Archeo n. 437, Luglio 2021

Page 1

LA

CO RT ON A

ZIPPALANDA

MUSEO VALLE CAMONICA

CORTONA

HENRYK SIEMIRADZKI

SPECIALE L’IMPERO E LA CRISI ENERGETICA

OTTOCENTO

L’ANTICHITÀ DI HENRYK SIEMIRADZKI

SUL LEGNO POTERE FONDATO

QUANTO ERA ECOSOSTENIBILE L’IMPERO ROMANO?

SCAVI

CERCANDO ZIPPALANDA

UN NUOVO MUSEO PER LA VALCAMONICA ROMANA

CIVIDATE CAMUNO

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 9 LUGLIO 2021

.it

LU CE DE GL IA ww NT w. IC a rc HI he o

2021

Mens. Anno XXXV n. 437 luglio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 437 LUGLIO

UN

€ 5,90



EDITORIALE

QUELLE ANTICHE, CATTIVE ABITUDINI... È lecito applicare un concetto contemporaneo come quello di «crisi energetica» anche all’epoca antica? Lo suggerisce Flavio Russo, nello Speciale di questo numero (vedi alle pp. 94-111), dimostrando come l’intero fabbisogno energetico della Roma imperiale venisse, per secoli, fornito esclusivamente dalla combustione del legno. Apprendiamo cosí che l’approvvigionamento di questo materiale – fondamentale per la produzione di calore, ma anche per una serie di realizzazioni che hanno caratterizzato la grandezza di Roma, dalle costruzioni navali a quelle di strade e ponti, all’uso in metallurgia – seguisse le spietate regole del piú cinico opportunismo economicistico. Un discorso che valeva anche per la devastazione delle montagne, perpetrata in antico e sempre ai fini del loro sfruttamento come fonte di materia prima. Gli effetti, sul piano ambientale, non si fecero attendere. In una preziosa e documentatissima indagine sulla coscienza ecologica nel mondo romano, il latinista Paolo Fedeli ricorda come il prelievo indiscriminato delle risorse naturali e il massiccio disboscamento portarono a conseguenze gravi e, soprattutto, di non breve durata (La natura violata. Ecologia e mondo romano, Sellerio editore, Palermo, 1990). «Fu la deforestazione – scrive Fedeli – a produrre le piú vistose conseguenze in Grecia e in Roma (...) dove l’opera di disboscamento poteva essere perseguita addirittura dal potere statale». Se la distruzione delle montagne suscitò la riprovazione di Plinio il Vecchio («Noi invece tagliamo a pezzi e trasciniamo via, senza nessun altro scopo che i nostri piaceri, montagne che un tempo fu oggetto di meraviglia anche solo valicare», Storia Naturale, 36, 1), l’abbattimento di intere foreste trovò l’approvazione entusiastica di poeti illustri quali lo stesso Virgilio, come nel caso di quella che circondava il sacro Lago d’Averno, distrutta in occasione della trasformazione del vicino Lago Lucrino in base navale voluta da Agrippa nel 37 a.C. Fedeli cita, inoltre, il caso dell’Etruria che, secondo quanto ricorda Strabone, forniva legname in grande quantità, uno sfruttamento «iniziato in tempi molto antichi: già alla vigilia della spedizione di Scipione in Africa, nel 205, le foreste dell’Etruria erano state impietosamente devastate». Crisi energetica (forse una delle concause del declino imperiale?), ma anche crisi ambientale, e di lunga durata. «Basta puntare un compasso su Roma e tracciare un cerchio, per rendersene conto», segnala Flavio Russo, con riferimento al caratteristico aspetto arido e brullo delle odierne montagne del Centro Italia, e non solo. L’inevitabile conseguenza di questo «disboscamento in grande stile» è stato, secondo Paolo Fedeli, un «rovinoso dissesto idrogeologico»; l’autore di La natura violata sottolinea, poi, come gli antichi – Greci e Romani – del problema diedero una spiegazione dal tono fin troppo attuale: «il dissesto idrogeologico, infatti, venne considerato quale conseguenza di imprevedibili eventi naturali, mentre non si tirarono in ballo responsabilità umane»… Andreas M. Steiner Il brullo profilo di un settore dei Monti Sibillini, nell’Italia Centrale.


SOMMARIO EDITORIALE

Quelle antiche, cattive abitudini...

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

6

MOSTRE Le genti italiche e i loro tesori protagonisti di «Tota Italia», una ricca rassegna allestita a Roma, nelle Scuderie del Quirinale 6 PASSEGGIATE NEL PArCo La Casa delle Vestali, uno dei luoghi piú sacri della Roma antica, apre le sue porte al pubblico, dopo un importante intervento di restauro e musealizzazione 10

ALL’OMBRA DEL VULCANO Conchiglie dipinte, utilizzate per comporre mosaici, consumate con gusto nei banchetti, ma anche usate come strumenti musicali: il racconto di una presenza minore, ma non troppo, fra le case di Pompei... 14

MUSEI

Valle Camonica romana

Ecco il nuovo museo! 50 di Serena Solano

di Alessandro Mandolesi

SCAVI

Alla ricerca di Zippalanda

34

di Anacleto D’Agostino, Valentina Orsi e Giulia Torri

50 MOSTRE

Dall’Etruria la luce

64

a cura di di Giuseppe M. Della Fina, con contributi di Paolo Bruschetti, Luigi Donati e Paolo Giulierini

di Irma Della Giovampaola

34

64 € 5,90

www.archeo.it

it

IN EDICOLA IL 9 LUGLIO 2021

2021

ww

LA

w.a rc

ARCHEO 437 LUGLIO

CO RT ON A

di Giampiero Galasso

LU CE DE GL IA NT IC HI he o.

SCAVI A San Paolo Civitate (Foggia), riaffiorano i resti dell’anfiteatro di Teanum Apulum 12

Presidente

ZIPPALANDA

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

UN Mens. Anno XXXV n. 437 luglio 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE L’IMPERO E LA CRISI ENERGETICA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

HENRYK SIEMIRADZKI

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale

CORTONA

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

Federico Curti

MUSEO VALLE CAMONICA

Anno XXXVII, n. 437 - luglio 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

In copertina Vercingetorige al cospetto di Cesare (particolare), olio su tela di Henri-Paul Motte. 1886. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier.

POTERE FONDATO

SUL LEGNO QUANTO ERA ECOSOSTENIBILE L’IMPERO ROMANO? SCAVI

CERCANDO ZIPPALANDA OTTOCENTO

L’ANTICHITÀ DI HENRYK SIEMIRADZKI

arc437_Cop.indd 1

CIVIDATE CAMUNO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Paul J. Riis

UN NUOVO MUSEO PER LA VALCAMONICA ROMANA

25/06/21 17:44

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Paolo Bruschetti è Vice Lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Anacleto D’Agostino è condirettore della Missione Archeologica in Anatolia Centrale. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Irma Della Giovampaola è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Antonella Docci è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Luigi Donati è Lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona. Giampiero Galasso è giornalista. Antonio Giammarusti è architetto. Paolo Giulierini è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Jerzy Miziołek è storico dell’arte. Cinzia Morelli è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Valentina Orsi è assistente alla direzione della Missione Archeologica in Anatolia Centrale. Michele Orzano è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Serena Solano è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Bergamo e Brescia.


PROTAGONISTI

«Bruciare la legna verde»...

76

di Antonio Giammarusti

76

94

FORTUNA DELL’ANTICO Un’antichità (quasi) dal vero di Jerzy Miziołek

86

SPECIALE

Un impero molto poco sostenibile

94

di Flavio Russo

Rubriche

LIBRI

114

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

86

Nelle spire della sensualità 112 di Francesca Ceci

Giulia Torri è ittitologa. Nicoletta Volante è ricercatore e professore aggregato di preistoria e protostoria all’Università degli Studi di Siena.

Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Fine Art Images/Heritage Images: copertina (e pp. 110/111); AKG Images: pp. 69 (alto), 88/89, 96, 98-99, 109 (alto); Erich Lessing/ Album: pp. 86/87, 109 (basso); Album/Fine Art Images: p. 89; Album/Prisma: pp. 91 (alto), 97, 104/105; Fototeca Gilardi: p. 103 (alto); Album/Pedro Carrión: p. 106; Album/Collection Mx/Kharbine Tapabor: p. 107 – MANCA Editoriale – Doc. red.: pp. 3, 44-45, 69 (basso), 101, 102, 103 (centro e basso), 108 (basso), 112 – Ministero della Cultura: p. 7 (basso); su autorizzazione Soprintendenza ABAP province di Siena, Grosseto e Arezzo: p. 6 (alto); su concessione del Comune di Guidonia Montecelio, su concessione della Soprintendenza ABAP area Metropolitana di Roma e per la Provincia di Rieti/foto Giovanni Coccia: p. 6 (basso); su concessione Museo Archeologico Nazionale di Taranto: p. 7 (alto); su concessione della Soprintendenza ABAP Marche: p. 8 (alto); MANN archivio fotografico: p. 8 (basso) – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Soprintendenza ABAP province di Barletta-Andria-Trani e Foggia: pp. 12-13 – Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Parco archeologico di Ostia antica: pp. 16-17 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 20-21 – Archivio Università di Siena: pp. 22, 24 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 26-27, 64-68, 70-75 – Missione Archeologica Italo-Turca in Anatolia Centrale: pp. 34-35, 37, 38-43, 46-48 – Museo Archeologico Nazionale della Valle Camonica romana, Cividate Camuno: pp. 50-63 – Cortesia degli autori: pp. 76-84, 90/91, 91 (basso), 92/93, 104/105, 113 – Shutterstock: pp. 94/95 – Flavio Russo: ricostruzioni alle pp. 100, 108 (alto), 111 – Cippigraphix: cartine a p. 36. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

112

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o MOSTRE Roma

STORIA DI UNA PENISOLA

I

l progetto espositivo concretizzatosi in «Tota Italia. Alle origini di una Nazione» è stato ispirato dalla volontà di valorizzare l’importante patrimonio dei musei italiani, a cominciare dal Museo Nazionale Romano, rievocando la ricca pluralità culturale alle origini della storia del nostro Paese. Partendo dalla straordinaria varietà e ricchezza culturale dell’Italia preromana, affascinante mosaico di genti e tradizioni, la mostra racconta il processo di romanizzazione, che fu scontro, incontro e ibridazione, e ripercorre le tappe che condussero all’unificazione sotto le insegne di Roma, dal IV secolo a.C. all’età

6 archeo

giulio-claudia. Non a caso, quindi, il titolo riprende la formula del giuramento di Augusto, l’uomo che per la prima volta riunificò l’Italia in un territorio omogeneo, non solo dal punto di vista politico e amministrativo, ma anche culturale, religioso e linguistico. Roma, cuore pulsante di un gigantesco impero globale, conquistò il suo spazio e il suo ruolo relazionandosi, di volta in volta, con le tante culture e popolazioni che avevano guadagnato nei secoli un posto sulla scena del Mediterraneo, avendo come primo grande teatro del suo espansionismo la penisola italiana. Un’unificazione sotto il segno di Roma, ma capace di

In basso: gruppo marmoreo raffigurante la Triade Capitolina. II sec. d.C. Guidonia Montecelio, Museo Civico Archeologico «Rodolfo Lanciani».


A destra: rilievo con battaglia tra un Greco e un Persiano. III sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in alto: la Tabula Cortonensis, lastra in bronzo che reca un testo giuridico in lingua etrusca. II sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. In basso: rilievo con processione funeraria, da Amiternum. Seconda metà del I sec. a.C., L’Aquila, Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo.

conservare, al contempo, quella divisione in regioni che testimonia ancora oggi la ricchezza e la varietà delle nostre tradizioni. Lungo il percorso espositivo, articolato su entrambi i piani delle Scuderie del Quirinale, si possono dunque ammirare le opere piú significative di quella varietà espressiva che concorse alla formazione dell’Italia augustea e

archeo 7


n otiz iario

dell’impero. Si tratta di oltre 400 reperti esemplari, quali statue, elementi di arredo, produzioni ceramiche, a testimoniare il complesso dialogo tra Roma e il resto della Penisola. Filo conduttore della prima sezione è la varietà dei popoli italici prima dell’unificazione romana: in primo piano vi sono quindi gli aspetti sociali, culturali e artistici In alto: corona aurea, dalla necropoli di Montefortino d’Arcevia. III sec. a.C. Ancona, Museo Archeologico Nazionale delle Marche.

In basso: affresco con anatre appese e antilopi, da Ercolano. Prima metà del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

che caratterizzarono la variegata composizione etnica della Penisola. La seconda parte del racconto è incentrata sulla guerra, documentata da oggetti iconici o grandi fregi figurati, in grado di fornire nitide istantanee dell’espansione di Roma e dell’impatto sui suoi avversari, a partire dall’unificazione romana dopo le guerre puniche fino all’età di Augusto. «Tota Italia» offre l’occasione, forse irripetibile, di vedere riuniti reperti dall’assoluto valore storico, fra i quali possiamo qui ricordare: il trono decorato a rilievo delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini di Roma; il ritratto di Augusto con il capo velato del Museo Archeologico Nazionale delle Marche; corredi funerari iconici, come quello della «tomba dei due guerrieri» (Museo Archeologico Melfese «Massimo Pallottino») o quello di una tomba femminile dalla necropoli di Montefortino d’Arcevia (Museo Archeologico Nazionale delle Marche). E ancora il sostegno di mensa con due grifoni che attaccano un cerbiatto dal Museo Civico di Ascoli Satriano, fino al rilievo con scena di battaglia tra un cavaliere greco e un Persiano, dal Museo Archeologico Nazionale di Taranto. (red.)

DOVE E QUANDO «Tota Italia. Alle origini di una nazione» Roma, Scuderie del Quirinale fino al 25 luglio Info Call center tel. 02 92897722; e-mail: info@scuderiequirinale.it; www.scuderiequirinale.it

8 archeo


NUR_WAY

IL CAMMINO DEI NURAGHI Alla riscoperta dei tesori della Sardegna preistorica Nur_Way è un progetto cluster “top down” finanziato da Sardegna Ricerche che coinvolge l’Università di Sassari e imprese ed enti legati alla gestione del patrimonio archeologico della Sardegna. NurWay è la via dei nuraghi, la via che collega organismi di ricerca e imprese di gestione del patrimonio archeologico. È una rete fatta di archeologia, tecnologia, territorio, ma anche di persone, ricercatori, professionisti, operatori turistici uniti per migliorare l’attrattiva e la fruibilità del patrimonio archeologico della Sardegna. Il Sito Web del progetto è www.nurway.it, mentre su Google Playstore è disponibile l’app NurWAY. Università degli Studi di Sassari: DUMAS - Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali; Dipartimento di Agraria; DADU - Dipartimento di Architettura, Design e Urbanistica; Dipartimento di Chimica e Farmacia. Imprese partecipanti:

• Cooperativa Esedra Escursioni

• Fondazione Vulci

• Agriturismo Sa Tanchitta

• Cooperativa La Pintadera

• GeoInfoLab

• Associazione FuTurismo

• Cooperativa Ortuabis

• Luca Doro Beni Culturali

• Comune di Genuri

• Cooperativa Paleotur

• Nabui Società Benefit

• Comune di Tula

• Cooperativa Penisola del Sinis

• Società di Servizi Turistici Balares

• Cooperativa Archeotur

• Cooperativa Siendas

• Taulara Srl

• Cooperativa Costaval

• Cooperativa Sociale Liber

Progetto finanziato con fondi POR FESR 2014/2020 ASSE PRIORITARIO I “RICERCA SCIENTIFICA, SVILUPPO TECNOLOGICO E INNOVAZIONE.

archeo 9


PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

LA PIÚ SACRA DELLE CASE LE SACERDOTESSE DEDICATE AL CULTO DI VESTA E ALLA SORVEGLIANZA DEL FUOCO SACRO ABITAVANO NEL CUORE DEL FORO ROMANO. IN UN EDIFICIO ORA RESTAURATO E MUSEALIZZATO

L

a Casa delle Vestali, o Atrium Vestae, venne messa in luce da Rodolfo Lanciani grazie agli scavi eseguiti negli anni 1882-1884. In particolare, gli ambienti ora aperti al pubblico per la prima volta dopo gli interventi di restauro e manutenzione effettuati nel 2011 – posti tra il lato SE del peristilio e la via Nova, che li costeggia – furono rinvenuti tra l’ottobre e il

novembre 1883, in seguito alla rimozione del grande muro di recinzione degli Orti Farnesiani e degli strati di interro, giunti fino a 20 m rispetto al piano antico. Il completamento dei lavori di scavo, condotti da Giacomo Boni, avvenne tra il 1898 e il 1903. Con la demolizione, nel 1900, della chiesa di S. Maria Liberatrice, furono rimessi in luce anche gli ambienti

dell’angolo sud-ovest. Subito dopo la scoperta ebbero inizio i lavori di sistemazione delle strutture e dei reperti lapidei rinvenuti, parte dei quali, successivamente esposti nell’Antiquarium forense, sono ora allestiti negli ambienti del settore SE, dopo un intervento di recupero conservativo condotto tra il 2013 e il 2020, in occasione del quale le indagini archeologiche hanno

Strutture di età traianea Ambienti del pianterreno

via Nova

Ambienti del primo piano Strutture di fasi precedenti tepidarium

caldarium

laconicum

Vasche

E cortile

D

C

B

triclinio? oecus A

peristilio

Planimetria del settore SE della Casa delle Vestali.

10 a r c h e o


consentito di acquisire nuovi dati sulle vicende che hanno interessato il complesso architettonico. L’assenza di strutture di età repubblicana e la presenza, subito sotto i piani pavimentali imperiali, del suolo naturale, costituito nei punti di affioramento da sedimenti di argilla fluvio-lacustre, conferma che il lato est dell’Atrium a sud della antica via Nova, prima delle ristrutturazioni neroniane dovute all’incendio del 64 d.C, doveva essere occupato dal bosco sacro, il Lucus Vestae. In seguito, dopo l’incendio del 64 d.C., questo settore fu occupato dalle strutture connesse alla Porticus neroniana, costruita lungo la via Sacra come accesso monumentale alla Domus Aurea. In questa fase, completata probabilmente dagli imperatori flavi, la Porticus e l’Atrium si allinearono all’andamento NO-SE del Foro Romano.

LA DATA DAI BOLLI Alla fase neroniano-flavia si possono ascrivere alcune strutture murarie rinvenute nelle indagini piú recenti nel settore SE, sia al cosiddetto mezzanino, sia al piano terra, inglobate nelle strutture traianee di cui costituiranno il palinsesto e che dovevano assolvere anche la funzione di sostegno della pendice del Palatino. Sulla base dei

bolli laterizi rinvenuti, questa fase è databile negli anni immediatamente successivi alla costruzione delle Terme diTraiano, intorno al 110-113 d.C. Nella fase traianea gli ambienti posti al pianterreno (A-E; vedi pianta alla pagina precedente), dovevano avere funzioni residenziali e di rappresentanza, un dato confermato dalla decorazione parietale in lastre marmoree, di cui vi sono tracce evidenti nei fori da grappa sui muri. Allo stato attuale non rimangono resti della decorazione pavimentale coeva a questa fase, a eccezione di un residuo nell’ambiente B. Anche i vani del piano ammezzato possono essere interpretati come ambienti residenziali e privati piú che come stanze di servizio. Erano infatti accessibili solo dal cortile interno, a sua volta connesso a un percorso primario della Casa, caratterizzati da un apparato decorativo ben definito e da un complesso sistema di aerazione e illuminazione, che coinvolse strutturalmente gli ambienti del piano superiore, dotati di un balneum anche nella fase traianea. In età adrianea i vani sud-orientali della Casa, pur mantenendo in parte le funzioni precedenti, sembrano essere stati destinati a usi meno prestigiosi. Sostanzialmente, fino almeno al IV secolo, il piano inferiore restò pressoché immutato,

In questa pagina: la Casa delle Vestali al termine dei recenti interventi di restauro e musealizzazione. Quest’ultima ha compreso la collocazione nella struttura di statue e reperti qui rinvenuti negli scavi di Lanciani e Boni.

mentre interventi e modifiche furono effettuati solo ai piani superiori. L’allestimento museale del settore, con la realizzazione di un percorso di visita che si snoda lungo il corridoio A, ha permesso la sistemazione dell’ambiente B, il recupero dell’ambiente C, adibito già negli anni Sessanta del XX secolo a piccolo antiquarium della Casa delle Vestali, il restauro della mola nell’ambiente D e l’allestimento di alcuni elementi architettonici nell’ambiente E. Irma Della Giovampaola

a r c h e o 11


n otiz iario

SCOPERTE Puglia

ECHI DI ANTICHI INCITAMENTI

D

i un’importante scoperta è stato teatro il territorio di San Paolo Civitate (Foggia), grazie alle recenti indagini che hanno interessato parte dell’insediamento pluristratificato di Tiati. Noto dalle fonti come Teanum Apulum, a partire dalla tarda età repubblicana l’insediamento divenne municipium, con i suoi cittadini iscritti alla tribú Cornelia, dando inizio, dalla metà del I secolo a.C., a una riorganizzazione in senso urbanistico-monumentale dell’antico abitato, che si estendeva su un pianoro collinare posto a controllo del fiume Fortore. «Le recenti attività di scavo – spiega Domenico Oione, funzionario archeologo responsabile di zona – si sono in parte concentrate in località Pezze della Chiesa: qui emergevano, dal piano di campagna attuale, resti evidenti di età romana, tra cui un ambiente voltato in opera cementizia, con paramenti in opera

12 a r c h e o

laterizia, pertinente a una struttura monumentale prospiciente il Regio Tratturo Aquila-Foggia. Lo stesso che si è poi rivelato essere uno degli accessi all’anfiteatro del municipium di Teanum Apulum, che con molta probabilità doveva collocarsi topograficamente nei pressi del circuito murario della città romana. Gli interventi hanno riportato alla luce, inaspettatamente, una porzione dell’edificio pubblico, databile al I-II secolo d.C., la cui localizzazione non era nota nell’ambito delle strutture urbane della città romana. L’anfiteatro risulta costituito da murature imponenti, caratterizzate da un possente nucleo in opus caementicium e paramenti in opus latericium, perfettamente conservati. È andato purtroppo perduto l’elevato della cavea, testimoniato dalla sola presenza di sporadici resti delle gradinate inferiori, mentre si conserva gran

parte di uno degli accessi e dei parapetti delimitanti l’arena. Al momento dell’abbandono, probabilmente in età tardo-antica o altomedievale, l’anfiteatro fu oggetto di spoglio e di distruzione e l’area venne verosimilmente riutilizzata come necropoli, come testimonierebbe la presenza di sporadiche tracce dell’impianto di sepolture nelle aree un tempo destinate alle gradinate della cavea». «Nel corso del IV secolo a.C. – continua Oione – la penetrazione sannitica nel territorio del centro daunio di Tiati dovette essere tale da coinvolgere la città nella seconda guerra sannitica contro Roma. La sconfitta subita nel 318 a.C. determinò un patto di alleanza tra Tiati e Roma, e le terre, confiscate ai ceti dirigenti indigeni anti-romani, furono assegnate alla locale aristocrazia filo-romana. La presenza di Roma determinò una ristrutturazione del territorio: gli insediamenti sparsi scomparvero e l’abitato occupò un’area ristretta e compresa tra Coppa Mengoni e Pezze della Chiesa. Nel III-II secolo a.C. la riorganizzazione territoriale vide poi la nascita sia di ville e fattorie legate allo sfruttamento agricolo e all’allevamento transumante, sia di luoghi di culto, evidenze testimoniate da aree di dispersione di materiali in superficie. Prima della scoperta dell’anfiteatro, le sole testimonianze di un certo rilievo riferibili al municipium erano relative a strutture del I secolo a.C. riconducibili forse a una basilica in località Pezze della Chiesa, dove, negli anni Settanta, Ettore M. De Juliis aveva ipotizzato potessero collocarsi il foro della città e il monumento funerario della prima


Sulle due pagine: veduta d’insieme (qui accanto) e particolari dei resti dell’edificio pubblico identificato come anfiteatro e riferibile al municipium romano di Teanum Apulum, nel territorio dell’odierna San Paolo Civitate (Foggia). II-I sec. d.C.

età imperiale, noto come Torrione, lungo una delle vie che uscivano dalle mura dell’abitato. Il rinvenimento dell’anfiteatro di età imperiale rappresenta una testimonianza archeologica di straordinaria importanza, che consente la comprensione dell’assetto urbanistico della città romana di Teanum Apulum e ne attesta la monumentalizzazione. Il monumento dovette richiedere un notevole impegno economico, sostenuto probabilmente da qualche esponente dell’élite locale». Le indagini archeologiche sono state condotte dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Barletta-Andria-Trani e Foggia. Giampiero Galasso

a r c h e o 13


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

SAPORE DI MARE LA PIÚ FAMOSA È SENZA DUBBIO QUELLA CHE FA DA «GIACIGLIO» ALLA DEA VENERE, MA NON È CERTO LA SOLA: A POMPEI LE CONCHIGLIE SONO INFATTI UN PO’ OVUNQUE, UTILIZZATE PERFINO COME STRUMENTI SIMILI A TROMBE, MOLTO USATI DAI MARINAI

F

ra le immagini piú sensuali della pittura pompeiana spicca sicuramente quella di Venere nuda, mollemente adagiata su una grande valva di conchiglia scortata da Amorini, come fosse una comoda kline, che domina la decorazione del peristilio con lussureggiante giardino dell’omonima casa affacciata su Via dell’Abbondanza. In molte dimore pompeiane, il richiamo a una dimensione marina o d’acqua si ritrova anche in raffinate fontane e ninfei a edicola mosaicata, contornati da elaborate incrostazioni in pomici, paste vitree e gusci di conchiglie, questi ultimi solitamente di tre specie commestibili: Acanthocardia tubercolata, Cerastoderma edule e Murex brandaris. E negli scavi sono stati ritrovati in

14 a r c h e o

gran numero resti di molluschi commestibili, oggi conservati nel Laboratorio di Ricerche applicate di Pompei, come la cozza (Mytilus galloprovincialis), la patella (Patella ferruginea), il piè d’asino (Glycymeris glycymeris), il pettine o conchiglia di San Giacomo (Pecten jacobaeus) e lo spondilo (Spondylus gaederopus), fino al prelibato dattero di mare (Lithophaga lithophaga), rinvenuto in gruppi ancora racchiusi nel banco di roccia che li ospitava, perforato grazie a un acido che secernono e forano gli scogli calcarei.

SCORCI DI VITA QUOTIDIANA Altre conchiglie sono state invece gelosamente custodite dagli antichi abitanti della città vesuviana. Queste venivano raccolte e

conservate come oggetti eleganti e personali, oppure come strumenti utili o di valore apotropaico. In questi casi le conchiglie permettono di far conoscere alcuni momenti di vita quotidiana e di costume pompeiano. Come, per esempio, il guscio calcareo di un grosso mollusco mediterraneo, la Charonia nodifera, detta Tritone, trasformato, troncandone l’apice, in piccolo strumento a fiato di richiamo dal penetrante suono (buccinum), utilizzato soprattutto dai marinai. Questo mollusco è strettamente legato a Tritone, figlio di Poseidone e di Anfitrite, che vi soffiava dentro emettendo un suono simile a quello di una tromba per annunciare l’arrivo del dio del mare o per calmare le tempeste. In un esemplare, in tempi recenti, è stata addirittura aggiunta una


A sinistra: coppa in forma di conchiglia, dalla Casa di Fabio Rufo. Nella pagina accanto: il motivo della Venere in conchiglia ripreso nella decorazione a mosaico della fontana nella Casa dell’Orso ferito. In basso, a sinistra: l’affresco che dà nome alla Casa della Venere in Conchiglia. Qui sotto: una buccina ricavata da una Charonia nodifera.

parte in metallo per facilitare l’uso ai custodi degli scavi che la utilizzavano per avvisare i visitatori dell’imminente chiusura del sito archeologico. Dal fiume Sarno, un tempo ricco di acque chiare e navigabili, provengono invece valve di Anodonta cygnea, della famiglia degli Unionidi, oggi scomparsa ma in antico presente e molto ricercata, perché occasionalmente produceva apprezzate e irregolari «perle di fiume»; altre conchiglie, oggi purtroppo assai rare, provenivano dall’antistante golfo di Napoli, come la Tonna galea, dal corpo rotondeggiante, fra i gasteropodi piú grandi del Mediterraneo. Viaggiatori e marinai hanno poi portato da fuori eleganti e insoliti esemplari, fra cui l’esotica Ciprea pantherina, proveniente dal Mar

Rosso, considerata, per la sua forma, un potente amuleto contro le malattie femminili. Rinvenimenti frequenti di cipree nelle domus pompeiane si spiegano con la presenza, nel mare campano, della Ciprea lurida, che, ancora alla fine dell’Ottocento, veniva portata al collo dalle donne per scacciare la sterilità.

RICORDI DI VIAGGIO E ancora, la bivalve Lutraria lutraria, un grosso mollusco che vive profondamente infisso nella sabbia, una volta comune nel golfo di Napoli, oppure la grande tridacna, specie bivalve proveniente invece dalle scogliere madreporiche dei mari tropicali, testimone di scambi con paesi lontani. L’elegante tridacna, replicata finanche in bronzo con la

funzione di coppa per liquidi, come quella trovata nella Casa di Fabio Rufo, è probabilmente la stessa valva che culla l’immagine della Venere in conchiglia. Il rinvenimento negli scavi della Conus textile, comune nell’Oceano Indiano, è forse il ricordo di un viaggio lontano, mentre la bella ostrica perlifera (Pinctada margartifera) è stata trasformata in un esotico oggetto di bellezza, asportandone lo strato superiore per esaltare la sottostante superficie madreperlacea, anch’essa arrivata dall’Oriente. E in questo «mare pompeiano» non poteva mancare il corallo (Corallum rubrum), pescato non lontano dalla costa, a partire dai 20 m di profondità, cosí presente in loco da stimolare l’attività di abili corallari in grado di creare monili lavorati in forme di piccoli corni, utilizzati già a quel tempo come portafortuna. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

a r c h e o 15


FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

ACQUE DA SMALTIRE E ACQUE PER STARE BENE GLI INTERVENTI DI MANUTENZIONE NELL’AREA ARCHEOLOGICA OSTIENSE HANNO INTERESSATO L’ANTICA RETE FOGNARIA E VARI IMPIANTI TERMALI. ACCOMPAGNATI DA NUOVI SCAVI, HANNO RESTITUITO IMPORTANTI NOVITÀ

L’

antica Ostia, sorta alla foce del Tevere – da cui prese il nome (ostium significa infatti «foce del fiume») – fu fondata secondo Tito Livio dal re Anco Marcio; in realtà, le prime testimonianze archeologiche note

risalgono al IV secolo a.C. quando fu edificato un castrum (cittadella fortificata). Ostia divenne il porto di Roma nel quale giungevano da tutto il Mediterraneo merci di ogni genere destinate alla capitale e al suo territorio. La città si espanse In alto: un tratto del condotto fognario rinvenuto lungo il Cardo degli Aurighi. A sinistra: panoramica dello scavo del condotto fognario rinvenuto lungo il Cardo degli Aurighi. Nella pagina accanto: il mosaico del Nettuno nelle omonime terme.

16 a r c h e o


rapidamente, divenendo un centro cosmopolita e multietnico che raggiunse, probabilmente, una popolazione di 50 000 abitanti in piena epoca imperiale.

Oggi l’Area Archeologica di Ostia antica si estende su circa 83 ettari, 35 dei quali caratterizzati dalla presenza di edifici conservati anche fino al terzo piano; gli 87 isolati attualmente riportati in luce

garantiscono la piena fruizione dell’antica città. Proprio la rete fognaria di epoca romana è stata negli ultimi anni oggetto di un progetto di rifunzionalizzazione, ancora in corso, che sta consentendo di ricostruire lo sviluppo del sistema ostiense di smaltimento delle acque: un sistema che corre al di sotto delle strade con andamento «a pettine», funzionalmente dinamico, cresciuto insieme all’abitato antico. L’iniziale

e distribuiti lungo le 45 vie principali e piazze, sono a loro volta composti da 425 unità immobiliari subalterne appartenenti alle piú svariate tipologie: dai templi alle abitazioni private, dagli edifici termali alle tabernae (negozi e officine) e ai thermopolia (spacci di cibi e bevande), dai grandi edifici pubblici ai magazzini per le merci. Questo vasto e variegato patrimonio edilizio, realizzato con diverse tipologie di materiali e spesso impreziosito da ricchi apparati decorativi – sia parietali, sia pavimentali – necessita per la sua conservazione di una manutenzione continua e attenta, indirizzata anche a tutte quelle strutture funzionali (quali, per esempio, le reti fognarie antiche ancora oggi in uso) che

fognatura di epoca repubblicana, con strutture a blocchi di tufo, venne infatti in parte rialzata, fondendosi al piú ampio e capillare reticolo di epoca imperiale, in uso parziale almeno fino al periodo tardo-antico. Alle risistemazioni di epoca romana si aggiunsero poi gli interventi novecenteschi di scavo, rimessa in pristino e implementazione della rete fognante preesistente. L’intervento attuale sta riportando in luce lunghi tratti della rete fognante antica, di splendida fattura e perfettamente conservati. È il caso del condotto posto sotto il Cardo degli Aurighi, appartenente all’epoca traianeo-adrianea, percorribile per tutta la sua lunghezza (70 m); la fognatura è realizzata con spallette in cementizio e copertura in laterizi

UNA GRANDE VARIETÀ DI TIPOLOGIE EDILIZIE

disposti alla cappuccina; le murature sono rivestite da un bellissimo paramento in opera reticolata di tufo, con ricorsi in tufelli quadrangolari posti sia alla base del condotto, sia in punti strutturalmente delicati, come in corrispondenza del cambiamento di direzione dei setti murari.

GLI INTERVENTI SUI MOSAICI Altrettanto interessanti sono gli interventi di manutenzione straordinaria realizzati nel 2020 su una serie di mosaici localizzati nella zona centrale della città (Regiones II e IV), che, oltre a migliorare le condizioni conservative di alcuni tra i piú bei pavimenti in opus tessellatum di Ostia, hanno permesso di effettuare un’analisi approfondita della tecnica esecutiva e della storia dei restauri pregressi. Il restauro costituisce, infatti, quel momento critico in cui è possibile valutare la consistenza materiale degli apparati decorativi mettendo in relazione le caratteristiche fisico-chimiche dei materiali con tutte le modifiche apportate dal tempo, dai fattori di deterioramento ambientali e dall’azione dell’uomo. Tra i mosaici oggetto degli interventi, si segnalano, in particolare, quelli che decorano alcuni ambienti delle Terme di Nettuno, delle Terme dei Cisiarii e del Piazzale delle Corporazioni. Per la conservazione e gestione di tali dati il Parco archeologico di Ostia ha in animo di realizzare una piattaforma informatica versatile, in grado di essere non solo un aggiornato strumento di tipo conoscitivo, ma anche un efficace strumento di gestione a supporto dell’azione conservativa e della valutazione dell’efficacia nel tempo degli interventi promossi. Cinzia Morelli, Antonella Docci, Michele Orzano

a r c h e o 17


i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

LA RINASCITA DI UN LUOGO SIMBOLO

L

a XXIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, in programma dal 30 settembre al 3 ottobre, avrà luogo al Tabacchificio Cafasso, il sito di archeologia industriale che Gillo Dorfles definí «simbolo della Piana del Sele». Il complesso dell’ex Tabacchificio, a soli 1000 metri dall’area archeologica e ubicato nel Borgo Cafasso – centro rurale sorto agli inizi del secolo scorso e sviluppatosi intorno agli impianti produttivi – è finalmente a disposizione della città di Capaccio Paestum. «Capaccio Paestum – ha dichiarato il Sindaco Franco Alfieri – ha a disposizione una struttura in piú. Abbiamo manifestato interesse all’acquisizione del complesso dell’ex Tabacchificio mediante locazione, con l’obiettivo preciso di acquistare l’immobile, appena sarà possibile. Lo abbiamo fatto non solo per l’importante valore storico-culturale dell’edificio, ma anche per poter mettere a disposizione della collettività un altro spazio, un contenitore prestigioso e imponente da utilizzare per realizzare attività di pubblico interesse all’altezza L’ex Tabacchificio Cafasso, nella Piana del Sele.

18 a r c h e o

della storia e dello splendore della Città di Capaccio Paestum, sin dalla prossima edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico». La prestigiosa testimonianza di archeologia industriale è resto materiale del passato, che attesta la progressiva evoluzione della tecnologia e il conseguente mutamento del paesaggio agricolo circostante. L’archeologia industriale, infatti, fa riscoprire le origini della società moderna, ripercorrendo l’iter dell’attuale progresso: le vecchie fabbriche possono cosí far rivivere il ricordo degli uomini che vi lavoravano e, soprattutto, il lavoro femminile delle «tabacchine». Oltre vent’anni fa una indagine storico-urbanistica e progettuale, nata su proposta dell’architetto Fausto Martino nell’ambito di una ricerca di tesi della Facoltà di Architettura di Napoli e sviluppata secondo gli indirizzi forniti dalla stessa Soprintendenza BAPPSAE, formulava per il manufatto industriale una proposta di intervento di restauro e riconversione a polo fieristicoespositivo per la promozione delle filiere produttive locali. L’ex Tabacchificio rappresenta un esempio mirabile di come agli inizi degli anni Venti l’iniziativa imprenditoriale, dapprima nel settore ortofrutticolo, poi con l’introduzione dell’industria del tabacco, abbia rappresentato un significativo stimolo per lo sviluppo di insediamenti nella Piana del Sele. La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico nacque nel 1998, grazie alla Provincia di Salerno, presieduta allora da Alfonso Andria, che volle sostenere fortemente l’intuizione del Fondatore e Direttore Ugo Picarelli, intravedendo nell’iniziativa una strategica opportunità di valorizzazione dell’area archeologica di Paestum, che era stata riconosciuta, proprio in quell’anno, Patrimonio dell’Umanità, grazie allo straordinario impegno dello stesso Andria. Le prime edizioni fino al 2012 e le ultime, nel 2018 e 2019, si erano svolte in strutture ricettive alberghiere a circa 6 km dall’area archeologica, mentre dal 2013 al 2017 in tensostrutture e cupole geodetiche nei pressi del sito UNESCO. La nuova location, che in occasione dello sbarco durante il secondo conflitto fu utilizzata dalle Forze Alleate quale Quartier Generale del Comandante Mark Clark e poi come Ospedale militare, rappresenta la storia economica e sociale del territorio e dunque pienamente appropriata a svolgere la nuova funzione di infrastruttura culturale al suo servizio e per il suo sviluppo. Info www.borsaturismoarcheologico.it



IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

SULLE TRACCE DELLA SFINGE GLI ANIMALI FANTASTICI SONO UNA CARATTERISTICA TIPICA DELL’ARTE E DELL’ARCHITETTURA ETRUSCHE DELL’AREA VULCENTE. UNA MOSTRA «ITINERANTE» INVITA ALLA SCOPERTA DI QUESTI VERI E PROPRI TESORI DEL TERRITORIO

D

alla metà di questo mese è possibile andare alla ricerca delle particolari rappresentazioni animalistiche, tanto in voga in epoca etrusca. La mostra «Leoni, Sirene e Sfingi. Animali fantastici etruschi e dove trovarli» si sviluppa infatti in maniera itinerante, toccando le principali città etrusche controllate da Vulci, poste lungo il corso del Fiora. Cosí dai «mostri» raffigurati sulle edicole delle tombe a camera di Sovana, tra cui spiccano le sirene e i demoni alati,

UMBRIA TOSCANA

Orvieto

Scansano Saturnia

Sovana

Grotte di Castro Bolsena

Pitigliano

Lago di Bolsena

Manciano

Ischia di Castro

Porto Santo Stefano

Valentano Montefiascone

Antica Castro

Albinia

Canino

Capalbio Vulci

Porto Ercole

Mar Tirreno

LAZIO

Arlena di Castro

Orbetello

Tuscania

Viterbo

Montalto di Castro

il percorso si snoda all’interno dell’importante necropoli. Le Tombe Ildebranda, del Sileno, del Tifone, dei Demoni Alati, della Sirena e quella di recente apertura al pubblico, detta dei Leoni, ben manifestano il permanere, nella fase ellenistica, di ideologie funerarie che vedono il mondo dell’aldilà popolato da figure mitiche e fantastiche. Non estranea a questo rinnovato interesse è la parallela ripresa economica e sociale dell’aristocrazia terriera, che privilegia le elaborate scenografie delle facciate tombali come elemento di distinzione sociale.

20 a r c h e o

Acquapendente

Da Sovana ci si sposta nella vicina Pitigliano, dove, presso il Museo Civico «E. Pellegrini», è possibile vedere il Leone Alato, ultimo ritrovamento effettuato nella necropoli settentrionale di Vulci. Qui, a partire dagli ultimi decenni del VII secolo a.C., si diffuse nelle necropoli l’uso di decorare i prospetti esterni delle tombe dei ceti gentilizi con statue in nenfro, raffiguranti per lo piú animali reali o fantastici: leoni, pantere, arieti, cavalli, ippocampi e creature semiumane, come le sfingi o i centauri, i cui modelli originari, stilistici e iconografici, erano di derivazione orientale e greca. Al Museo di Pitigliano, la statua di nenfro è


accompagnata da ceramiche etrusco-corinzie rinvenute nella necropoli di Poggio Buco. Seguono poi il Museo Civico Archeologico di Ischia di Castro e la necropoli di Castro, dalla quale provengono le straordinarie sculture della Tomba dei Bronzi e le colossali protomi della Tomba a Casa. Al Museo della Ricerca Scientifica di Canino si può invece ammirare la Sfinge ritrovata nella tomba che da lei ha preso nome e

che invita alla visita di Vulci, dove è stato recentemente aperto un percorso attrezzato che consente anche a coloro che hanno difficoltà motorie di raggiungere facilmente l’importante sepolcro.

Qui sotto: statua di leone alato, dalla necropoli dell’Osteria di Vulci. Nella pagina accanto, in basso: statua

di leone ruggente, da Vulci. A destra: anfora etrusco-corinzia del Pittore della Sfinge Barbuta.

UN TUMULO IMPONENTE A Vulci la visita continua sino al grande Tumulo della Cuccumella, uno dei piú imponenti monumenti funerari costruiti dagli Etruschi. Il giro termina a Montalto di Castro,

dove sono visibili un nutrito gruppo di statue provenienti dalle necropoli vulcenti, all’interno della mostra «Sfingi, Leoni e Mani d’Argento. Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci». La mostra è in anteprima estiva presso il neonato Museo della Scultura e dell’Arte Etrusca di Vulci, ubicato nel Complesso Monumentale di S. Sisto, prima di raggiungere il Museo Archeologico di Francoforte, dove sarà presentata dal 2 novembre 2021 al 10 aprile 2022. Grazie a questo percorso tematico è possibile visitare ben tre parchi archeologici – il Parco Archeologico «Città del Tufo», il Parco Archeologico «Antica Castro», il Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci – e quattro musei civici (Pitigliano, Ischia di Castro, Canino e Montalto di Castro). Ciò permette di scoprire storie e monumenti che hanno caratterizzato la cultura di questa terra di frontiera posta sul confine tra Lazio e Toscana, rimasta ancora intatta dall’epoca etrusca. La mostra è stata realizzata grazie all’impegno della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per Viterbo e l’Etruria meridionale, la Regione Lazio, i Comuni di Canino, Ischia di Castro, Montalto di Castro, Pitigliano e Sorano, la Fondazione Vulci e la Cooperativa Zoe.

a r c h e o 21


A TUTTO CAMPO Nicoletta Volante

MINATORI NEOLITICI IN MAREMMA AL POGGIO DI SPACCASASSO, SUI MONTI DELL’UCCELLINA, PRESSO ALBERESE, È STATA SCOPERTA UNA MINIERA DOVE, FIN DALLA PREISTORIA, SI PRATICAVA L’ESTRAZIONE DEL CINABRO, UN MINERALE ASSAI RICERCATO PER LE SUE PROPRIETÀ COLORANTI. OGGI, GLI SCAVI STANNO RIVELANDO LA SORPRENDENTE PERIZIA TECNICA AFFINATA, GIÀ IN QUELL’EPOCA COSÍ ANTICA, PER STRAPPARLO ALLA ROCCIA IN CUI ERA INCASSATO

I

l cinabro è un solfuro di mercurio, ricercato per la sua colorazione rossa e per l’elevato contenuto di mercurio. La sua presenza nella crosta terrestre è rara: oggi si estrae nei Balcani, in Cina, in Spagna e in Sud America; in Italia il giacimento piú conosciuto e coltivato è sul Monte Amiata, di cui un filone minore è venuto in luce al Poggio di Spaccasasso. Il cinabro è stato utilizzato fin dal Neolitico come pregiato sostituto dell’ocra, per la sua tonalità rosso vermiglio, e ha sempre goduto di una forte

22 a r c h e o

valenza simbolica: ne è stato riconosciuto l’impiego in diverse sepolture, cosparso sulle ossa dei defunti o sul pavimento delle tombe, nelle decorazioni dipinte di vasi in terracotta, ma anche applicato su sculture, intonaci e rivestimenti. La grave intossicazione da mercurio rilevata in alcune popolazioni neolitiche

del Portogallo ha fatto inoltre ipotizzare che il cinabro fosse alla base di pratiche di body painting. Nel tempo, il cinabro ha assunto un grande valore economico per l’elevato contenuto in mercurio, soprattutto nell’oreficeria, in medicina e nelle strumentazioni di precisione. La ricerca del mercurio in età moderna e contemporanea

A sinistra: una formazione di cinabro ancora aderente al calcare incassante; i colori sono qui resi piú vivaci dalla pioggia. A destra: Poggio di Spaccasasso.

L’ampliamento dell’area di scavo verso valle. Sul piano è già visibile il detrito di estrazione, nel quale sono dispersi gli strumenti utilizzati dai minatori preistorici per cavare il cinabro.


i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

1

2

3

4

1. Scavo del bagno termale alle Caldanelle, Civitella Paganico, Grosseto (roberto.farinelli@unisi.it). 2. La cella vinaria nella villa romana di San Giovanni, Isola d’Elba (franco.cambi@unisi.it). 3. Laboratorio di ceramica classica (mara.sternini@unisi.it). 4. Ricognizione alla ricerca di frequentazioni preistoriche in Maremma (giovanna.pizziolo@unisi.it). 5. Archeologia pubblica all’Archeodromo di Poggibonsi, Siena (marco.valenti@unisi.it). 6. Populonia, scavo sull’acropoli in collaborazione con la SABAP di Pisa-Livorno (stefano.camporeale@unisi.it, cynthia.mascione@unisi.it). 7. Antico sistema di gestione comunitaria dell’acqua ancora in uso nel comune di Arena, Vibo Valentia (carlo.citter@unisi.it)

A Siena l’archeologia è a tutto campo www.unisi.it

5

7

6

8

8. Analisi archeobotaniche di campioni organici dal sito medievale di Vetricella, Grosseto (giovanna.bianchi@unisi.it). 9. Un’antefissa etrusca dallo scavo di Roselle, Grosseto (andrea.zifferero@unisi.it). 10. Scavo di un sito eneolitico al Poggio di Spaccasasso, Grosseto (nicoletta.volante@unisi.it). 11. L’uso del lidar su drone per documentare le aree boschive della Maremma grossetana (stefano.campana@unisi.it). 12. Vignale (Livorno), pulizia e consolidamento di un mosaico (enrico.zanini@unisi.it).

9

10

11

12 a r c h e o 23


ha, di fatto, cancellato le tracce di estrazione piú antiche praticamente in tutti i giacimenti cinabriferi a oggi noti: per questa ragione la miniera neolitica di Spaccasasso rappresenta un unicum di cruciale importanza. Qui l’attività mineraria, risalente al Neolitico, ha lasciato alcune cavità a sviluppo verticale di piccole dimensioni, tra le quali un pozzo profondo quasi 6 m.

UNA TECNICA «CONTROPRODUCENTE» Le vene di cinabro coltivate durante il Neolitico si sono formate in un bancone di calcare particolarmente tenace: la durezza della roccia incassante ha determinato l’adozione di una tecnica estrattiva del tutto inusuale per questo tipo di coltivazione, che prevede l’uso del fuoco ed è denominata fire setting. Ben documentata già in epoca preistorica, tale tecnica consente di indebolire la roccia incassante mediante il calore del fuoco, acceso alla base dei fronti di estrazione. Si tratta di una pratica all’apparenza controproducente, perché il fuoco determina, già a basse temperature, la volatilizzazione del cinabro, facendo sprigionare nell’aria pericolosi vapori di mercurio. L’attività mineraria di Spaccasasso prevedeva quindi un eccellente controllo del fuoco e di tutti i passaggi previsti per l’abbattimento dei fronti, in modo da garantire una sufficiente resa del minerale: il fire setting è infatti documentato da alcuni focolari conservati nelle nicchie alla base dei fronti di coltivazione piú recenti, al di sopra di un deposito di colmata di fronti piú antichi. Sui piani di lavoro sono dispersi strumenti da miniera in pietra: mazzuoli, mazze, picconi e martelletti realizzati in gabbro o quarzarenite. Impiegati nelle diverse fasi del lavoro, presentano morfologie, dimensioni e peso

24 a r c h e o

Il paesaggio minerario sul Poggio di Spaccasasso: piani e fronti di estrazione su cui si aprono piccole cavità e un pozzo, colmate da detriti. diversi; a volte anche solchi trasversali utili al fissaggio di manici in legno o all’alloggio di corde nel caso di un loro uso con bascule. Incudini in pietra di varie dimensioni servivano verosimilmente per la riduzione del calcare e per il recupero della polvere di cinabro. Il legno carbonizzato è risultato appartenere a specie arboree quali la quercia e l’erica, entrambe dotate di alto potere comburente, ma anche al cisto, un arbusto fortemente infiammabile per la concentrazione di olii essenziali nelle fibre della pianta. La presenza di tali specie mette in luce scelte mirate nella conduzione della tecnica del fire setting. Una volta abbandonata la miniera, durante l’età del Rame (tra la metà del IV e il II millennio a.C.) il sito viene utilizzato come luogo collettivo di sepoltura: dal pianoro e

dal pozzo minerario sono stati infatti recuperati i resti di oltre cento individui, oggetto di pratiche funerarie complesse. Il ritrovamento del Poggio di Spaccasasso, oltre a documentare una tecnologia mineraria finora sconosciuta, permette di inquadrare meglio altri rinvenimenti emersi negli anni passati dalle miniere di mercurio del Monte Amiata, come quelle del Cornacchino (Castell’Azzara), del Siele e di Solforate (Piancastagnaio) e di Cortevecchia (Santa Fiora). L’attività di estrazione del cinabro amiatino continua anche in età etrusca e si interrompe a partire dal III secolo a.C., dopo che Roma avvia lo sfruttamento intensivo nelle miniere di Almadén (Spagna), località famosa per i giacimenti di mercurio tra i piú ricchi del mondo. (nicoletta.volante@unisi.it)



n otiz iario

MOSTRE Veneto

FIGURE CHE PARLANO

I

l Museo Nazionale Atestino propone una piccola, ma preziosa mostra, dedicata alla cosiddetta Arte delle Situle, vale a dire alla produzione di manufatti in bronzo laminato, sbalzato e cesellato caratterizzati da ricche decorazioni di cui sono protagonisti soprattutto animali reali e fantastici, disposti in teorie che, secondo gli studi piú recenti, compongono forse una sorta di vero e proprio linguaggio per immagini (vedi «Archeo» n. 419, gennaio 2020; anche on line su issuu.com). A oggi, il nucleo piú consistente di testimonianze è riferibile agli antichi Veneti, ma il fenomeno dell’Arte delle Situle ebbe una diffusione ben piú ampia, spaziando dall’Abruzzo all’Austria, dai Celti dell’Ovest agli Sloveni delle regioni alpine, coinvolgendo quindi culture diverse. Per la prima volta si riuniscono a Este, dove forse furono prodotte, le opere piú antiche dell’Arte delle Situle, che dunque tornano al luogo di origine

26 a r c h e o

dopo oltre 2600 anni: cosí come i vasi greci raccontano di Atene, le situle (vasi di bronzo a forma di secchiello) raccontano di Este. E possiamo perciò dire che per i Veneti le Situle furono una sorta di Odissea. Da segnalare l’ampio spazio dedicato all’archeologia sperimentale, grazie alla quale è stato possibile acquisire informazioni preziose sulle tecniche impiegate nella realizzazione delle situle e degli altri oggetti in bronzo a esse affini. Ma di questo e dei molti altri temi sviluppati nella mostra torneremo a parlare in un piú ampio articolo di prossima pubblicazione. (red.)

DOVE E QUANDO Una faccia della situla Benvenuti e, in alto, un particolare della decorazione in cui si vedono un grande gabbiano con un pesce nel becco e un centauro, dalla tomba 126 dell’omonima necropoli atestina. 620 a.C. circa.

«Le fiere della vanità» Este, Museo Nazionale Atestino fino al 3 ottobre Info e-mail: drm-ven. museoeste@beniculturali.it; www.atestino.beniculturali.it


MOSTRE Siena

TESORI DALLE COLLINE DEL VINO

N

ell’estate del 2015, nelle colline del Chianti Storico, dove gli Etruschi costruirono siti fortificati a controllo dell’antica frontiera tra le città di Chiusi, Fiesole e Volterra, lo scavo archeologico della Florida State University, diretto da Nancy de Grummond, è stato premiato da una scoperta inattesa ed eccezionale. Sotto gli occhi increduli degli studenti dell’università statunitense che dagli anni Settanta scava a Cetamura del Chianti (Gaiole in Chianti), nelle terre di Badia a Coltibuono, è emerso un piccolo contenitore in terracotta, apparentemente anonimo. Il peso del piccolo vaso ha però tradito subito un contenuto eccezionale: quasi duecento monete d’argento romane. Allo stupore della scoperta sono seguiti sei lunghi anni di restauro, condotti presso la SACI, e guidati dalla professoressa Nòra Marosi. Compaiono nelle effigi delle monete i volti di Ottaviano, il futuro Augusto, del suo nemico Marco

A sinistra: la Vittoria Alata su un denario di Ottaviano. 32-29 a.C. Qui sotto: dritto di un denario con la divinità denominata Bonus Eventus. 62 a.C. In basso: una veduta dei colli di Cetamura del Chianti.

Antonio e della stessa Cleopatra. Le monete piú recenti si datano intorno al 27 a.C. Gli studiosi americani hanno ipotizzato che il tesoretto fosse stato nascosto da un veterano di ritorno da imprese belliche (forse dalla stessa battaglia di Azio, che nel 31 a.C. segnò definitivamente la vittoria di Ottaviano e la sua ascesa al potere). Sappiamo infatti che con la piena romanizzazione d’Etruria alcuni dei luoghi piú affascinanti del paesaggio etrusco furono spartiti e

divisi tra le potenti famiglie senatorie e i veterani. E cosí accadde anche nelle terre di Saena Iulia, la Siena romana. Peraltro questo Tesoro del Chianti, ora in mostra al Santa Maria della Scala, è stato scoperto a pochi metri dal grande pozzo che per almeno duecento anni aveva ospitato materiale religioso e dove centinaia di acini d’uva hanno restituito per la prima volta la prova della trazione della viticoltura etrusca e romana nel cuore del Chianti. (red.)

DOVE E QUANDO «Tesoro del Chianti. Monete romane d’argento di età repubblicana da Cetamura del Chianti» Siena, Santa Maria della Scala fino al 3 settembre Info tel. 0577 286300; www.santamariadellascala.com

a r c h e o 27


n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

CONSUMI SFRENATI L’originale articolo di Flavio Russo (vedi alle pp. 94-111) ci fa rivivere il problema, oggi molto sentito, del timore di un esaurimento delle fonti energetiche, che, in epoca romana consistevano di fatto in una sola risorsa naturale: il legno. Il legname veniva infatti utilizzato per gli scopi piú diversi, sia come materia da bruciare per altre utilità e sia come materia da plasmare, modificare e trasformare in oggetti. Ecco dunque una rassegna filatelica dedicata ai suoi impieghi piú diffusi. La combustione della legna in fiamma libera fu essenziale per la cottura del cibo e del pane innanzitutto (1), alimento base universale; come fiamma libera (2) serviva però anche al riscaldamento e all’illuminazione. Doveva poi alimentare fornaci e forni per produrre laterizi e metalli (3), forgiare le armi (4) e per l’attività mineraria (5). Tuttavia, come 9 accennato, il legno veniva anche usato e modificato come «materia» prima naturale per numerosi scopi. Si può cominciare con gli attrezzi di lavoro (6) e gli utensili domestici (7), e poi passare alla cantieristica terrestre, per carri (8) e case (9), fino a quella navale, sia da commercio (10) che da guerra (11). Infine innumerevoli quantità di travi di legno furono impiegate per imponenti opere pubbliche e in particolare per i ponti, sia di piccole dimensioni per la normale viabilità (12), sia per colossali strutture costruite per motivi militari, come quelle realizzate da Giulio Cesare sul Reno o da Traiano sul Danubio (13), per finire con le palizzate a difesa di confini e accampamenti militari (14). Questo elenco, sebbene parziale, fornisce un’idea dello sfruttamento intensivo del patrimonio boschivo da parte dell’impero romano. Basti pensare che, ogni anno, per cuocere il pane destinato alla sola popolazione di Roma, occorreva disboscare (15) 400 ettari di terreno, che diventavano ben 20 000 per l’intero impero!

28 a r c h e o

2 1

3

5

6

4

7

8

10

11

13 12

14

15

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Sergio De Benedictis Via Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



CALENDARIO

Italia ROMA Piranesi

Sognare il sogno impossibile Istituto centrale per la grafica fino al 16.07.21

Tota Italia

Alle origini di una Nazione Scuderie del Quirinale fino al 25.07.21

L’eredità di Cesare e la conquista del tempo Musei Capitolini fino al 31.12.21

Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 07.01.22

I marmi Torlonia

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 09.01.22 (prorogata)

BRESCIA Palcoscenici Archeologici

Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22

CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante Qhapaq Ñan

Il grande cammino delle Ande Museo delle Civiltà fino al 22.08.21

Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.09.21

Napoleone e il mito di Roma

Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 07.11.21

30 a r c h e o

Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 30.09.21

CENTURIPE (ENNA) Segni

Da Cézanne a Picasso, da Kandinskij a Miró, i maestri del ‘900 europeo dialogano con le incisioni rupestri di Centuripe Centro Espositivo «L’Antiquarium» fino al 17.10.21

CORTONA Luci dalle tenebre

Dai lumi degli Etruschi ai bagliori di Pompei MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 12.09.21


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

ESTE Le fiere della vanità L’Arte delle Situle Museo Nazionale Atestino fino al 03.10.21

MANTOVA La città nascosta

Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22

MILANO Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 30.01.22

NAPOLI Gladiatori

Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22

ODERZO L’anima delle cose

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo- Museo Archeologico Eno Bellis fino al 31.10.21

RIETI Strada facendo

Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 10.10.21

SIENA Tesoro del Chianti

Monete romane d’argento di età repubblicana da Cetamura del Chianti Santa Maria della Scala fino al 03.09.21

Cipro

Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22

VENEZIA Massimo Campigli e gli Etruschi Una pagana felicità Palazzo Franchetti fino al 30.09.21

Francia LES EYZIES-DE-TAYAC Homo faber

2 milioni di anni di storia della pietra scheggiata, dall’Africa alle porte dell’Europa Musée national de Préhistoire fino al 15.11.21

Germania BERLINO Sardegna

Isola dei megaliti Museum für Vor- und Frühgeschichte fino al 30.09.21

Paesi Bassi LEIDA Templi di Malta

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.10.21

Regno Unito LONDRA Nerone

L’uomo oltre il mito British Museum fino al 24.10.21

TORINO Liberi di imparare

Esposizione di copie dei reperti del Museo Egizio realizzate nel carcere di Torino Museo Egizio fino al 18.07.21

Svizzera BASILEA Di armonia ed estasi

La musica delle civiltà antiche Antikenmuseum fino al 19.09.21 a r c h e o 31


AR G CH UI EO DA LO AI GI M CI US D’ EI ITA LIA

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

150 MUSEI ARCHEOLOGICI D’ITALIA

Edizione speciale di 160 pagine 32 a r c h e o


D

Una delle sale del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo (Roma) dedicate alla scultura antica. Fra le opere, si riconoscono, in primo piano una statua di Dioniso da Villa Adriana (a destra) e la Fanciulla di Anzio (a sinistra), mentre sullo sfondo è il Discobolo Lancellotti.

al Museo del Ponte Romano di PontSaint-Martin, in Valle d’Aosta, al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, la nuova Monografia di «Archeo» propone un viaggio alla scoperta dello straordinario patrimonio custodito nelle raccolte di antichità del nostro Paese. È un mosaico ricchissimo e variegato, specchio di una altrettanto sfaccettata realtà culturale, della quale sono state protagoniste, in una vicenda plurisecolare, civiltà che hanno fatto la storia dell’Italia e non solo. A fare da «cicerone», abbiamo scelto Giuseppe M. Della Fina, che da anni opera in prima persona nel mondo dei musei e conosce dunque bene l’universo delle collezioni pubbliche e private. Nelle varie sezioni dell’opera sfilano istituti grandi e piccoli, di antica istituzione o che hanno appena aperto al pubblico le proprie porte: tutti accomunati dalla medesima missione, vale a dire la divulgazione e la valorizzazione di reperti dietro ai quali leggere le storie dei nostri progenitori. E degli archeologi che, con passione e tenacia, hanno contribuito a svelarle. Nel solco di una tradizione ormai consolidata, le schede dedicate alle oltre 150 raccolte che abbiamo scelto di presentare nella Monografia, sono corredate da un ricco e puntuale apparato iconografico, che ci auguriamo possa essere un invito a conoscere, o riscoprire, tesori da non dimenticare.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Andare per musei archeologici e scoprire l’Italia •N ORD • Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Emilia-Romagna •C ENTRO • Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo •S UD • Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria

IN EDICOLA

• I SOLE • Sicilia e Sardegna

a r c h e o 33


SCAVI • TURCHIA

ALLA RICERCA DI ZIPPALANDA NON LONTANO DA HATTUŠA, CAPITALE DEL REGNO ITTITA, NEL CUORE DELL’ALTOPIANO ANATOLICO, SORGE L’INCONFONDIBILE SAGOMA DEL MONTICOLO DI USAKLI. INDAGATO DA UNA MISSIONE ITALO-TURCA, IL SITO POTREBBE RIVELARSI QUELLO DI UN IMPORTANTE CENTRO CULTUALE DEDICATO AL DIO DELLA TEMPESTA... di Anacleto D’Agostino, Valentina Orsi e Giulia Torri

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 34 a r c h e o


Sulle due pagine: vedute panoramiche di Usaklı Höyük, sito localizzato nel cuore dell’altopiano anatolico. L’insediamento è oggetto delle indagini sistematiche condotte dalla Missione Archeologica Italo-Turca in Anatolia Centrale (Usaklı Höyük Archaeological Project), grazie alle quali appare plausibile la sua identificazione con la città ittita di Zippalanda. Nella foto qui accanto, a sinistra, si staglia all’orizzonte il monte Kerkenes (Kerkenes Dag), che tocca i 1450 m. a r c h e o 35


SCAVI • TURCHIA

P

er chi viaggia da Ankara a Sivas, nel centro della Turchia, una ventina di chilometri dopo Yozgat, a sud della superstrada e del villaggio di Asagı Karakaya, il monticolo di Usaklı Höyük si mostra all’improvviso e in linea con il picco del monte Kerkenes (Kerkenes Dag) sullo sfondo. Siamo nel cuore dell’altopiano anatolico, una regione attraversata da una rete di vie che metteva in comunicazione le regioni occidentali dell’Asia Minore e le alte terre dell’Anatolia Orientale, tra i monti del Ponto e la Cappadocia. È questa l’area in cui, nel corso del II millennio a.C., fecero la loro comparsa i primi insediamenti urbani e il cui controllo, dopo il crollo dell’impero ittita, passò di mano fra potentati locali e nuovi invasori. Il sito di Usaklı Höyük (1120/1138 m slm) si trova al centro di quello che gli Ittiti chiamavano Paese Alto,

in una stretta valle delimitata da basse colline e alla confluenza di due piccoli corsi d’acqua, ricca di sorgenti, con disponibilità di spazi da destinare alle attività agricole, boschi e pascoli a quote diverse. La ricognizione di superficie condotta tra il 2008 e il 2012 e gli scavi intrapresi a partire dal 2013 hanno rivelato tracce di una lunga occupazione iniziata alla fine dell’età del Bronzo Antico e protrattasi fino all’epoca medievale, con sporadiche testimonianze ascrivibili a fasi piú La regione di Usaklı Höyük e la sua posizione nel territorio dell’odierna Turchia.

antiche, forse di epoca calcolitica, e recenti, di periodo ottomano. Estesi resti di edifici monumentali, frammenti di tavolette con iscrizioni in cuneiforme, bolli e una cretula assegnano invece alla piena età ittita la fase di maggiore sviluppo urbano.

ANTICHI PERCORSI La storia dell’insediamento e la sua scoperta del sito sono legate a doppio filo con i percorsi che nell’antichità attraversavano questo territorio. La posizione di Usaklı, strategiMar Nero

Istanbul

Ankara

Çorum Hattuša Yozgat Kız ılır ma k

Tokat Sivas

Usaklı Höyük Kayseri N

Antalya

NO

NE

SO

SE

O

Mar Nero Mar Mediterraneo

N NO

NE

O

E

S

E

SO

SE

S

(Ayvalıpınar) (Alaçahöyük) Hattuša (Bogazköy)

Tahazimuna?/Dazimon (Tokat) Šapinuwa (Ortaköy) Tapigga (Masat Höyük)

Tawinya/Tavium (Büyüknefes)?

Usaklı Höyük

Monte Daha (Kerkenes Dağ) Ankuwa (Alisar Höyük)

(Kayalıpınar)

Šarišša (Kusakli)

(Kırsehir)

K

Lago Salato (Tuz Gölü)

ız

ıl ır ma k

Kaneš/Neša (Kültepe)

Burušhanda? (Açemhöyük) (Göllüdagı)

Kummanni?/Comana Cappadociae (Sar) (Karahöyük Elbistan)

(Kurtbaba) (Çatalhöyük) Tarhuntašša? (Kızıldag)?)

36 a r c h e o

Tuwanuwa/Tuhana/Tyana (Kemerhisar) Hupišna /Hubusnu/Kybistra (Karahüyük)?

Melid (Arslantepe)

A sinistra: le città ittite dell’altopiano centro-anatolico (tra parentesi i toponimi moderni). Nella pagina accanto, in alto: veduta panoramica del sito, da drone. Nella pagina accanto, in basso: cretula in argilla con impronta di sigillo. Si notano le guilloches (spirali correnti) e alcuni segni in geroglifico anatolico.


camente collocato lungo una delle principali vie di comunicazione, in uso da millenni – e che il tracciato della superstrada E88-D200 in parte ricalca – risulta infatti ancor piú importante delle potenzialità agricole e produttive della valle ai fini dello sviluppo dell’occupazione e della sua fioritura. La Tabula Peutingeriana mostra che, già nel periodo romano, l’asse viario principale da Tavium a Sebasteia – da identificare rispettivamente con il villaggio di Büyük Nefes, a ovest di Yozgat, e la città di Sivas – incrocia nelle vicinanze della cittadina di Sorgun – 10 km a est di Usaklı – un secondo percorso che va verso nord-ovest, collegando Zile e il Mar Nero con Kayseri, l’antica Caesarea. Questi tracciati erano ancora in uso nei primi decenni del VII secolo d.C. e probabilmente mantennero la propria funzione fino all’età otto-

mana. Per il periodo piú antico non abbiamo resti materiali di strade o percorsi che attraversavano il territorio di Usaklı, poiché doveva trattarsi di sentieri, forse di piste battute. Tracce di questo genere sfuggono per loro natura all’indagine archeologica, che non sempre dispone di strumenti in grado di identificarle, soprattutto all’interno del paesaggio antropizzato, o comunque di datarle, se non in presenza di molti fattori concomitanti. È probabile che l’insediamento sul sito si sia avvantaggiato della sua collocazione in prossimità di un chiaro punto di riferimento visivo all’interno del paesaggio di questa parte dell’altopiano, il già citato Kerkenes Dag (1450 m circa), utile negli spostamenti che dal nord e dall’area di Bogazköy – l’antica capitale ittita Hattuša – conducevano

verso la Cappadocia e verso l’area di Sivas, dove si trovavano altri importanti siti. La montagna è facilmente individuabile, soprattutto per chi arrivi da nord e da nord-ovest, ed è visivamente in diretta connessione con l’Erciyes Dag di Kayseri, il cui picco innevato si intravede nelle giornate limpide. Questo elemento fisico del territorio deve aver rappresentato un fattore importante anche per gli spostamenti nei periodi piú antichi e il rapporto di intervisibilità con Usaklı a r c h e o 37


SCAVI • TURCHIA

ne fa un importante indizio per l’identificazione storica del sito che, noto dai primi decenni del Novecento, era stato riconosciuto come un centro importante e menzionato in vari resoconti di viaggio. Ad attirare l’attenzione degli studiosi furono, dunque, la posizione, la topografia e la presenza di grossi blocchi di granito in superficie: gli stessi elementi che hanno motivato l’avvio del progetto di ricerche e scavi sul sito e la sua continuazione. Alla luce di quanto è emerso, si rafforza infatti la possibile identificazione di Usaklı, già proposta nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, con l’importante città ittita di Zippalanda, centro di culto di un potente Dio della Tempesta, sede di un santuario e di una residenza reale e menzionata in diverse feste cui prendeva parte il re. Il Dio della Tempesta di Zippalanda, figlio del grande Dio della Tempesta di Hatti e della Dea del Sole di Arinna o, in altri testi, del Dio della Tempesta del Cielo e della Dea del Sole e della Terra, è menzionato come testimone nei trattati e nella lista di divinità che rice38 a r c h e o

vono tributo da Alašiya (Cipro), oltre a essere destinatario nei testi di inventario di culto di offerte di animali selvatici da parte di alcune categorie di personale come uomini hapeš o uomini-lupo.

FESTE E PELLEGRINAGGI Zippalanda si trovava a due giorni di cammino dalla capitale Hattuša e veniva visitata dal re in occasione della Festa di Primavera e della Festa d’Autunno, quando vi compiva riti invocando le divinità, accompagnato da canti e strumenti musicali. Il testo della Festa di Primavera ricorda infatti il pellegrinaggio del re dalla capitale a Zippalanda e al monte Daha, al quale si recava con la statua del dio per un rito, per poi proseguire verso Ankuwa, città identificata con il sito di Alisar Höyük. Usaklı Höyük si trova esattamente a mezza strada tra questo sito e Hattuša. L’imponente Kerkenes Dag, che ne marca l’orizzonte meridionale, corrisponde bene alla posizione del monte Daha dei testi. Come accennato, le scoperte della nostra missione – e, in particolare, il ritrovamento di edifici monu-

mentali, con materiali e testi di epoca ittita – rafforzano questa identificazione, facendo di Usaklı il miglior candidato per Zippalanda, in attesa della prova finale, che ci auguriamo non tardi ad arrivare. Nel corso del XX secolo alcuni studiosi in visita a Usaklı avevano a piú riprese scritto della presenza di grandi pietre in superficie appartenenti a una porta e di una postierla, di ceramiche tipicamente ittite e, forse, dei frammenti di una tavoletta. Da queste sparse informazioni ha dunque preso il via un progetto di ricerca animato dalla volontà di gettare luce sulle forme che l’insediamento aveva assunto in un territorio poco conosciuto archeologicamente come quello di Yozgat e contestualizzare i resti, rari nella regione, databili al periodo ittita. Il progetto della Missione Archeologica Italo-Turca in Anatolia Centrale (Usaklı Höyük Archaeological Project) – formata da ricercatori e studenti delle Università di Pisa, Firenze, Siena e Yozgat Bozok e diretta tra il 2008 e il 2020 da Stefania Mazzoni – si è posto come (segue a p. 42)


Ortofoto dell’edificio II, localizzato nell’Area A dello scavo. Si tratta di una costruzione imponente di cui si conservano le fondazioni e il massiccio basamento, costituito da muri in blocchi di granito sbozzati. Nella pagina accanto: la localizzazione delle principali aree di scavo a oggi indagate.

a r c h e o 39


SCAVI • TURCHIA

DOPO LA FINE DELL’IMPERO Poco conosciamo delle vicende successive al crollo dell’impero ittita sull’altopiano anatolico. Mancano infatti notizie su una dominazione frigia dell’area, e l’espansione di Lidi e Medi nella seconda metà del VI secolo a.C. ha lasciato tracce poco chiare sul campo, se escludiamo una serie di insediamenti su monticolo con rampart (bastione) in pietra che testimoniano una fase di «incastellamento», riconoscibile tra l’altro anche a Usaklı. Gli esiti di questo scontro di interessi sono attestati dagli imponenti resti della città costruita sul vicino monte Kerkenes – la cinta muraria in pietra lunga 7 km è ancora chiaramente visibile – forse da identificare con la Pteria menzionata dalle fonti classiche, abitata per una generazione soltanto e distrutta nel corso del conflitto tra Ciro il Grande e Creso di Lidia. Limitate sono anche le tracce riconducibili al periodo seleucide o,

40 a r c h e o

almeno, non ancora chiaramente definite, a parte l’interessante ritrovamento di una giara con 28 monete d’argento recuperata nel 1930 e che, con ogni probabilità, proviene dal sito di Usaklı. Una città di Galati È solo con il periodo romano, quando l’area è controllata dalle dinastie del Ponto, che si riesce a definire archeologicamente una nuova fase di ampia occupazione del sito di Usaklı, identificato ora con Podanala, la piú orientale delle città della tetrarchia dei Galati Trokmi, che aveva la sua capitale a Tavium. I resti messi in luce nell’Area B e in alcuni settori dell’Area A appartengono a un grande edificio e ad abitazioni con muri e pavimentazioni in pietra oltre che a

installazioni di tipo domestico e artigianale; i secoli successivi, quelli del controllo tardo-romano/ bizantino e poi turco-selgiuchide e ottomano, sono a oggi documentati solo da pochi frammenti ceramici trovati in superficie. I risultati raggiunti finora con lo scavo di Usaklı arricchiscono di particolari importanti gli eventi che hanno riguardato lo spazio che era stato centro dell’impero ittita, nella fase poco documentata dei cosiddetti «secoli bui», quando fanno la loro comparsa nuovi gruppi di genti che, di lí a poco, inaugureranno il nuovo mondo dell’Anatolia dell’età del Ferro. L’indizio è dato dall’uso dello spazio della cittadella a cavallo tra la fine del II millennio e l’inizio del I millennio a.C. Qui infatti si possono osservare la trasformazione Nella pagina accanto, in alto: ceramiche dipinte dell’età del Ferro. In basso: vasetti con decorazione dipinta e pesi in argilla cruda dagli strati dell’età del Ferro (Area D).


produzione dipinta contraddistinta da moduli decorativi geometrici e dall’uso di silhouette zoomorfe, prima tra tutte quella del cervo. Vasi che, per forme e tecnologia, si pongono al di fuori dei processi produttivi che avevano caratterizzato la domanda di epoca ittita.

Qui sopra: frammenti ceramici dipinti con silhouettes teriomorfe (principalmente cervi), nello stile Alishar IV, età del Ferro.

dell’insediamento e le nuove forme che l’abitato assume nel corso di secoli cruciali per la strutturazione di nuove forme di società. Al di sopra dei resti dell’Edificio III, in parte spianati, nuove piccole abitazioni vengono costruite con spazi a cielo aperto, destinati a luoghi di lavorazione domestica. Il repertorio degli oggetti in uso è cambiato e, accanto a tipi della tradizione locale, si diffondono un vasellame foggiato a mano che rimanda ai territori del Nord e, nei livelli immediatamente successivi, una

Abiti di alta qualità Altro aspetto interessante è la pratica di nuove attività artigianali, documentate da particolari strumenti per la tessitura, come i pesi da telaio in argilla cruda, che trovano confronti con i territori dell’Ovest e si collegano alla accresciuta importanza assunta dalla produzione e dallo scambio di abiti di alta qualità nell’economia dei Frigi, come attesta, per esempio, il rilievo rupestre di Ivriz, a sud-est di Konya, in cui il sovrano locale Warpalawas si fa ritrarre in abiti frigi. Si data al momento della ristrutturazione della cittadella, collocabile per ora solo genericamente tra l’VIII e il V secolo a.C., il complesso sistema di terrazzamento e fortificazione costituito da un alto terrapieno a scarpata, contenuto tra profondi muri rampanti, sopra un massiccio glacis in pietre che cinge le pendici del monticolo, individuato nelle aree di scavo C e D. Si tratta, con ogni probabilità, di un’opera riferibile al nuovo impianto assunto dall’abitato a partire dall’epoca frigia e fino al periodo achemenide e forse anche nei secoli successivi, con una manifesta preferenza insediativa organizzata sulla cittadella fortificata. Ci sono infatti chiare tracce, raccolte nel corso delle prospezioni geofisiche, del fatto che anche la sommità del monticolo sia circondata da un muro e ciò fa pensare che questo spazio abbia mantenuto un ruolo fondamentale all’interno dell’insediamento anche in epoca ellenistico-romana. a r c h e o 41


SCAVI • TURCHIA

obiettivo la ricostruzione delle diverse fasi di occupazione del sito, al fine di tracciare lo sviluppo e la trasformazione dell’abitato sul lungo periodo. Alla luce dei primi risultati ottenuti nel corso della ricognizione, si è potuto ricostruire per sommi capi una lunga storia di frequentazione e isolare, nelle varie aree del sito, i settori piú promettenti, in cui maggiore appariva la possibilità di individuare i resti del periodo storico di interesse. Negli ultimi anni l’impegno è stato principalmente rivolto ad approfondire l’indagine del livello dell’età del Bronzo Tardo e allo scavo di due grandi edifici pubblici identificati

sull’acropoli e nella porzione meridionale della città bassa.

In basso: l’edificio III (Area D) nel 2015, cosí come si presentava all’inizio dello scavo.

A destra: i grandi blocchi di granito usati per la fondazione dei muri dell’edificio II (Area A).

STRUTTURE DI PRESTIGIO Gli edifici II e III occupano una posizione dominante nell’ambito dell’insediamento e l’utilizzo del granito come pietra da costruzione ne sottolinea l’importanza. Sebbene risulti difficile definirne l’esatta funzione – anche perché, nel nostro caso, sono esposti solo per una porzione ancora limitata –, le caratteristiche costruttive e la planimetria li riconduce all’ambito tipologico di templi e palazzi. Nella città bassa (Area A) gli scavi stanno portando alla luce l’impo-

nente edificio II, del quale si conservano le fondazioni e il massiccio basamento costituito da muri costruiti con grandi blocchi di granito sbozzati (spessore tra 2 e 3,5 m), oltre alla grande porzione di un pavimento di pietre a mosaico che rappresenta la piú antica attestazione di questo tipo di realizzazione nel Vicino Oriente. La sua planimetria, articolata in blocchi di vani giustapposti e non simmetrici, dal perimetro irregolare, trova confronti con i templi ittiti piú antichi. L’edificio II manca di arredi e di materiali in posto: fu abbandonato, spogliato e ha forse subito una lunga decadenza. Poche tracce di un riuso sporadico degli ambienti possono attribuirsi a una frequentazione delle rovine forse in collegamento con l’attività di estrazione dei grandi blocchi, avvenuta in una fase tarda. 42 a r c h e o


fondazioni, ma, soprattutto, con il contributo degli studi sui resti di alcuni campioni di legno carbonizzati, si è potuto stabilire che l’edificio fu costruito tra la fine del XV e l’inizio del XIV secolo a.C.

LA FORMA DELLA CITTÀ Queste costruzioni erano elementi chiave di una sistemazione urbana che doveva rispondere a esigenze precise e restituire una forma specifica, quella, appunto, della città «ittita», con caratteristiche riconoscibili e riferimenti urbanistici chiari, in linea con le necessità ideologiche delle élites e delle istituzioni che presiedevano allo Stato. Anche la ceramica e gli altri oggetti ci dicono di un insediamento integrato nel sistema politico, religioso e amministrativo del regno e in particolare i dati epigrafici. Sei frammenti di tavolette in grafia cuneiforme e in lingua ittita, risalenti al XIV-XIII secolo a.C., sono stati ritrovati nel corso dell’attività di ricognizione e di scavo: resti di un qualche archivio ancora da lo(segue a p. 46) Sulla pendice meridionale dell’acropoli (Area D), a mezza costa, è stata esposta l’ala esterna di un altro grande edificio pubblico, un tempio o un palazzo che si estendeva lungo tutto il lato meridionale del monticolo, impostandosi su una platea artificiale posta al di sopra di un’altura naturale. L’edificio III ha muri in mattoni crudi intonacati e pavimenti in terra battuta; alcuni frammenti di intonaco recano segni di rappresentazioni dipinte. Un muro in grandi blocchi di granito, ben tagliati e messi in opera a giunti smussati, secondo una tecnica ben nota nell’architettura ittita di carattere pubblico e cerimoniale, costituisce il basamento dell’edificio sul versante meridionale. Grazie all’analisi della sequenza stratigrafica e dei materiali ceramici contenuti nelle

Antiche iscrizioni Frammenti di tavolette in argilla con iscrizioni in cuneiforme. Le tavolette si presentano bruciate e, in un caso (frammento a sinistra), con superficie vetrificata, possibile conseguenza dell’incendio che ha interessato il luogo in cui erano conservate. XIV-XIII sec. a.C.

a r c h e o 43


IL POPOLO DEI MILLE DÈI Gli Ittiti, il popolo di Hatti, furono una popolazione di origine indoeuropea che, tra il XVII e il XIII secolo a.C., era stanziata in Anatolia centrale, nell’odierna Turchia, forse in seguito a una lunga migrazione che affonda le sue radici indietro nel tempo e che li portò lungo le coste orientali del Mar Nero fino a raggiungere l’impervio territorio nel quale fondarono un sistema di città tra cui spicca Hattuša (presso l’odierno villaggio di Bogazkale), la grande capitale dei re storici. Intorno alla metà del II millennio a.C. gli Ittiti costruirono un impero che estese il suo controllo su tutta l’Asia Minore e spinse i suoi confini oltre l’imponente catena montuosa del Tauro, fino alla Siria e alla Mesopotamia settentrionale. In questo grande bacino di culture e incontri di popolazioni gli Ittiti commerciarono, si confrontarono e combatterono con gli Assiri, i Babilonesi e l’Egitto. Se resta un enigma il motivo della discesa del re ittita Muršili I a Babilonia e la sconfitta dell’antica dinastia resa grande dal suo re piú noto, Hammurabi, ben documentata è la 44 a r c h e o

successiva guerra con l’Egitto, che culmina nel 1275 a.C. con la battaglia di Qadesh, combattuta tra Ittiti ed Egizi ai tempi dei rispettivi sovrani Muwatalli e Ramesse II. Nel corso della conquista della Siria, già ai tempi dei primi sovrani della dinastia di Hattuša – Hattušili I e Muršili I –, gli Ittiti vennero in contatto con la grande tradizione della scrittura cuneiforme. Un incontro provvidenziale Si pensa che il sovrano Hattušili I, nel riportare un cospicuo bottino di guerra dalla Siria, avesse assoldato alcuni scribi della locale scuola scribale di Alalakh e li avesse condotti a Hattuša, dove, grazie a loro, gli Ittiti adottarono tale sistema di scrittura. In questo modo il cuneiforme, in uso presso varie popolazioni del Vicino Oriente dal IV millennio a.C., fu per la prima volta adattato a una lingua indoeuropea, come scoprí lo studioso ceco Bedrich Hrozný nel 1915, quando mostrò che la parola ittita per «acqua», watar, tanto aveva in comune con le analoghe water in inglese e Wasser in tedesco.

Tale scoperta fu possibile grazie alle migliaia di tavolette in grafia cuneiforme ritrovate negli scavi di Hattuša a partire dal 1907, quando una missione archeologica turcotedesca guidata dal filologo Hugo Winckler riportò alla luce i resti della capitale ittita e le fondazioni dei suoi maestosi edifici palatini e templari. I testi cuneiformi degli Ittiti, in seguito ritrovati anche nel corso di altre missioni archeologiche sul territorio turco, hanno restituito la civiltà degli Ittiti in tanti dei suoi aspetti. I testi erano scritti in molte lingue: gli Ittiti padroneggiavano il sumerico, l’accadico e il hurrico, una lingua della Siria settentrionale, ma hanno tramandato anche testi in lingua luvia e palaica, altri dialetti indoeuropei della stessa area, e hattica, una lingua di un gruppo indigeno dell’Anatolia. Ci hanno lasciato testi di argomento storico – che descrivono le imprese dei loro sovrani –, testi letterari e mitologici, preghiere e un gran numero di descrizioni di rituali magici e feste stagionali. Proprio questi ultimi denotano la marcata religiosità degli Ittiti. Si definiscono essi stessi «il


dio è accompagnato a capo del pantheon da una divinità solare femminile (UTU in sumerico, Eštan in hattico), che ha il suo luogo di culto prediletto presso la città di Arinna (oggi identificata con Alaça Höyük). Tra i loro molti figli figurano divinità della Tempesta minori, tra cui il dio della Tempesta di Zippalanda, la città edificata presso la montagna Daha, sede del dio. Le divinità erano venerate all’interno delle città nei loro templi (ittita: karimmi; sumerico: É.DINGIR, «casa del dio»), ma, in occasione delle celebrazioni primaverili, i loro simulacri venivano portati fuori dalle mura da lunghe processioni di sacerdoti e musici guidate dal re e dalla regina. popolo dei mille dèi», poiché veneravano un vasto numero di divinità derivanti dalle molte tradizioni culturali con cui entrarono in contatto: associarono alle loro divinità gli dèi della Siria e della Mesopotamia, a volte utilizzandone solo il nome come traduzione dei nomi delle loro divinità locali, altre volte assumendone proprio i culti e celebrando i rituali per questi dèi

nella loro lingua di origine, fosse il babilonese o il hurrico. Spesso le divinità ittite sono la personificazione degli elementi naturali del loro territorio: imponenti montagne che si stagliano sull’altopiano e violenti temporali spiegano la profonda venerazione del dio della Tempesta di Hatti, noto come Tarhunta, assimilato al dio della Tempesta di Aleppo, Tešub. Il Sulle due pagine: il santuario di Yazılıkaya a Hattuša. In particolare, la foto nella pagina accanto, in alto, mostra il rilievo raffigurante un corteo di dodici divinità, forse appartenenti al mondo degli inferi.

Nel santuario rupestre I cortei si fermavano nei luoghi alti dove sorgevano le stele e i santuari rupestri (huwasi), il piú noto dei quali è quello di Yazilikaya, presso Hattuša, fatto costruire da Tuthaliya IV. Il tempio conserva imponenti rappresentazioni delle divinità e del sovrano abbracciato dal suo dio protettore Šarruma, figlio del Dio della Tempesta, Tešub, e della dea Hepat. In uno dei vani a cielo aperto di questo santuario, la camera A, due teorie di divinità femminili e divinità maschili, scolpite in bassorilievo, convergono verso il fondo della stanza dove la coppia principale si manifesta al sovrano rappresentato nella stessa stanza. Accanto alla testa di ogni divinità è scolpito il nome in geroglifico anatolico, una scrittura autoctona dell’Anatolia utilizzata dalle popolazioni locali a partire dal XV secolo a.C. Le fonti scritte sull’impero ittita e le sue genti si interrompono agli inizi del XII secolo a.C. quando la capitale viene abbandonata per motivi che non ci sono ancora noti e la sua storia si perde nelle successive vicende del mondo anatolico. a r c h e o 45


SCAVI • TURCHIA

calizzare, ma che va molto probabilmente r icercato all’inter no dell’edificio III, come indicano una serie di indizi relativi ai contesti di ritrovamento. Tre documenti sono di carattere religioso: uno è un testo mitologico che menziona alcune divinità del pantheon ittita, come il Dio della Tempesta e la divinità tutelare LAMMA, ma anche esseri umani, come la Donna Amata, e potrebbe appartenere al cosiddetto ciclo mitologico della Regalità Celeste, che narra le lotte di successione tra le divinità e la finale supremazia del dio della Tempesta; il secondo è un piccolo frammento che conserva parte dello svolgimento di una festa con forti influenze dell’area di Kizzuwatna, regione del Sud dell’Anatolia, nella quale le azioni rituali venivano compiute da un sacerdote chiamato AZU e probabilmente dalla regina, mentre offerte di pane dolce venivano presentate alle divinità Ninatta e Kulitta, fedeli servitrici della dea Ištar, sia nella tradizione mesopotamica che in quella ittita; il terzo conserva la terminologia Sulle due pagine: riproduzione e cottura dei grandi piatti ittiti, secondo le procedure dell’archeologia sperimentale.

46 a r c h e o

LA CERAMICA ITTITA: UN APPROCCIO SPERIMENTALE Il vasellame ceramico di periodo ittita imperiale risponde in larga parte a esigenze di massificazione della produzione. Le ceramiche d’uso comune sono piuttosto semplici, fatte sul tornio veloce, e solo molto raramente decorate. Tra le città dell’impero però circola anche vasellame di lusso. A Usaklı, per esempio, sono stati rinvenuti frammenti – riconducibili ad almeno tre esemplari, probabilmente importati dal lontano Sud dell’Anatolia – di bottiglie dal corpo affusolato in ceramica rossa lustrata che, verosimilmente, contenevano unguenti o profumi da utilizzare nei rituali. In mezzo alla produzione massificata sul tornio veloce sorprende poi la presenza di una particolare tipologia ceramica fatta a mano: si tratta di piatti di grande dimensione, con diametri che talvolta raggiungono gli 80 cm, caratterizzati da un’ampia tesa. Le impronte di corde impresse sul bordo dell’orlo o sotto la tesa sono

tracce della lavorazione atipica. All’Università di Siena i grandi piatti ittiti sono diventati l’oggetto di un progetto integrato di archeologia sperimentale e analisi archeometriche volto a indagarne il sistema di produzione e l’uso. La dimensione e il peso indicano che non doveva trattarsi di un comune vassoio da portata e infatti questi grandi piatti erano con ogni probabilità utilizzati anche per cucinare. Un’ipotesi è che fossero utilizzati per cuocere una particolare tipologia di pane, qualcosa di simile ai tipici piatti turchi come la yufka o la pide. Il pane era un elemento fondamentale nei rituali ittiti e i testi cuneiformi menzionano specificamente la figura del «portatore di pane». Le nostre ricerche però stanno aprendo la possibilità anche di altri scenari che includono la preparazione di altre pietanze menzionate tra le libagioni offerte agli dèi dell’altopiano.


a r c h e o 47


SCAVI • TURCHIA

tipica dell’extispicio, una pratica oracolare diffusa nel mondo ittita per la determinazione delle azioni umane secondo il volere della divinità. Altri tre piccoli frammenti sono lettere dell’amministrazione cittadina e testimoniano l’esistenza di una classe dirigente che gestiva la città e rendeva conto delle proprie azioni al sovrano o a funzionari locali di piú alto livello. I nomi dei mittenti e recipienti di queste lettere sono andati persi, ma un frammento conserva parzialmente la formula di saluto tipica delle lettere scambiate tra funzionari di pari rango e la reciproca designazione «fratello mio». L’epilogo della città si cela tra alcune evidenze che gli archeologi hanno raccolto nelle ultime campagne di scavo. E sono tracce di fuoco, cenere e distruzione. Un grande incendio segna infatti la fine dell’edificio sulla cittadella, che brucia per giorni, forse per

La rimozione del terreno superficiale sulla pendice meridionale del monticolo, condotta prima dell’inizio dello scavo per identificare strutture emergenti e materiali associati ai vari livelli di occupazione. 48 a r c h e o

settimane. Le alte temperature a cui fu sottoposta l’intera struttura causarono la cottura dei mattoni crudi delle murature e la fusione dei pavimenti in terra battuta.

DOPO IL FUOCO L’ABBANDONO L’assenza di tracce di rimozione dei crolli e di ricostruzione suggerisce che dovettero venire meno la possibilità o l’interesse di rimettere in funzione una costruzione che doveva essere stata di riferimento per la città di epoca ittita. Tale circostanza, unitamente all’assenza di arredi o ceramiche al di sotto dei crolli nelle stanze messe in luce, sarebbe un indizio dell’abbandono dell’edificio da parte degli abitanti che si riconoscevano in quella forma di controllo politico di cui esso era stato espressione. A questo punto, alla domanda su chi avesse appiccato l’incendio si

può rispondere soltanto con pure supposizioni. Furono le persone legate all’amministrazione ittita che abitavano l’edificio a darlo alle fiamme prima di abbandonare l’insediamento, forse sulla spinta delle continue incursioni delle popolazioni avversarie che probabilmente contribuirono al crollo politico dell’impero? O furono i popoli nemici che, impossessatisi del centro ittita, abbandonato prima del loro arrivo, segnarono simbolicamente la loro conquista, bruciando un importante luogo del potere? Un’altra possibilità è che siano stati gli stessi abitanti a decidere di porre fine a quel sistema di gestione del potere in seguito alla partenza o alla cacciata dell’élite al governo e del personale legato all’amministrazione. Domande alle quali solo la continuazione delle ricerche e dell’esplorazione archeologica potranno dare risposte certe.


ALLA SCOPERTA DEI GRANDI TESORI DELL’ANTICHITÀ

ABBONATI ADESSO!

Ogni numero di Archeo è una rivelazione: scopri fiorenti civiltà, ti appassioni con reperti straordinari, leggi testimonianze attualissime, ti stupisci con segreti svelati... Non perdere un appuntamento così importante: abbonati subito.

OFFERTA RISERVATA AI NUOVI ABBONATI

4 30% NUMERI GRATIS

SCONTO

1 ANNO A SOLI 49,90 EURO ANZICHÉ 70,80 (+4,90 EURO SPESE SPEDIZIONE)

SCEGLI L’ABBONAMENTO CHE FA PER TE!

8

NUMERI GRATIS

% 38

SCONTO

2 ANNI A SOLI 87,90 EURO

ANZICHÉ 141,60 (+6,90 EURO SPESE SPEDIZIONE) LE GARANZIE DEL TUO ABBONAMENTO • RISPARMIO • PREZZO BLOCCATO • NESSUN NUMERO PERSO • RIMBORSO ASSICURATO

Chiama lo 02 49 572 016

(da lunedì a venerdì ore 9/18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario)

Scrivi a abbonamenti@directchannel.it Collegati a www.abbonamenti.it/archeo (se desideri pagare con carta di credito) Invia un fax allo 030 7772387 Invia il coupon in busta chiusa a: Direct Channel SpA - Casella Postale 97 - Via Dalmazia 13 - 25126 Brescia (BS)

TAGLIANDO DI ABBONAMENTO Pagherò in un’unica soluzione con bollettino di conto corrente postale che invierete al mio indirizzo 10 Mi abbono ad Archeo per un anno (12 numeri) a soli € 49,90 più € 4,90 per spese di spedizione anziché € 70,80 per un totale di € 54,80 (IVA inclusa) 20 Mi abbono ad Archeo per due anni (24 numeri) a soli € 87,90 più € 6,90 per spese di spedizione anziché € 141,60 per un totale di € 94,80 (IVA inclusa) 787 11 100 787 02 INFORMATIVA AI SENSI DELL’ART. 13 DEL REGOLAMENTO EU 679/2016 La presente informativa è resa ai sensi dell’art. 13 del Regolamento EU 679/2016 da Timeline Publishing srl, con sede in Via Alessandria 130, 00198 Roma, titolare del trattamento, al fine di dar corso alla tua richiesta di abbonamento alla/e rivista prescelta. Il trattamento dei tuoi dati personali si baserà giuridicamente sul rapporto contrattuale che verrà a crearsi tra te e il titolare del trattamento e sarà condotto per l’intera durata dell’abbonamento e/o per un ulteriore periodo di tempo previsto da eventuali obblighi di legge. Sulla base del legittimo interesse come individuato dal Regolamento EU 679/2016, il titolare del trattamento potrà inviarti comunicazioni di marketing diretto fatta salva la tua possibilità di opporsi a tale trattamento sin d’ora spuntando la seguente casella o in qualsiasi momento contattando il titolare del trattamento. Sulla base invece del tuo consenso espresso e specifico, il titolare del trattamento potrà effettuare attività di marketing indiretto e di profilazione. Il titolare del trattamento ha nominato Direct Channel S.p.A., responsabile del trattamento per

Cognome Nome Via

N.

CAP Prov.

Località Cell.

Data di nascita

E-mail la gestione degli abbonamenti alle proprie riviste. Potrai sempre contattare il titolare del trattamento all’indirizzo e-mail abbonamenti@directchannel.it, nonché reperire la versione completa della presente informativa all’interno della sezione Privacy del sito www.abbonamenti.it/privacy, cliccando sul nome della rivista da te prescelta, dove troverai tutte le informazioni sull’utilizzo dei tuoi dati personali, i canali di contatto del titolare del trattamento nonché tutte le ulteriori informazioni previste dal Regolamento ivi inclusi i tuoi diritti, il tempo di conservazione dei dati e le modalità per l’esercizio del diritto di revoca Rilascio

Nego il consenso per le attività di marketing indiretto

Rilascio

Nego il consenso per le attività di profilazione

P 001


MUSEI • VALLE CAMONICA

VALLE CAMONICA ROMANA

ECCO IL NUOVO MUSEO! UNA STATUA DELLA DEA MINERVA E IL RITRATTO DI UN PERSONAGGIO FORSE APPARTENENTE ALLA FAMIGLIA IMPERIALE SONO LE OPERE SIMBOLO DEL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DELLA VALLE CAMONICA ROMANA, APPENA INAUGURATO A CIVIDATE CAMUNO. E, INTORNO A LORO, SI DISPIEGA UNA RICCA RACCOLTA, TESTIMONE DEL FELICE ESITO DELLA ROMANIZZAZIONE di Serena Solano

L

a Va lle C a mo n i c a è senz’altro uno dei territori alpini piú ricchi di testimonianze archeologiche. Oltre al noto fenomeno della cosiddetta arte rupestre (vedi box a p. 62), grazie alla quale è stata il primo sito italiano dichiarato Patrimonio Mondiale dall’U-

50 a r c h e o

NESCO, la Valle conserva anche un inatteso e straordinario patrimonio di età romana. Solcata dal fiume Oglio ed estesa per 80 km dal Passo del Tonale alla testa del lago d’Iseo, la Valle Camonica si estende a nord della città di Brescia: vanta due Musei Archeologici Nazionali, quattro Parchi Archeologici Nazionali, una Riserva

Sulle due pagine: particolari dell’allestimento del nuovo Museo Archeologico Nazionale della Valle Camonica romana di Cividate Camuno (Brescia) e un momento della sua inaugurazione, avvenuta lo scorso 11 giugno.


Regionale delle Incisioni Rupestri e una decina di altre realtà fra aree archeologiche, Parchi Archeologici Comunali e sovracomunali e percorsi di valorizzazione pluritematici (archeologici/minerari/naturalistici/della Grande Guerra). In un territorio in continuo fermento dal punto di vista archeologico, dove continue sono le scoperte e le ricerche, gli ultimi anni sono stati segnati anche dal progetto di ampliamento e spostamento del Museo Archeologico Nazionale della Valle Camonica di Cividate Camuno. a r c h e o 51


MUSEI • VALLE CAMONICA

aspetti che caratterizzarono la realtà camuna nella seconda età del Ferro – modalità insediative e cultuali, forme della cultura materiale – sopravvissero a lungo e continuarono, pur con esiti e soluzioni differenti fino alla tarda età romana. L’11 giugno scorso Cividate Camuno ha salutato l’apertura del nuovo Museo Archeologico Nazionale della Valle Camonica, a quarant’anni di distanza dalla priL’odierna Cividate Camuno, un paese di circa 3000 abitanti, sorge sulle vestigia dell’antica Civitas Camunnorum, fondata sul finire del I secolo a.C. nella media Valle Camonica nell’ambito del piú vasto programma augusteo di conquista delle Alpi, culminato nelle cosiddette guerre retiche del 17-15 a.C.

UN LUNGO PERCORSO La città, il cui impianto urbanistico regolare ricalca l’assetto antico, sorge in un punto nevralgico del sistema viario del territorio, ai margini di un’area pianeggiante naturalmente protetta dalle montagne, vicino al fiume Oglio. Negli anni, del centro antico sono stati riportati alla luce le terme, resti consistenti del foro, ricche domus private, le necropoli e il quartiere degli edifici da spettacolo, con un teatro e un anfiteatro. Il nome conserva saldamente la componente indigena, che ebbe un ruolo di spicco anche durante l’età romana, sia nel controllo delle attività produttive, sia nella partecipazione attiva alla vita culturale e politica. L’integrazione dei Camuni nella compagine imperiale avvenne in maniera pacifica e originale: dopo un’iniziale condizione di adtributio (cioè di semisudditanza dalla città piú vicina, la Colonia Civica Augusta Brixia), vennero riconosciuti nell’arco di pochi decenni dapprima come Civitas e poi come Res Publica, con autonomia giuridico-amministrativa e magistrati propri. Gli 52 a r c h e o

In alto: un altro particolare dell’allestimento del nuovo museo. A destra: statua in marmo greco della dea Minerva, dal santuario extraurbano di Breno (pochi chilometri a nord di Cividate Camuno). Copia romana (I sec. a.C.) di un originale greco del V sec. a.C. Nella pagina accanto: statua in marmo locale di Vezza d’Oglio raffigurante un personaggio maschile in nudità eroica, dall’area del foro di Civitas Camunnorum. Potrebbe trattarsi del ritratto di un giovane principe della famiglia imperiale, forse Druso Minore (15 a.C.-23 d.C.).


ma storica inaugurazione, avvenuta il 5 luglio 1981, dopo un lungo percorso avviato fin dagli anni Cinquanta del secolo passato, in risposta alla forte esigenza di costituire un luogo nel quale conservare ed esporre i materiali di età romana rinvenuti nella stessa Cividate e nel suo territorio. La storica sede, alla periferia del paese, in un immobile donato allo Stato dal Bacino Imbrifero Montano (BIM), già casa degli aviatori durante la seconda guerra mondiale, è stata chiusa nell’agosto del 2020, quando è iniziato il trasferimento dei reperti nel nuovo edificio. Dal 1981 a oggi, le scoperte archeologiche, in continuo aumento e di straordinario valore, hanno reso sempre piú urgente ampliare gli spazi espositivi: l’attenzione scientifica e di tutela verso la Valle Camonica romana ha sicuramente subito una svolta importante nella metà degli anni Ottanta del secolo scorso, grazie allo scavo del teatro alla metà degli anni Ottanta, la scoperta dell’anfiteatro nel 1985, lo scavo di una ricca necropoli a Borno nel 1984-85 e la scoperta del santuario di Minerva in località Spinera di Breno nel 1986. Inoltre, negli anni Novanta, una serie di ritrovamenti sparsi anche nel territorio ha meglio delineato il quadro di conoscenza del processo di romanizzazione della Valle.

NEL CUORE DELLA CITTÀ Sino alla fine del 2015 il museo è rimasto in capo alla Soprintendenza Archeologia della Lombardia, poi è passato al Polo Museale della Lombardia, ora Direzione Regionale Musei. Il progetto di trasferimento è stato promosso dal Comune di Cividate Camuno nel 2015 ed è stato sostenuto dal Comune e dalla Direzione Regionale Musei della Lombardia con la collaborazione e il contributo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di a r c h e o 53


MUSEI • VALLE CAMONICA

Un territorio da scoprire La visita del nuovo Museo Archeologico Nazionale della Valle Camonica romana può essere integrata da quelle di altri importanti contesti riferibili alla romanizzazione del territorio. In località Spinera di Breno, si conservano i resti del santuario di Minerva, da cui proviene la statua della dea (vedi foto a p. 52) che è uno dei simboli del nuovo museo di Cividate Camuno. Le foto illustrano: 1. la struttura realizzata per la musealizzazione del sito; 3. il santuario al termine degli scavi; 4. l’ambiente principale del complesso, con una replica della statua, integrata con una ricostruzione della testa. Di notevole interesse è poi l’anfiteatro (foto 2), l’unico interamente visibile in tutta la regione, inserito nel Parco Archeologico del Teatro e dell’Anfiteatro, che conserva anche ambienti di servizio, fra cui un sacello per i gladiatori (foto 5).

3

2 4

Nella pagina accanto, in basso: affreschi romani esposti nella sezione dedicata alle domus.

Bergamo e Brescia, di Regione Lombardia e della Comunità Montana. La nuova sede, nel centro storico, di fronte alla chiesa parrocchiale, risponde all’esigenza di riportare il museo nel cuore della città antica, in un luogo che ha una lunga storia: in età romana nella zona c’era un edificio, forse di culto, come indiziato da un’iscrizione 54 a r c h e o

con dedica a Giove e dalle strutture visibili nell’area archeologica del cortile interno e che si è inaugurata contestualmente al nuovo museo. In età medievale l’area era compresa all’interno del Castello. Il complesso diventa poi Istituto delle Suore Canossiane, quindi sede della Scuola Materna, infine Incubatore d’Imprese.

La posizione centrale permette di «riportare» il museo nella città e di porlo in stretta relazione con le aree archeologiche, all’interno del centro storico nelle cui trame si conservano ancora l’impronta dell’impianto regolare romano e numerosi resti architettonici reimpiegati negli edifici medievali. Gli spazi espositivi, quadruplicati rispetto a quelli della prima sede, consentono di meglio esporre e contestualizzare i ritrovamenti, proponendo per la prima volta anche materiali mai esposti prima. Il progetto scientifico, museologico e didattico è partito dal bagaglio di


1

5

esperienze di quanto già sperimentato nella storica sede, diventata, dal 2011 in poi, spazio per eventi, attività didattiche, laboratori di archeologia, concerti, spettacoli teatrali e concerti, in continuo dialogo con i reperti e il mondo antico. L’obiettivo principale è stato quello di realizzare un museo che fosse «vivo» e in dialogo con il territorio, sia per quanto riguarda il «racconto» espositivo, sia per la modalità di presentazione dei materiali. Due vetrine/finestra aperte sulla piazza della chiesa lasciano intravedere la sezione dei santuari e, in particolare, la maestosa statua della dea Minerva, illuminata anche da luce notturna, con l’intento di mettere il museo in continua relazione con il territorio, annullando idealmente il «dentro» e il «fuori». Filo conduttore dell’allestimento è la romanizzazione, intesa come graduale processo di incontro di culture: la missione del museo è quella di raccontare l’incontro fra Camuni e Romani, illustrando i cambiamenti e le novità, insieme agli aspetti di sovrapposizione e continuità. La Valle Camonica racconta infatti in maniera esemplare la romanizzazione di un territorio alpino, attraverso siti ed evidenze archeologiche, anche di carattere monumentale, che consentono di

declinare il processo nei suoi molteplici aspetti, dalla trasformazione del territorio, allo sfruttamento delle risorse, ai culti, agli insediamenti, agli aspetti della vita quotidiana, agli spazi pubblici, alla sfera funeraria. Il nuovo istituto intende quindi porsi come un museo della romanizzazione delle Alpi, con rimandi anche ai luoghi vicini, contestualizzando i ritrovamenti della Valle Camonica nel piú ampio quadro dell’arco alpino.

I TESORI DELLA VALLE Il museo è inoltre punto di partenza e di arrivo del percorso sulla Valle Camonica romana che a Cividate Camuno, antica Civitas Camunnorum, ha come altri punti di visita l’area del foro in via Palazzo, il Parco Archeologico del teatro e dell’anfiteatro e, non lontano, attraverso un piacevole percorso ciclopedonale lungo fiume, il Parco Archeologico del Santuario di Minerva in località Spinera di Breno. Il percorso si sviluppa come un racconto, che vuole guidare il visitatore alla scoperta della Valle Camonica romana, con alcuni momenti dedicati anche alla scoperta e al gioco, per stimolare la curiosità e la conoscenza, soprattutto dei piú piccoli, attraverso il coinvolgimento attivo e il divertimento. Il percorso espositivo del nuovo museo si articola in otto sezioni, ognuna contraddistinta da un titolo e da un colore diverso, con un chiaro intento didattico, che vuole orientare il visitatore e allo stesso tempo accoglierlo in un’atmosfera «leggera» e colorata. La gamma di colori scelta è quella della palette dei colori del grande architetto Le Corbusier, con toni caldi e avvolgenti che, rimandando al tema della sezione, rievocano allo stesso tempo la varietà e vivacità dei colori che caratterizzavano il mondo romano. L’elemento cromatico ritorna anche nell’area archeologica di Porta Castello, situata nel cortile ina r c h e o 55


MUSEI • VALLE CAMONICA

no in pietra e legno, fra cui la porta carbonizzata in legno, una delle meglio conservate per il periodo (II-I secolo a.C.) di tutto l’arco alpino. L’abitare in città è esemplificato dai materiali della ricca domus di via Palazzo, una delle piú vaste finora rinvenute in città, caratterizzata da colorati e raffinati affreschi che impreziosiscono la sezione dedicata alle residenze signorili.

Nella nuova sede sono esposti per la prima volta anche reperti mai presentati prima. Oltre a una ricca collezione epigrafica, la raccolta conserva importanti elementi architettonici e scultorei, nonché ricchi corredi funerari dalle necropoli di Cividate Camuno e del territorio, fra cui si distinguono quelli delle tombe di Borno, con pendenti e amuleti, anche in oro e argento, in alcuni casi di tradizione protostorica e carichi di valenze simboliche. I materiali uniscono elementi di quotidianità ad aspetti piú monumentali, in un percorso che invita a scoprire i cambiamenti apportati dal contatto con Roma alle forme tradizionali del culto e dell’abitare. Dal territorio si «entra» gradualmente in città, passando dalle abitazioni tradizionali in pietra e legno alle ricche domus, dotate di sistemi di riscaldamento e apparati decorativi di pregio, per poi attraversare gli spazi pubblici. Nel percorso spiccano i materiali provenienti dalla casetta di tipo LE COLLEZIONI Come detto, il museo espone i alpino scavata a Pescarzo di Capo materiali di età romana trovati a di Ponte, straordinario esempio Cividate Camuno e nel territorio. del modello insediativo preromaterno dell’edificio, valorizzata dal Comune in condivisione con la Soprintendenza grazie a fondi di Regione Lombardia e inaugurata insieme al nuovo museo a compimento di un progetto concepito unitariamente. La nuova area, che si estende su una superficie di 40 mq circa, costituisce una sorta di finestra stratigrafica sulla città antica, lasciando a vista due vani di un edificio romano, forse pubblico, variamente riadattato e frequentato fino al Medioevo. La copertura, con una soluzione innovativa e per certi versi sperimentale, è a scorrimento a terra, sul modello di quella adottata per le piscine all’aperto. Calpestabile, presenta sulla superficie sommitale una grande grafica a stampa che ripropone la città romana, pensata per essere vista dall’alto, dal primo piano del nuovo museo. La veste, molto colorata, trasforma lo spazio in un’area gioco con valenza didattica e ricreativa, nella quale l’elemento colore è dominante, in linea con il progetto museologico e museografico.

56 a r c h e o

LE OPERE SIMBOLO Veri capolavori dell’arte antica sono la statua di Minerva dal santuario di Breno, in marmo greco, e un pregevole ritratto maschile in nudità eroica dall’area del foro di Cividate Camuno, in marmo locale di Vezza d’Oglio. Le due sculture possono senz’altro essere considerate come gli oggetti simbolo del museo. La Minerva, recuperata nel 1986

In alto: la sezione dedicata agli edifici da spettacolo. Qui sopra: piede maschile destro nudo in bronzo riferibile a una statua ritratto in posa eroica. I sec. d.C.


Nel nuovo museo fanno bella mostra di sé anche numerosi reperti mai presentati prima d’ora In alto: la sala del museo dedicata al foro, in cui, fra gli altri, è esposta la statua di un personaggio maschile in nudità eroica.

nel santuario extraurbano di Breno, pochi chilometri a nord di Cividate, fa parte del museo dalla fine degli anni Ottanta ed è stato l’ultimo reperto a lasciare la sede storica della collezione, a chiudere simbolicamente un’epoca e a iniziarne un’altra. Esposta nella se-

zione dedicata ai santuari, è visibile dalla piazza della Chiesa attraverso una vetrina/finestra, aperta volutamente per creare un dialogo fra il dentro e il fuori, con un ideale collegamento fra il culto cristiano e quello pagano. Trovata nel vano centrale del monumentale edificio di culto di Breno, la statua è una copia romana in marmo greco pentelico di un originale del V secolo a.C. raffigurante appunto la dea Athena/Minerva, opera di un artista della cerchia di Pyrros, seguace di Fidia. Di grandezza supe-

a r c h e o 57


MUSEI • VALLE CAMONICA

riore al vero, vestita di una lunga tunica con egida a scaglie con Gorgone e serpentelli penduli, aveva la testa (perduta) sormontata da un elmo attico con Sfinge. Stante, appoggiata sulla gamba destra e con la sinistra piegata al ginocchio e impegnata a tenere una lancia, la dea doveva avere in origine il braccio destro teso a chiedere l’offerta o forse a sostenere una statuetta di Vittoria Alata. La statua di nudo eroico, trovata nel 2004 nell’area del foro in parte valorizzata in via Palazzo, raffigura un personaggio maschile ritratto appunto in posa eroica, con il ventre nudo avvolto in un ricco drappeggio, secondo un modello ampiamente diffuso nel mondo romano e mutuato dal mondo ellenistico. Ritrae probabilmente un giovane principe della famiglia imperiale, forse Druso Minore (15 a.C.-23

58 a r c h e o

d.C.). Di elevata fattura, è in marmo locale di Vezza d’Oglio. Oltre la città, numerosi contesti archeologici sparsi in tutta la Valle e riferibili a luoghi di culto, necropoli e insediamenti, consentono inoltre di delineare in maniera chiara le dinamiche di frequentazione del territorio fra l’età del Ferro e l’età romana, evidenziando, per la fase della romanizzazione, interessanti elementi di contatto, continuità e trasformazione. La straordinaria consistenza, ric-

chezza e monumentalità del patrimonio archeologico della Valle Camonica romana, emerso con forza dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, ha portato ad azioni sinergiche di valorizzazione che sono rientrate nell’Accordo di Programma Quadro per la Valorizzazione dei siti di età romana esistenti nella media Valcamonica, stipulato il 22 ottobre 2002 tra Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia, Regione Lombardia, Provincia di Brescia, Comunità Montana e Comuni di Cividate Camuno, Breno, Berzo Inferiore e Bienno.

GLI EDIFICI DA SPETTACOLO All’interno degli obiettivi dell’Accordo sono rientrati innanzitutto il completamento dell’intervento di scavo e restauro delle strutture degli edifici da spettacolo dell’antica Civitas Camunnorum, avviato fin dal 1984; un intervento culminato nel marzo 2003 con l’inaugurazione del Parco Archeo-


logico del Teatro e dell’Anfiteatro di Cividate Camuno. Esteso per circa 12 000 mq, il parco offre un eccezionale spaccato della città antica: in esso sono visibili l’anfiteatro, riportato alla luce nelle strutture perimetrali (l’unico interamente visibile in tutta la regione), e una porzione del teatro, pari a circa un terzo del totale. Il complesso degli edifici da spettacolo è corredato da un lungo acquedotto che attraversa tutta l’area sovrastante, e da grandi ambienti di servizio, probabilmente palestra, infermeria e caserma dei gladiatori, un piccolo complesso termale e un sacello. Le dimensioni degli edifici da spettacolo, piuttosto considerevoli per il piccolo centro urbano di riferimento, suggeriscono come in occasione degli spettacoli confluisse a Cividate Camuno pubblico proveniente non solo dalla Valcamonica, ma anche dalle vallate laterali, per un

In alto e in basso: due immagini della sezione in cui sono esposti materiali, fra cui una porta carbonizzata, dalla casa alpina scoperta a Pescarzo di Capo di Ponte. II-I sec. a.C. La struttura fu distrutta da un violento incendio che ha sigillato le suppellettili che si trovavano al suo interno. Nella pagina accanto: placchetta votiva con figura schematica di orante su barca solare, dal santuario di Breno (Brescia). V sec. a.C.

a r c h e o 59


MUSEI • VALLE CAMONICA

Nel 2007 il percorso di visita alla Valcamonica romana si è esteso fino a Breno, con l’inaugurazione del Parco Archeologico del Santuario di Minerva in località Spinera, scoperto fortuitamente nel 1986.

totale stimato nell’anfiteatro pari a un massimo di 5500 spettatori. Il Parco è in capo alla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Bergamo e Brescia e gestito in collaborazione con il Comune di Civi60 a r c h e o

date Camuno in virtú di un protocollo d’Intesa. La Soprintendenza si fa carico della manutenzione mentre l’apertura è garantita dal Comune che si avvale del supporto della Pro Loco e delle locali associazioni di volontariato.

UN SANTUARIO NEL VERDE In questo caso il Parco, con una superficie di circa 6000 mq, in un contesto paesaggistico di grande fascino, in un verde pianoro vicino all’Oglio ai piedi di una rupe rocciosa percorsa da grotte e cunicoli scavati dall’acqua, conserva in situ le strutture monumentali di un tempio, dedicato a Minerva, di età flavia, ad ali porticate e con pavimenti a mosaico e affreschi, realizzato su un precedente edificio augusteo, a sua volta impostato su un luogo di culto indigeno. Il Parco è in capo alla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Bergamo e Brescia e gestito in col-


Sulle due pagine: altri particolari dell’allestimento del nuovo museo, il cui filo conduttore è la romanizzazione del territorio, che, nella Valle Camonica, si tradusse in un proficuo incontro fra culture e non determinò la cancellazione dei caratteri propri del sostrato indigeno dei Camunni.

a r c h e o 61


MUSEI • VALLE CAMONICA

LE INCISIONI RUPESTRI IN VALLE CAMONICA di Maria Giuseppina Ruggiero

All’interno del panorama mondiale delle manifestazioni artistiche, la Valle Camonica occupa un posto di grande rilevanza per il ricco patrimonio di immagini incise su rocce. Lo stretto connubio tra superfici incise e paesaggio interessa tutto il suo territorio e si estende per un lungo arco di tempo: comunicare per immagini rappresenta l’elemento identitario della Valle dalla fine del Paleolitico Superiore alla fine del I secolo a.C., con persistenze che giungono sino al XX secolo. I soggetti raffigurati sono manufatti reali tratti dalla vita quotidiana o concetti astratti che rimandano al mondo spirituale delle antiche comunità, di cui oggi, grazie agli scavi archeologici e alle scoperte fortuite, si conoscono anche gli abitati, le necropoli, i luoghi del lavoro e i centri di culto. È soprattutto durante l’età del Ferro (I millennio a.C.) che si verifica la massima fioritura dell’arte rupestre della Valle Camonica e le incisioni possono essere attribuite alla popolazione dei Camunni che entrano in contatto con i Romani. Dopo la conquista romana della Valle, nel 16 a.C., il grande ciclo dell’arte camuna si conclude anche se non termina la consuetudine di incidere le rocce. La tradizione istoriativa continua ma con altre tematiche anche in età romana, medievale e moderna e giunge fino al XX secolo, come ci racconta una roccia di Darfo Boario Terme che reca l’iscrizione commemorativa dell’arrivo della ferrovia in Valle Camonica tra il 1904 e il 1908. Per la capacità delle immagini di narrare non soltanto la storia della 62 a r c h e o

Valle ma anche la storia dell’uomo, l’arte rupestre della Valle Camonica è stata inserita nel 1979 nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO, quale primo sito italiano. La proposta di candidatura si deve a Emmanuel Anati, che a lungo si è dedicato allo studio delle incisioni camune: un progetto all’epoca audace, vista la competizione con altre importanti testimonianze archeologiche e storico-artistiche di cui è ricca l’Italia, ma che si concluse positivamente. Dal 2005 il sito UNESCO è dotato di un Piano di Gestione elaborato in stretta collaborazione tra l’allora Ministero dei Beni e delle Attività Culturali (oggi Ministero della Cultura) e gli Enti Locali (Regione, Provincia, Comunità Montana e Comuni). Tutti insieme hanno lavorato con la consapevolezza che fosse indispensabile garantire la tutela e la conservazione di questo eccezionale patrimonio per le future generazioni. Un patrimonio che può essere ammirato in una rete di Parchi statali, regionali e comunali, che negli anni sono stati caratterizzati, evidenziandone le singole specificità. I parchi, infatti, non sono tutti uguali ma si differenziano per l’ambiente naturale, i soggetti raffigurati e la loro cronologia. Tra le novità previste del 2021, i turisti avranno la possibilità di ammirare i parchi con un unico biglietto, acquistabile on line e della durata di 30 giorni. L’offerta prevede l’accesso ai parchi di Capo di Ponte (Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri, località Naquane;

Incisione raffigurante un cavaliere itifallico equilibrista su cavallo. Età del Ferro. Dos Sulif, Paspardo.

Parco Archeologico Nazionale dei Massi di Cemmo e Parco Archeologico Comunale di Seradina-Bedolina), di Nadro di Ceto (Riserva Naturale delle Incisioni Rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo) e di Darfo Boario Terme (Parco Archeologico Comunale di Luine). Oltre ai parchi sarà possibile accedere anche ad alcuni musei: il Museo Nazionale della Preistoria (Capo di Ponte), lo spazio ideale dove ripercorrere la storia millenaria delle incisioni e delle genti che le hanno realizzate; la raccolta Museale «Battista Maffessoli» nel Parco di SeradinaBedolina; il Museo Didattico collegato alla Riserva Naturale. Si tratta di un’iniziativa già prevista quindici anni fa dal Piano di Gestione ma che solo oggi si concretizza grazie alla spinta propulsiva della Direzione Regionale Musei Lombardia che ha fortemente voluto un Accordo Quadro per la valorizzazione del sito siglato nel 2019 tra Direzione Regionale Musei della Lombardia, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Bergamo e Brescia, Regione Lombardia e Comunità Montana di Valle Camonica.


laborazione con il Comune di Bre- San Pietro, con resti di una casa di no, che ne garantisce l’apertura tra- età romana e nel 2021, in concomimite una rete di Associazioni locali. tanza con l’inaugurazione del nuovo museo, è stata inaugurata l’area archeologica di Porta Castello con IN BICI LUNGO IL FIUME Nel 2009, per collegare i siti del resti di un edificio di età romana. polo della romanità, è stata realizza- La ricchezza dei ritrovamenti del ta una galleria «archeologica» lungo percorso di visita della Valle Camofiume, con una pista ciclopedonale nica romana ha dunque il punto di che permette agevolmente di com- arrivo e di partenza nel Museo binare la visita a Cividate Camuno Archeologico. L’insieme offre dal con quella al Parco Archeologico di punto di vista del turismo didattiBreno in località Spinera. Nel 2011, co, e non solo, un pacchetto di vigrazie a un progetto finanziato con sita articolato e di grande impatto, fondi della Regione Lombardia, è che porta alla scoperta della romastata inaugurata l’area archeologica nizzazione alpina attraverso uno del Palazzo, sempre a Cividate Ca- degli itinerari archeologici piú belmuno, che conserva i resti di una li dell’Italia Settentrionale. ricca domus di età giulio-claudia e Il progetto scientifico, museologico e didi un edificio pubblico di epoca dattico del nuovo Museo Archeologico flavia affacciato sul foro dell’antica Nazionale della Valle Camonica è di chi scrive (funzionario archeologo della SoCivitas Camunnorum. Nel 2015, nell’ambito di un Proget- printendenza, direttore dei Parchi della to cofinanziato da Regione Lom- Valle Camonica romana e direttore del bardia e promosso dal Comune di Museo dal 2013 al 2020); il progetto Capo di Ponte, è stata inaugurata architettonico, museografico e di allestianche l’area archeologica con resti mento è dell’architetto Ilaria Volta dello di casa alpina a Pescarzo di Capo di Studio Volta di Brescia. Ponte. Datata tra II e I secolo a.C., nel delicato momento della romanizzazione del territorio, la casa rappresenta un anello di collegamento importante fra il polo della Valcamonica romana, ruotante intorno a Breno e Cividate Camuno, e quello della preistoria. Distrutta in antico da un violento incendio che ne ha sigillato ciò che era all’interno come in un’istantanea fotografica, restituisce uno spaccato di vita quotidiana della Valle, con materiali di tradizione locale ed elementi di novità, segni del processo di romanizzazione in atto nel territorio. DOVE E QUANDO Nel 2020 è stata valorizzata una piccola area archeologica a Ono Qui accanto: Serena Solano, che ha curato il progetto scientifico, museologico e didattico del nuovo museo di Cividate Camuno. A destra, in alto: l’area archeologica allestita nel cortile interno del museo. A destra, in basso: la sede del museo.

Museo Archeologico Nazionale della Valle Camonica Cividate Camuno (Brescia), piazzale Giacomini, 2 Info tel. 0364 344301; e-mail: drmlom.mucividate@beniculturali.it; www.museoarcheologico. valcamonicaromana.beniculturali.it a r c h e o 63


MOSTRE • CORTONA

DALL’ETRURIA LA LUCE COME AFFRONTAVA L’OSCURITÀ – QUELLA VERA, NOTTURNA E CREATA DAGLI AMBIENTI CHIUSI – IL POPOLO DEI RASNA (MA ANCHE I SARDI DELL’ETÀ NURAGICA E GLI ABITANTI DI POMPEI)? UNA MOSTRA ALLESTITA AL MUSEO DELL’ACCADEMIA ETRUSCA DI CORTONA ILLUSTRA I SISTEMI DI ILLUMINAZIONE DEGLI ANTICHI, A PARTIRE DALL’OTTIMIZZAZIONE DELLA LUCE SOLARE FINO ALLA REALIZZAZIONE DI VERE E PROPRIE OPERE D’ARTE. TRA LE QUALI SPICCA, PROTAGONISTA ASSOLUTO, LO SPETTACOLARE ED ENIGMATICO LAMPADARIO BRONZEO, RINVENUTO CASUALMENTE NELLA CAMPAGNA CORTONESE... a cura di Giuseppe M. Della Fina, con contributi di Paolo Bruschetti, Luigi Donati e Paolo Giulierini

M

ai approfondito prima d’ora in una mostra, il tema dell’illuminazione nel mondo etrusco è protagonista dell’esposizione «Luci dalle tenebre. Dai lumi degli Etruschi ai bagliori di Pompei» allestita negli spazi del Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. La scelta della sede appare decisamente appropriata, dal momento che nelle collezioni del museo, dal 1842, figura il lampadario di Cortona, uno

64 a r c h e o

dei capolavori della bronzistica etrusca e una testimonianza preziosa per quanto concerne il tema dell’illuminazione nel mondo antico. Secondo le proposte piú recenti, si tratta di un’opera databile nell’ultimo trentennio del IV secolo a.C. e realizzata in un’officina di bronzisti localizzabile a Velzna (Orvieto): una città in stretto contatto con Chiusi e la Valdichiana sin dall’epoca del re Porsenna – significativamente indicato co-

me re di Chiusi e Orvieto da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia – e dove era attestata una lunga tradizione di artigianato artistico specializzato nella lavorazione dei metalli e nella coroplastica. Il lampadario fu realizzato con ogni probabilità per un santuario ubicato nella zona di Camucia, lungo una delle vie pr incipali di accesso a Cortona (si vedano, di seguito, i contr ibuti di Paolo Bruschetti e Paolo Giulierini).


La mostra affronta il tema della luce nel mondo etrusco partendo dalle soluzioni ideate per utilizzare quella naturale negli ambienti chiusi, come, per esempio, le abitazioni: la porta, la finestra, l’abbaino, il lucernario, il timpano aperto, l’atrio o il cortile interno non coperto. Si passa poi alle soluzioni realizzate per ottenere la luce artificiale durante la notte, o negli spazi oscuri (si veda, piú avanti, il contributo di Luigi Donati).

Statua in bronzo di Efebo, adattata a porta-lampade, da via dell’Abbondanza, a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: il lampadario bronzeo etrusco da Cortona «funzionante», immagine guida della mostra «Luci dalle tenebre», allestita nel Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

Tra i gli utensili utilizzati si possono ricordare i candelabri e gli incensieri, spesso decorati sullo stelo con statuine di figure umane che li coronano, come nel caso dei primi, o li sorreggono, come nei secondi. Entrambi possono talvolta raggiungere altezze notevoli, come è testimoniato negli affreschi della Tomba Golini I, sempre di Velzna, dove svettano sulle teste dei personaggi raffigurati.

LE PRIME CANDELE Altri strumenti utilizzati erano i graffioni in bronzo o in ferro, con lunghi cordoni infiammabili, che potevano essere trasportati grazie all’impugnatura realizzata in legno; le candele raffigurate per la prima volta proprio negli affreschi della tomba appena ricordata e databile nella seconda metà del IV secolo a.C.; i bracieri e i foculi, che svolgevano anche altre funzioni; le lucerne che, fra gli Etruschi, risultano meno diffuse che nel mondo greco e punico, almeno sino all’età ellenistica avanzata e quindi alla romanizzazione. Come combustibili si utilizzavano gli oli vegetali, i grassi animali o vegetali, e l’olio d’oliva, di cui nulla doveva andare perduto. Lo sguardo si allarga quindi alla Sardegna nuragica, a Pompei e, infine, al mondo romano, e a chiudere il percorso espositivo vi sono proprio manufatti in bronzo recuperati nella città vesuviana, rimasti in uso sino all’eruzione del 79 d.C. Tra questi, risultano di particolare interesse una lucerna trilicne, decorata da una sirena in stile arcaizzante, e l’Efebo di via dell’Abbondanza: una statua in bronzo, ad altezza quasi naturale, riadattata a porta-lampade. Una mostra, di cui raccomandiamo la visita, che ci fa entrare nella vita quotidiana degli Etruschi e grazie alla quale possiamo conoscere da vicino le loro soluzioni per valorizzare la luce naturale e nel tentare di affrontare l’oscurità. Giuseppe M. Della Fina a r c h e o 65


MOSTRE • CORTONA

LA LUCE NEL MONDO ETRUSCO di Luigi Donati

F

in dall’alba dell’umanità la luce del sole scandisce il trascorrere del tempo con l’alternanza giorno-notte, il succedersi dei mesi o l’avvicendarsi delle stagioni, per poi far maturare un sistema di computo del tempo sul quale gli Etruschi riserveranno una curiosità: sembra infatti che per essi, come per gli Umbri, il giorno che i Romani chiamavano «civile», per distinguerlo da quello «naturale» – basato sull’opposizione giorno-notte e comprendeva le ore di luce dall’alba al tramonto –, iniziasse a mezzogiorno e non a mezzanotte, come appunto per i Romani, o al tramonto, come per i Greci.

Un’idea originale, probabilmente dettata da una ragione pratica: la possibilità, in assenza di strumenti tecnologici, di determinare con una certa precisione il mezzogiorno grazie all’ombra zenitale del sole, a differenza della mezzanotte. Tuttavia, farebbe piacere pensare che quell’idea potesse corrispondere anche al carattere sereno, allegro, che permea l’intera civiltà, cosí come ci viene presentata da alcuni scrittori antichi: il giorno non finisce con le tenebre, il nuovo giorno non inizia con le tenebre. Viceversa, la luce si irradia da un giorno all’altro in un continuum luminoso. A sinistra: piccolo candelabro in bronzo, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

66 a r c h e o


Fonte naturale della luce sono il sole (Usil) per il giorno, la luna (Tiur) per la notte: due entità celesti, a cui si può aggiungerne un’altra femminile, l’Aurora (Thesan) e, soprattutto, la figura di Tinia, la massima divinità che sovrasta gli altri dèi folgoratori del pantheon etrusco con i suoi tre fulmini (le manubiae dell’Etrusca disciplina), accompagnati da lampi visibili di giorno e di notte, insignificanti sul piano dell’illuminazione, ma molto importanti sul piano magico-religioso oltre che su quello pratico in quanto segni della volontà divina.

SOLUZIONI INGEGNOSE Fondamentale è il rapporto con il sole in quanto fonte primaria della luce, e quindi della vita. Esso ha una ricaduta pratica nel continuo sforzo che accompagna l’evoluzione dell’edilizia domestica: dalla capanna concepita come un monolocale multiuso, alla casa articolata in piú vani con funzioni specifiche. Uno sforzo che porta a introdurre soluzioni molto ingegnose, tese a ottimizzare i benefici della luce esterna, a tutto vantaggio, soprattutto, delle componenti femminili che vi passano gran parte della loro giornata. Si cercano pertanto le soluzioni per illuminare al meglio l’interno con la luce del giorno, garantendone al contempo l’aereazione. Il qua-

Qui sopra: lucerna in bronzo a tre luci da sospensione, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Veduta d’insieme e particolare di un lampadario in bronzo, decorato con una figura di sfinge in prossimità dell’anello destinato alla sospensione, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

dro che possiamo ricostruire confrontando la documentazione diretta, molto limitata per la perdita degli alzati, e quella indiretta fornita dal mondo funerario, ci mostra una certa varietà di soluzioni modificatesi nel tempo e in ragione del mutare dei contesti abitativi. Si va dall’impiego di una o anche piú finestre nelle capanne dei villaggi villanoviani, al timpano aperto situato sotto gli spioventi del tetto, all’atrio a cielo aperto con quattro falde convergenti verso l’interno (compluvium), inventato, secondo la tradizione, dagli Etr uschi (atrium tuscanicum), che irradia la luce negli ambienti circostanti, fra cui il tablino. Un’invenzione ingegnosa, forse attribuibile agli Etruschi e comunque da loro molto utilizzata, è quella dei lucernari consistenti in speciali tegole con un’apertura da chiudere all’occorrenza dal basso, con i quali si potevano aerare e schiarire i vani piú appartati. Per ragioni ideologiche, ma prima ancora per motivi banalmente pratia r c h e o 67


MOSTRE • CORTONA

ci, l’uomo ha sempre cercato di contrastare l’oscurità, fosse essa l’atmosfera tenebrosa della notte o il buio proprio degli ambienti chiusi in cui si trovava (caverna, capanna, casa, ecc.), impiegando, a seconda dei casi, espedienti naturali o artificiali per rendersi la vita meno difficile. Nelle tenebre della notte, come pure nelle caverne, la prima fonte di luce furono certamente il fuoco della legna nei focolari e le braci stesse, scrupolosamente conservate in uno stato quiescente sia per stemperare il buio, sia per riaccendere la fiamma quando si fosse ripresentata la necessità. Al fuoco del focolare e alla pallida luce della brace si sono via via aggiunti i rami resinosi e le fiaccole, composte di fibre anch’esse imbevute di resina o altre sostanze infiammabili, che consentivano di portare la fiamma là dove serviva, oppure le torce formate con stoppa e corde ritorte, sempre imbevute con le medesime sostanze: è questo un terreno non facilmente indagabile, perché praticato con strumenti che non hanno lasciato tracce. Si è aggiunta anche qualche forma primitiva di lucerna in materiale non deperibile come per esempio un ciottolo o una pietra con una piccola cavità, e, forse, anche il guscio di grosse conchiglie: tutti oggetti che erano capaci di contenere modeste quantità di materiali combustibili di natura organica, come il grasso animale o gli oli vegetali. Da quei primi passi, compiuti nell’arco di migliaia d’anni, si è passati a elaborare strumenti fissi oppure mobili sempre piú sofisticati, che prolungavano nel tempo l’azione illuminante e permettevano di muoversi senza problemi attraverso ambienti diversi.

Nella pagina accanto: pittura murale della Tomba Golini I (e, in basso la sua restituzione grafica) in cui si riconoscono due alti candelabri. Seconda metà del IV sec. a.C. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale. In basso: cimasa di candelabro in bronzo, da Montepulciano. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

celebrati in Grecia da Crizia, oppure specificamente gli strumenti per l’illuminazione lodati da Ferecrate. Accanto alla qualità, non è però meno rilevante anche la varietà degli utensili, attestata sia da quelli in metallo (soprattutto bronzo, ma anche ferro e piombo) o terracotta che provengono in gran parte dai corredi tombali dove hanno terminato spesso il loro viaggio, sia da quelli andati perduti perché di materiale organico, ma che possiamo vedere nelle arti figurative. Fra i primi sono da menzionare i PRODOTTI DI QUALITÀ Fra le società del mondo classico, candelabri e gli incensieri, spesso quella etrusca si distingue per l’alta decorati sullo stelo con figurine qualità dei suoi prodotti di bronzo, umane che li coronano (candelabri) fossero essi i vari utensili domestici o li sorreggono (incensieri). Ogget68 a r c h e o

ti a volte monumentali, essendo provvisti di un fusto che può sfiorare i due metri in altezza: in tal caso dovevano svettare sopra le teste dei personaggi vicini, come possiamo vedere in un famoso affresco della tomba Golini I di Orvieto.Vi sono poi i «graffioni» in bronzo e ferro, un tempo chiamati col termine greco kreagrai (forchettoni): una denominazione, quest’ultima, impropria, poiché, al di là di una generica somiglianza fra i due strumenti – tale da non escludere la possibilità che la kreagra, comparsa prima dei graffioni, ne abbia influenzato la configurazione –, i primi appartengono al mondo dell’illuminazione e i secondi a quello dell’alimentazione.

TRA GRAFFIONI E CANDELE I graffioni erano oggetti di indubbia originalità e funzionalità, poiché erano concepiti per potersi muovere liberamente e circolare tenendoli accesi in mano, il che non escludeva che, all’occorrenza, potessero anche essere depositati accesi in un luogo fisso, come fossero candelabri. Inoltre, erano particolarmente funzionali, poiché l’illuminazione veniva procurata da un lungo cordone infiammabile variamente disposto sulle punte dei rebbi, garantendo una maggior durata d’uso rispetto alle fiaccole o alle torce. Non per niente, al fine di non scottarsi la mano da parte di chi li usava, erano provvisti di un’impugnatura di legno, inserita nel lungo manico in bronzo che evidentemente doveva surriscaldarsi. Accanto ai graffioni, tipicamente etrusca, per quanto concerne la modalità del suo uso, è la candela: uno strumento che molti secoli piú tardi diventerà popolarissimo, tanto che il termine «candela» viene tuttora impiegato come unità di misura dell’intensità luminosa. Le candele figurano infatti per la prima volta


negli affreschi della già citata tomba Golini I di Orvieto, databile alla seconda metà del IV secolo a.C., dove presentano la caratteristica di essere inserite a metà della loro lunghezza sui rebbi estroflessi del candelabro, e non sul suo culmine come accade normalmente. Un effetto illuminante, benché secondario, può essere assegnato anche a due classi di oggetti tipicamente etrusche: un certo tipo di bracieri e i foculi. Per diverso tempo gli Etruschi mostrano invece scarso interesse per le lucerne. Un fatto in controtendenza rispetto al mondo greco e fenicio, dove questi piccoli oggetti molto pratici godono di una certa popolarità, soprattutto quando vengono abbandonati i tipi aperti nei quali l’olio correva il rischio di traboccare o di essere preda dei topi, come si legge nel poemetto greco Batracomiomachia. Scarse sono infatti le attestazioni in Etruria prima dell’età ellenistica avanzata, allorché se ne cominciano a trovare in una certa quantità in contesti sacri, nei quali dovevano svolgere una funzione nel cerimoniale; non mancano però le eccezioni in ambito domestico, come le lucerne rinvenute nella Domus dei Doli di Vetulonia, dove si trovavano nel vano-magazzino e nell’atrio prossimo all’ingresso, a disposizione di chi entrava nella casa.

a r c h e o 69


MOSTRE • CORTONA

IL LAMPADARIO DI CORTONA di Paolo Bruschetti

L

e notizie sulla scoperta del lampadario di Cortona sono vaghe e non consentono la sua sicura collocazione topografica, né la conoscenza di eventuali contesti;

70 a r c h e o

dalla prima comunicazione pubblicata nel 1840 da Marco Antonio Fabroni, direttore del Museo pubblico o Museo della Fraternita di Arezzo, risulta solo che fu rinvenuto casualmente il

14 settembre 1840, nella zona della Fratta, nella campagna cortonese, in un possedimento della signora Luisa Bartolozzi Tommasi, appartenente a una delle maggiori casate nobiliari


A sinistra: la tabella bronzea del lampadario di Cortona con l’iscrizione che attesta la ri-dedicazione del manufatto. Nella pagina accanto: una veduta dal basso del lampadario di Cortona (diametro 60 cm). Ultimo trentennio del IV sec. a.C. Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona.

cittadine. Dopo una breve sosta nell’abitazione della proprietaria, un grande palazzo all’inizio di via Dardano, il lampadario giunse in deposito, nel 1842, nel Museo dell’Accademia; una lunga trattativa e l’esborso di una cospicua somma di denaro portarono infine all’acquisto dell’insigne reperto da parte dell’Accademia Etrusca, nel cui museo tuttora è collocato. Fin dai primi anni successivi alla scoperta, il lampadario ha suscitato l’interesse degli studiosi, che lo hanno esaminato nei vari aspetti e nelle diverse tematiche: archeologiche e mitologiche. Il manufatto è realizzato in bronzo fuso con la tecnica a cera persa e ottenuto in un’unica fase da una matrice complessa e variamente composta. La tabella con iscrizione, che ha una composizione chimica diversa, è stata aggiunta in un’epoca successiva considerando pure che i caratteri dell’epigrafe indicano una fase successiva rispetto a quella di realizzazione del lampadario. I caratteri della fusione e il risultato finale rimandano a un’officina nella

quale operavano maestranze ed erano presenti attrezzature di notevole livello, guidata da un artigiano in possesso di conoscenze tecniche evolute e di un alto grado di cultura; ciò gli consentiva di rispondere alle richieste della committenza adattando le decorazioni – i cui modelli possono essere stati usati in diverse occasioni e per altri manufatti – alle esigenze di uno strumento con una tettonica complessa e articolata. La perizia tecnica e l’esperienza maturata emergono anche dalla capacità di ottenere un prodotto sostanzialmente perfetto, nonostante i problemi emersi in sede di fusione e resi evidenti dalla necessità di procedere all’immediata riparazione di un danno strutturale nella parte interna della vasca.

DUE ELEMENTI DISTINTI Il lampadario è composto da due elementi distinti, anche se strutturalmente riuniti: la vasca per la raccolta del liquido combustibile (olio lampante con forte grado di acidità e odore sgradevole, forse mescolato a sostanze aromatiche o

profumate), decorata nella sua parte inferiore visibile dal basso e munita di beccucci nei quali avveniva la combustione per mezzo di stoppini, e il fusto centrale, che nasce dalla vasca ed è destinato alla sospensione dello strumento. La faccia inferiore presenta le piú ampie scene figurate: partendo dalla fascia esterna, posta immediatamente al di sotto dei beccucci, vi è una serie di sirene alternate a sileni itifallici. Sotto è una fascia a onda corrente, a sinistra della quale, sotto i sileni, compaiono delfini verso sinistra con squame e pinne caudali rese a incisione. Separata da un doppio listello è la zona centrale costituita da una serie di lotte di animali – quattro gruppi di due fiere che assaltano un animale soccombente: rispettivamente, un cinghiale assalito da pantera femmina e leone; un cavallo azzannato da grifo e leone; un toro assaltato da pantera e grifo; un cervo abbattuto da pantera e leonessa – e, al centro, dal gorgoneion, coronato da un circolo di serpentelli attorcigliati. Sul bordo del lampadario sono apa r c h e o 71


MOSTRE • CORTONA

plicate protomi di Acheloo alternate ai beccucci, la cui parte esterna è decorata da una doppia spirale da cui fuoriescono palmette. Un motivo a linguette e una fascia a dentelli separano i beccucci dalla vasca superiore, di cui forma il bor72 a r c h e o

do. Il fusto centrale, di forma approssimativamente conica, è liscio; nella parte superiore sono due fori passanti per il perno di sospensione; lungo il corpo sono due risalti a sezione all’incirca triangolare, di cui l’inferiore è decorato a linguet-

Sulle due pagine: particolari della ricca decorazione del lampadario di Cortona. Dall’alto, in senso orario: una testa di Acheloo; un tratto del listello centrale, nel quale si susseguono lotte fra animali; la rappresentazione di un satiro che suona un flauto di Pan.


te; lo spazio fra i due risalti mostra un motivo a incisione formato da palmette a undici petali alternate a fiori di loto, uniti in basso da una doppia spirale coricata.

LA DATAZIONE I vari motivi decorativi che compaiono sul lampadario provengono da modelli diversi, di cui l’officina aveva disponibilità, ma che non sono cronologicamente omogenei; ciò rende verosimile un’ampia circolazione di materiali e forme per un lungo lasso di tempo. In base ai motivi decorativi piú recenti, la

cronologia può essere pertanto indicata intorno all’ultimo trentennio del IV secolo a.C. La prevalenza di confronti in ambiente etrusco interno settentrionale permette infine di collocare l’officina in una città nella quale l’attività metallurgica era rilevante e ben nota, come Orvieto-Velzna; posta al centro di un territorio strettamente collegato a Chiusi fino dall’epoca di Porsenna – sia con relazioni politico-economiche che culturali – e a sua volta con l’ambiente della Valdichiana e di Cortona in particolare.

Altro motivo di interesse è l’identificazione del luogo in cui potrebbe essere stato collocato il lampadario; in mancanza di indicazioni derivanti dal luogo di rinvenimento, si possono solo formulare ipotesi. Tenendo presenti le caratteristiche funerarie di alcuni dei motivi decorativi, è stata suggerita una destinazione a una tomba monumentale del territorio, anche se ciò appare poco plausibile. Piú verosimile appare la collocazione in un santuario, dove avrebbe potuto svolgere con continuità ed efficacia la sua funzione e dove sarebbe stato agevolmente ridedicato – come indica la tabella con iscrizione – in una fase successiva, a opera di qualche personaggio importante della società cortonese che intendeva in tal modo ribadire il suo prestigio nella società locale. Il confronto con il grande lampadario bronzeo rinvenuto frammentario a Chianciano nel santuario dei Fucoli – posto in corrispondenza di un importante incrocio stradale, caposaldo della viabilità fra Valdichiana e territori circostanti – è un importante elemento che depone a favore di tale ipotesi.

BAGLIORI DI UNA COSMOGRAFIA di Paolo Giulierini

L

a constatazione che il lampadario bronzeo di Cortona è stato ricavato da una fusione in un unico getto, secondo la tecnica della «cera persa», indica che il suo apparato decorativo dev’essere considerato come il frutto di un’unica progettazione concettuale da parte dell’atelier che lo realizzò, o che – meglio – ne ricevette il modello di riferimento. È noto il valore magico attribuito fin dalla preistoria alla luce del Sole e a quella artificiale, che spesso simboleggia di per sé la presenza divina.

Che nel lampadario la luce simboleggi qualcosa di piú, oltre al semplice concetto di illuminazione, lo si può dedurre anche riflettendo su analoghe «lampade» di luoghi sacri, che si sono perpetuate attraverso i millenni nel culto della divinità in altre religioni, e che, oltre a recondite simbologie annidate nella forma o nella presenza di decorazioni, mantengono al contempo la funzione base di far luce. Basti pensare in primis al candelabro a sette bracci ebraico, o al cero pasquale. Per il nostro lampadario occorre a r c h e o 73


MOSTRE • CORTONA

pensare all’esistenza di procedure non solo di accensione, ma anche di rifornimento d’olio e di spegnimento, e una funzione, tramite l’eventuale inserimento nell’olio di sostanze profumate, di fumigazione odorosa dell’ambiente tramite combustione, cosí come ancora previsto per i riti attuali (si pensi all’utilizzo dell’incenso). Né è da escludere il principio del «mantenimento» di una luce perenne, nota nel mondo classico e, in particolare, in quello latino (la fiamma di Vesta, per esempio). Occorre pensare che l’apparato decorativo del lampadario di Cortona non sia presente solo per meri motivi estetici, ma abbia una coerenza connessa con il rituale; e che non siano casuali eventuali ricorrenze numeriche su base 16 (o suoi divisori), numero noto nel rituale etrusco, o altre basi numeriche.

EVOCARE IL CIELO Dal punto di vista dell’utilizzo, un oggetto del genere, per la pesantezza (oltre 53 kg), doveva prevedere probabilmente una catena collegata al fusto e, a sua volta, appesa a una trave. A un’altezza da terra tale da consentire, al contempo, la visione delle decorazioni dal basso, la sufficiente illuminazione per l’ambiente (ma non è detto che fosse il solo lampadario a far luce) e una distanza adeguata dal soffitto per evitare potenziali rischi derivanti dal fuoco. Tuttavia, il fatto che il lampadario sia «sospeso», oltre a presupporre la vista verso l’alto del visitatore, potrebbe simbolicamente rappresentare un contesto che, concettualmente, è in alto, afferente alla sfera dei cieli. L’esame degli elementi decorativi, epigrafici e funzionali suggerisce 74 a r c h e o

Ancora un’immagine del lampadario di Cortona, che permette di cogliere la ricchezza della sua decorazione.

che il lampadario sia stato realizzato, probabilmente su espressa commissione di un privato o di una congregazione sacerdotale legata al culto di Tinia, presso un laboratorio artigiano di Velzna (Orvieto), che si sarebbe basato su un disegno tratto da un libro dell’Etrusca disciplina. Il culto della suprema divinità celeste etru-

sca è indiziato da numerosi reperti con dedica provenienti dal territorio di Cortona, mentre aree sacre e templi, riscontrati di recente nell’area dei Vivai e dell’adiacente via Capitini, potrebbero aver ospitato simili lampade monumentali. Dopo una


za» interna della decorazione e una serie di richiami puntuali sia a temi generali della concezione del kòsmos greco, sia alle dottrine pitagoriche mediate dalla dottrina platonica, ci consentono di formulare un’ipotesi interpretativa che, in ultima analisi, si basa sul presupposto che il lampadario di Cortona sia una sorta di «silloge», di tentativo di «raccordo» tra la disciplina etrusca e la cosmologia greca, e che non sia altro che la trasposizione, su bronzo, di carte cosmologiche o meglio di illustrazioni di libri sacri di lino che davano una spiegazione dell’Universo conosciuto, intendendo per Universo l’ambito celeste, terrestre e infero. La Cortona ellenistica doveva ospitare molti gruppi intellettuali di cultura neopitagorica, simili al piú tardo circolo degli Scipioni a Roma. Il capo bottega di Velzna andrà dunque inteso come il formidabile esecutore materiale di un progetto iconografico e di uno strumento di culto concepito e progettato in ambienti culturali estremamente raffinati, quello delle élites civiche e delle cerchie sacerdotali cortonesi, che pur mantenendo a lungo la propria fisionomia religiosa, aprirono alle tante suggestioni offerte dalle correnti religiose del Mediterraneo, specialmente quelle greche.

fase di utilizzo in un santuario (al netto di possibili «vite» precedenti) il lampadario dovrebbe essere stato collocato a riposo, forse come ex voto nello stesso santuario. Un’ultima fase della sua vicenda fu probabilmente l’occultamento, nel luogo

del suo rinvenimento, a fini di tesaurizzazione a opera di Etruschi allarmati dall’arrivo, in pianta stabile, di coloni di età sillana; quando non si debba pensare, invece, a una sottrazione da parte dei coloni stessi. L’iconografia generale conduce ad ambiti legati al culto e, piú in generale, all’Etrusca disciplina. La «coeren-

DOVE E QUANDO «Luci dalle tenebre. Dai Lumi degli Etruschi ai bagliori di Pompei» Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 12 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info http://lucidalletenebre. cortonamaec.org/ a r c h e o 75


PROTAGONISTI • EDDA BRESCIANI

«BRUCIARE LA LEGNA VERDE»... PER MOLTI ERA LA «REGINA DEGLI EGITTOLOGI»: EDDA BRESCIANI, LUCCHESE DI NASCITA E PISANA DI STUDI (A PISA SI LAUREA NEL 1955), È STATA UNA DELLE FIGURE DI SPICCO DELL’EGITTOLOGIA ITALIANA E INTERNAZIONALE. È CONOSCIUTA, SOPRATTUTTO, PER GLI SCAVI DIRETTI NELLA REGIONE DEL FAYUM, IN PARTICOLARE NEL SITO DI MEDINET MADI. AUTRICE DI NUMEROSE E IMPORTANTI PUBBLICAZIONI, È STATA ANCHE COLLABORATRICE DI «ARCHEO»: RIMANE MEMORABILE IL SUO DOSSIER DEDICATO ALLA VITA QUOTIDIANA NELL’ANTICO EGITTO, DEL 1987, PER LA CUI COPERTINA AVEVA FORTEMENTE VOLUTO L’IMMAGINE DI UN GATTO, ANIMALE CHE AMAVA MOLTISSIMO. ECCO COME L’ARCHITETTO ANTONIO GIAMMARUSTI, SUO COLLABORATORE PER OLTRE TRENT’ANNI, RICORDA L’INSIGNE STUDIOSA, SCOMPARSA LO SCORSO NOVEMBRE ALL’ETÀ DI NOVANT’ANNI di Antonio Giammarusti 76 a r c h e o


H

o conosciuto Edda Bresciani (1930-2020) nel 1977, quando stava lavorando alla pubblicazione del tempio tolemaico di Isi ad Assuan, e io allo smontaggio dei monumenti dell’isola di File. Eravamo stati messi in contatto da Carla Burri (1935-2009), allora direttore dell’Istituto di Cultura Italiano del Cairo. Carla ed Edda erano due figure femminili rarissime per il mondo maschilista degli anni Settanta. Entrambe coltissime, erano dotate di rara intelligenza e acuta ironia che, quando erano insieme, le trasfor mava in due cicloni di simpatia. Carla Burri conosceva gli angoli e le trattorie piú nascoste del Cairo e ogni volta che ci incontravamo, ci faceva scoprire qualche luogo sconosciuto ai piú, nel quale le due amiche si divertivano a fare le ordinazioni piú stravaganti per vedere in che modo avrebbe reagito il ristoratore.

Edda Bresciani (1930-2020) a Tuna el-Gebel. Sulle due pagine: il cantiere di scavo di Medinet Madi, località del Fayum nella quale Edda Bresciani fu protagonista di scoperte di eccezionale importanza e singolarità, come nel caso di una nursery per i piccoli coccodrilli compresa fra le strutture del tempio C.

a r c h e o 77


PROTAGONISTI • EDDA BRESCIANI

Nel 1980 iniziai a collaborare con le missioni archeologiche in Egitto dirette da Edda Bresciani, a LuxorGurna, al tempio di Thutmosi IV (1397-1387 a.C.). In quegli anni la Mudira (la «matrona», la «direttrice», la «patrona», in arabo, n.d.r.) – cosí la chiamavano gli operai e altrettanto facevamo tutti noi – aveva scoperto, fra il muro sud di cinta del tempio e la tomba del visir Nebneteru due edifici in mattoni crudi, uno dei quali caratterizzato dalla presenza di tre forni, forse al servizio dei costruttori del tempio. La scoperta fu importante per la storia dell’architettura civile del Nuovo Regno (1543-1069 a.C.), perché forniva una nuova tipologia edilizia per quel periodo, e destò l’interesse di Carla Burri, che venne a visitare lo scavo. Lo spirito di scherzosa amicizia verso la direttrice dell’Istituto di Cultura ci spinse a preparare una sorta di stele in geroglifico con il nome della Burri e dell’Istituto di Cultura, che poi fu appoggiata davanti alla porta della locanda dello Seik Ali, in cui alloggiava la missione archeologica. Dopo il pranzo, tornando sullo scavo, ci accorgemmo che la finta stele era scomparsa e per anni abbiamo riso all’idea che la nostra «opera» fosse finita nella casa di qualche ingenuo collezionista.

IL SEPOLCRO DEL PRINCIPE In quel periodo, oltre che a Gurna, Edda scavava anche a Saqqara e nel Fayum e, nel 1992, mi chiese di partecipare ai lavori di scavo e restauro della tomba del principe Uage, nella necropoli del Medio Regno di Khelua, dove Edda lavorava dal 1981. La tomba di Uage (catalogata con la sigla TKh A) è un esempio fondamentale per l’architettura funeraria del Medio Regno (2064-1797 a.C.); in parte ipogea e in parte costruita, è composta da due grandi sale con pilastri: il vestibolo porticato con due file di sei pilastri introduce alla se78 a r c h e o

conda sala, ipogea, con 12 pilastri, tre nicchie appoggiate su un basamento e, a Ovest, il pozzo funerario del principe. La parete di divisione fra il vestibolo e la grande sala accoglieva sei statue di Uage avvolte in un sudario funebre. Le sculture furono scolpite in dimensioni decrescenti, da quelle vicino alla porta a quelle

nell’angolo, creando cosí un effetto di visione prospettica mai constatata sino a oggi in Egitto. L’interesse e la curiosità per le nuove tecnologie che nei primi anni Ottanta cominciavano a essere utilizzate in archeologia spinsero Edda Bresciani a formare un team interdisciplinare, composto da topografi,

In basso: uno dei dodici pilastri scolpiti della sala ipogea della tomba del principe Uage a Khelua (Fayum). Il rilievo, che conserva tracce della policromia originaria, mostra il ritratto del titolare del sepolcro, accompagnato da geroglifici che ne

celebrano le gesta e ne elenca i titoli. Nella pagina accanto: assonometria ricostruttiva e sezioni della tomba di Uage a Khelua, un complesso che, a tutt’oggi, è una delle piú significative espressioni dell’architettura funeraria del Medio Regno (2064-1797 a.C.).


a r c h e o 79


PROTAGONISTI • EDDA BRESCIANI

architetti, esperti di computer grafica e antropologi che realizzò la ricostruzione virtuale della tomba e la ricostruzione fisiognomica della testa di Uage. Il lavoro confluí nel documentario Pisa chiama Fayum, diretto da Alberto Siliotti, che fu distribuito per commemorare il 650° anniversario della fondazione dell’Università di Pisa.

LA SCELTA DELLO SCIAMANO La curiosità per l’esoterismo spinse Edda a contattare scherzosamente lo sciamano del villaggio di Abougandir, che «parlava» nelle giare di terracotta, indicando ai contadini dei villaggi del Fayum dove avrebbero potuto ritrovare tesori sepolti. Raccogliemmo allora sette sacchetIn alto: particolare della decorazione di uno dei soffitti della tomba di Bakenrenef a Saqqara, con le stelle a evocare la volta celeste. A sinistra: planimetria della tomba di Bakenrenef, figlio di Padineit, e visir di Psammetico I. Nella pagina accanto: un altro particolare della ricca decorazione scolpita e dipinta della tomba di Bakenrenef.

80 a r c h e o

ti di sabbia: sei nel deserto circostante Khelua e uno nella tomba di Uage. Incredibile a dirsi, lo sciamano, che ci ricevette con molta circospezione nel suo buio antro, inserí i sacchetti nelle sue giare e quindi indicò come quella del tesoro proprio la giara con la sabbia di Uage. Edda Bresciani lavorava a Saqqara dagli anni Settanta e aveva esplorato tre tombe a pozzo di epoca persiana scoperte da Alessandro Barsanti agli inizi del Novecento e che accoglievano le spoglie di Channehebu, Padinisi e Padineit. Dal 1974 si interessava della tomba ipogea di Bakenrenef, figlio di Padineit e visir di Psammetico I, scoperta dal francese Louis Alexis Jumel nel 1820.

VISITATORI ILLUSTRI Ippolito Rosellini (padre dell’egittologia italiana), partecipando con Jean-François Champollion (il decifratore dei geroglifici) alla spedizione franco-toscana in Egitto e in Nubia tra il 1828 e il 1829, definí nel suo Giornale il monumento come «la piú magnifica delle tombe di Saqqara». All’epoca della visita di Rosellini e Champollion, il sepolcro conservava ancora gran parte dei


blocchi di rivestimento con iscrizio- scendono fin oltre i 16 m di pro- monumento non è casuale, ma è ni e decorazioni documentate in fondità; è scavato nella falesia est di parte integrante del progetto ideomodo mirabile nel 1843 dal grande Saqqara, seguendo un allineamento logico del complesso. Si tratta egittologo tedesco Richard Lepsius. est/ovest, ovvero lungo il percorso quindi di una tomba progettata per Nel secolo successivo la tomba fu che il sole – Osiri-Ra – compie accompagnare il viaggio del defundepredata da ladri di antichità per per entrare, a ovest, nella montagna to dalla luce della vita, a est, verso vendere i preziosi blocchi la montagna sacra, a ovest, di calcare iscritti a musei e dove il sole r isorge antiquari americani e fran- Per Ippolito Rosellini, quella nell’oltretomba. cesi. Oggi, nel Museo Egiil pilone di ingresdi Bakenrenef era «la piú Dopo zio del Cairo di piazza so, il cortile e il vestibolo, Tahrir, sono esposti un banella sala A con sei pilamagnifica delle tombe cino da libagione iscritto stri inizia il rituale funedi Saqqara» sui quattro lati e la magnibre di purificazione, dofica tela funeraria dipinta, ve il defunto, ritratto cotrovata da Edda Bresciani nel 1975 sacra/oltretomba. me Osiri-Ra, attraversa il cosmo Roberto Buongarzone, allievo e allegor icamente rappresentato nel pozzo sud di Bakenrenef. Il complesso, quasi regale per di- collaboratore di Edda Bresciani, ha dalla sala. Sul soffitto a volta commensioni e tipologia, è unico attentamente descritto e dimostra- paiono la rappresentazione delle nell’area menfita. Misura oltre 40 to che la corrispondenza fra i testi ore, del giorno e della notte. La m di lunghezza e i suoi 8 pozzi e la loro posizione all’interno del successiva sala delle offerte è

a r c h e o 81


PROTAGONISTI • EDDA BRESCIANI

orientata nord-sud, cosí come il sarcofago del defunto custodito 16 m piú in basso nel pozzo n. 1; sarcofago che fu acquistato nel 1828 da Rosellini ad Alessandria e trasportato a Firenze nel Museo Archeologico. Il santuario, oggi quasi completamente privo dei blocchi di rivestimento, ha nelle pareti nord e sud i passaggi a due piccole cappelle. La parete di fondo, a ovest, era ancora intatta ai tempi di Lepsius, che ne rilevò i testi per la glorificazione del defunto che circondano la falsa porta per il passaggio di Bakenrenef alla nuova vita. Nella nicchia della falsa porta si nota anche l’impronta di una sta82 a r c h e o

tua, mai vista dai visitatori antichi e mai ritrovata sul mercato antiquario, che, secondo Edda Bresciani e l’egittologo tedesco Dieter Arnold, raffigurava probabilmente lo stesso Bakenrenef.

ALLA RICERCA DELLA PERFEZIONE La tomba di Bakenrenef non è solo un mirabile esempio di corrispondenza fra l’architettura e l’impianto epigrafico, ma anche della ricerca della perfezione geometrica, sinonimo della bellezza. Ha scritto al riguardo Edda Bresciani: «La lingua dell’Egitto Antico ha conosciuto una parola fondamentale per esprimere il concetto di bellezza: la pa-

rola “nefer”. (…) Il senso originario di nefer è comunque quello di “perfetto”, equilibrato nelle sue parti, quini affine al termine maa, “vero, esatto, giusto ed armonioso”». Ho discusso a lungo con Edda, a dire il vero scettica sui miei argomenti, sul fatto che gli antichi Egizi usassero rapporti numerici vicini alla serie di Fibonacci. Nella tomba di Bakenrenef ho potuto constatare che il rapporto della modulazione dell’impianto architettonico è molto spesso uguale al valore di 1,618, che i Greci definiranno come numero aureo e che gli Egizi probabilmente usavano, sin dall’Antico Regno, basandosi sull’osservazione di rapporti esistenti in natura.


Nel 1974, quando l’Università di Pisa iniziò i lavori nella tomba di Bakenrenef, restava ben poco del rivestimento. Solo alcuni soffitti decorati con motivi di tappezzerie, stelle, voli di grandi avvoltoi regali erano rimasti intatti a testimoniare il passato splendore. L’opera dei ladri si era aggiunta ai danni causati dalle alterazioni della roccia, di cattiva qualità. Lo scavo nei pozzi, che sino al 1978 aveva fruttato oltre mille reperti e, nella galleria del pozzo sud, quattro splendidi sarcofagi, non riusciva piú a procedere, a causa della pericolosità delle fratture geologiche che, prive dei blocchi di rivestimento, facevano entrare una grande quan-

Nella pagina accanto: Edda Bresciani nel Visitor Center di Medinet Madi. In alto: una veduta del sito di Medinet Madi, dove l’impegno di Edda

Bresciani, con il sostegno economico della Cooperazione Tecnica Italiana, ha contribuito alla creazione del primo parco archeologico nel Fayum.

tità di sabbia. Fu in quella occasione che Edda iniziò a usare un antico motto lucchese, «bruciare la legna verde», per significare un’impresa al limite del possibile; affiancai l’architetto della missione Sallah El Naggar per collaborare alla ricerca di una soluzione tecnica tale da permettere di continuare in sicurezza lo scavo. Proponemmo di consolidare innanzitutto la parte superiore della falesia con il soffitto della tomba e quindi di procedere con l’anastilosi dei blocchi rinvenuti all’in-

terno della tomba, integrati con pareti, in modo da contenere le infiltrazioni di sabbia. Grazie a un primo contributo, concesso all’Università di Pisa dal Ministero degli Affari Esteri-Dipartimento Cooperazione allo Sviluppo, fu avviata la prima fase di un programma di cooperazione italo-egiziana, il «Cantiere scuola a Saqqara», con stages per tecnici egiziani. La prima fase del Programma (1985-1987) si concluse felicemente, mentre i previsti interventi successivi non vennero a r c h e o 83


PROTAGONISTI • EDDA BRESCIANI

finanziati, a causa della crisi economica e dello scarso interesse delle parti coinvolte nel progetto. Saqqara, il Fayum e Medinet Madi, sotto la direzione scientifica di Edda Bresciani e con la mia direzione tecnica, furono inserite nel programma EIECP (Egyptian Italian Environmental Cooperation Programme), lanciato dall’Italia, che sosteneva l’Egitto nello svolgimento del Piano Nazionale per la Protezione Ambientale (NEAP, National Environmental Action Plan). Lo studio, utilizzando tecnologie avanzate per l’epoca, produsse il database bibliografico degli scavi archeologici antichi e recenti, il monitoraggio delle tombe dipinte e la ricostruzione virtuale delle fasi storiche della necropoli di Saqqara, insieme alla prima mappa del rischio di un’area archeologica egiziana sottoposta a stress antropico. Nel Fayum furono realizzati il censimento e lo stato di conservazione dei siti archeologici e una piattaforma GIS con tutti i dati rilevati.

QUI CI VUOLE LA ZAPPA Edda era solita dire che, dopo l’uso delle nuove tecnologie e per avere la certezza e la conferma definitiva, l’indagine archeologica non può far altro che ricorrere alla «zappa». Cosí avvenne a Medinet Madi, dove, dopo le indagini geo-radar del suolo e l’interpretazione delle foto da satellite, la «zappa» riportò alla luce, nel 1988, il tempio «C», con la nursery dei piccoli coccodrilli e nel 20062007 il castrum Narmutheos. Le zappe di oltre 180 operai del Fayum lavorarono ininterrottamente per oltre un anno, rimuovendo i 35 000 metri cubi di sabbia che dai tempi di Achille Vogliano (il grecista e papirologo che a Medinet Madi scavò dal 1935 al 1939, n.d.r.) avevano sommerso l’area sacra di Medinet Madi. A sud, dal tempio del Medio Regno sino all’ingresso al santuario; a nord, dal tempio tolemaico «B» 84 a r c h e o

Particolare di una statua di leonessa rinvenuta a Medinet Madi.

all’area della piazza porticata «romana». Fu riportato alla luce, mai visto prima, il tratto sud del dromos sino al secondo chiosco con l’altare per i sacrifici e l’incredibile leonessa, unica sino a oggi, di guardia al santuario mentre allatta i suoi cuccioli. L’impegno ultraventennale di Edda Bresciani, direttore della missione dell’Università di Pisa a Medinet Madi, e l’aiuto finanziario (20052011, programma ISSEMM) della Cooperazione Tecnica Italiana hanno permesso la creazione del primo parco archeologico nel Fayum, il cui Visitor Center permette agli studenti dell’oasi di riscoprire le origini

culturali di una regione che dall’Antico Regno è stato il polmone agricolo delle capitali d’Egitto. Dallo scorso 29 novembre Edda Bresciani ha smesso di incitare gli operai e i suoi collaboratori; mi addolora molto non poter bruciare nuovamente insieme la «legna verde» per tentare di raggiungere il nuovo obiettivo che avevamo programmato: lo scavo del pozzo a nord della piazza romana che rinvenimmo sotto la discarica di Vogliano. Uno scavo che, come sempre è stato a Medinet Madi, desterà certamente lo stupore degli archeologi che continueranno il lavoro di Edda.



FORTUNA DELL’ANTICO • HENRYK SIEMIRADZKI

UN’ANTICHITÀ (QUASI) DAL VERO 86 a r c h e o


Le torce di Nerone, olio su tela (305 x 704 cm) di Henryk Siemiradzki. 1876. Cracovia, Museo Nazionale.

NATO IN UCRAINA DA GENITORI POLACCHI, HENRYK SIEMIRADZKI GIUNSE A ROMA ALLA VIGILIA DEI TRENT’ANNI E VI SI STABILÍ, CONSOLIDANDO LA SUA NOTORIETÀ GRAZIE A GRANDI TELE A SOGGETTO STORICO. CHE RIEVOCANO CON EFFICACIA EPISODI CELEBRI E MOMENTI DI VITA QUOTIDIANA DELLE CIVILTÀ ANTICHE di Jerzy Miziołek

a r c h e o 87


FORTUNA DELL’ANTICO • HENRYK SIEMIRADZKI

«C

hi non conosce di nome e di fama il pittore Siemiradzki? Basterà ricordare la profonda impressione prodotta qualche anno fa da quel suo Supplizio dei martiri cristiani ordinato da Nerone, ch’è senza dubbio uno dei piú grandiosi capolavori dell’arte moderna. Giammai il terrore, la pietà, l’entusiasmo della fede erano stati ritratti con maggior efficacia e potenza. Da quel giorno Siemiradzki è diventato celebre. Il Supplizio dei martiri cristiani trovasi ora a Cracovia, e l’autore di esso abita e ha studio in un grazioso villino in fondo a Via Gaeta, dove S. M. la Regina [Margherita] è andata l’altro giorno a vedere il nuovo qua-

88 a r c h e o

dro, degno in tutto e per tutto del grande artista che la nostra Roma ha l’onore di ospitare». Cosí scriveva il 28 dicembre del 1888 Francesco D’Arcais su L’Opinione.

UN MAESTRO DA RISCOPRIRE Henryk Siemiradzki (1843 -1902), all’epoca pittore di fama internazionale (la sua casa in via Gaeta, a Roma, figurava nell’elenco dei monumenti segnalati dalla guida Baedeker e veniva visitata da moltissimi aristocratici, scrittori e artisti), è poco conosciuto perfino a Roma, dove visse per trent’anni ed eseguí numerosi capolavori, molti dei quali raffigurano la grandezza e

lo splendore della Roma antica e mostrano la sua passione per le città vesuviane. Data la scarsa notorietà di questo straordinario pittore, del tutto paragonabile al ben piú celebre Lawrence Alma Tadema, ci è parso importante far conoscere meglio la sua vita e la sua importante opera artistica. Siemiradzki nacque il 23 ottobre 1843 in una famiglia polacca a Bielgorod, vicino a Charkow, in Ucraina, dove terminò il ginnasio e studiò presso la Facoltà Fisico-matematica dell’Università; in seguito frequentò l’Accademia di Belle Arti a Pietroburgo, dove si diplomò nel 1870, ricevendo una medaglia d’oro per il dipinto Alessandro il Macedone


e il suo medico Filippo, nonché una borsa di studio di sei anni all’estero. Nel 1871 raggiunse per la prima volta il territorio polacco vero e proprio e visitò Cracovia, che lo colpí notevolmente e della quale scrisse in una lunga lettera alla madre, trasferitasi in quel periodo a Varsavia. Nel corso del suo viaggio artistico il pittore prima passò per Monaco di Baviera, dove dipinse l’Orgia romana, poi si trasferí a Firenze, dove trascorse ben cinque mesi. Giunse a Roma nell’aprile del 1872 e, all’inizio del suo soggiorno, cambiò spesso dimora, stabilendosi infine in una magnifica villa in via Gaeta, oggi non piú esistente. Dopo la già menzionata Orgia romana,

l’artista dipinse la Pubblica peccatrice (1872) e, negli anni 18741876, Le torce di Nerone (1876). Questa grande tela, eseguita nello studio di via Margutta n. 5, venne esposta nel maggio del 1876 all’Accademia delle Belle Arti di Roma e successivamente alla Mostra Universale di Vienna, e gli diede subito una fama europea e alte onorificenze. Con «insolito entusiasmo fu ammirato – scriveva un giornalista italiano – in quasi tutte le capitali e in molte altre città d’Europa; richiamò l’attenzione di tutti i critici

d’arte e meritò all’autore tre decorazioni d’Italia, Russia e Francia e la gran medaglia d’onore nell’Esposizione Inter nazionale di Par ig i del 1878». Siemiradzki ottenne l’onor ificenza Corona d’Italia e, nel 1898, il re d’Italia lo nominò commendatore dell’onoroficenza di San Maurizio e San Lazzaro. Fra le tele di grande formato, oltre a quelle già menzionate, troviamo La danza tra le spade (1879-1880), Tiberio a Capri (1881), La siesta del patrizio (1881), Notte a Pompei (1883), Frine alla festa di Poseidone a Eleusi

A sinistra: Il Talismano, olio su tela (800 x 488 cm) di Henryk Siemiradzki. 1880 circa. Nižnij Novgorod, Museo Statale d’Arte. In alto: il pittore polacco Henryk Siemiradzki (1843-1902) in una foto scattata intorno al 1875. L’artista, che

risiedette a lungo a Roma, trasferí nelle sue opere il suo amore per l’antico, unito all’attenta osservazione della documentazione archeologica: qualità che gli permisero di realizzare dipinti caratterizzati da ricostruzioni filologicamente assai accurate.

«Lo spettacolo della città scomparsa e da poco riesumata, e del Vesuvio, perenne minaccia di morte per qualunque cosa osi spuntare nei suoi dintorni, era cosí insolito, di cosí grande stimolo per la mia fantasia e i miei sogni, che non mi provo a descriverlo. Chi non l’abbia visto, non potrà capirlo» (Henryk H. Siemiradzki, da una lettera del 1° maggio 1872 spedita da Napoli ai genitori; traduzione di Leszek Kazana)

a r c h e o 89


FORTUNA DELL’ANTICO • HENRYK SIEMIRADZKI

(1889), Il giudizio di Paride (1892) e Dirce cristiana (1896). In questi e in molti altri dipinti si possono rintracciate frequenti richiami a opere rinvenute negli scavi condotti ai piedi del Vesuvio. Già nell’aprile del 1872, prima di trasferirsi a Roma, Siemiradzki si era recato a Napoli per osservare l’eruzione del vulcano e visitare Pompei. Ne diede un interessantissimo ricordo nella lunga lettera inviata il 1° maggio 1872 ai genitori. Nell’arco 90 a r c h e o

di tre decenni andò quasi ogni anno ad ammirare la Baia di Napoli, gli scavi archeologici che vi si conducevano e le opere del Museo Archeologico di Napoli. Alcune di queste ultime appaiono tra l’altro ne Le torce di Nerone, ispirato a un celebre brano di Tacito (Annali, XV, 44).

so i musei di Varsavia e di Cracovia, fra i quali vi è anche uno schizzo raffigurante Nerone su un cocchio, come si legge negli Annali di Tacito. Desideroso di ricreare i tempi di Nerone nella maniera piú suggestiva possibile, il pittore cercò ispirazione tra i monumenti antichi di Roma e altri siti archeologici. Nella sua villa romana Siemiradzki conNERONE SUL COCCHIO L’«ideazione» del quadro durò assai servava numerose opere antiche, tra a lungo, come dimostrano i molti cui diversi vasi etruschi, alcuni dei disegni preparatori conservati pres- quali inseriti in molte sue opere,


oltremodo interessanti, del famoso rilievo dell’Arco di Tito, compaiono il richiamo all’Arco di Costantino, con le statue dei Daci, e alla lettiga di Nerone, ispirata ai resti di quella recuperata negli scavi che si stavano allora conducendo sull’Esquilino e sul cui baldacchino vi sono decorazioni tratte dall’arte delle città vesuviane. Qua e là fanno inoltre capolino oggetti come due magnifici askoi di Ercolano, armi gladiatorie, due skyphoi e coppe d’argento rinvenuti a Pompei o a Ercolano.

PRESENZE ILLUSTRI Ne La siesta del patrizio (1881; vedi foto in queste pagine), che sembra essere ambientata nella Baia di Napoli o addirittura nella zona suburbana di Pompei, si riconoscono facilmente uno dei piú celebri tripodi pompeiani con le sfingi del Tempio di Iside e la bellissima statua di ArA sinistra: La siesta del patrizio, olio su tela (79,4 x 127,6 cm) di Henryk Siemiradzki. 1881. Collezione privata. Nel dipinto si riconoscono un tripode in bronzo da Pompei (foto in basso) e una statua di Artemide, già nella collezione di Palazzo Braschi (foto a destra).

come Idillio romano, Dopo il bagno, Idillio etrusco, Il piccolo argonauta, Alla sorgente, Il mercante di vasi. Grazie al profondo amore per l’arte antica e alla sua formazione, Siemiradzki propose ne Le torce di Nerone (vedi foto in apertura, alle pp. 86/87) una visione affascinante dell’antico, anche se alquanto eclettica, composta da molti motivi risalenti non solo all’epoca di Nerone e dei suoi predecessori, ma anche all’età tardo-antica. Accanto alle «citazioni»,

In alto: l’Artemide «Braschi», da Gabii. Copia romana da un originale greco. I sec. d.C. Monaco, Gliptoteca. A sinistra: tripode in bronzo con figure di sfingi, dal Tempio di Iside a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

temide, già appartenuta alla collezione romana di Palazzo Braschi. L’artista volle poi adornare la facciata della villa vista sullo sfondo con pitture in stile pompeiano, dal caratteristico colore rosso. Del suddetto tripode (a volte riferito a Ercolano e non a Pompei) Siemiradzki era letteralmente innamorato, tanto da a r c h e o 91


FORTUNA DELL’ANTICO • HENRYK SIEMIRADZKI

richiamarlo in uno dei suoi piú famosi quadri, Frine, oggi nel Museo di San Pietroburgo. Conservato nel Museo Nazionale di Varsavia, Il giudizio di Paride è una delle opere piú apprezzate di Siemiradzki (vedi foto in queste pagine). Cosí viene descritto in una delle guide del museo: «Una scena mitologica: il principe di Troia Paride (a sinistra sotto l’albero) risolve la lite della mela d’oro tra Era, Atena (a destra), e Afrodite (al centro). Potendo scegliere fra potere reale, fama di guerriero e la piú bella delle mogli, Paride assegna il pomo ad Afrodite, che, a sua volta, gli promette in sposa Elena, la moglie del re di Sparta». C’è dunque da chiedersi se davvero Siemiradzki avesse inteso rappresentare in questo dipinto il momento in cui la mela d’oro venne assegnata alla dea dell’amore. Il quadro, infatti, viene talvolta descritto come una scena ambientata sulla terrazza di un benestante cittadino romano. In realtà, possiamo vedere, sulla sinistra, una costruzione romana (oppure ellenistica), con colonne e pitture murali in stile pompeiano, che sembra però piú simile a una villa sul mare con giardino. Tra le chiome degli alberi è disteso un velum, per proteggersi dal sole mediterraneo, ornato da una scena con Nettuno e tridente. Come in altri dipinti, anche qui Siemiradzki raffigurò una scultura classicheggiante: si tratta della statua in bronzo di un pescatore con la canna, collocata nella nicchia della fontana accanto alla villa. Sullo sfondo si possono inoltre riconoscere tre strutture architettoniche di Roma: le Terme di Diocleziano, la chiesa di S. Andrea del Vignola, in via Flaminia, e una delle torri medievali che si trovano accanto alla chiesa di S. Martino ai Monti. Nel dipinto compaiono anche due dee, vestite all’antica: Minerva, armata di lancia, scudo con il motivo della Gorgone ed elmo con cimiero; e, accanto a lei, Giunone, con un 92 a r c h e o

diadema d’oro fissato nei capelli nerissimi, che regge lo scettro nella mano destra. Entrambe mostrano nei gesti e nel volto il disappunto per la scelta fatta da Paride. Le divine bellezze sono accompagnate da due guerrieri, giovani e non meno belli, sulle cui teste brillano stelle d’oro che non lasciano dubbi sulla loro identificazione: sono i Dioscuri, fratelli gemelli di Elena. Al centro della tela si staglia Venere, seminuda, con la mela d’oro nella mano destra sollevata. La dea è accompagnata da tre putti alati, armati di archi e frecce, e cinque bellissime fanciulle. Una di loro, come la Flora nella Primavera del Botticelli sparge fiori davanti alla dea, mentre l’altra le mette la corona sul capo. Altre fanciulle si tengono per mano e danzano, facendo della rappresentazione una sorta di pantomima.

IL PRINCIPE IN SECONDO PIANO Fra i personaggi che si vedono sulla sinistra Paride è assente. Un giovane vestito di bianco con la corona sul capo e la mano sinistra alzata non è il principe di Troia, ma piuttosto uno dei testimoni dell’avvenimento o messa in scena teatrale, descritta da un autore antico del quale si dirà. Paride è invece in secondo piano, con un copricapo, vestito di bianco e seduto su un trono su piedistallo come un giudice, circondato da un gruppo di persone e di animali. Al trono del bellissimo pastore si appoggia Mercurio, seminudo, con un copricapo alato e un caduceo nella mano destra, come su alcuni affreschi pompeiani. Davanti a Paride, pastore e giudice, vi sono alcune capre e un montone con una corona di fiori postagli sulle corna dalle fanciulle danzanti. Si può dunque affermare che il quadro rappresenta un Trionfo di Venere piú che il Giudizio di Paride. Tale interpretazione dell’avvenimento mitico che scatenò la guerra

di Troia è unica nell’arte europea e si pone la domanda da dove l’artista avesse preso l’idea per una raffigurazione del tutto originale di un soggetto cosí diffuso. Con buona probabilità egli si ispirò al celebre romanzo Metamorfosi o L’asino d’oro di Apuleio, scritto nel 140 d.C. circa. Il decimo libro di quest’opera, prediletta da molti grandi ammiratori dell’antichità, racconta di uno spettacolo, quasi uno «striptease»: «Tutte e tre le fanciulle, che rappresentavano le dee, erano accompagnate dal loro seguito: dietro a Giunone avanzavano Castore e Polluce, con elmi ovali sulla Il giudizio di Paride, olio su tela (99 x 277 cm) di Henryk Siemiradzki. 1892. Varsavia, Museo Nazionale.


testa, che portavano sopra alcune stelle (...) Ed ecco che, tra i fragorosi applausi del pubblico, si presentò nel bel mezzo della scena, sorridendo dolcemente e affabilmente, Venere, circondata da una folla di graziosissimi fanciulli, ben fatti, bianchi come il latte, che avresti scambiato per veri amorini volati allora allora giú dal cielo o su dal mare. Le alucce, i piccoli dardi e tutto il loro abbigliamento esteriore rispondevano in modo meraviglioso a quella bellezza, ed essi muovevano incontro alla loro padrona con fiaccole ardenti, come se dovesse recarsi a un banchetto nuziale. Ed ecco irrompere sulla scena due schiere leggiadre di giovani fanciulle: da un lato le amabilissime Grazie, dall’altro le bellissime Ore che, gettando fiori verso la dea, parte in ghirlande, parte sciolti, formavano un

coro bellissimo offrendo in segno di amo- buto, nè lo scettro nè l’elmo, e neanre alla dea delle voluttá quelle chiome che le stelle sui copricapi dei Diodella Primavera» (Metamorfosi, X, 32). scuri. Ha insomma raffigurato il momento esatto dello spettacolo cosí descritto da Apuleio: «Quando fu terUNA TRASPOSIZIONE minato il giudizio di Paride, Giunone e FEDELE Le dee – sia la vincitrice, sia le scon- Minerva mortificate e sdegnate uscirono fitte – sono già scese dal palcosceni- di scena, mostrando coi gesti il dispetto di co, dove sono rimasti Paride ed Er- quella sconfitta.Venere invece, lieta e sormes con alcuni animali sullo sfondo. ridente, danzando con tutto il coro maniLa scena sulla tela sembra proprio festò tutta la sua soddisfazione». rappresentare il trionfo di Venere e il Il dipinto è una delle creazioni piú dispetto delle dee sconfitte. Come felici di Henryk Siemiradzki ed è nella descrizione di Apuleio, la vin- tra i piú affascinanti esempi della citrice è accompagnata dai putti, dal- visione ottocentesca dell’antico. le Grazie e dalle Ore, mentre Giuno- Al contempo, l’opera propone una ne e Minerva sono in compagnia dei ricostruzione del mondo classico Dioscuri. Siemiradzki ha reso con in cui si riflette l’amore del pittogrande precisione il testo dell’antico re per la Baia di Napoli e per il poeta; non ha tralasciato alcun attri- gusto neopompeiano.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

a r c h e o 93


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

UN IMPERO MOLTO POCO SOSTENIBILE NON SAPPIAMO, CON CERTEZZA, QUALI FOSSERO LE RAGIONI DEL «DECLINO E DELLA CADUTA» DI ROMA. POSSIAMO, PERÒ, AFFERMARE CHE AD ALIMENTARE E SOSTENERE LA SUA CRESCENTE POTENZA FURONO… GLI ALBERI. QUALE FOSSE L’INCIDENZA ECONOMICA, SOCIALE E POLITICA SVOLTA DALL’UTILIZZO CHE GLI IMPERATORI FECERO DEL LEGNO, E QUALE IL SUO «IMPATTO AMBIENTALE» ANCORA OGGI PALESE AGLI OCCHI DI UN OSSERVATORE ATTENTO, LO RICAVIAMO DA UNA SERIE DI SEMPLICI, QUANTO IMPRESSIONANTI, CALCOLI… di Flavio Russo

94 a r c h e o


Una catasta di legna pronta per essere avviata alla sua trasformazione industriale.

N

ell’attuale società dei consumi e della meccanizzazione a oltranza, sfruttiamo varie fonti di energia, diverse per caratteristiche e provenienza e che derivano nella loro quasi totalità dall’irraggiamento solare remoto (in termodinamica, il termine irraggiamento designa il trasferimento di energia fra due corpi, tramite onde elettromagnetiche, n.d.r.). Poiché si tratta di energie non rinnovabili, vengono definite combustibili fossili: categoria alla quale appartengono il carbone, il petrolio e il metano. In misura minore derivano invece da un irraggiamento piú recen-

te e risultano quindi rinnovabili – sia pure per periodi di tempo piú o meno lunghi –, come nel caso delle biomasse, del fotovoltaico, nonché di venti, maree e della corrente dei fiumi. Nelle civiltà antiche, oltre alle fonti suddette, un apporto significativo derivava dall’ossidazione della legna, una reazione abitualmente detta combustione. A questa pratica si ricorre oggi solo marginalmente, tanto da poterla considerare come una soluzione amatoriale, di nicchia, riservata dai buongustai alla cottura del pane e delle pizze nei forni a legna, o dai romantici al riscaldamento del caminetto domestico.

a r c h e o 95


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

Per il resto, l’odierno fabbisogno energetico viene soddisfatto, con i molti e ben noti esiti deleteri, ricorrendo soprattutto alle fonti fossili, la cui disponibilità è inevitabilmente destinata a esaurirsi. Unica eccezione l’apporto, peraltro progressivamente decrescente, ma ancora non trascurabile, dell’energia nucleare, in pratica la sola fonte non ottenuta per combustione e quindi non inquinante, almeno al dettaglio, sebbene, paradossalmente, devastante in caso d’incidente. Possiamo insomma affermare che il discrimine in materia fra il mondo antico e l’attuale è che nel primo il fabbisogno energetico venne soddisfatto attingendo a una sola fonte – la combustione della legna o del carbone vegetale da essa derivato –, mentre nel secondo le fonti sono molteplici, anche se il loro degrado è sempre costituito da calore.

UNA SCONCERTANTE RIFLESSIONE DI PLATONE Da un certo momento in poi, i Romani ebbero certamente consapevolezza dei danni che quella sorta di monopolio comportava e i Greci la ebbero persino prima, come testimonia una eloquente riflessione di Platone, tratta da un suo ultimo dialogo, il Crizia, di

fronte allo sfacelo che aveva sfigurato il territorio dell’Attica, dove per: «anni molte e grandi inondazioni hanno reso il nostro paese simile alle ossa di un corpo malato, e di questa terra è rimasto solo lo scheletro. Ma prima le colline erano piene di terra grassa, e le montagne erano coperte di foreste. Ora vi sono monti che danno nutrimento soltanto alle api, ma non è molto tempo che gli alberi furono tagliati per coprire grandi edifici, e questi edifici esistono ancora. C’erano anche vasti pascoli per il bestiame; e non andava perduta l’acqua che adesso dal nudo suolo fluisce nel mare, ma ogni anno essa si conservava nel seno della terra, e dalle alture si diffondeva nelle valli, formando fonti e fiumi». I Romani colsero il segnale d’allarme per l’aggravarsi di una dipendenza inaggirabile nel vistoso e incessante incremento del prezzo del legname, sia da ardere che da costruzione. Ma tale stringente constatazione iniziò a essere scalfita soltanto nel corso del II-III secolo d.C. dal progressivo esordio delle macchine idrauliche, che funzionavano grazie alla corrente dei fiumi. Facevano seguito alle versioni piú arcaiche, concettualmente simili, mosse dal vento: ambedue vanno considerate piú che indubbi riscontri dell’avanzamento tecnologico, eloquenti spie del crescente deficit energetico che iniziò a strangolare l’imA sinistra: la costruzione di un forte legionario: appare evidente l’ampio uso del legno per le varie parti della struttura.

96 a r c h e o


In alto: disegno di un particolare del fregio della Colonna Traiana raffigurante i soldati romani impegnati nell’abbattere alberi e accatastarne i tronchi, da utilizzare poi per la costruzione di macchine da guerra, da un’edizione francese delle Storie di Polibio. 1727.

pero romano. Alla stessa conclusione induce anche la sparuta menzione di enigmatici «eliocamini» (strutture che dobbiamo immaginare riscaldate dai raggi solari, sfruttando l’effetto serra, n.d.r.), tramandataci da due autori lontani fra loro per estrazione culturale e cronologica: Plinio il Giovane, magistrato del I-II secolo d.C., e Ulpiano, giurista del II-III secolo d.C. Furono quelle, forse, le antesignane applicazioni dello sfruttamento dell’irraggiamento solare, destinato però a conoscere piú ampie e differenziate applicazioni soltanto due millenni piú tardi.

BRUCIARE E COSTRUIRE Per una perversa coincidenza, in età classica, oltre a essere la combustione della legna la fonte energetica di gran lunga prioritaria, sempre nel legname si ravvisò il basilare e piú versatile materiale da costruzione. Anzi, fu praticamente il solo in grado di fornire elementi di rilevante lunghezza, capaci di resistere agli sforzi di trazione. A confermarlo la realizzazione di travi di legno, idonee a consentire strutture orizzontali con luci persino

superiori ai 10 m. Quest’ultima, vastissima, utilizzazione del legname in ogni ambito delle costruzioni, dagli edifici alle navi, dalle macchine alle armi – protrattasi fin quasi alla rivoluzione industriale –, ne moltiplicò in maniera esponenziale la sua richiesta e, di conseguenza, determinò il crescente abbattimento del patrimonio forestale. A tal proposito, occorre tuttavia rilevare l’esistenza di un duplice bilancio energetico, distinguendo l’urbano dal rurale: la differente densità antropica e di livello sociale si tradusse nella forte dipendenza delle città dal depauperamento del manto boschivo e, per contro, nel sostanziale equilibrio delle campagne. Purtroppo, però, dal momento che l’impero romano fu una creazione statuale basata in prevalenza sulle città, l’anzidetto squilibrio divenne non soltanto deleterio ma soprattutto irrisolvibile, assurgendo a concausa non secondaria del tracollo dell’economia imperiale, anticipata dall’insostenibilità degli immensi costi della pletorica compagine pubblica. In conclusione, l’approvvigionamento del legname, vuoi per la combustione vuoi per le a r c h e o 97


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

costruzioni, si tradusse nel sacrificio di interi boschi e ampie foreste, dislocati in raggio crescente dai maggiori centri abitati, a partire da Roma. Il disboscamento e la deforestazione, con la conseguente, radicale denudazione delle pendici collinari, eliminò in maniera irreversibile la preziosa copertura vegetale, annientando cosí anche la protezione che essa garantiva dall’erosione accelerata. Ma, volendo scendere nel dettaglio, quali furono le principali destinazioni del prezioso legname ottenuto grazie a questa sorta di suicidio energetico? Le pagine che seguono forniscono dunque una panoramica delle sue molteplici utilizzazioni.

ALL’INIZIO FU IL PANE Dalla acquisita padronanza del fuoco, crebbe nell’uomo il desiderio di cibarsi con alimenti cotti – carni o vegetali che fossero –, che, grazie a quel trattamento, non acquisivano soltanto un gusto piú gradevole, ma anche 98 a r c h e o

una maggiore digeribilità e una piú prolungata possibilità di conservazione. In particolare, dopo l’avvento della cosiddetta rivoluzione neolitica (che ebbe tempi diversi da regione a regione, comunque compresi fra l’VIII e il II millennio a.C., n.d.r.), con l’affermarsi della coltura dei cereali e della conseguente produzione di focacce e pane, la loro cottura suggerí l’adozione di appositi forni, una soluzione che si trasformò in una prassi, costantemente rinnovata nei secoli successivi. Pertanto, quando Roma superò il milione di abitanti, quel semplice consumo di legna crebbe a dismisura, pur non eccedendo la sola preparazione dell’umile «pane quotidiano». Stando a diverse fonti, fra loro abbastanza concordi al riguardo, la quantità di grano che s’importava dall’Egitto nell’Urbe al tempo dell’impero ammontava annualmente a circa 20 000 000 di modi (un modio corrispondeva a 8,7 litri), pari per noi a circa 150 000 tonnellate. Ma anche cosí la distribuzione gratuita di


Nella pagina accanto: tavola ottocentesca che illustra le varie fasi della preparazione del pane, dalla molitura del grano alla cottura in forno delle pagnotte. In basso: Roma. Particolare del fregio del monumento funerario del fornaio Marco Valerio Eurisace, raffigurante le fasi della panificazione. 30 a.C. circa.

grano non poteva soddisfare i bisogni alimentari di una capitale ormai sovrappopolata. I cittadini che godevano per legge delle elargizioni di grano gratuito erano i maschi liberi, 200 000 circa; per cui un ragionevole calcolo induce a stimare in almeno 40 000 000 di modi – pari a 250 000 tonnellate – l’entità necessaria per sfamare le relative famiglie e la massa servile. Una cifra che eccede l’importazione egiziana, lasciandoci perciò concludere che la differenza dovette essere colmata con gli apporti non secondari di grano prodotto in Puglia e in Sicilia, a loro volta non lontani dalle 100 000 tonnellate complessive. Ora, considerando che con quel grano si preparava soprattutto il pane, dalla sua lavorazione se ne sarebbero ottenute circa 700 tonnellate al giorno (pari a non piú di 300 grammi a testa per tutti gli abitanti della capitale). Per la cottura sarebbero state necessarie altrettante tonnellate di legna e, tenendo conto che il taglio degli alberi forniva circa 2000 tonnellate di legname per ettaro di bosco, il pane quotidiano della sola Roma implicava, ogni due giorni, il disboscamento di un ettaro, ovvero di quasi 400 ettari l’anno. È quindi facile calcolare quale fosse, per la medesima esigenza, il consumo complessivo di legna da ardere nell’intero impero: partendo dal presupposto che, alla stessa epoca, la sua intera popolazione doveva aggirarsi intorno ai 50

000 000 di persone, si avrebbe, per ovvia conseguenza, almeno 50 volte la cifra anzidetta, per cui ogni anno, per il solo pane, sarebbero stati disboscati circa 20 000 ettari! Considerando, inoltre, che si cuocevano anche diversi cibi e bevande, vendute nelle botteghe non a caso chiamate thermopolia (plurale del latino thermopolium, che deriva dal greco thermos, «caldo», e poleo, «vendere»), il consumo di legna per impieghi alimentari si deve ritenere di gran lunga maggiore.

COME SCALDARSI SENZA IL CAMINO... Poiché la combustione del legname o dei suoi stretti derivati, quali resina e olio, era la sola fonte energetica dell’antichità, è ovvio che proprio a essa fosse delegata ogni forma di illuminazione e di riscaldamento, sia ambientale, domestico e pubblico, sia termale per l’acqua delle vasche e le sale adiacenti.Trascurando i primi impieghi, che nonostante l’alimentazione con olio lampante dei fari e delle lanterne urbane furono di gran lunga piú modesti rispetto ai secondi, va ricordato che i Romani non conobbero il camino, comparso in Italia soltanto intorno al XIII secolo, per cui in età arcaica erano soliti accendere il fuoco proprio là dove in epoca successiva si raccoglieva l’acqua piovana! Lí bruciava la legna sulla quale si cucinava e intorno alla quale ci

a r c h e o 99


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE Ricostruzione virtuale del faro di Miseno. Importante ausilio alla navigazione nelle acque del golfo, l’impianto segnava l’ingresso al porto che accoglieva una delle flotte militari romane. Nella pagina accanto: lanterna in bronzo con coperchio mobile, da Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

100 a r c h e o


si riscaldava, facendone fuoriuscire il fumo dal foro lasciato appositamente nel tetto, estremo retaggio delle capanne di epoca pre- e protostorica. Le pareti della stanza si coprivano perciò di nera fuliggine, assumendo una colorazione scura, per cui dal loro colore – ater, «scuro» – derivò il termine atrio, quando le domus si dotarono di impianto piú raffinato. Secoli dopo, nelle case plebee delle insulae, prive di efficaci schermature alle finestre, le rigide temperature invernali erano appena mitigate da modesti bracieri e rudimentali stufe, entrambi di infima validità, di non trascurabile consumo e, purtroppo, rischiosissimi per gli incendi che spesso innescavano.

IL CALORE... MANDATO IN FUMO Nelle domus, invece, esistevano forme meno rudimentali di riscaldamento, in particolare nelle ville rustiche dell’Europa settentrionale. Il sistema generalmente adottato era l’ipocausto con la circolazione della aria calda, prodotta dalla combustione continua di legna in un apposito vano che fungeva da caldaia, in una sorta d’intercapedine realizzata sotto la pavimentazione. Il consumo si confermò sempre molto elevato, dato anche il basso rendimento del sistema, che vedeva la maggior parte del calore disperso in aria con i fumi della combustione. L’impianto era spesso destinato anche a servire terme private, che, pur essendo una versione in scala ridotta dei grandi bagni pubblici, richiedevano, percentualmente, molta piú legna per riscaldarne l’acqua. Quanto alle terme propriamente dette, poiché non contemplavano alcun dispositivo di recupero e purificazione dell’acqua analogo al nostro skimmer (la bocca di aspirazione disposta sulle pareti delle piscine, a livello del pelo libero dell’acqua, destinata a risucchiare e a rinviare all’impianto di depurazione le materie inquinanti sospese in superficie, n.d.r.), quella che riempiva le vasche sia fredda, nella sala del frigidario, che calda, in quella del calidario, era sempre corrente e quindi, oltre all’ingentissimo consumo, occorreva riscaldarla ininterrottamente. E sempre bruciando legna si riscaldavano anche gli ambienti adiacenti, facendovi circolare l’aria calda sotto il pavimento e nei laterizi forati che ne rivestivano tutte le pareti. Per l’enorme fabbisogno di legna le terme disponevano di grandi capannoni destinati al suo stoccaggio, per servire di riserva, in caso di interrua r c h e o 101


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

zione dell’afflusso, ogni giorno trasportato da Assonometria carovane di muli e convogli di carri. ricostruttiva delle

LE FORNACI «DIVORATRICI» DI ENERGIA Se il riscaldamento delle domus e delle terme costituiva una caratteristica peculiare della civiltà romana e del benessere esistenziale raggiunto, l’abnorme consumo di legna da ardere si registrava anche in molte altre attività fortemente energivore, legate anch’esse ai consumi e agli sviluppi della società imperiale. Tra queste, in particolare, vi erano le molteplici tipologie di fornaci per laterizi, di forni fusori per la metallurgia, per la forgiatura siderurgica e, non da ultimo, per la lavorazione del vetro. 102 a r c h e o

Terme Stabiane di Pompei, il complesso termale piú antico della città vesuviana (II sec. a.C.), costruito su un impianto precedente (IV-III sec. a.C.), con restauri successivi.

Le fornaci piú grandi erano destinate alla produzione di laterizi in genere – mattoni e tegole –, di svariate forme e dimensioni, ampiamente richiesti dall’esplodere dell’edilizia pubblica e privata, con la costruzione di edifici colossali, acquedotti, palazzi e ville. Probabilmente, proprio dalle grandi tegole piatte, destinate alle coperture a falde inclinate, derivarono i tipici mattoni cotti romani quadrati di rilevanti dimensioni e che, tramite opportune incisioni diagonali, impresse prima della cottura, si potevano con facilità frammentare in sottomultipli triangolari, secondo le necessità, direttamente in cantiere, consentendo la realizzazione del caratteristico opus testaceum, con paramenti a corsi in laterizio e riempimento in calce-


struzzo. Tre i loro formati all’indomani della standardizzazione del I secolo d.C., rispettivamente di due piedi per lato, di un piede e mezzo e di due terzi di piede, con uno spessore oscillante fra i 4,5 e i 3,5 cm. Sempre dalle fornaci usciva l’immensa produzione di anfore di svariatissime forme e dimensioni: dagli enormi doli alle piccole lancelle, i primi usati per lo stivaggio di der-

A destra: particolare di una mappa di Roma disegnata in età barocca. Indicato dalla legenda e ben riconoscibile è il Monte Testaccio, formato dall’accumulo dei frammenti delle anfore da trasporto, svuotate e ridotte in pezzi dopo l’uso. A sinistra, dall’alto: disegni ricostruttivi riferiti a vari dettagli strutturali delle Terme Stabiane di Pompei: il sistema a ipocausto che assicurava la circolazione dell’aria calda; lo spogliatoio (apodyterium); sezione dei vari ambienti, con, al centro, il forno che permetteva di generare l’aria calda, poi fatta circolare, ove necessario, sotto i pavimenti e a ridosso delle pareti.

rate agricole incoerenti, come granaglie e similari, o di liquidi, come olio e vini, le seconde per attingere l’acqua. Non di rado si impiegavano anche per trasportare le suddette derrate, soprattutto via mare, come testimoniano gli innumerevoli relitti rinvenuti vicino alle coste. È interessante ricordare che molte di quelle anfore, una volta svuotate, non venivano piú utilizzate, costando piú la restituzione della vuota che l’acquisto di una nuova. Con l’accumularsi di quegli ammassi di cocci, si formò, a Roma, tra le Mura Aureliane e la sponda del Tevere, una collinetta alta 36 m definita con calzante allusione «Monte Testaccio» (dal latino testae, cioè tegole, anfore o cocci, n.d.r.). Un ambito non certo minore assolvevano pu-

a r c h e o 103


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

re le fornaci per la produzione della calce ottenuta dall’arrostimento della pietra calcarea. Si trattava di costruzioni tronco-coniche, con una modesta apertura in basso e una piú grande alla sommità, delle quali, dopo averne costipato la base con una grande quantità di legna – necessaria per l’avvio della combustione –, si riempiva la parte superiore di pietrisco. Acceso il fuoco, dal foro usciva il fumo, mentre dal basso si continuava per giorni ad alimentarlo, immettendo altra legna, fino all’ultimazione del processo, dopo circa 5-6 giorni. Un processo sostanzialmente simile, sebbene di entità di gran lunga piú modesta, era quello adottato per la produzione del vetro, il cui consumo – vuoi di tipo edile che artistico – raggiunse presso i Romani entità tanto ingenti da favorirne il riciclaggio dei frammenti, come hanno confermato alcuni relitti di navi cariche di rottami del genere.

I COSTI DI UN ESERCITO «DI FERRO» Di gran lunga superiore era il consumo di legna nei forni per la fusione del bronzo, del rame e del ferro, nonché per la forgiatura di quest’ultimo. Va osservato che, mentre per il bronzo, grazie all’abbassamento della temperatura di fusione prodotto dalla lega, bastava la combustione della legna di quercia, in virtú del suo alto potere calorico, per il ferro s’impose l’utilizzo del carbone vegetale, che consentiva di raggiungere i 1500 °C. I Romani non riuscirono mai a fondere il ferro, ma solo a ridurlo allo stato pastoso, per cui lo si purificò con la successiva lavorazione alla forgia, sempre alimentata con carbone vegetale, ottenendone il metallo per i successivi impieghi. Per produrre a sua volta il carbone vegetale, si cominciava accatastando i rami piú piccoli tagliati in pezzi non piú lunghi di 1 m, intorno a un palo verticale alto 3 m circa. La catasta assumeva l’aspetto di una gigantesca pigna rovesciata, del diametro di base di 5-6 m circa. Una volta formata, la carbonaia veniva interamente rivestita di terra battuta, a eccezione di un piccolo foro superiore, praticato in corrispondenza del palo. Si sfilava quindi il palo e, nella cavità lasciata al suo posto, si introduceva la brace, che incendiava la legna, facendo filtrare pochissimo ossigeno per la combustione. Dalla sommità fuoriusciva il fumo, che rendeva la carbonaia simile a un piccolo vulcano. Dopo circa sei giorni, tutta la legna si era tra104 a r c h e o

sformata in carbone: degli iniziali 30-40 quintali ne restavano appena 6-8. Quanto diffuse siano poi state le officine siderurgiche nelle quali si lavorava il ferro sulla forgia a carbone vegetale, lo si può arguire ricordando l’esigenza di armare un esercito di circa 500 000 uomini, letteralmente coperti di ferro: ne derivò una domanda immensa, a cui si aggiunse il concomitante fabbisogno di attrezzature, utensili e oggetti per la vita quotidiana. Processi fusori simili, ma con un minor consumo energetico, riguardarono anche gli altri metalli utilizzati dai Romani, e piú ancora le diverse tecniche adottate per la loro estrazione e purificazione.

L’EDILIZIA PRIVATA... Come accennato in precedenza, i tronchi degli alberi di alto fusto erano il solo materiale in grado di fornire elementi di notevole lunghez-

In alto: anfore da trasporto. Pompei, Antiquarium.


za, idonei a sopportare sollecitazioni di trazione. Travi, se appena sbozzati e squadrati in sezione rettangolare; puntelli, se appena sgrezzati; e tavoloni quando segati, con spessore compreso tra i 5-10 cm: erano questi i prodotti principali che se ne ricavavano e dei quali l’edilizia aveva un assoluto bisogno. Tanto la squadratura che la sgrezzatura o il taglio avvenivano a mano, dopo un’indispensabile stagionatura, che poteva durare anche alcuni anni: la prima e la seconda effettuate da esperti maestri d’ascia, la terza da operai che, a coppie, azionavano le lunghe lame delle grandi seghe. Nelle costruzioni civili, il legno trovava impiego nei solai realizzati con travi e tavole, impalcati sui quali veniva posto in opera il pavimento su di un massetto perfettamente livellato. Sempre con travi, listelli e tavole sui quali si collocavano le pesanti tegole, si realizzavano le coperture, costruite per lo piú a doppio o a quadruplo spiovente, ovvero a due falde o a padiglione, per far defluire le acque piovane. La struttura cosí ottenuta risultava di discreta pendenza, sebbene di

modesta resistenza, poiché doveva sopportare soltanto la pioggia, piú raramente la grandine ed eccezionalmente una lieve coltre di neve. Laddove, invece, la neve cadeva abbondante, la pendenza delle falde, al pari della loro robustezza, era maggiore, ottenuta grazie all’impiego di puntelli di rinforzo. Di legno, poi, erano spesso le scale, gli infissi, i serramenti e la mobilia interna, per lo piú consistente in cassepanche e armadi.

...E QUELLA PUBBLICA Nei grandi edifici pubblici, come nella costruzione degli acquedotti e dei ponti, pur essendo le arcate e le coperture ottenute in genere con volte e cupole, grandi quantitativi di legname furono usati per costruirne le centine e le sottostanti robuste impalcature necessarie alla loro realizzazione. La tecnica del calcestruzzo, che per alcuni aspetti anticipò la nostra del cemento armato, implicò la costruzione di apposite casseforme di legno per il getto di calcestruzzo che andava a colmarne l’interno, debitamente trattenute La tipica sagoma tronco-conica di una fornace per ricavare la calce dall’arrostimento della pietra calcarea.

a r c h e o 105


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

con traverse e pali di legno. Sempre nell’ambito dell’edilizia, grandi quantitativi di legname si adoperarono per realizzare diverse potenti macchine da cantiere, in particolare gru e montacarichi azionate da ruote calcatorie o da argani e cabestani, rispettivamente ad asse orizzontale e verticale.

DICIASSETTEMILA REMI Un ingentissimo consumo di legname, tratto da numerose essenze arboree, avveniva nei cantieri navali, per la costruzione del naviglio mercantile e da guerra. Del primo, costituito da grosse navi onerarie, snelli pescherecci e modeste barche, se ne stima l’ammontare complessivo in diverse migliaia. Le maggiori adibite al trasporto del grano, dei marmi e delle anfore di vino, le minori alla pesca e al

Una catasta di ramaglie e ciocchi di legna realizzata per ricavare carbone vegetale dalla loro lenta combustione.

commercio delle derrate agricole, le piú piccole al semplice diporto. Considerando che la loro longevità non superava il mezzo secolo, se ne può immaginare il fabbisogno di legname necessario alla costruzione. Piú alto ancora quello destinato ai cantieri navali per l’approntamento delle unità militari, che richiedevano scafi di gran lunga piú robusti, alberi massicci e soprattutto remi. Per fare un esempio, una flotta di 100 triremi, come quella ancorata nella base di Miseno, richiedeva ben 17 000 remi, dritti e di notevoli dimensioni, ottenuti perciò sacrificando giovani alberi di abete o di faggio, mentre enormi quantitativi di legno di quercia e di pino servivano per le ordinate, per il fasciame e per il ponte di coperta. Quanto alla durata, le unità militari, in tempo di pace, difficilmente

Interamente in legno fu costruito il grande ponte voluto da Giulio Cesare sul Reno, poi studiato dal Palladio

106 a r c h e o


superavano la trentina d’anni, poiché, oltre alla buona tenuta del mare, dovevano garantire una rilevante robustezza e l’assoluta impermeabilità del fasciame alle infiltrazioni, esito di periodici calafataggi. Un’altra attività che richiedeva elevate quantità di ottimo legname, di varia tipologia, era la costruzione dei carri – a due e a quattro ruote –, utilizzati in gran numero sia presso le legioni, sia nei trasporti commerciali privati. Sebbene non fossero carradori rinomati, i fabbri romani seppero, tuttavia, ottimizzare quei loro veicoli, prendendo spunto dai modelli celtici. I carri in età imperiale perciò si svilupparono e differenziarono in una vasta gamma di varianti, ciascuna adibita a un preciso impiego, che andava dal trasporto di persone, carrozze e diligenze, a quello di derrate agricole, carri e carrette, a quello di liquidi, carri botte, a quello di diporto, calessi e cocchi. Né mancavano veicoli speciali per ingenti carichi di eccezionale robustezza destinati alla fornitura di spesse lastre e blocchi di marmo, di statue di bronzo, di minerali incoerenti, ecc.

I GRANDI PONTI Una precisazione a parte richiedono i ponti, da sempre fondamentali nella viabilità della immensa rete stradale romana. Costruiti per lo piú con volte a tutto sesto, o appena ribassate, in pietra o in calcestruzzo, nei casi maggiori contemplarono pure l’impiego massiccio del legname. Cosí il grande ponte sul Reno, fatto costruire da Giulio Cesare e realizzato interamente in legno. Si trattò di una struttura senza dubbio provvisoria, una gigantesca variante di un ponte militare di circostanza, destinata perciò a essere demolita, dopo aver esaurito la sua orgogliosa prestazione. Lo si ottenne collocando uno spesso impalcato su enormi travate poste a loro volta su smisurati cavalletti fatti penetrare in profondità nel letto del fiume, tramite un’ingegnosa macchina battipalo. La sua eccezionale concezione fu magistralmente disegnata in eleganti tavole da Andrea Palladio, grazie alla puntuale esposizione delle relative connotazioni lasciate dallo stesso Cesare. Piú elaborato e grandioso il ponte sul Danubio, voluto da Traiano e progettato da Apollodoro di Damasco, ottenuto montando su colossali pile, di grossi conci di pietra e calcestruzzo, complesse e intricatissime arcate for-

La tavola dell’Encyclopédie (1751-1772) di Diderot e d’Alambert nella quale è illustrato il funzionamento delle carbonaie.

mate con spesse travi lignee, che realizzavano nel loro insieme gli elementi portanti sui quali insisteva l’impalcato. Anche da queste sommarie descrizioni traspaiono le immense quantità di legname impiegate, per cui alle spalle di ciascuno di siffatti ponti si deve immaginare il taglio di vastissimi boschi. Per restare alla rete stradale romana, ne va ricordata la somma indifferenza che i suoi progettisti ostentarono nei confronti delle molteplici asprezze morfologiche in cui si imbatterono. Dove necessario incisero le cime delle colline e le forarono con gallerie, scavalcarono le vallate con enormi viadotti e superarono i terreni acquitrinosi e palustri con il ricorso alla tecnica della palificazione. In breve, scavaa r c h e o 107


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

ta la trincea di fondazione della sede stradale, prima di gettarvi all’interno uno spesso strato di grossi scheggioni, vi conficcavano sul fondo migliaia di pali appuntiti, ricavati da alti tronchi, facendoli penetrare in profondità nel cedevole suolo, fino a formare una solida base per la massicciata della strada, proseguendo poi come nelle normali realizzazioni.

NEI CANTIERI EDILI A destra: disegno ricostruttivo di una gru. In basso: disegno ricostruttivo dell’edificazione di una muratura: si può notare l’ampio uso del legno per i ponteggi.

L’ATTIVITÀ MINERARIA Un forte consumo di legname richiese poi l’attività mineraria, che si articolò in due diverse direzioni. Da un lato, infatti, vi erano le necessarie strutture di sostegno per le gallerie e per i pozzi, ottenute sempre con un ampio ricorso all’impiego di robuste travi e puntelli destinati a sopportare spessi tavoloni. Dall’altro, l’utilizzo del fuoco per la frantumazione delle rocce nelle gallerie e, soprattutto, per la creazione al di sotto dei pozzi di aerazione di cospicui roghi la cui aria calda, risalendo verso la superficie, ne risucchiava altra fresca e ossigenata da altri pozzi limitrofi, consentendo perciò la ventilazione dei cunicoli. Sempre con strutture posticce di legno a sbalzo, impiantate sui ripidissimi fianchi delle montagne, si realizzarono le lunghissime canalizzazioni per trasportare l’acqua usata

nell’attuazione della ruina montium (letteralmente «distruzione delle montagne», n.d.r.), una tecnica ampiamente praticata sugli altipiani auriferi spagnoli di Las Medulas. E ancora ingenti quantità di legname furono usate per costruire le grandi norie necessarie per il sollevamento delle acque freatiche dalle gallerie e per il loro drenaggio. Simili a queste ultime erano anche le tante ruote idrauliche dei mulini posti lungo il corso dei fiumi per azionare le macine molarie e le seghe per le lastre di marmo, come ricordava il poeta Decimo Magno Ausonio nella sua Mosella.

GLI USI BELLICI Vasto impiego del legname in età imperiale si ebbe anche in ambito militare, dove già la formazione dell’accampamento, richiedeva una 108 a r c h e o


ininterrotta palizzata perimetrale, ottenuta conficcando pali appuntiti, affiancati fra loro, sulla sommità dell’aggere in modo di formare una sorta di cortina. Ogni legione utilizzava, poi, oltre a centinaia di carri, anche un gran numero di macchine da guerra, trasportate smontate su appositi veicoli. Tra queste spiccavano le grandi elepoli, che, non di rado superavano persino i 35 m di altezza; gli enormi arieti coperti da robuste tettoie definite testuggini; i tanti «onagri», gli «scorpioni» e ancora, l’ingombrante materiale da ponte prefabbricato. Consumi di legname che nel corso della conduzione degli investimenti ossidionali crescevano esponenzialmente, essendo tantissime opere realizzate sempre con quell’unico materiale, dalle difese posticce sulle mura, alle schermature delle postazioni di tiro e alle tettoie blindate di accostamento degli assedianti. Senza contare gli incendi appic-

A destra: calco di un particolare del fregio della Colonna Traiana (II sec. d.C.) raffigurante il ponte fatto costruire sul Danubio su progetto di Apollodoro di Damasco. 1861. In basso: l’inaugurazione del ponte sul Danubio in un altro particolare del fregio della Colonna Traiana.

cati intenzionalmente e le devastazioni dei boschi limitrofi, per esigenze tattiche. Quando poi, in epoca posteriore, alle tende degli accampamenti si sostituirono le baracche e quindi gli edifici in muratura delle vaste basi legionarie,

a r c h e o 109


SPECIALE • CRISI ENERGETICHE

il consumo di legname utilizzato per la loro costruzione divenne ingentissimo, dovendo al contempo fornire il combustibile necessario per il riscaldamento delle stesse.

UNA SERIE DI FATALI CONSEGUENZE Al di là degli elencati utilizzi del legname, le cause che produssero il deleterio e ampio disboscamento dapprima delle alture circostanti Roma, poi di quelle progressivamente piú lontane e, analogamente, an-

110 a r c h e o

che di quelle limitrofe a tutte le maggiori città dell’impero, possono riassumersi in alcune precise distinzioni. La prima vede il disboscamento come sistema per procurarsi nuova terra vergine da coltivare, che l’espansione demografica e il crescente benessere resero sempre piú necessaria. Un’identica motivazione va ravvisata nella creazione di ampi pascoli per i tanti capi bestiame delle grandi greggi e mandrie. L’apertura di strade, con la serie di opere accessorie laterali, fu un’ulteriore concausa


dell’indiscriminato disboscamento delle pendici montane, preceduto spesso dal loro terrazzamento. Contribuí in modo significativo anche la fondazione di altre città, con l’immancabile corollario della richiesta di ampi campi limitrofi da coltivare e la domanda di enormi quantitativi di legname per l’edilizia e per il riscaldamento domestico. Le conseguenze di quell’e-

In alto: disegno ricostruttivo di una grande sega idraulica, basato sui rilievi osservati su un sarcofago rinvenuto a Hierapolis, in Frigia. A sinistra: Vercingetorige al cospetto di Cesare, olio su tela di Henri-Paul Motte. 1886. Le-Puy-en-Velay, Musée Crozatier. Si può notare il vasto impiego del legname, per esempio sotto forma di pali appuntiti per la recinzione del campo romano.

sasperato depauperamento della copertura boschiva e, piú ancora, della sua distruzione non si fecero attendere. L’erosione accelerata determinata dalla mancanza di protezione arborea, dapprima spazzò via il sottile strato fertile di humus, poi dilavò completamente le pendici mettendo a nudo in maniera irreversibile le rocce sottostanti. Iniziarono perciò a venir giú dalle alture devastanti torrenti di fango con alluvioni improvvise e rovinose, non piú attenuate dalla vegetazione, che si abbatterono con crescente frequenza sulla stessa Roma. Ma, fenomeno di gran lunga piú grave e imputabile a quegli apporti, fu che ostacolando il libero deflusso dei corsi d’acqua verso il mare, andarono a incrementare le paludi. Queste ultime, che già vantavano precedenti significativi, come testimoniano i tanti cunicoli preistorici scavati per favorire il drenaggio delle acque stagnanti, si diffusero di nuovo in maniera considerevole, insieme al loro inseparabile corollario: la malaria. A quel punto l’ulteriore approvvigionamento del legname subí una brusca impennata economica e forse non fu affatto casuale la menzione dei già citati eliocamini, testimonianza che il ricorso al riscaldamento solare si era ormai affacciato. Quelle difficoltà ebbero presto notevoli ripercussioni anche sulla macchina militare, compromettendone la sostenibilità economica e l’indispensabile fornitura dei necessari armamenti. Senza dubbio, la crisi energetica non determinò il collasso dell’impero d’Occidente, ma da molti studiosi è vista come una delle sue, non secondarie, concause. a r c h e o 111


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

NELLE SPIRE DELLA SENSUALITÀ SIMBOLO SALVIFICO NELL’ANTICHITÀ, MA ANCHE INCARNAZIONE DEL PECCATO, IL SERPENTE ACCOMPAGNA STORICAMENTE FIGURE FEMMINILI DI GRANDE FASCINO E AMBIGUITÀ

I

cone femminili di uno stile eccentrico e quasi futuribile del Novecento, quali la marchesa Luisa Casati – amante di D’Annunzio e sperperatrice di un’immensa eredità paterna – o lady Diana Cooper – affascinante intellettuale e attrice inglese – amavano stupire accompagnandosi ad animali da compagnia particolari, ovvero grandi e mansueti serpenti che portavano, come stole, intorno al collo e alle spalle. Tali pose stravaganti, che all’epoca suscitavano grande scalpore e comunicavano l’immagine di

A destra: Lilith, olio su tela di John Collier. 1882. Londra, Atkinson Art Gallery Collection. In basso: la Dea dei Serpenti, dal Palazzo di Cnosso. 1600 a.C. circa. Iraklio, Museo Archeologico. Nella pagina accanto in basso: contorniato con testa di Nerone al dritto e al rovescio Olimpiade su letto con serpente. Fine del IV sec. d.C.

irraggiungibili dark lady seduttive e pericolosamente potenti, possono ricordare all’archeologo analoghe raffigurazioni antiche che ricorrono nella statuaria e nell’iconografia numismatica. Si pensi, per esempio, alla bellissima statuina in lucida terracotta

112 a r c h e o

policroma nota come Dea dei Serpenti, rinvenuta nel Palazzo di Cnosso, a Creta, insieme ad altri esemplari simili databili a partire dal XVII secolo a.C. Lo sguardo fisso e straniato, l’abito a campana che lascia nudo ed esalta il seno statuario, un gatto


sulla testa su un copricapo e, soprattutto, i serpenti che essa stringe nella mani restituiscono l’immagine di una divinità potente che incute riverenza e la cui nudità non suscita certo pensieri sensuali, ma contribuisce a esaltare la forza dominatrice e creatrice della donna e della natura. Ancora, nell’arte pittorica a cavallo tra Ottocento e Novecento sono numerose le tele con giovani donne conturbanti in stretto connubio con enormi serpenti, come la Lilith (1887) del preraffaellita John Collier, in cui la bellissima e oscura Lilith dai capelli ramati del mito mesopotamico ed ebraico copre la sua perfetta e candida nudità soltanto con le spire di un placido rettile.

UN RIBREZZO IMMOTIVATO La cristianità ha ribaltato il valore positivo del serpente di Asclepio e di altri suoi simili, come il serpe parlante e poliglotta Ladone, guardiano dell’albero di Era nel Giardino delle Esperidi, relegandoli a simbolo del male e a un’ingiustificata repulsione che dura tuttora. Sulle monete antiche ricorre frequentemente l’associazione chiaramente positiva donna/serpente – anche a prescindere dall’asclepiade Igea –, uniti in immagini di nutrimento, intesa e colloquio mistico. Si pensi alle litre in argento battute nel V secolo a.C. a Selinus (Selinunte),

con il toro a testa umana Acheloo su un lato e, sull’altro, una donna, probabilmente la ninfa Eurimedusa sua figlia, che ciba un serpente dal seno, in alcuni casi alzando un braccio forse per favorire l’allattamento. Circa l’allattamento umano del serpente, doveva trattarsi di un’usanza conosciuta nel mondo antico, probabilmente legata al valore salvifico attribuito a questo animale e ricordato anche da Luciano di Samosata: «Lí [Pella in Macedonia] si vedono serpenti enormi, ma del tutto docili e mansueti, al punto che sono allevati dalle donne e dormono con i bambini, si lasciano calpestare, non si ribellano se li si stringe, e succhiano il latte dalla mammella come i neonati (…). Da qui si diffuse probabilmente la diceria su Olimpiade, quando era incinta di Alessandro: si trattava, credo, di un serpente di questa specie che dormiva accanto a lei». (Alessandro, o il falso profeta, 7). Quest’ultimo passo di Luciano menziona una vera e propria signora dei serpenti, ovvero Olimpiade di Epiro, moglie di Filippo II e di Alessandro Magno, che già ai suoi tempi si diceva fosse stata fecondata da Zeus che assunse forma serpentiforme (vedi anche «Archeo» n. 426, agosto 2020; on line su issuu.com). La familiarità con questi animali della regina, iniziata ai culti

Litra di Selinunte. 415-409 a.C. Al dritto, il toro Acheloo e legenda SELINONTI («dei Selinuntini»); al rovescio, la ninfa Eurimedusa che nutre il serpente al seno. In alto si riconosce un sedano, da cui deriva il nome greco della città (Selinus). misterici, è nota dalle fonti letterarie, che ricordano come essi dormissero accanto a lei (Plutarco, Vita di Alessandro, 2,6). Su un contorniato – termine che designa medaglioni bronzei contraddistinti da un solco lungo il bordo, emessi a Roma tra la seconda metà del IV secolo d.C. e la metà del successivo – compare la testa di Nerone al dritto e, al rovescio, Olimpiade semidistesa come una Paolina Borghese ante litteram su un’elegante chaise longue, con spalliera, che sembra accarezzare il muso di un sinuoso e lungo serpente, intenti in un incontro concesso solo alle divinità e ai loro adepti.

a r c h e o 113


I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Marta Arzarello, Cristiana Zanasi (a cura di)

PRIMORDI La riscoperta della raccolta del Paleolitico francese del Museo Civico di Modena All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 74 pp., ill. col. 24,00 euro ISBN 978-88-9285-051-4 www.insegnadelgiglio.it

Pubblicato in occasione della mostra omonima, il volume è piú di un catalogo, in quanto, nel ripercorrere la vicenda dell’acquisizione della raccolta da parte del museo modenese, offre una testimonianza assai significativa della temperie culturale in cui essa ebbe luogo. L’acquisto dei reperti, compiuto nel 1891 da Carlo Boni, fondatore e primo direttore del Museo Civico di Modena, si inserisce in un momento cruciale nella storia degli studi di preistoria, molti dei cui protagonisti operano in Italia, come per esempio il geologo e paletnologo Giuseppe Scarabelli, 114 a r c h e o

che nella non lontana Imola, dedica ai materiali preistorici pubblicazioni che segnano un punto di svolta decisivo. Ed è non meno significativo il fatto che Boni, nello spiegare i motivi che l’avevano indotto ad acquisire i materiali transalpini, avesse sottolineato l’importanza di favorire la comprensione degli oggetti di provenienza locale custoditi nel museo anche attraverso il confronto con contesti geograficamente diversi. L’opera curata da Marta Arzarello e Cristiana Zanasi, dunque, inquadra la presentazione degli strumenti che compongono la collezione francese in un contesto piú ampio, illustrando, per esempio, le varie fasi del Paleolitico in Europa. Merita anche d’essere segnalata la grafica dell’opera, molto gradevole e che dona un riuscito sapore «moderno» agli echi ottocenteschi tramandati dalle illustrazioni d’epoca.

dottorato di ricerca e offre un quadro analitico delle presenze archeologiche attestate in una vasta porzione del suburbio romano. Si tratta infatti di circa 40 kmq, distribuiti nel quadrante meridionale dell’odierna periferia della capitale, per i quali Ippoliti si è avvalso di varie fonti documentarie, fra cui i dati delle ricognizioni di superficie. Al di là del dato statistico, il lavoro è un valido esempio di cosa significhi praticare l’archeologia del paesaggio, che, nel caso in questione, si mostra particolarmente ricco e articolato, testimone di una frequentazione intensa e plurisecolare.

Mattia Ippoliti

TRA IL TEVERE E LA VIA APPIA

Francesco Maria Galassi

Caratteri e sviluppi di un paesaggio suburbano di Roma antica tra IX secolo a.C. e VI secolo d.C. Edizioni Quasar, Roma, 316 pp., ill. b/n + 28 tavv. col. 36,00 euro ISBN 978-88-5491-021-8 www.edizioniquasar.it

UOMINI E MICROBI: L’ETERNA BATTAGLIA

Il volume, di taglio specialistico, riprende e sviluppa il lavoro svolto dall’autore per il proprio

Dalla Preistoria al Coronavirus Espress, Torino, 208 pp., ill. b/n 16,00 euro ISBN 978-88-97412-99-1

Sebbene il titolo possa far pensare a una sorta di instant book, il saggio di Francesco M. Galassi è qualcosa di ben diverso

e, fra i suoi non pochi pregi, ha quello di essere tutt’altro che effimero. Come del resto chiarisce l’autore stesso nelle pagine introduttive, alla scrittura del volume non si è accinto con l’intento di dare alle stampe un «annale del nostro tempo»: l’obiettivo era piuttosto quello di dimostrare come la pandemia, in questo

caso da Covid-19, non sia un evento inedito nella nostra storia e come, purtroppo, i molti precedenti non sembrino aver insegnato granché. Ripercorrere alcuni dei maggiori flagelli del passato – dalla peste antonina all’influenza spagnola – serve all’autore per dimostare come, anche in questo caso, nulla di nuovo vi sia sotto il sole, ma anche per suggerire che lo studio di quelle tragedie avrebbe potuto (e ancora potrebbe) contribuire con efficacia ad affrontare la realtà odierna. (a cura di Stefano Mammini)




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.