Archeo n. 435, Maggio 2021

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MASADA ARISTAIOS TERRA PROMESSA SICILIA PRIMA DEI GRECI SPECIALE MASADA

Mens. Anno XXXV n. 435 maggio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

GIUSEPPE FLAVIO

L’ULTIMA FORTEZZA

ROMA

LA COLLEZIONE SINOPOLI

GIUSEPPE FLAVIO E IL MISTERO DI GESÚ INCONTRO CON LUCIANO CANFORA

I LUOGHI DEL SACRO

IN SICILIA PRIMA DEI GRECI ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI

SCAVARE LA TERRA PROMESSA

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 MAGGIO 2021

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ARCHEO 435 MAGGIO

€ 5,90



EDITORIALE

DEL BUON USO DI GIUSEPPE FLAVIO L’«attualità» di questo numero prende spunto dalla recentissima pubblicazione di tre libri di notevole interesse, incentrati, intorno alla figura di uno storico che – per un periodo cosí fondamentale come il I secolo d.C. – rappresenta una fonte di valore eccezionale: Giuseppe Flavio, nato a Gerusalemme nel 37/38 d.C. come Yoseph ben Mattityahu, figlio di una famiglia sacerdotale ebraica, e morto a Roma nell’anno 100 circa, da cittadino dell’impero e con un nome modificato che ne rivela l’acquisita, nuova identità. La fortuna dello storico, tra i piú prolifici del mondo antico e la cui opera, soprattutto, ci è giunta in maniera sorprendentemente integra, è al centro del saggio di Luciano Canfora, che abbiamo intervistato per indagare sul «suo» incontro con Giuseppe. La figura di quest’uomo straordinario e poliedrico – prima di diventare «scrittore» fu comandante militare in capo ai ribelli giudei contro Roma e poi anche mago e profeta (predisse a Vespasiano che sarebbe divenuto imperatore!) – aleggia, poi, nelle pagine dell’articolo sull’archeologia in Israele, ultima puntata della serie dedicata al ruolo strumentale giocato dalla disciplina nel contesto dei moderni processi di nation building. E, naturalmente, torna protagonista nello Speciale su Masada, il solitario, monumentale altopiano che affascinò Erode il Grande, al punto da accogliervi la sua fortezza piú grandiosa. Se non fosse per Giuseppe Flavio, infatti, di quella vicenda – e delle molte altre che l’avevano preceduta e che la seguirono – non ne sapremmo oggi granché (a Masada sono intitolati, inoltre, due volumi di recente pubblicazione, rispettivamente dello storico Samuele Rocca e dell’archeologa Jodi Magness; vedi a p. 109). Dopo la caduta di Jotapata, alla cui difesa era stato preposto, e dopo essersi sottratto alla minaccia di un suicidio collettivo, Giuseppe Flavio si arrende e passa al nemico. La domanda se si fosse trattato di un tradimento puro e semplice ha sollecitato e continua a stimolare la curiosità degli storici contemporanei: Flavius Joséphe ou du bon usage de la trahison è il titolo di un fondamentale saggio di Pierre Vidal-Naquet, tradotto in italiano con Il buon uso del tradimento (con introduzione di Arnaldo Momigliano, Editori Riuniti, Roma 1992). Ricordiamo, allora, quanto lo stesso Giuseppe riporta sugli attimi di quella fatidica decisione: «In quel momento [Giuseppe] si sentí ispirato a penetrarne il senso e, rievocando le terrificanti visioni dei recenti sogni, rivolse al Dio una tacita preghiera e “Poiché” disse “ti piace, a te che l’hai creata, di distruggere la stirpe dei giudei, e la fortuna è passata interamente dalla parte dei romani, e tu hai scelto l’anima mia per annunciare il futuro, di buon grado mi arrendo ai romani e conservo la vita, ma t’invoco a testimone che non vado come un traditore, ma per eseguire i tuoi voleri”» (Guerra giudaica, III, 354). Andreas M. Steiner La statua dello storico Giuseppe Flavio collocata all’ingresso del sito di Masada.


SOMMARIO EDITORIALE

Del buon uso di Giuseppe Flavio

3

Parco Archeo Natura, che permetterà di tornare, per un giorno, all’età del Bronzo

MUSEI

Il maestro di bellezze 44 12

di Nicoletta Capasso

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

SCOPERTE Una pista di orme fossili scoperta sull’Altopiano della Gardetta, in Piemonte, rivela l’esistenza di un grande rettile, simile a un coccodrillo, vissuto ben 250 milioni di anni fa 6

FRONTE DEL PORTO Nuovi progetti di valorizzazione interessano la necropoli dell’Isola Sacra, uno dei complessi archeologici piú importanti dell’area ostiense 16 di Paola Germoni

44

L’INTERVISTA

ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8

incontro con Luciano Canfora, a cura di Flavia Marimpietri

di Umberto Livadiotti e Andreas M. Steiner

32

54

La verità di Giuseppe 32

Nella terra promessa 54

PASSEGGIATE NEL PArCo Il Parco archeologico del Colosseo si fa sempre piú verde e sul Palatino ora si producono vino, miele e olio d’oliva 10 di Francesca Boldrighini, Gabriella Strano

2021

€ 5,90

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ARCHEO 435 MAGGIO

In copertina il sito di Masada, alle propaggini meridionali del deserto di Giuda. IN EDICOLA L’ 8 MAGGIO 2021

MUSEI Il sito palafitticolo di Fiavè, nel Trentino, si avvia a inaugurare il

Presidente

Federico Curti

MASADA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale Mens. Anno XXXV n. 435 maggio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE MASADA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

SICILIA PRIMA DEI GRECI

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

ARISTAIOS TERRA PROMESSA

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

GIUSEPPE FLAVIO

Anno XXXVII, n. 435 - maggio 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

L’ULTIMA FORTEZZA

ROMA

LA COLLEZIONE SINOPOLI

GIUSEPPE FLAVIO E IL MISTERO DI GESÚ INCONTRO CON LUCIANO CANFORA

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I LUOGHI DEL SACRO

IN SICILIA PRIMA DEI GRECI ARCHEOLOGIA E NAZIONALISMI

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Paul J. Riis

SCAVARE LA TERRA PROMESSA

27/04/21 14:43

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Francesca Boldrighini è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Nicoletta Capasso è archeologa. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paola Germoni è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Umberto Livadiotti è cultore della materia in storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Francesca Spatafora è archeologa. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena. Gabriella Strano è architetto paesaggista del Parco archeologico del Colosseo.

Illustrazioni e immagini: Duby Tal/Albatross: copertina e pp. 88/89, 90/91 (basso), 92, 94/95, 102-103 – Shutterstock: pp. 3 (e p. 107), 38/39, 50/51, 54/55, 62 (basso), 63, 65,


LUOGHI DEL SACRO/5 Siamo Elimi e Sicani

68

di Francesca Spatafora

68 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA La fanciulla e il serpente

110

di Francesca Ceci

88 SPECIALE

110 LIBRI

Masada, l’ultima fortezza 112

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di Andreas M. Steiner, con un contributo di Flavio Russo

96/97, 100, 100/101, 105, 108/109 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa Università degli Studi di Torino: p. 6 (basso); Massimo Delfino: pp. 6 (centro, a sinistra), 7; Massimo Petti: pp. 6 (centro, a destra), 8; Cortesia Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Ufficio Stampa della Provincia autonoma di Trento: pp. 12-13 – Cortesia Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Parco archeologico di Ostia antica: pp. 16-17 – Cortesia Reparto Operativo Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale: p. 18 – Cortesia Soprintendenza BBCCAA di Caltanissetta: pp. 20-21 – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 22-23 – Cortesia degli autori: pp. 24, 68/69, 70, 71, 72-83, 87 – The Cleveland Museum of Art, Cleveland: Severance and Greta Millikin Purchase Fund: p. 25 – Alamy Stock Photo: p. 32 – Doc. red: pp. 33, 36, 40-42, 56-57, 60-61, 62 (alto), 66 (alto e basso, a sinistra), 67, 84/85, 86, 90/91 (alto), 91, 110-111 – Bridgeman Images: pp. 34/35 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 35, 58, 106; Fototeca Gilardi: p. 37; Album/Prisma: p. 64 – Cortesia dell’autore: Fondazione Musica per Roma: pp. 44-49, 50, 52-53 – The American Colony and Eric Matson Collection, Todd Bolen: p. 59 – Lionster: p. 93 – ZeevStein: p. 99 – Zairon: p. 101 (basso) – Ted Chi: pp. 104/105 – Israel Press and Photo Agency (I.P.P.A.)/Dan Hadani collection, National Library of Israel: pp. 108/109 (alto) – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 66 – Cippigraphix: cartina alle pp. 70/71; rielaborazioni grafiche: pp. 96 (da: Jodi Magness, Masada: From Jewish Revolt to Modern Myth, Princeton University Press, 2019), 98/99 (da: Ehud Netzer, Die Paläste der Hasmonäer und Herodes des Großen, Philipp von Zabern, 1999). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Piemonte

COCCODRILLI DI MONTAGNA

L’

Altopiano della Gardetta nell’Alta Val Maira (Canosio, Cuneo) è stato teatro di una inattesa quanto eccezionale scoperta paleontologica. Qui, alla quota di 2200 m circa,

grazie a sopralluoghi condotti tra il 2008 e il 2009, il geologo Enrico Collo, insieme al professor Michele Piazza (Università di Genova) e Heinz Furrer dell’Università di Zurigo, identificò, nelle rocce della A sinistra: l’Altopiano della Gardetta, nel Cuneese, teatro della scoperta delle orme fossili di un grande rettile, vissuto intorno ai 250 milioni di anni fa. A destra: la pista delle orme, che sono apparse eccezionalmente ben conservate. A sinistra: ricostruzione ipotetica del grande rettile, simile a un coccodrillo, al quale sono state attribuite le orme scoperte sull’Altopiano della Gardetta. Si calcola che l’animale misurasse almeno 4 m di lunghezza. Nella pagina accanto: Massimo Petti, esperto di orme fossili, nel corso di un sopralluogo.

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zona alcune tracce di calpestio attribuibili a grandi rettili, originariamente lasciate fra i fondali fangosi ondulati di una antica linea di costa marina in prossimità di un delta fluviale. Il successivo studio delle tracce, ora pubblicato, le descrive in parte come orme fossili riconducibili all’icnogenere Chirotherium (si definisce icnogenere, dal greco ichnos, traccia, una categoria di orme, n.d.r.) e istituisce un tipo di impronta fossile nuova per la scienza, denominata Isochirotherium gardettensis, in riferimento all’altopiano in cui è stata scoperta. Come ha dichiarato Edoardo Martinetto, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università

di Torino, primo scopritore delle nuove tracce: «È stato molto emozionante notare appena due fossette impresse nella roccia, spostare un ciuffo erboso e realizzare immediatamente che si trattava di un’impronta lunga oltre 30 cm: un vero tuffo nel tempo profondo, con il privilegio di poter appoggiare per primo la mano nella stessa cavità dove in centinaia di milioni di anni se n’era appoggiata soltanto un’altra; mi è venuto spontaneo rievocare subito l’immagine dell’animale che lasciò, inconsapevolmente, un segno duraturo nel fango morbido e bagnato, ma destinato a divenire roccia e innalzarsi, fino a formare parte della solida ossatura delle Alpi».

Secondo Fabio Massimo Petti del MUSE-Museo delle Scienze di Trento, esperto di orme fossili e primo autore del lavoro, si tratta di un ritrovamento unico in Europa: «Le orme sono eccezionalmente preservate e con una morfologia talmente peculiare da averci consentito la definizione di una nuova icnospecie che abbiamo deciso di dedicare all’Altopiano della Gardetta». Il paleontologo Massimo Bernardi, anch’egli del MUSE, sottolinea come questi ritrovamenti testimonino la presenza di rettili di grandi dimensioni in un luogo e un tempo geologico che si riteneva caratterizzato da condizioni ambientali inospitali. Le rocce che preservano le impronte della

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n otiz iario

Gardetta, formatesi pochi milioni di anni dopo la piú severa estinzione di massa della storia della vita, l’estinzione permotriassica, dimostrano che quest’area non era totalmente inospitale alla vita come proposto in precedenza. «Non è possibile conoscere con precisione l’identità dell’organismo che ha lasciato le impronte che abbiamo attribuito a Isochirotherium gardettensis – ha sottolineato il paleontologo Marco Romano, della “Sapienza” Università di Roma –, ma, considerando la forma e la grandezza delle impronte, e altri caratteri anatomici ricavabili dallo studio della pista, si tratta verosimilmente di un rettile arcosauriforme di notevoli dimensioni, almeno 4 m, vissuto intorno ai 250 milioni di anni fa». Da parte sua, il professor Michele Piazza, dell’Università di Genova, ha ricordato «la grande emozione provata in occasione della prima scoperta, con l’amico Enrico Collo nel 2008, il piacere intellettuale della prima campagna di rilievi, condotta con Enrico e Heinz Furrer nel 2009, e poi la grande soddisfazione scientifica avuta nel lavorare con una cosí prestigiosa squadra di ricercatori, il tutto nella consapevolezza che questa rilevante novità scientifica si colloca in un territorio di spettacolare bellezza, accrescendone il già grandissimo valore». Al raggiungimento di questi risultati ha contribuito in maniera determinante, dal punto di vista organizzativo ed economico, l’Associazione Culturale «Escarton», che ha sostenuto il progetto a partire dal 2016 e che, grazie al presidente Giovanni Raggi, ha rappresentato l’intermediario fra il

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In alto: la superficie rocciosa dell’area della scoperta; oltre alle orme, si vedono le tracce lasciate dal moto ondoso: la zona, infatti, è parte di un’antica costa marina, prossima a un delta fluviale. Qui sopra: particolare di un’orma. mondo della ricerca e quello delle istituzioni locali, rappresentate dai sindaci dei Comuni di Canosio e Marmora, nonché dall’Unione Montana Valle Maira. Il progetto di ricerca è destinato a svilupparsi ulteriormente grazie all’estensione dell’area di indagine e alla raccolta di ulteriori informazioni sulla associazione di rettili triassici che hanno lasciato

tracce nella zona, ma, soprattutto, grazie alla diffusione dei risultati delle ricerche geo-paleontologiche attraverso la creazione di un Geo-Paleo park, comprendente un centro visitatori e un giardino geologico didattico-divulgativo. «La nostra prossima sfida – ha sottolineato il coordinatore del progetto, Massimo Delfino, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino – è trovare la copertura finanziaria che garantisca una raccolta accurata ed esaustiva delle informazioni di importanza scientifica, la conservazione a lungo termine del patrimonio paleontologico della Gardetta e la sua valorizzazione in un’ottica di promozione culturale e turistica delle caratteristiche naturali della Val Maira». Lo studio delle orme scoperte sull’Altopiano della Gardetta è stato pubblicato sulla rivista internazionale PeerJ, da un team di geologi e paleontologi del MUSE-Museo delle Scienze di Trento, dell’Istituto e Museo di Paleontologia dell’Università di Zurigo e delle Università di Torino, Roma Sapienza e Genova, in accordo con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Alessandria, Asti e Cuneo. (red.)


ANCHE IL TURISMO ARCHEOLOGICO HA IL SUO NEW DEAL

C

onoscere per capire e riorientare. In attesa che l’emergenza sanitaria possa dirsi superata e che il turismo torni protagonista del PIL italiano, gli atenei di Salerno (capofila), Milano Bicocca e Londra Middlesex – in collaborazione con la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, diretta da Ugo Picarelli – hanno messo a punto il progetto «Turismo Archeologico e Giovani-Insight e policy per un New Normal», i cui risultati saranno presentati in occasione della XXIII edizione della BMTA. Focus dell’indagine sono le nuove richieste di fruizione dei siti archeologici e un ruolo predominante all’interno del questionario è svolto dai social media. La ricerca nasce sotto la direzione della professoressa Maria Teresa Cuomo del Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università degli Studi di Salerno. A lei il compito di stabilire scientificamente lungo quali direttrici potrà muoversi il turismo archeologico di domani. Professoressa Cuomo, un questionario per indagare su quali direttrici va costruita l’offerta del patrimonio artistico-culturale nazionale. Come è organizzato, a chi è indirizzato e quali obiettivi si pone? «Il progetto di ricerca promosso dal Macref – Laboratorio di Management dell’Ateneo salernitano –, si arricchisce del contributo scientifico del Centro di Ricerca Interuniversitario in Economia del Territorio dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e del Dipartimento di Marketing della Middlesex University di Londra. Teso a indagare e interpretare i nuovi comportamenti e le preferenze alternative cui la società ha dovuto uniformarsi per fronteggiare la pandemia, dimostra – dati alla mano per supportare il modello di ricerca – che coniugare business, cultura e patrimonio non solo è possibile, ma necessario, e che utili alleati risultano essere i social media e le connessioni virtuali da essi generate. Target dello studio i fruitori di domani dell’offerta culturale, ovvero Millennial e Generazione Z, intercettati grazie a una caratterizzazione sull’aspetto generazionale. La ricerca consentirà di definire strategie e attività piú puntuali a supporto del rilancio del turismo archeologico. Al momento, la parte relativa al campione di controllo – giovani competenti che hanno una formazione in linea con il campo indagato – è chiusa. All’indagine generale hanno risposto piú di 600 giovani, ma l’obiettivo è di raggiungerne almeno un migliaio. Nel corso della

strutturazione del questionario, abbiamo tenuto conto di alcuni aspetti fondativi delle nuove preferenze, privilegiando soprattutto la componente emotiva, il livello di identificazione del visitatore, chiedendoci e chiedendo quali fossero le aspettative future, le ragioni che possono spingere a raccomandare l’esperienza fatta e quelle che invece possono indurre lo stesso visitatore a reiterarla. L’assunto di base è che i social media possono divenire strategici alleati emozionali nel preparare il terreno a un “New Deal” del turismo archeologico. È un’occasione da non lasciarsi sfuggire anche per mettere a punto una rinnovata comunicazione del patrimonio del territorio, valorizzando esperienze di “fisicità aumentata” in grado di affascinare i nuovi target. I risultati verranno resi noti nel corso della edizione della BMTA calendarizzata per il prossimo autunno, ma quello che è già possibile svelare è che si consolida la tendenza di un turismo di prossimità anche in ragione dell’aspetto rassicurante, in termini di sicurezza personale, che un luogo geograficamente vicino assume. Il questionario si può compilare al seguente link: https://bit.ly/3kBKSrq». Scolaresche al tempio di Nettuno di Paestum.

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

INCONTRI Paestum


PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

IL CUORE DI ROMA? È ANTICO, MA ANCHE VERDE L’IMPULSO DATO AI PROGETTI DI TUTELA E VALORIZZAZIONE DELL’AMBIENTE HA FATTO DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO UN SITO DI «CULTURA» AGRICOLA. E COSÍ, SUL PALATINO, ACCANTO ALLE CAPANNE DI ROMOLO E ALLE DOMUS IMPERIALI, RONZANO LE API E PROSPERANO LE VITI

L

a mirabile compenetrazione fra storia e natura definisce il paesaggio del Parco archeologico del Colosseo. Il sito si adagia su piú di 40 ettari di verde, nel centro storico di Roma, conferendo alla già straordinaria importanza monumentale il valore ambientale costituito dal grande patrimonio vegetale e arboreo del Parco, che conta 1200 alberi, molti dei quali centenari. Una risorsa naturale importante per contribuire ad affrontare la crisi climatica, dal momento che la vegetazione è, di fatto, l’elemento piú efficace e sostenibile per contrastare il riscaldamento globale e ridurre le emissioni dannose prodotte dall’uomo; la deforestazione è infatti tra le principali cause dei cambiamenti climatici. Il Parco ha compreso l’importanza di contribuire allo sviluppo dell’economia sostenibile e alla sensibilizzazione del pubblico su questo tema ed è nato cosí il progetto «Parco Green»: una vasta serie di iniziative accomunate dallo scopo di ridurre l’impatto ambientale, diminuire l’inquinamento, conservare l’ecosistema e la biodiversità. Un

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impegno verso la transizione a un paradigma economico ambientalmente responsabile, piú equo e solidale, che incentivi la tutela delle risorse naturali. Le attività – raccolte nella pagina dedicata del sito web https://

Nella pagina accanto, dall’alto: le viti a Vigna Barberini sul Palatino; l’olio e il miele del Palatino. In basso: le fronde di uno dei numerosi alberi d’olivo del Parco archeologico del Colosseo inquadrano l’Arco di Tito.


parcocolosseo.it/parco-green – spaziano dal riciclo dei materiali a progetti di restauro ecosostenibile; dall’osservazione e dallo studio della fauna ai progetti didattici rivolti al nostro pubblico; dalla raccolta delle piante e dei frutti spontanei del Parco alla messa a dimora di essenze antiche legate alla storia del sito; e qui vogliamo illustrare proprio questi ultimi progetti, curati dall’architetto paesaggista Gabriella Strano.

L’ESORTAZIONE DI PLINIO Ogni iniziativa prende impulso dalla storia millenaria del sito e da quanto le fonti antiche hanno tramandato sull’importanza economica ed etica dell’agricoltura, considerata l’attività moralmente piú degna del cittadino romano. Plinio il Vecchio, autore latino del I secolo d.C., nella sua Naturalis Historia, richiama l’attenzione sull’impatto ambientale

del lavoro umano e sui vincoli che sarebbe stato auspicabile porre a tale attività. Un suggerimento che, venti secoli dopo, risulta drammaticamente attuale. Ne facciamo tesoro: il Parco archeologico del Colosseo ha, tra i suoi obiettivi, oltre la tutela del valore culturale, storico e naturalistico dei beni affidatagli, anche l’etica ambientale. I progetti scaturiti da questa convinzione mirano al recupero e alla valorizzazione di quanto presente nel sito e della sua storia. Sulla piazza del Foro Romano si provvede a conservare la memoria delle tre piante simbolo della cultura romana: Ficus, Olea e Vitis. Olivo e vite erano cosí importanti da essere piantati vicino al Fico Ruminale, la pianta legata al mito delle origini di Roma, sotto al quale si ancorò, secondo la leggenda, la cesta con i divini gemelli Romolo e Remo, progenitori della città. Con il contributo tecnico della Confederazione di Coldiretti Lazio e della Scuola Italiana dell’Olio di Oliva, è nata la produzione dell’Olio del Palatino, Extra Vergine di Oliva, frutto dei 189 alberi di olivo del PArCo. Un recupero virtuoso, che ha eliminato la dispersione di un bene prezioso come le olive e il problema di pulizia e sicurezza creato dai frutti sui viali del sito. Un’attenzione particolare è rivolta anche alla vite. Il Parco conserva ancora nella sua toponomastica aree chiamate «vigna», nel senso piú esteso del termine, ovvero orti, e nelle indagini archeologiche e nelle carte storiche la presenza dei vigneti è ben documentata. Da qui, e in collaborazione con l’azienda vitivinicola Cincinnato, è nata l’idea di impiantare una piccola vigna, in una zona del Palatino chiamata appunto «Vigna Barberini», dall’omonima famiglia romana che nel XVII secolo ne deteneva la proprietà. È stato scelto un antico vitigno autoctono, che Plinio

chiama «uva pantastica», da cui deriva il vino Bellone, coltivato nelle provincie di Roma e di Latina. Grazie al progetto GRABees, è stato possibile ricavare anche il miele Ambrosia del Palatino. Le arnie sono state posizionate ai piedi delle capanne romulee, dove ha inizio la storia di Roma, in uno dei punti piú tranquilli e suggestivi del PArCo, ricco di vegetazione mediterranea. Ciò ha facilitato l’ambientamento dell’alveare e la riuscita del progetto; le api sono preziosi insetti impollinatori, oggi a rischio di estinzione a causa della perdita degli habitat naturali e dei cambiamenti climatici.

LOTTA ALLO SMOG Nel PArCo la vegetazione spontanea convive con i grandi alberi storici e uno studio mirato alla capacità di alcune specie arbustive autoctone di assorbire tramite le foglie il particolato e gli inquinanti gassosi per poi restituire all’ambiente circostante aria pulita, ne ha decretato l’enorme importanza. Il 21 novembre 2020, Giornata nazionale degli alberi, in un’area del PArCo prospiciente il Circo Massimo, si è proceduto alla piantagione di una «barriera antismog»:150 piante (Laurus nobilis, Quercus ilex, Eleagnus ebbingei, Photinia fraseri, Viburnum lucidum e Arbutus unedo), di cui 15, piú piccole, che dovevano essere messe a dimora dai bambini per avvicinarli al delicato rapporto tra vegetazione e tutela dell’ambiente. Come emblema della lotta contro i cambiamenti climatici e per salvaguardare i caratteri vegetali dell’antichità il PArCo ha scelto la rosa Augusta Palatina, che conserva il patrimonio genetico delle rose antiche e di cui abbiamo già avuto occasione di parlare (vedi «Archeo» n. 414, agosto 2019; anche on line su issuu.com). Francesca Boldrighini, Gabriella Strano

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n otiz iario

MUSEI Trentino-Alto Adige

UN PARCO PER LE PALAFITTE

N

el decennale dell’iscrizione delle palafitte trentine nella lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO, è in via di completamento, a Fiavé, il Parco Archeo Natura. Ideato e realizzato dalla Soprintendenza per i beni culturali della Provincia

autonoma di Trento, il parco si estende su una superficie di 12 000 mq, nello scenario suggestivo della riserva naturale, nei pressi dell’area archeologica dove sono tuttora visibili i resti dei pali che sorreggevano le costruzioni preistoriche. Assieme

In questa pagina: immagini del Parco Archeo Natura di Fiavé, realizzato a poca distanza dall’area in cui furono scoperti i resti di un insediamento palafitticolo, tuttora conservati.

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A destra, in alto: il Museo delle Palafitte di Fiavé, di cui il Parco Archeo Natura si avvia a costituire il logico complemento. A destra, in basso: alcune delle capanne ricostruite a grandezza naturale nel Parco Archeo Natura. Le strutture sono state realizzate basandosi sui dati acquisiti grazie agli scavi del villaggio palafitticolo. al Museo delle Palafitte, situato nell’abitato di Fiavé (vedi «Archeo» n. 329, luglio 2012; anche on line su issuu.com), il Parco Archeo Natura costituisce un vero e proprio polo archeologico e una tappa importante per il comparto culturale del Trentino, che andrà a integrare e arricchire l’attrattività del territorio con il coinvolgimento delle comunità locali. Il nuovo parco è il risultato di un lungo cammino, iniziato con le prime ricerche archeologiche condotte da Renato Perini negli anni Sessanta del Novecento e proseguite da Franco Marzatico, attuale soprintendente per i beni culturali del Trentino. L’antico lago Carera, divenuto torbiera, ha conservato per millenni preziose

testimonianze e reperti messi in luce dagli archeologi e ora in parte esposti nel Museo delle Palafitte. E proprio dai dati di scavo prendono vita le ricostruzioni del villaggio palafitticolo dell’età del Bronzo, con capanne realizzate in scala 1:1 e installazioni che evocano la «selva di pali», per usare la definizione dei primi archeologi che indagarono le palafitte. Un’ambientazione che intende trasformare la visita in un’esperienza coinvolgente e immersiva e offrire un affascinante viaggio nel tempo, per sperimentare la vita dei nostri antenati dell’età del Bronzo. Il percorso sarà corredato da pannelli informativi e installazioni che illustrano la vita ai tempi delle

palafitte, un centro visitatori con filmati e apparati multimediali, aree di sosta e spazi dedicati alle famiglie e ai visitatori piú piccoli. A ciò si aggiunga che il parco si colloca in una zona di grande interesse storico e naturalistico, sulla quale insistono tre riconoscimenti UNESCO. Fiavé è una delle 111 località, insieme a Ledro, che costituiscono il sito transnazionale dedicato alle palafitte preistoriche dell’arco alpino, entrate nel 2011 nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità. Inoltre, il territorio delle Giudicarie è stato riconosciuto Riserva della Biosfera UNESCO, senza dimenticare le vicine Dolomiti di Brenta anch’esse dichiarate Patrimonio dell’Umanità. L’apertura del parco e la sua promozione nel contesto della valorizzazione dell’offerta territoriale sono frutto della collaborazione di numerosi soggetti, che hanno unito capacità e sforzi per la valorizzazione e la restituzione al pubblico del sito palafitticolo di Fiavé, straordinario patrimonio collettivo. (red.)

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

IL RACCONTO COME MISSIONE GRAZIE ALL’IMPEGNO NELLA COMUNICAZIONE, IL PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI HA VISTO E VEDE AMPLIARSI A RITMO COSTANTE LA PLATEA DEI SUOI UTENTI. UNA FRUIZIONE RESA VIRTUALE DALLA PANDEMIA NEGLI ULTIMI MESI, MA NON PER QUESTO MENO SIGNIFICATIVA E SENTITA

L’

ufficio comunicazione del Parco Archeologico di Pompei sta per compiere i suoi primi 5 anni. Nato come costola dell’ufficio stampa, poi parte integrante di esso e ancora piú dedicato ai social network e al web, è il motore di quasi tutto ciò che viene diffuso on line dal Parco. Video, foto, progetti speciali, grafiche, testi e approfondimenti per raccontare il sito archeologico fra i piú importanti del mondo. E per fare storytelling, che per un parco archeologico significa

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raccontare il patrimonio culturale, eliminando la patina noiosa, rafforzando le competenze scientifiche e rendendolo accessibile a tutti e soprattutto partecipativo. La comunicazione e la promozione di Pompei, infatti, viaggiano ormai da anni anche attraverso le piattaforme social e web, azioni determinanti per fare del sito un protagonista culturale in grado di generare inclusione, coinvolgimento e partecipazione attiva da parte del pubblico reale o virtuale. I risultati non si sono fatti

attendere e oggi i numeri parlano chiaro: il profilo Instagram sfiora i 250mila followers, la pagina Facebook i 200mila e Twitter i 50mila, mentre il canale YouTube conta 5000 iscritti. Numeri in continua crescita, che si trasformano soprattutto in interazioni e partecipazione attiva, e che, da un anno e piú, sotto pandemia, hanno ulteriormente rafforzato il legame virtuale tra Pompei e il pubblico. In alcuni casi, come nelle recenti scoperte del Termopolio o del carro di Civita


Giuliana, alcuni post hanno raggiunto e superato la copertura di 3 milioni di persone, e in totale sfiorato i 10 milioni di persone raggiunte, in Italia e soprattutto all’estero. Tutti i post sono in italiano e in inglese, grazie anche al supporto di un madrelingua, curati dallo staff coordinato da Marella Brunetto con Giuseppe Barbella, Antonio Benforte, Alessandro Tartaglione, Maria Luisa Vitale ed Enrico Inserviente. Le tante rubriche create appassionano un pubblico trasversale. Si va dalle curiosità storiche, alla celebrazione degli anniversari, delle festività romane e delle giornate mondiali, fino ai giochi cromatici su Instagram, con gli approfondimenti sui colori, particolarmente suggestivi anche nella resa sulla griglia a tre, tipica di questo social. Il Parco partecipa poi alla maggior parte delle iniziative internazionali di promozione digitale dei musei: Museum Week, Ask a Curator, Why I love Museums, Ten Years Challenge e, in ultimo, la Museum at Night Challenge.

LA PAROLA AGLI ESPERTI Né vengono tralasciati i siti minori, quelli storici e anche il nuovo Museo archeologico di Stabia Libero D’Orsi, a Castellammare; le foto dei visitatori, che numerosi taggano e scrivono ogni giorno sulla pagina ufficiale; le videointerviste ai funzionari che spiegano i restauri, i lavori di manutenzione o le campagne di scavo; o ancora i video con le guide ufficiali del Parco, per dare voce a un settore in crisi nell’ultimo periodo, e i video per bambini, in collaborazione con Geronimo Stilton, ormai da tempo ospite del Parco e divulgatore del patrimonio archeologico di Pompei. Spazio infine, anche ai podcast, realizzati da Electa con Piano P, e da poco diffusi per la riapertura dell’Antiquarium.

A destra: una fase del primo intervento di restauro sul carro da parata di Civita Giuliana, scoperto nello scorso gennaio. Nella pagina accanto: la spettacolare megalografia che orna il salone (oecus) 5 della Villa dei Misteri. II stile, I sec. a.C. In basso: l’immagine guida de La città viva, il podcast in 6 episodi dedicato al Parco Archeologico di Pompei.

Il tutto in continua evoluzione: l’anno del Covid ha obbligato a ripensare il modo di stare on line, di comunicare e interagire coi visitatori, per molto tempo costretti a casa, ma che continuano a sognare il Parco Archeologico dallo schermo di uno smartphone o di un pc. Questo si è tradotto da un lato in un aumento dei contenuti veicolati, dall’altro nella creazione di prodotti di ancora maggiore qualità, soprattutto per quello che riguarda le foto e i video. L’interazione e la sinergia con l’Ufficio Comunicazione del Ministero, inoltre, si è trasformata spesso in collaborazione concreta e rimando reciproco di iniziative e campagne di comunicazione. Come negli ultimi casi di successo: la promozione delle tre ultime scoperte straordinarie del Parco Archeologico. Per i calchi umani e il carro da parata di Civita Giuliana, il

ritrovamento del Termopolio nella Regio V, è stata creata una strategia di progressivo svelamento delle scoperte, fino al lancio del comunicato stampa e relative foto/ video ufficiali. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

QUEI TESORI SVELATI DALLE BONIFICHE...

VENUTA ALLA LUCE NEGLI ANNI VENTI DEL NOVECENTO, LA NECROPOLI DELL’ISOLA SACRA È UNO DEI SITI PIÚ IMPORTANTI DELL’AREA OSTIENSE. UN SEPOLCRETO SEGNATO DALLA PRESENZA DI MONUMENTI FUNERARI DI GRANDE PREGIO, COME NEL CASO DELLA TOMBA DELLA MIETITURA

I

n prossimità del litorale laziale, tra Ostia e Portus, due tra i principali poli economici dell’antichità, si estende quella che il Catasto Alessandrino definisce la «tenuta Isola Sacra», perimetrata sui restanti tre lati da vie d’acqua: l’antica Fossa Traiana, il braccio naturale del Tevere e il suo gomito successivo all’alluvione del 1557, nei pressi della foce. Negli anni Venti del secolo scorso, la

scoperta casuale di alcuni edifici funerari che conservavano intatti gli apparati decorativi interni (pitture, mosaici, stucchi) e gli arredi marmorei (are, sarcofagi, statue), oltre che i nomi dei defunti ricordati da lastre in marmo con iscrizioni, segnò in modo indelebile la storia dell’archeologia e, con essa, la storia di Isola Sacra, naturale cerniera tra il territorio ostiense e portuense.

Enorme fu l’eco dell’inaspettata scoperta: i giornali dell’epoca e i primi cinegiornali attestano il nascere dell’uso politico e propagandistico dell’immane lavoro di disseppellimento, svolto contestualmente alla grande bonifica di una terra impaludata, che la nascente Opera Nazionale Combattenti dirigeva sotto l’egida del governo, per rendere produttivi i suoli, gravati da abbandono e malaria. Fin dall’inizio il problema dell’impaludamento, che comprometteva la conservazione in situ di pitture e mosaici, fu risolto ricorrendo al distacco delle porzioni decorate, privando cosí gli edifici dei rivestimenti e dei partiti policromi che ornavano l’ultima dimora. Oggi, l’area demaniale della necropoli dell’Isola Sacra si presenta come un insieme di In alto: tombe della necropoli di Portus all’Isola Sacra al momento della scoperta, agli inizi del XX sec. A sinistra: la Tomba della Mietitura, con il mosaico raffigurante il mito di Admeto e Alcesti.

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tombe architettoniche destinate a nuclei familiari e/o collegia, tombe in cassoni in muratura, sepolture singole entro anfore e/o sarcofagi in terracotta, ecc., tutte disposte ai lati di una strada, suddivisa in due carreggiate, della larghezza inusuale di 10,50 m. Si tratta della cosiddetta via Flabia/Severiana, che collegava Ostia a Portus e da cui si origina l’insediamento sepolcrale, rendendo evidente il disegno progettuale unitario dell’organizzazione del territorio in funzione del sistema portuale di Roma, avviato a partire dalla metà del I secolo d.C. La necropoli dell’Isola Sacra è conosciuta essenzialmente nella sua porzione meridionale, in ragione della maggiore consistenza delle strutture antiche in estensione e in elevato, che, fin dalla scoperta

nel secolo scorso, ha determinato la scelta di privilegiare questo settore quale area da destinare al pubblico godimento.

DUE TIPOLOGIE BEN DISTINTE Tale scelta iniziale ha condizionato un assetto monumentale che differenzia in modo sostanziale l’insieme degli edifici ai lati della strada, che, è bene ricordarlo, inizialmente correva sopraelevata rispetto al terreno sabbioso circostante. A occidente edifici completi di tetto, a oriente edifici di cui si comprende l’articolazione interna grazie alle strutture pavimentali e sotto-pavimentali che mostrano l’uso intensivo del sistema di sepoltura in formae. Proprio sul versante orientale si conservano tessuti musivi di

eccezionale pregio, come, per esempio, nel caso della Tomba della Mietitura, il cui splendido mosaico con il mito di Admeto e Alcesti, tema che non trova confronti, è visibile al momento stagionalmente in occasione della scopertura dai tessuti tecnici che lo proteggono. Per la necropoli sono in corso di progettazione interventi che, oltre ad avere finalità conservative e di rifunzionalizzazione del sistema di controllo delle acque di falda, prevedono anche la realizzazione di una struttura di copertura proprio della Tomba della Mietitura e di quelle adiacenti. Si prevede inoltre la costruzione di un padiglione destinato all’accoglienza e alla comunicazione multimediale, cosí da ampliare e migliorare l’esperienza di visita del pubblico. Paola Germoni

Veduta aerea della necropoli di Portus all’Isola Sacra.

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n otiz iario

RECUPERI Belgio

OCCHIO CLINICO

S

i è rivelata davvero provvidenziale la passeggiata nel quartiere brussellese di Sablon di due carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale, che si trovavano nella capitale belga nell’ambito di un’indagine. Al termine di una giornata di lavoro, hanno infatti notato, in uno dei molti negozi di antichità della zona, una statua in marmo, probabilmente proveniente dall’Italia e danneggiata in piú parti, verosimilmente a causa di colpi inferti con attrezzi da scavo. Al rientro in Italia e in collaborazione con la Sezione Elaborazione Dati, il confronto delle immagini fotografiche acquisite dai militari a Bruxelles con i files della Banca Dati Leonardo dei beni culturali illecitamente sottratti ha consentito di identificare l’opera con la statua romana raffigurante un togato, databile al I secolo a.C., già collocata nel parco di villa Marini Dettina, in Roma, dal quale era stata trafugata nel novembre 2011. L’importante scultura è stata quindi sequestrata su disposizione della Procura della Repubblica di Roma, a seguito di un Ordine d’Indagine Europeo accolto dalle autorità belghe, e rimpatriata nelle scorse settimane. Successivamente, le indagini sviluppate anche all’estero, in collaborazione con la Direction Generale de l’Inspection Economique du SPF Economie del Belgio, hanno evidenziato un traffico illecito di beni culturali facente capo a un commerciante italiano, che per le attività criminali utilizzava uno pseudonimo spagnolo e che è stato deferito alla Procura della Repubblica di Roma per la ricettazione e l’esportazione illecita della statua. (red.)

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La statua di togato trafugata nel 2011 dal parco di Villa Marini Dettina, a Roma, e recuperata a Bruxelles dal Comando Carabinieri TPC. I sec. a.C.



n otiz iario

SCAVI Sicilia

A DUE PASSI DAL MARE

A

Gela (Caltanissetta), un lembo della necropoli arcaica della città è stato intercettato sul lungomare Federico II di Svevia, non lontano dall’area archeologica di Bosco Littorio, che ospita i resti dell’emporio dell’antica colonia rodio-cretese. Si tratta di dodici sepolture, per lo piú a incinerazione, del tipo a kausis (definizione che si applica quando la cremazione avveniva all’interno della tomba stessa, n.d.r.) con fosse scavate nella sabbia e allestite con strutture lignee finalizzate al contenimento della pira funebre sulla quale veniva deposto il defunto per essere cremato, mentre i suoi resti (ceneri e ossa non combuste) venivano collocati in un angolo del cavo tombale o in un recipiente ceramico a sua volta sepolto nel sito del rogo. «L’inedita scoperta – spiega Daniela Vullo, soprintendente ai beni culturali della provincia di Caltanissetta – assume particolare rilievo, sia perché mai finora si erano rinvenute a Gela tombe di età arcaica in aree cosí prossime alla battigia, sia per l’eccezionale recupero di legni di varie dimensioni, che si sono conservati con molta probabilità in quanto ricoperti dalla sabbia appena concluso il rituale funerario». La Tomba 8 ha permesso di collocare la frequentazione del sepolcreto tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C., periodo che corrisponde proprio ai primi anni della fondazione della colonia greca e per il quale non si avevano ancora attestazioni funerarie. La sepoltura ha restituito due aryballoi di produzione rodia, uno dei quali del tipo «spaghetti ware», databile ai primi anni del VII secolo a.C. Alla prima metà dello stesso secolo risale anche una fibula in bronzo,

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perfettamente conservata e deposta, a rogo spento, in un angolo della sepoltura a kausis 7: questo prezioso oggetto di ornamento è presente a Rodi nei corredi delle tombe di Ialiso, datate anch’esse alla prima metà del VII secolo a.C. Nella sepoltura a kausis 11 si sono poi recuperati frammenti lignei tratti da fusti arborei di grandi dimensioni, che, solo parzialmente combusti, presentavano al momento della scoperta ancora nodi e fibre di colore rosso intenso. La necropoli dovette essere in uso

In alto: Gela. Veduta delle tombe scoperte in prossimità del lungomare Federico II di Svevia. Qui sopra: particolare di una tomba in cui si riconosce un cranio.


quasi per un secolo, non oltre gli inizi del VI a.C., come attesta la presenza di tre sepolture a enchytrismòs, fra le quali spicca un’anfora samia di tipo C, che custodiva lo scheletro di un infante. Un altro gruppo di tombe di bambini, con lo stesso rituale funerario, era già stato intercettato tra il 2019 e il 2020 nelle immediate vicinanze, in via Di Bartolo, nel quartiere Borgo, durante lavori di scavo curati da Open Fiber. Anche in quel caso erano state individuate sepolture che avevano restituito preziose forme ceramiche, tra cui un’olpe e una coppa su piede del In alto: tomba infantile a enchytrismòs. A custodire il piccolo scheletro era un’anfora samia di tipo C. A sinistra: gli aryballoi di produzione rodia della tomba a kausis n. 8 in corso di scavo. A destra: la tomba a kausis n. 10. Il sepolcreto fu in uso tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C.

protocorinzio (700-651 a.C.) e un’anfora corinzia del tipo A (570560 a.C), a conferma di come, tra il VII e il VI secolo a.C., i primi coloni greci giunti sulle coste meridionali dell’isola utilizzassero per le sepolture di infanti e adulti le artistiche ceramiche importate da diverse aree di produzione egee, come Rodi, Creta, Mileto, Corinto e la stessa Atene. La scoperta è avvenuta nel corso delle indagini di archeologia preventiva attivate in occasione della ricostruzione di un edificio per civili abitazioni. I lavori di scavo, diretti dalla Soprintendenza ai Beni Culturali di Caltanissetta, sono stati condotti e documentati dall’archeologo Gianluca Calà. Giampiero Galasso

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

GRUPPO DI FAMIGLIA IN UN POZZETTO CONTINUANO AD ARRICCHIRSI LE CONOSCENZE SUGLI ETRUSCHI DI VULCI. ULTIMA, MA SOLO IN ORDINE DI TEMPO, LA VICENDA RACCONTATA DAL CORREDO DI UNA TOMBA ATTRIBUIBILE, CON OGNI PROBABILITÀ, AL MEMBRO DI UNA NOBILE FAMIGLIA, MORTO PREMATURAMENTE

L

e ricerche a Poggetto Mengarelli hanno fatto registrare una nuova sorpresa: la scoperta di un consistente nucleo di tombe villanoviane. In realtà, l’altura del poggio aveva restituito, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, alcuni frammenti di urne cinerarie rinvenuti dall’archeologo tedesco Klaus Raddatz, e gli attuali scavi hanno confermato quanto da lui già ipotizzato. Purtroppo, la maggior parte dei pozzetti individuati – circostanza non nuova a Vulci – risulta violata in precedenza e solamente tre, per il momento, sono stati rinvenuti in giacitura primaria, disturbati solo dai lavori agricoli.

CIOTOLE ROVESCIATE Scavati nella roccia tufacea di base e chiusi superiormente da una lastra di calcare, i pozzetti hanno una profondità di 50 cm circa e ospitano un vaso, normalmente di forma biconica, contenente le ceneri del defunto e coperto da una ciotola spesso rovesciata. Le tre urne cinerarie di Poggetto Mengarelli sono state deposte nei

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A destra: Poggetto Mengarelli. Due delle urne in corso di scavo: a sinistra, il biconico che conteneva i resti cremati di una donna e, a destra, quello infantile. Nella pagina accanto: il biconico utilizzato per l’uomo, che conserva, seppur frammentaria, la ciotola di copertura. In basso: il microscavo del riempimento dell’urna cineraria piú piccola, condotto in laboratorio.

pozzetti insieme alla terra di rogo, ma senza oggetti di corredo. Sia l’estrema vicinanza che le analisi antropologiche (effettuate da Andrea Battistini e Stefania di

Giannantonio) sembrano rimandare a un contesto familiare: le urne piú grandi (37 x 21 e 35 x 21 cm) contenevano infatti le ceneri di due individui adulti – rispettivamente un maschio e una femmina –, mentre la piú piccola (26 x 16 cm) ospitava i resti cremati di un bambino di età compresa tra i 9 e gli 11 anni.

SEGNI MISTERIOSI Tutti e tre i vasi biconici presentano un apparato decorativo molto complesso e in perfetto stato di conservazione, sicuramente legato a significati simbolici e religiosi, per i quali, nonostante i numerosi tentativi finora compiuti, non esiste, a oggi, uno studio che abbia permesso di decodificarli. Si tratta dunque di una forma di linguaggio ancora sconosciuta e da tradurre. Le urne si possono ascrivere alla fase 1 del periodo villanoviano,

all’interno del IX secolo a.C., mentre una piccola fibula in bronzo, forse di bambino, proveniente dalla parte superficiale di un vicino pozzetto non ancora scavato, ma già violato, rimanda a un momento iniziale dell’VIII secolo a.C. Le indagini sono tuttora in corso e presto ne saranno presentati i risultati in occasione del convegno «Vulci. Work in progress», che si terrà nella Sala François del Centro Visite 3D, presso l’ingresso del Parco Archeologico e Naturalistico agli inizi di dicembre. Le ricerche a Poggetto Mengarelli, iniziate nel febbraio 2016 e ancora in corso, sono condotte dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale in collaborazione con Fondazione Vulci e con il sostegno della Regione Lazio e del Comune di Montalto di Castro.

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A TUTTO CAMPO Mara Sternini

APOLLO E IL DRAGO IL MAGNIFICO BRONZO GRECO GIUNTO NEGLI USA IN CIRCOSTANZE TUTTORA OSCURE CELA UN SECONDO ENIGMA. CHE POTREBBE LEGARE LA SCULTURA ALLE LEGGENDE SULL’ORACOLO DI DELFI

N

ell’arte greca di età classica una posizione di rilievo è occupata da Prassitele, scultore vissuto nel IV secolo a.C. e la cui produzione è caratterizzata da grazia e morbida sensualità, che ne hanno decretato il successo tra i suoi contemporanei e, secoli dopo, anche presso i Romani. Tra le opere piú famose, oltre all’Afrodite Cnidia – prima figura femminile nuda della scultura greca –, va annoverato anche l’Apollo Sauroctono: la scultura mostra un giovane dio, con le fattezze di un adolescente, mollemente appoggiato a un tronco, mentre si accinge a uccidere una lucertola. Apollo è noto anche con altre epiclesi (attributi), che ne denotano il carattere purificatore e salvifico, come nel caso dell’Apollo Parnopios (sterminatore di cavallette, di cui era stata realizzata da Fidia una statua in bronzo, dedicata sull’Acropoli di Atene);

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oppure l’Apollo Smintheus (uccisore di ratti, al quale fu dedicato il santuario che sorgeva nei pressi di Chryse, sulla costa occidentale della Turchia). Apollo era figlio di Zeus e Latona (o Leto) e fratello gemello di Artemide; era il dio del sole, sovrintendeva alle arti mediche (suo figlio Asclepio era dio della medicina), era il dio della poesia e perciò capo delle Muse (uno dei suoi attributi è la cetra) e, soprattutto, era la divinità tutelare dell’oracolo di Delfi, città santuario della Focide, alle pendici del monte Parnàso. Secondo una versione del mito, il luogo, già sede di oracolo, era custodito dal serpente Python, che aveva perseguitato Latona

quando era incinta dei due gemelli. Anni dopo Apollo, forse per vendicare la madre, uccise Python e ne prese il posto diventando il dio oracolare di Delfi. La statua di Prassitele, quindi, piú che una rappresentazione leziosa del giovane dio che si diverte a uccidere una lucertola, potrebbe essere un preciso riferimento al mito di fondazione dell’oracolo apollineo. Numerose sono le copie romane in marmo di quest’opera, rinvenute in diversi contesti, ma solo di recente è stata trovata una riproduzione in bronzo a grandezza naturale: si tratta dell’Apollo conservato nel Cleveland Museum of Art in Ohio (USA), apparso per la


In alto: la lucertola dell’Apollo di Cleveland, della quale appare piú probabile l’identificazione con Python, il serpente-drago legato alla fondazione dell’oracolo di Delfi. A sinistra: statua di Apollo in bronzo, forse attribuibile a Prassitele. 350 a.C. circa. Cleveland, The Cleveland Museum of Art. Nella pagina accanto: San Giorgio e il drago, affresco di Lazzaro Tavarone. 1606-08. Genova, Palazzo San Giorgio. prima volta nel 2004 e di provenienza piuttosto oscura. Secondo la versione ufficiale, la statua sarebbe stata rinvenuta prima del 1900, e in seguito conservata in una proprietà privata nella Germania Est. Dopo la caduta del muro di Berlino, un certo Ernst-Ulrich Walter ne reclamò la proprietà, sostenendo che la statua si trovava da tempo nel giardino della sua casa. Venne cosí messa in vendita, finendo nelle collezioni del museo statunitense.

UN CASO ECCEZIONALE Che l’Apollo di Cleveland sia un ritrovamento importante è fuor di dubbio per vari motivi: in primo luogo perché sono rari i ritrovamenti di statue in bronzo, destinate quasi sempre alla rifusione per il recupero del metallo. È stata anche avanzata

l’ipotesi che possa trattarsi addirittura dell’originale di Prassitele, ma non è facile da dimostrare, date anche le oscure circostanze del ritrovamento. Ciò che, tuttavia, interessa qui non è tanto l’originalità della statua, quanto l’interpretazione dell’opera. Un elemento che rende la scultura ancora piú interessante è infatti la forma della lucertola, raffigurata con un corpo molto sinuoso e serpentiforme e con i piedi chiaramente palmati. Tali dettagli fanno pensare piú a una sorta di drago, circostanza che richiama il mito di fondazione dell’oracolo di Apollo. Il nome di questo serpentedrago deriva dal verbo greco pithoo (emanare miasmi), perché all’interno del tempio, in corrispondenza dell’adyton (un ambiente dislocato in fondo alla cella e accessibile solo ai sacerdoti addetti al culto), vi era una fenditura nella roccia da cui fuoriuscivano vapori. La sacerdotessa Pizia, seduta su un tripode, sotto l’effetto di quei fumi entrava in trance e proferiva i responsi oracolari. Il mito della lotta tra Apollo e Python, intesa come lotta tra il bene e il male, venne poi ripreso nella tradizione cristiana, dove il dio pagano è stato sostituito con san Giorgio, un soldato originario della Cappadocia (Turchia), martirizzato sotto l’imperatore Diocleziano. In realtà, il primo uccisore di drago noto nell’iconografia cristiana era san Teodoro (come si può osservare nella scultura posta sulla sommità della colonna in piazza San Marco a Venezia), ma, a partire dall’XI secolo, prevale l’iconografia con san Giorgio, dove il drago, in origine raffigurato ancora con corpo di serpente, sarà gradualmente trasformato con l’aggiunta di ali (piumate o a membrana) e zampe artigliate, acquistando dimensioni sempre maggiori. (mara.sternini@unisi.it)

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

IL PRESENTE DEL PASSATO 1 L’ultima puntata della serie dedicata al rapporto tra archeologia e nazionalismo affronta il caso di 2 3 Israele (vedi alle pp. 54-67). Qui, fino ai primi del Novecento, ha prevalso la tendenza a dimostrare che la Bibbia «aveva ragione», mentre dalla seconda metà del secolo scorso, grazie a nuovi approcci e metodologie piú moderne, si sta spesso riscrivendo il collegamento storico tra sacre scritture e specifici episodi biblici. È il caso di Gerico: le imponenti fortificazioni scoperte nel 1910 furono subito identificate con le mura crollate al suono delle trombe 5 4 di Giosuè (1), mentre mezzo secolo dopo vennero attribuite al II millennio a.C., ben lontane, quindi, dall’epoca del racconto biblico. La scoperta, nel 1947, dei rotoli di Qumran (2-3), ricordata cinquant’anni dopo (4), fu una nuova occasione per celebrare l’archeologia biblica come strumento per rinsaldare l’antico legame del neonato Stato di Israele con la Terra Promessa. E la stessa sorte toccò anche a personaggi biblici come re David 6 (5), Sansone (6) e i fratelli Maccabei. Ma il luogo della 7 memoria piú famoso è certamente Masada (7). Un’emissione israeliana mostra mosaici e monete (8) trovati nel sito e uno dei centinaia di ostraka (frammenti di ceramica scritti), che recano nomi di persone, fra cui quello di Eleazar Ben Yair, il capo dei ribelli (9) asserragliati nella fortezza; questo ultimo 9 ritrovamento fu collegato alle tessere usate per 8 estrarre a sorte i rivoltosi che avrebbero dovuto procedere all’esecuzione di tutti i rifugiati. In questo quadro possiamo anche ricordare l’archeologo Ygael Yadin, che condusse gli scavi proprio a Masada e, che pochi anni prima, aveva 11 scoperto, lungo la falesia del Nahal Hever, nel deserto di Giuda, la Grotta delle Lettere, nella quale sono stati rinvenuti con oggetti e papiri risalenti all’epoca di Bar Kochba (10), il leader della rivolta antiromana, e la 10 12 Grotta degli Orrori, la cui esplorazione ha portato alla scoperta dei resti di circa 25 IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere scheletri. A Gerusalemme, il Muro del Pianto alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai (11), l’unico resto archeologico risalente al seguenti indirizzi: Tempio erodiano, in realtà non è parte del Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, santuario vero e proprio, ma delle imponenti Via Tavanti, 8 C.P. 17037 sostruzioni che contenevano la spianata sulla quale 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. sorse il santuario voluto da Erode il Grande (12).

oppure

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lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

AVVISO AI LETTORI Italia Questo Calendario è stato redatto in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19 emanate dalle autorità nazionali e locali. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

ROMA Pompei 79 d.C.

Tesori dalle terre d’Etruria

Una storia romana Colosseo prorogata (data di chiusura in via di definizione)

Napoleone e il mito di Roma

Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 30.05.21

La collezione dei conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21

MILANO Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 30.01.22

Qhapaq Ñan

La grande strada Inca MUDEC-Museo delle Culture sospesa

I marmi Torlonia

NAPOLI Gli Etruschi e il MANN

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.06.21

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.21

L’eredità di Cesare e la conquista del tempo

Gladiatori

Musei Capitolini fino al 31.12.21

Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22

ODERZO L’anima delle cose

Piranesi

Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica prorogata (data di chiusura in via di definizione)

CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante

Un videomapping proiettato sui Fasti Capitolini.

Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 30.09.21 (dal 28.05.21)

FIRENZE Imperatrici, matrone, liberte

Volti e segreti delle donne romane Galleria degli Uffizi fino al 09.05.21 28 a r c h e o

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 30.05.21

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22

Paesi Bassi LEIDA I templi di Malta

Rijksmuseum van Oudheden fino al 29.08.21



LE TO CI S TT C À A DE N LT A UF O

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

VIAGGIO NELLE ANTICHE

CITTÀ DEL TUFO PITIGLIANO • SORANO SOVANA • VITOZZA a cura di Carlo Casi


La Tomba Ildebranda di Sovana, la piú monumentale del comprensorio. Prima metà del III sec. a.C.

IN EDICOLA

N

el lembo di Toscana che confina con il Lazio si conserva un patrimonio unico e spettacolare: sono le Città del Tufo, un nucleo di centri accomunati dall’aver vissuto la propria storia in una costante e felice simbiosi con la pietra che è il nocciolo e l’anima di questa terra, il tufo, appunto. Le vicende di ciascuno di questi insediamenti – Pitigliano, Sovana, Sorano, Vitozza – attraversano i secoli e le testimonianze di questo passato sono oggi mete ricche di fascino. Capillare fu la presenza degli Etruschi, che nella pietra seppero scavare e scolpire monumenti imponenti, dalle «vie cave», che si snodano come canyon tra un sito e l’altro, alle tombe rupestri, decorate da eleganti sculture e maestosi elementi architettonici. E dopo la lunga e importante fase della romanizzazione, altrettanto significativo fu il millennio medievale, nel corso del quale i borghi ebbero ruoli di primo piano negli equilibri politici e sociali e godettero anche di grande notorietà grazie ad alcuni dei loro figli. Come accadde soprattutto a Sovana, che diede i natali al monaco Ildebrando, asceso al soglio pontificio come papa Gregorio VII e destinato a segnare una svolta cruciale nella storia della Chiesa. La nuova Monografia di «Archeo» è dunque l’occasione per conoscere le Città del Tufo, viaggiando in un tempo lungo e denso di avvenimenti, ma, soprattutto, vuol essere un invito a scoprire e visitare un vero e proprio scrigno di tesori.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Paesi di pietra e gole boscose... • PITIGLIANO • La regina della rupe • SORANO • Il paese di pietra • SOVANA • Nella città delle sirene • Ildebrando: da monaco a papa •V ITOZZA • Nella città fantasma

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L’INTERVISTA • GIUSEPPE FLAVIO

LA VERITÀ DI

GIUSEPPE

YOSEPH BEN MATTITYAHU NASCE A GERUSALEMME DA FAMIGLIA SACERDOTALE, PARTECIPA ALL’INSURREZIONE GIUDAICA, TRADISCE I SUOI E MUORE A ROMA, DA CITTADINO DELL’IMPERO. È CONSIDERATO UNO DEGLI AUTORI PIÚ PROLIFICI DELL’ANTICHITÀ. UNA NUOVA, AFFASCINANTE RICERCA INDAGA GLI ASPETTI PIÚ RECONDITI DELLA SUA STRAORDINARIA PARABOLA… di Flavia Marimpietri

A

ncora oggi l’opera dello storico Giuseppe Flavio (vedi box a p. 41) rappresenta la principale testimonianza scritta a nostra disposizione circa gli avvenimenti storici della Giudea del I secolo d.C., periodo segnato dalla prima insurrezione giudaica, conclusasi nel 70 d.C. con l’assedio e la presa di Gerusalemme da parte di Tito e con la caduta della roccaforte di Masada, tre anni dopo. Lo storico scrisse ben trenta libri – i 7 della Guerra giudaica, i 20 delle Antichità giudaiche, l’Autobiografia e i 2 del pamphlet Contro Apione – giunti, caso unico nella letteratura classica, intatti fino a noi. Ma come è avvenuta questa straordinaria «salvazione»? E quale ruolo ebbe, in questo prodigioso fenomeno storico-letterario, una famosa e discussa testimonianza sulla vita e morte di Gesú? A queste domande cerca una risposta Luciano Canfora, storico, saggista e accademico italiano, professore emerito di filologia greca e latina presso l’Università di Bari, nel suo nuovo «giallo filologico» La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato. ♦ Professor Canfora, quale elemento ha sollecitato il suo interesse per questo straordinario e controverso personaggio? «Ricordo quando, nel 1962, scrissi la mia tesi di laurea in storia romana, approfondendo la creazione della provincia romana di Siria. Mi colpí l’operazione di Pompeo Magno,“controfigura” di Alessandro Magno, che, nel 63 a.C., conquistò senza colpo ferire Gerusalemme ed 32 a r c h e o

A sinistra: lo storico Luciano Canfora. Nella pagina accanto: miniatura raffigurante Pompeo e i suoi soldati nel Tempio di Gerusalemme, da un’edizione manoscritta delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio illustrata dal Maestro del Boccaccio di Monaco. 1415-1470. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


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L’INTERVISTA • GIUSEPPE FLAVIO

espugnò dopo tre mesi di assedio durissimo il Tempio. A distanza di quasi sessant’anni ho ripreso l’argomento, quando, due anni fa, il Centro Romano di Studi sull’Ebraismo, che fa capo alla Comunità Ebraica di Roma, mi chiese un intervento sul tema Roma e Gerusalemme: allora ripresi in mano le fonti sull’incursione di Pompeo, concentrandomi sull’episodio della conquista del Tempio e sulle divergenze molto forti tra le fonti, la principale delle quali è Giuseppe Flavio (nato nel 37 d.C. a Gerusalemme e vissuto fin sotto Traiano). Questo

comandante e sacerdote ebreo ellenizzato, divenuto cittadino romano, è, inoltre, il primo storico di origine non cristiana a menzionare Gesú». ♦ Che cosa l’ha insospettito di Giuseppe Flavio? «Nel I libro della sua Guerra giudaica, lo storico parla di quel conflitto (67-70 d.C.), partendo da lontano, ovvero dall’età dei Seleucidi. Quando tratta del comportamento di Pompeo, afferma cose non vere, esattamente come fa, piú tardi, con Tito. Istituisce, cioè, un parallelismo implicito fra i due conquistatori di Gerusalemme, Pompeo e Tito. Ma Giuseppe nasce nel 37 d.C., esattamente cento anni dopo la violazione del Tempio da Sulle due pagine: miniatura raffigurante Giuseppe Flavio che dona la sua opera agli imperatori Tito e Vespasiano, da un’edizione manoscritta del De bello Iudaico. 1100 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto: miniatura raffigurante la creazione del mondo e il matrimonio fra Adamo ed Eva, da un’edizione manoscritta delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio illustrata dal Maestro del Boccaccio di Monaco. 1415-1470. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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parte di Pompeo, che è del 63 a.C. Allora mi sono posto la questione della veridicità del suo racconto, che altri storici, tra cui Eduard Meyer (1855-1930; l’autore della Geschichte des Altertums – una storia universale del mondo antico, in cinque tomi – e del volume intitolato Caesars Monarchie und das Principat des Pompejus, La monarchia di Cesare e il principato di Pompeo, n.d.r.) del 1918 – non hanno messo in dubbio». ♦ Veniamo alla questione che lei affronta nel capitolo «Come si è salvato Giuseppe»: come si spiega che l’imponente produzione dello storico si sia salvata quasi integralmente, mentre opere di pari ampiezza e prestigio di autori greci e latini ci sono pervenute in maniera solo frammentaria? «È significativo il fatto che l’opera di Giuseppe, nono-

stante la rottura da lui operata con la comunità ebraica di partenza – non dimentichiamo che Giuseppe Flavio fu un “traditore” degli Ebrei, passato al nemico in pieno svolgimento dell’insurrezione del suo popolo contro Roma – si sia conservata integralmente. Perché, c’è da chiedersi, infatti, di quest’opera enorme, in tutto trenta libri, non si è persa nemmeno una pagina, mentre di altri autori di lingua greca coevi o successivi non abbiamo piú nulla? Di Polibio abbiamo 5 libri su 40 (del resto solo frammenti), di Diodoro 15 su 40, di Dione Cassio abbiamo perso in blocco i primi 36 e gli ultimi 20 libri degli 80 che ha scritto; per non parlare della perdita totale dei 144 libri di Nicola Damasceno e di quasi la metà dei 20 libri della Storia antica di Roma di Dionigi di Alicarnasso: una perdita enorme, che riduce a ruderi (come quelli del Foro Romano!) i testi storiografici in lingua greca riguardanti la storia di Roma dall’età repubblicana al tardo impero. Dobbiamo aspettare secoli per avere l’opera di un altro autore, Zosimo, di cui possiamo leggere l’opera completa, e che, nel V secolo d.C., racconta vicende del tempo di Costantino. Allora mi sono chiesto: qualcuno ha «salvato» Giuseppe? Chi, e perché? È la cultura cristiana, l’unica a parlare di lui: Giuseppe Flavio viene citato solo da autori cristiani come Giustino Martire, Minucio Felice, Origene, Eusebio e Girolamo. Ma perché? Perché questo Ebreo ellenizzato, comandante militare di famiglia sacerdotale, divenuto cittadino romano, è il primo storico non cristiano a mena r c h e o 35


L’INTERVISTA • GIUSEPPE FLAVIO

IL TESTIMONIUM FLAVIANUM «In quel lasso di tempo appare Gesú, uomo sapiente, sempre che si debba definirlo “uomo”. Era infatti facitore di mirabilia, maestro di uomini: di quelli che con diletto accolgono le verità. E molti Ebrei e molti dell’elemento greco [i pagani]

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attraeva a se. Il Cristo lui era! E dopo che, su denuncia dei nostri notabili, Ponzio Pilato l’ebbe condannato alla croce, per lo meno quelli che per primi gli si erano affezionati non smisero. A costoro riapparve infatti [come] vivo tre

giorni dopo [la morte]. Questo e miriadi di altre cose mirabolanti su di lui avevano detto i divini profeti. E ancora adesso non ha smesso di esistere la “tribú” dei “cristiani”, che da lui prendono nome» (Antichità giudaiche, XVIII, 63-64).


zionare Gesú? La mia idea è che la cultura cristiana abbia usato Giuseppe Flavio, fonte non cristiana, per dire “anche lui ha riconosciuto che Gesú è il Messia”! Nel libro 18 delle Antichità, infatti, c’è la testimonianza, molto discussa, sulla vita e sulla morte di Gesú, collocata all’interno dei capitoli sul governo di Ponzio Pilato in Giudea. Gli studiosi si sono sempre chiesti: “ma quella pagina su Gesú è autentica? Oppure sono i cristiani che l’hanno infilata nell’opera di Giuseppe Flavio?”». ♦ Lei ipotizza, dunque, che la testimonianza storica su Gesú sia stata «ritoccata»? Mi vuole spiegare meglio che cosa ha scoperto studiando il passo noto come Testimonium Flavianum, in cui Giuseppe Flavio menziona la figura di Gesú? «Stiamo parlando del libro 18, paragrafi 63 e 64 delle Antichità giudaiche, uno dei testi piú discussi di tutta la grecità (vedi box alla pagina precedente). Un dibattito che non si è mai esaurito, cominciato subito, già nel III-IV secolo d.C.. Un autore ebraico – Giuseppe – che crede in Gesú. Ma le cose non stanno esattamente cosí. Nel mio libro ho cercato di dimostrare che, intanto, non è un testo poi cosí favorevole all’immagine di Gesú. Il passo si conclude con l’espressione “ancora adesso non ha smesso di esistere la ‘tribú’ dei cristiani, che da lui prendono nome”. Poi Giuseppe, che scrive in greco, quando nomina Gesú, lo definisce un sophòs anér, un “uomo sapiente” e facitore di mirabilia, “miracoli”, ovvero paradoxa erga: espressione che indica, però, anche ciò che fanno i maghi. Inoltre, Giuseppe scrive che lui – Gesú – “era il Messia”, ovvero “o Christós”: una frase che non può essere sua, ma dev’essere stata interpolata da una mano cristiana».

(imperfetto del verbo essere), cioè “era”, è stata introdotta in un secondo tempo. Il testo autentico di Giuseppe Flavio è quello tradotto in latino da Girolamo, che riflette un testo greco non modificato e che recita: “colui che credevano essere il Cristo”». ♦S crivere che Gesú «era» il Messia è cosa concettualmente molto diversa da «era creduto» il Messia… «Moltissimo! La traduzione aiuta a capire che Giuseppe Nella pagina accanto: Gesú di fronte a Caifa, illustrazione da un codice contenente i Quattro Vangeli. Seconda metà del XII sec. Monte Athos (Grecia), Monastero di Iviron. In basso: pagina miniata di un’edizione manoscritta del De bello Iudaico di Giuseppe Flavio. XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

♦ Perché, secondo lei, quell’espressione «lui era il Messia» non è autentica? «La soluzione viene da Girolamo (347-419/420; padre della Chiesa biblista e traduttore in latino dell’Antico Testamento, la “Vulgata”, n.d.r.) che, nel De viris illustribus, opera biografica databile con precisione al 393 d.C. (una sua lettera fornisce con precisione questa data) e che per l’autore si dovrebbe intitolare Scriptores ecclesiastici, inserisce un capitolo su Giuseppe Flavio, che viene annoverato, dunque, tra gli scrittori “cristiani”. Girolamo traduce il passo in cui viene menzionato Gesú non affermando che egli erat, ma che credebatur esse Christus: ovvero che egli non “era il Messia”, ma che “pensavano che fosse il Messia”. Non “era il Messia”. Ci sono anche traduzioni arabe che confermano il testo di Girolamo. Quindi la parola greca “en” a r c h e o 37


L’INTERVISTA • GIUSEPPE FLAVIO

ha prestato attenzione all’episodio della vita e morte di Gesú, ma mantenendo una certa distanza. Questo è il bilancio, a mio avviso. Giuseppe ha fatto un riferimento tutto sommato rispettoso alla vicenda di Gesú, che lui inquadra sotto la categoria degli “sconvolgimenti”, dei “turbamenti”, e ne parla dopo aver narrato di una sommossa contro Ponzio Pilato per la costruzione di un acquedotto. Giuseppe dice che “un altro disordine fu Gesú”: Ponzio Pilato lo condannò, ma i suoi seguaci non smisero di esistere. Giuseppe, quindi, ha menzionato il fatto, ma non in modo da aderire all’idea che Gesú fosse il Messia. Anche perché, se davvero Giuseppe lo avesse creduto, si sarebbe convertito, come sosteneva già Voltaire. Perché lo ha fatto, allora? Questo è il succo del mio libro». ♦C i racconti: perché questo cenno cosí «rispettoso» a Gesú? «Al termine del regno di Domiziano (imperatore dall’81 al 96) la situazione cambia: forse Giuseppe (le cui Antichità giudaiche vengono pubblicate nel 93/94, n.d.r.) non era piú protetto dai Flavi e dev’essersi allora avvicinato all’ambiente dell’élite cristiana di Roma. All’epoca la comunità cristiana appariva indistinguibile dall’esterno rispetto al mondo ebraico, tanto che Tacito confonde Ebrei e cristiani come unica setta. L’ambiente che Giuseppe ha voluto agganciare è quello cristiano: conferma ne è che la sua opera è stata salvata dai cristiani. I cristiani lo hanno “annesso” e anche ritoccato, modificando quel Gesú “creduto” il Messia in Gesú che “era” il Messia». ♦ I n questo consiste, dunque, la «cristianizzazione» di Giuseppe Flavio a cui accenna già nel sottotitolo del suo libro... «Il fatto che Giuseppe non fosse uno storico di origine cristiana, ma riconoscesse la divinità del Cristo, era un punto di forza nella polemica apologetica. Ma andiamo a leggere il trattato Contra Celsum di Origene (185-254 d.C.), nato circa ottant’anni dopo la morte di Giuseppe Flavio: Celso afferma che gli Ebrei non credono che Gesú sia il Messia e che sono convinti che il Messia debba ancora arrivare. Origene, per confutarlo, dice che Giuseppe Flavio “pur non ammettendo che Gesú fosse il Messia (o Christos)”, nel XX libro delle Antichità nomina “Gesú detto (legomenos) il Cristo”. Origene coglie il valore della presa di distanza da parte di (segue a p. 42) 38 a r c h e o

Particolare del rilievo dell’Arco di Tito con scena raffigurante il trasporto a Roma del tesoro del Tempio di Gerusalemme. I sec. d.C. In primo piano, alcuni inservienti portano la menorah (il candelabro a sette bracci) trafugata insieme ad altri arredi del santuario.



L’INTERVISTA • GIUSEPPE FLAVIO

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GIUSEPPE FLAVIO. UNA VITA TRA GERUSALEMME E ROMA Flavius Iosephus è il nome romano dello storico ebreo Yoseph ben [= figlio di] Mattityahu, nato a Gerusalemme nel 37 d.C., da una famiglia di sacerdoti ebrei, e morto a Roma probabilmente non molto dopo il 100 d.C. Visse a Gerusalemme fino all’età di trenta anni, trascorrendo il resto della sua vita con i Flavi. Proveniva da una regione contrassegnata dalla tensione tra i locali e l’elemento romano. Lo scontro con Caligola, nel 41 d.C., fu scongiurato dalla sopraggiunta morte dell’imperatore, ma l’illusione di una Giudea libera e autonoma, alla guida di Erode Agrippa, amico dell’imperatore Claudio, durò poco e si concluse con il ripristino del governo romano. In un clima di scontri reiterati, Giuseppe trascorse i primi anni di vita frequentando diverse sette ebraiche (Farisei, Sadducei, Esseni), sperimentando l’ascetismo nel deserto e propendendo, infine, per la moderata corrente dei Farisei. Il fermento religioso dell’epoca, la stessa in cui il cristianesimo si stava imponendo come movimento messianico di grande successo, era notevole. Giuseppe si recò a Roma per la prima volta nel 63 d.C., richiedendo e ottenendo, grazie ai legami con gli Ebrei di Roma e all’intercessione di Sabina Poppea, sposa di Nerone, il rilascio di alcuni sacerdoti giudei. Nell’estate del 66 d.C. i rapporti tra Romani e Giudei si deteriorarono.

I primi contingenti romani inviati dalla Siria furono sconfitti e Giuseppe fu cooptato dai ribelli e insignito della carica di governatore della Galilea. Le sue attività, variamente contestate dai locali, e i preparativi della guerra sono raccontati dettagliatamente nella Vita. Tra il 66 e il 67 d.C. l’esercito guidato da Vespasiano conquistò rapidamente la regione, ottenendo la resa spontanea di molte città. A metà dell’estate, Giuseppe era barricato con le sue truppe nella città di Iotapata a nord di Nazaret. In questo frangente fu catturato da Vespasiano, episodio ricordato nel terzo libro della Guerra giudaica e riportato anche da Svetonio. Profetizzando al generale la sua ascesa al soglio imperiale, se ne ingraziò i favori e gli rimase accanto per l’intera durata della campagna bellica, interrogando i prigionieri e agendo come mediatore. In breve tempo ottenne la manumissio, acquisendo il nome di Giuseppe Flavio. Al rientro a Roma, nel 71 d.C. fu alloggiato in una villa e gli fu assicurata una rendita. Soddisfece alle aspettative della casa imperiale scrivendo la Guerra giudaica, opera che perpetuava il ricordo della vittoria dei Flavi e che fu considerata uno dei lavori di maggior successo della storiografia greca del tempo. Vi si racconta dettagliatamente la guerra, con un excursus sull’epoca precedente, fino alla distruzione del Tempio di Gerusalemme e all’assedio della

fortezza di Masada, conclusosi col suicidio collettivo dei ribelli, senza mancare di elogiare le virtú militari e morali di Vespasiano e Tito. È un’opera di propaganda in favore dei Romani, terminata con Vespasiano ancora in vita nel 79 d.C., ma contiene forti elementi apologetici nei confronti degli Ebrei: vi si auspica una convivenza pacifica tra le due genti, mostrando di comprendere le motivazioni dei ribelli, che portate agli estremi, inducevano al suicidio piuttosto di piegarsi a una qualsiasi autorità che non fosse quella divina. Dopo vent’anni di silenzio riapparve con altre tre opere: le Antichità giudaiche, che coprono la storia giudaica dalla creazione al 66 d.C., la Vita, ufficialmente un’appendice autobiografica alle Antichità, ma che è in realtà un resoconto dettagliato delle attività in Galilea tra il 66 e il 67, e, infine, Contro Apione, opera polemica nota anche come Contro i Greci, o Sull’antichità degli Ebrei, dove sono confutati numerosi passi antiebraici di diversi autori greci. Un Giuseppe, quindi, sempre attivo come apologeta del suo popolo. Daniel R. Schwartz A sinistra: busto maschile, tradizionalmente identificato con un ritratto di Giuseppe Flavio. I sec. d.C. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. Nella pagina accanto: Il trionfo di Tito, AD 71, i Flavi, dipinto di Lawrence Alma-Tadema. 1885. Baltimora, The Walters Art Museum. L’artista immagina la celebrazione della dinastia dei Flavi dopo la presa di Gerusalemme, nel 70 d.C.: il corteo è guidato da Vespasiano, alle cui spalle Tito avanza tenendo per mano la sorella Giulia, che si volge verso il fratello minore e successore del padre, Domiziano.

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L’INTERVISTA • GIUSEPPE FLAVIO

Giuseppe che è insita nell’espressione legomenos, “detto”, ma vuole anche combattere i pagani che si servono degli Ebrei per confutare i cristiani: ai cristiani, infatti, fa comodo dire “ecco un Ebreo importante che parla del Cristo”. Avere dalla propria parte un autore non cristiano che ammette le verità cristiane è un argomento molto forte». ♦ Sin dalle prime pagine del suo libro, lei ricorda che Giuseppe Flavio ha scritto ben due volte la Guerra giudaica. La prima in aramaico (scritta quando l’autore è ancora in Giudea), l’altra, in greco, che lei definisce editio maior, quando si trova a Roma, cittadino «ospite» dei dinasti flavi... «La prima stesura in aramaico, ormai perduta, è destinata agli Ebrei che vivono “oltre l’Eufrate”, al di là dei confini della provincia romana di Siria: è scr itta in aramaico come operazione ammonitoria, per dare un’i- Elmo di un legionario dea di cosa potesse succe- romano di età flavia. dere a chi si ribellava ai I sec. d.C. Gerusalemme, Romani. Noi abbiamo, Israel Museum. invece, il testo che Giuseppe ha fatto tradurre in greco, molto piú ampio di quello in aramaico: sono stati aggiunti il I e il VII libro. Il racconto si concentrava sulla guerra, mentre nella versione in greco l’opera viene ampliata: qui il modello è la Guerra del Peloponneso, l’opera di Tucidide, che, nel V secolo a.C., racconta la guerra tra Atene e Sparta a cominciare dalle guerre persiane (per indicare le cause remote). Cosí Giuseppe parte da lontano, prendendo a modello Tucidide, e definisce la guerra del 67 d.C. “la piú grande guerra mai accaduta”. Le forze in campo non erano pari, ma la resistenza ebraica fu tale da mettere in seria difficoltà i Romani, che dovettero sudare “sette camicie” per vincere». ♦ Lei insiste, giustamente, sull’«unicità» delle opere di Giuseppe Flavio, per quanto riguarda le vicende vicino-orientali del I secolo d.C. Che cosa può dirci, invece, di Giusto di Tiberiade, altra potenziale fonte di informazioni sugli avvenimenti narrati da Giuseppe Flavio che, tuttavia, non ci sono pervenute? «Un rivale di Giuseppe di cui non abbiamo piú nemmeno un rigo. Anche lui ha scritto della guerra giudaica, poiché era comandante militare nel 67 d.C., esattamente come Giuseppe (che difese Iotapata, senza riuscirci, prima di tradire e passare con i Romani). Giusto di Tiberiade fu attivo nello stesso momento di Giuseppe: era 42 a r c h e o

ben protetto da Berenice, donna importante, colta e vivace, sorella di Agrippa II, sovrano agli ordini dei Romani, che con Tito cerca di espugnare Gerusalemme e il Tempio, nel 70 d.C. Berenice era l’amante di Tito, contava molto alla corte dei Flavi di Roma e proteggeva Giusto di Tiberiade. Non riuscí a sposare Tito, per l’opposizione anti-giudaica del Senato (voglio ricordare che solo per un soffio, né Cleopatra, né Berenice riuscirono a diventare regine di Roma). Giuseppe ha cercato la protezione di Tito e, dopo averla ottenuta, ha continuato a detestare Giusto. E, infatti, ne parla malissimo nella sua Autobiografia!». PER SAPERNE DI PIÚ Luciano Canfora, La conversione Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato, Salerno Editrice, Roma, 200 pp. ISBN 978-88-6973-573-8 www.salernoeditrice.it a r c h e o 42


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IL MAESTRO DI BELLEZZE DIRETTORE D’ORCHESTRA FRA I PIÚ GRANDI E MAI DIMENTICATO, GIUSEPPE SINOPOLI RIUNÍ UNA COLLEZIONE ARCHEOLOGICA, RICCA DI OPERE DI PREGIO E POI TRASFORMATA NEL MUSEO ARISTAIOS, ALLESTITO NELL’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA DI ROMA di Nicoletta Capasso 44 a r c h e o


Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono a opere della collezione Sinopoli, esposte nel Museo Aristaios dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. A sinistra: particolare della faccia di una pelike (brocca a due manici) del Pittore di Syleus sulla quale compare una figura femminile (forse un’etera), tra due personaggi barbati. Prima metà del 480-470 a.C. In basso: lo spazio dell’Auditorium in cui è allestito il Museo Aristaios.

T

ra i molti musei romani, grandi e piccoli e piú o meno noti, c’è un piccolo gioiello incastonato come una gemma preziosa nel magnifico Auditorium Parco della Musica realizzato su progetto dell’architetto Renzo Piano: il Museo Aristaios, nato l’11 dicembre del 2012 a seguito di un accordo di valorizzazione tra l’allora MiBACT, Roma Capitale e la Fondazione Musica per Roma, in attuazione degli accordi nella convenzione d’acquisto della collezione archeologica del maestro Giuseppe Sinopoli (1946-2001). Musealizzata all’interno del moderno Auditorium, la raccolta si è cosí trasformata in un museo aperto al pubblico con ingresso libero, il cui allestimento – che ha avuto come curatore scientifico Benedetti Adembri e come direttore dei lavori Alessandra Di Matteo – fonde la forza del passato con la contemporaneità. Nella sala che accoglie la collezione – uno spazio di oltre 300 mq – sono esposte 161 opere. Si tratta di ceramiche provenienti dal bacino mediterraneo, per lo piú materiali di produzione greca e italiota, ma non solo. Dalla Roma contemporanea del Parco della Musica, il Museo Arista-

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MUSEI • ROMA A destra: kylix (coppa a due manici) laconica al cui interno compaiono due personaggi, identificati con il dio Aristaios (a sinistra) e, forse, la dea Orthia. Metà del VI sec. a.C.

ios ci trasporta in un viaggio a ritroso nel tempo: ammirando le maestose architetture contemporanee, si viene condotti, attraverso l’arte, in un cammino sulle rotte dei saperi e delle conoscenze che hanno portato l’umanità alla conquista di quella tecnologia che l’Auditorium stesso utilizza per le sue attività.

ASCESA AL SUBLIME Un percorso che si snoda nello spirito del fondatore della collezione, Giuseppe Sinopoli, il quale, oltre che grandissimo musicista, fu amante dell’archeologia e della filosofia e per il quale il dio Aristaios diviene simbolo dell’ascesa al sublime attraverso l’arte e la conoscenza. Ed è significativo che a lui sia intitolata la raccolta: Aristaios (Aristeo), infatti, è una divinità del pantheon greco dalla venerazione diffusa, molto presente nella regione greca della Laconia e della stessa città di Sparta. Non a caso, quindi, oggetto eponimo della collezione è una kylix (coppa a due manici) a figure nere di produzione laconica (vedi foto in questa pagina, in alto). Il vaso è stato ricomposto da molti frammenti e la pittura si presenta danneggiata in piú punti. All’inter46 a r c h e o

In basso: vasi attribuibili al Tardo Minoico III a-b (XIII-XII sec. a.C.). Dall’alto: un alabastron (contenitore per unguenti o profumi) a sacco e un’anforetta a staffa.

no, il tondo mostra due figure umane attorniate da elementi animali e vegetali e tra le quali sale in volo un uccello. L’uomo indossa una lunga tunica, avvolta in un himation (una sopravveste, simile a un mantello), ha un braccio proteso in avanti, mentre con l’altro tiene un lungo bastone ricurvo. La donna porta invece un chitone lungo fino alle caviglie, panneggiato, e dalle sue spalle partono grandi ali segnate, da un piumaggio a tratti definiti; un braccio è proteso nella gestualità del parlare e l’altra mano tiene una sorta di lunga collana. Completano la scena una sorta di grande lucertola e uccelli acquatici. I due personaggi si fronteggiano nella riconoscibile iconografia del dialogo e potrebbero essere identificati con la dea Orthia, una sorta di Artemide spartana, e, appunto con il dio Aristaios.

DIO DEI SAPERI FONDAMENTALI La leggenda, che si declina in molteplici versioni, conferendo al dio numerose caratteristiche dalle complesse valenze simboliche, rende Aristaios protagonista di molte peregrinazioni mediterranee, caricandolo delle sue diverse qualità pecu-


liari a seconda dei luoghi nei quali si manifestò. Egli fu, in qualche modo, il potente dio dei saperi fondamentali, che permisero non solo la sopravvivenza, ma soprattutto lo sviluppo dell’umanità in ogni suo aspetto, tracciando l’ascesa della civiltà verso l’evoluzione in ogni sua manifestazione. Aristaios trasmise agli uomini il metodo dell’allevamento del bestiame e delle api, il procedimento per la preparazione del formaggio, l’utilizzo del miele e poi ancora la caccia, l’agricoltura, lo sfruttamento dell’ulivo e fu fondatore di città; insegnò inoltre l’arte della medicina e la sua figura era connessa alla mantica e all’arte della divinazione, alla potente energia rigeneratrice della natura, essendo questa legata ai saperi della medicina e al suo potere guaritore. Siamo dunque di fronte a un dio che trasmise e diffuse sulla terra la civiltà, la stessa al cui primato tanto tenevano i Greci e che Omero opponeva al mondo barbaro, straniero ed estraneo all’universo greco. Per tutto questo Aristeo, compagno di Pisside a corpo globulare con coperchio a tesa e pomello tronco-conico. viaggio dell’umanità, era definito il Produzione attica, Medio Geometrico, 825 a.C. circa. migliore, essendo colui che contiene in sé il significato di eccellenza. fino alle grandi vetrate che si affac- nata a lasciare un’immensa eredità ciano sul cosiddetto Museo Arche- alla storia del nostro Mediterraneo: LE GRANDI FIRME DELLA ologico della villa rustica (vedi box a nell’isola greca di Creta fiorí una p. 50). Oltrepassato il quale, il Mu- cultura del tutto indipendente e CERAMICA FIGURATA Oltre alla kylix da cui trae il suo seo Aristaios compare quasi a sor- differente dalle altre civiltà coeve, nome, il museo espone manufatti presa, avvolto nella luce morbida forte del suo rapporto privilegiato di fattura minoica, micenea, geo- ricadente della grande vetrata che, con il mare, considerato un’oppormetrica, corinzia, laconica, greco- da sinistra, mette in comunicazione tunità piú che un ostacolo. orientale, attica a figure nere, attica l’esterno con l’interno. Lunghe te- Tanto che la civiltà minoica cretese a figure rosse, italiota a figure rosse, che seguono l’andamento della sala viene non a caso definita come una nonché produzioni ceramiche e alcune vetrine circolari, al centro, talassocrazia proprio per il suo preapule. La collezione si pregia delle aumentano l’effetto immersivo già dominio marittimo. Si distinse per opere di importanti pittori di ce- favorito dalla luce e custodiscono i la costruzione di palazzi concepiti ramiche a figure nere, come Lydos, vari reperti, esposti secondo un cri- come architetture aperte, caratterizil Pittore di Lysippides, artisti terio cronologico. Seguendo la se- zate dall’esuberanza cromatica, e di ascrivibili al contesto di Nikoste- quenza delle vetrine, il cammino fondamentale importanza per la sua nes, e poi ancora dei pittori attici ricomincia, con gli espositori dedi- evoluzione fu l’adozione di un codi ceramiche a figure rosse, come cati alla ceramica minoica e mice- dice alfabetico con il quale regolare nea: il viaggio riprende, ma questa l’attività commerciale e di immail Pittore di Syleus e di Eretria. gazzinamento delle merci. Dalla Al Museo Aristaios, collocato in una volta a partire dalle origini. lunga sala situata dietro l’area arche- Nell’area meridionale del Mar prima forma di scrittura del cosidologica, si accede percorrendo il Egeo, intorno al III millennio a.C., detto geroglifico cretese e dal Linefoyer semicircolare dell’Auditorium, si sviluppò una grande civiltà, desti- are A, si passò al Lineare B. a r c h e o 47


MUSEI • ROMA

Poi, come sempre, sono soprattutto le ceramiche a testimoniare lo sviluppo di una civiltà in termini di espansione commerciale, di gusto artistico nelle decorazioni, di vita quotidiana nella finalità ultima dell’utilizzo suggerito dalle diverse tipologie e di progresso in termini di tecnica di fabbricazione. Gli stili ceramici seguono la suddivisione delle fasi della civiltà minoica e le varie classi sono state identificate con i nomi dei principali centri di ritrovamento.

BELLEZZE CRETESI Nel periodo compreso tra il 1900 e il 1700 a.C., con l’edificazione dei grandi palazzi, si incrementò la fabbricazione di vasi nello stile di Kamares, che traeva ispirazione dai manufatti metallici. Due pezzi, una tazzina e un bicchiere, attribuiti a questa fase sono esposti nella prima vetrina del Museo Aristaios. Le superfici ceramiche, evolvendosi, si arricchirono di una maggiore varietà cromatica, di temi floreali e animali, caratterizzati da una linea unica e fluida. Piú avanti, un’anforetta assegnata al Tardo Minoico presenta una decorazione il cui soggetto è tratto dal mondo vegetale e marino e allo stesso periodo risale un alabastron (contenitore per unguenti o profumi), di forma simile ad analoghi manufatti egiziani, a riprova dei contatti della civiltà minoica con le altre culture del Mediterraneo, che veicolavano tecniche, stili e mode (vedi foto a p. 46, in basso). Erede diretta della civiltà cretese è quella micenea, che si sviluppò nella Grecia continentale e la cui avanzata verso la grande isola egea segnò la divulgazione della cultura minoica. La civiltà elladica continentale entrò in contatto con quella cretese, subendone una notevole 48 a r c h e o

Olla con protomi zoomorfe, generalmente interpretate come immagini di pipistrelli. Produzione daunia, seconda metà del VI sec. a.C.

A sinistra: olpe (brocca a bocca rotonda) corinzia decorata con teorie di animali reali e fantastici. 625-600 a.C. circa

influenza, ma conservando i suoi caratteri distintivi. Una cultura di terra, ma anche di mare, che incentivò a sua volta i commerci marittimi; ceramiche micenee sono state infatti rinvenute in molte zone del Mediterraneo, a testimoniare la diffusione della presenza dei loro artefici. Esempi di vasi micenei condividono la vetrina con quelli minoici. I ceramisti che li fabbricarono si avvalevano dell’uso della ruota e utilizzavano una gamma di colori che variava dal giallo grezzo al nero, utilizzando anche tonalità di rosso e di bruno. I motivi ornamentali, desunti dagli apparati minoici, si fecero sempre piú astratti e lineari. Le sottili differenze tra i vasi cretesi minoici e quelli micenei risiedono nella diversa cifra stilistica, sebbene i ceramografi micenei avessero accolto la lezione


to decorativo, sia per la presenza di cavalli plastici sopra al coperchio; tra l’altro, è degno di nota il suggestivo accostamento, forse non casuale, del motivo della svastica a quello dei cavalli. Compreso all’incirca tra il 900 e il 700 a.C., questo periodo è stato definito Geometrico ed è suddiviso tra Antico, Medio e Tardo. La produzione geometrica è attestata fin dal 900 a.C. ad Atene, dove operava la famosa bottega del Dypilon, specializzata in grandi anfore funerarie. Elegante e raffinata, la decorazione geometrica mostrava l’introduzione della figura umana resa come silhoulette e, col tempo, i temi decorativi si svilupparono fino a coprire la gran parte della superfice dei vasi. Nel mentre, nella zona

dei maestri cretesi. La discesa della civiltà micenea si collocherebbe attorno alla fine del XIII a.C., anche se la produzione ceramica dimostra una continuità culturale che si protrae dopo tale periodo. Proseguendo lungo il percorso espositivo, s’incontra la ceramica geometrica, rappresentata da diversi oggetti, come una pisside attica con coperchio e una decorazione consistente in un reticolo semplice e fitto di linee e puntini, con, al centro, una fascia di zig-zag verticali (vedi foto a p. 47). Un’altra pisside geometr ica presente in questa sezione è molto elegante sia per l’apparaLekythos (bottiglia per profumi) globulare raffigurante un atleta che si appresta a lanciare il giavellotto. 420 a.C. circa.

L’ATTIMO FUGGENTE Alla pratica sportiva, tanto importante per la cultura greca, allude questa piccola e graziosa lekythos (bottiglia per profumi) riferibile al 420 a.C. circa. La concentrazione dell’atleta rappresentato sul vaso è accentuata dallo sfondo nero nel quale la figura umana rossa spicca, emergendo dal silenzio, dalle profondità, quasi, del suo raccoglimento in se stesso e da quella posa caratteristica. Proprio la sua posizione, tra l’altro già nota all’arte greca, cattura l’attenzione e rende l’immagine elegante e sofisticata, poiché raffigura l’atteggiamento sportivo simile a un passo di danza libero e misurato nello spazio fisico dell’atleta/danzatore e nello spazio interiore di chi compie il movimento e di chi lo guarda. La raffinata torsione del busto,

accompagnata dall’elegante intreccio delle gambe che seguono l’avvitarsi all’indietro del corpo, coglie piú che il movimento fisico bloccato in quel preciso momento – quasi fosse uno scatto fotografico –, il moto dell’animo dell’atleta e quell’attimo di concentrazione nell’istante esatto che precede l’azione. Il pittore non scelse di raffigurare l’atleta nell’atto del lancio del giavellotto, ma in quello immediatamente precedente. Un tema studiato dagli artisti delle epoche successive: si pensi all’arte barocca, che fa del movimento la

sua cifra e si pensi, per esempio, al David scolpito nel marmo da Gian Lorenzo Bernini (1623-1624, Galleria Borghese, Roma), nel quale l’artista impresse nel volto e nei muscoli tirati del protagonista tutta la tensione interiore e psicologica, cosí come nella torsione quasi a spirale del busto. Nella lekythos del Museo Aristaios possiamo parimenti cogliere la tensione dell’atleta eroe, che gareggia nel raggiungimento di una gloria terrena immortale, avvicinandolo agli dèi; nel David di Bernini è impressa e portata al massimo la tensione del personaggio biblico nel compimento di un disegno divino, che per la storia della salvezza renderà l’anima umana immortale avvicinandola a Dio.

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MUSEI • ROMA

SOTTO IL SEGNO DI ACHELOO Durante gli sterri per la costruzione dell’opera di Renzo Piano, i lavori vennero interrotti per il ritrovamento, nel 1995, di una villa rustica d’epoca romana e una variante al progetto ne permise la piena integrazione nel grande complesso architettonico. Lungo il foyer fu predisposta un’area dedicata e fu allestito un museo finalizzato a illustrare il ritrovamento: il cosiddetto Museo Archeologico, appunto. Dal foyer, attraverso le grandi vetrate, si accede agli spazi archeologici e con un solo colpo d’occhio è possibile vedere un vero e proprio spaccato della storia di Roma dal VI secolo a.C. a quella contemporanea, dalla villa rustica fino agli «scarabei» di Renzo Piano. La vicinanza con il santuario di Anna Perenna ha suggerito l’ipotesi, suggestiva, che la struttura rinvenuta fosse collegata proprio a tale santuario, localizzato presso la vicina piazza Euclide. I resti scavati appartenevano a una struttura risalente a un periodo compreso tra la metà del VI secolo a.C. e l’inizio del III secolo d.C. Alla fase piú antica risale una villa rustica, che ha subito nel tempo diversi rifacimenti che ne modificarono l’impianto. Da una prima casa rurale disposta attorno a una corte, si passa a una

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villa signorile, con una parte rustica e una signorile appunto. Nel Museo Archeologico sono illustrate le diverse fasi della villa rustica, attraverso modelli lignei in sospensione, e, nelle vetrine, i materiali rinvenuti durante lo scavo, tra cui il vasellame. Sono stati ricostruiti anche una cucina e un torchio oleario, che spiegano la funzione agricola della villa. Rappresentativa del Museo Archeologico è la bella tegola angolare di gronda nella cui rappresentazione è stata identificata l’immagine di Acheloo, un’antica divinità fluviale la cui presenza sarebbe giustificata dalla vicinanza con il Tevere. Ad Acheloo, figlio di Oceano e Teti, è attribuita la paternità delle ninfe, delle sirene e delle sorgenti; barbato e con corna taurine, nella villa rustica dell’Auditorium, la raffigurazione del dio è resa secondo la sua iconografia tradizionale.

A destra: i resti della villa rustica di epoca romana, che, a conclusione degli scavi, si è voluto lasciare visibili, trasformandoli nel Museo Archeologico dell’Auditorium Parco della Musica. In basso: tegola angolare di gronda con testa di divinità fluviale, identificata con Acheloo. Il reperto, è stato scelto come simbolo del Museo Archeologico.

DOVE E QUANDO Auditorium Parco della Musica Roma, viale Pietro de Coubertin, 30 Info e-mail: info@musicaperroma.it; www.auditorium.com


I materiali esposti nel Museo Aristaios propongono un viaggio nel tempo, alla scoperta delle grandi civiltà fiorite nelle regioni bagnate dal Mediterraneo di Corinto iniziava a prendere forma il protocorinzio: grazie alla circolazione di uomini e merci, il contatto con altre culture favorí l’introduzione di temi decorativi provenienti dall’Oriente. Proprio la città di Corinto, favorita dalla sua felice posizione, divenne un punto di confluenza privilegiato delle rotte commerciali tra Occidente e Oriente e nuovi stimoli figurativi entrarono nel repertorio dei pittori. Intorno al VII secolo a.C., le campiture di colore uniforme ricoprirono la superfice dei vasi avvolgendo le figure, che persero progressivamente la loro tipica rigidità, co-

minciando a «prendere vita». A una prima fase orientaleggiante, caratterizzata da temi vegetali – quali palmette, o fiori di loto –, animali e figure mostruose, ne seguí una seconda, a figure nere, con narrazioni tratte ispirate dalla mitologia o dalla vita reale. Il tessuto cromatico variava dal giallo al rossastro e iniziò a propagarsi l’uso del rosso per lo sfondo, destinato ad avere grande successo nella ceramica attica. Fra i vasi corinzi del Museo Aristaios, spicca l’olpe (brocca a bocca rotonda) attribuita a un periodo compreso tra il 625 e il 600 a.C., rappresentativa degli elemen-

ti figurativi attribuibili alla sua tipologia (vedi foto a p. 48, in basso). Nutrito è quindi il corpus dei vasi a figure nere e a figure rosse, la cui produzione si diffuse a Corinto e poi in Attica. Protesa verso l’Egeo, la regione dell’Attica fu teatro dell’ascesa di Atene, città in cui, intorno al VI secolo a.C., furono incrementate la tecnica a figure nere su fondo rosso, e poi quella delle figure rosse su sfondo nero, che videro affermarsi maestri come Kleitias, Exekias o il Pittore di Syleus. Fra i reperti riconducibili a queste tipologie, possiamo segnalare l’anfora che rappresenta il tema della para r c h e o 51


MUSEI • ROMA

tenza del guerriero, il cui modello decorativo risente dello stile di Exekias; oppure la splendida pelike (brocca a due manici) attribuibile al Pittore di Syleus, che potrebbe rappresentare una scena di vita di un’etera (vedi foto alle pp. 44/45). Un cratere a figure rosse, databile al 480 a.C. circa, attira l’attenzione per il tema riconoscibile di Ulisse che fugge dall’antro di Polifemo aggrappato al ventre di un ariete, introducendo il concetto greco della métis, cioè della capacità intellettuale dell’uomo eroico, che, con intelligente astuzia, riesce a superare una situazione pericolosa. La vicenda raffigurata sul vaso, narrata nel canto IX dell’Odissea,

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rappresenta il principio della superiorità greca insita negli scritti omerici e ribadita dal pittore del cratere del Museo Aristaios.

I GRECI D’OCCIDENTE Molto interessante è la sezione dedicata alle ceramiche magno-greche, che ci portano al grande tema dell’espansione coloniale greca. L’area interessata dalla colonizzazione greca si caratterizzò per la fioritura delle arti, ma anche della filosofia e del pensiero: basti pensare a Pitagora, che, dalla lontana isola di Samo, nell’Egeo orientale, si trasferí a Crotone e a Metaponto. Quella italiota non fu una cultura greca di provincia, ma dimostrò di possedere carat-

teristiche proprie, colte e raffinate. Bellissimi, in questo senso i materiali nella collezione Aristaios, che comprendono gli straordinari vasi apuli, come gli splendidi crateri funerari a volute che rappresentano, nella parte centrale, il defunto all’interno dell’edicola funeraria appunto. Né mancano eleganti vasi ascrivibili alla classe detta di Egnazia e molto interessanti sono anche alcuni manufatti di produzione autoctona, non magno-greca, quindi, ma daunia. Tra questi, un’olla in cui il colore dell’argilla si alterna al bruno e al rosso in un raffinato avvicendarsi di elementi geometrici. Quattro anse, due delle quali a protomi animali, conferiscono inoltre al vaso,


attribuito alla seconda metà del VI secolo a.C., un gusto raffinato e vivace (vedi foto a p. 48, in alto). Proseguendo nel percorso, risaliamo idealmente la penisola italica, fino ad approdare alle coste dominate dalla civiltà etrusca. Il grande potenziale di queste terre occidentali, non soltanto agricolo e pastorale, ma soprattutto in termini di risorse minerarie, favorí i commerci, la frequentazione assidua di rotte marittime commerciali: si pensi a navi, mercanti e marinai micenei, euboici, cicladici, ionici, ma non solo, viste le relazioni intessute anche con i mercanti fenici. Dalla Sardegna fino al Medio Oriente, insieme a merci e materiaA destra: situla in bronzo di produzione etrusca. A sinistra: una delle vetrine in cui sono esposti reperti restituiti dallo scavo della villa rustica scoperta durante i lavori per la costruzione dell’Auditorium Parco della Musica.

li, circolavano uomini; scambi, dunque, di conoscenze e di saperi, di culture, di credenze religiose dove il gusto orientaleggiante divenne moda e l’amore per l’arte greca entrò nell’animo etrusco e le ceramiche ne furono, ancora una volta, testimoni. La ceramica corinzia e quelle a figure nere e a figure rosse furono molto apprezzate fuori dalla Grecia e amate in Etruria, dove, oltre che importate, vennero assimilate e replicate dalle botteghe locali. Il Museo Aristaios propone dunque un percorso mediterraneo, da Creta, fino alle sponde tirreniche etrusche,

che si dipana dal XIX fino al III secolo a.C., cioè fino agli albori della potenza di Roma, che fece di quelle acque il mare nostrum. PER SAPERNE DI PIÚ Nicoletta Capasso, Il cammino di Aristaios, Storia, arte e archeologia all’Auditorium di Roma, Youcanprint, Trecase (LE), 110 pp. ISBN 978-88-27808-59-7 www.youcanprint.it a r c h e o 53


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8

NELLA TERRA

PROMESSA

«O

gni pietra, sigillo o frammento di ceramica ci ricorda chi sono i veri indigeni della Terra d’Israele». Questo tagliente giudizio espresso lo scorso anno da Stephen Flatow, avvocato americano noto per il suo impegno nella lotta al terrorismo islamico (nel 1995, la figlia Alisa perse la vita in 54 a r c h e o

un attacco terroristico perpetrato dal Movimento per il Jihad islamico in Palestina, n.d.r.), riassume bene il ruolo che l’archeologia, spesso suo malgrado, si è trovata a giocare in quest’angolo del Vicino Oriente nell’ultimo secolo. Prima, per tutto l’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento, le indagini e gli scavi delle vestigia

archeologiche di questa piccola regione avevano interessato, di fatto, esclusivamente gli studiosi cristiani (per lo piú protestanti) e il loro pubblico. Al centro della loro attenzione era il passato della Terra Santa: un po’ per semplice scelta devozionale, ma, soprattutto, per contrastare l’approccio critico con il quale una parte del mondo scien-


CANAAN, TERRA SANTA, PALESTINA, ISRAELE: SONO I NOMI USATI PER UN PICCOLO LEMBO DI LEVANTE STRETTO TRA LA DEPRESSIONE DEL GIORDANO E LA COSTA MEDITERRANEA. A DISPETTO DELLE SUE RIDOTTE DIMENSIONI, DETIENE IL PRIMATO DI ESSERE IL TERRITORIO «ARCHEOLOGICAMENTE PIÚ INDAGATO» DEL MONDO. ECCO PERCHÉ… di Umberto Livadiotti e Andreas M. Steiner

tifico stava mettendo in discussione l’affidabilità del racconto biblico. Secondo questi studiosi, infatti, la Bibbia rappresentava un insieme di testi importanti dal punto di vista teologico, etico, letterario, ma privi di valore storiografico. In questo clima di disputa sull’attendibilità delle sacre scritture erano sorte le società di studi biblici che

finanziarono le prime campagne di scavo. Le prime ricognizioni – databili nella prima metà dell’Ottocento – in quella che veniva definita la Terra Santa furono effettuate dal biblista americano Edward Robinson, seguite, nella seconda metà dell’Ottocento, dalle rivoluzionarie indagini di Charles Warren, ufficiale dell’esercito britannico, proprio a

Veduta di Megiddo, celebre sito archeologico nella Bassa Galilea (Israele). La collina racchiude le vestigia di una potente città-stato dell’età del Bronzo. Nel Libro dell’Apocalisse, Megiddo («Armageddon») è il luogo in cui viene posta la battaglia definitiva tra il Bene e il Male.

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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8

Gerusalemme, per conto del Palestine Exploration Fund (il Fondo per l’Esplorazione della Palestina). I pionieri dell’archeologia biblica affinarono anche i metodi della ricerca e l’attenzione alla stratigrafia archeologica: durante gli scavi condotti a partire dal 1890 nel sito di Tell el-Hesi (nell’odierno Israele), l’archeologo britannico sir Matthew William Flinders Petrie individuò nelle sequenze delle ceramiche la possibilità di stabilire la cronologia dei siti. Ma la finalità dell’archeologia biblica rimaneva quella di interpretare i dati di scavo in modo da dimostrare che la Bibbia «aveva ragione». Cosí a Gerico, quando, intorno al 1910, vennero dissotterrati i resti di un antichissimo insediamento, munito di imponenti fortificazioni, vi

furono riconosciute le mura che, secondo il celebre racconto veterotestamentario, erano state abbattute a suon di squilli di tromba da Giosuè, alla guida degli Israeliti al loro arrivo in terra di Canaan (mezzo secolo piú tardi, invece, sarebbe risultato che le mura risalivano nientemeno che all’età del Bronzo Medio, alla metà circa del II millennio a.C., un’età incompatibile col racconto biblico).

IL RICHIAMO DI SION Quegli stessi decenni a cavallo fra Otto e Novecento furono però anche gli anni del grande esodo di Ebrei orientali dalle terre dello zar, dove la violenza delle persecuzioni contro le comunità ebraiche ne stava mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza. I po-

grom, estesi anche alle regioni della Polonia orientale, determinarono la fuga di centinaia di migliaia di persone, soprattutto verso gli Stati Uniti d’America. Alcune decine di migliaia presero, invece, la via della Palestina, all’epoca sotto il dominio ottomano. Il legame spirituale con quella terra e con la sua storica capitale, Gerusalemme, non era mai andato perso. Ora, però, la suggestione esercitata dalla «terra dei padri» cominciò ad assumere connotati nuovi. Eliezer ben Yehuda, un giornalista nato nell’impero zarista, appassionato lessicografo, lavorò ad aggiornare l’ebraico, una lingua che, ormai da secoli (nonostante una certa rinascita letteraria negli ambienti colti della Mitteleuropa ebraica), era relegata perlopiú al

Il giornalista Eliezer ben Yehuda (1858-1922) al lavoro nel suo studio, in una foto scattata fra il 1910 e il 1920. 56 a r c h e o


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Quando crollarono le mura di Gerico Gli scavi archeologici a Gerico, condotti negli anni Cinquanta del Novecento dalla missione diretta da Kathleen Kenyon, rivelarono che la frequentazione del sito risaliva a un’epoca incompatibile con quella del racconto biblico.

cerimoniale religioso e agli atti notarili, e ne propose l’adozione come lingua comune ai nuovi immigrati sbarcati in Palestina. L’operazione ebbe successo. Il richiamo alle «radici» palestinesi, del resto, era alimentato anche a livello teorico dal nascente sionismo, la cor-

rente politica, sorta proprio in quel periodo, che sulla scorta del grande successo popolare dell’ideologia nazionalista in Europa proponeva, come soluzione allo stato di subalternità sofferto dagli Israeliti, l’ipotesi della costruzione di uno specifico Stato nazionale ebraico.

Le esplorazioni archeologiche si moltiplicarono con l’avvento del Mandato britannico in Palestina (1920), coordinate da un apposito Dipartimento di Antichità. Nasce il primo Museo Archeologico della Palestina, l’odierno Rockefeller Museum. L’«archeologia biblica» (i cui a r c h e o 57


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8

protagonisti furono soprattutto americani e inglesi) finisce per condividere il senso di riscoperta della terra d’origine dei nuovi immigrati ebrei, confermando, nella pubblica opinione, la convinzione che le antiche vestigia via via dissotterrate testimoniassero il legame storico fra Bibbia, popolo ebraico e Terra d’Israele.

Per gli Ebrei immigrati, però, molti dei quali animati da ideali socialisti, il testo biblico non rappresentava tanto una scrittura religiosa da interpretare in senso simbolico quanto piuttosto un documento storico: grazie ai risultati delle indagini archeologiche, gli antichi testi conferivano una sorta di legittimazione

YIGAEL YADIN: IL GENERALE ARCHEOLOGO Nato a Gerusalemme nel 1917, Ygael Yadin era «figlio d’arte»: suo padre, Eleazar Sukenik, era stato l’archeologo che, alla fine degli anni Venti, aveva riportato alla luce la celebre sinagoga di epoca bizantina di Bet Alpha, nei pressi del Kibbutz Hefzibah, in Galilea (tra i fondatori del Dipartimento di archeologia dell’Università Ebraica, Sukenik fu anche, come già ricordato, uno dei primi studiosi ad aver riconosciuto l’importanza dei manoscritti del Mar Morto, rinvenuti alla fine degli anni Quaranta). Agli studi, però, Yadin affiancò la carriera militare. A soli quindici anni era entrato nell’Haganah, la formazione paramilitare (clandestina) ebraica che conduceva la lotta contro l’occupazione britannica in vista della costituzione di uno Stato israeliano indipendente (in quell’occasione cambierà il cognome che, in origine, era Sukenik). Nel 1948, durante la prima guerra arabo-israeliana che sancí l’indipendenza di Israele, ricoprí ruoli di comando nell’esercito. Negli anni Cinquanta si concentrò sulla carriera da archeologo, ottenendo risultati clamorosi: prima, nel 1960, rinvenendo nelle grotte del Nahal Hever reperti e frammenti di papiri iscritti risalenti al periodo di Bar Kochba (il leader della rivolta antiromana del 132-136 d.C.) insieme – nella grotta poi denominata «delle Lettere» – al

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cosiddetto «archivio di Babatha» (un insieme di documenti scritti appartenuti a una donna di origini nabatee, evidentemente di grande fascino, sposatasi ben due volte!) e, nella «Grotta degli Orrori», decine di scheletri di ribelli (fra cui tante donne e bambini; vedi box a p. 61); diresse poi, fra il 1963 e il 1965, il leggendario scavo di Masada. Nel 1967, durante la «guerra dei sei giorni», serví da consigliere militare. Poi passò alla politica: nella seconda metà degli anni Settanta fece parte della direzione del partito centrista Dash (Movimento Democratico per il Cambiamento), ricoprendo anche la carica di viceministro. Morí a Hadera, nei pressi di Haifa, nel 1984.

storica alle loro richieste esistenziali e istituzionali. La «grande rivolta araba» del 1936 segnò un ulteriore passo in questa direzione. La popolazione araba, che inizialmente aveva assistito inerte all’emigrazione sempre piú massiccia degli Ebrei nelle città e nelle campagne della Palestina, si sollevò con le armi contro l’amministrazione britannica, rea di favorire l’afflusso dei nuovi immigrati. Da allora, una spirale di crescente violenza segnò le relazioni fra le due componenti demografiche della regione, accompagnata dalla rispettiva rilettura del passato in termini di esclusivismo assoluto.

UN POPOLO IN CERCA DELLE SUE RADICI È con la nascita dello Stato di Israele, nel 1948, che l’esplorazione archeologica acquista una connotazione ancora piú pregnante. Sono gli anni della scoperta dei celebri Rotoli di Qumran, rinvenuti fortuitamente in alcune grotte nei pressi del Mar Morto. Con l’avvento del sionismo politico, scrive l’archeologo israeliano Dan Bahat «le scoperte archeologiche diventano – anche se in parte inconsapevolmente – uno strumento per rinnovare, sul A sinistra: l’archeologo e generale dell’esercito Ygael Yadin (1917-1984). Nella pagina accanto: un beduino sulle rovine di Masada, in una foto dei primissimi anni del Novecento. In basso, i resti del campo romano e, sullo sfondo, il Mar Morto.


piano della propria identità culturale, l’antico legame con quella terra». L’archeologia nel giovane Paese assume, se vista dall’esterno, dimensioni maniacali, quasi ossessive. Si scavava un po’ ovunque, per riportare quanto piú possibile alla luce le vestigia del passato che legano la nuova nazione alla terra. L’opinione pubblica israeliana puntò, inoltre, alla valorizzazione di quelle figure storiche dell’ebraismo che potessero contrastare l’immagine di remissività sociale e politica, tradizionalmente associata al mondo giudaico di età moderna (e drammaticamente riconfermata dall’esperienza della Shoah). Personaggi come il re David, l’eroico Sansone, i fratelli Maccabei vennero riproposti come nuovi modelli di fierezza e patriottismo. E, fra i numerosi siti archeologici, uno assurse a incontrastato «luogo della memoria»: Masada. Il racconto dello storico Giuseppe

Flavio narra di come, al termine della grande rivolta ebraica del 6670 d.C., un gruppo di Giudei ribelli radicali decisero di continuare la lotta armata contro i Romani anche dopo la distruzione del Tempio da parte di Tito, asserragliandosi con le famiglie a Masada, una imprendibile rocca fortificata ottant’anni prima da Erode su un’altura nel bel mezzo del deserto di Giudea, a pochi chilometri dal Mar Morto (vedi, in questo numero, lo Speciale alle pp. 88-109).

SOLO 7 SUPERSTITI Di fronte alla prospettiva della cattura da parte dei Romani, i ribelli piuttosto che arrendersi avrebbero allora optato per il suicidio collettivo. Secondo lo storico Giuseppe Flavio, delle 960 persone rifugiatesi nella fortezza se ne sarebbero salvate cosí solo 7 (2 donne e 5 bambini, che sarebbero scampati al sacrificio collettivo nascondendosi).

Nel 1963, Yigael Yadin, capo di Stato Maggiore Generale delle forze di difesa israeliane e archeologo come suo padre Eleazar Sukenik (uno dei primi studiosi ad aver riconosciuto l’importanza dei manoscritti del Mar Morto), iniziò gli scavi a Masada (vedi box alla pagina precedente). Era un’impresa che comportava difficoltà logistiche notevoli. Yadin intercettò fondi privati da abbinare a quelli pubblici e, soprattutto, poté affiancare alla sua équipe di professionisti centinaia e centinaia di volontari che vennero ad avvicendarsi per piú di due anni, ininterrottamente. La campagna fu un successo, sia dal punto di vista archeologico sia mediatico. Vennero trovate ceramiche, armi, rotoli di papiro, vestiario, monete e altri suggestivi reperti in ottime condizioni (tra cui per esempio un sandalo e una ciocca di capelli). Furono rinvenuti anche 28 scheletri, subito identificati come appartenenti ai ribelli suicidi. E quando si recuperarono 11 piccoli ostraka (frammenti di ceramica iscritti) con incisi i nomi di persone (fra cui quello di [Eleazar] Ben Yair, il capo dei ribelli), fu immediata l’associazione con le tessere usate per l’estrazione dei guerriglieri che avrebbero dovuto procedere all’esecuzione finale. Interpretazione suggestiva, in seguito tuttavia messa ragionevolmente in dubbio. Il mito della resistenza eroica, però, si era ormai consolidato. Ai 28 scheletri, che oggi si esita ad associare ai protagonisti del suicidio collettivo, venne data solenne sepoltura pubblica. E proprio a Masada, ancor oggi, si svolge una cerimonia annuale di giuramento da parte di reclute dell’esercito israeliano, al grido di «Mai piú Masada cadrà». In questa nuova temperie – alia r c h e o 59


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8

mentata anche dalle continue scoperte delle piú antiche sinagoghe che si aggiungevano al vasto repertorio delle testimonianze ebraiche, visibili e tangibili, nel Paese – prese piede anche una diffusa passione «antiquaria»: tutti erano indotti a collezionare alcuni dei tanti ritrovamenti effettuati accidentalmente (o fraudolentemente) al di fuori degli scavi ufficiali (particolare scalpore suscitò la raccolta archeologica privata del piú celebrato fra i generali israeliani, Moshe Dayan).

SUGGESTIONI ANTIQUARIE Le suggestioni antiquarie che avevano permeato l’autorappresentazione istituzionale si consolidarono nell’iconografia ufficiale (nei francobolli, per esempio), nella monetazione (la nuova moneta israeliana, lo shekel, riprendeva il nome da quella antica, il siclo) e nella toponomastica (ai «territori occupati» nel 1967 vennero ufficialmente

assegnate le bibliche denominazioni di «Samaria» e «Giudea»). A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, l’archeologia israeliana o, per meglio dire, una parte di essa, si è svincolata da quelli che potremmo chiamare «gli aspetti celebrativi» della ricerca, sottolineando, con senso critico – a volte al limite del provocatorio – come le numerose evidenze archeologiche emerse non corrispondessero affatto ai dati biblici o, quanto meno, ne complicassero la lettura. Cosí, l’archeologo Israel Finkelstein e altri studiosi «revisionisti» hanno «decostruito» la tradizionale cronologia dell’era di Davide e Salomone (abitualmente datata alla prima età del Ferro, XI-X secolo a.C.) e contestato la verosimiglianza stessa, in un periodo cosí antico, dell’esistenza di un regno unitario e potente (quello, mitico, di Davide e di suo figlio Salomone, appunto) esteso dalla Galilea al Mar Rosso.

Tale immagine, in passato universalmente condivisa dagli studiosi, non corrisponderebbe affatto, secondo Finkelstein, alla documentazione archeologica, risentirebbe invece di un’«idealizzazione del passato» operata, questa volta, non dagli archeologi «sionisti», ma dagli stessi redattori dei testi biblici nell’VIII secolo a.C., alcuni secoli dopo gli eventi narrati. La figura di Davide, il re piú amato dalla narrativa nazionalistica israeliana, finiva cosí con l’essere ridimensionato, da Finkelstein, a poco piú che un capo tribú locale, in conformità con il quadro tracciato dalla moderna archeologia per l’area siro-palestinese dell’età del Ferro. Gli archeologi intorno a Finkelstein ipotizzano, inoltre, che, all’opposto della versione tramandata dalla Bibbia e lungamente seguita da storici e biblisti, sia stata la compagine israelitica settentrionale (in Samaria) a raggiungere per prima, attorno al IX-VIII A sinistra: 19 maggio 1948: David Ben Gurion, affiancato dai membri del suo governo provvisorio, legge la Dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Israele nei locali del Museo di Tel Aviv.

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UNA SEPOLTURA SOLENNE «Padri gloriosi, abbiamo un messaggio per voi: siamo tornati al luogo da cui siamo venuti. Il popolo di Israele vive e vivrà nella sua patria in Eretz Israel per generazioni e generazioni. Gloriosi padri, siamo tornati e non ci muoveremo da qui». Sono alcune delle parole del discorso tenuto dal premier israeliano Menachem Begin in occasione di una cerimonia funebre particolare: il seppellimento delle ossa ritrovate un ventennio prima da Ygael Yadin e altri archeologi nelle grotte lungo la falesia del Nahal Hever, nel deserto di Giuda,

e appartenenti a 25 membri della comunità di ribelli giudaici della terza (e ultima) insurrezione antiromana del 132-135 d.C. (vedi anche «Archeo» n. 434 aprile 2021; anche on line su issuu.com) Alle 10 del mattino dell’11 maggio 1982, un corteo di circa centocinquanta persone trasportate da elicotteri militari era sbarcato su una pista di atterraggio spianata qualche giorno prima da bulldozer dell’esercito. La cerimonia, trasmessa in diretta televisiva e radiofonica, ricalcò lo schema delle «sepolture militari»: le bare in cui erano state stipate le ossa vennero portate a mano da ufficiali militari e poi interrate in una fossa scavata sul posto, a poca profondità.

A sinistra: il monumento che ricorda la sepoltura, effettuata nel 1982, delle ossa ritrovate nelle grotte del Nahal Hever, e appartenenti a 25 membri della comunità di ribelli giudaici della terza (e ultima) insurrezione antiromana. In alto: la Grotta delle Lettere, uno dei siti compresi nel complesso del Nahal Hever, nel deserto di Giuda. La scoperta e l’esplorazione di queste cavità hanno portato al recupero di frammenti di papiri iscritti risalenti al periodo di Bar Kochba, il leader della rivolta antiromana del 132-136 d.C.

Accanto ai rabbini che presenziarono al rito vi erano le maggiori autorità del Paese, a cominciare dal premier Begin e dal ministro della difesa Ariel Sharon. Tre raffiche di fucile sparate dalla guardia d’onore conclusero la funzione. Ma non misero fine alle

polemiche sollevate da ecologisti, che si lamentavano del mancato rispetto dei vincoli a tutela della riserva naturale nella quale si era svolta la cerimonia, e dagli studiosi in disaccordo con l’uso a loro dire improprio cui erano stati sottoposti dei reperti archeologici. a r c h e o 61


ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8

IL MURO OCCIDENTALE Fu nel corso della terza giornata di combattimenti della cosiddetta «guerra dei sei giorni», il 7 giugno 1967, che i soldati israeliani entrarono nella Città Vecchia di Gerusalemme prendendo possesso, tra l’altro, dell’area del Muro Occidentale, il cosiddetto «Muro del Pianto», il luogo piú sacro dell’ebraismo. Il Muro (Kotel in ebraico), infatti, è l’unico, maestoso rudere sopravvissuto del secondo Tempio (quello ricostruito dopo la «cattività babilonese» sullo stesso luogo in cui era sorto quello piú antico, attribuito a Salomone). Secondo una tradizione attestata dal Midrash delle Lamentazioni (Rabbah 1,30), il muro occidentale In alto: Il Muro del Pianto, olio su tela di Gustav Bauernfeind. 1887. Collezione privata. Il dipinto mostra il monumento ancora circondato dalle case dall’antico quartiere marocchino (a sinistra, come si presenta oggi).

del Tempio sarebbe rimasto in piedi anche dopo la distruzione dell’edificio ordinata da Tito in seguito alla conquista di Gerusalemme nel 70 d.C. In realtà, però, il Kotel non è propriamente parte del leggendario Tempio: rappresenta, invece, un tratto (relativamente breve) delle monumentali murature di contenimento che racchiudevano, e

secolo a.C., maggiori forza e prestigio; mentre il regno di Giuda (la cui capitale era Gerusalemme), dapprima vassallo di quello samaritano, si sarebbe strutturato solo dopo la caduta di quest’ultimo sotto il dominio assiro (dal X all’VIII secolo a.C. i due regni ebraici, quello di Israele a nord e 62 a r c h e o

tuttora racchiudono, i quattro lati della vasta spianata fatta costruire, in occasione dei lavori di riedificazione del Secondo Tempio, da Erode il Grande. La spianata, chiamata dagli Ebrei Har ha Beit, «Monte della Casa [di Dio]/del Tempio» e dai musulmani Haram es-Sharif, «il Nobile Santuario», misura circa 140 000 metri quadrati, o 14 ettari e oggi accoglie i due piú importanti monumenti della Gerusalemme islamica, la celeberrima Cupola della Roccia, gioiello dell’architettura omayyade, e la Moschea di al-Aqsa.

Nei secoli, questa sopravvivenza architettonica si arricchí di significati religiosi e simbolici. Non si sa con precisione a quando risalga la tradizione della rituale preghiera davanti al Muro, la pratica è, però, sicuramente attestata a partire dal XV secolo. In origine, il piano di calpestío antistante il muro doveva trovarsi circa una ventina di metri al di sotto di quello attuale. All’originaria età erodiana sono datate solo le prime sei fila di pietre che emergono sopra l’attuale piano, mentre le tre fila successive sono databili all’età

quello di Giuda, a sud, vissero blica israeliana e ha portato a un’afianco a fianco, n.d.r.). spra polemica, sviluppatasi anche a livello accademico, tra gli archeologi impegnati negli scavi di GerusaLA QUESTIONE DI lemme. Non a caso, naturalmente. GERUSALEMME Tale dissacrante ricostruzione (che Come è noto, la discussione politiha però riscosso notevoli consensi a co-giuridica sullo status della capilivello internazionale) ha suscitato tale è tutt’altro che risolta e si rifletmalumori in seno all’opinione pub- te quotidianamente nel conflitto fra


MACCABEI E MACCABIADI adrianea, a loro volta seguite da strati risalenti all’età islamica. Dopo la conquista dell’area, il governo israeliano procedette, a tempo di record, alla demolizione dell’antico «quartiere marocchino» situato immediatamente a ridosso del Muro: la parte visibile del Kotel venne ampliata, passando da una lunghezza di 22 a quella di 60 m e, soprattutto, venne allargato lo spazio antistante. Oggi, l’area, sempre gremita di turisti, è suddivisa in due spazi di preghiera (uno per gli uomini e l’altro per le donne) ed è luogo di raduni e manifestazioni durante le festività religiose ebraiche. Per l’immaginario religioso (e non solo) ebraico, il Kotel riveste un ruolo simbolico centrale. E questa sua sacralità rende, naturalmente, problematica ogni attività archeologica: controversie infinite sono state affrontate, infatti, dagli studiosi israeliani sia con le autorità palestinesi (il Kotel, infatti, si trova nell’immediata vicinanza «visiva» della Cupola della Roccia e della Moschea di al-Aqsa e, inoltre, dalla piazza del Kotel parte anche il cosiddetto ponte di Mughrabi, una struttura lignea che conduce all’unico accesso consentito ai non musulmani per giungere sulla Spianata delle Moschee/Monte del Tempio, n.d.r.), ma anche col rabbinato, preoccupato per il rischio di profanazione dei luoghi santi. A destra: francobollo emesso in occasione del ritorno della finale della Coppa delle Coppe di basket, giocata a Tel Aviv nel 1967, fra le squadre dell’Ignis di Varese e del Maccabi di Tel Aviv.

Il nome Maccabei (dall’aramaico makkaba, «martello») designa i membri della famiglia del sacerdote Mattatia, che nel II secolo a.C. guidarono la resistenza giudaica contro il sovrano seleucide Antioco IV, reo di voler ellenizzare a forza i suoi sudditi ebrei. Le gesta di questa famiglia, da cui nacque la dinastia degli Asmonei, regnanti di Giuda fino all’avvento di Erode il Grande, sono immortalate in quattro libri della cosiddetta Septuaginta (la «Versione dei Settanta», ovvero la traduzione in greco, di età ellenistica, dei testi sacri ebraici). Di essi i primi due (Maccabei 1 e Maccabei 2), benché poi esclusi dal canone biblico ebraico e protestante, sono confluiti nell’Antico Testamento adottato dalle Chiese cattolica e ortodossa; mentre gli altri (Maccabei 3 e 4) sono stati invece ritenuti apocrifi, cosí come un Maccabei 5, giuntoci attraverso una redazione araba. L’ebraica festa di Chanukkà (la «festa delle luci»), tornata in voga nel Novecento, ricorda proprio l’atto conclusivo della loro lotta: la purificazione nel 165 a.C. dell’altare del Tempio di Gerusalemme che il sovrano ellenistico aveva profanato. E fu Giuda Maccabeo, figlio maggiore del sacerdote Mattatia, a guidare i ribelli alla vittoria contro l’esercito seleucide: il suo soprannome, traducibile con il «martellatore», suggerisce la forza e l’insistenza da lui impiegati nella lotta. Quando, agli inizi del Novecento, le pratiche sportive organizzate cominciarono a diffondersi anche fra le comunità ebraiche, alla figura dei Maccabei fu associato un significato di energia fisica

abbinata a vigore morale; e perciò «Maccabi» fu adottata come denominazione, come altrove accadde con i nomi di Ercole o Spartaco (vedi le «Spartachiadi» di sovietica memoria), da molte associazioni sportive, sia nella diaspora che fra gli immigrati ebraici confluiti in Palestina. Anche se molte delle squadre di calcio istituite con questo nome nelle città dell’Europa centrale e orientale sono scomparse o si sono ridimensionate, il numero di società agonistiche «Maccabi» in Israele, America e Australia è aumentato enormemente, tanto che col tempo questo appellativo è diventato quasi sinonimo di «associazione sportiva». Fra tutte, la piú celebre è certamente la polisportiva di Tel Aviv, che vanta squadre di calcio, basket e volley di fama mondiale. La Maccabi Word Union (MWU), cioè la federazione internazionale che collega le varie federazioni continentali, organizza inoltre una manifestazione, una sorta di olimpiade, riservata agli atleti aderenti al movimento sportivo ebraico. Dopo le prime tre edizioni, disputate negli anni Trenta del secolo scorso e l’interruzione causata dalla guerra e dalla persecuzione, le Maccabiadi (questo è il loro nome) si sono celebrate ogni 4 anni, ininterrottamente dal 1950 al 2017.

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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8 A sinistra: la città di David (in primo piano) riprodotta nel grande plastico di Gerusalemme al tempo di Erode. Gerusalemme, Israel Museum. Nella pagina accanto: il cantiere di scavo nel quartiere di Silwan, nell’area della città di David, immediatamente a ridosso della Città Vecchia di Gerusalemme.

NELLA «CITTÀ DI DAVID» «Pensandoci bene, l’idea appare brillante e non importa se fosse stata sua o di un suo bravo consigliere. Lui aveva appena fondato una nuova dinastia, eliminando quella precedente (che aveva prodotto un solo re), e per sette anni aveva diretto gli affari del suo regno da Hebron, la sua capitale e principale città nel territorio di Giuda, abitato dalla sua tribú. Poi gli venne l’idea di lasciare tutto e traslocare altrove. Fu un’idea, lo si dovrà ammettere, le cui conseguenze si fanno sentire con forza ancora oggi, tremila anni dopo». Il passo, che allude alla conquista di Gerusalemme da parte del re David cosí come viene narrata nel racconto biblico, è di Ronny Reich, l’archeologo che per lunghi anni, a partire dal 1995, ha diretto, insieme a Eli Shukron, gli scavi nella cosiddetta «Città di David». Il luogo, un’altura situata a sud-est delle mura che circondano la Città Vecchia (vedi cartina a p. 66), accoglie le vestigia piú antiche di Gerusalemme e, pertanto, è stata identificata con il luogo del primo insediamento fondato dal leggendario re. La ragione della sua antichità non deve stupire, se si considera che qui sgorga l’unica sorgente perenne

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dell’intera area delle montagne di Giuda. Questa stretta collina, racchiusa tra le valli di Tyropoeon (a ovest), Kidron (a est) e Hinnom (a sud) è il luogo archeologicamente piú indagato di tutto il Paese. Dai primi scavi – condotti dal capitano inglese Charles Warren nel 1867 – a oggi, il sito è stato oggetto di 14 campagne di scavo, condotte da missioni britanniche, tedesche, francesi e israeliane in periodi storici in cui i «padroni di casa» erano sempre diversi (Ottomani, Mandatari britannici, Giordani, Israeliani). I contesti monumentali (il complesso sistema di canalizzazioni di cui fa parte il cosiddetto Canale di Warren) e i reperti (tra cui la celebre iscrizione di Siloam, un testo in paleoebraico datato intorno al 700 a.C.) hanno scritto la storia archeologica di Gerusalemme. La Città di David è meta dei turisti di tutto il mondo. La promozione del sito, come anche la sua esplorazione, continuano fino a oggi, grazie anche ai finanziamenti di Elad (acronimo dell’ebraico El Ir David, «verso la città di David»), una fondazione privata che, dal 1996, ha assunto dal gestione del Parco Nazionale della Città di David.


le autorità incaricate di gestire il del cosiddetto «tunnel della discor- municipalità di Gerusalemme tenpatrimonio storico, monumentale e dia», ovvero la costruzione, nella tasse di plasmare un paesaggio urculturale della parte antica della cit- parte araba di Gerusalemme, di un bano monopolizzato da rimandi tà, da un lato l’Israel Antiquities Au- varco d’uscita dal suggestivo per- all’antichità giudaica della città. thority (la Sovrintendenza alle Anti- corso sotterraneo che, partendo dal- Ma i lavori del tunnel non si ferchità d’Israele), dall’altro il Waqf la spianata di fronte al Muro Occi- marono e, oggi, sono completati e (l’ente islamico custode del patri- dentale (il cosiddetto «Muro del visitabili dal pubblico. monio religioso e della Città Vec- Pianto»), si addentra nel sottosuolo Fu sempre nel 1996, poi, che il Waqf chia di Gerusalemme). «Parlare di della città per diverse centinaia di (il già menzionato organismo che gestisce i luoghi e i beni archeologia a Gerusalemreligiosi islamici) iniziò i me – afferma ancora Dan Bahat, l’archeologo che Nel 1999 s’iniziò a costruire lavori, concordati con le autorità israeliane, per l’aalla Città Santa ha dedicauna nuova moschea sotto pertura di un antico varco to anni di scavi – è come che conduceva a degli mettere le mani in una il Monte del Tempio ambienti sotterranei situapentola bollente dove tutti nell’angolo sud-orientati gli ingredienti – storia, politica, religione, urbanistica e metri, lungo gallerie che ripercor- le della Spianata e noti, dal tempo molto altro ancora – si incontrano e rono i vicoli di quella che fu la città dei Crociati, come le «Scuderie di Salomone». La finalità era quella di di età asmonea e romana. scontrano continuamente». A Gerusalemme le questioni arche- Al termine degli scontri, prose- creare uno spazio aggiuntivo per la ologiche hanno assunto toni dram- guiti per settimane, morti e feriti preghiera dei fedeli. matici a partire dalla metà degli si contarono a decine. L’accusa I lavori per la moschea sotterranea anni Novanta. La violenza esplose mossa alle autorità dall’opinione furono completati, senza che fosse nel settembre del 1996, quando il pubblica palestinese era che, attra- arrecato alcun sensibile danno archepremier israeliano Benjamin Netan- verso gli scavi e la creazione di ologico. Le cose andarono diversayahu diede il consenso all’apertura itinerari e parchi archeologici, la mente qualche anno dopo, nel 1999,

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ARCHEOLOGIA DELLE NAZIONI/8

quando le autorità musulmane decisero l’apertura di un secondo varco d’accesso alla moschea sotterranea, senza consultare la controparte israeliana e senza attendere il parere della municipalità di Gerusalemme o la soprintendenza archeologica. Questa volta non si trattò di ripristinare un preesistente accesso, ma di scavare ex novo in un terreno mai toccato da duemila anni. I lavori furono avviati di notte, con l’ausilio di pesanti bulldozer. La terra di riporto, ben 400 carichi di camion, fu portata in una vicina discarica. L’operazione è stata definita da Israel Finkelstein «la piú grave devastazione recentemente inflitta al patrimonio archeologico di Gerusalemme».

1

Sulle due pagine: cartina di Gerusalemme, Città Vecchia. 1. sterri condotti nel 1999 per la costruzione della moschea sotterranea; 2. la cosiddetta «Via dei Pellegrini» nella Città di David; 3. visitatori nel tunnel che corre lungo il Muro Occidentale, tratteggiato in verde sulla cartina; 4. la setacciatura della terra di riporto dagli scavi per la moschea sotterranea.

S. Anna

(Monte del Tempio)

d S.

Muro Occidentale o del Pianto

Chiesa di S. Marco

2

Cattedrale S. Giacomo

Sorgente di Gihon

Valle del Tyropoeon

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CITTÀ DI DAVID


Nel 2004 è stato avviato il progetto denominato Temple Mount Sifting Project, allo scopo di setacciare letteralmente l’enorme massa di terra di riporto risultante dalla distruzione (i lavori sono ancora in corso e rappresentano forse il piú esteso progetto di archeologia pubblica al mondo, con la partecipazione di volontari a livello internazionale). In conclusione potremmo affermare che, sebbene la piú recente archeologia israeliana si stia liberando dai condizionamenti dovuti a una visione «patriottica», proponendo una lettura equilibrata e distaccata del dato archeologico, non possiamo dimenticare, però, che proprio l’archeologia della Terra Santa prendeva le mosse da – e a sua volta alimentava – motivazioni che potremmo definire «altamente emozionali». E che queste motivazioni, anche a distanza di quasi due secoli, non l’hanno mai del tutto abbandonata. (8 – fine)

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LE PUNTATE PRECEDENTI

PER SAPERNE DI PIÚ

Uniti da un passato comune (n. 425, luglio 2020); Sotto l’elmo di Scipio (n. 426, agosto 2020); Ellade eterna (n. 427, settembre 2020); Quando un’identità non basta (n. 428, ottobre 2020); Dalla parte dei barbari (n. 429, novembre 2020); Prima del Profeta (n. 430, dicembre 2020); Tutte le piccole patrie (n. 432, febbraio 2021); tutti gli articoli sono disponibili anche on line, sulla piattaforma issuu.com

Neil Asher Silberman e David Small (a cura di), The Archaeology of Israel: Constructing the Past, Interpreting the Present, Sheffield Academic Press, Sheffield 1997; Nadia Abu El-Haj, Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society, The University of Chicago Press, Chicago 2001; Rachel S. Hallote e Alexander H. Joffe, The Politics of Israeli Archaeology: Between ‘Nationalism’ and ‘Science’ in the Age of the Second Republic, Israel Studies 7, 2002, pp. 84-116; Raz Kletter, Just Past? The Making of Israeli Archaeology, Routledge, Londra 2006; Nachman Ben-Yehuda, Sacrificing Truth: Archaeology and the Myth of Masada, Humanity Books, New York, 2002; Neil Asher Silberman, A Prophet from Amongst You. The Life of Yigael Yadin: Soldier, Scholar, and Mythmaker of Modern Israel, Addison Wesley, New York 1994; Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, Milano 2010; Ronny Reich, Excavating the City of David. Where Jerusalem’s History began, Israel Exploration Society, Biblical Archaeology Society, Gerusalemme 2011; Samuele Rocca, Mai piú Masada cadrà. Storia e mito della Fortezza di Erode, Salerno Editrice, Roma 2021 a r c h e o 67


LUOGHI DEL SACRO/5

SIAMO

ELIMI E

SICANI

GRANDI SACELLI, RESTI DI OFFERTE E DI LIBAGIONI RACCONTANO LA RELIGIOSITÀ DELLE POPOLAZIONI INDIGENE DELLA SICILIA CENTRO-OCCIDENTALE, FORTEMENTE LEGATA ALLA RIPRODUZIONE DELLE SPECIE E ALLA FERTILITÀ DELLA TERRA. UNA CONNOTAZIONE CHE POI SI FUSE CON LE TRADIZIONI PORTATE DAI COLONI GRECI di Francesca Spatafora

L

a Sicilia, la maggiore delle isole del Mediterraneo, per la sua stessa posizione geografica al centro di quel mare, è stata da sempre crocevia di genti e culture. La sua geomorfologia – caratterizzata da vaste zone pianeggianti, ampie superfici collinari e possenti massicci montuosi – e la natura delle sue coste, contraddistinte da numerose insenature adatte all’approdo, la resero particolarmente propizia all’insediamento umano. Le vallate fluviali, percorsi naturali di collegamento tra le fasce costiere e l’entroterra, favorirono poi il popolamento dell’entroterra isolano e assicurarono il passaggio di genti, merci, idee, rendendo l’isola un luogo particolarmente vitale e dinamico fin dalle epoche piú remote. Con lo sviluppo degli insediamenti indigeni e l’arrivo di migranti dal Mediterraneo orientale, nei primi secoli del I millennio a.C., venne a delinearsi un quadro etnico assolutamente specifico e variegato che, nel V secolo a.C., lo storico greco 68 a r c h e o

Tucidide cosí descriveva: «I piú antichi abitatori di una parte del paese furono secondo la tradizione i Ciclopi e i Lestrigoni (…) I primi a succedere loro devono essere stati i Sicani che, a quanto essi dicono, avrebbero preceduto i Ciclopi e i Lestrigoni, essendo autoctoni; ma in realtà risulta che i Sicani erano Iberi, stanziati presso il fiume Sicano in Iberia, da dove i Liguri li scacciarono. Da loro l’isola, che prima si chiamava Trinacria, finí col prendere il nome di Sicania (Sikanía, in greco antico). Ancora oggi i Sicani abitano la parte occidentale della Sicilia. Dopo la caduta di Ilio, un gruppo di Troiani scampati, su navi, alla caccia degli Achei, approdarono sulle coste della Sicilia e stabilirono la loro sede ai confini dei Sicani e tutti insieme si chiamarono Elimi. Le loro città furono chiamate Erice e Segesta (…) I Siculi passarono in Sicilia dall’Italia – dove vivevano – per evitare l’urto con gli Opici (…) Giunti in Sicilia con numeroso esercito e vinti in battaglia i Sicani, li scacciarono verso la parte meridionale e occidentale dell’isola

Entella (Palermo). La stipe votiva riferibile al sacello del thesmophorion legato al culto di Demetra, in corso di scavo. Sono riconoscibili statuette in terracotta di figure femminili di offerenti. La frequentazione del luogo di culto fu particolarmente intensa fra la seconda metà del V e il IV sec. a.C.

(…) Passato lo stretto tennero e occuparono la parte migliore del paese per circa trecento anni fino alla venuta dei Greci in Sicilia (…) [I Fenici] abitavano in Sicilia, tutto intorno, dopo avere occupato i promontori sul mare e le piccole isole vicino alla costa per promuovere il loro commercio con i Siculi; ma quando i Greci cominciarono a giungere in gran numero per mare, lasciarono la maggior parte delle loro sedi, si riunirono in comunità e occuparono Mozia, Solunto e Palermo,


vicino agli Elimi: avevano fiducia nella loro alleanza con gli Elimi e per il fatto che, da queste città, la distanza tra Cartagine e la Sicilia richiede un tragitto brevissimo» (Tucidide,VI, 2).

UNA RICOSTRUZIONE ATTENDIBILE Pur nell’indeterminatezza di alcune notizie e nonostante il carattere mitico e persino leggendario dei fatti piú lontani nel tempo, queste informazioni paiono auto-

revoli e complete. Tucidide ricostruisce nei dettagli la storia del popolamento dell’isola fino all’arrivo dei Greci, e per farlo, molto probabilmente, si serví anche di fonti locali, autentiche e attendibili. Occorre nondimeno considerare che egli racconta avvenimenti ormai trascorsi da alcuni secoli e li narra, in diversi casi, con fini chiaramente propagandistici, legati alla discesa in campo di Atene a seguito delle dispute politiche che

caratterizzarono le vicende dell’isola alla fine del V secolo a.C. D’altro canto, sulle popolazioni che ancor prima di Greci e Fenici abitarono la Sicilia centro-occidentale manca una documentazione letteraria diretta, capace di illuminare i diversi ambiti della vita di quelle comunità, soprattutto per quel che riguarda la Prima età del Ferro. Volendo dunque concentrare l’attenzione sul rapporto di Sicani ed Elimi con il tema della rea r c h e o 69


LUOGHI DEL SACRO/5 Nella pagina accanto, in alto: lamina in bronzo decorata a sbalzo, forse dal deposito votivo del sacello di Colle Madore. Metà VII-metà VI sec.a.C. Lercara Friddi, Museo Civico. Nella pagina accanto, in basso: Colle Madore, edicola in pietra arenaria decorata a rilievo con figura maschile presso una fontana, identificabile con Eracle. Fine VI-inizi V sec.a.C. Lercara Friddi, Museo Civico. L’eroe fu particolarmente onorato in ambito coloniale siceliota.

Una pratica diffusa Cartina della Sicilia nella quale sono evidenziate le località citate e descritte nel testo. Qui sono state individuate tracce di vari apprestamenti legati ai culti praticati dalle popolazioni elime e sicane.

Palermo Solunto Erice

Trapani

Soloeis

Monte Polizzo Mozia

Segesta

Montagnola

E l i m i

Lilibeo (Marsala)

Selinunte

Imera

Monte Maranfusa

Entella

Mazara del Vallo

Cefalú

Monte Iato

Colle Madore

S i c a n i Terravecchia di Cuti

Monte Adranone Casteltermini

Eraclea Minoa

Polizzello Sabucina

lso

Sa

Vassallaggi

Agrigento Ravanusa Palma di Montechiaro

M a r

M e d i t e r r a n e o

Oinochoe da Polizzello. VII sec. a.C. Palermo, Museo archeologico regionale «Antonino Salinas».

70 a r c h e o

B


M a r

T i r r e n o Milazzo Camaro

Patti Marina

Zancle (Messina)

Tindari Caleacte

Gallipoli

Reggio

Taormina Naxos

Monte Etna

Adrano

M a r

Centuripe Catania

Morgantina

Enna

Piazza Armerina

S i c u l i Lentini Caltagirone

Butera

Thapsos

Pantalica

Megara Iblea

Villasmundo

Grammichele

Gela Serra Orlando

Siracusa

Akrai

Cassibile Cava d’Ispica Camarina

Tellaro Eloro

I o n i o

ligiosità, è opportuno sottolineare che la mancanza di questo tipo di testimonianze e di cicli figurativi chiaramente legati alla «sfera del sacro» pregiudica la possibilità di delineare con chiarezza le loro credenze religiose e l’organizzazione peculiare dello spazio consacrato. Atteggiamenti piú espliciti e riferimenti a culti meglio noti e codificati si possono cogliere solo all’indomani dell’avvio e del consolidamento delle relazioni con Greci e Fenici, nel frattempo stanziatisi lungo le coste dell’isola.

INFORMAZIONI PARZIALI Per le fasi piú antiche è addirittura difficile riconoscere con certezza luoghi esclusivamente destinati ad attività di culto e nettamente distinti dalle aree a carattere domestico, dove, in qualche caso, si svolgevano anche attività rituali. Del resto, assumendo come primaria la fonte archeologica e, quindi, la cultura materiale, possiamo ricavare esclusivamente informazioni sulle pratiche del culto, che costituiscono solo l’aspetto esteriore di una religiosità di cui è difficile comprendere i presupposti ideologici piú profondi. Un aspetto comunque rilevante degli spazi sicuramente destinati ad attività cultuali è la loro caratterizzazione architettonica, che spesso rispecchia un atteggiamento culturale preciso, soprattutto in seguito al consolidarsi della presenza greca sull’isola. Il richiamo a forme architettoniche e a prassi rituali legate alla tradizione rispondeva infatti a un’esigenza di riconoscibilità e serviva verosimilmente a r c h e o 71


LUOGHI DEL SACRO/5

alle comunità locali per materializzare la propria identità ed esprimere un forte senso di appartenenza. L’esempio piú noto e significativo è quello di Polizzello, al centro della Sikanía. L’area sacra, che conosce una fase di utilizzazione già nell’età del Bronzo Finale, si struttura compiutamente a partire dall’VIII e soprattutto nel VII se-

colo a.C., quando, a seguito del contatto con i Greci della costa meridionale e settentrionale, sembra prendere il suo ruolo fondamentale di punto di aggregazione per un vasto comprensorio territoriale. Gli edifici sacri sono a pianta circolare e notevoli per dimensione; il sacello E raggiunge quasi i 15 m di diametro e, nella sua ultima fase di vita, alla metà circa del VI secolo a.C., prende l’aspetto di una grande piattaforma pavimentata da un selciato sul quale si rinvennero focolari e fossette con deposizioni votive (vedi pianta in questa pagina).

Le numerose offerte depositate all’interno dei cinque sacelli, contraddistinti dalla presenza di banchine e piastre di cottura, hanno fornito una straordinaria documentazione sulle azioni rituali e sulle modalità di esecuzione: oltre ai resti di pasti e all’abbondante vasellame, soprattutto di produzione locale, che documenta anche la pratica della libagione, le offerte comprendevano armi d’offesa e da difesa, avori, oggetti d’ambra e di bronzo, paste vitree, terrecotte e bronzetti raffiguranti offerenti o guerrieri. Oltre ad attestare la complessi-

In alto: modellino fittile di capanna, dall’acropoli di Polizzello. VII-inizi VI sec. a.C. Planimetria del santuario di Polizzello: le lettere indicano i diversi sacelli circolari individuati nel corso degli scavi.

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tà e l’ampiezza degli apporti, questo insieme di materiali permette qualche considerazione riguardo ai culti che si praticavano nel santuario e che di certo erano fortemente legati ai concetti di fertilità e di riproduzione, come suggerito altresí dalle diverse raffigurazioni del toro. All’idea della riproduzione della specie si lega anche quella della promozione del ciclo produttivo agricolo e, in questo senso, può leggersi la presenza dei modellini di capanna/sacello, ex voto a uso processionale attestati in diverse tipologie e in molti altri luoghi. Sulla base di confronti con analoghi materiali cretesi del Bronzo Tardo e Finale, essi potrebbero documentare, secondo Dario Palermo – a cui si devono gli scavi piú recenti condotti a Polizzello – la permanenza sull’isola di un culto di origine cretese: il culto delle Meteres, le dee madri ricordate da Diodoro Siculo (IV 79,7).

A DOMINIO DEL FIUME Anche l’area sacra di Sabucina, in posizione elevata a dominio del fiume Salso, è caratterizzata, a partire dal VII secolo a.C., da un santuario adagiato sul pendio meridionale dell’insediamento e costituito da tre capanne a pianta circolare, una delle quali con portico d’ingresso (vedi pianta a p. 77). Nel VI secolo a.C., il luogo di culto viene sostituito da un tempietto rettangolare, con una tipologia architettonica richiamata da un ben noto modellino fittile che attesta l’adozione di forme greche nell’architet-

Anfora, da Polizzello. VII sec.a.C. Caltanissetta, Museo Archeologico.

tura sacra dei centri indigeni dopo la metà del VI secolo a.C. Si è ipotizzato che nel nuovo spazio sacro si praticasse il culto di Demetra Tesmofora (cioè «istitutrice» dell’agricoltura e con essa del vivere comunitario e delle sue regole), divinità greca che ugualmente riassumeva in sé i concetti di fertilità e di promozione del ciclo produttivo. Anche a Polizzello, del resto, una volta abbandonato il santuario sull’acropoli, al di fuori di esso, nella seconda metà

del VI secolo a.C., venne costruito un nuovo luogo di culto, nella forma di un sacello a pianta rettangolare. Una situazione analoga si riscontra, sempre nella zona centrale dell’isola, a Colle Madore, un insediamento situato sullo spartiacque tra il Torto e il Platani, dove, sulla vetta, è stato messo in luce un edificio che, sotto il profilo planimetrico, richiama i sacelli circolari di Polizzello e Sabucina. Anche l’esistenza di una fossa di scarico, rinvenuta nei pressi della capanna/sacello, contenente cenere e ossa animali combuste, richiama le pratiche attestate negli altri santuari della Sikanía e conferma il carattere sacro di quel primo edificio costruito nella parte piú alta del sito. Come a Sabucina, dopo la metà del VI secolo a.C., il primo luogo di culto fu sostituito da un sacello rettangolare, situato sul pendio meridionale e caratterizzato da un tetto di tipo greco con terrecotte architettoniche prodotte a Himera. Non è accertato quale culto si praticasse nella nuova area sacra, ma è plausibile che il sacello fosse dedicato a Eracle, come attesterebbe il rinvenimento di un’edicola votiva con il rilievo dell’eroe alla fontana (vedi foto a p. 71, in basso). È anche possibile che il deposito di fondazione del nuovo edificio – che, oltre ai manufatti piú recenti della fine del VI secolo a.C., annoverava alcuni bronzi databili tra il Bronzo Finale e la Prima età del Ferro – possa comprendere alcune delle offerte provenienti dal sacello piú antico. Di tali offerte faceva forse a r c h e o 73


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parte anche il gruppo di cinturoni di bronzo recuperati casualmente e in circostanze non del tutto chiare nei pressi della piú recente area sacra (vedi foto a p. 71, in alto).

RECINTI RETTANGOLARI Sempre in area sicana, un articolato spazio sacro è stato rinvenuto in contrada Sanfilippo a Casteltermini: in questo caso, tuttavia, si è riscontrata una diversa tipologia architettonica, pur in presenza di azioni rituali analoghe a quelle dei coevi santuari della stessa area. Lo spazio sacro, infatti, si articola in recinti rettilinei addossati agli speroni di roccia e in tre ambienti rettangolari adiacenti e comunicanti tra loro, forse anch’essi recinti all’aperto (vedi pianta a p. 75). L’azione rituale consisteva nella deposizione di offerte votive entro fossette o sui piani di calpestio: si trattava, prevalentemente, di materiali di produzione locale, a cui si associavano pochi reperti d’importazione o coloniali, pur prolungandosi l’uso dell’area per tutto il VI secolo a.C., quando le interrelazioni con il mondo greco erano ormai solide e frequenti. Evidentemente le modalità e la tipologia delle offerte esprimevano un preciso atteggiamento ideologico che si estrinsecava in una esplicita affermazione identitaria, forse in contrapposizione con l’area sacra del vicino Monte Roveto caratterizzata da sacelli scavati nella roccia, ma con tetti di tipo greco, nonché dalla presenza, tra le offerte, di materiali assai pregiati, che richiamavano il mondo coloniale. A Casteltermini è inoltre attestata l’esistenza di alcuni apprestamenti consistenti in porzioni di vasi infissi nel ter74 a r c h e o

reno, evidentemente utili per veicolare le offerte nel sottosuolo: una peculiarità che suggerisce l’esistenza di un culto di tipo ctonio assai vicino a quelli contemporaneamente legati a contesti demetriaci. Anche la presenza di grossi contenitori destinati ad accogliere derrate di vario genere concorre a ipotizzare l’offerta di alimenti e l’uso di sostanze liquide per i riti: tra esse, l’acqua doveva avere certamente una funzione rilevante nello svolgimento della prassi rituale, cosí come attesta la notevole frequenza di anfore e dolii in tutti i contesti finora noti.

ALLA FOCE DEL BELICE Spostandoci verso occidente, il caso di Montagnoli, alla foce del Belice, richiama in maniera

Disegni e foto di materiali restituiti dagli scavi condotti nell’area sacra scoperta in località Montagnola di Marineo, sito identificato con l’antica città di Makella. Il luogo di culto fu in uso tra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. Marineo (Palermo), Museo della Valle dell’Eleuterio. Castello Beccadelli Bologna.


A destra: assonometria ricostruttiva dell’area sacra scoperta in contrada Sanfilippo a Casteltermini. Il complesso si articola in recinti rettilinei addossati agli speroni di roccia e in tre ambienti rettangolari adiacenti e comunicanti tra loro. In basso: elmi dal deposito votivo della Montagnola di Marineo/ Makella. Fine VI-inizi V sec. a.C. Marineo (Palermo), Museo della Valle dell’Eleuterio. Castello Beccadelli Bologna.

significativa la situazione di Polizzello, caratterizzandosi come complesso omogeneo e unitario destinato probabilmente a luogo di culto per le

popolazioni «indigene» dell’area del basso Belice. Tre delle sette strutture riportate alla luce, tutte di pianta grosso modo circolare, hanno

un diametro di 10 circa m. Costruite con cura, sono caratterizzate dalla presenza di banchine che interessano l’intero perimetro interno o solo una

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parte; al centro, in due casi, si rinvennero piastre circolari per la cottura, particolarmente accurate nella fattura e caratterizzate dalla presenza, attorno e nei pressi, di sostegni cilindrici, utilizzati per sorreggere pignatte dal fondo piano. Una situazione, dunque, che connota lo spazio come luogo di incontro e di riunione, dove si svolgevano cerimonie che prevedevano l’uso dell’acqua e la realizzazione di pasti comuni, cosí come prova il set di ceramiche composto principalmente da contenitori destinati alla conservazione di solidi e liquidi (anforoni, idrie, olle, dolii), da vasi per la preparazione di alimenti (scodelloni in primo luogo) e da manufatti utilizzati per il consumo dei pasti (scodelle, brocche). Tutti questi materiali sono di produzione locale, a decorazione geometrica impressa o dipinta, e permettono di datare il complesso tra la metà dell’VIII e la metà del VII secolo a.C. Nei pressi poi delle quattro capanne ovoidali e circolari di minori dimensioni, situate a sud-ovest delle prime, si r invennero alcuni bothroi (fosse) nei quali erano stati depositati le offerte o i resti dei sacrifici e dei pasti comuni. La violenta distruzione di un sito cosí importante per la coesione delle comunità locali è certamente da connettere con le prime frequentazioni della costa sud-occidentale da parte dei Greci di Megara Iblea, in cerca di sbocchi nel Mediterraneo occidentale e, quindi, con la fondazione di Selinunte che nell’entroterra belicino estese ben presto il proprio controllo. Tuttavia, dopo la distruzione da parte dei Selinuntini, a una delle grandi capanne circolari dell’VIII 76 a r c h e o

A destra: anfora con protomi di toro stilizzate, da Polizzello. VII sec.a.C. Palermo, Museo archeologico regionale «Antonino Salinas». In basso: modellino fittile di un tempietto in antis, da Sabucina. Fine del VI-V sec.a.C. Caltanissetta, Museo Archeologico.

e VII secolo a.C., si sovrappose, nel VI, un recinto privo di copertura il cui carattere sacro è confermato dal rinvenimento di una serie di offerte, soprattutto vasi miniaturistici e recipienti di piccole dimensioni d’importazione greca o coloniale e oggetti di bronzo, fibule, anelli, pendagli, vaghi di collana.

UN RIFIUTO SIGNIFICATIVO Anche il sacello circolare sull’acropoli di Monte Polizzo, pochi chilometri a sud di Segesta – innalzato a partire dalla metà del VI secolo a.C. in sostituzione di un piú antico edificio a carattere sacro di pianta quadrangolare deliberatamente


smantellato intorno al 550 a.C. – ricorda, nella sua semplice architettura, i luoghi di culto noti attraverso l’evidenza degli altri siti della Sicilia centro-occidentale. Il carattere sacro dell’edificio circolare – la cui planimetria, secondo Sebastiano Tusa e Ian Morris che ne hanno curato lo scavo, richiama forme di religiosità ancestrali che presuppongono il «rifiuto autoreferenziato dei modelli architettonici e rituali greci» – è stato riconosciuto sulla base di apprestamenti e materiali che documentano attività connesse con sacrifici e libagioni: nella parte settentrionale, due pozzetti e

una piastra d’argilla utilizzata come focolare; all’esterno, uno spazio rituale connotato dalla presenza di «fuochi», di una piccola stele e di un palco di corna di cervo. A sud del sacello circolare, una struttura rettangolare di 2 x 1 m è stata interpretata come un altare per sacrifici, mentre un vicino deposito di pithoi accoglieva forse i resti dei sacrifici, visto il rinvenimento, al loro interno, di corna di cervo e ceneri associati a ceramica fine, oggetti di bronzo e ossa lavorate. Il modulo circolare, ben adatto, tra l’altro, a cerimonie di carattere comunitario svolte dalle élites locali,

fu utilizzato anche a Monte Maranfusa, un insediamento d’altura situato nella Media Valle del Belice, dove, sul terrazzo superiore, è stata scoperta l’ampia porzione di una capanna/sacello circolare con banchina anulare interna, in uso prima che l’abitato, alla fine del VII secolo a.C., si concentrasse proprio in quella parte del monte.

RITI NOTTURNI Inoltre, nel successivo contesto a carattere abitativo di età arcaica, è stato possibile riconoscere due ambienti che, sebbene funzionalmente connessi ad attività domestiche, do-

Planimetria schematica di un settore del santuario di Sabucina, con indicazione delle fasi cronologiche. Tarda età del Bronzo I fase indigena (VII sec. a.C.) II fase indigena (VII sec. a.C.) Fase di età greca (VI sec. a.C.) Fase di età greca (V sec. a.C.)

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cumentano anche lo svolgimento di azioni rituali, suggerite dalla composizione dell’arredo interno. Qui sono stati in effetti ritrovati una tavola di terracotta per la cottura, un portatorcia che allude a riti notturni, una serie di forme chiuse da mensa per lo piú d’importazione, una grande idria a decorazione incisa, e poi ancora scodelloni e ciotole di produzione locale connessi

Una veduta di Monte Maranfusa, e, in alto, i resti della capanna-sacello al termine dello scavo.

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alla preparazione e al consumo del cibo e, nell’ultima fase d’uso, qualche raro vaso d’importazione legato all’azione del bere. A confermare il carattere dell’edificio si segnalano varie offerte, tra cui diversi oggetti di bronzo – frammenti di lamine e aghi in particolare – anelli di ferro e alcune decine di astragali d’osso lavorati, che probabilmente sottintendono

una religiosità legata all’economia pastorale della comunità. In un’altra area di scavo dello stesso sito, invece, cosí come a Casteltermini, gli edifici sono inseriti in un contesto naturale che si caratterizza per la presenza di un pendio orlato da una balza rocciosa, situato a mezza costa e al centro del grande insediamento arcaico. La destinazione sacrale dell’intero complesso, particolarmente vitale a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. e organizzato su tre terrazze artificialmente sostenute da muri poderosi, è testimoniata dalla deposizione di un’offerta, avvenuta almeno in due momenti, sul pavimento di uno dei due ambienti contigui nel senso della lunghezza e comunicanti tra loro. Quello piú interno, seminterrato sul lato a monte e privo di sbocchi verso l’esterno, si apriva su un ambiente elegantemente lastricato che, a sua volta, comunicava con uno spazio aperto affacciato sulla terrazza inferiore. Anche la tipologia e la composizione dell’offerta richiamano il


Monte Maranfusa. Deposizione votiva, Edificio B Campo F. 1. la deposizione/ offerta in corso di scavo. 2. modellino miniaturizzato di capanna/ sacello dalla deposizione/ offerta. VI sec.a.C.

contesto di Casteltermini. Si tratta di forme da cucina miniaturizzate, di brocchette a decorazione geometrica dipinta con orlo trilobato o con beccuccio di versamento, alcune delle quali caratterizzate anche da riproduzioni di uccelli fantastici e, in un caso, dalla rappresentazione della figura umana in forme molto stilizzate.

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4

3. Pentola d’impasto miniaturistica, dalla deposizione/offerta. VI sec.a.C. 4. Disegno di una delle brocche con orlo trilobato e decorazione dipinta, dalla deposizione/offerta. VI sec.a.C.

Significativa è anche la presenza di due modellini fittili di capanna/sacello a pianta circolare, uno dei quali, in forma miniaturizzata, faceva parte dell’offerta; l’altro è stato invece trovato sui livelli d’uso di un edificio contiguo, dove, verosimilmente, come testimonia la tipologia del set di vasi rinvenuto all’interno, si svolgevano i pasti e le libagioni legate alla prassi rituale. I modellini di Monte Maranfusa, insieme al piú elaborato modello proveniente da un contesto domestico di Monte Iato – caratterizzato dalla figura di un torello che, posto

come acroterio del piccolo edificio sacro, ha un’indubbia valenza simbolica che richiama un tipo di religiosità legata al concetto di riproduzione della specie – rappresentano, tra l’altro, le attestazioni piú occidentali di questo tipo di oggetto, assai diffuso in area centrale. Ugualmente, la rappresentazione del toro, o delle corna in quanto parte dell’animale, su alcuni vasi di produzione locale a decorazione incisa e impressa, riconduce al concetto di fertilità e di riproduzione, cosí come, probabilmente gli stessi depositi votivi contraddistinti dalla a r c h e o 79


gli anfratti nella roccia per la deposizione di offerte alimentari, contenute in piccoli vasi di produzione locale. L’alta percentuale di lucerne a piú luci attribuibili a questa fase parla a favore della centralità dell’elemento luce nella prassi rituale di età tardo-arcaica.

Rilievo fotogrammetrico del sito di Entella.

presenza di ossa e corna attestati, per esempio, a Monte Polizzo. Qui la grande quantità di corna di cervo ha fatto ipotizzare agli editori dello scavo l’esistenza di un culto specificatamente connesso al sacrificio del cervo, un culto che troverebbe un significativo richiamo nel contesto di area etrusca di Pian di Civita a Tarquinia (X-VII secolo a.C.). Anche a Monte Maranfusa, comunque, è possibile ipotizzare il carattere ctonio del culto; questo si estrinseca in un’azione rituale che, per le offerte, predilige gli anfratti naturali o le fosse scavate nel terreno. La particolare fortuna di simili culti tra le comunità indigene della Sicilia centro-occidentale, particolarmente dedite a un’economia di tipo agricolo/pastorale, è documentata anche dalla tipologia e dall’organizzazione dello spazio di alcune aree sacre di età tardo-arcaica, che mutuano dal mondo greco forme di religiosità di contenuto analogo a quello dei culti tradizionali. Come ha sottolineato Rosa Maria 80 a r c h e o

Albanese, la metà del VI secolo a.C. «è certamente un momento focale di svolta nel mondo indigeno, dovuto probabilmente a un maggiore coinvolgimento dei centri interni nella politica coloniale: un fenomeno percepibile attraverso la nuova strutturazione non solo di aree di culto, ma anche di fortificazioni. Si ha un radicale cambiamento delle forme strutturali e funzionali dello spazio sacro, con l’introduzione di architetture di tipo greco». Nella città elima di Entella, per esempio, situata nella media valle del Belice Sinistro, è documentato, a partire dalla metà del VI secolo a.C., il culto di Demetra, sia in area urbana, sia in un thesmophorion in posizione extraurbana, inserito in un ambiente naturale rupestre e in vista del fiume Belice. Nella prima fase di utilizzazione dell’area sacra, tra la metà/fine del VI e la prima metà del V secolo a.C., l’archeologia sembra indicare l’esistenza di un culto all’aperto che sfruttava i terrazzamenti naturali e

SIGNORE IN TRONO A fronte di tale abbondanza di lucerne, le attestazioni di terrecotte votive sono invece assai limitate, almeno in questa prima fase, mentre diventano le offerte piú numerose tra la seconda metà del V e il IV secolo a.C., quando lo spazio sacro si struttura con la costruzione di un piccolo sacello rettangolare: statuette femminili sedute in trono, busti e maschere con alto polos, figure femminili con porcellino e fiaccola o, piú raramente, con altri attributi. Si tratta di tipi per lo piú legati al culto di Demetra e Persefone – ampiamente diffuso e documentato in ambiente siceliota e magno-greco – che, nel caso di Entella, assumono una valenza documentaria particolarmente significativa sia per il luogo di rinvenimento, sia in relazione alla quantità delle attestazioni. Ricco e vario sembra essere stato lo strumentario utilizzato per la celebrazione delle cerimonie notturne previste dai riti tesmoforici: pignatte a listello interno rinvenute nei pressi di focolari, vasi per il consumo dei cibi, soprattutto ciotole e scodelle, lucerne. Sono attestate anche le forme miniaturizzate che richiamano simbolicamente la pratica del banchetto e delle libagioni. Un fattore importante è anche la posizione topografica scelta per il santuario entellino. Il luogo strategico a dominio della sottostante ampia vallata fluviale, l’intervisibilità con diversi altri insediamenti coevi, la posizione lungo un importante asse di collegamento dalla campagna alla città, sembrano ac-


crescere il potenziale comunicativo del santuario marcando un ambito territoriale piú ampio di quanto non fosse quello semplicemente connesso alla città, dove, peraltro, come già ricordato, almeno un altro importante contesto si collegava al culto delle divinità ctonie. Il paesaggio in cui il santuario era inserito doveva probabilmente risultare evocativo e unificante per tutte quelle comunità che si riconoscevano in un medesimo sentimento religioso, legato ai concetti di fertilità agraria e di riproduzione, veri elementi di coesione sociale per quanti abitavano città e campagne. In una terra a vocazione prevalentemente agricola, infatti, la diffusione del culto demetriaco connesso alla produttività del suolo, oltre a essere utilizzato dai Greci come forte elemento di mediazione e interazione con le popolazioni locali, doveva comunque risvegliare un ritrovato senso di appartenenza che si accentuava all’interno di uno spazio comune.

Anche l’area sacra sorta al di fuori delle mura della città riportata alla luce a Terravecchia di Cuti, a cavallo dello spartiacque tra il Salso e il Platani, dovette essere dedicata a un culto ctonio; e anche in questo caso potrebbe trattarsi di un thesmophorion, come sembrerebbero indicare le offerte – tra le quali si annoverano statue di offerenti in terracotta a grandezza naturale – deposte all’interno di anfratti e fenditure profondi anche 4/5 m.

RAPPORTI INTENSI E PROFONDI Emblematico dell’accoglimento di forme architettoniche mutuate dal mondo coloniale è poi il tempietto a pianta rettangolare costruito a Monte Iato e dedicato ad Afrodite, almeno a partire dall’età ellenistica; certamente la tipologia dell’edificio – che, sotto il profilo architettonico, risponde perfettamente ai canoni greco-arcaici – documenta gli intensi e profondi rapporti del centro indigeno con i Greci della costa già

a partire dalla metà del VI secolo a.C., anche se non possiamo affermare con certezza che al recepimento di forme architettoniche greche corrispondesse l’accettazione di ideologie religiose estranee al patrimonio di credenze tradizionale. Interessante è l’ipotesi di Stefania De Vido che nel culto di Afrodite vede la traccia di precedenti pratiche connesse al tema della fecondità e al tipo della Grande Madre, aspetti che esprimono sentimenti religiosi legati ai valori della tradizione. Incerta è la connotazione religiosa della piccola area sacra riportata alla luce alcuni anni fa nei pressi delle mura dell’antica Makella, la città delle fonti classiche individuata sulla Montagnola di Marineo, in uso tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. Lo spazio è contraddistinto da un’offerta di carattere militare – elmi e schinieri di tipo greco – ed è caratterizzato da apprestamenti utili alla celebrazione di un culto che prevedeva libagioni e pasti rituali. Numerose sono le scodelle

Veduta panoramica del sito di Entella che mostra il versante del sito sul quale sono stati scoperti i resti del thesmophorion legato al culto di Demetra.

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LUOGHI DEL SACRO/5

di produzione indigena a decorazione dipinta per il consumo di alimenti e i vasi, anfore e idrie, connessi all’uso dell’acqua.

L’EROE CIVILIZZATORE Un collegamento con il culto di Eracle è stato ipotizzato sulla base del ritrovamento, nei pressi dell’area sacra, di un idoletto in pietra calcarea e di una piú tarda raffigurazione di un Eracle giovanile. Del resto, anche l’area di Colle Madore, come già ricordato, potrebbe essere stata dedicata a Eracle, figura mitica di eroe civilizzatore particolarmente cara anche agli abitanti di Imera e il cui culto è attestato nella città greca attraverso il ciclo figurativo delle metope e dei frontoni del Tempio B nel Santuario della Città Alta. Il culto di Eracle è parimenti docu-

In alto: lucerne a piú luci dal thesmophorion di Entella. Contessa Entellina (Palermo), Antiquarium Giuseppe Nenci. Il ritrovamento di un

gran numero di questi manufatti suggerisce la centralità dell’elemento luce nelle pratiche rituali in uso in età tardo-arcaica.

Nel nome di Afrodite Assonometrie della prima e della seconda fase del tempietto a pianta rettangolare costruito a Monte Iato e dedicato ad Afrodite. A sinistra: modellino fittile di capanna sacello, da Monte Iato. VI sec.a.C. Iato (Palermo), Parco Archeologico, Antiquarium Case D’Alia. 82 a r c h e o


mentato nell’entroterra belicino grazie alla scoperta di una dedica votiva in alfabeto selinuntino arcaico della prima metà del VI secolo a.C. a pochi chilometri dall’insediamento indigeno sul Monte Castellazzo di Poggioreale, che lascia intuire la profondità delle relazioni immediatamente istituite dalla colonia megarese con il suo entroterra. Un Eracle recepito come eroe «civilizzatore», dunque, presente nelle città greche cosí come nei centri indigeni, che sembra esprimere la complessità di una situazione etnica rappresentando probabilmente, in un territorio di frontiera, l’elemento «di pacificazione e integrazione» (Stefania De Vido).

SEGESTA ED ERICE In questa rassegna di spazi consacrati, non può infine mancare uno sguardo sulle due principali città elime, Segesta ed Erice, che almeno a partire dal VI secolo a.C. furono punti di riferimento fondamentali per l’intero comprensorio occidentale, sia sotto il profilo politico che religioso. Le aree sacre di Segesta costituiscono infatti, come ha ben argomentato di recente Monica de Cesare, «un importante nodo nell’ambito dell’archeologia del sacro nella Sicilia anellenica (…) documentando peculiari esigenze di autorappresentazione della comunità in competizione con i limitrofi centri greco-coloniali». Uno scarico di materiali alle pendici nord-orientali del Monte Barbaro prova, innanzitutto, l’esistenza di uno spazio sacro sulla parte acropolica della città, cancellato verosimilmente dai monumentali edifici di età tardo-ellenistica e di cui, quindi, non è possibile ricostruire né la tipologia, né la prassi rituale. L’unica cosa su cui fondare delle ipotesi è il ricco complesso di materiali, databili dalla fine del VI secolo a.C., contenuti nello scarico, per i quali si è pensato a un nesso con una divinità femminile.

DEMETRA E LE TESMOFORIE I Greci celebravano Demetra, dea del grano e dell’agricoltura, con diverse festività. Tra le piú importanti erano le Tesmoforie (Thesmophoria, in greco antico), che si svolgevano in autunno, tra ottobre e novembre, nel mese di pianepsione, quando avveniva la semina delle messi. La festa si svolgeva nel corso di tre giorni e vi prendevano parte esclusivamente le mogli di liberi cittadini. Nella prima giornata avveniva l’anodos (salita) verso il santuario, solitamente posto in un luogo indicato come alsos (boschetto), dove le donne si accampavano al di sotto delle skenai (tende). Un secondo giorno era dedicato alla nesteia, il digiuno per il lutto di Demetra che aveva perso sua figlia Persefone, e infine il terzo giorno,

kalligeneia, la rinascita sancita dal sacrificio cruento e dal banchetto. Piú di una fonte ricorda il carattere orgiastico che caratterizzava la festa nel corso dei riti notturni, mentre Diodoro Siculo, parlando delle feste che si svolgevano a Siracusa, ne ricorda il carattere precipuamente popolare. È certamente da rilevare come la festa celebrasse una dea che, oltre a richiamare i concetti di fertilità e riproduzione – temi certamente carichi di forti connotazioni sociali e politiche – era soprattutto, portatrice di thesmoi («regole»); un culto sicuramente propagato dai Greci nelle colonie d’Occidente, anche in ambiente indigeno, per veicolare l’idea del vivere civile affidato alla condivisione di leggi e norme comuni.

Statuette fittili femminili di offerenti con porcellino. V sec.a.C. Contessa Entellina (Palermo), Antiquarium Giuseppe Nenci.

Epidauro. I resti del complesso cultuale dedicato ad Asclepio, figlio di Apollo, celebre nel mondo antico.

Si tratta di numerose ceramiche locali a decorazione incisa e dipinta, associate tuttavia a ceramiche attiche anche di pregio, connesse soprattutto a pratiche simposiali; su

alcuni frammenti di vasi per bere, tra l’altro, si leggono dediche graffite nella cosiddetta «lingua elima», un idioma che comunque utilizzava l’alfabeto greco. a r c h e o 83


LUOGHI DEL SACRO/5

Il grandioso tempio innalzato a Segesta nacque anche per competere con la rivale Selinunte Associate al vasellame, sono state rinvenute statuette femminili di terracotta, una statuina di guerriero itifallico, pendenti d’avorio, fibule in bronzo e in ambra, unguentari di vetro policromo e tanto altro ancora. Materiali e produzioni che, nella loro eterogeneità per provenienza e pregio, testimoniano l’evolversi delle forme del rituale e l’ampia frequentazione del santuario da parte di genti varie per estrazione e origine. In Contrada Mango, inoltre, alle pendici sud-orientali del Monte Barbaro e, quindi, in posizione speculare rispetto all’area sacra dell’Acropoli nord, sorse poi un grande santuario, di cui sono stati messi in 84 a r c h e o

luce il muro di temenos (recinto sacro) e resti architettonici che, all’epoca dello scavo condotto negli anni Sessanta del secolo scorso, furono interpretati come elementi di un grande tempio dorico databile alla metà circa del V secolo a.C. Sotto il profilo del culto, stretto dovette essere il rapporto con l’ambiente naturale e con l’elemento «acqua»; i materiali raccolti sembrano suggerire che pasti rituali e libagioni fossero al centro della prassi rituale, la quale doveva avere una sua specifica caratterizzazione nell’offerta di armi, connessa forse con un’aristocrazia guerriera o con riti d’iniziazione.

Lo studio dei materiali recuperati nel corso di quei primi scavi – ceramiche indigene, attiche e coloniali, armi di bronzo, anfore da trasporto, statuine in pietra, frammenti di sculture in marmo pario – è oggi in corso e permetterà di definire meglio cronologia e contesto cultuale di questo grande santuario. È certo, tuttavia, che già nel tardo-arcaismo e soprattutto in età classica, Segesta, in bilico tra innovazione e tradizione, si mostra assai dinamica sotto il profilo dei contatti e pronta a recepire e reinterpretare forme e costumi dal mondo greco. La piú eclatante testimonianza di questo eclettismo è la realizzazione


A sinistra: il tempio di Segesta, la cui costruzione fu avviata nel 420 a.C. circa. In basso: pianta dell’area archeologica di Segesta, con l’indicazione dei monumenti principali.

del grande tempio sulla collina nord-occidentale, costruito alla fine del V secolo a.C. e nato forse anche per competere con la rivale Selinunte, nel momento in cui la città, con l’aiuto di Atene, si contrapporrà alla colonia megarese. Un tempio che, come ancora recentemente ha proposto Carmine Ampolo, era forse intitolato ad Afrodite Urania: è quanto suggerisce una dedica attestata dall’iscrizione onoraria rinvenuta nel Seicento nei pressi del santuario segestano, in cui si fa riferimento a una certa Miniura, sacerdotessa della dea. Si tratta di una divinità di origine orientale a cui alcune fonti attribuiscono un’ascendenza fenicia e una stretta connessione con la dea Astarte, secondo un modello mitico-rituale che dal mondo orientale passa, già in età arcaica, a quello greco e da lí si propaga in diverse aree dell’Occidente. Che proprio a Segesta sia attestato questo culto, è un dato che testimonia l’inserimento della città elima in un contesto territoriale fortemente condizionato anche dalla presenza

Contrada Barbaro

Tempio Teatro

Torri

Rovine della città antica

Monte Barbaro

Contrada Mango Altare elimo

punica, oltre che lo stretto legame con il grande e famoso santuario di Afrodite/Astarte eretto sulla cima di Monte San Giuliano, dove sorgeva l’antica città elima di Erice. Pur non conoscendo con esattezza l’epoca di costruzione del santuario ericino, ricordato dalle fonti non prima della seconda metà del V secolo a.C., è innegabile il ruolo che esso svolse per la Sicilia occidentale e per l’isola intera: uno spazio sacro certamente proteso in una dimensione molto piú ampia di quella strettamente legata alla città elima e deputato a svolgere una funzione di raccordo tra le popolazioni locali, il mondo punico e quello greco. Segesta, del resto, che esercitava la sua funzione politica egemonica nell’intera area, vi attribuí sempre grande importanza: lo dicono, per esempio, le vicende connesse alla spedizione ateniese in Sicilia del 415-413 a.C., momento in cui la dedica del santuario ad Afrodite è già ampiamente attestata, cosí come la successiva identificazione con la punica Astarte, il cui culto, con l’epiteto di Astarte Ericina, ebbe ampia diffusione in altre aree del Mediterraneo.

UN CONTESTO MULTIETNICO Sono ampiamente noti il ruolo e l’importanza del santuario in età romana, ma certamente non è da trascurare la funzione che lo spazio sacro assunse anche nei primi secoli della sua esistenza. Il culto che vi si professava, infatti, grazie al legame con il mare e con i naviganti, e forse anche in virtú della pratica della prostituzione sacra, che secondo Stefania De Vido avvicinava Erice ad altri «contesti mediterranei di spiccata vocazione emporica», svolgeva un importante ruolo di mediazione in un contesto multietnico quale era quello della Sicilia occidentale e risultava verosimilmente funzionale a favorire l’integrazione attraverso l’esaltazione di un comune senso religioso. a r c h e o 85


LUOGHI DEL SACRO/5

LA SAGA DI ERACLE IN SICILIA Sul viaggio di Eracle in Sicilia esistono diverse versioni e varie interpretazioni. Solo per ripercorrere a grandi linee i racconti, ricordiamo che Eracle, il piú noto degli eroi greci, era figlio di Alcmena e di Zeus. Il tradimento di Zeus aveva causato l’ira di Era, moglie del padre degli dèi, che perseguitò per tutta la vita l’eroe, costringendolo ad affrontare grandi e faticose difficoltà. Fra le famose dodici sue «fatiche», la decima si svolse proprio nell’Occidente mediterraneo. Eracle doveva conquistare i buoi di Gerione, gigante dalle tre teste figlio di Poseidone che nell’isola di Erizia, situata nell’estremo Occidente, possedeva una mandria di buoi. Una volta sottratti i vitelli, la via del

ritorno portò Eracle in Sicilia, dove arrivò a nuoto insieme alla mandria. Racconta Diodoro (IV 23): «Volendo fare il giro della costa di tutta la Sicilia, [Eracle] compí il viaggio dal Capo Peloro a Erice. Mentre percorreva la costa dell’isola, come narrano i miti, le Ninfe fecero scaturire bagni termali per alleviargli la sofferenza che gli veniva dal viaggio. C’era una doppia serie di Ninfe, le Imeree e le Egestee, e prendono questa denominazione dai luoghi». Quindi l’eroe continuò il suo cammino e, giunto alla meta, affrontò e vinse in combattimento Erice, figlio di Afrodite, che aveva fondato l’omonima città. Dopo la vittoria, però, aggiunge Diodoro, «consegnò la regione agli abitanti del luogo, accordando loro di prenderne i frutti finché non fosse comparso e non li avesse chiesti uno dei suoi discendenti». Quale significato nasconde questo mito affascinante? Per alcuni il viaggio di Eracle velerebbe un intento propagandistico dei Greci, finalizzato a sostenere l’azione coloniale intrapresa verso Occidente. Per altri, le peregrinazioni di Eracle, che al suo passaggio fa sgorgare fonti termali e sottomette eroi locali, ben rappresentano l’azione di un eroe civilizzatore dell’Occidente barbarico che, nello stesso tempo, svolge anche un ruolo di pacificatore con le genti locali. A sinistra: particolare di un’anfora attica del Pittore di Berlino raffigurante Eracle, con la clava e la leontè (la spoglia del leone di Nemea) che regge un kantharos (tazza a due manici). 490 a.C. circa. Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig.

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In conclusione – se si escludono quei pochi contesti che per cronologia, ampiezza di relazioni, profondità dei processi di mediazione e integrazione con le comunità coloniali, accolgono forme di ritualità e culti già noti e codificati, almeno a partire dalla fine del VI secolo a.C. – nella religiosità di Sicani ed Elimi, almeno per i periodi piú antichi, è possibile riconoscere solo alcune semplici linee di tendenza. Pur nella difficoltà d’identificare in maniera compiuta un sistema religioso di quelle popolazioni e di comprenderne pienamente i presupposti ideologici, infatti, l’analisi dell’organizzazione di spazi a sicura destinazione sacrale o, comunque, di aree collegate ad attività di culto, cosí come l’identificazione


di precise azioni rituali, consentono di far emergere una sostanziale e comune adesione a forme di ideologia strettamente connesse ad ambiti naturali e naturalistici, in qualche caso agganciate a miti e culti ben attestati e diffusi in tutta l’area mediterranea. È ovvio, del resto, per società poco strutturate dal punto di vista sociale ed economico, che «l’emergere del sacro», secondo la felice definizione di Mario Torelli, si manifesti nell’adesione a temi fondamentali per la sussistenza, strettamente connessi all’economia agricola e pastorale di comunità che nei semplici concetti di fertilità e riproduzione della specie riconoscevano i presupposti essenziali per la sopravvivenza stessa e per il mantenimento dell’ordine sociale. NELLA PROSSIMA PUNTATA • Il santuario di Hera Lacinia a Crotone

PER SAPERNE DI PIÚ Rosa Maria Albanese Procelli, Pratiche religiose in Sicilia tra protostoria e arcaismo, in Pietrina Anello, Giuseppe Martorana, Roberto Sammartano (a cura di), Ethne e religione nella Sicilia antica, Roma 2006; pp. 43-70 Monica de Cesare et alii, Segesta e il mondo greco coloniale attraverso lo studio delle anfore greco-occidentali da aree sacre: primi dati, in Thiasos, 9.1, 2020; pp. 349-78 Stefania De Vido, Gli Elimi. Storie di contatti e di rappresentazioni, Scuola Normale Superiore, Pisa 1997 Birgit Öhlinger, Ritual und Religion im archaischen Sizilien, Reichert Verlag. Wiesbaden 2015 Ian Morris, Sebastiano Tusa, Scavi sull’acropoli di Monte Polizzo, 20002003, in Sicilia Archeologica, 102, 2004; pp. 35-90 Rosalba Panvini, Carla Guzzone, Dario Palermo (a cura di), Polizzello. Scavi del 2004 nell’area del santuario arcaico dell’acropoli, BetaGamma Editoria, Viterbo 2009 Carla Guzzone (a cura di), Sikania. Tesori archeologici della Sicilia centromeridionale (secoli XIII-VI a.C.), catalogo della mostra (WolfsburgHamburg, 2006), Palermo 2006 Francesca Spatafora (a cura di), Il Thesmophorion di Entella. Scavi in Contrada Petraro, Edizioni della Normale, Pisa 2016 Francesca Spatafora, Tra Elimi e Sicani: ideologia religiosa e luoghi sacri, in Rosalba Panvini e Lavinia Sole (a cura di), La Sicilia in Età Arcaica. Dalle apoikiai al 480 a.C., CRICD, Caltanissetta 2012 (2017); pp. 437-47 Mario Torelli, Greci e indigeni in Magna Grecia: ideologia religiosa e rapporti di classe, in Studi Storici, 18, 1977; pp. 45-61

Erice. La rocca su cui sorgeva il santuario di Afrodite ericina e sulla quale venne in seguito innalzato il castello medievale.

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SPECIALE • MASADA

MASADA

L’ULTIMA FORTEZZA

Masada (propaggini meridionali del Deserto di Giuda, Israele). La montagna si erge solitaria, staccata dalla teoria di pareti rocciose che, per decine di chilometri, compone l’anticlinale che si affaccia sulla depressione del Mar Morto. 88 a r c h e o


«UN MASSICCIO ROCCIOSO CIRCONDATO TUTT’INTORNO DA PROFONDI STRAPIOMBI, CHE EMERGONO A PICCO DA UN PRECIPIZIO IRRAGGIUNGIBILE…». COSÍ, DUEMILA ANNI FA, GIUSEPPE FLAVIO DESCRIVEVA IL VERTIGINOSO ALTOPIANO SITUATO NEL DESERTO DI GIUDA. FORTIFICATA DA ERODE IL GRANDE E SEDE DI UN LEGGENDARIO ASSEDIO, IN ETÀ MODERNA L’ANTICA CITTADELLA DIVENTA UN LUOGO DELLA MEMORIA, INDISSOLUBILMENTE LEGATO ALL’IDENTITÀ NAZIONALE DELLO STATO D’ISRAELE… di Andreas M. Steiner, con un contributo di Flavio Russo

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SPECIALE • MASADA

I

l primo e universale cantore del fenomeno Masada rimane lui, Giuseppe Flavio. Sulla montagna, e nel deserto che la circonda, lo storico ebreo ambienta la cronaca di un evento – il suicidio di un gruppo di ribelli minacciati dai legionari romani – diventato leggenda. Ecco come descrive l’ascesa alla rupe, fortificata da Erode il Grande una settantina di anni prima di quel drammatico epilogo della grande rivolta giudaica contro Roma: «Un massiccio roccioso di non piccola circonferenza e di notevole altezza è circondato tutt’intorno da profondi strapiombi, che emergono a picco da un precipizio irraggiun-

gibile dalla vista e che nessun essere vivente potrebbe scalare, tranne in due punti ove l’ascesa è possibile, anche se non facile. Di questi due punti uno è a oriente, al termine della pista che sale dal lago Asfaltite, l’altro a occidente, dove è una pista di piú facile accesso. La prima di queste due piste essi la chiamano “il serpente”, a cui somiglia per la sua strettezza e le continue giravolte; infatti, il suo tracciato rettilineo s’interrompe per girare attorno alle rocce sporgenti, ed essa avanza con grande fatica, ripiegandosi continuamente su sé stessa e poi di nuovo distendendosi un altro poco. Chi la percorre deve piantar saldamente or l’uno or l’altro piede per l’evidente pericolo di morte;

Sulle due pagine: l’altopiano di Masada visto da ovest. A sinistra, i tre piani digradanti del Palazzo Settentrionale di Erode il Grande e, a destra, la rampa artificiale costruita dai Romani per l’assedio del 73 d.C. Sullo sfondo, il Mar Morto.

A destra: la stessa veduta in un dipinto del 1858 dell’artista inglese Edward Lear (1812-1888). San Francisco, Fine Arts Museum. Nella pagina acccanto: foto satellitare di Israele con la localizzazione di Masada.

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Gerusalemme Mar Morto Masada

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SPECIALE • MASADA

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infatti sui due lati si spalancano dei burroni cosí per oltre 400 m, un enorme corpo roccioso spaventosi da far tremare anche l’uomo piú corag- dalla sommità piatta, a pianta quasi romboidale, ampia 600 per 300 m circa. La vista che gioso…» (Guerra giudaica VII, 280-283). si gode dalla cima vale, da sola, la visita: spazia dalle colline desertiche di Giuda, a ovest, al COME DUEMILA ANNI FA… Chiunque arrivi a Masada oggi potrà render- Mar Morto e, sulla sua riva opposta, alle fasi conto di come molto poco sia cambiato dai lesie dei Monti di Moab (in Giordania), a est. tempi di Giuseppe Flavio. La montagna si Durante il giorno, il blu e il verde del Lacus presenta al visitatore in tutta la sua monu- Asphaltites (uno dei nomi con cui i Romani mentalità, con la fiancata orientale della fale- chiamavano il Mar Morto) si accendono in sia, prospiciente il Mar Morto, segnata dal vivo contrasto con il giallo sabbia delle montracciato del «serpente», simile a uno sfregio tagne che, all’alba e al tramonto, si colorano inciso sulla cruda roccia calcarea. Avvicinan- di un intenso rosso dorato. dosi, si scorge l’unico elemento di modernità: Fu Erode il Grande, despota temuto dai suoi la funivia che, partendo dai piedi della rocca, sudditi, ma anche instancabile costruttore, a trasformare l’altopiano in una sorta di invioporta i visitatori sulla cima. Masada è, prima di tutto, un monumento labile palazzo-fortezza. Su quell’impresa naturale, calato in un paesaggio che ne esalta siamo informati da due fonti esclusive, dil’unicità: siamo alle propaggini meridionali stanti 1900 anni l’una dall’altra. La prima è del deserto di Giuda, dove le aride colline, la descrizione, dettagliatissima, che ne ha tagliate dalle profonde gole degli uadi (letti di lasciato Giuseppe Flavio (nato una quaranticorsi d’acqua stagionali a regime torrentizio, na d’anni dopo la morte di Erode, avvenuta n.d.r.), si aprono alle distese del Negev. La nel 4 a.C.). All’epoca in cui scriveva, i resti montagna si erge solitaria, staccata dalla teo- dei grandiosi palazzi erodiani di Masada eraria di pareti rocciose che, per decine di chi- no ancora ben conservati e visibili. La seconlometri, compone l’anticlinale affacciato sul- da fonte, invece, è rappresentata dalla riscola depressione del Mar Morto. Siamo nel perta archeologica della rocca, avvenuta punto piú basso della terra, a 430 m circa negli anni Sessanta del secolo scorso su inisotto il livello del mare. E qui, dalla riva oc- ziativa di un archeologo israeliano molto cidentale del Mar Morto, Masada si innalza speciale,Yigael Yadin (vedi anche a p. 58). A destra: la funivia che oggi conduce i visitatori sull’altopiano di Masada. A sinistra, si riconosce la pianta di un accampamento romano. Nella pagina accanto: l’altopiano di Masada visto da nord. In primo piano, il Palazzo Settentrionale e i magazzini. Nel 2001, l’UNESCO ha dichiarato il sito Patrimonio dell’Umanità. a r c h e o 93


SPECIALE • MASADA

In entrambi i casi, alla decisione di rievocare e di riscoprire la storia di questa affascinante fortezza nel deserto, si è accompagnata la tendenza (umanissima!) di crearne un mito.

LA RISCOPERTA MODERNA Il primo a mettere in rapporto la rocca di metzuda (il termine ebraico per «fortezza») di cui parlava Giuseppe Flavio con la montagna che gli abitanti della Palestina chiamavano es-Sebbe, fu Edward Robinson (17941863). In verità, il teologo protestante (autore di una monumentale opera intitolata Biblical Researches in Palestine che gli avrebbe meritato l’epiteto di «padre della moderna palestinologia») non visitò mai personalmente la montagna, limitandosi a osservarla, attraverso un cannocchiale, dalla sua postazione nell’oasi di En Gedi. In seguito, Masada divenne meta di esplorazioni piú ravvicinate: tra i primi a raggiungere la cima della montagna fu un missionario del Connecticut, Samuel W. Wolcott (18131886), mentre ad ascendere la rocca servendosi del «percorso del serpente» fu il generale inglese Charles Warren (1840-1927), già noto per le sue indagini archeologiche a Gerusalemme (vedi anche a p. 64). La sistematica esplorazione archeologica del sito avvenne, però, tra gli anni dal 1963 al 1965 quando, sotto la guida carismatica di Yigael Yadin, migliaia di volontari provenienti da tutto il mondo parteciparono alla messa in luce di gran parte dei resti monumentali dell’altopiano. Grazie agli scavi di Yadin, pubblicati in tre importanti volumi scientifici, Masada ottenne notorietà mondiale. Le oltre 650 pagine dell’ultimo volume, curato da un giovane collaboratore di Yadin, l’architetto Ehud Netzer (in seguito divenuto uno dei massimi protagonisti dell’archeologia erodiana), si chiude con un epilogo che vale la pena riportare per intero: «La questione circa l’esistenza e le caratteristiche di Masada come sito regale precedente al regno di Erode deve rimanere aperta. Nonostante ciò, a partire dal suo [di Erode] arrivo a Masada, almeno dall’inizio delle sue attività costruttive nel sito, la fortezza è stata in funzione per un periodo di quasi 110 anni. Soltanto una «macchina da guerra» del calibro di quella dell’esercito di Roma sarebbe stata in grado di espugnarla». Gli avvenimenti narrati da Giuseppe Flavio si 94 a r c h e o

LE DATE DA RICORDARE 73 a.C. Nasce Erode, figlio dell’idumeo Antipatro e della principessa nabatea Cipro 63 a.C. Pompeo conquista Gerusalemme e entra nel Tempio 37 a.C. Con l’aiuto di Roma, Erode assedia e conquista Gerusalemme 37-4 a.C. Erode il Grande diventa re di Giudea, fino alla sua morte a Gerico, il 4 a.C. 6-41 d.C. La Giudea è governata da funzionari romani con il titolo di prefetti (tra cui Ponzio Pilato, 26-36 d.C.) 37/38 d.C. Giuseppe Flavio nasce a Gerusalemme 66-67 d.C. Divampa la prima rivolta giudaica contro Roma 70 d.C. Tito conquista Gerusalemme e distrugge il tempio erodiano 73 d.C. Cade Masada, ultima roccaforte dei ribelli 100 d.C. circa Giuseppe Flavio muore a Roma 115-117 d.C. Ribellione antiromana dei Giudei in Cirenaica, Egitto, Cipro e Mesopotamia, repressa da Traiano 132-135 d.C. Rivolta di Simone bar Kochba, repressa da Adriano

svolsero, come già ricordato, circa settant’anni dopo la morte di Erode. Non si riferiscono, dunque, al regno di quest’ultimo bensí agli anni finali della prima guerra giudaica.

UN RACCONTO «IN ESCLUSIVA» Nel suo racconto, l’episodio chiave riguarda il suicidio collettivo messo in atto dai ribelli (della setta giudaica «estremista» dei Sicari) capeggiati da Eleazar ben Yair, asserragliatisi, insieme alle loro donne e bambini, nella roccaforte assediata dalle legioni di Flavio Silva. Dovendo assistere, inermi, all’avanzata del nemico e decisi a non cadere vivi nelle sue

I tre livelli del Palazzo Settentrionale visti da ovest. Si riconosce il percorso che, dalla Porta dell’Acqua (a destra, in ombra), conduce all’ultimo livello del Palazzo e alle principali cisterne.


mani «tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari: vittime di un miserando destino, cui trucidare di propria mano la moglie e i figli apparve il minore dei mali!» (Guerra giudaica VII, 393). Alla fine, rimasti in dieci, tirarono a sorte chi doveva uccidere gli altri nove, prima di togliersi la vita egli stesso. «Tanta era presso tutti la scambievole fiducia – prosegue Giuseppe Flavio – che fra loro non vi sarebbe stata alcuna differenza nel dare e nel ricevere la morte. Alla fine i nove porsero la gola al compagno che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano;

poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari» (Guerra giudaica,VII, 396-397). La drammatica sequenza di eventi viene riportata da Giuseppe Flavio «in esclusiva» (tra gli altri autori antichi a noi pervenuti, fanno accenno a Masada soltanto due brevi passi di Strabone, Geografia XVI,2,44, e di Plinio il Vecchio, Storia Naturale V,73) e in absentia: già nel 71, infatti, l’anno dopo la distruzione di Gerusalemme, di cui invece fu testimone oculare, Giuseppe Flavio aveva seguito Tito a a r c h e o 95


SPECIALE • MASADA

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LA PIANTA DELL’ASSEDIO

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Il disegno ricostruisce le strutture messe in atto da Flavio Silva per l’assedio di Masada. Le lettere indicano gli otto accampamenti militari, mentre i numeri segnalano le torri di guardia erette lungo il muro che, per circa 4,5 km, circondava l’area intorno alla rocca. Sul lato meridionale il muro era interrotto dal massiccio del Monte Eleazar, su cui sorgeva l’Accampamento H.

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In alto: veduta dall’altopiano di Masada in direzione ovest, verso l’interno del desero di Giuda. Sulla destra, la sagoma del grande Accampamento F, caratterizzato da un settore quadrato, a sua volta recintato, nell’angolo sudorientale del castrum. Al centro del campo si trovava il praetorium, il quartier generale del comandante Flavio Silva.

Roma, dove era rimasto fino alla morte (avvenuta intorno al 100 d.C.). È lecito, a questo punto, chiedersi se l’autore di questa storia entrata nella leggenda conoscesse veramente il luogo in cui l’aveva ambientata. Giuseppe Flavio era mai stato a Masada? Per quanto dettagliate, infatti, le descrizioni di Giuseppe non corrispondono a quanto, quasi due millenni piú tardi, è emerso dagli scavi archeologici. È, dunque, assai probabile che, per raccontare i monumenti di Masada, l’autore abbia attinto a quanto aveva visto nella natia Gerusalemme che, all’epoca in cui vi aveva soggiornato, era ancora abbellita dai grandi monumenti erodiani. Lo stesso Netzer, che ha esaminato la descrizione di Giuseppe Flavio con l’occhio dell’architetto, gli concede la possibilità di aver visto il palazzo settentrionale di Masada «semmai da lontano»… E la storia dell’assedio? Per scriverne, Giuseppe potrebbe aver attinto ai rapporti dei comandanti militari romani. Perché, se oggi molti studiosi tendono a giudicare il racconto del suicidio una pura invenzione (dettata

da ragioni politiche e ideologiche, tra cui, forse, il desiderio di redimere l’immagine del «perdente» popolo ebraico, conferendogli una patente di «eroicità»), quell’assedio, invece, c’è stato realmente. E le testimonianze archeologiche di quell’evento, sono ancora oggi perfettamente visibili.

CRONACA DI UN ASSEDIO Dopo la caduta di Gerusalemme del 70 d.C., la resistenza giudaica si era rifugiata in tre fortezze erodiane, l’Herodium, nel deserto di Giuda non lontano da Betlemme, nella fortezza di Machaerus (Macheronte) sulla sponda orientale del Mar Morto, e a Masada. Le prime due capitolarono senza porre particolare resistenza, ma non Masada. Qui l’esercito romano giunse, sotto il comando del legato Lucio Flavio Silva Nonio Basso, alla fine dell’inverno del 72/73 o 73/74. Si è calcolato che nell’assedio della roccaforte fossero coinvolti circa 8000 soldati, tra quelli della Legione X Fretensis e le truppe ausiliarie. La prima impresa messa in atto dai Romani fu la (segue a p. 100) a r c h e o 97


SPECIALE • MASADA

ERODE A MASADA Secondo Giuseppe Flavio, furono gli Asmonei i primi a costruire una propria fortificazione a Masada (Guerra giudaica VII, 285), un affermazione non confermata, però, da alcun dato archeologico. Per come si presenta oggi, dunque, la fortezza è interamente ascrivibile a Erode il Grande, salvo alcuni edifici dovuti a trasformazioni apportate nel secolo successivo (il periodo dell’insurrezione giudaica), tra cui una sinagoga, addossata lungo il muro di cinta nord-occidentale, e i resti di un insediamento monastico di epoca bizantina. Secondo Ehud

articolato su tre piani lungo il Netzer, uno dei massimi studiosi costone nord della rupe e munito di dell’architettura erodiana, lo terme e capienti magazzini. La sviluppo costruttivo di Masada grande profusione decorativa e gli avvenne in tre fasi principali: la evidenti elementi riconducibili prima, intorno al 35 a.C., riguarda l’area interna del cosiddetto Palazzo all’architettura classica suggeriscono che la realizzazione Occidentale, alcuni edifici palaziali del complesso, o almeno di una minori nella parte nord parte significativa di esso, risalga a dell’altopiano, e la Grande Piscina dopo lo storico incontro di Erode posta ai margini meridionali. Una seconda fase di interventi con Ottaviano, avvenuto edilizi si verificò a partire dal 25 a.C. a Rodi nell’anno 30 a.C. Una porta circa: viene ampliato il Palazzo Occidentale e, soprattutto, viene completato il grandioso Porta Est Palazzo Settentrionale,

Magazzini Edificio 8

Palazzo Nord

Terme grandi

Torre

Porta dell’Acqua

Edificio 9

Edificio 7

Nella pagina accanto, in alto: la foto aerea evidenzia la pianta quasi romboidale del pianoro Sinagoga di Masada. Sulle due pagine: planimetria con i principali edifici di Masada. I colori evidenziano le tre principali fasi costruttive erodiane: in arancione la prima (35 a.C. circa), in giallo la seconda e principale (25 a.C. circa), in verde la terza e ultima. 98 a r c h e o

Chiesa bizantina

Colombario Colombario Porta Ovest

Conceria

Palazzo ovest


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Cisterna

Torre di Giuseppe

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Forno Edificio 12

Edificio 11

fortificata sorvegliava il sentiero che conduceva alle cisterne situate sul fianco nord-occidentale della montagna. A una terza fase, databile intorno al 15 a.C., è da attribuire la cinta muraria, intervallata da casematte, che circonda l’intero altopiano, segnando la netta separazione del Palazzo Settentrionale dagli edifici del pianoro. Al centro di Masada, inoltre, gli scavi hanno portato alla luce anche una torre circolare, adibita a colombario e, sul lato di uno dei palazzi minori, una vasca a cui si accedeva tramite una scalinata; forse una semplice piscina o, altrimenti, una mikveh, la vasca che raccoglieva l’acqua piovana per il rituale bagno di purificazione previsto dalla tradizione religiosa ebraica. Mikveh Porta Sud

Colombario Sud

Edificio 13

Cisterna

Piscina

Bastione Sud

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SPECIALE • MASADA

costruzione, intorno alla montagna, di una muraglia di pietra, alta circa 3 m e lunga 4,5 km, tale da impedire agli assediati ogni possibilità di fuga. Otto accampamenti militari, allestiti al di fuori della cinta, accoglievano le truppe. Ancora oggi, la loro tipica pianta quadrata, segnata dal crollo delle pietre con cui i forti furono costruiti, è perfettamente identificabile dall’alto della rupe. E il camminamento che li univa è tuttora percorribile.

Gli scavi di Yigael Yadin erano rivolti soprattutto a portare in luce i resti monumentali di età erodiana dislocati sull’altopiano di Masada e poca attenzione venne riservata a queste imponenti testimonianze di archeologia militare. Solo nel 1995 – come narra in un suo recente libro l’archeologa Jodi Magness, che a Masada ha lavorato lunghi anni (Masada. From Jewish Revolt to Modern Myth, Princeton University Press, 2019) – un’équi-

A sinistra, in alto: l’enorme cisterna situata all’estremità meridionale di Masada. A sinistra: le decorazioni affrescate nell’ultimo livello del Palazzo Settentrionale (25 a.C. circa).

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In alto: la grande rampa d’assedio, oggi percorribile attraverso un sentiero attrezzato. A destra: il mosaico policromo rinvenuto nel Palazzo Occidentale di Masada.

Possiamo solo immaginare quale sforzo logistico abbia comportato, in questa terra arida e lontana dai grandi abitati, l’approvvigionamento di cibo e di acqua in grado di soddisfare il fabbisogno degli 8000 soldati con i relativi servitori e schiavi, nonché degli stessi animali (secondo un calcolo approntato dallo stesso Yadin, il numero degli assedianti – tra legionari e prigionieri/schiavi giudei – doveva ammontare a non meno di 15 000).

pe di archeologi, composta Gideon Foerster, Haim Goldfus, Benjamin Arubas e la stessa Magness, ha iniziato a indagare le strutture romane, identificando, tra l’altro, nell’accampamento denominato Campo F, posto ai margini nord-occidentali della muraglia romana, il Pretorio, ovvero la residenza dello stesso Lucio Flavio Silva.

UNA FORTEZZA SOLIDISSIMA È Giuseppe Flavio a narrare come «Non soltanto vi venivano trasportate da lontano le vettovaglie, con grande pena dei Giudei addetti a tale servizio, ma nell’accampamento si doveva portare anche l’acqua perché sul luogo non c’era nemmeno una sorgente. Predisposto tutto ciò, Silva si dedicò all’assedio; esso richiedeva molta abilità e grandi sforzi per la straordinaria solidità della fortezza» (Guerra giudaica VII, 278-279). a r c h e o 101


SPECIALE • MASADA

Veduta aerea, da sud-ovest, degli edifici di servizio del Palazzo Settentrionale. A sinistra, i resti dell’Edificio 9 e, al centro, la serie dei magazzini. Sullo sfondo, a sinistra, la sagoma dell’Accampamento F.

Mentre i ribelli (meno di un migliaio) potevano verosimilmente disporre di scorte di acqua e cibo sufficienti (grazie anche alle riserve idriche garantite dal complesso sistema di cisterne costruito da Erode), il costo logistico fu certamente tra le ragioni che spinsero Silva ad accelerare i tempi dell’attacco finale. Per portare le truppe in cima alla montagna, vi erano solo due vie: quella del «serpente», sul lato est, impraticabile per la sua pericolosità, e un secondo tracciato, che risaliva la rocca da ovest. Entrambi i percorsi, però, avrebbero costretto i soldati non solo a pro102 a r c h e o

cedere «in fila indiana», affrontando tempi lunghi e difficoltà incalcolabili, soprattutto in vista della necessità di trasportarvi l’ariete con il quale avrebbero dovuto abbattere il muro che circondava l’intera fortezza. Durante quell’ascesa, per giunta, i soldati sarebbero stati facile mira dei proiettili scagliati su di loro dagli uomini di Eleazar.

LA GRANDE RAMPA Fu presa la decisione, cosí, di costruire, sul fianco occidentale della rupe, un accesso artificiale tramite una grande rampa d’assedio. La


A destra, in alto: i tre livelli del Palazzo Settentrionale.

scelta del luogo appare, ancora oggi, obbligata: il dirupo sul lato occidentale di Masada misura solo 75 m, un’altezza notevolmente inferiore rispetto a quello orientale. Qui, inoltre, ai piedi della montagna, era un’altura naturale di roccia chiara (nominata «Bianca» da Giuseppe Flavio), una sorta di terrapieno naturale favorevole alla costruzione della rampa: «Silva vi salí a prenderne possesso e ordinò all’esercito di costruirvi sopra un terrapieno. I soldati si misero all’opera con grande ardore e in gran numero, ed elevarono un solido terrapieno dell’altezza di duecento cubiti. Questo non venne però giudicato abbastanza stabile e alto per piazzarvi le macchine, e pertanto vi fu costruita sopra una piattaforma di grossi blocchi congiunti insieme, che aveva l’altezza e la larghezza di cinquanta cubiti» (Guerra giudaica VII, 304 segg.). La rampa d’assedio voluta da Flavio Silva è tuttora conservata e percorribile a piedi. Le già menzionate indagini eseguite sulle strutture ossidionali romane hanno rivelato importanti informazioni sulla tecnica di costruzione della rampa, composta da una «trama» di tronchi lignei (per lo piú da alberi di tamarindo e dalle palme da dattero), disposti in orizzontale e in verticale, poi riempita con pietrisco e terra. Una volta completata la rampa, sulla cima venne costruita una piattaforma per allocarvi l’ariete (ancora oggi è riconoscibile l’ampia breccia nel muro erodiano creata dall’azione della macchina). Dopo avere sfondato il muro, però, i soldati romani si accorsero dell’esistenza di un secondo muro, eretto dai ribelli con travi di legno e riempimento in terra. Giuseppe Flavio ne descrive la tecnica costruttiva nei minimi dettagli: «I Sicari si erano affrettati a costruire un altro muro, che però non doveva fare la fine dell’altro sotto i colpi dell’ariete; infatti lo costruirono morbido e capace di smorzare la violenza dei colpi nel seguente modo. Congiunsero fra loro alle estremità delle grosse travi disposte l’una strettamente attaccata all’altra nel senso della lunghezza; disposero poi verticalmente queste strutture a due a due l’una di fronte all’altra a distanza dello spessore di un muro, e riempirono l’intercapedine di terra. Per impedire poi che nell’intercapedine la terra si sollevasse e si riversasse giú, congiunsero con altre travi trasversali quelle disposte per lungo. La loro opera aveva cosí l’apparenza di una muratura, ma i colpi arrivando sul morbido si smorzavano e rendevano piú compatta la terra comprimendola con lo scuotimento» (Guerra giudaica,VII, 311-314).

Per quanto tempo, però, quel secondo muro avrebbe potuto opporsi alla «macchina da guerra» di Roma? Lasciamo ancora la parola a Giuseppe Flavio, per raccontare le ultime ore di Masada: quando vide il muro «Silva pensò che di un tal baluardo avrebbe avuto ragione piuttosto col fuoco, e diede ordine ai suoi uomini di scagliarvi contro delle fiaccole accese. Quello, che era fatto per gran parte di legno, prese subito fuoco e, incendiandosi per tutto il suo spessore a causa della scarsa compattezza, sprigionò un’enorme fiammata. Quando il fuoco era ancora all’inizio, dal nord prese a soffiare contro i romani un vento che causò non poca paura; infatti spingeva dall’alto le fiamme contro di loro, ed essi furono quasi presi dalla disperazione come se ormai le loro macchine fossero state distrutte. Poi all’improvviso, come per divino volere, il vento prese a spirare dal sud e, soffiando con violenza in direzione opposta, spinse le fiamme contro il muro, che ormai fu tutto in fiamme da una parte all’altra. Favoriti cosí dall’aiuto del dio i romani fecero ritorno festanti nell’accampamento, essendosi stabilito di scatenare l’attacco contro i nemici il giorno dopo, e nella notte rafforzarono la vigilanza perché nessuno di quelli avesse a eclissarsi. Ma né Eleazar meditava di fuggire, né avrebbe permesso di farlo ad alcuno dei suoi» (Guerra giudaica VII, 311-320). Quel che segue, come sappiamo, è la storia di una drammatica «non-resa». O forse, ne è la – altrettanto drammatica – leggenda. a r c h e o 103


SPECIALE • MASADA

FLAVIO SILVA, YIGAEL YADIN

E LE INSIDIE DELLA PROPAGANDA POLITICA di Flavio Russo

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na celebre frase tratta dal De Oratore (II, 9) di Cicerone attribuisce alla storia una valenza magistrale, ovviamente quando riscontrata e compresa. Nei secoli successivi in nessun ambito tale affermazione è stata presa piú alla lettera quanto in quello militare, tanto che lo studio della storia Il grande Accampamento F di Masada, posto all’estremità nordoccidentale del muro costruito per l’assedio. Al centro del castrum è stato individuato il quartier generale di Flavio Silva. A destra: l’archeologo Yigael Yadin, direttore degli scavi archeologici di Masada negli anni 1963/65.

costituisce una delle discipline piú importanti della preparazione dei giovani ufficiali. Essendo, infatti, le dinamiche belliche inevitabilmente limitate, la conoscenza di quelle trascorse può fungere da suggerimento per le future. Ragionamento che, pur vantando numerose conferme, non manca di significative controindicazioni: laddove, per esempio, è la vita ad assumere una valenza magistrale nei confronti della storia.Tra gli esempi emblematici di una mutazione del genere, spicca l’assedio di Masada, soprattutto per la sua terribile conclusione, descritta da Giuseppe Flavio nella Guerra giudaica (VII, 8) e sublimata dopo gli scavi archeologici degli anni Sessanta a paradigma dell’insopprimibile rivendicazione di libertà, perfino al prezzo della vita. La vicenda è riassunta nelle pagine precedenti di questo Speciale: dopo i prodromi della ribellione dei Giudei fra il 66-68 d.C., Masada, scarsamente presidiata, fu occupata da una banda di irriducibili rivoltosi, che erano soli-

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SPECIALE • MASADA

ti mantenersi con razzie limitrofe e definiti Sicari dall’arma insidiosa di cui si servivano nei loro omicidi. Constatando l’inerzia romana assalirono Engadde (l’odierna oasi di En Gedi), una piccola città della quale massacrarono indistintamente i circa 700 abitanti, trasportando tutto il bottino nella ormai loro fortezza. A questa impresa ne seguirono diverse altre ancora, fin quando i Romani, al comando di Flavio Silva, sul finire del 73 d.C., non avviarono l’investimento ossidionale di quell’ultimo caposaldo giudaico. Come è noto, prima dell’assalto finale, i Giudei ribelli uccisero mogli e figli per poi suicidarsi in massa. Due donne e cinque bambini, nascostisi in un cunicolo, furono i soli superstiti dell’eccidio: da loro gli esterrefatti Romani appresero l’accaduto, restandone ammirati. Promotore e protagonista dello scavo fu l’archeologo Yigael Yadin (1917-1984), già capo di Stato Maggiore del nascente esercito israeliano fra il 1949-52, uscito vincitore dall’attacco della preponderante Lega Araba formata da Siria, Egitto, Giordania, Iraq, Libano e Arabia Saudita. L’ampia coalizione di nemici che avevano circondato quella sorta di enclave ebraica parve, quando Yadin avviò gli scavi di Masada tra il 1963-65, riproporre l’antico assedio di Masada: al suo posto lo Stato d’Israele e al posto delle soverchianti legioni romane la Lega Araba. In tale direzione presto si orientarono quelle ricerche archeologiche, che perciò non sfuggirono piú tardi alla taccia di aver voluto accreditare una versione politica della storia, creando un «mito fondatore» per Israele, fornendogli gloriosi eroi da imitare. I miti fondatori si distinguono, tuttavia, dalla vicenda storica che li ha ispirati per una serie di incongruenze non secondarie e che, nel caso di Masada, possono rubricarsi in: letterarie (riguardanti la figura storica e umana dell’autore dell’unica fonte scritta circa gli 106 a r c h e o

Alcuni degli ostraka (frammenti di ceramica usati come supporto per scrittura) rinvenuti a centinaia a Masada. Sul frammento al centro della prima colonna a destra, appare il nome «ben Yair».

Nella pagina accanto: la statua di Giuseppe Flavio accoglie i visitatori all’ingresso del sito di Masada.

eventi narrati); storiche, a proposito dell’effettivo carattere dei difensori della fortezza; tattiche, circa la dinamica dell’investimento condotto da Flavio Silva; religiose, se consideriamo la liceità del suicidio e dell’omicidio alla luce della precettistica giudaica; e, infine, archeologiche, a proposito del rinvenimento di eventuali riscontri materiali della vicenda. Tralasciando qui la complessa vicenda che riguarda la figura stessa di Giuseppe Flavio, partiamo dall’aspetto storico: le sue pagine sull’assedio di Masada, integralmente condivise dagli archeologi di Yadin, furono eluse quando i Sicari, descritti come criminali e delinquenti efferati, furono trasformati nella moderna visione politica in un manipolo di eroi, 3-400 al massimo. La restante parte dei 960 individui era costituita di donne e bambini: nessuno, però, si curò di interpellare le prime sul proposito di condividere la morte, per cui furono trucidate proditor iamente, forse mentre venivano abbracciate, sorte riservata anche ai figli! Se due di esse evitarono la morte nascondendosi con cinque bambini, è lecito pensare che altre ne avrebbero seguito l’esempio, se gliene fosse stata concessa la facoltà. Veniamo alle incongruenze tattiche: va rilevato che non essendo Masada una città, né una cittadella, una prassi difensiva abituale implicava che al suo interno vi restassero i soli difensori. Le «bocche inutili», per lo piú anziani, donne e bambini, se mai presenti. avrebbero dovuto essere allontanate onde consentire il prolungarsi della resistenza. Soluzione certamente atroce, ma non peggiore della loro uccisione. Ma poi, con tante persone da sfamare all’interno, perché affannarsi a costruire la rampa e le relative macchine d’assedio, quando una volta racchiusa la rupe in un anello, sarebbe bastato attendere al massimo qualche mese per veder spegnersi la resistenza per fame? Come credere che i viveri, sempre in perfet-


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SPECIALE • MASADA

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Nelle tre immagini in alto, alcuni momenti della cerimonia di inumazione, svoltasi il 7 luglio del 1969, dei resti scheletrici rinvenuti a Masada durante gli scavi diretti da Yigael Yadin. Sulle due pagine: ancora oggi, la fortezza di Masada è il luogo privilegiato per manifestazioni e cerimonie dell’esercito di Israele.

te condizioni di conservazione, fossero lí da quasi un secolo? È piú che plausibile, allora, ritenere che la costruzione della rampa, opera colossale, non vada ascritta a una stringente necessità ma piuttosto all’orgoglio di Flavio Silva, il quale colse l’opportunità per affermare, di fronte al mondo di allora e per i posteri, e con una grande, meditata operazione di propaganda politica e militare, l’invincibilità della «macchina da guerra» di Roma. Circa le incongruenze religiose, ai Giudei credenti era interdetto il suicidio, come ricordato, e lo era altrettanto l’omicidio premeditato dei consanguinei. Infine, circa i riscontri archeologici si può affermare che mancano quasi del tutto: certamente esistono la rampa, il muro di circonvallazione e gli accampamenti romani, ma i resti umani trovati all’interno della fortezza sono appena una ventina dei quasi mille che, stando a Giuseppe Flavio, morirono nella vicenda. È plausibile che i Romani, una volta all’interno di Masada, abbiano scaraventato quei miseri corpi nei burroni circostanti, trasformandoli in cibo per gli sciacalli… A questo punto, qual è la conclusione meno improbabile che si può trarre su quella tragedia? Impossibile accertarlo: alla stima che, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, i Romani avevano riconosciuto alle vittime, si aggiungerà, quasi due millenni dopo, quella degli Israeliani, che tributeranno ai pochi scheletri rinvenuti gli onori militari… PER SAPERNE DI PIÚ Samuele Rocca, Mai piú Masada cadrà. Storia e mito della fortezza di Erode, Salerno Editrice, Roma, 2021 Jodi Magness, Masada: From Jewish Revolt to Modern Myth, Princeton University Press, Princeton 2019 a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

LA FANCIULLA E IL SERPENTE A IGEA, FIGLIA DI ASCLEPIO, SI TRIBUTAVA A ROMA UN CULTO MOLTO SENTITO. E LA SUA ICONOGRAFIA FU CODIFICATA IN FORME DESTINATE A UN SUCCESSO ECCEZIONALMENTE DURATURO

T

ra i temi piú affascinanti negli studi di iconografia monetale, rientra senz’altro la ricerca dei modelli artistici a cui gli artisti dei conii si ispirarono, sia di grande formato – statuari, pittorici o musivi –, sia di misure minori, come decorazioni vascolari e glittica. Per lo studioso moderno, tale indagine comprende anche l’approccio ideologico, religioso, culturale che, nel tempo, ha prodotto determinate creazioni artistiche, immagini destinate a perdurare nel corso non solo dei secoli, ma dei millenni, sino a influenzare l’arte moderna e contemporanea. Asclepio e Igea, padre e figlia divini preposti alla tutela della salute, conoscono un culto eccezionale, rappresentato a Roma da quello della Salus. La sua personificazione, sotto la cui sacra influenza era posta la res publica con il popolo romano, ebbe inizialmente un carattere «urbico» e, nel contempo, venne strettamente unita alla Valetudo, chiamata invece a vegliare sulla buona salute del singolo individuo. Le due personificazioni tendono progressivamente a fondersi, allineandosi nell’iconografia alla figura salutifera di Igea, pur con alcune piccole differenziazioni. Il monetiere Manlio Acilio Glabrius, legato probabilmente a Cesare, emise nel 49 a.C. un gran numero di denari contraddistinti

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del primo medico pubblico esercitata a Roma presso il Compitum Acilii, un’ara sita sulla Velia e dedicata il 5 a.C. ai Lari di Augusto dalla famiglia degli Acilii. Plinio ricorda infatti che presso questo sacello vi era l’ambulatorio acquisito a spese dello Stato, nel quale operava il medico peloponnesiaco Arcagato, giunto a Roma nel 219 con il suo innovativo bagaglio terapeutico di stampo greco (Naturalis Historia, XXIX, 12-13). La Valetudo sul rovescio del denario di Manlio Acilio è una fanciulla abbigliata con una lunga tunica e mantello, appoggiata con il braccio sinistro a una esile colonnina; sul braccio destro è attorto un lungo serpente, simbolo di Asclepio e suo tramite di risanamento, che le si rivolge guardandola negli occhi, in un muto e divino colloquio.

UN VIRTUOSO DELL’INTAGLIO Denario di Mn. Acilius Glabrio, Roma, 49 a.C. Al dritto, testa laureata di Salus e, dietro, SALVTIS; al rovescio, Valetudo si appoggia a una colonnina e tiene un serpente, con leggenda MN ACILIVS III VIR. dalla testa di Salus al dritto e Valetudo al rovescio. La scelta di queste divinità è accostata alla tradizione che riferiva dell’attività

Nel mondo greco-romano Igea è rappresentata con frequenza, dalle statue alle monete e alle gemme, e l’immagine perdura anche in età tardo-antica. Nello splendido dittico del Museo di Liverpool (già nella cinquecentesca collezione fiorentina Gaddi), probabilmente realizzato a Roma alla fine del IV secolo da un eccezionale e raffinato artista dell’intaglio eburneo, sono raffigurati su ognuna delle due tavolette


Esculapio e Igea. Rimangono tracce di doratura e altri pigmenti, che testimoniano l’originaria policromia del manufatto, certamente commissionato da un colto esponente dell’élite pagana tardo-antica, fortemente legato a canoni estetici di tradizione classica, ricchi di raffinati riferimenti al mito e ai suoi aspetti piú evocativi e sincretistici. Qui Igea indossa un ricco e panneggiato abito a maniche lunghe, sandali e una tiara le trattiene la pettinatura con chignon. Si appoggia con il gomito sinistro su un elaborato tripode, riferimento al mondo apollineo (Apollo è suo nonno), intorno al quale si avviluppa il serpente che le passa alle spalle raggiungendo la sua mano destra, dalla quale delicatamente si ciba dell’uovo offertogli dalla dea. La scena è incorniciata da due slanciate colonnine decorate sui capitelli (patera e brocca, amorino che apre una cista mistica con serpente) e unite da festoni. Ai piedi di Igea si trova un piccolo Eros con arco.

LA VERSIONE DI KLIMT Come ha notato Gemma Sena Chiesa, la figurazione dello stretto rapporto tra Igea e il serpente

In alto: dittico in avorio sulle cui valve sono ritratti Esculapio con il piccolo Telesforo e Igea con il serpente. 400-430 d.C. Liverpool, World Museum.

In basso, a sinistra: riproduzione fotografica a colori della perduta Igea dipinta da Gustav Klimt per l’Aula Magna dell’Università di Vienna.

richiama alla mente una delle perdute opere di Gustav Klimt, tra i massimi esponenti della corrente artistica nota come Wiener Secession (Secessione di Vienna). Si tratta del pannello destinato a illustrare l’idea di Medicina (1901), nell’Aula Magna dell’Università di Vienna, insieme ad altri della serie Quadri della facoltà, andati tutti perduti in seguito a furiose polemiche sul carattere piú o meno osceno delle raffigurazioni e poi nel corso delle vicende belliche. Ne restano gli schizzi e una foto a colori. Nell’immagine simbolica della Medicina il fulcro era costituito da una conturbante anche se

ieratica Igea, dalla nera capigliatura e rivestita di un rosso chitone cosparso di girali dorati, forse piú simile a una Circe maliarda che a una dea salutifera; essa è intenta a nutrire il sacro serpente, rettile apportatore di salvezza e preziosamente rilucente d’oro, che si abbevera noncurante dalla coppa d’oro che la dea gli porge.

PER SAPERNE DI PIÚ Gemma Sena Chiesa, Gortina e Milano. Milano a Gortina, in LANX, 8, 2011; pp. 55‐71 Lorenzo Fabbri, Hygieia minore, in LANX, 10, 2011; pp. 47-84

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Angelo Meriani, Gabriel Zuchtriegel (a cura di)

LA TOMBA DEL TUFFATORE Rito, arte e poesia a Paestum e nel Mediterraneo d’epoca tardo-arcaica Argonautica, Collana di studi del Parco Archeologico di Paestum e Velia, Edizioni ETS, Pisa, 530 pp., ill. col. 44,00 euro ISBN 978-884675912-2 www.edizioniets.com

ulteriormente. Di particolare interesse risulta l’approccio scelto dagli studiosi intervenuti all’incontro pestano, che hanno scelto di leggere l’eccezionale monumento funerario con chiavi originali e variegate, affiancando alle disamine di natura archeologica e stilistica, osservazioni sui possibili significati e valori simbolici della scena o, per esempio, indagini sulla sua valenza sociologica e antropologica. Ilaria Bianchi e Giulio Paolucci (a cura di)

COLLEZIONISTI, ACCADEMIE, MUSEI: STORIE DEL MONDO ETRUSCO DAL XVI AL XIX SECOLO Edizioni Fondazione Luigi Rovati, Milano, 344 pp., ill. b/n 30,00 euro ISBN 978-88-313-3800-4 www. fondazioneluigirovati.org www.johanandlevi.com

L’inchiostro continua a scorrere sulla Tomba del Tuffatore: ne è prova questo corposo volume, grazie al quale vengono pubblicati i contributi presentati in occasione del convegno omonimo, svoltosi nel 2018 nella «casa» del sepolcro, il Museo Archeologico Nazionale di Paestum. La vivida raffigurazione del tuffo piú celebre dell’antichità è divenuta oggetto di analisi e interpretazioni fin dal giorno della sua scoperta, avvenuta nel 1968, che qui si arricchiscono 112 a r c h e o

Il volume, di taglio specialistico, dà conto di due convegni promossi dalla Normale di Pisa e svoltisi fra il 2014 e il 2016 e inaugura la collana Atti della Fondazione Luigi Rovati. I contributi, a firma di studiosi italiani e stranieri, offrono testimonianze variegate e di notevole interesse, soprattutto per quanti abbiano desiderio di approfondire la conoscenza di un momento cruciale nella storia degli studi, quello del passaggio

dall’antiquaria all’archeologia vera e propria. La civiltà etrusca fu, in questo quadro, una calamita potente, anche perché, nel clima di caccia al tesoro che a lungo dominò la passione per l’antico, i lauti guadagni assicurati dallo scavo delle tombe – si pensi, solo per fare l’esempio forse piú eclatante, alle necropoli di Vulci – furono uno stimolo eccezionalmente potente ed efficace. Tuttavia, seppur lentamente, prese piede una nuova consapevolezza ed è proprio questa nuova sensibilità uno dei fili conduttori dei diversi interventi. Di cui si può eleggere a paradigma la vicenda del museo creato a Roma nel Seicento da padre Athanasius Kircher e divenuto, all’indomani dell’Unità d’Italia, Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico (poi intitolato al suo fondatore, Luigi Pigorini), che oggi costituisce una delle collezioni del Museo delle Civiltà.

Giuseppe Nocca

PALMULA I datteri nell’antichità. Indagine antropologica e archeologica Arbor Sapientiae Editore, Roma, 87 pp., ill. b/n e col. 35,00 euro ISBN 978-88-31341-36-3 www.arborsapientiae.com

L’indagine di Giuseppe Nocca sulla storia degli alimenti si arricchisce di un nuovo capitolo, dedicato al dattero, un prodotto oggi per lo piú marginale, ma che ebbe invece notevole diffusione presso le grandi civiltà mediterranee, prima fra tutte Roma. La trattazione spazia dalle proprietà nutritive del frutto all’analisi delle rotte commerciali e comprende la proposta di identificare una particolare tipologia di anfore come contenitori studiati appositamente per il trasporto dei datteri. Paolo Dalmiglio, Elisabetta De Minicis, Vincenzo Desiderio, Giancarlo Pastura

ARCHEOLOGIA DEL RUPESTRE NEL MEDIOEVO Metodi di analisi e strumenti interpretativi


Edipuglia, Bari, 200 pp., ill. b/n 38,00 euro ISBN 978-88-7228-945-7 www.edipuglia.it

Come si legge nell’Introduzione, gli autori del volume hanno inteso rivolgersi in primo luogo agli studenti di archeologia medievale e agli appassionati studiosi, ma tale scelta non è certo escludente e l’opera, anche in virtú del linguaggio adottato, potrà senz’altro essere apprezzata anche da quanti non rientrino nelle suddette categorie. Soprattutto perché il fenomeno dell’archeologia del rupestre, che si fa tangibile attraverso le realizzazioni di quella che viene convenzionalmente definita «architettura in negativo», posside un fascino innegabile, frutto della natura stessa delle sue tesimonianze: abitazioni in grotta, ricoveri per animali, cunicoli, apprestamenti difensivi e mille altre declinazioni ancora… che, soprattutto nei

casi, prevalenti, in cui siano oggi in stato di abbandono offrono paesaggi suggestivi e sorprendenti. In linea con il taglio manualistico, la trattazione si articola in capitoli in cui vengono esaminati tutti gli aspetti concettuali e metodologici legati allo studio dell’archeologia del rupestre: dai sistemi di analisi delle diverse opere ai metodi di documentazione, dai criteri utili all’inquadramento cronologico delle strutture a quelli che possono permetterne la classificazione. Il tutto corredato da una bilbiografia corposa, utile ad approfondire ulteriormente i numerosi temi trattati.

sia dal punto di vista storico-artistico, sia in quanto testimonianze della diffusione del cristianesimo. Nel volume vengono dunque passati in rassegna tutti i nuclei piú importanti, senza naturalmente tralasciare la tomba di Pietro e affiancando alle osservazioni di carattere archeologico e interpretativo anche notazioni sul restauro e la conservazione.

Paolo Liverani, Giandomenico Spinola

LE NECROPOLI VATICANE

Stefano Brambilla

La città dei morti di Roma con un contributo di Pietro Zander, Jaca Book, Milano, 350 pp., ill. col. 50,00 euro ISBN 978-88-16-60632-6 www.jacabook.it

GIORDANIA

A poco piú di dieci anni dalla prima edizione, torna in libreria Le necropoli vaticane, opera, riccamente illustrata, che descrive un complesso archeologico di primaria importanza. Nel sottosuolo dell’odierna Città del Vaticano si conserva infatti un ricco corpus di monumenti funerari, che costituiscono documenti preziosi

La magia di Petra e il Wadi Rum. Amman, Madaba e il Mar Morto. Paesaggi, archeologia, fortezze Guide Verdi d’Europa e del Mondo, Touring Editore, 190 pp., ill. col. 23,00 euro ISBN 978-88-365-7608-1 www.touringclubstore.com

Due sono i motivi che giustificano la scelta di segnalare qui questa guida, appartenente alla gloriosa tradizione delle «Verdi» del TCI: il primo è dato dal suo essere la versione aggiornata di un titolo da tempo

presente nella collana e il secondo dal voler lanciare un segnale di speranza nella possibilità di tornare presto a un’esistenza priva delle restrizioni che stiamo sperimentando da oltre un anno a questa parte e della quale i viaggi siano una componente abituale. Nonostante la limitata estensione delle zone abitabili di quella che è oggi la moderna Giordania, le tracce della presenza umana sono fitte e abbracciano un arco cronologico vastissimo, che dalla preistoria dei grandi tell spazia fino ai castelli sorti al tempo dei crociati. Nel mezzo, per cosí dire, c’è comunque molto altro: basti solo pensare a Petra o a Gerasa/Jerash, solo per fare due degli esempi piú rinomati. Un Paese da scoprire (o nel quale tornare), che alle sue bellezze aggiunge la cordiale ospitalità della sua gente. (a cura di Stefano Mammini) a r c h e o 113


presenta

GUELFI E GHIBELLINI

Una rivalità che ha fatto storia

Perché si dice «guelfo» e «ghibellino»? E perché quel binomio continua a essere d’uso comune anche a distanza di molti secoli da quando fece la sua prima comparsa? Da questi interrogativi prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che rilegge ed esamina uno dei fenomeni che piú hanno segnato la vita politica dell’età di Mezzo, in Italia innanzitutto, ma non solo. Una contrapposizione ideologica che non si limitò allo scontro dialettico, ma prese le forme di un vero e proprio conflitto, scandito da alcuni dei fatti di sangue piú cruenti della storia medievale. Un esito, quest’ultimo, che non deve sorprendere, poiché quella che, all’inizio, poteva sembrare una rivalità fra le famiglie piú in vista di alcune fra le maggiori città italiane – Firenze su tutte – assunse ben presto i contorni di un’autentica guerra fra i poteri forti del tempo: l’impero e la Chiesa. Non a caso, quindi, la lotta tra la fazione guelfa e quella ghibellina ha visto coinvolti tutti i personaggi di maggior spicco dell’epoca, compreso, fra gli altri, Dante Alighieri, che in piú d’una delle sue terzine evocò i fatti dei quali era stato testimone, nonché vittima. Un racconto avvincente, insomma, che degli eventi salienti offre chiavi di lettura inedite e affascinanti.

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