2021 CIPPO DI CLAUDIO
ROMA
RIVELAZIONI SUL POMERIO
FOSSA
I LUOGHI DEL SACRO
MURA DELL’AQUILA
IL TESORO DEL CARAMBOLO
PIACENZA ROMANA CARAMBOLO SPECIALE GROTTA GUATTARI
Mens. Anno XXXV n. 438 agosto 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA
NELLA BAIA DI ABUKIR NEANDERTALIANI
NUOVE SCOPERTE AL CIRCEO PIACENZA
LA CITTÀ IN ETÀ ROMANA
SPECIALE ABRUZZO
• I SIGNORI DI FOSSA • LE MURA DELL’AQUILA
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IN EDICOLA IL 7 AGOSTO 2021
CI RC EO
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LE UL TIM ES CO ww PE w. a rc RT h E
ARCHEO 438 AGOSTO
€ 5,90
EDITORIALE
DEI SUB NUMINE VIGET... Viviamo tempi di inquietudine, e non solo per l’emergenza sanitaria che non accenna a spegnersi. Una sorta di sindrome virale sembra infatti estendersi a quella che potremmo chiamare la cultura della memoria. Sotto il vessillo della cancel culture (espressione che, per un diffuso anglicismo, evoca la funzione deleteria di un tasto del computer), l’Università di Princeton ha deciso di abolire la conoscenza del greco e del latino, fino a ieri requisito obbligatorio per accedere ai corsi di laurea in studi classici. Confesso che, una cinquantina di anni fa, mentre a malavoglia faticavo sui testi degli autori greci e latini, mi sarei anche potuto «entusiasmare» alle nobili motivazioni avanzate per giustificare tale decisione: rendere possibile l’accesso alle facoltà classiche a quegli studenti – meno privilegiati soprattutto perché di colore – ai quali era stato precluso. Per loro (come per noi), del resto, esisterebbero le numerose ed eccellenti traduzioni. C’è da chiedersi, però – qualora la discutibile iniziativa dovesse diffondersi – chi potrà provvedere a future traduzioni e/o ritraduzioni, se nessuno sarà piú in grado di leggere i testi in lingua originale. Perché, allora, non si è pensato di richiedere, a chi vuole In alto: lo stemma dell’Università di Princeton, con il motto latino Dei sub numine viget («Prospera sotto l’ispirazione di Dio»).
intraprendere «studi classici», l’obbligo di imparare il greco e il latino durante lo stesso percorso accademico? Posso assicurarvi che – almeno nel mio caso – il ricordo di quanto appreso al liceo è ben poca cosa: mi permette ancora di leggere (e pronunciare a voce alta) un testo in greco antico, ma senza ormai capirne, per lo piú, il senso. Va un po’ meglio con il latino: senza però l’aiuto di un vero latinista, sarei, anche qui, in difficoltà. Prendiamo, per esempio, la scritta incisa sul cippo pomeriale rinvenuto a Roma e che vi presentiamo alle pagine 32/37: a leggerla per noi e a spiegarne il senso profondo è lo studioso Claudio Parisi Presicce, direttore dei Musei archeologici di Roma e responsabile scientifico degli scavi del mausoleo di Augusto. Il quale ci ricorda come sia importante distinguere tra la «comunicazione orale», immediata, volatile ed effimera, e quella scritta, destinata, per sua stessa forma e vocazione, a durare nel tempo. Sarebbe un bel guaio se, un giorno, quei messaggi «che si vogliono letti da tutti e per sempre» non riuscissimo piú a comprenderli. Andreas M. Steiner In basso: la Nassau Hall, edificio sorto nel 1756 per ospitare l’allora College of New Jersey e oggi compreso nel campus dell’Università di Princeton.
SOMMARIO EDITORIALE
Dei sub numine viget... 3 di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
6
SCOPERTE Le ricerche subacquee nella baia di Abukir hanno permesso di localizzare, per la prima volta, una galera di età tolemaica 6
A TUTTO CAMPO Meleagro, Marat e Lady Gaga: figure di mondi fra loro lontanissimi eppure accomunate da un gesto 22 di Mara Sternini
incontro con Claudio Parisi Presicce, a cura di Flavia Marimpietri
Tutti i leoni dell’aquila 56 di Ada d’Alessandro e Antonio Di Stefano
32 CIPPO DI CLAUDIO
amministrazione@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA
Mens. Anno XXXV n. 438 agosto 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE GROTTA GUATTARI
Amministrazione
CARAMBOLO
Impaginazione Davide Tesei
PIACENZA ROMANA
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
Federico Curti
IL TESORO DEL CARAMBOLO
MURA DELL’AQUILA
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
In copertina Thonis-Heracleion, baia di Abukir (Egitto). Un’immagine delle ricerche subacquee che hanno portato alla scoperta del relitto di una nave tolemaica e di una necropoli greca.
Presidente
ROMA
RIVELAZIONI SUL POMERIO
I LUOGHI DEL SACRO
FOSSA
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
€ 5,90
www.archeo.it
IN EDICOLA IL 7 AGOSTO 2021
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LE ULT IM ES CO PE RT he E
56
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2021
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
40 SCOPERTE
ARCHEO 438 AGOSTO
Anno XXXVII, n. 438 - agosto 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
di Vincenzo d’Ercole, Alberta Martellone, Matteo Milletti, Giusy Capasso e Valerj Del Segato
«Ben leggibile anche da lontano» 32
di Andrea Schiappelli
di Dario Daffara, Marina Lo Blundo e Barbara Roggio
Signori dell’Abruzzo preromano 40
SCOPERTE
PASSEGGIATE NEL PArCo Il Foro Romano e il Palatino sono abitati da numerose specie animali, tra cui civette, gabbiani, falchi e rospi smeraldini 10
FRONTE DEL PORTO La digitalizzazione degli archivi del Parco archeologico di Ostia antica è ormai realtà 16
SCAVI
NELLA BAIA DI ABUKIR NEANDERTALIANI
NUOVE SCOPERTE AL CIRCEO PIACENZA
LA CITTÀ IN ETÀ ROMANA
arc438_Cop.indd 1
SPECIALE ABRUZZO
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto
• I SIGNORI DI FOSSA • LE MURA DELL’AQUILA 27/07/21 14:11
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Maddalena Bassani è professore associato di archeologia classica all’Università Iuav di Venezia. Micaela Bertuzzi è archeologa e presidente dell’Associazione Arti e Pensieri. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Giusy Capasso è antropologa. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Ada d’Alessandro è studiosa di archeologia medievale. Valerj Del Segato è archeologa. Vincenzo d’Ercole è direttore scientifico degli scavi nella necropoli di Fossa (L’Aquila). Antonio Di Stefano è architetto. Marina Lo Blundo è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Fantina Madricardo è ricercatore presso l’Istituto di Scienze Marine di Venezia. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Alberta Martellone è funzionario archeologo presso la Soprintendenza ABAP per la città dell’Aquila e Teramo. Matteo Milletti è funzionario archeologo presso la Soprintendenza ABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo. Ana Navarro è curatrice di musei della Consejería de Cultura, Junta de Andalucía. Marco Podini è funzionario archeologo presso la Soprintendenza
MUSEI
Benvenuti a Placentia! 68 di Marco Podini e Micaela Bertuzzi
68
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LUOGHI DEL SACRO/7
Argantonio e il tesoro misterioso di Ana Navarro
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SPECIALE
Nove uomini in grotta... per non parlare della iena
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di Stefano Mammini
Rubriche
LIBRI
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
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Quando il sonno guarisce 112 di Francesca Ceci
ABAP per le province di Parma e Piacenza. Barbara Roggio è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Andrea Schiappelli è funzionario archeologo presso il Parco archeologico del Colosseo. Mara Sternini è professore associato di archeologia classica all’Università degli Studi di Siena.
Illustrazioni e immagini: Franck Goddio/Hilti Foundation: ChristophGerigk: copertina e pp. 6-8 – Doc. red.: pp. 3, 37, 98-99, 102, 103 (basso), 104-105 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Cortesia degli autori: pp. 12, 13 (alto), 22-23, 40-41, 42 (basso), 43, 44-53, 56-67, 70, 83, 84 (primo piano), 85, 86-87, 112-113 – Cortesia Nucleo sommozzatori della Polizia di Stato: p. 13 (basso) – Parco archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 20-21 – Ufficio stampa Zètema Progetto Cultura: pp. 32-35, 38 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 36, 80; Album/Oronoz: pp. 82, 88; Ashmolean Museum, University of Oxford/Heritage Images: p. 89; Album/Sfgp: p. 90 – Daniele Zucca: pp. 68/69, 73 (basso), 74, 75 (basso) – Carlo Pagani: p. 69 – Nadia Losi: elaborazione grafica a p. 71 – Carlo Vannini: pp. 72 (sinistra), 73 (centro), 75 (alto), 76-77, 78 – Mattia Cantatore: elaborazione grafica a p. 72 – Shutterstock: pp. 84 (sfondo), 96/97, 100/101, 109 – Alamy Stock Photo: pp. 91, 92/93 – MiC-Soprintendenza ABAP per le province di Frosinone e Latina: p. 101, 107; Micromegas: pp. 94, 97, 108/109 – MiC, Ufficio Stampa e Comunicazione: Emanuele Antonio Minerva: pp. 95 (e p. 110), 103 (alto) – da: Marcello Piperno e Giovanni Scichilone (a cura di), Il cranio neandertaliano Circeo 1. Studi e documenti, IPZS, Roma 1991: pp. 106, 108, 111 – Cippigraphix: cartine alle pp. 42, 81, 96. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCOPERTE Egitto
LA GALERA DI ABUKIR
L
a baia di Abukir è stata teatro di una nuova e importate scoperta, avvenuta nel corso delle ricerche che da anni interessano l’area in cui giacciono i resti delle città di Thonis-Heracleion e Canopo, sommerse dalle acque fin dall’VIII secolo d.C., a causa di fenomeni sismici e geologici. Si tratta, questa volta, del relitto di una nave – una galera – di epoca tolemaica, che colò a picco nel II secolo a.C., dopo essere stata colpita dai blocchi di pietra delle murature del vicino tempio di Amon, che un violento terremoto fece precipitare in mare. Al momento dell’inabissamento, l’imbarcazione era ormeggiata nel canale che correva lungo la fronte meridionale del tempio e i blocchi che la affondarono e poi la seppellirono hanno permesso la conservazione dei suoi resti, trascinandoli sul fondo del canale stesso, che finí con l’essere colmato dalle macerie del santuario. La galera è stata localizzata sotto un compatto strato argilloso, spesso piú di 5 m, grazie all’impiego di strumentazioni d’avanguardia, che hanno consentito di intuirne il profilo. Come ha spiegato Franck Goddio, l’archeologo che guida le ricerche, «Finora, i ritrovamenti di galere veloci risalenti all’epoca ellenistica sono stati assai rari e il solo esempio confrontabile con il nostro è il relitto della nave punica di Marsala (datato al 235 a.C.). Le osservazioni preliminari condotte sul relitto hanno rivelato che la
6 archeo
Thonis-Heracleion, baia di Abukir, Egitto. Materiali appartenenti a corredi funebri delle tombe greche rinvenute nel corso delle ultime ricerche subacquee condotte nel sito. Le sepolture sono comprese in una vasta area funeraria e risalgono agli inizi del IV sec. a.C.
archeo 7
n otiz iario
A destra: placchetta in oro raffigurante il dio Bes. Fine del V-inizi del IV sec. a.C. In basso: il relitto di epoca tolemaica e alcuni dei blocchi del tempio di Amon che ne causarono l’affondamento.
galera fu costruita seguendo i canoni della cantieristica d’epoca classica, ovvero impiegando il sistema delle mortase e dei tenoni per le giunture e curando con particolare attenzione l’articolazione interna della struttura. Al tempo stesso, appaiono evidenti soluzioni tipiche della tradizione egiziana e possiamo perciò parlare di una costruzione di tipo misto. La galera era sospinta dai remi, ma disponeva anche di un’ampia vela, come prova la presenza di un
8 archeo
albero di notevoli dimensioni. Il fondo dell’imbarcazione era piatto, cosí come la chiglia, in modo da favorire la navigazione nelle acque del Nilo e del Delta. La galera fu certamente opera di maestranze locali, come provano non soltanto le già citate soluzioni costruttive tipiche dell’Egitto, ma anche il ricorso a legno di reimpiego. La lunghezza totale dell’imbarcazione era pari a 25 m, una misura equivalente a circa 6 volte quella della sua larghezza». In un altro settore dell’antica città è stata invece individuata un’ampia area funeraria greca, la cui presenza era stata indiziata dai resti di un grande tumulo situato nei pressi dell’imbocco nord-orientale del canale. Qui sono stati recuperati preziosi oggetti appartenenti a corredi funebri, databili agli inizi del IV secolo a.C. La scoperta conferma la presenza aThonis-Heracleion di mercanti e mercenari greci, autorizzati a insediarvisi nelle ultime fasi dell’età faraonica. A loro si deve la costruzione di vari luoghi di culto in prossimità del tempio di Amon, che, come quest’ultimo, vennero distrutti dal terremoto. (red.)
PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
AD ALI SPIEGATE SUL PARCO GABBIANI, FALCHI, CIVETTE... MA ANCHE RICCI E ROSPI SMERALDINI: SONO SOLO ALCUNI DEGLI INSOSPETTATI ABITATORI DEL FORO ROMANO E DEL PALATINO, ORA AL CENTRO DI UN PROGETTO DI STUDIO INTERNAZIONALE
I
l verde del Parco archeologico del Colosseo sorprende spesso i suoi visitatori. Un verde che in primavera e d’estate fa da cornice a mille altri colori, che dal centro del colle Palatino alle sue pendici esplodono insieme ai loro profumi. Ed è un verde che, insieme ai resti monumentali delle strutture antiche, è da secoli divenuto habitat naturale per una composita fauna selvatica, che almeno in parte trova radici altrettanto antiche. Già al tramonto dell’impero romano, infatti, con il progressivo abbandono della valle del Foro e del colle Palatino e l’estendersi della vegetazione spontanea tra ruderi, nuovi orti e giardini, l’intera area cominciò a ripopolarsi di animali che ritennero
sufficientemente tranquillo e vivibile l’habitat venutosi a ricreare, dopo la lontana prima età del Ferro, in paesaggio nuovo, ormai al margine della città. E proprio alla fauna selvatica è dedicato SPECTIO, il progetto che il PArCo, per iniziativa del Servizio Educazione Didattica e Formazione, ha avviato all’inizio del 2020 e che mira all’osservazione e allo studio delle abitudini delle specie presenti nell’area archeologica, con particolare attenzione alla ricca avifauna locale. Si vuole cosí valorizzare questo patrimonio naturalistico, da divulgare con pubblicazioni ad hoc, laboratori didattici, visite guidate tematiche e comunicazione attraverso i canali social. Com’è facile intuire, il nome In alto: un parrocchetto dal collare sull’Arco di Tito. Nella pagina accanto: un gabbiano sul Palatino. A sinistra: «caccia» fotografica nei pressi del cosiddetto Stadio della Domus Augustana.
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scelto per il progetto vuole evocare la spectio, che, nella Roma delle origini, era l’osservazione rituale del volo degli uccelli e di altri fenomeni fonti potenziali di auspici. Un rituale consegnato alla storia dalla sfida tra Romolo e Remo per decidere su quale colle fondare la futura Città Eterna.
REAZIONI SINGOLARI Primo atto fondante del progetto è stata la definizione del protocollo d’intesa con Ornis Italica, associazione non profit già attiva da qualche anno nel PArCo per monitorare la vita dei gabbiani. In realtà, l’idea era in embrione da tempo, ma, con l’esplosione della pandemia, il progetto ha avuto un’energica accelerazione: in tutto il mondo, infatti, dall’inizio del primo lockdown, sono state
osservate numerose singolari reazioni della fauna selvatica al cambiamento di abitudini imposto all’uomo dal diffondersi del Coronavirus. Un fenomeno di stasi e di riduzione della presenza dell’uomo in molti luoghi del pianeta (tra cui il PArCo) come non si registrava da decenni, tanto da portare i biologi a coniare il termine specifico di «antropausa» e ad avviare la COVID-19 Bio-Logging Initiative, proprio al fine di indagare i comportamenti animali mediante una raccolta dati massiva e su ampia scala, in modo da poter stimare il peso dell’azione dell’Uomo sulla natura quando l’attività umana si ferma. Seppur generata da una contingenza oltremodo drammatica, si presentava senza dubbio un’occasione unica per registrare simultaneamente in ogni dove una serie di fenomeni di grande interesse per lo studio dell’impatto dell’uomo sugli animali selvatici. Il PArCo partecipa all’iniziativa grazie al coinvolgimento e all’impegno di Giacomo Dell’Omo e Valeria Jennings di Ornis Italica, che si occupa sul campo della raccolta dati e della loro successiva elaborazione, con il coordinamento del Servizio Didattica e congiuntamente all’indispensabile collaborazione di tutto il personale del PArCO, prezioso per gli avvistamenti e le foto che vengono quotidianamente realizzati. Avendo in programma di monitorare la situazione per almeno un intero ciclo di stagioni, la presenza degli specialisti di Ornis Italica nel parco è stata e continuerà a essere costante, con tanto di appostamenti notturni. È stato cosí possibile raccogliere una grande quantità di informazioni e realizzare riprese video e fotografiche di tale bellezza e suggestione che si è deciso di tradurle in un libro fotografico in programma per la
fine del 2021, a cui fara seguito una vera guida alla fauna selvatica del PArCo. Con quali protagonisti?
I VIAGGI DI EMILIO Per citarne solo alcuni, per certo avremo la nutrita colonia di gabbiani, pari a circa 200 esemplari per lo piú residenti nella valle del Foro, il piú noto rappresentante dei quali è ormai Emilio, cosí ribattezzato in quanto nidificante nella Basilica Emilia. Grazie all’applicazione di piccoli registratori GPS sulla schiena di alcuni esemplari, Ornis Italica ha scoperto che, nel 2019 e nel 2020, a luglio, Emilio ha intrapreso un viaggio di 750 km raggiungendo il lago di Costanza in Svizzera, per poi tornare d’inverno al Foro Romano. Non meno sorprendente la storia del codirosso spazzacamino (Phoenicurus ochruros), che è venuto a trovarci dall’Ungheria, come testimoniato dall’anellino metallico sulla zampa, recante un codice identificativo fissato da ornitologi, che non è sfuggito all’attento obiettivo di Gianluca Damiani e Andrea Benvenuti (Ornis Italica). Molte anche le civette da loro «paparazzate» di sera, fuori dalle loro dimore sul Palatino, del quale sembrano apprezzare molto i muri laterizi di Vigna Barberini e
della Domus Flavia. Piú esigente invece la coppia di falchi pellegrini in riproduzione, che per il proprio nido d’amore ha preferito una finestra dell’esedra che si apre sul cosiddetto Stadio della Domus Augustana. Una scelta non canonica, peraltro, vista l’apertura sui due lati, ma che ha dato i suoi frutti dato il successivo avvistamento di un falchetto insieme ai genitori… Ma i piú giovani frequentatori del PArCO sono affezionati soprattutto ai rospi smeraldini (Bufotes viridis) che in queste serate d’estate, quando finalmente dormono i gabbiani, escono allo scoperto dalle fontane degli Horti Farnesiani e della Casa delle Vestali, facendosi sentire con il proprio canto, simile a quello dei grilli. E altrettanto popolari sono i ricci che popolano numerosi il versante meridionale del Palatino, dove non è difficile incontrarli a passeggio sui sentieri anche durante il giorno, a sfidare coraggiosamente il volo minaccioso di cornacchie, falchi e gabbiani. Tutto un brulicare di specie anche protette, quindi, divenuto ora oggetto di una puntuale mappatura, strumento indispensabile per una tutela a tutto tondo del patrimonio del PArCo. Andrea Schiappelli
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n otiz iario
SCOPERTE Venezia
ACQUE PIENE DI STORIE
I
resti di una strada di epoca romana sono stati scoperti nelle acque della laguna di Venezia e la loro presenza suggerisce che nell’area vi potessero essere insediamenti diffusi, secoli prima della fondazione della città. Durante l’età romana, del resto, ampie zone della laguna, ora sommerse, erano accessibili da terra. Tuttavia, nonostante i ripetuti ritrovamenti di reperti succedutisi negli ultimi decenni nelle isole e nelle aree umide della laguna, non è ancora chiaro quale fosse
l’estensione dell’occupazione antropica in epoca antica. Grazie alla mappatura dei fondali della laguna con un sonar ad alta risoluzione e alla ricerca archeologica e archivistica, chi In alto: ricostruzione della strada romana (a destra) nel Canale di Treporti nella Laguna di Venezia, oggi totalmente sommersa (a sinistra). A destra: immagini che documentano i ritrovamenti compiuti nel 1985. Nella pagina accanto, in basso: i basoli individuati nel 2020 dal Nucleo Sommozzatori della Polizia.
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scrive – insieme ai colleghi Giuseppe D’Acunto, Antonio Calandriello e Federica Foglini – ha individuato 12 strutture allineate lungo l’asse del Canale Treporti alte fino a 2,7 m e lunghe fino a 52,7 m.
Batimetria ad alta risoluzione del Canale di Treporti. 1-12: strutture ritrovate in allineamento circa alla stessa profondità; a-d: altre stutture mappate a profondità diverse. Il possibile molo (a), lungo 134,7 m e alto fino a 4 m, è mappato nel dettaglio in alto a sinistra.
Una di queste strutture era già stata oggetto di investigazione da parte di Ernesto Canal, pioniere delle ricerche archeologiche in laguna, e della Soprintendenza nel 1985: grazie all’ispezione dei sommozzatori Paolo Zanetti ed Eros Turcato, venne accertata la presenza in quell’area di alcune
anfore e un allineamento di numerosi basoli, i blocchi di pietra utilizzati dai Romani appunto per la costruzione delle strade. Altre pietre simili a basoli sono state successivamente documentate durante un’ispezione del Nucleo Sommozzatori della Polizia, nell’estate del 2020.
Oltre a quelle in allineamento, lo studio documenta la presenza di altre quattro strutture, la piú grande delle quali misura quasi 135 m in lunghezza e fino a 4 m in altezza. La posizione di quest’ultima e le sue dimensioni fanno pensare che possa trattarsi di una struttura portuale, forse parte di un molo, anche se ulteriori indagini archeologiche subacquee saranno necessarie per confermare tale ipotesi. I dati acquisiti insieme a quelli raccolti negli anni Ottanta indicano che la strada si trova su un antico litorale ora sommerso, che in epoca romana doveva essere emerso e accessibile. I ritrovamenti supportano l’ipotesi che a quel tempo esistessero insediamenti permanenti nel Canale di Treporti. Con ogni probabilità, la strada era parte integrante della rete viaria romana dell’Italia nord-orientale, lungo il litorale che connetteva Chioggia (l’antica Clodia) all’antica città di Altino, che sorgeva ai margini della parte settentrionale della laguna. Per offrire una migliore percezione di tale infrastruttura, ne è stata elaborata la restituzione digitale che mostra come la strada poteva configurarsi lungo il litorale in età antica (vedi foto a p. 12, in alto). La scoperta della strada è frutto del lavoro svolto da un gruppo di ricercatori del CNR-ISMAR e dell’Università Iuav di Venezia. Fantina Madricardo e Maddalena Bassani
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
UN RESTAURO SENZA SEGRETI UNA DELLE PIÚ FASTOSE RESIDENZE POMPEIANE, LA VILLA DI DIOMEDE, È DA TEMPO AL CENTRO DI UN RINNOVATO INTERESSE. DI CUI SONO FRUTTO STUDI E RICERCHE APPENA PUBBLICATI E L’AVVIO DI UN INTERVENTO DI RISANAMENTO CHE POTRÀ ESSERE SEGUITO ANCHE DAI VISITATORI DEL SITO
«S
u il sipario! Cantiere in Scena» è l’evento con il quale il Parco Archeologico di Pompei ha aperto al pubblico, e continuerà a farlo, il cantiere di restauro della Villa di Diomede, la grande e scenografica residenza situata lungo la via dei Sepolcri, presso la necropoli di Porta Ercolano. La denominazione deriva dall’impropria associazione della residenza con l’antistante tomba di M. Arrius Diomedes. Si tratta di uno dei primi complessi scoperti a Pompei, tra il 1771 e il 1775, e uno dei monumenti piú descritti e rappresentati da architetti e viaggiatori del Grand Tour. Oggetto dal 2013 di un articolato progetto di ricerca internazionale coordinato da Helene Dessales, docente di archeologia all’École normale supérieure (Parigi), la villa suburbana è attualmente in fase di restauro nell’ambito del Grande Progetto Pompei. Il direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel ha sottolineato come l’apertura al pubblico del cantiere possa rappresentare una «buona pratica e un modello per i futuri cantieri del Parco cosí come di ogni sito archeologico. Pompei è un luogo vivo anche grazie alle ricerche e ai lavori di restauro che continuano ed è nostro obiettivo rendere il
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In alto: uno scorcio della Villa di Diomede. A destra: i caschi riservati ai visitatori che fruiscono dell’iniziativa «Su il sipario! Cantiere in scena», che permette di seguire l’intervento di restauro avviato nella villa.
A sinistra: una visita guidata al cantiere di restauro. In basso: uno degli ambienti della Villa di DIomede, presso il cui ingresso è disponibile un pannello con la ricostruzione virtuale dell’aspetto originario della struttura.
pubblico sempre piú partecipe di queste attività, proseguendo cosí l’approccio inclusivo alla fruizione sviluppato nell’ambito del Grande Progetto Pompei». L’apertura del cantiere è stata l’occasione per presentare in anteprima il libro The Villa of Diomedes: The making of a Roman villa in Pompeii, opera in cui sono confluiti i dati dei recenti studi e delle ricerche dell’équipe composta da specialisti francesi e italiani, e che permettono di ricostruire l’evoluzione storica dell’edificio, dalla sua costruzione alla scoperta archeologica, fino agli interventi conservativi moderni e contemporanei. I contributi scientifici riuniti nella pubblicazione riflettono i vari punti di vista incrociati sull’intera costruzione di questa villa singolare. Il primo impianto risale probabilmente al II secolo a.C., ma il complesso venne profondamente ristrutturato e ampliato al momento della fondazione della colonia, nell’80 a.C. La residenza – che si estende per oltre 3500 mq – è organizzata su piú livelli e presenta la caratteristica dell’inversione del peristilio, disposto prima dell’atrio, secondo le prescrizioni dettate da Vitruvio per le grandi ville. Dopo il peristilio, ai lati dell’atrio, si trovano
le stanze padronali – oggetto di restauro –, riccamente decorate e affacciate sul giardino sottostante e sulla splendida marina. Il quartiere inferiore, raggiungibile con una scala, accoglie invece il criptoportico, che funge da sostegno al peristilio con giardino.
NUOVA VITA (VIRTUALE) PER LE PITTURE MURALI La prima fase del progetto di ricerca ha visto la realizzazione di un modello fotogrammetrico in 3D di alta qualità, integrato con la copiosa documentazione storica della villa, costituita da rilievi setteottocenteschi, copie delle pitture parietali, vedute e vecchie fotografie, che hanno permesso di far rivivere nel modello tridimensionale una visita virtuale della residenza al momento della sua scoperta, quando sulle murature ancora brillavano i vividi colori delle pitture pompeiane. Lo studio ha poi analizzato il cantiere di costruzione: l’analisi delle stratigrafie murarie associata all’analisi delle pitture parietali e dei pavimenti a mosaico hanno permesso di precisare l’evoluzione edilizia della costruzione e di individuare i vari rifacimenti durante il suo tempo di vita. Si è per esempio focalizzata la
parziale ricostruzione del complesso all’indomani del violento terremoto che devastò Pompei nel 62-63 d.C. In particolare, la collaborazione con gli ingegneri dell’Università degli Studi Federico II di Napoli ha permesso di trasformare la villa in un laboratorio privilegiato per esplorare il comportamento strutturale del monumento e approfondire le conoscenze e le tecniche utilizzate dai Romani per far fronte al rischio sismico, un aspetto interessante e ancora poco indagato nella storia dell’architettura antica. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.
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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
NON C’È TUTELA SENZA DOCUMENTAZIONE LA DIGITALIZZAZIONE DEGLI ARCHIVI DI OSTIA ANTICA RENDE ACCESSIBILE UN PATRIMONIO DI CONOSCENZE DI ECCEZIONALE VALORE. E OFFRE UN AIUTO PREZIOSO NELLO SVOLGIMENTO DEI COMPITI ISTITUZIONALI DEL PARCO
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li archivi di Ostia antica conservano un patrimonio di informazioni fondamentali, sia a fini di studio, per quanti intendono conoscere la storia degli scavi e dei monumenti, sia per lo svolgimento delle attività istituzionali di tutela e di valorizzazione proprie del Parco. Un autentico centro di documentazione, costituito dalla Biblioteca Ostiense, dall’Archivio Fotografico e dall’Archivio Disegni, e che, al passo coi tempi, si sta sempre piú orientando al digitale, nell’ottica di una migliore gestione e sempre maggior condivisione e divulgazione dei
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dati. E l’emergenza sanitaria innescata dal Covid-19 ha dato notevole impulso alle iniziative di dematerializzazione e digitalizzazione di questo patrimonio documentale. Fondata all’inizio del Novecento da Dante Vaglieri, figura storica legata agli scavi di inizio secolo a Ostia, la Biblioteca conserva una collezione di 10 000 volumi circa, prevalentemente di argomento archeologico, alcuni dei quali risalenti al XVIII secolo, costituenti il fondo storico della collezione bibliografica del Parco. Per garantirne la consultazione durante
la pandemia, è stata avviata una campagna di digitalizzazione, partendo dai volumi piú fragili dal punto di vista conservativo e dalle opere divulgative di maggiore interesse. Le opere in formato digitale sono liberamente consultabili alla pagina «DigitOsti@, una digital library per Ostia antica» sul sito web del Parco: tra queste, sono attualmente disponibili i contributi piú antichi della miscellanea di scritti ostiensi e le pubblicazioni divulgative edite dalla ex Soprintendenza di Ostia. È inoltre possibile consultare la miscellanea di scritti di Raissa Gourevitch Calza e, a breve, sarà la volta di quelli di Giovanni Becatti: due figure illustri, che hanno contribuito a scrivere la storia degli studi su Ostia.
LE FOTO DA PALLONE Anche l’Archivio Fotografico si deve a un’idea di Dante Vaglieri: quella di dotare Ostia antica di un Gabinetto Fotografico nel 1909. Su proposta dello stesso Vaglieri, nel 1911 fu eseguito un importante rilievo topografico da pallone, la prima immagine dall’alto della città romana e del territorio circostante. Nel corso del Novecento, l’Archivio Fotografico ha conservato e repertoriato le immagini scattate sui diversi supporti: dapprima su lastra di vetro, poi su pellicola e infine in formato digitale, ed è
realizzazione di una «galleria virtuale», destinata alla consultazione on line, che potrà far dialogare le immagini delle opere del Museo Ostiense con i dati descrittivi e anagrafici dei reperti stessi. Ciò sarà possibile grazie al collegamento tra il database fotografico e AIDA (Archivio Informatico dei dati archeologici) in uso dal Servizio Catalogo beni mobili del Parco. divenuto punto di riferimento per la consultazione dello straordinario patrimonio fotografico relativo non solo a Ostia, ma anche agli altri siti del Parco. A oggi è digitalizzata l’intera documentazione fotografica su lastra di vetro. Con l’intento di sistematizzare su base informatica l’ingente raccolta, l’Archivio sta elaborando un database, al fine di
rendere piú efficace la ricerca e la consultazione. In attesa di disporre di un archivio digitale «parlante», le fotografie storiche piú significative vengono periodicamente pubblicate su Facebook, nella rubrica «Ostia d’archivio». Ulteriore opportunità di valorizzazione e gestione integrata dei dati documentali sarà offerta dalla
In alto: l’homepage del WebGIS N.A.DIS, consultabile sul sito del Parco (https:// gisnadis.parcoarcheologicostiantica.it/) Nella pagina accanto: immagine dalla pagina «Digit-Osti@, una digital library per Ostia antica», consultabile sul sito web del Parco. In basso: fotografia storica utilizzata nella rubrica «Ostia d’Archivio» pubblicata sulla pagina Facebook Parco Archeologico di Ostia Antica.
14 000 ELABORATI È interamente digitalizzato l’Archivio Disegni, accessibile dal sito web del Parco. È possibile raggiungere tre diversi applicativi cartografici: il N.A.DIS.-Nuovo Archivio Disegni, il WebGIS N.A.DIS. e il GIS-Mondi. Il primo contiene quasi tutti i documenti conservati, circa 14 000, elaborati grafici prodotti dal XIX secolo a oggi. Questi disegni forniscono importanti informazioni scientifiche e testimoniano le varie tecniche di rappresentazione utilizzate nel tempo. Il N.A.DIS. offre immagini liberamente visualizzabili e disponibili, su richiesta degli interessati, ad alta risoluzione. I contenuti cartografici dell’Area archeologica di Ostia antica sono poi consultabili attraverso il WebGIS N.A.DIS., intuitivo e disponibile anche su dispositivi mobili. La consultazione dei documenti avviene mediante navigazione nella pianta generale degli scavi o la selezione di un monumento specifico dall’elenco generale. Infine, l’applicativo GIS-Mondi consente di individuare la distribuzione topografica dei cosiddetti «vincoli» (provvedimenti amministrativi che riconoscono e tutelano aree d’interesse culturale), oltre ad altri dati utili come strumento per la tutela archeologica, monumentale e paesaggistica del territorio di competenza del Parco. Dario Daffara, Marina Lo Blundo e Barbara Roggio
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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
n otiz iario
INCONTRI Paestum
LA CINQUINA DELLE MERAVIGLIE
L
a Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico e la rivista «Archeo» hanno inteso dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche attraverso un Premio annuale, assegnato in collaborazione con le testate internazionali media partner della Borsa: Antike Welt (Germania), Archäologie in Deutschland (Germania), Archéologia (Francia), as. Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia). Il Direttore della Borsa, Ugo Picarelli, e il Direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, hanno condiviso questo cammino, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre piú un’importanza legata alla riscoperta delle identità, in una società globale che disperde sempre piú i suoi valori». Il Premio, dunque, si caratterizza per divulgare uno scambio di esperienze, rappresentato dalle scoperte internazionali, anche come buona prassi di dialogo interculturale e cooperazione tra i popoli. L’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» – giunto alla 7a edizione e intitolato all’archeologo di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale – è l’unico riconoscimento a livello mondiale dedicato al mondo dell’archeologia e in particolare ai suoi protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, dedizione e competenza affrontano il loro compito nella doppia
Le vivaci pitture policrome che ornano il bancone del thermopolium della Regio V, una delle scoperte piú recenti di cui Pompei è stata teatro. I riquadri accolgono le rappresentazioni degli animali probabilmente macellati e venduti nel locale, che possiamo paragonare a una moderna osteria, con mescita di vini e pietanze da consumare sul posto o da asporto.
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veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio. Il Premio, assegnato alla scoperta archeologica prima classificata, sarà selezionato tra le 5 finaliste segnalate dai Direttori di ciascuna testata e sarà consegnato venerdí 26 novembre in occasione della XXIII edizione della BMTA, in programma a Paestum dal 25 al 28 novembre 2021. Nella stessa occasione, il professor Daniele Morandi Bonacossi riceverà il riconoscimento conferitogli nella 6a edizione del Premio – per la scoperta in Iraq, nel Kurdistan, presso il sito di Faida, di dieci rilievi rupestri assiri raffiguranti gli dèi dell’antica Mesopotamia – non ancora assegnato a causa del posticipo della XXIII edizione non svolta nel novembre 2020. Inoltre, sarà attribuito uno «Special Award» alla scoperta, tra le cinque candidate, che, fino al prossimo 30 settembre, avrà ricevuto il maggior consenso dal grande pubblico sulla pagina Facebook della Borsa (www.facebook. com/borsamediterraneaturismoarcheologico). Le cinque scoperte archeologiche del 2020 finaliste della 7ª edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad» sono: • Egitto: a Saqqara, patrimonio UNESCO, 30 km a sud del Cairo, ritrovati centinaia di sarcofagi; • Germania: la verità sul Disco di Nebra, il reperto piú analizzato della storia archeologica tedesca; • Indonesia: nell’isola di Sulawesi, le pitture rupestri piú antiche del mondo con un cinghiale dipinto in ocra rossa di 45 500 anni fa; • Israele: a Gerusalemme, sotto il Muro del Pianto, si celavano tre stanze di 2000 anni fa; • Italia: le numerose scoperte di Pompei, un thermopolium, un carro cerimoniale, le origini etrusche della città. Info www.borsaturismoarcheologico.it
IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
ETRUSCHI IN TRASFERTA VULCI E LE SUE PIÚ RECENTI SCOPERTE SI PREPARANO A TENERE BANCO IN GERMANIA, A FRANCOFORTE. NELL’ATTESA, UNA SIGNIFICATIVA ANTEPRIMA DEL GRANDE PROGETTO ESPOSITIVO PUÒ ESSERE SCOPERTA, FRA SFINGI E ANIMALI FANTASTICI, A MONTALTO DI CASTRO
I
l Complesso Monumentale di San Sisto a Montalto di Castro (Viterbo) accoglie, sino al 26 settembre, l’anteprima della mostra «Sfingi, leoni e mani d’argento. Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci», poi destinata a trasferirsi al Museo Archeologico di Francoforte sul Meno, dove sarà inaugurata il prossimo 2 novembre. Le ultime scoperte di cui Vulci è stata teatro e le piú recenti riflessioni sullo sviluppo della civiltà etrusca in Italia (documentate anche dalla recente mostra «Etruschi. Viaggio nella terra dei Rasna», Bologna 20192020) hanno indotto la Soprintendenza, insieme al Museo di Francoforte e alla Fondazione Vulci, a promuovere un progetto espositivo che, partendo dalle recenti acquisizioni, possa
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evidenziare i rapporti con l’Oltralpe. In un itinerario che, attraverso la cultura di Golasecca, giunge in Germania, seguendo il filo conduttore degli scambi commerciali, del comune atteggiamento di autocelebrazione delle aristocrazie antiche, dell’espressione artistica che può accomunare gli Etruschi e i primi Celti o i loro predecessori, della cultura di Hallstatt. La mostra ha inoltre un partner prestigioso nel Parco archeologico del Colosseo, con una sezione speciale dedicata ai re etruschi di Roma.
Le finalità dell’esposizione sono ravvisabili nell’approfondimento intereuropeo di alcune tematiche storico-antropologiche dell’antichità, oltre che nella conoscenza per il pubblico di contesti che spesso mancano in collezioni archeologiche europee, al fine di instaurare un proficuo scambio culturale che, affondando le radici nel passato, getta le basi per il futuro. Il Museo Archeologico di Francoforte possiede un’ampia collezione di oggetti etruschi costituita tra il XIX secolo e la prima metà del XX secolo. Purtroppo, si
tratta di reperti entrati a far parte della raccolta tedesca senza indicazioni sul loro contesto e, a volte, anche senza informazioni precise sul luogo di ritrovamento, e, di conseguenza, il loro significato rimarrà per sempre limitato.
La mostra si propone di presentare al pubblico di Francoforte, ma non solo, un nuovo quadro
dell’archeologia etrusca, basato su ricerche e scavi recentissimi degli archeologi italiani, in cui vengono presentati solo contesti completi. Si vuole cosí offrire anche un contributo alla lotta contro gli scavi clandestini e il commercio illegale di opere d’arte e l’acquisto incauto di oggetti archeologici da parte dei musei europei, di cui molto si discute a livello internazionale. Finanziata interamente dal Museo
Nella pagina accanto: foto da drone della necropoli in corso di scavo sul Poggetto Mengarelli. Qui sotto: la Tomba del Cinerario di bronzo di Poggetto Mengarelli, con, in
primo piano, il contenitore per le ceneri da cui ha preso nome. In basso: la rara coppa tolemaica della Tomba della Truccatrice, subito dopo il suo ritrovamento.
NUOVI SCENARI
Archeologico di Francoforte sul Meno, l’esposizione riunisce reperti rinvenuti nei fortunati scavi effettuati negli ultimi anni nella necropoli dell’Osteria e in quella di Poggetto Mengarelli. Faranno cosí bella mostra di sé i corredi della Tomba delle Mani d’Argento, con la straordinaria new entry della testiera di cavallo in bronzo e cuoio, appena finita di restaurare dall’Istituto Centrale per il Restauro del MIC, la Tomba dello Scarabeo Dorato e la Tomba della Truccatrice, con la rarissima coppa tolemaica, solo per citare alcuni esempi.
UNA COLLABORAZIONE DI AMPIO RESPIRO La rassegna è solo il primo passo di un programma di collaborazione Italia-Germania molto piú ampio, che prevede, per il 2022, la compartecipazione al progetto europeo sul culto di Mitra, che vedrà l’allestimento del mitreo di Vulci presso il museo tedesco, e, per il 2023, l’inizio delle ricerche archeologiche a Vulci del Museo e dell’Università di Francoforte. In quest’ottica è stata recentemente firmata la convenzione tra la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e la Fondazione Vulci con le Università di Friburgo e Magonza per un’attività di ricerca congiunta nell’area della città di Vulci. La mostra è curata da Wolfgang David direttore del Museo Archeologico di Francoforte, da Alfonsina Russo direttore del Parco Archeologico del Colosseo, da Simona Carosi funzionario della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale e da Carlo Casi, direttore scientifico della Fondazione Vulci, e si avvale dell’importante collaborazione della Regione Lazio, del Comune di Canino e del Comune di Montalto di Castro.
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A TUTTO CAMPO Mara Sternini
IL GESTO ANTICO DI LADY GAGA QUANDO DAVID RAPPRESENTÒ LA MORTE DEL RIVOLUZIONARIO MARAT AVEVA IN MENTE UN’OPERA DELLA CLASSICITÀ? IMPOSSIBILE PROVARLO, MA LA LEZIONE DEL PASSATO NON CESSA DI INNERVARE L’ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA
A
by Warburg (1866-1929) è stato probabilmente uno dei piú importanti storici dell’arte del primo Novecento. Fondamentale è il contributo che va sotto il titolo Mnemosyne, un atlante di immagini, composto in origine da pannelli di legno, coperti da un panno nero, sui quali lo stesso Warburg, con i suoi piú stretti collaboratori, aveva disposto fotografie di opere dell’arte europea dall’antichità al Rinascimento e fino all’età contemporanea, compresi ritagli di giornali dell’epoca e immagini pubblicitarie. L’obiettivo di questo atlante, rimasto incompiuto per la morte improvvisa dello studioso tedesco (ma ora consultabile sul sito del Warburg Institute), era di porre le basi per uno studio delle arti visive, rintracciando quei gesti espressivi (Pathosformeln) che si trovano, con un gioco di rimandi e citazioni, riproposti in epoche e contesti diversi; insomma una sorta di compendio della memoria visuale collettiva.
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Prendendo le mosse da tali principi Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, ha analizzato alcuni aspetti della produzione di dieci artisti (Marcel Duchamp, Renato Guttuso, Tullio Pericoli, Grisha Bruskin, Giuseppe Penone, Bill Viola, William Kentridge, Dana Schutz, ma anche del regista Ingmar Bergman e del fotografo Mimmo Jodice), a ciascuno dei quali ha dedicato uno dei saggi che compongono il volume Incursioni, pubblicato nel novembre 2020 per i tipi di Feltrinelli.
IMMAGINI FAMILIARI Filo conduttore del libro è rintracciare nella produzione di questi artisti qualcosa di già noto, a volte di molto antico, che è comunque sedimentato (spesso inconsapevolmente) nella nostra memoria e che l’autore ci insegna a riconoscere. Un’indagine meticolosa che, analizzando le singole parti che compongono un’opera d’arte, permette di individuare le piú antiche
Lady Gaga in The Death of Marat, slow motion video realizzato da Robert Wilson nel 2013. attestazioni di un gesto (appunto, una Pathosformel). Per esempio, nel saggio dedicato a Guttuso, lo studioso guida il lettore lungo un percorso che parte da alcuni disegni in cui l’artista siciliano ritrae il poeta cileno Pablo Neruda nel momento della morte, avvenuta a Santiago del Cile nel 1973, sotto il regime di Pinochet, in circostanze mai del tutto chiarite. Nel disegno si vede il poeta disteso sul letto, col braccio destro ricadente verso il suolo e un foglio nella mano sinistra, in cui si leggono i nomi dei mandanti del delitto. Cosa c’è di antico nei disegni di Guttuso? C’è una Pathosformel che ha radici molto lontane e che ritroviamo, per esempio, in alcuni sarcofagi romani come quello di Meleagro, l’eroe legato alla caccia al cinghiale calidonio. In un esemplare oggi conservato a Istanbul, si vede un gruppo di persone intente a
sollevare il corpo di Meleagro ormai morto, come si intuisce dal braccio destro abbandonato. Ma Settis dimostra che Guttuso non è stato l’unico artista a utilizzare questa Pathosformel, e, partendo dall’antichità, ricostruisce le citazioni di questo «braccio della morte», come nel Cristo della Deposizione (1602-1604) del Caravaggio, o nella Morte di Marat (1793) di Jacques-Louis David, oppure nella scena omonima del Napoléon di Abel Gance, girato nel
1927, o addirittura nella copertina di un album di musica rock, uscito nel 2008, nel quale si ripropone il dipinto di David opportunamente ritagliato. Fino alla piú recente citazione pop in uno slow motion video ideato dal regista e videoartista americano Robert Wilson, di cui è protagonista Lady Gaga immersa nella vasca da bagno come il Marat di David. Riproposizioni di un gesto antico, che, oltre al valore estetico, può talvolta assumere anche una valenza politica (con Guttuso) o di denuncia sociale, come dimostra la commovente stampa digitale dell’artista brasiliano Vik Muniz, facente parte della serie Pictures of Garbage (2008), e che ritrae nella stessa postura del Marat di David il capo dei catadores, i cercatori di spazzatura che vivono raccogliendo su montagne di rifiuti tutto ciò che
si può rivendere per sopravvivere nella dura realtà delle favelas brasiliane. Insomma, un viaggio emozionante nella storia dell’arte alla ricerca di gesti perduti, per scoprire che in realtà non sono mai stati dimenticati, ma hanno sempre continuato a vivere nella nostra memoria collettiva.
A sinistra: Marat (Sebastião) Picture of Garbage, stampa di Vik Muniz. 2008. Collezione privata. In basso: sarcofago con il trasporto del corpo di Meleagro. 150-160 d.C.
Istanbul, Museo Archeologico. In alto: La morte di Marat, olio su tela di Jacques-Louis David. 1793. Bruxelles, Musée Royaux des Beaux-Arts de Belgique.
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n otiz iario
RECUPERI Belgio
IL TESORO SVELATO DA UN FRAMMENTO
U
na raccolta archeologica costituita da ben 782 pezzi è stata riportata dal Belgio in Italia dai Carabinieri del Nucleo per la Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) di Bari, coordinati dalla Procura della Repubblica di Foggia, e con il determinante contributo di EUROJUST. Il recupero ha coronato le indagini avviate nel 2017 – a seguito di una segnalazione del Laboratorio di Restauro della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Barletta, Trani e Foggia – che hanno consentito di individuare, nella disponibilità di un facoltoso collezionista belga, una pregevole stele daunia. L’opera figurava nel catalogo della mostra «L’arte dei popoli italici dal 3000 al 300 a.C.», che, fra il 1993 e il 1994, fu presentata prima a Ginevra e poi a Parigi. Il reperto appariva incompleto nella parte centrale,
mancante, in particolare, di un’iscrizione decorativa corrispondente a un frammento custodito presso il Museo Archeologico di Trinitapoli (BAT) che, secondo l’intuizione di un funzionario del Laboratorio di Restauro, completava il disegno del margine inferiore dello scudo e la parte superiore del guerriero a cavallo, raffigurati nel manufatto. I successivi accertamenti effettuati in Svizzera tramite il servizio INTERPOL e gli elementi investigativi raccolti hanno portato alla richiesta di emissione di un Ordine Europeo di Indagine (OEI) per la ricerca e il sequestro di ulteriori beni archeologici di provenienza italiana potenzialmente nella disponibilità del collezionista in Belgio. Nel corso della perquisizione è stato recuperato un vero e proprio «tesoro archeologico», composto da 782
In alto: la stele daunia sequestrata in Belgio da cui è partita l’operazione conclusasi con il recupero di 782 reperti trafugati dalla Puglia. In basso: vasi figurati facenti parte della collezione sequestrata.
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reperti, tutti provenienti dalla Puglia. Si tratta di beni nazionali databili tra il VI e il III secolo a.C., tutelati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, di un valore commerciale pari a circa 11 milioni di euro, depredati e smembrati dai contesti originari, ora rimpatriati. (red.)
n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
PREISTORIA DA SCOPRIRE La rubrica dello scorso giugno 1 (vedi «Archeo» n. 435; anche on line su issuu.com) si chiudeva con l’auspicio di una rinascita dell’interesse per la preistoria italiana. L’appello è stato in qualche modo raccolto, perché, pochi giorni piú tardi, il Ministero dello Sviluppo Economico ha emesso un 4 foglietto di 5 valori per presentare i «Tesori del Parco Nazionale dell’Alta Murgia» (1). Ecco i particolari dei 5 francobolli: Orme di dinosauro a Cava Pontrelli (2), l’Uomo di Altamura nella Grotta di Lamalunga (3), le Miniere di bauxite a Spinazzola (4), Pulo di Altamura (5) e Pulicchio di Gravina (6). Questi siti pugliesi offrono lo spunto per presentare un altro francobollo italiano dedicato alla preistoria di quella regione, il Dolmen della Chianca di Bisceglie (7), importante monumento megalitico dell’età del Bronzo. Nella Murgia Materana sono poi attestati i «Sassi di Matera» (8), edifici e architetture rupestri scavati nella roccia e abitati fin dalla preistoria, e un altro sito preistorico di notevole importanza è la Foresta Fossile di Dunarobba (9), in Umbria. In questo numero potete invece leggere delle nuove scoperte di cui è stata teatro la Grotta Guattari, a San Felice Circeo (10), sperando che anch’essa possa essere oggetto di una futura emissione. Infine, ci piace ricordare la recente pubblicazione della Monografia di «Archeo» in qualche modo 11 collegabile al tema, «150 Musei Archeologici d’Italia» (11): molte raccolte, infatti, custodiscono reperti preistorici e qui ne ricordiamo alcuni di quelli riprodotti poi in oggetti filatelici. Il Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano conserva la mummia di Ötzi (12), l’uomo di Similaun, risalente all’età del Rame, mentre nel Museo Nazionale Atestino di Este si può ammirare la statuetta della dea di Caldevigo di epoca preromana (13). E chiudiamo con il Museo Mineralogico e Paleontologico di Borgosesia, nella cui ricca collezione di fossili spicca l’orso «delle caverne» il cui scheletro ricomposto è riprodotto su di un annullo del 2007 (14).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Sergio De Benedictis Via Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure
Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it
CALENDARIO
Italia ROMA Qhapaq Ñan
Il grande cammino delle Ande Museo delle Civiltà fino al 22.08.21
I marmi Torlonia
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 09.01.22
Colori dei Romani
I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.09.21
BRESCIA Palcoscenici Archeologici
Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22
CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante «Il mondo salverà la bellezza?» Prevenzione e sicurezza per la tutela dei Beni Culturali Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 04.11.21
Napoleone e il mito di Roma
Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 07.11.21
Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 30.09.21
CENTURIPE (ENNA) Segni
Da Cézanne a Picasso, da Kandinskij a Miró, i maestri del ‘900 europeo dialogano con le incisioni rupestri di Centuripe Centro Espositivo «L’Antiquarium» fino al 17.10.21
CORINALDO (AN) Il tesoro ritrovato
La tomba del Principe di Corinaldo Pinacoteca Comunale C. Ridolfi fino al 30.01.22
CORTONA Luci dalle tenebre
Dai lumi degli Etruschi ai bagliori di Pompei MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 12.09.21
L’eredità di Cesare e la conquista del tempo Musei Capitolini fino al 31.12.21
Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 07.01.22 28 a r c h e o
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
ESTE Le fiere della vanità L’Arte delle Situle Museo Nazionale Atestino fino al 03.10.21
MANTOVA La città nascosta
Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22
MILANO Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 30.01.22
NAPOLI Gladiatori
Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22
ODERZO L’anima delle cose
Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo- Museo Archeologico Eno Bellis fino al 31.10.21
PITIGLIANO (GR) Leoni, sirene e sfingi
Animali fantastici e dove trovarli Museo Civico Archeologico della civiltà etrusca «Enrico Pellegrini» fino al 19.09.21
RIETI Strada facendo
Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 10.10.21
SIENA Tesoro del Chianti
Monete romane d’argento di età repubblicana da Cetamura del Chianti Santa Maria della Scala fino al 03.09.21
TORINO Cipro
Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22
UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22
VARESE La civiltà delle palafitte L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22
VENEZIA Massimo Campigli e gli Etruschi Una pagana felicità Palazzo Franchetti fino al 30.09.21
Francia LES EYZIES-DE-TAYAC Homo faber
2 milioni di anni di storia della pietra scheggiata, dall’Africa alle porte dell’Europa Musée national de Préhistoire fino al 15.11.21
Germania BERLINO Sardegna Isola Megalitica
Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo Museum für Vor- und Frühgeschichte fino al 30.09.21
Paesi Bassi LEIDA Templi di Malta
Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.10.21
Regno Unito LONDRA Nerone
L’uomo oltre il mito British Museum fino al 24.10.21
Svizzera BASILEA Di armonia ed estasi
La musica delle civiltà antiche Antikenmuseum fino al 19.09.21 a r c h e o 29
TO RI A
EG PR N EIS A NE LL A
VI S AG A GI R O D
LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
Il
Cammino dei
NURAGHI ALLA RISCOPERTA DEI TESORI DELLA SARDEGNA PREISTORICA
Il nuraghe Nolza, edificato su di un rilievo denominato Cuccuru Nolza, 8 km a sud del paese di Meana Sardo (Nuoro).
IN EDICOLA
C
ase delle fate, tombe di giganti… l’archeologia della Sardegna preistorica e protostorica sembra voler evocare un mondo fiabesco e forse alcune delle sue testimonianze suscitano atmosfere sospese e irreali. Poi, però, subentra la concretezza della ricerca sul campo e cosí fate e giganti lasciano il campo a uomini e donne in carne e ossa, dei quali il ricco e variegato patrimonio sardo è la magnifica eredità. E protagonista principe di queste vicende millenarie è la civiltà nuragica, le cui inconfondibili costruzioni punteggiano ogni angolo del paesaggio isolano. A loro è innanzi tutto dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che ricostruisce e illustra nel dettaglio l’intero fenomeno, affiancando all’excursus storico una serie di itinerari di visita ai nuraghi piú importanti. Si ha cosí modo di percepire la sapienza e la maestria con cui torri e bastioni vennero innalzati, dando vita a complessi che tuttora impressionano per la loro imponenza. Al contempo, si coglie il ricco tessuto culturale dei gruppi nuragici, che non furono soltanto abili costruttori, ma si applicarono con risultati eccellenti anche in molti altri campi, come testimonia la copiosa produzione di sculture in bronzo. Una vera e propria guida, insomma, dedicata a una civiltà fra le piú importanti del bacino mediterraneo.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Viaggio nell’isola delle torri • IL PROGETTO NUR_WAY • Un itinerario nell’archeologia della Sardegna preistorica • Gli antefatti • Il mondo dei morti • L’architettura nuragica • I tempi del cambiamento • MOSTRE, ITINERARI E MUSEI • Tutti i segreti di un’isola megalitica • Sei itinerari alla scoperta della preistoria della Sardegna • La civiltà dei nuraghi nei musei della Sardegna: nove incontri ravvicinati
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SCOPERTE • ROMA
«BEN LEGGIBILE, ANCHE DA LONTANO»
Un semplice blocco di pietra può raccontare molte cose. È il caso del raro reperto archeologico emerso dal sottosuolo romano durante i lavori di ristrutturazione di piazza Augusto Imperatore, nell’area antistante il mausoleo di Augusto. Si tratta di un cippo pomeriale iscritto, databile all’epoca dell’imperatore Claudio, nel 49 d.C., rinvenuto ancora infisso nel terreno a delimitare il limite sacro e inviolabile della città antica: il pomerio. Per comprendere l’importanza di questa scoperta abbiamo incontrato Claudio Parisi Presicce, direttore dei Musei Archeologici e Storico-Artistici di Roma Capitale e direttore scientifico degli scavi e del restauro del mausoleo di Augusto. incontro con Claudio Parisi Presicce, a cura di Flavia Marimpietri
♦ Professore, in quali circostanze è avvenuto il ritrovamento? «Il cippo è venuto alla luce nel corso dei lavori di riqualificazione di piazza Augusto Imperatore, avviati l’anno scorso, in seguito al concorso internazionale del 2006, vinto dal consorzio dell’architetto Francesco Cellini. Il progetto prevede due rampe di gradoni sui lati occidentale e orientale del monumento, che dalla strada moderna scendono fino al piano del mausoleo di Augusto, con l’obiettivo di congiungere idealmente la città contemporanea e quella antica. In occasione dell’approfondimento per la messa in opera del nuovo collettore, che ricalca il tracciato di un’antica fognatura romana, nell’area antistante il mausoleo di Augusto, rivolto verso la via Flaminia (oggi via del Corso), è emerso un blocco parallelepipedo in travertino piuttosto malconcio. Man mano che lo scavo è stato approfondito, si è potuto constatare che si trattava di un cippo, che si è poi rivelato essere ancora stabile, nella posizione in cui fu collocato fin dal primo momento».
In alto: Claudio Parisi Presicce durante la presentazione ufficiale della scoperta. Nella pagina accanto: un particolare del cippo pomeriale di Claudio, con l’iscrizione che lo data al 49 d.C.
«Sí. Era stato concepito per durare nel tempo: la parte di cippo che non emergeva nemmeno in antico era circondata da un compatto terreno argilloso. Si voleva ♦ Il cippo è attualmente esposto nel Museo dell’A- quindi garantirne la solidità statica, un fattore determira Pacis, vicino al calco della statua dell’impera- nante per oggetti di questo tipo, realizzati per essere tore Claudio, in attesa di trovare una collocazio- leggibili da tutti e rimanere visibili per sempre». ne definitiva negli spazi museali del mausoleo di Augusto. Tuttavia, come lei ha appena ricordato, ♦ Perché un cippo iscritto deve durare nel tempo? Quale messaggio vuole comunicare? al momento della scoperta si trovava ancora in giacitura originaria, là dove era stato infisso nel «Occorre fare un’importante distinzione tra la comunicazione orale, finalizzata all’istante stesso in cui terreno quasi duemila anni fa? 32 a r c h e o
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avviene e rivolta alla persona che ascolta, e la comunicazione scritta, che invece può essere rivolta a una persona (una lettera, per esempio), oppure a molti (un’opera letteraria). Solo il messaggio iscritto su un monumento è invece rivolto a tutti ed espresso con il linguaggio e l’impaginazione tipici del monumento pubblico, con lettere capitali ben leggibili anche da lontano. Il monumento è destinato a rimanere visibile per sempre. Un po’ come accade per la street art in epoca contemporanea. Allo stesso modo, il cippo rinvenuto aveva la funzione di attraversare il tempo rivolgendosi a tutti indistintamente. Ogni cippo si lega in sequenza a una serie di suoi simili, per segnare un confine puntualmente definito, ovvero il pomerio. Il messaggio – che si vuole sia letto da tutti e per sempre – è ripetuto identico su tutti i
cippi, che hanno la funzione di replicare a una determinata distanza il messaggio». ♦ Sono stati trovati altri cippi pomeriali a Roma? «Dobbiamo immaginare che fossero in gran numero. Il pomerio di Claudio era presumibilmente delimitato da 142-143 cippi, sui quali l’iscrizione era ripetuta identica. In qualunque punto del perimetro della città si trovasse, tutti coglievano lo stesso messaggio. Sono stati trovati in tutto dieci cippi dell’epoca dell’imperatore Claudio: questo è l’undicesimo attribuibile alla medesima cinta pomeriale. Tutti i cippi seguivano una sequenza numerica: in due casi il numero si è conservato, inciso in alto sul lato sinistro. Nel nostro caso no, forse è andato perduto con la parte sommitale. I cippi non erano disposti in linea
Posto in opera e mai piú rimosso Tre immagini che documentano la scoperta del cippo e le sue condizioni di giacitura, che si è rivelata quella originaria: una circostanza, quest’ultima, molto rara
e che costituisce uno degli elementi di maggior spicco del ritrovamento. Il monolite venne posto in opera nel 49 d.C., in area antistante il mausoleo di Augusto, rivolto verso la via Flaminia (l’odierna via del Corso), e alla sua stabilità contribuí la compattezza del terreno argilloso in cui fu affondata la parte non visibile del manufatto.
retta e seguivano un andamento che fu a lungo diver- te delle azioni che si compivano a favore della comuso da quello delle mura, a una distanza omogenea nità (come la guerra o l’assunzione delle cariche politiche) richiedevano un rapporto con la divinità, la cui l’uno dall’altro, che ipotizziamo di 70-71 m circa». volontà o il cui favore venivano interpretati attraverso ♦ Oltre a essere databile con precisione, quello di gli auspici.Tra l’interno e l’esterno della città gli auspipiazza Augusto Imperatore è uno dei pochissimi ci erano diversi, quindi il pomerio è un confine tra esemplari di cippo pomeriale rinvenuti ancora in differenti capacità di interloquire con le divinità. Anche le caratteristiche che definiscono il potere di chi ha una situ. Ma che cos’è il pomerio? «Tre caratteristiche definiscono il pomerio. Per prima carica pubblica (l’imperium) erano differenti se si trattacosa, è una linea ideale, che divide lo spazio urbano da va di un imperium domi (potere interno) oppure impequello extraurbano, il territorio dell’urbs da quello rium militiae (potere legato agli eserciti), che poteva dell’ager. Questa distinzione comporta una serie di essere esercitato esclusivamente all’esterno della città. aspetti di natura politica e sociale, che definiscono l’ap- Nessun magistrato, infatti, poteva entrare in armi all’inpartenenza al territorio cittadino o meno di coloro che terno della città di Roma, tranne che per la processioabitano l’area all’interno o al di fuori del pomerio. Il ne trionfale e solo previa esecuzione di riti purificatopomerio ha anche una funzione religiosa, poiché mol- ri. Il pomerio, in questo senso, è limite e confine che Il cippo pomeriale rinvenuto in piazza Augusto Imperatore, a Roma, e ora esposto nel Museo dell’Ara Pacis. 49 d.C. È affiancato dal calco di una statua dell’imperatore Claudio, al quale si deve l’ampliamento del pomerio per il quale il manufatto fu realizzato.
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protegge la città da possibili azioni dannose e invasioni».
A destra: Romolo traccia il solco di Roma quadrata, affresco del Cavalier d’Arpino. 1638-1639. Roma, Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori.
♦ Il pomerio è anche legato alla fondazione della città... «Sí. Il pomerio ha un legame con il sulcus primigenius, ovvero il solco che Romolo tracciò nel terreno per definire i confini della Roma Quadrata, evento che ha poi determinato lo scontro e la cacciata – o uccisione – del fratello Remo, reo di aver scavalcato le mura, trasgredendo una proibizione. Quando Romolo tracciò il solco di fondazione con l’aratro, il vomere creava un fossato, mentre la terra fuoriuscita dal solco si ammonticchiava, formando una barriera. Romolo aveva stabilito che nessuno dovesse entrare all’interno di quella linea e, simbolicamente, il doppio limite del muro e del fossato costituiva il limite di protezione della prima città». ♦ Il pomerio di Roma era uno spazio cosí sacro e inviolabile che raramente venne modificato… «Fonti letterarie ed epigrafiche documentano il mutamento della linea di confine del pomerio nel corso del tempo. Una prima volta il pomerio venne sicuramente ampliato nel VI secolo a.C. da Servio Tullio, che fu anche il costruttore delle prime mura integrali di Roma. Il tracciato del pomerio e quello delle mura, tuttavia, non coincidevano e non seguivano il medesimo percorso. Lo scopriamo proprio dal rifacimento del pomerio attuato da Claudio. Questi incluse l’Aventino, originariamente escluso dal pomerio pur essendo all’interno delle mura. La cinta muraria poteva essere piú ampia del pomerio: non tutto il territorio al suo interno era parte dell’urbs». ♦ Il cippo appena rinvenuto è una delle poche attestazioni archeologiche di un ampliamento del pomerio. Anche per questo la sua scoperta è straordinaria… «Alcune modifiche sono attestate dalle fonti letterarie: Silla ampliò il pomerio, e altrettanto fecero Giulio Cesare e Augusto. Ma le prime testimonianze materiali sicure sono legate all’ampliamento di Claudio. Non si conserva alcun cippo riferibile agli ampliamenti di epoca sillana, cesariana o augustea. Quello di Claudio è il primo ampliamento pomeriale documentato dalle fonti archeologiche e confermato dalle fonti letterarie. Seneca racconta che Claudio ampliò il pomerio, grazie a una norma che affonda le sue radici nelle leggi delle XII Tavole (la legislazione scritta piú antica della comunità di Roma): lo ius proferendi pomerii, ovvero il 36 a r c h e o
diritto di ampliare il pomerio in seguito a conquiste militari. Quando si aggiungeva territorio alla comunità di Roma, attraverso nuove occupazioni, si aveva la facoltà di modificare il pomerio». ♦ E cosí fece Claudio dopo aver portato a termine la conquista della Britannia… «Claudio era nato a Lugdunum (attuale Lione) e aveva avuto una lunga frequentazione con la Gallia durante la permanenza del padre Druso in quella regione. Dopo la conquista della Britannia decise di ampliare il corpus del Senato, consentendo ai primores, ovvero ai migliori della società della Gallia, di entrare in Senato. Era convinto che i migliori dovessero governare la città di Roma, per questo ampliò la comunità dei senatori estendendola alle elités dei territori conquistati». ♦ Quali importanti informazioni fornisce l’iscrizione rinvenuta sul cippo di Claudio? «L’iscrizione è interamente ricostruibile, sebbene le prime linee non siano conservate. In tutto sono nove righe. Le prime tre contengono la formula onomastica dell’imperatore Claudio (Tiberius Claudius Drusi filius Caisar Augustus Germanicus) e le cariche pubbliche ricoperte (Pontifex Maximus, tribunicia potestate per la nona volta):
poiché la tribunicia potestas veniva rinnovata ogni anno, l’iscrizione ci indica la data esatta dell’ampliamento, il 49 d.C., il nono anno del suo regno come imperatore. L’iscrizione prosegue con il numero di volte in cui Claudio è stato acclamato imperatore, cioè sedici (imperator sextum decimum), e la quarta volta in cui fu console (consul quartum). Seguono la carica di censore e il titolo onorifico di Padre della Patria. Le ultime tre righe dell’iscrizione, infine, indicano la motivazione dell’ampliamento e l’azione compiuta: avendo ampliato i confini del popolo romano (auctis populi romani finibus), ampliò e delimitò il pomerio (pomerium ampliavit terminavitque). Le ultime tre righe sono la parte piú importante dell’iscrizione, anche dal punto di vista linguistico, poiché in esse compare il digamma, lettera di origine etrusca. Claudio era un grande appassionato della tradizione etrusca e volle recuperare questa lettera nella lingua latina, insieme all’anti-sigma (sigma rovesciato) e all’H dimidiata (dimezzata). La sua passione per il mondo etrusco era antica ed è testimoniata anche dalle sue prime nozze con Urgulanilla, una donna etrusca. Per via della balbuzie e di alcuni difetti fisici, Claudio mai avrebbe immaginato di diventare imperatore e perciò si era dedicato interamente allo studio della tradizione etrusca. Tanto che a lui, probabilmente, si deve la prima storia del popolo preromano. Cosí l’ultima riga dell’iscrizione sul cippo mostra l’uso del digamma al posto della V e della U, in ampliavit, in terminavit e nel -que dell’enclitica». Bronzetto da Arezzo, noto come l’Aratore, raffigurante un contadino al lavoro con un aratro trainato da una coppia di buoi. 430-400 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Possiamo immaginare che il tracciamento del solco primigenio fosse avvenuto con modalità analoghe.
♦L ’artefice dell’ampliamento del pomerio si poneva come «nuovo fondatore» della città. Dopo Claudio, quali imperatori intervenirono in tal senso? «Dei successivi ampliamenti non si ha memoria nelle fonti letterarie, ma solo in quelle epigrafiche rinvenute in occasione di scavi. Un nuovo ampliamento fu promosso da Vespasiano e Tito: è documentato da alcuni cippi trovati, che, però, sono stati rinvenuti per lo piú in giacitura non originaria. Due di essi, invece, sono stati scoperti in situ e sopra di essi ve n’erano altrettanti dell’epoca di Adriano, che dunque documentano un rifacimento da parte di quest’ultimo imperatore. L’ampliamento di Vespasiano è documentato anche da una tavola bronzea conservata ai Musei Capitolini, la lex de imperio Vespasiani, che ricorda il potere dell’imperatore sul pomerio e menziona l’ampliamento precedente, realizzato da Claudio. L’ampliamento di Vespasiano non è nominato nelle fonti letterarie, ma è attestato solo da fonti epigrafiche». ♦ L’intervento di Claudio è dunque il solo attestato invece a livello epigrafico e letterario? «Sí. Le citazioni dei precedenti interventi di Servio Tullio, Silla, Augusto e Giulio Cesare, ricordati dalle fonti in circostanze sintetiche, non dicono molto dell’ampliamento». ♦ Quali altri significati assumeva l’ampliamento del pomerio da parte dell’imperatore? «Aveva il valore simbolico di ampliare il territorio della città e allargare il corpo civico della comunità urbana, facendo sí
SCOPERTE • ROMA Un’immagine del cippo ancora in situ, dopo la scoperta. Sebbene mutila, l’iscrizione ha permesso di fissarne la datazione al 49 d.C., nono anno dell’imperio di Claudio.
che i cittadini di Roma venissero a conoscenza delle nuove conquiste compiute da generali e imperatori. Ma la modifica del confine serviva anche per includere nuovi monumenti importanti per la vita della città. Per esempio, l’horologium Augusti (presso l’attuale piazza Montecitorio) fu incluso nel pomerio con una deviazione specifica successiva, poiché in origine la linea pomeriale fiancheggiava la via Flaminia fino al Campidoglio (il territorio ai lati della Flaminia era al di fuori del pomerio, la via era all’interno). In quell’occasione Augusto allargò il pomerio, che descrisse una “U” proprio per includere l’horologium. Il mausoleo di Augusto rimase invece escluso dal pomerio. Alcuni monumenti del Campo Marzio erano all’esterno, altri all’interno di questo confine sacro». ♦ La scoperta del cippo di Claudio rimanda, quindi, a molte altre «scoperte» di cui il pomerio è stato teatro… «Questa scoperta aggiunge un’altra importante tessera a un puzzle immenso che conosciamo limitatamente ma che, tuttavia, consente di fare ipotesi per ricostruire la mappa del confine della città nel corso del tempo. Anche il teatro di Marcello e il Circo Flaminio erano al di fuori del pomerio, sebbene non sappiamo dove passasse il confine. Ogni ritrovamento di un nuovo cippo, dunque, è importante per verificare le ipotesi e aggiungere nuove considerazioni. I dieci cippi di Claudio non sono stati trovati tutti in situ: solo tre di essi erano in giacitura originaria. E non è facile ricomporre il puzzle. 38 a r c h e o
Per esempio, uno dei nodi che ha fatto molto discutere è la sepoltura di Traiano e Plotina nel basamento della Colonna Traiana: era dentro o fuori dal pomerio? Eutropio (poeta e storico romano del IV secolo d.C., n.d.r.) ci dice che quella era l’unica tomba all’interno del pomerio, ma è piuttosto difficile che Traiano abbia trasgredito una delle regole fondamentali del diritto romano. Eutropio scrive dopo l’epoca in cui furono realizzate le Mura Aureliane, nel III secolo d.C., quando la linea pomeriale e la linea delle mura sostanzialmente coincidevano: allora la Colonna Traiana – e forse anche il mausoleo di Augusto – erano all’interno del confine sacro, ma prima ne erano probabilmente al di fuori. Dobbiamo ragionare in base a una dinamica temporale che modifica le cose. Il tema del pomerio è materia su cui si sono confrontate intere generazioni di studiosi, da Teodoro Mommsen ad Andrea Giardina, e ogni nuovo ritrovamento accende nuovamente il fuoco delle discussioni su una tematica di grandissimo rilievo. Per questo il cippo iscritto di Claudio è una scoperta davvero importante». DOVE E QUANDO Museo dell’Ara Pacis Roma, lungotevere in Augusta Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info Call center 060608 (tutti i giorni, 9,00-19,00); e-mail: info.arapacis@comune.roma.it: www.arapacis.it
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SCAVI • ABRUZZO
SIGNORI DELL’ABRUZZO PREROMANO CENTINAIA DI TOMBE A TUMULO, FRA LE QUALI SI SNODANO FILE DI COLOSSALI MENHIR: È LO STRAORDINARIO COLPO D’OCCHIO OFFERTO DALLA NECROPOLI DI FOSSA, NELL’AQUILANO, UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI SCOPERTE DEGLI ULTIMI DECENNI. E CHE HA ACCESO UN POTENTE FASCIO DI LUCE SULLA STORIA DEGLI ANTICHI VESTINI di Vincenzo d’Ercole, Alberta Martellone, Matteo Milletti, Giusy Capasso e Valerj Del Segato
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uando, percorrendo la strada statale 261 Subequana, si supera la zona industriale di Bazzano, il piccolo borgo medievale di Fossa – oggi in piena ricostruzione post sisma – si staglia subito a ovest, a mezza costa lungo le pendici del Monte Circolo: la storia piú antica del centro va cercata però nella piana e sulle alture circostanti, in particolare sul vicino Monte Cerro che, come una sentinella, domina lo spazio circostante, tra i fiumi Aterno e Fossa. Nelle sue immediate vicinanze, non lontano dalla piccola stazione ferroviaria del paese, si In alto: armi, fibule e dischi ornamentali in ferro, appartenenti a corredi di varie tombe della necropoli di Fossa. Sulle due pagine: il Monte Cerro, altura che ha avuto un ruolo decisivo nella storia dell’insediamento di Fossa.
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SCAVI • ABRUZZO
trova la necropoli vestina di Fossa. I Vestini, gli antichi abitatori di queste terre, occupavano un’ampia fascia dell’odierno Abruzzo, dall’Adriatico fino alla piana aquilana, a cavallo del Gran Sasso: i Cismontani a ovest e i Transmontani a est del massiccio montuoso.
LE PRIME ATTESTAZIONI Ma quando i Vestini emergono definitivamente come ethnos, manifestando cioè la piena consapevolezza delle proprie peculiarità di popolo e, come tale, essendo percepiti dagli «altri» (in primis dai loro vicini, gli Equi a ovest e a sud i Marsi, i Peligni e i Marrucini)? Ancora nel V secolo
A destra: cartina dell’Abruzzo con la localizzazione di Fossa. In basso: veduta aerea dell’area industriale durante la cui realizzazione, nel 1992, vennero alla luce i primi tumuli di Fossa, ben riconoscibili anche in questa foto.
Marche
Alba Adriatica Tortoreto Giulianova
Teramo Monte Gorzano 2458
Roseto Degli Abruzzi Pineto
Atri Città Sant’Angelo
Corno Grande 2912
L’Aquila
Pescara
Penne Cepagatti
Fossa Fos sa a
Lazio
Silvi Montesilvano
Francavilla Al Mare San Giovanni Teatino
Chieti Ortona Lanciano
Monte Velino 2486
Abruzzo Sulmona
Avezzano
Mare Adriatico Vasto
Monte Amaro San Salvo 2793 Atessa
Monte Viglio 2156 Monte Greco 2285
Molise
bilmente, anche la pressione esercitata da Roma deve aver contribuito allo svilupparsi di una piena coscienza etnica, come reazione all’incipiente minaccia delle legioni romane. Tito Livio cita infatti per la prima volta i Vestini come alleati dei nemici di Roma, in relazione alla seconda guerra sannitica e, in particolare, a fatti del 326 a.C., connessi con le operazioni nell’area di D. Giunio Bruto Sceva, e al successivo foedus del 302, in conseguenza del quale i nostri combattono poi come federati al fianco dei Romani nella seconda guerra punica e nella battaglia di Pydna del 168.
a.C., le iscrizioni funerarie di Penna Sant’Andrea ci parlano, per questa fascia di territorio abruzzese, di Safinas tútas, una sorta di res publica Sabinorum, ossia uno Stato sabino. Al contrario, alla metà del III secolo a.C., l’iscrizione di Rapino certifica con l’intestazione totai maroucai lixs, 42 a r c h e o
l’esistenza di un popolo marrucino, e sostanzialmente coeva è la serie monetale con la legenda Ves, coniata dai Vestini federati dei Romani. In questo spazio di circa due secoli si compie dunque il complesso e affascinante fenomeno di autodeterminazione come popolo: proba-
DAL FONDOVALLE ALLE ALTURE All’alba del I millennio a.C., nella piana aquilana vengono progressivamente abbandonati gli abitati di fondovalle, frequentati nei millenni precedenti, a favore di siti d’altura: da agricoltori, i Vestini sembrano farsi prevalentemente pastori. Cinte da mura possenti, le roccaforti sono poste a controllo dei percorsi viari e di piccoli villaggi aperti, situati prevalentemente lungo i versanti montani: nasce un’organizzazione del territorio, non centralizzata, che evolverà successivamente nel sistema detto pagano-vicanico,
fondato su raggruppamenti (pagi) di piccoli insediamenti (vici). Con rare eccezioni, nelle aree di fondovalle si localizzano invece le necropoli, lungo le principali vie di percorrenza. Tale fenomeno differisce ovviamente nei tempi e nei modi su scala locale, ma costituisce una vera rivoluzione nel popolamento del territorio, indizio di importanti rivolgimenti sociali e politici in seno alla comunità abruzzese. Nel comparto della piana dell’Aquila, un caso emblematico è proprio il Monte Cerro, un duomo di calcare che si staglia isolato, di netto, nella piana circostante: sulla cima, è ben riconoscibile, anche dalle foto
aeree, una cinta ovale, che racchiude una superficie di circa 5 ettari, con tracce di frequentazione comprese nell’ambito della prima metà del I millennio a.C., anche se il rinvenimento di monete romane e ghiande missili fa pensare a una rioccupazione piú tarda, quando il castelliere deve aver costituito l’ultima difesa da contrapporre all’avanzata dei Romani. Nella piana circostante, sono segnalati piccoli abitati, d’incerta cronologia e relazione con il Monte Cerro, ma che restituiscono un quadro, articolato ma certo ancora incompleto, del popolamento dell’area nei secoli in questione. Questo sistema sembra entrare in
crisi intorno al V secolo a.C., quando molti siti fortificati vengono abbandonati e, al contrario, si rafforzano gli abitati di versante, proiettati sulla piana: fioriscono in questa fase i centri di Peltuinum (Prata d’Ansidonia), Aufinum (Capestrano) e, per l’appunto, Aveia (Fossa), futuri capisaldi della regione in epoca romana: l’Urbe sembra dunque recuperare un sistema insediativo già consolidato, stabilendo una serie di praefecturae (Peltuinum e Aveia, note da fonti epigrafiche), che è logico presupporre evolvano poi in municipi Veduta dall’alto dei tumuli e delle file dei menhir della necropoli di Fossa.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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SCAVI • ABRUZZO
TESTIMONIANZE DI UN’ANTICA PIETAS Uno dei risultati piú importanti delle ultime campagne di scavo condotte a Fossa è la conferma di un tardo riassetto della necropoli, riorganizzata con un sistema di strade ortogonali, ma la scoperta di
maggior pathos è senz’altro quella di un piccolo settore apparentemente dedicato a sepolture infantili, ben otto delle quali perinatali (0-1 mese), databili tra il tardo arcaismo e l’ellenismo.
Non si tratta certo di una novità: negli anni passati a Fossa ne sono state scavate piú di 150. I Vestini, infatti, contrariamente ad altri popoli italici, accoglievano nei cimiteri i loro defunti senza A sinistra: la tomba 611, che accolse i resti di un individuo perinatale, sigillati dal ventre di un’olla in impasto, garantendo la conservazione del suo scheletro (foto in basso).
dopo l’età augustea. La nostra necropoli accompagna dunque la parabola dei piú antichi abitanti di Fossa per circa mille anni, fino alla guerra sociale, quando i Vestini, schieratisi dalla parte dei rivoltosi, vengono definitivamente sconfitti da Cn. Pompeo nell’89 a.C. Matteo Milletti
STORIA DI UNA SCOPERTA L’anno di nascita dell’archeologia funeraria dei Vestini Cismontani si può collocare nel 1992, quando Adriano Torrecchia, un appassionato locale recentemente scomparso, 44 a r c h e o
segnala alla Soprintendenza Archeologica per l’Abruzzo le necropoli di Fossa e Bazzano a L’Aquila, venute alla luce durante i lavori condotti per la realizzazione di due nuclei industriali. Da allora, sono state indagate nella piana aquilana piú di 4500 sepolture, distribuite fra il IX secolo a.C. e il I secolo d.C.: a Fossa e a Bazzano, oltre che alla già nota Capestrano, si sono infatti aggiunte, nel corso degli anni, nuove aree sepolcrali a Navelli, Peltuinum a Prata D’Ansidonia, Cinturelli e Rapignale a Caporciano, Colli Bianchi a San Pio delle Camere, Camporos-
so e San Lorenzo a Barisciano,Varranone a Poggio Picenze. La maggior parte di queste scoperte è dovuta alla costruzione di strade, cave e impianti produttivi: solo a Fossa, però, si è operato nell’ottica di far nascere un parco archeologico, per restituire alla comunità locale una parte importante del proprio passato e, nel contempo, creare i presupposti per un cantiere di scavo tale da costituire un’occasione unica di ricerca e di formazione per gli studenti di archeologia. Le ricerche condotte a Fossa hanno consentito di portare alla luce circa
composita, che sembra riprodurre nei suoi elementi una sorta di letto funebre. La tomba 611, invece, ha restituito un individuo perinatale deposto all’interno di una piccola fossa ovale, sigillata dal ventre di un’olla d’impasto che, esaudendo probabilmente la volontà dei congiunti, ha protetto il corpo, garantendo la perfetta conservazione dello scheletro. Meno intima e personale appare invece la scelta di delimitare diverse sepolture neonatali sovrapposte l’una all’altra con un circolo di pietre, enfatizzato dall’infissione su di un lato di una grande pietra, in funzione di segnacolo, la cui suggestione richiama i noti menhir. Valerj Del Segato e Giusy Capasso distinzione di età, deponendo gli infanti tra le altre tombe, normalmente protetti da due coppi o adagiati in semplici fosse. Talvolta, come l’ultima campagna di scavo ha rivelato, le scelte appaiono però piú personali e tradiscono la forte partecipazione emotiva per un legame troppo prematuramente reciso. La tomba 607, per esempio, è caratterizzata da una cista litica
In alto: la tomba 607, che accoglieva anch’essa una sepoltura infantile. Consiste in una cista litica che sembra voler riprodurre una sorta di letto funebre.
7000 mq di sepolcreto e di indagare piú di 600 sepolture.
A destra: circolo di pietre e stele che segnalavano alcune sepolture neonatali.
CON GLI ABITI PIÚ BELLI I primi secoli di storia della necropoli sono quelli maggiormente spettacolari nella loro architettura e monumentalità. I sepolcri di tutti i membri della comunità (uomini, donne e bambini) sono tumuli (collinette in pietre e terra) di diverse dimensioni, disposti a stretto contatto fra loro. Protetti, per l’eternità (?), dal monumento funerario, i corpi dei defunti venivano deposti in sarcofagi lignei, certamente abbigliati
con le loro vesti migliori (ne restano gli ornamenti in ambra, pasta vitrea, bronzo e ferro). La siderurgia è una delle grandi «novità» del mondo vestino: non solo armi per gli uomini, come spade corte e lance, ma anche dischi traforati con inserti in
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
ambra e osso, a rappresentare il simbolo solare, per le loro donne, oltre che elaborate fibule per fermare vestiti e mantelli di tutta la popolazione. Le insospettate abilità dei fabbri vestini in un’epoca cosí antica (IXVIII secolo a. C.) permettevano loro a r c h e o 45
SCAVI • ABRUZZO A sinistra: il Tumulo 300. Con un diametro di 20 m circa, è, a oggi, il piú grande della necropoli. In basso: il menhir del Tumulo 300 che, sebbene intaccato dai lavori agricoli, si conserva per un’altezza di 2 m circa.
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di comporre nello stesso oggetto il ferro con il bronzo, utilizzando la tecnica dell’ageminatura.
GIGANTI DI PIETRA Ma a rendere spettacolare il sito, sono le file di menhir che si dispongono generalmente sul lato occidentale dei tumuli riferibili a uomini adulti: si tratta di pietre verticali di altezza decrescente (dalla piú piccola alla maggiore prossimale al sepolcro), che toccano e «guardano» un menhir disposto obliquamente in terra, con un’estremità rivolta verso la fila e l’altra posta sulla crepidine
che delimita il tumulo. Si potrebbe trattare di una rappresentazione metaforica dei compagni d’arme (la fila di menhir) del defunto (la stele adagiata sul terreno), al quale i commilitoni, guidati dal loro capo (la pietra piú grande) porgono l’estremo saluto. Un’analoga scena di commiato funebre è incisa infatti su di un vaso della tomba maschile 97, con la rappresentazione di tre figure con scudo tipo dypilon sul petto e larghi «pantaloni». Corollario imprescindibile a questo stile di vita è il controllo puntuale di tutto il territorio circostante e, soprattutto, del suo capitale «mobile»: le grandi mandrie, gestite con il sistema della transumanza verticale che prevedeva l’utilizzo in estate dei vicini pascoli montani del Gran Sasso e del massiccio del Velino-Sirente e, d’inverno, di quelli in pianura fra l’Aquila e Capestrano. Una coesistenza In alto: una spada corta e un pugnale ad antenne in ferro. Entrambi innovarono la tipologia delle armi, ma non implicarono mutamenti nelle tecniche di combattimento, basate sullo scontro ravvicinato, in mischia.
perfetta con le grandi necropoli di tombe coperte da tumuli erbosi, che garantiva nutrimento per le mandrie e, nel contempo, un buon assetto delle sepolture.
CASTELLI ANTE LITTERAM A questa vitale esigenza di controllo delle vie di transumanza dovevano rispondere gli abitati d’altura, difesi dalla natura dei luoghi e da mura, fossati e porte edificati dall’uomo. Se questi castelli ante litteram proteggevano l’intera comunità vestina e i suoi beni (il bestiame), i tumuli custodivano per l’eternità (almeno fi-
no al 1992) i suoi morti. Testimone silente di questa lunga storia è il menhir piú grande della tomba 300, il tumulo di maggiori dimensioni finora individuato nella necropoli: 20 m circa di diametro. La pietra, che oggi sporge dal terreno per oltre due metri, è l’unica, fra tutti i menhir di Fossa, che sia stata intaccata dai lavori agricoli. Il possente interro che ha permesso l’eccezionale stato di conservazione del sito, causato anche dalle esondazioni del fiume Aterno già nel VII secolo a.C., non è bastato a preservarlo completamente, ma, sebbene mutilato, il nostro è rimasto al suo posto, svettante sul suo mondo che è tornato a rivedere, a tremila anni di distanza. Un vero, eterno, gigante di pietra. A partire dal VII secolo a.C., i tumuli divengono piú piccoli, privi di menhir e stele, e vengono edificati Placche bronzee di rivestimento di un cinturone femminile, che era uno degli elementi tipici della parure d’ornamento riservata alle donne, composta anche da fibule, pettorali e monili in ambra, pasta vitrea e osso. a r c h e o 47
SCAVI • ABRUZZO
Già dal IX secolo a.C. i fabbri vestini realizzano oggetti che associano ferro e bronzo tra le emergenze già esistenti. Si diffondono invece progressivamente le sepolture a fossa, che tendono a raggrupparsi a ridosso delle tombe monumentali piú antiche, punti di riferimento importanti per lo sviluppo planimetrico della necropoli. I corredi restano mediamente poco articolati, ma i set di vasellame iniziano ad accogliere ceramica d’importazione o d’imitazione etrusca, come bucchero e ceramica etruscocorinzia. Le signore si fanno seppellire con ricche parure d’ornamento, composte da monili in ambra, pasta vitrea e osso: numerose fibule ne fissano e articolano le vesti, stupen-
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di e articolati pettorali ne coprono l’arma, ma non il modo di impieil busto e cinturoni in lamina sbal- garla: colpire, dal basso verso l’alto, zata le stringono sui fianchi. il nemico nella mischia, lo spazio stretto che non permette alcun tipo di scherma. Nelle epoche successive DALLE SCHIERE DI FANTI ALLA CAVALLERIA (VI-V secolo a.C.) la battaglia di Le armi deposte nelle tombe ma- tipo oplitico lascerà poi spazio a un schili sembrano indicarci come, ini- nuovo tipo di guerra, combattuta a zialmente, non muti il modo di cavallo: oltre alle lance, compare ora combattere: le opposte schiere di nelle tombe una lunga spada di ferfanti si scontrano dapprima sempre ro, come quella rappresentata sulla con le lance, però, nella successiva statua del re vestino Nevio Pompumischia, non vengono piú impiega- leio, il noto Guerriero di Capestrate le spade corte del periodo prece- no. Che il clima del territorio aquidente, ma si diffondono i caratteri- lano, nel corso del I millennio a.C., stici pugnali in ferro con manico a dovesse essere piuttosto rigido lo quattro antenne. Cambia dunque testimoniano poi alcuni oggetti rin-
In alto: veduta d’insieme e particolare di un spada lunga in ferro, dalla tomba 579 della necropoli di Fossa. A destra: il Guerriero di Capestrano, statua del re vestino Nevio Pompuleio, che tiene una spada lunga, simile a quella della tomba 579 di Fossa. Nella pagina accanto, in basso: base in ferro di un calzare sinistro, dalla tomba 23 della necropoli Cinturelli a Caporciano.
venuti nelle sepolture, come ganci in bronzo per allacciare alte calzature (una sorta di anfibi militari?), parti inferiori di calzari in legno e cuoio muniti di ramponi o chiodi per il ghiaccio in ferro, punte in ferro di lunghi bastoni utilizzati per muoversi in ambiente ghiacciato.
UNA GRANDE CASSA PER L’ULTIMO VIAGGIO Successivamente, nel periodo delle guerre sannitiche (IV e III secolo a.C.), compare nelle necropoli vestine – e Fossa non fa eccezione – un nuovo tipo di tomba, nella quale il defunto, insieme al suo corredo, viene deposto all’interno di una grande cassa di legno, fissata da robuste cerniere in ferro inchiodate agli angoli del contenitore (una sorta di baule). I corredi si compongono ora di ceramica d’impasto tornita e a vernice nera, di strumenti per la cura del corpo (strigili, pinzette depilatorie, nettaunghie e nettaorecchie, specchi), oltre che di set da banchetto con forchettoni (kreagra) e spiedi in ferro o piombo. Nel II-I secolo a.C. si diffonde poi l’uso di edificare, per i segmenti piú elevati della società, tombe a camera, al cui interno vengono tumulati piú personaggi della stessa famiglia: i ricchi corredi comprendono ora anche strumenti per il gioco e il tempo libero, come dadi e pedine
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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in pasta vitrea. A Fossa, le tombe a camera sono disposte a formare due allineamenti fra loro ortogonali, con gli ingressi rivolti verso le adiacenti vie funerarie che delimitano l’intero settore sepolcrale, verso nord e sud. I defunti dell’aristocrazia vestina vengono ora condotti nelle loro ultime dimore con un fastoso funerale e adagiati su meravigliosi letti rivestiti in osso lavorato: uno di essi, istoriato con la fatica di Ercole e il leone nemeo, è stato recentemente esposto nella mostra «Tota Italia. Alle origini di una nazione. IV secolo a.C.-I secolo d.C.» alle Scuderie del Quirinale, a Roma (vedi «Archeo» n. 437, luglio 2021; anche on line su issuu.com). Vincenzo d’Ercole
I LETTI FUNEBRI La necropoli di Fossa ha restituito sei letti, rinvenuti in quattro tombe a camera; oltre a questi, se ne contano altri due sporadici, provenienti anch’essi dalla pianura sepolcrale tra Fossa e L’Aquila. I defunti ai quali si attribuiscono questi mobili possono essere indifferentemente donne e uomini, ma i letti in sé, accanto ad altri elementi, possiedono una precisa connotazione di censo, consentendo l’identificazione della classe dirigente della comunità. Venivano usati come letto per la sepoltura: adagiati su di essi, i defunti erano trasportati nell’area sepolcrale con una cerimonia funebre, cosí come appare nella rappresentazione di un noto bassorilievo da Amiternum, città romana nel comune dell’Aquila. La struttura dei mobili è in legno, per il cui rivestimento non si utilizzano il bronzo (a oggi, è noto un solo esemplare del genere, da Amiternum), né il 50 a r c h e o
prezioso avorio, di difficile reperibilità e costoso – di cui non si riconoscono attestazioni in Abruzzo –, ma un materiale di scarto come ossa di buoi o cavalli, grandemente disponibile, vista la vocazione pastorale di questi luoghi. Cosí, grazie alla conoscenza tecnologica del materiale, gli artigiani dell’osso diventano maestri nella lavorazione delle ossa animali, ma, altresí, maestri di stile. Le decorazioni, in genere concentrate nei profili delle spalliere, finiscono per svolgere il racconto mitico tra le spalliere e le gambe: tutti i letti di Fossa e uno, di eccezionale fattura, portato alla luce nella tomba 4 della necropoli imperiale di Navelli, presentano il cilin-
dro delle gambe decorato. I telai, invece, sono rivestiti nella maggior parte dei casi da lamelle lisce in osso, o, piú raramente, sono decorati con tralci vegetali ma, in ogni caso, non contribuiscono a dettagliare il racconto. I letti abruzzesi ripetono il piú delle volte schemi decorativi tipici, svolti da botteghe differenti e con risultati molto diversi tra loro: nelle spalliere, nel campo superiore, si alternano linci, grifi, uccelli acquatici come cigni, cavalli o leoni; alle volte compaiono figure divine: Apollo che suona la cetra, o Ercole, il quasi-dio, a cui le popolazioni italiche si sentivano cosí intimamente legate, forte ed eroico combattente e, so-
A sinistra: il volto di Ganimede, scolpito nella spalliera di un letto della tomba 1140 dalla necropoli di Bazzano. I sec. a.C. Nella pagina accanto: lo stesso volto in corso di scavo. In basso: letto funerario in osso, dalla tomba 520 della necropoli di Fossa.
prattutto, eroe divenuto immortale. È rarissima invece la raffigurazione di uomini: l’unico noto è Ganimede, nel letto della tomba 1140 di Bazzano, giovane rapito dall’aquila-Zeus per divenirne amante, oltre che coppiere degli dèi. Nei cilindri delle gambe ritorna frequentemente la cerimonia dionisiaca, in almeno due tombe di Fossa e nella sepoltura 4 di Navelli: donne e amorini danzanti, raffigurati accanto agli elementi del rito bacchico, quali l’anfora vinaria, la cornucopia e il tirso, oppure colti nell’atto del sacrificio di un animale selvatico al dio.
ERCOLE E IL LEONE Ercole, che ritorna piú volte nei letti di Fossa e di altre necropoli abruzzesi, è il protagonista assoluto dell’esemplare piú raffinato della necropoli, quello della tomba 520, in cui la scena del mito si fonde egregiamente
Le decorazioni dei letti propongono «racconti» sviluppati fra le spalliere e le gambe
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con le scelte stilistiche dell’artista. La figura di Ercole occupa tutta l’altezza della spalliera: è ritratto nudo e dalle spalle scende la leonté, la pelliccia, ricavata dall’uccisione del grande leone di Nemea, che gli donò l’immortalità. Il leone è accanto a lui, ormai in atteggiamento di resa, sconfitto: non è un leone ruggente come nelle rappresentazioni di altri letti, per esempio quello della tomba 2. Al lato dell’eroe, quasi come un fedele compagno, spunta il muso di una lince. Ad accompagnare l’impresa di Ercole è il canto di una Menade, il cui volto è raffigurato nel campo inferiore della spalliera. Il ciclo decorativo si conclude Sulle due pagine: il letto rinvenuto nella tomba 4 della necropoli di Navelli, integralmente ricostruito grazie allo stato eccezionale di conservazione. Metà del I sec. d.C. In basso: il cilindro della gamba del letto. Si vedono una donna che suona il tamburo, l’altra colta nell’atto del sacrificio di un animale selvatico; ai piedi un felino.
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nei cilindri delle gambe. Il volto barbuto, dalle sembianze adulte e raffinate, pare suggerire l’identificazione in Tritone col quale Ercole lottò e vinse: rimandano alla terribile divinità del mare, gli amorini a cavallo di ippocampi che lo affiancano, ai quali è affidato il compito di traghettare l’anima del defunto e di proteggerla. Alberta Martellone
LA VALORIZZAZIONE E LE NUOVE RICERCHE Dopo un intenso ciclo di campagne di scavo (1992-2001), le ricerche nella necropoli di Fossa si sono interrotte per quasi un ventennio, a eccezione di un limitato intervento del 2010.
Lo stesso Parco Archeologico è rimasto chiuso per alcuni anni: nel 2019 è stata però inaugurata una nuova stagione di ricerche. La firma di un apposito Protocollo d’Intesa tra Comune, Soprintendenza e Università dell’Aquila ha consentito lo sviluppo di una serie di progetti congiunti, che porteranno a un nuovo allestimento e a una revisione del percorso di visita dell’area archeologica: pur frenate dall’emergenza sanitaria, sono intanto riprese le visite della necropoli, grazie a un accordo con l’associazione studentesca Semi sotto la pietra, e le indagini sul campo (vedi box in questa pagina). La direzione scientifica del Progetto è stata assunta da Vincenzo d’Ercole, primo scopritore del sepolcreto, e da Matteo Milletti, docente di etruscologia e antichità italiche presso l’Università dell’Aquila. Strettissima è
GLI ARCHEOLOGI TORNANO A FOSSA Le ricerche nella necropoli di Fossa sono riprese nello scorso luglio e una seconda campagna è in programma dal 23 agosto al 19 settembre. Obiettivo delle nuove indagini è un considerevole ampliamento dello scavo, secondo un piano di ricerca concordato con la Soprintendenza. Proseguiranno inoltre le ricerche in
stata e continua a essere la collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città dell’Aquila e i Comuni del Cratere, in particolare con i funzionari archeolog i Deneb Cesana, Francesca Romana Del Fattore, Giulia Pelucchini e Alberta Martellone, che si sono succeduti negli ultimi anni, e diretto è il coinvolgimento del Comune, concessionario di ricerca per il triennio 2020-2022, grazie all’impegno dell’amministrazione locale del sindaco Fabrizio Boccabella. Un esempio dunque virtuoso
alcuni dei settori oggetto d’indagine nelle campagne 2019-2020, tra i quali la già citata area delle tombe infantili (vedi box alle pp. 44-45). Durante gli scavi, sarà possibile visitare la necropoli e vedere all’opera l’équipe di archeologi dell’Università dell’Aquila e di molti altri atenei italiani e europei.
di collaborazione tra Enti dello Stato, volto alla ricerca sul campo e alla valorizzazione di un complesso archeologico unico nel panorama italiano. Si tratta inoltre di un’occasione importante per la comunità locale, direttamente coinvolta nel Progetto, per recuperare una parte fondamentale della propria eredità culturale, secondo la sua nozione fissata dalla Convenzione di Faro: finalmente ratificata nel 2020 dalla nostra Repubblica, la convenzione riconosce all’individuo e alle diverse collettività, oltre al di-
ritto di essere partecipi alla vita culturale, anche una responsabilità diretta nella sua difesa e promozione, per perseguire uno sviluppo sostenibile e la qualità della vita, auspicando nel contempo il coinvolgimento nel processo di tutti gli attori pubblici, istituzionali e privati. Valerj Del Segato e Giusy Capasso
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SCOPERTE • L’AQUILA
TUTTI I LEONI DELL’AQUILA RESTAURI E RISANAMENTI MESSI IN ATTO NEL CAPOLUOGO ABRUZZESE PER FAR FRONTE AI DANNI DEL SISMA DEL 2009 HANNO AVUTO UNA SERIE DI «RICADUTE» INATTESE. PROTAGONISTE DI PRIMO PIANO, LE MAGNIFICHE MURA MEDIEVALI… di Ada d’Alessandro e Antonio Di Stefano 56 a r c h e o
L
e mura dell’Aquila, con un perimetro di 6 km circa, costituiscono uno dei pochi esempi di fortificazione trecentesca conservata quasi integralmente. E la loro storia, ricca di fascino, continua a sorprenderci grazie a recenti, straordinarie scoperte archeologiche. Ma partiamo dall’inizio di questo affascinante viaggio nel passato: la Cronica del poeta Buccio di Ranallo (1294 circa-1363) racconta che sarebbero stati gli astrologi, nel 1265, a indicare il luogo propizio per fondare la città dell’Aquila, delimitata, inizialmente, da fossati e steccati. Si trattava di un circuito provvisorio in legno, secondo un uso che troviamo affrescato nella Sala del Mappamondo a Siena, che, solo nel 1316, venne sostituito con una muratura in pietra «larga piú di una canna», e costata 500 once d’oro.
In questa fase di fondazione, attribuita a Corrado IV di Svevia, la manutenzione dei tratti di mura confinanti con il proprio quarto (quartiere) venne affidata ai castelli dei territori circostanti, che avevano concorso alla nascita della città, occupandone gli spazi interni al perimetro. Un uso testimoniato da epigrafi – nelle quali i nomi dei locali appaiono divisi da una scanalatura centrale (signa certa) –, che, collocate sulle mura, ne indicavano il tratto di pertinenza da mantenere in buono stato, cosí come prescritto negli Statuta civitatis Aquile (1315).
GUAI A CHI CAVA PIETRE! Gli Statuti cittadini, raccolta di leggi voluta da re Roberto durante il dominio angioino sulla città, dedicano ben quattro capitoli alle mura, stabilendo, fra l’altro, il divieto di cavare
pietre e scavare carbonaie e fossati a meno di cinque canne dal loro perimetro (10 m circa) per non comprometterne l’azione difensiva. Dal documento si comprende bene cosa rappresentasse per l’uomo medievale la cinta muraria: era il confine, la protezione dello spazio civile. Dalle mura e dalla loro manutenzione dipendeva, infatti, la vita stessa degli abitanti, ma, da sole, non sarebbero bastate a proteggere la città se questa non fosse stata affidata ai santi protettori Pietro Celestino, Massimo, Bernardino, Equizio. Per questo motivo, in uno spettacolare gonfalone in seta di ben 14 metri quadrati, Giovanni Paolo Cardone, nel 1579, raffigurò i patroni dell’Aquila ai piedi di una dettagliata raffigurazione della città con mura, monasteri, chiese, abitazioni e zone ancora da edificare (vedi foto alle pp. 58/59, in
Nella pagina accanto: pianta prospettica della città dell’Aquila, affresco realizzato su cartone di Egnazio Danti. 1580-1585. Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche. In basso: il castello di Giuncarico, delimitato da uno steccato, in un affresco di Simone Martini. 1314. Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Mappamondo.
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SCOPERTE • L’AQUILA
basso). L’autore dello splendido manufatto, insieme all’architetto Ieronimo Pico Fonticulano – a cui si deve la prima rappresentazione topografica della città con le sue mura e porte (1575; vedi immagine alla pagina accanto) –, giunse all’Aquila al seguito di Margherita d’Austria, figlia naturale di CarloV e duchessa di Parma e Piacenza, che aveva ottenuto il governatorato della città. Il 18 maggio 1569, Margherita entrò dunque trionfalmente attraverso Porta Castello, salutata dal cannoneggiamento del Forte spagnolo, voluto dal padre e all’epoca inserito nel circuito difensivo.
SIMBOLI E DATE La porta che vediamo oggi non è quella originaria (che si trovava qualche decina di metri piú a nord), bensí quella costruita nel 1769.Tuttavia, il suo restauro – curato dalla Soprintendenza Archeologia Belle arti e Paesaggio per la Città dell’Aquila e i Comuni del Cratere – ha svelato un’autentica sorpresa: sotto lo strato di scialbo (una pittura a tempera o a calce, color ocra scuro), frutto di piú interventi di tinteggiatura sovrapposti, è emersa, quasi intatta, la veste decorativa settecentesca. Su un fondo bianco spiccavano infatti specchiature con una finta cortina in laterizio a spina di pesce di colore rosso scuro che fiancheggiavano su un lato il simbolo del trigramma di San Bernardino (IHS) e la data di edificazione, nell’altro, il monogramma mariano. Porta Castello era l’ingresso per le occasioni ufficiali da cui Margherita d’Austria accolse anche il fratello Giovanni, ma al ritorno dall’area reatina, il 16 dicembre 1572, entrò in città attraverso Porta Barete. La descrizione della sontuosa cerimonia ci permette di ricostruirne le modalità: la sovrana era trasportata da un carro tutto adornato e, mentre una folla esultante la acclamava, «incominciavano i fuochi artificiali». 58 a r c h e o
Qui sotto: un’epigrafe che indica i responsabili locali della manutenzione dei relativi tratti di mura. In basso, sulle due pagine: Gonfalone della città dell’Aquila, dipinto su seta di Giovanni Paolo Cardone. 1579.
L’Aquila, Museo nazionale d’Abruzzo. Nella pagina accanto: la pianta dell’Aquila disegnata da Ieronimo Pico Fonticulano nel 1575, penna su carta pergamena, inserita a carta 181 del ms. Trattato della Geometria.
«Un anno depò questo, le mura facte foro; Piú d’una canna larghe, no vi mento ca foro; Fecerose in uno mese, sí granne fo lo storo, E le turri custarono cinquecento once d’oro» (Buccio di Ranallo, Cronica, XIV secolo, vv. 348-248)
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
La monumentalità di questo ingresso nella cartografia storica è evidente; uno splendido antemurale precedeva la porta completamente affrescata, sulla quale, nel 1316, il Capitano dell’Aquila, Leone da Cascia, aveva apposto un’iscrizione in ricordo del completamento dell’intera cinta muraria. Grazie ai recenti scavi della Soprintendenza, quest’area ha restituito l’originario piano di calpestio medievale e il bastione sud delle mura, interrati durante la costruzione di un viadotto negli anni Trenta del Novecento.
UNA SCOPERTA INASPETTATA Lo scavo, condotto in collaborazione con l’allora Soprintendenza ABAP Abruzzo ha inoltre portato a una scoperta inaspettata: di fianco alle mura, fra porta e antemurale, è riemerso un magnifico leone in pietra calcarea di età augustea, finemente decorato e mancante solo della parte terminale delle zampe (vedi oltre). Ma come spiegare la presenza di un manufatto di epoca classica in un contesto medievale? È probabile che fosse stato reimpiegato «a guardia» di Porta Barete. In un episodio narrato dal poeta Buccio di Ranallo sugli scontri del 1320 fra Aquilani e Reatini presso le mura, si racconta infatti che i secondi si impadronirono della campana della città (che scandiva l’apertura e la chiusura delle porte cittadine), ma che gli Aquilani fossero riusciti a recuperarla insieme a un leone in pietra poi «spezzato» durante le fasi di ricollocazione nella sede originaria. Gli esempi di reimpiego di leoni di epoca romana a «guardia» di chiese e mura medievali sono frequenti, poiché il felino era un simbolo di forte potenza evocativa. Veniva infatti associato alla figura del Cristo, in quanto si pensava che camminasse cancellando dietro di sé le proprie impronte con la coda (come il a r c h e o 59
SCOPERTE • L’AQUILA
Salvatore aveva nascosto agli uomini la sua natura divina), che dormisse a occhi aperti per vegliare (come nel Cantico dei Cantici), e che donasse la vita ai cuccioli nati morti da tre giorni, attraverso il suo soffio vitale (come il Padre Onnipotente, dopo tre giorni, resuscitò Gesú). Circa la provenienza originaria di questo raffinato manufatto restituito dalle macerie antiche e post sisma, si può ricordare che, in epoca classica, il leone veniva spesso utilizzato a «protezione» di monumenti sepolcrali. Nell’Aquilano sono due le città romane da dove potrebbe essere stato asportato: Peltuinum (l’attuale Prata d’Ansidonia) e Amiternum (San Vittorino). In entrambi i siti archeologici so60 a r c h e o
no stati infatti rinvenuti monumentali sepolture e leoni scolpiti che presentano analogie stilistiche con quello di Porta Barete. A Peltuinum furono recuperati due leoni funerari in pietra, uno dei quali esposto presso il cortile del Museo Nazionale d’Abruzzo (vedi foto a p. 62) e uno tuttora conservato nel paese di Tussio. Dalla stessa area archeologica dovrebbero inoltre provenire i magnifici leoni collocati presso il giardino di Villa Dragonetti a Paganica (L’Aquila).
Porta Castello, in un particolare de La fidelissima et nobile città dell’Aquila, incisione su rame di Jacopo Lauro. 1622. L’Aquila, Archivio di Stato.
per essere reimpiegati davanti al portale di S. Pietro a Coppito dell’Aquila, durante i restauri (19691971) diretti dall’allora sovrintendente Mario Moretti (vedi foto a p. 64). Infine, da questo sito, che ha dato i natali allo storico Sallustio, dovrebbero provenire anche due leoni in pietra che, fino al 1912, erano collocati all’ingresso di Palazzo Spaventa a Preturo (L’Aquila). DA AMITERNUM La presenza di personaggi di alto A COPPITO Due splendidi leoni di epoca classi- rango nelle importanti città romane ca vennero invece trasportati da di Peltuninum e Amiternum suggeriAmiternum (11 km circa dall’Aquila) sce che il leone di Porta Barete, cosí
come i manufatti reimpiegati nell’Aquilano appena descritti, possano in origine aver fatto parte della decorazione di importanti sepolture che ricordano la fase di monumentalizzazione funeraria, testimoniata, a partire dal I secolo a.C., dallo spettacolare Grande Mausoleo di Aquileia, agli angoli del cui recinto fanno bella mostra di sé due leoni di gusto ellenistico. Studi piú approfonditi sveleranno certamente nuovi dettagli sul leone di Porta Barete, la cui valorizzazione
In alto: la città dell’Aquila, particolare da Sant’Equizio, olio su tela di Giulio Cesare Bedeschini. Ante 1613. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo. Al centro: Porta Castello, prima e dopo i restauri. In basso: Porta Castello. Il trigramma di san Bernardino e la data di costruzione della struttura. a r c h e o 61
SCOPERTE • L’AQUILA
è imminente, poiché è previsto un intervento progettuale nell’area di scavo, che valorizzerà l’aspetto originario della porta con antemurale e torri di fiancheggiamento. Essa costituisce infatti un unicum, poiché tale tipologia era attestata solo in un’altra porta cittadina, Porta Bazzano, il cui antemurale, però, non è piú visibile.
LA PORTA RITROVATA Continuiamo questo nostro ideale percorso alla scoperta delle mura aquilane, spostandoci lungo un asse simbolico che taglia da est a ovest la città; anche il lato orientale del circuito che corre parallelo alla Stazione ferroviaria, su viale XXV Aprile, durante i lavori di restauro post sisma, è stato teatro di una scoperta sensazionale. Sotto il crollo causato dal terremoto del 6 aprile 2009 sono venuti alla luce due
piedritti che hanno suggerito di indagare l’area con uno scavo vero e proprio. È stato cosí possibile ricostruire l’esistenza di una porta già inglobata nell’antichità in una muratura che chiudeva questo ingresso alla città (vedi foto a p. 65).
La porta, ad arco a tutto sesto (con dimensioni analoghe alla vicina Porta Romana), non era presente nella già citata cartografia dell’Aquila di Pico Fonticulano, poiché anteriore al 1575. Si trattava dunque di un ingresso legato alla fase fondaIn alto: la statua in pietra calcarea raffigurante un leone rinvenuta nei pressi di Porta Barete. A sinistra: leone in pietra, da Peltuinum. I sec. d.C. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo. Nella pagina accanto, in alto: uno dei leoni in pietra di Villa Dragonetti. Nella pagina accanto, in basso: Porta Barete in un particolare della Pianta prospettica di Aquila, incisione su rame di Jacopo Lauro. 1639. L’Aquila, Archivio di Stato.
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tiva della città, probabilmente crollato a causa degli eventi sismici verificatisi nel XV secolo. Occorreva però accertare la denominazione della struttura e la ricerca d’archivio ha permesso di sciogliere il dubbio, grazie a una piccola nota inserita a margine, nella Raccolta delle Memorie Istoriche… dello studioso Antonio Ludovico
Antinori. Si trattava di una precisazione relativa all’episodio dell’arrivo in città di Carlo d’Angiò, duca di Calabria, preoccupato del fatto che Ludovico il Bavaro potesse tentare un attacco insieme ai ghibellini suoi alleati (1328). Le truppe aquilane erano state passate in rassegna dal duca, sfilando in una zona fra la chiesa di Santo Spirito e Porta Ro-
mana. Una postilla al testo, nel precisare che la porta in questione era stata erroneamente ritenuta quella di «Porta del Poggio di Santa Maria», ubicata «all’angolo occidentale delle mura là dove piega a mezzogiorno», ci consente di affermare che l’ingresso rinvenuto fosse proprio quello «del Poggio di Santa Maria». Oggi, dopo i restauri, è finalmente possibile ammirarla in tutta la sua bellezza, e il suo rinvenimento consente di aggiungere un tassello importante alla storia aquilana e di accrescere il numero delle porte cittadine costruite nei secoli: ben diciannove, comprese quelle aperte e chiuse nei secoli e le due ottocentesche di Porta San Ferdinando o Porta Napoli e Porta della Stazione.
UN MITO DA SFATARE? Nel tratto di mura fra Porta Poggio Santa Maria e Porta della Stazione, le sorprese non sono però finite: fra Porta della Stazione e Porta Rivera, il circuito ingloba parti di una muratura a grossi blocchi attribuibili, con molta probabilità, a una fase anteriore al periodo medievale. a r c h e o 63
SCOPERTE • L’AQUILA
Statue in pietra di leoni provenienti da Amiternum e reimpiegate ai lati del portale della chiesa di S. Pietro a Coppito (L’Aquila). La ricollocazione delle sculture fu attuata in occasione dell’intervento di restauro condotto fra il 1969 e il 1971 dall’allora soprintendente Mario Moretti.
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Un’ipotesi che, se confermata, sfaterebbe il mito dell’Aquila fondata ex novo in un luogo disabitato per volere della casata sveva.
LA CITTÀ ASSEDIATA Il viaggio può concludersi sul lato opposto, nel fronte nord-ovest dominato dalla porta chiamata nei documenti storici Brinconia (vedi foto alle pp. 66 e 67) e recentemente tornata al suo splendore grazie ai restauri. Essa prende nome dal castello fondatore della città, oggi Colle Brincioni, e fu testimone della grande storia, perché fu assaltata da Braccio da Montone nel febbraio 1424. Il celebre capitano di ventura era stato infatti incaricato da re Alfonso d’Aragona di assediare L’Aquila, ma la città si oppose strenua- La Porta di Poggio Santa Maria durante lo scavo (in alto, a sinistra), con il mente per piú di un anno, finché la particolare di uno dei piedritti, e dopo il restauro (qui sopra e in basso). regina Giovanna II d’Angiò mandò in soccorso un esercito comandato da Jacopo Caldora, che sconfisse Braccio nella piana di Bazzano. In questo tratto di mura vi è inoltre una torre. I torrioni erano un elemento importante per la difesa della città, poiché, attraverso le arciere prima e le archibugiere poi, era possibile effettuare «tiri di fiancheggiamento», lungo i lati lunghi del circuito murario che permettevano la difesa dai nemici. Nei muri che fiancheggiano l’accesso interno è inoltre presente un esempio di apparecchio aquilano, termine che designa una muratura a r c h e o 65
SCOPERTE • XXXX XXXXXX A sinistra e nella pagina accanto: una veduta esterna e una interna della Porta Brinconia.
UN CANTIERE A CIELO APERTO Le mura della città dell’Aquila furono sottoposte a continue opere di restauro sin dalla loro fase costruttiva iniziale. Dalle fonti angioine apprendiamo infatti che ogni quarto (quartiere) aveva il dovere di provvedere alla manutenzione del tratto di mura affidato. I numerosi documenti conservati nell’archivio di Stato dell’Aquila testimoniano inoltre continue opere di «riadattamento» con squadre, i Notarii Custodie, addette a restaurare i crolli e le parti danneggiate, anche per mano dell’uomo. Questo perché, al fine di non pagare il dazio sulle merci introdotte in città, venivano scavate brecce nella muratura. Le mura aquilane furono dunque un cantiere a cielo aperto continuo, l’ultimo dei quali quello condotto, dopo il sisma del 2009, dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la Città dell’Aquila e i Comuni del Cratere, con la direzione dei lavori affidata all’architetto Antonio Di Stefano, soprintendente ad interim. La cinta muraria presentava infatti numerosi crolli e alcune zone risultavano occultate a seguito di riempimenti operati negli anni. Il perimetro murario e i suoi ingressi, essendo fortemente legati allo sviluppo urbanistico della città, erano stati oggetto di trasformazioni e abbattimenti; pensiamo a quelli operati già dal 1533, quando, per edificare il Forte spagnolo, vennero distrutte le mura che chiudevano la zona. Furono inoltre numerose le chiusure e le aperture delle porte (in tutto diciannove) praticate nei secoli.
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Fino all’Ottocento la cinta era ancora continua e aveva cinque porte aperte e ottantasei torri in piedi, ma nel Novecento, poiché considerate un inutile ostacolo all’espansione edilizia, vennero abbattute in alcuni tratti per aprire una nuova viabilità (per esempio via Castello e via delle Aquile, viadotto di via Roma) o costruire quartieri residenziali (viale Collemaggio, via Roma, ecc.). Persa la loro funzione difensiva e doganale, non vennero infatti percepite come un monumento da preservare e, abbandonate all’incuria, furono in parte occultate da una fitta vegetazione. Il restauro attuato ha dunque richiesto una preventiva opera di eradicazione dell’edera (Hedera helix) sperimentando l’uso di un diserbante che ha consentito di sfilare le radici, ridotte nelle dimensioni, senza causare danni alla cortina muraria. Gli interventi di restauro sono stati preceduti da accurate analisi geologiche (anche con carotaggi nei terreni adiacenti alle mura) e da un attento esame dei litotipi utilizzati per costruirle, che erano essenzialmente di due tipi; una breccia compatta per la cementazione del carbonato di calcio e una «a matrice portante» con diversi clasti di rocce calcaree che rendevano la muratura piú fragile. Si è poi intervenuti con tecniche diversificate; in alcuni casi è stato necessario inserire diatoni, ossia corpi aggiunti che attraversano la muratura per evitarne l’apertura e lo sfaldamento; in altri, micropali per stabilizzare la parte fondale. Tecniche che, insieme
molto regolare, con piccoli blocchi allineati a ricorsi orizzontali, tipica dell’edilizia medievale locale. Inoltre, la maestosa porta con arco a tutto sesto conserva la cerniera alla base della soglia e il sistema a paletto per chiuderla. Infine, una notizia che forse stupirà i lettori; dall’età medievale le porte delle mura venivano chiuse di sera e aperte al mattino e l’ultimo custode di questa tradizione millenaria fu il sindaco che ne conservò le chiavi fino al 1864!
a iniezioni di miscele di legante idraulico, hanno consentito di consolidare il circuito murario, mantenendone l’aspetto originario. In alcune zone è stato inoltre ricreato un diverso piano di calpestio interno ed esterno alle mura, che consente non solo di rendere percorribili alcuni tratti che corrono paralleli al circuito, ma anche di rinforzarne la struttura, il tutto prevedendo sistemi di drenaggio per evitare danni causati dall’acqua. Sotto una nuova luce L’eliminazione di superfetazioni aggiunte negli anni e la pulizia degli elementi lapidei ricoperti di incrostazioni dovute anche al traffico hanno infine contribuito nel restituire alla monumentale opera un aspetto unitario, che coniuga l’istanza estetica con quella filologica. Si è infatti utilizzato lo stesso materiale della muratura crollata e rinvenuta in situ per restaurare la cortina muraria, ma l’intervento di ricostruzione è chiaramente individuabile (solo da vicino) attraverso un leggero sottolivello nel muro. Infine, un accorgimento che consente di ammirare le mura in tutta la loro bellezza anche a sera: un sistema di illuminazione tecnologicamente avanzato evita una visione appiattita del circuito murario, grazie a due tipi di lampade a led a basso consumo; una luce piú «calda» (3000 gradi Kelvin) per illuminare i tratti rettilinei, una piú «fredda» (3500 gradi Kelvin) per le torrette. L’intervento che, in alcuni tratti, consente di camminare a fianco del monumento, prevede a breve la sistemazione di aree attrezzate lungo il percorso pedonale e una cartellonistica poco invasiva con sistema QR-Code per ascoltare con lo smartphone la storia di questa meravigliosa testimonianza medievale che, grazie al restauro, è divenuta simbolo identitario della città dell’Aquila.
Nella pagina accanto, in basso: rendering del camminamento lungo le mura in epoca medievale e di quello ricreato per rendere percorribili alcuni tratti del circuito murario.
Oggi come allora, i restauri e una sapiente illuminazione (vedi box in queste pagine) donano a chi giunge in città un fascino senza tempo: la vista di un piccolo cuore medievale protetto dalle sue mura, con le porte che si aprivano e si chiudevano al suono della campana che venne faticosamente strappata al nemico, insieme al possente leone di pietra di cui vi abbiamo raccontato l’eccezionale ritrovamento.
PER SAPERNE DI PIÚ Antonio Di Stefano, Il restauro e la valorizzazione delle Mura della città dell’Aquila, in Monumenti e paesaggio dell’Abruzzo, Edizioni Betagamma, Viterbo 2004. Antonio Di Stefano, Valorizzazione con sistema di illuminazione delle Mura Civiche della città dell’Aquila, in Rivista bimestrale specialistica di illuminotecnica Luce, AIDI organo ufficiale dell’Associazione Italiana di illuminazione, n° 5, anno 2005 Ada d’Alessandro, L’Aquila città di fondazione, Arkè, L’Aquila 2017 Ada d’Alessandro, Leoni e regine storia affascinante delle mura, in Lucia Arbace (a cura di), Le mura dell’Aquila, One Group, L’Aquila 2020; pp. 84-95. Gianfranco D’Alò, Piero Gilento, Roberta Leuzzi, Claudia Micari, Rosanna Tuteri, Risultati preliminari delle indagini archeologiche nell’area di Porta Barete a L’Aquila, in Francesca Anichini, Gabriele Gattiglia, Maria Letizia Gualandi (a cura di), Mappa Data Book 1. I dati dell’archeologia urbana in Italia, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2015; pp.73-107 Mirella Marini Calvani, Leoni funerari romani in Italia, in Bollettino d’arte, Anno LXV, serie VI, 1980; pp. 7-13. Jacopo Ortalli, Simbolo e ornato nei monumenti sepolcrali romani: il caso aquileiese, in Antichità Altoadriatiche, Anno LXI, 2005; pp. 245-286 a r c h e o 67
MUSEI • PIACENZA
BENVENUTI A PLACENTIA! I MUSEI CIVICI DI PIACENZA SALUTANO L’APERTURA DELLA NUOVA SEZIONE ROMANA: UN CONTRIBUTO DECISIVO ALLA CONOSCENZA DELLA STORIA DELLA CITTÀ ANTICA, DOCUMENTATA E NARRATA DA OLTRE 1000 REPERTI, PER LO PIÚ INEDITI, SCELTI FRA GLI OGGETTI DELLE COLLEZIONI STORICHE E I MATERIALI RESTITUITI DAGLI SCAVI DEGLI ULTIMI ANNI di Marco Podini e Micaela Bertuzzi
I
l 16 maggio scorso, dopo cinque intensi anni di lavoro, è stata inaugurata la nuova sezione archeologica romana dei Musei Civici di Piacenza, allestita nella suggestiva sede dei sotterranei di Palazzo Farnese, edificio che comprende sia la cittadella viscontea, sia la fabbrica rinascimentale progettata da Jacopo Barozzi detto il Vignola. Al piano terra ha invece trovato posto una sala dedi-
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cata ai collezionisti piacentini, «padri fondatori» del museo. Con l’apertura della sezione romana, si è raggiunto, nonostante i tempi difficili, un risultato storico eccezionale, che ha consentito l’esposizione di circa 1400 reperti, per la maggior parte inediti e mai presentati sino a ora. L’impostazione tematica e la possibilità offerta al visitatore di avvalersi di piú livelli di fruizione (dai tradizio-
nali pannelli scritti agli apparati interattivi audio e video) rivelano l’obiettivo fermamente perseguito di creare un museo non solo per archeologi e specialisti, ma per tutti, a partire dai piú giovani. A questi ultimi è stata infatti dedicata un’apposita area didattica che, oltre alle scolaresche, potrà accogliere anche piccole conferenze. Un museo nel quale riunire le antichità classiche della città si
attendeva a Piacenza da almeno 280 anni. Dopo un primo tentativo del duca Ranuccio II Farnese, che nel 1683 riuní nell’Arsenale di Fodesta le testimonianze epigrafiche sparse in città, fu l’eclettico abate Alessandro Chiappini ad allestire nella canonica di S. Agostino, fra gli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento, una collezione che inequivocabilmente esprime quell’aspirazione a un museo archeologico che solo oggi viene pienamente soddisfatta.
per ragioni di pertinenza territoriale. Purtroppo, la città si fece invece sfuggire l’importante documento epigrafico, cosí come non seppe cogliere l’occasione di assumere la direzione degli scavi veleiati, che sarebbero iniziati nel 1760,
proprio dopo il trasferimento della Tabula a Parma, dove nel 1798 confluí anche la collezione numismatica dello stesso Chiappini, seguita nel 1821 dal suo famoso lapidario. Esattamente dopo due secoli, quindi, diversi reperti fittili e
Sulle due pagine: la sala della nuova sezione romana dei Musei Civici di Piacenza dedicata al costume funerario. In basso: il Palazzo Farnese di Piacenza, i cui sotterranei ospitano la sezione romana dei Musei Civici. L’edificio fu costruito su progetto del Vignola.
L’OCCASIONE MANCATA «A quest’ora il Museo Piacentino di Sant’Agostino è in tali condizioni forse da cominciare a gareggiare con gli altri», cosí il grande intellettuale Ludovico Antonio Muratori incoraggiava Chiappini in una lettera del loro fitto carteggio. Muratori aveva inutilmente auspicato che l’eccezionale Tabula Alimentaria di Veleia Romana, scoperta nel 1747, confluisse nella raccolta dell’amico piacentino, anche a r c h e o 69
MUSEI • PIACENZA
lapidei sono oggi tornati dal Museo Archeologico di Parma a Piacenza e sono finalmente esposti nella città alla quale Chiappini li aveva destinati. Nella sala dedicata ai collezionisti, significativamente posta a monte sia della nuova Sezione romana che delle sezioni di preistoria e protostoria (inaugurate nel 2009), accanto alla vetrina dedicata all’abate di S. Agostino, sono esposte anche altre importanti raccolte formatesi nell’Ottocento.
I PRIMI TENTATIVI Personaggi come il patriota e letterato Giuseppe Poggi, il numismatico e medievista Bernardo Pallastrelli e il magistrato Pietro Agnelli promossero nel corso dell’Ottocento l’idea di un museo civico a Piacenza che raccogliesse i beni culturali del territorio. A questo scopo non solo donarono le proprie collezioni al Comune, ma si fecero interpreti di un’opera di sensibilizzazione nelle sedi culturali e politiche locali. Solo nel 1885 un primo tentativo di Museo prese avvio presso la Biblioteca comunale, i cui locali però non erano idonei all’esposizione e alla fruizione. Con il trasferimento all’Istituto Gazzola, nel 1903, il Museo prese corpo, ma gli spazi erano ancora inadeguati. Si dovette attendere il 1976 per la soluzione definitiva, con il progetto per la sede di Palazzo Farnese. Lo storico ritardo di cui Piacenza ha sofferto nell’istituzione di un museo, con la conseguente e inevitabile emorragia, trasferimento o dispersione del suo 70 a r c h e o
In alto: ritratto del patriota e letterato Giuseppe Poggi (1761-1842). Piacenza, Biblioteca Comunale Passerini-Landi. Nella pagina accanto: carta geografica con i territori delle città romane di Piacenza, Veleia e Libarna. In basso: bottiglia in vetro marrone decorata a spruzzo. I sec. d.C. Già Collezione Agnelli.
patr imonio, viene oggi in qualche modo risarcito dal fatto che è stato possibile creare un percorso espositivo omogeneo, ispirato a un principio ordinatore organico e non, come spesso avviene, cresciuto per aggiunte successive nel corso del tempo. Gli argomenti sono stati enucleati in seguito alla selezione della totalità dei materiali, in modo da avere una visione complessiva del panorama, cercando in primo luogo di dare voce ai reperti, per restituire un racconto di Placentia il piú possibile peculiare della città e del territorio. L’équipe dell’Associazione Arti e Pensieri, formata da una quindicina di esperti, si è quindi dedicata a un impegnativo lavoro di ricognizione dei dati d’archivio e di scavo, selezionando nei depositi i reperti lapidei e musivi, nonché i materiali contenuti in circa 4000 cassette provenienti dagli scavi sia otto-novecenteschi che recentissimi, letteralmente passati dal cantiere alla vetrina.
UN RACCONTO IN 15 SALE Il racconto che si snoda nelle 15 sale è stato principalmente organizzato per temi e, all’interno dell’approccio tematico, ove possibile e utile, si è ulteriormente proceduto a un ordinamento tipologico e cronologico. I reperti esposti nei sotterranei abbracciano un arco temporale che va dal VI secolo a.C. all’VIII d.C. La prima sala fornisce un inquadramento storico della città romana inserita nel territorio circostante,
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
grazie a una mappa che mostra i confini dell’ager placentinus in relazione all’attuale provincia e a una linea del tempo che presenta i principali avvenimenti della storia di Piacenza, dalla fondazione all’arrivo dei Longobardi. Nella sala 2 si ripercorre la storia degli scavi piacentini, a partire dai ritrovamenti effettuati in occasione dei grandi cantieri medievali, passando attraverso gli sconvolgimenti urbanistici del Novecento, per approdare al moderno metodo di scavo stratigrafico e alle indagini fi-
nalmente promosse con tecnologie avanzate. Una stratigrafia ideale, ricostruita in sala, è pensata come utile strumento didattico per coinvolgere i visitatori in maniera interattiva.
IL SOSTRATO LOCALE Allo scopo di ricostruire il contesto di fronte al quale si sono trovati i primi coloni una volta giunti nel territorio piacentino, nella sala 3 sono esposti alcuni reperti-simbolo dell’età del Ferro: dalle ceramiche e dai reperti in metallo e ambra di facies etrusca, alle tracce delle
genti liguri e celtiche che i Romani hanno in parte inglobato. Per comprendere quanto le culture preesistenti siano giunte nel cuore di quella romana, persistendovi a lungo, basti pensare al celeberrimo Fegato etrusco (vedi box a p. 73), ma anche alle testimonianze di culti preromani, come quello tributato alle matrone ancora nel II secolo d.C. Tale persistenza di tradizioni produttive, alimentari e del costume si ravvisa anche nella cultura materiale, nella circolazione monetaria e negli elementi del vestiario. a r c h e o 71
MUSEI • PIACENZA
LA FONDAZIONE La fondazione di Placentia, malgrado l’etimologia auspicale del nome scelto per la colonia (dall’impersonale di placeo: «sembrar bene, giusto, opportuno»), non fu però un’operazione semplice, né particolarmente fortunata. Sorta nel 218 a.C. su un alto terrazzo fluviale, posta a
controllo di un guado sul fiume Po, in un territorio di confine abitato da genti per lo piú ostili a Roma, Piacenza venne fondata (insieme alla gemella Cremona) da 6000 soldati e dalle relative famiglie, per un totale di 20-25 000 unità. Già nell’estate del 218 a.C., tuttavia, Livio (Liv., XXI 25,3) ricorda come la città fosse stata attaccata dai Galli Boi, alleatisi con Annibale, costringendo i nuovi coloni a riparare presso Modena. Nel dicembre dello stesso anno, dopo gli scontri sul Ticino, Roma subí la sua seconda importante sconfitta contro il generale cartaginese, proprio nei pressi di Piacenza, lungo le sponde del fiume Trebbia. Evento di cui lo storico Polibio (Storie, III 72,
A sinistra: kouros in bronzo di produzione etrusca, da Chiavenna Landi (Piacenza), acquisito da una recente donazione. Seconda metà del VI sec. a.C. In basso: fotoelaborazione che mostra
l’impianto urbano di Placentia, la Piacenza romana. Sono indicate le vie, i rivi, gli isolati e le due ipotesi di ubicazione del foro; la linea arancione segnala la ricostruzione ipotetica del circuito murario.
Nel torrione visconteo è esposto il prezioso Fegato di Piacenza in un allestimento di grande suggestione che, oltre all’illuminazione curata dal light designer piacentino Davide Groppi, comprende una proiezione a pavimento che rende chiara la corrispondenza tra micro- e macrocosmo popolati dalle divinità del pantheon etrusco.
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3-6) ci ha lasciato una testimonianza drammatica. La guerra di logoramento attuata da Annibale nel corso della sua discesa in Italia e l’inasprimento delle popolazioni celtiche, rinvigorite dalle vittorie puniche, ostacolarono anco-
ra per molto tempo la conquista romana della Cisalpina. Solo dopo la definitiva disfatta di Cartagine (202 a.C.), Roma poté di nuovo occuparsi di questo territorio e rivolgere il suo interesse a Piacenza: stremata da quasi trent’anni di
guerra, quest’ultima fu rifondata ex novo nel 190 a.C., con l’invio di altre 3000 famiglie. Per la sua posizione a controllo dell’intersezione fra assi viari e fluviali strategici, Piacenza ebbe sin dall’inizio un imprinting fortemente «militare», mantenuto-
UN PRONTUARIO PER GLI ARUSPICI? Affiorato da un solco nella terra, pochi chilometri a sud di Piacenza, il Fegato riproduce a grandezza naturale il corrispondente organo di una pecora e costituisce uno tra i rari documenti diretti dell’Etrusca Disciplina. La piccola scultura in bronzo, variamente considerata dagli studiosi uno strumento didattico per insegnare l’epatoscopia, un promemoria professionale per aruspici o un elemento appartenente a una statua onoraria, è stata realizzata in Etruria settentrionale tra la fine del II e la prima metà del I secolo a.C., quando la regione era ormai sotto il dominio romano e nella Pianura Padana prosperavano le colonie, tra cui Placentia. La superficie superiore è quasi interamente occupata da
iscrizioni in lingua etrusca, inserite in 38 caselle e presenta, schematizzate, tre sporgenze anatomiche. Sull’altra faccia, convessa, è resa una nervatura che lo divide in due lobi, a lato della quale compaiono i nomi Usil
(Sole) e Tiur (Luna). Grazie a questa sorta di mappa, l’aruspice poteva interpretare deformità, patologie o macchie presenti sul fegato della vittima sacrificale, quali messaggi da parte di una specifica divinità.
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MUSEI • PIACENZA
In alto: una veduta della sala 6. In primo piano, stele funeraria dedicata dal decurione Marcus Naevius Secundus a sé e alla sua famiglia. Prima età imperiale (I sec. d.C.). Nella pagina accanto, in alto: bilancia,
pesi, contrappesi e sextariolus (unità di misura campione), da scavi piacentini e dal fiume Po. Nella pagina accanto, in basso: veduta della sala 8, dedicata alle pitture parietali e agli arredi.
si peraltro fino ai giorni nostri. Da Placentia partirono, infatti, le spedizioni contro le tribú liguri dislocate lungo i rilievi appenninici e sempre a Piacenza furono certamente stanziati i soldati che costruirono l’ultimo tratto della via Aemilia (187 a.C.) e una parte della via Postumia (148 a.C.), collegandola via terra rispettivamente con Rimini (e da lí con Roma) e con i principali scali tirrenici e adriatici (Genova e Aquileia). Per questa ragione, la prima vetrina della Sala 6 è dedicata al ruolo del miles romanus: al lavoro dei soldati si devono il primo impianto della città, il suo reticolo stradale perfetto, nonché la costruzione delle mura, dei principali edifici pubblici e del-
le relative infrastrutture. Il tema della sala è quello della forma urbis, soprattutto alla luce delle ultime scoperte (come alcuni tratti delle cinte murarie), ma anche dei protagonisti della politica (duoviri, decurioni, magistrati, ecc., testimoniati dalle epigrafi esposte), che ebbero un ruolo fondamentale nel governo e nello sviluppo edilizio – monumentale e infrastrutturale – della città.
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ACQUA E ARGILLA A VOLONTÀ Al tema delle produzioni, del commercio e al ruolo del Po è dedicata la Sala 7. Il grande fiume costituí al contempo un limes e un volano per lo sviluppo, lungo le sue sponde, di attività
produttive e commerciali. La grande disponibilità di acqua e di argilla derivata dai depositi alluvionali consentí l’installazione di numerose officine per la produzione e il commercio di materiale fittile (anfore, dolii, ceramiche, laterizi, ecc.). Il legame intrinseco fra Piacenza e il fiume è testimoniato dalla costruzione, ai margini della città, di un «porto-canale», tramite lo scavo di una fossa che prendeva acqua nei pressi della foce del Trebbia, riversandola poi piú a valle nel Po. Ancora documentato in affreschi cinquecenteschi (Palazzo Farnese di Caprarola, Viterbo), possiamo supporre, stando al toponimo «Fodesta» (forse da *fossa Augusta) con cui veniva indicato il canale già nel Medioevo, che il porto-canale abbia assunto in età augustea una configurazione piú strutturata e monumentale. Numerosi sono i reperti esposti nelle vetrine (dai pesi e contrappesi per bilance alle unità di misura, dalle anfore e i laterizi bollati ai frammenti di marmo) che documentano la consistenza e la complessità delle operazioni commerciali che si svolgevano presso il porto fluviale di Piacenza. Procedendo negli scenografici sotterranei e raggiungendo la parte vignolesca, con i suoi volumi piranesiani, il percorso affronta il tema del «vivere alla romana». Dapprima, nella sala 8, il visitatore si immerge negli spazi di rappresentanza della domus, dove il pater familias gestiva i rapporti clientelari e sociali. A Piacenza, sebbene – come in altre città di fondazione romana – sia tuttora evidente la traccia degli antichi isolati abitativi, non è facile ricostruire il tessuto edilizio e l’aspetto architettonico delle case, a ecce-
zione dei rivestimenti pavimentali. Come nel resto della regione, la primissima età imperiale dovette essere il periodo di piúdaintensa attività ediliDidascalia fare Ibusdae zia, documentata grazie al rinevendipsam, officte erupit antesto venimento taturi cum ilita di aut pavimentazioni quatiur restrum che appartenevano eicaectur, testo blaborenes aiumedifici anche di pregio, quasped quosnotevole non etur reius nonemcome loexpercipsunt straordinario pavimento quam quos rest magni da via apic Poggiali che rivestiva autatur teces enditibus teces. un ambiente di ricevimento.
SOLUZIONI ORIGINALI Nel corso del II secolo d.C. si assiste a un certo ridimensionamento dell’attività edilizia privata e il centro urbano, ormai saturo, sfrutta le strutture di età precedente, ammodernandole. Il panorama dei rivestimenti di Placentia è piuttosto peculiare nella produzione musiva dell’Emilia-Romagna e vi si riscontrano soluzioni compositive originali, con variazioni rispetto a motivi noti. Il gusto non sembra influenzato in modo preponderante dalle via r c h e o 75
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cine città emiliane, mentre ci sono punti di contatto con realtà piú lontane, come Altino (Venezia) e l’area istriana. Gli scambi culturali e commerciali, cosí come il reperimento dei materiali di base, devono essere stati favoriti dalla posizione topografica di Piacenza e dal collegamento, oltre che con le vie di terra, anche con quelle d’acqua tramite il fiume Po. Nella sala 8 è esposta anche una piccola ma significativa selezio-
ne dei resti di pittura parietale, accanto agli arredi da peristilio e ai servizi da mensa in ceramiche verniciate, vetro o metallo; la suddivisione dei materiali per classe offre un risultato cromatico molto suggestivo. Nella sala successiva, la 9, si accede agli spazi privati della domus, come le cucine, gli ambienti di servizio o le stanze in cui la domina e i servi svolgevano le attività domestiche, come filatura e tessitura. Attra-
Sfinge alata dagli scavi della scuola Taverna a Piacenza. I sec. a.C.-I sec. d.C.
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I CIGNI DI APOLLO Il tondo riprodotto nella foto in basso è la parte centrale di un mosaico policromo, decorato da uno scudo di triangoli in bianco e nero, interrotto da un disco centrale con otto mensole prospettiche che ospitano cigni nell’atto di spiccare il volo e l’oculus campito da una cetra. Questa tipologia decorativa, che predilige le rappresentazioni architettoniche, ha i suoi antecedenti piú diretti nella pittura parietale piú che nel repertorio dei mosaici. L’associazione cigni/cetra rimanda al culto di Apollo, che a Piacenza era fortemente radicato fin dall’epoca della fondazione e che la propaganda di Augusto certamente rivitalizzò. È stata avanzata l’ipotesi che il tessellato, di altissimo livello qualitativo, pavimentasse un odèon (piccolo teatro destinato ad audizioni musicali). L’esemplare, rinvenuto nel 1861 in via XX Settembre a Piacenza, è datato all’età augustea.
verso specilli, porta kohl e piccoli contenitori per i prodotti di bellezza, gioielli, stili e spilloni in osso, parti di cofanetti e scrigni, pedine da gioco e una tabula lusoria, si dà conto degli aspetti piú quotidiani e intimi della vita, come la cura di sé, il gioco, la scrittura. Lucerne, chiavi, serrature, chiodi, cardini e decorazioni in bronzo da sgabello – conformate, per esempio, a piede umano scalzo – gettano luce sul mobilio della casa romana. Si approfondisce anche il tema delle tecniche edilizie e dei dispostivi di conduzione del calore e delle acque, e non manca l’aspetto del lavoro agricolo, a cui rimandano gli strumenti in ferro, ottimamente conservati, dalle ville rustiche dell’agro orientale del territorio piacentino. Su una parete della sala, una grande proiezione conduce nel viaggio virtuale in una ideale domus piacentina, offrendo al visitatore la possibilità di comprendere la funzione di molti dei reperti esposti, proprio grazie alla loro contestualizzazione in 3D. Le due sale successive (Sale 10 e 11) sono dedicate al tema della religione e dei culti documenta-
ti a Piacenza e nel territorio. Le antefisse in terracotta da via delle Benedettine, per le quali è stato studiato un allestimento ad hoc, che ne ripropone l’originaria collocazione edilizia (tempio etrusco-italico), costituiscono una testimonianza dei primi momenti di vita della colonia. Interpretate come figure di Attis o come Dioscuri, le terrecotte rimandano al mito troiano delle origini di Roma e colpiscono per le tracce di colore ancora presenti sulla superficie.
I CULTI DELLE ACQUE Oltre alla ricostruzione di un «larario piacentino», nella Sala 10 si è dedicato uno spazio ai culti primigeni delle acque e delle vette presenti nel territo-
rio piacentino, che hanno trovato piena continuità in epoca romana. Significativo è il numero di iscrizioni con dedica a Minerva Medica, divinità alla quale era intitolato un santuario in Val Trebbia. Con la Sala 11 si affronta il tema dei culti istituzionali, a partire da quello in onore degli imperatori divinizzati, amministrati da sacerdoti preposti detti seviri augustales, come testimonia l’epigrafe di Marcus Anneius Primus. La presenza di un Capitolium è invece indiziata da un’iscrizione che menziona un curator aedis Iovis, ovvero del magistrato che doveva sovrintendere al tempio di Giove. Uno spazio particolare è dedicato alla straordinaria statua panneggiata firmata dallo scultore ateniese Kleoménes, di cui si conserva solo la metà inferiore, rendendone cosí problematica l’identificazione. Interpretata come Venere o, piú probabilmente, come Apollo, per quest’opera è stata predisposta un’istallazione interattiva che permette al visitatore di visualizzare il punto di rinvenimento, le ipotesi iconografiche e la contestualizzazione architettonica. Oggetti per la cura della persona provenienti dal territorio di Piacenza. II sec. a.C.-III sec. d.C.
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MUSEI • PIACENZA
Nelle sale successive viene affrontato il tema della morte e dei principali riti funebri. Le aree di sepoltura attestate a Piacenza, poste lungo le principali direttrici viarie (in primis le viae Aemilia e Postumia), sono riportate all’interno di una grande carta di distribuzione. La sala 12 ospita i resti di una ricca tomba monumentale a edicola simile a quelle documentate a Sarsina (Forlí-Cesena). Fra gli elementi piú suggestivi dell’apparato decorativo si distinguono un fregio d’armi e una sfinge alata posta in posizione elevata a protezione del sepolcro. La forma allungata e particolarmente profonda della Sala 13 ha dato lo spunto per ambientare al suo interno una proposta ricostruttiva di una tipica via funeraria romana, che, sia sulla fronte che in posizione arretrata, poteva ospitare varie tipologie di tombe, dalle piú monumentali (a edicola, a tamburo, ad altare con
recinto, ecc.) a quelle piú semplici e povere (alla cappuccina, in anfora, in nuda terra, ecc.). Attestati nel territorio piacentino sono i letti funerari in osso lavorato, come quelli rinvenuti a Cortemaggiore o come lo straordinario esempio ritrovato all’interno di una tomba a camera durante la costruzione di un padiglione dell’ospedale di Piacenza.
successi militari sui barbari e la gloria dello Stato attraverso la propaganda imperiale su epigrafi e monete, finché l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, viene deposto in seguito all’uccisione del padre Oreste avvenuta nel 476 proprio a Piacenza. Il percorso affronta quindi l’avvento del cristianesimo fino all’epoca longobarda, quando Piacenza, grazie alla sua posizione strategica, divenne sede WORK IN PROGRESS La Sala 14 – utilizzata anche di un potente ducato, munito come luogo di esposizione a di una zecca attiva dall’VIII rotazione dei reperti che quo- secolo nella quale furono protidianamente vengono alla luce babilmente coniati i due prenei vari cantieri archeologici, ziosi tremissi in oro esposti. in un continuo work in progress – ospita un video riassuntivo di Il progetto di riqualificazione dei sotterranei di Palazzo Farnese e tutto il percorso espositivo. Il percorso termina con la sa- l’allestimento della sezione archeola 15, dedicata alla cr isi logica hanno fruito dei fondi europei dell’impero romano, di cui è stanziati dalla Regione Emilia-Roun’eco il fenomeno dell’oc- magna nelle linee di finanziamento cultamento di monete, esem- Por-Fesr 2014-2020 Asse 5, a cui il plificato dal prezioso tesoret- Comune di Piacenza ha aggiunto to di Cortemaggiore, che può ulteriori proprie risorse. Realizzata essere messo in relazione con in stretta sinergia con la competente l’invasione di Alamanni e Iu- Soprintendenza e coordinata da un tungi, che sconfissero Aurelia- Comitato scientifico (presieduto da Nicola Criniti e Antonella Gigli), la no a Piacenza nel 271. Con Diocleziano e l’intro- nuova progettazione si è avvalsa duzione della tetrarchia, della collaborazione di numerosi l’impero ritrova una rela- giovani archeologi, studiosi e speciativa stabilità e celebra i listi del mondo accademico, conferendo a questa complessa operazione il Alcune monete del tesoretto proprio carattere multidisciplinare e di Cortemaggiore e l’olla un’elevata qualità scientifica. che le conteneva, forse nascosta al tempo dell’invasione di Alamanni e Iutungi (271 d.C.).
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DOVE E QUANDO Musei Civici di Palazzo Farnese Piacenza, piazza Cittadella 29 Orario martedí-domenica, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; giorni di chiusura: lunedí (escluso Lunedí dell’Angelo), 1° gennaio (mattino), 1° novembre, 25 dicembre e 26 dicembre (mattino). Info tel. 0523 492658; e-mail: musei. farnese@comune.piacenza.it; www.palazzofarnese.piacenza.it/
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ARGANTONIO E IL TESORO MISTERIOSO SETTEMBRE 1958: A CAMAS, POCHI CHILOMETRI A OVEST DI SIVIGLIA, VIENE ALLA LUCE UN BRACCIALE IN ORO MASSICCIO, DALL’ASPETTO CHIARAMENTE ANTICO. DI LÍ A POCO AFFIORANO GLI ALTRI GIOIELLI DELLO STRAORDINARIO TESORO DEL CARAMBOLO, LA CUI STORIA SI LEGA A QUELLA DEL SANTUARIO OMONIMO, DEL QUALE GLI STUDI PIÚ RECENTI HANNO DEFINITIVAMENTE ACCERTATO L’ORIGINE... di Ana Navarro Alcuni degli oggetti in oro massiccio facenti parte del tesoro del Carambolo. Siviglia, Museo archeologico. 80 a r c h e o
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Homeroskopeion Gu ad ian a
in dall’antichità abbiamo prove del continuo movimento di viaggiatori nel Mediterraneo, mare che, nel corso del I millennio a.C., fu teatro di un’importante migrazione di genti fenicie, partite dalle città della costa orientale della propria terra d’origine (grosso modo corrispondente all’odierno Libano, n.d.r.). Il viaggio di questi gruppi verso l’Occidente può essere ricostruito attraverso i santuari e le colonie da essi fondati, in diverse aree, a partire dal IX secolo a.C. Scopo principale di questi viaggi fu la ricerca dei metalli, e in particolare dell’argento. Oggi conosciamo insediamenti fenici a Cipro, sulle coste africane, nelle isole del Mediterraneo e anche nell’estremo Occidente europeo. Seguendo le tracce delle loro rotte, autori come il greco Strabone e il latino Avieno segnalano la presenza di Fenici sulle coste spagnole. Possiamo seguirne il percorso nel SudEst della Spagna, partendo da Adra (Abdera) e Villaricos (Baria), sui litorali di Almeria, proseguendo verso Malaga (Mainake) in direzione delle Colonne d’Ercole (Stretto di Gibilterra), raggiungendo la foce del fiume Guadalquivir, il Betis romano o l’al-wadi al-kabir, il «grande fiume» islamico della Siviglia medievale. Anche l’archeologia ha provato che i Fenici si stabilirono dal IX secolo a.C. sul sito dell’antica Onoba (Huelva), nell’Ovest dell’Andalusia, e che continuarono a occupare territori piú a nord, dando vita a vari insediamenti in Portogallo. Si stanziarono in piú punti nell’entroterra dell’estuario del Tago, cosí come lungo la costa atlantica. I nuovi arrivati intendevano stabilirsi e convivere con le comunità autoctone che incontrarono nei diversi territori e il loro stanziamento fu favor ito anche dall’adattamento e
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dall’integrazione di simboli e idee di matrice orientale, non solo per effetto degli accordi economici, ma anche in virtú di convergenze ideologico-religiose.
LE NAVI DI TARSHISH All’inizio del I millennio a.C., il Sud-Ovest della penisola iberica coincideva con il territorio dei Tartessi. La Bibbia contiene vari riferimenti a una località chiamata Tarshish, che sembra identificare questo paese: una menzione importante, nel libro dei Re, nei Salmi e in Isaia, è appunto quella delle «navi di Tarshish», imbarcazioni che trasportavano merci e prodotti esotici dal lontano Occidente ogni tre anni. Le fonti greco-latine descrivono la regione dei Tartessi come una zona di pastori e bestiame, il cui longevo re Argantonio aveva legami con viaggiatori e commercianti greci fin dal VII secolo a.C. In queste regioni, oltre le Colonne d’Ercole, si collocava inoltre la decima fatica di Eracle, che ai confini di Tartesso aveva sconfitto il mostruoso gigante Gerione, impadronendosi delle sue greggi. Ciononostante, il termine Tartessos non si riferisce a un gruppo etnico e definisce piuttosto uno spazio geografico: la Tartesside. Dall’analisi dei
Cartago Nova Abdera
Sito tartessico Colonia greca Colonia fenicia Area di influenza di Tartesso
L’area della Spagna meridionale in cui è attestata la cultura dei Tartessi.
dati archeologici e dai riferimenti geografici offerti dalle fonti possiamo affermare che la regione dei Tartessi si trovava tra lo stretto di Gibilterra e il fiume Anas (Guadiana). Secondo l’archeologo Eduardo Ferrer, questa regione coinciderebbe con lo spazio delimitato dall’attuale golfo di Cadice (Siviglia, Cadice e Huelva) e andrebbe identificata con il Sinus Tartesii descritto da Avieno nella sua Ora Maritima. Sin dall’inizio del XX secolo, la storiografia spagnola ha ricercato tracce materiali dell’antica Tartesso, cioè una sede urbana con un’entità politico-geografica, definita soltanto dal punto di vista teorico. A lungo si è cercato, senza successo, di localizzare la capitale di questa regione, ma la rilevanza archeologica di questa cultura ha preso forma, di fatto, solo dopo la scoperta di un importante corredo di gioielli: il tesoro di El Carambolo. Era il 30 settembre 1958, quando, nella cittadina sivigliana di Camas, durante la ristrutturazione della sede di una società di tiro sportivo (Real Sociedad de Tiro de Pichón), venne alla luce un bracciale aureo, il primo gioiello del tesoro. La lucentezza del metallo e la sorpresa per la a r c h e o 81
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scoperta spinsero gli operai ad allargare subito lo scavo, localizzando cosí l’insieme completo di 21 pezzi, che al momento dell’occultamento era stato depositato con cura in un recipiente di ceramica fatto a mano. Per gli studiosi, fu subito chiara l’origine tartessica del tesoro, riferita a un’antica civiltà ispano-mediterranea che doveva possedere nozioni tecniche e maestria tali da dare vita a gioielli di una simile bellezza. Le ricerche successive e gli scavi sistematici, effettuati nello stesso sito tra il 2002 e il 2005, hanno poi dimostrato la funzione liturgica di un simile corredo rituale, riferibile a un santuario fenicio sorto presso l’antica foce del Guadalquivir. La casuale scoperta del tesoro portò
all’avvio dei primi scavi sistematici del Carambolo, tra il 1958 e il 1961. Il sito del ritrovamento si trova sulla riva destra del Guadalquivir, 3 km a ovest della città di Siviglia, l’antica Spal fenicia, la romana Hispalis. Apparve subito evidente che il santuario era stato installato in una posizione allora dominante, un promontorio elevato, affacciato su un’insenatura marittima alla foce del fiume, e che si trattava di un luogo sacro legato a Spal, ma con un’ottima visibilità su tutto il territorio circostante.
LE PRIME RICERCHE Lo storico Juan de Mata Carriazo (1899-1988), all’epoca commissario provinciale per gli scavi archeologici e professore all’Università
QUELLA DEA DALL’EPITETO MISTERIOSO... Nel 1963 il Museo archeologico di Siviglia ricevette in dono un altro oggetto recuperato al Carambolo, che dimostra l’importanza di quel santuario in relazione ai culti fenici: si tratta di una scultura in bronzo della dea Astarte (riprodotta nella foto qui accanto), alta 16,6 cm e pesante 865 gr. La divinità è raffigurata nuda e seduta, su un trono che forse era di legno e non si è conservato. I suoi piedi sono appoggiati su uno sgabello recante un’iscrizione incisa. La dea indossa una parrucca di tipo hathorico (come la dea egizia Hathor), le manca il braccio sinistro, mentre il braccio destro è alzato in un saluto rituale. Nella mano mancante portava forse uno scettro o un fiore. La statuetta venne trovata per caso, nella zona del santuario, molto probabilmente durante i lavori che portarono alla luce il tesoro, anche se non si conosce esattamente il suo contesto di provenienza, e rimase in mani private fino a quando fu consegnata al Museo. L’iscrizione alla base rappresenta il
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testo fenicio piú antico della penisola iberica (si data al VII secolo a.C.) ed è una delle epigrafi piú lunghe del Mediterraneo occidentale. Il testo ricorda il dono fatto alla dea da due dedicanti: Questo trono ha fatto Baalyaton, figlio di Dommilk e Abdbaal figlio di Dommilk figlio di Yshaal per Astarte-Hor, nostra signora, perché ha ascoltato la voce delle sue parole. Il nome della dea è accompagnato da un epiteto: Astarte-Hor, un elemento che doveva identificare in modo specifico la divinità a cui si rivolge l’offerta. Ma l’appellativo resta ancora abbastanza oscuro. Hor, infatti, è stato interpretato in vario modo: un toponimo orientale o altri riferimenti come Astarte hurrita, Astarte della grotta, Astarte della tomba o Astarte della finestra. Astarte della palude è l’interpretazione piú recente, e potrebbe essere legata al paleopaesaggio del Guadalquivir nell’antichità.
di Siviglia, guidò le ricerche nel sito. Gli scavi condotti nel XX secolo evidenziarono una successione di quattro fasi di vita dell’antico insediamento, che occupava una superficie di 375 mq. Sulla collina di Camas, furono esplorate due zone: Carambolo Bajo e Carambolo Alto. Quest’ultimo era il luogo
che aveva restituito il tesoro e, per l’unicità dei ritrovamenti, si pensò che la sua frequentazione avesse avuto inizio in una fase piú antica rispetto al Carambolo Bajo. Gli scavi del Carambolo Alto permisero di recuperare una quantità considerevole di ceramiche decorate, frammenti di uova di struzzo dipinte – nello stesso contesto del tesoro –, nonché resti di fauna, e rivelarono inoltre tracce di combustione. Questi materiali e la forma ovale dalla fossa indussero Carriazo a ipotizzare che il contesto in cui i gioielli erano apparsi fosse il fondo di una capanna, appartenente a un insediamento indigeno sviluppatosi prima dell’arrivo dei Fenici.Tuttavia, lo stesso studioso rilevò la singolarità della concen-
trazione, in uno spazio domestico, di materiali in oro di simile fattura. Alla fine, il tesoro venne interpretato come il corredo personale di un re, un nobile o un sommo sacerdote e, nelle cronache dell’epoca, si giunse alla conclusione che doveva trattarsi dei gioielli del mitico Argantonio, il re di Tartesso.
Le ricerche presso il Carambolo Bajo permisero di documentare vari ambienti, che per Carriazo mostravano l’influsso delle popolazioni fenicie sui modi di vita delle comunità iberiche in un periodo compreso tra il 550 a.C. e la prima occupazione romana del territorio. Le strutture scoperte in quello spa-
A destra: frammento di betilo proveniente dal Carambolo e individuato grazie al riesame dei materiali recuperati nel corso dei primi scavi.
IL BETILO E IL TRONO I materiali conservati nel Museo sivigliano sono stati a lungo ignorati, sicché, a sessant’anni dal loro ritrovamento, anche le etichette di identificazione si stavano staccando o cancellando. Per questo motivo è stato necessario procedere alla nuova identificazione dei pezzi, cosí da non perdere le preziose informazioni del contesto di provenienza. Grazie a questo lavoro, è stato identificato un nuovo betilo, recuperato negli scavi del XX secolo, ma poi rimasto inedito. Insieme a questo pezzo, sono stati
A sinistra: frammento di scultura nel quale è sembrato di poter riconoscere la zampa di un animale, forse una sfinge o un leone, che doveva verosimilmente trovarsi alla base di un trono, sul quale poteva forse sedere la dea Astarte.
ritrovati due frammenti scultorei, uno dei quali può essere interpretato come una zampa di animale, forse una sfinge o un leone alla base di un trono. Questo pezzo conferma che la ricerca sul Carambolo ha ancora una lunga strada da percorrere. Tutti i materiali, infine, sono fortemente legati all’Astarte fenicia e alle sue rappresentazioni aniconiche, nonché alla sua immagine canonica di regina in trono.
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IL TESORO DEL SANTUARIO Conservato nel Museo Archeologico di Siviglia, il tesoro del Carambolo è composto da 21 oggetti, il cui peso totale, in oro, raggiunge i 2763 gr. Si tratta di due bracciali, una collana, due pendenti a forma di pelle di toro e 16 placche distribuite in due serie: una in cui predominano le sfere identificate con la montagna sacra e Baal, l’altra nella quale risaltano invece le rosette, fiore di Astarte. Due interpretazioni sono state date inizialmente ai gioielli: la prima è che appartenessero a un monarca o a un aristocratico, la seconda è che avessero una funzione di corredo rituale per due animali, un toro e una vacca, offerte sacre a Baal e Astarte. Nel 2003, Fernando Amores e Josè Luis Escacena hanno proposto una nuova interpretazione, ipotizzando che taluni gioielli fossero parte degli ornamenti degli animali in processione; la collana e i braccialetti, invece, avrebbero fatto parte dell’abbigliamento cerimoniale del sacerdote. Nuove ricerche hanno rivelato la complessità simbolica del set di monili. La collana è stata analizzata con tecniche di fisica nucleare e sottoposta a tomografie e radiografie, cosí come ad altri tipi di test per determinare la composizione dell’oro; è stato scoperto che all’interno dei sigilli si trova un piccolo
zio mostravano piante rettangolari, con grandi vasi in ceramica deposti sui pavimenti, fosse con resti organici, tracce di fuoco (ceneri), ambienti pavimentati con conchiglie marine e un vano con una panchina costruita con lastre di pietra addossata a uno dei muri perimetrali della stanza. A giudizio di Carriazo, questo ambiente, ribattezzato Sala de las Losas, presentava somiglianze con la Sala del trono di Cnosso. Nel complesso, le strutture e gli arredi furono ascritti a un insediamento turdetano, i cui abitanti commerciavano e interagivano con le popolazioni orientali stabilitesi sulle coste iberiche. 84 a r c h e o
Le caratteristiche iconografiche dei gioielli del tesoro e la loro unicità portarono altri ricercatori a collegare i manufatti a un tempio o a un luogo di culto. Nel 1997, grazie a nuovi esami sui materiali conservati nel Museo archeologico di Siviglia, alcuni oggetti – come un bacino rituale e un bruciaprofumi di bronzo – vennero per la prima volta riferiti alle pratiche di culto dei gruppi d’origine orientale.
NUOVI SCENARI La nuova interpretazione degli spazi scavati da Carriazo e l’analisi di materiali in precedenza passati inosservati suggerirono a Maria Belén e
In alto: disegno che mostra l’utilizzo degli accessori in oro che compongono il tesoro del Carambolo da parte di un sacerdote. A sinistra: il pendente della collana facente parte del tesoro.
Josè Luis Escacena che El Carambolo non fosse un abitato, bensí un santuario orientale di tipo emporico. Il sito fu messo in relazione con altri insediamenti prossimi alla foce del Guadalquivir, come il Cerro de San Juan di Coria – il Mons Cassius menzionato da Avieno – o Lebrija, l’antica Nabrissa. Questi santuari segnavano la foce del fiume e la sua entrata dal mare, contribuendo a
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corpo sferico di ceramica. Le indagini hanno evidenziato anche resti di smalti colorati sul gioiello, cosí come una probabile funzione rituale legata al suono che la collana produceva. Lo studio iconografico condotto presso il museo sivigliano ha permesso infine d’interpretare la collana come la rappresentazione di un fiore di otto petali, una rosetta sacra che viene identificata con la dea fenicia Astarte. Il tesoro di El Carambolo venne deliberatamente nascosto per evitare che fosse disperso o fuso. Questo avrebbe significato la perdita totale della sua carica simbolica e della sua associazione con gli dèi fenici. Degli otto sigilli che componevano la collana, sette sono arrivati fino a noi. Secondo le tracce identificate nelle catene che sostenevano l’ottavo sigillo, questo fu strappato intenzionalmente, forse al momento del suo interramento.
disegnare un itinerario sacro, verosimilmente fissato secondo canoni religiosi fenici. Il paesaggio dell’antico Guadalquivir sembrava dunque adattarsi alla sacralità di quegli spazi e, in particolare, i luoghi piú alti potevano essere immaginati come montagne sacre, dimora degli dèi. Le indagini sul campo si erano nel frattempo interrotte e solo nel 2002 la zona è stata oggetto di nuove ricerche. Si è trattato di un intervento di archeologia preventiva in vista della costruzione di un hotel, destinato a sorgere sul luogo in cui era stato trovato il tesoro. Tra il 2002 e il 2005, l’intero colle è stato dunque oggetto di nuovi scavi, che hanno
Una placca (in alto) e il particolare di un bracciale (a destra) che permettono di apprezzare la raffinata lavorazione dei manufatti del tesoro del Carambolo.
permesso di documentare l’esistenza di uno straordinario complesso sacro: le ipotesi avanzate da Belén e Escacena – che avevano ascritto i materiali e gli spazi del Carambolo a pratiche rituali fenicie e non a un villaggio – trovarono una significativa conferma grazie al lavoro svolto dagli archeologi Álvaro Fernández Flores e Araceli Rodríguez Azogue.
SCAVI IN ESTENSIONE Fra gli obiettivi delle nuove indagini vi fu quello di scavare completamente la fossa del tesoro, unificando, dopo piú di quarant’anni, gli interventi di Carriazo e le nuove esplorazioni. Le ricerche furono
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inoltre estese ad altri settori del sito, al fine di verificare l’esistenza di possibili ulteriori strutture. Alla fine, fu possibile rilevare la presenza dei resti di un importante complesso cultuale, con cinque fasi di costruzione, la piú monumentale delle quali è quella definita Carama r c h e o 85
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bolo III. Il santuario raggiunse i 4500 mq di superficie e l’estensione totale del sito abbracciava 3 ettari circa, con costruzioni che furono adattate all’orografia del colle. Il complesso religioso si trovava, in posizione elevata, lungo il basso corso del Guadalquivir, in un sito facilmente difendibile, che dominava l’insenatura marittima che in antico costituiva il paesaggio dell’Aljarafe di Siviglia.
LA PRIMA FONDAZIONE Il primo santuario, rettangolare, sorse sul versante sud-ovest della collina e la sua costruzione, grazie alle analisi al Carbonio 14 (eseguite da Fernández Flores e Rodríguez Azogue), si colloca nell’ultimo quarto del IX secolo a.C. L’installaIn alto: la fossa utilizzata come deposito rituale e nella quale fu trovato il tesoro, A sinistra: planimetria del santuario nella fase Carambolo III, che è quella in cui il complesso raggiunse la sua massima monumentalità, e va dalla fine dell’VIII alla metà del VII sec. a.C. In basso: assonometria ricostruttiva del Carambolo III.
Muri originali Panchine originali Muri ricostruiti graficamente Panchine ricostruite graficamente Altari Pavimento di conchiglie Pavimento di ciottoli
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zione di questo primo santuario, Carambolo V, fu preceduta da un’importante opera di adattamento del terreno, rivelando la chiara volontà di alterare lo spazio naturale per motivi simbolico-religiosi. L’orografia della collina venne modificata al fine di creare un tumulo artificiale di fronte all’accesso al santuario. Questa elevazione, secondo gli studi di archeoastronomia condotti da César Esteban e José Luis Escacena, costituiva un elemento chiave per l’osservazione di determinati fenomeni astrologici: il momento del solstizio d’estate e la contemplazione di diversi allineamenti della Luna e di Venere. Il primo santuario costruito a El Carambolo potrebbe essere stato un luogo aperto, con due piccole stan-
ze coperte e provviste di ingressi indipendenti. Uno schema architettonico che, in Oriente, trova confronti con i templi di Baal e Astarte a Tel Mevorakh o con la fase I di Tell Qasile e Lachish (tutti situati nell’odierno Israele, n.d.r.), con cronologie comprese tra il XIV e il XII secolo a.C. Con la messa in opera delle cappelle, la costruzione fu articolata in due corpi e il complesso fu definito da una struttura rettangolare lunga 21 m e larga 9. Il cortile veniva utilizzato per preparare le offerte, mentre l’entrata del santuario era orientata verso il sorgere del sole al solstizio d’estate. L’architettura di questo semplice recinto sacro, con due cappelle gemelle (A-45 e A-46) sul retro del cortile, trova confronti in altri edi-
I resti dell’altare a forma di pelle di bue individuato nella cappella A-40. Misura 4 m di lunghezza per 1,90 di larghezza.
fici religiosi del Vicino Oriente preclassico, per esempio a Tell Taya (Iraq) e Teleilat Ghassul (Giordania). La soglia di accesso alle cappelle e i gradini furono pavimentati con impiego di conchiglie marine del tipo Glycymeris, colorate con pigmenti rossi. Sembra evidente che il santuario piú antico, Carambolo V, sia stato posizionato strategicamente nel contesto dell’acropoli, osservando rigorosi principi religiosi, legati a credenze cosmiche. Questi dati, insieme alla conferma di un doppio culto e alla presenza certa della dea Astarte nel santuario, hanno permesso di stabilire che il sito era consacrato alla coppia piú importante del pantheon fenicio: Baal e Astarte.
UNO SPAZIO PER LE CERIMONIE COLLETTIVE L’ambiente scoperto o cortile che precede le due cappelle fu dotato di panchine addossate alle pareti, la cui presenza implica l’uso collettivo dello spazio, trattandosi di un luogo utilizzato per cerimonie che dovevano contribuire a configurare l’identità di questa comunità orientale, attraverso la partecipazione di gruppo alle pratiche liturgiche. L’edificio venne realizzato creando un dislivello rispetto all’esterno: per accedere agli spazi piú sacri del santuario era dunque necessario scendere i gradini e tale soluzione appare assai interessante per quanto riguarda il simbolismo dello spazio religioso. L’ambiente potrebbe infatti essere identificato come l’oltretomba, un mondo in cui le divinità esercitano le loro funzioni. I Fenici di El Carambolo utilizzarono un calendario liturgico in cui, come già detto, il solstizio d’estate segnava un momento importante. L’impianto del tempio sul versante occidentale, insieme a un tumulo rivolto verso il sole, ricorre anche nell’orientamento del tempio di Salomone e di Erode, evidenziando ancora una volta a r c h e o 87
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la stretta relazione del santuario sivigliano con l’Oriente. Nelle due cappelle doppie in fondo al cortile sono stati trovati resti di focolari utilizzati per accendere piccoli fuochi per il culto, probabilmente per bruciare essenze e fare offerte in uno spazio raccolto. Queste piccole stanze erano consacrate, rispettivamente, alla divinità maschile e femminile. In una di esse (A-45) è venuto alla luce un betilo scuro accanto al gradino d’ingresso,
mentre nell’altra (A-46) è stato rinvenuto un piccolo focolare rotondo, fatto con argilla giallastra e indurito dall’azione del fuoco, probabilmente usato come altare. Nella sua prima fase di vita, il santuario rimase in uso fino all’ultimo quarto dell’VIII secolo a.C., momento in cui la costruzione fu riadattata, dando luogo a un nuovo complesso edilizio, denominato Carambolo IV. La seconda fase del santuario abbraccia un orizzonte compreso tra
la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. e fu caratterizzata dalla modifica e dall’ampliamento della costruzione precedente. L’intero complesso di edifici venne trasformato in un nuovo cortile (A-29), che divenne l’asse centrale della nuova struttura. Il complesso articolato intorno allo spazio aperto presentava due corpi simmetrici, con stanze e nuove cappelle per il culto (A-1 e A-40). Come nelle altre fasi, si riscontra l’uso di matto-
fenicia in Occidente. Si può dire, in sintesi, che Astarte fece un lungo viaggio dall’Oriente all’Occidente, ed ebbe templi in tutto il Mediterraneo antico. I luoghi nei quali i Fenici si sono stabiliti possiedono in qualche modo testimonianze legate alla devozione alla dea. I suoi templi erano conosciuti e frequentati da viaggiatori e stranieri. Il suo culto era cosí importante che anche a
Roma la dea ebbe almeno due luoghi consacrati. Considerando il ruolo politico della divinità, non sorprende la presenza del suo culto anche nel Mediterraneo occidentale e in Iberia. La sua importanza e la sua capacità d’integrazione in altri contesti culturali facilitarono probabilmente l’insediamento delle comunità fenicie lontane dalle loro terre. La morfologia di Astarte è connessa alla protezione durante i
LA SIGNORA SFUGGENTE Astarte è la dea fenicia per eccellenza e un attento studio di Corinne Bonnet la identifica come una figura versatile, polimorfa, sfuggente. La sua personalità è carica di connotazioni particolari e sicuramente è stata adattata a diversi contesti. Questa divinità è assimilata a Baalat Gubal, Signora di Biblo, ma troviamo il suo culto anche a Tiro e Sidone, poi a Cipro e in tutti i centri dell’espansione
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ni crudi, l’intonacatura di pavimen- (A-29). La pavimentazione della ti e pareti e l’installazione di pan- corte esterna è in terra battuta e pigmenti di colore ocra. chine addossate alle pareti. Il nuovo edificio aveva un’ampia facciata aperta sullo spazio che daIL COMPLESSO A va accesso al complesso cultuale; E IL SUO ASSETTO Il nuovo complesso religioso, in- due stanze allungate (larghe 3/4 m stallato sul precedente, s’inscriveva e lunghe 15), utilizzate per la prein uno spazio rettangolare di 850 parazione del cibo e delle offerte, mq e si articolava intorno a un separavano il cortile centrale e le nuovo spazio di accesso aperto cappelle principali. L’insieme delle (Area 1) e al cortile centrale che nuove strutture è stato denominato divideva i due corpi simmetrici Complesso A e al suo interno si
viaggi, è soprattutto una figura tutelare, forse anche nell’oltretomba. In Fenicia è legata alle case reali, alcune delle principali figure politiche dell’Oriente sono suoi sacerdoti o sacerdotesse. La dea è anche la personalità sovrumana di riferimento per i riti legati all’amore, alla sessualità e alla maternità. Il suo culto è legato anche agli spazi acquatici: il mare, i fiumi, le paludi, le sorgenti. La sua capacità rigenerativa è associata a pratiche che simboleggiano il passaggio dalla luce alle tenebre, il ritorno in vita e la rinascita. Alcune attività agricole e, soprattutto, il cambio delle stagioni, come i solstizi d’inverno e d’estate, sono perciò momenti chiave nel calendario rituale dei culti legati alla coppia divina Baal e Astarte. È questo è quanto suggerisce il contesto generale del Carambolo con l’orientamento strategico del santuario. Nella pagina accanto: il cosiddetto Bronzo Carriazo, una placca in bronzo con Astarte fra due uccelli. Cultura tartessica, VII sec. a.C. Siviglia, Museo Archeologico. A destra: statuetta in lega di rame raffigurante Astarte su un lingotto. Produzione cipriota, 1200-1100 a.C. Oxford, Ashmolean Museum.
distinguono quattro aree: l’Area 1 costituiva l’accesso aperto prima del tempio; nell’Area 2, a sud-ovest, una recinzione separava questa zona dagli spazi cultuali e dalle cappelle che costituivano il nucleo centrale, o Area 3. Infine, nella cosiddetta Area 4, molto alterata dalle costruzioni del XX secolo, furono scavate fosse per depositi rituali. Fu in una di queste fosse che fu trovato il tesoro. Carambolo IV aveva un importante muro, largo 2 m e lungo fino a 26, che separava l’area sacra dagli spazi produttivi (Complesso B) fuori dal santuario. La cappella A-1, caratterizzata da rivestimenti colorati accuratamente rifiniti e panchine, è uno spazio interessante per lo studio del complesso rituale di El Carambolo, sia per il suo orientamento E-NE, sia per l’associazione con una struttura rettangolare interpretata come un altare. Infatti, durante i rifacimenti che in seguito interessarono l’intera area consacrata, questo spazio non subí variazioni sostanziali, mantenendo le sue caratteristiche dalla fase Carambolo IV al Carambolo II. La cella A-40, a pianta rettangolare e (15 x 6 m), comprendeva un altare a forma di pelle di bue e ha anch’essa gradini intonacati di rosso. Anche la pavimentazione era decorata con cura, e mostra segni di ripetuti interventi in diverse occasioni. Questi rifacimenti denotano l’importanza della struttura e la preoccupazione di mantenerne il pavimento in un perfetto stato d’uso. I pigmenti naturali, infatti, scoloriscono facilmente e, per evitarlo, si rendeva appunto necessaria un’opera di manutenzione quasi permanente per gli interni del tempio, cioè per la dimora degli dèi. Dal punto di vista simbolico, le caratteristiche della pavimentazione sono fortemente associate alla natura sacra dell’ambiente. Queste aree trattate cromaticamente sono interpretate come confini che delimitano i luoghi appartenenti alla a r c h e o 89
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divinità, segnati dal colore rosso intenso. Insieme all’altare a forma di pelle di bue della cappella A-40, sono stati trovati i resti di una struttura a base circolare, probabilmente usata per i sacrifici. Le cappelle conservarono l’allineamento con l’ingresso del tempio e il promontorio esterno durante tutte le fasi di ristrutturazione del santuario, e l’orientamento di questi spazi gemelli trova confronti architettonici nel santuario di Emar, in Siria, consacrato a Baal e Astarte. L’Area 4, all’esterno del complesso religioso, è risultata molto alterata, a causa della sua vicinanza alle costruzioni moderne (poi demolite per consentire l’esecuzione degli scavi nel 2002). Questa zona di fosse è stata interpretata come uno spazio aperto multifunzionale, nel quale
venivano depositati i resti delle offerte e delle attività rituali. In uno di questi depositi votivi, è stata trovata una catena d’oro realizzata con la stessa tecnica di quella adottata per la collana del tesoro. È stato recuperato anche un modello in ceramica che rappresenta una nave fenicia con una protome di cavallo sulla prua: tanto la nave, quanto il cavallo possono essere collegati all’iconografia della dea Astarte.
GRANDI MURI E NUOVI AMBIENTI La terza ristrutturazione del santuario, per effetto della quale esso raggiunse l’apice della sua monumentalità, è stata definita Carambolo III e si colloca alla fine dell’VIII secolo a.C., protraendosi fino alla metà del VII secolo a.C. Gli A sinistra: brocca in bronzo di produzione tartessica, dalla necropoli de La Joya, a Huelva. Fine del VII-inizi del VI sec. a.C. Huelva, Museo de Huelva. Nella pagina accanto: vaso decorato con figure di grifoni ascritto alla cultura tartessica, ma con evidenti influenze fenicie. VI sec. a.C. Carmona, Museo de La Ciudad.
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ambienti sacri furono nuovamente prolungati verso NE e ristrutturati. La costruzione di grandi muri di chiusura serviva a delimitare l’area religiosa. Furono aggiunti nuovi ambienti, probabilmente per il servizio dei sacerdoti, stanze amministrative, spazi per l’allestimento delle offerte e magazzini. Panchine decorate con motivi geometrici in ocra, nero e giallo vennero collocate in diverse aree e i pavimenti trattati con colore, ma, ancora una volta non mancano pavimentazioni di conchiglie, soprattutto nelle aree di transito. In questa fase venne distinto un nartece, o spazio porticato, che correva di fronte agli ambienti sacri, delimitando un’area di oltre 53 m di lunghezza, un lungo co r r ido io pavime n ta to c on Glycymeris colorate con ocra. Il Carambolo III viene definito come un temenos che delimitava uno spazio aperto simmetricamente, articolato intorno a un cortile centrale e orientato a est nel solstizio d’estate nel suo asse principale. Il nuovo santuario raggiungeva 4500 mq e 90 m di facciata. La cappella A-40 venne ampliata a nord, e fu aggiunta una stanza chiamata A-20, raggiungendo i 21 m di lunghezza e i 9 di larghezza. Sui gradini perimetrali al centro della stanza, quelli piú vicini all’altare, sono attestate decorazioni a scacchiera con colori alternati e motivi geometrici, cosí come un banco continuo in rosso sui due lati dell’ingresso e sul retro della cappella. Queste decorazioni ricordano le ceramiche e i tessuti che mostrano motivi geometrici e si trovano in tutta la regione mediterranea. Al centro della cella, l’altare a forma di pelle di bue misurava 4 m di lunghezza e 1,90 di larghezza. La cappella nota come A-1, gemella della precedente, subí leggere modifiche. Un fabbricato (A-4) fu aggiunto a nord, come per la cappella A-40, rispettando cosí l’approccio simmetrico esistente nell’articola-
zione costruttiva degli spazi. È interessante notare che i pavimenti di entrambe le cappelle erano praticamente puliti da residui e resti di materiale, il che dimostra, come nelle fasi precedenti, la continua manutenzione e cura di questi ambienti rituali. In un angolo di A-1 è stato tuttavia rinvenuto un accumulo di squame di pesce, probabile testimonianza di un’offerta alla divinità titolare dello spazio consacrato, verosimilmente l’Astarte legata al mare e ai pesci, come sembra dedursi anche dall’opera del filosofo Claudio Eliano, Sulla natura degli animali, in cui si ricorda la consacrazione del pesce ad Atargatis/Astarte. Come in A-40, le panche perimetrali di questa stanza erano decorate, in questo caso con un motivo a strisce parallele bianche e rosse. La fossa rituale nella quale fu trovato il tesoro si inquadra in questa fase di utilizzo del complesso religioso.
IL COMPLESSO B Tra la prima e la seconda metà del VII secolo a.C. la fase Carambolo II introdusse ulteriori trasformazioni. Fu creata una nuova area adiacente al muro nord-est dell’Area 4, chiamata Complesso B, uno spazio che corrisponde all’area scavata da Carriazo. La struttura simmetrica delle costruzioni continuò a caratterizzare il complesso, ma alcune stanze subirono una divisione interna. Queste innovazioni implicarono l’innalzamento del livello di utilizzo degli spazi, e nuovi muri furono costruiti sulla base di quelli demoliti. L’impianto architettonico del santuario rimase di fatto invariato, ma, a causa della suddivisione delle stanze, la circolazione tra gli spazi sacri risultava ormai alterata. Il cambiamento piú significativo, rilevato negli ambienti piú esclusivi delle pratiche rituali, riguarda la cappella A-40. L’altare a forma di pelle di bue venne sigillato e lo spazio interno suddiviso in quattro piccole stanze. In una di esse (A-13)
fu collocato un nuovo altare (1 x 0,80 m), conservando il carattere sacro del vano. I gradini realizzati ai lati e sul retro della cappella furono distrutti fino al primo livello, alzando di conseguenza la quota del pavimento. In questa fase del santuario, la cappella A-1, dedicata ad Astarte, non subí modifiche. Sul versante ovest del colle, inserite
nel cosiddetto Complesso B, accanto al recinto sacro ma al di fuori del temenos, furono incorporate costruzioni legate ad ambienti domestici annessi, aree di servizio e di produzione per il luogo di culto. L’ultima fase del santuario, Carambolo I, va dalla metà del VII fino all’inizio del VI secolo a.C. A causa della sovrapposizione delle costrua r c h e o 91
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zioni moderne, non si sono conservate molte testimonianze di questi ulteriori rimaneggiamenti. Sappiamo che la struttura del complesso religioso era la stessa delle fasi precedenti, ma non è stato possibile documentare altri dati riguardanti gli accessi, le pavimentazioni o le divisioni interne degli ambienti rituali. Il dato piú importante è che i cortili esterni furono suddivisi e non ebbero piú la funzione di aree di transito. Anche in questa ultima fase di vita del santuario i muri vennero rinforzati e fu innalzato il livello dei pavimenti. Nonostante le ristruttu- soro, non piú funzionale alle attività razioni, il vano A-1 mantenne fun- religiose del tempio, e la sua rimozione come parte del patrimonio zione e orientamento originari. liturgico del santuario di El Carambolo riflette le profonde trasformaDAI SACERDOTI zioni che precedettero l’abbandono AI FONDITORI Merita d’essere segnalato il fatto definitivo del colle. che il luogo nel quale si depositava- L’importanza dei ritrovamenti del no i resti delle pratiche rituali, de- Carambolo si rivela anche al connominato Ambito 4, fu in questa fronto con quanto sappiamo, piú in fase occupato da 14 fornaci, che si generale, sui santuari dell’estremo estendevano fino al Complesso B, Occidente durante questo periodo. oltre la precedente fase di abitazioni È chiaro che gli spostamenti dei e laboratori artigianali. Le fornaci gruppi di genti orientali erano acvennero utilizzate per fondere og- compagnati da determinate prassi getti metallici che facevano parte religiose; il viaggio, la creazione di delle suppellettili del tempio, alle una nuova sede e la sanzione ideoquali evidentemente non si attribu- logica del luogo coiva piú un valore particolare. Il cam- stituivano certabiamento nella destinazione d’uso mente processi che degli spazi sulla collina di Camas non potevano sfugrivela chiaramente la perdita della gire al controllo loro sacralità. Questo periodo è an- degli dèi, e nella che legato all’occultamento del te- fattispecie di Astar-
te, la dea protagonista dei movimenti fenici e titolare di luoghi di culto in tutto il Mediterraneo.
I CONFRONTI Nella penisola iberica sono stati recentemente messi in luce nuovi spazi, come per esempio in località La Rebanadilla, a Malaga. Gli scavi effettuati in occasione dell’ampliamento dell’aeroporto cittadino, condotti da Vicente Marcos Sánchez, hanno individuato una delle fasi di questo santuario, che corrisponde cronologicamente al Carambolo V, alla fine del IX secolo a.C. Come caratteristiche costruttive, ritroviamo la disposizione rettangolare e l’organizzazione intorno a un cortile a cui sono aggiunte due stanze gemelle. Sono stati utilizzati intonaci decorati in toni giallastri e panchine addossate ai muri ed è stata rinvenuta una pavimentazione con conchiglie. Anche in questo complesso le celle erano provviste di gradini da scendere per raggiungere l’ingresso allo spazio piú recondito. Da rilevare è anche la presenza di materiali che rivelano la funzione sacra di questi spazi: in particolare, nell’edificio 4, è stato ritrovato un
Sulle due pagine: fibule ed elementi di cinturoni in bronzo di varia foggia e tipologia, di produzione tartessica, da Huelva. VII-VI sec. a.C. Huelva, Museo de Huelva. 92 a r c h e o
altare rettangolare in mattoni crudi, associato a una cavità per alloggiare un betilo di culto. Alcuni degli oggetti di ceramica recuperati in questo sito, inoltre, provengono da diversi luoghi del Mediterraneo, come la Sardegna o Cipro. Anche nella città di Huelva, la cui occupazione risale al X secolo a.C., il ritrovamento di un gruppo di betili sulla via Mendez Nuñez sembra documentare la presenza di un luogo di culto. Non si conoscono strutture edilizie rilevanti in questo senso, ma ci sono materiali di grande importanza, come gioielli e offerte funerarie che presentano chiare affinità con la tradizione orientale.
UN PERCORSO SACRO LUNGO IL FIUME Come già accennato, l’estuario del Guadalquivir doveva costituire un itinerario sacro, del quale sono traccia le testimonianze dello spazio religioso localizzato a Coria del Río, molto vicino a El Carambolo e, come questo, orientato in direzione del sorgere del sole. Il santuario dell’antica Caura si trova in cima alla collina di San Juan. A partire da questa costruzione sacra, si sviluppò ortogonalmente un nucleo fenicio di abitazioni. Coria presenta una sequenza di occupazione antica di cui sono state rilevate fino a cinque fasi. Lo spazio religioso mostra qui caratteristiche costruttive simili a El Carambolo, soprattutto nelle espressioni architettoniche datate al VII secolo a.C. A Coria, oltre alla presenza di un altare a forma di pelle di bue in una cappella in cui furono installati banchi laterali nella fase definita come Santuario III, è stata rilevata la presenza di pavimenti di conchiglie. Tuttavia, questo spazio rituale aveva un tetto e non era delimitato da muri di cinta. A Coria, il pavimento e la banchina laterale furono decorati con pigmenti di colore rosso, gli stessi usati nei pavimenti in terra battuta e conchiglie del santuario di El Carambolo.
Esiste un altro centro che mostra prove di culti orientali; si trova a Carmona, nel Saltillo, un luogo piú interno, occupato da popolazioni levantine tra l’VIII e il VI secolo a.C. Qui è stato scavato un ambiente rettangolare (Area 6) pavimentato di rosso, in cui sono stati ritrovati tre grandi vasi di ceramica con decorazione simbolica, una processione di grifoni e fiori di loto. Questi pithoi erano collocati negli angoli del vano e il luogo fu riutilizzato come spazio di culto ancora in epoca romana. Per finire, piú all’interno, a Marchena (Siviglia), vi è poi il sito di Montemolín, posto su un’altura strategica tra Carmona e Osuna, con grande controllo visivo sul territorio. Qui sono state osservate le influenze delle popolazioni orientali nel cuore di Tartesso. Le costruzioni indigene a pianta ovale, caratter istiche dell’età del Bronzo Finale, furono sostituite nell’VIII secolo a.C. da edifici rettangolari con diversi ambienti, preceduti da un cortile e da un vestibolo, nei quali si evidenzia la presenza di un altare di pietra per i sacrifici e di locali annessi per la preparazione di cerimonie. In definitiva, possiamo osservare in
queste costruzioni che la definizione dello spazio sacro osserva uno schema basato sui templi orientali: l’organizzazione intorno a uno spazio aperto, l’unione di ambienti per il culto piú esclusivo in forma di sancta santorum, la decorazione rossa dei pavimenti e l’installazione di panchine. L’organizzazione interna dello spazio sacro presenta paralleli con i modelli orientali strutturati in vestibolo o pronaos, sala centrale o naos, e adyton, lo spazio piú esclusivo della divinità. La ricerca di cui si dà conto nell’articolo s’inquadra nel progetto Tarteso olvidado (en los museos), (Tartesso dimenticato [nei musei]), finanziato dal Ministero spagnolo per la Scienza, l’Innovazione e le Università (PGC 2018-097131-B-I00), ed è stata altresí inserita nel PRIN (Progetto di Rilevante Interesse Nazionale 2017): PeMSea, People of the Middle Sea: Innovation and Integration in Ancient Mediterranean 1600-500 BC, finanziato dal Ministero italiano dell’Università e della Ricerca. NELLA PROSSIMA PUNTATA • Il santuario di Tas Silg a Malta a r c h e o 93
SPECIALE • GROTTA GUATTARI
NOVE UOMINI IN GROTTA...
...PER NON PARLARE DELLA IENA A POCO PIÚ DI OTTANT’ANNI DALLA SCOPERTA, GLI ARCHEOLOGI SONO TORNATI A SCAVARE NELLA GROTTA GUATTARI, AL CIRCEO, UN CAPOSALDO PER LA PREISTORIA ITALIANA. E I RISULTATI DELLE INDAGINI HANNO DECISAMENTE SUPERATO LE ASPETTATIVE: LA «FAMIGLIA» NEANDERTALIANA CHE FREQUENTÒ IL SITO HA INFATTI VISTO CRESCERE CONSIDEREVOLMENTE IL NUMERO DEI PROPRI MEMBRI di Stefano Mammini 94 a r c h e o
A sinistra: il settore di Grotta Guattari (San Felice Circeo, Latina) denominato Antro del Laghetto: qui, operando nella stagione in cui l’acqua di falda si ritira, è stato scoperto un paleosuolo con un poderoso accumulo di ossa, fra cui anche 25 resti umani attribuibili all’uomo di Neandertal. A destra: alcuni dei resti ossei umani (vedi a p. 110 la descrizione dettagliata).
A
gli inizi dello scorso maggio, l’annuncio delle nuove scoperte compiute all’interno della Grotta Guattari, alle pendici del Monte Circeo, nel Lazio meridionale, ha avuto un’eco straordinaria, come accade talvolta all’archeologia, ma assai piú raramente alla preistoria. All’annuncio ha fatto seguito la presentazione ufficiale dei ritrovamenti, che costituiscono un’acquisizione di estremo interesse non soltanto per la storia delle piú antiche fasi del popolamento della regione pontina, ma, in termini piú generali, arricchiscono il quadro delle nostre conoscenze sull’uomo di Neandertal. Questo nostro antico «cugino» è infatti il protagonista principale della vicenda, a r c h e o 95
SPECIALE • GROTTA GUATTARI
anche se, in una prospettiva meno antropocentrica, occorre evidenziare che a Grotta Guattari vi fu un’altra attrice principale, la iena. A questo punto, però, è necessario fare un passo indietro e tornare al 1939, anno in cui il sito venne fortunosamente individuato e rivelò la presenza di un cranio neandertaliano – ribattezzato Circeo 1 dagli studiosi – eccezionalmente ben conservato.
LE PRIME ESPLORAZIONI Le prime indagini furono condotte da Alberto Carlo Blanc (vedi box a p. 108) e proseguite da Luigi Cardini: la rilevanza della scoperta apparve subito chiara, cosicché Grotta Guattari divenne ben presto un termine di riferimento imprescindibile negli studi di preistoria e antropologia. Un decennio piú tardi, nel 1950, Aldo Giacomo Segre diresse nuovi saggi, all’esterno e all’interno della grotta, in occasione dei quali fu recuperata una mandibola neandertaliana (Circeo 3). Il quadro sembrava dunque sufficientemente chiaro nell’indicare che il sito era stato frequentato dall’uomo di Neandertal in piú momenti, fra i 100 000 e i 60 000 anni fa.
A 90
Roma re ve
Te
Avezzano
Tivoli
Colleferro Aprilia SS7
Anzio
Roccaraso
Fiuggi
Frascati
Frosinone
Sora
Ceccano Ceprano E 45
Latina Fondi Terracina
San Felice Circeo
Pontecorvo
Formia Gaeta
In alto: cartina del basso Lazio, con la posizione di San Felice Circeo, cittadina nel cui territorio è situata Grotta Guattari. Sulle due pagine: un tratto della costa del Monte Circeo, il cui aspetto è simile a quello che possiamo immaginare per l’epoca della frequentazione del sito. Nella pagina accanto: due momenti dello scavo nell’Antro del Laghetto.
Cassino
Tuttavia, un primo, importante riesame del contesto si concretizzò con la pubblicazione, nel 1991, di uno studio approfondito e corposo sul cranio Circeo 1, nel quale si avanzava l’ipotesi che le alterazioni del reperto – consistenti soprattutto nel vistoso allargamento del foro occipitale – non fossero l’esito della consumazione rituale del cervello, fino a quel momento sostenuta, bensí dell’intervento di una iena. Ma, soprattutto, furono portate prove convincenti (segue a p. 100)
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SPECIALE • GROTTA GUATTARI A destra: disegno che ricostruisce le possibili fattezze di un uomo di Neandertal. La specie Homo neanderthalensis si diffuse intorno ai 350 000 anni fa e scomparve, repentinamente, verso i 35 000 anni fa: in entrambi i casi, le date possono variare secondo le diverse regioni di insediamento. Qui sotto: il frammento di cranio rinvenuto nella grotta di Feldhofer nel 1856 con altre ossa della specie umana che prese poi il nome di Homo neanderthalensis. Bonn, Rheinisches Landesmuseum.
A sinistra: cranio di Homo neanderthalensis scoperto ad Amud, Israele. 45 000 anni da oggi. L’individuo differisce da altri Neandertal europei soprattutto per quanto riguarda le arcate orbitali, il naso, la mascella e la parte posteriore del cranio. Caratteristiche che potrebbero essere derivate dall’adattamento ai climi piú caldi e asciutti della regione vicino-orientale. Nella pagina accanto: vetrata policroma con il ritratto di Joachim Neander. 98 a r c h e o
Sulle due pagine: cartina con i principali siti dei Neandertal e le direttrici della diffusione della specie sapiens (indicate dalle frecce di colore arancione): 1. Neandertal; 2. Spy; 3. Blache-St. Vaast; 4. Arcy-sur-Cure; 5. Châtelperron; 6. St. Césaire; 7. La Quina; 8. Le Moustier; 9. La Ferrassie; 10. Combe Grenal; 11. La Chapelle-aux-Saints; 12. La Borde; 13. Régordou; 14. Gorham’s Cave; 15. Forbes’ Quarry; 16. Zafarraya; 17. Tata; 18. Krapina; 19. Vindija; 20. Saccopastore; 21. Monte Circeo (Grotta Guattari); 22. Kiik-Koba; 23. Dederiyeh; 24. Tabun; 25. Amud; 26. Zuttiyeh; 27. Kebara; 28. Shanidar; 29. Teshik Tash; 30. Denisova; 31. Okladnikov.
«NASCITA» DI UNA SPECIE La storia moderna dell’uomo di Neandertal iniziò in Germania, alla metà dell’Ottocento. Qui, nei pressi di Düsseldorf, alla confluenza tra il fiume Düssel con il Reno, si snodava una stretta gola, le cui pareti erano formate da una pietra calcarea di qualità particolarmente buona, che determinò l’apertura di numerose cave e, nel 1854, venne fondata una società intenzionata a sfruttare le risorse dell’area. A seguito degli sbancamenti, in una cavità denominata Feldhofer Grotte, un professore di liceo, Johann Carl Fuhlrott, rinvenne parte di uno scheletro, tra cui la calotta cranica. Le sue caratteristiche – in particolare lo spessore delle pareti e la conformazione lievemente schiacciata – furono l’indizio determinante: apparve infatti evidente che la scoperta aveva fatto «risorgere» un uomo diverso da noi, a cui fu dato il nome di Homo neanderthalensis. Ma perché una simile denominazione? La ragione è abbastanza curiosa, poiché deriva dalla decisione di battezzare Neanderthal (letteralmente, Valle di Neander) la zona in cui era avvenuta la scoperta, in onore del pastore luterano Joachim Neander. Vissuto alla fine del Seicento, Neander fu un prolifico e apprezzato compositore di inni sacri e sembra che, per trovarne l’ispirazione, fosse appunto solito recarsi fra le grotte della gola. Nel tempo, la denominazione originaria è peraltro mutata in Neandertal (il vocabolo Thal, per valle, è un retaggio dell’antico tedesco), ormai quasi unanimemente accettata, e la «h» sopravvive solo nel nome scientifico.
SPECIALE • GROTTA GUATTARI
del fatto che, al momento del ritrovamento, il cranio non si trovasse nella posizione documentata da Blanc (vedi box alle pp. 106107). E di questa rilettura le recenti indagini possono in qualche modo essere considerate il logico corollario. A sollecitare l’avvio di nuove ricerche contribuí anche il convegno organizzato per celebrare l’80° anniversario della scoperta, tenutosi nel maggio 2019, in occasione del quale fu espresso l’auspicio che Grotta Guattari tornasse a godere di una fama che il tempo aveva almeno in parte fatto sbiadire. L’invito venne raccolto e, nell’autunno dello stesso anno, un’équipe di archeologi e altri specialisti avviava la campagna di scavi premiata da esiti che sono andati ben oltre le piú rosee aspettative. Finalità primaria, ma non esclusiva, dell’intervento era la messa in sicurezza del sito, cosí da permetterne la fruizione da parte del pubblico (che sarà presto realtà, grazie al completamento di un nuovo percorso di visita), cogliendo al tempo l’occasione per lo svolgiPALUDI
Torre Paola
PONTINE
Torre Vittoria
MONTE CIRCEO
San Felice Circeo
Monte Morrone Grotta Guattari
LE GROTTE DEL MONTE CIRCEO Pianta del Monte Circe con l’indicazione delle grotte litoranee. I siti furono oggetto delle esplorazioni di Alberto Carlo Blanc, che ne scoprí 27, accertando la presenza di numerosi depositi con tracce di frequentazione preistorica. 1. Grotta spaccata di Torre Paola; 2. Grotta aperta; 3. Grotta dell’Isolotto; 4. Grotta del Bombardiere; 5. Grotta Breuil; 6. Grotta della Maga Circe; 7. Spiaggia dei Bombardieri; 8. Grotta del Rimbombo; 9. Grotta dei Tre Luigi; 10. Grotta Anna; 11. Grotta della Fessura; 12. Grotta delle Palme; 14. Grotta dei Pesci; 15. Grotta dell’Alabastro; 16 e 17. Grotte di Torre Cervia; 18. Grotta dell’Acquario; 19. Grotta del Faro; 20. Grotta Elena; 21. Grotta del Fossellone; 22. Grotta dell’Impiso; 23. Grotta delle Capre; 24. Grotta Azzurra; 26. Grotta del Presepio; 29. Grotta del Cervide; 30. Grotta Stefanini; 31. Grotta di Torre Fico; 32. Grotta Guattari.
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In alto: un’altra immagine della costa del Circeo. La zona fu esplorata in maniera sistematica da Alberto Carlo Blanc, il quale, dopo i ritrovamenti effettuati durante la bonifica delle paludi pontine, si dedicò alla ricerca di possibili legami fra la frequentazione delle grotte litoranee e quella dell’entroterra (vedi pianta qui accanto). Nella pagina accanto, in basso: il paleosuolo dell’Antro del Laghetto in corso di scavo.
Antro del Laghetto
Antro dell’Uomo
Paleosuperficie
mento di nuove esplorazioni. Che si sono concentrate nella zona denominata, già da Blanc, Antro del Laghetto, un’area che, come il nome lascia intuire, da aprile a ottobre viene sommersa dalla risalita dell’acqua di falda. Qui nessuno dei precedenti scavatori aveva operato e quando, dopo aver atteso la stagione propizia, gli archeologi sono potuti intervenire, ai loro occhi si è svelata una situazione eccezionalmente favorevole: dopo avere rimosso la crosta calcarea generata dal ristagno dall’acqua, è apparso un paleosuolo composto da un ammasso caotico di ossa animali, di cui i successivi sondaggi hanno accertato il consistente spessore, pari a 60 cm circa.
In alto: planimetria di Grotta Guattari: nell’Antro dell’Uomo fu ritrovato il primo cranio, Circeo 1, mentre l’Antro del Laghetto è l’area che ha restituito la gran parte dei resti umani grazie ai nuovi scavi.
Soprattutto, però, ha confermato che, almeno in questa fase, l’uomo non era il cacciatore, bensí la preda: nell’Antro del Laghetto sono stati infatti trovati vari resti umani, 25 in tutto, riconducibili a vari 4 individui e comprendenti anche una calotta cranica, che fu trascinata fino a un anfratto nel quale, incastrandosi, si è conservata in condizioni particolarmente buone. Fra le prove della sorte toccata a questi nostri antenati spicca un femore, alle cui estremità (le epifisi) sono state osservate chiare tracce lasciate dai denti della iena (che aveva rosicchiato con par-
PRESENZE INATTESE L’accumulo – una vera e propria miniera di dati – si deve alle iene, che, come accennato all’inizio, furono a lungo gli inquilini di Grotta Guattari, in una fase che le prime analisi di laboratorio collocano tra i 65 000 e i 64 000 anni fa. I predatori, infatti, dopo averle cacciate, trascinavano nella grotta le carcasse delle loro vittime, per poi consumarne le carni. L’esame dei resti ha peraltro rivelato la presenza di specie che non si riteneva vivessero nella zona, come il leone delle caverne, il megacero (una sorta di grande cervo), il cavallo selvatico, e il Bos primigenius (uro). a r c h e o 101
SPECIALE • GROTTA GUATTARI Cartina dei principali siti italiani con tracce di presenza dell’uomo tra 1 300 000 e 30 000 anni fa, comprendenti importanti attestazioni di Neandertal. Fra queste ultime, alla luce delle recenti scoperte, Grotta Guattari assume una posizione di indiscussa rilevanza. Nella carta è indicato anche il profilo delle antiche linee di costa, che mostra come le terre emerse della nostra Penisola avessero, nel corso delle ere glaciali, un’estensione diversa dall’attuale.
ISERNIA LA PINETA Particolare di un calco del paleosuolo messo in luce alla periferia di Isernia, grazie agli scavi condotti sul giacimento preistorico scoperto nel 1979. Pur in assenza di resti umani, le ricerche hanno permesso il recupero di strumenti e materiali sicuramente attribuibili all’uomo e che, databili intorno ai 730 000 anni fa, rappresentano la prova di una delle piú antiche presenze nel territorio italiano. ▼
CEPRANO Questo cranio, rinvenuto a Ceprano (Frosinone) nel 1994, è, a oggi, uno dei piú antichi abitanti del continente europeo: databile a 800 000 anni fa, è attribuibile alla specie Homo erectus. ▼
principali siti italiani al tempo delle glaciazioni
1P irro Nord, Cava dell’Erba stimata a 1 300 000 anni fa manufatti in pietra
2M onte Poggiolo 800 000 anni fa
manufatti in pietra
3 I sernia La Pineta 700 000 anni fa
manufatti in pietra
4C eprano
430 000-385 000 anni fa resti di homo heidelbergensis arcaico
102 a r c h e o
5 Roccamonfina, Tora e Piccilli
385 000-325 000 anni fa impronte
6V isogliano
Pleistocene medio 700 000-125 000 anni fa
7P ofi
Pleistocene medio 700 000-125 000 anni fa
8C astel di Guido
Pleistocene medio 700 000-125 000 anni fa
9 Balzi Rossi, Grotta del Principe
230 000-325 000 anni fa homo neanderthalensis
10 B alzi Rossi, Grimaldi 25 000 anni fa
homo sapiens sepolture
11 S accopastore 120 000 anni fa
homo neanderthalensis arcaico
12 A ltamura
150 000-50 000 anni fa
homo neanderthalensis
13 G rotta del Bambino
homo neanderthalensis
14 M onte Circeo
125 000-60 000 anni fa
homo neanderthalensis
15 A rchi
40 000 anni fa
homo neanderthalensis
16 G rotta di Fumane 44 000 anni fa
homo neanderthalensis penne ornamentali
17 Caverna delle Arene Candide
A destra: questa calotta cranica, che presenta i tratti tipici dell’uomo di Neandertal, come per esempio la marcata accentuazione delle arcate sopraorbitali, è uno dei resti umani meglio conservati fra quelli recuperati nell’Antro del Laghetto. In basso, a destra: particolare dei resti di uno scheletro individuato in una grotta in località Lamalunga, presso Altamura (Bari). I resti, in larga parte coperti da incrostazioni calcaree, appartengono a un individuo che sembra ascrivibile alla specie Homo neanderthalensis.
ticolare accanimento queste parti dell’osso per garantirsi il prezioso apporto di calcio che esse fornivano alla dieta dell’animale). Ed è proprio questo, come accennato in precedenza, uno dei dati che corroborano l’ipotesi secondo cui il cranio Circeo 1 non sarebbe stato oggetto di alcuna consumazione rituale del cervello. Alle iene gli studiosi potranno in compenso essere riconoscenti, perché, per esempio, lo studio dei loro coproliti (gli escrementi fossilizzati) potrà fornire, grazie alla presenza di pollini, indicazioni sul tipo di ambiente della regione, definendo le specie vegetali che ne caratterizzavano il paesaggio. Osservazioni che, al pari di molte altre, concorrono a riba-
28 000 anni fa
homo sapiens sepolture rituali
18 G rotta Paglicci 24 000 anni fa
homo sapiens sepolture rituali, arte
19 O stuni
25 000 anni fa homo sapiens sepolture
20 B ilancino
30 000 anni fa
homo sapiens prime macinazioni
dire l’importanza dell’intero contesto di Grotta Guattari, da valutare, al di là dell’importanza dei singoli ritrovamenti, come una vera e propria banca dati. Il cui valore è accresciuto dal fatto che il sito, grazie al crollo che ne sigillò l’imbocco, non ha subito alcun tipo di contaminazione o alterazione dei depositi fino al momento della scoperta.
DOPO IL RITIRO DEL MARE Una banca dati che, peraltro, abbraccia un orizzonte cronologico assai ampio: anche le nuove ricerche, infatti, hanno confermato che la frequentazione di Grotta Guattari ebbe inizio piú di 100 000 anni fa, dopo il ritiro del mare, per effetto dei fenomeni legati a quello che i geologi definiscono interglaciale RissWürm (130 000 anni fa circa). La quota originaria delle acque marine è chiaramente visibile, grazie al livello della spiaggia fossile tirreniana, la cui sabbia ingloba una considerevole quantità di conchiglie. Divenuta praticabile, la grotta, al pari di molte altre del Circeo, fu dunque frequentata da gruppi di Neandertaliani, la cui presenza è confermata dai materiali restituiti dallo scavo del deposito situato all’esterno della cavità vera e propria. A differenza di quanto si tende spesso a credere, dobbiamo infatti immagina(segue a p. 109) a r c h e o 103
SPECIALE • GROTTA GUATTARI
SCOMPARVE ALL’IMPROVVISO, MA NON FU UNA PANDEMIA In tempi di Covid-19, merita d’essere segnalato il fatto che, fra le molte ipotesi avanzate per spiegare la repentina scomparsa dell’uomo di Neandertal, intorno ai 35 000 anni fa, non è mancata la pandemia. Immaginando un fenomeno simile alla decimazione delle popolazioni dell’America del Sud causata dalle malattie portate in quelle terre dai conquistadores, è stato ipotizzato che gli uomini anatomicamente moderni (Homo sapiens) venuti dall’Africa avrebbero diffuso nel continente europeo nuovi virus, a causa dei quali i Neandertaliani avrebbero contratto malattie fino a quel
momento sconosciute e sterminandone la popolazione. Per quanto suggestiva, sarà bene sottolineare che la scomparsa dell’uomo di Neandertal si consumò nell’arco di circa 10 000 anni e che una pandemia ha tempi decisamente piú veloci e brutali. Un’eventualità del genere potrebbe dunque essersi effettivamente prodotta in maniera circoscritta, in aree ben definite, ma non può certamente aver determinato la sparizione di tutti i gruppi neandertaliani, i quali, come l’archeologia ha provato, si erano diffusi in un areale vastissimo, che va dalla penisola iberica alla Siberia.
Disegno ricostruttivo nel quale si immagina un gruppo di Neandertaliani impegnato in una battuta di caccia.
104 a r c h e o
COSÍ SIMILI, COSÍ DIVERSI Il disegno mette a confronto in maniera schematica lo scheletro di un uomo anatomicamente moderno e quello di un Neandertaliano. È facile rilevare le differenze nelle proporzioni delle ossa e l’aspetto piú tozzo e robusto dello scheletro dell’uomo di Neandertal.
Uomo anatomicamente moderno (Homo sapiens)
Uomo di Neandertal (Homo neanderthalensis)
Collo sottile Collo robusto, piú stabile Clavicola corta, scapola stretta
Cassa toracica stretta Marcate curvature all’altezza delle vertebre lombari Avambraccio lungo in rapporto all’intero braccio Bacino stretto, con un corto pube
Mano sottile
Clavicola lunga e con curve marcate, scapola larga
Cassa toracica larga Tracce meno evidenti di lordosi lombare Avambraccio corto in rapporto all’intero braccio, radio con curvature accentuate ed estremità larghe Bacino largo, con un pube lungo Mano potente, estremità delle dita lunghe e pollice robusto
Femore robusto con estremità (epifisi) larghe e forti inserzioni muscolari Femore sottile
Tibia lunga in rapporto al femore
Tibia corta in rapporto al femore
Piede largo e robusto, con lunghe falangi alle estremità delle dita Piede sottile
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RIMESSO A POSTO, MA NON TROPPO A San Felice Circeo, il cavalier Alessandro Guattari possedeva un fondo con annesso albergo ai piedi del Monte Morrone, ultima propaggine del Monte Circeo. Fra i sui ospiti abituali figurava Alberto Carlo Blanc (vedi box a p. 108), che, sul finire degli anni Trenta del Novecento, spinto dai ripetuti ritrovamenti di materiali preistorici che avevano accompagnato la bonifica delle paludi pontine, aveva rivolto la propria attenzione al comprensorio del Circeo, con l’intenzione di rintracciare possibili collegamenti fra la sua frequentazione e quella dell’entroterra. Ne era cosí scaturita l’esplorazione sistematica delle grotte costiere, che ebbe notevoli riscontri. Ai primi di febbraio del 1939, in uno dei suoi frequenti soggiorni, lo studioso era stato informato da Guattari del ritrovamento di numerose ossa fossili di animali: Blanc aveva a quel punto invitato il suo ospite a prestare la massima attenzione nel condurre i suoi lavori sul campo, facendogli peraltro balenare la possibilità che, se avesse trovato resti umani e non piú solo animali, avrebbe avuto diritto a un premio in denaro per il loro rinvenimento. Pochi giorni piú tardi, l’avvertimento dell’archeologo assunse i toni di una premonizione: il 24 febbraio, gli operai di Guattari, impegnati nello scavare e trasportare terreno destinato a rincalzare alcune talee, videro 106 a r c h e o
sprofondare parte del terreno sul quale stavano lavorando e la frana rivelò l’ingresso di una grotta. Accompagnato da un operaio, il cavaliere penetrò all’interno, ma percorse solo qualche metro e uscí. L’indomani si introdusse nuovamente nella grotta e questa volta vi si trattenne piú a lungo, esplorandone vari ambienti. In uno di essi, vide, al centro di un circolo di pietre, un cranio umano e fu per lui istintivo raccoglierlo per osservarlo meglio, prima di posarlo nuovamente a terra. Poche ore piú tardi, Blanc, di ritorno dal suo viaggio di nozze a Napoli con la moglie Elenita, volle sostare a San Felice Circeo e Guattari lo informò subito della scoperta. A quel punto l’archeologo volle rendersi personalmente conto della situazione ed entrò nella grotta e, come riferí presentando ufficialmente la scoperta all’Accademia dei Lincei, il 4 marzo 1939, «[il cranio] giaceva quasi al centro dell’antro, verso il fondo, assieme ad ossa di Cervidi, Suidi ed Equidi, scheggiate, tra alcune pietre disposte circolarmente. Quando io lo vidi, il cranio giaceva sulla sua calotta, con la base rivolta in alto. Ma il Guattari mi disse che lo aveva preso tra le mani e che non escludeva di averlo rimesso al posto in posizione diversa da quella in cui originariamente si trovava, ché anzi si ricordava di aver visto in primo luogo la rotondità della calotta.
Questa affermazione e la natura e distribuzione delle concrezioni calcaree mi fanno ritenere che esso riposasse con la parte occipitale in alto». Blanc non poteva certo immaginarlo, ma la sua indiscussa autorevolezza di studioso, queste poche parole e un disegno che si è trasformato in una vera e propria icona di Grotta Guattari (vedi alla pagina precedente) hanno a lungo cristallizzato il dibattito sul sito. Accettando la tesi secondo la quale il fatto che il cranio, etichettato come Circeo 1, giacesse all’interno di un circolo di pietre e presentasse un vistoso allargamento del foro occipitale sarebbe stato prova di un caso di cannibalismo rituale o di una particolare cerimonia funebre a seguito della quale sarebbe stata comunque praticata l’asportazione della massa cerebrale. Fino a che, a oltre mezzo secolo dal ritrovamento, un gruppo composto da oltre 40 specialisti di varie discipline non ha riaperto questa sorta di cold
case. E i risultati sono stati senza dubbio clamorosi: grazie a un vasto spettro di analisi e osservazioni, è infatti apparsa piú che verosimile l’ipotesi – già da alcuni anni formulata da Marcello Piperno – secondo la quale le condizioni di giacitura di Circeo 1 e le alterazioni che esso presenta vanno riferiti all’azione delle iene. Il cadavere sarebbe stato smembrato e consumato da uno o piú di questi carnivori, che ne avrebbero trascinato il cranio all’interno della grotta, abbandonandolo dopo essersi cibati del cervello dell’individuo. A sostegno di tale interpretazione venne anche condotto un confronto etnografico tra il cranio di Grotta Guattari e una serie di 70 crani Papua sui quali era stato praticato l’allargamento del foro occipitale dopo il decesso. E Circeo 1 non presentò alcun elemento a questi paragonabile. Intuizioni di cui le nuove scoperte nell’Antro del Laghetto hanno confermato la giustezza oltre ogni ragionevole dubbio.
Nella pagina accanto: il disegno pubblicato da Blanc, nel quale veniva attestata la posizione del cranio Circeo 1 al momento del ritrovamento, con la calotta a contatto del piano di calpestio e il foro occipitale, allargato, verso l’alto. In basso: 25 febbraio 1939. Alberto Carlo Blanc nell’Antro dell’Uomo di Grotta Guattari.
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SPECIALE • GROTTA GUATTARI
IL «SECONDO» UOMO DEL CIRCEO Figlio del geologo e paletnologo Gian Alberto e di Maria Menotti, Alberto Carlo Blanc nacque a Chambéry nel 1906. Sulla scia del padre, coltivò da subito, accanto ad altri interessi scientifici, gli studi paletnologici sull’umanità pleistocenica. Nel 1934 si laureò in geologia all’Università di Pisa e fu assistente dell’Istituto di geologia dell’ateneo toscano fino al 1938, trascorrendo però parte dell’anno accademico 1936-37 a Parigi, presso il Laboratoire de géographie physique et géologie dynamique della Sorbona e all’Institut de paléontologie humaine. Nel 1940 ottenne la libera docenza in paletnologia e da quell’anno ebbe l’insegnamento di etnologia all’Università di Roma che tenne fino al 1957. Nello stesso ateneo insegnò, dal 1955, paleontologia umana e, dal novembre 1957, gli venne affidata la cattedra di paletnologia. In tutti questi anni, tuttavia, Blanc si impegnò innanzi tutto come di direttore scientifico della sezione romana e segretario generale dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana. Rivolse i suoi interessi principalmente allo studio dell’origine, dello sviluppo e della successione delle culture preistoriche della penisola italiana nel corso del Pleistocene. In particolare, coltivò lo studio delle formazioni quaternarie costiere del litorale tirrenico
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e adriatico, scoprendo numerosi giacimenti preistorici costieri con industrie paleolitiche in relazione stratigrafica con faune e flore fossili, con spiagge emerse o con terrazze fluviali a esse riconnettibili. Di questi indirizzi di ricerca sono testimonianza le ricerche nell’Agro Pontino e nella Bassa Versilia (Lago di Massaciuccoli, Castiglioncello, Canale Mussolini, Monte Circeo, Torre in Pietra), nel cui quadro si inseriscono, fra gli altri, l’esplorazione sistematica del promontorio del Circeo – che lo portò a individuare ben 27 cavità, alcune delle quali contenenti ricchi depositi paleolitici – e lo studio di Grotta Guattari. Ma il campo d’azione di Blanc fu ben piú ampio e a lui si deve la scoperta di molti altri giacimenti paleolitici, dalla Liguria sino ai confini della Calabria e delle Puglie; siti in cui risultarono attestate
frequentazioni riferibili a fasi diverse della preistoria: dall’industria paleolitica inferiore ad amigdale acheuleane di Torre in Pietra (Roma 1954) ai livelli paleolitici superiori del Fossellone (Monte Circeo) e del Riparo Mochi (Balzi Rossi, Ventimiglia). Particolare rilievo ebbero le scoperte ascrivibili al Paleolitico Medio: industria musteriana su ciottoli o «pontiniana» (Agro Pontino), micromusteriano denticolato (Fossellone), industria musteriana su calcare (Capo di Leuca, Puglia). In campo paleoantropologico, oltre al ritrovamento del cranio di Grotta Guattari, spicca il rinvenimento, nella località di Saccopastore (Roma) di tre mandibole, un molare e un cranio fossile appartenenti anch’esso a Homo neanderthalensis. Alberto Carlo Blanc si spense a Roma il 3 luglio 1960. (informazioni tratte dal Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani)
In alto, a sinistra: un’altra immagine di Blanc nel corso del sopralluogo condotto a Grotta Guattari il 25 febbraio 1939.
In alto: l’accumulo di ossa nell’Antro del Laghetto, attribuito all’attività delle iene. A destra: una iena moderna nel Parco Masai Mara del Kenya.
re che l’uomo utilizzasse sí le grotte, sfruttandone tuttavia le aree antistanti, dal momento che gli ambienti piú interni dovevano naturalmente risultare piú umidi e bui. Fu cosí anche a Grotta Guattari, nel cui deposito esterno sono stati trovati strumenti in selce e tracce di attività tipiche delle comunità di cacciatori-raccoglitori, quali erano appunto i Neandertaliani.Vi sono, per esempio, resti di ossa animali sui quali è stata osservata la pratica del depezzamento, attuata per ricavare dai capi abbattuti le parti commestibili; ma non mancano anche testimonianze dello sfruttamento secondario della a r c h e o 109
SPECIALE • GROTTA GUATTARI
Guattari 5 Cranio femminile, veduta frontale
Guattari 5 Cranio femminile, veduta superiore
Guattari 7 Diafisi di femore destro di probabile maschio adulto
DA PREDE A PROTAGONISTI Come si legge nell’articolo, la maggior parte dei resti umani recuperati grazie alle nuove campagne di scavo proviene dall’area del sito, l’Antro del Laghetto, nella quale le iene avevano accumulato le ossa delle loro prede. Fra di esse, c’erano dunque anche alcuni Neandertaliani e quelli riprodotti in questa immagine sono i materiali piú significativi fra quelli recuperati. L’esame dei diversi frammenti ha permesso di fissare a 9 il numero degli individui a cui appartenevano: un dato che fa di Grotta Guattari uno dei piú importanti giacimenti italiani, ma non solo, per la conoscenza dell’Homo neanderthalensis.
Guattari 9 Metatarso alluce di piede
Guattari 4 Cranio di probabile maschio adulto, veduta frontale
Guattari 6 Mandibola, sesso non identificato, veduta superiore
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ECHI DI UNA SCOPERTA A meno di due mesi dalla scoperta, Grotta Guattari meritò uno dei servizi del Giornale Luce del 12/04/1939. Facendo scorrere le immagini, la voce dello speaker spiegava: «Sulle falde del Monte Circeo, vetta superstite di un mondo da millenni sommerso, è stata recentemente scoperta una grotta, nella quale si sono fatti importanti ritrovamenti fossili. Un notevole numero di ossa di leoni, di daini e di ippopotami testimoniano l’ultimo periodo interglaciale. Ma il piú importante ritrovamento è stato quello del cranio di un uomo neandertaliano, vissuto circa 100 000 anni or sono». Nelle ultime sequenze, le riprese si spostavano in laboratorio, con l’antropologo Sergio Sergi al cospetto del cranio Circeo 1 e di quello di un sapiens, mentre la voce concludeva: «Osservate la differenza tra il cranio di un uomo moderno e quello basso e allungato dell’uomo di Neandertal». Fra le molte riprove di quanto l’interpretazione magicoreligiosa della scoperta avesse attecchito, si può invece citare il passo del documentario Antico e nuovo Circeo, girato da Emanuele Caruso nel 1955. In questo caso, la voce fuori campo spiegava: «Appena il Circeo emerse dal mare che lo aveva ricoperto In alto: l’antropologo fisico Sergio Sergi e Alberto Carlo Blanc con il cranio Circeo 1.
durante il periodo interglaciale, fu abitato dall’uomo di Neandertal, estinto da circa 50 000 anni. Ne è prova la Grotta Guattari che, chiusa da una frana, ha conservata intatta quella che fu la dimora di questo nostro progenitore, con le ossa degli animali da lui cacciati e spezzate per estrarne il midollo. Resti di elefanti, di rinoceronti, di iene, pantere, leoni vengono esaminati e quindi catalogati con rigore scientifico. Questo cranio umano mostra le enormi arcate sopraorbitarie e una frattura alla tempia destra. Fu trovato in un piccolo antro interno, forse riservato a cerimonie magico-religiose».
selvaggina, come nel caso degli strumenti in osso. Nell’antegrotta, è stata effettuata la ripulitura dei vecchi scavi, per poi procedere all’ampliamento dello scavo. Questo settore ha anche restituito altri resti umani, tra cui due denti. Dai quali è venuta un’altra indicazione di grande interesse: l’esame dei resti di tartaro ha infatti indicato che la dieta alimentare comprendeva un’elevata percentuale di alimenti vegetali, frutto dell’attività di raccolta e, implicitamente, segno del fatto che il gruppo aveva un’ottima conoscenza del territorio e delle sue risorse.
Nel sito pontino, grazie alle nuove scoperte, se ne contano oggi ben 9 rappresentanti, il che, anche in termini meramente quantitativi, colloca Grotta Guattari fra i piú ricchi giacimenti a oggi noti, proiettandolo in una prospettiva europea, che la avvicina a contesti come El Sidrón (Spagna) oppure Vindica e Krapina (entrambi in Croazia). Ecco perché, fra gli auspici per il prossimo futuro, c’è anche quello che San Felice Circeo – la cittadina in cui il sito è ubicato – possa divenire la sede di un centro internazionale per gli studi sull’Uomo di Neandertal.
UNA SPECIE AUTONOMA Sebbene sia un dato ampiamente acquisito, Grotta Guattari offre in questo senso una conferma palese delle potenzialità dell’uomo di Neandertal, il cui profilo è ormai lontano da quello immaginato al momento della sua scoperta (vedi box a p. 99). E non è un caso, del resto, che la terminologia stessa abbia abbandonato i vecchi criteri e riconosciuto i Neandertaliani come una specie autonoma della grande famiglia umana.
Gli scavi di cui si dà conto nell’articolo sono stati condotti dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone e Latina, sotto la direzione del funzionario archeologo Francesco Di Mario, che si è avvalso della collaborazione di Mauro Rubini, direttore del Servizio di Antropologia della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone e Latina, e di Mario Federico Rolfo, professore di archeologia preistorica dell’Università degli studi di Roma Tor Vergata. a r c h e o 111
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
QUANDO IL SONNO GUARISCE DORMIRE SOLTANTO PER RIPOSARE? NELL’ANTICHITÀ, ABBANDONARSI NELLE BRACCIA DI MORFEO SIGNIFICAVA ANCHE SOTTOPORSI A UNA PRASSI TERAPEUTICA. A PATTO DI NON ESSERE VITTIME DEGLI INCUBI NOTTURNI...
D
ella commedia di Eduardo Di Filippo Napoli milionaria!, andata in scena il 15 marzo 1945 al Teatro San Carlo di una Napoli ancora martoriata dalle ferite del secondo conflitto mondiale, è divenuta celeberrima la battuta «Ha da passà ‘a nuttata». Essa conclude, fornendo una luce di speranza, l’amara vicenda di colpa e possibile redenzione dei suoi personaggi, caduti spiritualmente nelle spire
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dell’illegalità e della borsa nera, ma redenti, forse, di fronte a un nobile gesto da parte di chi, pur essendo stato offeso, ripaga con la moneta della generosità. La frase ricorre piú volte nella parte finale dell’opera, dapprima pronunciata dal medico che ha ottenuto la medicina per risanare la figlia dei protagonisti, e che, dopo averla somministrata, spiega che, per esser certi della sua efficacia, «Mò ha da passà ‘a
nuttata. Deve superare la crisi». E la stessa frase ricorre poi in chiusura, quando la crisi da superare è, questa volta, tutta morale.
UN LEGAME ANTICO Il sonno ristoratore e apportatore di salute di guarigione è da sempre legato ai culti salutiferi del mondo antico, che prevedevano il rituale dell’incubazione (dal latino incubare, verbo tra i cui significati
c’è quello di dormire, giacere sopra e altri ancora, compresi gli incubi). Il sonno in specifici luoghi di un santuario metteva l’uomo in comunicazione con il mondo divino, dal quale ricevere risposte per le sue richieste; nel caso di malattie e cure relative, l’apparizione della divinità o di suoi rappresentanti concedeva il risanamento. Tali rituali conobbero fortuna anche nel mondo cristianizzato; per esempio, secondo un’ordinanza parigina del 1248, i malati che si recavano a Parigi in cerca di guarigione divina potevano passare la notte nella chiesa di Notre-Dame, dormendo nella cappella vicina alla seconda porta. Per non parlare poi dei grandi santuari salutari, come quello della veneratissima Madonna di Lourdes, dove però la salute è concessa dall’acqua.
I santuari di Asclepio, assai diffusi in tutto il mondo antico e fra i quali si annoverano quelli, celeberrimi, di Epidauro e dell’Isola Tiberina, a Roma, avevano un settore dedicato appunto all’incubazione, l’abaton («impenetrabile»), in cui il fedele passava la notte in attesa del sogno inviato dal dio, che tramite il suo sacro serpente o altri segni, indicava la via della guarigione o conferiva immediatamente il risanamento.
IL SERPENTE RIGENERATORE Nel santuario di Asclepio a Nora, in Sardegna, sono state trovate numerose statuette votive del II secolo a.C., anche di dormienti, tra cui una raffigurante un giovane che dorme ritualmente avvolto tra le spire del sacro serpente rigeneratore, simbolo e mezzo di salvezza. A Epidauro si trovava il principale luogo di culto di Asclepio, con un tempio al cui interno si ergeva la sua gigantesca statua crisoelefantina, forse opera di Trasimede di Paro (prima metà del IV secolo a.C.), descritta da Pausania (Guida della Grecia, II, 27, 2) e riprodotta su rilievi marmorei e sulle dracme battute a Epidauro del III secolo a.C., sulle quali il dio è raffigurato regalmente in trono, con il serpente davanti e il cane sotto il seggio. La presenza del cane è legata alla variante del mito relativo alla nascita di Asclepio diffusa a Epidauro e riportata sempre da Pausania (II, 26, 1-7): qui a Epidauro Asclepio fu partorito da Coronide, che lo espose sul monte prima denominato Myrtion e poi Titthion (capezzoli, riferiti all’allattamento del dio), dove fu nutrito da una capra e protetto da un cane, divenuto cosí animale sacro al dio; peraltro è noto che la saliva canina ha qualità
In alto: dracma d’argento di Epidauro (Argolide). 250-245 a.C. circa. Al dritto, testa laureata di Apollo; al rovescio, Asclepio, barbuto, seduto in trono con scettro, allunga la mano su un serpente arrotolato davanti a lui. Sotto il trono è sdraiato un cane. Nella pagina accanto: statuetta in terracotta raffigurante un giovane che dorme avvolto nelle spire di un serpente, da Nora. II sec. a.C. disinfettanti. Nei pressi del tempio si trovava il portico per l’incubazione, dove i fedeli, seguendo regole precise indicate dei sacerdoti, potevano recarsi soltanto in determinati settori per ricevere in sogno messaggi salvifici, veicolati anche dai fedeli animali di Asclepio.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Luigi Malnati
LA PASSIONE E LA POLVERE Storia dell’archeologia italiana da Pompei ai nostri giorni introduzione di Vittorio Sgarbi, La nave di Teseo, Milano, 216 pp., tavv. col. 20,00 euro ISBN 978-88-346-0537-0 www.lanavediteseo.eu
C’è piú passione che polvere in questa storia dell’archeologia narrata da Luigi Malnati. Il quale, con un approccio quasi «stratigrafico», offre una rassegna puntuale e sistematica di una vicenda ormai plurisecolare. L’autore prende infatti le mosse dai primordi della disciplina, quando, in realtà, ancora non si poteva definirla in questi termini, dal momento che i primi approcci ebbero carattere squisitamente antiquario e, sul campo, si tradussero in cacce al tesoro condotte senza alcun, almeno larvato, criterio scientifico. Il quadro assume contorni 114 a r c h e o
diversi all’indomani dei primi scavi condotti a Ercolano e Pompei e poi nel successivo XIX secolo, soprattutto quando, nei suoi decenni finali, entrano in scena Giuseppe Fiorelli e Giacomo Boni. Entrambi, infatti, intuiscono l’importanza della sistematicità e conducono indagini ancora oggi esemplari, resistendo, come nel caso di Boni e come ricorda Malnati, a non poche pressioni. Molti «archeologi» (le virgolette sono dell’autore) volevano che, nei suoi scavi al Foro Romano, l’architetto veneziano si liberasse velocemente degli strati giudicati privi di particolare interesse per raggiungere i livelli «promettenti». Per molto tempo, in ogni caso, le attività si svolgono in un quadro normativo insufficiente e solo nel 1939 l’Italia si doterà di una legge sulla tutela delle cose d’interesse artistico e storico, voluta dall’allora ministro dell’educazione nazionale, Giuseppe Bottai. Un testo, che, come si legge, è rimasto in vigore sino a tempi recenti. Ed è proprio quando affronta gli sviluppi dell’archeologia – in termini sia scientifici, sia normativi – nel corso degli anni a noi piú vicini che Malnati, come si diceva, assume toni di appassionata preoccupazione. Forte della lunga esperienza
maturata sul campo e dell’altrettanto profonda conoscenza della macchina amministrativa, lo studioso arriva infatti a presagire la possibile scomparsa della disciplina: un’eventualità postulata, crediamo, anche in forma di provocazione, ma che, nondimeno, impone una seria riflessione. Stefano Mammini Luigi Spina
SING SING Il corpo di Pompei 5 Continents Editions, Milano, 116 pp., ill. b/n 49,00 euro ISBN 978-88-7439-916-1 www. fivecontinentseditions.com
La ricerca sull’antico di Luigi Spina si arricchisce, con questo Sing Sing, di un nuovo ed emozionante capitolo, regalandoci, ancora una volta, immagini che sarebbe riduttivo considerare solo come fotografie. Il progetto si è sviluppato nelle stanze del deposito del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nelle quali sono stipate migliaia
di reperti provenienti dagli scavi di Ercolano e Pompei, locali situati nel sottotetto dell’edificio, ovviamente preclusi al pubblico e che perciò – come spiega Paolo Giulierini in uno dei testi che corredano il volume – si pensò di ribattezzare con il nome di uno dei piú celebri penitenziari statunitensi. Qui Spina ha colto la silenziosa e (per il momento, si spera) dimenticata bellezza di statue, vasellame, manufatti in bronzo e vetro che, dopo essere stati vittime dell’eruzione del 79 d.C., sembrano quasi aver subito una seconda cristallizzazione temporale. Com’egli stesso scrive, «C’è una coltre grigia che copre ogni cosa. (…) Queste celle contengono, in verità, le membra, parti di un corpo che non può piú ricomporsi. Il corpo sociale di una città è sparito per sempre inghiottito da una Natura crudele. (…) Per ogni oggetto c’è una storia spezzata. Una vita finita. Sing Sing è il corpo di Pompei». Ma, ci sentiamo di aggiungere, c’è ora anche una rinascita, che trae il suo soffio vitale dai magnifici scatti riuniti nel volume. E della quale ci dà conferma anche l’annuncio di Giulierini, scrivendo che i «principali capolavori torneranno a magnificare il pubblico nelle rinnovate sezioni vesuviane» del MANN. S. M.