri sovrapposti sono numerosi con scena nuziale attribuito al offerenti (vedi foto a p. 64). Gruppo del Pittore della Danzatri- Di rilievo è anche una serie di kance di Copenaghen (340-320 a.C.). tharoi decorati con Eroti alati e alDi rilievo, infine, un dinos e uno cune oinochoai apule a figure rosse stamnos a figure rosse attribuiti alla con scene di conversazione fra cerchia del Pittore di Dario (340- giovani e donne (seconda metà 320 a.C.) con vivaci scene di danza IV secolo a.C.). Non mancano reperti ceramici nello stile di del corteggio dionisiaco. Si accede poi alla Sala del naiskos, Gnathia, vasi policromi e plastici a r c h e o 65


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di produzione canosina del IV secolo a.C., come una serie di loutrophoroi scialbati, e ceramica dorata, caratterizzata dalla dipintura della superficie a freddo con un’ocra di colore giallo intenso per imitare le forme il vasellame metallico. L’ingresso alla successiva Sala dei cavalli è caratterizzato dalla presenza di una rara corazza anatomica in bronzo, della metà del IV secolo a.C., composta da due valve unite da due coppie di cerniere sulle spalle e da quattro coppie sui fianchi (vedi foto qui accanto, sulle due pagine). L’ambiente espositivo, però, si caratterizza soprattutto per la presenza

In alto: askos globulare policromo con decorazioni plastiche applicate a forma di gorgoneia, protomi di cavalli e figure femminili alate, produzione canosina. Fine del IV sec. a.C. 66 a r c h e o


A sinistra, sulle due pagine: corazza anatomica in bronzo composta da due valve unite da due coppie di cerniere sulle spalle e da quattro coppie sui fianchi, da Canosa, Ipogeo Varrese. Metà del IV sec. a.C. In basso: askos globulare policromo con decorazioni plastiche applicate, da Canosa, Ipogeo Varrese. Produzione canosina, fine del IV-III sec. a.C.

di vasi tardo-apuli a figure rosse caratterizzati da scene con protagonisti i cavalli, che sembrano voler richiamare sia la particolare abilità della popolazione indigena dei Dauni nel loro allevamento sia lo status aristocratico del defunto per esaltarne la condizione di guerriero.

QUADRIGHE IN CORSA La vetrina che occupa l’intera sala contiene cosí oinochoai decorate con scene composte da quadrighe guidate da un Erote alato e conversazioni fra giovani e donne (fine del IV secolo a.C.; vedi foto a p. 67, in basso), mentre una phiale mostra una quadriga guidata da una Amazzone e un’altra phiale una quadriga guidata da Eos (vedi foto in apertura, alle pp. 60/61). Sono qui presenti altre forme ceramiche a figure rosse, come brocche, kantharoi, pissidi e piatti da pesce, fra cui si distingue quello attribuito al Pittore di Bloomington (fine del IV secolo a.C.).

L’esposizione si chiude con la splendida Sala della ceramica canosina, in cui si colloca una selezione delle produzioni locali dei corredi funerari piú recenti dell’Ipogeo Varrese (fine del IV-III secolo a.C.). All’ingresso della sala è un grande askos globulare policromo con decorazioni plastiche applicate a forma di gorgoneia, protomi di cavalli e figure femminili alate (vedi foto a p. 66). Diverse e originali le altre forme vascolari presentate al pubblico, quali reinterpretazioni del repertorio greco e indigeno delle botteghe canosine del Tardo Apulo: tipologie che colpiscono per l’unicità delle loro forme (askoi, oinochoai, loutrophoroi) decorate con motivi policromi in celeste, rosa e rosso su fondo scialbato in bianco (coperto da una ingubbiatura di latte di calce) e arricchite da applique plastiche configurate. Rara è una pisside nello stile di Gnathia, divisa al suo interno in quattro scomparti per contenere gioielli e decorata con motivi vegetali sovraddipinti in bianco e giallo. Sempre allo stesso periodo si datano alcuni askoi di grandi dimensioni con un nuovo tipo di decorazione, detta «listata», per l’inserimento di disegni geometrici e vegetali in fregi orizzontali delimitati da linee parallele. Questa produzione, che risale all’ultimo ventennio del IV secolo a.C., costituisce lo sviluppo piú recente della ceramica subgeoemetrica, di cui ripropone gli schemi lineari e la bicromia. DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale Canosa di Puglia (Barletta-AndriaTrani), Palazzo Sinesi Orario martedí, mercoledí e domenica, 9,00-14,00; giovedí, venerdí e sabato 9,00-20,00, lunedí chiuso Info tel. 0883 664716; e.mail: drmpug.museocanosa@cultura.gov.it; https://museipuglia.cultura.gov.it/ a r c h e o 67


INCONTRI • PAESTUM

DOVE IL PATRIMONIO FA RIMA CON RISORSA La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico (BMTA), giunta alla sua XXVI edizione, in programma a Paestum dal 31 ottobre al 3 novembre prossimo, dopo oltre 25 anni si conferma come evento unico a livello internazionale, nel suo genere, nonché appuntamento ormai irrinunciabile per archeologi e operatori turistici e culturali soprattutto dei Paesi del Mediterraneo, che si incontrano per discutere di fruizione, gestione, valorizzazione del patrimonio archeologico e – soprattutto – di turismo culturale di Flavia Marimpietri

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al 2021 la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum viene ospitata all’interno del Tabacchificio Cafasso, un sito di archeologia industriale risalente agli anni Venti del Novecento, dove lavoravano 300 tabacchine e dove in occasione dello sbarco a Paestum del 1943 ebbe sede il comando degli Alleati, che il critico e filosofo Gillo Dorfles definí «simbolo della Piana del Sele», oggi riqualificato per ospitare manifestazioni fieristiche. 68 a r c h e o


Immagini di un incontro organizzato dalla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum nel magnifico scenario del Tempio di Cerere. Nella pagina accanto, nel riquadro: l’ex Tabacchificio Capasso, che dal 2021 ospita le attività della BMTA.

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INCONTRI • PAESTUM

Qui, in occasione della prossima BMTA, si terrà il piú grande salone espositivo al mondo dedicato al patrimonio archeologico, con la partecipazione di istituzioni, Regioni, Comuni, enti, organizzazioni di categoria, associazioni professionali e culturali, aziende e consorzi turistici. I numeri sono cresciuti negli anni. Nel 2023, in tutto 8500 visitatori, 150 conferenze tenute in 6 sale in contemporanea, 600 relatori, 150 espositori, oltre 1200 studenti coinvolti nelle iniziative loro dedicate presso la Basilica, il Parco e il In alto: operatori e visitatori in occasione di una delle ultime edizioni della BMTA. A sinistra: lo stand della rivista «Archeo», storico media partner della Borsa. Nella pagina accanto: Mohamad Saleh, ex direttore Turismo Palmira (a sinistra) con Mounir Bouchenaki, presidente onorario della BMTA.

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LA DIFESA DEL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO Già dai tempi della distruzione dei Buddha di Bamiyan, poi di siti e musei archeologici in Afghanistan e in Iraq, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico ha avuto un occhio sempre attento ai Paesi teatro di guerre o conflitti. Nel 2015, con la drammatica distruzione del sito archeologico di Palmira da parte dell’Isis e l’attentato al Museo del Bardo a Tunisi, la BMTA ha voluto onorarne il ricordo riproponendo annualmente un premio dedicato a Khaled al-Asaad, direttore del sito siriano, che ha pagato con la vita l’aver cercato di proteggere le opere poi distrutte dai fanatici islamisti. L’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», che premia la scoperta archeologica dell’anno a livello internazionale, è ancora oggi l’unico riconoscimento mondiale dedicato agli archeologi che con sacrificio, dedizione e competenza hanno affrontato il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio. A promuoverlo, insieme alla BMTA, è la rivista «Archeo», in collaborazione con le testate archeologiche internazionali media partner della Borsa: Antike Welt (Germania), arCHaeo (Svizzera), AiD Archäologie in Deutschland (Germania), Archéologia (Francia), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia). Il premio costituisce una delle 16 sezioni del grande contenitore che la Borsa rappresenta.

Museo Archeologico, 15 territori regionali rappresentati, 18 Paesi esteri presenti, l’ultimo anno Cipro, Colombia, Corea del Sud, Cuba, Estonia, Grecia, Guatemala, Iran, Malta, Perú, Repubblica Slovacca, Serbia, Siria, Slovenia, Spagna, Tunisia e – novità dal 2023 – anche lo Stato della Città del Vaticano, con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

COME NASCE LA BMTA Ad avere l’intuizione che ha portato alla nascita della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico (BMTA) è stato il suo ideatore e fondatore, il direttore Ugo Picarelli, che ne ha curato instancabilmente tutte le edizioni. Come ci racconta, tutto inizia già prima del

1998, quando Paestum viene candidata a sito Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Un fatto che fa scattare la scintilla in Picarelli, il quale «inventa» la BMTA proprio per accompagnare il processo di valorizzazione dell’area archeologica di Paestum in occasione del suo inserimento nella lista dei beni materiali UNESCO. Questo non è, tuttavia, l’unico obiettivo della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, ricorda il direttore: la BMTA nasce da subito come occasione di incontro tra domanda e offerta per tutte le destinazioni turistico-archeologiche a livello internazionale. E ancora oggi, a 26 anni di distanza, rimane l’unico appuntamento del genere al mondo. La «mission» della Borsa è

sempre stata quella di promuovere non solo il sito dell’antica Poseidonia greca, ma anche le bellezze del Mezzogiorno, definito un «museo a cielo aperto», collegando l’offerta turistica del Sud d’Italia con gli operatori internazionali. Intuizione, allora, necessaria, poiché, come ricorda Picarelli, in quegli anni a Paestum il brand della mozzarella di bufala superava di molto la notorietà del sito archeologico.

DIALOGO E COOPERAZIONE La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico ha sempre avuto uno sguardo attento nei confronti dell’attualità internazionale, portando al centro del dibattito il tema del dialogo interculturale e della cooa r c h e o 71


INCONTRI • PAESTUM

perazione tra popoli. La BMTA è sempre stata, cosí, un reale luogo di incontro tra accademici, archeologi e operatori turistici, che hanno condiviso idee e best practices, lavorando a progetti e tavoli comuni, nel solco di una visione culturale condivisa, dove non esistono frontiere e ideologie.Tutto ciò è stato possibile anche grazie alla partecipazione delle Nazioni Unite della Cultura di Par ig i (UNESCO) e dell’UNWTO (ora UN Tourism). 72 a r c h e o


tivo che si estende per oltre 5mila mq. Un fiore all’occhiello della BMTA è sicuramente la mostra «ArcheoVirtual», innovativa esposizione internazionale che negli anni ha ospitato le tecnologie multimediali, interattive e virtuali piú all’avanguardia, attraverso applicazioni fruibili dal pubblico. Ma anche «ArcheoExperience», vivaci laboratori di archeologia sperimentale per la riproduzione delle tecniche usate dall’uomo per realizzare i manufatti di uso quotidiano, dalle armi agli utensili, ai calzari. «ArcheoIncoming» è dedicato ai tour operator specializzati nelle destinazioni turisticoarcheologiche italiane, mentre UNA BORSA, 16 SEZIONI Tra le 16 le sezioni in cui è suddi- «ArcheoIncontri» presenta provisa la Borsa, c’è un salone esposi- getti culturali e di sviluppo terriL’obiettivo è trasferire a chi gestisce musei e parchi il valore identitario che ogni sito rappresenta per le comunità locali, facendolo divenire strumento di cooperazione culturale internazionale. Nei primi anni della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico è stato sempre eletto un Paese ospite ufficiale. Dallo scorso anno, inoltre, è presente uno spazio espositivo del Ministero degli Esteri con l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che nel 2024 verrà ampliato per divulgare le tante attività messe in campo nei Paesi della sponda del Mediterraneo.

In alto: una sequenza tratta dall’opera di animazione Dyia, una produzione indiana sul tema dell’inclusione. In basso: una scena da The Time of Giants (L’era dei giganti).

Sulle due pagine: immagini di repertorio delle passate edizioni della BMTA. Dalla pagina accanto, in basso, in senso orario: una visitatrice sperimenta gli apparati multimediali di «ArcheoVirtual»; visita guidata al Parco Archeologico di Paestum; lo stand della Corea del Sud; un momento di «ArcheoIncoming», occasione di incontro per i tour operator specializzati nella promozione del turismo archeologico. a r c h e o 73


INCONTRI • PAESTUM

LA PROSSIMA BMTA 2024 Il Cortile dei Gentili, presieduto dal cardinale Ravasi, terrà un’importante conferenza, alla quale saranno invitati gli ambasciatori dei Paesi mediterranei accreditati presso la Santa Sede per un confronto sul dialogo interculturale. La Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, inoltre, con il presidente, monsignor Pasquale Iacobone, presenterà le iniziative dedicate alle Catacombe nell’ambito del Giubileo. Nel programma, che si preannuncia ricco, sarà centrale il tema del volontariato a sostegno del patrimonio culturale, grazie al contributo delle associazioni culturali e di promozione sociale: Fondo Ambiente Italiano (FAI), Touring Club Italiano, Gruppi Archeologici d’Italia, Archeoclub, Unione Nazionale Pro Loco (UNPLI), Associazione Nazionale Archeologi (ANA), Confederazione Italiana Archeologi (CIA), Associazione Italiana Giovani per l’UNESCO. La sezione «ArcheoVirtual», inoltre, attraverso l’uso sapiente delle tecnologie, si concentrerà su una fruizione del patrimonio modellata sulle esigenze e le

aspettative dei diversi tipi di pubblico. Il fine della mostra è quello di includere il pubblico, rendere accessibile la cultura e disegnare i musei del domani su modelli che i visitatori sentano piú vicini.

In alto: il fondatore e Direttore della BMTA, Ugo Picarelli (terzo, da destra), con Gianfranco Ravasi, Presidente Emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, Alfonsina Russo, Direttore del Parco Archeologico del Colosseo, e Pasquale Iacobone, Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

toriale. «ArcheoLavoro», a cura delle Università, è dedicato all’orientamento post diploma e post laurea degli studenti. Con «ArcheoStartup», le neo-imprese turistico culturali hanno la possibilità di far conoscere i propri progetti piú innovativi, mentre negli «Incontri con i Protagonisti» il grande pubblico entra in contatto con i noti divulgatori della TV.

IL FUTURO, TRA ITINERARI SUBACQUEI E AREE INTERNE Una delle proposte della Borsa è la certificazione di un itinerario culturale europeo dei siti archeologici subacquei del Mediterraneo, sulla 74 a r c h e o


In alto: lo stand della Regione Campania. A sinistra: incontri presso lo stand del Museu d’Arqueologia de Catalunya. Nella pagina accanto, al centro: attività organizzate nell’ambito di «Archeo Experience». Nella pagina accanto, in basso: workshop per operatori specializzati e buyer.

falsariga della via Francigena. Idea che nasce dalla grande eredità dei 26 itinerari archeologici subacquei realizzati da Sebastiano Tusa, Soprintendente del Mare e poi Asses-

sore ai Beni culturali della Regione Siciliana, scomparso nel 2019, nel ricordo del quale la BMTA ha istituito un premio annuale destinato alla carriera, al miglior pro-

getto museale, alla comunicazione giornalistica. Una certificazione, quella dell’itinerario culturale europeo dei siti archeologici subacquei del Mediterraneo, da proporre al Consiglio d’Europa, attraverso un partenariato tra regioni meridionali e Paesi mediterranei. Altra visione che la BMTA porta avanti è la valorizzazione del patrimonio archeologico delle aree interne dell’Italia, che viene chiamato «minore», ma tale non è. Un progetto che prevede il collegamento in rete delle stazioni ferroviarie dei piccoli comuni, anche con l’utilizzo dei treni storici, attraverso link dedicati al trasporto su gomma oppure con auto e bici elettriche a noleggio, al fine di rendere visitabili i siti interni piú lontani dai capoluoghi regionali e provinciali. La proposta, finalizzata a valorizzare le destinazioni italiane minori e riqualificare la loro offerta turistica, ha destato l’interesse di Automobile Club d’Italia, Trenitalia Direzioni Regionali, Fondazione FS Italiane, Federparchi. a r c h e o 75


SPECIALE • TEATRO

QUANDO LA VITA È UNO SPETTACOLO ALLESTITA NEL MUSEO DELL’ARA PACIS A ROMA, UNA MOSTRA RACCONTA LA STORIA DEL TEATRO, I SUOI PROTAGONISTI, I GENERI PIÚ POPOLARI. ASPETTI ESSENZIALI DI UN FENOMENO DI PORTATA BEN PIÚ AMPIA DELLA SOLA RAPPRESENTAZIONE SCENICA. COME SPIEGANO I CURATORI DEL PROGETTO ESPOSITIVO di Salvatore Monda, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo

N

el 240 a.C. per la prima volta a Roma fu portato sulle scene un dramma composto in lingua latina a opera di un poeta di origine greca, Livio Andronico. Si trattò di un evento di grande rilevanza storica e culturale, poiché l’istituzione di quello spettacolo segnò il vero e proprio atto di nascita della letteratura latina. Il teatro, derivato dalla tradizione greca, ma permeato anche di costanti influssi di componenti etrusche e italiche, giocò un ruolo centrale nella vita quotidiana e nell’identità culturale dell’antica Roma: non fu solo un mezzo di intrattenimento, ma anche di riflessione critica e soprattutto di coesione sociale. Le rappresentazioni teatrali erano spesso parte di festival religiosi e celebrazioni pubbliche e offrivano una grande opportunità per i cittadini romani di riunirsi e condividere un’esperienza culturale comune, in cui era possibile esplorare la condizione umana, riflettere sulla religione, sulla morale e persino sulle semplici sfide della vita quotidiana. Il teatro si rivelò ben presto anche un potente strumento di propaganda politica, sia per il ruolo che era in grado di svolgere nello sviluppo dell’identità e dei valori della civiltà romana, sia anche per l’indubbio prestigio che l’organizzazione degli spettacoli offerti al popolo concedeva ai leader politici. 76 a r c h e o


Quando venivano concepite dai loro autori, le opere teatrali erano in massima parte destinate a un palcoscenico e a una platea. La stessa parola greca théatron, connessa al verbo theáomai («vedo»), in origine designa l’insieme del pubblico di spettatori piuttosto che lo spazio scenico. I generi teatrali, sia tragici che comici, erano cosí strettamente legati all’occasione della messinscena che possiamo considerare senz’ombra di dubbio un fatto straordinario che delle opere risalenti a piú di duemila anni fa si siano tramandate fino a noi. Ma ciò non sarebbe accaduto, se non fosse giunto nella storia del teatro il momento favorevole in cui quei testi furono percepiti come «letterari», o, semplicemente, in cui si comprese che potevano rappresentare il piú ricco giacimento di usi linguistici e lessicali delle epoche arcaiche: solo a quel punto fu concessa loro anche l’opportunità di una diffusione libraria.

IL CONTRIBUTO DEI GRAMMATICI A ciò contribuí soprattutto l’attività dei grammatici antichi che per le opere del teatro latino di età repubblicana, a partire dalla seconda metà del II secolo a.C., si dovettero prima procurare i copioni degli autori piú famosi – direttamente dalle compagnie teatrali, piú spesso presso gli archivi dei magistrati preposti all’organizzazione degli spettacoli – e poi poterono dedicarsi ad approntare delle edizioni destinate agli scaffali delle biblioteche e alla loro attività scolastica ed esegetica. Malgrado ciò, solo alcuni testi sono sopravvissuti all’epoca tardo-antica per giungere negli scriptoria delle abbazie medievali, garantendo un numero di copie sufficiente a tramandare quelle opere fino a noi: per la commedia Plauto e Terenzio, per la tragedia soltanto Seneca. Di tanti altri testi, di interi generi letterari, quali la tragedia di età repubblicana, conosciamo solo i titoli e, talvolta, un buon numero di frammenti, grazie alle citazioni di eruditi, grammatici, lessicografi, o anche di semplici appassionati di teatro – è il caso, per esempio,

Maschera in terracotta di attore di farsa fliacica, da Taranto. Fine del II-inizi del I sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: affresco raffigurante una scena di tragedia o la preparazione di un dramma: un attore (o un poeta) guarda pensoso una maschera tragica sollevata da un inserviente, da Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

di Cicerone – che hanno disseminato le loro opere di passi tratti dai poeti scenici. Un testo scritto, però, è solo uno degli elementi costitutivi di una messinscena. La realizzazione di un dramma sulle tavole di legno di un palcoscenico è fatta anche di musica, scenografia, attori, maschere, costumi, tutto ciò che oggi, purtroppo, per il mondo antico risulta quanto mai evanescente, ma senza la cui considerazione ogni tentativo di ricostruire uno spettacolo nel suo insieme risulta vano. Le nostre conoscenze relative alla prassi teatrale nella Roma antica dipendono in massima parte dagli stessi testi di Plauto e Terenzio, cosí generosi di indicazioni – interne ai monologhi e ai dialoghi – sui movimenti, le uscite, le entrate, i gesti a r c h e o 77


SPECIALE • TEATRO Cratere a volute attico a figure rosse (noto come Vaso di Pronomos), da Ruvo di Puglia. 400 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La scena principale, qui riprodotta, celebra Dioniso quale dio del teatro. In basso, il particolare del vaso raffigurante due attori: uno nelle vesti di Eracle (a sinistra) e l’altro in quelle di Papposileno.

degli attori. In alcuni casi possiamo contare sulla comparazione con il teatro greco, almeno per i generi drammatici direttamente connessi con dei modelli attici. Ma le informazioni in nostro possesso sarebbero tanto piú lacunose se non fossero giunte fino a noi, in misura notevole, testimonianze archeologiche e figurative. I resti degli edifici teatrali di età greca, romana e imperiale – piú di mille quelli censiti, tra teatri greci, teatri-templi ellenistici, romani, gallo-romani, di tipologia mista e odea dedicati alla recitazione e alla musica – sono presenti in tutte le province che saranno romane e oltre, fino nelle lontane terre dell’odierno Afghanistan, dove si trovano i resti del teatro greco di Ai Khanoum, dandoci l’idea della diffusione, del successo e del perdurare degli spettacoli nel corso dei secoli.

STRUTTURE PROVVISORIE C’è tuttavia da registrare il singolare «ritardo» dell’architettura dei teatri stabili sul momento di massima fioritura della drammaturgia classica che in Grecia avvenne nel corso del V secolo a.C. e a Roma durante la media Repubblica. Ad Atene, infatti, quasi un secolo separa il fiorire della tragedia e della commedia arcaiche

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dalla costruzione del teatro di Dioniso, il primo stabile in Grecia, datata intorno alla metà del IV secolo a.C. Non diversamente nella Roma repubblicana, dove inizialmente lo spazio scenico che ospitava commedie e tragedie consisteva di strutture provvisorie, in legno, che venivano smantellate al termine dei ludi scenici. Proprio a Roma e nei territori del suo dominio il fenomeno assumerà sfumature paradossali in epoca imperiale, se si pensa che gli edifici teatrali stabili, monumentali, destinati ad accogliere migliaia o decine di migliaia di spettatori, nascono una volta tramontata la produzione letteraria maggiore: i grandi teatri in pietra ancora oggi visibili – in tanti casi visitabili e spesso tuttora in uso – nascono e si moltiplicano a partire dal principato e in età imperiale, quando molto poco viene scritto per il teatro recitato, il teatro della parola, e trionfa invece lo spettacolo di mimi, pantomimi, musici e cantanti, che potremmo definire il «teatro del corpo».

SVAGO E PROPAGANDA Un fenomeno che si spiega, da una parte, per il rapido e definitivo allontanarsi del teatro romano dalle sue radici religioso-comunitarie e il suo slittamento progressivo verso quello che oggi chiameremmo «spettacolo di massa», e dall’altra per la funzione propagandistica che assumono i teatri imperiali come luoghi di divertimento ma anche di consenso rispetto alle élites egemoni. Parlano per esse le fastose frontes scenae, dove tra le colonne si alternano le statue degli dèi, le personificazioni delle virtú e le effigi delle famiglie imperiali o di notabili particolarmente meritevoli di tali onori. A questo macroscopico lascito monumentale dobbiamo aggiungere le testimonianze figurative – mosaici, affreschi, sculture, produzione fittile – le quali, per quanto riferite soprat-

Kylix (coppa a due manici) attica a figure nere con scena di phallopòria. 560-550 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Sul vaso è appunto raffigurata una processione fallica.

tutto alle opere del teatro greco, costituiscono per gli studiosi un importante documento anche delle fasi di realizzazione di uno spettacolo a Roma, degli attori, delle maschere e dei costumi. Spesso le illustrazioni di scene tragiche e comiche rispondono a convenzioni iconografiche che non sempre coincidono con quelle della reale prassi teatrale antica, ma, se interpellate con la necessaria prudenza, possono raccontare molto allo studioso degli usi e delle convenzioni del teatro latino.

UN FENOMENO COMPLESSO Date queste premesse, appare evidente la vasta e profonda portata culturale del fenomeno dei ludi scaenici nella Roma prima repubblicana e poi imperiale, che giustifica la volontà e l’ambizione di portarlo all’attenzione del pubblico contemporaneo. La mostra «Teatro Attori, autori e pubblico nell’antica Roma» vuole presentare la complessità di questo fenomeno e dell’istituzione culturale degli spettacoli teatrali nell’Urbe, sotto diversi aspetti, ripercorrendone la stratificazione culturale, strettamente legata all’espansione politica di Roma nella penisola italica e nel bacino del Mediterraneo. Il desiderio di raccontare tale complessità ha suggerito precise scelte e strategie allestitive, per rendere coerente e al tempo stesso immersivo e, per quanto possibile, coinvolgente il percorso di mostra. Il teatro, allora come oggi, è prevalentemente «dramma», ossia «azione»: una prassi rispettosa delle convenzioni, ma soprattutto una dimensione esperienziale; proprio questo aspetto dell’esperienza si è voluto privilegiare, anche per segnalare quanto questa tradizione classica sia ancora viva e pulsante. Il percorso di mostra, dunque, si snoda in un racconto che, piú che l’evoluzione cronologica, comunque rispettata, vuole evidenziare la stratificazione dei contributi culturali che furono alla base della grande tradizione drama r c h e o 79


SPECIALE • TEATRO

matica della Roma repubblicana. Il rito dionisiaco e collettivo che sostanzia il fenomeno degli spettacoli teatrali nel mondo greco, ma soprattutto nell’Atene del V secolo a.C., caratterizza la prima parte dell’esposizione, dove una installazione video è dedicata al celebre cratere di Pronomos, presente in mostra (vedi foto a p. 78), le cui immagini vengono lette e interpretate per il visitatore. Nelle due sezioni successive si evidenzia quanto l’eredità greca, recepita e filtrata dal mondo etrusco, si fonda in territorio italico con altre tradizioni. Ecco dunque evidenziato il contributo della cultura osca e della fabula atellana, della «ilarotragoedia» e della farsa fliacica in ambiente siciliano e magno-greco. Roma conquista Taranto e il feroce conquistatore viene a sua volta irretito dalle maglie di una fortissima tradizione culturale di matrice ellenica.Viene a questo punto proposta una riflessione dedicata alle maschere e alla tradizione della Commedia Nuova: è questo, infatti, il passaggio cruciale per la costruzione della grande drammaturgia comica in lingua latina giunta fino a noi, dalla quale cogliamo i principali aspetti della prassi teatrale in epoca repubblicana. Ma non solo: già in questa riflessione sulle maschere e i caratteri della Commedia Nuova si intravedono personaggi e temi che torneranno nella commedia europea in età moderna, e che sono ancora oggi ben riconoscibili.

A CIASCUNO LA SUA MASCHERA Questa cesura del percorso segna l’ingresso nel mondo propriamente romano, di cui si raccontano i ludi, le celebrazioni in occasione delle quali i magistrati finanziavano l’organizzazione degli spettacoli teatrali, nonché l’esperienza comica – cosí diversa e quasi complementare – di Plauto e Terenzio, raccontati «in soggettiva» da attori che li interpretano. Si indaga inoltre, pur con la prudenza che la complessità dei fenomeni sincretistici impone, quanto ancora resta vivo dell’elemento dionisiaco a Roma, dove Dioniso sembra incontrare Apollo, come nella denominazione del collegio professionale degli attori, i parasiti Apollinis. Papposileno, Satiri, Sileni, Menadi, Dioniso stesso e le loro maschere restano Statuetta in marmo bianco raffigurante un fanciullo con una maschera, da Anzio. Prima età imperiale. Roma, Musei Capitolini. 80 a r c h e o


comunque molto presenti nell’iconografia romana, spesso usati come elementi a carattere ornamentale, quasi a segnalare che tutta la vita, anche nei suoi aspetti piú quotidiani, è vissuta su un grande palcoscenico. La mostra esplora quindi la dimensione del tragico a Roma, per la quale si raccolgono esigui elementi da una tradizione molto frammentaria per l’epoca repubblicana, soffermandosi su Seneca per il periodo imperiale e sul suo «drammatico» rapporto con il giovane Nerone, lo scaenicus imperator. Nella parte centrale il percorso si apre al mondo dei protagonisti e degli strumenti della performance antica: vengono esplorati i temi della danza, della musica, gli strumenti musicali stessi, di cui si espongono rarissimi originali, ma anche la condizione sociale dell’attore e le dinamiche organizzative delle compagnie tea-

In alto: un particolare dell’allestimento della mostra in corso al Museo dell’Ara Pacis di Roma. A sinistra: statuina in terracotta raffigurante un’acrobata femminile (kybisteter), da Taranto. Ultimo quarto del IV sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale.

trali. Ai teatri di Roma è però dedicata una attenzione particolare: la costruzione del Teatro di Pompeo, che nell’Urbe cambia la prospettiva sino ad allora scontata delle strutture temporanee e inaugura la stagione dei teatri monumentali in pietra, il teatro di Marcello e quello di Balbo, fino alle grandi architetture nel bacino del Mediterraneo. E quando il percorso sembra ormai aver esaurito il filo del suo racconto, la mostra si apre al contemporaneo, memore della grande esperienza dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA), che negli ultimi 110 anni ha portato in scena il teatro dei classici nei teatri di Ostia e Siracusa, riflettendo sulla tradizione e sugli spazi scenici antichi, di cui ha promosso il riuso. La mostra chiude sull’esperienza – significativa anche per le reazioni a suo tempo suscitate – di Pier Paolo Pasolini, che attualizza l’antico con il suo Vantone, traduzione d’autore del Miles gloriusus di Plauto, presente in mostra nel dattiloscritto pasoliniano con note autografe dell’autore. a r c h e o 81


SPECIALE • TEATRO

UN’INVENZIONE DI SUCCESSO La storia del teatro ha inizio in Grecia, 2500 anni fa, e conobbe una svolta decisiva quando anche Roma fece suo il gusto per la messinscena. L’apprezzamento del pubblico per tragedie e commedie non venne mai meno e ovunque sorsero edifici per spettacoli di cui oggi si conservano grandiose testimonianze di Paola Ciancio Rossetto e Giuseppina Pisani Sartorio

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na delle piú importanti eredità che l’età antica ha trasmesso alla civiltà europea e a tutta la cultura occidentale moderna, è il teatro. Ma cosa si intende per teatro antico, quando nasce e quale fu la prima rappresentazione? «In una dimensione temporale che riassume il passato nel presente, l’attore e il coro si propongono come protagonisti di una nuova realtà, la cui forza mimetica attira anche quanti vi assistono in una partecipazione totale e immediata», cosí il grecista Dario Del Corno (1933-2010) definí il teatro greco. Si tratta quindi di un evento non narrato, ma

Il teatro di Erode Attico ad Atene. Seconda metà del Il sec. d.C. In realtà l’edificio era un odeum, cioè un teatro di grandi dimensioni, coperto, in cui si tenevano concerti.

vissuto, anzi rivissuto tutte le volte che si va in scena, quando un attore si identifica con un personaggio vero o inventato e trasmette o comunica agli spettatori, attraverso i gesti e la voce, emozioni, sentimenti, azioni del personaggio interpretato, in una forma di interazione tra attore e pubblico. La conoscenza che noi abbiamo del teatro antico è soprattutto libresca e il nostro approccio, quando avviene attraverso le rappresentazioni sceniche, risente molto delle mutazioni intervenute nei due millenni e mezzo che ci separano da quel lontano e convenzionale anno 534 a.C., in cui Tespi d’Icaria

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TUTTO COMINCIÒ (FORSE) CON DIONISO Dio del fluire vitale e dell’ebrezza, che muore e risorge con il ciclo naturale, a Dioniso venivano dedicati inni e per lui celebrati riti che in Grecia diedero origine sia alla tragedia che alla commedia. È Aristotele a riassumere sotto il segno di Dioniso le origini del teatro greco, le cui radici affondano nel sacro e nel culto. La tragedia sarebbe nata dal ditirambo, il canto in onore di Dioniso avviato da una voce solista alla quale rispondeva il coro, composto da attori vestiti da satiri. Ancora Aristotele ci rappresenta il passaggio dal ditirambo alla tragedia: «Fu Eschilo per primo a portare il numero degli attori da uno a due, a ridurre le parti corali e a fare primeggiare il dialogo; a Sofocle si debbono i tre attori e la scena» (Poetica IV, 1449a). La commedia sarebbe invece nata «da chi guidava le processioni falliche» in onore di

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Dioniso, cortei durante i quali un grande fallo ligneo veniva portato su un carro e vivaci «botta e risposta» venivano scambiati tra i partecipanti. La stessa parola «commedia» deriverebbe dal greco kòmos, il corteo dei fedeli di Dioniso che, ebbri e forse in maschera, lo celebravano con canti, musica e danza. Altre fonti, in contrasto con Aristotele, rendono ancora oggi le origini del dramma greco un terreno di disputa tra filologi. Resta il fatto che ad Atene i grandi concorsi tragici venivano celebrati nell’ambito delle feste annuali in onore di Dioniso: a lui erano consacrati il teatro e il vicino tempio, che custodiva il simulacro del dio, a lui era sacro l’altare (thymele) che sorgeva al centro dell’orchestra, e suo era il sacerdote che presiedeva, dalla prima fila, alle rappresentazioni.


avrebbe messo in scena ad Atene la prima tragedia. Tuttavia non è possibile avere anche solo un idea del teatro antico se non si conoscono i significati e le modalità delle rappresentazioni e la funzionalità degli edifici, in cui il dramma aveva luogo, ben noti invece agli autori antichi che si rivolgevano non a un singolo individuo, ma alla collettività tutta, coinvolta nell’evento teatrale.

COME UN RITO Va dato atto ai Greci di avere inventato uno «spazio» eccezionalmente funzionale nel quale la gente potesse «vedere» lo spettacolo: la parola theatron deriva dal verbo greco theaomai, che significa appunto «vedere-osservare». All’evento religioso-spettacolare, che aveva luogo nel contesto delle celebrazioni in onore di Dioniso, i Greci attribuirono anche una valenza estetico-artistica, soprattutto ad Atene: andare a teatro in Grecia, come poi a Roma, anche se in modo diverso, fu una vera e propria partecipazione a un rito, che condizionava anche la scelta del soggetto da rappresentare, in genere mitologico. Gli spettacoli assunsero inoltre una valenza politica e una funzione educativa e agonistica: nella democrazia ateniese «la rappresentazione teatrale – organizzata come una competizione tra i vari autori – costituiva un’occasione esemplare di esperienza di vita collettiva»

Un’altra veduta del teatro di Erode Attico ad Atene, che mostra l’ingresso dell’edificio. Seconda metà del Il sec. d.C. Nella pagina accanto: rilievo raffigurante un corteo sacrificale in onore di Dioniso e Artemide organizzato come ringraziamento per la vittoria riportata in una gara teatrale. 360 a.C. circa. Monaco di Baviera, Glyptothek.

(Del Corno), rispecchiata nello stesso dramma, dove l’eroe e il coro – che agivano – impersonavano rispettivamente l’individuo e la comunità. La rappresentazione era, in Grecia, al tempo stesso rito, assemblea e gara. I Romani, lontani dai valori originari rituali del teatro greco, perpetuarono tuttavia il legame tra teatro e feste religiose, a cominciare dall’adozione dei fescennini e soprattutto delle saturae di origine etrusca e italica, giunte a Roma fin dal 364 a.C. in occasione di una pestilenza, quando il senato romano fece venire a Roma dei ludiones – danzatori, musici, mimi – e i ludi romani o magni, istituiti da Tarquinio Prisco, divennero annuali.

IN ONORE DEL TIRANNO Nel 240 a.C. per onorare la presenza di Gerone II di Siracusa in visita a Roma, il senato romano decise di far allestire spettacoli come quelli che venivano rappresentati nelle città greche; fu chiamato allora Livio Andronico, un greco di Taranto venuto a Roma come prigioniero di guerra, che tradusse in latino le tragedie e le commedie di soggetto greco, dette per questo rispettivamente cothurnatae (dal nome dell’alto calzare greco) e palliatae (dalla corta tunica greca, il pallium), arricchendole tuttavia con musiche, danze e cantica, privilegiando l’azione mimica e danzata. Successivamente altre forme di spettacolo di a r c h e o 85


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maggiore o minore importanza – atellane, mimi e pantomimi – ebbero successo e forma letteraria presso i Romani, per cui mutuando dal mondo greco sia la struttura architettonica dell’edificio che doveva contenerli che l’idea e la terminologia, diedero luogo anche in campo teatrale a una forma di cultura di tipo sincretistico.

ADATTARSI ALLA NATURA DEI LUOGHI In origine, all’epoca dei grandi tragici e commediografi (da Tespi, a Eschilo, Sofocle, Euripide per la tragedia, da Cratete ad Aristofane per la commedia antica) – cioè nel VI e V secolo – si usavano per le rappresentazioni strutture lignee o di fortuna e solo in poche città sorsero costruzioni teatrali formate da ALLA MANIERA GRECA A. Cavea (koilon) 1. analemmata, i muri di sostegno; 2. kerkides, le divisioni laterali delle gradinate; 3. diazomata, le divisioni tra i settori; 4. klimakes, scale. B. Scena 5. skené, la parte di fondo della scena; 6. proskenion, la parte anteriore della scena; 7. pinakes, le tavole dipinte con gli sfondi della scena; 8. thyromata, porte della scena. C. Orchestra 9. parodoi, gli accessi all’orchestra; 10. proedria, i sedili dei sacerdoti e dei maggiorenti; 11. thymele, altare di Dioniso. 86 a r c h e o

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un certo numero di gradini – dieci o quindici – per lo piú rettilinei e comunque adattati alla conformazione del terreno, che non disponevano però di un’orchestra circolare, né di un edificio scenico. Di tali theatra ne sono noti meno di una decina, tutti in Grecia, oltre a uno probabile a Catania e a quello di Siracusa, datato al V secolo a.C., opera di cui si conosce eccezionalmente il nome dell’architetto, Demokopos. A questa struttura, che attesterebbe un precoce svolgimento delle rappresentazioni teatrali in area siceliota, fornisce un significativo riscontro la notizia, tramandata dalle fonti, che Eschilo avrebbe soggiornato tra il 472 e il 468 a.C. presso Gerone, ove compose e fece rappresentare le Etnee per celebrare Etna (Catania), la città fondata dal tiranno appunto nel 476.

Il teatro di tipo «greco» si definisce strutturalmente solo in età ellenistica, e precisamente nella seconda metà del IV secolo a.C.: si tratta di un edificio composto da tre parti separate: la cavea, l’orchestra e la scena. La cavea di forma variabile, per lo piú a segmento circolare che oltrepassa il semicerchio, è addossata a un pendio naturale ed è completata ai lati da ali costruite artificialmente e contenute da muri di sostegno, gli analemmata. Le gradinate, spesso ricavate parzialmente nella roccia, erano suddivise quasi sempre in due o piú zone semicircolari separate da ampi passaggi, le precinzioni; erano poi scandite radialmente in cunei mediante scalette. L’accesso al teatro sia per gli spettatori che per il coro e, talvolta, anche per gli attori avveniva dalle parodoi, passaggi scoperti situati tra la

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Sulle due pagine: immagini del teatro di Dioniso ad Atene. IV sec. a.C. Qui sopra, le gradinate della cavea; in alto, a sinistra: un particolare della decorazione superstite della scena. A destra: disegno ricostruttivo di un teatro greco. a r c h e o 87


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cavea e la scena, che immettevano direttamente nell’orchestra; da quest’ultima era possibile, tramite le scalette radiali, raggiungere i posti a sedere, muovendosi liberamente lungo le precinzioni. L’orchestra, di forma talvolta circolare, piú spesso a ferro di cavallo, era destinata alle evoluzioni del coro e agli attori quando recitavano le opere classiche. Al limitare dell’orchestra si trovavano i troni (proedria), destinati al sacerdote di Dioniso e ai personaggi ufficiali: al centro qualche volta si trovava l’altare di Dioniso.

Nella pagina accanto, in alto: particolare degli affreschi del cubicolo della villa di Publio Fannio Sinistore, a Boscoreale, ricostruito nel Metropolitan Museum of Art di New York.

L’edificio scenico presenta una ricca tipologia, anche se due sono quelle di gran lunga piú diffuse. La scena piú semplice e piú antica, quella «a parasceni», è composta da un palcoscenico allungato, sopraelevato di poco rispetto all’orchestra, definito sui lati dai due ambienti – i parasceni – comunicanti con il palcoscenico stesso, che venivano utilizzati dagli attori. Sul fondo si trovava la scena vera e propria con le stanze di servizio e i depositi per le attrezzature teatrali e i costumi. Piú complesso è il tipo di scena «a proscenio

SCENOGRAFIE E MACCHINARI Le rappresentazioni teatrali si svolgevano di giorno. Si hanno notizie, rarissime, di spettacoli notturni in Spagna, illuminati da torce entro vasi. Il sipario, sconosciuto ai Greci, si «abbassava» scomparendo nella fossa sul bordo del palcoscenico del teatro romano e iniziava lo spettacolo! Il sipario sembra sia stato introdotto nel 13 a.C. utilizzando ricchi tappeti provenienti dal regno di Pergamo sui quali erano rappresentati personaggi a grandezza naturale. Quando il sipario veniva srotolato da terra verso l’alto si aveva l’impressione che queste persone lo sollevassero con le braccia. La situazione era molto diversa dall’attuale modo di andare a teatro. La luce del sole, infatti, illuminava tutto l’edificio all’aperto, tutto era completamente visibile e la scenografia non poteva puntare su effetti illusionistici. Tuttavia, come è raccontato in Apuleio, è ampiamente documentato l’uso di scenografie, che talvolta coprivano parzialmente il muro di fondo della scena (di per sé ricco di colonne e statue), o si inserivano in vario modo all’interno di essa. Erano infatti usati pinakes, quadri fissi, e periaktoi, prismi dipinti sulle varie facce che ruotavano su un perno centrale per cambiare il quadro. Inoltre la scena doveva avere, come nei teatri moderni, un pavimento in tavole di legno. Nei teatri greci con edificio scenico a proscenio rialzato i pinakes si disponevano anche inferiormente tra le colonne o i pilastri che sostenevano il palcoscenico. Da Vitruvio e da Polluce (Il secolo d.C.), sappiamo che in epoca romana venivano usati macchinari per effettuare rapidamente cambi di scenari: il piú antico – scaena ductilis – era costituito da pannelli scorrevoli su guide, mentre la scaena versilis, usata successivamente, era formata da pannelli mobili dipinti su ambedue le facce, che giravano su se stessi, cambiando cosí lo scenario. Gli scenari variavano a seconda del genere di rappresentazione: porticati con vedute di templi per la

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tragedia, vedute di città con case per la commedia, grotte con giardini, pergole e fontane per il dramma satiresco. Le pitture di un ambiente della villa di Boscoreale, databili alla metà del I secolo a.C. e attualmente ricostruite al Metropolitan Museum di New York, propongono i tre tipi di scenografie (presenti anche nelle meno note pitture della villa di Oplontis, ove compaiono delle maschere teatrali, a conferma dell’ispirazione teatrale nelle scene dipinte sulle pareti delle ville, testimoniate soprattutto a Pompei). Gli attori entravano sul palcoscenico dalle tre porte: quella centrale, la regia, era riservata ai personaggi piú importanti, quelle laterali, le hospitales, erano utilizzate dagli altri. Il palcoscenico, molto diverso da quelli profondi cui siamo abituati oggi, era una striscia piuttosto lunga e stretta; gli attori avevano quindi qualche limitazione nei movimenti durante la recitazione, soprattutto non potevano essere molto numerosi. Per spettacoli di ampio respiro, dunque erano probabilmente necessari adattamenti che garantissero un ampliamento dello spazio e l’utilizzazione dell’orchestra. Il palcoscenico era anche attrezzato con macchine teatrali. Utilizzate soprattutto nelle tragedie e nelle parodie tragiche, le piú note sono: l’ekkiklema, una piattaforma ruotante provvista di una struttura al centro (trono, tenda, casa), nella quale venivano rappresentati i fatti che non si riteneva opportuno mostrare al pubblico, al quale però si faceva vedere l’esito dell’azione svolta (per esempio un cadavere dopo un assassinio) facendo ruotare la piattaforma; la mechanè, un gancio legato a una carrucola posto in alto alla scena per mezzo del quale apparivano gli esseri volanti e gli dèi (il deus ex machina di Euripide), che poi «atterravano» sul theologheion, un’alta piattaforma di legno dalla quale le divinità pronunciavano i loro discorsi, e infine le scale (o fossa) «di Caronte», una botola aperta nell’orchestra collegata a un passaggio che conduceva all’esterno


rialzato», che comprende il logheion o palcoscenico, notevolmente alto e poggiante su pilastri tra i quali venivano sistemate scenografie dipinte, i pinakes. Sopra, alle spalle del proscenio, vi era la scena, la cui facciata poteva essere di diversi tipi: rettilinea, a pilastri tra i quali si aprivano degli spazi detti thyromata, a parete con decorazione architettonica talvolta articolata in nicchie nelle quali si aprivano le porte. Il piú antico esempio di teatro greco fu il teatro di Dioniso ad Atene, databile al 338-

della scena, mediante il quale era possibile simulare delle apparizioni dall’Oltretomba, come nel teatro di Segesta. Come segno di gradimento dello spettacolo il pubblico usava battere i piedi sui gradini e le mani una contro l’altra con le palme concave o distese: sono i tradizionali applausi, che avevano quindi anche varie gradazioni di sonorità, cosí come i fischi esprimevano anche in antico la riprovazione del pubblico verso gli attori! Sembra infine che l’applauso concordato, quello che noi oggi chiamiamo claque, sia stata un’invenzione dell’imperatore-attore Nerone.

Macchine di scena Gli dèi entravano in scena grazie a una gru

Dèi L’azione poteva prevedere l’intervento di una divinità (deus ex machina)

PERSONAGGI E INTERPRETI Coro Nel tempo, l’importanza del suo ruolo venne meno

Pinakes Tavole dipinte ispirate all’opera rappresentata inserite nella scena

Tutti in maschera Gli attori indossavano maschere che rappresentavano i diversi caratteri. Ciò rendeva piú credibili i personaggi femminili (comunque interpretati da maschi) e allo stesso tempo permetteva al pubblico di seguire piú facilmente l’azione

Orchestra Qui il coro cantava e si esibiva nelle coreografie

I protagonisti All’inizio andava in scena un solo attore; poi si aggiunsero vari comprimari

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IL GIOCO DEI VOLTI In greco antico il termine che indica la «maschera» è «prosopon», parola che significa anche «volto». Chi indossava una maschera diveniva «altro da sé», identificandosi con il suo nuovo «volto». Secondo la tradizione, fu Eschilo nel V secolo a introdurre in teatro l’uso della maschera. Delle piú antiche maschere teatrali, in tessuto o in cuoio, non restano testimoni. L’esemplare esposto in questa sala, ricomposto da diversi frammenti in terracotta, è una delle piú antiche maschere esistenti, o un suo prototipo. Risale agli inizi del V secolo a.C. e proviene da Megara Hyblaea, oggi Augusta, in Sicilia, dove il commediografo Epicarmo soggiornò in quegli stessi anni. Le maschere avevano anche una forte valenza religiosa: un gran numero di sepolture hanno restituito piccole maschere di Dioniso e di componenti del suo seguito o ancora di personaggi tragici o comici. Il caso piú noto è quello delle maschere trovate a Lipari in tombe e in contesti legati al culto. Qui Dioniso si manifesta non solo come dio del teatro e del vino, ma anche come dio che, smembrato e rinato, indicava la possibilità del superamento della morte.

Riproduzione ad acquerello della decorazione di un vaso dipinto raffigurante un attore che tiene in mano una maschera. L’originale si data al IV sec. a.C.

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336 a.C. circa. Questa tipologia si diffuse in tutta la Grecia, nelle isole dell’Egeo e nell’Oriente «grecizzato», area quest’ultima in cui la civiltà greca, penetrata e stabilizzata con l’opera colonizzatrice delle poleis, si era rafforzata dopo l’impresa di Alessandro Magno e la creazione dei regni ellenistici dei diadochi. Teatri greci sono stati trovati sul Mar Nero, a Chersoneso Taurica e a Olbia, antica colonia di Mileto. Numerosissimi sono i teatri dell’Asia Minore, preferibilmente collocati nelle grandi città della zona costiera, molti ancora ben conservati soprattutto nelle gradinate, che ancora oggi sono di grande suggestione, come Pergamo, Arycanda, Priene, Efeso, Afrodisia, Hierapolis, Cnido. Teatri sono presenti in Mesopotamia, a Babilonia e a Seleucia sul Tigri, fino alla lontana Bactriana (l’attuale Afghanistan) ad Ai Khanoum e a Biblo nell’antica Fenicia; inoltre, nel regno dei Tolomei (Egitto e Libia) ad Alessandria, a Tolemaide, a Cirene, colonia di Thera e nel suo porto, Apollonia. In tutta l’area sud-orientale del bacino del Mediterraneo, abitata da popoli che avevano elaborato da secoli culture autonome molto evolute (assiro-babilonese, fenicia, giudaica ed egizia), nelle quali aveva poco spazio l’attività drammatica, i teatri di tipo greco sono pochissimi e solo in due casi – Babilonia e Biblo – furono eretti nelle antiche città. In Sicilia e nella Magna Grecia i teatri di costruzione piú antica del IV e III secolo a.C. sono di tipo greco: in Sicilia le strutture teatrali sono particolarmente ricche e ben conservate, come a Siracusa, Segesta,Tindari, Palazzolo Acreide, Eraclea Minoa.

VARIAZIONI SUL TEMA Tra la seconda metà del II e la prima metà del I secolo a.C. nell’Italia centro-meridionale compare e si diffonde una struttura teatrale ispirata a quella greca, ma un po’ diversa: in essa sono presenti numerose novità, espressione evidente di sperimentazioni di vario genere che investono parti differenti dell’edificio, spesso non contemporaneamente nella stessa struttura. A questi teatri è stato dato il nome di «greco-romani», «ispirati all’architettura greca» o «italici». Le esperienze acquisite in tali edifici confluiranno poi nella elaborazione del teatro di tipo romano. I teatri «grecoromani» attestati da resti archeologici anche se spesso vistosamente modificati da interventi successivi, sono poco piú di una dozzi-


TUTTO IN UN GIORNO Nell’Atene di epoca classica il tipo di rappresentazione teatrale piú comune era la tragedia di soggetto rigorosamente mitologico e, solo raramente, storico. Dal punto di vista strutturale era composta da parti cantate dal coro e parti recitate dagli attori. Le tragedie formavano un complesso unitario con il dramma satiresco. Secondo uno schema prestabilito, oggi diremmo «secondo il cartellone», venivano rappresentate nello stesso giorno tre tragedie e un dramma satiresco. Tutte e quattro le composizioni formavano una tetralogia ed erano dello stesso autore. I piú noti poeti tragici di cui sono rimaste alcune opere sono Eschilo, Sofocle ed Euripide. Il dramma satiresco, che era spesso una parodia di argomento lieve e veniva assimilato, come stile, alla commedia, strutturalmente era tuttavia affine alla tragedia: tra i personaggi figurava, quasi sempre, Dioniso con il suo corteggio di satiri capeggiati da Sileno, che costituivano il coro. (segue a p. 92) A sinistra: statua di Sofocle, da Terracina. Copia romana in marmo di un originale bronzeo greco del IV sec. a.C. I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano. Qui accanto: busto di Euripide. Copia romana da un originale greco del IV sec. a.C. Età augustea. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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La commedia, formatasi dopo la tragedia, fu almeno parzialmente plasmata su di essa, includendo parti cantate e parti recitate. Il soggetto era per lo piú la satira di argomento storico-politico e sociale. Il nucleo fondamentale della commedia, definita successivamente antica, è la parabasi, cioè il canto di entrata del coro, che infrangeva la finzione scenica e si rivolgeva direttamente al pubblico, affrontando problemi di attualità politica e di vita cittadina o schernendo personalità in vista o denunciandone i comportamenti non proprio leciti. Il commediografo piú noto è Aristofane, del quale ci rimangono diverse opere. La commedia mutò nei secoli, adeguandosi alle trasformazioni politiche, economiche e sociali di Atene e già gli antichi la divisero in antica, di mezzo e nuova; nella nuova, in cui trionfò nella seconda metà del IV secolo a.C. il sottile e argutissimo spirito di Menandro, gli argomenti trattati sono quelli della vita comune, centrati sull’uomo borghese. Qui accanto: erma di Eschilo. Copia romana da un originale greco del IV sec. a.C. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra: affresco raffigurante una scena dell’Ifigenia in Tauride, dalla Casa di Lucio Cecilio Giocondo a Pompei. I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Il teatro greco di Siracusa. Realizzato nel V sec. a.C. dall’architetto Demokopos, l’impianto è quasi interamente scavato nella roccia. La forma attuale risalirebbe all’intervento di ristrutturazione condotto negli anni 238-215 a.C., sotto il regno di Gerone II.

na: il teatro e l’odeum di Pompei (nelle loro fasi piú antiche) i teatri di Gioiosa Ionica, Nocera, Alba Fucens, Pietrabbondante, Teano, Sarno, Castelsecco, ecc. Il teatro greco-romano ha la cavea su pendio, talvolta non naturale, ma formato da un terrapieno almeno parzialmente artificiale, un aggestus, contenuto e regolarizzato da uno o piú muri curvilinei, raramente da un sistema di fornici; gli analemmata (i muri di sostegno) sono spesso rinforzati da pilastri per sostenere la spinta notevole del terrapieno, come nella prima fase del teatro di Pompei. La cavea – per permettere una buona visibilità – è a forma di ferro di cavallo poco accentuato come nel teatro di Pietrabbondante, o semicircolare come in quello di Gioiosa Ionica. Le gradinate, per lo piú non conservate, erano probabilmente lignee a eccezione della proedria, dotata talvolta di seggi con gli schienali, i cui terminali erano in taluni casi a elementi zoomorfi, cosí come le testate dei gradini erano decorate da telamoni, come a Pietrabbondante, nell’odeum di Pompei e a Sarno. Le parodoi (i passaggi d’accesso al teatro) nella maggior parte dei casi risultano ancora scoperte, ma a Pompei, in età sillana, vengono coperte con una struttura muraria, che collegherà stabilmente la cavea con l’edificio scenico. Quest’ultimo è basso, largo e sempre del tipo a parasceni, dotato talvolta di due ambienti ai lati, che nel teatro romano saranno le aule (per esempio a Pietrabbondante). È evidente che il teatro di tipo greco-romano

dipende architettonicamente per alcuni elementi dai teatri greci della Sicilia e della Magna Grecia; la cavea con terrapieno artificiale e muratura esterna decorata con elementi architettonici si trova già nel teatro greco di Metaponto, datato alla metà del IV secolo a.C., mentre l’edificio scenico del tipo a parasceni è presente nei teatri di Monte Iato, Segesta, Tindari. A questo punto sono ormai delineati gli elementi strutturali, grazie ai quali il teatro diverrà un unico organismo architettonico: i muri di sostegno (gli analemmata) paralleli all’edificio scenico allungato divengono con la copertura definitiva in opera cementizia dei veri e propri corridoi, mentre è necessario

Il teatro di Pergamo (nell’odierna Turchia). Costruito tra il III e il II sec. a.C., l’impianto aveva 80 file di posti, che potevano accogliere 10 000 spettatori.

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provvedere ad altri spazi e modi per raggiungere le gradinate fino a questo momento accessibili dírettamente dall’orchestra per mezzo delle scale radiali; vengono cosí create rampe e scale sui lati della cavea ed eventualmente nelle sostruzioni.

UN ORGANISMO PERFETTO A Roma il teatro stabile compare con notevole ritardo, data l’ostilità della classe aristocratica alle rappresentazioni teatrali: tuttavia le fonti classiche, Livio in particolare, ricordano – oltre a varie strutture effimere «un teatro e un proscenio» eretti nel 179 a.C. presso il tempio di Apollo, sulla cui reale consistenza non siamo ancora in grado di esprimerci, e un teatro lapideo eretto nel 154 a.C. in rapporto con il tempio della Magna Mater sul Palatino, ma demolito poco dopo per decisione dei senatori convinti a ciò da Scipione Nasica. Con il teatro di Pompeo, eretto nel 55 a.C. in

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Assonometria ricostruttiva e veduta (in basso) del complesso costituito dal teatro e dal tempio di Pietrabbondante. II sec. a.C. Il monumento si ispira probabilmente a modelli architettonici elaborati in area campana.


In alto: il teatro romano di Lione (l’antica Lugdunum). Si tratta del piú antico impianto del genere della Gallia romana, nonché di uno dei piú vasti, con i suoi 108 m di diametro.

una zona di sua proprietà al di fuori del pomerio grazie a una mediazione politico-religiosa e architettonica, ha origine per cosí dire ufficialmente il teatro di tipo romano: un edificio totalmente in muratura in cui è stata raggiunta una fusione perfetta dei tre elementi costitutivi della struttura teatrale integrati in un unico organismo, che per la sua peculiarità può vivere del tutto svincolato da situazioni orografiche e può occupare nella pianificazione urbanistica della città il posto piú idoneo con l’orientamento piú logico. Il teatro romano, infatti, non ha necessità di un pendio cui appoggiare la cavea, anche se lo utilizza quando se ne presenta l’opportunità, ma distende le sue gradinate – divise in piú zone, dette maeniana – su un complesso sistema di sostruzioni semicircolari e radiali. All’esterno il teatro presenta una facciata ad arcuazioni a due o tre ordini, da cui il pubblico entrava, e che definiscono all’interno ambulacri semicircolari a varie altezze. Questi ambulacri sono coordinati tra di loro da corridoi radiali, parzialmente occupati da scale, indispensabili per raggiungere i piani piú alti; in tal modo risulta garantita nell’edificio una rapida circolazione degli spettatori. La cavea è spesso coronata da una galleria coperta, la porticus in summa cavea.

Lo spazio dell’orchestra, anziché circolare come in quello greco, è ridotto all’emiciclo verso la cavea; l’edificio scenico ha il palcoscenico – detto pulpitum – non molto alto rispetto al piano dell’orchestra (circa 1-1,5 m) con la fronte articolata in nicchie e decorata con rilievi. Sotto il pulpito vi era uno spazio con la fossa per il sipario, l’aulaeum, che si arrotolava in basso scorrendo per lo piú su pali verticali infissi in blocchi di pietra.

RICCHI APPARATI DECORATIVI La facciata della scena (scaenae frons), una struttura architettonica a due o piú piani coperta da una tettoia che facilitava la risonanza, è abitualmente coordinata come altezza alla cavea. È riccamente decorata con ordini architettonici sovrapposti: poteva essere rettilinea oppure articolata in nicchie, generalmente tre semicircolari o una centrale semicircolare e due rettangolari ai lati. Nelle nicchie si aprivano le tre porte dalle quali entravano gli attori, la centrale detta valva (o porta) regia e le due laterali, le valvae (portae) hospitales. Ai lati della scena vi erano piú ambienti, i cosiddetti parasceni usati dagli attori e comunicanti con il palcoscenico e/o le aule con funzioni di foyer; alle spalle dell’edificio scenico si trovava spesso la porticus post scaenam, uno spazio a r c h e o 95


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porticato per accogliere gli spettatori in caso di pioggia o durante gli intervalli. Non piú struttura geometrica aperta come quello greco, il teatro romano risulta essere un edificio chiuso, con grandi vantaggi sia per l’estetica che per l’acustica, dotato di un vero spazio interno, cui manca solo una copertura stabile per essere uguale al nostro teatro moderno: poteva infatti essere coperto, ma solo provvisoriamente, con grandi teloni di seta o di lino, i cosiddetti velaria. A Roma il teatro dedicato da Augusto al nipote Marcello (e di cui ancora oggi si possono ammirare i magnifici resti) è il primo

Il Teatro Grande di Pompei, realizzato sfruttando il declivio naturale della collina per la cavea. Fu costruito intorno alla metà del II sec. a.C. e profondamente restaurato secondo il gusto romano.

edificio elaborato in maniera compiuta nel 13 a.C., ma come hanno mostrato gli scavi nell’aula orientale, già nel 17 a.C. vi vennero celebrati i ludi saeculares. L’edificio probabilmente serví da modello per la maggior parte delle strutture teatrali che nel giro di qualche decennio si diffusero nella Penisola, grazie anche alla fondazione di nuove città o alla ristrutturazione di impianti urbanistici piú antichi da parte di Augusto. Nel I secolo d.C. il teatro romano si diffonde in tutto l’Occidente romanizzato e, con un certo ritardo, in Africa e nel mondo orientale. In Asia Minore si elabora un tipo particolare di teatro,

UN’INNOVAZIONE DECISIVA Fondamentale appare nella trasformazione del teatro dal tipo greco a quello romano l’adozione dell’opus caementicium (Vitruvio, De Arch., Il, 4- 6), le cui piú antiche sperimentazioni sembrano aver avuto luogo in area campana (non a caso il termine moderno di pozzolana per definire uno dei leganti fondamentali del cementizio deriva da Pozzuoli). Questo amalgama di calce (cioè pietra calcarea cotta in fornace a temperature molto elevate) e pozzolana (l’harena fossitia o pulvis di Vitruvio) ha infatti conferito la solidità necessaria alle strutture

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indipendentemente dal paramento esterno, sia esso in opera poligonale, quadrata, incerta o quasi-reticolata. La costruzione di edifici cosí complessi come i teatri e gli anfiteatri – su sostruzioni e a piú piani, per citare solo dei grandi edifici di spettacolo – non sarebbe stata possibile ai Romani senza la «scoperta» o l’invenzione dell’opera cementizia, cioè di un legante degli elementi strutturali a pronta presa che permise agli architetti romani di erigere edifici di notevole altezza e mole, la cui resistenza ha sfidato i millenni.


definito «romano-microasiatico», che mantiene la pianta del teatro greco, cui giustappone la scena del teatro romano, anche se vi sono edifici costruiti secondo regole prettamente romane, come per esempio il teatro di Aspendos. In quest’area circa un terzo sono teatri romani, mentre scarsi sono in Grecia, ove si registrano alcuni esempi nell’isola di Creta.

SIMBOLI DELLA ROMANIZZAZIONE Notevole appare la presenza di teatri romani nelle zone di piú antica civiltà, quali la Palestina, la Siria, la Fenicia, l’Egitto, regioni che

Qui sotto, a destra: piccolo gruppo in terracotta raffigurante due attori della commedia di mezzo, forse da Tanagra (Grecia). Prima metà del IV sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen.

LE COMPAGNIE Come funzionava l’organizzazione di uno spettacolo? L’autore del testo proponeva la sua opera a un impresario (dominus gregis) che gestiva una compagnia teatrale (grex). Questo manager acquistava il copione e ne disponeva liberamente, svincolato dalla volontà dell’autore, che guadagnava dalla vendita del copione, ma non dalle eventuali repliche. L’impresario poteva quindi proporlo ai magistrati, edili o pretori, che avrebbero finanziato la messa in scena. A sua volta l’impresario poteva essere un attore di punta della compagnia, come nel caso di Publio Pellione e Ambivio Turpione, due manager/attori che portarono in scena e recitarono i testi di Plauto e Terenzio. In basso: riproduzione ad acquerello di una pittura vascolare raffigurante il palcoscenico di un teatro, con attori in azione.

erano rimaste parzialmente estranee al fenomeno «teatro» nel periodo greco. I Romani infatti utilizzarono il teatro come veicolo di «romanizzazione», grazie anche al suo valore simbolico di luogo delle libertà democratiche e politiche. Per questa ragione i Romani non solo ne costruirono di nuovi, ma li restaurarono – laddove già esistevano – soprattutto nell’edificio scenico, che quasi ovunque venne trasformato secondo la tipologia romana con la scaenae frons ricca di marmi colorati, rilievi e statue. A cominciare dal I secolo d.C. in tutta l’area gallica (attuali Francia, Gran Bretagna, Sviz-


SPECIALE • TEATRO Particolare delle pitture murali della Tomba delle Bighe raffigurante una suonatrice di doppio flauto, un danzatore e una danzatrice. Arte etrusca, primi decenni del V sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso: incisione riferita al primo atto dell’Anfitrione di Plauto. 1518. Barcellona, Biblioteca de Catalunya.

zera, Lussemburgo e Germania) si definisce una tipologia teatrale diversa, detta «galloromana»: l’edificio viene strutturato per essere utilizzato sia per le rappresentazioni teatrali, sia per i giochi tipici dell’anfiteatro, quali combattimenti di gladiatori e di animali. Le gradinate, per lo piú lignee, sono ancorate a un terrapieno contenuto da pochi muri semicircolari e radiali, mentre è presente un modesto edificio scenico con un palcoscenico di ridotte dimensioni. Si inventano inoltre soluzioni strutturali di vario genere, dando origine a piú tipologie di edifici misti, in cui vengono associati cavea teatrale, arena, e talvolta una scena, che poteva anche non essere fissa e montata a seconda delle necessità (teatri-anfiteatri, semianfiteatri a scena). Un aspetto peculiare di tutta l’area gallica, soprattutto della Francia centro-settentrionale, sono i teatri rurali collocati presso i conciliabula, i centri religiosi frequentati da tutto il circondario che avevano il loro fulcro in un santuario e a cui erano associati quasi sempre alcuni elementi 98 a r c h e o

MAESTRO DI COMICITÀ Sappiamo molto poco di Tito Maccio Plauto: da Cicerone apprendiamo la data di morte, il 182 a.C.; il nome Maccius si ritiene alluda al Macco, la maschera della commedia Atellana che forse indossò come attore; dai suoi testi si ricava che nacque a Sarsina, città un tempo in territorio umbro e oggi in Romagna. Certo è invece il suo grande e immediato successo «trasversale», sia presso il popolo che presso i letterati. Il genio di Plauto si esprimeva non tanto nelle trame, riprese dai greci della Commedia Nuova, ma nella brillantezza della vena comica, affidata

soprattutto al personaggio del servus, lo schiavo intelligente che dal basso della sua posizione sociale ma dall’alto della sua ingegnosità portava al lieto fine gli intrecci piú complicati. Dopo la sua morte il nome di Plauto venne usato per dare prestigio a commedie altrui: gli vennero attribuiti circa 130 titoli, tra i quali Varrone selezionò le 21 commedie che ancor oggi gli riconosciamo, tra le quali possiamo ricordare il Miles gloriosus, l’Aulularia o l’Anfitrione. Con Terenzio, è il solo commediografo latino rappresentato sulla scena fino ai nostri giorni.


DAL PHERSU ALLA PERSONA Secondo Tito Livio, nel 364 a.C. i Romani vennero colpiti da una pestilenza che non riuscivano a vincere in alcun modo. Chiamarono allora in città i ludiones etruschi, danzatori che si esibivano accompagnati dalla musica. Lo storico non dice se il rimedio fu efficace, ma afferma che da questa esperienza la gioventú romana avrebbe tratto ispirazione per dare avvio a una propria tradizione teatrale, unendo versi cantati alla musica e alla danza etrusche. E per il fatto che in Etruria l’attore era chiamato ister, i loro imitatori romani furono detti «istrioni». Fonti letterarie e soprattutto evidenze archeologiche parlano di una forte tradizione drammatica in Etruria, che confluí con quella greca alle origini del teatro latino. Fin dal V secolo a.C., infatti, in Etruria è attestato lo svolgimento di veri e propri «ludi» in occasione di celebrazioni a carattere funerario: spettacoli che vedevano la presenza di danzatori, anche armati, acrobati, giocolieri, musici, e momenti caratterizzati dall’uso di maschere e travestimenti rituali. Probabilmente a questo scopo servivano le gradinate di alcuni monumenti funerari di epoca arcaica a Tarquinia, ma potevano essere anche palchi e gradinate lignee ad accogliere il pubblico, come rappresentato sul fregio della Tomba delle Bighe (490-480 a.C.). Sempre in affreschi tarquiniesi, è presente un personaggio mascherato denominato «Phersu», da cui, attraverso l’evoluzione «phersuna», deriverebbe il termine latino «persona», utilizzato proprio per indicare la «maschera».

fissi: un foro, un teatro appunto, un edificio termale, per lo piú legato a una sorgente. La Narbonense, l’attuale Provenza, e le città maggiori della Gallia come Augustodunum (Autun), Lugdunum (Lione), Vienna (Vienne), Lutetia Parisorum (Parigi), Aventicum (Avenches), possedevano tutte strutture per spettacoli di tipo romano, anche se talora si registra la compresenza di edifici di tipo romano e gallo-romano: Augustodunum, città di una certa dimensione che tuttavia non ricopriva il ruolo di capitale, ha due teatri molto grandi, con diametro della cavea di quasi di 150 m, uno urbano di tipo romano, uno suburbano di tipo gallo-romano; Parigi ha un teatro, quello detto «di via Racine» di tipo romano, un altro noto come «les arenes de Lutece» è invece un semianfiteatro a scena.

RECITE CON MUSICA Un discorso a parte va fatto per gli odea: l’odeum (del greco oidé, «canto»), il piccolo teatro coperto, creato in Grecia per le audizioni musicali che accompagnavano la recia r c h e o 99


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LO STRATAGEMMA DI POMPEO A Roma non fu possibile costruire teatri stabili fino alla metà del I secolo a.C., cioè fino a quel 55 a.C. in cui si inaugurò il teatro di Pompeo, il 29 settembre, giorno anniversario del suo munifico costruttore. Gli autori antichi sottolineano lo stratagemma a cui ricorse Pompeo, che spacciò la cavea per la scalinata d’accesso al tempio di Venere Vincitrice. In realtà, la costruzione era stata resa possibile sia dal notevole potere acquisito da Pompeo con le sue guerre vittoriose in Oriente, sia perché l’area era probabilmente di sua proprietà e posta al di fuori del pomerio, l’originario confine urbico. Pompeo aveva potuto perciò progettare un insieme unico, in cui molteplici indicazioni architettoniche e urbanistiche di origine ellenistica, mediate da elementi italici, erano state elaborate a costituire un complesso unitario di grandiosità senza pari nella Roma del tempo. Tutto il complesso era costituito da due nuclei: a ovest il teatro con il tempio, a est i portici con le esedre, di cui la centrale era utilizzata come curia, mentre a una certa distanza, a nord-ovest, si trovava probabilmente la villa privata di Pompeo.

Il teatro aveva dimensioni straordinarie, con un diametro di 150 m circa, misura mai superata a Roma e uguagliata solo poche volte da qualche altro teatro del mondo romano. Oggi il teatro è invisibile, nascosto da interi isolati sorti nei secoli sulle strutture della cavea, la cui forma curvilinea è ripercorsa dalle facciate dell’odierna piazza di Grotta Pinta, che corrisponde alla cosiddetta «unghia della cavea». La linea della facciata esterna è invece intuibile dal profilo delle costruzioni di via del Biscione e piazza Pollarola. I fabbricati riproducono nella struttura architettonica la suddivisione regolare degli spazi radiali del sottocavea. Nella mostra in corso al Museo dell’Ara Pacis, questa «sopravvivenza» viene resa in modo spettacolare dal video realizzato da Katatexilux, che mostra la ricostruzione architettonica del teatro di Pompeo, ricollocato appunto nella sua posizione originaria nel tessuto urbano del Campo Marzio attuale. Quanto al palazzo Pio Righetti, all’estremità orientale di piazza Campo de’ Fiori, esso ingloba le sostruzioni del tempio di Venere, che

tazione delle odi, secondo l’etimologia del termine, viene ripreso dai Romani, ma rimane un fenomeno relativamente poco diffuso. A cominciare dal piú antico odeum a pianta quadrata dedicato da Pericle sulle pendici dell’acropoli di Atene, si elaborano costruzioni piú razionali con cavea semicircolare inserita in una struttura semicircolare anch’essa oppure quadrangolare, con la funzione di sostenere il tetto. In epoca imperiale si registra un’innovazione importante: viene creato il teatro coperto di grandi dimensioni, che mantiene il nome tradizionale di odeum. Tali erano l’odeum di Domiziano a Roma, quello di Cartagine e quello di Erode Attico ad Atene, i quali svol100 a r c h e o

sorgeva su un podio alto quanto il teatro stesso. Nulla è visibile della scena, che comunque ci è nota dalla Forma Urbis severiana, databile all’inizio del III secolo d.C., che mostra quindi una fase successiva della scena, non quella originaria: nella pianta la scaenae frons appare provvista di nicchia centrale rettangolare e laterali semicircolari. I portici, larghi e di pianta articolata, ospitavano al centro un ampio viale tra due boschetti di platani, fiancheggiato da fontanelle sormontate da statue (tra le quali un tritone e un personaggio dell’Odissea), come ci tramanda Marziale, e come lo scavo sotto l’odierno Teatro Argentina ha confermato. Innumerevoli erano le opere d’arte – quadri e sculture – connesse con il mondo di Venere e dello spettacolo, presenti nei portici. La zona terminale a oriente del teatro, quella che giunge a ridosso dei templi repubblicani dell’area sacra di largo Argentina, era articolata in esedre. Quella centrale, di dimensioni ben piú grandi ed enfatizzata probabilmente dall’apparato architettonico, accoglieva la statua di Pompeo che sorreggeva il globo con la mano Emblema in mosaico a tessere minute raffigurante la maschera teatrale di una giovane etera, dal complesso di Campetti a Veio. 10-50 d.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.


destra. Possiamo quindi individuare una corrispondenza architettonica tra il tempio di Venere in summa cavea, punto estremo e centrale del lato occidentale, e l’esedra-curia, punto estremo e centrale del fianco orientale, e dunque, in ultima analisi, tra le statue di Venere Vincitrice, che aveva guidato e protetto Pompeo, e il condottiero stesso, che cosí veniva investito di un valore sacrale. Il complesso «teatrale» dunque svolgeva nell’insieme una funzione di propaganda politica notevolissima e inconsueta per la Roma della fine della repubblica. Nella curia di Pompeo si riuní il senato in quelle fatidiche Idi di marzo del 44 a.C., quando fu ucciso Cesare: per uno strano gioco del destino, il dittatore crollò presso la statua del grande antagonista che egli aveva sconfitto. Augusto sfruttò un incendio per far murare la curia e annullare cosí il legame tra l’edificio e i personaggi di Pompeo e Cesare. Successivamente, gli ambienti limitrofi e forse la curia stessa furono trasformati in latrina. Ma il teatro di Pompeo rimase sempre il piú importante della città, continuò a sopravvivere e fu oggetto di regolari restauri. La pianta del Teatro di Pompeo nella Forma Urbis severiana. Inizi del III sec. d.C. Roma, Museo della Forma Urbis.

gevano le stesse funzioni dei teatri scoperti, come è testimoniato dagli Atti dei ludi saeculares di Settimio Severo, da cui risulta che il teatro di Pompeo e l’odeum di Domiziano ospitavano le stesse rappresentazioni. L’odeum è presente dove e quando si apprezzavano i concerti, quindi in Grecia – Atene è l’unica città nella quale sopravvivono i resti di tre odea – e nelle isole greche, in Asia Minore, in Sicilia e nell’Italia centro-meridionale. Mancano invece nelle province africane, a eccezione dell’odeum di dimensioni straordinarie di Cartagine, che forse però aveva funzione di teatro-coperto. Non ne esistono esempi nella penisola iberica e in tutta l’Europa settentrionale, a esclusione

di Lione e Vienne in Francia. Alcuni, sia tra i teatri che tra gli odea, risultano «privati»: sono per lo piú concentrati nell’Italia centro-meridionale e integrati in ville, come nel caso della villa di Vedio Pollione a Posillipo o della dimora di Agrippa Postumo, nipote di Augusto, nell’isola di Pianosa. I piú celebri sono il teatro della villa di Domiziano ad Albano e i due teatri – greco e romano – e l’odeum di Villa Adriana a Tivoli.

ARCHITETTURA E CONTESTO URBANISTICO Il teatro antico – greco o romano – è un edificio perfettamente inserito nell’ambiente urbano (talvolta suburbano), disposto a r c h e o 101


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abitualmente nel modo piú scenografico possibile, spesso nel centro stesso della città, vero perno della vita pubblica, religiosa e politica. Come abbiamo detto all’inizio, questa struttura dalle caratteristiche polifunzionali venne creata in Grecia, dove nasce la drammaturgia e, a partire dal IV secolo a.C., si diffuse nell’area continentale e insulare del suo paese d’origine e in seguito nella Sicilia e nella Magna Grecia e in modo ancora piú significativo in Asia Minore.

Con il propagarsi dell’impero romano l’uso di costruire teatri si diffuse in tutte le regioni occidentali allora conosciute con una distribuzione e una presenza, che seppur non omogenea, fu straordinariamente costante in tutto il mondo antico intorno al bacino del Mediterraneo. Tuttavia, per un paradosso storico, sia in Grecia che in Roma la nascita dell’edificio teatrale autonomo e stabile coincise con la fine della fase letterariamente piú creativa.

Disegno ricostruttivo del teatro galloromano di AliseSainte-Reine, l’antica Alesia, nella Gallia Lugdunense. Costruito in età augustea o durante il I sec. d.C., costituisce un esempio tipico degli edifici teatrali della Gallia.

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C. Orchestra

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B

3

C

A. Cavea 1. precinzione; 2. ingressi. B. Edificio scenico 3. palcoscenico; 4. postscaenium, o struttura di fondo della scena; 5. porticus post scaenam, cioè un portico dietro la scena.

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1

A

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Roma. Il teatro di Marcello, dedicato al nipote di Augusto nel 13 (o 11 a.C.) e sul quale, nel XVI sec., fu eretto il palazzo della famiglia Savelli, poi passato agli Orsini.

UN PIEDE E MEZZO A SPETTATORE Gli spettatori erano distribuiti nei diversi ordini secondo regole precise che, nel tempo, subirono una serie di variazioni. Risale al 194 a.C. la prima indicazione a Roma in tal senso: Livio racconta infatti che «Da cinquecentocinquantotto anni (cioè dalla fondazione di Roma, n.d.r.) i posti degli spettatori non erano stati distinti. Cos’era accaduto improvvisamente perché i patrizi non volessero piú trovarsi nell’anfiteatro (e probabilmente anche nei teatri, n.d.r.) accanto ai plebei? Per quale motivo il ricco disdegnava la vicinanza del povero? Era un capriccio nuovo e ingiurioso che i senatori di nessuna nazione avevano mai concepito». Nel 123 a.C., Gaio Gracco riservò le prime 14 file del teatro ai cavalieri; la disposizione fu abrogata da Silla e ripristinata dal tribuno della plebe Roscio (67 a.C.): quest’ultimo fu oggetto di fischi e di insulti in teatro per questo atto cosí impopolare; venne però difeso immediatamente da Cicerone, che riuscí a convincere gli spettatori, che da quel momento mutarono i fischi in applausi. Tutte queste disposizioni si riferiscono ai teatri provvisori. Con la costruzione di quelli stabili in muratura, a Roma si ratificarono le differenze: la proedria infatti era destinata agli scranni dei senatori, seguivano nell’ima cavea i cavalieri, mentre i cittadini trovavano posto nei meniani superiori. Alle matrone invece era riservata la porticus in summa cavea, dove erano sí protette dal

sole, ma sicuramente vedevano male. Un problema particolare derivava dal contatto tra uno spettatore e l’altro nella stessa fila e tra la schiena dello spettatore seduto inferiormente e i piedi di quello seduto nel gradino immediatamente superiore, come si può sperimentare andando ad assistere a uno spettacolo in un teatro antico. A questo proposito Ovidio, negli Amores, cosí descrive il contatto tra spettatori nel circo (ma la situazione doveva essere del tutto simile a teatro): «Perché cerchi invano di allontanarti? La linea che separa i posti ci costringe a stare uniti... Tu però, chiunque tu sia che siedi alla sua destra, abbi riguardo per lei: ella è infastidita dal contatto con il tuo fianco; anche tu, che occupi il posto alle sue spalle, ritrai le gambe, se hai un po’ di rispetto, e non fare pressione sulla sua schiena con le tue dure ginocchia». Non è semplice calcolare l’effettiva capacità ricettiva degli antichi teatri e solo per pochi edifici disponiamo di dati attendibili: in piú si notano gravi differenze tra i numeri proposti. L’ipotesi piú verosimile rimane quella che prevede un piede e mezzo, cioè 44 cm come spazio per una persona in larghezza e due piedi e mezzo, 75 cm circa, in ampiezza, come prescrive Vitruvio. Le fonti (Plinio il Vecchio) riportano per il teatro di Pompeo una capienza, certamente esagerata, di 40 000 spettatori e, per quello di Marcello, dai 15 ai 20 000.

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SPECIALE • TEATRO

PER TUTTI I GUSTI A Roma, vengono prodotte, a partire dal lII secolo a.C., ispirandosi a modelli greci, tragedie sia di soggetto mitologico che storico da autori come Livio Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio e Accio per l’età repubblicana e Seneca per quella imperiale. Maggior successo presso il pubblico romano riscossero le commedie, strutturate sul tipo della commedia nuova greca, genere in cui rifulgono i nomi di Plauto e di Terenzio, dei quali sopravvivono numerose opere. Vi sono però anche generi autonomi: le atellane, originarie della Campania e introdotte a Roma probabilmente alla fine del IV secolo a.C. circa e successivamente elaborate letterariamente, servivano da intermezzo o da farsa finale. La trama era caratterizzata e movimentata da intrighi, equivoci, incidenti; i personaggi erano maschere fisse, per cui spesso sono avvicinate a quelle della commedia dell’arte. In Dossenus – il gobbo furbo e malizioso – alcuni rintracciano lo spirito e le caratteristiche che saranno poi della maschera di Pulcinella. Nel I secolo a.C. prende piede il mimo con

UN AUTORE «SENTIMENTALE» Publio Terenzio Afro, schiavo liberato nato in Africa, era «di statura media, esile di corpo e bruno di pelle» (Svetonio, Vita Terentii). Sappiamo inoltre che era protetto dal circolo degli Scipioni e poco altro. La fanciulla di Andro, sua opera prima, si data al 166 a.C. Alla sua rappresentazione durante i Ludi Megalenses seguirono forti polemiche: come l’autore stesso dichiarava, la commedia era frutto di «contaminazione» tra due testi del greco Menandro, affermazione che suscitò scandalo e contestazioni. Ma un’altra sua commedia, l’Eunuchus, fu il successo maggiore dell’epoca repubblicana, al punto che l’autore ne ricavò la cifra record di 8000 sesterzi. Di Terenzio ci restano sei commedie, composte e rappresentate tra il 166 e il 160 a.C.: al centro pongono l’uomo e i suoi sentimenti, si basano sul dialogo piú che sull’azione e vogliono stimolare la riflessione, il confronto problematico. Per questo hanno guardato a Terenzio tanti e diversi autori della letteratura occidentale, uno su tutti Molière.

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Le strutture, secondo un sistema inaugurato nel I secolo dall’architetto Vitruvio, sono abitualmente suddivise nelle due tipologie del teatro greco e romano, alle quali si vennero ad aggiungere altre forme: gli odea, i teatri galloromani, i semianfiteatri a scena, i teatri-anfi-


Decimo Laberio e Publilio Sirio: si tratta di composizioni comiche, molto frequentemente di argomento erotico con amori, matrimoni e adulteri o avvelenamenti, morti e truffe; non mancava talvolta la satira politica. Il linguaggio era vivace e immediato, audace e licenzioso, spesso decisamente osceno. Comprendeva canto, danza, recitazione. Il mimo era l’unico genere nel quale gli attori non indossavano la maschera; vi recitavano anche le donne, che spesso su richiesta degli spettatori – come nel moderno avanspettacolo – concludevano la loro esibizione con lo spogliarello (nudatio mimarum). Nel 22 a.C. venne introdotto a Roma da Pilade e Batillo il pantomimo, particolarmente amato da Augusto, il cui soggetto è drammatico, mitologico e storico. L’attore, talvolta un vero acrobata, non recitava, ma mimava e danzava accompagnato dalla musica della cetra, del flauto e dei cembali e dal canto di coristi e al ritmo scandito dallo scabillum, una sorta di zoccolo con il quale si batteva il tempo.

teatri, che si differenziano per alcune caratteristiche e anomalie e hanno ambiti cronologici e distribuzione geografica abbastanza precisi; in realtà sono espressioni diverse di un’unica forma architettonica appartenente allo stesso fenomeno culturale.

Nella pagina accanto: facsimile di una miniatura raffigurante maschere teatrali allineate su uno scaffale, da un codice delle commedie di Terenzio (Vat. lat. 3868). IX sec. circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In basso, sulle due pagine: mosaico policromo con scena di danza e mimo. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

STRUMENTI «POLITICI» In età imperiale, quando le strutture decisionali sfuggono definitivamente al popolo, il teatro diventa il luogo in cui le comunità, gerarchicamente distribuite, incontrano l’autorità che garantisce ordine e divertimento, rappresentata simbolicamente dalle statue poste sul frontescena: esse raffigurano la famiglia imperiale, i suoi antenati divinizzati, le divinità protettrici dell’imperatore, le personificazioni delle virtú. La funzione di propaganda dell’edificio teatrale spiega bene la sua proliferazione sulle terre dominate da Roma. Contemporaneamente il teatro recitato da teatro della parola diventa sempre piú teatro «del corpo», cioè spettacolo che si affida alla gestualità piú che al testo per comunicare con un pubblico vasto e multietnico come quello imperiale. È l’epoca dei mimi e dei pantomimi, ma anche di forme singolari di divertimento come le danze acquatiche, realizzate allagando l’orchestra del teatro (tetimimi). Contemporaneamente i teatri si aprono a manifestazioni loro estranee, come assemblee, trionfi e giochi di ogni genere. Sempre in epoca imperiale si diffonde la tipologia dell’odeum, edificio in genere piú piccolo di un teatro e con un tetto di copertura, destinato alla declamazione poetica e all’esecuzione musicale.


SPECIALE • TEATRO

UN’ATTRAZIONE FATALE Lucio Anneo Seneca fu prima precettore e poi, tra il 54 e il 62 d.C., consigliere imperiale di Nerone. Il filosofo e il principe condividevano una vera passione per il teatro, ma le loro prospettive non avrebbero potuto essere piú diverse. Seneca scriveva tragedie raccontando il conflitto tra ragione e passioni umane, nella convinzione che la prima dovesse prevalere stoicamente sulle seconde. Inoltre non sembra che come autore Seneca si sia mai adoperato per la messa in scena delle proprie opere. Invece Nerone era fatalmente attratto dal palcoscenico e nessuno dei suoi malevoli biografi poté negare la costanza con la quale, per lunghi anni, studiò musica e canto per preparare il suo debutto sulla scena piú prestigiosa dell’antichità, quella di Atene. Cosí mentre Seneca, nelle nove tragedie oggi

attribuitegli, si rivolgeva a un pubblico colto, riprendendo modelli classici, soprattutto Euripide, e narrando fatti di sangue con pathos esasperato e tinte fosche, Nerone, imperatore a 17 anni, si esercitava alla cetra con il famoso citaredo Terpno, declamava e cantava di fronte a un pubblico sempre piú numeroso e recitava in maschera i ruoli tragici di Edipo, Oreste e Tieste. Nel 64 d.C. Nerone si esibí a Napoli, cantando in greco di fronte a un pubblico di intenditori, e l’anno successivo a Roma gareggiò per la prima volta come citaredo in competizione con professionisti. Nel 66 d.C., a 29 anni, è finalmente pronto per gli agòni scenici di Atene, dove si sottopone a tutte le regole della competizione e al verdetto dei giudici, ottenendo un grande quanto ovvio successo. Finalmente può dirsi un vero professionista.

I vari tipi di teatri sono sicuramente frutto di elaborazioni successive, ma è da sottolineare che sia il teatro greco (in particolare il teatro di Dioniso ad Atene), sia quello romano (il teatro di Pompeo a Roma, che ne è l’esempio piú peculiare) utilizzano esperienze e conoscenze tecniche strutturate nel tempo e sono opere estremamente innovatrici, ideate e progettate da geniali architetti, rimasti per noi anonimi. I teatri in Grecia e in Roma coniugano funzionalità e scenografia sia quando sono inseriti nella struttura urbana, sia che si trovino in ambienti naturali. Talvolta la cavea si appoggiava alle stesse mura della città, mentre il rapporto con il centro urbano, rappresentato dall’agorà per le città greche e dal foro per quelle romane è significativo di una utilizzazione dello spazio teatrale anche per altre attività che richiedevano la riunione della comunità cittadina. Interessanti sono i dati sulla concentrazione di vari edifici teatrali nello stesso posto. Ci sono alcune città che hanno due o piú strutture; spesso si tratta di un teatro e di un odeum, talvolta uno vicino all’altro come a Napoli, Pompei, Vienne, Lione, quindi con funzioni differenziate; talvolta sono presenti due teatri, come a Pola. Qualche volta le

strutture sono tre: un doppio teatro e un odeum (Argo, Epidauro, Dion in Macedonia, Cnido in Turchia, Amman in Giordania) oppure tre teatri (Gerasa in Giordania, Tolemaide in Libia), talvolta addirittura quattro strutture come ad Atene, Pergamo, Cirene, Gortina; Roma in età traianea possiede addirittura quattro teatri e un odeum. I teatri greci in particolare, ma anche quelli romani erano orientati sempre verso scenari aperti, verso il mare o verso una vallata; questo nonostante vi fosse un orientamento preferito, quello nel quadrante sud-est. Nelle città romane il rapporto tra piano urbanistico e inserimento della struttura teatrale è talmente stretto da creare in abbinamento con l’anfiteatro veri e propri «quartieri per spettacoli» all’interno del tessuto urbano, inseriti nella partizione degli isolati e ben collegati anche al sistema viario, importante per edifici nei quali un numero elevato di persone doveva radunarsi contemporaneamente e altrettanto simultaneamente ne doveva uscire.

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GIOCHI D’ACQUA Un aspetto significativo è costituito dalle trasformazioni apportate nel III-IV secolo ai teatri per renderli adatti ai combattimenti anfiteatrali e alle rappresentazioni acquati-

Particolare della decorazione a rilievo di un sarcofago raffigurante maschere teatrali. 150-160 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.


che, i tetimimi (danze acquatiche e mimi a soggetto per lo piú mitologico) e cacce tra uomini e coccodrilli. In questi casi l’orchestra era resa impermeabile come una piscina e veniva alimentata mediante canalizzazioni e serbatoi idrici di una certa consistenza. Ne sono state individuate in una ventina di teatri, ma appare abbastanza evidente che un’indagine piú attenta in questa direzione potrebbe fornire nuovi risultati. Molti di piú, talvolta anche due nello stesso sito, come per esempio a Corinto, erano gli edifici trasformati per le lotte gladiatorie e le cacce. Qui le modifiche erano tutto sommato modeste: venivano soppressi dei gradini, creato un podio ed eventualmente predisposte delle cancellate metalliche per proteggere gli spettatori dalle fiere. Tali trasformazioni erano legate alla mancanza di anfiteatri e si

riscontrano particolarmente in Grecia e in Oriente; ugualmente in Sicilia (Taormina, Tindari) e nell’Italia meridionale (Reggio), ma si verifica anche a Lione, ove nelle vicinanze esisteva un anfiteatro; inoltre Lione si trova nella zona gallica dove, come abbiamo già detto, esiste una ricca tipologia di strutture adatte a soddisfare la duplice esigenza dei ludi scenici e di quelli anfiteatrali.

IL SEGGIO PER IL DIO Sappiamo che nei teatri greci erano spesso decorati i terminali dei sedili delle gradinate. Particolarmente ricco appare il seggio destinato al sacerdote di Dioniso, mentre abbiamo scarse informazioni circa la decorazione delle scene, per lo piú rifatte in epoca romana oppure non conservate. Nel teatro romano rilievi decoravano la fronte del pulpito e a r c h e o 107


SPECIALE • TEATRO

la facciata della scena; nella scena, inoltre, erano poste delle statue, talvolta nell’ambulacro esterno e in summa cavea (per esempio a Ercolano); altari di varia forma e fontane erano collocati a decorazione dello spazio dell’orchestra. Maschere, busti e protomi animali ornavano le chiavi d’arco dei fornici e stucchi coprivano in certi edifici le volte degli accessi cui si attribuiva particolare importanza. La porticus post scaenam (lo spazio porticato alle spalle della scena) poi era spesso di grandi dimensioni e ospitava fontane, edicole, statue e altari, candelabri e vasi, veri e propri giardini-musei. I soggetti delle decorazioni erano spesso mitologici o legati al mondo stesso del teatro, talvolta di carattere storico-celebrativo. Le statue ritraevano i privati che avevano contribuito alla costruzione dell’edificio e, molto frequentemente, l’imperatore e i membri della sua famiglia (soprattutto quella di Augusto e dei Giulio-Claudi). Queste statue sono una testimonianza palese della funzione svolta dagli apparati decorativi ed epigrafici delle scene teatrali: quella, cioè, di vera e propria propaganda politica del potere imperiale.

COSÍ VOLLE AUGUSTO Citiamo qualche esempio significativo: estremamente complessa appare la decorazione dell’insieme del teatro e dei portici di Pompeo a Roma, mentre assai poco conosciuta è la situazione complessiva del romano teatro di Marcello, per il quale vanno menzionate le grandi maschere marmoree rinvenute in frammenti. Esse ornavano la facciata ricurva e, pur essendo di epoca augustea, riproducevano i tipi dei generi teatrali classici che la politica culturale dello

Sulle due pagine: immagini del teatro romano di Mérida (Spagna). L’edificio fu costruito, intorno al 16-15 a.C., per volere di Marco Vipsanio Agrippa, sul colle di San Albín, la cui inclinazione favorisce l’acustica della costruzione. Nel 1933 vi si svolse la prima edizione del Festival Internazionale del Teatro Classico di Mérida con la messa in scena della Medea di Seneca. Dopo una sospensione quasi ventennale, gli spettacoli ripresero nel 1954 e la rassegna è giunta quest’anno alla sua 70ª edizione.

stesso Augusto aveva imposto al gusto degli spettatori: tragedia, commedia e dramma satiresco. È noto dalle fonti che, nella cavea tra gli spettatori, era la statua bronzea di Marcello seduto nella sedia curule. Notevoli sono i numerosi bronzi di dimensioni maggiori del naturale, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, rinvenuti durante gli scavi settecenteschi nel teatro di Ercolano insieme ad alcune statue equestri, delle quali rimangono solo due protomi, essendone stati fusi alcuni pezzi per ricavarne medaglioni con l’effigie di Carlo III di 108 a r c h e o


Borbone. Un nucleo notevole di opere in marmo ornava il teatro di Mérida (in Spagna), ove le statue della famiglia imperiale e dei geni dell’imperatore si trovavano sulla scena, nella porticus post scaenam e in un piccolo santuario ricavato al centro del primo, piú basso ordine della cavea (o ima cavea). La decorazione nei teatri ha quindi una sua valenza ben precisa: essa non è puro ornamento fine a se stesso (come accade negli altri edifici per lo spettacolo, nei circhi, negli anfiteatri e negli stadi), bensí strumento di propaganda politica e di condizionamento sociale.

DOVE E QUANDO «Teatro. Autori, attori e pubblico nell’Antica Roma» Roma, Museo dell’Ara Pacis fino al 3 novembre Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); www.sovrintendenzaroma.it; www.museiincomuneroma.it; www.arapacis.it; www.zetema.it Catalogo a cura di Salvatore Monda, Orietta Rossini e Lucia Spagnuolo; editore: «L’Erma» di Bretschneider a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL P(I)ATTO D’AMORE LA STRETTA DI MANO SUGGELLA DA SEMPRE IL RAGGIUNGIMENTO DI UN’INTESA. ED È ANCHE SEGNO DI FIDUCIA RECIPROCA

V

i è una bellissima e romantica serie di piatti prodotti a Faenza, città dell’Emilia-Romagna rinomata sin dal Medioevo per la produzione di pregiate maioliche smaltate e decorate. La sua celebrità ha fatto sí che il nome della città in lingua francese, Faïence, sia divenuto dal 1580 sinonimo di ceramica verniciata o smaltata (vaisselle de Faënze): il termine si diffuse, con varianti grafiche, in tutta Europa, arrivando a indicare anche la ceramica smaltata antica, a partire da quella di età minoica. La maiolica di Faenza è contraddistinta da figurazioni policrome dai colori brillanti, le cui forme, quali brocche e piatti, sono ornate da cornici elegantemente

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In alto: piatto d’amore in maiolica di Faenza. 1490-1510. Faenza, Museo Internazionale delle Ceramiche.

decorate che racchiudono al centro medaglioni ispirati al mondo classico cosí come alla cultura neoplatonica in voga all’epoca. A partire dalla seconda metà del XV secolo, tra le immagini ricorrenti, spiccano quelle legate al genere sentimentale e d’amore, quali delicati profili femminili e maschili giovanili, spesso con iscrizioni entro cartigli inneggianti all’amore e alla sua fiamma ardente, nonché alla fedeltà dei fidanzati e degli sposi a cui erano destinati. Simili ceramiche, che non sono soltanto faentine ma anche di altre regioni italiane, venivano scambiate quali doni d’amore tra fidanzati, spesso rappresentati mentre bevono dalla stessa coppa,


e denominate gameli, vero e proprio prodromo delle nozze (dal greco gamos, nozze, unione sessuale). Durante i banchetti nuziali vi erano disposti anche i confetti, da sempre considerati di buon auspicio – il cui uso nella forma come la conosciamo oggi risale al 1400, quando si diffuse piú largamente l’impiego dello zucchero di canna che ricopre la mandorla – e divenuti una specialità dolciaria della città abruzzese di Sulmona. Tipica di questi variopinti piatti d’amore è l’immagine formata da una ricca cornice decorata, al centro della quale si stagliano, sul fondo, due mani che si stringono, spesso con la scritta Fides, a suggellare la promessa d’amore tra la coppia e soprattutto tra le due famiglie degli sposi.

simbolo di un sodalizio sancito tra due membri, come quello tra l’imperatore e il suo esercito o con il Senato. E dato che la mano destra era consacrata a Fides, personificazione della fedeltà, nelle scene di natura politica la stretta di mano rappresentava la positiva conclusione di un accordo sociale o di un’alleanza importante per l’impero (Tacito, Annales 2.58), basata di regola sulla potenza militare e designata in questo caso come Fides Exercitum.

L’APPARENZA INGANNA

A MANO DISARMATA Da sempre, stringersi la mano destra ha rappresentato un segno di pace, in quanto fondamentalmente serviva a dimostrare di non impugnare un’arma ed essere quindi pronti all’attacco. Tra le piú antiche rappresentazioni del gesto quale simbolo di alleanza e fiducia si annovera un bassorilievo in pietra, della metà del IX secolo a.C., parte del trono ritrovato nel forte di Salmanassar III a Nimrud (Iraq), dove il re assiro stringe la mano al re babilonese Marduk-zakir-shumi, a testimoniare il patto tra i due popoli e i rapporti pacifici tra l’Assiria e la vicina Babilonia nel corso del I millennio a.C. Osservando tali strette di mano, il pensiero, per i cultori dell’iconografia antica, corre alla dextrarum iunctio, che si ritrova su molte monete e monumenti romani. Infatti tale gesto, effigie dalle molteplici connotazioni – che spaziano dai vincoli commerciali, familiari, amicali, matrimoniali e religiosi sino alle alleanze politiche

In alto: antoniniano al nome dell’imperatore Pupieno. 238 d.C. Al rovescio, la dextrarum iunctio. Nella pagina accanto, in basso: pannello del trono di Salmanassar III raffigurante il re assiro che stringe la mano di Marduk-zakir-shumi di Babilonia (a sinistra), da Nimrud. IX sec. a.C. Baghdad, Iraq Museum. e militari –, compare già sui denari della repubblica, a simboleggiare la concordia, la fiducia tra chi governa e chi è governato, garantendo una giusta amministrazione dello Stato sotto gli auspici della Fides Publica. Sulle monete, per lo piú, non si tratta di un gesto di affetto coniugale (anche se vi sono emissioni con la coppia imperiale in tale atteggiamento, ricorrente su lastre funerarie o statue di sposi), ma dell’immagine-

Come avviene molto spesso in politica, l’apparenza non corrisponde sempre alla sostanza. Si pensi agli antoniniani emessi dall’imperatore Pupieno nel 238 d.C., durante i suoi pochi mesi di regno. Al dritto compare il busto di Pupieno con corazza, manto, corona radiata e titolatura IMP CAES PVPIEN MAXIMVS AVG, e, al rovescio, due mani strette nella dextrarum iunctio, con legenda PATRES SENATVS, a simboleggiare il ruolo svolto dal senato nella designazione imperiale. Marco Clodio Pupieno Massimo (165 circa-238 d.C.), console e militare d’esperienza, fu eletto imperatore dal Senato in età avanzata, all’inizio del febbraio 238 d.C. insieme a Decimo Celio Calvino Balbino, per combattere Massimino il Trace, nominato imperatore dal suo esercito e poi ucciso dai suoi stessi soldati. Gli imperatori regnarono con parità di diritti, ma con scarsa fiducia reciproca, e, in seguito al malcontento popolare e dell’esercito, vennero presto brutalmente uccisi dai pretoriani (Scriptores Historiae Augustae, Maximus et Balbinus, XXI), a dimostrazione che non sempre basta una stretta di mano per potersi fidare uno dell’altro.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Chiara Magrini e Lisa Zenarolla, con un contributo di Umberto Tecchiati

A TAVOLA E IN CUCINA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO NEL CASTELLO DI SAN VITO AL TAGLIAMENTO (PN) Catalogo dei materiali rinvenuti negli scavi archeologici dal 1992 al 2009 All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI), 160 pp., ill. b/n e col. 38,00 euro ISBN 978-88-9285-222-8 www.insegnadelgiglio.it/

alla quale fa seguito il catalogo dei reperti presi in considerazione, scelti in base ai loro ambiti di utilizzo: la mensa e la cucina. E sebbene il taglio sia prettamente specialistico, non mancano notazioni che restituiscono altrettante «istantanee» della vita quotidiana di coloro che abitarono l’edificio. Rispondendo appieno all’obiettivo finale che ogni ricerca archeologica deve perseguire. Giuseppe Pace (a cura di)

IL RIONE SANITÀ E IL CIMITERO DELLE FONTANELLE Un laboratorio vivente CNR Edizioni, Roma, 186 pp., ill. col. e b/n 25,00 euro ISBN 978-88-8080-602-8 www.edizioni.cnr.it (disponibile anche per la consultazione on line e il download)

ricerche sugli spazi sotterranei. Al curatore e un folto gruppo di specialisti si devono i contributi riuniti nel libro, che del Cimitero esaminano tutti gli aspetti peculiari, fra storia, folklore, implicazioni religiose, ma con un occhio attento anche alla sua valorizzazione e al ruolo di attrattore che esso può esercitare. AA.VV.

Il castello di San Vito al Tagliamento (Pordenone) ha una storia lunga, che secondo alcuni studiosi ebbe inizio già nel XII secolo e alla cui ricostruzione l’archeologia ha dato un contributo decisivo. Ne è prova anche questo volume, che costituisce l’edizione di materiali recuperati nel corso di indagini condotte, in momenti diversi, fra il 1992 e il 2010. Le prime pagine dell’opera sono riservate a una descrizione del contesto, 112 a r c h e o

Il volume dà conto dello studio interdisciplinare condotto su uno dei luoghi piú suggestivi e carichi di storia della città di Napoli: il Cimitero delle Fontanelle, un ossario apprestato nel rione Sanità fra il XVI e il XVII secolo, in un’epoca in cui la città partenopea dovette fronteggiare ripetuti flagelli, fra cui un’epidemia di peste scoppiata nel 1656. Il sito è stato dunque scelto come terreno di sperimentazione del progetto Underground4value (U4V), elaborato nel piú ampio contesto delle

I GRECI, I ROMANI E... Il mare Il simposio La guerra L’amore Sfere Extra, Carocci Editore, Roma 16,00 euro www.carocci.it

Riuniamo qui alcune delle piú recenti uscite della collana Sfere extra, che «illustra, attraverso le parole di famosi autori classici, gli aspetti più accattivanti, curiosi e attuali della vita degli antichi Greci e Romani». Date queste coordinate, Donatella Puliga si cimenta dunque con il

mare, che ebbe un ruolo cruciale nella storia delle civiltà antiche. Occasione conviviale, ma non solo, il simposio è invece l’argomento affidato a Michele Napolitano, il quale evidenzia appunto le molteplici implicazioni di una consuetudine che andava ben oltre il banchetto. Marco Bettalli affronta il tema della guerra la cui presenza in campo letterario viene giustamente definita pervasiva: basti pensare alla prima delle grandi composizioni dell’Occidente, l’Iliade, che è appunto un poema di guerra. L’amore è un altro topos di cui sarebbe probabilmente impossibile censire tutte le ricorrenze, ma le testimonianze scelte da Francesco Puccio riescono comunque a tratteggiare un quadro ricco e vivace di questo aspetto essenziale della vita quotidiana di Greci e Romani. (a cura di Stefano Mammini)






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