Archeo n. 439, Settembre 2021

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2021

I VIGNETI DI ROMA

NAPOLEONE

DANTE E GLI ETRUSCHI

TAS SILG

SPECIALE LA VITE E IL VINO

Mens. Anno XXXV n. 439 settembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

STORIE DI VARIETÀ E RICCHEZZA

I LUOGHI DEL SACRO

VITE E IL VINO

ROMA

NELLA CITTÀ DEI VIGNETI

I MILLENNI DI UN SANTUARIO MALTESE

MOSTRE

NAPOLEONE ALLO SPECCHIO

IL SOMMO POETA ERA ETRUSCO?

ANNO DANTESCO

www.archeo.it

IN EDICOLA IL 7 SETTEMBRE 2021

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GE UR RU O SA RI LE SC M OP ME ww ER w. a rc TO h IL M

ARCHEO 439 SETTEMBRE

LA € 5,90



EDITORIALE

DIECI LITRI DI VINO IN UN SOL SORSO Come sanno bene anche i piú distratti lettori dei testi biblici (e come certamente sapeva il patriarca Noè, vedi Genesi 9. 20) «il vino allieta il cuore dell’uomo», mentre l’olio fa brillare il suo volto e il pane sostiene il suo vigore. Sembra che il Salmo 104, da cui è tratta la citazione, riveli una notevole affinità di contenuti con l’egiziano Inno al Sole, o Grande Inno ad Aton, testo sacro dell’antico Egitto risalente al XIV secolo a.C. e attribuito al faraone «eretico» Akhenaton. In Egitto, oltre alla birra, il consumo del vino (verosimilmente limitato alle occasioni religiose e rituali) è attestato sin dal III millennio a.C. Alla vite e alle prodigiose virtú dei suoi frutti Plinio il Vecchio dedica un intero libro, il XIV, della sua Naturalis historia: «Sunt et in vino prodigia» scrive al paragrafo 28, per poi scandalizzarci, qualche passo piú avanti, con una rivelazione che ancora oggi suona clamorosa. Sembra, infatti, che uno dei bevitori piú sprocedati dell’antichità sia stato un tale Novellius Torquatus Mediolanensis (di Milano), vissuto al tempo dell’imperatore Tiberio e in grado di tracannare dieci litri di vino in un solo sorso (una qualità per certi versi disdicevole, ma che non gli impedí, cosí sembra, di raggiungere nientemeno che la carica di proconsole). Chissà cosa pensano di quel loro esuberante antenato gli amici milanesi ai quali dobbiamo lo Speciale di questo numero… Il vino, dunque, è l’indiscusso sovrano delle bevande dell’antichità classica. Rimane ancora da chiarire la vexata quaestio circa il sapore di quell’amato e democratico liquido (in certe occasioni distribuito anche agli schiavi) che i Romani, per esempio, non bevevano mai allo stato puro, ma sempre mescolato ad acqua calda o fredda e addizionato con miele, timo, origano, sale, zolfo, resine varie, e perfino calce (per attenuarne l’acidità). C’è da stupirsi, allora, se l’imperatore Augusto – come narra Svetonio – quel vino proprio non lo reggeva e lo rigettava subito (dopo averne però ingurgitati ben sei bicchieri…)? Una soluzione al problema, in verità, ci sarebbe: dovremmo solo attingere al contenuto della misteriosa bottiglia, dalla capienza di circa 1,5 litri, rinvenuta nel 1867 in una tomba romana di Spira ed esposta al Museo Storico del Palatinato della città tedesca. È datata tra il 325 e il 350 d.C. e contiene... vino. O, perlomeno, qualcosa di simile. Sebbene molti studiosi vorrebbero stapparla per analizzarne il contenuto, altri hanno espresso parere contrario e, fino a oggi, il vitreo contenitore è rimasto sigillato. E forse è meglio cosí… Andreas M. Steiner

La bottiglia rinvenuta in una tomba romana di Spira. 325-350 d.C. Spira, Museo Storico del Palatinato.


SOMMARIO EDITORIALE

Dieci litri di vino in un sol sorso

3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE Il sito di Boker Tachtit, in Israele, restituisce nuove prove della convivenza fra uomo di Neandertal e Homo sapiens 6

A TUTTO CAMPO Lo studio di un particolare tipo di anfore sembra provare come il vino fosse al centro di una vera e propria guerra commerciale già in epoca etrusca 20

Grappoli d’uva a perdita d’occhio

34

di Daniele Manacorda

«Sommo poeta e pontefice etrusco»

34 € 5,90

www.archeo.it

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IL

w.a rc

o. it

IN EDICOLA IL 7 SETTEMBRE 2021

M GER UR U O SA RIS LE CO MM PE E RT O he

62

amministrazione@timelinepublishing.it

Presidente

Comitato Scientifico Internazionale

VITE E IL VINO

STORIE DI VARIETÀ E RICCHEZZA

Mens. Anno XXXV n. 439 settembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE LA VITE E IL VINO

Amministrazione

TAS SILG

Impaginazione Davide Tesei

DANTE E GLI ETRUSCHI

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it

LA

NAPOLEONE

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

In copertina scena dionisiaca con iniziazione di Arianna ai Misteri, rielaborazione da un vetro cammeo (Napoli, MANN) e da pannelli in marmo con Danza delle Menadi (Madrid, Prado).

Federico Curti

I VIGNETI DI ROMA

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

62

di Giuseppe M. Della Fina

2021

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

48 LETTERATURA

ARCHEO 439 SETTEMBRE

Anno XXXVII, n. 439 - settembre 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

48

di Massimiliano Munzi, Simone Pastor e Nicoletta Bernacchio

STORIA

di Alessandro Mandolesi

di Andreas M. Steiner

Napoleone allo specchio

di Sara Rojo Muñoz

ALL’OMBRA DEL VULCANO La Villa B di Oplontis apre per la prima volta le sue porte al pubblico, offrendo la possibiltà di seguirne in diretta il restauro 10

SCAVI A Gerusalemme, la scoperta di un tratto di muro conferma l’aspetto della capitale di Giuda nell’età del Ferro 16

MOSTRE

ROMA

NELLA CITTÀ DEI VIGNETI I LUOGHI DEL SACRO

I MILLENNI DI UN SANTUARIO MALTESE

arc439_Cop.indd 1

MOSTRE

NAPOLEONE ALLO SPECCHIO

ANNO DANTESCO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto

IL SOMMO POETA ERA ETRUSCO?

05/08/21 17:50

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Maria Giulia Amadasi Guzzo è stata professore ordinario di epigrafia semitica presso «Sapienza» Università di Roma. Cristiana Battiston è direttrice del Gruppo Archeologico Ambrosiano. Simone Bergamini è archeologo. Nicoletta Bernacchio è curatrice della mostra «Napoleone e il mito di Roma». Silvia Breccolotti è funzionario architetto del Parco archeologico di Ostia Antica. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Michele Cupitò è professore associato di preistoria e protostoria all’Università degli Studi di Padova. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Marco Firmati è direttore del Museo Archeologico del Chianti senese di Castellina in Chianti e del Museo Archeologico e della Vite e del Vino di Scansano. Giampiero Galasso è giornalista. Gianfranco Gazzetti è direttore nazionale dei Gruppi Archeologici d’Italia. Francesca Grassi è guida turistica. Marina Lo Blundo è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Daniele Manacorda è stato professore ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Simona Mileto è archeologa. Massimiliano Munzi è curatore della


LUOGHI DEL SACRO/8

Ad Astarte «signora di Malta»

68

di Maria Giulia Amadasi Guzzo

68 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Il tentatore riluttante 112 di Francesca Ceci

84 SPECIALE

La vite e il vino

112 LIBRI

114

84

testi di Andrea Zifferero, Marco Firmati e Valerio Zorzi, con contributi di Cristiana Battiston, Gianfranco Gazzetti, Alessandra Pecci, Massimo Vidale, Simona Mileto, Simone Bergamini e Michele Cupitò

mostra «Napoleone e il mito di Roma». Simone Pastor è curatore della mostra «Napoleone e il mito di Roma». Alessandra Pecci è professore associato di archeometria alla Universitat de Barcelona. Sara Rojo Muñoz è dottoranda in Scienze dell’Antichità e Archeologia all’Università di Pisa. Renato Sebastiani è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Tiziana Sorgoni è funzionario restauratore conservatore del Parco archeologico di Ostia Antica. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche all’Università di Siena. Valerio Zorzi è agronomo. Illustrazioni e immagini: Stefano Nava: tavole a colori in copertina e alle pp. 84-88, 90-93, 99, 110 – Doc. red.: pp. 3, 66-70, 72-79, 82-83 – Weizmann Institute of Science: Elisabetta Boaretto: pp. 6 (alto), 7 (basso) – Israel Antiquities Authority: p. 7 (alto); Omry Barzilai: p. 6 (basso); Clara Amit: p. 7 (centro) – Soprintendenza ABAP Marche: p. 8 – Parco archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Soprintendenza ABAP Friuli-Venezia Giulia: pp. 12-13 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 14, 15 (centro) – 3DS Max, Mental Ray, Photoshop: p. 15 (alto) – City of David: Koby Harati: pp. 16, 17 (basso, sinistra, centro e destra) – City of David Archive: Shalom Kveller: p. 17 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 20-22, 40-43, 45, 55 (sinistra), 80, 81 (basso), 106-109, 111, 112-113 – Ufficio stampa Maria Chiara Salvanelli: pp. 24-25 – Christian Montuori: p. 26 – Alamy Stock Photo: pp. 34-37 – da: Roma nell’altomedioevo: topografia e urbanistica, Roma 2004: p. 38 – Shutterstock: pp. 38/39, 39, 44 – Mondadori Portfolio: Erich Lessing/Album: pp. 48/49; Electa/Bruno Balestrini: p. 62 – Fine Art Images/Heritage Images: p. 63; AKG Images: pp. 64/65 – Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali pp. 50-51, 52 (alto), 54, 56-57 – Musée d’Yverdon et région: Sarah Carp: p. 52 (basso) – Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica: p. 53; Giuseppe Schiavinotto: pp. 58/59 – Comune di Milano, Galleria d’Arte Moderna: p. 55 (destra) – Andrea Zifferero: pp. 96, 86/87 – Giovanna Bosi: p. 97 (alto, sinistra e destra) – Cortesia Attilio Scienza: p. 97 (basso, a sinistra) – Valerio Zorzi: p. 97 (basso, a destra) – Andreas M. Steiner: pp. 98, 100 – Marco Firmati: pp. 101, 103 – da: Castellina in Chianti, Museo Archeologico del Chianti senese, Milano-Siena 2014: pp. 102/103, 104 (destra, alto e basso) – Museo Archeologico del Chianti Senese, Castellina in Chianti: pp. 104 (sinistra), 105 – Cippigraphix: cartine a p. 71; rielaborazione grafica alle pp. 94/95 (da: Gaetano Forni, La matrice euromediterranea della nostra viticoltura. La prospettiva pluridisciplinare, in Archeologia della vite e del vino in Toscana e nel Lazio, Firenze 2012). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCAVI Israele

UN’ANTICA CONVIVENZA

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a convivenza fra uomo anatomicamente moderno (l’Homo sapiens) e uomo di Neandertal si arricchisce di una ulteriore conferma, grazie alla ripresa degli scavi nel sito israeliano di Boker Tachtit, nel Parco Nazionale di Ein Avdat. Le nuove indagini hanno infatti rilevato un’area in cui individui delle due specie coabitarono, suggerendo che il loro incontro fosse avvenuto, nella regione del Negev, intorno ai 50 000 anni da oggi. Come ha dichiarato il direttore degli scavi, Omry Barzilai, «Boker Tachtit è, a oggi, il primo

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sito in cui sia documentata la presenza di Homo sapiens di provenienza africana e l’aver potuto datare la frequentazione a 50 000 anni fa implica che i nuovi venuti dovettero convivere con i Neandertaliani che, come da tempo accertato, erano già stanziati nella zona, e appare logico immaginare che ciascuna delle due specie fosse consapevole dell’esistenza dell’altra». Le ricerche sul campo sono state affiancate da esami di laboratorio, che hanno compreso l’analisi In alto, a sinistra: Omry Barzilai, direttore degli scavi a Boker Tachtit (Israele), esamina uno strumento in selce rinvenuto nel sito. Qui sopra: punta in selce databile a una fase antica del Paleolitico Superiore. A sinistra e nella pagina accanto: immagini dello scavo di Boker Tachtit, i cui ritrovamenti hanno attestato la convivenza fra Homo Sapiens e uomo di Neandertal, intorno a 50 000 anni fa.

radiocarbonica di un consistente campione di carboni. Come spiega ancora Barzilai, «i risultati avallano l’ipotesi che nell’area mediorientale ci sia stata una sovrapposizione fra la fase tarda della cultura musteriana, ascrivibile ai Neandertaliani, e la cultura emiratina che, nel Levante, viene associata alla comparsa dell’uomo anatomicamente moderno». Ricordiamo che la convivenza di Sapiens e Neandertal ebbe luogo nel corso del Paleolitico Medio (250 000-50 000 anni fa circa) e si concentrò soprattutto nella regione europea e nell’Asia centrale, mentre il Levante, e la regione di Israele in particolare, sembrano essersi trovati ai margini del fenomeno, pur avendo restituito tracce di entrambe le popolazioni. Gli studi sul DNA provano che, intorno ai 60 000 anni fa, gruppi di Homo sapiens si resero protagonisti di un massiccio fenomeno di migrazione dall’Africa verso l’Asia e l’Europa e, da lí, nel resto del mondo. Una diffusione che portò alla scomparsa dei Neandertaliani e alla loro assimilazione nella nuova specie. Lo studio dei dati offerti dal sito di Boker Tachtit sembra dunque avallare l’ipotesi secondo la quale, lungo le direttrici di questo grande movimento migratorio, vi siano stati episodi di interazione fra individui di gruppi diversi, che potrebbero aver compreso anche l’ibridazione, con relativo scambio di geni. Fenomeni che, nel caso specifico, si sarebbero verificati intorno ai 50 000 anni da oggi. (red.)

archeo 7


n otiz iario

SCAVI Marche

LO SGABELLO DEL GUERRIERO

U

n’importante tomba gentilizia di età picena, dotata di un ricco e articolato corredo funerario, è stata scoperta a Sirolo (Ancona), grazie a indagini di archeologia preventiva eseguite in un terreno di proprietà comunale alle pendici del Monte Conero. Il ritrovamento è avvenuto non lontano dall’area archeologica in località «I Pini», dove, a partire dagli anni Ottanta dello scorso, secolo era stata intercettata una delle quattro necropoli con tombe a circolo di Sirolo-Numana nota per la straordinaria scoperta della cosiddetta Tomba della Regina, considerata, con gli oltre 1700 reperti provenienti dal suo corredo – oggi in parte esposti nell’Antiquarium di Numana e in parte conservati nei depositi del Museo Archeologico Nazionale di Ancona –, una delle sepolture del tardo VI secolo a.C. piú ricche in termini quantitativi e qualitativi mai scoperte nel nostro Paese. «Le recenti indagini archeologiche – spiega Stefano Finocchi, funzionario archeologo responsabile dello scavo – hanno portato alla luce una sepoltura a inumazione della seconda metà del VI secolo a.C. che ospita un guerriero armato di elmo, lancia, spada lunga, pugnale con il suo fodero e ascia. Il guerriero venne sepolto assieme a un ricco corredo ceramico e bronzeo, oltre alle caratteristiche fibule – in bronzo, ambra e osso – collocate sul petto. La presenza di almeno due spiedi e di alcuni altri strumenti in ferro per la cottura delle carni sono riferimenti importanti per la pratica del banchetto. La tomba è scavata in una fossa terragna rettangolare, il defunto è deposto in posizione rannicchiata sul fianco destro e l’ampio corredo

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di accompagnamento è disposto oltre i piedi, dove è raccolta la maggior parte dei reperti ceramici. Dalla disposizione delle fibule possiamo ipotizzare che il defunto fosse stato avvolto da una veste e poi deposto sul fondo della fossa o meglio all’interno della cassa, al di sopra di uno strato di ghiaia, probabilmente marina: un rituale, questo, non esclusivo dell’area del Conero e che caratterizza l’età picena fin dai momenti iniziali. Lo status elevato del defunto è

In alto, a destra: la tomba a inumazione scoperta a Sirolo (Ancona), attribuibile a un guerriero di rango elevato. Qui sopra: gli spiedi in ferro. A destra: le fibule collocate sul petto del defunto. testimoniato da alcuni particolari oggetti bronzei, quali, per esempio, una oinochoe di tipo rodio con orlo trilobato da attribuire forse a produzione etrusca e connessa al consumo del vino e una cista di bronzo a cordoni perfettamente conservata. Il reperto piú affascinante e che piú degli altri rappresenta il rango e la magnificenza del personaggio è uno sgabello pieghevole portatile (diphros) realizzato con elementi e sottili aste di ferro con terminazione a borchie di bronzo inserite entro un disco d’avorio, che reggevano il piano di seduta

originariamente in stoffa o cuoio. Nel mondo etrusco (e poi anche romano) lo sgabello è simbolo di alte cariche pubbliche nella vita politica della città: la presenza di questo oggetto in questa ricca deposizione potrebbe far ipotizzare che il defunto possa aver ricoperto una carica pubblica-politica nell’ambito della comunità picena di età arcaica di Sirolo-Numana». Le indagini che hanno portato alla scoperta della sepoltura si sono svolte sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche. Giampiero Galasso



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

TUTTI A CASA DI LUCIO CRASSO! SEBBENE SIA ANCORA IN CORSO DI RESTAURO, LA VILLA B DI OPLONTIS APRE LE SUE PORTE AL PUBBLICO: UN’OCCASIONE UNICA PER AMMIRARE IL GRANDIOSO COMPLESSO E ASSISTERE ALLA SUA RINASCITA

U

na bella novità nel panorama dei siti visitabili gestiti dal Parco Archeologico di Pompei. Ogni venerdí – in attesa degli interventi di restauro che consentiranno di rendere fruibile l’intero complesso – è

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infatti possibile accedere per la prima volta alla cosiddetta Villa B di Oplontis, conosciuta anche come Villa di Lucius Crassius Tertius. Piú che una villa, in base ai materiali rinvenuti e alla funzione degli ambienti, è probabile che

Una fase degli interventi di restauro che stanno interessando la Villa B di Oplontis, un complesso piú probabilmente identificabile con un’azienda agricola dotata di una parte residenziale e appartenuta, forse, a Lucius Crassus Tertius.


si trattasse di una apprezzata azienda, non lontana dalla Villa A, detta «di Poppea» (da cui dista 300 m circa), dedita alla lavorazione di prodotti agricoli provenienti dal territorio e all’imbottigliamento e al commercio del vino locale, dotata comunque di un elegante quartiere residenziale al piano superiore. All’interno del complesso, che risale alla fine del II secolo a.C., con rifacimenti successivi, è stato rinvenuto un anello sigillo di Lucius Crassius Tertius, probabilmente il proprietario dell’edificio o il gestore dell’azienda commerciale prima della sua distruzione.

UN ARIOSO PORTICATO Scoperta casualmente nel 1974 durante lavori edilizi, la struttura appartiene probabilmente a una grande insula di un centro abitato ancora da esplorare, delimitata a nord da una strada sulla quale si aprono delle case-botteghe non comunicanti con la villa. L’edificio è incentrato attorno a un arioso porticato a due ordini di colonne doriche in tufo grigio di Nocera, intorno al quale si dispongono ambienti di servizio e a uso produttivo, fra cui depositi di anfore da vino, olio, garum e frutta, oppure di calcolo dei pesi dei prodotti o ancora all’immagazzinamento di frutta da lavorare. Gli scavi condotti fra il 1984 e il 1991, concentrati sul settore meridionale della costruzione, hanno evidenziato otto ambienti voltati affacciati su un portico colonnato, all’epoca rivolto verso la marina, di cui oggi rimane visibile soltanto un breve tratto. I materiali scoperti al loro interno – vari contenitori, suppellettili con resti organici, pesi in marmo e terracotta, attrezzi e oggetti in metallo, oltre a una grande quantità di melograni inframezzati da strati di fieno – documentano che questi ambienti erano rimasti in uso come magazzini fino all’eruzione del 79

In alto: uno scorcio della Villa B di Oplontis, con il porticato a due ordini di colonne doriche. A destra: anfore rinvenute in uno degli ambienti del complesso adibiti a magazzino.

d.C. Uno di essi, l’ambiente 10, diventò purtroppo la tomba di un gruppo di persone che, tentando di sfuggire alla catastrofe, cercò riparo al suo interno. Alcuni individui avevano con sé monete e gioielli, ornamenti in osso e avorio, monete d’oro e d’argento, suppellettili in bronzo. La maggior parte degli oggetti preziosi fu trovata accanto ai corpi, evidentemente avvolti nelle vesti o racchiusi in contenitori di cuoio, stoffa o corda, ma in altri casi si rinvennero direttamente indosso alle persone. Il piano superiore era invece a destinazione residenziale, verosimilmente per i titolari delle attività commerciali, affrescato con pitture di IV stile pompeiano e un esempio in II stile riferibile alla prima fase di vita dell’edificio. Fra i

ritrovamenti spicca una cassa blindata in legno rinforzata da fasciature in ferro e dotata di un complesso sistema di chiusura, ma finemente decorata in lamine di bronzo e sulla fronte da accurate lettere in agemina d’argento che citano in greco i nomi dei suoi artefici, Pythonymos, Pytheas e Nikokrates, attivi nell’officina di Eraclide fra III e II secolo a.C. Non è da escludere che parte delle monete e dei gioielli trovati insieme ai fuggiaschi dell’ambiente 10 possano provenire proprio da questo elegante forziere. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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n otiz iario

SCAVI Trieste

DAVANTI SAN GIUSTO

A

Trieste, in via della Cattedrale, in prossimità della scalinata antistante il piazzale della chiesa di S. Giusto, sono recentemente tornati alla luce i resti di una imponente struttura muraria, forse riconducibile ai sistemi di difesa bassomedievali della sommità In alto: il blocco in pietra calcarea utilizzato come elemento di reimpiego e sul quale si conservano tracce di una iscrizione. A sinistra: la struttura a pianta circolare di epoca tardo-romana, identificata con un frantoio, grazie anche alla notevole quantità di noccioli di olive trovati sul fondo. del colle di San Giusto. E il successivo ampliamento dell’area di scavo ha portato alla scoperta di altre significative testimonianze archeologiche. «L’approfondimento – spiega Paola Ventura, funzionario archeologo – ha rilevato che il poderoso muro, edificato con orientamento traverso rispetto all’asse viario romano, si imposta su preesistenti strutture, solo parzialmente rimesse in luce, ma riconducibili al terrazzamento di epoca romana alto-imperiale. Le fondazioni della muratura ora individuata poggiano inoltre sui resti di una struttura circolare di epoca tardo-romana, che mostrava ancora tracce dell’incendio di un rivestimento in tavole di legno, interpretata come frantoio grazie anche alla presenza di un livello di noccioli di olive sul fondo. Fra gli elementi riutilizzati, di cui era fatto largo impiego per la sua costruzione, spicca un imponente blocco calcareo, con i fianchi riquadrati da cornici e sulla fronte tracce di un’iscrizione, della quale si conservano poche lettere su almeno quattro righe, di cui due in parte

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leggibili [---]ILAR[---] / [---]CL[---]. La prosecuzione delle indagini al di sotto del frantoio ha permesso di stabilire che esso poggiava sull’ultimo livello di frequentazione associato al sistema delle murature circostanti. Un ulteriore sondaggio condotto in profondità ha permesso

di individuare una sequenza di piani pavimentali: il primo è associato all’impronta di una vasca destinata alla raccolta dell’acqua proveniente da una canalizzazione di tubuli in terracotta, realizzata attraverso uno dei muri; il secondo ha restituito una componente di A sinistra e in basso: l’esterno e l’interno del Propileo, inglobato nel campanile della cattedrale di S. Giusto.

canalizzazione idrica in bronzo; il terzo copre un potente scarico di frammenti riconducibili a svariate tipologie ceramiche con cronologie comprese tra il I e il III secolo d.C. È molto plausibile che il blocco iscritto provenga dall’area soprastante, ove insistevano i monumentali Propilei, riccamente decorati e databili alla metà del I secolo d.C., la cui parte meridionale è visibile sotto il sagrato della cattedrale di S. Giusto (con accesso dal limitrofo Museo d’Antichità «J.J. Winckelmann»), mentre quella settentrionale è conservata in elevato fino all’attico, in quanto inglobata nel campanile altomedievale e poi trecentesco: qui si è recentemente concluso un intervento di restauro e di verifiche stratigrafiche, per una migliore conoscenza, contestuale alla restituzione al pubblico di questo monumento finora troppo poco noto. Le recenti scoperte, a cui faranno seguito analisi, restauro e rilievi, dimostrano la complessa sequenza di frequentazione e destinazioni d’uso dell’area culminante della città antica». Le indagini di archeologia preventiva di cui si dà notizia sono state condotte in occasione della riparazione di una perdita della rete idrica nella parte alta della città: finanziate dalla società AcegasApsAmga, sono state eseguite dall’impresa Archeotest srl di Trieste, sotto la direzione scientifica della SABAP FVG. Le indagini archeologiche al Propileo all’interno del campanile, su incarico della Soprintendenza, dalla Malvestio Diego snc di Concordia Sagittaria (VE) e il restauro, reso possibile grazie a un service del Rotary Club Trieste, dalla Opera Est sas sempre di Trieste. Giampiero Galasso

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

LE NAVI RIPRENDONO IL LARGO È ORMAI PROSSIMA LA RIAPERTURA DEL MUSEO DELLE NAVI DI FIUMICINO, CUSTODE DEGLI STRAORDINARI RELITTI SCOPERTI ALLA FINE DEGLI ANNI CINQUANTA, DURANTE LA COSTRUZIONE DEL VICINO AEROPORTO

I

l Museo delle Navi di Fiumicino ospita una delle piú importanti collezioni di navi antiche del Mediterraneo; i suoi cinque relitti formano un insieme eccezionale: tre imbarcazioni fluviali per il trasporto delle merci lungo il Tevere tra Portus e Roma, una nave da trasporto marittimo e una delle rare barche da pesca di età romana dotata di un acquario centrale per conservare il pesce vivo. Alla fine degli anni Cinquanta i lavori per la costruzione dell’Aeroporto di Fiumicino rivelarono imponenti strutture murarie, interpretate come il molo settentrionale e la banchina orientale del bacino del porto di Claudio. All’epoca si ipotizzò che il porto avesse un ingresso a nord, come suggerito da numerosi disegni antiquari del XVI-XVII secolo. Oggi le ricerche archeologiche hanno dimostrato che l’ingresso del porto di Claudio doveva invece trovarsi a ovest, dove due lunghi moli, uno settentrionale, in parte visibile, e uno meridionale – al contrario coperto da metri di sedime e sotto l’attuale città di Fiumicino – convergevano verso l’imponente Isola Faro, citata dalle fonti ma della quale è incerta l’esatta posizione. Negli scavi degli anni Cinquanta, sopra la banchina emersero la cosiddetta

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«Capitaneria» – edificio multifunzionale che ha restituito una volta dipinta sulla quale è raffigurato il faro –, un piccolo impianto termale e una cisterna nell’adiacente area di Monte Giulio. Ma il ritrovamento che fece piú scalpore, tra il 1958 e il 1965, fu

In alto: lo scavo di una delle navi romane scoperte a Fiumicino. Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione di Portus alla luce delle piú recenti ipotesi. Nella pagina accanto, al centro: l’allestimento delle navi nel nuovo progetto del Museo delle Navi.


proprio quello degli scafi lignei di cinque imbarcazioni di età romana. Scoperta che diede il via alla costruzione del Museo delle Navi sul luogo del rinvenimento.

UN MUSEO SUL SITO L’esigenza di realizzare in breve tempo un luogo per conservare ed esporre al pubblico le navi portò alla costruzione di un edificio minimalista, simile a un cantiere navale. Anche l’allestimento interno seguí questo concept con il posizionamento delle due imbarcazioni di maggiori dimensioni in altrettante vasche navali. Il Museo fu inaugurato nel 1979, con un allestimento all’avanguardia per il suo tempo; nel tempo, però, con l’evoluzione delle normative, emersero i limiti di un progetto strutturale semplice e a basso costo, tanto che nel 2002 si dovette chiudere il museo. Da allora, una lunga serie di interventi ha interessato l’edificio: bonifica dall’amianto, rafforzamento delle travi in acciaio della copertura, consolidamento della struttura portante e delle fondazioni; il tutto senza spostare le imbarcazioni in altra sede perché troppo fragili. Da ultimo, grazie a un consistente

finanziamento nei Grandi Progetti Strategici del Ministero della Cultura, è stato possibile realizzare il progetto per il completo rinnovamento del Museo. Il cantiere ha visto al lavoro decine di professionisti e operai impegnati nel rifacimento delle dotazioni impiantistiche, nell’efficientamento energetico, nel rinnovamento degli esterni, nell’abbattimento delle barriere architettoniche, nel nuovo allestimento espositivo. Il cuore della nuova esposizione sarà costituito dagli scafi delle navi, che verranno interessati da un ampio intervento conservativo, basato sull’analisi dello stato di fatto e sulla documentazione tecnica dei precedenti interventi. La finalità è duplice: garantire la conservazione delle navi e ristabilire condizioni conservative adeguate, per consentire la fruizione del pubblico. I restauri saranno condotti in sito, al

completamento della nuova struttura museale. Concepiti come un work in progress, senza smontare le navi dai supporti, prevedono la messa in opera di una teca trasparente, al cui interno si effettueranno gli interventi conservativi, davanti agli occhi dei visitatori. Il percorso di visita si snoderà su due livelli, a piano terra e sulla passerella aerea che corre lungo le pareti e tra le due grandi chiatte fluviali al centro della sala, permettendo la vista dei relitti a diverse altezze, la chiglia e l’opera viva, la linea di immersione, le parti conservate dell’opera morta e infine la visione complessiva dall’alto delle imbarcazioni. Il visitatore sarà accompagnato in un percorso che mostrerà la struttura delle navi, i metodi costruttivi, l’armamento delle imbarcazioni, l’impianto di Portus, la vita che si svolgeva a bordo e nel porto, ciò che le navi trasportavano. Infine, la sala multimediale racconterà la vita tra mare e fiume e, attraverso due touch screen, permetterà di approfondire l’esperienza di visita. Silvia Breccolotti, Marina Lo Blundo, Renato Sebastiani e Tiziana Sorgoni

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n otiz iario

SCAVI Israele

GERUSALEMME: ECCO IL MURO MANCANTE

«N

ell’anno nono del suo regno, nel decimo mese, il dieci del mese, Nabucodonosor re di Babilonia, con tutto l’esercito, marciò contro Gerusalemme, la circondò da tutte le parti e le costruí intorno opere d’assedio (...). Al nono giorno del quarto mese, quando la fame dominava la città e non c’era piú pane per la popolazione, fu aperta una breccia nelle mura della città (...). Il settimo giorno del quinto mese (...) Nabuzardan, capo delle guardie, ufficiale del re di Babilonia, entrò in Gerusalemme, bruciò il tempio, la reggia e tutte le case di Gerusalemme, dando alle fiamme tutte le case di lusso. Tutto l’esercito dei Caldei, che era con il capo delle guardie, demolí il muro intorno a Gerusalemme (...). Nabuzardan capo delle guardie deportò il resto del popolo che era

Gli archeologi Filip Vukosavovic, Ortal Kalaf e Joel Uziel (a destra) davanti alla porzione di muro dell’età del Ferro. Nella pagina accanto: in basso, da sinistra a destra, alcuni reperti emersi durante lo scavo del muro: un sigillo babilonese; lo stampo di sigillo con il nome Tsafan iscritto in antico ebraico; manico di recipiente con decorazione a cerchi.

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stato lasciato in città, quanti erano passati disertori al re di Babilonia e il resto della moltitudine. Il capo delle guardie lasciò alcuni fra i piú poveri del paese come vignaioli e come campagnoli (...). Cosí fu deportato giuda dal suo paese» (Secondo Libro dei Re, 25, 1-21). La lunga citazione ben introduce la recentissima scoperta, avvenuta nella cosiddetta «Città di David» (vedi «Archeo» n. 435, maggio 2021; anche on line su issuu.com) all’estremità sud-orientale della Città Vecchia di Gerusalemme. L’episodio evocato dal passo biblico si riferisce, infatti, alla fase finale del conflitto che, per anni, aveva visto il piccolo regno di Giuda – all’epoca vassallo di Babilonia – ribellarsi a Nabucodonosor II. Nel 586 a.C., il sovrano babilonese, al suo 18esimo anno di regno, conquista Gerusalemme,

distruggendo il leggendario tempio di Salomone e completando la deportazione della popolazione, iniziata già dopo il primo assedio della città, nel 597 a.C. Il calendario religioso ebraico ricorda quel luttuoso evento nel nono giorno del mese di Av (Tisha BeAv). Quale doveva essere l’aspetto della capitale di Giuda prima della distruzione babilonese? E la città era, veramente, cinta da un muro di fortificazione, come vuole il racconto biblico? Lo scorso luglio è stato presentato il rinvenimento di un ampio tratto murario, alto 3 m e profondo 5, situato lungo la scarpata orientale della Città di David prospiciente la Valle di Kidron. Il muro si connette a due scoperte simili – un tratto di muro fu portato alla luce negli anni Sessanta del Novecento dall’archeologa britannica Kathleen Kenyon nella


Disegno ricostruttivo di Gerusalemme circondata da un muro di fortificazione, come doveva apparire prima dell’assedio babilonese del 586 a.C.

parte nord della città, un secondo fu scavato dall’israelianoYigal Shiloh negli anni Settanta, nella parte meridionale – e oggi permette di ricostruire il percorso delle mura di fortificazione orientali della città per una lunghezza di quasi 200 m. «Il muro fu costruito verso la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C.», spiega Joe Uziel, condirettore

degli scavi condotti dall’Israel Antiquities Authority. E, se messo in relazione con ritrovamenti di coeve porzioni murarie in altre parti di Gerusalemme (tra cui una possente struttura, lunga 45 m, rinvenuta nel quartiere ebraico della Città Vecchia), l’ipotesi che la città dell’età del Ferro fosse interamente circondata da un muro

di fortificazione (come illustrato nel disegno ricostruttivo in questa pagina) diventa sempre piú plausibile. Insieme alla certezza che, contrariamente a quanto riferito dal racconto biblico, non tutte le mura di Gerusalemme furono rase al suolo dall’esercito di Nabucodonosor. Andreas M. Steiner

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

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INCONTRI Paestum

INSIEME PER NETTUNO

A

ttenzione alla valorizzazione del patrimonio culturale del territorio, sinergia di studio e ricerca, tensione alla sperimentazione e all’innovazione. Su queste direttrici si muove la collaborazione nata da tempo tra l’Università degli Studi di Salerno e il Parco Archeologico di Paestum e Velia. Il rinnovo dell’accordo tra i due enti (il primo era stato sottoscritto nel 2018), disegna nuove prospettive di cooperazione interistituzionale, alla luce della sinergia operativa già sviluppata negli anni e di cui sono testimonianza diverse iniziative congiunte messe in campo. Il progetto del monitoraggio sul tempio di Nettuno è una tra queste. Frutto di un programma di ricerca realizzato dal Parco Archeologico in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Civile dell’ateneo salernitano, con il coordinamento di Luigi Petti, il progetto utilizza sensori di ultima generazione e consente di misurare in tempo reale ogni minimo movimento che investe il tempio meglio conservato della Magna Grecia. La realizzazione della rete di monitoraggio ha visto il coinvolgimento di Fabrizio Barone, con l’impiego di sensori del tipo UNISA Folded Pendulum, sviluppati dallo stesso presso l’ateneo di Salerno. Il monitoraggio del tempio trova origine e ispirazione nel progetto «Seismic Response Control of Rigid Block Systems by using Tendon System-TeSSPACS» (responsabile scientifico del progetto è Uwe Dorka, dell’Università di Kassel, mentre responsabile scientifico locale è Luigi Petti), che ha visto anche il coinvolgimento di 8 studenti salernitani, che hanno sviluppato un tirocinio e la tesi a Kassel, godendo del programma Erasmus. Per lo studio del tempio, sono state messe in campo anche iniziative interdisciplinari, con la partecipazione del gruppo di ricerca

Due immagini del tempio di Nettuno a Paestum, oggetto del progetto di monitoraggio condotto dal Parco Archeologico di Paestum e Velia in collaborazione con l’Università di Salerno.

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Il direttore della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, Ugo Picarelli (primo, a sinistra), con Vincenzo Loia, rettore dell’Università degli Studi di Salerno (al centro) e Massimo Osanna, direttore generale dei Musei del Ministero della Cultura. UNISA coordinato da Salvatore Barba e la partecipazione di esperti nel settore del rilievo e restituzione di beni architettonici e monumentali. Altro capitolo significativo della sinergia UNISAParco è la pubblicazione nel 2019 del primo bilancio sociale del Parco Archeologico. Lo studio, tra i primi in Italia per quanto attiene ai beni culturali, ha visto il coinvolgimento di quattro Dipartimenti dell’Università di Salerno e rappresenta un importante strumento di comunicazione, teso a favorire e stimolare un sistematico dialogo sui temi della ricerca, della tutela, della valorizzazione e fruizione, evidenziando i risultati raggiunti e segnalando le direttrici da percorrere per gli sviluppi futuri. A queste attività si aggiungono le indagini (coordinate da Fausto Longo) presso l’Athenaion e lo scavo didattico per gli alunni della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, che sarà esteso alla istituenda Scuola Interateneo. L’Università di Salerno sarà presente con il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale alla XXIII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, che avrà luogo dal 25 al 28 novembre presso il Tabacchificio Cafasso e il Parco Archeologico, che dell’evento è promotore unitamente alla Regione Campania e alla Città di Capaccio Paestum. Info www.borsaturismoarcheologico.it



A TUTTO CAMPO Sara Rojo Muñoz

IL VINO ETRUSCO: UNA CONCORRENZA TRA GRAND CRU? GRAZIE ALLA LORO FORMA, ALCUNE CLASSI DI ANFORE POSSONO RIVELARE, IN DETERMINATI CONTESTI, L’ORIGINE DEL CONTENUTO E LA SUA QUALITÀ. E LA REPLICA DEL MEDESIMO TIPO CI AIUTA A RICOSTRUIRE UNA «GUERRA DEL VINO», SENZA ESCLUSIONE DI COLPI, TRA CERVETERI E VULCI

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arziale, poeta centro produttore del I secolo fabbricava le proprie Caeretana Nepos ponat, Setina putabis. d.C., segnala il vino anfore, possiamo Non ponit turbae, cum tribus illa bibit di Caere (Cerveteri) dire che le rotte dei come una bevanda vini antichi sono Se Nepote ti versa il vino di Caere, ti sembrerà di Sezze. da intenditori, da quasi tutte ben Non lo versa a tutti, lo beve con tre amici condividere al conosciute, dalle (Marziale, Epigrammi XIII, 124) massimo con tre vigne sino al luogo di persone. Come consumo: tra le piú Caere, molte città dell’Etruria sono note per la foggia e la qualità del menzionate dalle fonti, quali terre contenuto vanno ricordate le anfore di eccellenza per la coltura della provenienti dalle isole di Chio e di vite e per il carattere pregiato Samo. Dal VI secolo a.C. fino a tutto dei vini (in particolare quelli di il periodo romano, il vino è una Gravisca, Statonia, Luni, Fiesole, voce importante nell’economia Arezzo e Chiusi): per essere delle città mediterranee: il calcolo ricordati da poeti, naturalisti della quantità di anfore rinvenute e scrittori di tecnica agraria, i negli scavi è essenziale per vini prodotti in terra etrusca ricostruire le quote di mercato che dovevano aver raggiunto un livello ciascun centro si assicurava sui qualitativo tale da affermarsi nel luoghi di consumo. già variegato panorama vinicolo del Mediterraneo antico. FORME «SORELLE» Nel periodo etrusco e in età romana Nell’ultimo quarto del VII secolo la fama di un vino dipendeva quasi a.C. anche gli Etruschi iniziano a sempre, oltre che dai caratteri commerciare vino, in particolare nel organolettici, anche dalla sua Mediterraneo occidentale: è presenza sui mercati: il commercio possibile accertare se vi fosse dei vini si studia oggi con le carte di concorrenza tra le città nel distribuzione dei contenitori promuovere i propri prodotti? impiegati per il loro trasferimento La risposta potrebbe nascondersi Anfora da vino del tipo Py 3B, dal sito via mare, cioè le anfore da dietro un’anfora di forma stretta e di La Cougourlude a Lattara (Lattes, trasporto. Dal momento che ogni allungata, classificata Hérault, Francia).

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Qui sotto: un’anfora Py 3A dal relitto de La Love (Cap d’Antibes, Francia).

In alto: anfore ceretane nel relitto Grand Ribaud F (Var, Francia) in fase di scavo. A sinistra: anfora Py 3A, dal sito de La Liquière (Calvisson, Francia). In basso: anfore ceretane nel relitto Grand Ribaud F (Var, Francia).

grand cru (come si chiamerebbe oggi), subito riconoscibile dal contenitore, che conveniva trasportare in due formati (uno multiplo dell’altro), pronti per la vendita al dettaglio: la bevanda ebbe un grande successo nel Mediterraneo nord-occidentale durante molta parte del VI secolo a.C., stando agli eccezionali ritrovamenti di anfore nei siti celtici della Francia meridionale e iberici della Catalogna. Ma quale città produceva il tipo Py 3? I primi dati sulle Py 3B e 3A, emersi negli anni Ottanta del secolo scorso, indicano Caere: le anfore

dall’archeologo francese Michel Py con il tipo 3B, in grado di contenere 7 litri circa di vino. Il tipo 3B era l’anfora piú piccola, soprattutto se confrontata con la sorella maggiore, la 3A, di forma piú panciuta e capacità esattamente tripla (circa 21 litri di vino). I due tipi sono spesso associati nei carichi delle navi onerarie affondate nel Mar Tirreno e nel Mar Ligure: tra le piú note, quella di Cap d’Antibes, lungo la Costa Azzurra. Le dimensioni di queste anfore fanno pensare a un

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L’emporion di Lattara (Lattes, Hérault), uno dei punti di arrivo e distribuzione del vino etrusco nel Sud della Francia. sono riconoscibili da un impasto argilloso a copertura rosso-bruna, tipico delle officine ceretane. Tuttavia, i dati raccolti da archeologi francesi e spagnoli nei siti del Golfo del Leone hanno messo in luce una quantità consistente di tipi anforici identici, ma con impasto argilloso di color arancione, spesso ricoperto con uno scialbo chiaro e farinoso al tatto, molto diverso dall’impasto ceretano. Officine ceretane che impiegavano argille di provenienza diversa? Caere che controllava il mercato del vino (e quindi la coltivazione dei vigneti) in altri centri dell’area etrusca, imponendo la forma delle proprie anfore come sigillo di qualità? Ammettiamo invece un’altra ipotesi: le sensibili differenze nell’impasto indicano due luoghi di fabbricazione distinti: il recente

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ritrovamento di scarti di lavorazione di anfore in pasta arancione, in officine situate tra Marsiliana d’Albegna e Doganella, nella bassa Valle dell’Albegna (che corrispondeva alla parte settentrionale del territorio di Vulci), ha sciolto i dubbi residui.

UNO SCENARIO IN CONTINUA EVOLUZIONE Difficile dire quale città le abbia prodotte per prima, dal momento che è presente in contesti vulcenti e ceretani piú o meno nello stesso periodo, tra la fine del VII e i primi anni del VI secolo a.C. Possiamo però seguirne la storia, che testimonia un incremento deciso e costante delle esportazioni di vino vulcente nella prima metà del VI secolo a.C.; intorno al 550 a.C. gli archeologi francesi e spagnoli

osservano un cambiamento, motivato dalla netta prevalenza delle anfore ceretane su quelle vulcenti; in seguito la situazione cambia ancora, con la comparsa di nuovi tipi, di produzione sia vulcente che ceretana. La produzione di Caere sarà prevalente e durerà piú a lungo, fino alla scomparsa delle anfore etrusche dai mercati. Non sappiamo ancora chi abbia inventato queste anfore (forse Vulci?) e chi le abbia copiate: si intuisce, tuttavia, una forma di concorrenza tra le due città, per assicurare quote di mercato sempre piú consistenti ai propri vini. In conclusione, una guerra commerciale che sembrerebbe vinta, alla lunga, dai viticoltori ceretani, in uno scenario decisamente... attuale! (sara.rojomunoz@phd.unipi.it)



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MOSTRE Marche

QUELLA MAGNIFICA DOZZINA

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tre anni esatti dalla sua scoperta a Corinaldo, in località Nevola, una tomba principesca del VII secolo a.C. è protagonista della mostra che racconta la storia di ricerca, scoperta, studio e valorizzazione che ha caratterizzato il progetto, presentandone i risultati e le metodologie adottate. Le ricerche che hanno portato al ritrovamento si inseriscono nel Progetto ArcheoNevola, che, avviato nel 2017, mira allo studio della valle del Nevola e delle sue antiche dinamiche di popolamento. Questo programma punta su metodi di esplorazione territoriale non invasiva, dando ampio spazio all’analisi aerofotografica, per esempio attraverso ricognizioni aeree, e

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In alto: la sepoltura a fossa ribattezzata Tomba del Principe di Corinaldo. VII sec. a.C.


alle prospezioni geofisiche per la mappatura del sottosuolo, unite alle modalità di lavoro piú tradizionali degli scavi archeologici e ricognizioni di superficie. La scoperta nasce proprio da un sorvolo di passaggio lungo la vallecola del fiume Nevola, quando gli archeologi si accorgono di due tracce circolari, esempi di «cropmarks», che richiamano i fossati anulari di celebri necropoli delle Marche meridionali, come quelle di Matelica o Fabriano. Una fortunata concatenazione di eventi ha permesso di far partire subito una campagna di indagini non invasive, che hanno consentito di ottenere una descrizione In alto: vaso biconico in ceramica d’impasto. A sinistra: schiniere in bronzo, uno degli oggetti del corredo funebre che attestano l’eminente ruolo politico e militare del defunto. Nella pagina accanto, in basso: kantharos (tazza a un manico) frammentario in ceramica di impasto.

dettagliata e puntuale di ciò che era sepolto e di poter programmare le operazioni di scavo. Sono cosí tornati alla luce i resti di un monumento funerario delimitato da un grande fossato circolare, con una fossa deposito colma di oggetti di corredo, quasi cento elementi, che attestano il rango aristocratico del defunto, connotandolo come un leader politico, militare ed economico dell’ambito culturale piceno di VII secolo a.C. Per l’esposizione sono stati selezionati dodici reperti, un numero esiguo rispetto al totale rinvenuto, ma che ben documenta la ricchezza della sepoltura e del personaggio celebrato. Si tratta di dodici pezzi che meglio esprimono le componenti ideologiche piú rappresentative del corredo e della sua molteplicità di significati: un elmo e uno schiniere celebrano la dimensione del potere politico e militare, il carro simboleggia il possesso terriero, la cerimonia del banchetto funebre è rappresentata dai contenitori per accogliere e versare cibi e bevande, e il sacrificio carneo con le pratiche del taglio e della cottura delle carni animali dedicate viene evocato dall’ascia, dagli spiedi e dagli alari. (red.)

DOVE E QUANDO «Il tesoro ritrovato. La tomba del Principe di Corinaldo» Corinaldo (Ancona), Pinacoteca Comunale C. Ridolfi fino al 30 gennaio 2022 Orario ma-gio, 17,00-19-00; ve-do, 10,00-12,30 e 17,00-19,00; lunedí chiuso Info tel. 071 7978636; e-mail: iat1@corinaldo.it www.corinaldoturismo.it

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MUSEI Campania

LA STORIA A 360 GRADI

È

stato inaugurato ad Avella, borgo in provincia di Avellino, il MIA, Museo Immersivo e Archeologico, allestito nel Palazzo Baronale «Alvarez de Toledo». Il museo si compone di due sezioni: una archeologica, in cui sono conservati i tesori della storia avellana, e una immersiva, uno spazio innovativo pensato per le giovani generazioni, agevolando l’apprendimento di concetti e notizie storiche. La prima sezione è, a sua volta, suddivisa in sale espositive, organizzate secondo un criterio cronologico e tematico. Il museo virtuale, invece, si snoda lungo un percorso di nove sale, alle quali si aggiunge una sala educational, per offrire esperienze di immersione a 360°. Questo è l’ultimo anello di congiunzione tra la preistoria e i giorni nostri e qui subentra la realtà virtuale, con riprese con drone VR a 360° che restituiscono quattro momenti storici significativi: la necropoli, con la ricostruzione in computer grafica di un rito funebre romano; lo scontro tra gladiatori nell’anfiteatro; la vita al castello, con una parentesi sulla condizione femminile; e la Avella di oggi, storica, ma anche turistica. Riproduzioni 3D di reperti, infine, sono state poste in modo da autodescriversi a livello sonoro se appoggiate sull’apparato sensoristico di un tavolo, a vantaggio dei visitatori ipovedenti. Francesca Grassi

DOVE E QUANDO MIA, Museo Immersivo e Archeologico Avella, Palazzo Baronale Info Ufficio SIAT tel. 081 8289320 o 380 4309703 e 320 9479173; Facebook: MIA Avella

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Particolari dell’allestimento e delle dotazioni multimediali del Museo Immersivo Archeologico recentemente inaugurato ad Avella nel locale Palazzo Baronale.



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

COPIARE NON È VIETATO

Luciano Calenda

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La Grecia è un Paese a forte vocazione turistica e ha mantenuto questa caratteristica anche in tempi di pandemia, non esitando a potenziare l’offerta di francobolli promozionali, nel solco di una politica già in atto da diversi anni. E cosí, in questi «difficili» 2020 e 2021, ha emesso molti pezzi dedicati alle proprie bellezze naturali, ma ancor di piú al suo patrimonio archeologico. Eccone dunque una selezione. Per Atene e l’Acropoli ci sono state due serie di 5 valori ciascuna, una in versione diurna, con il Partenone (1) e l’altra notturna, con la Loggia delle Cariatidi (2). Ecco poi la via Sacra di Delfi (3) rimasta intatta quasi come era circa 2500 anni fa, con i Tesori ai lati; in fondo si vede quello degli Ateniesi, riprodotto in primo piano in un altro francobollo (4). Ancora Delfi è protagonista con il tempio di Atena Pronaia (5) e il celebre Auriga, che si può ammirare nel locale museo (6). Rimaniamo in terraferma, a Micene: la Porta dei Leoni (7) accoglie i turisti da tutto il mondo e li introduce, subito dopo averla varcata, nella 8 Tomba dei re e nelle rovine della prima cinta muraria dell’antica città (8). Spostandosi sulle isole, a Creta non si può mancare il Palazzo di Cnosso (9), con i magnifici affreschi, tra cui quello degli acrobati nel «gioco del toro» (10). L’isola di Mykonos non vanta testimonianze archeologiche, ma di lí si deve partire per visitare Delo, uno spettacolare museo archeologico a cielo aperto (11). A Rodi i resti del Tempio di Atena sull’acropoli di Lindos (12) sono una delle attrattive principali dell’isola, sebbene la sua ricostruzione non sia stata tra le piú felici. C’è spazio, però, anche per monumenti meno noti, ma non per questo meno importanti. Una serie di 5 francobolli ha ricordato i teatri greci nell’Epiro, il piú conosciuto dei quali è quello di Dodona (13). Le scelte delle autorità postali greche rendono insomma un ottimo servigio al proprio patrimonio archeologico, operando una scelta che potrebbe essere imitata dall’Italia, un Paese piú che ricco di siti e monumenti antichi, spesso inseriti nel tessuto urbano e che meriterebbero un richiamo e un’evidenza specifica. Valga, come esempio, il francobollo dedicato a Palermo (14): tutti conoscono la città siciliana e, allora, perché non ricordare il tempio dorico incompiuto di Segesta, finora riprodotto solo in un annullo in Italia o, addirittura, su un francobollo americano realizzato con l’ausilio di un computer (15)?

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it


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VIAGGIO NELLE TERRE

LEGGENDARIE GEOGRAFIE IMMAGINARIE, DALLA MITICA ATLANTIDE AL FAVOLOSO ELDORADO

La perduta Atlantide è la piú famosa, ma non certo la sola: sono infatti innumerevoli le terre immaginarie la cui storia leggendaria è nata e si è alimentata nel corso dei secoli. Vicende di volta in volta associate a personaggi reali, come nel caso del filosofo Platone – primo «testimone» del continente scomparso –, oppure fantastici, quale il misterioso Prete Gianni, potente re delle «tre Indie». Mondi che hanno composto una geografia immaginaria, ma non troppo, se pensiamo ai navigatori partiti alla loro ricerca al tempo delle grandi esplorazioni o ai cartografi che non mancarono di segnalarne la presenza nelle loro mappe.

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E poi universi fiabeschi, culle di utopie a lungo vagheggiate, come il Paese di Cuccagna, che per il popolino del Medioevo divenne simbolo della piú ambita delle aspirazioni, cioè quella di vivere senza dover faticare, ma, soprattutto, avendo sempre qualcosa da mettere sotto i denti… In altri casi ancora, furono luoghi piú che tangibili ad assumere i contorni della leggenda, come accadde alla rocca di Alamut, passata alla storia per essere stata la base della Setta degli Assassini, le cui imprese, nelle cronache del tempo, si colorirono di toni mirabolanti... Nel nuovo Dossier di «Medioevo» il fascino senza tempo di saghe sospese fra mito e realtà.


CALENDARIO

Italia ROMA Colori dei Romani I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.09.21

«Il mondo salverà la bellezza?» Prevenzione e sicurezza per la tutela dei Beni Culturali Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 04.11.21

Napoleone e il mito di Roma

Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 07.11.21

CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante

Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 30.09.21

CENTURIPE (ENNA) Segni

Da Cézanne a Picasso, da Kandinskij a Miró, i maestri del ‘900 europeo dialogano con le incisioni rupestri di Centuripe Centro Espositivo «L’Antiquarium» fino al 17.10.21

CORINALDO (AN) Il tesoro ritrovato

La tomba del Principe di Corinaldo Pinacoteca Comunale C. Ridolfi fino al 30.01.22

CORTONA Luci dalle tenebre

L’eredità di Cesare e la conquista del tempo

Dai lumi degli Etruschi ai bagliori di Pompei MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 12.09.21

Musei Capitolini fino al 31.12.21

Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 07.01.22

I marmi Torlonia

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 09.01.22

BRESCIA Palcoscenici Archeologici Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22

CANINO (VT) La Sfinge di Vulci

Museo della ricerca archeologica di Vulci fino al 26.09.21 30 a r c h e o

ESTE Le fiere della vanità L’Arte delle Situle Museo Nazionale Atestino fino al 03.10.21

MANTOVA La città nascosta

Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

MILANO Sotto il cielo di Nut

Vivere tra terra e acqua

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 30.01.22

Dalle palafitte preistoriche a Venezia Palazzo Corner Mocenigo fino al 31.10.21

NAPOLI Gladiatori

VULCI (CANINO, VT) Gli ultimi Re di Vulci

Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22

ODERZO L’anima delle cose

L’aristocrazia etrusca vulcente alle soglie della conquista romana Museo Archeologico di Vulci fino al 31.12.21

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 31.10.21

Francia

PITIGLIANO (GR) Leoni, sirene e sfingi

2 milioni di anni di storia della pietra scheggiata, dall’Africa alle porte dell’Europa Musée national de Préhistoire fino al 15.11.21

Animali fantastici e dove trovarli Museo Civico Archeologico della civiltà etrusca «Enrico Pellegrini» fino al 19.09.21

RIETI Strada facendo

Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 10.10.21

SIENA Tesoro del Chianti

Monete romane d’argento di età repubblicana da Cetamura del Chianti Santa Maria della Scala fino al 03.09.21

TORINO Cipro

Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22

VARESE La civiltà delle palafitte

L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22

VENEZIA Massimo Campigli e gli Etruschi Una pagana felicità Palazzo Franchetti fino al 30.09.21

LES EYZIES-DE-TAYAC Homo faber

Germania BERLINO Sardegna Isola Megalitica

Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo Museum für Vor- und Frühgeschichte fino al 30.09.21

Paesi Bassi LEIDA Templi di Malta

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.10.21

Regno Unito LONDRA Nerone

L’uomo oltre il mito British Museum fino al 24.10.21

Svizzera BASILEA Di armonia ed estasi

La musica delle civiltà antiche Antikenmuseum fino al 19.09.21 a r c h e o 31


TO RI A

EG PR N EIS A NE LL A

VI S AG A GI R O D

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

Il

Cammino dei

NURAGHI ALLA RISCOPERTA DEI TESORI DELLA SARDEGNA PREISTORICA


Il nuraghe Nolza, edificato su di un rilievo denominato Cuccuru Nolza, 8 km a sud del paese di Meana Sardo (Nuoro).

IN EDICOLA

C

ase delle fate, tombe di giganti… l’archeologia della Sardegna preistorica e protostorica sembra voler evocare un mondo fiabesco e forse alcune delle sue testimonianze suscitano atmosfere sospese e irreali. Poi, però, subentra la concretezza della ricerca sul campo e cosí fate e giganti lasciano il campo a uomini e donne in carne e ossa, dei quali il ricco e variegato patrimonio sardo è la magnifica eredità. E protagonista principe di queste vicende millenarie è la civiltà nuragica, le cui inconfondibili costruzioni punteggiano ogni angolo del paesaggio isolano. A loro è innanzi tutto dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che ricostruisce e illustra nel dettaglio l’intero fenomeno, affiancando all’excursus storico una serie di itinerari di visita ai nuraghi piú importanti. Si ha cosí modo di percepire la sapienza e la maestria con cui torri e bastioni vennero innalzati, dando vita a complessi che tuttora impressionano per la loro imponenza. Al contempo, si coglie il ricco tessuto culturale dei gruppi nuragici, che non furono soltanto abili costruttori, ma si applicarono con risultati eccellenti anche in molti altri campi, come testimonia la copiosa produzione di sculture in bronzo. Una vera e propria guida, insomma, dedicata a una civiltà fra le piú importanti del bacino mediterraneo.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Viaggio nell’isola delle torri • IL PROGETTO NUR_WAY • Un itinerario nell’archeologia della Sardegna preistorica • Gli antefatti • Il mondo dei morti • L’architettura nuragica • I tempi del cambiamento • MOSTRE, ITINERARI E MUSEI • Tutti i segreti di un’isola megalitica • Sei itinerari alla scoperta della preistoria della Sardegna • La civiltà dei nuraghi nei musei della Sardegna: nove incontri ravvicinati

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GRAPPOLI D’UVA A PERDITA D’OCCHIO

ALL’INDOMANI DELLA CADUTA DELL’IMPERO, ROMA SI SPOPOLA E SI MOLTIPLICANO LE AREE COLTIVATE. L’ANTICA METROPOLI, CINTA DALLE MURA AURELIANE, DIVENTA UNO STERMINATO VIGNETO. MA QUANDO, E PER QUALI RAGIONI, SI VERIFICÒ QUESTA PROFONDA – E DURATURA – TRASFORMAZIONE DEL PAESAGGIO URBANO? di Daniele Manacorda

I

turisti del Settecento, per catturare il paesaggio dei luoghi che visitavano, salivano sui campanili, cosí da godere di una visione globale del posto e dei suoi abitanti. Questa curiosità di guardare l’oriz-

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zonte, per figurarsi quello che si stende al di là, è un’esperienza affascinante, che oggi satelliti e droni ci mettono ancor piú a portata di mano, alimentando in noi l’impressione di poter superare ogni limite.

Tuttavia, quello che vediamo è pur sempre il paesaggio odierno. Per trovare i precedenti, abbiamo bisogno di una gomma, che cancelli una a una le modifiche che ogni ambiente subisce ininterrottamente


Veduta di Roma da Monte Mario, olio su tela di Giovanni Paolo Pannini. 1749. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie. Si noti l’ampia estensione di campi e vigneti che che circondavano la città.

nei giorni, negli anni, nei secoli. Questa gomma è la stratigrafia, che non cancella, ma piuttosto sfoglia i paesaggi, e ne ricostruisce le trasformazioni e le persistenze. È il motore di quella che oggi chiamiamo archeologia dei paesaggi, erede della topografia storica. A Roma, però, questo tipo di stratigrafia non può essere applicata, se non in rare occasioni, oppure in fazzoletti di territorio troppo esigui per restituire l’immagine di un paesaggio. Abbiamo però le narrazioni scritte, non molte in verità. Abbiamo le fotografie d’epoca, che cristallizzano la fase finale dei paesaggi di Roma, prima della trasformazione in Capitale. E abbiamo le cartografie: alcune davvero splendide, ma solo dal Cinquecento in poi. Strumenti meravigliosi che documentano le due dimensioni della città, ma non la sua profondità, cioè lo spessore del sedime urbano. Per rivedere i paesaggi perduti di una Roma

che non c’è piú dobbiamo allora chiudere gli occhi e guardarli con gli occhi della mente, alimentata dallo studio e dalla fantasia.

ROMA «DISABITATA» Nell’Urbe, il paesaggio delle vigne collega nello spazio e nel tempo una città antica, che fu ancora leggibile nei suoi tratti fondamentali fin verso l’XI secolo, e una città «moderna», giunta nella sua complessa continuità fino alla Roma contemporanea. Il paesaggio delle vigne le comprende entrambe sino alla sua rapida scomparsa nel cinquantennio intercorso tra la presa di Roma del 1870 e la prima guerra mondiale. Ne conosciamo bene la fine, ma non l’inizio, quando l’immensa metropoli imperiale si trasformò, all’interno delle mura di Aureliano, in uno sterminato vigneto, ancora minuziosamente misurato nella pianta di Giovanni Battista Nolli del 1748. Qui la prima impressione che ci colpisce è

l’enorme estensione del terreno non edificato. Dentro le mura si stendeva il «disabitato», un mare di vigne e di giardini, che copriva gran parte di quella che era stata un tempo la capitale dell’impero romano. Quando, dunque, Roma divenne un vigneto? Fu il prodotto di un lento processo di trasformazione del paesaggio urbano oppure di un cambiamento repentino e concentrato nel tempo? La risposta non è semplice. E forse per questo la secolare storiografia su Roma ha preferito non interrogarsi al riguardo. Ma oggi possiamo almeno domandarcelo. Sapendo che avere una domanda – senza la quale il lavoro dello storico non avrebbe senso – non significa avere già in tasca una risposta. Attualmente si tende a inquadrare nell’XI secolo l’esplosione dell’impianto della vite nel suburbio di Roma, fuori delle mura cittadine, mentre per i vigneti al loro interno a r c h e o 35


STORIA • ROMA

i documenti d’archivio ci dicono che nel X secolo molte aree coltivate erano già presenti in ogni parte della città. Cinquecento anni piú tardi, il paesaggio di Roma nel Quattrocento era caratterizzato da qualcosa come 20 000 vigne, un numero impressionante, e forse esagerato, che misura la pervasività del fenomeno, ma anche l’estensione assai piccola di questi appezzamenti, posseduti allora da un ceto di artigiani e commercianti e coltivati spesso direttamente. Troviamo un riscontro di questo paesaggio quattrocentesco nel Catasto delle vigne dipendenti dal Capitolo di S. Giovanni in Laterano che, nel 1450, indica il sito, l’estensione, i nomi degli affittuari e i relativi canoni. Altri documenti analoghi ci dicono che la situazione era già registrata almeno dal XII secolo. La Roma dei baroni era insomma già da tempo un grande vigneto (che non era nelle loro mani), basato su un vasto regime enfiteutico, che recava benefici agli strati anche modesti della popolazione attiva e sosteneva i proventi della economia parassitaria annidata nei capitoli delle istituzioni ecclesiastiche e nelle loro prebende. Va da sé che dietro a questa epocale trasformazione di paesaggio c’erano stati diversi fattori politici, militari, demografici. E, non da ultimo, anche un fattore legato alla proprietà dei suoli urbani, che da secoli in tutta l’area romana erano progressivamente passati in mano a chiese e monasteri. La ruralizzazione del territorio intramuraneo fu avviata già dalla tarda antichità, quando, alla metà del VI secolo, per far fronte alle necessità alimentari causate dalla guerra gotica, Roma si sarebbe riempita qua e là di quelli che, in epoche a noi piú vicine, avremmo chiamato gli «orti di guerra», allestimenti precari di produzioni agricole necessarie a far fronte all’emergenza di un momento. 36 a r c h e o

Particolare della Nuova pianta di Roma di Giovanni Battista Nolli, con la basilica di S. Maria Maggiore. 1748.

Ma come si passa dall’emergenza al consolidamento di un paesaggio destinato a una vita piú che millenaria? Per cercare di dare una risposta plausibile occorre cercare un punto di svolta nell’epoca non immediatamente successiva a quegli eventi – che, tra VI e VII secolo, vide Roma far parte della periferia dell’impero bizantino –, ma poco dopo, e cioè nel corso dell’VIII secolo, quando parti significative della città, ormai «disabitate», avrebbero potuto essere adibite programmaticamente a colture ortive e vigneto. Nasce qui la domanda se sia possibile attribuire questo cambio epocale di paesaggio urbano all’attività di un particolare istituto, che, a partire dal tardo VII secolo, gestí l’approvvigionamento alimentare della popolazione piú debole della città, cioè le diaconie.

«RELITTI» DEL SISTEMA ASSISTENZIALE? L’interrogativo è sorto quando, lavorando sulle ricostruzioni dei catasti rurali di S. Giovanni in Laterano, avevo notato che tra i confinanti delle singole vigne tra il XIII e il XVI secolo, s’incontrano appezzamenti facenti capo ad alcune chiese non troppo distanti, quali S. Maria in Cosmedin o S.Teodoro, che, secoli prima, avevano appunto svolto le funzioni di diaconie. Il fatto è che per quel periodo (a partire dalla fine del VII secolo) non esiste alcuna documentazione scritta che possa sostenere questa interpretazione (ma neanche smentirla). Esiste dunque la possibilità che quegli appezzamenti possano rappresentare il relitto, per quanto sporadico, di qualcuno di quei «praedia urbana vel rustica», destinati al sostentamento dei poveri e dei pellegrini, che le fonti attestano in capo alle diaconie per l’età di Leone III, cioè per l’inizio del IX secolo.

Le diaconie operano nel panorama sociale di Roma lungo il travagliato passaggio che vide l’antica capitale d’Occidente trasformarsi in lontana provincia dell’impero d’Oriente e poi in centro spirituale e politico del vescovo di Roma. Già alla fine del VI secolo l’esaurirsi dei depositi di frumento nella Roma assediata


da Agilulfo aveva costretto a trattare col re longobardo, pagando in denaro il suo ritiro. I magazzini di grano erano sotto il controllo della Chiesa. Il primo di ogni mese si somministravano ai poveri frumento, vino, formaggio, legumi, lardo, carne, pesce e olio. Una generazione dopo, papa Onorio I (625-638) aveva ri-

attivato i mulini del Gianicolo, ma le diaconie cominciarono a funzionare soltanto alla fine del VII secolo, per raggiungere il numero di diciotto nel giro di cento anni. Ogni diaconia era collegata a una chiesa per il culto e annessa a un monastero e possedeva certamente terreni agricoli in città. Viveri ed

elemosine dovevano essere distribuiti una volta alla settimana a opera degli inservienti della diaconia, che si occupavano anche del bagno periodico (lusma) offerto agli indigenti. Le diaconie si addensavano lungo le maggiori arterie cittadine e nei quartieri piú popolati dove si concentravano i traffici. a r c h e o 37


STORIA • ROMA

È assai probabile che le prime diaconie siano sorte per iniziativa dei monaci greci e orientali rifugiatisi a Roma nella seconda metà del VII secolo a seguito delle controversie teologiche e delle invasioni persiane e arabe. Una svolta segnò poi la storia di Roma attorno al 680, dopo che fu raggiunta una conciliazione con Bisanzio e che anche un accordo con i Longobardi, meno provvisorio dei precedenti, aveva cambiato il clima e il quadro politico. In questo contesto si colloca la comparsa delle diaconie, le cui chiese sono peraltro spesso intitolate a martiri greco-orientali o del Meridione grecizzato. Nell’impossibilità di seguire l’evoluzione storica di ciascuna di queste istituzioni, sembra al momento possibile articolare la loro comparsa, sviluppo e esaurimento in quattro momenti, con particolare riferimento all’iniziativa di almeno quattro pontefici: Benedetto II (684685), che le attivò; Gregorio II (715-731), che fece fare loro un salto anche patrimoniale; Zaccaria (741-752), che avviò anche le domuscultae (termine che designa le

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Carta di distribuzione delle diaconie romane nella seconda metà dell’VIII sec., fino al pontificato di Leone III (795-816). In rosso, le diaconie urbane e, in verde, le suburbane: 1. S. Maria Antiqua; 2. S. Adriano in Tribus Fatis; 3. Ss. Cosma e Damiano; 4. Ss. Sergio e Bacco sub Capitolio; 5. S. Teodoro; 6. S. Giorgio ad Velum Aureum; 7. S. Maria in Cosmedin; 8. S. Angelo in Foro Piscium; 9. S. Lucia in Septem Vias; 10. S. Bonifacio; 11. S. Maria in Via Lata; 12. S. Eustachio; 13. S. Maria in Aquiro; 14. S. Lucia in Orphea; 15. S. Vito in Macello; 16. S. Agata in Diaconia o de Caballo; 17. S. Maria in Domnica; 18. Ss. Nereo e Achilleo; 19. Ss. Sergio e Bacco; 20. S. Silvestro; 21. S. Maria in caput portici; 22. S. Maria in Hadriani.


aziende agricole apostoliche, n.d.r.) nel suburbio romano; Stefano II (752-757), che portò a regime le diaconie, di cui Adriano I (772-795) concluse la parabola. A partire dal pontificato di Gregorio II, le fonti parlano non piú di benefici finanziari, ma di donazioni in favore delle diaconie, tra cui l’attribuzione di beni immobiliari, cioè In alto: l’arco di Giano e, sulla destra, la chiesa di S. Giorgio al Velabro, che fu anch’essa una diaconia, in una incisione di Étienne Dupérac, 1575. A sinistra: veduta dall’alto della chiesa di S. Teodoro, una delle diaconie urbane a cui facevano capo varie vigne.

di terreni. Anche Gregorio III (731741) intervenne per disporre che la diaconia dei Ss. Sergio e Bacco ricevesse i mezzi adeguati per acquistare la necessaria efficienza, e per ingrandire S. Maria in Aquiro, sede prima di un piccolo oratorio, che fu trasformato in una vera basilica.

PROBLEMI ANNONARI In quegli anni aveva ripreso vigore lo stato di guerra con i Longobardi, giunti a minacciare la vita stessa di Roma, mentre il conflitto sull’iconoclastia aveva eretto una sorta di barriera fra il ducato romano e i ducati bizantini del Sud, dove la Chiesa aveva perduto la massima parte delle sue proprietà. Queste criticità politiche e militari acuirono i problemi annonari di Roma e fecero sí che le diaconie, sorte come enti caritativi, videro estese le loro attività anche agli approvvigionamenti. Roma ormai poteva contare solo sui prodotti delle sue campagne, la cui maggior parte apparteneva alla Chiesa di Roma e dove papa Zaccaria aveva allestito le prime domuscultae. Lí si producevano grano e legumi, vino e olio, e si allevava bestiame rapidamente trasportabile in città.

Stefano II ordinò che due diaconie assumessero anche compiti ospedalieri, mettendo alle loro dipendenze gli xenodochia (ospizi assistenziali), da tempo lasciati in abbandono, e forse creò un nuovo xenodochium presso la diaconia di S. Eustachio. Insomma, negli anni piú duri della crisi della metà dell’VIII secolo, una via d’uscita fu cercata affidando i compiti annonari alle diaconie e i papi se ne occuparono, assicurando loro le risorse e donando beni fondiari in loro uso. Questo impegno non venne meno neppure negli anni di Adriano I, quando il contrasto con i Longobardi tornò ad accendersi. Con il suo pontificato abbiamo infatti la prima menzione esplicita di fondazione di nuove diaconie a opera diretta di un papa, che diede in dono molti beni, sia mobili che immobili a tre diaconie suburbane, da lui fondate presso S. Pietro, e concesse ad altre due nuove diaconie urbane da lui istituite agros, vineas, oliveta, servos vel ancillas ut de reditum eorum pauperes Christi refocillentur, per dar da mangiare quindi ai «poveri Cristi». La storia delle diaconie assistenziali finisce qui. Nel corso del IX secolo a r c h e o 39


STORIA • ROMA

L’unità di misura utilizzata a Roma per le vigne era solitamente la pezza, pari a circa un quarto di ettaro 40 a r c h e o


non abbiamo piú notizie dell’esistenza di istituti caritativi associati a queste chiese, che conservarono il nome di diaconia restando in un ambito esclusivamente religioso. Ciò detto, in assenza di documenti diretti, sarà mai possibile rintracciare negli archivi superstiti di quelle chiese e monasteri, che abbiano svolto la funzione di diaconia nei secoli altomedievali, una presenza sporadica o diffusa di proprietà terriere urbane in origine riferibili a diaconie? Forse sí. Possiamo soffermarci innanzitutto su una diaconia importante, che sorgeva a un passo dal porto sul Tevere: S. Maria in Cosmedin, per la quale abbiamo a disposizione uno dei rari casi di testo epigrafico, e cioè l’iscrizione incisa su due lastre conservate nel portico antistante la chiesa. Il testo ricorda l’assegnazione da parte di Eustathius, che fu dux di Roma tra il 752 e il 756, e di altri membri della sua famiglia, di una serie di terreni agricoli fuori città, ma anche all’interno delle mura. Il benefattore, che era anche amministratore della diaconia, non operò una vera e propria cessione di proprietà, ma un trasferimento in uso

sia di fundi e campi cum casis et vineis seu holibetis, sia di un mulino. Non deve stupire che al tempo di Stefano II S. Maria in Cosmedin fosse retta dal duca di Roma: nel periodo critico in cui le armi del re longobardo Astolfo mettevano in gioco l’esistenza stessa della città di Roma e la gestione degli approvvigionamenti formava uno degli aspetti vitali della difesa militare, appare naturale che l’alta direzione di questa diaconia fosse affidata al comandante generale dell’exercitus romanus. Insieme con molti fondi extraurbani Eustathius cedette anche «bineas tabul(arum) IIS (duarum et semis) qui sunt in Testacio»: è questa la prima attestazione del toponimo Testaccio, e la conferma che una parte della zona subaventina era sotto il controllo di quella diaconia.

FRA IL TESTACCIO E IL TEVERE L’appezzamento doveva corrispondere a circa un quarto di ettaro, ovvero a una pezza, misura di superficie usualmente adottata a Roma per le vigne. Il terreno doveva trovarsi nella pianura tra il Testaccio e il Tevere, nella zona un tempo occupata

dai vasti horrea antichi. Possiamo verosimilmente identificarlo con quello che, nel 1224, compare ancora confinante con una vigna di proprietà del monastero dei Ss. Bonifacio e Alessio localizzata in Testacio. Un altro terreno intramuraneo riguarda: «[--- ?du]as / bineas qui sunt in Pincis bersur(arum) III». Si tratta in questo caso di un terreno di oltre 3 ettari e mezzo: una misura ampia, ma compatibile con la vastità dell’areale denominato in Pincis, corrispondente all’antico collis hortulorum, settore periferico dell’antica Roma da sempre destinato a orti e giardini e quindi verosimilmente riconvertito a uso agricolo in età probabilmente abbastanza precoce. Oltre che nei quadranti sud e nord della città, la diaconia doveva possedere terre anche nel quadrante est, almeno nel X secolo. Si tratta di una terra sementaricia, posta presso la basilica di Santa Croce, iuxta muros istius civitatis euntibus ad hierusalem manu leva, attestata per l’anno 929; e di una vinea mannarica cum diversis arboribus pomarum nella stessa località, oggetto di una vendita del 939. Se in quell’epoca l’attività assistenziale delle diaconie era certamente

Nella pagina accanto: vigne e orti tra Aventino e Testaccio nella pianta di Roma di Mario Cartaro. Seconda metà del XVI sec. A destra: campi e vigne in una foto scattata da Porta San Sebastiano. Raccolta Parker, 1868. Sulla destra si riconosce il cosiddetto Arco di Druso, poi riutilizzato per il passaggio dell’acquedotto Antoniniano. a r c h e o 41


STORIA • ROMA

esaurita, il riferimento presente nel primo documento alle charte nove et vetuste in mano alla venditrice attestanti la proprietà del terreno, ci permette di affermare che il diritto di S. Maria in Cosmedin su quella terra sementaricia e sulla vinea doveva risalire verosimilmente ancora all’epoca della diaconia.

DALLA CHIESA AL MONASTERO Senza allontanarci troppo dal nostro areale, prendiamo ora in considerazione la diaconia di S. Bonifacio, nota come semplice oratorio almeno dalla metà del VII secolo. Sul luogo della chiesa, ormai in decadenza, venne fondato, nel 977, il monastero di S. Alessio. Ci troviamo dunque di fronte a un istituto che, persa la funzione assistenziale, mantenne per secoli un vasto dominio sull’Aventino e nella pianura sottostante. La piú antica descrizione dei suoi beni risale a un diploma dell’imperatore Ottone III del 996. Il documento distingue una vigna davanti al monastero e due orti sul retro, tutti sulla sommità dell’Aventino; segue una vasta estensione di terre coltivate a vigna, oliveto e frutteti pertinenti a un insediamento piú antico, detto domus Eufirmiani, la cui proprietà era stata già confermata da Ottone II. Segue quindi la chiesa di S. Salvatore de Marmorata, con le sue case, vigne e peschiere, estese tra il monte e il Tevere; e poi l’antica Porta Ostiense, con le sue pertinenze, a partire dalla quale si stendevano i prati di Testaccio; infine, una serie di case con terreni variamente posseduti lungo la riva del fiume e altrove (ubicunque intra Urbem). La ricchezza del monastero certamente non coincide con quella, probabilmente assai piú modesta, della precedente diaconia. CionoL’area a ridosso di Porta San Sebastiano nella pianta di Roma edita da Francesco De Paoli nel 1623. 42 a r c h e o


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STORIA • ROMA

nostante, il diploma di Ottone III afferma che i beni del monastero venivano confermati sicut antiquitus praefato Monasterio pertinuit. L’uso dell’avverbio antiquitus (cioè, in antico), difficilmente riferibile a un’età cosí vicina come i circa venti anni che dividono la fondazione del monastero dalla conferma dei suoi beni, lascia intendere che almeno i territori relativi al pianoro dell’Aventino e fors’anche quelli estesi lungo il fiume verso il Testaccio potrebbero aver fatto parte delle piú antiche proprietà della diaconia.

«CAMPICELLI» SULLA PISTA DELLE BIGHE A valle dell’Aventino, presso la testata sud del Circo Massimo, sorgeva la diaconia di S. Lucia in Septem Vias o in Septizonio. Sembra probabile che almeno i terreni circostanti la chiesa fossero originariamente appartenuti alla diaconia. E che da essa dipendesse, quindi, un settore dell’area del Circo Massimo, precocemente abbandonata e destinata ad attività agricole. Degli orti che occupavano l’invaso del Circo alle soglie dell’età moderna abbiamo dettagliate raffigurazioni nelle incisioni del XVI secolo, che naturalmente non possono descriverci la situazione di sette o ottocento anni prima.Tuttavia, è lecito domandarsi se l’estensione modesta di quei piccoli «campicelli», che modificarono radicalmente l’immagine del Circo abbandonato, possa essere stata all’origine del nome del rione Campitelli, di cui il A sinistra: la chiesa di S. Maria in Cosmedin, che sorse in prossimità di uno dei porti sul Tevere. Nella pagina accanto: foto dell’iscrizione incisa su due lastre conservate nel portico antistante la stessa S. Maria in Cosmedin. L’epigrafe ricorda l’assegnazione di terreni agricoli fuori e dentro le mura da parte di Eustathius e di altri membri della sua famiglia. 44 a r c h e o


tra i dati documentari e quelli messi in luce dall’archeologia urbana. Per concludere, le diaconie, per svolgere la loro funzione di assistenza, avranno avuto verosimilmente strette relazioni con le domuscultae per quanto riguarda gli approvvigionamenti di cereali e della carne, soprattutto suina. Appare tuttavia verosimile che potessero fare affidamento anche sui propri fondi urbani o periurbani per la produzione giornaliera di ortaggi e frutta e forse di generi alimentari da cortile.

Circo venne a far parte, e che conosciamo con questa denominazione a partire dall’XI secolo. Anche la diaconia di S. Adriano in Tribus Fatis ricevette da Adriano I terre, vigne e oliveti. La ricordo perché gli scavatori del Foro di Cesare hanno osservato che la spoliazione del pavimento del Foro fu seguita da una sua trasformazione in orto all’inizio del IX secolo. Doveva trattarsi di una coltura promiscua,

con coltivazione di ortaggi (cavoli, lattuga) e leguminose. Poco dopo un riporto di terra rialzò il livello su tutta l’area per l’impianto di una nuova fase di coltivazione. L’analisi archeobotanica ha rivelato la presenza di ciliegi, susini, nocciòli, fichi… alternati alle viti. E gli scavatori non escludono un rapporto con le esigenze della vicina diaconia di S. Adriano: un caso dunque, raro ma prezioso, di possibile relazione

LA SVOLTA Piú in generale, non sembra lontano dalla realtà presumere che lo sviluppo delle vigne in città, a cui assistiamo nel corso dell’Alto Medioevo, sia da porre in relazione anche con le devastazioni subite dal suburbio e da alcune domuscultae nel corso dei conflitti che coinvolsero Roma per molti decenni nel corso dell’VIII secolo. In altri termini, è utile interrogarsi circa la possibilità che la ruralizzazione del territorio urbano abbia trovato un punto di svolta proprio quando parti significative della città ormai «disabitata» vennero intensamente adibite a colture ortive e vigneto: un’operazione facilitata dallo stato di abbandono di terreni un tempo occupati da necropoli o da vaste proprietà private, ma che dovette comunque richiedere anche cospicui movimenti di terra, condotti quindi non per capillare iniziativa di singoli, ma nell’ambito di attività promosse sotto il diretto controllo della Chiesa. Ciò non impedí che il sistema delle diaconie, dopo avere raggiunto il massimo di sviluppo negli anni di Adriano I, perdesse progressivamente la propria funzione nel corso del IX secolo. Ma ormai il paesaggio delle vigne era nato. E, nel 1084, quando Roma subí il sacco dei Normanni e una città nuova rinacque dalle sue macerie, quei vigneti, invece, si espansero ancora per continuare una vita piú che millenaria. a r c h e o 45




MOSTRE • NAPOLEONE E IL MITO DI ROMA

NAPOLEONE ALLO SPECCHIO TRA IMITAZIONE ED EMULAZIONE LA FIGURA DI NAPOLEONE SI FONDE CON I MODELLI DEL PASSATO: ALESSANDRO MAGNO, ANNIBALE, CESARE, AUGUSTO E COSTANTINO. DI TUTTI SI SENTE L’EREDE. SE LA RIVOLUZIONE FRANCESE TRASSE DALL’ANTICA ROMA IL TERMINE DI RIFERIMENTO REPUBBLICANO, NAPOLEONE BONAPARTE, DIVENUTO CONSOLE E POI IMPERATORE, FECE DELLA FRANCIA L’EREDE DIRETTA DELL’IMPERO ROMANO di Massimiliano Munzi

N

el secolo dei Lumi, mentre giungono a maturazione nuove idee identitarie, patriottiche, repubblicane, si carica di significato la figura di L. Giunio Bruto. Liberatore di Roma dalla monarchia tirannica dei Tarquini e primo console della repubblica (509 a.C.), Bruto è l’eroe della tragedia omonima di Voltaire (1730). Nella rilettura volterriana, che ne mette in risalto la complessa personalità segnata dal terribile conflitto interiore tra dovere di console e affetti di padre, Bruto si impone come emblema del nascente mito repubblicano. Anche M. Giunio Bruto, il Cesaricida, attira l’attenzione del maestro. Ne La mort de César (1735) è l’austero, rigido e rude nemico del potere dittatoriale, degno successore del grande avo. L’esemplarità del primo Bruto ritorna nel dipinto di David, elaborato appena prima della rivoluzione. 48 a r c h e o

Con le rivoluzioni americana e francese, gli eroi antichi si affermano come modelli di libertà repubblicana dalla forte valenza politica. Il richiamo al mondo antico non è piú ristretto alle élites, ma coinvolge l’intero corpo civico e le antichità assumono un ruolo di primo piano nella definizione della nazione e dello Stato moderno.

UN SALTO DI QUALITÀ Se per la rivoluzione americana (1776) Roma repubblicana è già il riferimento ideale, con la rivoluzione francese l’elaborazione del mito di Roma fa un salto di qualità. La repubblica giacobina si considera diretta erede di quella romana, oltre che di Sparta e Atene. La figura ideale di Bruto, che fonde i due personaggi storici, assurge ad archetipo. Bruto entra nell’onomastica e nella toponomastica, gli vengono dedicate feste durante le qua-

I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli, olio su tela di Jacques-Louis David. 1789. Parigi, Museo del Louvre. I littori entrano nell’abitazione del console, raffigurato con le fattezze del bronzo capitolino, riportandogli i corpi dei figli da lui fatti giustiziare perché coinvolti in un complotto per il ritorno della monarchia.


li i cittadini giurano davanti ai suoi busti. Lo spazio pubblico è invaso da attributi tratti dall’antico: il berretto frigio indossato a Roma come copricapo dai liberti, emblema di libertà; il fascio littorio simbolo dell’imperium dei magistrati; il pugnale dei Cesaricidi. La prima campagna d’Italia è l’oc-

casione per trasferire le antiche icone repubblicane nella moderna erede di Roma sulla Senna. Il busto bronzeo del primo Bruto e quello marmoreo all’epoca attribuito al secondo Bruto, entrambi dei Musei Capitolini, sono tra le opere d’arte che, in forza dell’armistizio di Bologna (23 giugno 1796) e del

trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), il papa deve consegnare alla repubblica francese. I due Bruti sfilano a Parigi il 27 luglio 1798, insieme agli altri capolavori portati dall’Italia. Sul primo dei carri del corteo trionfale si legge «Monumenti della scultura antica / La Grecia li cedette, Roma li ha pera r c h e o 49


MOSTRE • NAPOLEONE E IL MITO DI ROMA

duti / La loro sorte cambiò due volte, non cambierà piú».

UN CONFRONTO COSTANTE La lettura dei classici era alla base dell’educazione dell’Ancien Régime. Giovanissimo allievo alla scuola militare di Brienne, anche Napoleone legge avidamente i testi di storia. Come ricorderà il compagno Louis de Bourrienne, «appena arrivava il momento della ricreazione, correva nella biblioteca, dove leggeva con avidità i libri di storia, soprattutto Polibio e Plutarco. Amava molto anche Arriano ma non si curava granché di Curzio Rufo». La conoscenza dei classici rimarrà una costante nella vita di Napoleone. Il Memoriale di Sant’Elena testimonia la ricorrenza degli argomenti storici nelle conversazioni intrattenute dalla piccola corte in esilio. Sull’isola atlantica la storia antica, riletta in controluce con le vicende personali, rappresenta un conforto costante. Se la rivoluzione trae da Roma il riferimento repubblicano, NapoleA destra: calco in gesso del Bruto Capitolino, ritratto in bronzo tradizionalmente identificato con Lucio Giunio Bruto, primo console romano. Roma, Museo della Civiltà Romana (originale: Roma, Musei Capitolini, IV-III sec. a.C.) Nella pagina accanto, a sinistra: busto all’epoca ritenuto di Marco Giunio Bruto, oggi attribuito a Marcello, lo sfortunato nipote ed erede designato di Augusto. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto, a destra: Ritratto di Napoleone, opera di ambito carrarese da un originale dello scultore francese AntoineDenis Chaudet. 1807 circa. Roma, Museo Napoleonico. 50 a r c h e o


one, console e poi imperatore, fa della Francia l’erede dell’impero romano. Una nuova selezione si opera nel repertorio classico: i Bruti lasciano il posto ai grandi condottieri e ai migliori imperatori. L’idea che Napoleone ne sia il degno successore si diffonde tra adulatori e critici già ai tempi della prima campagna in Italia – Stendhal la rievoca magistralmente nel celebre incipit de La Certosa di Parma – e viene ulteriormente amplificata dalla spedizione in Egitto e dalla seconda campagna italiana. Napoleone stesso non è alieno da confronti ed emulazioni. Riprendendo una tradizione millenaria, quella dell’imitatio Alexandri e

dell’aemulatio Caesaris, i suoi primi modelli sono Alessandro e Cesare, che riconosce come i massimi esempi della virtú militare. Entrambi, come poi Augusto, avevano condotto vittoriose campagne in Egitto.

SULLE ORME DEL MACEDONE È dunque naturale che la nuova spedizione egiziana sia agli occhi dei contemporanei circonfusa della loro aura. Il comandante in capo ne è per primo consapevole: quando sogna di muovere dall’Egitto verso l’Oriente, di conquistare la Persia e l’India, è certamente influenzato dall’epica del Macedone. A Sant’Elena Alessandro e Cesare

rappresentano un termine di paragone quasi ossessivo. A Las Cases Napoleone ricorda che mentre il Romano, quando passò il Rubicone, era al comando di un esercito, e che il Macedone era già un re attorniato da tutte le forze del suo regno quando sbarcò in Asia, egli, al contrario, quando prese in mano i destini della nazione, era un semplice cittadino che poteva contare soltanto sul proprio genio e sulle sue vittorie. Nel continuo raffronto Napoleone istituisce di fatto una nuova triade dei massimi geni militari e pone le basi per la propria eroizzazione. Sempre dal Memoriale sappiamo che di Alessandro ammira la grande a r c h e o 51


MOSTRE • NAPOLEONE E IL MITO DI ROMA In basso: Napoleone Bonaparte allievo alla scuola militare di Brienne, modello in gesso di una scultura di Louis Rochet. 1853. Yverdon-les-Bains (Svizzera), Musée d’Yverdon et région. L’opera evoca la predilezione giovanile di Bonaparte per Plutarco, mostrandolo come giovane allievo della scuola militare con in mano un volume, quello delle Vite Parallele.

impresa militare e politica ma stigmatizza gli eccessi e che considera Cesare uno dei caratteri piú simpatici della storia. Il Romano è l’unico personaggio al quale avrebbe voluto essere accostato: «Se l’imperatore desiderasse un titolo, questo sarebbe Cesare», scrive il 3 ottobre 1809, rifiutando tuttavia la proposta dell’Institut di tributargli titoli romani in latino, perfino quello di César, «disonorato da tanti piccoli principi». L’interesse per Cesare è militare e politico a un tempo. Le guerre cesariane rimangono nel corso degli anni oggetto di studio e riflessione. Durante l’esilio Napoleone torna a occuparsene, dettando un Compendio delle guerre di Cesare, in cui, se non mancano critiche militari, piena è l’ammirazione politica fino alla condanna dei Cesaricidi, trasfigurati in ottusi nemici del popolo. Da questa interpretazione del Cesare politico trae origine il cesarismo otto-novecentesco.

E QUELL’ANNIBALE... La stima per Annibale è perfino superiore a quella rivolta agli altri eroi. Il geniale stratega punico viene alla ribalta durante le campagne d’Italia. Se, all’indomani della prima, il Journal de Bonaparte et des Hommes Vertueux, proclama «Annibale dormiva a Capua. Ma l’attivo Bonaparte non dor me a Mantova» (1797), nell’Inno per la battaglia di Marengo, composto al termine della seconda (1800),Vincenzo Monti immagina l’ombra di Annibale chiedere del nuovo audace passaggio delle Alpi al generale Desaix, caduto a Marengo e sepolto nell’Ospizio del Gran San Bernardo. A Sant’Elena prevale invece 52 a r c h e o

l’Annibale perdente: a Las Cases Napoleone confida di sentirsi particolarmente affine al generale punico, non soltanto per le grandi virtú militari, ma anche per la grandezza d’animo dimostrata nella sconfitta e nell’esilio.

ANTICHI CONDOTTIERI E VECCHI COMPAGNI Ancora negli ultimi giorni di vita il suo pensiero è rivolto agli antichi condottieri che avrebbe potuto incontrare nell’aldilà insieme ai suoi valorosi generali, caduti in battaglia: «Ritroverò i miei bravi ai Campi Elisi. Sí – continuò alzando la voce – Kléber, Desaix, Bessières, Duroc, Ney, Murat, Masséna, Berthier, tutti mi verranno incontro; mi racconteranno cosa abbiamo fatto insieme. Io narrerò loro gli ultimi eventi della mia vita. Vedendomi, torneranno a essere tutti pazzi di entusiasmo e di gloria. Parleremo delle nostre guerre con gli Scipioni, gli Annibali, i Cesari, i Federichi. Quale piacere sarà questo! A meno che – aggiunse ridendo – laggiú non si abbia paura di vedere riuniti tanti guerrieri».


Busto del cosiddetto Annibale. XVI sec. Roma, Palazzo del Quirinale. Nella pagina accanto, a destra: matrice in vetro con il ritratto di Napoleone coronato d’alloro, opera di Pietro Paoletti. 1834-1844. Roma, Museo di Palazzo Braschi.

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MOSTRE • NAPOLEONE E IL MITO DI ROMA

SE BONAPARTE FU CESARE, NAPOLEONE FU AUGUSTO di Simone Pastor

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ra i modelli che l’iconografia napoleonica recupera dal canovaccio dell’antichità non poteva mancare Augusto. Sebbene non fosse ricordato per il suo curriculum bellico, Augusto fu per Napoleone un esempio di strategia politica e di buon governo. Nel 1802 Bonaparte declinò l’onore offertogli dal Direttorio di diventare console a vita, demandando l’accettazione di un simile onore solo dopo che si fosse manifestata la volontà popolare a riguardo. Il comportamento di Bonaparte ricorda l’agire di Ottaviano il quale, nel 37 a.C., rifiutò l’offerta del Senato di r innovare il potere triumvirale per la seconda volta, sostenendo che sulla faccenda si dovesse esprimere a favore il popolo. Risultano chiare le simmetrie nel comportamento dei due condottieri, che seppero mascherare il cambiamento della repubblica, ro-

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mana prima, francese poi, verso una forma autoritaria di governo, l’impero, celebrando un potere rassicurante, carismatico, autorevole e benevolo verso il popolo.

LA FORZA DI TRAIANO, LA FEDE DI COSTANTINO La costruzione iconografica di Napoleone si basava sull’immagine di un uomo che non aveva accresciuto la sua gloria attraverso i privilegi derivati dall’appartenenza a una aristocrazia ormai decaduta, ma grazie alle vittorie politiche e militari. Primo di una dinastia, allo stesso modo di Traiano, l’imperium di Napoleone

trovava legittimazione nella consapevolezza che al migliore spettasse il comando sugli altri. Traiano fu per Napoleone il prototipo del generale/imperatore vittorioso che conduce, arringa le truppe e le celebra con monumenti onorari delle battaglie piú straordinarie. In questo senso la Colonna Traiana non poteva che essere un modello a cui fare riferimento nella glorificazione napoleonica della Grande Armée. L’immagine di Costantino venne assunta come propria autorappresentazione dai sovrani europei d’ogni epoca e fu utilizzata per una pluralità di scopi estremamente dif-

In alto: la sezione della mostra nella quale viene illustrato il richiamo di Napoleone ai modelli degli imperatori Augusto, Traiano e Costantino. Nella pagina accanto, a sinistra: progetto per la Colonne Vendôme, innalzata a Parigi sul modello della

Colonna Traiana. L’opera venne ultimata nel 1810 e sulla sua sommità fu collocata una statua di Napoleone. Nella pagina accanto, a destra: Napoleone I Re d’Italia, erma in marmo di Carrara di Giovan Battista Comolli. 1809. Milano, Galleria d’Arte Moderna.


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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MOSTRE • NAPOLEONE E IL MITO DI ROMA

ferenti, ma comunque connessi all’esaltazione di buoni rapporti tra Stato e Chiesa. In età napoleonica la figura di Costantino torna con vigore grazie al nuovo rapporto con la Chiesa cattolica sorto successivamente al Concordato del 1801. I vescovi francesi iniziarono a proporre a Napoleone il modello costantiniano, resosi necessario per cercare di creare un mutuo sostegno tra il potere politico e quello religioso.

SANTO E TAUMATURGO Per ergersi oltre l’umano, per trasformare le sue vicende in leggenda, Napoleone si serví dell’iconografia apologetica antica. La figura di Napoleone viene plasmata sul modello degli eroi e degli dèi dell’antichità: Bonaparte è un eroe guerriero al pari di Eracle; è un novello Achille, ferito al tendine durante l’assedio di Ratisbona, e infine un dio, Marte Pacificatore. Ma la figura di Napoleone venne arricchita di una nuova santità per riconnettere il trono e l’altare: egli diviene quindi re taumaturgo, rappresentato mentre cura dalle piaghe della peste i suoi soldati a Jaffa e, soprattutto, un uomo santo, san Napoleone. La creazione di un santo eponimo fu un’iniziativa di chiara origine politica e propagandistica, necessaria ad alimentare il culto per la persona dell’imperatore, con modalità mutuate dalla liturgia cattolica. Con la morte di Napoleone si passò ben presto dall’ammirazione verso l’imperatore a una vera e propria religione. Dopo il 1821 la vendita di un gran numero di effigi, litografie, incisioni, dimostrarono chiaramente la devozione del popolo francese verso questo grande uomo. Le ultime parole di Napoleone racchiuse nel Mémorial de Sainte-Hélène venivano lette segretamente in tutta la Francia dai primi discepoli di Napoleone, i veterani della Grande Armée tornati alle loro case. Nel ricordo del suo genio e delle sue 56 a r c h e o

Il Tevere consegna all’aquila imperiale l’elmo di Cesare e la spada di Traiano per il Re di Roma, disegno di Bartolomeo Pinelli. 1813. Roma, Museo Napoleonico.

imprese, i suoi seguaci vissero nella speranza di un futuro migliore. In una sorta di culto sostitutivo per una parte della popolazione che si allontanava dal cattolicesimo, Na-

poleone riuscí cosí a realizzare, oltre la sua morte, ciò che gli inventori dei culti rivoluzionari avevano tentato invano, la sostituzione al rito cattolico di un altro culto.


LA SECONDA CITTÀ DELL’IMPERO di Nicoletta Bernacchio

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oma antica per Napoleone non fu solo un mito, uno scrigno di modelli a cui attingere, una fonte di ispirazione per la propria carriera militare e politica. Roma antica per Napoleone fu un sogno, che si alimentò anche della Roma contemporanea, fatta delle vestigia del suo passato, segni tangibili di quel periodo fortunato del quale Napoleone si sentiva erede e che per questo erano per lui da preservare, scoprire e valorizzare nel presente. Dalla Roma antica a quella presente, dunque: un sogno che però Napoleone non realizzò mai, perché mai mise piede nella Città Eterna e mai ne poté vedere i monumenti. Furono forse una vita politica e personale troppo intensa, insieme alle troppe battaglie da combattere in giro per l’Europa, a tenere Napoleone lontano da Roma. I maligni però sospettavano che il Corso non vi volesse venire perché temeva di non essere accolto dai

La sezione della mostra che riunisce la copia in gesso del Trionfo di Alessandro Magno a Babilonia realizzato da Bertel Thorvaldsen tra il 1818 e il 1828 (dalla Gipsoteca dei Musei Civici di Pavia), e le erme di Raffaele Stern, del 1823 (a sinistra; dai Musei Capitolini) e Bertel Thorvaldsen (1826; dal Museo di Roma).

Romani come desiderava: il loro liberatore dalla «tirannia» quasi bimillenaria dello Stato Pontificio e colui che avrebbe riportato la città ai fasti dell’epoca imperiale, unendola a Par ig i nel glor ioso destino dell’impero di Francia.

IL NUOVO RE DI ROMA «La città di Roma è la seconda città dell’impero»: cosí infatti proclamava l’Articolo VI del Senatoconsulto del 17 febbraio 1810, che ugualmente stabiliva che l’erede al trono imperiale ricevesse alla nascita il titolo di re di Roma, a simboleggiare il futuro intrecciato che avrebbe atteso le due capitali. Cosí, quando il 24 marzo 1811 giunse a Roma la notizia che a Parigi quattro giorni prima era nato Napoleone Francesco Giuseppe Bonaparte, figlio amatissimo che l’imperatore

ebbe dalla seconda moglie Maria Luisa d’Austria, esplose la festa: da Castel Sant’Angelo furono sparati 101 colpi di cannone, le campane delle chiese riempirono il cielo dei loro rintocchi gioiosi e la sera il Campidoglio fu illuminato a giorno con centinaia di fiaccole: la città aveva il suo re! L’imperatore e il piccolo re di Roma avevano bisogno di un palazzo che li ospitasse. Con un gesto simbolico, destinato a essere replicato 150 anni piú tardi, la scelta cadde sul palazzo papale del Quirinale. Subito partirono i lavori di trasformazione e adeguamento per i nuovi inquilini, affidati all’architetto romano Raffaele Stern, il quale coinvolse i migliori artisti attivi sulla scena romana del tempo:Vincenzo Camuccini, Felice Giani, (segue a p. 60) a r c h e o 57


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Giulio Cesare detta i Commentari, olio su tela di Pelagio Palagi. 1812. Roma, Palazzo del Quirinale, Sala della Musica.

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MOSTRE • NAPOLEONE E IL MITO DI ROMA

Jean-Auguste-Dominique Ingres, Gaspare Landi, Bertel Thorvaldsen – per ricordarne alcuni – lavorarono insieme a nomi per noi meno noti, tra i quali il bolognese Pelagio Palagi, autore di un singolare dipinto per il soffitto del Gabinetto Topografico in cui il volto di Giulio Cesare ha i tratti fisiognomici di Napoleone, che di certo avrebbe amato vedersi ritratto con le fattezze di uno dei suoi eroi. Come sicuramente avrebbe amato vedersi evocato nella figura di Alessandro Magno, protagonista del lungo fregio con l’Ingresso di Alessandro Magno in Babilonia, scolpito da Thorvaldsen per il Terzo Salone dell’appartamento, oggi Sala delle Dame. L’opera incarnava un auspicio: come i Babilonesi avevano ac-

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colto festanti il conquistatore macedone, cosí con lo stesso entusiasmo anche i Romani avrebbero accolto Napoleone nel giorno del suo arrivo in città.

UN NOVELLO FIDIA Il Trionfo di Alessandro, che tanto richiamava il fregio del Partenone, diventò subito un classico e fu replicato in diverse versioni dal suo autore, considerato per quest’opera un novello Fidia. Lo stesso Napoleone gliene commissionò una, in marmo, per il Panthéon di Parigi; le lastre eseguite furono rilevate nel 1818 dal nobile lombardo Giovanni Battista Sommariva, che chiese quindi a Thorvaldsen di scolpire quelle mancanti e di allestire il fregio nella sua villa di Tre-

mezzina sul lago di Como (oggi Villa Carlotta). Altre repliche sono quella in marmo per il Palazzo Reale di Christiansborg a Copenaghen (1818-1831) e quella in stucco per Villa Torlonia a Roma, commissionata dal principe Alessandro Torlonia nel 1835-1836. A questo felice episodio della scultura romana ed europea è dedicata in mostra un’intera sezione, in cui sono stati esposti anche i ritratti in erma di Thorvaldsen e Stern, rispettivamente dal Museo di Roma e dalla Protomoteca Capitolina. Dare un volto ai protagonisti della storia è stato un filo conduttore della mostra, lungo la quale ci è piaciuto disporre i ritratti di coloro che sono evocati dalle opere e dal racconto dei fatti. Non solo Stern e


Thorvaldsen, dunque, ma anche Antonio Canova, Giuseppe Valadier, Giuseppe Camporese e Pietro Bianchi, quest’ultimo autore della sistemazione definitiva della piazza a sud della Colonna Traiana. Il suo progetto, approvato a dicembre 1813, fu realizzato negli anni successivi, dopo la fine della parentesi napoleonica e il ritorno di Pio VII (24 maggio 1814), per volontà dello stesso papa, tanto che ancora oggi questo settore dell’area archeologica dei Fori Imperiali è noto proprio come «Recinto di Pio VII».

Da qui vengono le statue di Daci, scolpite per il Foro di Traiano, trovate durante i lavori dei Francesi, allestite nel recinto al tempo di Pio VII e oggi esposte nel Museo dei Fori Imperiali, tra i pezzi piú belli della collezione permanente. Ed è stato proprio questo forte legame tra il nostro Museo, la nostra area archeologica e le vicende della sua primissima scoperta e valorizzazione a costituire il nucleo del progetto di una mostra dedicata a Napoleone nel bicentenario della morte.

DOVE E QUANDO «Napoleone e il mito di Roma» Roma, Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali prorogata fino al 7 novembre Orario tutti i giorni 9,30-19,30 Info tel. 060608; www.mercatiditraiano.it; mostra e catalogo a cura di Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Massimiliano Munzi e Simone Pastor Catalogo Gangemi Editore

Il settore dell’area archeologica dei Fori Imperiali ribattezzato «Recinto di Pio VII», in quanto la sua sistemazione fu promossa dal pontefice, attuando il progetto elaborato nel 1813.

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LETTERATURA • DANTE E GLI ETRUSCHI

«SOMMO

POETA

E PONTEFICE

ETRUSCO» È POSSIBILE RINTRACCIARE UN LEGAME FRA DANTE ALIGHIERI E LA PIÚ IMPORTANTE DELLE CIVILTÀ PREROMANE? UNA DISCENDENZA DIRETTA, PUR DA ALCUNI EVOCATA, APPARE IMPROBABILE. AL DI LÀ DI QUALCHE INNEGABILE QUANTO CASUALE SOMIGLIANZA (VEDI IN QUESTE PAGINE), SONO NUMEROSE, INVECE, LE CONGIUNZIONI LETTERARIE... di Giuseppe M. Della Fina

In alto: un canopo (cinerario a forma umana), da Cetona. VI sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: il ritratto di Dante nel Parnaso, affresco di Raffaello nella Stanza della Segnatura, una delle Stanze Vaticane. 1510-1511. 62 a r c h e o

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uello fra Dante Alighieri e gli Etruschi può sembrare un collegamento forzato e stimolato solo dall’occasione delle celebrazioni per ricordare il settimo centenario della morte del poeta, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321. Ma non è cosí. Non lo è su due piani: quello storico e quello della fortuna dell’autore della Divina Commedia.


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LETTERATURA • DANTE E GLI ETRUSCHI

Nella Firenze in cui Dante Alighieri visse e operò, anche sul piano politico, arrivando a raggiungere la carica di priore nel maggio del 1300, si andava riscoprendo il passato etrusco della Toscana per indicare una prospettiva di espansione alla città e legittimarla con un precedente storico. Nella Cronica che lo storico fiorentino Giovanni Villani iniziò a scrivere intorno al 1320, la prospettiva viene esplicitata: «In Maremma e in Maretima verso Roma alla marina di Campagna avea molte città e molti popoli, che oggi sono consumati e venuti a niente per corruzione d’aria: che vi fu la grande città di Populonia, e Soana, e Talamone, e Grosseto, e Civitaveglia, e Mascona, e Lansedonia». Dal canto suo, l’umanista Coluccio Salutati, in una lettera datata 19 luglio 1388, ritorna sul tema con forza ancora maggiore, segnalando come si dovesse guardare agli Etruschi per realizzare un rinnovamento civile e morale. La posizione teorica di Salutati è stata esposta a troppi anni di distanza da quelli di vita del poeta per porla in relazione con lui, ma si comprende che si tratta di un’idea nata decenni prima. Non a caso luoghi dell’antica Etruria ricorrono nella Divina Commedia. Per fare qualche esempio: la Maremma, la Val di Chiana, Perugia, Mantova, testa di ponte etrusca al di là del Po e città natale di Virgilio. Si possono riportare alcuni dei versi del canto XIII dell’Inferno dedicati alla Maremma, che ne descrivono l’abbandono: Non han sí aspri sterpi né sí folti Quelle fiere selvagge che ‘n odio hanno Tra Cecina e Corneto i luoghi cólti Corneto era il nome medievale di Tarquinia e quindi lo sguardo è sul litorale tirrenico, articolato oggi tra le regioni Toscana e Lazio. Nella fortuna dell’opera di Dante Alighieri, il confronto con gli Etruschi torna con una forza ancora maggiore. A tale aspetto Martina Piperno ha dedicato uno studio approfondito nel recente saggio L’antichità «crudele» (Carocci Editore, Roma 2020).

UNA LUNGA TRADIZIONE DI STUDI Di tre «grandi Etruschi»: Dante, Petrarca e Boccaccio parla George Gordon Byron nel quarto canto del Childe Harold, pubblicato nel 1818. In questo caso è possibile che il termine etnico Etruschi sia stato ritenuto sovrapponibile a Toscani e, se cosí fosse, si tratta di una scelta interessante, perché suggerisce come il poeta inglese fosse consapevole di una tradizione di studi, nata in ambito fiorentino, che da lungo tempo tendeva a rivendicare il passato etrusco per la Toscana. La triade venne accolta e fatta propria da George Dennis – diplomatico, archeologo e scrittore anch’egli 64 a r c h e o

inglese – autore di The Cities and Cemeteries of Etruria, pubblicato, in prima edizione, a Londra nel 1848. Ai tre aggiunse altri nomi, tra i quali Giotto, Brunelleschi, Beato Angelico, Luca Signorelli, Nicolò Machiavelli, Galileo Galilei osservando che «nessun’altra regione d’Italia ha prodotto un tale firmamento di luminosi intelletti». Secondo Dennis, tale circostanza si collega al passato etrusco, dato che «un’antica civiltà è solita conservare a lungo le proprie tracce anche su un terreno abbandonato». E aggiunge: «le radici dell’antica vita morale, cosí come quelle dell’abito fisico, non si strappano facilmente». Un salto di qualità nel riconoscimento di un’ascendenza etrusca in Dante Alighieri avviene con Giosue Carducci, che visse da vicino e con interesse la straParticolare del coperchio del sarcofago dalla tomba dei Vipinana, scoperta nella necropoli del Carcarello, a Tuscania. 310-300 a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Il defunto è ritratto disteso, cinto dalla corona conviviale e con una phiàle (tazza per libagioni) nella mano destra.


ordinaria stagione della riscoperta del passato di Bologna, l’etrusca Felsina. In Avanti! Avanti!, un’ode inserita nella raccolta Giambi ed epodi, pubblicata nel 1882, offre un’immagine forte e destinata a segnare i giudizi successivi (versi 109-112): E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada che ne’ solchi de i secoli aperti con la spada dal console roman Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava; Dante diviene qui un sacerdote etrusco, che riappare dopo i secoli segnati dall’egemonia di Roma. Non solo, in una prosa del 1888, L’opera di Dante, Carducci sostiene la somiglianza fisica e, in una certa misura,

morale con gli Etruschi: «I lineamenti del viso attestano in lui il tipo etrusco, quel tipo che dura ostinato per tutta Toscana mescolandosi al romano e sopraffacendolo». Inoltre, fa un’osservazione destinata a essere ripresa: «E cosí nell’opera artistica della visione cristiana l’Alighieri avrebbe recato l’abitudine al mistero d’oltre tomba da una razza sacerdotale, che pare vivesse per le tombe e nelle tombe, l’etrusca».

LE «GAMBE SMILZE» DEGLI ETRUSCHI La sovrapposizione di Dante con il passato etrusco ritorna in un altro scrittore e poeta italiano: Gabriele D’Annunzio. Per inciso si può osservare – sulla scia di Piperno – che lo stesso Carducci diviene un etrusco, almeno sul piano fisico, per il Vate. Questi, infatti, nel

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LETTERATURA • DANTE E GLI ETRUSCHI

testo Di un maestro avverso (1907), cosí lo descrive: «Poteva egli ricordare quegli Etruschi dalle gambe smilze e dallo stomaco prominente che si veggono accosciati su i coperchi delle urne funerarie». Nel romanzo Forse che sí forse che no (1910), ambientato in parte nell’etrusca Volterra, D’Annunzio fa pronunciare ad Aldo, fratello minore della spregiudicata coprotagonista – rappresentata non a caso come un’etrusca, secondo quanto ha osservato Maurizio Harari – parole chiare sull’idea che si era fatto del legame tra Dante e il mondo etrusco. Il giovane si trova nel Museo «Mario Guarnacci» e osservando le opere che vi sono conservate afferma: «Non hai mai pensato che Dante ha ripreso l’arte dei dipintori di vasi e l’ha ingigantita col suo polso strapotente? Quasi tutta la prima cantica non è di figure rosse su fondo nero, di figure nere su fondo rosso? Taluni suoi versi non li vedi rilucere di quel nero metallico che hanno certi fittili? E le sue ombre non sono simili ai Vivi, come i Mani scolpiti in questi alabastri?».

Gabriele D’Annunzio vide nell’opera di Dante una ripresa dell’arte dei «dipintori di vasi» 66 a r c h e o

TRISTEZZA E MALINCONIA D’altronde, alcune righe prima aveva osservato: «la Tristezza è la musa etrusca, è quella che accompagnerà per le vie dell’esilio e dell’inferno un grande Etrusco colorato dalla bile atra». Un accenno alla tristezza, alla malinconia attribuita agli Etruschi che può avere ripreso da Johann Joachim Winckelmann, il quale lo affermò sulla base della lettura di alcune fonti letterarie dell’antichità e di almeno una moderna, ovvero il De Etruria regali di Thomas Dempster. Sensazioni, umori che avrebbero generato – sempre secondo Winckelmann – la grande attenzione etrusca per l’arte divinatoria. Un’altra fonte per D’Annunzio potrebbe essere stato il filosofo Friedrich Wilhelm Nietzsche che, ne La nascita della tragedia, parla di «malinconici Etruschi» («die schwermüthigen Etrurier»). Ciò che qui vogliamo sottolineare è soprattutto che la Tristezza è vista come l’anello di congiunzione tra Dante e i suoi antenati etruschi nel giudizio del Vate. Una valutazione che arriva a influenzare lo stesso paesaggio volterrano: «Era sorta la luna logora dietro il mastio mediceo. La magnolia, solitaria nel cortiletto inverdito di muschi, insaporava del suo profumo il silenzio notturno, possente di mollezza nella notte contro il grand’elce austero, tutta molle nella sua cerea carne». Un’immagine cupa del mondo etrusco che non si ritrova in altre letterature, come, per esempio, in quella inglese, nella quale prevalgono invece la gioia di vivere degli Etruschi, la luminosità del loro mondo. David Herbert Lawrence, in Etruscan Places, un’opera uscita postuma (Londra, 1932), che raccoglie le sue impressioni di un viaggio desiderato a lungo e realizzato nella primavera del 1927, giunto a Tarquinia


A destra: frammento di una terracotta architettonica policroma raffigurante un demone a tre teste, da Campo della Fiera (Orvieto). 480 a.C. circa. Berlino, Altes Museum. Nella pagina accanto: particolare della decorazione di un cratere a figure rosse con l’immagine di Charun, divinità infera etrusca, da Vulci. 300 a.C. circa. Berlino, Altes Museum.

scrive: «di colpo ci affacciamo su uno dei paesaggi piú straordinari che io abbia mai visto, la vergine essenza di questa campagne di verdi colline. Tutto è grano – ovunque verde morbido, che corre su e giú a perdita d’occhio, splendente nel verde primaverile». D’altronde, per lui la civiltà degli Etruschi era riuscita ad attraversare il Medioevo e quindi l’età di Dante, la modernità, a raggiungere la contemporaneità e appare destinata a proiettarsi nel futuro: «Roma cadde, e tutto il mondo romano con essa. Ma nell’Italia di oggi c’è assai piú sangue etrusco che romano, e sarà sempre cosí. In Italia l’elemento etrusco è come l’erba del campo, i germogli del grano: sarà sempre cosí». Un altro poeta e scrittore italiano, Vincenzo Cardarelli, ha trovato punti di contatto tra Dante e gli Etruschi. Ne Il cielo sulle città, pubblicato nel 1939, afferma: «Se volete farvi un’idea dell’Etruria (…) pensate alla Toscana del Medioevo, agli affreschi dell’Orcagna, alla geologica fantasia dantesca». Una geologica fantasia, che – di strato in strato – sarebbe andata indietro nel tempo sino alla fase etrusca, avendo avuto occasione magari – come avevano ipotizzato prima Arturo Frova (1908) e lo scrittore Giovanni Papini (1933) – di visitare alcune tombe etrusche riportate alla luce. Papini, in Dante vivo, afferma esplicitamente: «certe pitture sepolcrali etru-

sche sono illustrazioni anticipate dell’Inferno dantesco». Nel clima degli Anni Venti e Trenta del Novecento si arrivò a caratterizzare in senso razziale l’«ascendenza etrusca» di Dante, ipotizzando una «razza aquilina» in cui il poeta sarebbe rientrato per via del suo naso pronunciato. Un’idea, che oggi fa sorridere, ma che, al tempo, trovò sostenitori convinti e dette spunti per dibattere. C’è un altro punto possibile di contatto tra gli Etruschi e Dante ed è l’esperienza comune delle «piccole patrie»: le città-stato per i primi, le città medievali per il poeta. «Piccole patrie» che – s’intende – potevano essere grandi per cultura e visione politica e – nei limiti imposti dai tempi – per vivacità economica. PER SAPERNE DI PIÚ Giuseppe M. Della Fina, Note sul mito degli Etruschi nella letteratura italiana, in Stefano Bruni (a cura di), Etruria e Italia preromana. Studi in onore di Giovannangelo Camporeale, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2009; pp. 309-312 Martina Piperno, L’antichità «crudele». Etruschi e Italici nella letteratura italiana del Novecento, Carocci editore, Roma 2020; pp. 25-55, con bibliografia ulteriore a r c h e o 67


LUOGHI DEL SACRO/8

AD ASTARTE «SIGNORA DI MALTA»

QUALI SONO I TRATTI SPECIFICI DEI SANTUARI FENICI? E IN CHE COSA SI DISTINGUEVANO DAGLI ALTRI LUOGHI DI CULTO DELL’ANTICO MEDITERRANEO? ECCO IL «RACCONTO ARCHEOLOGICO» DI UN COMPLESSO UNICO PER GRANDIOSITÀ E LONGEVITÀ: IL TEMPIO MALTESE DI TAS SILG. DEDICATO ALLA DEA FENICIA PROTETTRICE DEI VIAGGIATORI E DELLE ROTTE DI NAVIGAZIONE, SORGE ISOLATO SULLA CIMA DI UNA COLLINA, BEN VISIBILE DAL MARE. E LA SUA SACRALITÀ, CANTATA PERFINO DA CICERONE, AFFONDA LE RADICI NELLA PIÚ REMOTA PREISTORIA DELL’ISOLA... di Maria Giulia Amadasi Guzzo

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el movimento dei Fenici verso Occidente, e nel successivo organizzarsi dei loro viaggi e reti di rapporti, è importante il ruolo dei santuari come sede di sosta e di pellegrinaggi, in qualche caso di oracoli per intraprendere nuove fondazioni. I santuari fenici, però, non sono soltanto luoghi di culto: sono anche spazi d’incontro, di informazione e di scambio; sono centri di accumulo di ricchezze, costituite per lo piú da doni votivi preziosi che, all’occorrenza, possono essere impiegati in circostanze particolari, per esempio per l’organizzazione di nuove imprese o viaggi da proseguire. Il santuario di Astarte a Malta è un tipico esempio di area sacra e di luogo di aggregazione e di scambio: situato nel centro del Mediterraneo, all’incrocio di rotte commerciali che lo attraversano e nello stesso tempo complesso cultuale attivo fin

dalla preistoria. Alla fine dell’VIII secolo a.C., infatti, i Fenici fondarono il luogo di culto dedicato alla loro dea su un precedente tempio megalitico locale e la sua frequentazione si svolse poi ininterrottamente fino al periodo bizantino.

BEN VISIBILE DAL MARE Il santuario sorge nella parte sudorientale dell’isola di Malta, in una località chiamata Tas Silg, che significa «della neve», in ricordo di un miracolo che portò alla costruzione di una chiesa dedicata alla Madonna, poco distante, fuori da qualsiasi centro abitato. Il luogo su cui sorge il tempio – chiamato piú precisamente Ta’ Berikka – è la sommità di un’altura modesta, ma ben visibile dal mare, affacciata sull’odierna baia di Marsaxlokk (Marsascirocco), sede del principale porto antico dell’isola. Il luogo, come detto, era già fre-

quentato nei millenni precedenti: vi sorgeva un vasto complesso sacro del periodo della preistoria locale chiamato di Tarxien (3000-2500 a.C. circa), che prende il nome da un importante santuario megalitico. Mentre quest’ultimo, come quelli, sempre maltesi, di Mnajdra e di Hagar Qim, si sono preservati fino a oggi in elevato, perché sono stati frequentati solo per un periodo di tempo limitato, del santuario di Tas Silg non rimangono che le basi dei muri, proprio a seguito della sua lunga vita e dei molti rifacimenti. Nel corso di vari millenni gli edifici sono stati oggetto di ristrutturazioni, modifiche nell’uso di alcuni ambienti e nuovi fabbricati, che hanno obliterato gli edifici precedenti, a cui hanno poi fatto seguito continue spoliazioni e cave per pietre da costruzione, fino a ridurre tutte le strutture allo stato attuale di rovine: ancora nel XVIII secolo il

Nelle due pagine: ortofoto dell’area in cui si conservano i resti del santuario di Tas Silg, nel settore sud-orientale dell’isola di Malta. A destra: ricostruzione virtuale dei «templi» I e II e dei vani subito a nord del santuario neolitico tardo. Il complesso cultuale era costituito da quattro templi megalitici e vari ambienti annessi a pianta quadrangolare.

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pittore e incisore Jean Houël riproduceva un alto muro quasi integro del luogo sacro, ora del tutto scomparso. Tuttavia, nel corso del tempo, i resti antichi erano rimasti ben noti agli studiosi delle varie epoche ed erano stati attribuiti a un santuario di Eracle (che è l’identificazione greca del dio fenicio Melqart). Nella sua Geografia, il matematico greco Tolomeo (100-175 d.C. circa) situa a Malta questo luogo di culto insieme a quello dedicato alla dea Era, corrispondente alla fenicia Astarte, difficile da collocare nello spazio isolano. Le coordinate fornite da Tolomeo, infatti, non sono esatte, sicché tanto l’identificazione che la posizione effettiva delle località da lui citate sono decisamente incerte. Il santuario di Tas Silg era identificato con quello di Eracle-Melqart perché si supponeva che da lí provenissero due candelabri in marmo con alla base un’iscrizione bilingue in fenicio e in greco, recante una dedica a Melqart nella parte fenicia e a Eracle in quella greca: due monumenti preziosi, giacché furono alla base della decifrazione del fenicio nel corso del XVIII secolo, ma la cui origine, come hanno dimostrato le ricerche successive, rimane del tutto sconosciuta.

LA SCOPERTA Lo scavo sistematico del sito di Tas Silg iniziò nel 1963 grazie alla collaborazione tra Michelangelo Cagiano de Azevedo, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Sabatino Moscati, docente all’Università di Roma-«La Sapienza». Nacque allora la Missione archeologica italiana a Malta, diretta sul terreno dallo stesso Cagiano de Azevedo e affidata, per la parte fenicia, ad Antonia Ciasca, docente di archeologia fenicio-punica a Roma. Vi partecipavano studiosi di discipline diverse e numerosi giovani allievi; la Missione operò annualmente fino al 1970, pubblicando man mano i risultati dei lavori. Una serie di dif70 a r c h e o

L’ISOLA, DAI PRIMORDI ALL’EPOCA BIZANTINA ETÀ FASE DATA

SITI ED EVENTI PIÚ IMPORTANTI

Geologica Miocene 20 000 000 5 000 000 Pleistocene 100 000

Formazione delle rocce. Malta diventa un’isola. Fauna caratterizzata da nanismo.

Neolitico Ghar Dalam 5000 a.C. Grey Skorba Red Skorba

Primi insediamenti e pratica dell’agricoltura.

Neolitico Zebbug 4000 Tardo Mgarr Ggantija 3600 Saflieni Tarxien 3000

Tombe ipogeiche.

Età del Bronzo Thermi Ware 2300 Tarxien Cemetery 2100 Borg in-Nadur 1500 Bahrija 1050

Primi complessi templari. Massimo sviluppo dei «templi».

Cremazione; diffusione della metallurgia. Villaggi fortificati e segni del passaggio di carri.

Età fenicio- Fenici dalla fine Necropoli; attività punica dell’VIII commerciale. sec. a.C. Trasformazione del «tempio» di Tas Silg nel santuario di Astarte. Cartaginesi Necropoli. Età romana Repubblica dal 218 a.C. Impero

Fondazione di città. Costruzione di ville e terme; necropoli.

Età IV-VII sec. d.C. Catacombe; necropoli; paleocristiana insediamenti. e bizantina


Gozo Ras il-Wardija Xlendi

Ramla Bay

Marsalforn

Tas-Silg

Xaghra

Kercem

Victoria

Marsaxlokk

Ggantija 0

Xewkija

4 Km St. George's Bay

Mgarr Cominotto

Tumbrell Point

Borg in-Nadur

Comino

Marsaxlokk Bay

Pretty Bay

Delimara Point

N

A destra: carta dell’arcipelago maltese con, in evidenza, i siti indagati dalla Missione Archeologica Italiana – Tas Silg e San Pawl Milqi a Malta, e Ras-il-Wardija a Gozo –, nonché i principali insediamenti a oggi noti. Nel riquadro in alto, la baia di Marsaxlokk, principale porto antico dell’isola, con il posizionamento del santuario di Tas Silg. Nella pagina accanto: una veduta dal santuario di Tas Silg verso est. In basso: cartina del Mediterraneo con l’indicazione delle rotte marine dei mercanti fenici. Sfruttando le correnti, la navigazione verso ovest, partendo dalla costa della Fenicia, toccava le isole di Cipro e Creta prima di inoltrarsi in mare aperto in direzione della Sicilia e Malta. La rotta di ritorno dalle colonie occidentali, invece, seguiva un percorso lungo la sponda meridionale del Mediterraneo.

Mellieha Bay Melliena

0

San Paul’s Bay

1 Km

Ras il Qawra

Salina Bay

San Pawl Milqi Ghain Tuffieha Bay

Mgarr

Zebbieq

Gharghur

Skorba

Ras ir-Raheb

Bingemma

Mosta

Naxxar San Gwann

Marsamxett Harbour

Valletta V

Birkirkara Bahrija

Grand Harbour

Attard Ghajn Klieb

Mdina

b Rabat

Vittoriosa

Qormi

Marsa

Zebbug

Paola

Dingli

Hal Saflieni Cospicua

Tarxien Marsascala

Luga

Siggiewi

Tas Silg

Mqabba

Marsaxlokk

Mnajdra

Qrendi

Borg in-Nadur

Hagar Qim Tal Bakkari Hal Far

Mozia Cartagine Malta Sidone Tiro

Birzebugga Marsaxlokk Bay

ficoltà impreviste e la mancanza di fondi impedirono la continuazione dello scavo negli anni successivi, ma non s’interruppero lo studio e la catalogazione dei materiali, l’analisi e l’approfondimento dei problemi posti dall’interpretazione dei monumenti messi in luce. La Missione riprese infine le sue attività nel 1995, con la collaborazione tra la «Sapienza» Università di Roma, l’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’Università degli Studi di Lecce, avviando un progetto di studio di ampio respiro, diretto da Antonia Ciasca (Roma), poi da Maria Pia Rossignani (Milano), quindi da Grazia Semeraro (Lecce), infine da Alberto Cazzella (Roma). a r c h e o 71


LUOGHI DEL SACRO/8

Per quanto riguarda la parte fenicia del santuario, sono state chiarite le diverse fasi edilizie ed è stata proposta una ricostruzione particolareggiata del complesso nel periodo tardo ellenistico-repubblicano del II-I secolo a.C. Contemporaneamente, si stanno pubblicando vari studi, sia d’insieme, sia di specifici aspetti e settori del luogo di culto; grazie poi a nuove indagini sul terreno, si è notevolmente ampliata la conoscenza dell’assetto dell’area sacra nel periodo preistorico e nell’età del Bronzo, nel III e II millennio a.C. Accanto ai lavori della Missione archeologica italiana, dal 1996 al 2005 una Missione del Department of Classics and Archaeology dell’Università di Malta, sotto la direzione di Anthony Bonanno e Anthony J. Frendo, ha realizzato scavi nell’area sud del santuario, sede di costruzioni sussidiarie rispetto all’edificio centrale situato nell’area nord e di depositi di oggetti votivi dismessi. I risultati dei lavori sono stati pubblicati in una importante e bella monografia.

IL SANTUARIO Fin dal primo anno dello scavo della Missione italiana, furono messe in luce alcune iscrizioni, sia su pietra – su una sorta di mensola in calcare –, sia su vasi frammentari che si rivolgevano in fenicio alla dea Astarte e in greco a Era. Questi documenti dimostrarono che il complesso non andava identificato con il santuario di Melqart, come si era supposto, ma con quello dedicato ad Astarte, la cui localizzazione geografica era, come s’è detto, fino ad allora dibattuta. In periodo romano, il luogo sacro della dea è ricordato da Cicerone come il celebre fanum Iunonis, nelle arringhe contro Verre, il procuratore romano a Malta che lo aveva depredato e per la cui condanna perorava l’illustre oratore. Cicerone ricorda la fama e lo splendore del santuario, paragonandolo al rinomato santuario di Era a Samo, e ne 72 a r c h e o

DAL NEOLITICO ALL’ETÀ DEL FERR

Nella pagina accanto: rilievo della porzione del santuario del Neolitico Tardo delle strutture dell’età del Bronzo; il colore piú chiaro indica le ipotesi ricostruttive dell’andamento di alcuni degli edifici megalitici. È inoltre segnalato il punto di rinvenimento del crescente lunare in agata con iscrizione cuneiforme (foto in alto, nella pagina accanto). In questa pagina, in alto: sulla sinistra l’ambiente M, caratterizzato dal lungo «altare» megalitico addossato alla parete curvilinea che delimita l’abside settentrionale del «tempio» IV. Sulla destra, il corridoio F che conduce al «tempio» IV, di dimensioni uguali o maggiori al «tempio» I.

cita, in particolare, le raffinate sculture in avorio. Di questa magnificenza passata rimangono ora frammenti di decorazioni architettoniche e di arredi sacri, molti dei quali proprio in avorio: seppure in cattivo stato, il materiale rinvenuto permette una ricostruzione non solo dell’aspetto assunto dal santuario in alcuni periodi del suo sviluppo, ma, in modo specifico, della sua ricchezza e grandiosità originarie, che subito sono apparse incomparabili nel paesaggio sacro del Mediterraneo occidentale antico. Il santuario di Tas Silg è unico anche per il perdurare nel tempo dell’uso cultuale di strutture megalitiche, inglobate in costruzioni di vari periodi successivi che, pur modificandone

profondamente l’aspetto e l’uso funzionale, mantennero però una evidente continuità e il legame con una tradizione millenaria. I Fenici installarono dunque il loro luogo di culto all’interno di un’area sacra imponente, che esisteva fin dal periodo tardo-neolitico maltese detto di Tarxien (3000-2500 a.C. circa) e che era costituita da un insieme di templi e strutture annesse. Gli scavi hanno mostrato che, all’arrivo dei naviganti orientali, queste costruzioni dovevano essere ancora ben conservate in alzato, sebbene non fossero in uso. Tra i monumenti che qui si ergevano, i nuovi venuti scelsero come sede del tempio della loro dea un edificio a lobi (chiamato tempio I),


agata

MURO DELLA TARDA ETÀ DEL BRONZO

che mostra una pianta caratteristica delle costruzioni megalitiche maltesi; presenta inoltre alcune specificità e, in particolare, un’apertura sul retro. Il grande lobo dell’edificio megalitico fu scelto come zona piú consacrata del santuario e si mantenne tale per tutta la storia del luogo di culto.

RO

ENTRATA ORIENTALE: RESTAURO DELL’ETÀ DEL BRONZO

N

Qui sopra: l’ortostato che delimita a ovest l’ambiente M con la piccola apertura quadrangolare modanata, il cosiddetto oracle hole (nicchia oracolare) forse utilizzato per mettere in comunicazione i fedeli con il «sacerdote». a r c h e o 73


LUOGHI DEL SACRO/8

N

Planimetria generale del santuario megalitico con, in evidenza, i resti archeologici relativi alle diverse fasi, dalla preistoria all’età bizantina.

«Sapienza» di Roma, l’Università di Foggia e la Superintendence of Cultural Heritage di Malta; le loro ricerche hanno mostrato come gli edifici tardo-neolitici continuarono a essere usati nelle varie fasi dell’età del Bronzo maltese, periodi che sono contraddistinti da nomi d’insediamenti locali che li hanno messi in evidenza: sono, piú in particolare, la fase della cosiddetta «ceramica di Thermi», tra il tardo Neolitico e l’inizio del Bronzo; la fase del cimitero di Tarxien, tra la fine del III millennio e la metà del II; quella di Borg in-Nadur, verso la fine del II millennio, e, da ultimo, la fase di Bahrija , tra la fine dell’età del Bronzo e gli inizi del Ferro. LE FASI PREISTORICHE I lavori concentrati sul periodo Lo studio degli specialisti di preipreistorico del santuario hanno vi- storia ha mostrato che, nell’ultimo sto la collaborazione tra l’Università terzo del II millennio a.C., i comÈ possibile che, nella fase preistorica, fosse già venerato lí un essere sovrumano femminile: lo mostra un altorilievo con una figura di donna trovato fuori posto nel lobo centrale. Altri apprestamenti tardoneolitici a lobi presenti nella zona (templi II, III, IV) e vari monumenti di pianta rettangolare dovevano essere ancora visibili: gli specialisti di preistoria stanno cercando di precisare in che misura le strutture neolitiche e del successivo periodo del Bronzo fossero eventualmente integrate e usate nel santuario fenicio, mentre altre, invece, furono certamente obliterate.

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strutture preistoriche non più visibili in epoca storica strutture preistoriche rimaste visibili periodo arcaico , prima e media età ellenistica periodo tardo - ellenistico periodo bizantino

Nella pagina accanto, in basso: proposta ricostruttiva dell’altare a tavola su gradini sorto nel IV sec. a.C. su un sacello di epoca precedente, probabilmente destinato a custodire la statua di culto del tempio di epoca fenicia. Sopra il disegno, uno dei cippi che attorniavano l’altare, sepolto sotto le pavimentazioni successive.


In alto: lo spazio sacrificale del santuario; in rosso, la fase documentata nel VII-VI sec. a.C.; in azzurro, la fase relativa al IV sec. a.C., quando la recinzione dell’area fu sostituita da una struttura a blocchi.

merci tra Malta e diverse aree del Mediterraneo dovevano essere vivaci e diversificati: lo indicano i ritrovamenti effettuati sia a Malta stessa, sia in varie località della Sicilia, dell’Egeo e del Levante, oltre che dell’Africa del Nord. Il rinvenimento di oggetti in metallo, inoltre, ha suggerito l’ipotesi di un ruolo commerciale di Cipro nel periodo del Bronzo Finale. A questo ruolo di Cipro a Malta potrebbe essere legata la scoperta, avvenuta nel 2010 – fuori contesto e in un livello verosimilmente di epoca ellenistica –, di un frammento di agata con un’iscrizione cuneiforme, attribuito al XIII secolo a.C. e ricostruito come un crescente lunare; l’iscrizione è infatti una dedica al dio Luna della città mesopotamica di Nippur, e l’oggetto deve provenire dal santuario di questa divinità. Si è posta perciò la a r c h e o 75


LUOGHI DEL SACRO/8

questione di quando e da chi questo ex voto sia stato portato nel santuario maltese. Alberto Cazzella e Giulia Recchia hanno proposto che l’oggetto possa esservi giunto verso la fine del II millennio a.C., proprio tramite il commercio cipriota attraverso la Sicilia, e sia stato poi consacrato probabilmente per il pregio del materiale e della fattura. L’attività di mercanti ciprioti potrebbe aver preceduto a Malta, nell’età del Bronzo, quella dei Fenici e forse proprio Cipro, i cui contatti con la costa fenicia sono sempre stati stretti, avrebbe fatto arrivare alle città della costa asiatica la fama del celebre santuario che i piú recenti viaggiatori avrebbero poi fatto proprio.

CONVIVENZA PACIFICA Basandosi sulle ricostruzioni proposte da Maria Pia Rossignani e Antonia Ciasca, si può affermare che i primi residenti fenici si stanziarono dovunque a stretto contatto con gli indigeni, in modo piú evidente a Malta rispetto a quanto avviene in altri insediamenti dell’Occidente, dove una coabitazione tra genti locali e nuovi venuti è comunque ben testimoniata. Spicca, a Malta, la singolarità di quanto accadde a Tas Silg, dove i Fenici scelsero e riutilizzarono come sede specifica del proprio luogo sacro un precedente tempio. Esso presentava, come accennato, un grande lobo con la facciata curvilinea e l’interno diviso in due vani ad abside, ed era posto sulla sommità della collinetta, in direzione est-ovest. 76 a r c h e o

In alto: orecchio in avorio pertinente a una statua, con foro per l’aggancio dell’orecchino. Nella sua invettiva contro Verre, Cicerone ricordava «la grande quantità di avorio e i molti ornamenti» conservati nel santuario. In basso: piccola edicola in calcare, che reca al suo interno l’immagine di una divinità femminile.

Nel primo periodo dell’impianto del santuario che dedicarono ad Astarte, i nuovi arrivati non modificarono di molto le strutture esistenti. L’area si caratterizzò come luogo di culto isolato, lontano dalle principali città e posto a protezione dell’intera isola, come dimostra l’epiteto attribuito alla dea: «Astarte di Malta», cštrt ’nn. Quest’ultimo termine, la cui pronuncia antica è incerta, è il nome fenicio dell’isola di Malta, già noto prima della scoperta del santuario grazie a legende di monete dell’isola. Varie fasi edilizie caratterizzarono nel tempo la vita del luogo sacro; mancano però molti dati, soprattutto per il periodo fenicio piú antico: il suolo roccioso e i cospicui rifacimenti non hanno permesso la formazione di un interro abbastanza profondo, sicché solo in alcuni settori si riesce a ottenere una successione stratigrafica apprezzabile per ricostruire le modalità di sviluppo dell’area. Il suo assetto complessivo si può ricomporre in dettaglio solamente per la fase tardo-ellenistica e repubblicana (II-I secolo a.C.), quando tutto l’insieme subí un profondo rifacimento e rinnovamento, che, nell’insieme, sussistette fino all’epoca bizantina. La cima della collina, con il tempio originario, rimase sempre la parte centrale del culto, mentre le aree circostanti furono adibite a funzioni differenziate, presentando varie ristrutturazioni e nuove costruzioni. Forse già nel VII secolo e certa-


mente nel VI, l’entrata concava del tempio fu regolarizzata in senso rettilineo: si edificarono due muri appoggiati alle estremità della facciata rientrante, che dovevano terminare in due pilastri con capitello a doppia gola egizia, definendo cosí il passaggio d’ingresso al tempio. Questi pilastri d’ingresso erano poi probabilmente collegati a una recinzione che delimitava tutto lo spazio davanti al tempio. Di fronte all’ingresso cosí modificato, fu posto un grande altare a lastra incastrato nella roccia, dove si svol-

gevano i sacrifici animali piú solenni. Nel corso del tempo, questo grande altare centrale venne dismesso e fu sostituito, piú a ovest, da altre strutture: furono innalzati in questo settore due importanti monumenti, uno dei quali è rappresentato da un altare che sostituiva il precedente, mentre l’altro può forse interpretarsi come una cappella.

deposte le offerte venne realizzato nel IV-III secolo a.C. e continuò a essere usato anche nella fase successiva: ricostruito da vari frammenti, esso conserva tuttora i resti di una dedica «ad Astarte di Malta». Oltre a questi edifici, l’area doveva accogliere gli ex voto dei fedeli: piccoli monumenti, dei quali si sono trovati soltanto gli incassi delle basi, asportati nel rifacimento successivo, quando la zona fu coperta da un LA DEDICA ALLA DEA Vari altri monumenti furono poi lastricato. Una stele, non rinvenuta eretti nella corte; tra questi, un nuo- in situ, costituisce un esempio del vo altare a tavola sulla quale erano tipo di doni votivi lasciati dai fedeli.

LA FASE ELLENISTICA

Pianta ricostruttiva dell’area centrale del santuario agli inizi del I sec. a.C. A quest’epoca risale l’ultima importante ristrutturazione dell’edificio, probabilmente dedicato alla dea Era, assimilata con Astarte, prima dei radicali interventi di età bizantina. Una corte-peristilio pavimentata da lastre di calcare e circondata da portici viene realizzata nell’area antistante la facciata del tempio neolitico, coincidente con l’antico spazio sacrificale. A destra: impronte di cippi e stele votive presso l’altare.

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LUOGHI DEL SACRO/8

TUTTI GLI DÈI DI TAS SILG La grande quantità di vasi iscritti, con dediche o sigle eseguite prima della cottura, è una caratteristica del santuario di Malta, non attestata in altri luoghi di culto del Levante e dell’Occidente fenicio. Questi recipienti dovevano essere certamente fabbricati in fornaci annesse al santuario, ancora non individuate. La loro importanza, al di là dei dati sulla ceramica e le iscrizioni, risiede nelle indicazioni sulle divinità destinatarie delle offerte, sui tipi e i modi dei sacrifici e sul personale del santuario. Fin dal primo anno di scavo, una sorta di mensola recante una richiesta di benedizione da parte di Astarte, e vasi con i nomi di Astarte, in fenicio, e di Era, in greco, hanno dimostrato che l’area sacra di Tas Silg era dedicata a questa dea. Negli anni successivi, negli scarichi del santuario dell’area sud e in varie altre zone dell’area nord, in particolare intorno ad alcuni specifici monumenti o altari, sono venuti in luce numerosissimi vasi con iscrizioni; un gruppo di quasi 200 esemplari conteneva l’espressione «di Astarte», o «per Astarte», definendo i vasi come offerte alla dea. Altri arredi del santuario hanno confermato il culto di questa divinità che – come si è visto – in vari casi è definita come «Astarte di Malta». Il santuario era dunque dedicato a questa sovrumana protettrice dell’intera isola e la sua posizione, distante da qualsiasi centro abitato, ma dominante il principale approdo, conferma la funzione sovracittadina del luogo di culto e la funzione specifica della dea qui venerata quale protettrice dei viaggiatori e delle rotte di navigazione. Se il tempio megalitico era senza dubbio dedicato all’Astarte di Malta, indizi del culto di una divinità maschile sono apparsi già nella prima fase degli scavi. Tra i vasi iscritti, una coppetta aveva il nome del dio Milkashtart citato in un testo frammentario: era difficile tuttavia affermare l’esistenza del culto di questa divinità nel santuario stesso; si era anzi supposto, per colmare la lacuna nell’iscrizione, che il dedicante fosse un «sacerdote di

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In alto: coppetta con iscrizione frammentaria recante il nome del dio Milkashtart. IV-III sec. a.C. circa. In basso: placchetta frammentaria in avorio con dedica di una «statua femminile» ad Astarte di Malta.

In basso: placchetta frammentaria in avorio con la menzione di uno «scriba » forse impiegato nel santuario.

Milkashtart», divinità venerata altrove, venuto a offrire il suo dono ad Astarte. Il dio Milkashtart è ben noto nel Levante fin dal periodo del Bronzo Tardo (XIV-XIII secolo a.C. circa). Sono famosi alcuni scongiuri nei quali il dio interviene per guarire dai morsi di serpente, che provengono dalla città-stato di Ugarit, sulla costa siriana vicino all’attuale Latakia (Laodicea). In età ellenistica, la divinità è venerata sulla costa fenicia, in un santuario poco a sud di Tiro – Umm el-Amed – proprio accanto ad Astarte. In Occidente, è testimoniata a Cadice in Spagna e a Leptis Magna in Africa, dove è uno dei due patroni della città; qui è identificato in periodo romano con Ercole. Gli scavi dell’Università di Malta hanno messo in luce, successivamente al ritrovamento della Missione italiana, due vasi dedicati a Milkashtart. Sappiamo cosí che a Tas Silg anche una divinità maschile riceveva un culto, forse in qualità di paredro di Astarte, come Melqart lo è a Tiro. La vicinanza tra Melqart e Milkashtart è comunque evidente: entrambi sono identificati con Eracle/Ercole; e proprio a Cadice, dove le fonti antiche pongono un antichissimo santuario di Eracle, nell’unica iscrizione fenicia che nomina qui una divinità maschile, è testimoniato il culto di Milkashtart. Non deve dunque meravigliare che a Tas Silg Astarte avesse accanto questo dio. Dove questi avesse la sua dimora all’interno dell’area sacra non è accertato: forse non nel lobo megalitico, ma in uno degli edifici messi in luce nella zona circostante e interpretato come una cappella. La sua venerazione doveva comunque essere secondaria rispetto a quella di Astarte, poiché solo alla dea sono dedicate le iscrizioni su oggetti di pregio o arredi del tempio e solo il suo nome figura su quasi tutti i recipienti che contenevano le offerte alimentari.


Come la zona di fronte al tempio, il settore nord dell’area era occupato da edifici di uso cultuale, anche se le loro funzioni non sono sempre chiare: due costruzioni (43 e 38; vedi piantina a p. 81), interpretate in un primo tempo come altari, sono verosimilmente da intendere, invece, come un unico complesso sacro, che è stato messo in rapporto con un culto di tipo ctonio. Antonia Ciasca ha proposto che il settore nord del santuario fosse riservato ai sacrifici dei devoti e a pasti rituali comunitari: ne sono testimonianza centinaia di recipienti in ceramica, messi in luce soprattutto in scarichi del santuario, spesso iscritti con dediche ad Astarte o

Uno dei nominali anonimi del valore di 4 nummi, rinvenuti durante gli scavi nel fonte battesimale. Fine del V-primo trentennio del VI sec. d.C. Tali emissioni attestano la circolazione sul territorio maltese di monetazione vandala e protovandala.

sigle di poche lettere.Tra questi vasi, numerose pentole presentano traccia di bruciato e dovevano contenere i cibi cotti sul posto e poi consumati in piatti e ciotole, anch’essi spesso iscritti. Le dimensioni non grandi delle pentole indicano che i fedeli dovevano convenire nel santuario in piccoli gruppi familiari.

PASTI COMUNITARI Nel sacrificio, parti dell’animale erano riservate alla divinità e venivano bruciate, mentre altre spettavano ai sacerdoti e ai fedeli, che allestivano i pasti in comune.Tale ricostruzione si fonda anche su alcuni passi biblici, che ricordano sia i tipi e i modi israelitici di compiere sacrifici, sia i pasti in comune di gruppi familiari. Altri elementi di confronto piú specifico, inoltre, sono offerti da alcune iscrizioni cartaginesi del IV-III secolo a.C., dette «tariffe sacrificali», che indicano i vari tipi di sacrifici e di animali offerti nei templi; queste epigrafi elencano anche la suddivisione delle carni immolate, con le parti riservate al clero e quelle che andavano al fedele offerente, benché non sia ancora possibile chiarire tutti i vocaboli che designano gli animali da offrire e le parti da dividere. Un vasto intervento complessivo di ristrutturazione venne attuato nel II-I secolo a.C., quando Malta era sotto il dominio romano, e il santuario fu rinnovato interamente, in conformità con modelli ellenistici allora in voga (vedi box a p. 77). In questo periodo l’area sacra viene ridotta e circoscritta da un muro di cinta (muro D nell’area nord). All’interno cambiano alcuni orientamenti e nella parte antistante l’edificio templare preistorico viene creata una vasta corte lastricata, circondata da un insieme di porticati in parte a doppia navata, di chiara impronta ellenistica. L’area del tempio viene lastricata con una sorta di tappeto a mosaico in marmo bianco, mentre tutt’intorno si realizza

Qui sotto: dritto e rovescio di una moneta di epoca romanorepubblicana, battuta dalla locale zecca di Melita.

In basso: tremisse in oro di Costantino IV (670-674 d.C. circa) coniato nella zecca di Siracusa, dal deposito del fonte battesimale.

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LUOGHI DEL SACRO/8

un pavimento in cocciopesto e si costruiscono nuovi altari. Le strutture piú antiche, rasate al livello del suolo, rimangono comunque visibili, come per tramandarne la memoria; restano ugualmente intatti i lobi del tempio preistorico. Cosí trasformato, il santuario continua la sua vita fino al periodo cristiano. Una particolarità di questa fase è il carattere verosimilmente fortificato del luogo sacro, forse per proteggerlo da scorrerie anche di pirati. A nord, i lavori di scavo dell’Università di Lecce hanno individuato un tratto della recinzione provvista di una torre; a sud sono stati messi in luce imponenti muri perimetrali. In quest’area meridionale, poi, alcuni blocchi delle mura hanno l’incisio-

ne di due lettere di grandi dimensioni, che non erano a vista e che si sono individuate soltanto su alcuni pezzi fuori posto; non sappiamo dunque in che misura le pietre che costituivano il muro fossero iscritte.

A DIFESA DEL TEMPIO Le due lettere sono state interpretate come l’abbreviazione di un’espressione fenicia dal significato di «fortificazione del tempio», confermando cosí – se la proposta è esatta – la funzione effettiva della recinzione. In questa zona sud il muro cingeva locali interpretati come ambienti di servizio, forse con funzione di magazzini, depositi o archivi, se non anche di residenze per il clero o i pellegrini.

Da questo lato, secondo un’ipotesi di Antonia Ciasca, si accedeva all’area sacra. In questa stessa zona si trovava la discarica del santuario, dove erano accumulati gli arredi non piú in uso. Tali scarichi, come si è appurato, erano in funzione fin dal VII secolo a.C., ma la maggior parte dei reperti è successiva al V secolo e si estende fino almeno al I secolo a.C. Da qui proviene gran parte dei recipienti iscritti, che venivano rotti, verosimilmente prima di essere gettati. Con il nuovo culto cristiano, sorgono nuove strutture, sempre di carattere sacro. Sono evidenti i resti di una fonte battesimale, eretta nell’area centrale del tempio, rivestita in marmo e circon-

I RITI, IL CLERO, GLI OFFERENTI Sulle cerimonie cultuali che Astarte riceveva a Tas Silg si possono trarre informazioni dal tipo di altari adibiti ai sacrifici, dai recipienti che contenevano le offerte, infine dai resti animali e vegetali identificati nei residui all’interno dei vasi e in determinate strutture legate al culto. Circa gli altari, si pensa che solo la grande lastra arcaica davanti all’ingresso del tempio fosse destinata a sacrifici cruenti; quello con dedica ad Astarte è piuttosto una tavola sulla quale si esponevano le offerte. Nel caso del vasellame, i residui del contenuto delle diverse classi di recipienti sono stati analizzati da Florinda Notarstefano dell’Università di Lecce. La studiosa ha individuato nelle pentole resti di carni cotte, soprattutto di bovini, ma anche di ovini e caprini; inoltre residui di pesce. I piatti e le coppe presentavano invece soprattutto resti di miele. Inoltre, nell’area nord, Jacopo De Grossi Mazzorin e Maria Battafarano hanno analizzato il deposito di una vasca, designata dal numero 52, databile nel periodo II-I secolo a.C. 80 a r c h e o

Vi hanno rilevato gli avanzi di un bovino, di pecore e capre e di vari tipi di uccelli, tra cui una colomba; infine di pesci e ricci di mare. Tra gli animali selvatici, resti di un cervo e di un coniglio. Sempre nell’area nord, analisi archeobotaniche hanno mostrato la presenza di legni

carbonizzati di mirto e ulivo, certo usati per i riti del santuario. I dati delle analisi hanno cosí chiarito quali erano gli animali offerti, indicando la prevalenza di bovini e ovini, ma anche la presenza di pesci e di animali selvatici, un tipo di offerta che i rinvenimenti e le


data da un nuovo elegante pavimento in lastrine di marmo e artorre 43 38 desia (opus sectile); la vasca ha restituito al suo interno una serie di 275 monete, probabilmente gettate nell’acqua a scopo propiziatorio, secondo un uso testimoniato anche dai divieti con cui si esprime la Chiesa. Nel corso dei primi scavi Michelangelo Cagiano de Azevedo aveva proposto di identificare all’interno del tempio i resti di una basilica a tre navate; ma la sua effettiva presenza deve essere ancora piú concretamente appurata da ricerche puntuali. Senza addentrarci in ricostruzioni troppo incerte, possiamo intrave- Planimetria generale del complesso di Tas Silg con sovrapposizione dell’alzato dere nel santuario di Astarte tutta dell’edificio rettangolare del IV sec. a.C., situato al limite nord dell’area, e un’attività di fedeli e sacerdoti, l’indicazione della «torre» quadrangolare.

analisi in altri santuari del Mediterraneo stanno mettendo in evidenza. Sono invece specifiche del santuario di Malta le indicazioni fornite dalla ceramica sull’uso

alimentare di almeno parte della carne che era offerta alla divinità, con cottura e consumo sul posto. I ritrovamenti di Tas Silg fanno conoscere anche gli oggetti In questa pagina: frammenti di pentole sottoposti ad analisi che hanno rivelato la presenza di resti di carni cotte. Nella pagina accanto: tavola che riassume i risultati delle analisi condotte su questo gruppo di manufatti.

appartenuti al clero o impiegati per il santuario. Alcune classi di vasi, spesso di forma chiusa, vasetti e piattini – tutti di una fattura piú accurata rispetto ai recipienti ricordati finora – e alcune lucerne con evidenti tracce d’uso, recano iscrizioni, incise o dipinte, che li identificano come «del sacerdote» o «del santuario». Si individua cosí la presenza di un personale consacrato, che altrove non ha lasciato testimonianza diretta di sé e che usava determinate suppellettili per adempiere alle proprie funzioni liturgiche. Le lucerne indicano un’attività in luoghi poco illuminati o, eventualmente, in ore notturne; i vasi chiusi probabili usi per libagioni, i piattini suggeriscono offerte simboliche del clero. Non conosciamo la funzione dei vasi identificati come «appartenenti al santuario». Infine, una sigla attestata su un gruppo di vasi sembra indicare il controllo del loro contenuto da parte di un’autorità che ne doveva certificare l’idoneità per il culto. a r c h e o 81


LUOGHI DEL SACRO/8

mento sociale si devono le dediche a Era, ormai in greco. Non sappiamo, invece, a quali livelli sociali appartenessero i precedenti devoti di cultura locale d’impronta punica. Le iscrizioni riportano alcuni dei loro nomi propri, generalmente di buona tradizione fenicia, ma non ne precisano l’appartenenza a categorie specifiche (funzionar i, sacerdoti, artig iani, mercanti), come avviene invece in molte dediche cartaginesi. L’accuratezza della scrittura di alcuni documenti votivi, la ricercatezza nell’uso dell’avorio, alcune lunghe genealogie dei dedicanti (tra questi è nominato uno «scriba»), cosí come la dedica d’importanti arredi del santuario, mostrano la presenza di personaggi di un rango sociale elevato, che disponevano di ampi mezzi; alcuni erano forse antenati dei successivi innovatori, dato che il culto non si è mai interrotto.

che si svolgeva negli ampi spazi messi in luce: sacrifici e libagioni sugli altar i, con l’offerta di vari tipi di animali, e l’uso cultuale di sostanze vegetali, forse di essenze profumate, come potrebbero indicare i resti di mirto, pasti in comune in settori ben determinati; tutto ciò accompagnato da doni votivi da parte dei fedeli consistenti anche in arredi cultuali. Nonostante la scarsità e la disuguaglianza dei dati, si è posto il problema di chi fossero i devoti che frequentavano e abbellivano il tempio. Per il periodo ellenisticoromano, Maria Pia Rossignani ha mostrato che la grande ristrutturazione del II-I secolo a.C. corrisponde a un cambiamento nel tessuto sociale dell’isola, in modo simile a quanto avviene in questo periodo nella restante zona del Mediterraneo orientale. In quest’area, ormai controllata da Roma, l’economia e la società si modificano notevolmente r ispetto al per iodo del predominio cartaginese.

L’INTERVENTO DELL’ARISTOCRAZIA Dal punto di vista architettonico, si afferma lo schema di edifici con corte a peristilio di stampo grecoellenistico, ripreso nel santuario di Tas Silg che tuttavia conserva l’edificio a lobi tradizionale. La corte porticata è un elemento caratteristico e simbolico dei palazzi regali e degli edifici principeschi, trasferito nei santuari come simbolo di una nuova classe aristocratica, le cui ricche dimore si conformano al medesimo schema. La studiosa individua nel rinnovamento dell’area templare l’opera di un’aristocrazia sociale ellenizzata e nuova; si tratta di ricchi mercanti e proprietari (mercatores) che hanno contribuito a un radi82 a r c h e o

Ricostruzione grafica di uno dei vani porticati riferibili alla fase ellenisticoromana del santuario di Tas Silg. Della decorazione dell’ambiente doveva con ogni probabilità far parte questa lastra con soggetto egittizzante, conservata in una collezione privata a Zejtun, piccolo centro nei pressi di Tas Silg, che ha trovato un confronto con frammenti in marmo rinvenuti negli scavi degli anni Sessanta.

cale rinnovamento nell’economia dell’arcipelago maltese, come attestano alcune fonti scritte. La loro ideologia è riflessa nella nuova organizzazione del santuario, che essi stessi hanno contribuito a ristrutturare. A questo nuovo ele-

FEDELI DA OGNI PARTE DELL’ISOLA Ma, a Malta, per mancanza di dati, conosciamo solo per confronto, per esempio con la Cartagine punica, l’organizzazione della società di or igine fenicia. Oltre a un gruppo di «benestanti» o comunque di una «élite» di cui resta traccia nei testi e al generico «clero», non siamo in grado di ricostruire né la posizione sociale, né le attività degli anonimi fedeli che veneravano la dea (e il suo possibile paredro) con le offerte contenute nei recipienti di ceramica comune o forse con la loro sola presenza nel tempio. La grande quantità di questa ceramica «ordinaria» dimostra comunque una frequentazione diffusa e aperta a ogni genere di devoti, convenuti dai centri abitati dell’isola o quivi approdati in occasione di viaggi.


LA CHIESA CRISTIANA Piú tardi, in epoca imperiale roma-

na, sembra che l’interesse della società maltese per il santuario decresca, forse in favore della devozione in santuari urbani, quali il tempio di Apollo a Melite (attuale Rabat), il centro principale dell’isola. Questo fenomeno non impedisce la continuazione della vita del luogo sacro: un culto cristiano si insedia al suo interno, proprio nella sua parte piú sacra, che conserva ancora l’impianto preistorico. La vasca battesimale messa in luce nel corso dei primi scavi viene usata almeno fino alla fine del Vinizi del VI secolo; s’interrompe in questa fase la lunga storia di questo straordinario santuario. Continua peraltro una sporadica frequentazione del sito, ma la sua funzione sacra viene ormai meno. Sorge nei pressi la chiesa che, nel XVII secolo, prende il nome della Beata Vergine «delle nevi»: Tas Silg, appunto, l’epiteto che ha dato il nome all’antico santuario.

NELLA PROSSIMA PUNTATA • Egitto: i templi tolemaici In alto: planimetria della chiesa a pianta basilicale, sicuramente in funzione in età bizantina, che sfruttò le preesistenti strutture dell’area sacra pagana. 1. vasca battesimale e circostante pavimento in opus sectile; 2. trincea di asportazione dell’abside; 3. incasso per il sostegno della mensa d’altare; 4. impronte delle colonne tra le navate; 5. recinzione liturgica nella navata centrale; 6. soglia dell’accesso all’edificio; 7. resti del muro perimetrale nord. A sinistra: monogramma di epoca bizantina, da Tas Silg, inciso su un frammento di transenna che può essere sciolto con il nome proprio «Proto».

PER SAPERNE DI PIÚ Brunella Bruno, L’arcipelago maltese in età romana e bizantina, Edipuglia, Bari 2004 Maria Giulia Amadasi Guzzo (a cura di), Il santuario di Astarte di Malta: le iscrizioni in fenicio da Tas Silg, Università di Roma «La Sapienza», Roma 2011 Anthony Bonanno, Nicholas C. Vella (a cura di), Tas Silg, Marsaxlokk (Malta) I: Archaeological Excavations conducted by the University of Malta, 1996-2005, Peeters, Lovanio 2015 Francesca Bonzano, Fanum Iunonis melitense. L’area centrale del santuario di Tas Silg a Malta in età tardo-repubblicana, Edipuglia, Bari 2017 a r c h e o 83


SPECIALE • VINO

LA VITE E IL VINO La prima bevanda alcolica prodotta con regolarità era la birra. Se ne conosce una prima produzione da parte dei Sumeri e se ne trova traccia nell’epos di Gilgamesh. Contenitori di pietra con resti organici che rivelano la presenza di una primitiva birra, fatta con acqua e cereali, sono stati trovati anche nel sito di Göbekli Tepe, in Turchia, risalente a 11 600 anni fa. E il vino? A quando possiamo far risalire la trasformazione del succo dell’uva in

bevanda pregiata? La zona di origine della coltivazione della vite e della produzione di vino si colloca tra la catena del Tauro, nella Turchia orientale, i Monti Zagros, nell’Iran occidentale, e il massiccio del Caucaso (Georgia, Azerbaigian e Armenia) in un periodo di tempo che si fa risalire a circa 8000 anni fa. E nella nostra Penisola? Lo scopriremo sfogliando le pagine di questo speciale, realizzato in collaborazione con il Gruppo Archeologico Am-

Durante l’inverno, la vigna veniva comunque curata e una delle attività era la zappatura: il fine era quello di creare monticoli di terreno, a distanze regolari, cosí da far respirare meglio il terreno e favorire l’assorbimento delle piogge.

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brosiano, associazione di volontariato da anni impegnata in ricerche sull’alimentazione nel mondo antico e che proprio alla vite e al vino ha, di recente, dedicato un documentatissimo volume, pubblicato dall’editore Mursia. Il libro si avvale della prefazione del nostro collaboratore Andrea Zifferero, di cui ricordiamo le affascinanti indagini sul vino etrusco (vedi «Archeo» n. 333, novembre 2012; anche on line su issuu.com). Allietano la lettura le tavole realizzate dall’archeologo Stefano Nava: non si tratta di semplici illustrazioni di fantasia, bensí – come molti lettori avranno già notato – di rielaborazioni di soggetti iconografici antichi. In alto: la coppa in vetro nota come Diatreta Trivulzio, conservata nel Museo Civico Archeologico di Milano. IV sec. d.C. In basso: il momento clou della viticoltura: la vendemmia.

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SPECIALE • VINO

UNA STORIA DI VARIETÀ E RICCHEZZA di Manuel Borroni

I

l processo di domesticazione della vite affonda le sue radici in un tempo molto remoto, in cui la sottospecie selvatica della pianta, la Vitis vinifera sylvestris, con semi (detti vinaccioli) dalla forma corta e tozza, viene addomesticata nella progenitrice della quasi totalità dei vitigni moderni, la Vitis vinifera sativa, con semi dalla forma stretta e allungata. Da questo primo passo, molti progressi e molti sviluppi sono stati effettuati sin dall’epoca delle origini dell’agricoltura, sotto il profilo della diversificazione e della selezione della varietà di sottospecie viticole, dando vita a innumerevoli vitigni, ciascuno dei quali identificato da particolari caratteristiche del fogliame, delle uve e delle qualità del vino da esse ottenuto. Il mondo antico risulta ricco di un’insospettata varietà di uve, tanto che già Virgilio (7019 a.C.) presenta nelle Georgiche un elenco degno di un moderno intenditore, citandone alcune che provengono da ogni angolo del Mediterraneo, in particolare dal mondo ellenico: le uve di Lesbo, di Argo, di Rodi sono infatti fra le piú stimate da questo autore, oltre alle celebri viti Falerne, prodotte da terre italiche. Inoltre, in epoca imperiale il commercio del vino, come si vedrà piú avanti, si è ormai affermato come un pilastro dell’economia romana. Nel I secolo d.C., secondo la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), la maggior parte del vino circolante nel mondo romano è prodotto in ogni parte dell’impero e ottenuto da un centinaio di diversi vitigni, dai quali si ricava un numero ancor maggiore di vini. Le viti piú coltivate nella Penisola, in particolar modo nelle zone dell’Italia meridionale e in quelle di antica colonizzazione greca, sono le Aminee, le Nomentane e le Apiane, impiegate per vini di pregio; da viti provenienti dalle province, come la Balisca (dall’Albania), la Rhaetica (dal Veneto) e la Buririca (dalla Francia occidentale), si ottengono grandi quantità di vino meno pregiato, ma piú abbondante. Si potrebbe ben dire: ogni luogo, la sua vite. 86 a r c h e o

Le uve finora citate si differenziano non solo per caratteristiche fisiche (la grandezza dell’acino, la colorazione e il sapore), ma ciascuna ha diverse esigenze di coltivazione legate al luogo di produzione. A tal proposito, Lucio Giunio Moderato Columella (scrittore romano del I secolo d.C., il cui trattato De re rustica rappresenta la piú importante fonte di conoscenza sull’agricoltura romana, n.d.r.) è convinto che ogni luogo e clima abbiano la loro vite migliore, tanto da consigliare al contadino di scegliere per i climi freddi e nebbiosi le viti con una maturazione precoce, in grado di anticipare la brutta stagione; per i climi ventosi e burrascosi le uve dall’acino duro e resistente; per i climi caldi le uve dall’acino morbido e tenero; per i climi secchi quelle intolleranti alle piogge abbondanti; per il clima piovoso quelle che patiscono la siccità; per i climi soggetti a grandinate le viti con fogliame folto e resistente, per proteggere il frutto. Insomma, già nel I secolo d.C. si intuiscono le potenzialità della biodiversità della vite, che, con la sua ricchezza e varietà, garantisce un adattamento a climi differenti e a terreni diversi. Inoltre, nel mondo romano, la selezione delle varietà di vite tiene in debito conto le modalità di consumo dell’uva prodotta: le uve dall’acino piccolo e irregolare, per quanto buone e saporite, vengono destinate principalmente alla produzione di vino, mentre le uve dall’acino grande e regolare sono destinate alla tavola. Risulta anche che le uve da tavola, per poter arrivare ancora fresche al consumatore, vengono coltivate dai Romani non lontano dai luoghi di consumo, oppure in zone ben servite da vie di

Filari di viti alle pendici del monte Vesuvio. Rielaborazione di un affresco dalla Casa del Centenario, a Pompei, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. I sec. d.C. La Campania era una delle terre piú rinomate per la produzione di vino. Le tavole alla doppia pagina precedente sono ispirate alle raffigurazioni di un mosaico di Cherchell (Algeria) del III sec. d.C.


Lo scarico delle anfore vinarie nel porto. La tavola si ispira a mosaici del II-IV sec. d.C., tra cui quello del piazzale delle Corporazioni a Ostia antica. Nel caso di Roma, i contenitori venivano in seguito caricati a bordo di imbarcazioni fluviali che, risalendo il corso del Tevere, facevano giungere il vino in città.

comunicazione, che consentono trasporti rapidi e un commercio veloce, per preservare la bellezza e l’estetica degli acini, oltre che la loro bontà. Un caso speciale per la particolare etimologia è costituito dalle uve bumaste: si tratta di un’uva dagli acini tanto grossi e pingui da richiamare la somiglianza di forma con le mammelle di mucca attraverso un termine d’origine greca (bous, bovino,

vacca, e mastos, mammella, seno) e che, per la loro particolare morfologia, ottengono un grande successo sulla tavola romana! La varietà e la diversità dei vitigni e delle uve già note ai Romani sono quindi tante e tali che, secondo una metafora desunta dalle Georgiche virgiliane, voler contare il loro numero sarebbe come voler contare i granelli di sabbia di un deserto! a r c h e o 87


SPECIALE • VINO

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IL TEMPO DELLA VENDEMMIA

A

nche nell’antichità la vendemmia è uno dei momenti decisivi nel ciclo di produzione del vino. Spesso effettuata nel periodo autunnale, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, la raccolta richiede però la valutazione attenta da parte dell’agricoltore di alcuni indizi, quali il sapore degli acini (se troppo aspri immaturi, se troppo dolci fin troppo maturati) e, come consiglia il già menzionato Columella, la colorazione dell’uva stessa. Abilità, esperienza e bravura possono fare la differenza della buona riuscita di questa fase e ne sono già consapevoli gli scrittori antichi. Fra gli autori classici, Varrone ricorda, per esempio, l’aneddoto secondo cui i bravi vendemmiatori sono in grado, già al momento della raccolta, non solo di selezionare le uve migliori, ma anche di scegliere se destinare i singoli grappoli alla produzione del vino, oppure indirizzarli alla tavola. Al fine di propiziare il buon esito della ven-

di Manuel Borroni

demmia, nel mondo romano sono stati istituiti riti benauguranti, fra i quali l’auspicatio vindemiae, celebrato al principio dell’autunno. Il flamen dialis, sacerdote preposto al culto del dio Giove (di cui è quasi una personificazione in terra), recide il primo grappolo, offrendolo al supremo fra gli dèi. Sembra che tale rituale venga riproposto annualmente sin dall’epoca del quinto re di Roma, Tarquinio Prisco (il cui regno risale al VIIVI secolo a.C.), presso la vinea publica di Roma, un appezzamento di terra coltivato a vigneto e di proprietà pubblica. Questo rituale deve essersi tramandato fino all’epoca imperiale, come dimostra il fatto che l’imperatore Vespasiano (al potere fra il 69 e il 79 d.C.) abbia ripristinato la vinea publica, sottraendola agli abusi e alle speculazioni dei privati; ne è testimone un cippo in travertino, riportato alla luce presso la via Ardeatina, vicino a Porta San Sebastiano, a ricordo della rinascita della vigna pubblica qui collocata.

IL GRUPPO ARCHEOLOGICO AMBROSIANO Nella pagina accanto: la pigiatura dell’uva: in alto, con i piedi; in basso, con il torchio a vite. La tavola rielabora le analoghe raffigurazioni del mosaico di SaintRomain-en-Gal (Francia) del III sec. d.C., di un mosaico da Mérida (Spagna) del II sec. d.C., e, per il torchio, di un mosaico rinvenuto in Israele, del VI sec. d.C.

Il Gruppo Archeologico Ambrosiano (G.A.Am.) è un’associazione di volontariato nata a Milano nel 2004, allo scopo di contribuire alla tutela, alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale italiano e, in particolare, del territorio lombardo. Il G.A.Am. appartiene alla rete nazionale dei Gruppi Archeologici d’Italia (www.gruppiarcheologici.org). Elemento caratterizzante dell’azione dell’associazione, è la ricerca della massima collaborazione e sinergia con le istituzioni preposte a questi compiti. Il G.A.Am. è costantemente impegnato in visite guidate, corsi, escursioni, organizzazione di eventi speciali e, ultimamente, in un fitto calendario di webinar. Un particolare filone di attività è dedicato all’alimentazione nel

mondo antico, che ha visto il G.A.Am. impegnato ormai da anni in collaborazioni con enti e associazioni sia locali, che di rilevanza nazionale, per promuovere la conoscenza dei gusti e dei sapori nell’antichità, in particolare. In questo ambito sono nate le pubblicazioni curate dal Gruppo, per i tipi di Mursia Editore: Nutrire l’impero romano. La filiera alimentare nell’antica Roma nel periodo imperiale, gli approvvigionamenti, le ricette, e la piú recente La vite e il vino. Archeologia, storie e ricette dalla Preistoria all’antica Roma. Quest’ultima, corredata dalle tavole di Stefano Nava, riunisce contributi di Manuel Borroni, Carla Pirovano, Laura Vercellese, Giorgio Palummo, Rita Mascheroni e Stefano Lattarini. Info: www.archeoambrosiano.org Cristiana Battiston

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SPECIALE • VINO

PIÚ PREGIATO DEL FALERNO Il Cecubo (cecubum in latino), o vino serpe, è un vino rosso molto antico, attualmente prodotto in una zona del Lazio situata tra Fondi, Formia e Terracina anticamente chiamata Ager Caecubus. Tra i vini italici, è uno dei piú segnalati nelle fonti antiche e il suo nome deriverebbe da caecus bibendi, in relazione alla tradizione che vede nel censore Appio Claudio Cieco, il costruttore della via Appia, il protagonista della sua introduzione a Roma. Il poeta Orazio ne tesse le lodi a piú riprese, come quando, nell’Ode I, 37, invita gli amici a festeggiare, danzare e bere in occasione della morte di Cleopatra: Nunc est bibendum, nunc pede libero Pulsanda tellus,nunc Saliaribus Ornare pulvinar deorum Tempus erat dapibus,sodales Antehac nefas depromere Caecubum Cellis avitis, dum Capitolio Regina dementis ruinas Anche Plinio e Columella parlano di questo vino pregiato, considerato superiore al Falerno. Tra sue varietà, Plinio preferisce l’Amiclano, prodotto ad Amyclae, antica città prossima a Fondi: «Il divo Augusto preferiva tra tutti il Setino, e per lo piú gli imperatori seguenti (...) Prima c’era, per il Cecubo, una qualità

celeberrima nelle paludi con pioppi nel golfo di Amicle, questa è ormai scomparsa per l’incuria dei coloni del luogo e per la ristrettezza del territorio, ma tuttavia piú a causa dei lavori di costruzione della Fossa Neronis, un canale navigabile che doveva unire il bacino di Baia a Ostia» (Nat. Hist. XIV, 8,61). Columella, scrittore celeberrimo e studioso dell’agricoltura, nel descrivere le varie specie di vitigni, già da tempo esistenti nella sua epoca (I secolo d.C.), menziona un’uva che dava un vino robusto e che veniva prodotta da un vitigno chiamato Dracontion, che, in greco, significa serpente. Gli Amiclani piantarono sui colli di Itri la vite dell’uva serpe, anche come retaggio delle proprie credenze religiose. Famosissimo divenne il Cecubo prodotto durante il consolato di Opimio nel 121 a.C. Alcuni innovativi viticoltori, hanno ripreso la gloriosa tradizione nella zona tra Fondi e Itri, partendo dai rarissimi vigneti di Abbuoto, come l’azienda agricola Monti Cecubi. Dopo secoli, quindi, oggi è di nuovo possibile gustare un vino ad alta gradazione prodotto con vitigno di origine romana. Gianfranco Gazzetti


Le principali tappe storico-cronologiche della diffusione del vino dalla preistoria all’età romana. A oggi, le prime attestazioni documentate dall’archeologia si collocano nelle regioni orientali, intorno al VI mill. a.C.

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SPECIALE • VINO

PREPARARE LA VENDEMMIA: I CONSIGLI DI COLUMELLA Il decisivo momento della vendemmia è preceduto nel mondo romano da una lunga e complessa serie di preparativi testimoniata da Columella nel De re rustica. L’autore, infatti, quando prende in considerazione i doveri del bravo agricoltore, suggerisce alcuni consigli, che qui riportiamo. «Vanno in grande numero preparati e arrotati ronchetti e coltelli ricurvi, perché i vendemmiatori non strappino i grappoli con le mani, con la conseguenza che una non piccola parte del frutto vada dispersa in terra per il distacco degli acini». «I tini e i recipienti del torchio e tutti i vasi vinari si devono con grande diligenza lavare e ripulire con acqua marina, se il mare è vicino, se no, con acqua dolce e bisogna curare che si asciughino perfettamente e non trattengano nessuna umidità». «Fabbricare durante l’anno dei recipienti da tre e da dieci moggi» e «intrecciare dei panieri e spalmarli di pece». «La cantina va liberata da tutta la sporcizia e bisogna farvi dei suffumigi con sostanze bene odoranti». «Si devono fare con la massima riverenza e purezza sacrifici a Libero e Libera» (la coppia divina legata, nel mondo italico, alla fecondità nell’ambito familiare e alla fertilità nel mondo naturale, n.d.r.). 92 a r c h e o

«Continuamente si deve sorvegliare che gli operai addetti alla spremitura del mosto lavorino con tutta la pulizia possibile e che nessun ladro trovi il momento propizio per portarsi via una parte del raccolto». «Anche i dolia (plurale di dolium, recipiente in terracotta dalla capacità variabile, fino a un massimo di 2000 litri, usato per la conservazione e il trasporto di varie derrate alimentari tra cui il vino, Contenitori adibiti al trasporto e alla conservazione del vino: un dolium (a sinistra) e vari tipi di anfore.

n.d.r.) e i fusti e gli altri vasi devono essere spalmati di pece quaranta giorni avanti la vendemmia; per i dolia che contengono un culleo e mezzo (il termine culleus indica un otre in cuoio e anche l’unità di misura della capacità di un recipiente, equivalente a circa venti anfore, ovvero a circa 525 litri, n.d.r.) bastano venticinque libbre di pece dura; se alla quantità di pece che si fa bollire si mescola un quinto della pece del Bruzio, questa precauzione gioverà a tutta la vendemmia».


ARCHEOLOGIA DELLA VITE E DEL VINO: LO STATO DELLE CONOSCENZE E LE PROSPETTIVE DI RICERCA di Andrea Zifferero

L

a coltivazione della vite (Vitis vinifera sativa) e la produzione del vino sono oggi una voce importante nel problematico comparto dell’agricoltura italiana: in primo luogo, per il consistente volume di mercato che tali attività riescono a sviluppare con prodotti di qualità elevata, ma anche e, soprattutto, per il valore culturale, paesaggistico e turistico (veri e propri valori aggiunti, strettamente legati a questa bevanda), che il vino conferisce ai territori di origine. Un tratto distintivo della viticoltura è la capacità di modellare in profondità il paesaggio che la accoglie e che viene predisposto per assicurare le migliori condizioni di sviluppo a una specie che, di per sé, non può crescere a contatto con il suolo, ma ha necessità di supporti su cui propagare i tralci per fruttificare.

UN’IMPRONTA MILLENARIA Forse nessuna pianta, con la parziale eccezione dell’olivo, da sempre considerato il «parente povero» della vite – nonostante la sua funzione riconosciuta nella dieta mediterranea – ha caratterizzato e plasmato nel corso del tempo il paesaggio delle regioni italiane. Fin dall’antichità la natura e la morfologia dei suoli e delle rocce hanno indirizzato e orientato il lavoro delle comunità nella progettazione e pianificazione dei vigneti: questi assumono le forme piú varie, dipendenti dall’inclinazione e dall’esposizione dei terreni, ma anche dalle loro effettive quantità e qualità organiche. La modellazione dell’ambiente per accogliere la viticoltura ha lasciato paesaggi storici e culturali inconfondibili, quali, per esempio, gli

impianti a terrazze nel Chianti fiorentino e senese, prodotti del lavoro e dei saperi secolari dei mezzadri, dove la vite era spesso piantumata in coltura promiscua con l’olivo, facendo sviluppare la prima a festone sul secondo; oppure i paesaggi della viticoltura insulare detta eroica, tipica delle isole tirreniche, che utilizza il sistema delle terrazze su cui sono allocate gabbie lignee che permettono lo sviluppo dei tralci a caduta. Queste testimonianze della civiltà agricola, con le diverse tecniche di coltivazione, esprimono di per sé i caratteri della storia, ma anche, talvolta, richiami diretti all’archeologia: all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, Emilio Sereni, tra i primi e maggiori storici del paesaggio agrario italiano, ha affrontato con una prospettiva diacronica il tema della viticoltura, mettendo in relazione alcuni tratti del paesaggio contemporaneo con la forma dei vigneti, alla ricerca di matrici che provenissero dai saperi empirici e secolari delle comunità, talvolta di età molto antica. L’autore ha cosí riconosciuto l’origine etrusca della piantata o alberata, ancora associata ai vitigni Lambrusco soprattutto tra il Bolognese, il Modenese e l’area reggiana, come eredità delle diverse ondate di colonizzazione etrusca che avevano occupato la Pianura Padana tra l’età del Ferro (IX-VIII secolo a.C. in cronologia tradizionale) e il VI secolo a.C., provenendo dalle città dell’Etruria centro-settentrionale e vi avevano introdotto il sistema di coltura della vite abbarbicata al tutore vivo, costituito dall’olmo, dall’acero o dal piop-

In basso: il dio Liber Pater/ Bacco rivestito da un grappolo d’uva. Da un affresco dalla Casa del Centenario, a Pompei, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. I sec. d.C.

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SPECIALE • VINO

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po. Alla stessa, comune origine l’autore ha ricondotto la piantata aversana, diffusa nel Casertano, un’area di antica cultura etrusca, dove i vitigni della varietà Asprinio crescono ancora oggi su altissimi festoni abbarbicati agli alberi tutori (olmo e pioppo): qui la vendemmia è Alle ricerche sul paesaggio e sulle pratiche possibile soltanto con l’impiego di lunghe della viticoltura si è aggiunto, negli ultimi vent’anni, il contributo essenziale della genetiscale di legno, a diversi metri dal suolo. ca, che ha aperto nuovi e stimolanti orizzonti di ricerca: con lo sviluppo delle tecniche per il riconoscimento delle varietà basate su metodi Carta degli areali di diffusione della vite biochimici e molecolari (cosiddetto polimorfiselvatica, a confronto con le aree di smo del DNA), è stato possibile approfondire il paradomesticazione e con i centri di rapporto tra l’origine geografica e storica dei domesticazione storica della vite. vitigni e le forme selvatiche, superando la tradizionale impostazione di studio, che li classiAree di diffusione attuale della vite ficava partendo dalla morfologia delle foglie e La numerazione selvatica del grappolo, insieme al portamento dei tralci. dei centri di ree di paradomesticazione (uso A intensivo delle viti selvatiche, con predisposizione alla domesticazione) Centri di domesticazione, numerati secondo la loro cronologia L e frecce indicano le probabili vie remote di diffusione della viticoltura, da una regione alle altre (in azzurro quelle documentate)

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UN PEDIGREE PER I VITIGNI Si sono cosí ottenute mappe precise sui rapporti di parentela tra i vitigni, arrivando a definire veri e propri pedigrees, che hanno accertato come varietà con nomi diversi e tipiche di aree geografiche diverse condividano, in realtà, la stessa identità genetica. Una delle principali conseguenze della circolazione antica (di età protostorica o storica) delle varietà è stata l’ibridazione tra vitigni esterni e le popolazioni locali di vite selvatica

domesticazione è ordinata secondo la loro cronologia: Ia-Ib V mill. a.C. IIa-IIb IV-III mill. a.C. III-IV-V II-I mill. a.C. VI età romana.


IIb Ib

Ia IIa

(Vitis vinifera sylvestris), specie endemica sulle coste mediterranee: le ricerche genetiche hanno infatti dimostrato come le forme di introgressione (cioè l’introduzione di geni da specie o varietà diverse in seguito a incroci ricorrenti), tra vitigni e popolazioni di vite selvatica abbiano accompagnato la diffusione della vite dall’Oriente all’Occidente e siano alla base dello sviluppo di nuove varietà in molte regioni italiane. Si è quindi accertato il fatto che vari vitigni autoctoni, da sempre ritenuti nativi di un determinato comparto geografico, siano, al contrario, il frutto di una (antica) circolazione varietale da zone diverse da quelle odierne, alla base di nuove forme di ibridazione locale con la vite selvatica in periodi anche risalenti nel tempo, con il risultato di indurre ragionevoli dubbi sul significato reale del termine autoctono.

IL RUOLO DELL’ARCHEOLOGO Partendo dalla posizione delle viti rispetto alla tipologia locale dei siti archeologici noti (centri urbani, abitati minori, ville o fattorie, siti fortificati, santuari, mansiones e aree di mercato, porti ed emporia) e, soprattutto, alla loro cronologia, si può in teoria ricostruire la stratificazione degli apporti che hanno introdotto, selezionato e/o introgresso vitigni alloctoni nelle viti selvatiche locali; un ausilio importante al processo ricostruttivo è la capacità di riconoscere nei reperti archeobotanici (quali i vinaccioli della vite) la presenza di germoplasma superstite (il cosiddetto DNA antico), che è possibile sequenziare in particolari condizioni di conservazione dei vinaccioli e che facilita il riconoscimento genetico dei vitigni antichi o almeno il loro grado di somiglianza genetica con i vitigni attuali. L’archeologo è quindi lo specialista capace di inserire elementi di cronologia della domesticazione che il botanico o il biologo molecolare riconoscerebbero con maggiore difficoltà: la geografia dei centri di accumulo rispetto ai processi di domesticazione e di introduzione e/o selezione di nuove varietà viene oggi e verrà in futuro sempre piú tracciata con un dettaglio impossibile da ottenere soltanto con l’esame ampelografico dei vitigni e/o con l’indagine del polimorfismo del DNA. a r c h e o 95


SPECIALE • VINO

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IL GERMOPLASMA VITICOLO E I CENTRI DI ACCUMULO VARIETALE In seguito alla diffusione dei vitigni nelle diverse zone del Mediterraneo, avvenuta con spostamenti o migrazioni di persone o semplicemente veicolata dagli scambi e dai commerci, si sono create particolari aree di concentrazione di germoplasma viticolo (con il termine germoplasma viene indicato il corredo genetico di una determinata specie, costituito dall’insieme dei suoi differenti genotipi, ossia dalle sue diverse varietà, coltivate – cultivar – e non, di cui rappresenta quindi la variabilità genetica, n.d.r.), definite Nella pagina accanto: le viti selvatiche abbarbicate a tutore vivo presso il sito etrusco di Ghiaccio Forte (Scansano). Dall’alto, in senso orario: foglia e grappolo del vitigno Lambrusco di Sorbara, tipico del Modenese e del Reggiano; un caso di sopravvivenza dell’alberata etrusca: vigneto secolare maritato ad aceri campestri a Figline Valdarno (Firenze); le fruttificazioni di una vite selvatica, abbarbicata a ontano, censita a Dorgali (Nuoro).

dai biologi molecolari come centri di accumulo varietale, che hanno dato luogo a nuove varietà, grazie alla pressione selettiva dell’uomo, al rapporto con l’ambiente e alla frequenza degli eventi di mutazione genica. I centri di accumulo si trovano di solito in prossimità di porti o empori, lungo grandi direttrici di viaggio, quali le valli transalpine, o semplicemente in coincidenza di mercati urbani che fungevano da polo di concentrazione e redistribuzione di prodotti agricoli per la città e le campagne circostanti. a r c h e o 97


SPECIALE • VINO

IL VINUM IN MAREMMA di Marco Firmati, Andrea Zifferero e Valerio Zorzi

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el 2004 un interrogativo ha spinto gli archeologi verso una ricerca originale, che prevedeva il coinvolgimento di botanici e biologi molecolari: è possibile che il contesto vegetale intorno a un sito archeologico conservi brandelli di paesaggio antico? Denominata Vinum, con evidente assonanza con l’italiano, l’indagine riprendeva però il noto termine etrusco impiegato per indicare la bevanda fermentata dell’uva. Sviluppata in ampie aree della Toscana meridionale, dove sopravvive un paesaggio attualmente poco antropizzato, la ricerca si è focalizzata dunque sulle popolazioni di vite selvatica, analizzando gli esemplari di questa pianta (Vitis vinifera sylvestris) presenti in prossimità di siti etruschi o romani nei quali la produzione enologica fosse documentata in senso archeologico: da vinaccioli recuperati nello scavo, da contenitori per la fermentazione, la

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conservazione e il trasporto del vino o da impianti di spremitura. Il contributo della botanica e della biologia molecolare è stato essenziale per approfondire – attraverso lo studio dei caratteri ampelografici e genetici – i rapporti tra la popolazione di viti selvatiche, in prossimità dei siti archeologici e lontane da essi, e con le varietà domestiche contemporanee (cioè i vitigni). Le differenze genetiche rilevate tra le viti prossime ai siti archeologici e quelle piú lontane sono un probabile indizio – rimasto impresso nel germoplasma – del processo di domesticazione condotto dalle comunità che lí risiedevano. La ricerca si è sviluppata ulteriormente attraverso il Progetto ArcheoVino, avendo come fulcro Scansano, nella Maremma grossetana. L’area coinvolta è stata la valle del fiume Albegna, che le fonti archeologiche (in primo luogo, fornaci di anfore da trasporto e distribuzione di questi contenitori) qua-

Dal colle di Ghiaccio Forte, guardando verso occidente, si gode di un’ampia vista che raggiunge il mare: all’orizzonte si distinguono – da sinistra a destra – la pianura costiera, dove termina la valle dell’Albegna, e il colle di Talamonaccio, oltre il quale si elevano i boscosi rilievi dell’Uccellina.


In basso, a destra: un banchettante porge la sua kylix (coppa a due manici), affinché gli venga versato del vino.

lificano come grande produttrice di vino durante il periodo etrusco e romano: una sorta di Chianti dell’antichità. Tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., infatti, con l’avvio della produzione su larga scala del vino etrusco, la valle entra nel sistema di traffici ad ampio raggio organizzato da Vulci. Le anfore da trasporto tracciano il flusso di scambi diretto nelle terre dei Celti e degli Iberi, verso il Golfo del Leone e il Levante spagnolo. Il massimo volume di traffici si data alla prima metà del VI secolo, ma prosegue almeno fino alla metà del V secolo a.C.

UN’AREA STRATEGICA In età romana la valle dell’Albegna torna ad avere un’intensa attività vitivinicola, come testimoniano gli impianti per la produzioni di anfore vinarie, quali le fornaci scavate presso Albinia, attive tra la metà del II secolo a.C. e la fine del I secolo d.C. Partendo dal postulato che le popolazioni di vite selvatica diffuse oggi in Maremma intorno a siti produttivi etruschi e romani potessero derivare dalle antiche coltivazioni (ora rinaturalizzate ed entrate a far parte della vegetazione spontanea), il censimento e l’analisi genetica hanno

effettivamente rilevato l’affinità di alcune viti campionate nei pressi dell’insediamento etrusco di Ghiaccio Forte e tra le vicine fattorie antiche con i vitigni Sangiovese e Canaiolo nero, ma anche col Ciliegiolo. La scoperta ha suggerito l’ipotesi che la valle dell’Albegna sia stata un’area strategica in Italia nel processo della domesticazione secondaria, cioè nella domesticazione e propagazione delle piante selvatiche attraverso tecniche di coltivazione piú sofisticate (selezione delle piante con frutti piú saporiti e zuccherini, tecniche specializzate di potatura e innesti con vitigni già diffusi in area mediterranea). Se l’analisi delle parentele genetiche del Sangiovese indica infatti che gran parte dei vitigni che hanno contribuito alla sua formazione sono di origine calabrese e siciliana e hanno le radici nella viticoltura greca, alla sua diversificazione genetica hanno partecipato però anche vitigni di area tirrenica. Non è allora azzardato vedere nel comprensorio della valle dell’Albegna un centro di accumulo di germoplasma proveniente dall’esterno, una sorta di incubatore, nel quale, in età etrusca, la pratica vitivinicola avrebbe favorito l’introduzione di geni da specie o varietà diverse, con incroci

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SPECIALE • VINO

ricorrenti, al fine di intensificare e migliorare la produzione di una bevanda largamente commerciata per via marittima e a lunga distanza nel Mediterraneo occidentale. In conclusione, la ricerca genetica svolta con ArcheoVino ha indicato con chiarezza il carattere domestico delle popolazioni selvatiche nel comprensorio dell’Albegna, sottoposte in età etrusca a una forte pressione antropica per migliorarne la produttività; questi vitigni sarebbero poi stati portati verso le altre zone dell’Etruria, fino a raggiungere l’Emilia-Romagna. Passo successivo alla ricerca è stata la realizzazione di un vigneto sperimentale nella prospettiva di creare un Parco della Vitivinicoltura Antica, quale forma di conservazio(segue a p. 105) IN POSIZIONE DOMINANTE Il colle di Ghiaccio Forte si eleva in mezzo alla valle dell’Albegna proprio a ridosso del fiume. Da lontano si distingue per la sommità piatta, dovuta al muro di cinta etrusco che proteggeva l’insediamento costruito agli inizi del IV sec. a.C., per controllare il territorio e le vie di comunicazione lungo il fiume e i guadi. Già nel VI sec. a.C., però, il luogo accoglieva un santuario, dove si praticava un

culto dedicato alla fecondità della terra, degli animali e degli uomini, come provano le offerte votive e gli altari rinvenuti. Adesso l’area archeologica, liberamente visitabile (foto in alto e in basso), offre un’ariosa vista su tutta la valle, dall’interno al mare, e conserva resti di una complessa residenza e delle porte urbiche. I materiali provenienti dagli scavi sono esposti nel Museo di Scansano. In alto, sulle due pagine e nella pagina accanto, in basso: piantumazione delle viti e attività di controllo nel vigneto sperimentale di Ghiaccio Forte (Scansano): le piante di vite selvatica selezionate dal Progetto ArcheoVino crescono abbarbicate ad aceri campestri e pali di castagno.

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SPECIALE • VINO

ALLA SCOPERTA DEI PAESAGGI TERRAZZATI DEL CHIANTI Un progetto di scavo archeologico affiancato allo studio e al recupero di vecchie viti e piante da frutto, sommerse tra la vegetazione spontanea, si propone di rivitalizzare una porzione di paesaggio tipico della mezzadria poderale del Chianti: i terrazzamenti con seminativo arborato, che – sostenuti da muri a secco – hanno segnato queste campagne fino alla crisi del sistema mezzadrile del secondo dopoguerra. I terrazzamenti svolgono un’efficace azione di contrasto – concordemente riconosciuta – all’erosione idrogeologica, ma quelli di cui ci vogliamo occupare hanno costituito anche un freno all’erosione genetica, connessa alla prevalente viticoltura sviluppata nell’ultimo mezzo secolo, poiché

mostrano di conservare parte del patrimonio di biodiversità vegetale che tradizionalmente li popolava. Meno di un chilometro a nord del borgo di Castellina in Chianti, si eleva il colle di Salivolpi, ricordato anche come Vecchia Castellina dallo storico locale Luigi Biadi (1867), che vi riconosceva il primo insediamento medievale, distrutto nel 1397 dall’esercito guidato da Alberico da Barbiano per Gian Galeazzo Visconti, allora signore di Siena. In effetti questa posizione elevata (oltre 600 m slm) domina perfino la vicina rocca turrita e le fortificazioni di Castellina, la cui edificazione – iniziata all’indomani della distruzione viscontea – impegnò la Repubblica di Firenze fino alla metà del Quattrocento, per

offrire una salda difesa al confine meridionale con la sempre minacciosa rivale senese. Dalla cima del poggio di Salivolpi si gode di un’ampia vista verso occidente, sulla Valdelsa, sui rilievi della Montagnola senese e sulle Colline Metallifere, fino a intravedere Volterra; verso nord, sulla bassa valle dell’Arno (tra Firenze e Pisa) fino alle Apuane; verso oriente, sui rilievi del Chianti in tutta la sua ampiezza, fino al crinale spartiacque che separa dalla media valle dell’Arno. Pochi resti di strutture e molti materiali ceramici testimoniano la frequentazione in epoca etrusca della sommità del colle di Salivolpi, che ai primi del Novecento l’archeologo Luigi Pernier additava come insediamento


etrusco di pertinenza del vicino e monumentale tumulo di Montecalvario, nel cui scavo era impegnato. Negli anni Sessanta del secolo scorso, poi, alcune ricognizioni sulla sommità spianata del poggio permisero di rilevare la presenza di una sorta di recinto quadrangolare (50 x 80 m circa) costituito da una spessa maceria di pietre, che sembrava il residuo di un originario muro di cinta. All’interno erano diffusi numerosi frammenti di laterizi e di ceramica: d’impasto, depurata, a vernice nera e bucchero, ma anche frammenti di una coppa etrusca a figure rosse, pesi da telaio e fuseruole. L’insieme dei materiali suggeriva l’esistenza di un abitato frequentato dall’età arcaica a quella ellenistica. In alto: veduta dal colle di Salivolpi verso sud-est. A sinistra: la stessa veduta in uno scatto dei primi del Novecento. Alla sinistra delle case si distingue il cocuzzolo perfettamente conico del tumulo etrusco di Montecalvario, mentre alla destra, in secondo piano la Rocca di Castellina in Chianti.

Nella porzione sud-orientale del pianoro un pozzo, costruito con pietre a secco e largo circa 1 m, conferma l’identificazione col luogo descritto nel 1726 da Filippo Buonarroti, che annotava: «La Castellina di Chianti dove a un tirar di mano era una città, chiamata dagli abitatori Salingolpe, dov’erano già le rovine e una citerna». Dai pressi dell’insediamento provengono poi alcuni oggetti, scoperti occasionalmente e ora esposti nel Museo di Castellina, che testimoniano la frequentazione dell’area nella tarda età arcaica probabilmente per la presenza di un santuario. Due sono opere notevoli: la testa di un piccolo kouros di pietra serena, con caratteri formali che evocano la nota «testa Lorenzini» di Volterra (fine del VI-inizi del V secolo a.C.), e un bronzetto di offerente maschile – un giovane incedente che impugnava nella destra un oggetto perduto – probabilmente di produzione volterrana (inizi del V secolo a.C.). A questi si aggiungono un altro bronzetto di offerente, corsivo e schematico, che richiama esemplari etrusco-settentrionali, e una gamba di bronzo dall’efficace resa anatomica. Nel complesso i materiali – tutti interpretabili come offerte votive – sarebbero coerenti con l’esistenza di un luogo di culto che doveva comprendere anche aspetti salutari, come testimonia l’ex voto anatomico. A breve distanza da Salivolpi, in direzione di Castellina, si distingue nettamente, grazie anche alla sua corona di pini marittimi, il tumulo etrusco di Montecalvario: uno degli esempi piú notevoli dell’architettura del periodo orientalizzante. Appartenuto senz’altro a una

famiglia principesca di straordinaria ricchezza, il grandioso monumento sepolcrale (diametro 50 m circa) ricopre quattro tombe orientate a croce secondo i punti cardinali e costruite in blocchi di compatto calcare. Fu scoperto e scavato in piú riprese agli inizi del secolo scorso, quando sulla cima del cocuzzolo si ergeva la cappella di una via Crucis di cui rimane il ricordo nel toponimo Montecalvario. È però probabile che già agli inizi del Cinquecento fosse stato individuato e saccheggiato, perché diversi eruditi toscani riferiscono del rinvenimento di un sepolcro etrusco presso Castellina, che suscitò notevole interesse e restituí ricchi corredi: sulla base delle descrizioni della struttura e delle dimensioni potremmo riconoscervi proprio una delle tombe di Montecalvario. In conclusione, a prescindere da quelli che saranno i risultati della programmata indagine archeologica, il progetto di un parco a Salivolpi, liberamente visitabile, intende valorizzare l’insediamento etrusco, ma anche i cospicui resti di terrazzamenti sui quali sopravvivono fossili delle coltivazioni tradizionali, offrendo un’ampia veduta panoramica sull’abitato di Castellina e sul paesaggio circostante. Il parco verrebbe a essere anche il termine di un un breve itinerario storico-archeologico intorno al paese e, nel contempo, un tratto alternativo alle vie carrabili per i camminatori che percorrono la via Romea Sanese, l’itinerario tra Firenze e Siena che, con il coordinamento della Regione Toscana, rivitalizza la strada medievale che conduceva a Roma, collegandosi alla via Francigena. Marco Firmati a r c h e o 103


SPECIALE • VINO A sinistra: bronzetto di offerente dai pressi di Salivolpi. Castellina in Chianti, Museo Archeologico del Chianti Senese. A destra: rilievo del tumulo di Montecalvario successivo allo scavo d’inizio Novecento. In basso: il tumulo di Montecalvario durante lo scavo (1915-1916).

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Testa di kouros in pietra serena dai pressi di Salivolpi. Castellina in Chianti, Museo Archeologico del Chianti Senese.

ne e valorizzazione delle risorse archeologiche, ambientali e paesistiche, finalizzata anche alla fruizione pubblica. Per questa operazione la disponibilità di un terreno di 1000 mq è stata offerta dall’Azienda Agricola Ghiaccio Forte-Aquilaia di Rossano Teglielli, in rapporto di convenzione con il Comune di Scansano e con il coordinamento del Consorzio di Tutela del Morellino di Scansano.

I PROSSIMI OBIETTIVI Le viti identificate con la ricerca sul campo nei pressi di siti produttivi antichi e ritenute importanti sotto il profilo genetico, per l’affinità con i vitigni Sangiovese, Canaiolo nero e Ciliegiolo, sono state clonate ottenendo le barbatelle per popolare il vigneto sperimentale vicino a Ghiaccio Forte. Qui sono state riprodotte due differenti tecniche di coltivazione antica: l’alberata etrusca, che appoggia coppie di viti a sostegni arborei (aceri campestri), e il vigneto di tipo romano, con filari di viti allevate ad alberello greco su tutore morto (pali di castagno). Il prossimo obiettivo consisterà nell’effettuare prove di microvinificazione, propedeutiche alla produzione di un vino simile a quello etrusco o romano, partendo dalle tecniche di coltivazione e, soprattutto, dall’impiego di piante di antichità certificata.

SIGNORI ETRUSCHI DEL CHIANTI La mostra raccoglie corredi funebri etruschi provenienti da tombe aristocratiche, comprese tra l’età orientalizzante e arcaica (fine dell’VIII-VI secolo a.C.), recuperati in scavi anche recentissimi, condotti in massima parte dalla Soprintendenza. I corredi illustrano abitudini e contatti culturali che caratterizzarono i signori del Chianti in età etrusca. Sono presentati per la prima volta al pubblico oggetti dalla necropoli di Bosco Le Pici (Castelnuovo Berardenga), ricca e lungamente utilizzata, dalla tomba a camera di Macialla e dalla necropoli di Casa Rosa al Taglio, alle porte di Castellina. Questi ultimi rappresentano anche la rapida traduzione di un impegno della comunità locale a favore della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale, perché lo scavo è stato condotto tra 2017 e 2018 in concessione dal Comune di Castellina in Chianti, con il sostegno del Gruppo Archeologico Salingolpe e la collaborazione dell’Università di Siena.

DOVE E QUANDO «Signori etruschi del Chianti» Castellina in Chianti (Siena), Museo Archeologico del Chianti senese fino al 9 gennaio 2022 Orario gli orari variano stagionalmente e possono essere reperiti attraverso i canali d’informazione del museo Info tel: 0577 742090; e-mail: info@museoarcheologicochianti.it; www.museoarcheologicochianti.it

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SPECIALE • VINO

IL PRIMO BICCHIERE NON SI SCORDA MAI!

LE SENSAZIONALI SCOPERTE NELLA TERRAMARA DI PILASTRI di Alessandra Pecci, Massimo Vidale, Simona Mileto, Simone Bergamini e Michele Cupitò

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uando, esattamente, i nostri antenati iniziarono a produrre, consumare e trasformare variamente il succo dell’uva in bevande e liquidi pregiati? Non è una domanda da poco, data la vocazione enologica di una penisola che, come la nostra, è in grandissima misura formata da rilievi collinari, e dato il fatto, ormai assodato, che nelle regioni orientali (certamente tra il Caucaso e l’altopiano iranico) esperti vinificatori avevano cominciato la loro opera almeno 8000 anni fa. In Georgia, poco dopo il 6000 a.C., impianti specializzati producevano quantità ingenti di vino da grappoli di uva forse selvatica, forse già domestica. Era il tempo delle grandi migrazioni dell’età neolitica – come sembrano confermare anche i piú recenti dati archeologici – e non è difficile immaginare come, stipate tra balle di cibo, animali vivi, gabbie e mercanzie, negli

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scafi spiccassero anche serie di giare di pregiato vino orientale. Gli scavi effettuati nella piccola terramara della Media e Recente età del Bronzo di Pilastri di Bondeno, presso Ferrara (un bel salto in avanti nel tempo: siamo tra il XVI e il XIII secolo a.C.) sono stati teatro, al proposito, di nuove importanti scoperte. Gli archeologi già sapevano della presenza, piú o meno costante, di tracce della «fatale» pianta del vino – la Vitis vinifera – in numerosi siti e contesti della civiltà delle terramare. Si tratta di vinaccioli, frammenti carbonizzati e soprattutto di pollini. A Canale Anfora, un altro importante (e diverso) sito friulano, non lontano da Aquileia e lievemente piú antico, Elisabetta Borgna aveva rinvenuto non solo vinaccioli, ma, indizio altrettanto prezioso, il frammento di un tralcio di Vitis. (segue a p. 110)

Nella pagina accanto: un momento dello scavo microstratigrafico della terramara di Pilastri di Bondeno (Ferrara). In basso: frammento di una tazza carenata in ceramica grigia fine, dalla terramara di Pilastri, in stile sub-appenninico, databile alle ultime fasi della Media età del Bronzo. La complessa decorazione geometrica, frettolosamente realizzata per incisione prima della cottura, obbedisce a un preciso schema. Le analisi indicano che tazze come questa, prodotte nella terramara di Pilastri, potevano essere usate per consumare il vino.


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SPECIALE • VINO

L’ACIDO TARTARICO E GLI ALTRI BIOMARCATORI Il vino è senza dubbio una delle piú importanti bevande prodotte, commercializzate e consumate nell’area mediterranea. Numerosi dati storici e archeologici permettono di studiarne la produzione e il consumo nel tempo. Tuttavia, un contributo importante viene dall’analisi dei residui chimici e, in particolare dall’analisi dei residui organici (Organic Residue Analysis, ORA) nei materiali archeologici. Le superfici porose assorbono infatti sostanze liquide e semiliquide con le quali entrano in contatto e li preservano e questo è il caso della ceramica. Tutto ciò permette di conoscere le sostanze con cui i contenitori di ceramica sono entrati in contatto e quindi il loro contenuto, oppure di ricostruire l’uso e la funzione degli spazi nei siti archeologici. Per molto tempo, a causa della difficoltà di estrazione e, quindi, di identificazione dei biomarcatori del vino, non è stato possibile confermare la presenza di questa sostanza in materiali archeologici. Venivano prese in considerazione solo prove indirette, come l’esistenza di un rivestimento a base di resina o pece nelle anfore. Tuttavia, grazie allo sviluppo di nuove tecniche di estrazione e analisi – l’uso di test a campione, la pirolisi, la cromatografia liquida e poi la cromatografia di gas accoppiata alla spettrometria di massa – oggi possiamo studiare i residui dei materiali archeologici e identificare i biomarcatori del vino, cioè i composti chimici che funzionano come «impronte digitali» che permettono di riconoscere la 108 a r c h e o

presenza di una sostanza. L’acido tartarico, per esempio, è considerato il biomarcatore del vino. Questo perché, sebbene si trovi anche in altri frutti, l’acido tartarico è molto abbondante nell’uva e possiamo quindi considerare che la sua presenza, nell’area mediterranea, indichi il contatto di un liquido derivato dall’uva con i materiali archeologici. Anche l’acido siringico può essere considerato un marcatore del vino rosso, perché è un prodotto di degradazione della malvidina, sebbene la presenza di questo acido in altre sostanze richieda cautela interpretativa.

Le stesse analisi identificano anche altri acidi presenti nel vino – succinico, malico, maleico, fumarico, citrico –, ma non possono essere considerati biomarcatori specifici di quella sostanza. Poiché l’acido tartarico è presente in altri frutti, per poter attribuire la sua presenza a quella del succo d’uva è importante considerare il contesto storico e archeologico e i dati botanici del sito o dall’area geografica presa in esame. Infine, è importante ricordare che, al momento, non siamo ancora in grado di distinguere il vino dai suoi derivati, quali l’aceto. Come abbiamo visto, la possibilità di


Sulle due pagine: disegni di frammenti di vasi provenienti dalla terramara di Pilastri e che hanno restituito tracce di vino e altre sostanze alimentari assorbite nelle pareti.

riconoscere residui di vino nei campioni archeologici rappresenta una grande opportunità per lo studio della storia del vino, della sua produzione, circolazione e del suo consumo nel tempo. Negli ultimi quindici anni abbiamo svolto analisi su diversi materiali archeologici rinvenuti in Italia, Spagna, Turchia e Albania. In particolare, in seguito allo studio di impianti produttivi iberici, romani, tardo-antichi e moderni, e grazie alle analisi di campioni prelevati dalle pavimentazioni, dalle basi delle presse, dalle vasche scavate nella roccia o rivestite da cocciopesto di installazioni produttive, è stato possibile confermare la loro destinazione vinaria. Anche lo studio della ceramica offre importanti indicazioni sulla produzione del vino: generalmente gli impianti produttivi romani e tardo-antichi (e forse anche etruschi) sono caratterizzati dalla presenza di dolia o pithoi utilizzati per la produzione, conservazione e talvolta anche il trasporto di tale bevanda. Spesso questi materiali presentano un rivestimento organico che è possibile identificare grazie alle analisi chimiche e che risulta costituito da resina o pece estratta dalla legna delle Pinacee (spesso pino). Tale rivestimento aveva lo scopo di impermeabilizzare i contenitori, ma forse anche quello di conservare e dare sapore al vino, che doveva essere simile a quello della retsina greca. Talvolta sono state identificate altre sostanze impiegate per rivestire le

ceramiche, come il bitume (soprattutto laddove questa sostanza affiorava naturalmente), oppure lo zolfo, come nel caso della terramara di Pilastri. Lo studio dei residui organici, inoltre, ha dato modo di approfondire la conoscenza sui contenuti di diverse tipologie anforiche romane, tardo-antiche e medievali, permettendo di capire come zone rinomate per altri prodotti, come per esempio la Baetica (attuale Meridione della penisola iberica) non producessero solo derivati del pesce (come il garum, la famosa salsa romana) o l’olio, ma anche vino, già dall’età

repubblicana. I nostri dati ci hanno, dunque, permesso di retrodatare il consumo del vino nel Nord-Est italiano (vedi il caso della terramara di Pilastri), di attestare la produzione di vino da parte degli Iberi nel Nord-Est della penisola iberica e di confermare la produzione di vino in diversi siti, la cui funzione di installazioni produttive non era riconoscibile solo sulla base dei dati di scavo. Inoltre, abbiamo potuto osservare come il vino non fosse solo una bevanda, ma fosse usato anche per preparare salse e, probabilmente, insaporire brodi e zuppe. Alessandra Pecci a r c h e o 109


SPECIALE • VINO

Polline in abbondanza e vinaccioli venivano da altri importanti siti dello stesso periodo, come le terramare di Santa Rosa di Poviglio e Montale. Ed era ormai evidente che proprio nei secoli della terramara di Pilastri, in tutta la Pianura Padana, alla decrescita delle tracce materiali del consumo delle bacche di corniolo (Cornus mas) – ancora oggi una tradizionale fonte di bevande fermentate – corrispondeva il graduale aumento delle tracce dello sfruttamento della vite. Ma in che forma, e con quali tecniche? Gli specialisti, in proposito, non sono del tutto concordi. Sembra prevalere l’opinione che, piuttosto che da ordinati vigneti, le uve, al tempo, venissero da piante libere di aggrovigliarsi ai margini di zone disboscate per trarne campi e aree di pascolo; o addirittura dai margini dei fossati che si allungavano alla base delle mura in terra dei villaggi. È tuttavia difficile, almeno al momento, escludere che la vite fosse già parzialmente coltivata secondo tecniche piú organizzate.

RISULTATI SORPRENDENTI In che cosa consistono le scoperte effettuate a Pilastri di Bondeno (ma anche a Canale Anfora)? Un numero consistente di frammenti ceramici (31 pezzi: 24 da Pilastri, 7 dal secondo sito) è stato analizzato nei laboratori della Universitat de Barcelona (Spagna) con la gascromatografia combinata con la spettrometria di massa (GCMS, una tecnica ad elevata sensibilità, capace di identificare tracce anche minime di sostanze particolarmente complesse). Dopo la pulitura, frazioni dell’interno dei cocci sono state prelevate per ricercarvi tracce delle sostanze liquide che i vasi potevano aver assorbito. Quando possibile, sono stati cosí analizzati campioni del terreno in cui le ceramiche giacevano, per escludere possibilità di contaminazione dall’ambiente circostante. I risultati sono stati, a dir poco, sorprendenti: non meno di 20 frammenti su 31 (piú del 60% del totale) contenevano tracce di acido tartarico, spesso associate ad altri componenti (come gli acidi siringico e maleico) che la letteratura specializzata considera altrettanti markers della presenza del vino. Una frequenza notevole, non semplice da spiegare, tanto piú che le forme che sembrano aver contenuto vino, oltre a eleganti tazze carenate per bere, con o senza le tipiche anse cornute delle terramare, comprendono vasi grossolani 110 a r c h e o

per cuocere, grandi scodelloni e contenitori da magazzino. Uno scodellone o bacino ad ampia bocca con tracce di vino, in particolare, aveva una capacità stimata tra i 35 e i 40 litri: troppo per il consumo immediato di un solo nucleo familiare. Potremmo pensare, in alternativa, a un bacino usato per la fermentazione del vino, oppure al contenitore usato per distribuirlo in un’occasione festiva. Ma i problemi non finiscono qui: ci sono tazze per bere e scodelloni che contengono, insieme a quelle del vino, minime quantità di grassi animali, come se il vino fosse stato mescolato e consumato con brodi di carne (anche se è impossibile escludere che le varie sostanze siano state assorbite in momenti successivi). Alcuni vasi hanno restituito tracce di resina di pino (forse usata all’interno come impermeabilizzante); molti presentano segnali dello zolfo, che potrebbe essere stato usato sia, anch’esso, come impermeabilizzante, oppure – non sappiamo – anche come antifermentativo (pratica ben nota nell’enologia tradizionale). Lo zolfo avrebbe dovuto essere importato in quantità apprezzabili da terre lontane, come i giacimenti di Monteriggioni in Toscana, dalle zone estrattive del Lazio meridionale, oppure dalle piú consistenti, ma piú remote, solfatare siciliane. Infine, dobbiamo pensare all’aceto. I suoi segnali chimici non si distinguono da quelli del vino, il che lascia aperta la possibilità che proprio l’aceto fosse l’ingrediente usato in cucina. Dopo tutto, a Bondeno e nei dintorni siamo nella patria dell’aceto balsamico... Pensiamo anche che il villaggio fortificato si trovava a circa 70-80 km dalle sponde adriatiche, e a ben piú di 200 km da quelle del Tirreno. Il prezioso sale, il materiale conservante piú ovvio, doveva essere importato da lontano, e comunque era necessa-


rio anche per il bestiame. In alternativa al sale, dunque, l’aceto può essere stato facilmente scoperto e prodotto nelle terramare per essere usato come bio-preservativo (per sottaceti, pesce o anche carne).

Una fusaiola decorata in terracotta appena emersa dallo strato. Gli studi di Giovanni Leonardi indicano che questa forma è quella, miniaturizzata, di un vaso biconico del Bronzo Medio e Recente.

L’INDIZIO DECISIVO Un ultimo, ma fondamentale tassello di questo scenario è emerso dalle analisi, effettuate anch’esse dalla Universitat de Barcelona, su un gruppo di frammenti, sia di ceramica comune (dolii, tazze e olle), sia in ceramica fine tornita di tipo miceneo o levantino, raccolti nel grande sito arginato di Fondo Paviani, che nel XIII secolo a.C. era il piú grande abitato delle Valli Grandi Veronesi. Questi contenitori, e in generale i vasi per preparare, cuocere e conservare cibi e bevande, hanno rivelato tracce di acido tartarico, come abbiamo visto il piú importante segnale o «biomarcatore» del vino, con minori tracce di olii vegetali e grassi animali. Nelle ceramiche di ispirazione micenea o levantina (ma che, per il momento, risultano essere state fabbricate nella regione del sito), sono presenti sia acido tartarico, sia

acido succinico, insieme a tracce di acido deidroabietico, cioè, piú semplicemente, di resine delle Pinacee, forse mescolate al vino per aromatizzarlo, come nella retsina, ancora oggi popolarissima in Grecia. La scoperta di Fondo Paviani, quindi, suggerisce che vasi di grande qualità tecnica, ma anche estetica, fossero usati per i vini piú pregiati, forse destinati esclusivamente alle élite del grande abitato protostorico. Una volta di piú si intuisce come la ricerca archeologica possa condurci dalla scoperta di tracce davvero infinitesimali ad ipotizzare fenomeni economici di vasta portata. Gli scavi della terramara di Pilastri sono stati finanziati dal Comune di Bondeno, con un ulteriore supporto del Dipartimento dei Beni Culturali (dBC) dell’Università di Padova. Le analisi dei materiali ceramici di Canale Anfora sono dovute al contributo del Dipartimento di Studi Umanistici e del Patrimonio Culturale dell’Università di Udine (DIUM); quelle di Fondo Paviani sono state effettuate con il contributo dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (IIPP). PER SAPERNE DI PIÚ Sui temi generali di questo Speciale: Andrea Ciacci, Paola Rendini, Andrea Zifferero (a cura di), Archeologia della vite e del vino in Toscana e nel Lazio. Dalle tecniche dell’indagine archeologica alle prospettive della biologia molecolare, All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI), 2012 Sulla terramara di Pilastri: Alessandra Pecci, Elisabetta Borgna, Simona Mileto, Elisa Dalla Longa, Giovanna Bosi, Assunta Florenzano, Anna Maria Mercuri, Susi Corazza, Marco Marchesini e Massimo Vidale, Wine consumption in Bronze Age Italy: combining organic residue analysis, botanical data and ceramic variability, in Journal of Archaeological Science 123 (2020) Michele Cupitò, Simona Mileto, Alessandra Pecci, Analisi dei contenuti di un campione di ceramiche indigene e miceneo-levantine dal sito arginato della tarda età del Bronzo di Fondo Paviani (Legnago, VR). Note preliminari, in Monica Miari (a cura di), Scienze per la Preistoria, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze 2020 a r c h e o 111


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

IL TENTATORE RILUTTANTE DALL’EDEN IN POI, IL SERPENTE GODE DI UNA PESSIMA FAMA, OSCURANDO LE VIRTÚ CHE FINO AD ALLORA GLI ERANO STATE RICONOSCIUTE

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bituati a temere il nostro istinto e le nostre emozioni, abbiamo confinato il simbolo del Serpente in sfere di negatività profonda, dimenticando che tra le tante qualità che esso rappresenta molte potrebbero esser preziose per ravvivare e rinnovare la nostra vita quotidiana e renderla piú in contatto con la nostra parte viscerale. Il Serpente come simbolo di trasformazione e rinnovamento è un archetipo di tutte le culture»: in un paio di frasi, Carl Gustav Jung (Analisi dei sogni. Seminario tenuto nel 1928-30) descrive in maniera cristallina il triste destino del serpente che, nel corso dei millenni, da animale positivo simbolo di salute e rigenerazione, si è trasformato, tra alterne fortune, nel subdolo tentatore di Eva, causa della caduta dell’umanità, divenendo da allora un animale ingiustamente maltrattato dall’uomo, da schiacciare. Il serpente è strettamente unito, nel mondo sacro antico, alla donna, con la quale condivide le facoltà (ri)generative connesse alla sfera ciclica della fertilità della natura, in tutti i suoi aspetti. Ciò comporta un

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collegamento anche al mondo ctonio misterico e salvifico, nel quale il serpente agisce in sinergia con la divinità, spesso ma non solo, femminile. Si pensi a Igea, alle ninfe salutifere che nutrono e in alcuni casi sembrano allattare serpi, al saggio serpente Ladone nel Giardino delle Esperidi dove esse se ne prendono cura, a Esculapio e Mercurio, ai serpenti di Dioniso che fuoriescono dalla cista mistica ricorrenti sui cistofori in argento dell’Asia Minore, e ancora, come abbiamo qui piú volte visto, allo strettissimo rapporto tra Olimpiade, madre di Alessandro Magno, e i serpenti. I quali, occorre ricordare, sono di regola mansueti e addomesticabili. Retaggio di un mondo religioso ancestrale e preclassico, con Apollo il connubio «sfera del sacro/donna/serpente» crolla e assume connotazioni tipicamente maschili: il dio – ancora molto giovane, quasi un bambino – uccide il sacro pitone chiamato appunto Python che governava il santuario oracolare di Delfi (Pseudo-Apollodoro, Bibliotheca, 1. 22), dedicato a divinità ctonie femminili, e trasforma le giovani vergini sacerdotesse da Pitonesse nella Pizia, donna adulta profetante sotto


l’invasamento apollineo. Per inciso, in alcune raffigurazioni e narrazioni relative all’uccisione del pitone, esso assume busto femminile trasformandosi in Drakaina Delphine (Inno omerico ad Apollo, 300 ss.). Tale figura poi pare risorgere, dopo millenni, nella serpe o dragonessa tentatrice a busto femminile del Giardino dell’Eden che ricorre con frequenza nelle miniature quattrocentesche cosí come nella pittura di grandi dimensioni.

LA DEA DI LANUVIO Nel celebre santuario di Lanuvio (Roma) dedicato a Iuno Sospita (Giunone «salvatrice»), la dea olimpica aveva sostituito una piú antica e indigena «Dea Capra» legata alla fertilità della natura, al nutrimento benefico (basti pensare al ruolo svolto dalla capra Amaltea nello svezzamento di Giove) e a culti ctoni. La divinità indigena venne poi «spodestata» e assimilata a Giunone, conservando però, a ricordo dell’originale, un copricapo di pelle caprina con tanto di corna, testimoniato da antefisse laziali del V secolo a.C. Il serpente era parte integrante del culto lanuvino, il cui santuario è ancora oggi parzialmente conservato, che prevedeva in primavera un rito propiziatorio per la ricchezza dei raccolti: fanciulle vergini si recavano allora nei sotterranei del tempio, dove si trovava un grosso serpente al quale offrivano focaccette o altri cibi. Se il serpente accettava, era buon segno e i raccolti sarebbero stati ricchi, se invece rifiutava l’offerta, significa che la fanciulla non era illibata e veniva punita secondo la legge (Properzio, Elegie, IV, 8, 3-14; Eliano, Storie varie, XI, 16). Iuno Sospita e il rituale del serpente sono perfettamente sintetizzati in

Nella pagina accanto: denario di Lucio Roscio Fabato. Roma, 64-58 a.C. Al dritto, testa della dea Giunone coperta da una pelle di capra, retaggio del culto della Dea Capra venerata nel santuario di Lanuvio; al rovescio, una fanciulla nell’atto di nutrire un

serpente in posizione eretta. In alto: antefissa in terracotta policroma raffigurante Giunone Sospita, proveniente dal Lazio. 500-480 a.C. Berlino, Altes Museum. Compare anche qui il copricapo in pelle caprina, provvisto di corna.

alcuni denari repubblicani battuti dalla gens Roscia, originaria di Lanuvio, dove al rovescio campeggia l’arcaica testa della divinità con la cornuta pelle caprina ben in evidenza e al rovescio la vergine con un cesto contenente il cibo per il sacro serpente.

PER SAPERNE DI PIÚ Claudia Valeri, Iuno Sospita, in L’archeologia del sacro e l’archeologia del culto. Sabratha, Ebla, Ardea, Lanuvio. Giornate di Studio (Roma, 8-11 ottobre 2013), Roma 2016; pp. 63-94.

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I LIBRI DI ARCHEO

Mariagrazia Celuzza

SULLE TRACCE DI RUTILIO NAMAZIANO Il De Reditu fra storia, archeologia e attualità Effigi, Arcidosso (GR), 92 pp., ill. col. e b/n 12,00 euro ISBN 9788855241007 www.cpadver-effigi.com

Se nel 1493, nel monastero di S. Colombano a Bobbio, non fosse riemerso, tra i testi latini di un codice, il poema di Rutilio Namaziano (già allora mutilo), nessuno mai avrebbe sentito nominare né l’opera in versi, né l’autore del De Reditu Suo. Nel 1520 usciva l’editio princeps del manoscritto originale che, nel frattempo, era stato smembrato e in parte riciclato, dopo essere stato trascritto. Nel 1973, nella Biblioteca Nazionale di Torino tornava alla luce un frammento di quel primo e perduto codice di Bobbio, riutilizzato come rattoppo in pergamena di una rilegatura, che ha restituito altri 28 versi di questa composizione 114 a r c h e o

poetica risalente al V secolo d.C. A raccontarci la storia e la fortuna di questo poemetto è Mariagrazia Celuzza (già direttrice del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto, nonché docente di museologia e museografia all’Università di Siena), proponendo una rilettura del De Reditu, tra storia, archeologia e attualità. Namaziano era un senatore, appartenente a una ricca e nobile famiglia della Gallia, che, negli ultimi giorni di ottobre del 417 d.C., lasciò Roma diretto a Tolosa. Nell’Urbe, Rutilio aveva svolto una importante carriera politica, fino a diventare praefectus urbi (nel 413 o 414 d.C), carica che comprendeva la presidenza del Senato e l’esercizio di tutti i poteri civili e militari. Ed è dunque probabile che, in quella veste, si sia occupato della ricostruzione della città dopo il sacco di Roma a opera dei Visigoti, nel 410. Il mondo di Rutilio, profondamente pagano e legato alla tradizione senatoriale, è svanito. L’imperatore d’Occidente risiede a Ravenna ormai dal 402 e sembra assistere indifferente alle invasioni dei Goti. A Roma restano il Senato e l’apparato burocratico. Il senatore torna in Gallia, travolta anch’essa dall’invasione gota del 412-415, con il compito di ricostruire

Tolosa dalle macerie. Lascia, però, con dolore la sua amatissima Roma («ma la mia sorte mi strappa via dalla terra amata, mi richiamano i campi della Gallia, dove nacqui…»), come si legge nei versi che descrivono il viaggio. Rutilio si imbarca a Roma, a Portus, e proprio qui, aspettando che il mare sia buono per la partenza, ha l’idea di un diario di viaggio poetico, in distici elegiaci, in cui descrivere città, paesaggi, fenomeni naturali osservati durante la navigazione che seguirà la costa del Tirreno alla volta della Gallia. Nel poemetto esprime anche le sue riflessioni, narra degli incontri con i vecchi amici lungo le tappe del viaggio, e non tralascia frequenti e raffinati richiami mitologici e letterari. Al centro di tutto, però, come si legge nel brano piú famoso dell’opera Inno a Roma, c’è per il poeta l’ammirazione per l’Urbe e per tutto ciò che essa ha rappresentato. Per lui, provinciale, la città rimane l’unico centro possibile e la sola capitale dell’impero, esempio di virtú guerriera e di clemenza verso i vinti, nonché di giustizia, ordine, civiltà e tolleranza. Mariagrazia Celuzza porta l’attenzione del lettore alle tappe del viaggio, che, a parte la citazione di una città ligure, Luni, sono – nei frammenti che ci sono pervenuti – tutte in

Toscana e a questo, forse, si deve la fortuna di questo componimento fino ai giorni nostri, ancora recitato in pubblico soprattutto in questa regione. Ma non solo. Da quando, nel 1992, Alessandro Fo ha curato una nuova edizione del De Reditu, nella collana bianca di poesia dell’Einaudi, l’opera ha avuto una grande diffusione e successo. Nel 2004 ne è stato tratto anche un film, De RedituIl ritorno, del regista Claudio Bondí e, nel 2011, è stata pubblicata una nuova e pregevole edizione curata da Sara Pozzato e da Andrea Rodighiero (Il Ritorno), con saggio introdutivo di Alessandro Fo. L’originalità del volume di Celuzza è nell’aver ripercorso l’itinerario di Namaziano rapportandolo alle testimonianze archeologiche di un territorio che la studiosa conosce e ci descrive, partendo dall’esperienza personale di Rutilio, ma anche dagli spunti che geografici e ambientali l’opera offre. Seguendo le tracce di approdi costieri e fluviali, di insediamenti, di cambiamenti climatici, come l’alluvione che, per esempio, tra il V e VIII secolo cambiò il corso del fiume Auser (Serchio). In epoca romana e, ancora nella descrizione di Rutilio, esso confluiva con un ramo nell’Arno e nella città di Pisa. Lorella Cecilia




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