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CAVERNA DELLE ARENE CANDIDE
IN
REALTÀ VIRTUALE
LA GRANDE AVVENTURA DELLE ARENE CANDIDE
LIGURIA
SANTUARIO DI HERA LACINIA
LUOGHI DEL SACRO
IL SANTUARIO DI HERA LACINIA
SCAVARE IL MEDIOEVO
QUANDO I SARACENI ATTACCARONO ROMA
SPECIALE SABINA
SPECIALE
LA SABINA
UNA TERRA DA SCOPRIRE
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www.archeo.it
IN EDICOLA IL 9 GIUGNO 2021
2021
Mens. Anno XXXV n. 436 giugno 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 436 GIUGNO
28 MILA ANNI FA
€ 5,90
EDITORIALE
TUTTA COLPA DELL’OCCIDENTE Che fine ha fatto Cecil Rhodes? Nell’editoriale del luglio 2020 (vedi «Archeo» n. 425; anche on line su issuu.com) riferimmo della polemica sorta intorno alla richiesta di rimuovere la statua dell’uomo politico ed emblema dell’imperialismo coloniale britannico dalla facciata dell’Oriel College di Oxford, istituzione di cui Rhodes (1853-1902) è stato uno dei principali finanziatori. La vicenda sembrava essere arrivata a una svolta: l’amministrazione del venerando ateneo aveva espresso il desiderio di rimuovere statua e targa dedicata, dichiarando di voler partecipare attivamente al pubblico dibattito sul rapporto fra «indagine storica, memoria pubblica, giustizia sociale e diritto all’istruzione». A questo fine, aveva dato mandato a una commissione indipendente di definire le nuove linee guida e le modalità con cui trattare e presentare, in futuro, la figura di Rhodes. Recentemente, però, dopo che la maggioranza della commissione aveva dichiarato di allinearsi al volere della direzione, questa ha cambiato di nuovo idea: lo spostamento della statua, oltre a comportare oneri e rischi finanziari (tra cui quello del ritiro, già in precedenza minacciato, di cospicui lasciti testamentari) non garantirebbe risultati certi nella lunga durata... Nella vicenda nata intorno alla statua di Rhodes traspare una buona dose di ipocrisia e, soprattutto, una perdurante incertezza su come affrontare l’innegabile urgenza di «rinarrare» la pesante eredità storica dell’età coloniale. Incertezza che, di contro, non sembra scalfire affatto un’altra, recente ondata revisionistica, questa volta proveniente dal lontano (?) Oriente: lo storico Huang Heqing, professore di arte e archeologia all’Università di Zhejiang (tra le piú antiche e prestigiose della Cina) – secondo quanto riferito sulla pagina web di un quotidiano in lingua inglese di Taiwan (taiwanenglishnews.com) – sostiene che la storia, non solo dell’età coloniale, ma della stessa, presunta, superiorità culturale dell’Occidente sia tutta da riscrivere. Per Huang Heqing e una ristretta, ma agguerrita, cerchia di studiosi intorno a lui, l’intera civiltà occidentale non si fonderebbe altro che sull’inganno, la falsificazione e il plagio. Sarebbero stati scienziati occidentali a inventare le antiche culture della Mesopotamia, dell’Egitto e dell’India, al solo scopo «di sminuire la gloria della civiltà cinese». L’Occidente avrebbe creato veri e propri falsi storici – tra cui le piramidi di Giza e la Sfinge, il Partenone e gli altri templi greci – per distogliere l’attenzione del mondo dalla verità dei fatti. In un volume pubblicato nel 2017 (con prefazione di Huang Heqing) e intitolato La storia fittizia della civiltà occidentale: ricerche sull’antico e moderno Occidente che copia la Cina, l’autore, Zhu Xuanshi, sostiene che «la primitiva Europa fu elevata alla civiltà del mondo dalla Cina, dalla quale imparò la scrittura, la navigazione, la tecnologia, l’economia, la burocrazia, la democrazia, la filosofia e la storia». Che dire di tanta assurdità in nome della storia? Forse dovremmo rimpiangere quell’epoca – ormai davvero tramontata – in cui a costruire le piramidi non eravamo noi Occidentali, ma... gli extraterrestri. Andreas M. Steiner Giza. Uno scorcio delle imponenti piramidi di Cheope (IV dinastia, 2609-2580 a.C.), sulla sinistra, e di Chefren (IV dinastia, 2570-2545 a.C.), sulla destra.
SOMMARIO EDITORIALE
Tutta colpa dell’Occidente 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
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VALORIZZAZIONE Il Colosseo riavrà la sua arena: scelto il progetto per l’intervento che riporterà i visitatori al centro dell’anfiteatro 6 di Alfonsina Russo
A TUTTO CAMPO Il Progetto Aquae Calidae ricostruisce la storia dei siti termali di epoca classica e medievale nel territorio di Civitella Paganico, nel Grossetano 24
PREISTORIA
Il ragazzo delle Arene Candide
36
di Andrea De Pascale, con contributi di Daniele Arobba
amministrazione@timelinepublishing.it
La signora del promontorio 66
In copertina una scena del cortometraggio Il Giovane Principe, che ricostruisce la vicenda del cacciatore paleolitico la cui sepoltura fu scoperta nella Caverna delle Arene Candide, in Liguria
Federico Curti 28 MILA ANNI FA IN
Comitato Scientifico Internazionale
LIGURIA
LA GRANDE AVVENTURA DELLE ARENE CANDIDE
Mens. Anno XXXV n. 436 giugno 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE SABINA
Amministrazione
SANTUARIO DI HERA LACINIA
Impaginazione Davide Tesei
REALTÀ VIRTUALE
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
LUOGHI DEL SACRO/6
Presidente
CAVERNA DELLE ARENE CANDIDE
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
€ 5,90
www.archeo.it
it
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2021
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
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66 IN EDICOLA IL 9 GIUGNO 2021
AR S CH AB EO IN LO A GIC he A o.
36 ARCHEO 436 GIUGNO
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
incontro con Alessandro Furlan, a cura di Lorella Cecilia
a cura di Giovanna De Sensi Sestito, con testi di Gregorio Aversa, Giovanna De Sensi Sestito, Maria Letizia Lazzarini e Roberto Spadea
di Alessandro Mandolesi
Anno XXXVII, n. 436 - giugno 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
«Vedere» il passato 60
di Roberto Farinelli e Andrea Marcocci
ALL’OMBRA DEL VULCANO Il tessuto produttivo di Pompei era fitto e vivace. Eppure molte professioni non erano viste di buon occhio... 10
MUSEI La Scatola archeologica della Domus Aventino, a Roma, è ora visitabile e propone un affascinante viaggio nel tempo 12
L’INTERVISTA
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Paul J. Riis
LUOGHI DEL SACRO
IL SANTUARIO DI HERA LACINIA SCAVARE IL MEDIOEVO
QUANDO I SARACENI ATTACCARONO ROMA
SPECIALE
LA SABINA
UNA TERRA DA SCOPRIRE
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25/05/21 15:11
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Luisa Agneni è direttrice del Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina. Martina Almonte è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Ines Arletti è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Daniele Arobba è direttore del Museo Archeologico del Finale. Gregorio Aversa è direttore del Museo e del Parco archeologico nazionale di Capo Colonna e del Museo archeologico nazionale di Crotone. Alessandro Betori è funzionario archeologo della Soprintendenza AABAP dell’Area Metropolitana di Roma e della Provincia di Rieti. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Colosi è ricercatore CNR, Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale. Francesco Colotta è giornalista. Alessandra Costantini è archeologa. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale. Giovanna De Sensi Sestito è stata professore ordinario di storia greca all’Università della Calabria. Roberto Farinelli è ricercatore e professore aggregato di archeologia cristiana e medievale all’Università di Siena. Eleonora Gasparini è assegnista di ricerca in archeologia classica all’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli. Maria Letizia Lazzarini è stata professore ordinario di epigrafia greca
Rubriche SCAVARE IL MEDIOEVO Quella città oltre la città
108
di Andrea Augenti
108 L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Un truffatore di grande successo 112 di Francesca Ceci
84 SPECIALE Sabina
Una terra da scoprire
112 LIBRI
114
84
testi di Alessandro Betori, Francesca Colosi, Alessandra Costantini e Carla Sfameni, con contributi di Luisa Agneni, Eleonora Gasparini e Francesca Licordari
all’Università «Sapienza» di Roma. Francesca Licordari è funzionario archeologo della Soprintendenza AABAP dell’Area Metropolitana di Roma e della Provincia di Rieti. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Andrea Marcocci è presidente dell’Associazione Archeologica Odysseus. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Luna S. Michelangeli è archeologa. Federica Rinaldi è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Barbara Roggio è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Paola Francesca Rossi è funzionario antropologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Alfonsina Russo è direttore del Parco archeologico del Colosseo. Carla Sfameni è ricercatore CNR, Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale. Roberto Spadea è stato direttore del Museo e del Parco archeologico di Capo Colonna e del Museo archeologico di Crotone.
Illustrazioni e immagini: Foto AGBVideo per Museo Archeologico del Finale: copertina e pp. 36-37, 38 (alto), 38/39, 43 (basso), 44-45, 47 (basso), 48 (alto, a sinistra), 48 (basso), 49, 52 (alto), 52/53 – Ufficio Stampa MiC: pp. 6; ANSA/Raccolte Museali Fratelli Alinari, Firenze: p. 7 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 8-9 – Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Soprintendenza Speciale di Roma: pp. 12-13 – Parco archeologico di Ostia antica: pp. 14-15 – Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia: pp. 16-17 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 22-23 – Cortesia Giorgio Sonzogni e Andrea Marcocci: pp. 24, 26 – Reparto Operativo Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale: pp. 28 (a sinistra, centro e basso), 29, 30 – Parco archeologico di Pompei: Luigi Spina: p. 28 (destra, in basso) – Istituto Internazionale di Studi Liguri: Archivio Sezione Finalese: p. 38 (basso) – Archivio Castello D’Albertis, Genova: pp. 40 (basso), 47 (alto) – Archivio Soprintendenza ABAP, Genova: pp. 41, 42/43, 48 (alto, a destra) – Archivio Museo Archeologico del Finale: pp. 42 (alto), 43 (alto), 46, 50, 56/57 – Studio Inklink, Firenze per Museo Archeologico del Finale: pp. 50/51 – FLOW Festival Outdoor per Museo Archeologico del Finale: pp. 54-55 – Cortesia Altair4 Multimedia: pp. 60-65 – Cortesia degli autori: pp. 66/67, 69 (alto; foto Critelli), 70-71, 74, 74/75, 78-81, 113 – Doc. red.: pp. 68 (basso), 69 (basso), 94 (alto), 104, 112 – Gregorio Aversa: pp. 72, 82 – Paolo Nereo Morelli: ricostruzione grafica a p. 73 (basso) – da: Atti XXIII Convegno di studi sulla Magna Grecia, 1983: p. 75 – da: Il santuario di Hera al Capo Lacinio, l’analisi della forma, il restauro e la ricerca archeologica, 2009: p. 76 – Shutterstock: pp. 77, 86/87 (alto e basso) – R. Lucignani: pp. 84/85, 98 (basso), 101 (alto) – Museum of Fine Arts, Boston: p. 88 (alto) – Museo Archeologico di Fara in Sabina: pp. 88 (basso), 89, 102 (centro e basso) – Soprintendenza ABAP area metropolitana di Roma e provincia di Rieti: pp. 90 (alto e centro), 92-93, 94/95; Q. Berti: pp. 90 (basso), 91, 103 – Saint Mary’s University, Halifax, Canada: M. McCallum e G. Baker: pp. 96, 96/97 – British School at Rome: p. 97 – Museo Civico di Rieti: CNRISPC: p. 98 (alto) – A. D’Eredità: pp. 98 (centro), 99 (alto) – CNR-ISPC: p. 99 (centro e
basso), 102 (alto) – Rutgers University, Newark, USA: pp. 100, 101 (basso) – Fabiana Benetti: tavole alle pp. 108, 109 (centro), 110/111 – Fondazione Cavalieri di Colombo: pp. 108/109 – Manlio Falcioni: p. 109 (alto)– Lucrezia Spera: p. 111 – Cippigraphix: cartine alle pp. 40, 68, 86. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disp osizione per regolare eventuali spettanze.
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n otiz iari o VALORIZZAZIONE Roma
IL COLOSSEO VERSO IL FUTURO
L’
idea progettuale per la realizzazione dell’arena del Colosseo è stata aggiudicata (vedi box alla pagina accanto). Si tratta di un progetto di grande importanza per la tutela e la valorizzazione del monumento, che consentirà, in primo luogo, di riannodare il filo del tempo, restituendo al pubblico la stessa visione che si aveva, in antico, del suo palcoscenico. In origine, l’arena del Colosseo era costituita da un tavolato ligneo cosparso di sabbia. Un primo progetto, che risale agli anni
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dell’inaugurazione di Tito nell’80 d.C., prevedeva che il tavolato poggiasse su strutture in legno, cosí da permetterne celermente lo smontaggio. Con Domiziano (8196 d.C.), i sotterranei vennero costruiti in muratura con una serie di corridoi e un passaggio centrale corrispondente all’asse maggiore dell’ovale (est-ovest) e sulle strutture murarie poggiava sempre il tavolato ligneo dell’arena. Da quel momento in poi si realizzò un complesso sistema sotterraneo altamente tecnologico dal quale – grazie a
botole, montacarichi, piattaforme mobili e macchinari – uomini, scenografie e belve venivano fatti salire sul piano dell’arena. Dopo l’abbandono dell’anfiteatro, con l’interro dei sotterranei, si creò una «piazza» esistita fino al 1800 e frequentata dai tanti viaggiatori del Grand Tour. Dal 1874-75 ebbero inizio i grandi scavi nel settore orientale dell’arena; infine, negli anni 1938-40, fu completato lo sterro di tutti gli ipogei. Nel 1996, la Soprintendenza Archeologica di Roma – nell’ambito delle misure di valorizzazione
previste nel quadro dei lavori per il Giubileo del 2000 – avviò, con l’Istituto Archeologico Germanico, una serie di ricerche legate agli aspetti strutturali e architettonici del monumento. Da tali studi derivò, tra il 1998 e il 2000, la ricostruzione parziale del piano dell’arena per complessivi 650 mq, che si collega con l’ingresso orientale (la cosiddetta Porta Libitinaria). A vent’anni da quell’esperienza, che ancora oggi è sotto i nostri occhi, la volontà di ristabilire la lettura integrale del monumento, senza prescindere dall’apparato scenico sottostante, nonché le esigenze di tutela e conservazione dell’anfiteatro, hanno portato al risultato del progetto per il nuovo piano dell’arena. L’intervento previsto risponde appieno
Nella pagina accanto: rendering della ricostruzione dell’arena del Colosseo secondo il progetto approvato.
In alto: la «piazza» creatasi all’interno del Colosseo in una foto Alinari scattata intorno al 1870.
alle linee di indirizzo proposte dal Parco del Colosseo: tutela e conservazione con impiego di scelte strutturali e costruttive altamente tecnologiche e finalizzate all’ecosostenibilità a lungo termine. La struttura è leggera e richiama, sia nella forma che nel funzionamento, il piano originario dell’arena lignea esistente all’epoca degli imperatori Flavi. Il piano di calpestio, che proteggerà le strutture
archeologiche sottostanti dagli agenti atmosferici, sarà realizzato con pannelli leggeri e resistenti, ruotabili e traslabili. Nelle diverse configurazioni, realizzate mediante l’apertura e la movimentazione dei pannelli, il nuovo piano svelerà gradualmente le strutture ipogee ai visitatori, illustrandone l’articolazione e il ritmo e favorendo la percezione dell’articolata natura funzionale e la interattività con ciò che avveniva al di sopra. L’ ecosostenibilità è assicurata sia dal tipo di materiali utilizzati (acciaio, fibra di carbonio e «termanto», legno di Accoya), sia dal sistema di riciclo dell’acqua piovana che sarà utilizzata per l’alimentazione idrica del Colosseo, aspetto assolutamente importante per un monumento che fino al 2019 accoglieva oltre 25 000 persone al giorno. Grazie a questo progetto l’estensione totale del piano dell’arena raggiungerà i 3000 mq di superficie, ovvero 4 volte e mezzo quella attuale. Un sogno che, restituendo al monumento la sua funzione originaria di luogo vitale e partecipato, finalmente diventa realtà: camminare sull’arena fino al centro, guardando il Colosseo da un altro punto di vista. Alfonsina Russo
IL PROGETTO VINCITORE
Una équipe multidisciplinare
Negli ultimi vent’anni gli studi e le ricerche archeologiche non si sono mai fermati, cosí come le indagini sul microclima dei sotterranei, sulla risposta sismica, sulla stabilità e potenza delle fondazioni, oltre che sulla consistenza strutturale dei setti murari degli ipogei. Questa imprescindibile mole di informazioni è stata organizzata e sistematizzata nel Documento di indirizzo alla Progettazione realizzato da una squadra tutta interna al Parco del Colosseo coordinata dall’architetto Cristina Collettini (Responsabile Unico del Procedimento) con i progettisti, dottoressa Federica Rinaldi, architetto Barbara Nazzaro, dottoressa Angelica Pujia, e l’apporto esterno, per gli aspetti strutturali, dell’ingegner Stefano Podestà, professore di tecnica delle costruzioni presso l’Università degli Studi di Genova. A seguito del bando, pubblicato il 22 dicembre scorso dalla Centrale di Committenza Invitalia e scaduto il 1° febbraio 2021, sono state presentate 11 proposte, tra cui è stata selezionata da una Commissione giudicatrice di alto profilo (composta dai professori Michel Gras, Alessandro Viscogliosi, Giuseppe Scarpelli e Stefano Pampanin, e presieduta dall’ingegner Salvatore Acampora) l’idea progettuale del Raggruppamento Temporaneo di Progettazione costituito da Milan Ingegneria SpA (mandatario) e LABICS srl, architetto Fabio Fumagalli, CROMA, CONSILIUM-Studio di Ingegneria (mandanti), consulente per gli aspetti archeologici il professor Heinz Beste.
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
TRE CARTE PER UNA LUNGA AMICIZIA COME PARTECIPARE ATTIVAMENTE ALLA FRUIZIONE (MA ANCHE ALLA CURA) DI UN TERRITORIO MONUMENTALE COME QUELLO CHE CIRCONDA IL COLOSSEO? ECCO UNA PROPOSTA «INCLUSIVA» E ALLA PORTATA DI TUTTI...
I
l Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio definisce il «parco archeologico» come un ambito territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come museo all’aperto; la definizione è pregna di significato: la mente corre subito all’idea di un’area verde intrisa di storia, dove ci si possa ricreare, nello spirito, ma anche nel corpo. Ecco perché la fruizione di questi speciali luoghi della cultura dovrebbe essere a 360°, non un tour turistico che lasci impressi brevi sebbene emozionanti ricordi, ma un’esperienza prolungata, magari ripetuta, che stimoli il nostro intelletto con nuovi contenuti, che ci emozioni, ma che «ci faccia stare bene» anche in senso piú generale. Per questo, sin dalla sua istituzione, il Parco archeologico del Colosseo ha cercato di rinnovare le modalità di fruizione da parte dei visitatori e ha al contempo incoraggiato una cultura di inclusione sociale, come d’altra parte dimostrano le numerose attività dedicate, raccolte nel progetto «Salus per artem» (vedi «Archeo» n. 418, dicembre
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2019; anche on line su issuu.com): l’enorme patrimonio monumentale e artistico, oltre a quello fortemente simbolico che questo luogo racchiude, si pone come ponte e stimolo alla partecipazione dei cittadini e delle imprese.
UN BENE COMUNE Il valore democratico della cultura si basa soprattutto sulla condivisione e per questo il PArCo ha investito grandi energie nella realizzazione del progetto «Membership Card», che vuole essere in primis uno stimolo alla
partecipazione attiva di chi crede nei nostri valori: la Membership Card è da noi intesa come uno strumento di compartecipazione alla cura di un territorio che appartiene a tutti i cittadini, di Roma e del mondo. I valori fondanti che il PArCo vuole condividere non sono esclusivamente storici e culturali, ma piú ampiamente civici ed etici: si basano sulla priorità dell’interesse pubblico, sulla In basso: una suggestiva veduta dei resti dei palazzi imperiali sul colle del Palatino.
responsabilità verso la collettività, su trasparenza, onestà, equità, uguaglianza e imparzialità, partecipazione inclusiva, efficienza ed efficacia, sia nei rapporti interni che in quelli esterni. Siamo custodi di un Patrimonio UNESCO che tuteliamo e valorizziamo: l’indirizzo etico è dettato dalla consapevolezza di avere un onere vitale nei confronti del mondo intero e delle generazioni future, l’onere di conservare la storia. Il patrimonio culturale che preserviamo è un elemento portante e irrinunciabile della società e dell’identità civile. Chi aderirà al Programma Membership, oltre a usufruire dei benefit tradizionali (accesso illimitato per un anno, ingresso gratuito e prioritario a mostre ed eventi; invito alle inaugurazioni e a visite esclusive; eventi riservati e accesso preferenziale agli incontri, concerti e altre attività; agevolazioni nei luoghi della cultura convenzionati) potrà partecipare e sostenere questi valori, entrando in una community che promuova e costruisca una linea aperta e partecipativa, che è il senso piú profondo della Membership del In alto: le tre versioni della Memebership Card: Young, Individual e Family&Friends.
PArCo, in linea con le maggiori istituzioni italiane e internazionali. La Membership Card del PArCo sarà per ora declinata in tre tipologie, rivolte a un pubblico piú ampio, eterogeneo, con interessi, riferimenti culturali e stili di vita diversi: la Card Young per i giovani fino a 30 anni che avrà il costo di 25 euro, la Individual per un adulto con età superiore ai 30 anni, al costo di 50 euro, e infine la Family&Friends, per due adulti e sino a tre minori di 18 anni, al costo di 80 euro, dedicata a quanti vogliano vivere l’esperienza con i propri amici o persone care. Al piú presto sarà infine attivata la Corporate Membership Card, destinata alle aziende.
UNA CARD SU MISURA Per ogni Card sono state anche pensate iniziative specifiche per ciascun target, quali, oltre all’ingresso nel corso dell’orario di apertura ordinaria, l’ingresso al PArCo per iniziare la giornata ricreandosi all’aperto con una passeggiata o uno jogging leggero lungo il percorso delle Pendici meridionali del Palatino. L’offerta culturale verrà inoltre arricchita dai numerosi progetti che il PArCo ha intenzione di proporre, anche in collaborazione con Electa, e che andranno dalla ripresa dei cicli di conferenze nella Curia alla proposta di nuove iniziative, come le Lezioni di Verde e Paesaggio al Palatino o le degustazioni di miele e olio nell’ambito del piú ampio Progetto Green (vedi «Archeo» n. 435, maggio 2021; anche on line su issuu.com). Infine, ma ancor piú importante, il PArCo ha stretto accordi di reciprocità con diversi musei, romani e non, per permettere di usufruire di ingressi ridotti e costruire cosí una rete di rapporti duraturi.
L’esperienza di visita ripetuta non è reiterazione, ma permette ogni volta una emozione diversa: perché vediamo qualcosa di nuovo che prima era sfuggito, perché lo condividiamo con qualcuno, perché abbiamo deciso di prenderci i nostri tempi per godere del bello, per assaporare la stessa aria che si respirava nei palazzi imperiali o negli Horti Farnesiani. Diventare Member significa partecipare e sostenere il PArCo, nell’ottica di una politica di inclusione e sinergia con la comunità. Sviluppando le attività sociali e comunitarie, si attiva conoscenza e quindi senso di appartenenza alla comunità e partecipazione, che è il senso profondo che questo PArCo dà alla Membership Card. Dopo i lunghi mesi vissuti nelle nostre case, torniamo a vivere all’esterno, guardando le nostre città e i nostri parchi con occhi nuovi e assetati di esperienze. Per saperne di piú, vi invitiamo a visitare la pagina web dedicata al nuovo progetto: https:// parcocolosseo.it/membership Martina Almonte, Ines Arletti, Federica Rinaldi
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
QUANDO IL LAVORO (NON) NOBILITA L’UOMO… PERCHÉ A POMPEI – MA ANCHE IN ALTRE CITTÀ ROMANE – ALCUNE TRA LE PROFESSIONI DI INDUBBIA RILEVANZA ECONOMICA ERANO CONSIDERATE «INDECOROSE»? E COME MAI QUELLA DELL’ARTIGIANO POMPEIANO ERA UNA FIGURA POCO STIMATA, COSTRETTA A VIVERE NELL’ANONIMATO?
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no degli aspetti interessanti da esplorare nella civiltà romana è il concetto del lavoro umano, molto diverso da quello moderno. Nelle città economicamente fiorenti, come Pompei, i cittadini che godevano dei diritti civili e politici, riconosciuti in parte anche ai liberti (schiavi affrancati), erano liberamente impegnati in una moltitudine di attività professionali, regolate giuridicamente, ma non sempre
considerate onorevolmente. Fra i mestieri meglio documentati nella cittadina vesuviana, alcuni consentono in particolare di evidenziare differenze sociali che, al di là dell’aspetto economico, riflettono la diversa reputazione di cui godevano i vari ruoli. I contadini pompeiani erano un gruppo molto diversificato sotto molti aspetti, fra proprietari, affittuari e braccianti salariati. La tradizione romana ha sempre riconosciuto l’importanza sociale
In basso: affresco raffigurante venditori ambulanti di attrezzi in ferro e di calzature nell’atrio dei Praedia di Giulia Felice. I sec. d.C. A destra, in basso: la vendemmia nel vigneto moderno impiantato a Pompei.
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dell’agricoltore, accanto a quella del politico e del guerriero, in quanto svolge un’attività fatta di sforzi e di crescita, il cui controllo è degno di un uomo di rango. Era infatti risaputo che l’ascesa di Roma era dovuta soprattutto agli innumerevoli contadini-soldati, pronti a lasciare il loro podere coltivato quando si trattava di partire per la guerra, di combattere per la gloria di Roma, e pronti a tornarvi se sopravvissuti. Il contadino è il rusticus, individuo semplice e modesto, considerato talvolta anche un po’ rozzo. Può essere un piccolo agricoltore – come i soldati provenienti da strati
quando, a forza d’inventiva e creatività, otteneva buoni risultati e riusciva a elevarsi nella scala sociale, fino a guadagnare bene e a raggiungere una certa notorietà. E comunque, anche in questo fortunato caso, la fama è raggiunta nella tanto denigrata officina, dove si praticavano arti considerate quasi indegne di un uomo libero. L’artigiano era non soltanto un produttore, ma anche un uomo, non certo meno degno di attenzione. In fondo, quella romana è una cultura conosciuta prevalentemente grazie al lavoro dei suoi artigiani.
IL «GIUSTO PREZZO»
In alto: il bracciale d’oro che ha dato nome alla casa in cui fu rinvenuto. Qui sopra: il vigneto impiantato nel giardino della Casa del Triclinio all’aperto, che riproduce quello esistente nello stesso luogo nel 79 d.C. spesso poveri della popolazione – oppure un ricco possidente, talora di rango aristocratico, ma questa è certamente una dimensione diversa. I contadini non ci hanno lasciato molte testimonianze della loro attività, quindi spesso non possiamo fare altro che registrare la loro presenza, senza poter penetrare nella dimensione umana.
AI MARGINI DEL SISTEMA Vivevano solitamente nella sfera dell’autosufficienza, magari ai margini dell’economia mercantile, limitandosi a vendere i prodotti dei loro poderi sui mercati pompeiani. Talvolta incrementavano i guadagni prestando opera come salariati nei grandi possedimenti vesuviani,
durante i lavori stagionali, ma, agli occhi della società dell’epoca, quella del salariato era un’attività quasi indecorosa. Oltre ai piccoli contadini e ai braccianti salariati, c’era poi chi coltivava un appezzamento altrui, fornendo al proprietario un corrispettivo in denaro, in natura o in prestazioni di manodopera. Quella dei contadini resta comunque una classe unitaria, la cui sopravvivenza dipendeva sempre, e con tanta dignità, dal duro lavoro dei campi. L’artigiano pompeiano era una figura che viveva nell’anonimato, poco stimata al suo tempo, quasi segreta agli occhi della società. Un po’ disprezzato quando lavorava nella mediocrità, almeno fino a
Le fonti romane ci ricordano il lavoro del mercante impegnato nel grande commercio o nelle modeste pratiche di compravendita, oppure nel rapporto fra agricoltura e commercio e nella questione del «giusto prezzo». Era infatti convinzione diffusa che il mercante falsasse il prezzo di un prodotto perchè lo aumentava senza aggiungere alcun lavoro supplementare. Per gli antichi il commercio non era un lavoro come lo intendiamo noi, poiché mancava il contributo della fatica fisica che si concretizzava nella trasformazione della materia e di un prodotto – come per esempio l’agricoltura –, aspetto che giustificava il valore della merce. Quello del mercante era un mestiere molto competitivo: abili erano quelli che sapevano prevedere, ossia sapere prima degli altri il mutare delle situazioni, la sovrabbondanza o la rarità delle merci, i buoni raccolti e le carestie. E al mercante non si poteva certo negare un preciso ruolo civico, collegato al cruciale problema dell’approvvigionamento urbano. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; YouTube: Pompeii Sites.
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n otiz iario
MUSEI Roma
CONDOMINIO CON VISITA
N
ello scorso dicembre, l’articolo con il quale avevamo presentato la musealizzazione delle strutture scoperte sull’Aventino, a Roma, in seguito a un intervento di riqualificazione edilizia, si chiudeva auspicando che la Scatola archeologica – denominazione scelta per il sito – potesse essere aperta al pubblico al piú presto, al termine dell’emergenza sanitaria causata dal Covid (vedi «Archeo» n. 430, dicembre 2020; anche on line su issuu.com). Ebbene, quell’auspicio si è finalmente trasformato in realtà e la Scatola archeologica è ora visitabile.
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Sulle due pagine: particolari della Scatola archeologica realizzata a Roma, in piazza Albania, all’interno della Domus Aventino. La musealizzazione dei resti riportati alla luce è integrata da installazioni multimediali con video mapping e proiezioni.
Si tratta di un contesto straordinario, che porta il visitatore all’interno di uno scavo archeologico, grazie a un progetto, unico nel suo genere, al quale hanno contribuito archeologia, architettura e tecnologia, creando il primo sito museale all’interno di un complesso residenziale. Le indagini archeologiche eseguite a seguito del cambiamento di destinazione d’uso degli edifici della Banca Nazionale del Lavoro risalenti al 1952, si sono svolte dal 2014 al 2018. Tra i plinti di fondazione del vecchio complesso sono cosí riemerse le significative tracce di
un paesaggio urbano del passato, posto lungo il versante meridionale del colle e prospiciente un’area pianeggiante, nella quale passava in antico il vicus Piscinae Publicae, oggi viale Aventino. Gli scavi hanno consentito di riportare alla luce ritrovamenti di eccezionale importanza, come mosaici, strutture e materiali che abbracciano un orizzonte cronologico compreso fra l’VIII secolo a.C. e il III d.C. Dai primi terrazzamenti ricavati nel banco di tufo dell’Aventino si spazia fino a una sontuosa residenza, che dall’età tardo-repubblicana a quella medio imperiale subisce continue trasformazioni. Fra i mosaici, spiccano quelli di età antonina (150175 d.C.): apparsi per primi agli scopritori, sono senza dubbio quelli maggiormente rappresentativi dell’intero contesto. L’estensione e la vivace policromia nel repertorio iconografico dei tappeti lascia intuire una committenza di alto livello, probabilmente dedita al commercio, vista la prossimità con l’Emporium tiberino.
Quello proposto dalla Scatola archeologica è un percorso straordinario, una vera e propria visita in uno scavo, nel quale i reperti vengono presentati cosí come sono affiorati nel corso dell’intervento. E, a raccontare e valorizzare ulteriormente la storia di questo prezioso angolo della Roma antica, concorre l’allestimento multimediale, curato da Piero Angela e Paco Lanciano, che si avvale di video mapping e proiezioni. Le visite alla Scatola archeologica della Domus Aventino, curate da Cooperativa Archeologia, hanno una durata di 60 minuti circa e vengono realizzate in italiano, il primo e il terzo venerdí di ogni mese. Per rispettare le direttive sul distanziamento e la tutela della salute, a ogni visita sono ammessi gruppi di 6 persone, attraverso un percorso accessibile ai disabili motori con minime limitazioni. Prenotazione e acquisto dei biglietti sono esclusivamente on line sul sito: www.scatolaarcheologica.it (red.)
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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
RACCONTI DI VITA UN CONTRIBUTO DECISIVO ALLA RICOSTRUZIONE DELL’ESISTENZA DEGLI ANTICHI ABITANTI DI OSTIA E DEL SUO TERRITORIO VIENE OFFERTO DALLE ANALISI ANTROPOLOGICHE SULLE LORO SEPOLTURE
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una vivace città portuale come Ostia, che nel II secolo d.C. raggiunse probabilmente i 50 000 abitanti, servivano grandi necropoli, le città dei morti che rispecchiavano l’articolazione sociale della città dei vivi. La piú antica sorse fuori dalle mura, lungo la via Ostiense, dove si conservano tombe di varie tipologie, risalenti alla fine della repubblica e al principio dell’impero. A Ostia, come in tutto il mondo romano, la vicinanza delle tombe alla strada era un motivo di prestigio per i proprietari, che gareggiavano tra loro con le decorazioni e le dimensioni dei sepolcri. Nel I secolo a.C. i cittadini piú illustri, come Cartilio Poplicola, vennero sepolti in grandi monumenti fuori Porta Marina, mentre nel suburbio meridionale nasceva una nuova necropoli, posta lungo la via Laurentina e inizialmente riservata ai liberti. Nei secoli successivi questo sepolcreto si estese fino a occupare gran parte della pianura, oggi nota con il suggestivo nome di Pianabella. L’uso funerario della zona perdurò nel Medioevo intorno alla chiesa di S. Ercolano e alla basilica cristiana di Pianabella, e continua ancora oggi nel moderno cimitero di Ostia.
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A prescindere dalla tipologia di sepolcro, sono documentati due riti di sepoltura: la cremazione della salma – modalità prevalente nei primi secoli dell’impero – e l’inumazione, divenuta d’uso comune dal II-III secolo d.C. Le ceneri venivano generalmente ospitate in appositi edifici, detti colombari, provvisti di numerosi loculi; le inumazioni potevano invece avvenire in vari modi, dalla sepoltura in nuda terra alla tumulazione in fastosi sarcofagi di marmo istoriato.
OSSA E ALI D’ANATRA Tra gli innumerevoli esempi di sepolture ostiensi, vogliamo qui ricordarne due, oggetto di un recente studio archeologico e antropologico. Il rituale della cremazione è rappresentato da un’urna in travertino di forma tronco-conica, proveniente dalla necropoli della via Ostiense presso Acilia. L’urna era intatta, senza segni di manomissione, e il suo contenuto è stato sottoposto a un’approfondita indagine antropologica. I frammenti di ossa appartenevano a un unico individuo: la colorazione tra bianco, grigio e bluastro suggerisce temperature di combustione tra 300 e 600 °C. Lo scheletro è ben rappresentato e i frammenti piú
In alto: urna in travertino dall’antica via Ostiense, con le ceneri di un individuo di sesso probabilmente femminile. I sec. a.C.-I sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: le principali necropoli ostiensi in una veduta satellitare (da Google Maps).
grandi sono relativi soprattutto agli arti inferiori, appartenenti a un individuo adulto, verosimilmente di sesso femminile. Tra i frammenti sono state rinvenute ossa di ala d’anatra non combuste, inserite nell’urna come offerta al defunto. La deposizione, piuttosto comune e senza elementi di corredo, si data tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Il rito dell’inumazione è invece rappresentato da una sepoltura entro sarcofago di terracotta, scoperta nel giugno del 2019 durante l’ordinaria attività di tutela nel suburbio meridionale della città antica. Il sarcofago è costituito da
una cassa fittile estremamente semplice, con all’interno un rialzo simile a un cuscino, provvisto ai lati di fori d’incerta funzione. La cassa era coperta sobriamente con tegole piane, una delle quali bollata; il corredo era costituito da un chiodo in ferro e da tre unguentari in vetro. Questi elementi suggeriscono una datazione al II secolo d.C. e l’appartenenza a un ceto sociale medio. Oggi il sarcofago è stato ricollocato all’ingresso dell’area archeologica di Ostia, in prossimità della necropoli della via Ostiense. L’inumato era di sesso maschile, come indicato dalle caratteristiche
Sarcofago fittile dal suburbio meridionale della città antica, che accoglieva l’inumazione di un uomo morto intorno ai 40 anni di età. II sec. d.C.
morfologiche del bacino e del cranio, mentre l’usura dei denti e la sinfisi pubica suggeriscono un’età di circa 40 anni. Le numerose ipoplasie dello smalto segnalano problemi di salute durante l’infanzia, che hanno momentaneamente arrestato la crescita dei denti. L’età «avanzata» per l’epoca è suggerita dalla perdita di ben 19 denti durante la vita e dalla presenza di abbondante tartaro. Accanto allo scheletro era presente un frammento di dente suino con tracce di lavorazione, forse pertinente a un elemento ornamentale. Questi due esempi testimoniano l’importante attività del servizio di antropologia del Parco Archeologico di Ostia antica, che ha avviato uno studio sul popolamento dell’area in età antica in sinergia con l’attività di scavo e ricerca archeologica.Tale studio si avvarrà anche di indagini chimiche, che potranno gettare luce sulla composizione della popolazione e su aspetti particolari legati alla dieta. Dario Daffara, Barbara Roggio, Paola Francesca Rossi
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n otiz iario
MUSEI Lazio
E SE APOLLO FOSSE IL COLOSSO?
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opo un aggiornamento delle collezioni e degli allestimenti, complice la chiusura imposta dal Covid, ha riaperto al pubblico il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia. Nella settecentesca palazzina della ex Dogana pontificia, edificata da Clemente XIII, sono conservate le principali testimonianze archeologiche della città, fondata dall’imperatore Traiano con la funzione di porto di Roma, e sono custoditi i reperti provenienti dal territorio, sia dai siti costieri fra Santa Marinella e il fiume Mignone, sia dal retroterra, che comprende i Monti della Tolfa. Sono inoltre presenti materiali da importanti collezioni storiche confluite in museo e oggetti di origine sconosciuta, frutto di sequestri giudiziari. Proprio in considerazione dell’originaria ispirazione civica del Museo, dello stretto legame con il territorio e
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della vocazione turistica connessa al contiguo porto turistico, è stata fortemente voluta la riapertura di alcuni spazi espositivi, nonostante i lavori di ristrutturazione in corso ai piani alti dell’edificio. Sono cosí visitabili le sale del piano terra, dedicate ai busti imperiali e alle epigrafi dell’area portuale di Centumcellae (fra cui spiccano quelle funerarie «parlanti» dei marinai sepolti in un sepolcreto) e alla raccolta lapidea, con le sculture della Sala dei Marmi, provenienti dalle lussuose ville costiere, fra cui spiccano due capolavori assoluti – poco conosciuti e che meritano già da sole la visita al museo – derivati dall’arte greca classica ed ellenistica. Si tratta, in entrambi i casi, di opere recuperate dalla lussuosa residenza marittima presso Santa Marinella (nell’area dell’attuale Castello Odescalchi), che si è ipotizzato appartenesse all’illustre giurista Ulpiano. La prima è una copia in marmo pentelico, del II secolo d.C., dell’Athena Parthenos di Fidia, realizzata per il Partenone nel 438 a.C. La testa originale della statua civitavecchiese, trovata nell’Ottocento è però conservata al Museo del Louvre e qui replicata. La seconda opera è una statua in marmo pario di Apollo, databile allo stesso secolo della precedente, e riconosciuta, come il piú celebre Apollo del Belvedere dei Musei Vaticani, come una rielaborazione di un originale in bronzo dello scultore ateniese Leocare, della
A sinistra: statua in marmo pario di Apollo, da un originale in bronzo di Leocare. II sec. d.C. È stato ipotizzato che l’opera sia una replica del Colosso di Rodi. In basso: l’ex Dogana pontificia, sede del Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: due immagini della statua in marmo pentelico di Athena Parthenos, replica dell’originale scolpito da Fidia per il Partenone. II sec. d.C.
seconda metà del IV secolo a.C. Alcuni studiosi hanno voluto vedere nell’Apollo di Civitavecchia la riproduzione del Colosso di Rodi, una delle sette meraviglie del mondo antico, innalzata nel 304 a.C. per opera di Carete, allievo del grande Lisippo. Al primo piano, le vetrine del ballatoio accolgono, in via provvisoria, una selezione di materiali dei principali insediamenti del territorio (abitati etruschi di Castellina del Marangone e di Ficoncella-Aquae Tauri; villaggio dell’età del Bronzo di Luni sul Mignone; sepolcreto
protovillanoviano di Poggio la Pozza; santuario arcaico costiero di Punta della Vipera; Terme Taurine) e preziosi oggetti dalle collezioni museali, che coprono l’intero ciclo della cultura etrusca. Si tratta di ceramiche e bronzi di varia origine e provenienza, confluiti in parte dal vecchio Museo Civico, promosso nel 1918 dallo studioso locale Salvatore Bastianelli, ospitato nel chiostro del convento dei Padri Domenicani e allestito con l’aiuto dell’archeologo Raniero Mengarelli, andato purtroppo distrutto nei rovinosi bombardamenti del 1943. Molti
materiali della raccolta civica furono distrutti e dispersi, altri furono invece salvati da Bastianelli, nascondendoli negli ambienti delle Terme Taurine. Gli oggetti provengono da vecchie scoperte, ma anche da sequestri giudiziari. L’esposizione è corredata da nuovi pannelli che, oltre a spiegare le scelte espositive, immergono il visitatore nella storia dei luoghi. La riapertura del Museo è stata anche l’occasione per un re-branding, con la presentazione di una nuova identità visiva e l’apertura di pagine dedicate al Museo nei canali social. Sono in programma azioni di valorizzazione volte all’interazione con il pubblico, perseguendo la partecipazione della comunità scientifica, delle scuole e dei cittadini, anche mediante la sinergia fra museo e autorità o istituzioni locali. Alessandro Mandolesi
DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia Civitavecchia, largo Cavour 1 Orario ma-do, 8,30-19,30; prenotazione obbligatoria per il sabato e i giorni festivi Info tel. 0766 23604; e-mail: drm-laz.mucivitavecchia@ beniculturali.it; Fb: MANCivitavecchia; Inst: museo-archeologiconazionale-di-civitavecchia
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n otiz iario
INCONTRI Paestum
I BUONI FRUTTI DEL MECENATISMO
L’
Art Bonus sarà presente anche alla Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, in programma dal 30 settembre al 3 ottobre 2021. ALES s.p.a., infatti, la società responsabile del programma di gestione e promozione dell’Art Bonus per conto del Ministero della Cultura, parteciperà alla manifestazione mettendo a disposizione uno spazio espositivo e momenti di incontro per conoscere e approfondire tutti gli aspetti applicativi della normativa. Ai sensi dell’art.1 del D.L. 31.5.2014, n. 83, «Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo», convertito con modificazioni in Legge n. 106 del 29/07/2014 e s.m.i., è stato introdotto un credito d’imposta per le erogazioni liberali in denaro a beneficio della cultura e dello spettacolo, il cosiddetto Art Bonus, quale sostegno del mecenatismo a favore del patrimonio culturale. Ma quando il beneficio fiscale dell’Art Bonus è applicabile al settore dell’archeologia? In base alla norma possono essere destinatari di donazioni Art Bonus: A) interventi di restauro di reperti archeologici di proprietà pubblica rinvenuti a seguito di una campagna di scavo; B) progetti di manutenzione e valorizzazione di siti archeologici di appartenenza pubblica: le aree archeologiche infatti sono
espressamente citate nella norma quale luogo della cultura ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.L. 22 gennaio 2004, n. 42), e possono ricevere erogazioni liberali Art Bonus per il sostegno alle proprie attività. E, similmente, anche tutti i musei archeologici di appartenenza pubblica possono aprire raccolte fondi Art Bonus di tipologia B per il sostegno alla propria missione e attività. L’Art Bonus quindi anche in questo settore può rappresentare una grande opportunità per integrare le risorse pubbliche e stabilire collaborazioni tra pubblico e privati. Anche perché, grazie a tecnologie innovative e approcci scientifici esperienziali e di grande impatto emotivo, l’interesse per la valorizzazione dei siti archeologici coinvolge una sempre piú ampia comunità culturale di studiosi, appassionati e cittadini. Tutti elementi che favoriscono azioni di fundraising mirate per una migliore gestione dei siti stessi anche a favore dell’offerta turistico-culturale dei territori. A oggi, gli enti beneficiari di donazioni Art Bonus registrati sul sito governativo www.artbonus.gov.it hanno superato le 2000 unità e, grazie a oltre 22 000 mecenati, sono stati già raccolti in tutta Italia piú di 560 milioni di euro per sostenere circa 4000 interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio. Info e-mail: info@artbonus.gov.it
Il tempio di Atena a Paestum. Il locale Parco Archeologico è uno dei beneficiari dell’Art Bonus.
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n otiz iario
ARTE Algarco
MARMO, BRONZO E PASSIONE PER L’ANTICO
A
segreti di questo mestiere, in particolare lessandro Garatti, in arte Algarco, grazie ai suggerimenti, stimoli e ripetuti nasce in Valle Camonica il 10 insegnamenti del grande maestro dicembre 1983. Si diploma al Liceo artigiano Marco Barsanti, detto Magò, e di Artistico di Lovere (Bergamo), dove tutti gli altri grandi artigiani della Fonderia: è allievo alla cattedra di scultura di Fabio Maestrelli, Massimo Costa, Nicola Gregorio Cividini. Negli anni del liceo Morriconi, Marco Genovesi, Fabio Romiti, matura l’interesse per l’arte scultorea; un Stefano Del Freo, Antonio Lombardi, interesse che si rafforzerà nel tempo fino Stefano Lenzoni, Vasco Francesconi e a sfociare in un amore profondo, in una Davide Da Prato, con i quali condivide e passione che lo condurrà alla ricerca, al realizza i suoi progetti. confronto con la tradizione. Negli anni del liceo sono significativi anche i tirocini Non sono un oratore quindi scrivo... La che compie nella falegnameria di Pietro scultura è già un parlare senza dover dire. Non avrei Ercoli, figlio dello scultore camuno di «stampo» sacro mai pensato di dovere raccontare i miei quadri, poiché Giacomo Ercoli. Anche queste esperienze accrescono mi piace l’idea di una libertà di pensiero, di l’interesse per la scultura e saranno fondamentali, un’intuizione soggettiva, positiva o negativa, che dona all’indomani del diploma, per convincerlo a all’opera d’arte quell’alone di mistero che la innalza proseguire gli studi in campo artistico. ancor di piú. Da ciò la decisione di intitolare i miei Attratto dall’arte classica decide cosí di iscriversi quadri con semplici sigle. Quanto ci sarebbe piaciuto all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove tuttavia che gli antichi ci raccontassero le loro opere... in realtà rimarrà solo sei mesi. Si trasferisce all’Accademia di personalmente preferisco un approccio piú mio, piú Belle Arti di Carrara, che poi abbandonerà per apprendere l’arte del marmo a Pietrasanta, nello studio personale con l’opera... che elevi libero il pensiero. Che poi infine penso in ciò sia la vera grandezza di un’opera del maestro artigiano Blasco Pellacani. Algarco che va ben oltre un semplice rapporto estetico. comincia cosí un percorso tutto «suo», in cui il Uno stimolo quindi a un ragionamento..? misurarsi con la tradizione diventa il primo e forse Per cominciare, vi dirò che a me stesso artefice i miei unico motivo… Tuttavia, l’esperienza artigianale con quadri raccontano molte «cose», m’innalzano la l’arte del marmo contribuirà a far crescere in lui la mente e mi fanno pensare molto in profondità... e padronanza nei confronti della materia e a formare, in questo è il valore piú importante che credo essi parte con tratti nostalgici, il suo lato umano, forse possiedano.Sembrerà strano come un’unica anche per lo stretto contatto con un mestiere cosí immagine possa spiegare piú cose allo stesso tempo, antico, umile, ma allo stesso tempo nobile… ma credo che ciò indichi che «l’oggetto» funziona, Sempre a Pietrasanta, dove ai laboratori del marmo si poiché crea infiniti stimoli e dà allo stesso susseguono le fonderie artistiche del bronzo, sarà universalità. In un’epoca di grandi cambiamenti, di fondamentale per Algarco l’approccio con l’antica arte perdita di tradizioni e valori, ecco della fusione a cera persa, che lo un quadro dissolversi, scomporsi, affascinerà profondamente, al In alto: L’Anfora «ai tempi del frammentarsi, spaccarsi e punto di divenire la sua materia coronavirus», bronzo ossidato in un’anfora al centro che permette di prediletta per esprimersi. acqua marina. 2021. Sotto la guida e i consigli di Mario In basso: l’opera esposta a Pietrasanta trattenere, conservare i pezzi rimasti; un serbatoio insomma di Tartarelli compie la sua prima nella mostra «La Piazza in attesa». queste tradizioni rimaste e che, esperienza, che lo appassionerà al custodendole, diventerà a sua punto di condurlo ad approfondire volta la matrice, il «mezzo» quest’arte. Ciò sarà reso possibile necessario alla creazione... trovando «rifugio» nella Fonderia Ne ritroviamo quindi un significato Artistica Da Prato dell’architetto che rispecchia l’io di Algarco Massimo Da Prato, dove tuttora pienamente (da ciò sento divenire realizza le proprie opere. L’Anfora il mio simbolo, ciò che mi Qui, oltre a convivere con l’arte rappresenta, L’Anfora= Algarco), contemporanea, Algarco ha amante delle arti antiche, volto alle appreso e apprende i piú antichi
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il quadro e quindi vive. L’Anfora oscura il fondo, il fondo taglia e disegna nei vuoti con ombre la parete quasi per reazione; le cornici oscurano i fondi e i tagli che si protraggono con i suoi ombreggiamenti fino al di fuori del quadro stesso. Tutto si muove e quindi è vivo. Il muro stesso diviene vivo, un tutt’uno con il quadro. Il quadro creato ora crea. Che dire poi dei vuoti che diventano immagini... un volatile che morde la coda a un gatto... una testa di cane che pensa a un uccello in volo... un pesce che insegue un altro pesce... un gallo che corteggia una gallina... due volti in stile d’arte africana si baciano... un pescatore che lancia l’esca ha già da se attratto una balena... forse... Forse tutto questo perché anche qui, ripeto, credo nella soggettività della visione, nella libertà di pensiero. E che dire poi ancora degli alti e bassi, dei pieni e dei vuoti che sento miei, voluti, perché rappresentano un’altra volta il mio io.
E ancora... L’Anfora scelta, designata, che termina a punta per poter essere piantata nel terreno come era già da antichissime usanze diviene ora un legame molto stretto con la terra, In alto: un’altra immagine de L’Anfora un’attaccamento alla terra, un vero in mostra a Pietrasanta. e proprio amore per essa. Da ciò si può intuire in quest’epoca di grandi cambiamenti climatici, di grandi disastri atmosferici cos’altro possa rappresentare un’anfora all’interno di un quadro rotto. La vita, la sopravvivenza, divenendo cosí ora L’Anfora simbolo di ogni uomo e animale terreno che si trova in questa realtà. Una rappresentazione quindi piuttosto universale, credo. Un’altra caratteristica che mi rappresenta nei miei quadri o, meglio, che descrive il mio percorso artistico è l’unione in un unico Qui sopra e in basso: due fasi della materiale quale il bronzo di tutti i realizzazione dell’opera. E piú universale ancora. Ai pezzi materiali incontrati e sperimentati mancanti nella storia dell’arte nel nel mio incementarmi alla scultura. passato stesso nella sua verità... Vi si trova l’argilla, materiale per Quante opere l’uomo ha distrutto antonomasia, simbolo della con le guerre, l’avidità... non sono Creazione, che costituisce L’Anfora. pezzi di cornici mancanti quelle. Il Vi si trova il legno di cui sappiamo quadro stesso ora diviene sono fatte le cornici e vi si trova il rappresentante della storia nella sua marmo a dare fondo ai quadri, realtà... quante «cose» non sono materiale nobile che mi ha sempre chiare, nascoste, cancellate. Già il tempo quante cose affascinato e incuriosito, sino a farmi giungere a consuma... noi siamo tempo. Quante «cose» mancano. Pietrasanta, dove tuttora vivo. E tutto ciò racchiuso in un unico materiale che ora è il mio prediletto e che, pur E ancora qui L’Anfora ci rappresenta come custode solo di ciò che ci è giunto, di ciò che il tempo ci dona. essendo di antichissime usanze, ritengo molto attuale Non è un altro concetto universale questo..? poiché riciclabile. E questo materiale ho la fortuna di Ci si potrebbe forse inoltrare di piú fino a dove il lavorare nella tradizionalissima Fonderia Artistica Da pensiero senza confini ti può condurre... ma per ora Prato, qui a Pietrasanta. penso di aver detto anche piú di quel che mi ero Cosí ecco un’altra caratteristica che lega a me, con prefissato... poiché penso di aver già troppo sincerità, i miei quadri. disturbato la vostra libertà o meglio il vostro Parliamo un po’ ora di vuoti e pieni, di alti e bassi che approccio soggettivo alla mia opera. creano ombre e che danno vita al quadro, che la Algarco rendono una vera e propria composizione, quasi penso 11/11/2020, Pietrasanta una musica per gli occhi. Al cambio della luce si muove a r c h e o 21
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tradizioni fin da giovane, di natura conservatore... ecco che mi ritrovo ora in questo quadro rotto in questa epoca contemporanea.
IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
ALLA SCOPERTA DEL PAESAGGIO NASCOSTO RECENTI INDAGINI ARCHEOBOTANICHE CONDOTTE NELL’AREA DELLA TOMBA DELLE MANI D’ARGENTO PERMETTONO DI RICOSTRUIRE IL CONTESTO VEGETALE DI OLTRE 2500 ANNI FA. E DI DEFINIRE LA QUALITÀ DELLE OFFERTE FLOREALI USATE DURANTE IL RITUALE FUNEBRE
L
a ricostruzione degli aspetti storici, archeologici e naturalistici del paesaggio è da tempo una tematica sempre piú importante e ricorrente in diversi ambiti di ricerca, in quanto mette in relazione l’uomo con l’ambiente in cui ha vissuto, associando due aspetti che diventano strettamente complementari l’uno all’altro. In tutte le epoche, infatti, le piante hanno avuto un ruolo centrale nella vita dell’uomo e nessuna ricostruzione del passato può trascurare questo aspetto, poiché le varie specie vegetali non sono soltanto altrettante componenti primarie dell’ecosistema ed elementi-chiave del paesaggio, ma anche materia di sussistenza per gli esseri umani, sia nella sfera materiale, sia in quella spirituale. La possibilità di ricostruire il paesaggio vegetale e l’ambiente delle epoche passate è oggi affidata all’archeobotanica, disciplina specialistica che si occupa del riconoscimento di reperti botanici macroscopici quali legni/carboni (materia di studio della xilo-antracologia) e semi/frutti (oggetto di indagine della carpologia) e microscopici
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come pollini e spore di felci (studiati dalla palinologia) e rinvenuti nei contesti archeologici a partire dal Paleolitico fino all’età moderna.
TRACCE DI VITA QUOTIDIANA In particolare, l’archeoxiloantracologia si occupa dello studio dei legni e dei carboni, con attenzione ai manufatti e ai vari materiali lignei utilizzati dall’uomo nelle diverse attività della vita quotidiana, oltre a ricostruire l’immagine della vegetazione arborea/arbustiva presente in sito o
individuare essenze arboree di provenienza extralocale. L’archeocarpologia studia invece i semi/frutti delle piante spontanee e coltivate utilizzate dall’uomo, offrendo un quadro abbastanza preciso della vegetazione strettamente in loco o molto prossima a esso, privilegiando generalmente la componente erbacea rispetto a quella arborea/arbustiva. Infine, l’archeopalinologia si occupa del riconoscimento di granuli pollinici, spore di felci e altri sporomorfi microscopici inglobati negli strati
A sinistra: disegno di una pianta di Vite/ Vitis vinifera e l’immagine di un suo polline, ottenuta al microscopio. Nella pagina accanto: i recinti sacri impiantati nella necropoli dell’Osteria nell’area della Tomba delle Mani d’Argento e che in piú casi hanno intercettato i preesistenti sepolcri. In basso: la camera B della Tomba delle Mani d’Argento in corso di scavo.
archeologici e utili a ricostruire la vegetazione delle epoche passate, offrendo preziose informazioni qualitative e quantitative sulle essenze arboree, arbustive ed erbacee che vegetavano in un determinato sito e/o nelle sue immediate vicinanze. Indagare il paesaggio antico
significa quindi scoprire quale tipo di vegetazione circondava gli insediamenti umani, ottenere informazioni sulla domesticazione delle piante, motivare e comprendere le scelte e le strategie di sussistenza operate dalle comunità umane, approfondire aspetti del rituale funerario
individuando possibili simbolismi legati alle diverse essenze vegetali utilizzate, ricostruire la dieta alimentare e, talvolta, trarre anche considerazioni sul clima e sugli effetti dei cambiamenti climatici.
FIORI PER L’ULTIMO VIAGGIO Le indagini archeobotaniche eseguite a Vulci in prossimità della Tomba delle Mani d’Argento (vedi «Archeo» n. 350, aprile 2014; anche on line su issuu.com) hanno consentito di ricostruire non solo il paesaggio vegetale circostante la necropoli dell’Osteria, ma anche di identificare la presenza di offerte floreali proprie del rituale funebre. Dallo scavo sono stati prelevati 51 campioni pollinici e 22 campioni di sedimento per rilevare l’eventuale presenza di macroresti vegetali. Presso il Laboratorio di Palinologia e Archeobotanica del Centro Agricoltura Ambiente «G. Nicoli» sono stati selezionati 10 campioni pollinici e 8 di macroresti da sottoporre ad analisi. L’osservazione è stata effettuata al microscopio ottico e sono stati presi in esame piú di 1000 reperti pollinici. 51 macroresti sono stati isolati attraverso operazioni di flottazione, setacciatura in acqua; nel complesso, sono stati analizzati 155 carboni ascrivibili al rituale funebre effettuato nell’area indagata. In particolare, sono stati rinvenuti granuli pollinici di Vite Vitis vinifera, Fava Vicia faba e cereali (grano/Avena-Triticum gruppo e orzo Hordeum gruppo), che farebbero pensare a offerte costituite da uva, semi di fava, cariossidi di orzo e di frumento. Le analisi archeobotaniche qui descritte e le altre a tutt’oggi in corso sono curate da Marco Marchesini (Università di Ferrara) e Silvia Marvelli (Laboratorio di Palinologia e Archeobotanica del Centro Agricoltura Ambiente «G. Nicoli» di Crevalcore, BO).
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A TUTTO CAMPO Roberto Farinelli, Andrea Marcocci
ALLE TERME CON PIA DE’ TOLOMEI GRAZIE ALLE SUE RICCHE SORGENTI, LA MAREMMA GROSSETANA VIDE NASCERE NUMEROSI IMPIANTI TERMALI. UNO DEI QUALI, NEL TERRITORIO DI CIVITELLA PAGANICO, È AL CENTRO DEL PROGETTO AQUAE CALIDAE, FINALIZZATO A RICOSTRUIRNE LA STORIA, INIZIATA NEL 1331 PER MERITO DI UN VESCOVO CON IL FIUTO PER GLI AFFARI
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aria Tozzi rammentava ancora il sentiero per la sorgente delle Caldanelle, perché c’era andata tante volte in gioventú, portando la ginestra a macerare nelle vasche di acqua termale fino a quando non diventava un impasto di fibre da dipanare, filare e poi tessere al telaio: quella ripida massicciata era la stessa salita dalla Pia de’ Tolomei nel Medioevo, per raggiungere il suo sposo Nello da Pietra. La sua amica Agostina Boccini, classe 1905, arrivava invece dalla parte opposta, rasentando la fonderia di San Martino, lungo la
via che il papa Pio II percorse nel 1460 per andare dai Bagni di Petriolo all’eremo di Sant’Antonio in Val d’Aspra, i cui monaci avevano diffuso nella regione la lavorazione della ginestra. Cosí le donne delle due comunità di Pari e di Casale, alle porte della Maremma grossetana, ripercorrendo nel bosco le orme di illustri personaggi del passato, si ritrovavano in fondo al cupo vallone con i loro fardelli a ripetere gesti che conoscevano bene. Nessuno, però, aveva memoria dei ruderi incombenti sul ruscello fumante, tranne i piú anziani che ricordavano
il campanile di una chiesa diruta: all’occhio dell’archeologo questo imponente ammasso di rovine suggeriva invece altre idee. Cosí il sito è divenuto il fulcro del Progetto Aquae Calidae, condotto sotto la supervisione della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena, Grosseto e Arezzo, insieme alla locale Associazione Odysseus, In alto: l’accesso originario all’impianto termale situato in località Caldanelle, presso Civitella Paganico (Grosseto). Il bagno entrò in funzione nell’aprile del 1331. A sinistra: il torrente Caldanelle con le «pozze» di acque termali.
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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
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1. Scavo del bagno termale alle Caldanelle, Civitella Paganico, Grosseto (roberto.farinelli@unisi.it). 2. La cella vinaria nella villa romana di San Giovanni, Isola d’Elba (franco.cambi@unisi.it). 3. Laboratorio di ceramica classica (mara.sternini@unisi.it). 4. Ricognizione alla ricerca di frequentazioni preistoriche in Maremma (giovanna.pizziolo@unisi.it). 5. Archeologia pubblica all’Archeodromo di Poggibonsi, Siena (marco.valenti@unisi.it). 6. Populonia, scavo sull’acropoli in collaborazione con la SABAP di Pisa-Livorno (stefano.camporeale@unisi.it, cynthia.mascione@unisi.it). 7. Antico sistema di gestione comunitaria dell’acqua ancora in uso nel comune di Arena, Vibo Valentia (carlo.citter@unisi.it)
A Siena l’archeologia è a tutto campo www.unisi.it
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8. Analisi archeobotaniche di campioni organici dal sito medievale di Vetricella, Grosseto (giovanna.bianchi@unisi.it). 9. Un’antefissa etrusca dallo scavo di Roselle, Grosseto (andrea.zifferero@unisi.it). 10. Scavo di un sito eneolitico al Poggio di Spaccasasso, Grosseto (nicoletta.volante@unisi.it). 11. L’uso del lidar su drone per documentare le aree boschive della Maremma grossetana (stefano.campana@unisi.it). 12. Vignale (Livorno), pulizia e consolidamento di un mosaico (enrico.zanini@unisi.it).
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mirato a indagare i siti termali di età classica e medievale nel Comune di Civitella Paganico (Grosseto): lo scavo delle Caldanelle è stato affidato ad archeologi professionisti che vi hanno condotto quattro campagne, iniziate nel 2018. Appena rimosso il muschio dalla pietraia, la terra ha raccontato una storia intrigante, intrecciata alle vicende della sorgente che esce in superficie alla temperatura di 38°C: berne le acque e bagnarvisi erano passi necessari delle cure termali, che si concludevano nei vicini Bagni di Petriolo, posti lungo la riva opposta del torrente Farma. Si trattava di pratiche molto antiche, come suggeriscono i ritrovamenti archeologici nei dintorni, ma la data di nascita del Bagno di Caldanelle è fissata al 13 aprile 1331, quando il Comune di Siena concesse al vescovo della città, Donosdeo Malavolti, il permesso di costruirvi un edificio in muratura. Lo scavo sta portando alla luce questo vasto complesso architettonico, sede di un albergo e di una locanda, che divenne uno snodo importante nel percorso termale che conduceva da Siena fino ai porti del Tirreno, toccando in sequenza i Bagni di Macereto, Petriolo e infine Roselle. Donosdeo Malavolti non era soltanto un vescovo di Siena e, come tale, signore dei castelli del vescovado di Murlo, tra Siena e il Bagno di Macereto, ma anche l’esponente di una famiglia di magnati, che nel 1277 era stata esclusa dalle piú alte cariche comunali, per l’eccessivo potere esercitato in città. La famiglia, che monopolizzò la carica vescovile per tutto il Trecento, dominava anche alcuni castelli maremmani, quali Gavorrano, con il bagno termale omonimo, e Pari, con Caldanelle. Inizialmente ai lucrosi affari fioriti lungo questa «Via delle Terme», tra Siena e la Maremma, presero parte anche i Malavolti, ma, alla fine del Trecento, i loro rapporti con il
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I resti della locanda cinquecentesca sorta lungo la «Via delle Terme», presso la quale potevano trovare ristoro i frequentatori del Bagno di Caldanelle. governo cittadino si deteriorarono e il Comune di Siena confiscò loro l’albergo di Caldanelle.
CLIENTI FACOLTOSI In quel frangente, il piano di calpestio dell’edificio fu rialzato con una possente colmata, che giunse a tamponare l’originaria porta di ingresso, messa in luce dallo scavo. Il nuovo edificio continuò a offrire soggiorni termali ad agiati viandanti, come il condottiero Alessandro Sforza, fratello di Francesco, futuro duca di Milano, ospite del Comune di Siena negli anni Trenta del Quattrocento. La gestione dell’albergo era affidata a osti che si tramandavano il mestiere di padre in figlio, tra cui Aldobrandino di Berto, il quale, per prendersi cura dei clienti, acquistò anche una schiava, la «tartara» Zita. Le terme erano divise in due parti: un settore femminile e uno destinato agli uomini, nel quale lo scavo ha portato alla luce il
basamento di una vasca in legno. All’inizio del Cinquecento l’albergo di Caldanelle visse il momento di massimo splendore, quando confluí nel patrimonio di Pandolfo Petrucci, detto il Magnifico, proprio negli anni in cui stava affermando il proprio potere personale su Siena, con il sostegno politico di una élite di uomini d’ingegno, specialisti nelle arti del fuoco e della guerra. Dopo il fallimento del sogno egemonico di Pandolfo e la fine della Repubblica di Siena, il sito mostra solo i segni del passaggio di pastori, che in estate conducevano le greggi sull’Appennino e in inverno le riportavano sui pascoli della Maremma malarica: la tappa obbligata di Caldanelle era un’occasione per sfruttare a scopi veterinari le proprietà terapeutiche e antisettiche dell’antica sorgente. La prossima campagna di scavo inizierà il 28 giugno: gli interessati a partecipare possono scrivere a: info@odysseus2007.it
PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
TOMBAROLI NEI TUNNEL, MA SENZA VIA D’USCITA... LA PIAGA DEL SACCHEGGIO CLANDESTINO NON RISPARMIA POMPEI, DOVE ERA STATO MESSO A PUNTO UN INGEGNOSO SISTEMA, CHE PERMETTEVA AI RAZZIATORI DI ARRIVARE FIN DENTRO LE PIÚ RICCHE DIMORE DELLA CITTÀ VESUVIANA. INDISTURBATI O QUASI, FINO ALL’ARRIVO DEI CARABINIERI...
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er saccheggiare i resti di Pompei, i tombaroli avevano escogitato un trucco: scavavano tunnel segreti a partire dalle cantine o dai garage delle proprie case, dritti fino al cuore della città antica. E cosí rubavano la storia. Ma i Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale (TPC) sono arrivati prima e i ladri di archeologia sono stati colti in flagrante: tre splendidi affreschi pompeiani del I secolo d.C. sono
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stati recuperati prima che fossero venduti ai trafficanti d’arte. Non solo. Grazie alle indagini dei Nuclei TPC di Napoli e di Monza, sono appena tornati «a casa» altri tre affreschi – sempre del I secolo d.C. – trafugati da ville patrizie di Castellammare di Stabia, riconsegnati alla città d’origine il 18 maggio scorso. Per saperne di Civita Giuliana (Pompei). A sinistra, l’imbocco del cunicolo scavato dai tombaroli; in basso, il cantiere di scavo della grande villa suburbana; a destra, il carro nuziale scampato al saccheggio in corso di restauro.
piú abbiamo incontrato il Generale di Brigata Roberto Riccardi, Comandante nazionale di questa unità specializzata. Generale Riccardi, ci vuole raccontare di come avete colto in flagrante i tombaroli e, soprattutto, dei «tunnel» che avevano scavato per raggiungere il sito archeologico di Pompei?
Quadretto ad affresco raffigurante un amorino che suona il flauto traverso. Trafugato da Stabia e recuperato dai Carabinieri del Comando TPC. II sec. d.C.
«I tre strappi d’affresco recuperati provengono dall’area archeologica di Civita Giuliana, a ridosso di Pompei. Qui abbiamo intercettato una nuova rete di tunnel, dalla quale, settimane fa, è stato recuperato l’eccezionale, unico, esemplare di carro pompeiano da cerimonia, una scoperta che ha fatto il giro del mondo (vedi oltre). Ma già nel 2012 il Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri di Napoli aveva individuato cunicoli scavati in quest’area». Ma nel 2020 ecco nuovi tunnel. Tutto inizia da una buca coperta da lamiere, terra e coltivazioni… «Abbiamo intercettato queste gallerie, poi gli scavi clandestini in diretta, quindi colto in flagrante i tombaroli e sequestrato i tre affreschi, già divelti dai muri antichi e pronti per essere esportati. Cosí abbiamo fermato un’organizzazione criminale dedita a scavi clandestini e alla ricettazione di beni archeologici in Italia e all’estero».
Quindi i tombaroli scavavano tunnel direttamente dal salotto di casa fino alle ville antiche? «L’area archeologica è circondata da centri abitati per cui, al limitare del sito di Pompei, ci sono le case moderne: lí i tombaroli scavano gallerie segrete dalle cantine o dai garage delle case private fino al cuore del sito archeologico». Conoscevate già le persone che hanno scavato i cunicoli? «Sí. Sono tombaroli della zona a noi già noti, per cui, quando hanno agito a Pompei, nell’area di Civita Giuliana, li abbiamo intercettati». E da quanto tempo andava avanti il «sacco» di Pompei con questo sistema? «Da non molto. Siamo riusciti a fermarli presto». Il saccheggio è un’attività «di famiglia» per i tombaroli? «Sí, si tratta di un’attività a conduzione familiare. Il tombarolo è considerato un “mestiere”, che si tramanda di padre in figlio.
A Civita Giuliana avevano scavato una galleria che partiva dalla cantina di casa: di notte vi lavorava tutta la famiglia». Con quali modalità operano questi ladri di archeologia? E quali sono i «trucchi» piú ricorrenti? «Dipende dalla regione. In Etruria, per esempio, i tombaroli agiscono in genere in aree isolate di campagna, dove hanno imparato a individuare le tombe antiche perché l’erba vi cresce piú velocemente. A Pompei la situazione è diversa: l’area archeologica è circoscritta, ma, come dicevo poc’anzi, ci sono gli abitati moderni a ridosso, per cui la tecnica usata è quella del tunnel. Quanto accaduto nel 2012, con il trucco della galleria sotterranea, si è ripetuto nel 2020 e 2021». La scoperta di questi cunicoli sotterranei ha dunque portato all’avvio di una campagna di scavo a Civita Giuliana, su richiesta della Procura di Torre Annunziata e a cura del Parco Archeologico di Pompei.
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E gli scavi in una grande villa romana suburbana hanno portato alla scoperta eccezionale del carro di cui dicevamo all’inizio... «Si tratta di un reperto unico, “salvato” prima che arrivassero i tombaroli. È stata una corsa contro il tempo: il carro da cerimonia era pronto per essere venduto. Bellissimo, a quattro ruote, con bardature in ferro e bronzo, decorazioni con amorini, è stato rinvenuto quasi integro nel porticato antistante la stalla dove erano già emersi i resti di tre cavalli. E cosí ne è stato sventato il trafugamento: abbiamo chiuso le aperture dei tunnel a ridosso del parco archeologico e fermato i nuovi ladri, che agivano con stessa tecnica del tunnel del 2012». Poi ci sono altri tre strappi di affreschi pompeiani: ci vuole raccontare? «Provengono da due lussuose residenze patrizie di Stabia, la Villa Arianna, di età augustea, e la Villa San Marco, del II secolo d.C. Su uno è raffigurato un amorino che suona il flauto traverso, su un altro una figura danzante, su un terzo parte di volto femminile con corona di foglie di alloro». E come siete riusciti a recuperarli prima che finissero oltreoceano? «Li abbiamo trovati grazie al controllo di una collezione privata. Abbiamo esaminato la nostra Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti, il piú grande database di opere d’arte rubate al mondo – in tutto 1 milione e 300mila file – e non risultavano schedati. Sarebbero stati trafugati negli anni Settanta dalle due ville stabiane, esportati illecitamente e poi, negli anni Novanta, acquistati da antiquari statunitensi, elvetici e inglesi». A quanto sono stati rivenduti? Quanto può valere sul mercato un affresco pompeiano? «56mila euro, nel caso degli affreschi stabiani, ora nuovamente
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IL RAPPORTO ANNUALE DEL COMANDO TPC
Un calo significativo
È stato appena presentato il rapporto 2020 sull’attività operativa del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Generale Riccardi, quale è stato il trend dei furti d’arte, in questo anno di pandemia? «Abbiamo registrato una flessione di tutti i fenomeni criminali connessi all’arte, un trend comunque costante negli ultimi anni. Nel 2020, in Italia, abbiamo rilevato 24 scavi clandestini, denunciato 68 autori di reati e recuperato 17 503 reperti archeologici. Abbiamo registrato un calo del 17,6% dei traffici illeciti di beni culturali, rispetto al 2019. Ma non è dovuto alla pandemia. È un andamento che rileviamo negli ultimi anni, causato da vari fattori, tra cui l’avvento delle tecnologie, che hanno reso piú efficace il contrasto agli “archeo-traffici”, l’impiego di immagini satellitari, il controllo con droni, elicotteri. A Pompei, per esempio, c’è un sistema di allarme costituito da droni che monitorano l’area archeologica a intervalli regolari, soffermandosi sui punti piú sensibili del perimetro».
Un altro dei quadretti ad affresco trafugati da Stabia. Raffigura una figura danzante. Come gli altri, è stato riconsegnato al Museo Archeologico di Castellammare di Stabia. visibili al Museo Archeologico di Castellammare di Stabia. L’archeologo Domenico Camardo, consulente tecnico dell’Autorità Giudiziaria, ritiene che ci sia stato un “ritocco” con pittura moderna, da parte dei trafficanti, per “abbellire” le opere antiche. Non è cosa infrequente. Gli affreschi sarebbero passati poi tra Stati Uniti, Inghilterra e Svizzera: la ricostruzione è in corso, ci sono passaggi coperti dal segreto d’indagine. Come ho detto, ci ha incuriosito, oltre al pregio dei reperti, il fatto che non fossero presenti nel nostro database. Non erano censiti come opere
rubate. Eppure erano nelle mani di un collezionista, un importante imprenditore. Per valutarne la provenienza abbiamo chiesto la consulenza dell’archeologo, di concerto con la Procura di Milano, che ha individuato esattamente l’origine dei tre affreschi da Villa Arianna e Villa San Marco». Che cosa ha dichiarato la persona che aveva in casa le opere? Sapeva che fossero rubate, o credeva fossero di provenienza lecita? «Questo è ancora da stabilire ed è parte dell’indagine. Ma al momento non posso rivelare altri particolari». Il confine tra lecito e illecito, nel caso di un affresco pompeiano, può essere molto sottile… «Lo scopriremo, l’indagine è ancora aperta. Generalmente i tombaroli hanno una filiera di vendita ben precisa: il “capomaglia” vende ai trafficanti d’arte, i quali costruiscono una documentazione ad hoc per fingere la provenienza lecita dei beni, per poterli esportare e farli viaggiare nel mondo. In tutti questi passaggi c’è chi si preoccupa di far passare per leciti reperti archeologici trafugati. L’unico dato certo, a oggi, è che si tratta di beni appartenenti allo Stato e a tutti i cittadini, per cui in questi giorni ne è stata disposta la restituzione».
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
UN VUOTO DA COLMARE La Caverne delle Arene Candide a Finale Ligure è uno dei piú importanti siti paleolitici a oggi noti e deve la sua notorietà soprattutto alla sepoltura del cosiddetto «Giovane Principe», che oggi rivive grazie a uno spettacolare docu-film (vedi alle pp. 36-57). Un contesto eccezionale, dunque, che però non ha ancora avuto una testimonianza filatelica, al contrario di quanto avvenuto, negli anni, in altri Paesi, che hanno dato ampio risalto ai reperti fossili e ai graffiti rinvenuti in grotte che hanno guadagnato fama internazionale. Già la Spagna, nel 1967, emise una serie di ben 10 valori: tre per i graffiti delle grotte di Santander, sei per quella di Castellon e uno per quelle di Badajoz (1-2). I cugini francesi, per parte loro, hanno emesso francobolli per le celebri grotte di Lascaux (3), per quelle di Niaux (4) e per quelle di Font-de-Gaume (5), ricordate, queste ultime, anche da una flamme di Les Eyzies (6), la cittadina presso la quale sono ubicate. E anche l’Albania ha realizzato 3 valori stampati in un blocco-foglietto con esempi della propria arte rupestre (7). In Italia, per il momento, esistono solo due francobolli che raffigurano grotte, note però per le loro attrattive naturali: quella di Castellana, in provincia di Bari (8), e quella di Frasassi, in provincia di Ancona (9). In qualche raro caso reperti neolitici o preistorici sono raffigurati in annulli utilizzati in occasione di mostre o convegni di studio, come quello di Valdagno (10) per la Mostra filatelica sulla Preistoria, di Lazise, provincia di Verona (11), per il Simposio internazionale sull’età del Bronzo del 1972 e quello di Cavriana, in provincia di Mantova (12), sempre per lo stesso Simposio, ma del 1986. Possiamo infine segnalare due dei cinque annulli realizzati nel 1994 per il Congresso Internazionale di Scienze Preistoriche e Protostoriche tenutosi a Forlí e che riguardano l’Africa (13) e le Americhe (14). Non possiamo che sperare, dunque, che l’eco della riapertura al pubblico della Caverna delle Arene Candide e il clamore suscitato dai recentissimi ritrovamenti di epoca neandertaliana al Monte Circeo ridestino l’interesse per la storia piú antica del nostro Paese.
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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CALENDARIO
AVVISO AI LETTORI Questo Calendario è stato redatto in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19 emanate dalle autorità nazionali e locali. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.
Italia Pompei 79 d.C.
Una storia romana Colosseo prorogata fino al 27.06.21
Napoleone e il mito di Roma
Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 30.05.21
L’eredità di Cesare e la conquista del tempo Musei Capitolini fino al 31.12.21
Piranesi
Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica fino al 16.07.21 (prorogata)
I marmi Torlonia
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 29.06.21
Tota Italia
Alle origini di una Nazione Scuderie del Quirinale fino al 25.07.21
BRESCIA Palcoscenici Archeologici
Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22 (dall’11.06.21)
CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante
Lampadario bronzeo a sedici beccucci.
Classis RavennaMuseo della Città e del Territorio fino al 30.09.21
CORTONA Luci dalle tenebre
dai lumi degli Etruschi ai bagliori di Pompei MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 12.09.21
ESTE Le fiere della vanità L’Arte delle Situle Museo Nazionale Atestino fino al 03.10.21
Colori dei Romani I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.09.21 32 a r c h e o
FIRENZE Imperatrici, matrone, liberte Volti e segreti delle donne romane Galleria degli Uffizi fino al 13.06.21
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Tesori dalle terre d’Etruria
La collezione dei conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.21
MANTOVA La città nascosta
Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22
TORINO Cipro
Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22 (dal 29.06.21)
UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22
MILANO Sotto il cielo di Nut
VENEZIA Massimo Campigli e gli Etruschi
Qhapaq Ñan
Francia
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 30.01.22 La grande strada Inca MUDEC-Museo delle Culture fino al 20.06.21
Una pagana felicità Palazzo Franchetti fino al 30.09.21
LES EYZIES-DE-TAYAC Homo faber
2 milioni di anni di storia della pietra scheggiata, dall’Africa alle porte dell’Europa Musée national de Préhistoire Cranio fossile dell’Uomo di fino al 15.11.21 (dal 26.06.21) Dmanisi (Georgia).
NAPOLI Gladiatori
Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22
ODERZO L’anima delle cose
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 31.10.21
RIETI Strada facendo
Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 10.10.21
TORINO Nel laboratorio dello studioso La statua di Hel Museo Egizio fino al 27.06.21
Liberi di imparare
Esposizione di copie dei reperti del Museo Egizio realizzate nel carcere di Torino Museo Egizio Il Laocoonte nella fino al 18.07.21 Domus Aurea.
Paesi Bassi LEIDA Templi di Malta
Ritratto di Nerone, dall’Italia. 64-68 d.C.
Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.10.21
Regno Unito LONDRA Nerone
L’uomo oltre il mito British Museum fino al 24.10.21
Svizzera BASILEA Di armonia ed estasi
La musica delle civiltà antiche Antikenmuseum fino al 19.09.21 a r c h e o 33
LE TO CI S TT C À A DE N LT A UF O
LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
VIAGGIO NELLE ANTICHE
CITTÀ DEL TUFO PITIGLIANO • SORANO SOVANA • VITOZZA
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Una veduta di Pitigliano (Grosseto), cittadina che si presenta oggi nelle forme assunte soprattutto fra il XV e il XVI sec.
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el lembo di Toscana che confina con il Lazio si conserva un patrimonio unico e spettacolare: sono le Città del Tufo, un nucleo di centri accomunati dall’aver vissuto la propria storia in una costante e felice simbiosi con la pietra che è il nocciolo e l’anima di questa terra, il tufo, appunto. Le vicende di ciascuno di questi insediamenti – Pitigliano, Sovana, Sorano, Vitozza – attraversano i secoli e le testimonianze di questo passato sono oggi mete ricche di fascino. Capillare fu la presenza degli Etruschi, che nella pietra seppero scavare e scolpire monumenti imponenti, dalle «vie cave», che si snodano come canyon tra un sito e l’altro, alle tombe rupestri, decorate da eleganti sculture e maestosi elementi architettonici. E dopo la lunga e importante fase della romanizzazione, altrettanto significativo fu il millennio medievale, nel corso del quale i borghi ebbero ruoli di primo piano negli equilibri politici e sociali e godettero anche di grande notorietà grazie ad alcuni dei loro figli. Come accadde soprattutto a Sovana, che diede i natali al monaco Ildebrando, asceso al soglio pontificio come papa Gregorio VII e destinato a segnare una svolta cruciale nella storia della Chiesa. La nuova Monografia di «Archeo» è dunque l’occasione per conoscere le Città del Tufo, viaggiando in un tempo lungo e denso di avvenimenti, ma, soprattutto, vuol essere un invito a scoprire e visitare un vero e proprio scrigno di tesori.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Paesi di pietra e gole boscose... • PITIGLIANO • La regina della rupe • SORANO • Il paese di pietra • SOVANA • Nella città delle sirene • Ildebrando: da monaco a papa
IN EDICOLA
•V ITOZZA • Nella città fantasma
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PREISTORIA • ARENE CANDIDE
IL RAGAZZO DELLE
ARENE CANDIDE 28 000 ANNI FA UN GIOVANE CACCIATORE MUORE NEI BOSCHI DELLA LIGURIA DI PONENTE. LA SUA È UNA MORTE VIOLENTA, AVVENUTA FORSE PER MANO DI UN UOMO O PER L’AGGRESSIONE DI UN ORSO. VERRÀ SEPOLTO, CON GRANDI ONORI, ALL’INTERNO DI UNA GROTTA NATURALE APERTA NELLA FALESIA. OGGI, UNO SPETTACOLARE DOCU-FILM, PROIETTATO NEL MUSEO ARCHEOLOGICO DEL FINALE, RACCONTA LA VICENDA DI QUEL «GIOVANE PRINCIPE» E DELLA SUA AVVENTUROSA SCOPERTA, AVVENUTA NEL 1942… di Andrea De Pascale, con contributi di Daniele Arobba Sulle due pagine: l’attore e sceneggiatore Andrea Walts nei panni di Luigi Cardini (a sinistra) e in quelli del Giovane Principe delle Arene Candide, in due sequenze del cortometraggio omonimo, che ricostruisce la storia della scoperta e la vita del cacciatore preistorico. A sinistra: l’attrice Sara Zanobbio nei panni dell’archeologa Virginia Chiappella.
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PREISTORIA • ARENE CANDIDE
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a Caverna delle Arene Candide, a Finale Ligure, è un sito archeologico di riferimento per la preistoria europea. L’interesse suscitato da questo «archivio stratigrafico» deriva dal fatto che al suo interno si conserva una sequenza, praticamente ininterrotta, di sedimenti che contengono imponenti tracce della frequentazione umana e delle modificazioni del paesaggio tra il Paleolitico Superiore (35 000 anni fa) e l’età bizantina (VII secolo d.C.). Si tratta della piú articolata e completa stratigrafia archeologica del Mediterraneo, in un contesto ambientale di giacitura estremamente favorevole alla buona conservazione dei reperti. La Caverna delle Arene Candide ha conservato per l’età paleolitica importanti sepolture e numerose sono anche le testimonianze del Neolitico: a 8000 anni fa circa risalgono le piú antiche tracce che si conoscano in tutta l’Italia centrale e settentrionale con resti della cultura della Ceramica Impressa, la prima fase di diffusione della nuova economia produttiva, che, grazie alla domesticazione di piante e animali, si basa sull’agricoltura e l’allevamento. Fondamentali sono i reperti e i dati ottenuti dai livelli della cultura dei Vasi a Bocca Quadrata del Neolitico Medio (5000-4200 a.C.) e quel-
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C’era una volta la duna La duna di sabbia quarzosa, le «arene candide» che diedero il nome alla vicina Caverna – teatro della scoperta del «Giovane Principe» – cosí come appariva in una foto degli anni Venti del secolo scorso, prima della sua asportazione per lavori di cava. Recenti studi hanno evidenziato come la duna si fosse formata in un periodo particolarmente secco e freddo, che potrebbe coincidere con il momento di deposizione e formazione degli strati in cui è stata ritrovata la sepoltura del Principe (28 000 anni fa), vista la presenza in essi di numerosi livelli di quarzo siltoso prodotto del trasporto in sospensione delle particelle fini della duna, che potevano cosí raggiungere l’entrata della grotta.
Due scene del docu-film, girate nel Finalese, in grotte dove è possibile che il Giovane Principe abbia realmente trascorso alcuni momenti della sua vita.
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UN SEGNO DEL DESTINO Le preziose e consistenti informazioni che oggi possediamo sulla storia umana nella Caverna delle Arene Candide provengono da oltre un secolo e mezzo di ricerche condotte da vari studiosi (vedi box in
Orco Feglino AU T DE OST I F RA IO D RI A
li del Neolitico Recente con la cultura di Chassey (4200-3600 a.C.), e ancora i materiali risalenti alle età dei Metalli (3600 a.C.-II secolo a.C.), fino alle ultime fasi di frequentazione di età romana e tardo-antica, per le quali resti di anfore, di ceramica sigillata (un tipo di ceramica da mensa prodotta in età romana e cosí denominata per la presenza del marchio, o «sigillo», del produttore, n.d.r.) e di contenitori in pietra ollare suggeriscono l’uso della caverna come magazzino per derrate alimentari.
Calice Ligure Magliolo
Vezzi Portio
L i g u r i a Calvisio
Perti
Noli
Manie VIA AURELIA
Tovo San Giacomo Giustenice Finalborgo Museo Archeologico del Finale Borgio Verezzi
Spotorno
Varigotti
Finale Ligure Caverna delle Arene Candide
Mar Ligu r e
Pietra Ligure Boissano
In alto: cartina del Finalese, con la localizzazione della Caverna delle Arene Candide. In basso: Arturo Issel, a cui si devono le prime ricerche scientifiche nella
Caverna delle Arene Candide. Nella pagina accanto: il sito nel 1940, prima dell’inizio degli scavi diretti da Luigi Bernabò Brea, che portarono alla scoperta del Giovane Principe.
OLTRE UN SECOLO DI RICERCHE Nel fervido clima scientifico della seconda metà dell’Ottocento, anche sulla scia delle teorie sull’evoluzionismo che Charles Darwin (1809-1882) presentò con il saggio L’origine delle specie (1859), il Finalese – grazie all’elevata presenza di grotte contenenti resti archeologici – divenne un fondamentale punto di riferimento per ricercatori e curiosi che volevano indagare quella che, all’epoca, era definita come «antichità antidiluviana dell’Uomo». La Caverna delle Arene Candide fu il primo sito archeologico preistorico a essere indagato scientificamente nella Liguria di Ponente, dopo i Balzi Rossi di Ventimiglia. Nel giugno del 1864, infatti, il geologo Arturo Issel (1842-1922) avviò le prime ricerche che proseguí per alcuni decenni con diversi scavi. A lui e ad altri studiosi, tra cui don Pietro Deo Gratias Perrando (1817-1889) e Nicolò Morelli (1855-1920), si affiancarono purtroppo clandestini e amateurs che, per l’assenza in quegli anni di stringenti leggi di tutela, portarono a una
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notevole dispersione di reperti in collezioni private e musei sparsi in tutta Europa. Il sito, tuttavia, custodiva ancora una mole formidabile di informazioni e divenne teatro di nuove, clamorose scoperte. Grazie a otto campagne di scavo dirette tra il 1940 e il 1942 e tra il 1948 e il 1950 da Luigi Bernabò Brea (1910-1999), in collaborazione con Luigi Cardini (1898-1971) e Virginia Chiappella (1905-1988), la Caverna delle Arene Candide si è affermata come un riferimento per la preistoria del Mediterraneo occidentale, anche grazie all’applicazione di metodi d’indagine particolarmente rigorosi per l’epoca. Alla scoperta della sepoltura paleolitica del Giovane Principe fece inoltre seguito la rapida e corposa pubblicazione dei risultati degli scavi, in particolare della sequenza neolitica. Nel 1968 Cardini tornò a indagare la sequenza paleolitica, ma la sua prematura morte interruppe le nuove ricerche. La notevole quantità di deposito archeologico ancora conservato nel sito dopo i ripetuti interventi della fine
queste pagine). Fra tutte le scoperte compiute, merita però particolare attenzione – e ha sempre suscitato fascino ed emozione per le sue caratteristiche e per le modalità di rinvenimento – la sepoltura del cosiddetto «Giovane Principe». Nel luglio 1939 venne creata la Soprintendenza alle Antichità della Liguria e a dirigerla fu chiamato Luigi Bernabò Brea, il quale, pur
avendo una formazione in archeologia classica e interessi distanti dalla preistoria, divenne, di lí a poco, un punto di riferimento per la paletnologia italiana e non solo.
SCELTE DECISIVE Al suo acume scientifico si deve la decisione di incentrare le nuove campagne di scavo della Soprintendenza ligure sulle piú antiche fasi
della storia umana in una regione che, già dalla seconda metà del XIX secolo, aveva restituito testimonianze fondamentali. Bernabò Brea programmò quindi una serie di sopralluoghi nel Finalese, area della Liguria di Ponente particolarmente ricca di grotte e ripari sotto roccia, con ampi depositi archeologici preistorici. Il 23 ottobre 1940, accompagnato da Luigi Cardini, dell’Istituto
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
dell’Ottocento e della metà del XX secolo, consentí, tra il 1972 e il 1977, l’avvio di nuove indagini negli strati del Neolitico a opera di Santo Tinè (1927-2010) dell’Università di Genova. Questa volta, lo studio dei reperti ceramici fu accompagnato da piú ampie analisi sui resti antropologici, faunistici, archeobotanici e sedimentologici. Infine, dal 1997, Roberto Maggi ha diretto, per la Soprintendenza della Liguria, nuovi scavi
nei livelli neolitici nel settore nord-orientale della caverna e promosso la revisione dei reperti e dei campioni bioarcheologici degli scavi di Bernabò Brea, ottenendo fondamentali informazioni, contestualmente all’avvio di numerosi studi multidisciplinari, tuttora in corso da parte di università italiane e straniere, e a progetti di valorizzazione e messa in sicurezza del sito. (A.D.P.)
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Italiano di Paleontologia Umana, a cui aveva chiesto supporto, arrivò a Finalmarina, con l’idea di visitare la Grotta Pollera e altri siti nella zona di Perti e nella Valle dell’Aquila. La Caverna delle Arene Candide era stata esclusa dai sopralluoghi, in quanto, rileggendo i numerosi articoli e studi dei ricercatori che nel secolo precedente vi avevano condotto scavi, sembrava certo che le sequenze stratigrafiche fossero state sconvolte da metodi d’indagine ormai superati e non vi fosse quindi nient’altro da scoprire. Ma il destino, a volte, è già scritto…
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Un forte temporale impedí a Bernabò Brea e Cardini, con gli operai al seguito e le autorità locali giunte alla stazione ferroviaria di Finalmarina per accoglierli, di attuare il loro piano. Essendo la Caverna delle Arene Candide la piú vicina, per non perdere la giornata di lavoro, la raggiunsero e, effettuati alcuni sondaggi, si resero immediatamente conto che vi era terreno ancora intatto e ricco di reperti. Si può dunque dire che a decidere l’avvio di nuove indagini fu... un acquazzone. Vennero avviate campagne di scavo che si protrassero fino al 1942
e, dopo l’interruzione imposta dall’aggravarsi della situazione bellica, ulteriori ricerche furono condotte tra il 1948 e il 1950.
Nella pagina accanto, in alto: l’archeologo Luigi Cardini. Nella pagina accanto, in basso: un momento di pausa dei lavori durante gli scavi alle Arene Candide, in una foto di Ginetta Chiappella, che compare al centro del gruppo.
ERA DI MAGGIO... Dall’aprile 1941 a Bernabò Brea e Cardini si affiancò Virginia Chiappella, detta «Ginetta», archeologa la cui figura si rivelò fondamentale non solo nelle ricerche condotte alle Arene Candide, ma anche in altri siti italiani. Alla fine del 1941, Bernabò Brea venne trasferito a Siracusa, alla Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Orientale, che diresse fino al suo pensionamento, nel 1973. Lasciati sul campo i fidi collaboratori, gli scavi nella Caverna delle Arene Candide proseguirono sotto la sua direzione. E, scorrendo i documenti d’archivio, colpisce, in un mondo senza internet e che preci-
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
In alto: l’archeologo Luigi Bernabò Brea. Qui sopra: gli attori del docu-film sul Giovane
Principe rievocano la foto storica scattata da Virginia Chiappella (vedi alla pagina accanto). a r c h e o 43
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pitava nella seconda guerra mondiale, la rapidità con cui i nostri protagonisti si aggiornavano quotidianamente e riuscivano a programmare il prosieguo dei lavori. Dopo avere rinvenuto e documentato numerose sepolture di una necropoli che oggi sappiamo risalire agli ultimi cacciatori-raccoglitori
epigravettiani del Paleolitico Superiore, vissuti tra 13 000 e 11 000 anni fa, Cardini e Chiappella – venerdí 1° maggio 1942 – giunti a 7 m di profondità, fecero una scoperta inaspettata. Dal terreno riemerse lo scheletro, perfettamente conservato, di un individuo inumato con oggetti particolari. Da subito ci si
rese conto dell’eccezionalità del ritrovamento che, per la ricchezza del corredo funebre, venne ribattezzato «Giovane Principe». Subito dopo la scoperta, la sepoltura venne trasportata presso il Museo di Archeologia Ligure di Genova, che tuttora la custodisce, in quanto dal 1932 vigeva una Convenzione tra lo Sulle due pagine: ancora due scene del cortometraggio. In particolare, un’attività fondamentale e quotidiana per i cacciatoriraccoglitori del Paleolitico Superiore era l’accensione del fuoco. Anche il Giovane Principe nel suo ultimo giorno di vita si cimentò quasi certamente in tale pratica.
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IL CORREDO FUNEBRE Ecco i particolari che provano l’eccezionalità della sepoltura del Giovane Principe. 1. La testa era ricoperta da un copricapo ornato da centinaia di piccole conchiglie marine forate e da alcuni canini atrofici di cervo. Una massa di ocra gialla fu rinvenuta in prossimità della mandibola. Secondo Luigi Cardini, avrebbe avuto lo scopo di mascherare gli effetti devastanti della ferita al volto. 2. Tra le conchiglie del copricapo è presente un pendaglio in avorio con sottili incisioni. 3. Sul petto era deposta una collana di conchiglie, tra cui una Ciprea e denti di cervo forati. La Ciprea rappresenta forse un simbolo di fecondità per il suo aspetto evocativo dei genitali femminili. 4. Sulla spalla sinistra e lungo i fianchi vi erano quattro elementi ricavati da palchi d’alce con un foro alla base e decorati da linee incise. È ignota la funzione di questi oggetti, denominati «bastoni forati» o «di comando», diffusi in Europa centrale durante il Paleolitico Superiore ma assenti nel resto della Penisola. 5. La mano destra impugnava una grande lama in selce grigia la cui provenienza è stata individuata nel Vaucluse (Francia meridionale) a piú di 200 km di distanza. Recenti studi indicherebbero una possibile immanicatura in legno o pelle. 6. Accanto al polso sinistro era presente un pendaglio in avorio forato e ornato da linee incise. 7. A lato dei ginocchi, due pendagli, anch’essi in avorio, a forma di 8 e ricavati da un solo frammento di zanna di mammut, sostenevano forse una sorta di calzari. 8. L’ocra rossa su cui era adagiata la sepoltura conferma l’uso rituale di questo colorante naturale nel Paleolitico Superiore. Daniele Arobba 46 a r c h e o
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A destra: il Giovane Principe al termine dello scavo, nel maggio 1942, in una foto di Virginia Chiappella. Si notano alcune grosse pietre poste sui piedi, quasi a voler «bloccare» il defunto. In basso: la scoperta della sepoltura da parte di Luigi Cardini e Virginia Chiappella ricostruita nel docu-film.
Stato e il Comune di Genova, che all’epoca finanziava gli scavi per arricchire le proprie raccolte museali.
LO SCHELETRO ROSSO Il Giovane Principe aveva circa quindici anni di età al momento della morte. Lo rivelano i numerosi
studi compiuti sul suo scheletro, che appare disteso supino e colorato di rosso. Durante la deposizione, infatti, il corpo fu cosparso con ocra rossa, un pigmento naturale derivato da un minerale ferroso (ematite) molto usato nella preistoria e che, a seguito della decomposizione del
cadavere, ne ha impregnato le ossa. La dieta del ragazzo era ricca e comprendeva proteine derivate da carne di animali selvatici, ma anche da pesci e molluschi. Colpisce l’alta statura: avrebbe raggiunto, e forse superato, il metro e ottanta, come accadeva spesso tra le popolazioni
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del Gravettiano, un complesso crono-culturale che si diffuse tra i 30 000 e i 20 000 anni fa dall’odierna Russia al Portogallo. L’analisi biomeccanica delle ossa suggerisce, inoltre, un’elevata attività fisica, con braccia robuste e gambe allenate da sforzi continui e prolungati, dovuti alle pratiche di caccia caratterizzate
dall’uso di strumenti da lancio e da un’alta mobilità sul territorio. Il Giovane Principe era pertanto un individuo forte e sano. La causa della sua morte e il motivo per cui si volle seppellirlo con un corredo composto da numerosi e caratteristici oggetti sono suggeriti da alcune peculiarità (vedi box a p.
A destra: uno dei «bastoni di comando» del Giovane Principe. Si ignora, ancora oggi, il significato delle linee incise sul manufatto.
46). Tra il capo e la spalla sinistra venne deposta una massa di ocra gialla, che forse gli venne addirittura modellata sul volto e fu usata a scopo terapeutico-estetico, per camuffare varie fratture presenti sulla mandibola, sulla scapola e sulla clavicola. Tali indizi permettono di attribuire la causa della morte violenta a un forte impatto, di cui il Giovane Principe fu vittima forse nello scontro con un altro uomo o con un grosso animale, probabilmente un orso, durante una battuta di caccia. Sappiamo, infatti, che questi animali tendono ad aggredire mordendo o sferrando mortali zampate all’altezza del volto e del collo. Non abbiamo certezze sulla struttura sociale delle comunità vissute 48 a r c h e o
In questa pagina e nella pagina accanto, in alto e in basso: sequenze del docu-film relative alla cerimonia di sepoltura del Giovane Principe. Del corredo funebre facevano parte, fra i vari oggetti, i «bastoni di comando» e una grande lama di selce, stretta nella mano destra. a r c h e o 49
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L’ULTIMO VESTITO Il tipo di abbigliamento in uso nel Paleolitico Superiore, all’epoca in cui visse il Giovane Principe, può essere solo ipotizzato sulla base di alcuni elementi, dal momento che non si conoscono, a oggi, chiare raffigurazioni di arte mobiliare o parietale coeve o resti archeologici giunti sino a noi. Volendo proporre una rappresentazione dell’abito funebre del Giovane Principe, si è quindi fatto riferimento, oltre che agli elementi della sepoltura, anche a inumazioni risalenti allo stesso periodo e rinvenute lungo l’arco costiero ligure alla fine dell’Ottocento (Barma Grande ai Balzi Rossi) e in Russia (Sungir), dove, negli anni 1957-64, vennero scoperti individui sepolti con ricchissimi corredi e numerosi accessori, tra cui elementi che certamente facevano parte del vestiario. Nel corso del Gravettiano (30-20 000 anni fa) il clima in Europa era particolarmente rigido, tale, quindi, da giustificare l’adozione di abiti pesanti. Dall’analisi dei dati archeologici e da usanze e contesti etnografici di alcuni secoli fa di popolazioni
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europee vissute in condizioni climatiche simili a quelle instauratesi nel corso dell’acme dell’ultima glaciazione, con temperature medie annuali di 10 °C inferiori a quelle attuali, si è potuto ipotizzare un tipo di abbigliamento che è stato disegnato dapprima in una tavola grafica e poi riprodotto per il docu-film. Con molta probabilità, il vestiario indossato dal Giovane Principe era composto da giacca, pantaloni e calzature realizzati con pelli e pellicce raschiate, trattate e conciate, opportunamente cucite con fili intrecciati di origine vegetale (steli di erbacee o fettucce ricavate dal tessuto floematico di piante arboree) o animale (tendini, strisce di cuoio, capelli). Questi indumenti non si sono conservati in quanto realizzati con materiali organici deperibili, ma è presumibile che, in particolare, sia la giacca che le calzature fossero ornati da bordi in pelliccia e da decorazioni colorate che, insieme a pendagli e altri elementi del corredo, utili per chiudere le vesti, dovevano rendere particolarmente pregevole l’abito. Pur non avendo traccia dei motivi decorativi che impreziosivano il vestito, è ipotizzabile che questi, oltre che una funzione estetica, possedessero anche un significato simbolico e sottolineassero l’appartenenza dell’individuo a un determinato gruppo sociale. (D.A.)
Sulle due pagine: disegno ricostruttivo della sepoltura del Giovane Principe, che evidenzia gli oggetti del corredo e l’ipotesi sull’abbigliamento. A sinistra: un altro particolare del cranio del Giovane Principe, intorno al quale sono state trovate le conchiglie che ornavano il copricapo.
nel Paleolitico Superiore ma, cosí come avviene presso le attuali popolazioni di cacciatori-raccoglitori, è credibile che si trattasse di piccoli gruppi (20-30 individui, fra adulti e bambini), molto uniti ed egualitari, ossia senza gerarchie o distinzioni in base al censo. A dispetto dell’ampia diffusione della cultura gravettiana e della sua continuità per migliaia di anni, le sepolture di queste genti sono assai rare, circa ottanta in tutta Europa. Tale fenomeno sembrerebbe spiega-
bile attraverso un particolare sistema di scelta, in virtú del quale le cerimonie funebri erano riservate solo a una minima parte dei defunti. Il viaggio nell’aldilà era garantito a individui «speciali» in vita o che lo divenivano per le eccezionali cause di morte. Tra l’ottantina di tombe note, sono infatti troppo numerosi i casi di soggetti con deformità scheletriche dovute a rare malattie congenite, o quelli di persone – come il Giovane Principe – morte a causa di atti violenti. È dunque possibile che il rituale funerario venisse praticato proprio per «allontanare» questi avvenimenti straordinari e anomali, che potevano rivelarsi assai difficili da superare per i piccoli gruppi di cacciatori del periodo glaciale. Il Giovane Principe sarebbe stato quindi scelto per via della sua morte violenta e i membri del suo clan
gli vollero assicurare l’immortalità attraverso una ricca sepoltura. Ciò potrebbe spiegare le modalità della deposizione: il capo si presenta ripiegato verso la spalla sinistra e coperto da centinaia di piccole conchiglie marine forate (Cyclope neritea), in origine quasi certamente intrecciate tra loro o cucite su un supporto in pelle o fibra vegetale; il braccio destro è posato sul torace, con la mano a impugnare una grande lama, ricavata da una qualità di selce proveniente da un’area molto distante dal Finalese; completavano l’eccezionale corredo numerosi canini di cervo forati e preziosi pendagli in avorio di mammut, ma, soprattutto, i quattro bastoni forati, ottenuti da palchi d’alce, con enigmatiche decorazioni incise. La funzione di questi ultimi oggetti rimane a tutt’oggi incerta: potrebbe co-
munque trattarsi di strumenti utilizzati per raddrizzare, con l’aiuto del fuoco, i giavellotti in legno destinati alla caccia, piuttosto che di «bastoni di comando», come è stato ipotizzato in passato.
L’ULTIMO GIORNO DI VITA Nel Museo Archeologico del Finale è esposta la riproduzione fedele della sepoltura del Giovane Principe, cosí come venne rinvenuta, il 1° maggio 1942. In questi mesi di forzata chiusura al pubblico, il Museo non ha interrotto le sue attività e, insieme al film maker Alessandro Beltrame e all’attore e sceneggiatore Andrea Walts, lo staff scientifico si è misurato in un’avventura: riportare il ragazzo a correre nei boschi dove 28 000 anni fa era solito muoversi, seguire i suoi ultimi attimi di vita e (segue a p. 54) a r c h e o 51
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IL CLIMA E L’AMBIENTE Recenti studi paleobotanici, avviati per risalire al paesaggio vegetale che doveva essere presente sul territorio durante il periodo di vita del Giovane Principe, hanno fornito interessanti risultati. L’analisi avviata presso il Laboratorio di Archeobotanica del Museo Archeologico del Finale sui piccoli frammenti di carboni lignei provenienti dalla dispersione di materiale legato all’uso del fuoco, recuperati nei livelli del Paleolitico Superiore, ha permesso, infatti, una prima ricostruzione ambientale. I livelli stratigrafici esaminati sono quelli che hanno conservato i resti della cultura gravettiana, compresi tra 30 000 e 25 000 anni fa circa e comprendono quindi anche quelli relativi alla sepoltura del Giovane Principe, datata con radiocarbonio a 28 363±375 anni fa. Le entità prevalenti appartengono a conifere di ambiente montano (soprattutto pino di tipo silvestre e, in sottordine, ginepro), mentre risultano sporadiche le latifoglie e le tipiche piante mediterranee con scarse attestazioni di arbusti pionieri amanti di ambienti soleggiati (tra cui efedra distachia, pruno di tipo spinoso e leguminose). Ci troviamo, del resto, in una fase fredda, prossimi al culmine dell’ultima grande glaciazione e il clima doveva essere caratterizzato da un’elevata variabilità con periodi rigidi (eventi di
Resti biologici dai livelli del Giovane Principe: a. carbone di pino tipo silvestre/mugo (sezione trasversale e longitudinale radiale); b. coprolite di iena delle caverne (Crocuta crocuta spelaea); c. polline bisaccato di pino tipo silvestre. d. polline di efedra distachia. e. polline di graminacea selvatica. f. polline di assenzio. 52 a r c h e o
Un’altra scena del docu-film, nella quale il Giovane Principe punta il suo giavellotto per difendersi.
Heinrich) intervallati a brevi episodi piú miti. Tutta la geografia europea – e quindi anche il paesaggio finalese – dovevano essere molto diversi rispetto alla situazione odierna. In particolare, la linea di costa, per effetto della glaciazione in atto, era scesa di circa 120 m e la Caverna delle Arene Candide, che oggi si trova a poche decine di metri dal mare, aveva di fronte una striscia di terra emersa pianeggiante di circa 3-5 km di larghezza, che permetteva ai cacciatori-raccoglitori facili spostamenti in senso est-ovest lungo un ampio cordone litoraneo tirrenico-provenzale. Questa situazione di freddo-secco si traduceva, proprio grazie a quanto ricostruito anche attraverso l’analisi pollinica di escrementi fossili (coproliti) di iena delle caverne (Crocuta crocuta spelaea) rinvenuti negli stessi livelli, in un paesaggio a bassa copertura arborea e di steppe erbacee a prevalenza di graminacee e altre piante, tra cui l’assenzio. Le temperature medie del periodo erano scese considerevolmente alle nostre latitudini e, per dare meglio l’idea, si pensi che oggi il Mar Ligure in estate ha una temperatura di circa 26 °C, mentre 28 000 anni fa doveva essere di circa 15 °C, cioè quella che si riscontra ora in pieno inverno. Il docu-film sul Giovane Principe è stato realizzato tenendo conto anche di queste considerazioni affinché fosse aderente al clima e al paesaggio vegetale dell’epoca, che ritrovano una loro coerente giustificazione nel pesante indumento indossato dal nostro personaggio e nel panorama innevato in cui si svolgono le scene di caccia. (D. A.)
Il bosco innevato che fa da sfondo ad alcune sequenze del docu-film, per evocare i rigidi climi del periodo in cui il Giovane Principe visse. a r c h e o 53
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ripercorrere l’emozionante momento della scoperta dell’eccezionale sepoltura che gli venne riservata e che lo ha consegnato alla storia. È nato cosí il cortometraggio Il Giovane Principe delle Arene Candide – visibile nel percorso espositivo del
Museo Archeologico del Finale – che si apre con i due archeologi, Luigi Cardini e Virginia Chiappella, i quali, all’interno della caverna, vengono chiamati dagli operai e militari, che collaborano alle ricerche, poiché dal terreno sta riemer-
LA CAVERNA E IL MUSEO: ISTRUZIONI PER LA VISITA Dal luglio 2019 la Caverna delle Arene Candide è regolarmente aperta al pubblico, con la possibilità di accedervi accompagnati da archeologi professionisti per scoprirne storia, curiosità e segreti. Attraverso un percorso che permette di effettuare un viaggio indietro nel tempo, da oggi fino a circa 35 000 anni fa, si possono ripercorrere le avvincenti ricerche qui condotte in oltre 150 anni. Le visite si svolgono, per piccoli gruppi, su prenotazione secondo un calendario programmato dal Museo Archeologico del Finale. La valorizzazione della grotta rientra in un «Protocollo d’intesa» sottoscritto tra la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Imperia e Savona e il Comune di Finale Ligure che ha assegnato la gestione al Museo Archeologico del Finale attraverso la Sezione Finalese dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri. Allestito negli scenografici spazi del quattrocentesco Complesso Monumentale di S. Caterina in Finalborgo, il Museo Archeologico del Finale permette di scoprire, attraverso reperti archeologici, ricostruzioni,
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gendo qualcosa di particolare. Le immagini riportano quindi lo spettatore a 28 000 anni fa e lo proiettano in un paesaggio boschivo e innevato. Compare il Giovane Principe e una voce fuori campo, il suo pensiero, ci accompagna nel suo
ultimo giorno di vita. È un cacciatore e si muove, con rapidità e circospezione, tra falesie e grotte, nel suggestivo territorio che caratterizza il Finalese. Si ferma, si riposa, accende il fuoco, si nutre. Il protagonista conduce la sua ricerca per
trovare il pericolo che minaccia la sua gente. Lui è il prescelto, ma lo scontro sarà fatale… Un nuovo salto temporale ci fa tornare tra gli archeologi che, increduli, analizzano meglio il contenuto della sepoltura appena scoperta. So-
prattutto un oggetto, il cosiddetto «bastone di comando», dall’enigmatico significato, colpisce l’attenzione di Luigi Cardini e lo emoziona particolarmente, perché «la consapevolezza di aver vissuto con la propria anima vite precedenti è un privile-
ambientazioni scenografiche e postazioni multimediali, le caratteristiche del Finalese dalla preistoria fino ai giorni nostri. In dieci sale espositive si scoprono i resti lasciati 350 000 anni fa da Homo heidelbergensis, seguite dalle fondamentali testimonianze dell’Uomo di Neandertal e poi, da 38 000 anni fa circa, quelle di Homo sapiens, la specie a cui noi tutti apparteniamo. Partendo dal Paleolitico, attraverso il Mesolitico, il Neolitico, le età dei Metalli e ancora la romanizzazione del territorio e le successive epoche medievale e moderna, si compie un emozionante cammino a ritroso nella millenaria storia di questo angolo della Liguria di Ponente. Il Museo propone inoltre un ricco calendario di attività rivolto in particolare ai bambini, ma non solo, attraverso i LaDAS-Laboratori Didattici di Archeologia Sperimentale, e coinvolgenti percorsi «Archeotrekking» per visitare siti e monumenti da cui provengono i reperti esposti. Informazioni e prenotazioni: tel. 019 690020; www.museoarcheofinale.it; www.mudifinale.com Sulle due pagine: visite guidate alla Caverna delle Arene Candide. I gruppi vengono sempre accompagnati da archeologi professionisti.
gio di pochi fortunati». Quella che a prima vista poteva sembrare una collaborazione azzardata si è invece trasformata in un’operazione di alta divulgazione. Alla ricostruzione dell’ultimo giorno di vita del cacciatore paleolitico si sovrappone – come accennato – l’intrigante ricostruzione della scoperta archeologica della sepoltura. Due appassionanti racconti di vita quotidiana che si intrecciano e diventano storia.
L’IMPORTANZA DELL’AMBIENTAZIONE Il docu-film si pone obiettivi ambiziosi, sia narrativi che tecnici, iniziando dalla volontà di ambientare le scene principali nei luoghi in cui le vicende narrate si sono realmente a r c h e o 55
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L’allestimento dedicato al Giovane Principe della Caverna delle Arene Candide nella sala del Paleolitico Superiore nel Museo Archeologico del Finale.
svolte, cioè i boschi e le grotte del Finalese. Il risultato finale è un autentico balzo indietro nel tempo di quasi 30 000 anni. Ciò è stato possibile grazie alle capacità tecniche del gruppo di produzione e all’uso intelligente delle opportunità offerte dalle nuove attrezzature digitali, che, seppure leggere e veloci, consentono un’alta qualità cinematografica. A questo si aggiunge la capacità narrativa di un attore duttile, che riesce a passare 56 a r c h e o
dall’interpretazione di un giovane preistorico a quella di un colto archeologo moderno. Fin dall’ideazione del prodotto e durante tutte le fasi di ripresa – e successivamente nel montaggio finale – la presenza di archeologi e specialisti di preistoria è stata costante. Senza nulla togliere alla componente emozionale del film, che è fondamentale in questi casi, ci si è impegnati per garantire la massima scientificità. Si voleva del resto evi-
tare di creare un film in cui l’effetto finale fosse grottesco, con stereotipi sui «cavernicoli», imprecisioni o ingenuità. Si è pertanto lavorato molto per ricostruire e verificare ogni dettaglio, dall’abito indossato dal Giovane Principe (vedi box a p. 50), alle riproduzioni degli oggetti trovati nella sepoltura e ad altri manufatti che poteva avere utilizzato negli ultimi istanti di vita. Fondamentali, oltre alle molte analisi e agli studi condotti nel corso di
PER SAPERNE DI PIÚ
decenni sulla sepoltura e sul contesto di rinvenimento, si sono rivelati i documenti d’archivio e, in particolare, le fotografie scattate da Virginia Chiappella al momento della scoperta, conservate presso la Soprintendenza di Genova. Il Giovane Principe è cosí riemerso dal passato per diventare il testimonial del Finalese, un territorio unico nel panorama europeo per la ricchezza del patrimonio archeologico, paesaggistico e naturalistico.
Oltre alla collaborazione del Ministero della Cultura-Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Imperia e Savona, il cortometraggio Il Giovane Principe delle Arene Candide ha potuto avvalersi del patrocinio dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria e della Genova Liguria Film Commission, con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo, attraverso il progetto MUDIF-Museo Diffuso del Finale.
La Guida del Museo Archeologico del Finale dedicata al Paleolitico racconta l’eccezionale sequenza delle piú remote culture testimoniate nel territorio finalese, mentre quella su La Caverna delle Arene Candide. Un archivio della preistoria mediterranea permette di approfondire, con testi e ampi apparati iconografici, le informazioni sul sito di ritrovamento della sepoltura del Giovane Principe. È inoltre apparso di recente il volume La piú antica storia dell’uomo nel Finale. Grotte, insediamenti e scoperte tra Paleolitico ed Età del Ferro, che illustra, soprattutto attraverso suggestive foto a colori, caverne, siti all’aperto, paesaggi e reperti che consentono di ripercorrere le vicende del popolamento del Finalese tra 350 000 anni fa (Paleolitico Inferiore) e la fine della protostoria (180 a.C.), evidenziando gli aspetti piú significativi delle testimonianze pervenute. a r c h e o 57
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L’INTERVISTA • MULTIMEDIALITÀ
«VEDERE» IL PASSATO
DI FRONTE AI RESTI DI UN ANTICO MONUMENTO È SPESSO DIFFICILE IMMAGINARNE L’ASPETTO ORIGINALE. E SE UNA VOLTA SI CERCAVA DI OVVIARE CON DISEGNI RICOSTRUTTIVI E INTERVENTI DI RESTAURO SPESSO ASSAI «LIBERI», ADESSO, GRAZIE ALL’EVOLUZIONE DELLE TECNOLOGIE, SI POSSONO OTTENERE RAPPRESENTAZIONI VIRTUALI SÍ, MA DECISAMENTE PIÚ VICINE ALLA REALTÀ incontro con Alessandro Furlan, a cura di Lorella Cecilia
A
ltair4 Multimedia è il nome della «bottega d’arte» di Alessandro Furlan, Pietro Galifi e Stefano Moretti, i tre soci fondatori, che trent’anni fa ebbero l’intuizione di sperimentare la ricostruzione virtuale e multimediale in ambito storico e archeologico. Oggi le attività di questo laboratorio sono molteplici e spaziano dalle ricostruzioni ai restauri virtuali, dalle video produzioni per la TV («Ulisse» di Alberto Angela), alle applicazioni in realtà aumentata per la visita di luoghi e musei (la mostra «Pompei» al Grand Palais di Parigi e le animazioni grafiche per le ultime mostre al Museo Archeologico Nazionale di Napoli).
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In alto: i siti illustrati dalla mostra virtuale ArcheoMed3D posizionati sulla Tabula Rogeriana di Al-Idrisi. A sinistra: Alessandro Furlan, uno dei fondatori di Altair4 Multimedia.
Ma c’è molto altro ancora, come si può capire curiosando nel loro sito (www.altair4.it) e come ci racconta Alessandro Furlan, regista e producer di Altair4, che incontriamo di ritorno dalle «terre» del Montefeltro, nelle Marche, dove ha filmato e fotografato un territorio ancora inI pannelli di contaminato (di cui mi mostra ArcheoMed3D alcune immagini bellissime) per dedicati al Crac dei una web app di prossima realizzaCavalieri (Siria), ai zione sui Paesaggi di Piero della templi di File (Egitto) Francesca e di Leonardo. e all’antica città di Baalbek (Libano).
♦ Alessandro, abbiamo iniziato Ciascun pannello è a lavorare negli stessi anni: associato al QR noi di «Archeo» mostravamo Code che permette gli scavi e i siti archeologici di visitare la relativa attraverso le foto, le planisezione della metrie, i disegni, mentre voi mostra virtuale. di Altair4 sperimentavate il multimediale ricostruendo abitati, teatri, anfiteatri. Noi, per usare il vostro linguaggio, eravamo «il com’è», voi, «il com’era» dell’archeologia. Negli anni Novanta, quando ho visto i primi lavori di ricostruzione virtuale nello studio di Roma, ho pensato che gli archeologi sarebbero stati i vostri giudici piú severi… «Gli studiosi, invece, sono stati ben presto i nostri piú assidui fan e sostenitori, visto che finalmente “vedevano” le ricostruzioni fino ad allora solo sognate e immaginate... e i nostri lavori sono sempre stati eseguiti in collaborazione con le diverse figure professionali del mondo scientifico, che spesso sono i nostri stessi committenti
(come per esempio l’Università di Tokyo, per la quale abbiamo eseguito ipotesi restitutive nei loro vari scavi in Italia a Tarquinia, Pompei e Somma Vesuviana)». ♦ Nel 1994, quando ancora di digitale non si parlava, avete realizzato il primo virtual tour di Pompei, per raccontare la storia della città vesuviana e ne avete proposto la ricostruzione degli isolati e delle case in 3D. Prodotto dalla DeAgostini, che ne ha finanziato la realizzazione, ha avuto un grande successo di pubblico ed è stato riedito fino al Duemila… «Il sistema interattivo Pompei Virtual Tour era assolutamente innovativo visto che proponeva uno “Street View” immersivo e dinamico (come l’attuale di Google Street... solo con vent’anni di anticipo su Google...) per tutte le strade della Pompei antica (anche quelle chiuse al pubblico), nonché panoramiche immersive a 360° (con sovrapposizione oggi/ieri) di tutti gli incroci della città vesuviana». a r c h e o 61
L’INTERVISTA • MULTIMEDIALITÀ
♦ Che cosa è cambiato da allora? Le ricostruzioni in 3D possono oggi concorrere alla documentazione di uno scavo archeologico, o alla valorizzazione di un sito? «È cambiato tutto, ma noi eravamo pronti e avevamo già maturato una notevole esperienza nell’ambito delle ricostruzioni virtuali in 3D. Inoltre, il mondo intero si stava spostando verso la visualizzazione virtuale e acquisiva maggiore dimestichezza con gli strumenti tecnologici e con le modalità di accesso e fruizione, cosa che adesso ci sembra naturale. Il nostro lavoro era ormai considerato dal mondo scientifico come un valore aggiunto, inoltre noi stessi avevamo le competenze necessarie per interpretare i dati, venendo da una formazione umanistica (i miei soci sono architetti). Posso dire che la tecnologia è stata lo strumento ultimo del nostro operare e non il punto di partenza, come spesso succede se al computer siedono altre figure professionali. Inoltre, oggi è piú facile comunicare con gli archeologi che fanno abitualmente uso di strumenti come Cad e scanner 3D». ♦ Le ricostruzioni in 3D concorrono dunque alla documentazione di uno scavo
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archeologico o di un restauro virtuale e possono precederlo e contribuire alla ricerca di fondi… «Certamente e cito qui un case history per noi molto importante: l’esperienza sviluppata con l’Università di Tokyo, che risale ormai a circa vent’anni fa, nella cosiddetta Villa di Augusto, a Somma Vesuviana, in Campania. In questa dimora, già negli anni Trenta, gli Italiani avevano condotto alcuni saggi, ma mai era stato avviato uno scavo vero e proprio, perché la presenza di lapilli, e non di pomice, richiedeva finanziamenti ingenti. Poi l’archeologo Masanori Aoyagi riuscí ad avere un piccolo budget dall’Università di Tokyo e per lui abbiamo realizzato i “Quaderni di Scavo” in 3D, lavorando con un team multidisciplinare per arrivare all’ipotesi ricostruttiva piú convincente della villa. A quel punto il professor Aoyagi è tornato in Giappone con la ricostruzione virtuale e ha ottenuto da uno sponsor (l’editore Asahi Shimbun) un finanziamento che gli ha permesso di eseguire una campagna di scavo di 5 anni, utilizzando strumenti di alta tecnologia (una seconda campagna di scavo, in sinergia con l’Università degli Studi di Napoli
“Suor Orsola Benincasa”, è stata avviata nel settem- ♦ Presentiamo in queste pagine un lavoro che ti sta bre del 2020, n.d.r.)». molto a cuore e che avete realizzato nel 2018 per il Ministero degli affari Esteri. Mi riferisco alla mostra ArcheoMed3D che si avvale della cura ♦ Oggi il restauro virtuale è scientifica dell’archeologo francese Vincent Joliuna pratica diffusa e ha un vet. Perché è cosí importante? pregio indiscusso: non fa «ArcheoMed3D è una mostra realizzata interamente in danni… «Il restauro virtuale è reversibile digitale 3D (3D Virtual Digital Exhibition), promossa dal non invasivo e può essere utile, Ministero degli Affari Esteri italiano e dedicata a una selezione di siti archeologici dell’area mediterranea e della penisola Arabica, classificati dall’UNESCO, dal 1978, nella lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità. Per riflettere la diversità storica di questa vasta area e la ricchezza della sua mescolanza di culture e civiltà, sono stati scelti 16 siti, con l’obiettivo di valorizzare e condividere queste straordinarie testimonianze del passato. La mostra utilizza, in primo luogo, le risorse digitali, dando prova di come le nuove tecnologie possano contribuire Altri pannelli alla sensibilizzazione nei con- interattivi e QR Code fronti del nostro patrimonio su alcune delle comune. Per ogni sito sono sta- località illustrate da ti realizzati pannelli interattivi ArcheoMed3D. con testi, video e realtà aumen- Il progetto è stato tata in 3D disponibili in italia- sviluppato al fine di no, francese inglese, arabo, ma far conoscere la predisposti per l’implementa- storia di siti zione in altre lingue. archeologici inseriti Lo sfondo cromatico di ciascun dall’UNESCO nella pannello evoca il colore delle lista del Patrimonio pietre o quello, piú generale, di dell’Umanità. ogni sito o monumento, in modo da trasmettere meglio l’essenza e la materialità di questi tesori. Partendo dall’Italia, la mostra si snoda lungo un itinerario ideale che costeggia tutto il Mediterraneo, dalle montagne del Marocco all’Algeria e alla come ho detto, per la ricerca dei fondi necessari al restauro vero e proprio. Il restauro virtuale funziona come un grande puzzle: per esempio, sempre a Pompei, nella Casa di Giulio Polibio, i colori e gli elementi architettonici o decorativi sono stati clonati sulla base delle persistenze e riapplicati sulle pareti da ricostruire. E anche qui abbiamo lavorato consultandoci con vulcanologi e paleobotanici, che ci hanno fornito dati importanti sulle stratificazioni e anche sulle aree “a verde” della casa, che siamo riusciti a ricostruire partendo dai buchi delle radici delle diverse piante». a r c h e o 63
L’INTERVISTA • MULTIMEDIALITÀ
Tunisia, approdando in Libia prima di raggiungere la Turchia, la Siria, il Libano e la Giordania fino all’Egitto, per poi ridiscendere idealmente lungo il Golfo Arabico, raggiungere Bahrein e quindi salpare ad Al Ain, negli Emirati Arabi Uniti. La mostra intende avere un’ampia diffusione, a titolo gratuito, in diversi ambienti culturali, oltre che sul web e sugli smartphone, attraverso la rete mondiale del Ministero degli Affari Esteri Italiano. Speriamo di poter contribuire cosí, in primis grazie al prezioso lavoro dell’UNESCO, a una migliore comprensione di questo straordinario patrimonio comune e a una piú profonda conoscenza delle inestimabili lezioni del passato. Inoltre, durante la presentazione della mostra negli Istituti di Cultura italiana di vari Paesi del Mediterraneo e del mondo arabo, la richiesta è stata di vedere piú patrimonio archeologico d’Italia e cosí il Ministero ha 64 a r c h e o
creato una piattaforma ad hoc, Archeo3D Italia, dedicata esclusivamente ai siti del nostro Paese inseriti nella lista Patrimonio UNESCO. Nel 2020, poi, nei mesi dell’epidemia e del lockdown, abbiamo declinato ArcheoMed3D in versione completamente virtuale, cosí da permetterne la fruizione on line». Inquadrando i QR Code inseriti accanto ai pannelli è possibile visualizzare le relative sezioni di ArcheoMed3D.
♦ Ora stai lavorando al progetto di una piattaforma dal nome Imago Muse che si realizzerà grazie al sostegno di Invitalia Cultura Crea... «Sí, lo scopo è quello di offrire sulla piattaforma, Imago Muse, una valorizzazione dei siti archeologici del Sud Italia – mi riferisco a parchi, aree archeologiche e musei – attraverso l’animazione grafica 3D, oltre alla documentazione classica (testi, foto, ecc.). Offriamo a queste diverse e bellissime realtà del nostro Meridione, capitanate dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, la possibilità di pubblicare, senza alcun impegno economico, immagini, testi, video, e, allo stesso tempo, offriremo gli strumenti per creare delle risorse economiche, coadiuvando la realizzazione di cataloghi, book shop, mostre digitali, ecc.».
celebre guida dello storico editore, Vision, che ne depositò il brevetto negli anni Cinquanta, e il cui nome appare oggi associato a quello di Altair4 Multimedia, che firma, invece, le nuove immagini in 3D da sovrapporre, e offre un QR Code per vedere sullo schermo del telefonino le stesse ricostruzioni in realtà aumentata. Anche i lettori di «Archeo» potranno, attraverso i QR Code pubblicati in queste pagine (attivabili da smartphone, tablet o altri device dotati di fotocamera), visualizzare le videoclip in computer-grafica 3D presenti nella mostra ArcheoMed3D.
La mostra ArcheoMed3D nasce dalla collaborazione tra Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Ambasciatore: Vincenzo De Luca; Ambasciatore: Roberto Vellano; Min. Plp.: Giuseppe Pastorelli; Coordinatore d’Area Ci salutiamo e Alessandro Furlan mi fa omaggio di un e Direttore IIC: Maria Luisa Pappalardo; Direttore IIC: libro, Roma Antica, con i testi a cura di Romolo A. Raffaello Barbieri) e Altair4 Multimedia (Alessandro Furlan: Staccioli e con le pagine in plastica sovrapponibili ideazione e progetto; Vincent Jolivet: testi; Pietro alle foto odierne dei monumenti che ne mostrano la Galifi C.G.: ricostruzione con la didascalia e la scritta: «Passato e 3D; Stefano Mopresente». Il volumetto altro non è che il remake di una retti: C.G. 3D). a r c h e o 65
LUOGHI DEL SACRO/6
LA SIGNORA DEL
PROMONTORIO
UNA SOLITARIA COLONNA BIANCA SI STAGLIA SUL BLU INTENSO DEL MARE: ASSIEME AI RESTI CIRCOSTANTI DI ALTRI EDIFICI MESSI IN LUCE DAGLI ARCHEOLOGI, È QUANTO EMERGE, OGGI, DELL’ANTICO SANTUARIO DI HERA LACINIA, UNO DEI PIÚ MAESTOSI E FREQUENTATI LUOGHI DI CULTO DEL MEDITERRANEO, VOLUTO DAI CROTONIATI PER LA DEA PROTETTRICE DELLA LORO CITTÀ a cura di Giovanna De Sensi Sestito, con testi di Gregorio Aversa, Giovanna De Sensi Sestito, Maria Letizia Lazzarini e Roberto Spadea
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I
l santuario di Hera Lacinia era il piú importante della Magna Grecia, ancora piú famoso della stessa Crotone a detta dello storico latino Tito Livio (XXIV 3,3). Sorgeva a 12 km circa dalla città, sulla punta del promontorio Lacinio, un terrazzo marino proteso nel Mare Ionio, oggi denominato Capo Colonna per l’unica colonna superstite. A questo primo promontorio, molto pronunciato, fanno seguito, formando un mezzo arco, gli attuali Capo Cimiti, Capo Rizzuto e Le Castella, che lo storico greco Eforo chiamava «promontori Iapigi», a indicare
fin dove si era proiettata verso sud questa popolazione dell’Apulia (Eforo fr. 150 Jacoby in Strabone Geografia VI 1,11-12). La configurazione di questo tratto di costa, oggi tutelato come Area Marina Protetta, richiamava al poeta ellenistico Licofrone le corna di cervo (Alessandra, v. 865), a Plinio il Vecchio una foglia di quercia (Storia naturale III 96). L’etimologia del nome Lacinio potrebbe risalire al verbo greco lakízo (lacero) o al sostantivo latino lacinia (frangia, orlo), come ora ripropone Gregorio Aversa. Il mito però ne lega il nome al re/brigante Lacinio,
signore del luogo in cui si sarebbe fermato Eracle con i buoi di Gerione, che stava conducendo dall’Iberia nel Peloponneso attraverso l’Italia.Violando l’ospitalità, Lacinio aveva tentato di rubargliene alcuni, ma Eracle lo aveva sorpreso e ucciso, togliendo la vita anche all’incolpevole Crotone (Diodoro Siculo, IV 24,7). Con baie adatte a fornire un approdo sicuro, al riparo dai venti, il promontorio rappresentava un riferimento obbligato per quanti navigassero lungo lo Ionio.Tracce protostoriche in aree circostanti, come frammenti micenei da Capo Cimiti,
Veduta del promontorio Lacinio, presso Crotone, con l’unica colonna superstite del tempio di Hera Lacinia, da cui il sito ha tratto la denominazione di Capo Colonna.
a r c h e o 67
LUOGHI DEL SACRO/6 S A N N I T I A P Luceria U L I R I P I Canosa N o Capua ni I Venusia C A M PA Pe u c e z i N I Cuma ME Neapolis L U Pithecusa S S A P I Brundisium C A N Taranto I
s
Paestum
68 a r c h e o
Iapig
Enotri
Velia
Eraclea
Metaponto
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Mar Tirreno
Terina Hipponion Lipari Medma Mylae Zancle
Panormo Erice Solunto Segesta Imera Elimi MoziaS icani S I C U L I
Selinunte
Leuka
Cro C Crot roton tone tone Crotone Skylletion
Kaulonia Locri Epizefiri
Mar Ionio
Reggio Nasso Colonie greche
Catania
Agrigento
i
Ugento
Sibari
Siti preromani
Gela
coloniale, e forse primo luogo dell’incontro/scontro con gli indigeni, adombrato nella vicenda di Eracle e Lacinio. Sotto la protezione di Hera furono poste anche la città nascente e tutte le terre circostanti, aree coltivabili, radure e boschi, sacralizzando i confini con luoghi di culto a lei dedicati, sia sul versante settentrionale montano, sulla via di accesso al selvoso massiccio della Sila, nell’area di Cotronei, sia sul confine mer idionale dei pianori del Marchesato, in località Sant’Anna di Cutro. Delle terre e del mare limitrofi garantiva ai Croto-
Eracle fondatore e la dea poliade Questo statere argenteo, battuto nell’ultimo quarto del V sec. a.C., celebra la pacificazione politica interna con il rimpatrio degli esuli, espulsi dopo l’incendio dei circoli pitagorici alla metà del V sec. a.C
Mare Adriatico
u
LA DEA «ARMATA» Gli Achei che avevano affrontato il mare, guidati dal fondatore Miscello di Ripe e dall’oracolo di Apollo Pizio, avevano posto la riuscita dell’iniziativa sotto la protezione dell’Hera argiva, divinità preminente in patria e, all’arrivo, le consacrarono anzitutto il principale segnacolo della loro méta, il promontorio Lacinio, possibile primo approdo nei viaggi esplorativi che avevano preceduto e preparato la spedizione
A destra: cartina con colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia. Secondo la tradizione, Crotone venne fondata alla fine dell’VIII sec. a.C. dagli Achei, guidati da Miscello di Ripe. Nella pagina accanto, in alto: testa marmorea femminile dalla decorazione del Tempio A del santuario.
A
lo rivelano luogo d’incontro tra naviganti e indigeni per scambi di beni sotto una generica protezione divina. La tradizione su Eracle e Lacinio inquadra nell’ideologia religiosa greca la sacralizzazione del promontorio, che da luogo di sosta dell’eroe divino diviene teatro di una rottura violenta e di una ricomposizione dell’ordine violato, con l’annuncio di una realtà nuova: dopo gli onori funebri resi a Crotone, Eracle promette la futura creazione di una grande città con questo nome. Un’altra tradizione (Servio, Commento a Virgilio, Eneide III 552) aggiunge che, per espiare l’uccisione di Lacinio, Eracle avrebbe fondato il tempio per Hera che ne portava l’epiteto. La struttura mitica del disordine risolto con un nuovo ordine divino e umano fatto di culti e norme di vita civile – analoga, secondo lo storico Maurizio Giangiulio, ai miti di fondazione degli altri templi extraurbani di Hera ad Argo, a Corinto e a Sparta – dava fondamento al culto di Hera Lacinia come divinità poliade di Crotone, e ne riconduceva l’origine all’azione di Eracle.
(Polibio, II, 39). La moneta mostra, al dritto, Eracle seduto su roccia, con leonté e clava, e leggenda OIKISTAS (fondatore); al rovescio, il tripode con Apollo che saetta il serpente Python e leggenda KROTON.
Siracusa
Enotri Popoli italici alla data del 500 a.C. circa
SICULI
Popoli italici nel IV-III secolo a.C.
niati il legittimo possesso e la difesa la dea sovrana del Lacinio, definita Hoplosmía, «armata», da Licofrone (Alessandra 857-58). Questo epiteto, condiviso con l’Hera di Argo e dell’Elide, rivela un tratto molto arcaico del suo culto. Come dea armata, suo attributo specifico era lo scudo. In piedi su uno scudo con una melagrana in mano, nelle vesti di sacerdote di Hera, era raffigurato il famoso pugile Milone nella statua vista da Pausania (VI 14,56) a Olimpia. Una sua statua ci sarà stata anche al Lacinio, come c’era
LA VESTE DI NOSSIDE La famosa poetessa locrese Nosside, vissuta verso la fine del IV secolo a.C. e considerata la «Saffo d’Occidente», ricorda di aver fatto dono alla dea del Lacinio di una raffinata veste di bisso: «Hera onorata, che spesso venendo dal cielo guardi l’odoroso promontorio Lacinio, accogli la veste di bisso tessuta da Teofili di
Cléoca con la nobile figlia Nosside» (Antologia Palatina, VI, 265). L’epigramma apre uno squarcio sulle consuetudini religiose magno-greche, sulle attività di tessitura praticate anche dalle donne dell’aristocrazia e sulla singolare trasmissione matrilineare della nobiltà a Locri. (G.D.S.)
quella dell’olimpionico Astilo, distrutta quando tradí la patria gareggiando come siracusano. Vincitore in ben sette olimpiadi, Milone, armato di clava e rivestito di pelle di leone come Eracle, aveva poi guidato gli opliti alla vittoria sulle schiere di Sibari nel 510 a.C. (Diodoro Siculo, XII 9,5-6). In Milone si coglie la relazione privilegiata tra Hera ed Eracle a Crotone, ascritta alle piú antiche memorie identitarie della città, di cui l’eroe era considerato il fondatore mitico. L’epiteto Hoplosmía suggerisce che, come nel Peloponneso, in una celebrazione in onore di Hera trovasse posto il rito di passaggio dall’efebia alla condizione di opliti dei giovani crotoniati, incaricati della difesa della polis sotto la tutela della dea e dell’eroe fondatore, garanti entrambi della sovranità, del valore militare e del potere politico. Sfera peculiare di Hera, sposa fedele di Zeus, era il matrimonio, l’unione legittima, fondamento e garanzia di continuità della famiglia e di stabilità della polis; ciò implicava
la protezione sulle principali fasi della vita della donna: crescita, nozze, parto, allevamento della prole. In quanto dea principale della città, essa era anche kourotróphos, protettrice dei giovani dalla nascita all’età adulta.Tra i vari doni legati al mondo femminile, le si addicevano in particolare vesti e mantelli, intessuti da donne per l’annuale festa solenne (panégyris) in suo onore, come in tutti i santuari di divinità femminili, oppure consacrati in circostanze particolari. Per questi doni la traccia è solo letteraria.
Un altro statere argenteo, battuto all’inizio del IV sec. a.C., quando Crotone era a capo della Lega italiota. Al dritto, la testa di Hera Lacinia; al rovescio, Eracle disteso su roccia con leonté e clava, intorno leggenda KROTONIATAN.
MODESTIA E TEMPERANZA Dopo il suo arrivo a Crotone verso il 530 a.C., Pitagora avrebbe esortato gli uomini a perseguire le virtú civiche, ricordando che la città era stata
fondata da Eracle, e raccomandato alle donne, riunite nel tempio di Hera, di coltivare modestia e temperanza e di bandire il lusso, col consiglio, subito attuato, di consacrare alla dea vesti e gioielli preziosi (Giustino, XX 4, 8-12; Giamblico, Vita pitagorica 54-6). La festa solenne di Hera richiamava devoti da varie città che non mancavano di portarle doni. Tra essi era oggetto di meraviglia per i visitatori il mantello offerto alla dea in una di queste celebrazioni nel VI secolo a.C. da Alcistene, facoltoso cittadino della prima Sibari, famosa per il lusso smodato. Un secolo e mezzo piú tardi il mantello finí nelle mani del tiranno di Siracusa Dionisio il Vecchio, quando conquistò Crotone e lo cedette ai Cartaginesi per ben 120 talenti. Era di porpora, di ampie dimensioni, coperto da ricami che raffiguravano al centro in alto e in basso le città persiane di Susa e di Persepoli, in mezzo le divinità dell’Olimpo – Zeus, Hera, Temi, Atena, Apollo e Afrodite –, sui due lembi laterali la città di Sibari e lo stesso Alcistene (ps.-Aristotele, Racconti meravigliosi 96). Per il suo carattere sovraregionale, il santuario di Hera ebbe anche la a r c h e o 69
LUOGHI DEL SACRO/6
LA LIBERATRICE, L’ATLETA E IL DAMIURGO Che il santuario sul promontorio Lacinio fosse dedicato a Hera risulta anche da vari testi iscritti rinvenuti nell’area sacra. Il piú antico è un frammento di coppa attica (metà del VI secolo a.C.) che conserva il solo nome della divinità. Il pezzo piú interessante è il cippo di pietra a forma trapezoidale, di poco piú recente, di cui si conserva la parte superiore con l’iscrizione «di Hera Eleuthería (Liberatrice)». Eretto a delimitazione dell’area santuariale consacrata alla divinità, il cippo allude a una delle principali funzioni della dea, la tutela della libertà personale. Trova cosí conferma quanto tramandato da Plutarco, che l’Heraion del Lacinio godeva, insieme a quelli di Argo e di Samo, del privilegio di essere asylon, cioè «inviolabile» e di garantire l’incolumità e la libertà personale a chi vi si fosse rifugiato. Non per nulla la stessa area sacra ha restituito frammenti di lamine bronzee databili al V secolo a.C. che potrebbero
appartenere a manomissioni (affrancamento) di schiavi. L’epiteto Eleuthería ricorre anche in un’altra iscrizione del V secolo a.C. incisa su un piccolo vaso marmoreo dedicato nel santuario. Altre iscrizioni attestano l’epiteto di Lakinía, tratto dal nome del promontorio su cui sorgeva l’area sacra. L’epiteto compare in un’iscrizione frammentaria su lamina bronzea del IV secolo a.C. che termina con l’espressione «sia di Hera Lacinia», e nel testo iscritto sul fianco di una lucerna di bronzo del I secolo a.C., che reca una sintetica espressione di dedica «a Hera Lacinia». Infine, un’ara marmorea databile intorno al 100 d.C. decorata con ghirlande e bucrani, reca nella faccia anteriore un’epigrafe latina costituita da una dedica a Hera Lacinia (Herae Laciniae sacrum) apposta da un lib(ertus) proc(urator) per la salute di Marciana, sorella dell’imperatore Traiano. Riguardano invece altre divinità due importanti epigrafi rinvenute in zone Tabella bronzea con nomi propri preceduti da sigle evidenziate da punti. Inizi del V sec. a.C.
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vicine all’area sacra a Hera. Di particolare interesse è una mezza àncora in pietra utilizzata come cippo iscritto, rinvenuta nei pressi di Capo Cimiti, che reca un’iscrizione greca databile agli inizi del V secolo a.C., incisa verticalmente dall’alto verso il basso su due facce contigue. Sulla principale si legge il nome della divinità a cui il cippo è stato dedicato: «di Zeus Meilichios»; sulla faccia laterale è invece il nome del dedicante: «Phayllos pose». In questo personaggio va senz’altro riconosciuto il famoso atleta crotoniate, tre volte vincitore nei giochi pitici (due volte nel pentathlon e una nello stadio), che comandò la nave con cui i Crotoniati, unici fra i Greci d’Occidente, combatterono contro i Persiani nella battaglia di Salamina. Quanto al destinatario della dedica, Meilichios è divinità del mondo infero e un’etimologia popolare riferisce il suo nome al miele; quindi, con finalità propiziatoria, era interpretato come «il dolce, il benigno». Spesso, come nel nostro caso, veniva associato a Zeus come suo epiteto. Data la tipologia dell’ex voto, la dedica venne fatta, con ogni probabilità, in seguito al buon esito di un importante viaggio in mare. Destinatario di una dedica
sul promontorio Lacinio è anche Apollo. Una lamina bronzea frammentaria iscritta, databile alla metà del V secolo a.C., frutto di rinvenimento non ufficiale a 1 km circa dal tempio di Hera e nota solo attraverso un disegno, reca la dedica di un ignoto personaggio ad Apollo, in adempimento di un voto fatto dalla madre. Quello qui menzionato potrebbe essere l’Apollo di Delfi, al quale rimandano le tradizioni sulla fondazione di Crotone su indicazione dell’oracolo delfico, la consultazione del dio da parte dei Crotoniati in momenti chiave della loro storia, la scelta del tripode come emblema delle monete cittadine, la frequente partecipazione di atleti crotoniati ai giochi pitici, l’importanza del culto di Apollo Pizio nell’ambiente pitagorico. Il santuario del Lacinio ha infine restituito anche iscrizioni di carattere ufficiale, e ciò dimostra la sua centralità nella vita pubblica della città. Presso il tempio di Hera,
come presso il santuario di Zeus a Locri, dovevano essere custoditi ed esposti documenti di carattere pubblico o documenti di carattere privato di cui le magistrature cittadine si facevano garanti. Non è da escludere che qui fosse collocato anche l’archivio della città. Il piú antico di questa tipologia di documenti restituito dal Lacinio è un frammento di tabella bronzea databile agli inizi del V secolo a.C. di consistente spessore e con lettere profondamente incise. Contiene nomi propri preceduti da sigle evidenziate da punti, che indicano l’appartenenza dei personaggi menzionati a ripartizioni civiche ufficiali, secondo un sistema attestato nelle colonie achee, ma anche in altre città della Magna Grecia. All’estremità orientale del promontorio sono stati rinvenuti altri documenti. Al IV secolo a.C. appartiene una lamina bronzea iscritta frammentaria, con la registrazione di un’operazione finanziaria effettuata in un determinato anno deducibile dall’espressione iniziale «sotto il damiurgo…». L’epigrafe attesta dunque che nella Crotone del IV secolo a.C. il magistrato che dava il nome all’anno era il damiurgo («colui che opera a favore del
popolo»). Altri frammenti bronzei iscritti sono del III secolo a.C.; sei fanno parte dello stesso testo, un decreto a favore di un personaggio benemerito al quale la città concede l’onore della corona. È l’unico decreto dell’antica Kroton finora noto. L’ultimo, databile alla stessa epoca, contiene l’inizio di un altro documento pubblico, con l’espressione «sotto il sacerdote Meg…». In questa epigrafe non si fa piú ricorso al damiurgo ma allo hiareus per datare gli ignoti eventi citati nel testo, un mutamento dovuto a crisi interne o a diversità di contingenze politiche del periodo. Maria Letizia Lazzarini
Nella pagina accanto, in alto: la parte superiore di un cippo di pietra con l’iscrizione «di Hera Eleuthería (Liberatrice)» incisa su due righe, scritte verticalmente dall’alto verso il basso. Seconda metà del VI sec. a.C. In basso: ara marmorea con dedica a Hera Lacinia (Herae Laciniae sacrum) apposta da un lib(ertus) proc(urator) per la salute di Marciana, sorella dell’imperatore Traiano. 100 d.C. circa.
funzione di sede federale della Lega Italiota, fino a quando la diresse Crotone (379 a.C.). Le riunioni dei delegati delle città italiote si tenevano appunto al Lacinio durante le panegirie. Favoriva questa funzione «internazionale» la collocazione extraurbana del santuario sul promontorio, facile da raggiungere sia per mare che per terra. La descrizione piú articolata dell’ampio spazio consacrato è quella di Tito Livio, che fa conoscere anche aspetti molto arcaici del suo culto: «Un bosco sacro, isolato da una folta foresta e da alti abeti, chiudeva nel mezzo fertili pascoli, dove pasceva senza pastori ogni specie di animali consacrati alla dea, e gli armenti delle varie specie la notte rientravano in gruppi separati alle stalle, mai insidiati né dalle fiere né dagli uomini. Grande era il reddito che si traeva da quel bestiame, e con quello fu eretta e consacrata una colonna d’oro massiccio, sí che il tempio era famoso non solo per la sua sacralità ma anche per la ricchezza» (XXIV 3,3-8). Al Lacinio consacrati alla dea non erano solo i buoi, come implica l’epiteto omerico boiópis («dagli occhi di bue»), ma varie specie di animali allo stato brado e la vegetazione spontanea della foresta e del bosco sacro. Sono i tratti di una dea signora del mondo animale e vegetale, propiziatrice della fecondità e della crescita di tutti gli esseri viventi. La sua capacità di assicurare frutti copiosi in ogni ambito era espressa dal suo attributo ricorrente, la melagrana dai moltissimi semi sanguigni, simbolo di morte e di vita.
IL LAMENTO PER L’EROE Nella sua funzione materna rientrava la protezione dei giovani da morti premature, tanto delle fanciulle per parto (anche per questo invocata «liberatrice»), quanto dei giovani in guerra. Un rito permanente si celebrava al Lacinio per il piú valoroso degli eroi morti a Troia, il Pelide Achille: un lamento fua r c h e o 71
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nebre delle donne del posto in abiti dimessi e prive di ornamenti. Lo ricorda Licofrone, narrando che il promontorio con un meraviglioso «giardino» (képos) pieno di fiori e alberi da frutto era stato un «dono della dea alla dea», cioè della nereide Teti, madre di Achille a Hera (Alessandra, vv. 856-65). Il rituale funebre del Lacinio ne era il contraccambio, per lenire il dolore inconsolabile di Teti, da Hera allevata e avviata alle nozze con Peleo. Il culto eroico di Achille aveva radici profonde nel patrimonio mitico dei Crotoniati e lo alimentavano le
razione e divenne un canone della bellezza ideale. Si favoleggiava che, per poterne rendere l’ineguagliabile perfezione, il pittore avesse utilizzato come modelle ben cinque tra le piú belle ragazze di Crotone (Cicerone, Sull’invenzione II 1; Plinio, XXXV 36).
TRA I BRETTII E ANNIBALE Il rapporto con le popolazioni indigene della regione circostante aveva trovato la sua rappresentazione mitica nella vicenda di Eracle e Lacinio, e il santuario della dea era sempre stato il luogo privilegiato
dei processi di interazione culturale tra Greci e non Greci. Del resto la figura di Eracle, l’eroe del contatto tra genti diverse, era centrale nell’orizzonte religioso indigeno e gli Enotri confinanti con Crotone riconoscevano come mitico fondatore delle loro città Filottete, depositario delle armi di Eracle, arco e clava, consacrate nel santuario di Apollo Aleo a Crimisa, l’attuale Cirò. Eracle era rimasto eroe divino di riferimento anche per i Brettii (Bruzi), che dalla metà del IV secolo a.C. avevano preso possesso delle antiche sedi degli Enotri.
LE TERRECOTTE ARCHITETTONICHE ricorrenti vittorie degli atleti crotoniati nelle gare di corsa a Olimpia (Strabone, VI 1,12), dove le donne dell’Elide, nel giorno inaugurale delle olimpiadi, intonavano un lamento funebre analogo per Achille (Pausania,VI 23,3). Non si sa se altri riti femminili del Lacinio riguardassero Elena, che una tradizione locale molto antica faceva diventare sposa di Achille nell’«isola bianca» (o isola dei beati) alle foci del Danubio, dove l’aveva incontrata lo stratega crotoniate Leonimo (Pausania, III 19,11-13). Certo nel santuario c’era spazio anche per Elena e la sua immagine dipinta dal famoso pittore Zeusi di Eraclea (seconda metà del V secolo a.C.) era oggetto di grande ammi72 a r c h e o
Nel 1910 Paolo Orsi rinvenne numerosi frammenti di terrecotte architettoniche policrome. La serie presente nel locale Museo Archeologico comprende numerosi esemplari di varie tipologie e in piú varianti. Si tratta per lo piú di sime grondaie a testa leonina a cui vanno associati coronamenti a catene di palmette e fiori di loto inquadrabili tra il secondo quarto del V e il primo quarto del IV secolo a.C. Nel profilo delle modanature mostrano di uniformarsi alla sagoma delle cornici marmoree e del
Essi si impadronirono di Crotone e del Lacinio solo durante la seconda guerra punica, quando abbandonarono i Romani per schierarsi con Annibale (212 a.C.). Negli anni finali della guerra il generale cartaginese si ritirò nella regione dei Brettii e scelse come quartier generale il promontorio, dove si sentiva tra l’altro sotto la protezione del suo nume tutelare Melqart, equiparato all’Eracle greco, e di Hera/Astarte. Livio racconta che quando si trovò a corto di risorse, Annibale pensò di ricorrere alla famosa colonna d’oro, ma lo scrupolo religioso prevalse e
con l’oro già asportato dedicò alla dea una piccola vacca; e inoltre che, durante una forzata pausa bellica, fece incidere su una stele di bronzo in caratteri greci e punici il racconto delle sue imprese. Lo scrupolo religioso non trattenne invece Annibale dall’uccidere nello spazio sacro del Lacinio migliaia di soldati brettii che si erano rifiutati di imbarcarsi con lui, prima di lasciare il promontorio e l’Italia per tornare a Cartagine, dove sarebbe stato sconfitto da Scipione l’Africano (202 a.C.) Giovanna De Sensi Sestito
I PRIMI SCAVI Nella geografia della Calabria, tra il Golfo di Taranto e punta Stilo, il promontorio di Capo Colonna ha destato e desta sempre forti emozioni, con l’unica, solitaria colonna dorica protesa sul mare, sovrastata a sud dal faro dalla Marina Militare, impiantato alla fine dell’Ottocento. Il santuario, il tempio, le sue ricchezze erano famosi in tutta la Magna Grecia, ma, come accade in buona parte delle aree santuariali antiche, fu progressivamente spogliato nel corso dei secoli: pietra e marmo furono utilizzati per nuove
Disegno ricostruttivo di una catena floreale in rilievo pubblicato da Paolo Orsi nel 1911.
grande acroterio floreale del tetto del tempio classico, frutto dell’attività di una bottega che già prima operava in loco con una certa continuità. Altri tipi di terrecotte architettoniche sono infatti databili sin dalla prima metà del VI secolo a.C. Si tratta di tetti dalle fogge piú varie, creazioni locali alcuni, derivanti da prototipi sicelioti e greco-orientali altri. In particolare si segnalano lastre con anthemia a
rilievo di tipo samio, messe in evidenza dall’archeologo Mauro Cristofani e databili in anni di poco anteriori alla realizzazione del tempio classico. La reiterazione di elementi floreali, combinati con i piú canonici gocciolatoi a testa leonina, sembra da associare all’importanza che la vegetazione aveva sul promontorio, connotato dal giardino sacro, dono di Teti a Hera Lacinia secondo il mito. Gregorio Aversa
Nella pagina accanto: frammenti di sime grondaie con protomi in forma di testa leonina. V-IV sec. a.C. A destra: ricostruzione grafica di una sima grondaia con protome leonina.
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In alto: un tratto della cinta muraria al cui interno è compreso il santuario. Il circuito delimitava anche l’abitato della colonia romana realizzata sullo stesso sito nel 194 a.C.
costruzioni a Crotone (Castello e molo del porto vecchio), dediche e materiali furono a piú riprese oggetto di razzie dai predoni che percorrevano il Mediterraneo. Di questi v’è ancora traccia nelle fornaci per la cottura dei marmi che ornavano il grande tempio e gli altri monumenti, e la situazione che si trovò davanti la spedizione del grande archeologo Paolo Orsi, il 31 marzo del 1910, è cosí da lui stesso sintetizzata: «Piú che di una desolata ruina presentava l’aspetto di una cava di pietra esaurita, dalla quale si fosse tratto quanto era stato possibile». Cominciava allora la prima campagna di scavo di Orsi, Soprintendente in Calabria tra la fine del XIX secolo e il 1925. Fermo a Locri per le malattie reumatiche che lo afflissero sempre, affidò gli scavi con precise direttive a Claudio Ricca, 74 a r c h e o
assistente della Soprintendenza. Lo studioso roveretano sperava di fare luce su quanto ancora si conservava del poderoso tempio classico, nascosto con altri resti monumentali da erba e cespugli, dove pascolavano le mandrie dei latifondisti, signori assoluti del promontorio. Tuttavia i risultati furono inferiori alle attese. Trinceroni lunghi e profondi attestavano massicce operazioni di spoglio ai danni della peristasi del tempio; dappertutto si rintracciavano frammenti delle grandi tegole di marmo della copertura che il censore Fulvio Flacco aveva
razziato nel 173 a.C. e poi riportato senza riuscire a ricollocarle. Delle decorazioni furono raccolte numerose terrecotte architettoniche, e pochi, ma rilevanti frammenti di sculture in marmo di Paro e di doni votivi (anathemata), quali statuette femminili in terracotta con le mani che toccano i seni, parte della decorazione di bacini (perirrhanteria). Nella parte nord-orientale del promontorio comparvero gli avanzi di un piccolo edificio di età ro-
mano-repubblicana, un balneum, di cui sarebbero stati messi in luce alcuni ambienti, uno dei quali caratterizzato da un bel mosaico con motivo a rombo e delfini. Sulla cornice un’iscrizione musiva ricordava i duoviri che avevano curato la costruzione dell’impianto: Lucilius Macer e T. Annaeus Thraso. La campagna del 1910 si chiuse tra delusioni e speranze, ma, soprattutto, con la certezza che, ove fosse stata intrapresa una seria ricerca, non si
A destra: planimetria del santuario di Hera Lacinia, con l’indicazione delle strutture individuate: K. katagogion; H. hestiatorion; B. edificio B; A. tempio classico; S. strada sacra. In basso: veduta aerea dell’area archeologica di Capo Colonna.
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sarebbe potuto fare a meno di espropriare i terreni, tenendo conto che le famiglie dei maggiorenti avevano frapposto non pochi ostacoli. Tra Paolo Orsi e gli anni Cinquanta le attenzioni si concentrarono sulla superstite colonna protesa verso il Mare Ionio. Già nel 1911 Orsi aveva affermato: «Ma la radice del male era allora ed è tuttodí al piede
della scarpata, che si sarebbe dovuta chiudere con una scogliera colossale (…) il pericolo permane tuttora, anzi ogni giorno si accresce ed è certo che a lungo andare tra qualche secolo l’ultimo avanzo dell’Heraeum sparirà». La pendenza della colonna, penultima del fronte orientale, ché l’ultima era crollata nel terremoto del 1638, destava e
In questa pagina: restituzione grafica del tempio di Hera Lacinia, che ne mostra la fronte e il prospetto laterale. Datato al secondo venticinquennio del V sec. a.C., si tratta di uno dei piú antichi esempi magno-greci di edificio
sacro provvisto di decorazioni frontonali marmoree. Nella pagina accanto: l’unica colonna superstite del tempio di Hera, rimasto integro fino al XVI sec., prima che ne cominciasse la spoliazione.
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desta sempre timore, al di là del fatto che l’inclinazione sia stata parte del progetto originario. Fu realizzato un grande dado di cemento per sorreggere il monumento: una soluzione improvvida, che cancellava la lettura storica originaria e la colonna restò come una candela su un basamento in cemento. Il quadro che è possibile cogliere nelle riprese fotografiche del tempo è desolante. Roberto Spadea
IL MUSEO E IL PARCO ARCHEOLOGICO Aperto al pubblico nel 2006, il Museo e Parco archeologico nazionale di Capo Colonna nasce in seguito all’acquisizione da parte dello Stato di buona parte delle aree e degli immobili posti sull’estrema punta del promontorio denominato Capo Colonna che si trova nel territorio comunale di Crotone a 12 km circa dalla città. Al termine di una delle ultime campagne (1999-2004) è stato attuato il progetto per la realizzazione del Parco archeologico e la costruzione di un apposito museo al suo interno. Le collezioni esposte derivano dagli scavi effettuati nel corso del tempo sul sito. Il complesso costituisce una vasta area di valore paesaggistico sottoposta a vincolo diretto e indiretto d’interesse storico archeologico. In esso ricadono anche un’antica torre seicentesca, il faro di competenza della Marina Militare e la piccola
QUASI COME UN CANDELIERE SUL MARE... Alta complessivamente m 8,35 e composta da un fusto di otto rocchi sovrapposti (diametro inferiore 1,68 m, diametro superiore 1,29 m), scolpita, come i blocchi del basamento, nella locale calcarenite conchiglifera, la colonna dorica di Capo Colonna è, oggi, l’unica superstite del grande tempio classico dedicato a Hera Lacinia, che si conservava quasi integro sino a quando nel XVI secolo cominciarono le spoliazioni del sito. Essa è la penultima verso nord del fronte orientale esastilo (con sei colonne) del tempio. Lo stilobate (piano d’appoggio delle colonne) presenta indizi di una voluta pendenza rispetto all’asse verticale della colonna (cm 2,55 rispetto al piano orizzontale) e di una sua leggera inclinazione (cm 11,1) verso la retrostante cella (parte interna del tempio). Tali accorgimenti, riprova di una grande raffinatezza architettonica,
chiesetta dedicata al culto di Maria SS. di Capocolonne, meta, nella terza domenica di maggio, di una grande processione di pellegrini, che raggiungono a piedi, nel corso della notte, il santuario mariano, partendo intorno alla mezzanotte dal Duomo di Crotone. L’allestimento del museo propone un percorso espositivo, articolato in tre sezioni, all’interno di ampie sale open space, disposte su un unico piano, privo di barriere architettoniche. La prima sezione è dedicata all’abi-
servivano a correggere le divergenze che si sarebbero verificate, a livello ottico, se le sagome delle colonne fossero state perfettamente verticali. Per Dieter Mertens, eminente studioso di architettura antica, la curvatura del capitello richiama produzioni siceliote del secondo quarto del V secolo a.C., come l’Athenáion di Siracusa. Nel 2003 è stato aperto un cantiere di restauro con la consulenza dell’Istituto Centrale del Restauro e di altri valenti professionisti. Sono state condotte analisi preliminari presso i piú accreditati laboratori italiani, realizzati mappe tematiche e un fotomosaico. L’intervento di restauro è stato leggero e sono stati collocati numerosi sensori a controllo della colonna e del basamento collegati ad appositi monitor per la conservazione del monumento. Roberto Spadea
tato romano. Le vetrine e gli spazi espositivi propongono le principali classi ceramiche e alcuni oggetti di uso comune per le necessità quotidiane. La seconda sezione illustra il santuario di Hera Lacinia, con specifici approfondimenti dedicati all’edificio B e all’organizzazione architettonica del grande tempio della dea. La terza è una sezione di archeologia subacquea, in cui si presentano rinvenimenti avvenuti nel mare circostante. Importante è il relitto di Punta Scifo, residuo di una
grande nave da trasporto di cui è stata recuperata buona parte del carico di marmi semilavorati e destinati ad arricchire a Roma proprietà imperiali. Crotone dispone in città di un’altra importante struttura espositiva: il Museo Archeologico Nazionale. Esso ne illustra la storia attraverso materiale proveniente dai numerosi interventi di archeologia urbana effettuati dalla locale Soprintendenza ed è derivato nel 1968 dal preesistente Museo Civico, sorto tra a r c h e o 77
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XIX e XX secolo grazie a raccolte di materiali formate da latifondisti locali (marchesi Armando Lucifero e Filippo Eugenio Albani, barone Nicola Sculco), che recuperavano reperti archeologici soprattutto durante le attività agricole all’interno dei terreni di loro proprietà.
TOPOGRAFIA DELL’AREA SACRA I resti dell’antico santuario greco sono compresi all’interno di una possente cinta muraria con torri e porta monumentale di accesso, che delimitava anche l’abitato della colonia romana realizzata sullo stesso sito nel 194 a.C. Costruita non come muro di delimitazione dell’area sacra (temenos), bensí per proteggere l’intera punta estrema del promontorio divenuta con i Romani un centro abitato fortificato, la cinta muraria è da inquadrare tra il 30 e il 20 a.C. In origine fu probabilmente concepita per sostituire un agger (terrapieno) con palizzate lignee, eretto nella fase di fondazione della colonia romana. La porta del tipo detto «a tenaglia», con copertura voltata a tutto sesto, era difesa da una torre quadrata di rinfianco, protesa in avanti. Tracce di altre due torri quadrate sono poste sempre lungo il tratto occidentale del perimetro murario. La grande Via Sacra (hierà odòs) che, nell’ultimo tratto del suo percorso, attraversava il temenos di Hera Lacinia per un cospicuo tratto (58 m circa di lunghezza per una larghezza di 8,50 m) è stata scoperta fra il 1988 e il 1990. Doveva essere stata tracciata nel primo venticinquennio del V secolo a.C., durante l’ultima fase di vita dell’Edificio B, addossato all’ultimo tratto della strada, di cui riprende l’andamento, allorché un grande vigore urbanistico rivitalizzò la città di Kroton, riflettendosi anche nel suo piú importante santuario extraurbano. Il successivo abitato romano rispettò il tracciato della strada processionale, unifor78 a r c h e o
mando a essa l’orientamento del suo reticolo viario, ma disponendo la sua poderosa cinta muraria, secondo un nuovo assetto. Ancora da risolvere è il problema della terminazione della strada verso est, dalla parte del mare, dove essa doveva concludersi in una zona prossima alla facciata orientale dell’Heráion, punto di arrivo delle processioni legate alle grandi feste.
100 KLÍNAI PER I BANCHETTANTI Il cosiddetto Edificio H venne innalzato accanto ai propilei d’ingresso. Di forma quasi quadrata (26,30 x 29 m), fu realizzato in opera quadrata con blocchi di calcarenite. Presenta un cortile centrale, porticato (peristilio), e rispetta l’orientamento del grande tempio dorico classico di Hera Lacinia (cosiddetto Tempio A). La struttura presentava, probabilmente, due accessi sul lato settentr ionale che conducevano, tramite brevi disimpegni, al peristilio interno, costituito da colonne in legno. I quattordici vani, disposti simmetricamente attorno al peristilio centrale, sono tutti di forma quadrata e di eguali dimensioni (4,74 x 4,75 m). L’ubicazione fuori asse della porta di accesso a ciascun vano permetteva di posizionare in ogni stanza sette letti per banchetto (klínai). All’interno dell’edificio potevano essere collocate novantotto klínai, per consumare i pasti alla maniera greca, in posizione semidistesa, con il torso appoggiato sul braccio sinistro. Questo
tipo di costruzione greca era denominato oíkos hekatontáklinos, ovvero «casa per cento klínai». Strutture analoghe presenti in altri santuari ellenici (per esempio il cosiddetto Edificio Ovest dell’Heráion di Argo) consentono di riconoscere nell’Edificio H un luogo per banchetti (hestiatórion), destinazione confermata dai numerosi frammenti di ceramica da mensa e da cucina rinvenuti nel corso degli scavi. Sulle due pagine: bronzetti provenienti dagli scavi condotti nell’Edificio B del santuario, ascrivibili alle grandi scuole di bronzistica attive nello scorcio del VI sec. a.C. in Grecia. Si riconoscono le rappresentazioni di una gorgone e di un cavallo (nella pagina accanto) e, qui sotto, quella di una sfinge.
Sul lato sinistro della Via Sacra, immediatamente dopo la porta «a tenaglia» nelle mura di cinta romane, si trovano i resti di un altro grande edificio pubblico (38 x 34 m) a pianta centrale con cortile porticato (peristilio), convenzionalmente denominato Edificio K, con orientamento divergente rispetto al vicino Edificio H, ma allineato alla Via Sacra e all’Edificio B. Esso è circondato, sui lati meridionale e orientale, da un portico a L, abbellito con colonne di ordine dorico, e costituiva il raccordo, a sud, con la Via Sacra e, a est, con la piazza antistante l’area dei templi. L’accesso all’Edificio K avveniva dal lato della Via Sacra, attraverso un passaggio che affacciava sul portico meridionale e immetteva, tramite un largo disimpegno, nel peristilio interno. Quest’ultimo presentava colonne di ordine dorico molto piú curate rispetto a quelle esterne, con rivestimento in finissimo stucco bianco. Il cortile interno era circondato, su ogni lato, da ambienti a pianta quadrata, talvolta raccordati tra loro. Nella concezione generale, l’Edificio K richiama il Leonidáion di Olimpia, albergo fatto costruire da Leonida di Sparta, nell’ultimo quarto del IV secolo a.C., per ospitare le delegazioni giunte nel santuario panellenico per assistere ai giochi e alle feste. Il confronto planimetrico consente di riconoscere una funzione analoga per l’edificio crotoniate, anch’esso identificato come katagógion (albergo per personaggi di rango). Nell’area del peristilio sono stati recuperati numerosi spezzoni di colonne e capitelli, il cui crollo si suppone avvenuto in seguito a un terremoto, intorno alla metà del III secolo d.C. a r c h e o 79
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Nei pressi dell’Edificio B, con perfetto orientamento est-ovest, s’innalzava in tutta la sua maestosità il tempio dorico (Tempio A), di cui sono oggi visibili i resti di una colonna dell’elevato e parte delle fondazioni dell’intero monumento. Datato al secondo venticinquennio del V secolo a.C., esso rappresenta uno dei piú antichi esempi magnogreci di edificio sacro con decorazioni frontonali marmoree. Era un tempio periptero e – secondo Giorgio Rocco, eminente studioso di architettura antica – doveva presentare quattordici colonne
sui lati lunghi e sei su quelli corti, per un’estensione totale di 59 x 24 m. La cella (naos) era preceduta dal pronaos a est e dall’opistodomos a ovest. L’enorme tempio, non dissimile da illustri modelli (come l’Athenaion di Siracusa o il tempio di Zeus a Olimpia e di Apollo a Delfi), era stato costruito intagliando, in parte, il banco roccioso naturale, cosí da realizzarvi le fosse per le lunghe fondazioni in cui inserire i blocchi di calcarenite, provenienti da cave della zona, che costituirono il crepidoma, composto da dieci livelli sovrapposti, su cui sorse l’edi-
ficio templare. Confermano il pregio architettonico dell’edificio la squisita fattura della ricca e fastosa copertura e le sue decorazioni frontonali, tutte realizzate in marmo greco (pario e pentelico). Tipologia e qualità delle decorazioni rimandano a maestranze cicladiche, attive anche in Sicilia. Gregorio Aversa
UNA SCOPERTA DECISIVA Era il 1987 quando si avviò una campagna di scavo nella fascia immediatamente a nord del grande tempio classico (A). Tolti pochi
LA STATUA INCORONATA La corona (stéphanos) in oro, proveniente dall’Edificio B e databile al 530-500 a.C., si compone di una lamina lunga 37 cm e alta 5, per un peso di 122, 5 gr. Nella parte mediana una decorazione a treccia è ottenuta a metallo battuto e definita a cesello. La fascia rettangolare con l’inserzione del motivo a treccia è disegnata da una grossa linea a rilievo. Lo sviluppo costituisce un complesso armonico di linee che ha la chiave del suo
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equilibrio proprio nella semplicità del motivo. All’esterno sono stati applicati due serti vegetali che hanno quasi nascosto la treccia. Le foglie sono sostentute da nastrini aurei, che, attraversati i fori, sono stati ribattuti all’interno con piccole rondelle d’argento. In alto, una fila di ramoscelli di mirto, con le tipiche forme lanceolate e bacche ottenute con capsule in lamina d’oro. Le foglie del serto piú basso sono state
interpretate come sedano, compatibile con le dediche a Hera. Probabilmente la corona era posata sul capo di un simulacro di Hera, come appare anche per la testa della dea Lacinia raffigurata su alcune serie monetali di Crotone dell’inizio del IV secolo a.C. Del resto, coronata da uno stéphanos, ricco di ornamenti vegetali, era anche la statua di culto di Hera a Olimpia. Roberto Spadea
In alto: navicella nuragica in bronzo con figurine di uccelli e di carri trainati da buoi, dall’Edificio B. A sinistra, sulle due pagine: corona in oro, dall’Edificio B. 530-500 a.C. In basso: tre statuette con donne che si toccano il seno, ornamento di un perirranherion (bacino) in terracotta.
centimetri di terra scura cominciò a emergere quello che fu chiamato edificio B, il piú importante finora dei luoghi sacri nel santuario di Hera Lacinia. È a pianta rettangolare (22 x 9 m circa), orientato verso est, quasi nella stessa direzione del tempio A. Restava la fondazione, in calcarenite locale frantumata in piccole scaglie. La sacralità dell’edificio era attestata, tra l’altro, dalla presenza di un cippo di confine sacro (horos), posto sul lato meridionale. La fase piú antica risale all’inizio del VI secolo a.C., a cui seguí, all’inizio del V, il rifacimento di tre lati dell’edificio col reimpiego di materiale proveniente da una costruzione monumentale non identificata. Il punto focale dello spazio è un basamento quadrato posto all’interno in posizione eccentrica, vicino al lato corto occidentale: era forse il sostegno
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LUOGHI DEL SACRO/6
La sezione subacquea del Museo Archeologico del parco di Capo Colonna. A destra: l’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Crotone.
VI secolo a.C. in Grecia: da quella l’Etruria, provengono pendagli e ficorinzia (Sirena, Sfinge) a quella bule, e anche oggetti prodotti in altre laconica (Gorgone). A una scuola regioni come la splendida barchetta crotoniate, riconducibile al filone nuragica, unica finora nel suo genere. Roberto Spadea laconico, possono essere attribuiti alcuni sostegni di lebete in forma di sirena alata. Alcuni reperti sono ca- NELLA PROSSIMA PUNTATA polavori unici, e tra essi la corona d’oro della fine del VI secolo a.C. • Il Carambolo. Divinità orientali (vedi box alle pp. 80-81). nel regno di Argantonio Il grande fenomeno dell’orientalizzante (VII secolo a.C.) è rappre- DOVE E QUANDO sentato nell’edificio B da doni votivi (scarabei, oggetti in faïence, uo- Museo e Parco archeologico va di struzzo) che riflettono bene i nazionale di Capo Colonna circuiti degli scambi commerciali Crotone, via Hera Lacinia internazionali di quel periodo. Dai Info tel. 0962 934814; OFFERTE VOTIVE I doni dovevano essere appesi alle principati indigeni della Lucania in- e-mail: drm-cal.capocolonna@ pareti o seppelliti in apposite fosse terna e dal vallo di Diano, crocevia beniculturali.it; rituali. Oltre alla ceramica minia- da e verso la Campania, il Lazio e musei.calabria.beniculturali.it turistica, alle patere umbilicate e alle chiavi in ferro, offerte tipiche PER SAPERNE DI PIÚ di tutti i santuari, i doni votivi trovano confronti e paralleli in analoghe offerte dei principali santuari Gregorio Aversa, Giuseppe Nicoletti, Capo Colonna di Crotone. greci dedicati a Hera, da Argo a Considerazioni generali sul sito e primi risultati delle indagini Samo, da Perachora a Olimpia. archeologiche nelle aree limitrofe al santuario di Hera Lacinia, in I confronti piú stringenti proprio Roberto Spadea, Fulvia Lo Schiavo, Maria Letizia Lazzarini (a cura con quest’ultima fanno supporre di), Tra Ionio e Tirreno: orizzonti d’archeologia. Omaggio a Elena uno stretto legame tra il santuario Lattanzi, Scienze e Lettere, Roma 2020, pp. 389-410 di Hera Lacinia e quello di OlimAlfredo Ruga, Scavo «Orsi» al Lakinion di Crotone. Considerazioni pia, confermato dalle generazioni alla luce di recenti scavi d’archivio (2018) e degli scavi sul campo di atleti crotoniati vittoriosi nelle (1955-2014), ivi, pp. 353-387 gare olimpiche. Tra gli oggetti rinRoberto Spadea (a cura di), Il Tesoro di Hera. Scoperte nel santuario venuti nell’edificio B è da segnalare di Hera Lacinia a Capo Colonna di Crotone, catalogo della mostra un gruppo di bronzetti: una Sirena, (Roma, Museo Barracco 28 marzo-30 giugno 1996), Edizioni ET, una Sfinge e una Gorgone, ornaMilano 1996 menti di crateri o di grandi lebeti, Roberto Spadea (a cura di), Il Museo del Parco Archeologico di attestazioni delle grandi scuole di Capo Colonna a Crotone, Stampa Seriart, Crotone 2006 bronzistica attive nello scorcio del della statua di culto o di una tavola di offerte dedicate a Hera. Nello scavo all’interno dell’edificio B sono stati recuperati numerosissimi oggetti in metallo prezioso (oro, argento), bronzo, ferro, faïence (scarabei), ceramica, terracotta e tanti altri doni votivi (molti in frammenti) databili tra il VII secolo a.C. e l’ultimo venticinquennio del V secolo a.C., che è quanto si è salvato dalle spoliazioni e dalle calamità naturali, quali terremoti e incendi che l’edificio dovette subire a piú riprese nel tempo.
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SPECIALE • SABINA
LA
SABINA, UNA
TERRA DA SCOPRIRE
I resti della grande villa di età romana scoperta in località Collesecco, nel territorio di Cottanello (Rieti), borgo che compare in secondo piano nella foto (vedi box alle pp. 98-99). 84 a r c h e o
LUNGO LA VALLE DEL TEVERE E SULLE RIVE DI UN LAGO OGGI SCOMPARSO FONDARONO NUMEROSE CITTÀ SENZA CINGERLE DI MURA. ABITARONO UN TERRITORIO COMPRENDENTE PARTE DELLE ODIERNE REGIONI DI LAZIO, UMBRIA E ABRUZZO, DOVE PRATICARONO IL COMMERCIO DEL SALE E LA PASTORIZIA. MA CHI ERANO I SABINI, E QUALI SONO LE TESTIMONIANZE CHE CI HANNO LASCIATO DI QUELLA LORO ANTICA UNITÀ ETNICO-LINGUISTICA? UN INVITO AL VIAGGIO… di Alessandro Betori, Francesca Colosi, Alessandra Costantini e Carla Sfameni, con contributi di Luisa Agneni, Eleonora Gasparini e Francesca Licordari
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SPECIALE • SABINA
A
ndare alla scoperta della Sabina significa passare dalle colline della fertile vallata tiberina alle prime propaggini dell’Appennino centrale, dove si aprono numerose conche intercalate dalle valli del Turano, del Salto e del Velino, chiuse da gole strette e suggestive. La conca piú ampia è quella reatina, un tempo sommersa dalle acque di un grande lago, il Velino, formatosi verso la fine del Pliocene (1,7 milioni di anni fa circa) ed estintosi in età storica. In quest’area le fonti collocano le origini dei Sabini, una popolazione autoctona che, a detta di Catone il Censore (234 circa-149 a.C.), discendeva dal dio eponimo Sabo e
Norcia Nursia
SS685
Spoleto Acquasparta
Accumoli
Nera
SS3
Monteleone di Spoleto
Ferentillo
San Gemini
SR471
Arrone E35
Amatrice
Cittareale
Leonessa
Terni
Amelia
Grisciano
Cascia
Scheggino
Piediluco
Narni
Borbona
Greccio
Cottanello Magliano Sabina
Casperia Forano
Capena SR2
E35
Antrodoco Interocrea
Velino
Sa
Borgo San Pietro
Monteleone Sabino Trebula Mutuesca
Fara in Sabina Passo Corese Cures
Montelibretti Eretum
Turania
Tagliacozzo
SR5
86 a r c h e o
E80
Carsoli
Tivoli A24
A24
Borgonese Spedino
SS5
Monterotondo
Roma
Amiternum
Civitatomassa L’Aquila Foruli
lto
Rocca Sinibalda
Poggio Mirteto Castelnuovo di Farfa
Te ve re
A45
Cutilia
no
Forum Novum
Poggio Sommavilla
Formello
Rieti Reate
Vazia
a Tur
SS3
A90
Montereale
Pian De’ Valli
Orte Teve re
Lago di Bracciano
Poggio M.Terminillo Bustone
Lacus Velinus
Subiaco
In alto, nel riquadro: i resti dell’anfiteatro romano di Amiternum (San Vittorino, L’Aquila), città di origine sabina. A sinistra: cartina dell’area interessata dalla presenza dei Sabini, con le principali località citate nel testo.
UN VASTO TERRITORIO FRA VELINO E TEVERE Il territorio attualmente compreso nella provincia di Rieti corrisponde solo in parte alla regione abitata un tempo dai Sabini. Anticamente, l’area era infatti molto piú estesa e racchiudeva, oltre al Lazio, anche parte dell’Umbria (Norcia e Cascia) e dell’Abruzzo (Amiterno). La particolare conformazione geografica della regione e la presenza dei due grandi bacini del Tevere e del Velino, determinò, fin dalle origini, la divisione della Sabina in due parti: quella tiberina, gravitante verso il Tevere e le zone abitate da Etruschi, Falisci e Latini, i cui centri principali furono Cures (Passo Corese), Eretum (Montelibretti), Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino) e Forum Novum (Santa Maria in Vescovio); quella interna, con le città di Reate (Rieti), Amiternum (San Vittorino, L’Aquila) e Nursia (Norcia), che aveva il suo punto di riferimento nella valle del Velino. Esse erano strettamente connesse, oltre che dall’omogeneità etnico-linguistica, dai rapporti commerciali ed economici ruotanti attorno al commercio del sale e alla pastorizia.
Sulle due pagine: un tratto del Velino a Rieti. Insieme al Tevere, il fiume ebbe un’influenza determinante sui modi di insediamento e sulla gestione del territorio da parte dei Sabini. a r c h e o 87
SPECIALE • SABINA
matici, risalgono all’età del Ferro e presentano una continuità di vita che si estende dagli inizi dell’VIII al VI secolo a.C.
CAPANNA CON FORNO Le capanne riportate alla luce appartengono a diverse tipologie e sono dotate di ambienti di servizio, cisterne, fornaci e magazzini. La struttura piú importante è la capanna L, costituita da un ambiente rettangolare e da uno piú piccolo, absidato, contenente un forno (fine dell’VIII secolo a.C.). Al suo interno sono stati recuperati numerosi frammenti vascolari tra cui due skyphoi (bicchieri con manici) di importazione euboica, veri fossili guida del commercio greco in epoca tardogeometrica. All’inizio del VI secolo a.C. l’insediamento subisce una trasformazione in senso urbano e si estende su tre colline con una superficie di circa 30 ettari. L’assenza di mura difensive coincide con quanto ricordato dalle fonti a proposito dei centri sabini. Altro centro importante era Eretum, che è stato individuato nell’altura di Casacotta a Montelibretti (una trentina di chilometri a In alto: fiaschetta-pendaglio che reca la piú antica iscrizione sabina nota, da una tomba femminile della necropoli di Poggio Sommavilla. 600 a.C. circa. Boston, Museum of Fine Arts. A destra: ricostruzione della capanna L di Cures, il centro principale della Sabina tiberina, scoperto nei dintorni di Passo Corese (Fara in Sabina).
che, partita da Testruna, località tradizionalmente collocata alle pendici del Gran Sasso, nei pressi di Amiternum (oggi nel territorio di San Vittorino, frazione de L’Aquila) si sarebbe spinta nel Reatino occupando Cutilia (nei pressi dell’odierna Cittaducale). Gruppi di coloni avrebbero poi raggiunto la valle del Tevere per fondare molte città, senza cingerle di mura: questi Sabini «tiberini» furono a lungo gli unici noti alle fonti piú antiche di tradizione romana. Solo nel III secolo a.C., dopo la conquista di Manio Curio Dentato, il termine comprese anche le genti stanziate al di là dei monti Sabini. La città piú importante della Sabina tiberina, nota per avere dato i natali a Tito Tazio e Numa Pompilio era Cures, identificata nella località di Santa Maria degli Arci, a Passo Corese, frazione del comune di Fara in Sabina. I resti dell’abitato, messi in luce da scavi siste88 a r c h e o
Olla con decorazioni white on red (in alto) e il suo sostegno, dalla capanna L di Cures.
nord-est di Roma). Il pianoro, abitato già dall’VIII secolo a.C., venne occupato e organizzato in senso urbano nel corso del VII secolo a.C., fino a occupare, nel VI secolo a.C., l’intera collina. Al centro di Eretum è collegata la necropoli di Colle del Forno, oggi racchiusa nell’area del CNR di Montelibretti, che è stata utilizzata a partire dall’età orientalizzante recente, per tutto il VI secolo a.C., fino a tutto il IV secolo a.C. Le campagne di scavo condotte sistematicamente nel sepolcreto a partire dal 1971 hanno messo in luce 39 tombe a camera ipogea, precedute da un corridoio di accesso (dromos). Si distinguono due sepolture monumentali, riconducibili a principi vissuti, rispettivamente, alla fine del VII secolo a.C. e alla fine del VI a.C.: la tomba XI, il cui corredo, devastato e disperso dagli scavatori clandestini è stato in gran parte rintracciato nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen ed è attualmente in mostra a Rieti (vedi box alle pp. 90-91); e la tomba XXXVI, scavata in epoca recente, entrambe accom(segue a p. 92) a r c h e o 89
SPECIALE • SABINA
COME SALVARE IL PATRIMONIO DELLA SABINA La Soprintendenza per l’Area Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti (recentemente subentrata alla SABAP FR-LT-RI in continuità sotto la gestione di Paola Refice) ha attuato in questi anni un’intensa attività di ricerca, tutela, valorizzazione del patrimonio architettonico, storico-artistico e archeologico della Sabina. Una parte importante delle risorse strumentali, economiche, professionali è stata profusa nella gestione delle conseguenze del sisma del 2016, ma non è mancata l’attenzione per altri siti, che da tempo attendevano interventi di sistemazione e valorizzazione. Tra di
Sulle due pagine: reperti esposti nella mostra «Strada facendo. Il lungo viaggio del carro di Eretum», in corso a Rieti. A destra: elementi del carro dalla Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, pertinente all’abitato di Eretum. Ultimo quarto del VII sec. a.C. A sinistra: la ricostruzione del carro da guerra (currus) di Eretum realizzata per la mostra. A destra: le bardature equine del carro.
essi citiamo Forum Novum-Vescovio (Torri in Sabina), municipio romano e per un millennio sede vescovile, in cui si è provveduto a sostituire le coperture ormai obsolete e si è messo in luce e musealizzato un importante mosaico relativo alla prima fase di vita della cittadina (100 a.C. circa). Il sito è stato oggetto nel 2018 di una giornata di studi i cui atti sono stati pubblicati di recente (Da Forum Novum a Vescovio. Per uno stato degli studi sulla maior ecclesia Sabinensis, Campisano Editore, Roma 2020). Nell’anfiteatro di Trebula Mutuesca (Monteleone 90 a r c h e o
Sabino), dovuto a committenza imperiale (iscrizioni dedicatorie da parte di Traiano, 114-115 d.C.), è stato ultimato lo scavo della cavea, in vista della realizzazione di una tribuna in materiale leggero, che consenta la rifunzionalizzazione dell’edificio per spettacoli. A queste attività attuate direttamente, la Soprintendenza affianca la stretta collaborazione con i concessionari di scavo impegnati in Sabina in progetti del massimo rilievo culturale e scientifico, quali università italiane («Sapienza» Università di Roma: Colli sul Velino, Poggio Nativo, Castelnuovo di Farfa, siti preistorici e protostorici; Università degli Studi di Roma «Tor Vergata»: Pozzaglia Sabina, sito in grotta) ed estere (Rutgers University, USA: villa detta di Orazio a Vacone; Saint Mary’s e Mc Master University, Canada: Villa di Tito a Castel Sant’Angelo; Università di Lione II: santuario di Vacuna a Montenero Sabino; Rochester University, USA:
In alto: infundibulum (imbuto con filtro) in bronzo di produzione vulcente trovato nella Tomba XI di Colle del Forno, ma riferibile a una deposizione successiva a quella accompagnata dal carro. VI sec. a.C. In basso: lamine in oro pertinenti a decorazioni di cofanetti, dalla Tomba XI di Colle del Forno, ma riferibili a una sepoltura femminile precedente a quella del carro. Prima metà del VII sec. a.C.
San Martino a Torano di Borgorose), oltre a una missione del CNR (villa degli Aurelii Cottae a Cottanello). A tali attività si aggiunge l’esposizione, in corso a Rieti, dei materiali della Tomba XI della necropoli di Colle del Forno, pertinente alla città di Eretum (Montelibretti, RM). Sino al 2016 questi reperti erano esposti in parte nel Museo Archeologico di Fara in Sabina e in parte, dopo essere stati scavati clandestinamente ed esportati illecitamente, presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, del quale rappresentavano uno dei vanti. Recuperati grazie a un intenso lavoro diplomatico da parte del Ministero della Cultura, con l’apporto del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri, essi sono stati attribuiti alla Soprintendenza territoriale nel 2020, e al termine di un’intensa e
proficua collaborazione tra tecnici del Ministero (Soprintendenza e Museo Nazionale Romano) e Consiglio Nazionale delle Ricerche vengono esposti con rigore filologico in un suggestivo allestimento presso Palazzo Dosi Delfini nella piazza principale di Rieti, grazie al sostegno della Fondazione Varrone. Al termine di questa prima presentazione sono previste ulteriori attività di valorizzazione in collaborazione con il Museo Nazionale Romano e, nel corso del 2022, la definitiva sistemazione nel Museo Civico Archeologico di Palazzo Brancaleoni di Fara in Sabina (vedi alle pp. 102-103), nel cui territorio sorgono i resti della metropoli sabina di Cures, patria dei re di Roma Tito Tazio e Numa Pompilio. Alessandro Betori e Francesca Licordari
DOVE E QUANDO «Strada facendo. Il lungo viaggio del carro di Eretum» fino al 10 ottobre Rieti, Palazzo Dosi Orario ma-do, 17,00-20,00 con prenotazione obbligatoria sulla piattaforma www.eventbrite.it Info tel. 0667233002; www.sabap-rm-met.beniculturali.it a r c h e o 91
SPECIALE • SABINA
pagnate da un prezioso arredo funebre. La tomba XI conteneva un calesse con cassa rivestita di lamine di bronzo sbalzate, un carro da guerra (currus), ornamenti in lamina d’oro, due brocche (oinochoai) e un piatto biansato in bronzo e un servizio di vasellame in ceramica, a testimonianza dell’alto lignaggio del defunto. La tomba XXXVI, contraddistinta da una struttura tricamerale a croce, atrio centrale scoperto e dromos monumentale, ha restituito resti di un currus, calderoni in bronzo e un podanipter (bacile biansato). La deposizione piú importante, nel loculo di fondo, era pertinente a un incinerato, i cui resti erano conservati in una cassa lignea. Di grande interesse risulta la presenza, nel corredo, di una spada e di uno straordinario trono in terracotta a grandezza naturale. Si segnala, inoltre, il rinvenimento, in altre due sepolture, di un lituo in ferro, il lungo bastone desinente a uncino utilizzato per l’arte divinatoria, attributo simbolo dell’augure. Al sito di Poggio Sommavilla, ubicato sulla sponda sinistra del Tevere, i cui vari nuclei di sepolture sono stati individuati a partire dal secolo XIX, si riferisce un’importante e vasta necropoli di tombe a fossa, in alcuni casi con dromos di accesso, e a camera con loculi nelle pareti, utilizzata ininterrottamente dall’età orientalizzante alla prima
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metà del II secolo a.C. Nelle tombe di epoca arcaica la ceramica piú comune è rappresentata da una classe di anfore in impasto di produzione locale, denominate «sabine», che presentano la tipica decorazione a impressione realizzata a «cilindretto». Del corredo funerario pertinente a una tomba femminile datata al 600 a.C., faceva parte una fiaschetta-pendaglio che reca la piú antica iscrizione sabina a oggi nota, conservata nel Museum of Fine Arts di Boston.
SULLA VALLE DEL TEVERE Testimonianze di scrittura provengono anche dalla necropoli del Giglio, pertinente al sito di Magliano Sabina, sorto in posizione strategica su di un’altura tufacea dominante la valle del Tevere, e già abitato alla fine dell’età del Bronzo e nella fase recente dell’età del Ferro. I rinvenimenti archeologici attestano l’esistenza, a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. e nella prima metà del VII, di un insediamento sparso caratterizzato da nuclei di capanne disposte sulle pendici della collina di Magliano. In età orientalizzante si assiste a un aumento della densità degli abitati, a cui fece seguito l’occupazione generalizzata di tutta l’area del pianoro, secondo modalità insediative riscontrate in ambito etrusco-laziale. All’assetto dell’abitato corrispose
Una veduta d’insieme e un particolare della decorazione di una cella del cosiddetto Capitolium di Forum Novum Vescovio (Torri in Sabina). Dapprima sede di mercato, il centro divenne municipium in età augustea.
anche l’organizzazione delle aree destinate a necropoli, che furono utilizzate per tutta l’epoca arcaica fino a quella tardo-classica.
LA ROMANIZZAZIONE Le conoscenze sulla Sabina in età romana, in particolare per quanto riguarda il settore del territorio dell’attuale provincia di Rieti qui preso in esame, si sono notevolmente arricchite dal punto di vista archeologico a partire dagli anni Novanta del secolo scorso grazie a un programma di interventi promosso dall’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio (ora Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma e la Provincia di Rieti), a cui si devono scavi, ricognizioni topografiche, restauri, mostre e un’ampia serie di pubblicazioni, in collaborazione con università, istituzioni ed enti di ricerca italiani e stranieri. In questo Speciale si vuole dunque offrire una panoramica di tali ricerche, soffermandosi sui progetti piú recenti e ancora in corso. a r c h e o 93
SPECIALE • SABINA L’iscrizione che celebra il rifacimento dell’anfiteatro di Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino) promosso dall’imperatore Traiano. 114-115 d.C.
RICCA DI OLIVI E DI VITI... Strabone, geografo vissuto nell’età di Augusto, ci fornisce una descrizione dettagliata della Sabina, che all’epoca era ricca di coltivazioni e armenti, ma aveva città spopolate e ridotte a villaggi: «I Sabini (...) possiedono poche città e impoverite per le continue guerre: Amiternum [S. Vittorino, l’Aquila] e Reate [Rieti] vicino alla quale si trovano il villaggio di Interocrea [Antrodoco] e le fonti fredde di Cutilia [Aquae Cutiliae, tra Caporio e Paterno, lungo la via Salaria] da cui attingono acqua potabile e, inoltre, bagnandosi, curano alcune malattie. Ai Sabini appartiene ugualmente Foruli [Civitatomassa], roccia per rivoltosi
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piuttosto che luogo per abitarvi. Anche Cures ora è solo un villaggio, ma un tempo era una città famosa, dalla quale mossero due re di Roma, Tito Tazio e Numa Pompilio; dal suo nome gli oratori pubblici chiamarono Quiriti i Romani. Trebula [Trebula Mutuesca, presso Monteleone Sabino], Eretum [nel territorio di Montelibretti] e altri abitati sono da considerare piuttosto come villaggi che come città. Tutto il suolo della Sabina è straordinariamente ricco di olivi e di viti e produce molte ghiande. È notevole, inoltre, per l’allevamento e in particolare per la razza dei muli di Reate, eccezionalmente reputata» (Geografia,V, 3).
Dopo la conquista definitiva del 290 a.C., l’occupazione romana del territorio sembra perpetuare le modalità insediative per vici o piccoli agglomerati delle epoche precedenti: strutture urbane vengono create infatti solo alla fine del periodo repubblicano e, soprattutto, in età augustea, quando la Sabina viene inserita nella Regio Quarta. Tra i centri piú antichi, Eretum viene definitivamente abbandonato, mentre Cures assume il ruolo di municipium, anche se già Strabone ne parla
Veduta dall’alto dei resti dell’anfiteatro di Trebula Mutuesca, a pianta sub-ellittica (94 x 66 m). L’edificio è realizzato in opera mista e blocchi di calcare; parzialmente appoggiato alla roccia collinare, presenta due ingressi principali sull’asse maggiore.
come di un «villaggio». Nell’area della città romana un’équipe dell’Université catholique de Louvain ha effettuato, tra il 2013 e il 2014, il rilievo e l’analisi di un complesso termale di epoca medio-imperiale, scavato negli anni Ottanta del secolo scorso, e ha promosso una riflessione sulle ricerche condotte nel centro urbano e nel suo territorio nel corso del tempo. Forum Novum (Vescovio,Torri in Sabina), diventato municipium in età augustea, era un centro piuttosto piccolo, privo di mura, di cui sono stati messi in luce il foro, la basilica, le tabernae e alcuni edifici di culto. Attraverso le indagini condotte dalla British School at Rome in collaborazione con la Soprintendenza, l’Università di Perugia e il CNR, sono stati individuati l’anfiteatro della città e, all’esterno dell’area del foro, una villa suburbana. Anche a Trebula Mutuesca (Montelone Sabino) ricerche condotte dalla Soprintendenza hanno permesso di esplorare parzialmente l’anfiteatro e altre strutture della città di età romana. Il centro urbano di Rieti è da diversi anni oggetto di scavi e ricerche archeologiche: in
particolare, le indagini condotte nel Palazzo Aluffi, il primo cantiere di archeologia urbana nella città, e successivamente (2015-16) il progetto di riqualificazione urbana PLUS, hanno offerto una nuova e importante serie di dati sulle fasi di vita del centro e, in particolare, sull’epoca romana, quando, oltre al foro e a edifici pubblici e privati, vennero realizzate varie opere pubbliche, tra cui una cinta muraria, un ponte sul fiume Velino e una sopraelevazione del percorso della via Salaria, le cui sostruzioni con arcate con grandi volte si possono ancora visitare nei sotterranei di alcuni palazzi lungo via Roma.
DIMORE DI LUSSO E FATTORIE Il sistema economico-insediativo della villa, su cui, dal punto di vista storico, siamo particolarmente bene informati dall’opera di Varrone, originario di Rieti e proprietario di piú fondi agricoli nella zona, si diffonde in tutta la regione con modalità differenti a seconda delle caratteristiche geografiche e di popolamento dei vari settori. Nell’area della Sabina interna prevalgono le piccole fattorie dedicate ad allevamento e pastorizia, con rare ville di tipo residenziale: tra queste, nel territorio pertinente alla città romana di Reate, vanno tuttavia ricordati alcuni edifici oggetto di indagini archeologiche recenti e in qualche caso ancora in corso. Si tratta innanzitutto della villa di San Lorenzo a Cittareale (vedi box a p. 97), della villa detta terme di Tito a Cutilia (vedi box a p. 96), entrambe forse da collegare agli imperatori Flavi, e la villa in località Grotte di San Nicola, nel comune di Colli sul Velino, attribuita ipoteticamente al senatore Q. Assio, di cui si conserva, fino a un’altezza di 8 m, il muro di sostruzione in opera incerta. A sud-est, invece, lungo la via Salaria, nel territorio di Trebula Mutuesca, nella zona di Monte Calvo a Scandriglia, presso la chiesa di S. Maria de Vico Novo o dei Colori, si trovano i resti di una villa da cui provengono splendidi reperti scultorei acquisiti da Francesco Borghese nella prima metà dell’Ottocento, ma oggi conservati soprattutto in collezioni museali straniere. Indagini archeologiche condotte dalla Soprintendenza hanno messo in luce un grande edificio residenziale dotato di un settore produttivo, la cui fase costruttiva principale si colloca tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. Il rinvenimento di fistule acquarie con a r c h e o 95
SPECIALE • SABINA
LE «TERME DI TITO» A CUTILIA Da Rieti, proseguendo lungo la Salaria verso est si giunge a Cutilia dove, nella zona del lago di Paterno, sono evidenti delle strutture dal forte impatto scenografico tradizionalmente indicate come «terme» (Castel Sant’Angelo). Indagini della Soprintendenza, finalizzate al restauro del muro di terrazzamento con 13 nicchioni alternati a 14 speroni – che raggiunge anche l’altezza di 11 m circa, e una lunghezza di 60 –, hanno invece suggerito di identificare il sito come un complesso abitativo. L’edificio è stato collegato agli imperatori Flavi, dal momento che Svetonio ricorda che Vespasiano doveva possedere una villa a Cutilia, nella quale soleva trascorrere il periodo estivo e dove morirono sia lui che il figlio Tito. Dal 2018 il complesso è oggetto di una concessione di ricerca da parte di università canadesi.
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l’iscrizione C. Bruttius Praesens ha permesso di conoscere il nome del proprietario della villa, un importante personaggio vissuto tra il principato di Domiziano e quello di Adriano, che ricoprí varie cariche pubbliche e che fu in diretto rapporto con gli imperatori. Nel vasto comprensorio della Sabina tiberina, prevalgono invece le ville di produzione destinate alla coltivazione intensiva di vite, olivo
e alberi da frutto. Ben collegate alle principali vie di comunicazione della regione, il Tevere e la Salaria, tali costruzioni attrassero significativi investimenti da parte degli aristocratici proprietari e furono quindi spesso dotate di ricchi settori residenziali oltre che produttivi. Varie zone di questo territorio sono state interessate da importanti progetti di ricerca, come il «Tiber Valley Project» (British School at Rome), che ha riguardato la media valle del Tevere, o il «Progetto Galantina» (CNR), che ha preso il nome dal torrente che attraversa il territorio oggetto di indagine. Nel settore gravitante intorno al centro di Cures, nella zona interessata dalla creazione del polo della logistica di Passo Corese a Fara in Sabina, sono state individuate alcune fattorie e ville da una delle quali proviene una statua di Iside ora nel Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. Il settore piú settentrionale della Sabina tiberina corrisponde sostanzialmente all’area del municipium di Forum Novum: a questo territorio appartiene una serie importante di ville, prima di tutto quella di Cottanello (località Collesecco; vedi box alle pp. 98-99), in cui dal 2013 l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (ISMA), ora Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (segue a p. 100)
A destra: un particolare della pavimentazione in opus sectile di uno degli ambienti della villa romana scoperta in località San Lorenzo, a Cittareale. Nella pagina accanto e in basso, sulle due pagine: veduta aerea e ortofoto dei resti della villa romana individuata presso Castel Sant’Angelo. Le strutture sono conosciute come «terme di Tito».
LA VILLA DI SAN LORENZO A CITTAREALE Ricerche archeologiche condotte dalla British School at Rome e dall’Università di Perugia hanno permesso di indagare un edificio residenziale dotato anche di una parte rustica e produttiva di età augustea, abbandonato nel tardo II secolo d.C. e parzialmente rioccupato nel III e soprattutto nel IV, quando si verificarono anche significativi cambiamenti nelle funzioni degli ambienti. Sui resti di questo edificio, distrutto da un incendio, si impiantò poi una chiesa con relativo
cimitero, nota nei documenti a partire dal 969. L’elevata qualità della decorazione dell’edificio ha fatto supporre un collegamento con gli imperatori Flavi, originari del vicus di Falacrinae, la cui posizione alle pendici del comune di Cittareale è stata definitivamente chiarita da scavi iniziati nel 2005. I materiali dello scavo del vicus e della villa si trovano al Museo Civico di Cittareale (vedi a p. 105), mentre un notevole pavimento in opus sectile della villa sita in località San Lorenzo è stato documentato e riseppellito.
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SPECIALE • SABINA
LA VILLA DI COTTANELLO Nel territorio del comune di Cottanello, in località Collesecco, si collocano i resti della villa romana attribuita alla famiglia senatoria degli Aurelii Cottae, al cui nome sarebbe da ricondurre il toponimo moderno del paese. Tale attribuzione è stata confermata dal rinvenimento di orli di dolia (grandi contenitori per derrate) con bollo MCOTTAE, che rimanda al dominus e indica la commissione e la proprietà dei manufatti, ma forse anche la presenza di una produzione dei grandi contenitori da derrate in loco.
Immerso in un uliveto, il sito ancora conserva un aspetto probabilmente assai vicino all’originaria ambientazione delle villae rusticae della Sabina. Il settore residenziale è quello maggiormente indagato: i In alto: orlo di dolio con il bollo MCOTTAE, che sostiene l’attribuzione della villa di Cottanello alla famiglia degli Aurelii Cottae. A sinistra: rendering della villa di Cottanello.
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numerosi pavimenti musivi conservati in situ indicano la funzione di rappresentanza svolta dai vani che si snodano attorno a un peristilio e a una seconda corte minore. L’aspetto delle strutture che oggi si osserva può attribuirsi a una fase di imponente ristrutturazione databile ai primi decenni del I secolo d.C. e forse correlata al noto personaggio di nome Marco Aurelio Cotta Massimo Messalino, membro dell’entourage dell’imperatore Tiberio e console nel 20 d.C. I tappeti musivi, soprattutto in tessere bianche e nere, ma a volte anche arricchiti da inserti policromi, insieme alla tecnica dell’opus reticulatum che caratterizza le murature in cubilia di calcare locale
rosato, forniscono indicazioni cronologiche in tal senso. Altro elemento per l’inquadramento dell’edificio sono i numerosi reperti da riferirsi alla decorazione architettonica fittile che rivestiva e coronava le pareti e le coperture: tali manufatti rimandano a un’officina urbana, a conferma di una committenza strettamente legata a mode e gusti in voga nella capitale in età giulio-claudia. Sebbene si tratti di un edificio che allo stato attuale copre la notevole dimensione di 40 x 40 m circa, risultando forse, tra le ville sabine, quella piú scavata in estensione, la prosecuzione delle strutture murarie e dei pavimenti oltre i limiti segnati dagli scavi indica come la conoscenza della pianta del complesso rimanga a oggi ancora incompleta. Il sito venne scoperto tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del Novecento, quando, grazie a tre campagne di scavo intensive condotte da volontari sotto la supervisione della
Soprintendenza alle Antichità del Lazio, vennero portati alla luce circa 35 ambienti, tra cui vani di rappresentanza, cubicoli, un criptoportico e un quartiere termale. In alcuni punti furono tuttavia scoperte anche murature e pavimenti appartenuti a un piú antico edificio, databile tra il III e il I secolo a.C., quando forse la villa già apparteneva agli Aurelii, potente gens della nobilitas plebea dei quali si conosce l’origine sabina, nonché restauri o muri costruiti ex novo, ma con tecnica differente, durante una terza fase, tra il IV e il VI secolo d.C. Dal 2010 al 2019, a quarant’anni dalla scoperta, la villa è stata nuovamente indagata sotto la direzione della «Sapienza» Università di Roma (2010-2012) e poi del CNR-ISMA, ora ISPC (2013-2019), in collaborazione con la Soprintendenza e il Comune di Cottanello (http//:cottanello.isma. cnr.it). La mole di informazioni raccolte all’interno di questo progetto di ricerca, che ha visto la In alto: ricostruzione virtuale del peristilio della villa. A destra: particolare di uno dei mosaici pavimentali della villa. A sinistra e nella pagina accanto, in basso: ambienti della villa in corso di scavo e come si presentano oggi ai visitatori del sito.
partecipazione di numerosi altri istituti del CNR, è derivata da un approccio multidisciplinare: accanto allo scavo e all’analisi crono-tipologica di reperti e strutture, il sito è stato oggetto di indagini archeometriche, topografiche, geofisiche e geologiche. Grazie a tali ricerche è stato possibile approfondire la conoscenza del complesso, dagli aspetti architettonici e decorativi a quelli storico-economici, giungendo a una piú puntuale contestualizzazione dell’edificio nel suo territorio. La villa è visitabile su richiesta, rivolgendosi al Comune di Cottanello: www.comunecottanello.it Eleonora Gasparini a r c h e o 99
SPECIALE • SABINA
(ISPC), del CNR svolge ricerche archeologiche di carattere interdisciplinare in continuità con quelle intraprese dalla «Sapienza» Università di Roma nel 2010. Nel vicino comune di Vacone, in località Sasso Grosso, una villa coeva a quella di Cottanello è tuttora oggetto di indagini (vedi box in questa pagina). Presso la chiesa di S. Pietro ad centum muros a Montebuono (Rieti) sono stati scavati nell’Ottocento i resti di una villa nota come «Terme di Agrippa» per il rinvenimento di un’iscrizione che menzionava questo personaggio. Nello stesso comprensorio si colloca la villa presso la quale sorge la chiesa di S. Maria di Fianello, famosa per il rinvenimento di un pregevole ciclo di sculture, ora conservate al Museo Nazionale Romano. Nell’area piú vicina al Tevere varie ville sono state individuate nel territorio di Magliano Sabina grazie a ricognizioni topografiche: tra queste,
si distingue il sito di Ponti Novi, che ha restituito frammenti architettonici, intonaci dipinti, marmi policromi e ceramiche. Nella parte piú interna del territorio restano da citare ancora le strutture note come il «Tulliano» a Cantalupo, e quelle individuate a Paranzano e presso la chiesa di S. Maria in Legarano a Casperia, le quali sono legate dalla toponomastica al Q. Ligario noto attraverso l’orazione di Cicerone e a M. Antonio Pallante, potente liberto della corte di Claudio. Per i comuni di Poggio Mirteto, Poggio Catino e Montopoli si possiedono le dettagliate descrizioni di «ruderi di ville romanosabine» fornite da Ercole Nardi nel 1885. Alcune di queste ville sono state oggetto di successive indagini, come nel caso dei cosiddetti bagni di Lucilla a Poggio Mirteto e della villa dei Casoni o di Varrone a Montopoli.
Nella pagina accanto, in alto: una cava di «marmo» di Cottanello. In basso e nella pagina accanto, in basso: frammento di intonaco dipinto con l’immagine di un uccello e due ambienti della villa romana di Vacone, che la tradizione assegna al poeta Orazio.
LA VILLA DI VACONE Attribuita dalla tradizione erudita a Orazio e nota per la presenza di due criptoportici – nell’inferiore dei quali la Soprintendenza del Lazio aveva già effettuato indagini nel 1986-87 –, la villa è oggetto di ricerche sistematiche condotte dal 2012 da un’équipe della Rutgers University del New Jersey, in collaborazione con altre istituzioni,
all’interno di un piú ampio progetto di studio del territorio (www.ustproject.org). Tali ricerche hanno consentito di mettere in luce diversi ambienti che si affacciavano sul portico sovrastante il criptoportico inferiore, con pavimentazioni a mosaico che trovano confronti con quelle presenti nella villa di
Cottanello. Connessi alle strutture residenziali sono anche gli impianti produttivi. Si possono distinguere due fasi costruttive principali, la prima della tarda età repubblicana e la seconda di età augustea, rispettivamente caratterizzate da pavimenti in battuto cementizio con inserti litici e da eleganti mosaici policromi, oltre che da una raffinata decorazione pittorica, mentre restauri, anche importanti, di età medio-imperiale mostrano la vitalità del complesso, che rimase in uso fino alla tarda antichità.
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IL «MARMO» DI COTTANELLO Il paese di Cottanello dà il nome a una pietra rosata, nota appunto come «marmo di Cottanello», in termini geologici un calcare marnoso rossastro o rosato appartenente alla formazione della scaglia rossa, la cui cava di estrazione principale si trova sul monte Sterpeto, a 1,5 km di distanza dal borgo medievale. Il «marmo» di Cottanello fu utilizzato sin dall’epoca romana ed è ampiamente impiegato nella costruzione della villa di località Collesecco. Particolarmente
apprezzato in epoca barocca da Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini, serví inoltre a decorare
molte chiese di Roma, tra cui S. Pietro, S. Agnese in Agone e S. Andrea al Quirinale.
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SPECIALE • POMPEI E ROMA
LA SABINA IN VETRINA Fara in Sabina
Il Museo Civico archeologico di Fara in Sabina è ospitato nel suggestivo borgo medievale di Fara, nel rinascimentale Palazzo Brancaleoni. Nel museo sono esposti i reperti provenienti dagli scavi condotti a partire dagli anni Settanta nell’abitato di Cures e nella necropoli di Eretum (Colle del Forno), i due piú importanti insediamenti della Sabina tiberina prossimi a Roma, dei quali, attraverso i materiali proposti e un moderno percorso didattico, viene raccontata la storia dalla fondazione fino alla conquista romana. Per quanto riguarda la necropoli di Eretum, il Museo è destinato ad accogliere in via definitiva il ricchissimo corredo di una tomba principesca della fine del VII secolo a.C. (tomba XI), tornato in Italia nel 2016, che è stato oggetto di un intervento clandestino al momento della sua scoperta e successivamente acquistato dal museo Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen (vedi box alle pp. 90-91). Dal corredo della tomba XXXI, probabilmente appartenuta a un augure, proviene un lituo in ferro datato alla seconda metà del VI secolo a.C., che è quindi l’esemplare piú antico mai ritrovato in Italia, ma è soprattutto degno di nota il moderno allestimento della sala dedicata alla tomba monumentale XXXVI che, date le sue imponenti dimensioni e il ricco corredo, nel quale spicca un trono in terracotta a imitazione di esemplari etruschi in bronzo, rappresenta il piú importante ritrovamento archeologico avvenuto in Sabina nell’ultimo ventennio. La sala è fornita di 102 a r c h e o
In alto: una sala del Museo Archeologico di Magliano Sabina. A destra: il corredo della Tomba XI di Colle del Forno (Eretum). Ultimo quarto del VII sec. a.C. In basso: anfora del Pittore della Sfinge Barbuta, già ritenuta proveniente da Eretum. VI sec. a.C.
DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico Fara in Sabina, Palazzo Brancaleoni piazza Duomo, 3 Info tel. 346 8187972; www.museofarainsabina.it
un sistema di multiproiezione che illustra i dettagli del ritrovamento, il contesto storico in cui la tomba era inserita e ulteriori informazioni riguardo agli oggetti esposti. Nella sezione dedicata agli scavi di Cures è molto interessante la ricostruzione di una ricca capanna dell’età del Ferro (capanna L) e l’esposizione dei molti materiali in essa rinvenuti: vasellame elegante per il banchetto, vasi da mensa e da cucina, uno straordinario fornello quasi integro, una batteria completa di pentole per cuocere i cibi, fuseruole e pesi da telaio. Infine, uno dei reperti di maggior interesse del Museo è il cosiddetto Cippo di Cures,
frammento di un monumento pubblico databile tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. ritrovato casualmente nel letto del fiume Farfa. Su tre lati del cippo compaiono differenti iscrizioni, di cui la principale, di tipologia paleosabellica, sul modello delle stele di Penna Sant’Andrea (Abruzzo), è stata interpretata in riferimento alla comunità in quanto riporta il termine toúta, sostantivo appartenente al lessico istituzionale, già attestato in altri ambiti epigrafici dell’Italia antica, che indica la comunità. Luisa Agneni
Magliano Sabina
Il Museo Archeologico di Magliano Sabina, che ha sede in Palazzo Gori, rappresenta un importante punto di riferimento per il territorio sabino, in quanto custodisce una vasta raccolta di reperti che sottolineano aspetti peculiari della cultura sabina nella valle del Tevere, soprattutto tra la tarda età del Ferro e l’epoca arcaica. I materiali provengono non solo dagli scavi nelle necropoli di Magliano Sabina e di Poggio Sommavilla, ma anche da raccolte di superficie eseguite negli anni da appassionati locali, che hanno recuperato preziose testimonianze in occasione di interventi agricoli ed edilizi. Il Museo è articolato su tre piani e i reperti sono esposti secondo provenienza e presentati in successione cronologica. Al piano terra si trova la sezione preistorica che espone una serie di materiali risalenti al Paleolitico Medio e Superiore. Al primo piano la sezione protostorica presenta reperti dell’età del Bronzo Recente e Finale (XII-X secolo a.C.) e dell’età del Ferro. La documentazione dell’età del Ferro, che permette di ricostruire un’organizzazione del territorio fondata su nuclei abitati collegati gerarchicamente, consiste soprattutto in ceramica da mensa e da cucina, nonché da una tipica produzione a impasto dipinto documentata anche a Poggio Sommavilla e a Cures. Segue la sezione dell’età orientalizzante e arcaica relativa agli scavi delle necropoli e degli abitati di Magliano e di Poggio Sommavilla. Le tombe hanno restituito produzioni ceramiche locali, con forme tipiche della cultura sabina, come le grandi olle costolate
Dall’alto: pendente in oro con paperella e pendente ellittico in argento a cartiglio mobile, dalla Tomba XI di Colle del Forno. VII sec. a.C.
DOVE E QUANDO Museo Archeologico Magliano Sabina, via Sabina 19 Info tel. 0744 910001 (Museo); tel. 0744 910336 (Comune); e-mail: museo.maglianosabina@gmail.com; museomaglianosabina.wordpress.com
a impasto bruno, i calici a corolla e le cosiddette «anforette sabine» decorate a cilindretto. Il ritrovamento piú rilevante, vero vanto del Museo, è un’olletta decorata frammentaria proveniente dalla necropoli del Giglio, sulla quale corre un’iscrizione che testimonia lo sviluppo di un sistema di scrittura sabino alla fine del VII secolo a.C. Da segnalare, inoltre, una notevole collezione di armi in ferro databili tra la fine del VII e il VI secolo a.C. Il percorso di visita continua con i ritrovamenti delle necropoli di fase tardo-classica ed ellenistica e con la sezione romana, dedicata alle ville di età repubblicana e imperiale. Sono di particolare interesse i materiali dal sito di Colle Rosetta, pertinenti alla prima fase della romanizzazione (fine IV-III secolo a.C.), e quelli dell’insediamento di San Sebastiano, tipico esempio di una villa in funzione tra il I secolo a.C. e il II d.C. La ceramica da mensa sigillata e gli oggetti in vetro, insieme alle belle antefisse in terracotta e ai numerosi frammenti di intonaco dipinto, testimoniano come accanto al settore produttivo esistesse un’ala residenziale di notevole livello, mentre dal vicino sito di Murella, caratterizzato da una lunga continuità di vita (IV secolo a.C.-VI secolo d.C.), provengono alcune eccezionali antefisse di soggetto cristiano. La visita si conclude con la sezione medievale, dedicata ai ritrovamenti di ceramica acroma e invetriata all’interno del paese di Magliano.
Rieti
La sezione archeologica del Museo Civico di Rieti ha sede all’interno del monastero di S. Lucia, nel centro della città. La raccolta museale è organizzata in tre aree distinte, destinate, rispettivamente, alle collezioni privaa r c h e o 103
SPECIALE • SABINA
te, alle mostre temporanee e ai ritrovamenti provenienti dagli scavi condotti nel corso degli anni nel territorio reatino. La prima sezione (sale 1-6) ospita i reperti provenienti dalla collezione storica del Museo Civico, che iniziò a formarsi, per quanto riguarda le epigrafi, in epoca rinascimentale e che si arricchí con l’acquisizione, agli inizi del Novecento, della collezione privata del canonico Vincenzo Boschi. Considerando la quasi costante assenza dei contesti di riferimento e l’eterogeneità dei ritrovamenti, questi ultimi sono organizzati secondo un percorso tematico che riguarda gli aspetti legati alla vita, la società e la religione (sala 1), i
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documenti epigrafici (sala 2), gli elementi architettonici dell’antico centro urbano di Rieti (sala 3), i ritratti e le monete (sala 5), Rieti dall’età romana al Medioevo (sala 6). Tra i reperti della collezione spiccano una DOVE E QUANDO Museo Civico-Sezione archeologica Rieti, via S. Anna 4 – 02100, Rieti Info tel. 0746 488530; e-mail: museo@comune.rieti.it; https://museo.comune.rieti.it
Rilievo in calcare con scena di venatio rinvenuto nel 1863 in località Ponte Buida, lungo l’antica via Salaria, all’altezza del XXXV miglio, nel territorio di Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino). Prima metà del I sec. d.C. Rieti, Museo Civico. L’opera rappresenta tre uomini armati, i cosiddetti bestiarii o venatores (ossia cacciatori) assaliti da tre belve: una pantera, un orso e un leone.
bella testa di menade del II secolo d.C. e statue di personaggi togati provenienti dall’area del foro dell’antica Reate, il rilievo con scena di venatio proveniente dal territorio di Trebula Mutuesca e databile alla seconda metà del I secolo a.C. (sala 4) e alcune interessanti epigrafi tra cui, per esempio, la dedica votiva a Sanctus, divinità identificabile con Ercole, o l’ iscrizione onoraria a L. Oranius Iustus, risalente al II secolo d.C. L’ala sabina del Museo (sale 8-13), inaugurata nel 2007 e in continuo arricchimento, raccoglie i materiali provenienti dalle ricerche archeologiche nella provincia di Rieti. In questa sezione sono quindi esposti i materiali protostorici da Campo Santa Susanna e da Campo Reatino, tra i quali rivestono particolare interesse un’urna a capanna del IX secolo a.C., i ricchi corredi di età orientalizzante e arcaica di Poggio Sommavilla, i ritrovamenti di epoca ellenistica della necropoli di Foglia-Madonna del Rovo e i reperti provenienti dalle ville di Cottanello e Scandriglia. I materiali sono inquadrati dal punto di vista storico-archeologico mediante pannelli illustrativi riguardanti il territorio, i centri urbani, le ville rustiche, le necropoli. È esposto in quest’ala del Museo il sarcofago di Monte Santo Sabino, una fine opera scultorea databile tra la prima metà del II e l’inizio del III secolo d.C.
Cittareale
I reperti archeologici venuti alla luce negli scavi di Falacrinae sono esposti all’interno del Museo Civico di Cittareale, inaugurato nel 2009 in occasione del bimillenario della nascita di Vespasiano. I materiali sono inseriti nel loro contesto storico e paesaggistico e sono descritti attraverso pannelli illustrativi e prodotti multimediali che permettono di rivivere il momento della scoperta. Le sezioni della raccolta sono organizzate secondo le località indagate (Pallottini, Vezzano e San Lorenzo) e seguono le diverse fasi della ricerca archeologica. Il percorso di visita ha inizio, dunque, dalla necropoli tardo-antica di Pallottini, costituita per lo piú da tombe a cassone databili tra la fine del VI e il VII secolo d.C. I corredi funerari consistono soprattutto in gioielli e in oggetti di ornamento o, nel caso delle sepolture maschili, in vasi in ceramica, contenitori in vetro, vari elementi dell’ornamento personale. L’indagi-
ne in località Pallottini è nata dal rinvenimento fortuito di una base in pietra denominata «Pietra di Cittareale», esposta al primo piano del Museo, che era forse destinata a una piccola statua onoraria in bronzo. Il blocco reca una dedica redatta in versi saturni che fa riferimento a un personaggio coinvolto in un episodio della guerra sociale (89 a.C.) avvenuto presso Falacrinae. Gli scavi avviati in seguito alla scoperta hanno portato alla luce un edificio di una certa monumentalità, interpretato dagli studiosi come un complesso pubblico probabilmente destinato alla rassegna delle truppe e a funzioni di tipo amministrativo e censorie. La visita continua con la sezione dedicata al vicus di Falacrinae indagato in località Vezzano. Il percorso espositivo ricostruisce le fasi di vita del villaggio attraverso lo scavo di un luogo di culto sorto in epoca medio-repubblicana, intorno al quale sorse spontaneamente il vicus, e di alcune abitazioni databili alla fine del III-ultimo quarto II secolo a.C. È molto interessante il rinvenimento di nove sepolture di feti o bambini nati morti, che vennero seppelliti secondo uno specifico rito denominato «suggrundaria» e cioè la sepoltura al di fuori delle necropoli destinata a creature con meno di 40 giorni di vita. Fa forse riferimento a questo rito il rinvenimento di numerosi blocchi ovoidali in pietra con numerali iscritti, che potrebbero indicare i giorni di vita del bambino. L’ultima parte del Museo è dedicata ai rinvenimenti della villa di epoca imperiale in località San Lorenzo (vedi anche il box a p. 97) e alla sua fase tardo-antica, databile intorno alla metà del IV secolo d.C. I materiali esposti consistono in ceramiche sigillate, vasi da cucina, grossi contenitori per derrate alimentari, macine, monete, frammenti di bronzo e di vetro, oggetti per il gioco e per lo svago che forniscono un interessante quadro della vita quotidiana in queste residenze rustiche. DOVE E QUANDO Museo Civico Cittareale, piazza S. Maria 2 Info tel. 0746 947032; e-mail: comune.cittareale@libero.it http://falacrinae.cittareale.it
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SPECIALE • SABINA
Monteleone Sabino
Il Museo Civico Archeologico di Monteleone Sabino custodisce i reperti provenienti dal centro romano di Trebula Mutuesca e dal territorio circostante e ripercorre la storia dell’insediamento dall’epoca preromana al tardo Medioevo. Il percorso di visita inizia con l’inquadramento geologico dell’area e con una sintesi storico-topografica sulla regione sabina, che comprende la descrizione delle principali presenze archeologiche e delle vie di comunicazione. Segue la sezione dedicata alla stipe votiva di S. Vittoria, scavata nel 1958 e databile tra la fine del IV e il II secolo a.C. Dalla stipe provengono una grande quantità di ex voto anatomici, alcune belle teste votive in terracotta e altri fittili quali un bambino in fasce, statuette di animali, oltre a ceramica a vernice nera e a figure rosse del Gruppo Fluido. Viene quindi descritto il vicus di Trebula Mutuesca attraverso l’esposizione di materiali provenienti dall’area urbana databili soprattutto a epoca imperiale. Il centro divenne municipio forse già nel I secolo a.C. con la conseguente realizzazione di molte opere pubbliche sotto la spinta dei ricchi proprietari locali. I reperti esposti consistono soprattutto in frammenti scultorei, architettonici ed epigrafici, tra i quali si segnalano un rilievo in calcare con scena di sacrificio e due rilievi con scene di gladiatori. Una sala è dedicata alle scoperte degli scavi recenti nell’anfiteatro e presenta una grande iscrizione di età traianea, statue panneggiate in calcare, un frammento di capitello e frammenti di statue in bronzo. Un percorso di 1,50 km, lungo il quale si possono osservare i tanti resti scultorei e architettonici reimpiegati nelle murature di DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico Monteleone Sabino, via Lucio Mummio 11 Info tel: 0765 884014 (Comune) oppure 329 2918883 o 340 8634586 (prenotazioni); e-mail: museo.trebula@gmail.com; www.comune.monteleonesabino.ri.it
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Monteleone, collega il Museo all’area archeologica di località Pantano, attualmente oggetto di un intervento di valorizzazione gestito dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti. Qui, su prenotazione, è possibile visitare il ben conservato anfiteatro a pianta sub-ellittica in opera mista, costruito dall’imperatore Traiano, e altre emergenze archeologiche tra cui le strutture del santuario porticato dedicato a Feronia. Si consiglia di concludere la visita arrivando fino alla deliziosa chiesa medievale di S. Vittoria, sorta in area eccentrica, forse in corrispondenza di un altro luogo di culto e costruita in gran parte con materiali di spoglio di epoca romana. Sul sagrato della chiesa sono conservate iscrizioni, blocchi lavorati, leoni funerari, colonne e blocchi architettonici. Purtroppo l’interno della chiesa non è attualmente visitabile in seguito agli eventi sismici del settembre 2016.
PER SAPERNE DI PIÚ Priscilla Armellin (a cura di), La storia del territorio di Poggio Mirteto. Un racconto con il contributo di varie discipline, Edizioni Espera, Monte Compatri 2018 Alessandro Betori, Giuseppe Cassio, Francesca Licordari (a cura di), Da Forum Novum a Vescovio. Per uno stato degli studi sulla maior ecclesia Sabinensis, Campisano Editore, Roma 2020 Marco Cavalieri (a cura di), Cures tra archeologia e storia. Ricerche e considerazioni sulla capitale dei Sabini e il suo territorio, Presses Universitaire de Louvain, Lovanio 2017 Francesca Colosi, Alessandra Costantini, La Sabina tiberina in epoca romana. Ricognizioni nel territorio tra Otricoli e Magliano Sabina, CNR Edizioni, Roma 2017 Patrizio Pensabene, Carla Sfameni (a cura di), La villa romana di Cottanello. Ricerche 2010-2016, Edipuglia, Bari 2017 Carla Sfameni, Monica Volpi (a cura di), Oltre la Villa. Ricerche nei siti archeologici del territorio di Cottanello, Configni, Montasola e Vacone, Arbor Sapientiae Editore, Roma 2019
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Fascino, ammirazione, curiosità… ma anche terrore e repulsione: sono questi i sentimenti suscitati, da sempre, dal mondo animale e che, nel millennio medievale, trovano nuove forme d’espressione, prime fra tutte l’arte della miniatura e la scultura. I secoli dell’età di Mezzo, infatti, ci appaiono letteralmente affollati dalle creature che con noi abitano la terra e, non a caso, proprio in quel tempo prendono forma i bestiari, vivacissime raccolte in cui sfilano esseri reali e fantastici, resi con tratti ora realistici, ora grotteschi.
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Ma il Medioevo è anche l’epoca in cui molti animali assumono valori simbolici potenti, fino a diventare, spesso, l’incarnazione di principi filosofici e religiosi. E, naturalmente, accanto a questo universo immateriale e spesso onirico, c’è invece la concretezza della vita quotidiana, fatta di allevamento, sfruttamento e, soprattutto, caccia. Il nuovo Dossier di «Medioevo» offre dunque l’occasione di scoprire questa realtà multiforme, che assume anche il valore di specchio della società. Proponendo un vivace e variopinto «serraglio», tutto da sfogliare, per vedere da vicino sua maestà l’orso (perché il leone venne dopo), i nobili destrieri dei cavalieri, ma anche l’inafferrabile fenice…
SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
QUELLA CITTÀ OLTRE LA CITTÀ IL CROLLO DELL’IMPERO FECE DI ROMA UNA CITTÀ VULNERABILE. E, NEL TIMORE DI RAZZIE E SACCHEGGI, ANCHE LE GRANDI BASILICHE SI DOTARONO DI OPERE DIFENSIVE FINO AD ALLORA IMPENSABILI: UNA VICENDA ESEMPLARMENTE RACCONTATA DA UN INTERVENTO DI SCAVO E DI MUSEALIZZAZIONE A S. PAOLO FUORI LE MURA
A
nno 846: i Saraceni imperversano per l’Italia. Hanno già conquistato buona parte della Sicilia e si accingono a far capitolare anche Bari, dove poi fonderanno un emirato. Ma ora si dedicano a qualcosa di epocale, e completamente inaspettato: attaccano e saccheggiano i due santuari piú importanti della cristianità, S. Pietro e S. Paolo, subito al di fuori delle mura di Roma. Per certi aspetti (ma con le dovute differenze) è un gesto dalla portata molto simile a quanto
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accadrà piú di mille anni dopo, l’11 settembre del 2001. Un vero attacco al cuore dell’Occidente, dopo il quale le cose non torneranno mai piú come prima. La Chiesa è chiamata ad attrezzarsi: le grandi basiliche non sono piú sicure, occorre difenderle. E cosí, l’anno successivo, inizia un nuovo corso, che vede la nascita di cantieri attorno a S. Pietro, e poi ad altri santuari, per la loro fortificazione. Questi complessi si trasformano in vere città in miniatura, il cui fulcro è il luogo di culto, circondato da case
e altri edifici e cinto da mura. A S. Pietro nasce cosí la Città Leonina, dal nome del pontefice fondatore: Leone IV. E a S. Paolo sorge Giovannipoli, la fortezza voluta da papa Giovanni VIII. Quella della basilica di S. Paolo era una storia già piuttosto lunga: una grande chiesa nata verso le fine del IV secolo lungo la via Ostiense, presso la tomba di uno dei due «principi degli apostoli»; e sarà lunghissima dopo, con i suoi alti e bassi: a cominciare dal devastante incendio che la distrusse nel 1823, e
A sinistra: Roma, basilica di S. Paolo fuori le Mura. Un particolare della musealizzazione del grande portico colonnato venuto alla luce grazie alle indagini condotte fra il 2007 e il 2009. Realizzata in età tardo-antica, la struttura collegava il santuario a Roma e venne restaurata dai papi nell’Alto Medioevo. Qui sotto: disegno ricostruttivo che mostra lo sfruttamento agricolo dei terreni circostanti la basilica in epoca medievale. dalla sua successiva ricostruzione. Proprio a S. Paolo, tra il 2007 e il 2009, sono state condotte ricerche che hanno dato frutti straordinari, permettendo di riscrivere intere pagine della storia di questo importante complesso religioso.
NEL SEGNO DELL’ASSISTENZA Le indagini si sono concentrate presso il lato sud della basilica, portando alla luce una sequenza di tracce molto articolate nel tempo. Gli edifici piú antichi risalgono alla
fine del V secolo, e fanno parte – probabilmente – di alcune abitazioni per i poveri volute accanto alla basilica da papa Simmaco (498-514). Un gesto di carattere assistenziale, quindi. Poi sono stati trovati i resti del monastero fondato da papa Gregorio II (715-731), il primo grande cenobio altomedievale in questa zona. E ancora, le due scoperte piú stupefacenti di questi scavi: un tratto del grande portico colonnato che collegava il santuario a Roma, costruito durante l’età Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo che mostra la basilica di S. Paolo fuori le Mura cosí come doveva presentarsi nel X sec. Qui accanto: un’immagine dell’assetto attuale del complesso.
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tardo-antica e poi restaurato dai papi nell’Alto Medioevo; e, assieme a questo, i resti di un piccolo edificio quadrangolare che al momento si candida come il piú antico campanile di Roma, essendo stato costruito verso la fine dell’VIII secolo. I restauri del portico e la costruzione del
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campanile si dovrebbero a papa Adriano I (772-795), che mise in atto un grande progetto di ristrutturazione della città di Roma e dei suoi principali luoghi di culto: nel corso dei lavori è stata trovata anche una tegola bollata con il suo monogramma. Ma non finisce qui, perché gli scavi
hanno portato alla luce anche le tracce del grande cantiere che affiancò S. Paolo nel corso dell’VIII secolo. E cosí possiamo ricostruire nel dettaglio il funzionamento di questa catena operativa, di cui restano elementi significativi. Tra questi, le fosse circolari e le vasche in cui si preparava la malta,
il legante per le murature; e le cataste di marmi antichi – tra cui alcuni fusti di colonne – accumulati per essere bruciati e trasformati cosí in calce. E tutto il cantiere ci riporta a una parola, a una pratica che nell’Alto Medioevo era all’ordine del giorno, nell’industria edilizia: riciclaggio.
A sinistra: ricostruzione grafica nella quale si immagina il cantiere aperto accanto alla basilica di S. Paolo nell’VIII sec. Si notino le fosse circolari e le vasche nelle quali si preparava la malta, e le cataste di
marmi antichi pronti per essere bruciati e trasformati in calce. In alto: i resti del portico colonnato al termine dello scavo e prima dell’intervento di musealizzazione (vedi foto alle pp. 108/109).
Quasi tutto si riciclava, dai mattoni ai blocchi di tufo, dalle colonne fino alle tegole dei tetti. Non c’era alcun bisogno di creare materiali da costruzione ex novo: le macerie della città antica erano lí, disponibili, bastava armarsi di piccone, martello e scalpello. E dai resti di un passato ormai inutile nascevano le nuove costruzioni.
a S. Paolo fuori le Mura oggi si possono ripercorrere in un ottimo allestimento, inaugurato di recente, arricchito da splendide ricostruzioni grafiche. E questo è il finale migliore per un’indagine archeologica: quando si riesce a valorizzare i risultati sul posto, rendendoli comprensibili e visibili a tutti, ecco che allora si può davvero parlare di archeologia pubblica. Le ricerche presso la basilica di S. Paolo fuori le Mura, dirette da Lucrezia Spera e Giorgio Filippi, sono state condotte da una équipe del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, in accordo con i Musei Vaticani. Il successivo allestimento è stato curato da Waferstudio, grazie al supporto della Fondazione Cavalieri di Colombo.
DALLO SCAVO AL RACCONTO La piccola città nata attorno a S. Paolo si espanderà fino al X secolo. Le tracce successive ci parlano poi di un uso sempre meno intenso di quell’area, che verrà progressivamente destinata ad attività agricole. Tutte queste storie recuperate dal terreno attorno
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
UN TRUFFATORE DI GRANDE SUCCESSO ACCADDE AD ABONUTICO, SULLE COSTE DEL MAR NERO: UN TALE ALESSANDRO, BELLO, ESPERTO DI MAGIA E DALLA PAROLA FACILE, INVENTA UN CULTO ISPIRATO AD ASCLEPIO. COMPLICE UN SERPENTE DAL VOLTO UMANO E DAI CAPELLI FLUENTI…
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a letteratura greca e quella latina ci hanno tramandato storie incredibili che non si devono all’estro creativo del narratore, ma che riportano fatti realmente accaduti. Quando poi a raccontarle è chi le ha vissute in prima persona ed è un retore, filosofo e scrittore come Luciano di Samosata (120 circa-180 d.C.), leggerle è nello stesso tempo un piacere intellettuale e un aprire la finestra sulla mentalità antica, eguale a quella moderna quando si tratta di credulità. La storia in questione è quella di Alessandro di Abonutico, città della Plafagonia, sulle coste del Mar Nero, che istituí intorno al 140 d.C. un culto al dio serpente Glykon «novello Asclepio», palesemente inventato ma che conobbe un successo grandissimo nell’impero, sino ad annoverare tra i suoi seguaci personaggi di altissimo rango della Roma dell’epoca e perdurato sino al III secolo d.C. Luciano, che fu personalmente osteggiato e quasi fatto uccidere da Alessandro per aver tentato di smascherarlo, narra estesamente e con dovizia di particolari la vicenda nella sua opera Alessandro o il falso profeta, redatto su invito del suo amico e filosofo Celso, autore a
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sua volta di uno scritto contro i falsi «Magi». In breve, l’ascesa di questo Alessandro, bello e imponente, dalla voce suadente, senza arte né parte, ma estremamente affascinante, spregiudicato e malvagio, fece il suo apprendistato, anche erotico, da un prestigiatore ciarlatano che lo introdusse ai trucchi e al saper sfruttare la credulità degli uomini. Fattosi esperto in giochi di magia, dalla parola facile e dotato di una forte capacità di fascinazione sulla psiche umana, arrivò a creare un nuovo culto oracolare legato ad Asclepio, divenendo il sacerdote di una sorta di marionetta animata, formata da un grosso serpente addomesticato e mansueto, al quale applicava un cappuccio a forma di testa umana con tanto di capelli, che apriva e chiudeva la bocca dalla quale spuntava una lingua nera.
PUBLIO RUTILIANO, PREFETTO CREDULONE Alessandro affermò di essere discendente e oracolo di Asclepio, e che i suoi vaticini erano ispirati dal serpente Glykon: tutti gli credettero, riempendolo di ricchezze e onori per ottenere la benevolenza del gran messo del
dio guaritore, che inoltre generava figli con le sue piú belle adepte con il beneplacito dei mariti. In breve arrivò a esercitare la sua arte truffaldina nelle province orientali dell’impero, quali la Tracia, la Bitinia e la Galizia, per poi raggiungere anche Roma, dove una sua figlia, nata a suo dire dall’unione con la dea Selene, sposò addirittura il prefetto d’Asia Publio Mummio Sisenna Rutiliano, uomo valentissimo, ma sorprendentemente credulo, imparentandosi cosí con l’élite dell’Urbe ed entrando in contatto con il potere imperiale. Anche gli imperatori gli diedero credito, giungendo a ribattezzare la città natia, Abonutico, Ionopoli, come Alessandro aveva chiesto a Marco
A sinistra: le sculture rinvenute a Tomis (oggi Costanza, Romania), fra le quali figura la rappresentazione del serpente Glykon. Nella pagina accanto: moneta in bronzo di Antonino Pio. Zecca di Abonutico, Plafagonia. Al dritto, l’imperatore; al rovescio Glykon. In basso: banconota da 10 000 lei del 1994, con il ritratto dello storico Nicolae Iorga e la statuetta di Glykon. Luciano ricorda che a Glykon, «nipote di Zeus, luce agli uomini» furono dedicati dipinti, le menzionate monete e statuette anche in metalli preziosi.
CHIOME, CAPPUCCI E... PARRUCCHE
Aurelio e come effettivamente ricorre nella monetazione, tanto che il nome attuale del sito, in Turchia, è Inebolu, che sembra conservare il ricordo di entrambe le denominazioni antiche dell’abitato. La locale zecca emise in età antonina e sotto Gordiano III monete in bronzo a nome di Abonutico e poi di Ionopoli, con il profilo imperiale al dritto e, al rovescio, il serpente a testa umana con la leggenda Glykon associata al nome della città.
Nel corso delle terribili pestilenze di età antonina – tra cui quella del 165-166 d.C. scoppiata tra le truppe romane inviate a combattere i Parti, durata circa vent’anni e a causa della quale trovò la morte nel 180 d.C. anche Marco Aurelio – Alessandro oracolò che chiunque avesse scritto sulla propria porta di casa la frase «Febo dalle lunghe trecce dissiperà la nube della piaga» sarebbe scampato al contagio, cosa che naturalmente non avvenne.
A Tomis, l’attuale Costanza, in Romania, è stata ritrovata, insieme ad altre sculture, una pregevole statua in marmo di Glykon con la sua lunga capigliatura, oggi esposta nel Museo Nazionale di Bucarest. Datata alla fine del II secolo d.C. e alta 66 cm, è stato calcolato che raffiguri un serpente lungo ben 4,76 m; per celebrarne il ritrovamento, la Romania ha raffigurato la statua su francobolli (1974) e banconote (1994). Un altro Glykon in bronzo, esposto nel Museo dell’Anatolia di Ankara, effigia con precisione il rettile dal volto semiumano creato da Alessandro, mettendo in bella mostra sul muso del serpente, a mò di mascherina, due legacci probabilmente relativi al cappuccio con capelli che la povera bestia di turno doveva indossare per il rituale a vantaggio degli adepti. Per concludere, sebbene Alessandro avesse profetato di vivere sino a centocinquant’anni, morí invece intorno ai settanta per una cancrena al piede, svelando con la morte che la sua fluente capigliatura, similmente a quella di Glykon, era solo una parrucca posta sulla testa calva.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Liberato De Caro, Fernando La Greca, Emilio Matricciani
SULLE TRACCE DELLA TOMBA DI SAN PIETRO Centro Editoriale Valtortiano, Isola del Liri (FR), 214 pp. 18,00 euro ISBN 978-88-7987-363-5 https:// mariavaltortastore.com
La scoperta delle presunte spoglie mortali di san Pietro nelle Grotte Vaticane ha suscitato diversi dubbi tra gli studiosi, che sembrano concordare sul fatto che questo non sia stato comunque il primo luogo di sepoltura dell’apostolo. Partendo dall’analisi degli scritti mistici di Maria Valtorta (1897-1961), che, da una sua visione, racconta di essere riuscita a intercettare indicazioni topografiche sul primo e l’ultimo luogo di sepoltura di Pietro, gli autori del saggio hanno cercato di dimostrare che quelle rivelazioni contengono molti dati aperti alla verifica attraverso diverse 114 a r c h e o
discipline scientifiche. Per il primo luogo di sepoltura, l’analisi di questi particolari testi, confrontati con l’archeologia di Roma del I-II secolo, ha portato a individuare un ipogeo scoperto nel 1864, ma non ancora del tutto esplorato, ubicato nei pressi della via Nomentana. Successivamente gli autori hanno indagato le memorie di san Pietro nelle catacombe romane partendo da un’analisi critica delle basiliche attribuite a Costantino nel Liber Pontificalis per poi approfondire la ricerca della memoria di Pietro nelle catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro (ad duos Lauros). La basilica e il mausoleo costruiti in quest’area cimiteriale, infatti, sono gli unici edifici attribuibili, con certezza, all’imperatore, il quale – prima del trasferimento della capitale a Costantinopoli – intendeva essere qui sepolto. Oltre ad alcuni sorprendenti reperti archeologici sulla memoria di Pietro già rinvenuti nei pressi di un particolare cubicolo di queste catacombe, uno studio geometrico e matematico delle insolite caratteristiche architettoniche della basilica e del mausoleo di Tor Pignattara mostra che gli edifici facevano parte di un unico piano architettonico, forse progettato per codificare dati utili a localizzare in modo univoco il luogo
di sepoltura di san Pietro nell’area del cubicolo menzionato, ma a un livello piú profondo e non ancora indagato. Anche in questo caso, solo una nuova e approfondita ricerca archeologica nei diversi livelli delle catacombe dei Ss. Marcellino e Pietro potrebbe confutare o confermare le ipotesi esposte nel volume. Giampiero Galasso Davide Mastroianni, Rosita Oriolo, Alessandra Vivona (a cura di)
STORYTELLING DEI PAESAGGI. METODOLOGIE E TECNICHE PER LA LORO NARRAZIONE Stratigrafie del paesaggio 1, Il Sileno, Lago (CS), 260 pp., ill. col. e b/n ISBN 979-12-800641-4-1 www.ilsileno.it
Debutta con questo titolo la rivista Stratigrafie del paesaggio, una proposta editoriale che, nell’intento dei curatori, mira a far emergere la complessità del concetto stesso di «paesaggio». I quindici contributi qui riuniti permettono di cogliere le innumerevoli derivazioni del tema. Il concetto di paesaggio viene infatti declinato nei suoi significati piú ampi, non solo in funzione di quanto l’uomo ha prodotto nel passato, ma anche, e soprattutto, di come questo attore deve agire nel presente. Ne conseguono l’importanza e l’accento dato al valore etico e
pubblico del ruolo che l’archeologia dovrebbe svolgere oggi nella società. In un primo contributo viene messo a punto lo stato della questione, delineandone i percorsi da seguire nelle sue componenti teoriche e pratiche, mentre quelli successivi assumono valore di esempi concreti. Studiare l’uomo e l’ambiente che lo circonda, attraverso processi di scomposizione e ricomposizione del tempo e dello spazio, permette di interpretare i singoli fenomeni secondo punti di vista differenti, manifestati concretamente nei casi presentati. Le narrazioni di carattere storico-topografico si avvicendano a resoconti sull’interazione tra l’uomo odierno, la propria identità storica, e i doveri ai quali è chiamato per la salvaguardia del clima. Completano il quadro interessanti lavori di taglio geografico, geologico e di carattere tematico. Luna S. Michelangeli