Archeo n. 474, Agosto 2024

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IL POTERE A ROMA

COLOMBARI IN ETRURIA

PLINIO IL VECCHIO

SALGARI A CARTAGINE

SPECIALE MUSEI DELLA MAREMMA

L’ENIGMA DEI COLOMBARI

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IMPERIUM

INCHIESTA SUL POTERE NELL’ANTICA ROMA

COMO

I DUEMILA ANNI DI PLINIO IL VECCHIO LETTERATURA

EMILIO SALGARI A CARTAGINE

VIAGGIO NEI MUSEI DELLA MAREMMA

SPECIALE

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IN EDICOLA L’ 8 AGOSTO 2024

2024

Mens. Anno XXXIX n. 474 agosto 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 474 AGOSTO

ETRURIA

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EDITORIALE

LA PASSIONE (NON) VA IN VACANZA Cari lettori, l’estate è probabilmente la stagione piú adatta per rinsaldare quella convinzione sulla quale si fonda la nostra comune passione: ovvero che l’archeologia rappresenti una componente essenziale della trama di cui è costituito il tessuto del patrimonio culturale italiano. Di essa sono parte eminente i parchi archeologici (spesso anche vere e proprie «riserve» naturalistiche, citiamo solo il caso di Vulci o quello di Populonia, sede di recentissime, importanti scoperte di cui riferiremo prossimamente), i grandi monumenti che dominano le città d’arte, ma anche quelli «minori», nascosti nelle periferie urbane o nelle nostre campagne, in contesti naturali talvolta di una bellezza che ancora ci sorprende. Basta sfogliare l’articolo degli archeologi Giuseppe Moscatelli e Giacomo Mazzuoli dedicato a una singolare tipologia di monumenti antichi, i «colombari», per convincerci (vedi alle pp. 48-63). E poi ci sono i musei, e non solo quelli di fama mondiale (ricordiamo qui solo il Museo Egizio di Torino che, proprio quest’anno, celebra i 200 anni dalla nascita): il nostro Stefano Mammini ha percorso la Maremma toscana e, nello speciale di questo numero, presenta una rete di musei locali, piccoli «scrigni» del sapere, da esplorare uno per uno… Il nostro elenco, ne siamo ben consapevoli, potrebbe allungarsi all’infinito, e, per motivi di spazio – ma anche per non tediarvi – ci fermiamo qui. Scusandoci sin d’ora per aver privilegiato, in questo numero, le terre dell’Etruria. Sappiamo, del resto, quale è stato e qual è ancora il ruolo svolto dagli Etruschi nell’ambito dell’archeologia. Basta gettare uno sguardo ad alcune recentissime pubblicazioni in tema: l’indagine di Alessandro Mandolesi sulla costa Tra Caere e Tarquinia (vedi la scheda a p. 112), le rivelazioni su Bologna etrusca, la città «invisibile» di Giuseppe Sassatelli (Bologna University Press), l’affascinante inchiesta sull’uso politico degli Etruschi nel Novecento presentata da Andrea Avalli nel suo Il mito della prima Italia (Viella). Argomenti che approfondiremo, con gli stessi autori, nei prossimi numeri. Intanto, però, auguri di buona lettura e di un’estate di «passione» archeologica! Andreas M. Steiner Tombe della necropoli etrusca delle Grotte, nel Parco Archeologico di Baratti e Populonia (Livorno).


SOMMARIO EDITORIALE

La passione (non) va in vacanza

3

di Andreas M. Steiner

Attualità

ARCHEOFILATELIA Di guerrieri, fanciulle e venditori di porpora...

ARCHEOLOGIA RUPESTRE 24

di Luciano Calenda

L’INTERVISTA

6

SCOPERTE Un metodo vincente per l’arte preistorica ALL’OMBRA DEL VULCANO L’avventura continua

6

Una definizione di imperium? Responsabilità e rispetto delle regole... 30

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incontro con Giovanni Brizzi, a cura di Andreas M. Steiner

di Alessandra Randazzo

48 MOSTRE

12

Plinio e il catalogo del mondo

di Dario Daffara

SCAVI La vita di una grande fattoria

48

di Giuseppe Moscatelli e Giacomo Mazzuoli

NOTIZIARIO

FRONTE DEL PORTO All’ombra della torre

Dove volano i colombi

66

di Gianfranco Adornato, con un contributo di Gian Biagio Conte

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di Giampiero Galasso

A TUTTO CAMPO Quando il nudo è donna

16

di Mara Sternini

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

SPECIALE MUSEI DELLA MAREMMA

Impaginazione Davide Tesei

SALGARI A CARTAGINE

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

Federico Curti

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXIX n. 474 agosto 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

PLINIO IL VECCHIO

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

In copertina L’incendio di Roma, il 18 luglio del 64 d.C., olio di Hubert Robert, 1785. Le Havre, Musèe d’art moderne André Malraux.

Presidente

INCHIESTA SUL POTERE NELL’ANTICA ROMA

COLOMBARI IN ETRURIA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

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IMPERIUM

IL POTERE A ROMA

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 – 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

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2024

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ARCHEO 474 AGOSTO

Anno XL, n. 474 - agosto 2024 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

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30 www.archeo.it

di Carlo Casi

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IN EDICOLA L’ 8 AGOSTO 2024

IN DIRETTA DA VULCI Tracce di antichi riti

COMO

I DUEMILA ANNI DI PLINIO IL VECCHIO LETTERATURA

EMILIO SALGARI A CARTAGINE

ETRURIA L’ENIGMA DEI COLOMBARI

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SPECIALE

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Henry de Lumley, Javier Nieto

VIAGGIO NEI MUSEI DELLA MAREMMA 24/07/24 11:56

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Carla Alfano, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Giulio Paolucci, Sergio Pernigotti, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Jacopo Tabolli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Gianfranco Adornato è professore di archeologia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Gian Biagio Conte è professore emerito di letteratura latina presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Giuseppe M. Della Fina è vice presidente della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» di Orvieto. Luciano Frazzoni è archeologo. Giampiero Galasso è giornalista. Giacomo Mazzuoli è ricercatore indipendente. Giuseppe Moscatelli è ricercatore indipendente. Alessandra Randazzo è giornalista. Orietta Rossini è curatrice della mostra «Teatro. Autori, attori e pubblico nell’Antica Roma». Mara Sternini è professoressa associata di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/15 Quel Sandokan in salsa punica

78

di Giuseppe M. Della Fina

Rubriche TERRA, ACQUA, FUOCO, VENTO

Stampigliati o a stralucido, purché si beva!

106

di Luciano Frazzoni

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Come lui non c’è nessuno

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di Francesca Ceci

SPECIALE

MAREMMA Amara e magnifica

110 LIBRI

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di Stefano Mammini

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 3, 16 (destra), 17, 30-45, 66, 76, 80, 82/83, 106-107, 108 (destra), 110-111 – Griffith University, Gold Coast, Australia: pp. 6/7 (alto) – Google Arts & Culture: pp. 6/7 (basso), 8 – Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Parco Archeologico di Ostia antica: p. 12 – Cortesia Associazione speleologica A.S.S.O.: p. 13 – Cortesia Soprintendenza ABAP per le province di Ancona Pesaro e Urbino: pp. 14, 15 (alto) – Candido Troncone: p. 16 (sinistra) – Cortesia Fondazione Vulci: pp. 18-19 – Giacomo Mazzuoli: pp. 48/49, 50/51, 51 (basso), 52-63 – Cortesia ddl studio: Fabio Viale: pp. 67, 73; Carlo Pozzoni: pp. 68-69, 77; Luigi Spina: pp. 70, 71 (basso); Collezione privata Fam. Di Cosmo: p. 71 (alto); Gallerie degli Uffizi: pp. 72, 75; Kaos Produzioni: p. 74 – Mondadori Portfolio: Archivio GBB: pp. 78, 82, 85; Fototeca Gilardi: p. 79 – Shutterstock: pp. 84/85, 86/87, 93 (alto) – Stefano Mammini: pp. 88, 89 (alto), 92 (sinistra), 93 (basso) – Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno: p. 90 (basso) – Cortesia Ufficio stampa Musei di Maremma: pp. 92 (basso), 94-95, 96, 98-101, 102, 103 (basso), 104-105; Nicola Tisi: p. 97 – Cortesia dell’autori: pp. 108 (sinistra) – Cippigraphix: cartine alle pp. 51, 88/89.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia srl Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Il Servizio Arretrati è a cura di: Press-Di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Srl - 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito: https://arretrati. pressdi.it

L’indice di «Archeo» 1985-2023 è disponibile sul sito https://ulissenet.comperio.it/ Registrandosi sulla home page si ottengono le credenziali per la consultazione di prova


n otiz iari o SCOPERTE Indonesia

UN METODO VINCENTE PER L’ARTE PREISTORICA

L

a storia dell’arte preistorica si è arricchita di un nuovo e sorprendente capitolo: un team di ricerca internazionale, composto da archeologi e specialisti di laboratorio australiani e indonesiani, ha infatti annunciato la recente scoperta di figurazioni dipinte risalenti a oltre 50 000 anni fa in una grotta della regione di Maros-Pangkep, nell’isola di Sulawesi, in Indonesia. Si tratta di una scena nella quale è stato

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possibile distinguere tre teriantropi (esseri per metà umani e per metà animali), che interagiscono con un maiale selvatico. Da sempre, l’arte rupestre preistorica può fornire importanti indicazioni sulle prime culture umane, ma non è facile datare queste opere in modo accurato e affidabile. Una tecnica di datazione ampiamente utilizzata, nota come uranio-torio, si basa sul campionamento dei depositi di

In basso, sulle due pagine: la collina di Karampuang, sull’isola indonesiana di Sulawesi, nella quale si apre la grotta che ha restituito l’importante pittura rupestre preistorica.


In alto: la piramide a gradoni di Djoser (III dinastia, 2680-2660 a.C.). A destra: la piramide romboidale di Snefru (IV dinastia, 2639-2604 a.C.) In basso, sulle due pagine: la Piramide Rossa, detta anche Piramide Nord, nella necropoli di Dahshur.

In alto: la pittura rupestre scoperta nella grotta di Leang Karampuang e datata a 51 200 anni fa, grazie al metodo designato come LA-U-series. Vi sono state riconosciute le sagome di tre teriantropi (essere per metà umani e per metà animali) e la sagoma di un maiale selvatico. carbonato di calcio formatisi naturalmente sulle opere esaminate e sulla misurazione del decadimento radioattivo dell’uranio in torio, appunto, all’interno di queste formazioni. Tuttavia, questa tecnica tende a sottostimare l’età reale del dipinto sottostante, a causa dei processi di crescita delle rocce. Per questo motivo i ricercatori della missione internazionale che opera a Sulawesi

hanno scelto di sperimentare un metodo alternativo, basato sull’ablazione laser dei depositi di uranio a mezzo del laser (LA-Useries). La tecnica si serve di un laser accoppiato a uno spettrometro di massa per analizzare campioni di carbonato di calcio nei minimi dettagli e quindi ottenere determinazioni cronologiche piú accurate. Questo nuovo approccio, infatti,

archeo 7


n otiz iario L’ingresso della grotta di Leang Karampuang (Sulawesi, Indonesia). Nello stesso distretto, la regione di Maros-Pangkep, si conoscono altri siti in grotta con testimonianze d’arte preistorica, sottoposte anch’esse a nuove analisi per verificarne la datazione. consente la datazione di materiali di carbonato di calcio che si trovano fisicamente piú vicini al pigmento. Il metodo LA-U-series è stato utilizzato per testimonianze di arte rupestre di vari siti in grotta della regione di Maros-Pangkep. Cosí, per esempio, è stato possibile stimare che una scena di caccia nel sito di Leang Bulu’ Sipong 4, precedentemente datata ad almeno 43 900 anni fa, fu realizzata intorno ai 48 000 anni da oggi, retrodatandola, quindi, di circa 4000 anni. Nel caso della grotta di Leang Karampuang, la scena dei teriomorfi

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con il maiale, l’applicazione del metodo LA-U-series indica che il dipinto fu realizzato almeno 51 200 anni fa, accreditandosi come una delle piú antiche attestazioni del genere a oggi note. Secondo gli studiosi che hanno compiuto la scoperta, tali risultati ribadiscono la diffusione di rappresentazioni figurative nelle culture umane preistoriche fin da epoche molto antiche. Al tempo stesso, lo studio del dipinto della grotta di Leang Karampuang ha dato conferma dell’affidabilità del metodo di datazione LA-U-series,

rivelatosi piú veloce, piú conveniente, meno distruttivo per le opere d’arte e in grado di fornire una migliore risoluzione spaziale (migliorando l’accuratezza, rispetto al metodo uranio-torio). Le ricerche a Sulawesi sono condotte da una équipe internazionale, condiretta dalla Griffith University del Queensland (Australia), dall’Agenzia Nazionale per la Ricerca e l’Innovazione dell’Indonesia (BRIN) e dalla Southern Cross University di Lismore (Australia). (red)



ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandra Randazzo

L’AVVENTURA CONTINUA SOTTRATTO ALLE RAZZIE DEGLI SCAVATORI CLANDESTINI, IL SITO DI CIVITA GIULIANA HA REGALATO PIÚ DI UNA SORPRESA IN QUESTI ANNI. E LE INDAGINI PROSEGUIRANNO, GRAZIE A NUOVI STANZIAMENTI AD HOC

S

ituato a 600 m dalle mura di Pompei, il complesso di Civita Giuliana continua a restituire informazioni preziose sulle attività della villa prima dell’eruzione. L’esplorazione del sito, già oggetto di scavi nel 1907-08, ebbe inizio nel 2017, in base a una collaborazione tra il Parco Archeologico di Pompei e la Procura della Repubblica di Torre Annunziata, che, insieme ai Carabinieri, aveva scoperto un’annosa attività di scavi clandestini nell’area della Villa, poi sgominata e perseguita sia penalmente che civilmente. Tra il 1907 e il 1908, nella zona immediatamente a nord di quella in esame, aveva scavato il marchese In questa pagina: varie immagini del sacello messo in luce nel sito di Civita Giuliana, una delle piú recenti acquisizioni scaturite dalle campagne di scavo condotte negli ultimi anni.

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Giovanni Imperiali, sulla base di una concessione di scavo rilasciata dall’allora Ministero della Pubblica Istruzione. I resoconti di quelle indagini sono stati pubblicati nel 1994 con una monografia della Soprintendenza.


In questa pagina: immagini del vano in cui sono stati ritrovati vari attrezzi da carpentiere, fra cui una sega e la lunga corda (foto qui accanto) impiegata per mantenerla in tensione durante l’utilizzo. Il vecchio scavo aveva portato alla luce 15 ambienti riferibili a due settori della villa, uno residenziale e l’altro produttivo. Il settore residenziale si articolava intorno a un peristilio a pianta rettangolare, delimitato sui lati nord ed est da un porticato sorretto da colonne in muratura, mentre il lato occidentale, sfruttando presumibilmente un salto di quota naturale, era delimitato da un lungo criptoportico coperto da una terrazza, su cui si apriva il peristilio con l’affaccio sul terreno antistante. Sul lato orientale del peristilio furono messi in luce cinque ambienti (gli unici di cui è stato possibile ubicare esattamente le strutture grazie alla documentazione fotografica), decorati con pitture di III e IV stile e che restituirono una varietà tipologica di oggetti riferibile alla vita quotidiana, all’ornamento personale e al culto domestico. Come detto, negli ultimi decenni, il complesso di Civita Giuliana è stato però interessato da scavi clandestini, individuati grazie alla scoperta di cunicoli sotterranei, esplorati dai Carabinieri con il supporto logistico dei Vigili del Fuoco. Realizzati seguendo le pareti perimetrali degli ambienti e provocando brecce nei muri antichi, i cunicoli hanno danneggiato

irrimediabilmente gli intonaci, distrutto parte dei muri, trafugato oggetti e cancellato gli strati archeologici da cui trarre informazioni per comprendere le fasi pre e post eruzione del 79 d.C.

SCOPERTE A RIPETIZIONE Le campagne di scavo condotte in questi anni hanno portato a numerose scoperte (delle quali in queste pagine è stata data puntuale notizia): cavalli bardati, vittime dell’eruzione; uno splendido carro cerimoniale; stanze con suppellettili che raccontano la vita quotidiana della villa; e, non ultimi, oggetti di carpenteria in una stanza nel quartiere servile e un sacello. La rimozione del manto stradale moderno ha portato alla luce, tra i 40 e i 50 cm di profondità dall’attuale quota stradale, pavimentazioni appartenenti al piano superiore del quartiere servile nonché il sacello con volta a incannucciata dalla planimetria rettangolare, di cui sono noti alcuni esempi annessi alle ville del suburbio pompeiano, seppur non con la stessa monumentalità. Nella stanza, invece, gli archeologi hanno individuato un letto, ma anche attrezzi di lavoro e quello che sembra il telaio, forse di un altro letto, smontato: si riconoscono, inoltre, ceste, una lunga corda,

pezzi di legno e una sega con lama. È stato individuato persino un pezzo della corda, anch’essa come impronta nel sottosuolo, che la teneva sotto tensione. L’attuale finanziamento dello scavo volge verso il suo termine, ma il Parco, insieme alla Procura di Torre Annunziata, ha annunciato di voler proseguire le indagini, attingendo al finanziamento di una campagna di scavi previsto nella Legge di Bilancio dal Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che si è recato recentemente a Pompei proprio per una visita al cantiere per un sopralluogo. I punti da chiarire a Civita Giuliana sono ancora tanti, e la ricerca archeologica non può non continuare. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: PompeiiParco Archeologico; X: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

ALL’OMBRA DELLA TORRE SONO NUOVAMENTE ACCESSIBILI I RUDERI ROMANI SUI QUALI FU INNALZATA, FRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO, TOR BOACCIANA. UN PASSO IMPORTANTE VERSO IL RECUPERO COMPLETO DELL’AREA

I

l limite occidentale degli Scavi di Ostia è segnalato da Tor Boacciana, costruita probabilmente tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo sopra strutture di epoca romana (vedi «Archeo» n. 450, agosto 2022; on line su issuu. com). A sud-est della torre, in quella che sembra una modesta aiuola spartitraffico, si scorgono i resti di un antico edificio, resi finalmente visibili grazie a un intervento straordinario di potatura e sfalcio della vegetazione. La prima menzione di queste strutture risale al 1915, durante la costruzione della rampa di accesso al Ponte della Scafa. In quella circostanza l’assistente agli scavi Raffaele Finelli segnalò la presenza di solide strutture laterizie, che formavano vasti ambienti rettangolari digradanti verso est. Nella parte occidentale del complesso venne rimesso in luce un vano absidato, con le pareti rivestite di tubuli di riscaldamento, che Finelli In alto: le strutture murarie a sud-est di Tor Boacciana negli scavi dell’aprile 1915. A destra: il ninfeo a sud-est della torre negli anni Sessanta.

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Il ninfeo prima (in alto) e dopo l’intervento di pulitura e sfalcio. interpretò come balneum all’interno di una sontuosa abitazione privata. I lavori per la rampa furono ripresi nel 1919, prelevando la terra necessaria dagli ambienti a sud-est della torre, che, per la loro imponenza, furono interpretati come magazzini e poi attribuiti all’età traianea per il ritrovamento di numerosi mattoni bollati. Nei Giornali di Scavo Finelli annotò che l’area aveva «molto sofferto durante le devastazioni degli antichi cercatori di materiali»: in effetti, i ruderi presso Tor Boacciana erano stati piú volte esplorati dall’artista e diplomatico inglese Robert Fagan, il quale, tra il 1793 e il 1801, aveva ottenuto una licenza di scavo dal governo pontificio. Da questa zona provengono molte delle sculture che Fagan vendette ai Musei Vaticani e ai collezionisti di tutta Europa: tra queste, una menzione particolare spetta a una vera di pozzo marmorea con rappresentazione del mito di Narciso, di recente acquisita dal Metropolitan Museum di New York. Questa vera di pozzo, nota come «puteale Gosford» – dal nome della dimora scozzese dove è stata conservata fino al 2019 – si trovava in origine nello spiazzo a sud delle rovine, in corrispondenza di un pozzo ancora in funzione alla metà del XIX secolo. La realizzazione della moderna strada di accesso al

ponte aveva separato Tor Boacciana dai ruderi circostanti; nel 1938-40, l’apertura di via del Ponte di tor Bocciana provocò una cesura ancor piú dolorosa, con la definitiva separazione della torre e della vicina area archeologica dagli Scavi di Ostia. Le strutture archeologiche divennero difficilmente raggiungibili a causa del crescente traffico automobilistico, e la vegetazione si impadroní dell’area, nonostante i periodici sfalci attuati dall’allora Soprintendenza.

VASCHE ZAMPILLANTI Con il recente intervento di potatura è stato possibile accedere nuovamente all’edificio; un ulteriore intervento di pulizia e di rilievo è stato eseguito dall’Associazione speleologica A.S.S.O., sotto la supervisione dell’archeologo Davide Ivan Pellandra. L’intervento si è concentrato sulla parte occidentale dell’area: qui si è rimesso in luce un vano a pianta trilobata, con una profonda nicchia sul lato di fondo. La pianta articolata, il rivestimento delle pareti con malta a tenuta idraulica e la nicchia sul fondo hanno suggerito che si trattasse di un ninfeo; immagini d’archivio risalenti agli anni Sessanta mostrano che, di fronte al vano, erano presenti due vasche rettangolari rivestite di marmi, oggi

interrate, nelle quali l’acqua doveva zampillare gradevolmente. Le strutture sono in corso di studio e, al momento, risulta difficile stabilire la loro originaria articolazione: a giudicare dalla tecnica edilizia e dai ritrovamenti ceramici, sembra che siano state realizzate dopo il III secolo d.C., ricavando uno scenografico ninfeo affacciato sul mare all’interno di un precedente complesso di magazzini. La presenza di questo ninfeo conferma la vitalità del quartiere marittimo ostiense nella tarda antichità e si ricollega a recenti ritrovamenti avvenuti a poca distanza verso nord-est (la cosiddetta «area Palmucci») e verso Porta Marina a sud-est. In attesa che prossimi interventi sulla viabilità permettano l’accesso in sicurezza alle strutture, l’8 e il 9 agosto il Parco e l’associazione culturale Affabulazione hanno organizzato una visita guidata teatralizzata nell’area di Tor Boacciana, con la possibilità per la prima volta di accedere all’edificio. Nell’occasione è stato narrato un fatto storico avvenuto nel XIV secolo nei pressi della torre: il naufragio di un bastimento napoletano e il furto del carico da parte di Martino Stefaneschi, signore di Porto, che ebbe importanti conseguenze durante il tribunato di Cola di Rienzo. Dario Daffara

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n otiz iario

SCAVI Marche

LA VITA DI UNA GRANDE FATTORIA

U

n articolato complesso insediativo di epoca romana è venuto alla luce, grazie a indagini di archeologia preventiva, nel territorio del Comune di Fermignano (Pesaro e Urbino). L’area era già nota in bibliografia per la presenza in dispersione di un impressionante numero di reperti, di varia natura e genere, dai contenitori ceramici agli elementi architettonici e alle tessere di mosaico: a confermare la presenza di un antico insediamento erano anche le foto aeree e satellitari, che facevano rilevare allineamenti murari nettamente distinguibili su un’area di oltre 15 000 mq. Le trincee concentrate nella zona di progetto hanno dato esito positivo ed è stato attuato un ampliamento dell’indagine archeologica, al fine di valutare lo stato di conservazione e la natura dei resti archeologici. «Il saggio di scavo e la trincea di verifica – spiega Ilaria Rossetti, funzionaria archeologa responsabile di zona – hanno

intercettato almeno cinque ambienti con piú fasi di utilizzo, che vanno dalla primissima epoca imperiale fino almeno al V-VI secolo d.C., molto compromessi dalle fosse coltive e dalle arature moderne. In base alla tipologia delle evidenze e ai reperti mobili recuperati, i vani dovevano essere parte della zona di servizio di quella che potrebbe essere interpretata come un’estesa villa rustica. Il vano A, che probabilmente rappresenta il limite occidentale dell’intero complesso, è stato posto in luce all’interno della trincea. L’ambiente, di importanti dimensioni (8 m circa in senso sudovest/nord-est), era delimitato da due setti murari, di cui si conservano le fondazioni in pietra e uno o due corsi di un alzato murario realizzato in opera vittata (opus testaceum) con nucleo interno costituito da pietrisco e malta rosata. Il vano cosí delimitato presenta due livelli pavimentali, entrambi in cocciopesto, l’uno

In basso e nella pagina accanto: immagini degli scavi nel territorio di Fermignano (PU), che hanno portato all’individuazione di strutture pertinenti a una grande villa rustica di epoca romana. A destra: il frammento di un elemento ornamentale in marmo, in corso di scavo.

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sovrapposto all’altro senza soluzione di continuità, ma molto probabilmente pertinenti a due distinte fasi della struttura. Subito a est di questo ambiente, è stato indagato il vano B, quasi completamente spogliato in antico, il cui margine orientale doveva essere composto da una sorta di montante e forse da un graticcio entrambi lignei. La porzione piú orientale dello scavo ha messo in luce altri due ambienti: il vano D a nord e il vano C a sud. L’ambiente D, originariamente pavimentato in cocciopesto, venne diviso in due vani, con l’aggiunta di un setto murario intorno alla metà del II secolo d.C., come testimonierebbe il ritrovamento di una moneta di bronzo di età imperiale. Nello stesso momento, la pavimentazione originaria fu coperta da uno strato di terreno di riporto, nel quale furono deposti numerosi dolia defossa (grandi contenitori interrati, n.d.r.). Uno solo di questi contenitori è rimasto in sito, mentre alcune fosse circolari poste nei dintorni suggeriscono la collocazione di altri fondi di recipienti simili.


ROMA

Gladiatori al chiaro di luna

L’ambiente C, anch’esso pavimentato in una prima fase in cocciopesto e che probabilmente aveva in origine un comune utilizzo con il vano B, è connotato dalla presenza di un’area da fuoco nella sua ultima fase (V-VI secolo d.C.): si identifica un primo focolare, di forma circolare, a cui segue la realizzazione di un grande focolare di forma quadrangolare nello stesso punto, marginato da un cordolo in lastre di pietra calcarea poste di taglio e infisse in profondità. L’area del focolare possedeva certamente una copertura in tegole, trovate in crollo, in fase di abbandono. È possibile che questo fosse uno spazio per la cottura dei cibi e forse anche per la macellazione degli animali, per la presenza di resti di fauna con tracce di lavorazione. Su tutta l’area è presente anche un sistema di smaltimento delle acque mediante canalette laterizie sotterranee, costituite da tegole poste a doppio spiovente e poggianti sul lato lungo, a copertura di un piano di scorrimento anch’esso costituito da tegole alettate poste di piatto. Nell’area sono state inoltre eseguite prospezioni geofisiche al fine di verificare la compatibilità delle stratigrafie archeologiche con l’opera in progetto. Le indagini hanno evidenziato la presenza di anomalie lineari riferibili a murature sepolte, che delimitano

alcuni vani e che presentano orientamento analogo a quello delle strutture messe in luce nello scavo e quelle visibili dalle foto satellitari. All’interno dei vani la prospezione magnetica indica la presenza di forti anomalie positive, riferibili a probabili piani in cocciopesto o a concentrazioni di materiale fittile. Sono inoltre visibili anomalie con orientamento divergente, che potrebbero essere associate a fasi differenti. Purtroppo, al momento, non è possibile stimare lo sviluppo planimetrico dell’intero edificio: la porzione attualmente esposta è lunga almeno 20 m in senso nordest/sud-ovest, mentre l’indagine geofisica e le fotografie satellitari confermano un’estensione considerevole del complesso in direzione nord e est». L’intervento di archeologia preventiva è stato eseguito nell’ambito dei lavori di ampliamento del cimitero del Comune di Fermignano, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Ancona e Pesaro e Urbino. Gli scavi e le indagini geofisiche sono stati condotti dalla ditta specializzata Tecne S.r.l. di Riccione, coordinato dalle archeologhe Erika Valli e Laura Cerri, sotto la direzione scientifica della SABAP per le province di Ancona e Pesaro e Urbino. Giampiero Galasso

Sono riprese le visite notturne dell’Anfiteatro Flavio con l’iniziativa «Una Notte al Colosseo». Per questa prima edizione è stato organizzato un percorso guidato della durata di circa 60 minuti, che si sviluppa lungo il primo ordine del monumento, il piano dell’arena e i sotterranei. Programmate ogni giovedí, dalle 20,00 alle 24,00 (con ultimo ingresso alle 22,30), le visite sono riservate a un massimo di 25 persone per volta. L’itinerario è dedicato prevalentemente al racconto del Colosseo dal punto di vista degli spettatori e dei protagonisti degli spettacoli che si svolgevano nell’arco della giornata, tra cacce (venationes) e combattimenti gladiatorii (munera). La narrazione prosegue nei sotterranei, dove è possibile esplorare la nuova esposizione permanente «Spettacoli nell’Arena del Colosseo. I protagonisti», curata da Alfonsina Russo, Federica Rinaldi e Barbara Nazzaro. La mostra conserva i punti di forza della precedente esposizione temporanea «Gladiatori nell’arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus» e prevede un rinnovato allestimento permanente incentrato sui protagonisti degli spettacoli, ovvero i gladiatori e gli animali impegnati nelle venationes. Qui si può vedere la suggestiva proiezione olografica con i gladiatori che avanzano dal buio del criptoportico orientale andando incontro al loro destino sull’arena, assieme alle ricostruzioni delle armature riprodotte a partire dagli originali conservati nei principali musei italiani e internazionali. Info https://colosseo.it

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A TUTTO CAMPO Mara Sternini

QUANDO IL NUDO È DONNA SEPPUR FATICOSAMENTE, VA AFFERMANDOSI UNA NUOVA SENSIBILITÀ NEI CONFRONTI DELLA RAPPRESENTAZIONE DEL CORPO FEMMINILE. MA QUAL ERA, AL PROPOSITO, L’ATTEGGIAMENTO DEI GRECI E DEI ROMANI?

C

omunque nude. La rappresentazione femminile nei monumenti pubblici italiani è il titolo di un libro, curato da Ester Lunardon e Ludovica Piazzi per Mimesis Editore nel 2023, che analizza il nudo femminile nei monumenti di età contemporanea, presenti nelle nostre città. La ricerca è stata condotta all’interno del Collettivo Mi riconosci, che dal 2015 opera a livello nazionale per approfondire e informare il grande pubblico sui temi collegati al nostro patrimonio culturale. Poiché un monumento pubblico è inevitabilmente legato alle istituzioni, esso finisce per diventare una rappresentazione dell’autorità, nazionale o locale, in quel momento al governo. Si può quindi affermare, senza tema di smentita, che mettere una statua in un luogo pubblico è sempre un’operazione mirata a veicolare un messaggio. Qualora il soggetto rappresentato sia di sesso femminile, emerge però un ulteriore aspetto, espresso da una nudità che spesso stride con il significato dell’opera, perché spinta fino a un palese atteggiamento ammiccante, come nel monumento di Emanuele Stifano, dedicato alla Spigolatrice di Sapri, inaugurato nel 2021 e motivo di qualche recente polemica. Nonostante la

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figura sia vestita, l’artista ha volutamente accentuato le trasparenze del tessuto per mettere in evidenza seni e glutei, tanto da far apparire la protagonista piú una sensuale eroina uscita dalla matita di Milo Manara, che una povera contadina costretta, per sopravvivere, a raccogliere le spighe lasciate nei campi.

In basso, a sinistra: Sapri (Salerno): la Spigolatrice di Sapri, statua dello scultore Emanuele Stifano. 2021. In basso, a destra: Afrodite Cnidia, copia di età romana dell’originale di Prassitele (IV sec. a.C.). Città del Vaticano, Musei Vaticani. Nella pagina accanto: un kouros e una kore, opere della scultura greca di età arcaica. VI sec. a.C.


Il successo del libro, che probabilmente ha sorpreso le stesse curatrici, dipende senza dubbio dalla sempre maggiore sensibilità del pubblico (almeno quello femminile), verso l’uso improprio del corpo delle donne, dietro cui si cela, neppure tanto inconsciamente, un atteggiamento sessista, ancora diffuso nella società civile e percepibile ogni giorno sui social media e nella pubblicità. Non è un caso che di tutte le statue a soggetto femminile censite dalle curatrici (245 opere e 44 gruppi di figure anonime collettive), solo il 7% sia firmato da scultrici, mentre l’89% è opera di scultori di sesso maschile, e un numero molto esiguo è frutto della collaborazione tra artisti di sesso opposto.

ATLETI SENZA VELI Ma qual era l’atteggiamento verso il nudo femminile nel mondo classico? In primo luogo occorre ricordare l’importanza del corpo umano nella cultura greca, dove l’uomo era posto al centro del mondo come misura delle cose. In questo contesto il nudo era visto come un mezzo per rendere l’immagine del buon cittadino ed era prerogativa dei soli uomini. Si tenga presente, al proposito, che gli atleti spesso correvano nudi durante le gare, dopo una lunga preparazione molto simile a un rito di iniziazione. Se si osservano le sculture dell’età arcaica giunte fino a noi si può notare che le statue maschili (kouroi) sono nude, mentre quelle femminili (korai) sono sempre vestite, almeno fino al IV secolo a.C., quando Prassitele, uno dei massimi artisti del tempo, realizzò la celebre Afrodite Cnidia, detta Euploia (che rende favorevole la navigazione), ascrivibile al 364361 a.C. e acquistata dagli abitanti di Cnido (città della Caria, in Asia Minore, oggi in Turchia, n.d.r.) per uno dei loro santuari.

Secondo il racconto di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), l’artista aveva realizzato due versioni diverse della dea, una nuda e l’altra velata: la seconda identificabile forse con la copia conservata al Louvre, che gli abitanti di Coo preferirono alla prima, perché piú casta e austera. Ma la scelta si rivelò poco lungimirante, in quanto la prima versione, acquisita da Cnido, divenne subito famosa, come dimostrano le numerose copie giunte fino a noi. La scelta dell’artista di rappresentare la dea nuda permise di mutare la consuetudine di coprire il corpo femminile e la fama raggiunta dall’opera segnala che i tempi erano maturi per questo cambiamento. Non cosí nel mondo romano, dove il nudo non era visto di buon occhio, almeno fino a quando Roma non venne conquistata dall’arte greca. Le élites romane della tarda repubblica iniziarono,

infatti, a farsi rappresentare nella nudità eroica e la moda si diffuse presto anche tra i ricchi commercianti e le donne, perdurando fino all’età imperiale. Sia in Grecia che a Roma la nudità, tuttavia, non esaltava di solito la sensualità, ma serviva piuttosto a esaltare l’aspetto eroico del bravo cittadino, o la prestanza fisica dell’atleta vincitore, oppure il ruolo sociale della matrona romana, moglie virtuosa e madre di famiglia, capace di generare figli. Il nudo, insomma, era utilizzato come un «abito», col quale si poteva «vestire» la persona, per promuovere agli occhi dei contemporanei i tratti piú ammirevoli o nobili del soggetto ritratto. In questi casi togliere gli abiti non era una mera operazione di sottrazione, ma, al contrario, permetteva di aggiungere suggestioni strettamente legate agli ideali e ai valori di quella società. (mara.sternini@unisi.it)

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

TRACCE DI ANTICHI RITI LE RICERCHE CONDOTTE DA UN TEAM DELL’UNIVERSITÀ SVEDESE DI GÖTEBORG SCRIVONO UN NUOVO E INASPETTATO CAPITOLO DELLA LUNGA STORIA DI VULCI. RIVELANDO LA PRESENZA DEI RESTI, NEL CUORE DELLA CITTÀ, DI UN IMPIANTO MOLTO PROBABILMENTE DESTINATO AL CULTO

I

l sito di Vulci non smette di sorprendere: tre anni di campagne di scavo consecutive (2022-2024) hanno portato alla luce i resti di quello che, in via preliminare, vorremmo definire un complesso cultuale all’interno del perimetro urbano della città etrusca, finora sconosciuto. Sebbene siano certamente necessarie ulteriori indagini per ottenere un quadro organico d’insieme e una conoscenza approfondita dell’area, i risultati finora acquisiti permettono di proporre l’idea di un’area articolata e particolare a ridosso del margine

A destra: foto satellitare dell’area archeologica di Vulci con l’indicaizone delle aree indagate nell’ambito del progetto UUI (Understanding Urban Identity). In basso: una delle aree indagate dal team del progetto UUI.

orientale della città subito a nord di Porta Est. Il complesso possibilmente cultuale domina un suggestivo panorama sull’area di Ponte Rotto e sulla omonima necropoli monumentale al di là del sottostante fiume Fiora. Nel corso dei lavori sono emerse tre strutture o piattaforme in pietra, i resti di un possibile edificio a pianta rettangolare diviso in due ambienti di cui si conservano i resti del muro di fondazione anch’esso in pietra e i resti di un’ambiente rettangolare scavato accuratamente nel banco di siltite del pianoro di Vulci, di cui ancora non siamo in grado di dare

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un’interpretazione soddisfacente. Soprattutto, intorno alle piattaforme in pietra e all’interno del perimetro della struttura/ edificio, sono emerse tracce evidenti di attività sacrificali, che hanno contribuito significativamente a definire l’interpretazione proposta finora.

IL PROGETTO UUI L’Etruria meridionale è stata un’area di grande interesse per l’archeologia svedese del secolo scorso. Molteplici campagne di scavo nei siti di San Giovenale, Luni sul Mignone e Acquarossa hanno cosiderevolmente arricchito le nostre conoscenze del mondo villanoviano ed etrusco. Il progetto Understanding Urban Identity (UUI), mira ad aprire un nuovo capitolo e a contribuire, grazie a un innovativo approccio interdisciplinare, allo studio dell’Etruria meridionale protostorica ed etrusca con nuovi dati dalla città di Vulci. Le indagini del triennio 2022-2024 si sono concentrate su un’area del pianoro vulcente caratterizzata da una posizione strategicamente significativa in prossimità del suo margine nord-orientale, compresa tra la cosiddetta Acropoli, subito a nord, e il settore orientale del decumano discendente verso Porta Est, subito a sud. Dall’area prescelta si domina la sottostante zona di Ponte Rotto e si ha una vista privilegiata e diretta dell’omonima necropoli al di là della sponda sinistra del fiume Fiora e in particolare della Tomba François e del Tumulo della Cuccumella. Le campagne di scavo sono state precedute, tra il 2019 e il 2020, da prospezioni geofisiche, i cui risultati mostrano una zona moderatamente urbanizzata, essenzialmente priva di strutture monumentali e che potenzialmente conserva tracce di strutture urbane di epoca etrusca e forse anche precedente.

Un’altra immagine dello scavo, che ha restituito resti di un probabile impianto cultuale. Il progetto UUI è iniziato nel 2022 con una prima campagna, durante la quale sono state portate alla luce tre strutture o piattaforme circolari in pietra, la cui funzione non è ancora del tutto chiara, ma, alla luce dei confronti con elementi simili da altri siti d’Etruria appare di carattere rituale/sacro. Nel 2023 l’area di scavo è stata ampliata verso ovest e ha dato la possibilità di portare alla luce un edificio a pianta rettangolare (il Building A), la cui presenza appariva chiaramente anche nei risultati delle indagini geofisiche. I materiali rinvenuti sia nelle immediate vicinanze delle tre piattaforme che nel Building A sono affini e suggeriscono una datazione tra il V e il III secolo a.C. Nel 2024, un terzo ulteriore ampliamento ha permesso di scoprire l’intero perimetro del Building A e quello di una terza struttura perfettamente parallela a esso, ma di natura completamente differente. Quello che nei risultati delle indagini geofisiche sembrava un secondo edificio a ovest del primo è risultato essere un ampio e profondo spazio quadrangolare, tagliato nel banco roccioso, la cui funzione resta ancora da decifrare.

UN’ASSENZA INSPIEGABILE Al momento, ciò che ha maggiormente colpito i ricercatori e gli studenti dell’Università di Göteborg è la mancanza di chiare tracce di frequentazione posteriori alla conquista romana. È possibile che l’area sia stata abbandonata o lasciata in disuso dopo la conquista romana della città di Vulci nel 280 a.C., ma il dato rimane

sorprendente. Chiare tracce d’aratro sulla superficie delle pietre ancora in situ o del banco affiorante suggeriscono che i moderni lavori agricoli possano avere rimosso, nel tempo, gli strati superiori a quelli di fondazione messi in luce negli ultimi anni e fortemente limitato la possibilità di capire lo sviluppo di questo settore della città in periodi successivi al III secolo a.C. Le campagne di scavo 2022-2024 del progetto UUI hanno permesso di portare alla luce una situazione inaspettata e di grande interesse. Lo studio del materiale recuperato e i futuri scavi permetteranno sicuramente di comprendere meglio la natura dell’area e la sua destinazione d’uso. Per il momento l’idea di un complesso di natura cultuale appare la piú adeguata e interessante. L’esistenza di aree sacre non monumentali all’interno dell’impianto urbanistico vulcente, rinforzerebbe l’idea di una città articolata e complessa, in cui, a necessari isolati di carattere abitativo, dovevano alternarsi con una certa frequenza non solo le aree produttive, ma anche complessi di carattere religiosocultuale di vario tipo e funzione. Le ricerche sono dirette da Serena Sabatini dell’Università di Göteborg, Svezia, nell’ambito del progetto Understanding Urban Identity, che è anche responsabile della redazione dei risultati e ha collaborato alla stesura del presente articolo. Le operazioni sono supportate da Simona Carosi e Margherita Eichberg (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale) e Carlo Casi (Fondazione Vulci).

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ARCHEOEXPERIENCE AD AGRIGENTO PER VALORIZZARE I 14 PARCHI ARCHEOLOGICI DELLA SICILIA

Area archeologica di Agrigento, tempio dei Dioscuri

A

rcheoExperience nell’Isola dei Tesori, da giovedí 26 a domenica 29 settembre presso il Parco della Valle dei Templi, il Teatro «Luigi Pirandello» con l’Atrio del Comune e in dieci siti ecclesiastici e artistici del centro storico di Agrigento, è promosso e organizzato dall’Assessorato dei Beni culturali dell’identità siciliana della Regione Siciliana, con l’obiettivo di valorizzare le 14 aree dei Parchi Archeologici diffuse nell’intero territorio (Catania e della Valle dell’Aci; Gela; Himera, Solunto e Iato; Isole Eolie; Kamarina e Cava d’Ispica; Leontinoi; Lilibeo-Marsala; Morgantina e della Villa Romana

Gela, Mura timoleontee

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Area archeologica di Lilibeo

Area archeologica di Tindari


Area archeologica di Selinunte

del Casale di Piazza Armerina; Naxos e Taormina; Segesta; Selinunte, Cave di Cusa e Pantelleria; Siracusa, Eloro, Villa del Tellaro e Akrai; Tindari; Valle dei Templi).

Area archeologica e Antiquarium di Megara Hyblaea

Area archeologica di Morgantina

«Il patrimonio archeologico dell’Isola per vastità e ricchezza costituisce principio identitario fondante per la Sicilia e la sua storia antica e contemporanea»; inoltre, è tra le regioni con il maggior numero di siti nella Lista UNESCO, ben 7: Palermo Arabo-normanna e le cattedrali di Cefalú e Monreale; Siracusa e le Necropoli Rupestri di Pantalica; Valle dei Templi di Agrigento; Villa romana del Casale di Piazza Armerina; Isole Eolie, Monte Etna; Val di Noto, oltre a una serie di elementi appartenenti al patrimonio immateriale: l’Opera dei Pupi, l’arte del muretto a secco, la dieta mediterranea e la vite ad alberello di Pantelleria. L’iniziativa intende delineare un’attività di valorizzazione del patrimonio archeologico e di promozione dell’offerta culturale integrata in collaborazione con le organizzazioni datoriali e gli

Terme romane in Contrada Bagni, Centuripe

Area archeologica del Teatro Antico di Akrai

Lipari, Museo archeologico eoliano «Bernabò Brea»

Area archeologica di Segesta

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Taormina, teatro antico

Area archeologica di Solunto

operatori, tenendo conto non solo del contesto archeologico, culturale e paesaggistico, ma anche dell’attrattività turistica, dei prodotti locali, del patrimonio immateriale, degli eventi. Il programma è volto anche a intercettare, nei giorni dell’evento, il target del turismo scolastico, del turismo associativo, del turismo leisure organizzato e non, con

Area archeologica di Mezzagnone

la consapevolezza di promuovere esperienzialità e sostenibilità, anche con la realizzazione di buone pratiche a sostegno del patrimonio archeologico con il coinvolgimento regionale e provinciale delle Associazioni professionali, culturali di promozione sociale e dei Club di servizio. La scelta della destinazione dell’evento – l’antica Akragas fondata nel VI secolo a.C. sulla costa sudoccidentale della Sicilia con 2600 anni di storia aveva mura per una lunghezza di 9 km che racchiudevano un’area di circa 450 ettari – proclamata Capitale Italiana della Cultura 2025, trova nel sito UNESCO (nel 2023 il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi ha superato un milione di visitatori, quinto in Italia dopo il Colosseo, Pompei, gli Uffizi e il Museo Egizio) il principale motivo di notorietà a livello internazionale, suffragato anche dalla DEVU, la dichiarazione di eccezionale valore universale, che premia la qualità dei servizi offerti ai visitatori e il livello di accessibilità.

Ideazione e Direzione a cura di BMTA, Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, marchio registrato della Leader srl. Direttore dell’evento, Ugo Picarelli. La BMTA, che dal 1998 svolge a Paestum l’unico appuntamento al mondo dedicato al turismo archeologico, ha il pregio di aver focalizzato questo prodotto di nicchia e di aver avviato, dandone opportunità agli addetti ai lavori, confronti su ricerche e indagini con l’obiettivo di comprendere l’atteggiamento generale verso l’archeologia e approfondire la conoscenza sulle caratteristiche del viaggio a motivazione archeologica.

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

DI GUERRIERI, FANCIULLE E VENDITORI DI PORPORA... Protagonista della serie dedicata al connubio tra letteratura e 1 2 archeologia è, in questo numero, Emilio Salgari (1) uno dei piú famosi e prolifici scrittori italiani di avventure fantastiche ed esotiche (vedi alle pp. 78-85). Il romanzo in questione è Cartagine in fiamme, pubblicato nel 1908 (2, la prima edizione), dopo una apparizione a puntate su una rivista letteraria il cui direttore, per un certo periodo, fu proprio Salgari. La trama si svolge nei mesi precedenti la distruzione di Cartagine da parte dei Romani, alla fine della terza guerra punica (149-145 a.C.). Molto sinteticamente, tratta della storia tra Hiram, «guerriero numida con occhi e barba nera» (3), e 4 Fulvia, «giovane etrusca dalla pelle bianca» (4); c’è poi un’altra 3 fanciulla innamorata di Hiram, chiamata Ophir, «una giovane cartaginese dai lineamenti purissimi» (5), destinata dal padre a un ricco mercante, e non manca anche il «cattivo» Phegor, una spia astuta, innamorato di Fulvia e descritto come «un giovane dai lineamenti duri e spigolosi» (6). L’intreccio tra i vari personaggi, immersi nella realtà sociale, politica e militare della Cartagine del tempo, ricorda molto da vicino le vicende di Salammbô, oggetto dell’omonimo romanzo di Flaubert (7) 5 6 7 sicuramente letto da Salgari; anzi, come si legge nell’articolo, Cartagine in fiamme potrebbe anche esserne una continuazione ideale. Salgari cita diversi riferimenti storici, ma uno di essi fa discutere. Parlando di Hiram, dice che questi è «un cartaginese che salvò Annibale nella battaglia del lago Trasimeno (8) contro i Romani nel 217 a.C.» avvenuta ben 71 anni prima dell’epoca in cui è collocato Hiram e cioè alla fine 8 9 della terza guerra punica, verso il 146 a.C.. Escludendo un banale errore, perché Salgari ben conosceva le date corrette, l’unica spiegazione possibile è che volesse fare di Hiram un «eroe» e per questo glorificarlo come «salvatore di Annibale». Salgari ha espresso anche molti giudizi critici verso i maggiorenti di Cartagine, dediti ai commerci piú che alla difesa della città, fino ad apostrofarli in modo sprezzante come «venditori di porpora», alludendo alle loro origini 11 fenicie (9). Per concludere, lo scrittore veronese è passato ai 10 posteri soprattutto per i racconti di pirati, viaggi, tigri e tesori, come ben sintetizzato dalla vignetta del Poligrafico dello Stato (10); ma con questo romanzo si è guadagnato anche un posticino come IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteautore «storico». L’ultima curiosità è che Giovanni Pastrone, regista del riori chiarimenti o informazioni, si può scrivefamoso film muto italiano Cabiria, ebbe tra le sue fonti di ispirazione re alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche proprio Cartagine in fiamme e la scena iniziale è la stessa: Fulvia/ per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: Cabiria viene salvata dal sacrificio al dio Moloch da Segreteria c/o Luciano Calenda Hiram nel libro e dal personaggio Fulvio Axilla con Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa l’aiuto dello schiavo Maciste nel film, come si vede Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma dalla cartolina maximum con il francobollo italiano segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it oppure www.cift.it del 1996 dedicato appunto al film (11).

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CALENDARIO

Italia ROMA Teatro

GAVARDO (BRESCIA) L’età del Legno. 4000 anni fa al Lucone

Un museo per l’École

GUBBIO Interno Pompeiano

Autori, attori e pubblico nell’antica Roma Museo dell’Ara Pacis fino al 03.11.24 La collezione di antichità dell’École française de Rome École française de Rome, Galleria (piazza Navona, 62) fino al 20.12.24

DeVoti Etruschi

Da Veio a Modena e ritorno Museo delle Antichità etrusche e italiche. Sapienza Università di Roma fino al 31.03.25

Manufatti in legno e tessuti dal sito palafitticolo dell’età del Bronzo Museo Archeologico della Valle Sabbia fino al 31.12.24

Fotografie di Luigi Spina Palazzo Ducale fino al 06.10.24

ISERNIA La forma dell’oro

Storie di gioielli dall’Italia antica Museo Archeologico di Santa Maria delle Monache fino all’08.09.24

POMPEI L’altra Pompei

Vite comuni all’ombra del Vesuvio Parco Archeologico di Pompei,Palestra grande fino al 15.12.24

CARRARA Romana marmora

Storie di imperatori, dèi e cavatori CARMI, Museo Carrara e Michelangelo fino al 12.01.25

RIO NELL’ELBA (LIVORNO) Gladiatori

Museo Archeologico del Distretto Minerario fino al 01.11.24

COMO Il catalogo del mondo

Plinio il Vecchio e la Storia della Natura Ex chiesa di S. Pietro in Atrio e Palazzo del Broletto fino al 31.08.24

FORTE DEI MARMI (LU) Gli Egizi e i doni del Nilo Fortino Leopoldo I fino al 02.02.25 26 a r c h e o

SIRACUSA Il regno di Ahhijawa

I Micenei e la Sicilia Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» fino al 09.10.24

TORINO Trad u/i zioni d’Eurasia Reloaded

Frontiere liquide e mondi in connessione. Duemila anni di cultura visiva e materiale tra Mediterraneo e Asia Orientale MAO-Museo d’Arte Orientale fino all’01.09.24


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

La Scandalosa e la Magnifica 300 anni di ricerche su Industria e sul culto di Iside in Piemonte Galleria Sabauda, Spazio Scoperte fino al 10.11.24

Capolavori della Collezione Torlonia Museo del Louvre fino all’11.11.24

Nella Senna

Ritrovamenti dalla preistoria ai giorni nostri Crypte archéologique de l’île de la Cité fino al 31.12.24

Il Met al Louvre

Dialoghi di antichità orientali Museo del Louvre fino al 29.09.25

TRENTO Con Spada e Croce

Longobardi a Civezzano Castello del Buonconsiglio fino al 20.10.24

TRENTO SAN MICHELE ALL’ADIGE Sciamani

Comunicare con l’invisibile Palazzo delle Albere (Trento) METS-Museo etnografico trentino San Michele (San Michele all’Adige) fino al 06.10.24

NÎMES Achille e la guerra di Troia Musée de la Romanité fino al 05.01.25

Germania BERLINO Elefantina

Isola dei millenni James-Simon-Galerie e Neues Museum fino al 27.10.24

Paesi Bassi LEIDA Paestum

Città delle dee Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

TRIESTE Un tesoro ritrovato

Banditi e carovane sul Carso nel Medioevo Museo d’Antichità «J.J. Winckelmann» fino al 29.09.24

Francia PARIGI L’olimpismo

Un’invenzione moderna, un’eredità dell’antico Museo del Louvre fino al 16.09.24

Ville romane nel Limburgo Rijksmuseum van Oudheden fino al 25.08.24

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DA 16 C NO AP N OLA PE VO RD R ER I E

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

GLI IMPERDIBILI AVVENTURE, STORIE E MISTERI DI 16 CAPOLAVORI DELL’ANTICHITÀ

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n viaggio attraverso l’intero territorio italiano, seguendo un percorso dettato da sedici capolavori dell’antichità: è questa la proposta della nuova Monografia di «Archeo», nella quale sono riunite eccezionali espressioni della creatività e dell’estro artistico di maestri dei quali mai conosceremo i nomi, ma che, grazie all’archeologia, ci hanno lasciato testimonianze di altissimo pregio. Testimonianze che oggi sono fra i vanti maggiori dei musei pubblici e privati che le custodiscono e che, anche grazie a loro, come scrive Daniele F. Maras nella presentazione della Monografia, assolvono al compito di «conservare la memoria e raccontare la storia allo scopo di produrre nuova cultura (un compito che, per inciso, deriva direttamente dalla nostra Costituzione, quando dice che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, art. 9)». Dal raffinato rilievo della patera di Parabiago all’enigmatica bellezza delle statue stele della Lunigiana, dallo sfavillio dei bronzi di Cartoceto ai magnifici riflessi della Tazza Farnese, dalla quiete elegante del Sarcofago degli Sposi alle pose marziali delle statue di Mont’e Prama: un trionfo di forme e di colori, che vuol essere soprattutto un invito a vedere da vicino opere davvero «imperdibili».

GLI ARGOMENTI • PATERA DI PARABIAGO • STELE DEI VENETI • FEGATO DI PIACENZA • STATUE STELE DELLA LUNIGIANA • BRONZI DI CARTOCETO • CHIMERA DI AREZZO • GUERRIERO DI CAPESTRANO • SARCOFAGO DEGLI SPOSI 28 a r c h e o

• OLPE CHIGI • GUERRIERO DI LANUVIO • TAZZA FARNESE • MOSAICO DI ALESSANDRO • TOMBA DEL TUFFATORE • ZEUS DI UGENTO • VENERE LANDOLINA • STATUE DI MONT’E PRAMA



L’INTERVISTA • IMPERIUM

UNA DEFINIZIONE DI IMPERIUM? RESPONSABILITÀ E RISPETTO DELLE REGOLE… È possibile rintracciare le infinite connotazioni di un concetto – tanto astratto quanto concreto – come quello di «potere» nel mondo romano? L’impresa è stata affrontata nella recente fatica dello storico dell’antichità Giovanni Brizzi, partendo dall’analisi di un’espressione molto particolare e spesso fraintesa: imperium. Brizzi ne individua le origini in un’età addirittura precedente la nascita stessa dell’Urbe e arriva a descriverne la palingenesi verificatasi, circa otto secoli dopo, grazie alla genialità politica di Paolo di Tarso. Un percorso accidentato, scandito dalla presenza di tutti i grandi nomi della storia di Roma, da Furio Camillo a Cornelio Scipione, da Giulio Cesare ad Augusto, ai principi delle dinastie dei Flavi, Antonini e Severi, fino agli imperatori protagonisti dell’anarchia militare e oltre. Ne abbiamo parlato con l’autore incontro con Giovanni Brizzi, a cura di Andreas M. Steiner Disegno ricostruttivo ideale del Foro Romano in epoca imperiale: da sinistra, il tempio di Cesare, la Casa delle Vestali, la statua equestre di Vespasiano, il tempio di Castore e Polluce, la basilica Giulia; sullo sfondo, i palazzi imperiali del Palatino. 30 a r c h e o


♦P rofessor Brizzi, la sua «nuova» storia del potere a Roma si dipana alla luce di un riesame sorprendentemente nuovo di un’espressione che – per una certa opinione comune – al termine «potere» viene quasi a sovrapporsi, ovvero quella di imperium… Il libro vuol essere un tentativo da parte mia di confutare almeno in parte una serie di pregiudizi che affliggono Roma e il suo concetto di potere. Al contrario di quanto si crede di solito, penso che il termine moderno «imperialismo» solo indirettamente derivi dal latino imperium, nozione che presenta in

origine risvolti profondamente etici; credo, invece, che l’accezione odierna meglio si riallacci a taluni moduli degli imperi europei del XVIII e XIX secolo, che a quel lontano esempio ambirono, senza troppo riuscirvi, a somigliare. ♦S in dalle prime pagine del suo libro emerge come la parola imperium esprima un rapporto molto particolare, quello tra il potere nella sua accezione piú alta e l’idea di responsabilità. Ma quando nasce questo concetto? Anche se conosciamo il termine solo attraverso la

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L’INTERVISTA • IMPERIUM

L’autore Giovanni Brizzi è professore emerito dell’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna. Ha insegnato anche a Sassari, a Udine e alla Sorbona. È officier nell’Ordine delle Palmes Académiques dello Stato Francese, socio dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna, presidente della Deputazione di Storia Patria per le province di Romagna e direttore della Rivista Storica dell’Antichità. Tra le sue piú recenti pubblicazioni: per il Mulino, Ribelli contro Roma. Gli schiavi, Spartaco, l’altra Italia (2017) e Guerre ed eserciti nell’antichità (a cura di, con Marco Bettalli, 2019); per Carocci, Roma e i Parti. Due imperi in guerra (2022). Per Laterza, è autore di Scipione e Annibale. La guerra per salvare Roma (2007), 70 d.C. La conquista di Gerusalemme (2015) e Io, Annibale. Memorie di un condottiero (2019).

sua forma letteraria, diffusa attraverso una produzione scritta formatasi però ben cinque secoli dopo la nascita di Roma, l’esistenza di una funzione di questo genere, ovvero il comando esercitato su basi politico-religiose, può, secondo me, essere postulata già per un’età addirittura anteriore al 753 a.C. (anno in cui la tradizione colloca la fondazione della città di Roma, n.d.r.), quando quel termine forse definiva il sommo potere all’interno di entità ancora preurbane o protourbane, quali ad esempio le gentes, i grandi nuclei clanici plurifamigliari che concorsero poi all’origine della città.

♦N el primo capitolo del libro al concetto di imperium viene subito ad affiancarsi quello di fides. Qual è il rapporto tra i due termini? A fondamento imprescindibile della nozione di imperium si pone, quasi certamente ab origine, una serie di valori (dignitas, auctoritas, gratia…) che lo storico Giuseppe Zecchini ha definito «prestatuali». Tra questi, tutti auspicabili in chi è investito del massimo potere, ve n’è uno, nondimeno, che si colloca a base e presupposto di tutti i rapporti, al punto da essere, come vedremo, divinizzato assai presto: fides o, per tradurre nel modo piú semplice, il «rispetto delle regole». Di origiPianta di Roma antica pubblicata dall’Allgemeiner Historischer Handatlas di Gustav Droysen, 1886. Nella pagina accanto: cartina del mondo con, in evidenza, l’estensione dell’impero britannico nel 1886.

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ne antichissima, verosimilmente indoeuropea, questa astrazione è legata in modo indissolubile alla facoltà di comando del re o del magistrato, facoltà che dal costante rispetto di questa astrazione dipende. Al detentore dell’imperium – in pace e forse soprattutto nel caso di un bellum che si vuole sistematicamente iustum non solo in incipiendo, nell’intraprenderlo, ma anche nel gestirlo e nel porvi termine – fides impone l’osservanza di norme precise. Dapprima non scritte ma avvertite come fondamento di una societas primordiale, di una comunanza innata perché generata, secondo Furio Camillo, non… pacto humano (non da una qualsivoglia forma di convenzione tra uomini) ma dalla natura stessa, queste consuetudini precedono il diritto, che solo in seguito le definirà compiutamente.

gli originari legami superavano infatti i limiti territoriali e di appartenenza, che solo in seguito la città stessa si sarebbe dati, continuando a saldare insieme, in un’etica condivisa, le aristocrazie, prima quelle latine e, in seguito, quelle tirreniche; fino a quando le gentes di questo versante d’Italia non finirono, in sostanza, per riconoscersi nel nome di un valore che sarebbe divenuto la base stessa del piú vasto e complesso diritto dei popoli e avrebbe allargato la città-stato alla piú ampia dimensione della civitas. Assai presto inquilina, secondo la tradizione, del Campidoglio perché divinizzata fino dal regno di Numa, la Fides ricevette un tempio vero e proprio ad opera di un Romano acquisito, il Campano A. Atilio Caiatino al tempo della prima guerra punica (264-241 a.C.); un fatto che ne decretava una diffusione e un successo estesi ormai su scala italica. E l’importanza del culto e della sua funzione «etica» venne ulteriormente sancita dal fatto che il tempio dedicato a Fides fu, in seguito, destinato ad ospitare il testo di ogni trattato o convenzione ratificato nel tempo dalla res publica.

♦S i tratta, dunque, di un termine/concetto anteriore alla nascita stessa della città… …è un principio antichissimo che sostanziò ab origine quello ius gentium grazie al quale il nascente Stato romano poté prima mantenere e poi estendere i rapporti gentilizi fino ad arrivare alle prime, embrionali forme di diritto. Precedenti il sorgere della città, que- ♦ E dal concetto di fides, dunque, che in qualche

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maniera possiamo far emergere quello di civitas? Mentre la parola greca equivalente (politeia-polites) è formata sulla parola polis (anticamente ptolis), che propriamente significa «cittadella» (il che implica che per i Greci il cittadino è fondamentalmente l’abitante), la parola civis etimologicamente si riallaccia a termini indoeuropei che, come ha sottolineato il linguista Émile Benveniste (1902-1976), indicano l’idea di famiglia, di ospite ammesso nella famiglia, di amico. Civis è un termine che contiene l’idea di compagno: «propriamente significa non cittadino ma concittadino» ha ricordato Claude Nicolet (1930-2010). Sottolinea dunque una ben diversa apertura rispetto al mondo greco. A realizzare compiutamente questa solo apparente utopia contribuisce infine una geniale istituzione romana, la nascita dei municipia. Stati-città annessi alla res publica romana, i municipi fruiscono di quella che viene definita civitas sine suffragio (la «cittadinanza senza voto»), una condizione che per gli abitanti non rappresenta un premio (anche se «sono pur sempre cittadini» dicono alcuni), dal momento che comporta la perdita del potere giurisdizionale, tranne che per le cause mi-

nori, nonché di ogni autonomia in politica estera; inoltre gli abitanti dei municipia sono tenuti, in caso di necessità, a prestare servizio militare nelle legioni. D’altra parte, però, conservano istituzioni e magistrati loro propri, che rimangono alla testa delle rispettive città e continuano ad amministrarle. La lingua locale sopravvive, anche nel diritto; e le divinità cittadine continuano ad abitare le loro sedi, restando in loco. Si garantisce cosí a queste entità una sopravvivenza, nonché la possibilità di mantenere un’apprezzabile vita propria; e, soprattutto, si riesce a proporre alle singole comunità l’illusoria immagine di un’intatta autonomia. Prese vita in tal modo la situazione mirabilmente definita da Cicerone (De leg. 2, 2, 5), secondo cui ogni Romano aveva due patrie, una determinata dalla natura secondo il luogo di nascita, l’altra garantita dal diritto attraverso la cittadinanza. Questa però, all’inizio e fino al momento in cui non ebbero termine le contese con i socii italici nella prima metà del I secolo a.C., non era piena, restava comunque sine suffragio; sicché credo sia da accogliere la definizione del già citato Nicolet, secondo il quale Roma creò «conciliandola sapientemente con

In alto: Il Trionfo di Furio Camillo, affresco di Francesco Salviati, 1545. Firenze, Palazzo Vecchio. A destra: Muzio Scevola e Porsenna, olio di Bernardo Cavallino, 1650 circa. Fort Worth, Kimbell Art Museum. 34 a r c h e o


l’autonomia locale delle leggi e dei costumi, (...) una concezione originale del diritto di cittadinanza, non duplice (perché la civitas Romana escludeva qualsiasi altra civitas, quanto meno se quest’ultima era indipendente), ma sdoppiata o, se si vuole, a due livelli». ♦M a cosa comporta l’istituzione dei municipia, garanti – come Lei ci ha spiegato – della cittadinanza sine suffragio, per l’evoluzione della storia del potere a Roma? Agli occhi dei ceti piú umili nulla era cambiato con la nuova condizione. Le élites locali, invece, ben consapevoli del mutamento, sapevano ora di avere, di fatto, la via spianata verso la cittadinanza optimo iure, una cittadinanza «di pieno diritto». Dovevano per questo accettare di trasferirsi a Roma, il solo luogo in cui si votasse e si potesse intraprendere un’autentica carriera politica al livello piú alto. A questo fine, ai municipes maschi provenienti dalle diverse aristocrazie locali era assicurato uno ius conubii che replicava un’antichissima norma castale in grado di consentir loro giuste nozze con una nobile romana; godevano poi di uno ius commercii che

La fides nell’episodio di Mucio Scevola La fides ha risvolti e prefigura scenari addirittura decisivi sul piano di ogni rapporto, oltre che tra individui, tra gruppi, comunità, infine Stati. Si può partire dall’episodio, illuminante e notissimo, di Mucio Scevola. Durante l’assedio di Roma ad opera di Porsenna, Mucio penetra occultamente nel campo etrusco celando un’arma sotto la veste, ma pugnala per errore il tesoriere del re; catturato e condotto di fronte al sovrano per essere interrogato, il Romano lascia bruciare la mano destra su un braciere, per dimostrare (...) la sua insensibilità ai tormenti. Ovviamente leggendario, l’episodio va riletto in chiave simbolica (...) la destra è, nella cultura romana, consacrata alla Fides (...) della quale la mano rappresenta il santuario corporeo (...) e il gesto di Mucio, che espone al fuoco dell’altare la mano nuda, cela il ricordo della punizione rituale inflitta a un sacrilego o, meglio, ad un violatore della fides.

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IL «TARLO» DELL’AMBIZIONE PERSONALE Con Scipione nel dibattito circa la natura del potere comincia a insinuarsi di nuovo, in misura assai superiore al passato, il tarlo di un’ambizione personale destinata a crescere fino a sfociare nella genesi dell’impero. Il mutamento comincia ad avvertirsi appieno con colui che, nell’immaginario antico, è il piú grande e glorioso tra i generali dell’Urbe prima di Cesare; e che del cesarismo è, appunto, destinato a divenire una sorta di emblema e di precursore ideale. Assai piú che collettive, le virtú di cui le fonti piú tarde, e in particolare la narrazione liviana, coronano il vincitore di Annibale, paiono attagliarsi in effetti ad un singolo, straordinario protagonista. Oltre all’indomito coraggio (...) alla fede nella fortuna, non sua bensí della res publica (...), da lui mantenuta anche nei giorni piú cupi (...), Scipione si segnala per una comitas, un’amabilità che colpisce persino i nemici (...); per la modestia (...); per la temperanza con cui affronta le contese verbali con gli avversari politici, anche del calibro di Quinto Fabio Massimo (...). Infine per la moderatio, la capacità di conservare misura e saggezza (...), e la maiestas, la nobiltà e la dignità in atti e portamento.

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In alto: la clemenza di Scipione dopo l’assedio di Cartagena, olio di Nicolas Poussin, 1640. Mosca, Museo Puškin. Nella pagina accanto a destra: ritratto di epoca moderna (XVI sec.) raffigurante Giulio Cesare. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.

garantiva proprietà sicura in Roma, nonché la compravendita, persino di terreni e di immobili; e, infine, di uno ius migrandi che concedeva l’approdo al voto e l’accesso ad una carriera politica fino al livello piú alto, resa di solito agevole dalle nuove alleanze, soprattutto matrimoniali, acquisite in città.. Cosí, i vantaggi reciprocamente assicurati dalla civitas sine suffragio superavano di molto il semplice fatto, per quanto prezioso, di salvar l’apparenza delle autonomie locali. Ciò che piú a lungo contò, agli occhi della res publica e delle sue élites, secondo me, fu la possibilità di integrare nuovi membri alla classe dirigente romana e di stabilire una proficua simbiosi con le diverse aristocrazie periferiche. I nuovi arrivati, spesso destinati a divenire, attraverso il matrimonio, consortes imperii, e dunque partecipi in Roma del potere che piú contava, costituivano però anche una garanzia per le gentes d’origine; le quali, già influenti a loro volta nei centri di provenienza, stabilivano una preziosa simbiosi con la realtà egemone, divenendone partecipi e vedendo a loro volta garantiti da quella gli equilibri interni alle rispettive città.


In basso, in senso antiorario: busto in marmo di Scipione Africano (?, Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek); copia in gesso di un ritratto maschile convenzionalmente identificato con Lucio Cornelio Silla (Monaco di Baviera, Gliptoteca); busto in marmo di Gneo Pompeo Magno (I sec. a.C., Venezia, Museo Archeologico).

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Testa della statua togata di Augusto «capite velato», raffigurato, cioè, come pontefice massimo, intento a celebrare un sacrificio, da via Labicana, a Roma. Inizi del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

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Il gran cammeo di Francia, con l’apoteosi di Tiberio e della madre Livia, seduti al centro della scena. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: trascrizione delle Res Gestae Divi Augusti incisa, in età moderna, su una delle pareti del basamento realizzato per la prima musealizzazione dell’Ara Pacis e conservata nella struttura che oggi accoglie il monumento. Il testo, un resoconto redatto dallo stesso imperatore delle imprese compiute nel corso della sua vita, ci è noto grazie alla versione in lingua latina incisa sulla parete del pronao del tempio di Augusto e Roma ad Ancyra (l’odierna Ankara, in Turchia).

♦A l termine imperium è, naturalmente, legato quello di imperator. Ma come nasce e come si evolve l’accezione di questo termine? A lungo conferito quasi soltanto dalle truppe ad ogni comandante che si fosse segnalato per vittorie particolarmente insigni, l’appellativo di imperator segna l’origine – con il primo che secondo la tradizione ne fu insignito, Publio Scipione Africano – di una proiezione del potere verso dimensioni sempre piú personali. Seneca, in una sua lettera a Lucilio, ha parole esplicite di condanna di fronte alle ambizioni di Publio: «ci doveva esser Scipione o Roma in libertà (...) Era inevitabile che o Scipione recasse oltraggio a Roma, o Roma a Scipione». Cosí andò, in effetti; e Scipione chiuse la sua vita a Literno. Eppure il fenomeno era destinato a riproporsi con sempre maggiore frequenza e in proporzioni crescenti. La rivoluzione sociale e politica, segnata dalla nascita di un esercito professionale al servizio di capi militari sempre piú liberi da ogni controllo – e che il diffondersi a dismisura del dominio romano scioglieva ormai di necessità dal vincolo collegiale e dal limite annuale

delle cariche – mise i magistrati cum imperio in grado di scavalcare il popolo, rivolgendosi sempre piú alla sua espressione armata, le clientele militari; mentre i problemi della plebe, degli Italici e delle provincie da un lato, il contatto con i modelli ideologici d’Oriente, ispirati ad un concetto monarchico e addirittura teocratico del potere dall’altro, crearono sempre nuovi «signori della guerra». Quelli tra loro che sorsero tra il 90 e il 31 a.C. e che proprio grazie al fatto di essere imperatores giustificavano le loro ambizioni personali, furono infine spinti verso una serie di conflitti intestini capaci di mobilitare in un coinvolgimento sempre maggiore le diverse fazioni che ormai laceravano la res publica. Cosí Silla, che già aveva nelle sue mani un incontestato potere monarchico ma vi rinunciò in nome di un’utopica restaurazione di modelli passati; o Pompeo,

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che però, forse, quel potere semplicemente non seppe raggiungere; o, ancora, Cesare, che volle e seppe impadronirsene ma, incapace di creare le strutture e le basi ideologiche destinate a perpetuarlo, lo perdette insieme con la vita. Riuscí invece a renderlo stabile colui che fu, secondo l’efficace espressione di Christian Meier (Giulio Cesare, Garzanti Milano, 1993), «non solo il piú scaltro, crudele, perspicace e flessibile dei capi della guerra civile, ma anche il fondatore della monarchia, duro e prudente, paziente e risoluto»: Ottaviano Augusto, un uomo capace di fornire al nascente, nuovo regime – quello che, appunto, chiamiamo «Impero» – una straordinaria impalcatura ideologica, che avrebbe avuto duraturi e fondamentali riflessi nella storia dei secoli successivi, forse persino sull’impostazione data al potere terreno dal pensiero cristiano.

La necessità, sottolineata da Tacito, di mettere in nome della pace «tutto il potere nelle mani di uno solo», accettata nel segno dell’esigenza ormai diffusa della securitas (che è non solo sicurezza, ma – come indica la sua derivazione da sine cura – prima rifiuto e poi rinuncia, accettata come inevitabile, della politica attiva) confliggeva però con il carattere intimamente aristocratico (nel senso piú genuinamente romano del termine, che sottintende un «governo dei migliori», eticamente intesi) della morale romana. Inoltre, il problema, subito evidente al cospetto di un regime che si sapeva destinato a durare, era quello della successione. Chiusa nel sangue di una guerra civile (negli anni 68/69, dopo la morte per suicidio di Nerone, si contendono la guida gli imperatori Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano, n.d.r.) la prima età dell’impero – che aveva visto il potere essere in pratica «l’eredità ♦ E cosa accade, allora, al potere, una volta diven- di una sola famiglia» (ancora Tacito) –, la soluzione tato, con lo «scaltro» Augusto, ufficialmente dinastica era stata di fatto riproposta dal vincitore Vespasiano, che aveva creato, mascherandoli sotto la «imperiale»? Ritratto in marmo di Traiano, da Ostia. Monaco di Baviera, Gliptoteca. Nella pagina accanto: a sinistra, busto in marmo

e alabastro di Settimio Severo (II-III sec. d.C); a destra, busto in marmo di Massimino il Trace (III sec. d.C.). Roma, Musei Capitolini.

UN PRINCIPE LONTANO DAGLI SFARZI Il nuovo principe [Traiano] non era infatti solamente un uomo d’armi; in lui pareva coesistere anche il vertice delle virtú civili. Certo, egli continuò anche nella maturità a praticare l’addestramento fisico, gareggiando spesso con i suoi stessi soldati; ma, di gusti semplici e alieno da ogni ostentazione di sfarzo e di magnificenza, egli era giudicato «virtuoso, irreprensibile e in tutto simile agli dei» (...), era ostentatamente lontano dall’immagine di intellettuale raffinato che avrebbero poi amato offrire di sé uomini come Adriano o come Marco Aurelio; ma era anche tutt’altro che avverso alla cultura e all’intelligenza, in qualunque forma queste si esprimessero. Semplicemente, era

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un altro il modello che egli intendeva incarnare; e delegava quindi la cura di ogni iniziativa nel particolare campo del sapere, letterario artistico o filosofico che fosse, alla moglie, Pompeia Plotina, e a Licinio Sura, l’amico piú fedele, che era non solo un abile politico, ma un letterato di vaglia (gli scriveva i discorsi) (...) e un uomo provvisto di altissima eruditio (...). Guidato da lui, il seguito del principe avrebbe annoverato ben presto figure di spicco quali Dione di Prusa e Frontino; Plinio il Giovane e Nerazio Prisco, il giurista cui il princeps sembra avere addirittura pensato per la successione; il sommo architetto Apollodoro di Damasco e altri talenti ancora.


L’ORGOGLIO DEI VIRI MILITARES Una categoria di uomini vi era, nondimeno, al cui interno sopravvivevano, tenaci, le piú nobili tradizioni della Roma repubblicana; e nei cui ranghi andava, per conseguenza, sviluppandosi sempre piú, come secondo termine di un’equazione politica consolidata da secoli, la convinzione che il potere dovesse inscindibilmente associarsi alla responsabilità, e dovesse quindi spettare di diritto ai suoi esponenti. Era la già ricordata categoria dei viri militares. Forse inconsapevole delle conseguenze che sarebbero derivate dalla sua azione, Settimio Severo

aveva provveduto a gratificare in ogni modo, oltre ai semplici soldati, anche sottufficiali e ufficiali. E, se alcune delle misure da lui adottate (come il diritto, conferito persino ai principales – una particolare categoria di militari di truppa, esenti dalle corvées –, di portare l’anello d’oro, tipico in passato dei cavalieri) non erano che concessioni formali, riferite a privilegî in sostanza scomparsi o sminuiti dal tempo; altre, dettate per lo piú da autentiche considerazioni di opportunità, venivano ad assumere un ben diverso significato.

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finzione giuridica della sua lex de imperio, i presupposti per la successione prima dell’uno, poi dell’altro suo figlio. Finita anch’essa con l’uccisione dell’ultimo esponente, il tirannico Domiziano, l’impero aveva conosciuto quell’età che Edward Gibbon (1737-1794, autore della monumentale Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, n.d.r.) giudicò la piú alta nella storia dell’umanità, quella degli imperatori adottivi. ♦ Sorvoliamo le molte altre declinazioni del potere che Lei tratta nel Suo libro – dall’aristocrazia dei viri militares, alla dinastia dei Severi, al ruolo svolto da Massimino il Trace, primo tra i cosiddetti imperatori soldati – per approdare a un tema particolarmente significativo, cui sono dedicate le ultime sessanta pagine, il rapporto tra potere imperiale e cristianesimo... 42 a r c h e o

Malgrado l’opinione corrente, la propensione teocratica del cristianesimo (nata dall’asserto di Paolo secondo cui omnis potestas a Deo, «ogni potere viene da Dio») e il sostegno ideale – sempre e convintamente offerto dalla nuova fede a una successione imperiale di tipo dinastico – metteva i suoi adepti al riparo da persecuzioni sistematiche ogni qual volta sul trono sedeva un autocrate o anche solo un principe deciso ad assicurare la successione ai figli. L’unica significativa persecuzione «di Stato» verificatasi prima del III secolo, quella sotto Nerone, fu un evento episodico nato da un motivo particolare, l’incendio di Roma attribuito ai cristiani, che fece dichiarare illicita la nuova fede. Certo, non mancarono, in seguito, processi in sede locale, voluti da governatori zelanti in ossequio alla legge neroniana, mai abrogata; quegli attacchi, però, furono sempre iniziative individuali, frutto di un


tradizionalismo, pervicace e un po' ottuso, e della sostanziale ostilità di un intero corpo sociale, la classe senatoria. Non si trattò di «violenza di Stato». Nel nome di Paolo il cristianesimo seppe offrire quasi costantemente un forte sostegno ideologico alla monarchia; e da questa di norma venne prima in sostanza rispettato e spesso addirittura protetto, poi definitivamente adottato fino a divenire religione di Stato. ♦Q uali furono, allora, le circostanze che segnarono un mutamento sostanziale dei rapporti tra cristianesimo e impero? Furono i Soldatenkaiser, gli imperatori soldati, che, con Decio,Valeriano e poi soprattutto Diocleziano, rifiutarono la soluzione dinastica, a scatenare, sul finire del terzo secolo, le sole vere, grandi persecuzioni. Anch’essi però, malgrado una reazione, durissima e in fondo disperata, erano sempre piú in difficoltà nei confronti del cristianesimo, e risultarono infine sconfitti, poiché vincente era il modello politico opposto al loro. Nel segno di quell’uguaglianza che Paolo aveva proclamato nella Lettera ai Galati, la nuova fede filtrava ogni forma di carità per il tramite di Gesú («ogni volta che avrete fatto questo a uno dei miei fratelli piú piccoli, sarà come se l’aveste fatto a me», Matteo 25,3-46) e prometteva una ricompensa a venire a chi ne seguisse i precetti. Rispetto al carattere aristocratico delle grandi idealità filosofiche era portatrice di un messaggio assai piú comprensibile e facile ad accettarsi, per la prima volta indirizzato alla gente comune, che dei Vangeli era destinataria; e che, priva delle certezze riservate ai piú fortunati, di speranza soprattutto aveva bisogno.

il potere è Dei gratia, dunque indiscutibile in sé. Altrettanto geniale e definitiva è poi la scelta di porre al centro della storia non Augusto (o un altro imperatore), che, malgrado tutto, resta un uomo, ma il Logos, il Verbo incarnato, che è Dio stesso da prima del tempo; un tempo di cui, in tal modo, Paolo orienta definitivamente la freccia: tramontata la concezione circolare che ne avevano gli antichi e ormai impossibile il ritorno dell’età dell’oro (redeunt Saturnia regna, «ritornano i regni di Saturno», cosí Virgilio nella quarta egloga), il tracciato di Aion, il «Tempo Infinito», è puntato in avanti per sempre. ♦S ono tre le anime del «genio di Tarso»: quella ebraica, la greca e la romana; quanto, secondo Lei, pesa in lui quest’ultima? Mentre quella del Maestro di Nazareth è un’ottica trascendente («il mio regno non è di questo mondo»), nelSulle due pagine: L’incendio di Roma, il 18 luglio del 64 d.C., olio di Hubert Robert, 1785. Le Havre, Musèe d’art moderne André Malraux. In basso: Il trionfo di Tito, olio su tavola di Sir Lawrence Alma-Tadema.1885. Baltimora, The Walters Art Museum.

♦S e Paolo fu il vero inventore del cristianesimo o, almeno, il suo «secondo fondatore», fu anche un politico eccelso, ispirato forse dal genio dello stesso Augusto. Quali, secondo Lei, le sue intuizioni piú significative in tema di «potere»? Tra le tante, forse la sua soluzione politica definitiva, destinata in seguito ad essere adottata per secoli, fino alla Rivoluzione francese e oltre, è quella secondo cui a r c h e o 43


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la sua Lettera ai Romani Paolo, lealissimo civis Romanus legittima appieno il dominio di Roma. Egli non solo conferisce un avallo assoluto al potere dell’Urbe, che divinizza fino a ogni sua emanazione funzionale, ma sostiene che persino gli esecutori dell’atto piú abominevole per ogni Giudeo, l’esazione delle imposte, sono «servitori di Dio» (Rom. 13, 1-2; 4; 6). Giustifica cosí 44 a r c h e o

l’eventuale repressione da parte di Roma, adombrata nella menzione di un elemento, la spada, che ricorda implicitamente il potere dei governatori imperiali di sancire le condanne capitali tramite lo ius gladii. La signoria di Roma riceve in tal modo un’investitura incondizionata e con caratteri addirittura trascendenti: omnis potestas a Deo, ogni potere viene da Dio. Ripu-


DUE CONCEZIONI DIVERSE DELLA SACRALITÀ DEL POTERE Sacra, e addirittura di origine divina per il cristianesimo era, lo si è visto, la natura stessa del potere: un aspetto proclamato fino dall’asserto in nome del quale Paolo aveva sostenuto, alle sue stesse origini, che pâsa exousía, omnis potestas, provenisse ineluttabilmente a Deo, da quella divinità di cui era emanazione ed espressione al tempo stesso. Ma questa posizione dottrinale, e anche a ciò si è accennato, non era solo cristiana: nel segno di coordinate latamente analoghe Roma si era confrontata già, e fino dai suoi primi contatti, con un Oriente il quale, culla di infinite teocrazie, faceva da sempre piover grazie senza limiti sul capo di re i quali erano dèi o proiezioni del divino in terra. Certo, sacro il potere lo era anche per i Romani, e lo era stato da sempre; ma qual era la differenza tra le due concezioni? Quella stessa, io credo, che intercorre tra la felicitas, salda e autentica, «senza infingimenti» (Val. Max. 7,1), figlia del merito, e la Fortuna, che, indipendentemente dal merito, premia «a caso i buoni e i malvagi» (August., Civ. Dei 4,18); come già si è detto, nel primo caso solamente l’uomo contribuisce a decidere il proprio destino. In alto: statua di San Paolo in piazza San Pietro a Roma. Nella pagina accanto: Conversione di San Paolo (o Conversione di Saulo), olio su tela di Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1600-1601. Roma, basilica di S. Maria del Popolo, cappella Cerasi. A sinistra: San Paolo scrivente, illustrazione tratta da una versione manoscritta delle Lettere di San Paolo. Inizi del IX sec. Stoccarda, Württembergische Landesbibliothek.

diando poi, per aprire alle genti, la circoncisione, Paolo mette la nuova fede al riparo dal rischio di una collisione con l’impero che invece avverte prossima con il giudaismo. Quando scrive le sue Lettere, l’ebreo Saulo si firma Paolo, e si professa implicitamente romano; infine (a malincuore, probabilmente, e solo in occasione dell’ultimo ritorno a Gerusalemme) rinuncia a salvare il giudaismo, varandone verso il mondo per salvarla la costola cristiana. Le sue intuizioni segneranno, com’è noto, i secoli a venire. PER SAPERNE DI PIÚ Giovanni Brizzi, Imperium. Il potere a Roma, Editori Laterza, Bari-Roma 2024 a r c h e o 45




ARCHEOLOGIA RUPESTRE • LE COLOMBAIE

DOVE VOLANO I COLOMBI CENTINAIA DI PICCOLE NICCHIE SCOLPITE SULLE PARETI DELLE GROTTE: I COSIDDETTI «COLOMBARI» O «COLOMBAIE» SONO UNA PRESENZA DIFFUSA ANCHE NELLE TERRE DELL’ETRURIA TOSCO-LAZIALE. EPPURE, LE IPOTESI CIRCA LA LORO REALE FUNZIONE SONO, FINO A OGGI, ANCORA INCERTE. UNO STUDIO RECENTE, CHE QUI PRESENTIAMO, APRE INVECE A UNA PROSPETTIVA NUOVA E... CONVINCENTE di Giuseppe Moscatelli e Giacomo Mazzuoli

L

a Tuscia rupestre è un paradiso archeologico di incontaminata e selvaggia bellezza, anche se, purtroppo, in tempi recenti sono stati proposti progetti di impianti per la Il colombario rupestre sull’Isola Bisentina, nel lago di Bolsena.

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produzione energetica che potrebbero stravolgere e distruggere gran parte di questo territorio ancora vergine. La sua conformazione geologica, frutto di una incessante e


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ARCHEOLOGIA RUPESTRE • LE COLOMBAIE

caotica attività vulcanica – che per oltre ottocentomila anni ha avuto come esito il riversamento di flussi piroclastici su versanti, vallate e pendii – ha favorito lo scavo delle necropoli da parte degli Etruschi, che trovarono nel tufo – roccia che è appunto di origine vulcanica – il materiale ideale a questo scopo, grazie al suo essere resistente e, al tempo stesso, facilmente lavorabile. Da allora, senza soluzione di continuità, gli abitanti di questa terra hanno continuato a modellare il territorio, scavando sepolcreti, cisterne, romitori e chiese rupestri; scolpendo colombaie, vasche lustrali e pestarole; erigendo are, monu-

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menti funebri, insediamenti e opifici; realizzando condotti idraulici, bottini, gallerie, cunicoli e cantine, che testimoniano una pratica che si è protratta fin quasi ai nostri giorni.

IL PRIMATO DELL’ETRURIA Tra queste emergenze le colombaie rupestri costituiscono senz’altro una singolarità archeologica, poco nota e ancor meno studiata, nonostante la loro ampia diffusione. Infatti, sebbene sporadici esempi siano attestati anche in altre regioni d’Italia – come in Sicilia, in Puglia e nell’appennino emiliano – l’Etruria meridionale resta la patria delle colombaie (o colombai che dir si voglia),

in virtú di una quantità e una concentrazione che non trova eguali altrove; nonché di una conformazione geologica ricca di pareti rocciose che, precipitando a picco su fiumi e fossi, hanno generato profondissime e umide forre di ineguagliabile bellezza paesaggistica. E proprio sull’alto di queste pareti, in epoca non ben precisata, sono state scavate grotte massicciamente scolpite di nicchie la cui origine e funzione sono state e sono tutt’oggi oggetto di discussione. Entrare per la prima volta in una di queste strutture vuol dire immergersi nella fascinazione di luoghi di incomparabile suggestione. Nella


Cartina dell’Etruria meridionale nella quale sono evidenziate le località in cui sono attestati i colombari citati nel testo. In basso, sulle due pagine: il colombario romano rupestre a Falerii Novi (presso Civita Castellana), in località Cavo degli Zucchi.

Todi

Acquapendente

Grosseto Scansano

Orvieto Grotte di Castro

Sovana Manciano

Lago di Bolsena

Pitigliano

Bolsena

Isola Bisentina

Castro Albinia

Bomarzo Pescia Romana

Porto Ercole

Mar Tirreno

Vallerano Civita Castellana Falerii Novi

Vetralla

Montalto di Castro Tarquinia

Narni

Orte

Viterbo

Tuscania

Terni

Amelia

Blera

Sutri Fiano Romano

Tolfa Lago di Bracciano

Civitavecchia Santa Marinella

Cerveteri

Ladispoli Fregene

Veio

Roma

Qui sopra: particolare del mosaico nilotico di Palestrina nel quale si vede una torre per l’allevamento dei colombi, con gli uccelli stessi che svolazzano intorno alla struttura. II sec. a.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 51


ARCHEOLOGIA RUPESTRE • LE COLOMBAIE A sinistra: cellette per incinerazione e arcosolio per inumazione in una tomba della necropoli romana di Sutri.

colombaia rupestre di Monte Bisenzio a Capodimonte, per esempio, sul lago di Bolsena, la geometrica trama di fitte cellette scolpite su tutte le pareti della grotta, come pure sul setto centrale risparmiato, definisce e delimita ambienti in cui tutto converge verso l’abbagliante finestrone a picco sul lago, una sorta di frastagliata cornice che inquadra il verde profilo dell’Isola Bisentina. L’oscur ità impenetrabile dell’antro avvolge, come in un abbraccio onirico, la visione dell’isola inondata di luce, linea di confine tra cielo e lago, nel palpitio di infinite gradazioni di azzurro.

SEPOLCRETI O COLOMBAIE? Si riteneva un tempo, e molti tuttora ritengono, che questa e analoghe strutture, scavate a centinaia sulle rupi e sulle scarpate rocciose un po’ 52 a r c h e o

ovunque nella Tuscia, fossero antichi sepolcreti etrusco-romani e che le cellette fossero adibite alla deposizione di urne cinerarie. Questa diffusa quanto opinabile considerazione ha purtroppo contribuito alla svalutazione di tali emergenze nel sentimento comune, come pure nell’interesse degli studiosi: la Tuscia, e piú in generale l’Etruria meridionale, presentano una tale ricchezza di tombe monumentali e grandiose necropoli che i rustici colombai rupestri non sono mai stati oggetto di particolare considerazione e studio. Occorre arrivare all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso per trovare il primo meritorio lavoro scientifico sul tema: Colombari e colombaie nell’Etruria rupestre, una fondamentale, seppur compatta, monografia pubblicata nel 1981 da Stefania Quilici Gigli, archeologa e ri-

A destra, sulle due pagine: la cosiddetta Spezieria di Porta Capena, a Veio, un colombario romano rupestre.


ni, e non di sepolcreti etrusco-romani, adibiti quindi alla deposizione di urne cinerarie, non era ancora cosí netta e definita. Pesavano le tesi di archeologi di fama: maestri come Raymond Bloch (19141997), che per conto della Scuola PARERI FUORVIANTI All’epoca la percezione che si trat- Francese di Roma condusse scavi a tasse di colombaie, ovvero di luoghi Bolsena dai primi anni dell’ultimo destinati all’allevamento dei piccio- dopoguerra all’inizio degli anni cercatrice che per prima, coadiuvata da esperti locali, è entrata in una cinquantina di colombari e colombaie della Tuscia censendoli, misurandoli e fotografandoli.

Sessanta, come pure di accademici di riconosciuta autorevolezza quali Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975). Il primo qualificava come «pittoresca e vasta camera funeraria» un grande colombaio individuato a Bolsena, in località Rebuttano; il secondo giudicava tale un colombaio di Vitozza, abitato medievale nei pressi di Sorano

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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ARCHEOLOGIA RUPESTRE • LE COLOMBAIE

(Grosseto), suffragando l’ipotesi con la presenza nell’ipogeo di un manufatto a suo parere utilizzato per l’incinerazione dei defunti. L’equivoco di fondo risiede nel fatto che i Romani edificarono sí «colombari», intesi come sepolcri destinati a contenere in apposite urne le ceneri dei defunti, ma questi nulla hanno a che fare con le colombaie rupestri, che, a questo punto, vanno appunto definite colombaie o colombai al fine di evitare confusioni, 54 a r c h e o

e come in effetti erano già stati definiti da Quilici Gigli. I Romani praticavano l’allevamento dei colombi, realizzato in edifici appositamente costruiti in torri colombaie e non in grotte rupestri scolpite di nicchie come in Etruria. Ne abbiamo esempio nel famoso mosaico del II secolo a.C. raffigurante scene nilotiche e conservato a Palestrina, nel quale è riprodotto un edificio con parte terminale a cono adibito a colombaia, come dimo-

strano le tipiche cellette di cui è dotato e lo svolazzare dei colombi tutt’intorno (vedi a p. 51).

I COLOMBARI ROMANI I «colombari» funerari romani costituiscono una particolare tipologia di monumenti funebri, che si diffuse tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., con la realizzazione di tombe ipogee o semi-ipogee, talora monumentali, sulle cui pareti venivano ricavate file di piccoli loculi in


Il colombario rupestre di Vallerano che reca incisa la data del 1471 su una parete interna, sopra la volta del cunicolo d’ingresso.

cui erano riposte le urne cinerarie dei defunti. Le celle dei colombari romani sono piú grandi rispetto a quelle delle colombaie rupestri e la loro disposizione è piú ariosa e regolare. La nicchia presenta spesso un incavo in cui inserire stabilmente l’urna cineraria. Talora vi si rilevano tracce di intonaco e decorazioni pittoriche, bassorilievi in stucco, come pure formelle con iscrizioni onomastiche relative al defunto.Venivano costruiti preferibilmente in prossimità, se non adiacenti alle vie consolari, anche per motivi di prestigio e visibilità. Tra gli esempi piú significativi possiamo annoverare i colombari di Vigna Codini, situati tra la via Appia e la via Latina nei pressi delle mura Aureliane; cosí pure il colombario di Pomponio Hylas, sempre sulla via Latina. Sulla via Appia sorgeva quello di Livia Drusilla, tra i piú monumentali, con ben cinquecento locu-

li. Oggi completamente distrutto, ad attestarne la maestosità restano le incisioni di Pier Leone Ghezzi e Giovanni Battista Piranesi. Anche nella Tuscia non mancano esempi di colombari romani: vari sono ubicati a Sutri, uno a Oriolo Romano, uno a Musarna e tre a Falerii Novi, sulla via Amerina, in località Cavo degli Zucchi. Quest’ultima, in particolare, è la tipica strada consolare romana, utilizzata anche a fini cimiteriali, con la creazione di sepolture ai suoi lati. Tra i numerosi ipogei, molti dei quali riutilizzati in epoche successive per usi agricoli, troviamo appunto due colombari rupestri di tipo funerario, con le celle ad arcosolio per la deposizione delle olle cinerarie. Il terzo è individuabile in una tomba a camera, poco dopo i ruderi del ponte sul rio Maggiore, che presenta sul pavimento alcune fosse per la sepoltura e sulle pareti le tipi-

A destra: una tomba etrusca trasformata in colombario rupestre a Sovana, in località Valle Bona.

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ARCHEOLOGIA RUPESTRE • LE COLOMBAIE

LE COLOMBAIE RUPESTRI Destinate all’allevamento dei piccioni, le colombaie rupestri si trovano invece per lo piú in prossimità di insediamenti rupestri di età medievale o successiva, in posizione elevata, su rupi scoscese e difficilmente

che si affaccia sulla valle, per consentire ai piccioni di entrare e uscire in autonomia. Tale finestra era in origine di dimensioni tali da impedire l’accesso agli uccelli predatori, anche grazie all’inserto di grate di legno o in ferro. A causa dei crolli delle pareti frontali e delle demolizioni dovute ai riutilizzi, oggi le finestrelle originarie sono abbastanza rare. All’interno, posizionati simmetricamente a una medesima altezza su pareti contrapposte, si trovano frequentemente fori idonei all’inserimento di trespoli con funzione di posatoi a servizio dei piccioni. Addirittura, in alcune colombaie di Grotte di Castro ogni cella è affiancata da un piccolo foro in cui inse-

accessibili. Agli ambienti, di uno o piú vani, interamente scolpiti con nicchie a uso dei colombi, si accede quasi sempre da uno stretto cunicolo laterale, tale da poter consentire l’ingresso a chi accudiva gli uccelli senza disturbarli. È sempre presente una finestrella

rire un posatoio ligneo per uso esclusivo di ogni volatile. I cunicoli di accesso alla colombaia erano di frequente forniti di due porte, una all’esterno e l’altra all’interno della grotta, al fine di impedire agli uccelli disorientati di fuoriuscire dal cunicolo.

che celle ad arcosolio, simili a quelle già menzionate. Anche a Sutri, nella necropoli rupestre di epoca romana che costeggia la consolare Cassia, vi sono colombari romani affini a quelli già descritti del Cavo degli Zucchi. A Oriolo Romano, infine, integrato nel moderno centro abitato, là dove transitava l’antica via Clodia, si trova un colombario romano ipogeo ben conservato con arcosoli ed edicole.

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A sinistra: un colombario rupestre di forma semicircolare riusato come cisterna a Grotte di Castro. In alto, sulle due pagine: un colombario rupestre a Castro.


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Altro elemento ricorrente delle colombaie rupestri è quello relativo alle pareti esterne, che si presentavano intonacate e lisciate in prossimità delle finestre per contrastare l’accesso di animali predatori, quali roditori o serpenti. Risulta ben evidente a questo pun-

to che i colombari romani siano impianti ben diversi da quelli che abbiamo appena descritto: dal punto di vista architettonico, strutturale e soprattutto funzionale. In nessuna colombaia rupestre dell’Etruria meridionale sono mai stati rinvenuti cinerari integri o frammenti cera-

mici a essi riferibili, né, tanto meno, incisioni onomastiche, dati anagrafici o un qualsiasi altro indizio che attesti un preciso periodo storico e una funzione funeraria certa. Ciononostante, l’idea secondo cui la destinazione delle cellette scavate sulle pareti delle colombaie a r c h e o 57


ARCHEOLOGIA RUPESTRE • LE COLOMBAIE

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rupestri fosse quella di contenere le olle cinerarie dei defunti, ancora resiste.

A QUANDO RISALGONO? La datazione delle colombaie è un problema complesso e il potenziale ambito cronologico è decisamente ampio. A nostra conoscenza, tra tutte le colombaie della Tuscia, in un solo caso è rilevabile la presenza di una data, ovvero il 1471: è incisa su una parete interna, sopra la volta del cunicolo d’ingresso, e si trova a Vallerano, nella colombaia posta sulla rupe che si affaccia sulla riva destra del fosso Canepina, proprio dirimpetto alla grotta dei Finestroni e all’altra colombaia detta dei Quadratini. Questo unicum tuttavia (vedi foto a p. 54), proprio per il fatto di essere tale, non aiuta piú di tanto nella definizione del problema. Ammesso infatti che l’incisione sia originale, Sulle due pagine: l’interno di un colombario rupestre a Tuscania, in località Sasso Pizzuto. In basso, nel riquadro: un colombario rupestre a Sovana. L’assenza di riferimenti precisi e il lungo utilizzo nel tempo rendono problematica la datazione di simili strutture.

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ARCHEOLOGIA RUPESTRE • LE COLOMBAIE

non è detto che essa sia coeva alla realizzazione dell’ipogeo. Potrebbe infatti riferirsi allo scavo della grotta poi riutilizzata quale colombaia o essere stata realizzata in un qualsiasi momento successivo. Sono invece frequenti nelle colombaie le cosiddette croci scacciadiavoli, per lo piú di epoca medievale, incise dai pellegrini o viaggiatori in transito, che trovavano in questi ambienti temporaneo rifugio per il riposo o per trascorrere la notte. La loro funzione è di natura evidentemente apotropaica: con l’incisione di croci si santificava il luogo che incuteva potenzialmente paura per fugare possibili spiriti avversi o maligni. Tuttavia, neanche la presenza di questi segni consente una sicura datazione: le croci possono solo testimoniare che in età medievale le cavità in cui sono incise già esistevano, ma nulla depongono sulle

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cellette, che potrebbero quindi essere di epoca antecedente come pure successiva.

IL RIUSO DELLE TOMBE ETRUSCHE Maggior aiuto forniscono le colombaie ricavate nelle tombe etrusche a camera. Questo tipo di riuso consentiva di risparmiare tempo e fatica agli scavatori: le pareti sulle quali realizzare i nidi erano già presenti, ben lavorate e levigate; bastava aprire una finestrella, adeguare l’accesso, rimuovere le banchine se presenti, e scavare le cellette. Se necessario, si poteva ampliare ulteriormente la cubatura scavando nella direzione consentita dalla natura dei luoghi. Sono in proposito documentati colombaie ricavate in tombe etrusche arcaiche (VI-V secolo a.C.), come a Barbarano Romano, in località Campecora; cosí pure di epoca ellenistica (IV-II secolo a.C.),

come a Sovana, in località Valle Bona. La trasformazione e riuso di quest’ultima tomba potrebbe risalire a non prima del I secolo a.C., in piena età romana, se non a epoca ancor piú recente. È infatti inverosimile che in terra etrusca si potessero dismettere e quindi profanare luoghi ritenuti sacri dopo un tempo relativamente breve rispetto alla loro realizzazione. Analoghe considerazioni valgono per le tombe di età arcaica. La conclusione che si può trarre dall’analisi del riuso di tombe etrusche è quella di poter escludere quantomeno datazioni ante quem, prima delle quali cioè si può ragionevolmente sostenere che non fossero Particolare di un colombario rupestre ad Acquapendente, nella cui parete è scolpita, a bassorilievo, una conchiglia.


ancora state trasformate in colombari. Il periodo suddetto potrebbe oscillare tra il II e il I secolo a.C. Ogni datazione successiva potrebbe risultare congrua. Un altro elemento in grado di fornire utili indicazioni, seppur non risolutive, sulla datazione delle colombaie rupestri è dato dal fatto che molte di quelle conosciute sono pertinenti a insediamenti di età medievale, il che potrebbe ragionevolmente far supporre che la loro realizzazione sia avvenuta in quell’epoca. È tuttavia opportuno rilevare che, nei medesimi siti, è documentata una continuità di presenza antropica che va dal periodo etrusco, se non villanoviano, a quello romano e successivo.

PENE SEVERE Un ulteriore supporto all’ipotesi dell’appartenenza all’epoca medievale viene dal fatto che, a partire dalla fine del XIV secolo, iniziano a comparire negli statuti comunali riferimenti espliciti alle colombaie.

L’accuratezza delle norme e le sanzioni, talvolta di estrema gravità, previste per chi disturbava, rubava, uccideva i piccioni o danneggiava gli ambienti, fanno ben comprendere l’importanza, non solo economica, attribuita da quelle comunità all’allevamento dei colombi. Lo statuto del comune di Bagnoregio del 1373 contiene norme e prevede pene assai rigorose per chi distrugge o rovina colombaie, cattura piccioni o li trasferisce in altri comuni. Per i trasgressori che non avessero provveduto al pagamento delle pene pecuniarie si prospettavano addirittura il taglio della mano e la pubblica fustigazione. Queste dure sanzioni sono evidentemente legate all’importanza economica che l’allevamento dei piccioni assumeva in un’epoca in cui la scarsità di risorse era tale da poter compromettere la sussistenza stessa delle fasce piú deboli della popolazione. La carne dei colombi consentiva infatti un’alimentazione di elevato apporto

Resti di un colombario rupestre ricavato in un masso di peperino a Bomarzo. Come il tufo, si tratta anche in questo caso di una roccia di origine vulcanica, che ha la proprietà di essere robusta e al tempo stesso facilmente lavorabile.

proteico e calorico anche alle classi piú povere. Alquanto pregiato risultava pure il guano prodotto nelle colombaie, impiegato quale fertilizzante nelle colture agricole. Piú tardi ne sarà valorizzato anche il potenziale industriale: le condizioni ambientali delle colombaie infatti, caratter izzate da scarsa ventilazione ed elevata umidità, unitamente agli accumuli di guano, favorivano la formazione del salnitro o nitrato di potassio. In epoca medievale questo composto veniva utilizzato come conservante per gli alimenti, ma, a partire dal XV secolo, se ne scoprirà la potenzialità distruttiva, quale componente essenziale della polvere da sparo. Ulteriori elementi di datazioa r c h e o 61


ARCHEOLOGIA RUPESTRE

ne possiamo ricavare dalle possibili ipotesi di classificazione, che offriamo qui di seguito ai lettori.

TIPI E SOTTOTIPI Appare probabile che le differenti tipologie di colombaie rupestri siano riferibili a epoche diverse. Considerato infatti che simili strutture, come da documentate memorie, sono rimaste in uso anche oltre il XVIII secolo e sino in età pressoché contemporanea, si configura, con riferimento al loro utilizzo, un arco temporale di parecchi secoli, in cui esigenze produttive e stili costruttivi hanno senz’altro comportato modifiche e innovazioni. Il nostro approccio al problema si esplicita in una proposta di classificazione che fa riferimento alla forma e alla disposizione delle cellette da un lato e al tipo di pianta dell’ipogeo dall’altro. Distinguiamo cosí, con riferimento al primo criterio, 5 tipi e 11 sottotipi. I «tipi» prendono in considerazione la forma delle cellette che possono essere: quadrate (le piú diffuse), a cupola, triangolari, a casetta e circolari (assai rare). I «sottotipi» si distinguono invece per disposizione e densità delle cellette, che possono presentarsi in file regolari o sfalsate, piú o meno fitte, rade e talora irregolari, come da tabella.

Forme e disposizione La proposta degli autori di classificazione dei colombari rupestri in base alla geometria delle cellette. Sono state distinte le forme ricorrenti (quadrata, a cupola, triangolare, a casetta e circolare), definendo ulteriori categorie in base all’allineamento e alla densità delle cavità.

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Ia File regolari fitte

Id File sfalsate rade

IIa File regolari fitte

IId File sfalsate rade

Ib File regolari rade

Ie File sfalsate molto rade

IIb File regolari rade

IIe File irregolari

Ic File sfalsate fitte

If File irregolari

IIc File sfalsate fitte

Tipo III a triangolo

Tipo IV a casetta

Tipo V circolare


UNA SUMMA DELLA QUESTIONE

Non sono rari i casi di colombaie in cui coesistono due o piú tipi o sottotipi, e non è facile attribuire un significato funzionale alla forma delle cellette, che potrebbe anche avere motivazioni di carattere semplicemente estetico. Per quanto concerne la loro varia disposizione, è probabile che quelle sfalsate garantissero una miglior tenuta e durata rispetto a quelle scavate in file regolari, soprattutto in ambienti caratterizzati da rocce piú friabili. Cosí pure la scelta di ridurne l’affollamento potrebbe essere legata a ragioni di sostenibilità igienico sanitaria nei confronti di una

Il colombario rupestre di Monte Bisenzio, sul lago di Bolsena.

La realizzazione del volume Opera columbaria – frutto di tre anni di lavoro sul campo tra macchie, forre e dirupi – ha portato gli autori a percorrere passo passo tutta la Tuscia: dai limiti settentrionali in territorio toscano, a quelli orientali umbri, fino alle propaggini meridionali nella campagna romana. La ricerca affronta per la prima volta in modo organico il tema delle colombaie rupestri, adibite cioè all’allevamento dei piccioni, in rapporto con i colombari romani, destinati invece alla deposizione di urne cinerarie. L’equivoco consisteva nel qualificare anche le colombaie d’allevamento come strutture cimiteriali etrusco-romane, fraintendendone sia la funzione che la datazione. Con abbondanza di riferimenti storici, documentali e archeologici, gli autori indirizzano in modo pressoché incontrovertibile il dibattito sull’ipotesi di ambienti di età prevalentemente medievale destinati all’allevamento dei colombi. Il volume, di grande formato e ricco di oltre 450 pagine che localizzano, descrivono e classificano ben 242 colombari, si avvale di un apparato iconografico ricco di centinaia di foto a colori e appositamente realizzate e si avvale della autorevole presentazione di Stefania Quilici Gigli. È acquistabile su tutte le piattaforme web e all’indirizzo mail redazione@canino.info Giacomo Mazzuoli e Giuseppe Moscatelli, Opera Columbaria. Colombari e colombaie nella Tuscia rupestre, Associazione Canino Info Onlus, 2023

specie, quale il colombo, piuttosto delicata e che necessita di ambienti puliti e curati. Un allevamento intensivo, con tanti volatili ammassati in piccoli spazi, poteva comportare infezioni o malattie tali da decimare la popolazione della colombaia, con

danni economici non indifferenti. Ciò detto, il rapporto tra queste e altre possibili ipotesi di classificazione e una datazione univoca e coerente richiede ancora un lungo lavoro di studio e ricerca di cui si intravedono appena i primi esiti. a r c h e o 63


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PLINIO E IL CATALOGO DEL MONDO

IL 2023/2024 È UN BIENNIO RILEVANTE PER LA STORIA ITALIANA ED EUROPEA: SI CELEBRANO I DUEMILA ANNI DALLA NASCITA DI GAIUS PLINIUS SECUNDUS, PLINIO IL VECCHIO, NATO A COMO NEL 23 D.C. E IMPOSTOSI COME FIGURA CRUCIALE DEL PROCESSO DI SVILUPPO CULTURALE EUROPEO. LA SUA NATURALIS HISTORIA NON SOLO È LA PIÚ ANTICA «ENCICLOPEDIA» GIUNTA FINO A NOI, MA È ANCHE UNA DELLE PIÚ SIGNIFICATIVE OPERE DELL’ANTICHITÀ. UNA MOSTRA ALLESTITA NELLA SUA CITTÀ NATALE RIPERCORRE LE VICENDE DELL’ILLUSTRE «COMENSE», METTENDO IN LUCE LA STRAORDINARIA FORTUNA DELLA SUA OPERA ATTRAVERSO I SECOLI E LA SUA ATTUALITÀ NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA di Gianfranco Adornato, con un contributo di Gian Biagio Conte

«I

l mio cammino si svolge per una via non percorsa da altri autori, né tale che l’animo provi il desiderio di spaziarvi: nessuno fra i nostri scrittori che abbia tentato una simile impresa, nessuno tra i Greci che, da solo, abbia trattato tutte le parti dell’argomento. Negli studi, noi cerchiamo generalmente gli aspetti dilettevoli: le questioni invece che, affrontate da altri, sono ritenute di estrema sottigliezza, restano sommerse dalla misteriosa oscurità dell’argomento. Io mi propongo di toccare tutti

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i settori che, per i Greci, compongono la cultura enciclopedica; e tuttavia alcuni di essi sono sconosciuti, o mal certi per gl’ingegni che vi si dedicano, mentre altri sono stati divulgati da tanti autori, che sono venuti a noia. È compito arduo dare una veste nuova ad argomenti triti, conferire autorità a quelli che si trattano per la

prima volta, nuovo splendore a quelli desueti, chiarezza a quelli oscuri, attrattiva a quelli noiosi, e insomma rendere a tutti la loro natura e alla natura tutto ciò che le appartiene. Perciò, anche se non si consegue lo scopo, averlo perseguito è già impresa sufficientemente bella e gloriosa» (Prefazione 14-15).

In alto: Plinio il Vecchio in una incisione tratta da Grande Illustrazione del Lombardo Veneto... di Cesare Cantú. Milano, 1859. Nella pagina accanto: installazione di Fabio Viale, con il suo Laocoonte (marmo bianco e pigmenti, 2020) davanti alla medievale Porta Torre di Como.


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MOSTRE • COMO

Fin dall’introduttiva epistola dedicatoria a Tito – associato al potere imperiale da Vespasiano a partire dal 71 e contubernalis (compagno d’armi, letteralmente soldato romano che alloggiava «con altri nella stessa tenda», n.d.r.) di Plinio il Vecchio durante il servizio nella Germania Inferior –, Plinio intende dare conto e valore del suo novicium opus, ritagliandosi uno spazio tutto proprio, personale, per l’impresa tentata: l’imponente opera, infatti, rappresenta una novità sostanziale nel panorama dei generi letterari fino a quel momento praticati in Grecia e a Roma, e una rottura significativa rispetto alla tradizionale suddivisione dei generi medesimi, nonostante la dichiarata assenza di originalità («i libri che ti dedico sono un’opera di scarso valore», pref. 14). Sotto questo punto di vista, nel catalogare sapere e scienza della natura, la Naturalis Historia e il suo autore si pongono come un ponte tra mondi e culture distanti, tra forme letterarie diverse, tra nozioni non sempre conciliabili tra loro, tra autori externi, principalmente Greci, e auctores di lingua latina, accuratamente menzionati in fondo all’indice generale e al contenuto di ciascun libro. È lo stesso Plinio, inoltre, a sugge-

Qui accanto: ritratto in marmo di Augusto. Seconda metà del I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino. A destra: un particolare dell’allestimento della sezione della mostra in cui sono riuniti i ritratti di vari imperatori romani. Nella pagina accanto, in basso: replica in gesso del busto di Plinio il Vecchio collocato nella facciata del Duomo di Como.

rire come leggere e consultare l’opera, fornendo a Tito il contenuto dei singoli libri: «Essi [i lettori] non dovranno infatti leggere integralmente l’opera, ma, quando avranno bisogno di una notizia, ciascuno potrà cercare solo

CHI ERA PLINIO IL VECCHIO? Gaio Plinio Secondo nacque a Como nel 23 (o 24) d.C., da una famiglia equestre. Educato a Roma, intraprese la carriera militare; fu ufficiale di cavalleria in Germania, ai tempi di Claudio; sotto Vespasiano, di cui fu amico, ebbe l’incarico di procuratore imperiale in varie province. Nel 79 comandava la flotta militare a Miseno, e, quando si ebbe l’eruzione del Vesuvio, andò incontro alla fine rievocata in questo articolo. La sua morte è descritta, in una famosa lettera a Tacito (vedi box alle pp. 76-77), dal nipote, Plinio il Giovane. Da quest’ultimo apprendiamo anche altri particolari sulla biografia e sulla personalità di Plinio il Vecchio (integro ufficiale, appassionato e infaticabile studioso e ricercatore), nonché l’elenco delle opere. Scrisse due ampie storie, una in 2 libri dedicata alle guerre dei Romani in Germania, l’altra in 31 libri sull’impero, un manuale sulla formazione dell’oratore (per noi perdute) e la superstite, amplissima Naturalis Historia, in 37 libri. (red.)

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quella e saprà dove trovarla (pref. 33)». Non casualmente, nella Prefazione Plinio menziona le parole e il giudizio di Domizio Pisone per definire la propria opera come «magazzini, non libri»: in aperta polemica con illustri autori, come Tito Livio, che avevano anteposto il vantaggio di piacere (gratiae placendi) ai lettori all’utilità stessa dell’opera (utilitatem iuvandi). Proprio questo specifico carattere, non sistematico ma metodico, e l’ampiezza della trattazione hanno costituito nella storiografia e nel corso dei secoli la sua fortuna e sfortuna, il pregio e il limite dell’opera, l’utilità e il difetto dei trentasei libri.

UNA CARRIERA PRESTIGIOSA Novocomensis (ovvero «di Como» da Novum Comum, nome con cui Cesare battezza la città dopo la sua rifondazione nel 59 a.C., n.d.r.), Gaius Plinius Secundus, noto come Pli-


nio il Vecchio, nacque nel 23 o 24 da una famiglia di rango equestre e morí all’età di 55 anni durante l’eruzione del Vesuvio del 79, mentre era di stanza in qualità di ammiraglio della flotta a Miseno. «Acre ingenium, incredibile studium, summa vigilantia», come lo descrive Plinio il Giovane, svolse attività forense, ricoprí cariche di grande responsabilità e intrattenne rapporti con gli imperatori. Sebbene non sia possibile ricostruire con sicurezza il suo cursus honorum, fu praefectus cohortis nella Germania Inferior, durante la campagna militare di Domizio Corbulone contro i Cauci nel 47, successivamente nella Germania Superior al seguito di Pomponio Secondo e nuovamente nella Inferior come praefectus alae, dove fu compagno del futuro imperatore Tito. Sappiamo da Plinio il Giovane che lo zio e padre adottivo compose altre opere prima della Naturalis Historia, spaziando quanto a genere a r c h e o 69


MOSTRE • COMO Pompei. La Casa del Labirinto (VI 11, 9) e, nella pagina accanto, a sinistra, la Casa della Caccia (VII 4, 48) antica fotografate da Luigi Spina nell’ambito del progetto Interno Pompeiano.

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LA FORTUNA DELLA NATURALIS HISTORIA Dai 20 000 fatti degni di nota ricavati dalla lettura di circa 2000 volumi di 100 autori scelti, gli esegeti, fin dalla tarda antichità al Medioevo al Rinascimento, fino ai giorni nostri, hanno attinto ed estrapolato informazioni con puro spirito di consultazione, cercando di ricostruire opere letterarie completamente perdute e note talvolta grazie alla sola menzione fatta da Plinio medesimo. Già dal II secolo la Naturalis Historia ricevette attenzione da parte di autori, come Aulo Gellio e Apuleio, mentre dal III secolo l’opera, proprio per le dimensioni del testo

e l’abbondanza di informazioni, venne antologizzata ed epitomata, come nel caso dei Collectanea rerum memorabilium di Solino (Gaio Giulio Solino fu uno scrittore romano del III secolo d.C., n.d.r.), o, successivamente, delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia e del De rerum natura di Beda il Venerabile (monaco anglosassone vissuto tra VII e VIII secolo). Intorno al V secolo risalgono i piú antichi manoscritti (pochi fogli di pergamena o codici palinsesti) della Naturalis Historia, che testimoniano la fortuna e la diffusione dell’opera in Europa.

Ecco, questa è la Naturalis Historia: non libri, ma un thesauros, alla greca, un edificio sacro apparentemente di modeste dimensioni, dotato di imponenti apparati decorativi e ricco di offerte votive, dedicato alla divinità come dimostrazione di prosperità o come atto di devozione. Da leggere per intero o per estratti, da contemplare e ammirare… In alto: Natural History II, collotipie e litografie a colori di Cy Twombly. 1975-1976. Collezione privata Famiglia Di Cosmo.

letterario e tematico. Mentre prestava servizio militare, Plinio scrisse il trattato Tecnica per lanciare il giavellotto da cavallo, in un libro; in due libri era la Vita di Pomponio Secondo, uomo politico, erudito, tragediografo, «di costumi raffinati e di grande intelligenza», lo descrisse Tacito (Annali 5 8 2); Le guerre germaniche, in 20 libri, sono un’opera storica sollecitata dall’apparizione in sogno di Druso Nerone, morto a Mogantiacum (l’odierna Magonza, n.d.r.) in Germania, e dalla volontà di preservare la a r c h e o 71


MOSTRE • COMO

LA RINASCITA DI PLINIO Fu il rinvenimento del gruppo del Laocoonte il 10 gennaio del 1506, nella vigna di Felice de Fredis sul colle Oppio, a restituire affidabilità e credibilità al racconto pliniano: Plinio, infatti, ricordava il gruppo scultoreo in «Titi imperatoris domo», una delle opere d’arte piú eccezionali dell’antichità, realizzata da Agesandro, Polidoro e Atenodoro di Rodi (36 37). La scoperta e

l’acquisto dell’opera d’arte da parte di Giulio II ebbero un grande impatto, in particolare sull’autorevolezza di Plinio come fonte per la storia dell’arte antica, come fondamento e termine di paragone per la trattatistica, lo statuto sociale degli artisti, gli aneddoti, la committenza e le discussioni sulle arti molto attuali durante il Cinquecento. La lezione pliniana nella narrazione,

biografica e biologica, dello sviluppo dell’arte antica, il cui apice era rappresentato dal magistero di Prassitele e Lisippo per la scultura e di Apelle per la pittura, viene ripresa da Giorgio Vasari (1511-1574) nelle Vite de’ piú eccellenti pittori, scultori e architetti italiani, da Cimabue insino à tempi nostri (...) per celebrare la parabola evolutiva dell’arte, fino alla sua akme

memoria delle sue imprese; L’uomo di cultura, in 3 libri e 6 tomi, era un trattato sulla pratica oratoria e declamatoria. Databile alla fine del principato di Nerone è un’opera in 8 libri, Forme linguistiche incerte, dedicata alla grammatica e alle sue norme, in un periodo in cui «il di-

spotismo aveva reso pericoloso ogni genere di attività intellettuali un po’ piú originali ed elevate»; ad altra fase politica appartiene Prosieguo dell’opera di Aufidio Basso in 31 libri, un racconto degli eventi storici coevi e, probabilmente, delle imprese dei Flavi, pubblicato postumo per evitare critiche di opportunismo e ambizione. A questo periodo risalgono le «procurationes (...) splendidissimas et continuas», come testimonia Svetonio, amministrate con la massima integrità, a Roma, nella Hispania Tarraconensis, nella Gallia Belgica, e in

Campania, a capo della flotta romana a Miseno. Nel 77 o 78 (possibili date per il sesto consolato di Tito), Plinio dovette omaggiare il contubernalis e imperatore Tito con la Naturalis Historia, per «rendere in qualche modo pubblico, e far sapere a tutti, in quale regime di giustizia viva l’impero sotto la tua guida». L’opera si offriva come strumento per raggiungere un’educazione

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nell’operato di Michelangelo e della Maniera moderna. Allo stesso tempo, Plinio fornisce l’ispirazione per quel Musaeum che Paolo Giovio (vescovo, storico, medico e museologo nato a Como nel 1483 e morto a Firenze nel 1552, n.d.r.) andava realizzando nella sua villa di fronte alla città di Como, costruita sulle supposte rovine della villa di Plinio il Giovane.

Laocoonte, marmo bianco e pigmenti di Fabio Viale. 2020. Collezione privata.

Nella pagina accanto, da sinistra: un ritratto di Apollo composto da una testa antica in cristallo di rocca (IV sec. d.C.) montata su un busto moderno in alabastro (1590-1610 circa); una testa femminile in cristallo di rocca (II sec. d.C.) montata su un busto moderno in alabastro (1590-1610 circa); un busto femminile in calcedonio e alabastro. 1590-1610 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

completa, circolare, enciclopedica, nel senso piú letterale, andando ad abbracciare temi, fonti e questioni di cosmografia (...) e meteorologia (...) nel libro 2; di geografia (...) nei libri 3-6; di antropologia (7); di animali terrestri (8), acquatici (9), vola-

tili (10) e insetti (11) con un’appendice sui mirabilia del mondo animale e la zoologia; di botanica, alberi e piante orientali (12-13), vite (14), ulivo (15), alberi silvestri (16), alberi da frutto e tecniche di coltivazione (17), cereali e legumi (18),

frutta e ortaggi (19). I tredici libri dedicati alla medicina sono suddivisi in 8 sui rimedi botanici (...) e 5 sui rimedi animali (...). I libri 33-37 sono dedicati ai metalla e alla mineralogia («ora parleremo dei metalli, che sono di per se stessi risorse ma sono a r c h e o 73


MOSTRE • COMO

UN INVENTARIO A TUTTI I COSTI Non sarebbe spiaciuto a Plinio di essere ricordato, prima di ogni altra cosa, in un secco linguaggio di numeri: ventimila, o forse trentaquattromila, le notizie trasmesse, e duemila i volumi letti, di cento autori diversi, racchiusi nei trentasette libri della Naturalis Historia, e centosessanta i dossiers di schede preparatorie, scritte sui due lati in minutissima grafia (valevano quattrocentomila sesterzi per un consolare amante della cultura, che un giorno propose a Plinio di farne commercio all’ingrosso). Ma del resto, nella Naturalis Historia, si usa numerare anche le cose piú minute e si cataloga proprio tutto: come se il lettore non potesse rinunciare alla notizia che esattamente quarantadue sono i rimedi estratti dal cervo, e quarantuno invece dal cinghiale, nove le specie del melograno, dodici i tipi di smeraldo, e trentaquattro i monti della Tessaglia.

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Si trattava proprio, lo si vede bene, di chiudere a ogni costo un inventario, e di farci entrare tutto. I retroscena culturali sono notissimi: un’ansia di sistemazione enciclopedica comincia a percorrere il mondo intellettuale, si avverte ormai che l’impresa è matura e deve essere praticata una volta per tutte. Il progresso delle conoscenze pare aver toccato un apice insuperabile (ecco il classicismo non solo formale di quell’epoca) e d’altra parte l’eccessiva ramificazione e specializzazione dei saperi comincia ad apparire minacciosa all’intellettuale medio. Cosí il furore enumerativo di Plinio viene incontro a esigenze generalmente sentite; ma serve anche a oggettivare una disposizione un po’ ansiosa, che maschera il suo gusto dell’eccesso e la sua onnivora curiositas con una rigorosa e modesta disciplina di lavoro. Gian Biagio Conte


Mano sinistra in calcedonio. Età imperiale. Firenze, Gallerie degli Uffizi. Nella pagina accanto: un particolare dello spazio multimediale Vis Comensis.

anche il prezzo delle cose (...) penetriamo nelle sue viscere e cerchiamo ricchezze nella sede degli inferi, come fosse poco benigna e fertile dove la calpestiamo»; 33 1): all’oro e all’argento (33); al bronzo, ferro e piombo (34); alle

terre e ai colori naturali (35); alle pietre (36), e alle gemme (37). Questi ultimi libri, che attingono anche dai trattati teorici degli artisti del passato che scrissero sulla propria arte (de sua arte), contengono

ampie sezioni dedicate ad artisti, dati biografici, aneddoti, competizioni, giudizi estetici e monumenti piú significativi. Plinio ricorda, a questo proposito, che Policleto «compose inoltre quello che gli artisti chiamano Canone, traendo da esso, come da una legge, i lineamenti dell’arte, ed è ritenuto l’unico tra gli uomini ad aver rappresentato l’essenza dell’arte con un’opera d’arte» (34 55). Ecco che la trattazione sul bronzo diventa un espediente per illustrare (34 49-93) i bronzisti, la cronologia, gli aneddoti e le sculture, alcune delle quali esposte proprio a Roma: «di tutte le opere che ho citato, tutte le piú famose sono oggi a Roma, dedicate dall’imperatore Vespasiano nel tempio della Pace e negli altri edifici che ha fatto erigere; trasportate a Roma in seguito ai brutali saccheggi di Nerone, erano state poi disposte nei saloni della Domus Aurea» (34 84).

CONTRO LA VIOLENZA Ben 149 capitoli occupano il libro sulle terre naturali e trattano della pittura e dei pittori nel mondo antico, a seguire qualche cenno alla plastike (coroplastica), alla produzione fittile e laterizia e alle terre particolari. Punto di arrivo della conquista del realismo e dei valori spaziali in pittura è la figura di Apelle, il pittore preferito di Alessandro Magno. L’incipit del libro 36 è un manifesto filosofico e politico contro la violenza esercitata dall’uomo nei confronti della natura per l’estrazione delle pietre e del marmo; dopo aver elencato i maestri principali, Plinio passa a enumerare i tipi di marmo cavati nel Mediterraneo, chiudendo con una sezione sul vetro. «Perché nulla manchi al piano della mia opera, restano ora le gemme: la maestà della natura vi si concentra in uno spazio ristretto, e molti ritengono che in nessun altro aspetto essa sia piú degna di ammirazione»: si passa cosí all’ultimo libro, in cui si tracciano una storia della moda delle pietre preziose, una trattazione delle pietre a r c h e o 75


MOSTRE • COMO

IL RACCONTO DELLA FINE Ecco un ampio stralcio della parte finale della lettera scritta da Plinio il Giovane a Tacito, nella quale è contenuta la descrizione delle ultime ore del celebre zio. Plinio il Vecchio è salpato alla volta di Stabia, dove ha raggiunto l’amico Pomponiano: «Quivi Pomponiano (...) aveva trasferito su navi le sue cose, pronto a fuggire non appena il vento si fosse calmato. Ma questo era, invece, favorevole a mio zio che veniva in direzione opposta, abbraccia l’amico impaurito, lo incoraggia, lo conforta (...) Poi se ne andò a dormire e dormí di un autentico sonno, se il suo rumoroso La Morte di Plinio, litografia di Roland Weibezahl. 1832. Berlino, Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. Nella pagina accanto, al centro: il curatore della mostra, Gianfranco Adornato (a sinistra), con Luca Levrini, presidente del Comitato Nazionale per le Celebrazioni dei duemila anni dalla nascita di Plinio il Vecchio.

preziose per tipologia, per colore, per denominazione. Non sembra casuale la scelta di Plinio di chiudere l’opera con un focus sull’estremamente piccolo in natura, con le gemme che racchiudono nella dimensione ridotta tutta la bellezza e

IL PROGETTO ESPOSITIVO Organizzata dalla Fondazione Alessandro Volta e curata da Gianfranco Adornato, professore di archeologia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, la mostra «Il catalogo del mondo: Plinio il Vecchio e la Storia della Natura» si avvale del coordinamento artistico del Comitato Nazionale per le Celebrazioni dei duemila anni dalla nascita di Plinio il Vecchio. Il percorso espositivo presenta oltre 40 opere provenienti dalle maggiori istituzioni museali italiane, tra cui le Gallerie degli Uffizi, i Musei Vaticani, la Biblioteca Palatina-

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Complesso monumentale della Pilotta, il Museo Archeologico di Firenze-Direzione Regionale Musei della Toscana, il Museo Archeologico Nazionale di Venezia-Direzione Regionale Musei Veneto, l’Opera della Primaziale Pisana e il Museo Palatino-Parco Archeologico del Colosseo, e dalle principali istituzioni cittadine come la Biblioteca Comunale di Como e la Diocesi di Como. L’esposizione include inoltre opere di artisti contemporanei internazionali del calibro di Luigi Spina, Fabio Viale, Andy Warhol e Cy Twombly.


russare, reso piú fragoroso dalla corporatura massiccia, veniva udito da quanti origliavano oltre la soglia. Nel frattempo, il livello del cortile s’era cosi tanto innalzato per la caduta di cenere e pomici che non sarebbe piú potuto uscire dalla stanza se avesse piú oltre atteso. Ma, nel cortile, per il quale si andava a quell’appartamento, si era tanto accumulata la cenere mista a pietre, che per poco che egli si fosse fermato nella stanza non avrebbe potuto piú uscirne. Svegliato egli ne esce e ritorna da Pomponiano e dagli altri che non avevano chiuso occhio. Si

consultarono tra di loro se dovessero restare in casa o uscire all’aperto (...) Valutati i pericoli fu scelto quest’ultimo partito (...) Messi dei cuscini sul capo li legano bene con lenzuoli (...) Già altrove faceva giorno, ma là era notte, piú scura e fitta di ogni altra notte; ancor che molte fiamme e varie luci la rompessero. Egli volle uscire sul lido e guardare da vicino se fosse il caso di mettersi in mare; ma questo era, tuttavia, tempestoso e impraticabile. Quivi, buttatosi su un lenzuolo disteso, domanda dell’acqua e beve per due volte. Intanto le fiamme e un odore

la potenza della natura. Un’elegante sineddoche (la gemma come quintessenza della natura) in evidente opposizione e antinomia con la parola incipitaria dell’intera opera pliniana: mundus, sacro, eterno e sconfinato, totus in toto, «infinito e apparentemente finito, determinato in ogni cosa e apparentemente indeterminato, capace di abbracciare in sé tutte le cose, dentro e fuori, ed è insieme una produzione della natura, e la natura stessa» (2 2).

sulfureo annunziatore delle fiamme fanno sí che gli altri fuggano ed egli si riscuote. Sostenuto da due servi si leva e spira nel punto stesso; dal momento che il vapore che aumentava gli impedí, cosi come io penso, il respiro e gli serrò lo stomaco, già di sua natura debole, stretto e soggetto a un frequente bruciore. Come fu giorno (era il terzo da quello della sua morte) il corpo di lui fu ritrovato intero e illeso, con indosso i medesimi vestiti, e in atteggiamento piú di un uomo che dorme che di un uomo già morto». (red.)

DOVE E QUANDO «Il catalogo del mondo: Plinio il Vecchio e la Storia della Natura» Como, ex chiesa di S. Pietro in Atrio e Palazzo del Broletto fino al 31 agosto Orario ex chiesa di S. Pietro in Atrio: ma-ve, 14,00-20,00; sa-do, 10,00-20,00; lu chiuso Palazzo del Broletto: ma-ve, 14,00-18.00; sa-do, 10,00-18,00; lu chiuso Info tel. 031 579811; e-mail: plinio23@ fondazionealessandrovolta.it www.plinio23.it Catalogo 24 ORE Cultura

Il testo dell’articolo è tratto dal catalogo della mostra e appare per gentile concessione dell’autore e dell’editore.

Qui sopra: fotografie di Luigi Spina esposte in mostra. A destra: un particolare dell’allestimento della sezione in cui sono esposti una replica del Doriforo di Policleto (I sec. d.C., Firenze, Galleria degli Uffizi) e la statua di un efebo nudo tipo Westmacott (I sec. a.C., Castel Gandolfo, Antiquarium di Villa Barberini).

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/15

QUEL SANDOKAN IN SALSA PUNICA

SCRITTORE A DIR POCO PROLIFICO, EMILIO SALGARI SI CONCESSE ANCHE UN PAIO DI INCURSIONI FRA LE GRANDI CIVILTÀ DEL MONDO ANTICO. COSÍ, NEL SUO CARTAGINE IN FIAMME, RICOSTRUISCE – CON UNA BUONA DOSE DI «LICENZE POETICHE» – GLI ULTIMI, DRAMMATICI ANNI VISSUTI DALLA CITTÀ DI ANNIBALE QUANDO VENNE COSTRETTA ALLA CAPITOLAZIONE DALLA SUA STORICA NEMICA, ROMA di Giuseppe M. Della Fina Lo scrittore Emilio Salgari (1862-1911). Nella pagina accanto: la copertina di un’edizione del 1964 di Cartagine in fiamme, romanzo di Emilio Salgari pubblicato per la prima volta, a puntate, nel 1906 e poi stampato in volume nel 1908.

N

el 1906 sulle pagine della rivista Per terra e per mare, nei numeri dall’11 al 31, Emilio Salgari pubblicò a puntate il romanzo Cartagine in fiamme. La rivista era stampata dalla casa editrice Donath di Genova, che curò anche la versione in volume del romanzo nel 1908. Va ricordato che la rivista era diretta dal «Capitano Cavaliere Emilio Salgari», come veniva segnalato con evidenza in prima pagina. Al centro del romanzo è una vicenda che si svolge nei mesi immediatamente precedenti la distruzione di Cartagine, al termine della terza guerra punica (149-146 a.C.). Protagonisti principali sono un prode

VIAGGI A BORDO DI UNA... SCRIVANIA Emilio Salgari nacque a Verona nel 1862 e, raggiunta l’età idonea, seguí i corsi dell’Istituto nautico a Venezia per conseguire il diploma da capitano di lungo corso. Nel 1881 interruppe gli studi e iniziò a scrivere romanzi e racconti di

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avventure a partire dal 1883. Iniziò anche a svolgere un’intensa attività giornalistica. Impegni che s’intensificarono dopo il trasferimento in Piemonte e in Liguria per essere piú vicino alle redazioni delle case editrici con le quali collaborava.


La sua produzione letteraria è vastissima e comprende 85 romanzi (tra i piú noti, I misteri della giungla nera, 1895; I pirati della Malesia, 1896; Il corsaro nero, 1899; Le tigri di Mompracem, 1900) e un centinaio di racconti. Si è creduto a

lungo che le sue storie nascessero da esperienze giovanili di viaggio in paesi remoti, ma in realtà scaturivano dalla fervida fantasia e dal lavoro in biblioteca per documentarsi su usi e costumi delle aree geografiche dove erano

ambientate. Una mole di lavoro notevole sia di scrittura che di documentazione. Morí suicida a Torino nel 1911. Per decenni è stato uno degli autori italiani piú letti da schiere di lettori in età giovanile, ma non solo.


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/15

guerriero cartaginese Hiram – il Sandokan della situazione, verrebbe da scrivere, pensando al fortunato ciclo di romanzi dedicato ai pirati della Malesia – e una giovane donna di origine etrusca, ma ormai romanizzata, Fulvia. E ancora Ophir, una ragazza cartaginese legata da un amore profondo a Hiram, ma promessa sposa dal padre adottivo Hermon – un personaggio di primo piano nella vita politica di Cartagine – a un ricco mercante; il fedele Sidone, disposto a seguire Hiram nelle sue scelte e pronto a sacrificarsi per lui; Phegor, una spia astuta e disponibile a ogni compromesso, ma innamorato di Fulvia.

I PROTAGONISTI Ecco come lo scrittore presenta i personaggi principali. Hiram è: «un guerriero d’alta statura, bruno come un numida o come un vero fenicio, dagli occhi nerissimi e la barba del pari nera». Fulvia viene descritta come una: «fanciulla dalla pelle bianca, dai lunghissimi capelli neri e cresputi, dalle forme opulenti delle forti donne dell’Etruria italica e dagli occhi nerissimi e vellutati». Di Ophir, la giovane amata da Hiram, Salgari scrive: «Era una bellissima creatura, di quindici a sedici anni, dai lineamenti purissimi e dolcissimi, la pelle leggermente abbronzata, coi capelli e gli occhi nerissimi». Phegor: «Era un giovanotto di venticinque o vent’otto anni, dai lineamenti duri e spigolosi, colla pelle assai abbronzata e di statura alta. Era magro e 80 a r c h e o

Moneta coniata al tempo di Annibale Barca. Zecca di Cartagine, 213-210 a.C. Al dritto, il profilo di Annibale; al rovescio, un elefante.

muscoloso come un vero mauritano». Questo, infine, è il ritratto di Sidone: «Prima di essere stato marinaio aveva trafficato per molti anni nei porti del Levante e delle isole dell’arcipelago greco». Nel romanzo – come accade spesso in Salgari – numerosi fili collegano i personaggi: Hiram e Fulvia si erano conosciuti anni prima in Etruria, quando il cartaginese, al seguito di Annibale, era stato ferito gravemente e i genitori della ragazza lo avevano accolto in casa e curato. Hiram e Hermon, il padre di Ophir, si erano trovati su posizioni diverse nella vita politica cartaginese e il secondo aveva fatto bandire il primo. Hiram e Sidone avevano combattuto insieme prima di affrontare le prove raccontate nel romanzo. Si potrebbe continuare, ma non è necessario.

UNA VISTOSA INCONGRUENZA Ci si può soffermare, invece, sul quadro storico delineato nelle pagine del romanzo e va segnalata una contraddizione evidente: Hiram viene descritto come un giovane e valido combattente durante la spedizione guidata da Annibale in Italia. Salgari gli fa pronunciare nel primo capitolo – mentre cerca di portare in salvo Fulvia, che doveva essere sacrificata al dio Molok – queste parole: sono «un cartaginese che sul lago Trasimeno salvò Annibale; un cartaginese che nelle Spagne piú volte decise le sorti delle battaglie in nostro favore; un cartaginese che


UN UOMO STRAORDINARIO Il romanzo Cartagine in fiamme è ambientato al termine della terza guerra punica e vi è presente la figura di Publio Cornelio Scipione Emiliano. Ecco come Emilio Salgari lo presenta nel penultimo capitolo del romanzo: «Era costui Cornelio Scipione Emiliano, uomo straordinario, sia per diplomazia, sia per talenti militari (...) Giovane forte e robusto, che preferiva alle mollezze dei suoi compagni, le lotte coi gladiatori e le emozioni della caccia ai pettegolezzi del Foro».

conquistò mezza Gallia». Il riferimento alla battaglia del Trasimeno vinta da Annibale contro l’esercito romano, guidato dal console Gaio Flaminio, è esplicito: siamo nel 217 a.C., ma Hiram – ancora nel pieno della sua vigoria fisica – lo ritroviamo al termine della terza guerra punica, prima della distruzione di Cartagine, cioè nel 146 a.C., a settantuno anni di distanza.

HIRAM, EROE SENZA MACCHIA Si è trattato di un errore da parte di Salgari, o di altro? Una svista cosí evidente non appare possibile. Le date della battaglia del Trasimeno e della distruzione di Cartagine erano sicuramente ben note allo scrittore, che nel testo mostra di conoscere almeno le principali fonti storiche sulle guerre puniche. Si tratta, con ogni probabilità, di un espediente narrativo: Salgari voleva fare di Hiram un eroe, che la politica cartaginese non aveva saputo apprezzare per il suo valore. Niente di meglio quindi che immaginarlo al fianco di Annibale e farne addirittura il suo salvatore. Nel romanzo Hiram rivendica spesso i meriti avuti nella guerra portata in Italia e la fedeltà dei suoi sodali – a partire da Sidone

La copertina di Cartagine in fiamme nella prima edizione pubblicata da Donath, a Genova, nel 1908.

– nasce proprio dall’averne visto le doti di uomo e di guerriero in quelle drammatiche circostanze. Una fedeltà storica maggiore si trova nella descrizione delle divisioni presenti nella politica cartaginese e sono riproposti gli interessi di fondo che divisero i Barca da altre famiglie dell’aristocrazia della città. Ben presente è anche il ruolo svolto dai mercenari che era stato portato in

primo piano nel romanzo Salammbô di Gustave Flaubert, che Salgari sicuramente conosceva. Quest’ultimo (vedi «Archeo» n. 471, maggio 2024; on line su issuu.com) pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1862, è ambientato tra il 240 e il 238 a.C. e quindi negli anni tra la prima e la seconda guerra punica. Esso costituisce, in una qualche misura, un precedente del libro di Salgari, che a r c h e o 81


ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/15

LA DISTRUZIONE DI CARTAGINE Emilio Salgari descrive la distruzione di Cartagine nelle pagine finali del romanzo. Lo fa con una capacità narrativa notevole e non sottacendo la ferocia di Roma: «Tutta la città era in fiamme e centinaia e centinaia di case diroccavano con immenso fragore, travolgendo gli abitanti che si erano asserragliati dentro per sfuggire alle spade romane. Urla spaventevoli s’alzavano da tutte le parti e verso i bastioni migliaia di fuggiaschi, stretti da vicino dai nemici, si precipitavano nel vuoto, imprecando contro la barbarie romana».

probabilmente decise per questo motivo di ambientare il suo alla fine della terza guerra punica, cosí da non misurarsi con esso, o, al contrario, rappresentarne una continuazione ideale. In Cartagine in fiamme è delineata in sottofondo anche la contrapposizio-

In basso: la locandina del film Cabiria (1914), diretto da Giovanni Pastrone.

IL PRIMO KOLOSSAL DELLA STORIA Tra i primi, grandi successi della cinematografia italiana è il film muto Cabiria, diretto da Giovanni Pastrone nel 1914, con le didascalie scritte da Gabriele D’Annunzio e le musiche realizzate da Ildebrando Pizzetti e Manlio Mazza. Il film trae ispirazione dal romanzo Cartagine in fiamme di Emilio Salgari. È stato notato come la scena iniziale del libro e del film sia la stessa: è ambientata a Cartagine e una giovane fanciulla, destinata a essere sacrificata al dio Moloch, viene salvata dall’intervento di uomini coraggiosi: Hiram e i suoi sodali nel libro; Fulvio Axilla con l’aiuto di Maciste nel film.

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La catapulta, olio su tela di Edward John Poynter. 1868-1872. Newcastle-upon-Tyne, Laing Art Gallery. L’artista immagina un momento dell’assedio romano di Cartagine, nel 146 a.C., ed è tuttavia opportuno segnalare che la macchina da lui riprodotta è frutto di una ricostruzione alquanto fantasiosa.

ne presente negli indirizzi politici dei maggiorenti della città: guardare al Mediterraneo e ai traffici commerciali, o all’entroterra africano e quindi all’agricoltura? Lo scrittore descrive inoltre la divisione presente nelle classi dirigenti cartaginesi sul modo di rapportarsi con Roma dopo la sconfitta subita nella seconda guerra punica.Vi erano coloro disposti ad assecondare le

vo di Ophir. In un colloquio tra loro, Hermon svela a Hiram il motivo politico del suo esilio (ve ne era anche uno privato): «Noi ti avevamo proscritto perché eri troppo intraprendente e troppo amico di Annibale, e si temeva che tu susciLE RAGIONI DI UN ESILIO tassi dei fastidi con Roma, mentre Nelle pagine del romanzo è la divi- in quell’epoca noi, appena usciti da sione politica esistente tra Hiram e guerre disastrose, avevamo bisogno il vecchio Hermon, il padre adotti- di una grande tranquillità». pretese romane per guadagnare tempo e trovare un equilibrio tra le due città, seppure su basi nuove, e chi riteneva errata tale scelta, dato che Roma non sarebbe stata disponibile a costruire intese.

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ARCHEOLOGIA E LETTERATURA/15

Nelle pagine di Salgari traspare poi una critica dura della società cartaginese per essere stata troppo proiettata verso i commerci e la ricerca della ricchezza e avere affidato la dimensione militare quasi interamente ai mercenari. Ecco un passo in proposito, è Hiram a parlare: «Voi venditori di porpora? Voi che assoldate truppe straniere perché non sapete difendervi, o meglio perché

non desiderate esporre i vostri petti adiposi alle spade e alle lance dei nemici della Repubblica? Voi che disprezzate i vostri compatrioti, che per fierezza impugnano le armi per difendere la vostra fortuna?». Un altro filo rosso che corre lungo le pagine del romanzo è la nostalgia per Annibale. La esprimono di continuo Hiram e i suoi sodali ricordandone il coraggio e la visione

strategica, a loro giudizio la fine di Cartagine era iniziata quando le classi dirigenti e il popolo cartaginese lo avevano abbandonato al suo destino. Cosí si esprime Thala, un altro guerriero disposto a sostenere Hiram, conversando con Sidone: «Sono certo che tristi giorni si preparano per Cartagine. Annibale, il grande condottiero, che la sua patria ha vilmente abbandonato, è morto

UNO SCRITTORE SENSIBILE ALLE RAGIONI DEI VINTI Uno storico di grande valore e di notevole curiosità intellettuale come Lorenzo Braccesi si è interessato al romanzo ambientato al tempo della terza guerra punica da Emilio Salgari. Ne ha trattato nel corso di un seminario tenuto presso il Collegio Ghisleri a Pavia e ha ripreso il tema nella rivista Studi Storici (anno 46, n. 4, 2005). Ha notato come l’interesse dello scrittore sia andato: «verso la città vinta, anziché la vincitrice», verso Cartagine piuttosto che in direzione di Roma. Un’attenzione per i popoli sconfitti e messi ai margini da politiche «imperialiste», che ritorna con frequenza nella produzione letteraria dello scrittore.

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LA PASSIONE PER I MONDI LONTANI La produzione letteraria di Emilio Salgari è molto vasta: è stato autore, infatti, di ben 85 romanzi, ma due soltanto sono ambientati nel mondo antico mediterraneo: Cartagine in fiamme e Le figlie dei faraoni. Entrambi vennero pubblicati inizialmente nel 1906. I suoi interessi e la sua immaginazione lo spingevano verso epoche e terre diverse e mari piú lontani e misteriosi.

In alto: un altro ritratto dello scrittore Emilio Salgari. Sulle due pagine: Cartagine. Il settore dell’area archeologica della Byrsa noto come quartiere «di Annibale», denominazione derivante dal fatto che la sua realizzazione si collocherebbe al tempo in cui il generale ricoprí la carica di sufeta, nel 196/195 a.C.

di veleno e non sarà piú qui a difenderla colla sua invincibile spada». Interessante è la figura di Fulvia, che ha una sua centralità nel romanzo: la donna appare incerta tra l’identità etrusca e quella romana, acquisita dopo che Roma aveva conquistato la sua terra. In qualche punto del romanzo sembra rivendicare la sua origine etrusca, in altri appare integrata completamente nella società e nei valori romani. In termini storici potremmo scrivere che lo scrittore racconta un processo di romanizzazione destinato a riuscire, ma con le sue resistenze.Va segnalato che per i Cartaginesi, lei è «la Romana» tranne che per Hiram. NELLA PROSSIMA PUNTATA • Vincenzo Cardarelli a r c h e o 85


SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

MAREMMA AMARA E MAGNIFICA

ESTESA FRA LAZIO SETTENTRIONALE E TOSCANA MERIDIONALE, LA LEGGENDARIA REGIONE VANTA MOLTE E AVVENTUROSE VITE: A STAGIONI DI ECCEZIONALE FIORITURA IN ETÀ ETRUSCA E ROMANA SI SONO SUCCEDUTE FASI DI ABBANDONO E DECADENZA, ESASPERATE DALL’INSALUBRITÀ DELLA SUA COSTA PALUDOSA. A RIDOSSO DELLA QUALE, PERÒ, SI SVILUPPARONO IMPORTANTI ATTIVITÀ MINERARIE. DI QUESTO MOSAICO DI STORIE TESTIMONIA LA RETE DEI MUSEI MAREMMANI A CUI DEDICHIAMO LE PAGINE SEGUENTI di Stefano Mammini

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L’alba sulla laguna di Orbetello (a destra nella foto). Sullo sfondo, le cime del Monte Amiata.

L

a Maremma è un territorio vasto – circa 5000 kmq – e composito. Eppure, già il suo nome pone l’enfasi su una soltanto delle sue molte facce: forse derivante dal latino maritima, maremma – che nasce come sostantivo – è infatti il termine che designa una zona costiera pianeggiante lungo la quale l’azione delle maree è poco sentita e, di conseguenza, il cordone litoraneo risulta chiuso, causando la formazione di stagni e paludi. Un fenomeno del quale, in effetti, il litorale tirrenico compreso fra il Lazio settentrionale e la Toscana meridionale ha costituito un caso esemplare e indotto quindi a battezzarlo Maremma. Tuttavia, come detto, il territorio maremmano è assai piú ampio e comprende un vasto entroterra, per lo piú collinare, nel quale, per esempio, uno degli elementi peculiari è la presenza di importanti bacini minerari. Si può quindi intuire come la storia della frequentazione umana in queste

zone abbia seguito dinamiche variegate, accomunate da una lunghissima durata e che è stato possibile ricostruire, in larga parte, grazie alla ricerca archeologica. Altrettanto diversi sono ancora oggi i paesaggi maremmani, in un alternarsi di vaste pianure coltivate, pascoli, macchia mediterranea, boschi. Ambienti ricchi di fauna, domestica e selvatica, con molte specie locali, tra cui la razza bovina delle vacche maremmane. Animali possenti, che sono, a ben vedere, una testimonianza vivente della storia plurisecolare di queste terre: è stato infatti osservato che alcune pitture etrusche di Tarquinia, prima fra tutte la Tomba dei Tori (540-530 a.C.), mostrano bovini che condividono con quelli odierni la caratteristica forma «a lira» delle corna. Un indizio della piú che probabile presenza della razza maremmana già a quella data (vedi foto a p. 89). Della gestione delle mandrie, allevate allo stato brado o semibrado, si occupavano, fino a tempi non lontani, i

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SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

Murlo

Castagneto Carducci

Monticiano

San Vincenzo

Massa Marittima

Campiglia Marittima

Roccastrada

Lago dell’Accesa

Populonia Piombino

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Follonica

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Gavorrano

Castel del Piano

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Portoferraio

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Isola di Montecristo

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Mar Tirreno Un tipico paesaggio palustre della Maremma all’interno della Riserva Naturale della Diaccia Botrona, presso Castiglione della Pescaia.

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Lago Trasimeno

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Lago di Montepulciano

Perugia

Lago di Chiusi

Chianciano Terme

Assisi Bettona

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Città della Pieve

Sarteano

Torgiano

Panicale

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Montepulciano

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Castiglione del Lago

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Abbadia San Salvatore

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Foligno

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Gualdo Cattaneo Collazzone Fabro

Piancastagnaio

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Campello sul Clitunno Castel Viscardo

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Grotte di Castro

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Soriano nel Cimino

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Lago di Vico

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Fabrica di Roma

Ronciglione Blera

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Lago di Bracciano Anguillara Sabazia Bracciano

Civitavecchia

Santa Marinella Cerveteri

Ladispoli SS 1

Roma Via Aurelia

Rieti Cittaducale

Dall’alto: un magnifico esemplare di vacca maremmana e un particolare delle pitture della Tomba dei Tori di Tarquinia (540-530 a.C.). La somiglianza, resa evidente soprattutto dalla Poggio Mirteto tipica conformazione «a lira» delle corna dell’animale, è considerata una prova attendibile dell’esistenza Fara di questa razza bovina già in Fiano Romano in epoca etrusca.Sabina

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butteri, personaggi spesso considerati quasi leggendari in Maremma, che costituivano un Carsoli anello fondamentalePalombara nella catena economica Sabina di queste terre. Oggi il loro ruolo è stato riMonterotondo dimensionato da nuove modalità di allevaGuidonia delle glorie passate mento, ma la memoria viene coltivata da Montecelio rievocazioni e tornei e, a Grosseto, si è voluto fermarla nel tempo reaTivoli lizzando il monumento al buttero che troneggia nella piazza antistante la stazione. Come accennato in precedenza, la presenza di comunità umane nel territorio maremre

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SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

DALLA PARTE DEI MINATORI Nato a Grosseto nel 1922, Luciano Bianciardi, dopo essersi laureato alla Normale di Pisa nel 1947, rientrò nella città natale, lavorando dapprima come insegnante e poi come bibliotecario. Orientato su posizioni libertarie, sviluppate anche durante la partecipazione alla Resistenza, ebbe sempre un’attenzione particolare per il mondo dei lavoratori e, come scrisse nel 1952, scelse di « star dalla parte dei badilanti e dei minatori della mia terra». Quattro anni piú tardi, le vite di chi scendeva nelle molte miniere allora attive divennero protagoniste del suo primo libro, I minatori della Maremma, scritto con Carlo Cassola. Ancora una miniera, quella di lignite di Ribolla, aveva del resto segnato una svolta nel suo percorso umano e professionale: il 4 maggio 1954 l’impianto era stato teatro di uno spaventoso incidente, causato da un’esplosione di grisou, che uccise 43 minatori. Bianciardi vide nella sciagura l’emblema di una sconfitta della classe operaia e, profondamente turbato, decise di trasferirsi a Milano. Qui, nel 1962, pubblicò La vita agra, romanzo di taglio autobiografico

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che ebbe un notevole successo e nel quale la tragedia di Ribolla tornava come espediente letterario: lo scrittore immaginava infatti che il protagonista si fosse trasferito a Milano per far saltare un grattacielo, cosí da vendicare i morti di Ribolla. La vita agra fu portato anche sullo schermo da Carlo Lizzani, nel film omonimo con Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli. Luciano Bianciardi morí a Milano nel 1971.


Particolare della tavola di copertina della Domenica del Corriere del 16 maggio 1954, dedicata alla strage avvenuta nella miniera di Ribolla, che causò la morte di 43 minatori. Nella pagina accanto, in alto: il giornalista, saggista e scrittore Luciano Bianciardi (1922-1971).

mano ha origini remote e alcune delle testimonianze piú importanti sono oggi riunite nel Museo della Preistoria e Protostoria della Valle del fiume Fiora di Manciano, che può essere, idealmente, il punto di partenza Nella pagina accanto, in basso: dell’itinerario suggerito da questo Speciale (vedi alle pp. 102-103). Mandrie maremmane (o Butteri fra mandrie di buoi o I butteri o Butteri conduttori di mandrie) olio su tela di Giovanni Fattori. 1893. Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori.

CITTÀ FIORENTI Scendendo nel tempo, i musei di Scansano (vedi alle pp. 100-101) e Orbetello (vedi alle pp. 92-96) e l’area archeologica di Cosa (vedi alle pp. 98-99) sono osservatori privilegiati per approfondire la conoscenza di due delle stagioni piú importanti nella storia della Maremma: l’età etrusca e poi quella romana. Secoli nei quali prosperano numerose città, che traggono il proprio benessere dalla colti-

vazione delle terre, dall’allevamento, dai commerci e, in misura decisiva, dallo sfruttamento del ferro dell’antistante isola d’Elba. Piú tardi, sul ferro e non solo, si sviluppò la stagione delle miniere scoperte nella regione delle Colline Metallifere e della siderurgia, che ebbe in Follonica un centro di primaria importanza per la produzione di manufatti in ghisa. Storie, queste ultime, delle quali furono anonimi protagonisti minatori e operai, le cui esistenze ispirarono la produzione letteraria di uno dei protagonisti della narrativa italiana del secondo Novecento, il grossetano Luciano Bianciardi (vedi box in queste pagine). Ma quelle fin qui descritte sono solo alcune istantanee di una realtà, la Maremma, che proprio per la varietà dei suoi caratteri è una terra da scoprire e che difficilmente delude. a r c h e o 91


SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

ORBETELLO

Polveriera Guzman-Museo Archeologico di Orbetello

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uattro obelischi svettano intorno a un massiccio edificio che guarda la laguna di Orbetello: sono parafulmini e la loro presenza si lega alla funzione assunta dalla struttura tra la fine del Settecento e l’Ottocento, quando, da magazzino per derrate alimentari – realizzato su progetto dell’architetto fiammingo Ferdinando de Grunenbergh –, venne trasformato in polveriera e apparve evidentemente indispensabile prevenire qualsiasi rischio di incendio. È la Polveriera Guzman, che prende nome dal vicino bastione, realizzato per iniziativa del viceré spagnolo Enrique de Guzman, e che oggi è sede del Museo Archeologico di Orbetello. Al tempo in cui assolveva alle sue funzioni militari, la polveriera visse un momento di notorietà quando Giuseppe Garibaldi, nel 1860, dopo essere sbarcato a Talamone inviò alcuni uomini a rifornirsi di munizioni e, raccontano le cronache, a loro si unirono alcuni Orbetellani, che andarono a ingrossare le file dei mille. Gli obelischi che oggi vediamo sono in muratura e hanno rimpiazzato quelli originali, realizzati nel 1821 in legno, con punte a forma di prismi di oro e di rame, che però, a causa dell’umidità, già dopo vent’anni risultavano fortemente degradati. La presenza di un simile presidio si spiega con l’importanza strategica di Orbetello, situata in una zona di cerniera, piú volte al centro di contese per acquisire il controllo del medio Tirreno. L’attuale allestimento del Museo Archeologico – forte di un ampio apparato didattico – prende forma nel 2004, quando si è deciso di

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In basso: la Polveriera Guzman, trasformata in sede del Museo Archeologico di Orbetello. A sinistra: uno dei parafulmini realizzati per scongiurare il rischio di incendi ed esplosioni del materiale custodito nella polveriera.


A questo nucleo si sono poi aggiunti materiali provenienti dal Museo Archeologico di Firenze, che li aveva acquistati da collezionisti e antiquari della zona, che erano anche i proprietari delle terre in cui i reperti erano stati scavati e li avevano poi alienati in forza delle leggi che all’epoca consentivano tali pratiche.

In alto: veduta di Orbetello, con, in evidenza, la Polveriera Guzman. A destra: lo stemma del regno di Spagna che tuttora sormonta l’ingresso dell’edificio.

trasferire nella Polveriera Guzman i materiali archeologici fino a quel momento custoditi nell’antiquarium del Museo Civico. La prima collezione era nata grazie a Pietro Raveggi, il quale, nominato ispettore alle Belle Arti nel 1923, si dedicò a raccogliere reperti rinvenuti soprattutto nell’area dell’istmo di Orbetello, al di là delle mura di fortificazione (prima romane e poi spagnole).

L’ALLESTIMENTO Il percorso espositivo segue un criterio cronologico e tipologico e si apre con i materiali di epoca villanoviana provenienti per lo piú dalla zona di Monte Argentario, i piú antichi dei quali si collocano intorno all’XI secolo a.C., un’epoca in cui quella sembra essere la sola area abitata di questo comprensorio. Il repertorio comprende manufatti tipici della cultura villanoviana, fra cui spiccano alcune pregevoli urne biconiche. Va detto che, lungo l’intera esposizione, la provenienza di molti reperti è genericamente attribuita al territorio orbetellano e l’assenza di informazioni piú circostanziate è frutto della formazione della raccolta, che, come detto, è avvenuta anche grazie ad acquisti, in occasione dei quali scarse o nulle erano le notizie fornite da chi vendeva gli oggetti. Piú avanti, spicca un gruppo di patere baccellate in bronzo, raccolte da Raffaele Del a r c h e o 93


SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

come oggetti di importazione, ai quali sono poi affiancati manufatti d’uso quotidiano. Al di là del valore specifico, i reperti aiutano a ricostruire le dinamiche culturali dell’antica Orbetello, come nel caso degli unguentari in alabastro provenienti dalla necropoli etrusca, la cui presenza è indizio dei rapporti che dovettero intercorrere con Volterra, centro divenuto famoso proprio per la lavorazione di questo materiale. Tra i reperti importati, spiccano alcune coppe di produzione ionica, con ogni probabilità facenti parte del carico di relitti affondati nei pressi dell’isola del Giglio, e ceramiche attiche, che invece appartenevano a corredi di tombe etrusche della necropoli scoperta in località Neghelli. Una vetrina del museo, che, come si può vedere, mette a disposizione dei visitatori un ampio apparato esplicativo dei materiali esposti. In basso: umbone bronzeo di scudo sul quale, al centro, è raffigurato, a sbalzo, il volto di Medusa, dall’area del Chiarone.

Rosso, un altro Orbetellano che, come Raveggi, riuní molti oggetti poi confluiti nell’antiquarium. È probabile che le patere in questione fossero premi riservati a vincitori di gare atletiche e, in particolare, di lotta, come suggeriscono, per esempio, alcune pitture murali delle tombe di Tarquinia. Una presenza significativa è costituita dai materiali facenti parte di corredi funerari, che oltre a essere distribuiti secondo l’epoca di appartenenza, sono stati suddivisi in funzione del sesso degli individui sepolti. Una differenza marcata dalla scelta di deporre, per esempio, lance in ferro nelle tombe maschili, riservando invece a quelle femminili rocchetti e fuseruole, vale a dire strumenti legati alla pratica della filatura e della tessitura. Molto ampio è il repertorio delle ceramiche, che comprende vasellame di produzione locale – fra cui il tipico bucchero etrusco –, cosí 94 a r c h e o

QUEL VOLTO TERRIFICANTE... Uno degli oggetti piú spettacolari è poi un umbone in bronzo, cioè la parte centrale di uno scudo, sul quale, a sbalzo, è raffigurato il volto di Medusa, con funzione apotropaica: si


A destra: anello in oro con decorazione a sbalzo, facente parte del corredo funebre di una tomba della necropoli etrusca. Qui sotto: armi e attrezzi in bronzo e ferro di varia foggia e tipologia. In basso, a destra: disegno di uno specchio etrusco in bronzo su cui si legge il nome Cathesan, forse riferibile a una doppia divinità.

tratta, ancora una volta, di un acquisto, ma, in questo caso, si conosce la provenienza del pezzo, che è stato scavato – seppur clandestinamente – nell’area del Chiarone, una località poco a sud di Orbetello. In bronzo è anche uno specchio sul quale è raffigurato un personaggio che un’iscrizione designa come Cathesan. È stato ipotizzato che possa trattarsi di una doppia divinità – il nome sarebbe frutto della fusione di Catha e Thesan –, comunque legata al mattino, al sorgere del sole, come suggerisce la presenza di una barca solare con alcuni cavalli alati. Anche lo specchio faceva parte delle raccolte in origine custodite nel Museo Archeologico di Firenze e poi confluite a Orbetello. Indizio della presenza di una classe agiata sono i monili in oro, restituiti anch’essi dallo scavo delle tombe, fra cui orecchini e anelli. Da Talamone provengono invece alcuni fili aurei, che dovevano essere parte delle decorazioni degli abiti indossati dagli aristocratici. La stessa Talamone ha anche restituito alcuni elmi in bronzo, dei tipi che gli studiosi definiscono Montefortino e Negau, uno dei quali, sul paranuca, reca un’iscrizione in lingua etrusca. Molto ampio è poi il a r c h e o 95


SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

GENI D’ALTRI TEMPI Oltre alle esposizioni permanenti, la rete dei Musei di Maremma ha messo a punto un ricco calendario di mostre temporanee. Il Museo di San Pietro all’Orto, a Massa Marittima, propone «Il Sassetta e il suo tempo», che ripercorre la parabola di Stefano Giovanni (detto appunto Sassetta), attivo a Siena tra il 1423 e il 1450 e al quale si deve l’introduzione dei primi fermenti del Rinascimento nella grande tradizione trecentesca della città del palio. Il progetto espositivo ha preso spunto da un’opera dello stesso Museo di San Pietro all’Orto: l’Arcangelo Gabriele del Sassetta, una piccola tavola un

tempo collocata fra le cuspidi di una pala d’altare, al quale fanno da contorno una cinquantina di opere: ventisei delle quali sono opera dello stesso Stefano di Giovanni, mentre le altre appartengono ad artisti attivi in quegli anni nel medesimo contesto. Tra questi figurano il Maestro dell’Osservanza, Sano di Pietro, Giovanni di Paolo, Pietro Giovanni Ambrosi e Domenico di Niccolò dei Cori. Da segnalare, fra i dipinti concessi in prestito da musei e istituzioni nazionali, una importante «prima», scoperta dal curatore della mostra, Alessandro Bagnoli, il quale, sotto una pesante

MANGIARE ALL’ETRUSCA Fino al prossimo 10 novembre, l’offerta del Museo Archeologico Polveriera Guzman si arricchisce del nuovo percorso espositivo dedicato all’alimentazione etrusca e romana: «Etruria a tavola. Alle origini del gusto nella Toscana antica», un progetto realizzato selezionando e riallestendo i ricchi materiali della collezione permanente, dotata ora di un apparato didattico tematico ad hoc. I visitatori vengono guidati alla scoperta di sapori perduti, come la pappa di cereali e latte chiamata puls, la celebre salsa a base di pesce, il garum, o lo stufato di carne di ghiro, che era considerato una vera prelibatezza. L’evoluzione del gusto, causata da fattori culturali, commerciali ed economici, comportò il mutamento dei servizi da tavola: un cambiamento raccontato da tazze, bicchieri, ciotole e piatti dal VII secolo a.C. fino al II d.C. La mostra, organizzata dalla Cooperativa Sociale Zoe in collaborazione con il Comune di Orbetello e la consulenza dell’Università di Siena, è a ingresso gratuito e fruibile nei week end. Terminata l’esperienza al museo, si potrà portare a casa anche un piccolo ricettario, cosí da poter sperimentare le preparazioni piú amate da Etruschi e Romani. (red.)

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In alto: Madonna col Bambino, tempera e oro su tavola del Sassetta. Terzo decennio del XV sec. Siena, Museo Diocesano. L’opera, inedita, è stata riscoperta grazie al restauro che l’ha liberata da una ridipintura seicentesca. Nella pagina accanto: immagini della mostra «Leonardo in Fortezza», in corso a Pitigliano.

repertorio degli attrezzi agricoli – falci, zappe, aratri –, riflesso di una delle attività economicamente piú importanti e alla quale dovette legarsi l’emergere di una vera e propria aristocrazia terriera. Il percorso si conclude con opere di scultura, fra le quali una statua panneggiata di epoca romana, una figura di età medievale e un rilievo, individuato nella facciata del Duomo, sul quale compaiono figure identificabili come acrobati e danzatori. DOVE E QUANDO Polveriera Guzman-Museo Archeologico di Orbetello Orbetello, via Mura di Levante n. 3 Orario gli orari variano stagionalmente Info Museo: tel. 350 5905073; Comune: tel. 0564 861111: e-mail: museoguzman@comune.orbetello.gr.it; www.comune.orbetello.gr.it; www.museidimaremma.it


ridipintura, ha riconosciuto un capolavoro del Sassetta, restituito alla piena leggibilità dal restauro di Barbara Schleicher. Si tratta di una Madonna con Bambino, proveniente dalla pieve di S. Giovanni Battista a Molli (Sovicille), ma originariamente realizzata per una chiesa senese, probabilmente S. Francesco. Gli Ex Granai di Pitigliano ospitano invece la mostra evento «Leonardo in Fortezza»: oltre 50 modelli di macchine – fedelmente riprodotte seguendo i Codici – danno modo di ammirare alcune delle più famose invenzioni leonardesche: l’antenato dell’elicottero, l’aliante, il

paracadute, il carrello semovente da usare come apparato scenico, considerato l’antenato dell’automobile; il girarrosto a vapore, una macchina da cucina che sfiora la perfezione della cottura; lo studio degli ingranaggi; il dispositivo per respingere le scale nemiche in difesa delle mura; la vite d’Archimede, la dimostrazione dell’impossibilità del moto perpetuo e molto altro ancora.

DOVE E QUANDO «Il Sassetta e il suo tempo» Massa Marittima, Museo di San Pietro all’Orto fino al 15 settembre Info www.museimassamarittima.it «Leonardo in Fortezza» Pitigliano, Ex Granai fino al 30 settembre Info www.leonardoapitigliano.it

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SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

ANSEDONIA

Area Archeologica e Museo Archeologico Nazionale di Cosa

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na decina di chilometri separa Orbetello dalla frazione di Ansedonia, una delle perle di questo tratto di costa, ma anche uno dei luoghi piú ricchi di storia di questo comprensorio. Qui, infatti, nel 273, all’indomani della vittoria riportata sulle città etrusche di Volsinii e Vulci, i Romani fondarono la colonia di Cosa, della quale si possono oggi vedere resti cospicui di molti dei principali edifici civili e religiosi, nonché parte delle strutture riferibili a complessi residenziali privati. E consigliare come imperdibile la visita

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Qui sotto: materiali esposti nel Museo Archeologico. In basso: resti del tempio di Giove, eretto sull’arce della colonia.

dell’area archeologica non è una formula di rito: una volta raggiunta la collina, si dispiega infatti un paesaggio straordinario, nel quale quel che resta dell’antica città è immerso nel verde degli olivi e della macchia mediterranea e, soprattutto, dal punto piú alto, permette di abbracciare con lo sguardo la costa sottostante. Una peculiarità che rende immediatamente comprensibili le ragioni che indussero Roma a fondare qui la sua colonia: godere di una visuale cosí ampia significava infatti esercitare agevolmente il controllo su questo tratto del Tirreno e su eventuali movimenti ostili da parte dei centri poco prima sottomessi. Meno di un secolo piú tardi, nel 197 a.C., Cosa – il cui nome deriva forse da un toponimo etrusco: *Cusi o *Cusia –, fu oggetto di una seconda deduzione coloniale, a seguito della quale la città visse il suo momento di massima fioritura. Al sito si accede oltrepassando una delle porte urbiche, ai lati della quale si riconoscono i poderosi filari del circuito murario, che, scan-


dito da 19 torri, fu una delle prime opere innalzate dai Romani, secondo uno schema ampiamente consolidato. Procedendo, si raggiune il cuore dell’insediamento, vale a dire la piazza del foro, che misura 88 x 35 m, che, sul lato settentrionale, era provvista di un ingresso monumentale, costituito da un arco a tre fornici. Anche qui, replicando un modello destinato a divenire canonico, sul grande spazio pubblico affacciano i luoghi deputati all’esercizio della giustizia, cioè la basilica, e quello in cui i maggiorenti della città si riunivano per discutere e deliberare, vale a dire il complesso composto da curia e comitium. Accanto a quest’ultimo sorgeva il tempio della Concordia, mentre all’estremità sud-orientale della piazza era stato realizzato un carcer.

ACROPOLI CON VISTA MARE Risalendo la collina, se ne raggiunge il punto piú alto, sul quale sono stati identificati i resti dell’arce (l’acropoli) di Cosa, sede della vita religiosa della colonia. Nell’area si concentravano tre importanti luoghi di culto: i templi dedicati a Giove e a Mater Matuta e, soprattutto, il Capitolium, edificato intorno al 150 a.C., ma fatto oggetto di ripetuti restauri e rifacimenti. Come accennato in apertura, qui l’imponenza delle rovine si fonde con il fascino del paesaggio, la cui bellezza è esaltata dalla posizione panoramica del sito.

In alto: un tratto della cinta muraria. Qui sopra: resti di strutture nell’area del foro cittadino. In basso, sulle due pagine: resti di edificio identificati con il complesso formato dalla curia e dal comitium.

Logico corollario del percorso che tocca i monumenti dell’area archeologica è la visita del Museo Archeologico Nazionale, che è frutto di una scelta progettuale che forse oggi non verrebbe ripetuta, ma che nulla toglie al suo oggettivo interesse. Il Museo fu infatti realizzato negli anni Settanta del Novecento, sovrapponendo ai resti originali di alcune case romane del I secolo a.C. l’edificio moderno che oggi si può vedere. Questioni metodologiche a parte, le sale riuniscono un ampio repertorio dei materiali restituiti dagli scavi, che documentano la lunga frequentazione del sito di Cosa anche dopo l’epoca romana. DOVE E QUANDO Area Archeologica e Museo Archeologico Nazionale di Cosa Ansedonia, via delle Ginestre Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 0564 881421; cell. 335 1471086; e-mail: drm-tos.museocosa@cultura.gov.it; www.polomusealetoscana.beniculturali.it; www.museidimaremma.it/ a r c h e o 99


SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

SCANSANO

Museo Archeologico e Museo della Vite e del Vino

I

l Museo Archeologico e il Museo della Vite e del Vino di Scansano sono ospitati nel Palazzo Pretorio della cittadina maremmana. Risalente al XV secolo, l’edificio stesso ha una storia interessante: sede del comune di Scansano, nel XIX fu utilizzato come prigione e, durante l’estate, per sfuggire alla malaria, vi si spostavano gli uffici della provincia di Grosseto eseguendo l’estatatura, cioè il trasferimento dell’amministrazione pubblica da Grosseto a Scansano, che godeva di un clima migliore. Inaugurato nel 2001, il Museo Archeologico offre un’ampia panoramica sulla presenza umana nella media valle dell’Albegna durante l’antichità e sulle numerose ricerche condotte in questo territorio ricco di storia. I reperti esposti provengono principalmente dalle aree archeologiche di Ghiaccio Forte e Aia Nova, indagate grazie a scavi archeologici condotti tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso. Scoperto nel 1970 da Zelindo Biagiotti, il sito di Ghiaccio Forte, insediamento etrusco attivo tra il IV secolo e il 280 a.C., è stato scavato dalla Soprintendenza archeologica Qui accanto: una vetrina del museo nella quale sono riunite varie forme vascolari in bucchero (brocche, coppe, calici, attingitoi), nonché un aryballos (piccolo contenitore per unguenti o profumi). A destra, sulle due pagine: teste in terracotta, dal deposito votivo del santuario di Ghiaccio Forte. 100 a r c h e o


Coppa attica proveniente dalla tomba della Parrina (Orbetello).

della Toscana, con la collaborazione dell’Università di Santa Barbara, California fino al 2002. Altre campagne di scavi tra il 1987 e il 1990 nella località di Aia Nova hanno riportato alla luce una grande villa produttiva romana con impianti termali e con pavimenti e pareti decorate. Da tutte queste ricerche derivano le collezioni esposte nel museo: calici, olle, ciotole e altri corredi da simposio, una ciotola del IV secolo a.C. con l’iscrizione «statie» sul bordo, proiettili da fionda (ghiande) e, dal deposito votivo del santuario di Ghiaccio Forte (VII secolo a.C.), una collezione di teste votive e una statuetta di un vendemmiatore con una roncola.

UNA FILIERA COMPLESSA Il percorso museale, costantemente aggiornato con nuovi contenuti, mette in evidenza un’economia antica legata alla produzione e al commercio del vino. La collaborazione tra il museo, la Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana e l’Università di Siena ha rivelato una complessa filiera vinicola nell’antichità, che trova riscontro nell’odierna produzione del Morellino di Scansano e delle altre DOCG della valle. Recenti ricerche archeologiche e genetiche lungo le sponde del fiume Albegna hanno testimoniato la presenza di viti che rimandano alle varietà domesticate già in epoca etrusca e romana. Ideale prosecuzione dell’antica storia del vino, il Museo della Vite e del Vino offre un

Bronzetto raffigurante un uomo intento alla vendemmia, che impugna una roncola, dal santuario di Ghiaccio Forte.

viaggio alla scoperta della tradizione vitivinicola della Maremma, patria del Morellino. Il percorso espositivo, articolato in cinque sezioni, valorizza un prodotto rappresentativo dell’identità del territorio, documentando la relazione tra clima, terra e vino. Vengono illustrate le tecniche di realizzazione e coltivazione, con oggetti e ricette in dialetto che testimoniano l’uso delle tecniche di produzione nel tempo. Sono esposte anche le sei denominazioni DOC della zona, come il Bianco di Pitigliano e l’Ansonica, sebbene la parte del leone la faccia il Morellino di Scansano, vino DOC dal 1978 e DOCG dal 2006, protetto dal Consorzio di Tutela dal 1992. DOVE E QUANDO Museo Archeologico e Museo della Vite e del Vino Scansano, piazza del Pretorio 4 Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 0564 509106 o 509411; e-mail: musei@comune.scansano.gr.it; www. comune.scansano.gr.it; www.museidimaremma.it a r c h e o 101


SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

MANCIANO

Museo di Preistoria e Protostoria della Valle del fiume Fiora

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naugurato nel 1985, il Museo di Manciano offre una vivace ricostruzione delle comunità che hanno abitato, dal Paleolitico all’età del Bronzo, la valle del fiume Fiora, un’area che si è rivelata un osservatorio privilegiato per lo studio di queste fasi della nostra storia piú antica. Istituito ufficialmente all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso per volere dell’archeologo Ferrante Rittatore Vonwiller (1919-1976), tra i massimi conoscitori della preistoria del territorio del Fiora e dell’Albegna, e di Guglielmo Maetzke (1915-2008), allora soprintendente all’archeologia della Toscana, il museo conserva materiali provenienti soprattutto da ricerche e scavi condotti dall’Università di Milano e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana nel territorio a sud di Grosseto e, in particolare, nella valle del Fiora, oltre che da donazioni di privati. Il percorso espositivo inizia con una introduzione alle caratteristiche fisiche e geologiche del territorio della valle del Fiora e ai metodi della ricerca archeologica. Successivamente, si snoda attraverso la ricca collezione di materiali, divisi per cronologia e per contesto. I reperti piú antichi, risalenti a oltre mezzo milione di anni fa, comprendono strumenti litici provenienti da Montauto-Vulci. Testimonianze del Paleolitico Medio e Superiore sono rappresentate dai materiali trovati sul Monte Amiata. Il Neolitico è testimoniato da siti come Vacasio, Poggio Lucio (Pitigliano) e Poderi del Bufalo (Manciano). L’età del Rame è particolarmente documentata da splendidi materiali provenienti da varie località, tra cui la Grotta dei Sassi Neri (Capalbio) e le necropoli di Poggialti Vallelunga, Corano e Poggio Formica (Pitigliano), oltre a Le Calle, Lasconcino e Poggio Capanne (Manciano)

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE Di notevole importanza sono i materiali restituiti dagli scavi nell’abitato di Scarceta (Manciano), frequentato ininterrottamente dal Bronzo Medio al Bronzo Finale, dov’è 102 a r c h e o

In alto: asce provenienti da un ripostiglio scoperto in località Podere le Carraia (Scansano). Età del Bronzo Antico. A sinistra: vasi dell’età del Rame ascrivibili alla cultura di Rinaldone, dalla necropoli di Poggialti (Pitigliano). In basso: urna biconica con ciotola di copertura, da una tomba a incinerazione della necropoli di Bagnatoio, Manciano. Età del Bronzo Finale.


In alto: una veduta di Manciano, dominata dalla mole della Rocca Aldobrandesca. A sinistra: un vaso biconico decorato. Età del Bronzo Finale.

attestata anche ceramica micenea. Il ripostiglio di bronzi di Montemerano e le asce dal territorio dell’Amiata e da Sovana testimoniano l’importanza della regione nell’ambito della produzione metallurgica. L’età del Bronzo Finale è rappresentata dai corredi delle tombe a incinerazione di Cavallin del Bufalo e del Bagnatoio, e dai reperti provenienti dagli abitati di Le Sparne di Poggio Buco e di Sorgenti della Nova. Una delle principali novità del museo è l’esperienza multimediale. Ogni pannello esplicativo è corredato da un QR code, che consente l’accesso a ulteriori approfondimenti e a traduzioni. Ogni sala espositiva è supportata da video che illustrano il periodo storico rappresentato. Il Museo di Manciano svolge anche attività di ricerca archeologica nel territorio e partecipa alla diffusione dei risultati con conferenze, convegni e pubblicazioni. DOVE E QUANDO Museo di Preistoria e Protostoria della Valle del fiume Fiora Manciano, via Corsini 5 Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 0564 620532; e-mail: mancianopromozione@gmail.com; www.mancianopromozione.it; www.museidimaremma.it a r c h e o 103


SPECIALE • MUSEI DI MAREMMA

FOLLONICA

MAGMA (Museo delle Arti in Ghisa della MAremma)

S

imbolo di Follonica e della sua storia moderna, il «Cancellone» – come viene da sempre chiamato dalla popolazioe locale – è l’ingresso monumentale a quello che un tempo era il complesso dell’Imperiale Reale Amministrazione delle Miniere di Rio e delle Fonderie del Ferro di Follonica, il grande insediamento industriale nato per volontà di Leopoldo di Toscana nel 1831. Un’idea presto premiata da un successo straordinario, poiché i manufatti in ghisa della fabbrica follonichese si fecero apprezzare e divennero molto richiesti non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Di quell’avventura, che conobbe il suo massimo sviluppo nello stesso Ottocento e si concluse definitivamente nel 1960, resta oggi memoria nel MAGMA (Museo delle Arti in Ghisa della MAremma), allestito nel Forno San Ferdinando, il piú antico della fonderia, un magnifico esempio di archeologia industriale, mirabilmente ristrutturato.

FERRO DELL’ISOLA D’ELBA Il percorso espositivo si articola sui tre piani dell’edificio, rispettivamente dedicati all’arte, alla storia e alla produzione. È cosí possibile scoprire che dietro la ghisa – una lega ferrosa che si ottiene per riduzione del minerale ferroso e ha un tenore in carbonio che può oscillare fra l’1,9 e il 6,5% – c’è una storia

lunga, i cui esordi si possono rintracciare in epoca etrusca, quando già nel VI secolo a.C. qui si lavorava il ferro della vicina isola d’Elba. Del resto, proprio la posizione geografica favorí lo sviluppo dell’attività siderurgica, dal momento che, oltre alla materia prima fornita dai giacimenti elbani, il territorio follonichese assicurava acqua e legno in quantità, la prima necessaria per il funzionamento delle macchine idrauliche, il secondo sfruttato per ottenere il carbone. Nelle sale del museo, anche grazie a una ricca dotazione di apparati multimediali, sono documentati tutti gli aspetti legati alla realizzazione e alla commercializzazione dei prodotti in ghisa e si scopre che molti elementi dell’arredo urbano che possiamo vedere nelle nostre città portano il marchio della fonderia di Follonica. Particolarmente spettacolari sono gli spazi del seminterrato, nei quali viene riprodotto virtualmente anche il momento cardine della catena operativa, vale a dire la fusione del minerale ferroso e il successivo getto nei modelli in legno di volta in volta disegnati. DOVE E QUANDO MAGMA (Museo delle Arti in Ghisa della MAremma) Follonica, Comprensorio ex Ilva Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 0566-59027 o 59243; e-mail: frontoffice@magmafollonica.it; www.magmafollonica.it; www.museidimaremma.it

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Il «Cancellone», nome con cui è conosciuto l’ingresso monumentale al complesso dell’Imperiale Reale Amministrazione delle Miniere di Rio e delle Fonderie del Ferro di Follonica, fondato nel 1831 da Leopoldo II di Toscana. In basso: un particolare dell’allestimento del MAGMA (Museo delle Arti in Ghisa della Maremma).


GAVORRANO

Porta del Parco delle Colline Metallifere Un tratto di una delle gallerie della miniera di pirite di Gavorrano, oggi visitabile.

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el 1984, esattamente quarant’anni fa, la miniera di pirite di Gavorrano chiudeva definitivamente, dopo poco meno di un secolo di attività (era stata aperta nel 1898). Oggi il sito è divenuto una delle porte del Parco Nazionale delle Colline Metallifere, che qui ha la sua sede centrale, ed è stato reso visitabile, allestendo tre poli principali: il museo in galleria, il teatro delle Rocce e l’area del villaggio minerario di Ravi-Marchi. La visita del museo in galleria è, crediamo, l’esperienza piú coinvolgente, soprattutto perché riesce a trasmettere la durezza di una vita, quella del minatore, che per la popolazione locale fu a lungo all’ordine del giorno. A fare la fortuna di Gavorrano fu la presenza della pirite, che, in realtà, non era ricercata in quanto tale, ma perché si poteva ricavarne lo zolfo, dal quale, a sua volta, ottenere l’acido solforico, sostanza indispensabile in qualsiasi attività industriale. Per questo il paese maremmano divenne un insediamento importante non soltanto per l’economia locale, ma anche per quella nazionale. Una fortuna che svaní quando si scoprí che lo zolfo poteva essere ricavato dai sottoprodotti della lavorazione

del petrolio, con costi nettamente inferiori, che resero del tutto antieconomico lo sfruttamento della pirite. Finiva cosí un capitolo che aveva segnato profondamente la storia locale, oggi raccontata dalla visita del museo.

UNA CITTÀ NASCOSTA Il percorso ha inizio all’interno di quella che era in origine la «riservetta» degli esplosivi, nella quale si viene introdotti alla storia del sito e alle sue caratteristiche geologiche e mineralogiche. Quando poi si varca l’ingresso del pozzo, si percepisce, immediata, la sensazione di essere entrati in una realtà altra, che oggi appare illuminata e comodamente praticabile, ma che si deve immaginare fatta di oscurità, frastuono, miasmi, umidità... Nelle viscere della miniera si snoda una rete di circa 170 km di gallerie e questa cifra, da sola, lascia intuire come sotto la superficie del suolo fosse stata creata una sorta di piccola città. Qui i minatori lavoravano ininterrottamente, in 3 turni (gite) di 8 ore ciascuno, scanditi dal suono della «corna». E, lungo il percorso, si possono attivare anche altri suoni, come quello del martello pneumatico, cosí da fare della visita un’esperienza completa. Un’esperienza nata, come raccontano i responsabili del museo, anche per assecondare la volontà, fortissima, della comunità locale di trasmettere una testimonianza del proprio passato. DOVE E QUANDO Porta del Parco delle Colline Metallifere di Gavorrano Gavorrano, piazzale livello +240, Pozzo Impero snc Orario gli orari variano stagionalmente Info tel. 0566 844247 o 843402; e-mail: visit@parcocollinemetallifere.it; e-mail: info@parcocollinemetallifere.it; www.parcocollinemetallifere.it; www.teatrodellerocce.it; www.museidimaremma.it a r c h e o 105


TERRA, ACQUA, FUOCO,VENTO Luciano Frazzoni

STAMPIGLIATI O A STRALUCIDO, PURCHÉ SI BEVA! GIUNTI NELLA NOSTRA PENISOLA A PARTIRE DAL 568 D.C., I LONGOBARDI ERANO DESTINATI A SCRIVERE UN CAPITOLO DECISIVO DELLA STORIA ITALIANA. DEDICANDOSI, FRA L’ALTRO, ALLA PRODUZIONE DI UNA PARTICOLARE PRODUZIONE CERAMICA...

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l recente articolo sugli scavi dell’Università di Padova a Monselice (vedi «Archeo» n. 472, giugno 2024; on line su issuu.com) è lo spunto per trattare di un tipo di vasellame abbastanza ben definito, ma che ha avuto una diffusione alquanto limitata nel tempo: è la cosiddetta ceramica longobarda, di cui lo scavo di Monselice ha restituito vari esemplari. Per «longobarda» si intende una ceramica con caratteristiche tecniche e tipologiche simili alle produzioni della Pannonia (la

Una fiasca decorata a stampiglie, un pettine, un coltello e una fibbia provenienti dalla tomba 105 della necropoli longobarda di Collegno. VI-VII sec. Torino, Museo di Antichità. A destra, nel riquadro: disegni di brocche con versatoio provenienti dal monastero di S. Giulia a Brescia

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provincia dell’impero romano che comprendeva parte delle attuali Ungheria, Austria, Croazia e Slovenia, n.d.r.), che i primi gruppi di Longobardi arrivati in Italia portarono con sé al momento della prima invasione (568-569 d.C.), ma anche quella prodotta in alcuni centri d’Italia e che comunque si rifà al modello barbarico della ceramica di tradizione pannonica. Tale produzione è frutto di un’evoluzione tecnica avvenuta nell’Austria meridionale a opera di maestranze gepide (i Gepidi erano

una tribú germanica di stirpe gotica, n.d.r.) e di quelle romanizzate della provincia, con il passaggio da una ceramica a impasto di tradizione ancora protostorica, realizzata a mano, a una ceramica tornita a pareti sottili, cotta in ambiente riducente, e decorata a crudo con stampigliature geometriche o con steccature a stralucido. Si tratta per lo piú di vasi per bere – bottiglie ad alto collo, fiaschette, bicchieri di varia forma (a otre, a sacco, biconici) e brocche con piccolo

versatoio cilindrico –, tanto che tale ceramica è stata definita dal massimo studioso di archeologia longobarda, Otto von Hessen, «Trinkgeschirr», cioè, appunto, recipienti per bere. Le stampigliature venivano realizzate mediante punzoni in corno, terracotta o metallo. Gli impasti risultano abbastanza depurati, con inclusi micacei (cioè contenenti minerali di mica); il


Bicchiere a sacchetto in ceramica stampigliata, dalla tomba 15 della necropoli Gallo di Cividale del Friuli. 600-615 circa. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

colore varia dal bruno-rossastro al marrone e al nero. Analisi su esemplari rinvenuti in area lombarda hanno mostrato la compatibilità con le argille alluvionali dell’area padana, avvalorando la tesi di una produzione non solo pannonica, ma anche locale. I ritrovamenti di due fornaci nell’area del Capitolium di Brescia, in località Casa Pallaveri, attive alla fine del VI secolo, fanno pensare proprio alla produzione di ceramica di tipo longobardo. Del resto, ancora da Brescia, dal monastero di S. Giulia, provengono molti esemplari con le stesse caratteristiche. Un altro centro di produzione di ceramica di tradizione longobarda può essere localizzato in Piemonte, nei pressi del teatro romano di Torino. In entrambi i casi, le botteghe si trovavano in aree di proprietà regia o fiscale. Ciò ha suggerito che la produzione fosse in qualche modo dipendente dal re o dal duca, che

potevano trarne benefici economici. Sembra, inoltre, che la ceramica stampigliata sia piú antica, legata al momento dell’immigrazione in Italia, mentre quella a stralucido, decorata con graticci e reticoli, sia piú tarda.

COME UN FOSSILE GUIDA Il ristretto ambito cronologico di produzione, che va soltanto dalla fine del VI ai primi decenni del VII secolo d.C., e comunque non oltre la metà del secolo, rende tale classe ceramica un importante elemento per datare con precisione i contesti archeologici nei quali viene rinvenuta. I ritrovamenti hanno avuto luogo prevalentemente in ambito sepolcrale, sebbene ricerche recenti abbiano restituito ceramiche longobarde anche da contesti abitativi. La presenza della ceramica longobarda si concentra in Lombardia e Piemonte, Friuli, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana

e Umbria, in particolare nella necropoli di Nocera Umbra, che costituisce il sito piú meridionale in cui questa ceramica sia stata rinvenuta, benché in due soli esemplari, provenienti dalla stessa deposizione, a dimostrazione che l’uso di tali manufatti fu presto abbandonato dai gruppi di Longobardi scesi nel Centro e nel Sud dell’Italia pochi anni dopo l’invasione. Opera probabilmente di maestranze di condizione servile, la produzione non sembra avere raggiunto gradi di standardizzazione e una diffusione su ampia scala. La committenza è da individuare in proprietari terrieri di ricchezza media, costituita da una nobiltà rurale di potere economico non elevatissimo, come fanno pensare i corredi funerari, con una cultura tradizionalista e conservatrice, poco aperta all’interscambio culturale. I motivi decorativi a stampo non presentano molte varianti, trattandosi sempre di forme astratte e geometriche, come rombi, quadrati, rettangoli, triangoli e ovali reticolati, cerchi con croce interna, semilune, denti di lupo, semi di melone o chicchi di riso. In due casi sembra di riconoscere una figura umana in cui è presente il modello iconografico del barbaro: in un frammento di brocca da Vicenza e su una fiasca dal monastero di S. Giulia a Brescia. Lo stralucido, che dona particolare lucentezza alla superficie del vaso e lo impermeabilizza, si otteneva passando a crudo sul vaso argilla diluita, successivamente la decorazione veniva realizzata a stecca, con motivi a rete, a

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graticcio, a triangoli e a lisca di pesce. Secondo Joachim Werner, l’uso di decorare con punzoni i recipienti per bere sarebbe tipicamente di tradizione germanica e documentato già nella fase dell’insediamento longobardo in area nord-danubiana (489526/527 d.C.), quando la ceramica era ancora tornita a mano. Oltre alle ceramiche decorate a stampo e a stralucido, sono attestati anche alcuni esemplari ricoperti da vetrina, come due fiasche da pellegrino da Testona e da Biella, e, caso particolare in quanto unica forma aperta, una ciotola dal Cortile del Tribunale di Verona. Come detto, i contesti di ritrovamento sono principalmente le necropoli, anche se scavi effettuati negli ultimi decenni hanno restituito esemplari anche in ambito insediativo, smentendo l’ipotesi che questo tipo di ceramica avesse soltanto un uso cultuale. Rimane invece irrisolto il problema del limitato periodo cronologico di questa produzione, per il quale sono state formulate diverse ipotesi. Una è la crisi economica che si registra nell’Alto Medioevo e che potrebbe aver causato un netto calo della produzione ceramica, sostituita da prodotti di uso domestico e da mensa in materiali quali la pietra ollare (abbondante nelle regioni subalpine), il vetro, i metalli, ma anche in materiali deperibili, quali il legno, di minor costo. Un’altra spiegazione potrebbe ricercarsi nella

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Olletta monoansate in ceramica d’impasto con superficie a stralucido, da Farnese (Viterbo), località La Mina. VI sec. d.C. Farnese, Museo civico «Ferrante Rittatore Vonwiller». conversione del popolo longobardo dal paganesimo al cristianesimo, con un conseguente cambiamento nel rituale funebre di tradizione pannonica, che portò a una progressiva decadenza dei corredi. Ma, anche senza tener conto della conversione al cristianesimo, occorre considerare la progressiva romanizzazione della cultura longobarda, che potrebbe aver portato alla scomparsa della ceramica di tradizione pannonica, sia in ambito funerario che in quello insediativo, a tutto vantaggio delle produzioni tipicamente romane.

UNA CLASSE PECULIARE Se però la ceramica tipicamente longobarda non sembra essere attestata nei ducati del Centro-Sud della Penisola, a partire dal VI secolo sono molto diffuse in tutta l’Italia centrale e meridionale alcune ollette monoansate, prive di decorazione o con linee ondulate incise a pettine, con la superficie lucidata a stecca, che non sembrano piú prodotte già nel VII secolo. Tali ollette o bicchieri, sono avvicinabili a prodotti di tradizione romana e bizantina, ma presentano affinità anche con forme tipicamente longobarde, come i vasi a sacchetto,

ritrovandosi esemplari simili in alcune tombe di Nocera Umbra. La funzione anche in questo caso sembra essere potoria, benché tracce di bruciatura sulla parete e sul fondo di qualche esemplare, facciano pensare anche a un loro uso come scaldavivande. Queste brocchette, di uso strettamente personale, si ritrovano inoltre nelle necropoli longobarde di Fiesole, Nocera Umbra e Castel Trosino; nel Lazio sono attestate a Farnese (Viterbo), ma soprattutto in alcuni siti e necropoli del Lazio meridionale, a Priverno, Colleferro, Castro dei Volsci, Veroli, giungendo anche in Campania, Puglia e Basilicata. Per quanto riguarda Roma, alcune ollette simili sono state rinvenute nel deposito di VII secolo della Crypta Balbi e in un immondezzaio del VI secolo nella Casa delle Vestali, nel Foro Romano.

PER SAPERNE DI PIÚ Silvia Lusuardi Siena, La ceramica longobarda, in Silvia Lusuardi Siena (a cura di), 1994, Ad Mensam: manufatti d’uso da contesti archeologici fra tarda antichità e Medioevo, Del Bianco, Udine 1994; p. 55-62



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

COME LUI NON C’È NESSUNO NEL BENE E NEL MALE, LA STORIA NON SAREBBE STATA LA STESSA SENZA GIULIO CESARE. MODELLO PER I POTENTI DI OGNI TEMPO E PERSONAGGIO DI CUI È PRESSOCHÉ IMPOSSIBILE CONTARE LE RAFFIGURAZIONI

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igura tra le piú influenti della storia, Giulio Cesare, che ebbe un ruolo determinante nel passaggio dalla repubblica all’impero, ha da sempre ispirato, come Alessandro Magno prima e Napoleone poi, le ambizioni di generali, regnanti e politici. E non solo: basti pensare che ancora oggi, nel tempio a lui dedicato nel Foro Romano, vengono deposti fiori da mani anonime, che evidentemente non ricordano la spietatezza e i grandi spargimenti di sangue che accompagnano guerre e conquiste. Lo stesso Cesare nel suo De bello Gallico, a proposito della presa di Avaricum (oggi Bourges, in Francia), scrive infatti: «Qui, chi si accalcava nell’angusto varco delle porte, fu ucciso dai soldati, chi era già riuscito a passare le porte, fu sterminato dalla cavalleria. Nessuno pensò al saccheggio: i soldati, furiosi per la strage di Cènabo e per le fatiche dell’assedio, non risparmiarono né vecchi, né donne, né bambini. Alla fine, dei circa quarantamila abitanti, a stento gli ottocento che erano fuggiti dalla città alle prime grida raggiunsero incolumi Vercingetorige» (VII, 28, 3-5). Dalla fine del mondo antico e poi in quello moderno, Cesare fu modello da seguire in campo politico e militare, e sono innumerevoli le sue immagini, riprodotte su ogni tipo di supporto, derivate da monete, medaglie e statue che ne hanno tramandato i tratti.

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Anche gli storiografi antichi, narrando le sue gesta, ne descrivono l’aspetto, primo tra tutti Svetonio nelle Vite dei dodici Cesari (per inciso, il nome stesso di Cesare divenne subito sinonimo di

imperatore e regnante: si pensi ai titoli tedeschi e russi di Kaiser e Czar): «Cesare era di alta statura e ben fatto, aveva una carnagione chiara, il viso pieno e gli occhi neri e vivaci. (...) Mal sopportava la calvizie


per la quale spesso fu offeso e deriso, e per questo si era abituato a tirar giú dalla cima del capo i pochi capelli. Tra tutti gli onori che il popolo e il senato gli decretarono, infatti, non ne ricevette o abusò mai nessuno piú volentieri che il diritto di portare sempre una corona di alloro» (Cesare, 45-46).

UN PRIVILEGIO SCANDALOSO Giulio Cesare fu il primo romano vivente a ricevere nel 44 a.C. dal Senato il permesso – e il privilegio – di apporre sulle monete il proprio ritratto, un fatto, questo, che contribuí ad alimentare il malcontento circa le sue presunte aspirazioni monarchiche, il cui solo pensiero era aborrito dai Romani. In un raro e prezioso denario coniato dal magistrato Lucio Emilio Buca poco prima della morte del dittatore (15 marzo 44 a.C.), compare al dritto il profilo di Cesare con corona d’alloro che gli incornicia la fronte, il collo con i caratteristici collari di Venere e il pomo d’Adamo. La legenda Caesar Im(perator) P(ontifex) M(aximus) commemora le cariche rivestite, mentre il crescente lunare, tra la P e la M, appartiene a quelle immagini cosmiche presenti nelle ultime coniazioni cesariane. Al rovescio c’è Venere, apportatrice di vittoria, riferimento all’ascendenza divina della gens Iulia, secondo la tradizione poi consolidata dall’Eneide virgiliana, che la voleva derivata da Iulo, figlio di Enea e quindi nipote di Venere. Scendendo nel tempo, possiamo qui ricordare un’interessante placchetta rettangolare con gancio (conservata nel Museo Nazionale

Denario coniato dal magistrato Lucio Emilio Buca, per Cesare. 44 a.C. Al dritto, Giulio Cesare con corona d’alloro e, dietro, il crescente lunare; al rovescio, Venere con Vittoria e scettro con la sinistra. Nella pagina accanto: placchetta in metallo con il busto di Giulio Cesare, opera del Filarete (al secolo, Antonio Averlino). Metà del XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. del Bargello di Firenze) che racchiude entro una cornice un

tondo con un magnifico busto di Cesare, identificato dal nome IVLIVS CAESAR, opera del fiorentino Antonio Averlino (1400-1469 circa), detto il Filarete. Scultore, architetto, urbanista, orafo e medaglista, questi lavorò tra Firenze, Roma e Milano con commissioni di altissimo livello. Filarete, soprannome creato da lui stesso che significa «colui che ama la virtú», utilizza modelli antichi unendoli a particolari della sua epoca; le monete romane sono la principale fonte di ispirazione, come si riscontra in questa placchetta, che ripropone una copia quasi identica del Cesare su una medaglia del Museo Correr di Venezia opera anch’essa del Filarete. Il busto con corazza, ripreso dai medaglioni romani di imperatori di III secolo in analogo abbigliamento, è precisamente reso nei suoi particolari, dalla bulla con aquila sulla spalla, al busto loricato, all’egida con la testa di Medusa, il tutto concluso dal manto che copre la spalla e si annoda sotto il petto. Il volto di Cesare ha il naso leggermente aquilino e rughe sul volto e sul collo. Il capo, dalla folta capigliatura, è coronato sulla fronte da una corona d’alloro. Va rilevata nella placchetta l’impronta rotonda che circonda il busto, segno che essa è stata realizzata sul modello del busto creato per la medaglia conservata a Venezia. Analisi effettuate sulla placchetta ne hanno identificato la lega, in rame e stagno, il cui retro liscio poteva fungere da specchio, sicuramente destinato a ispirare nelle sue azioni quotidiane un qualche ignoto signore fiorentino, che voleva riflettersi nella figura del grande dittatore romano.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Carmelo Malacrino e Giuliana Calcani (a cura di)

I BRONZI DI RIACE E IL MITO Ricordando Paolo Moreno All’Insegna del Giglio, MArRC Convegni 5, Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria-Edizioni Efesto, Roma, 260 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-3381-496-4 www.edizioniefesto.it

letterarie alla percezione che oggi si può avere di queste straordinarie testimonianze dell’arte antica. Affiora, costante, il nome di Paolo Moreno (1934-2021), lo studioso al quale si è voluto dedicare la raccolta e che, per molti anni, ha pubblicato su «Archeo» pagine esemplari della sua lezione. Fra le quali non mancarono importanti articoli dedicati appunto agli eroi di Riace, che, all’indomani del loro recupero, hanno costituito uno dei campi d’indagine prediletti del grande archeologo e storico dell’arte antica. Alessandro Mandolesi

TRA CAERE E TARQUINIA

Nel volume sono confluiti i testi di altrettante conferenze, di una giornata di studi e contributi originali aventi come filo conduttore i Bronzi di Riace, le due magnifiche statue rinvenute in mare nel 1972 e oggi conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, al quale si deve la realizzazione del volume. Le splendide sculture vengono dunque esaminate sotto molteplici punti di vista, che spaziano dalle considerazioni sulla tecnologia e il restauro all’analisi stilistica, dal confronto con le fonti 112 a r c h e o

La costiera civitavecchiese in età etrusca All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 172 pp., ill. col. e b/n 24,00 euro ISBN 978-88-9285-267-9 www.insegnadelgiglio.it

Fin dall’inizio del volume ricorre spesso l’espressione «di confine» per il territorio esaminato, in quanto la costiera civitavecchiese si interpone fra quelli che, in epoca etrusca, erano considerati i comprensori di due delle principali città del tempo: Cerveteri e Tarquinia. Tale connotazione, tuttavia, non sminuisce il valore storico e archeologico dell’area studiata, che, anzi, proprio attraverso la ricca documentazione raccolta

31.Dieci Editore, Bologna, 3 voll. di 52 pp. ciascuno 24,00 euro (cadauno) ISBN 978-88-947808-0-2 978-88-947808-1-9 978-88-947808-2-6 www.31dieci.it

da Alessandro Mandolesi, emerge in maniera netta. Dopo l’ampia introduzione dedicata alle caratteristiche geografiche e alla storia degli studi, l’autore dà il via alla rassegna dei dati, presentati in ordine cronologico. L’esordio è dunque riservato alla protostoria, momento durante il quale la fitta presenza di insediamenti è già indizio di quanto nevralgico fosse questo segmento del litorale tirrenico, per poi scendere nel tempo fino alla romanizzazione. In appendice, Maria Rosa Lucidi presenta le nuove acquisizioni sulla fase di frequentazione etrusca dell’abitato di Centumcellae (l’antica Civitavecchia).

PER I PIÚ PICCOLI Elena Pozzi e Silvia Torlone, illustrazioni di Beatrice Polo

NINA & ARTURO Alla ricerca dei Rotoli del Mar Morto domande all’esperto a cura di Adolfo Roitman,

Con una scelta assai originale, la collana proposta da 31.Dieci prova ad avvicinare il pubblico dei giovanissimi (i volumi sono consigliati dai 6 anni in su) a una delle piú importanti testimonianze dell’archeologia: i rotoli del Mar Morto. A guidare i piccoli lettori sono Nina e Arturo, che non solo si interrogano sul signficato e sulla possibile funzione dei manoscritti trovati nel 1947 nelle grotte di Qumran, ma descrivono, con l’aiuto degli esperti, il contesto storico e culturale nel quale i documenti furono realizzati. (a cura di Stefano Mammini)



presenta

CATTEDRALI E ABBAZIE

UN VIAGGIO TRA LUCE E SPIRITUALITÀ Il viaggio proposto dal nuovo Dossier di «Medioevo» attraversa l’intera Italia e non solo e prende avvio dagli spettacolari ricami di pietra realizzati dal maestro Wiligelmo per la cattedrale modenese di S. Maria Assunta, che agli inizi dell’XI secolo prese forma secondo il progetto dell’architetto Lanfranco. È l’inizio di un percorso affascinante, scandito da saggi sul contesto storico e culturale nel quale operarono le fabbriche alle quali si deve la costruzione di monumenti insigni, che tocca luoghi in cui l’anelito religioso si è fatto motore della creazione di architetture e opere d’arte di eccezionale pregio. Le chiese cattedrali e i complessi abbaziali descritti nel Dossier compongono un atlante del cristianesimo occidentale e, al contempo, sono la plastica testimonianza di fenomeni che hanno segnato il millennio medievale, come nel caso della nascita e della diffusione degli Ordini religiosi. Ardite soluzioni costruttive, apparati ornamentali lussureggianti – fatti di statue, affreschi, mosaici – ribadiscono l’importanza di una committenza, quella della Chiesa, senza la quale l’ingegno e la creatività di artisti celebri o tuttora anonimi non avrebbero avuto la visibilità che li ha consegnati alla storia. Da Modena, dunque, a Spoleto, da Milano a Parigi, da Assisi a Monreale, da San Galgano a Cava de’ Tirreni... non vi resta che sfogliare questa straordinaria antologia del bello!

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