Archeo n. 440, Ottobre 2021

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M OZ IA

DANIMARCA

SAN CASCIANO DEI BAGNI TARTARO

SANTUARI TOLEMAICI

SPECIALE BATTAGLIA DI SALAMINA

SCOPERTE

L’ORO DELLA DANIMARCA

I LUOGHI DEL SACRO

I GRANDI SANTUARI DELL’EGITTO TOLEMAICO

2500 ANNI FA

SALAMINA

SAN CASCIANO DEI BAGNI

NUOVE RIVELAZIONI DALLA VASCA DELLE MERAVIGLIE

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 8 OTTOBRE 2021

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AS TA RT ER ISC ww OP w. ER a rc TA he o

2021

Mens. Anno XXXV n. 440 ottobre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 440 OTTOBRE

LA BATTAGLIA DIMENTICATA

€ 5,90



EDITORIALE

UN FUTURO SENZA SE E SENZA MA La città di Norimberga (Baviera settentrionale) si è arricchita, da poche settimane, di un museo molto particolare. Nata da una costola del celebre Deutsches Museum di Monaco, interamente dedicato alla scienza e alla tecnica, la nuova istituzione museale intende parlarci nientemeno che… del futuro. Su una superficie di quasi 3000 metri quadrati il visitatore affronta prospettive e problematiche prossime e «futuribili», riunite in cinque ambiti tematici: lavoro e vita quotidiana, il corpo e la mente, il sistema città, il sistema mondo, il viaggio attraverso lo spazio e il tempo. Scienza e finzione, utopie e distopie scandiscono un percorso di visita inteso a prefigurare possibili contesti esistenziali che potrebbero essere nostri (o dei nostri figli), già tra dieci, venti, cinquanta anni. Ma quali saranno le conseguenze e i rischi di un domani sempre piú «dominato» dalla tecnologia? Quali le sfide etico-morali da affrontare? E sarà un mondo desiderabile? Una preoccupazione, poi, aleggiava tra i colleghi al termine della visita del nuovo museo: cosa accadrebbe veramente se, in un simile panorama, venisse a mancare, come ipotizzato da un’apposita simulazione, la… corrente elettrica? È noto che la storia – quella passata e ancor meno quella futura – non si dovrebbe analizzare né con i «se» né con i «ma». Eppure vale la pena di seguire Fabrizio Polacco nel suo viaggio sul luogo di un evento epocale, avvenuto esattamente 2500 anni fa, e la cui memoria sembra essersi – inspiegabilmente – affievolita: la battaglia combattuta nelle acque davanti a Salamina tra Greci e Persiani, cosí sostiene Polacco, determinò le fondamenta del mondo libero, il destino dell’Occidente. Un’affermazione forte? Proviamo a immaginare se a vincere quello scontro fosse stato l’esercito di Serse… «Il modo migliore per predire il futuro è crearlo», aveva detto un grande statista del secolo scorso, il cancelliere tedesco Willy Brandt (1931-1992). A Salamina un futuro, parte del nostro presente migliore, venne creato. Ricordiamocelo quando siamo chiamati a prefigurare scenari prossimi. Andreas M. Steiner Un particolare dell’allestimento del nuovo Deutsches Museum di Norimberga, dedicato alla scienza e alla tecnica.


SOMMARIO EDITORIALE

Un futuro senza se e senza ma

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE Mozia è ancora una volta teatro di un ritrovamento eccezionale: ed è Astarte «in persona» a presentarsi al cospetto degli archeologi 6

IN DIRETTA DA VULCI Le indagini con il georadar e geomagnetiche offrono un contributo decisivo per la ricostruzione dell’assetto urbanistico dell’antica città

SCAVI

Nella vasca delle meraviglie 50 di Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli

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di Carlo Casi

SCOPERTE

C’è dell’oro in Danimarca!

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di Elena Percivaldi

50

di Lorenzo Nigro

MUSEI Si inaugura il Museo Archeologico della Vasca Votiva di Noceto, che accoglie la straordinaria struttura realizzata nell’età del Bronzo 8

BIOARCHEOLOGIA

Quando il passato mostra i denti

di Stefano Mammini

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66 € 5,90

www.archeo.it

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M OZ IA

ARCHEO 440 OTTOBRE

AS TA RT ER ISC OP ER TA he o.

di Gabriella Strano

IN EDICOLA L’ 8 OTTOBRE 2021

PASSEGGIATE NEL PArCo Tornano a zampillare le fontane, antiche e moderne, del Foro Romano e del Palatino 10

Federico Curti

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Comitato Scientifico Internazionale 2500 ANNI FA Mens. Anno XXXV n. 440 ottobre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE BATTAGLIA DI SALAMINA

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

SANTUARI TOLEMAICI

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

SAN CASCIANO DEI BAGNI TARTARO

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

In copertina uno dei magnifici medaglioni in oro massiccio facenti parte del tesoro rinvenuto a Vindelev, non lontano da Jelling, in Danimarca.

Presidente

DANIMARCA

Anno XXXVII, n. 440 - ottobre 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

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di Emanuela Cristiani e Claudio Ottoni

SALAMINA LA BATTAGLIA DIMENTICATA

SAN CASCIANO DEI BAGNI

NUOVE RIVELAZIONI DALLA VASCA DELLE MERAVIGLIE

SCOPERTE

L’ORO DELLA DANIMARCA I LUOGHI DEL SACRO

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto

I GRANDI SANTUARI DELL’EGITTO TOLEMAICO

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24/09/21 17:13

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Claudia Abatino è assegnista di ricerca nel Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena. Veronica Aniceti è assegnista di ricerca nel Dipartimento di Scienze Naturali dell’Università di Bergen (Norvegia). Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Emanuela Cristiani è professoressa associata di archeologia preistorica presso il Dipartimento di Scienze Odontostomatologiche e Maxillo Facciali della «Sapienza» Università di Roma. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco archeologico di Ostia Antica. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Francesca Iannarilli è dottore di ricerca e assegnista in egittologia presso Ca’ Foscari Università di Venezia. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Emanuele Mariotti è archeologo. Lorenzo Nigro è professore ordinario di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico e di archeologia fenicio-punica della «Sapienza» Università di Roma. Claudio Ottoni è assegnista di ricerca presso il laboratorio DANTE-Diet and Ancient Technology della «Sapienza» Università di Roma. Elena Percivaldi


LUOGHI DEL SACRO/9

Una nuova idea per i numi d’Egitto

70

di Francesca Iannarilli

70 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Quanti illustri figli di serpenti!

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di Francesca Ceci

SPECIALE

Salamina La vittoria dimenticata

110 LIBRI

90

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90

di Fabrizio Polacco

è giornalista e storica del Medioevo. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Gabriella Strano è architetto paesaggista del Parco archeologico del Colosseo. Jacopo Tabolli è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Siena Grosseto e Arezzo.

Illustrazioni e immagini: Konserveringscenter Vejle: copertina e pp. 38/39, 40/41, 42-43, 44 (alto), 44/45 – Ufficio stampa del Deutsches Museum, Norimberga: p. 3 – Missione archeologica a Mozia della «Sapienza» Università di Roma: pp. 6-7 – Museo Archeologico La Vasca Votiva, Noceto (Parma): p. 8 – Parco archeologico del Colosseo: pp. 10-11 – Parco archeologico di Pompei: pp. 12-13 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 14-15 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 16-17 – Cortesia degli autori: pp. 20, 22-24, 111 – Alberto Potenza: locandina a p. 21 (al centro) – Cortesia MAVVWine Art Museum: pp. 26-29 – Musée nationale de Préhistoire, Les-Eyzies-de-Tayac: p. 30 (in basso) – Museo Nazionale della Georgia, Tbilisi/Ana Mgeladze: pp. 30 (alto e centro), 31 – Vejle Museums: pp. 39, 40, 44 (basso), 45 (alto) – Shutterstock: pp. 46-47, 48, 72, 74-75, 76 (alto), 79, 80, 82 (basso), 83, 84/85, 86/87, 87, 88, 94-95, 96, 106-107, 109 – Mondadori Portfolio: Album: p. 49; Album/Quintlox: p. 76 (basso); Werner Forman Archive/Private Collection/Heritage Images: p. 77; Heritage Images: p. 78; Historica Graphica Collection/ Heritage Images: p. 86; AKG Images: p. 93 (basso) – Soprintendenza ABAP per le province di Siena Grosseto e Arezzo: Alessandra Fortini: pp. 50/51, 52/53, 54-63 – Emanuela Cristiani ed Elena Fiorin: p. 66 – Dusan Boric: p. 67 – Andrea Zupancich: p. 68 – Emanuela Cristiani e Andrea Zupancich: p. 69 (sinistra) – Emanuela Cristiani: p. 69 (destra, in alto) – Mauro Cutrona: disegno a p. 69 – Altair4 Multimedia: pp. 70/71, 80/81, 82 (alto) – Fabrizio Polacco: pp. 90-91, 102-105, 108 – Doc. red.: pp. 92, 96/97, 99, 100/101, 110 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle p. 41, 53, 73, 93 e 98. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Sicilia

ASTARTE DAI RICCIOLI ROSSI

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a missione archeologica dell’Università «Sapienza» di Roma ha da poco concluso la LXI campagna di scavi a Mozia, senza che venissero meno la ricchezza delle scoperte e – soprattutto – la varietà dei ritrovamenti e delle informazioni storiche raccolte. Anzi, dopo il ritrovamento della

A destra: Mozia. Il Temenos Circolare: al centro, il Kothon, e, intorno, i resti dei templi di Baal e di Astarte e del Santuario delle Acque Sacre.

Stele di Abdi Melqart nel 2019 (vedi «Archeo» n. 418, dicembre 2019; anche on line su issuu.com), il sito ci ha riservato un’altra grande sorpresa, che è allo stesso tempo una conferma di quanto già compreso attraverso anni di scavo paziente nell’Area sacra del Kothon. In alto: Lorenzo Nigro con la testa di Astarte/Afrodite ancora in situ. A sinistra: la testa in terracotta dipinta che raffigura Astarte/Afrodite dopo la ripulitura. L’opera, di produzione greca, è databile fra il 520 e il 480 a.C. Nella pagina accanto: la testa della dea e gli altri oggetti rinvenuti nella stipe votiva, su un letto di ocra rossa.

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L’esplorazione del Tèmenos Circolare, il recinto di 118 m di diametro che racchiudeva la piscina sacra (detta appunto Kothon), il Tempio di Baal, il Tempio di Astarte e, sul versante occidentale, il Santuario delle Acque Sacre, è ripartita da un punto del muro curvilineo nel quale era stata inserita un’àncora litica molto antica, pochi metri a ovest del Tempio di Astarte. La ragione era semplice: la presenza dell’àncora suggeriva che vi fosse qualcosa di piú antico del tempio scavato sinora, del quale sono state riportate alla luce quattro costruzioni sovrapposte, in uso dall’VIII al V secolo a.C. Dopo pochi giorni, esattamente davanti all’àncora, è stata scoperta una stipe, di 1 m circa di diametro, delimitata da mattoni crudi rossi. All’interno erano stati disposti alcuni oggetti su un letto di ocra rossa: una coppetta a vernice nera forata al centro, con due chiodi uno di ferro e uno di bronzo; una lekythos miniaturistica, utilizzata per la libagione di un profumo attraverso la coppa forata. Ai lati erano due oggetti di terracotta: un disco con la rappresentazione di una rosetta a rilievo e uno stampo raffigurante un delfino. Al centro della fossa era deposta, rovesciata sullo strato di ocra, una protome femminile in terracotta raffigurante il volto della dea Astarte/Afrodite: splendente, luminosa, come la definisce l’epiteto AGLAIA ritrovato iscritto sul fondo di un vaso offerto nel tempio e come l’ha mostrata ai nostri occhi pochi giorni or sono la mano esperta del restauratore

Salvatore Tricoli, con la decorazione dipinta bianca lucente nell’incarnato, rossa fiammante tra i riccioli dei capelli e dorata nell’ampio diadema divino. La terracotta è greca, probabilmente prodotta in Sicilia a Selinunte o a Gela – ma i Fenici di Mozia erano avvezzi a servirsi dell’arte greca per rappresentare i propri dèi (si pensi alla statua dell’Auriga) – e si data tra il 520 e il 480 a.C., almeno un secolo prima di quando, nell’imminenza dell’attacco di Dionigi di Siracusa che distrusse Mozia nel 397/6 a.C., essa fu ritualmente nascosta poco fuori del recinto sacro, in un punto facilmente individuabile. La dea è fenicia: lo rivela il disco con la rosetta, uno dei simboli piú diffusi e popolari di Astarte, attestato in tutto il Vicino Oriente e nel Mediterraneo fino agli esemplari d’oro del Tesoro del Carambolo in Andalusia (vedi «Archeo» n. 438, agosto 2021; anche on line su issuu.com). Il ritrovamento ci ha mozzato il fiato: la dea ci si è mostrata cosí, in

tutto il suo splendore, dieci anni dopo che era stato scavato il tempio e che si era capito, prima dai ritrovamenti, poi da due iscrizioni, che proprio ad Astarte/Afrodite esso era dedicato. È un’Astarte celeste, astrale e marina (come indica il delfino), a cui sono offerte colombe, pesi da telaio, un cembalo di bronzo e un flauto realizzato da un metacarpo di capra. La grande dea orientale dai mille volti: Inanna, Ishtar, Khepat, Shaushkha, che ha attraversato il mare e ha conquistato il mondo antico per portare il suo potente raggio di amore, rinascita, fecondità. La Missione archeologica a Mozia dell’Università «Sapienza» di Roma lavora da piú di 50 anni in convenzione con la Soprintendenza Regionale di Trapani e sotto l’egida dell’Assessorato Regionale dei Beni Culturali della Sicilia, con il sostegno e l’ospitalità della Fondazione G. Whitaker. Lorenzo Nigro

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n otiz iario

MUSEI Emilia-Romagna

LA CIVILTÀ DELLE TERRAMARE E I SUOI RITI

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entre questo numero viene distribuito in edicola, Noceto (Parma) saluta l’inaugurazione del Museo Archeologico della Vasca Votiva, nel quale è appunto possibile vedere da vicino lo straordinario manufatto scoperto nel 2005 e poi indagato (vedi «Archeo» n. 265, aprile 2007). Fin da subito, l’eccezionalità della vasca apparve evidente agli occhi degli scavatori e di qui nacque l’idea di musealizzare la struttura, realizzata nel XV secolo a.C. dalla comunità stanziata in prossimità del sito, nella terramara della Torretta, che, come molte altre, venne distrutta nell’Ottocento da una delle numerose cave di «terra fertile» (terra marna in dialetto emiliano, da cui il termine di terramara adottato dagli archeologi per questo tipo di insediamenti). La vasca è stata definita votiva in quanto l’accuratezza della sua realizzazione e la presenza di vasellame e utensili deliberatamente lasciati nell’acqua che essa conteneva – oltre 1500 mc – ne escludono un uso funzionale alle attività quotidiane di chi ne pianificò la costruzione e suggeriscono che la deposizione degli oggetti avesse un significato rituale. L’intera vicenda viene ora ripercorsa nel museo, il cui allestimento si sviluppa introducendo il visitatore nel contesto della civiltà delle terramare e proponendo una selezione dei reperti rinvenuti nel corso dello scavo, per poi svelare la vasca votiva, di fronte alla quale si rinnova la certezza di trovarsi al cospetto di un’opera unica nel suo genere. Un piú ampio articolo sarà dedicato al museo e alla vasca nel prossimo numero di «Archeo». Stefano Mammini

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DOVE E QUANDO Museo Archeologico della Vasca Votiva Noceto (Parma), via Ignazio Silone 1 Info www.comune.noceto.pr.it Noceto (Parma). Il Museo Archeologico della Vasca Votiva alla vigilia della sua inaugurazione: i teli coprono la vasca, ora svelata, e alla quale sarà dedicato un ampio articolo nel prossimo numero di «Archeo».



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

IL SUONO DELL’ACQUA DAL PALATINO AL FORO ROMANO, LE FONTANE SONO UNA PRESENZA SIGNIFICATIVA E TESTIMONIANO UNA STORIA PLURISECOLARE. I LORO GETTI SONO TORNATI ADESSO A ZAMPILLARE E I GIOCHI D’ACQUA RENDONO ANCOR PIÚ... FRESCHI MOLTI ANGOLI DELL’AREA ARCHEOLOGICA

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a mitica Roma delle origini nasce sulle pendici del colle Palatino, in uno scenario depresso e acquitrinoso, le antiche paludi del Velabro e della valle Murcia, formato dalle esondazioni del Tevere. Dalla prima magistrale opera, al tempo dei Tarquini, per irregimentare quell’acqua malsana nella Cloaca Maxima, l’ingegneria idraulica antica ha realizzato mirabili lavori per garantire l’approvvigionamento delle acque: cisterne, pozzi e condotti idraulici. Questi impianti hanno permesso anche di dare vita a fastosi manufatti artistici: fontane, un tempo ricche di statue e giochi d’acqua, che ornavano i peristili dei palazzi imperiali sul Palatino, piú tardi rievocate nelle fontane del giardino rinascimentale degli

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Horti Farnesiani, espressione di un passato mitologico. Il Parco archeologico del Colosseo – che racchiude Foro Romano, Palatino, Colosseo e Domus Aurea – è ricco di queste vestigia: dall’antichissima fonte di Giuturna, legata al mito dei Dioscuri Castore e Polluce che lí abbeverarono i loro cavalli per annunciare la prima vittoriosa battaglia romana sul lago Regillo, alle molte fontane del periodo imperiale, fino ad arrivare a quelle rinascimentali che, all’interno degli Horti Farnesiani, ancora stupiscono per la loro bellezza e grandiosità. Infine, una piccola fontana ottocentesca che nasconde il segreto di essere il punto di origine della condotta d’acqua che alimenta tutte le fontane del pendio. La fontana è

composta da una roccaglia in tufo, a simulare una fonte naturale, e da un piccolo stagno con rose e papiri. Allo scoccare di ogni ora, come un orologio ad acqua, dalla fontana si alza una vaporizzazione sottile, che si diffonde col sole in un arcobaleno di colori.

UN LABIRINTO NASCOSTO Le fontane romane hanno subito danni agli impianti per l’attività estrattiva e di predazione di materiale realizzata nel Medioevo e nell’età rinascimentale con il probabile scopo di estrarre tufo e pozzolana dagli strati sottostanti. Il risultato di questa imponente attività di estrazione è una miriade di gallerie che si snodano sotto le fondazioni dei complessi imperiali. Il sistema piú consueto di adduzione dell’acqua era quello di raccolta e di distribuzione a caduta. Ne sono un esempio le vasche della Casa delle Vestali nel Foro Romano, un’area che era il centro religioso e politico della Roma repubblicana. Le tre vasche dell’Atrium Vestae conservano il loro antichissimo sistema di adduzione e smaltimento dell’acqua: si susseguono geometricamente ma sono di diversa grandezza e profondità. La prima, a est, è la piú


In alto: il Ninfeo degli Specchi negli Horti Farnesiani. A destra: la Fontana a pelte della Domus Augustana. Nella pagina accanto: le vasche della Casa delle Vestali. profonda e riceve acqua da una condotta che parte dal punto di adduzione situato sulla sommità del Palatino. Con il semplice accorgimento del «troppo pieno» l’acqua in esubero viene incanalata e defluisce nelle vasche successive e, eventualmente, smaltita nella Cloaca Maxima, come accade da piú di due millenni, oppure usata per l’irrigazione, secondo l’esigenza stagionale. Le vasche sono state restaurate e accolgono ora ninfee e fiori di loto, simbolo della castità delle Vestali e del rito di iniziazione delle fanciulle che prevedeva il taglio dei capelli con cui ornavano un albero di loto (arbor capillata). «Il tempo scorre incessantemente come l’acqua», «Instar aquae tempus»: questo il titolo scelto per inaugurare l’installazione che ha recuperato la funzione idraulica della Fontana a pelte, rendendo di nuovo visibile la presenza dell’acqua nella fontana imperiale. Sono passati duemila anni dal tempo in cui l’acqua scorreva nella fontana racchiusa nel meraviglioso scrigno del peristilio inferiore della Domus Augustana, la parte privata del palazzo di Domiziano sul Palatino. Il nome deriva dalla presenza nel bacino di quattro strutture in tufo a forma di pelte

contrapposte, gli antichi scudi romani attribuiti anche alle amazzoni. L’accorgimento fondamentale nella realizzazione del progetto di rifunzionalizzazione è stato quello di tutelare il manufatto archeologico, senza operare alcun tipo di intervento o alterazione sulla struttura.

MUSICA E PROFUMI L’acqua è stata inserita in un’installazione in acciaio, totalmente rimovibile, adagiata all’interno dell’invaso perimetrale, risultato dell’intervento di scavo e restauro degli anni Trenta del secolo scorso, creando una camera d’aria di rispetto. A seguito di un vecchio crollo di dissesto la fontana presenta, sull’isola centrale, un’apertura che ha messo in comunicazione l’esterno con un canale ipogeo scavato nel tufo all’interno del quale è stato possibile alloggiare tutto l’impianto idraulico per il funzionamento, completamente a ricircolo dell’acqua, della nuova fontana. Ai nuovi giochi d’acqua si accompagnano musica e profumi che rimandano agli usi dei convivi nei triclini estivi, occasione di condivisione di pranzi e divertimento.

Il progetto di rifunzionalizzazione delle fontane annovera infine anche l’installazione che ha riportato l’acqua al Ninfeo degli Specchi, cosí denominato anticamente per la presenza di satiri a tutto tondo che trattenevano gli specchi. Il ninfeo fa parte delle fontane del grande giardino allestito dai Farnese nel XVI secolo, e subí, nei secoli a seguire, la stessa sorte di abbandono del giardino rinascimentale. Gli scavi condotti da Giacomo Boni nel 1914 riportarono alla luce il ninfeo ormai in stato di rudere, sotto strati di terreno. Anche qui il principio cardine, come in tutti i progetti curati dalla scrivente, è il rispetto del manufatto storico: le installazioni si adagiano nello stato di fatto protetto da uno strato preparatorio. Il sistema è sempre a ricircolo: gli zampilli e le lingue d’acqua che fuoriescono da una corona di tubi adagiati sulla sommità a ricreare la sottile pioggia che cadeva dalla perduta copertura, sono raccolti nell’invaso in acciaio corten per poter essere rimessi in circolo. L’unica concessione allo «spreco» è lo scherzo d’acqua, cosí in uso nei giardini della «Rinascenza», che bagna ogni ora a tradimento! Gabriella Strano

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

L’ULTIMA DIMORA DI UN LIBERTO DI SUCCESSO UNA TOMBA DELLA NECROPOLI DI PORTA SARNO HA RESTITUITO I RESTI, ECCEZIONALMENTE BEN CONSERVATI, DI MARCUS VENERIUS SECUNDIO. CHE, DOPO ESSERE STATO AFFRANCATO DALLA SUA CONDIZIONE DI SCHIAVO, FECE UNA BRILLANTE CARRIERA E FU ANCHE ORGANIZZATORE DI SPETTACOLI IN LINGUA GRECA E LATINA

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ella necropoli di Porta Sarno, ubicata all’uscita orientale da Pompei della frenetica via dell’Abbondanza, è venuta recentemente alla luce, grazie alle ricerche svolte dal Parco Archeologico e dall’Università di Valencia, la tomba di Marcus Venerius Secundio, un importante liberto citato nell’archivio di tavolette cerate del banchiere pompeiano Cecilio Giocondo, conservato nella sua domus affacciata su via Vesuvio, adiacente alle Case del Giardino e di Orione da poco scoperte nella Regio V. Del ritrovamento della tomba hanno colpito i resti inumati del personaggio, ben conservati nella funeraria e, soprattutto, l’iscrizione su cinque righe che documenta, per la prima volta a Pompei, l’organizzazione di spettacoli anche in lingua greca. Sulla lastra marmorea applicata sul frontone

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Dall’alto in basso: l’area della necropoli di Porta Sarno in cui è stata scoperta la tomba di Marcus Venerius Secundio e il sepolcro in corso di scavo.

displuviato della sepoltura, risalente agli ultimi decenni di vita della città e con tracce percepibili di pitture di giardino, si commemora il proprietario Marcus Venerius Secundio: custode del tempio di Venere, una volta affrancato dallo stato di schiavitú pubblica, fu un personaggio di status sociale ed economico elevato, visto che, come ricorda appunto l’iscrizione, oltre a diventare Augustale, cioè membro

del collegio di sacerdoti dediti al culto imperiale, «diede ludi greci e latini per la durata di quattro giorni».

UNA CITTÀ VIVACE «Per Ludi graeci – spiega Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco – dobbiamo intendere spettacoli in lingua greca; si tratta della prima testimonianza certa di questo genere di esibizioni a Pompei, ipotizzate in passato solo sulla base


A sinistra: lo scheletro di Marcus Venerius Secundio. Qui sotto e in basso: una delle sepolture a incinerazione trovate in urne deposte nella tomba. di indicatori indiretti. Abbiamo qui un’altra tessera di un grande mosaico, ovvero la Pompei multietnica della prima età imperiale, dove accanto al latino è attestato il greco, all’epoca la lingua franca del Mediterraneo orientale. Che si organizzassero anche spettacoli in greco è prova del clima culturale vivace e aperto che caratterizzava l’antica città». Ha destato sensazione anche lo stato di conservazione dello scheletro, considerato finora fra i meglio preservati a Pompei. Il defunto fu inumato in una piccola cella – 1,6 x 2,4 m –,posta alle spalle della facciata principale, mentre nella parte restante del recinto che cingeva la tomba sono state ritrovate due incinerazioni entro urne, una delle quali raccolta in un bel vaso di vetro e appartenente a una donna di nome Novia Amabilis. In età romana, a Pompei vigeva il rituale funerario dell’incinerazione, mentre solo i bambini venivano inumati; si tratta pertanto di un’eccezione alla norma, visto che

siamo di fronte alla deposizione di un uomo adulto di oltre 60 anni, come emerge dalla prima analisi delle ossa recuperate nella camera. Le caratteristiche della stanza, che consisteva in un ambiente ermeticamente chiuso, evidentemente hanno creato le condizioni migliori per facilitare la conservazione dello scheletro, con capelli e un orecchio ancora ben riconoscibili. Il corpo era stato deposto insieme a un corredo modesto, composto da due unguentari in vetro e molti frammenti di tessuto, probabilmente la sua veste.

ARCHEOLOGIA FUNERARIA «Dobbiamo ancora comprendere – spiega Llorenç Alapont dell’Università di Valencia – se la mummificazione parziale del defunto sia dovuta o meno a un trattamento intenzionale. In questo l’analisi del tessuto trovato accanto all’inumazione potrebbe fornire ulteriori informazioni. Dalle fonti

antiche sappiamo che determinati tessuti, come l’asbesto (amianto), venivano utilizzati per l’imbalsamazione. Anche per chi come me si occupa di archeologia funeraria, la straordinaria ricchezza di dati offerti da questa tomba, dall’iscrizione alle sepolture, ai reperti osteologici e alla facciata dipinta, è un fatto eccezionale, che conferma l’importanza di adottare un approccio interdisciplinare». Anche alla luce di questi ritrovamenti, sono stati avviati degli interventi di messa in sicurezza e manutenzione della necropoli di Porta Sarno, affinché si possa giungere presto alla definizione di un progetto di restauro e di fruizione nell’ambito del Parco archeologico. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.

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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

MENORAH CON VISTA MARE SESSANT’ANNI FA VENIVA ALLA LUCE LA SINAGOGA DI OSTIA, UNO DEI PIÚ ANTICHI LUOGHI DI CULTO DELLA DIASPORA EBRAICA IN OCCIDENTE. UN PROSSIMO CONVEGNO INTERNAZIONALE FARÀ IL PUNTO SULLE INDAGINI INTORNO A QUESTO MONUMENTO CARICO DI STORIA E SIGNIFICATI

E

ra la primavera del 1961, esattamente sessant’anni fa, quando, nel corso dei lavori per la realizzazione della strada di collegamento della via Ostiense/via del Mare con il nuovo aeroporto internazionale Leonardo da Vinci (ovvero della trasformazione della strada panoramica sugli scavi di Ostia in via dell’Aeroporto di Fiumicino, appunto), apparvero le prime basi e poi i fusti e i capitelli delle colonne della sinagoga ostiense, il piú antico edificio di culto ebraico mai rinvenuto nel Mediterraneo occidentale. Merito di questa sensazionale ancorché fortuita scoperta, oltre che ai lavori stessi e alla lungimiranza dell’allora soprintendente Luigi Pietrogrande, va certamente a Maria Floriani Squarciapino, sotto la cui direzione gli scavi proseguirono anche negli anni successivi (1962-1964, 1977), quando poi, a sua volta, fu a capo della Soprintendenza di Ostia. Un merito, questo, che si risolse non solo nella progressiva messa in luce dell’intera costruzione e nella puntuale interpretazione ed edizione scientifica dei dati raccolti, ma anche in una immediata e corposa comunicazione al pubblico nazionale e internazionale con

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articoli giornalistici, lezioni, conferenze. Altrettanto rapidi ed efficaci furono il restauro e la parziale ricostruzione, con il rialzamento delle colonne e delle murature crollate, il consolidamento delle altre strutture in opera reticolata/mista e listata e dei piani pavimentali superstiti. In

anni piú recenti, dal 2001, il monumento è stato oggetto di nuove indagini archeologiche e ipotesi interpretative, grazie alle missioni dell’équipe dell’Università del Texas guidata da L. Michel White. Posta 200 m circa a sud e fuori dalla cosiddetta Porta Marina, all’estremità sud-occidentale della

In alto: la sinagoga di Ostia, venuta alla luce nel 1961, in corso di scavo. Nella pagina accanto, in alto: una veduta generale del monumento.


città – e dunque a grande distanza dai templi pagani –, la sinagoga sorgeva, probabilmente non a caso, subito a ridosso dell’antica linea di costa (nell’antica religione ebraica si riteneva che le spiagge fossero luoghi adatti all’espletamento dei rituali purificatori), lungo la trafficatissima strada litoranea (via

Severiana dal III secolo d.C.) che metteva in collegamento Ostia con l’area dei porti imperiali di Claudio e Traiano (Porto). E proprio da questa strada era accessibile tramite un atrio monumentale

(protiro) che immetteva in una sorta di nartece o vestibolo (A) con sottostante cisterna, pozzo e bacino per le abluzioni rituali; da qui un passaggio consentiva di entrare all’interno del luogo di culto vero e proprio, preceduto da un monumentale ingresso tetrastilo (B) e costituito da un’ampia aula

rettangolare (C) lastricata in marmi policromi con banconi alle pareti, lato di fondo curvilineo e pulpito (D, tevah o bimah) per la lettura della Torah (Legge); i rotoli venivano conservati entro un’edicola Planimetria assonometrica della sinagoga ostiense: A. nartece o vestibolo; B. ingresso tetrastilo; C. aula rettangolare; D. pulpito; E. edicola absidata; F. sala con banconi; G. cucina.

absidata (E) dotata di colonnine corinzie sostenenti mensole (oggi in calchi), su cui sono scolpiti la menorah (candelabro a 7 bracci) e altri simboli religiosi ebraici (il corno d’ariete o shofar, il cedro e un fascio di palma, mirto e salice).

IL FORNO PER LE AZZIME Orientata in direzione sud-est, ossia verso Gerusalemme, la sinagoga copriva nel complesso un’area di 23,50 x 36,60 m (850 mq circa), comprendendo, lungo il fianco sud-occidentale, una serie di altri ambienti di varia funzione: una cucina con tavolo in marmo e forno per l’impasto e la cottura delle azzime (G) e, adiacenti a ovest, un corridoio e una grande sala con banconi alle pareti (F) probabilmente destinata alle riunioni della comunità. Tale situazione, corrispondente a quanto oggi visibile sul terreno, individua di fatto estensione e articolazione interna dell’edificio nelle sue ultime fasi di vita, inquadrabili sostanzialmente tra il IV e il V/VI secolo d.C. Come la costruzione si presentasse nelle epoche precedenti e se essa fosse già sorta come sinagoga o, piú probabilmente, con altra destinazione d’uso (edificio privato?), è questione tuttora dibattuta dagli archeologi. Alla tradizionale datazione al tardo I secolo già ipotizzata da Squarciapino (con rifacimenti agli inizi del IV), infatti, si è da ultimo contrapposta quella decisamente piú recente proposta da White. Di questa e di altre numerose tematiche inerenti la sinagoga ostiense si discuterà in un convegno internazionale organizzato dal Parco archeologico di Ostia antica alla fine di ottobre, proprio per celebrare i sessant’anni dalla scoperta di uno dei monumenti piú straordinari e suggestivi dell’area archeologica. Alessandro D’Alessio

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

IL NUOVO VOLTO DI UNA CITTÀ IL PROGETTO MIRATO ALLA COMPRENSIONE DELLA STRUTTURA URBANA DI VULCI AFFIANCA METODI NON INVASIVI AGLI SCAVI ARCHEOLOGICI. E, OLTRE A OFFRIRE DATI PREZIOSI SULL’ASSETTO DELL’AREA SETTENTRIONALE DEL PIANORO, HA SVELATO UN EDIFICIO SACRO FINORA SCONOSCIUTO

I

l progetto sul Cityscape di Vulci (https://vulcityscape. hypotheses.org) apre un nuovo ciclo di ricerche di urbanistica vulcente, mirato alla comprensione delle strategie di insediamento, dell’assetto urbano

e dell’interrelazione tra aree funzionali di diverso carattere, in una prospettiva diacronica che spazia dagli albori della città antica al suo abbandono in età medievale. Sia le indagini non invasive, sia lo scavo condotto

nell’estate appena trascorsa hanno dato validi risultati, che gettano nuova luce sulla nostra conoscenza della struttura della città e del palinsesto storico vulcente. Nell’autunno 2020, in parallelo a ricerche preliminari in archivio, che

Gli studenti delle Università di Friburgo e Magonza al lavoro nel saggio di scavo condotto nel 2021.

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hanno portato alla scoperta di manoscritti inediti relativi agli scavi della famiglia Campanari, sono state svolte indagini geofisiche. Alla mappatura geomagnetica del pianoro settentrionale, dal decumano fino alla punta dell’acropoli – per un’area complessiva di 22,5 ettari –, si sono affiancati due saggi approfonditi con Ground Penetrating Radar (GPR). Se la geomagnetica ben si adatta all’analisi territoriale in estensione, il GPR permette una verifica piú dettagliata per quanto riguarda le profondità delle strutture archeologiche. Entrambe le tecniche hanno fornito ottimi risultati e una ricca serie di dati, complementari tra loro, che permettono di rivedere profondamente le nostre conoscenze sulla struttura della città, di arricchirle di nuovi aspetti e di identificare con chiarezza diverse aree funzionali.

LO SCAVO NELL’AREA SACRA La campagna di scavo archeologico, svoltasi tra il 26 luglio e il 29 agosto, ha interessato un settore cruciale per la comprensione della città antica nelle immediate vicinanze del tempio grande; si tratta di un’area pubblica di carattere sacrale, individuata per la prima volta grazie alle prospezioni geofisiche. Il saggio di scavo in estensione ha interessato l’angolo nord-est di un nuovo edificio templare e l’area adiacente a esso, per una superficie complessiva di 220 mq circa. Qui sono state intercettate sia parte delle strutture dell’edificio sacro, sia fasi romane di occupazione e uso dell’area. La successione stratigrafica e i ritrovamenti coprono un arco cronologico che va dalla tarda età del Bronzo al II secolo d.C. La situazione emersa è di estremo

In alto: il team di Eastern Atlas durante le prospezioni geofisiche con GPR e geomagnetica. A destra: l’area interessata dalle prospezioni geofisiche nel 2020.

interesse per la ricostruzione del palinsesto urbanistico vulcente: se da un lato le fasi piú tarde ci parlano delle vicende dell’edificio sacro dopo la sua caduta in disuso, dall’altro gli strati di fondazione preservano intatte le origini del tempio. In profondità sono inoltre emerse evidenti tracce di un precedente utilizzo del pianoro che saranno da approfondire nelle prossime campagne di scavo. Le ricerche sono dirette da Mariachiara Franceschini (Università di Friburgo, Germania) e Paul P. Pasieka (Università di Magonza, Germania), responsabili anche della redazione dei risultati e che hanno collaborato alla stesura del presente articolo. Le prospezioni sono state effettuate da Eastern Atlas GmbH (Berlino,

Germania). Le attività del gruppo di ricerca internazionale hanno visto la partecipazione di studenti e ricercatori tedeschi e italiani e si sono svolte in cooperazione con l’Istituto Archeologico Germanico e con la facoltà di Architettura dell´OTH Regensburg. Le operazioni sono supportate da Simona Carosi e Margherita Eichberg (Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale) e Carlo Casi (Fondazione Vulci). Il progetto è reso possibile dal prezioso contributo e supporto dei Comuni di Ischia di Castro, Montalto di Castro e Canino e del Parco Archeologico di Vulci e dai generosi finanziamenti della Fritz Thyssen Stiftung.

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

INTERAZIONI VINCENTI

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a XXIII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si svolgerà a Paestum presso il Tabacchificio Cafasso, la Basilica, il Parco Archeologico e il Museo Nazionale da giovedí 25 a domenica 28 novembre. Patrocinata dal Ministero della Cultura e dal Ministero del Turismo e riconosciuta quale unico appuntamento al mondo dalle organizzazioni governative internazionali UNESCO e UNWTO, la manifestazione è un rilevante momento di approfondimento e divulgazione di temi inerenti il turismo culturale e la valorizzazione dei beni culturali per la comunità scientifica internazionale, il business professionale, gli addetti ai lavori, i viaggiatori e appassionati, il mondo scolastico e universitario, i media. La Borsa è sede del primo e piú grande Salone espositivo al mondo dedicato al patrimonio archeologico e di ArcheoVirtual, l’innovativa mostra internazionale di tecnologie multimediali, interattive e virtuali al servizio dei beni culturali. ArcheoVirtual, da oltre 10 anni fiore all’occhiello della BMTA, è realizzata in collaborazione con il Digital Heritage Lab del CNR ISPC, l’Istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche dedicato alle Scienze del Patrimonio Culturale. La mostra intende valorizzare le soluzioni tecnologiche che rendono i luoghi della cultura piú appetibili per il grande pubblico e piú leggibili in termini di comprensione e sensibilità culturale, presentando tradizionalmente due sezioni: una parte audiovisiva, in cui si proiettano video relativi a progetti di particolare originalità, innovazione e rilievo, e un’altra dedicata alle applicazioni interattive. Il tema di ArcheoVirtual 2021 «nuove interAzioni» è sui mutamenti in atto degli strumenti di fruizione del patrimonio, anche in relazione all’esperienza legata alla pandemia da Covid-19, che ha probabilmente modificato in modo definitivo alcune nostre abitudini, e sui fenomeni di piú ampia portata, come le tecnologie di Intelligenza Artificiale e di sensoristica diffusa, che incideranno sul futuro approccio del pubblico a siti e musei. Proprio durante la pandemia, ArcheoVirtual ha ricevuto il plauso di Ernesto Ottone Ramírez, Vice Direttore Generale per la Cultura dell’UNESCO, quale esempio eccellente per rendere la cultura accessibile attraverso la digitalizzazione del patrimonio, urgente necessità di cui si è fatta promotrice l’UNESCO lanciando nel 2020 le campagne «Share Culture» e «Share Our Heritage». Oltre alla mostra, al workshop tematico i protagonisti

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del mondo della ricerca, della pubblica amministrazione e dell’imprenditoria si confronteranno sull’evoluzione del nostro rapporto con i musei e il patrimonio culturale: introducono Costanza Miliani, Direttore CNR ISPC, e Augusto Palombini, CNR ISPC, Coordinatore Scientifico di ArcheoVirtual; intervengono Davide Borra, imprenditore digitale No.Real e Coordinatore Dipartimento di «Digital Communication design» IAAD Istituto d’Arte Applicata e Design; Amedeo Cesta, Direttore Dipartimento Scienze Umane e Sociali, Patrimonio Culturale del CNR; Maurizio Forte, docente di studi classici, storia dell’arte e studi visivi della Duke University; Anna Maria Marras, Coordinatore Commissione «Tecnologie Digitali per i beni culturali» di ICOM Italia; concludono Onofrio Cutaia, Direttore Generale per la Creatività Contemporanea del MiC, e Laura Moro, Direttore Istituto Centrale per la Digitalizzazione del Patrimonio Culturale-Digital Library del MiC. Info www.borsaturismoarcheologico.it



A TUTTO CAMPO Claudia Abatino e Veronica Aniceti

UN RAPPORTO ANTICO, ANZI MILLENARIO IL DIPARTIMENTO DI SCIENZE STORICHE E DEI BENI CULTURALI SI ACCINGE A OSPITARE IL 10° CONVEGNO NAZIONALE DI ARCHEOZOOLOGIA. DIECI SESSIONI TEMATICHE PER APPROFONDIRE LE RELAZIONI TRA LE COMUNITÀ UMANE E GLI ANIMALI, DALL’ANTICHITÀ A OGGI

D

al 1993, anno della sua fondazione, l’AIAZ (Associazione Italiana di Archeozoologia) ha organizzato, con cadenza triennale, nove congressi nazionali, ai quali ha fatto seguito la stampa dei relativi Atti, che hanno segnato significativi momenti di progresso scientifico nello studio e

nell’analisi dei reperti faunistici provenienti da scavi archeologici. Questi incontri hanno l’obiettivo di promuovere un dialogo costante tra giovani studiosi, ricercatori, docenti e professionisti attivi nella disciplina, nel contesto dell’archeologia italiana e delle sue ricerche sul campo e in laboratorio. Il prossimo Convegno Nazionale di

Archeozoologia è in programma a Siena, dal 3 al 6 novembre, presso gli spazi del Santa Chiara Lab: la città è stata scelta per l’interesse verso la disciplina mostrato sia dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali, sia dal Dipartimento di Scienze Fisiche, della Terra e dell’Ambiente dell’Ateneo senese.

Ripresa zenitale del sito di Vetricella (Scarlino, Grosseto) indagato dal team di ricerca del progetto ERC Advanced nEU-Med.

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A sinistra: la homepage del nuovo sito dell’AIAZ (www.aiaz.it), che riporta tutte le informazioni necessarie per iscriversi al 10° Convegno Nazionale di Archeozoologia. In basso: la locandina del Convegno.

Nello specifico, l’organizzazione del 10° Convegno è stata resa possibile grazie alla cooperazione tra i referenti scientifici del progetto europeo ERC Advanced nEU-Med (Giovanna Bianchi e Richard Hodges), ospitato dall’Università di Siena, e la stessa AIAZ. La comunicazione dei risultati delle ricerche archeozoologiche avverrà attraverso presentazioni o poster, favorendo il dialogo scientifico e il confronto tra i partecipanti. La comunicazione degli interventi potrà essere svolta in lingua italiana oppure in lingua inglese, per stimolare la partecipazione di studiosi e studenti stranieri operanti sul territorio nazionale.

UN RICCO PROGRAMMA Per rendere il Convegno piú aperto e accessibile anche a livello internazionale, si è inoltre deciso di adottare una struttura organizzativa diversa da quella finora utilizzata: invece di sessioni cronologiche, come nelle edizioni precedenti, si avranno sessioni tematiche di piú ampio respiro. Tale scelta favorisce interpretazioni e discussioni piú articolate, promuovendo una visione complessiva dei dati faunistici nel contesto storico e archeologico di riferimento. Sono previste una sessione sulle nuove applicazioni e prospettive di

ricerca in campo metodologico e sessioni che affronteranno il rapporto tra le comunità umane e l’ambiente, l’analisi degli aspetti socio-economici, culturali e ambientali, la produzione e distribuzione dei prodotti di origine animale, lo studio di campioni provenienti da contesti di consumo alimentare elitario, la tafonomia (scienza che studia i processi a cui vanno incontro i resti organici, dopo la morte fino all’eventuale fossilizzazione), l’analisi dei resti animali nelle pratiche cultuali e funerarie e, infine, una sessione sul confronto e l’integrazione delle diverse fonti nella ricerca archeozoologica. In particolare, la sessione Utilizzo degli animali per scopi ludici, ricreativi e manifestazioni di potere sarà

dedicata al Palio, una delle piú note tradizioni della città ospitante, con lo scopo di discutere l’impiego degli animali in eventi competitivi, cerimonie o mostre nel corso dei secoli sino ai giorni nostri. È previsto, inoltre, un incontro pubblico, aperto alla cittadinanza, che coinvolgerà due tra i maggiori conoscitori del Palio, Duccio Balestracci (già docente di storia medievale a Siena) e Maura Martellucci (storica, massima esperta delle cronache e dei documenti del Palio). Gli studiosi ci introdurranno nella storia secolare della giostra equestre di origine medievale, che ricorre ogni anno nei mesi di luglio e agosto nella cornice di Piazza del Campo: una storia difficilmente definibile come mero intrattenimento sociale ma che, al contrario, modella da secoli la vita culturale, economica e politica della popolazione senese e, al tempo stesso, fornisce importanti spunti di riflessione sui molteplici aspetti del legame uomo-animale, tema caro agli archeozoologi e non solo. L’augurio è che lo svolgimento del Convegno possa avvenire in presenza ma, qualora gli sviluppi della pandemia in corso non lo consentano, l’evento sarà proposto su piattaforma digitale, con gli aggiornamenti e gli appuntamenti presenti sul nuovo sito www.aiaz.it. Qui si possono trovare tutte le informazioni necessarie per inviare il proprio contributo nella forma preferita e per registrarsi. La partecipazione al Convegno è aperta sia a professionisti del settore, sia a persone interessate a ricevere informazioni sull’archeozoologia, tassello imprescindibile per una corretta e piú completa ricostruzione delle dinamiche sociali, economiche, culturali e ambientali che hanno modellato il nostro passato. (claudia.abatino@unisi.it, veronica.aniceti@gmail.com)

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

ARCHEOLOGIA E MEMORIE SUL GRANDE SCHERMO LA RASSEGNA INTERNAZIONALE DEL CINEMA ARCHEOLOGICO DI ROVERETO CAMBIA DENOMINAZIONE E AMPLIA LA SUA OFFERTA, RAFFORZANDO IL RAPPORTO FRA PASSATO E PRESENTE. CE NE PARLA LA DIRETTRICE, ALESSANDRA CATTOI

L’

archeologia punta i riflettori – è il caso di dirlo – su Rovereto, dal 13 al 17 ottobre, per il RAM film festival, Rovereto Archeologia Memorie. Una veste rinnovata della tradizionale Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico promossa dalla Fondazione Museo Civico di Rovereto, che si apre ai temi piú ampi della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, come ci racconta la direttrice del festival Alessandra Cattoi. Non solo archeologia, dunque, quest’anno, al festival documentaristico di Rovereto? «Nel 2021 abbiamo voluto inaugurare un nuovo corso, creando il RAM film festival, Rovereto Archeologia Memorie, che non è piú una rassegna cinematografica, ma un festival vero e proprio. Le 31 edizioni precedenti erano piú improntate sulle proiezioni cinematografiche a tema archeologico, dal 2021, invece, abbiamo coinvolto l’intera città con eventi, convegni e iniziative parallele in diversi luoghi: concerti, mostre, visite e presentazioni di libri. L’obiettivo è cercare un maggiore coinvolgimento di tutta la città». Sono state rinnovate anche le tematiche trattate dal festival...

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«Sí. Non a caso abbiamo aggiunto la parola “memorie” nel nome: RAM film festival, Rovereto Archeologia Memorie. I film non trattano piú solo temi archeologici ma anche etnografici, antropologici, portando sullo schermo luoghi e tradizioni culturali che rischiamo di perdere. Il termine “memoria” racchiude tutti gli aspetti della vita dell’uomo di cui vale la pena tenere vivo il ricordo. Quest’anno ci sono 61 film in concorso, di cui circa 25 a tematica archeologica». In effetti la sezione archeologia è solo una delle quattro del festival: ci vuole raccontare? «Oltre alla sezione “Cinema archeologico”, sul tema della tutela del patrimonio tangibile, che vede in concorso film sulle ultime ricerche in ambito preistorico e documentari sulle scoperte archeologiche subacquee, c’è la sezione “L’Italia si racconta” (che tratta del patrimonio immateriale, di tradizioni e antiche comunità), poi “Cultura Animata” (con cortometraggi e animazioni), infine “Sguardi dal Mondo” (dedicata al patrimonio culturale nel mondo). Negli ultimi tempi si nota una forte tendenza a usare la fiction, come in

un documentario sulla cattedrale di Notre-Dame, che racconta la storia della chiesa dalla posa della prima pietra all’incendio del 2019, oppure in un film inglese, realizzato durante il lockdown, che racconta le grandi pandemie nella storia, un tema di grande attualità». Quali sono i temi «dimenticati» di cui volete dare memoria con il festival? «Tradizioni, leggende, lingue di popoli che rischiano di perdersi, suoni che hanno fatto parte della vita dell’uomo – come quello della macchina da scrivere o fotografica – che forse domani non ricorderemo piú, lingue non scritte e linguaggi che si stanno perdendo, come quelli di popolazioni isolate dell’Asia o dell’America del Sud». Come è stata accolta dal pubblico la trasformazione del festival? «L’intera città di Rovereto si è mobilitata. Librerie e negozi hanno allestito le vetrine in base ai temi della rassegna, oppure ospitano iniziative parallele, ristoranti e bar offrono menu ad hoc: questo

differenzia un festival da una rassegna. Ci sono eventi particolari, come la presentazione di un fumetto di Martin Mystère ambientato a Venezia, dove la ricerca storica è applicata al fumetto, o un concerto di musica per il cinema con Leandro Piccioni, il pianista di Ennio Morricone. La diversificazione delle proposte e dei linguaggi (cinema, conferenza, Nella pagina accanto: il Teatro comunale Zandonai di Rovereto che si appresta a ospitare il RAM film festival, Rovereto Archeologia Memorie. A sinistra: le riprese del documentario Il segreto di Adeeb, sui beduini che vivono a Petra, in Giordania.

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Proiezioni organizzate in occasione di passate edizioni della Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, ora ribattezzata RAM film festival, Rovereto Archeologia Memorie. mostra, concerto) attira un pubblico con interessi eterogenei». La pandemia, invece, come ha cambiato la rassegna? «Dal 2020, durante la settimana del festival, tutti i film in concorso sono stati visibili gratuitamente in streaming. In questo modo il pubblico ha avuto gli stessi numeri degli anni precedenti, con oltre 2mila spettatori on line. Anche quest’anno, con solo metà del pubblico presente in sala (220 persone), c’è la possibilità di guardare i film in concorso on line. Ma ci aspettiamo pubblico in sala, le persone hanno voglia di tornare a frequentare eventi culturali». La pandemia ha risvegliato la sete di cultura?

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«Sí. L’assenza forzata ha portato a capire come alcune cose – tra cui la cultura – sono fondamentali. Quest’estate il Museo Civico di Rovereto ha avuto un forte incremento di visitatori: c’è voglia di partecipare e di ritrovarsi in luoghi culturali. Le scuole rimangono, invece, le grandi assenti: abbiamo perso

un’importante fetta di utenti a causa delle complicazioni logistiche dovute alla pandemia. In programma al festival ci sono appuntamenti dedicati alle scuole, su Dante e sulla scoperta dell’America. Speriamo che le classi possano muoversi, non solo per il nostro festival, altrimenti abbiamo perso una generazione».



n otiz iario

MUSEI Campania

GLI ANTICHI VINI DI UNA TERRA FERACE

I

l vino in Campania ha una tradizione le cui radici risalgono almeno al I millennio a.C. Questa tradizione era, è stata ed è tuttora una grande ricchezza culturale ed economica, che richiede cura e dedizione, consentendo ai nostri vini di diventare un’eccellenza e un volano per l’espansione del settore. Questo è ciò che vuole narrare il MAVV-Museo dell’Arte, del Vino e della Vite,

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fondato dal giornalista, manager e imprenditore Eugenio Gervasio, e ospitato nella Reggia di Portici dal Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove ha sede anche il Museo Herculanense. Un’esposizione multimediale e interattiva, sulla cultura del vino e sulla sua storia antica, che, nel corso del 2022, si arricchirà con una raccolta di reperti antichi

offerti dal MANN, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, grazie a un importante protocollo d’intesa firmato dal Museo del Vino di Portici con l’istituzione culturale guidata da Paolo Giulierini. Le anfore di importazione trovate nell’empòrion di Ischia e a Cuma, di fabbricazione greca (ionica o corinzia) e fenicia, databili a partire dall’VIII secolo a.C., dimostrano che le comunità greche e fenicie stanziatesi sull’isola hanno fatto uso anche di vino e di olio di importazione. Sembra che in Campania fosse gradito il vino etrusco, tanto che in centri quali Cales (Calvi Risorta, NA), Capua (S. Maria Capua Vetere, CE), Calatia (Maddaloni, CE), Suessula (Cancello, NA) e nel golfo di Salerno (Pontecagnano e Arenosola), dalla fine del VII secolo a.C. sono state trovate anche alcune anfore da trasporto di tipo etrusco. In Campania si consumava regolarmene anche il vino greco, in particolare proveniente dalle colonie, che circolava nelle anfore


ionico-massaliote. Non mancavano piccole quantità di anfore greche di altra provenienza, tra le quali marsigliesi, le cosiddette anfore chiote e, sporadicamente, quelle samie. Il luogo di diffusione maggiore, a giudicare dai rinvenimenti a noi noti di anfore vinarie, era la costa tra Pompei e Castellamare, e, per la Campania meridionale, in particolare i siti di Fratte e Pontecagnano. Al di là delle incertezze interpretative, è abbastanza sicuro che ancora nel V

secolo a.C. città quali Pompei, Sorrento e l’agro Falerno – che fino alla metà del IV secolo a.C. rimase sotto il controllo diretto di Capua – e delle sue aristocrazie non fossero note per la produzione vitivinicola. Le attestazioni di produzioni di vino in Campania sono sporadiche fino al V secolo a.C., ma, dal IV, lo scenario muta notevolmente. Alla base dei vini piú diffusi in Campania erano le uve Aminee, considerate anche da Columella tra quelle di migliore qualità in

Nella pagina accanto: la Reggia di Portici, sede del MAVV-Museo dell’Arte, della Vite e del Vino e, in basso, l’ingresso del museo.

In basso: un videomapping realizzato in occasione di uno spettacolo allestito negli spazi della Reggia di Portici a cura del MAVV.

circolazione. La loro importanza era confermata da Plinio, che con esse aprí il suo copioso elenco dei vitigni italiani. Erano indicate con il medesimo nome anche uve differenti, come conferma Columella, diffuse in tutta l’Italia, tra le quali alcune varietà con chicchi di minori dimensioni presenti tra il Vesuvio e Sorrento e che risultavano essere la specie migliori per la qualità di vino. Scarse sono le notizie sull’uva Apicia. Lo stesso Catone, quasi sottintendendo la sua origine greca, affermava che era adatta a fare il vinum graecum (Cat. XXIV). Probabilmente quest’uva, cosí come accadeva per il vino greco per eccellenza nell’Italia di allora, il famoso vino di Chio, doveva essere a bacca bianca. Secondo Varrone, l’Apicia era detta cosí per l’assenza di peli nella parte bassa della foglia. Il Lucanum prende questo nome dalla zona di produzione che si estende tra la valle del Sele, in Campania, e gran parte della Basilicata ma di questa varietà si sa ben poco. Altri vitigni campani erano indicati invece in modo piuttosto generico come «miscellae maximae», un’espressione che possiamo tradurre con «bastarde». Il II secolo a.C. fu fondamentale per il mercato vitivinicolo campano: in questa epoca prodotti e produttori campani, infatti, arrivarono a influenzare l’intera economia dell’impero. Nel 194 a.C., sono state fondate, le colonie marittime di Minturno, Sinuessa, e Pozzuoli, città che ebbero un grande peso per la produzione e la distribuzione dei vini campani nel Mediterraneo. In particolare per il Falerno. L’agro Falerno separato dal territorio capuano dal fiume Volturno, probabilmente dopo la guerra latina (IV secolo a.C.),

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n otiz iario

divenne il luogo prediletto per la costruzione di piccole e medie ville rustiche per la produzione di olii e di vino. Sembra che il vino fosse prodotto con poche varietà di vite che prendevano il nome dal territorio. Il vino era noto quale severo, piuttosto, alcolico (fortis), adatto per l’invecchiamento. Il Falerno inoltre era noto in diverse sottodenominazioni: il Falerno propriamente detto, il Gauranum e il Faustianum. Il Falerno è uno dei pochi vini da invecchiamento, tanto che annate piuttosto famose restano presenti nella letteratura. Ancora nella Campania del nord era prodotto un altro vino famoso, il Caleno, esaltato da molti autori, tra i quali possiamo ricordare Giovenale, Orazio e Plinio. Il Sannio Irpino comprendeva in età romana un centro di notevole importanza: Benevento, nodo stradale essenziale per i rapporti con l’oriente poiché centro di congiunzione tra l’Appia e la via Traiana. A questo si aggiungevano le città di Aeclanum (attuale Mirabella Eclano (AV) e Abellinum (odierna Atripalda AV). Aeclanum è stato l’ultimo centro della Regio I (Latium et Campania) prima di giungere alla Regio III (Apulia). La presenza di diversi centri urbani e il rinvenimento, negli ultimi anni, di un numero cospicuo di villae rusticae lasciano pensare a una sottovalutata importanza del territorio quale realtà agricola di una certa importanza. La produzione vitivinicola appare per il numero esiguo di informazioni piuttosto secondaria o limitata a produzioni di vini per il consumo del territorio e di non elevato pregio. Plinio fa riferimento al vino affumicato di Benevento. Il profumo «affumicato» poteva

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essere legato ad alcuni momenti della lavorazione del vino: l’affumicatura del vino nel «fumarium», apposito locale disposto sopra la cucina. Importante per la produzione viticola campana è Pompei, che sfruttava per la sua produzione tutto il versante ovest del Vesuvio. Una prova abbastanza convincente è un affresco pompeiano in cui Bacco, vestito di un grappolo d’uva, appare a ridosso di una montagna che ha in tutto e per tutto l’aspetto del Vesuvio prima del 79 d.C. La sua importanza quale centro commerciale ed economico prima dell’eruzione del 79 d.C. è messa in

risalto da diversi autori latini. È utile ricordare come il vino fosse fonte di prestigio e ricchezza per importanti famiglie pompeiane. Sembra in un caso evidente con un vino, Elconio, che prende il nome dalla gens Helconia, una famiglia di spicco dell’antica aristocrazia pompeiana. Un altro centro del Golfo di Napoli piú volte citato dagli autori latini per il suo vino è Sorrento. Dobbiamo immaginare una via che, partendo da Stabiae, attraversava il versante napoletano della Penisola Sorrentina fino a giungere al santuario di Atena a Punta Campanella. Lungo quest’asse già dall’età arcaica vi erano piccoli


borghi – il piú noto dei quali è Vico Equense, che probabilmente aveva il nome antico di Aequanus –, che facevano capo a Sorrento, costituiti da piccoli agglomerati urbani e da grandi ville, dove sugli orti a terrazze trovavano la loro collocazione numerosi vigneti. Gli altri centri lungo la costa, ivi compresa Neapolis, erano per lo piú piccoli centri residenziali con attività commerciali di piccolo e medio raggio. I vigneti sembra avessero una maggiore concentrazione a N-E di Pompei, dove erano impostati a filari. Non mancano evidenti tracce di vigneti con funzione non solo di abbellimento ma anche commerciale all’interno della stessa città di Pompei. In direzione dei monti Lattari era l’olio a prevalere sulla cultura cerealicola e sui vigneti. L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. fu forse uno dei motivi della brusca interruzione della distribuzione del vino campano e di conseguenza della diffusione commerciale dei vini africani e gallici. Quali erano le uve utilizzate per la produzione dell’area? Forse il vino pompeiano era fatto in prevalenza con un uve di origine siciliana, la «murgentina» (dal centro di Morgantina), che data la diffusione nella zona era chiamata anche «pompeiana». Quest’uva era diffusa nel corso del I secolo d.C. anche nella zona di Chiusi. Accanto alla «murgentina», dovevano essere diffuse in tutto il territorio campano, e in particolare anche nell’area vesuviana, le «uve aminee». Queste ultime sembra che fossero, secondo Varrone, di cinque/sei tipi: germana minor, germana maior, geminae. Le geminae erano divise a loro volta in due tipi: la minor molto diffusa sul Vesuvio e sulle colline di Sorrento e

Sulle due pagine: immagini delle attività organizzate nel MAVV, il cui allestimento ha uno dei suoi punti di forza negli apparati multimediali. le lanatae, ossia ricoperta da lanugine. Plinio parla anche di un’«aminea nera», detta anche «siriaca». Sembra che nel periodo romano siano stati riconosciuti o si siano diffusi nell’area vesuviana anche altre tipologie di uve: la «vennucola», chiamata dai Campani «Surcula», da altri Scupola, un tipo di uva da cui si ricavava un vino molto forte adatto alla conservazione, forse tra le uve piú diffuse tra il vesuviano e la costiera sorrentina. L’agro campano e nolano, come hanno dimostrato recenti indagini archeologiche, era razionalmente organizzato e sfruttato per fini agricoli già a partire dal V secolo a.C. Inoltre intorno al II secolo a.C., con la centuriazione graccana, l’organizzazione delle ampie pianure fu razionalizzata secondo un modello comune a vasti territori. Ugualmente sfruttata per fini agricoli era, a ridosso dell’agro nolano, la valle del Sarno, con al centro la città di Nuceria, che doveva coprire, a giudicare dalle sporadiche notizie archeologiche un’estensione piuttosto ampia. L’agro nocerino-sarnese, per l’abbondanza d’acqua e la fertilità del suolo doveva apparire però per

lo piú dedicato a una produzione cerealicola o di ortaggi. Le campagne di scavo di questi ultimi anni nel versante interno del Vesuvio hanno dimostrato la presenza di ville rustiche anche con produzione vitivinicola. Nella villa che un tempo si pensava appartenente ad Augusto, a Sant’Anastasia, poi rivelatasi databile a partire dal II secolo d.C. è stata non a caso rinvenuta una cella vinaria di notevoli dimensioni che prova l’importanza della viticoltura anche oltre il fatidico 79 d.C. I cenni storici sui vini nella Campania antica sono tratti da: Storia di vini e di vigne intorno al Vesuvio e Ulisse e Polifemo, viaggio tra cibo e vino in Magna Grecia di Flavio Castaldo. (red.)

DOVE E QUANDO MAVV-Wine Art Museum, Museo dell’Arte, del Vino e della Vite Portici (Napoli), Reggia, via Università 100 Info tel: 333 1259629 oppure 346 6705567; e-mail: info@museoartevino.it; www.museoartevino.it

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n otiz iario

MOSTRE Francia

QUANDO L’UOMO SI FECE FABER

L

a mostra allestita al Musée nationale de Préhistoire di Les-Eyzies-de-Tayac ripercorre la lunghissima storia della fabbricazione dei primi utensili in pietra da parte dell’uomo, con l’intento, però, di non limitarsi ai soli aspetti tecnologici e funzionali, ma di indagare i risvolti cognitivi legati alla scelta di produrre strumenti, all’elaborazione dei metodi di scheggiatura e alle forme di comunicazione che, con ogni probabilità, furono favorite proprio da questa importante acquisizione. In alto: frammento della mascella di un Megantereon, uno dei felini dai denti di sciabole, da Dmanisi. 1,77 milioni di anni fa circa. Tbilisi, Museo Nazionale della Georgia. A destra: cranio di Canis etruscus, un canide probabilmente appartenente alla linea evolutiva del lupo moderno, da Dmanisi. 1,77 milioni di anni fa circa. Tbilisi, Museo Nazionale della Georgia. In basso: il Musée nationale de Préhistoire a Les-Eyzies-de-Tayac.

A oggi, i piú antichi strumenti in pietra scheggiata si datano intorno ai 3,3 milioni di anni fa e sono stati rinvenuti in Kenya ed Etiopia. Strumenti che vengono associati dagli studiosi alle specie di ominidi che all’epoca popolavano l’Africa e dalle quali discende la specie alla quale oggi apparteniamo. Non a caso, il continente africano viene considerato la culla dell’umanità e

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la sua eccezionale biodiversità antica è ben testimoniata dai giacimenti delle sue regioni orientali, molti dei quali individuati nella Rift Valley, dove le particolari dinamiche geologiche hanno favorito la scoperta di un gran numero di siti. Ecco perché una delle sezioni portanti della mostra è incentrata sui materiali provenienti da contesti keniani ed


etiopici, grazie ai quali è possibile seguire le tappe che hanno segnato la storia del tema di fondo. Protagonisti dell’evoluzione di questo fenomeno sono, a partire dai 3 milioni di anni fa, le varie forme di australopiteco, il parantropo e poi la variegata famiglia dell’Homo, che, intorno a 1 milione di anni fa, diviene dominante ed esclusiva. Spiccano, in particolare i siti di Lomewki 3, nella regione occidentale del lago Turkana (Kenya), che ha restituito le prime prove della fabbricazione di strumenti grazie all’uso di percussori, e la regione etiopica dell’Hadar che – oltre ad aver acquisito fama mondiale per essere stata teatro della scoperta dei resti di Lucy, un esemplare di Australopithecus afarensis – ha confermato che la capacità di scheggiare la pietra era stata

sviluppata anche dagli ominidi che avevano preceduto le diverse specie di Homo. In un ambito a noi piú vicino, gli ultimi decenni hanno visto crescere la centralità del sito georgiano di Dmanisi, che ha di fatto riscritto la storia del piú antico popolamento della regione euroasiatica. Qui sono infatti venute alle luce industrie litiche databili fra 1,8 e 1,7 milioni di anni fa e soprattutto resti umani a esse associate che, a oggi, rappresentanto la piú antica attestazione del genere Homo al di fuori del continente africano. Le indagini hanno permesso di recuperare 5 crani, 4 mandibole e decine di altri resti ossei, che appartengono ad almeno 5 individui di età diverse e appartenenti a entrambi i sessi, per i quali, nonostante le affinità con Homo ergaster, è stata distinta una

In alto: il cranio di uno dei 5 Homo georgicus, da Dmanisi. 1,77 milioni di anni fa circa. Tbilisi, Museo Nazionale della Georgia.

In basso: nucleo in basalto, da Dmanisi. 1,77 milioni di anni fa circa. Tbilisi, Museo Nazionale della Georgia.

nuova specie, battezzata Homo georgicus. A questi antichi abitatori della regione è associato un ricco strumentario, realizzato con pietre di origine vulcanica, secondo metodi di scheggiatura che hanno rivelato notevoli affinità con quelli messi a punto dai «cugini» africani. I nuclei e gli scarti di lavorazione testimoniano l’intera sequenza operativa e provano quindi che l’attività veniva svolta sul posto. S. M.

DOVE E QUANDO «Homo faber. 2 milioni di anni di storia della pietra scheggiata. Dall’Africa alle porte dell’Europa» Les-Eyzies-de-Tayac, Musée nationale de Préhistoire fino al 29 novembre Info https://musee-prehistoireeyzies.fr (con sezione info anche in lingua italiana)

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

FARAONI IN PARATA Il 3 aprile scorso un incredibile corteo ha attraversato le vie del Cairo per ricollocare 22 mummie reali dal Museo Nazionale Egizio di piazza Tahrir a Fustat, appena fuori dalla capitale, sede del modernissimo Museo Nazionale della Civiltà Egiziana. I sarcofagi sono stati trasportati con apposti veicoli preparati in stile cinematografico con in bella evidenza il nome della mummia trasportata (1, Il veicolo per Amenofi II). In onore dei 18 faraoni e delle 4 regine, tutti tra la XVII e la XX dinastia, l’Egitto ha emesso una serie di 22 francobolli in un unico foglio (2) raffiguranti le loro immagini, piú un altro foglietto (3) e tre valori in striscia (4) che vengono qui mostrati: è il nostro contributo filatelico per ricordare l’eccezionale avvenimento.

1

Qui di seguito riportiamo l’elenco dei faraoni e delle regine (R), secondo la sequenza dei 22 francobolli sul foglio (2), a partire da sinistra in alto: Hatshepsut (R), Thutmosi II, Thutmosi I, Merytamon (R), Amenofi I, Ahmose-Nefertari (R), Seqenenre, Amenofi III, Thutmosi IV, Amenofi II, Thutmosi III, Merneptah, Ramesse II, Sethi I, Tiye (R), Ramesse IX, Ramesse VI, Ramesse V, Ramesse IV, Ramesse III, Siptah e Sethi II. 2

3

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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4

Segreteria c/o Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it



CALENDARIO

Italia ROMA Felice Barnabei

Gocce di memorie private Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Sala dei Sette Colli fino al 10.10.21

«Il mondo salverà la bellezza?»

Prevenzione e sicurezza per la tutela dei Beni Culturali Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 04.11.21

Napoleone e il mito di Roma

Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 07.11.21

L’eredità di Cesare e la conquista del tempo Musei Capitolini fino al 31.12.21

Raffaello e la Domus Aurea

L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 07.01.22

I marmi Torlonia

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 09.01.22

Colori dei Romani I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22

BRA (CN) L’uomo svelato

Studi e restauro di una mummia egizia di 4500 anni Palazzo Mathis fino al 12.12.21 34 a r c h e o

BRESCIA Palcoscenici Archeologici

Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22

CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante

Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 09.01.22 (prorogata)

CENTURIPE (ENNA) Segni

Da Cézanne a Picasso, da Kandinskij a Miró, i maestri del ‘900 europeo dialogano con le incisioni rupestri di Centuripe Centro Espositivo «L’Antiquarium» fino al 17.10.21

CORINALDO (AN) Il tesoro ritrovato

La tomba del Principe di Corinaldo Pinacoteca Comunale C. Ridolfi fino al 30.01.22

CORTONA Luci dalle tenebre

Dai lumi degli Etruschi ai bagliori di Pompei MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 17.10.21 (prorogata)

MANTOVA La città nascosta

Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22

MILANO Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 30.01.22

NAPOLI Gladiatori

Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Divina Archeologia

Venetia 1600

Omero, Iliade

VULCI (CANINO, VT) Gli ultimi Re di Vulci

ODERZO L’anima delle cose

Francia

Mitologia e storia della Commedia di Dante nelle collezioni del MANN Museo Archeologico Nazionale fino al 10.01.22 (dal 29.10.21) Le opere del MANN nelle pagine di Alessandro Baricco Museo Archeologico Nazionale fino al 10.01.22

Riti e corredi dalla necropoli romana di Opitergium Palazzo Foscolo-Museo Archeologico Eno Bellis fino al 31.10.21

RIETI Strada facendo

Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 10.10.21

Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25.03.22

L’aristocrazia etrusca vulcente alle soglie della conquista romana Museo Archeologico di Vulci fino al 31.12.21

LES EYZIES-DE-TAYAC Homo faber

2 milioni di anni di storia della pietra scheggiata, dall’Africa alle porte dell’Europa Musée national de Préhistoire fino al 29.11.21

Germania

TORINO Cipro

FRANCOFORTE Sfingi, leoni e mani d’argento

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli

Paesi Bassi

Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22

Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22

VARESE La civiltà delle palafitte

L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22

Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci Archäologische Museum fino al 10.04.22 (dal 02.11.21)

LEIDA Templi di Malta

Rijksmuseum van Oudheden fino al 31.10.21

Regno Unito LONDRA Nerone

L’uomo oltre il mito British Museum fino al 24.10.21

Svizzera BASILEA Di armonia ed estasi VENEZIA Vivere tra terra e acqua Dalle palafitte preistoriche a Venezia Palazzo Corner Mocenigo fino al 31.10.21

La musica delle civiltà antiche Antikenmuseum fino al 24.10.21 (prorogata)

animalistico!

Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 35


LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

POMPEI una nuova immagine


Il termopolio scoperto di recente nella Regio V. Le vivaci pitture policrome che ornano il bancone accolgono le rappresentazioni degli animali probabilmente macellati e venduti nel locale, come le due anatre germane esposte a testa in giú, pronte per essere preparate e consumate, e un gallo.

Q

uasi come un’araba fenice, Pompei è piú volte rinata dalle ceneri e dai lapilli che la coprirono nel 79 d.C., a cominciare dal fatidico 1748, anno in cui Carlo III di Borbone decise di promuovere le prime esplorazioni del sito, dieci anni dopo quelle avviate a Ercolano. Negli ultimi decenni, l’idea di far sí che la città vivesse una nuova fioritura è stata ripetutamente rilanciata, ma la svolta decisiva si è avuta con il Grande Progetto Pompei, grazie al quale, dal 2014, sono stati allestiti numerosi cantieri di restauro e si è anche tornati a scavare in varie regioni dell’abitato, dando nel contempo un forte impulso alle attività di promozione del sito. Un impegno su piú fronti, dal quale è scaturita anche questa nuova Monografia di «Archeo», che propone un viaggio alla scoperta di quella che potremmo definire la «nuova» Pompei, disegnata dalle molteplici attività condotte sul campo. Nei vari capitoli è perciò possibile ripercorrere tutte le grandi scoperte che hanno riportato la città vesuviana agli onori delle cronache, non soltanto archeologiche: solo per citare qualche esempio, basti pensare al delicato affresco raffigurante Leda e il cigno, agli sgargianti colori del termopolio venuto alla luce nella Regio V, al sontuoso carro in bronzo di Civita Giuliana, o, ancora, poco fuori Porta Stabia, alla tomba di Gneo Nigidio Maio, della famiglia degli Alleii, nella cui iscrizione viene evocata la rissa scoppiata nell’anfiteatro, fra Pompeiani e Nucerini, nel 59 d.C. Un quadro vivace e variegato, che rende ancora piú nitidi i colori delle scene di vita quotidiana evocate dalle case e dalle botteghe della città antica.

GLI ARGOMENTI

la nuova, aggiornatissima guida alla città sepolta. i nuovi scavi, le scoperte, i restauri

• PRESENTAZIONI • Nuovi percorsi e nuove esperienze di visita (Massimo Osanna) • Una città che non smette di stupire (Gabriel Zuchtriegel) • POMPEI, UNA NUOVA IMMAGINE • Restauri, scavi e studi: alla riscoperta di una città mai vista prima • Tutti i tesori della Regio V

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SCOPERTE • DANIMARCA

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C’È DELL’ORO IN

DANIMARCA! VI SECOLO D.C.: IL SOLE AVEVA PERSO LA CAPACITÀ DI SPLENDERE, LA PIOGGIA SMISE DI CADERE, LA FINE DEL MONDO SEMBRAVA VICINA. FORSE PER QUESTO, UN IGNOTO ABITANTE DEL PAESE SCANDINAVO DECISE DI SOTTERRARE UN PREZIOSO TESORO, NELLA SPERANZA DI POTERLO RECUPERARE IN TEMPI MIGLIORI. QUEGLI SPLENDIDI OGGETTI RIMASERO, INVECE, SEPOLTI PER 1500 ANNI. FINO A CHE UN RICERCATORE DILETTANTE, ARMATO DI METAL DETECTOR... di Elena Percivaldi

Salvo diversa indicazione, tutte le foto che corredano l’articolo documentano la scoperta del tesoro di Vindelev e gli oggetti che ne fanno parte. Sulle due pagine: particolare della decorazione di uno dei medaglioni sul quale, accanto al profilo di un personaggio, si riconosce la svastica, simbolo solare. A destra: la lamina aurea utilizzata per uno dei manufatti appartenenti al tesoro, cosí come si presentava al momento del ritrovamento, piú volte ripiegata. a r c h e o 39


SCOPERTE • DANIMARCA

I

l ritrovamento è di quelli destinati a lasciare il segno: ben 22 oggetti d’oro massiccio, per lo piú bratteati finemente decorati (vedi box a p. 42). Li ha scoperti, del tutto casualmente, un ricercatore dilettante, Ole Ginnerup Schytz, il quale, perlustrando con il metal detector un campo di grano nei pressi della cittadina danese di Vindelev, a 8 km circa da Jelling, ha individuato un piccolo disco d’oro ripiegato all’interno di una zolla di terra e poi, via via, altri grandi medaglioni decorati, alcuni contrassegnati da brevi iscrizioni runiche. L’importanza della scoperta, avvenuta nel dicembre dello scorso anno, ma resa nota solo poche settimane fa, è parsa subito eccezionale agli archeologi del Vejlemuseerne, il museo della vicina città di Vejle, i quali

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hanno proseguito lo scavo insieme a un team del Museo Nazionale Danese, riportando alla luce un tesoro senza precedenti nella storia danese. Al di là del «peso», 945 grammi d’oro in totale, desta stupore la notevolissima qualità dei manufatti, realizzati con tecniche raffinate da orafi dotati di capacità non comuni. Originali appaiono anche le raffigurazioni presenti sui medaglioni, intrise di riferimenti pagani e arricchite da scritte runiche che potrebbero riferirsi a per-

A destra: cartina della Danimarca, con l’ubicazione del sito di Vindelev. Nella pagina accanto: gli archeologi del Museo Nazionale Danese intervenuti a Vindelev dopo la scoperta del tesoro.

Mare del Nord Svezi a

Aalborg

Holstebro

Århus

Vindelev Jelling

Katte ga t

Vejle Odense

Copenaghen

Mar Ba ltico

Trelleborg

N

G erm ani a

0

90 Km

sonaggi dell’epoca – probabilmente capi politici e militari, forse sovrani – oppure a divinità pagane. Ciò che piú colpisce tuttavia sono le circostanze in cui il tesoro, risalente al VI secolo, venne interrato, da inquadrare probabilmente all’interno della catastrofe climatica che gettò in quegli anni gran parte del mondo conosciuto nel panico e nella disperazione, paventando l’imminente apocalisse. Sulle due pagine: gli oggetti che compongono il tesoro di Vindelev: tutti i manufatti sono in oro massiccio e il loro peso complessivo è di poco inferiore a 1 kg.

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SCOPERTE • DANIMARCA

Il territorio di Jelling riveste un ruolo di primaria importanza nella storia della Danimarca. Nel villaggio eponimo sorgono infatti due monumentali tumuli realizzati nel X secolo per ospitare il sepolcro di Gorm il Vecchio, re di Danimarca tra il 936 e il 958 circa e, probabilmente, della moglie Tyra. Pochi anni dopo la sua morte, il corpo del sovrano venne traslato dal figlio Haraldr Gormsson, detto Blåtand (Dente Azzurro), nella chiesa edificata da quest’ultimo intorno al 965, nel momento in cui si convertí insieme al suo popolo al cristianesimo.

In ricordo dei genitori e delle proprie imprese, Aroldo Dente Azzurro fece inoltre incidere una grande pietra runica, la cui complessa raffigurazione è emblematica del momento di passaggio del popolo danese dal paganesimo al nuovo credo. L’iscrizione andava ad accostarsi a quella, di poco precedente, fatta realizzare dal padre in omaggio alla consorte, ma, nelle intenzioni di Aroldo, doveva superarla in magnificenza e per significato: vero e proprio «manifesto politico», la grande stele di Jelling avrebbe dovuto acclarare tanto ai sudditi quanto agli stra-

UN’ECO DELLA TRADIZIONE ROMANA Diffusi soprattutto nell’Europa centro-settentrionale tra l’epoca tardo antica e il Medioevo, i bratteati (dal latino bractea, sottile pezzo di metallo) erano medaglioni piatti e sottili, battuti su una singola faccia, in oro o argento. Prodotti in particolar modo tra il V e il VI secolo, questi dischi erano realizzati a imitazione delle monete e dei medaglioni romani del basso impero. Gli esemplari ritrovati nell’area scandinava – di cui oltre 300 nella sola Danimarca – presentano solitamente figure umane, sul modello delle monete imperiali, sole oppure accompagnate da animali, in particolare cavalli e uccelli. Altri ancora raffigurano solo animali, esistenti oppure parto della fantasia. Molti sono arricchiti da

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iscrizioni in alfabeto runico, solo parzialmente decifrate; la maggior parte appare dotata di fori, oppure di un occhiello, attraverso i quali, inserendo un laccio, era possibile sospenderli al collo come amuleti.


nieri il prestigioso ruolo raggiunto dal sovrano come monarca del nuovo e potente regno, la Danimarca – qui nominata per la prima volta con questo nome – vasto, unitario e cristiano. Il sito con i tumuli, le pietre runiche e la chiesa sono considerati la culla della nazione danese e per questa ragione figurano, dal 1994, nella lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO (vedi box alle pp. 46-48).

LA «CASA LUNGA» L’entità del ritrovamento diVindelev, però, sembra suggerire l’esistenza di un altro centro di potere, fiorito a poca distanza da Jelling in un’epoca di poco precedente, la tarda età del Ferro scandinava, cronologicamente compresa tra il V secolo circa e l’inizio dell’età vichinga, che per tradizione si apre col saccheggio del monastero di Lindisfarne, al largo della costa nord-orientale dell’Ighilterra (793). Lo scavo scientifico seguito all’intervento amatoriale ha evidenziato la presenza, in corrispondenza del punto dove il tesoro era nascosto, dei resti di una probabile longhouse, la tipica «casa lunga» sede del chieftain (capoclan) e punto di riferimento e di aggregazione del villaggio. Le piú note case lunghe della Danimarca sono forse quelle del Trelleborg (fortezza circolare) di Slagelse, nella regione della Selandia, un insediamento voluto dallo stesso Aroldo Dente Azzurro nel 980 per controllare il traffico marittimo tra le isole della zona. Tra i 22 oggetti del tesoro di Vindelev, alcuni sono eccezionali. Unico In alto, a destra: il bratteato che forse raffigura il dio Odino. Nella pagina accanto, in alto: medaglione realizzato a partire da una moneta d’oro coniata dall’imperatore Costantino (285-337 d.C.). Nella pagina accanto, in basso: un medaglione accostato a una moderna scatola di fiammiferi, per dare un’idea delle sue proporzioni.

NEL NOME DI ODINO, IL POTENTE? Uno dei bratteati piú preziosi del tesoro di Vindelev presenta una decorazione molto interessante e complessa. Al centro del medaglione è raffigurato un uomo di profilo che sembra guardare un uccello; sotto di lui, un cavallo e un’iscrizione runica che, secondo le prime interpretazioni, sarebbe da leggersi in «houar», «l’altissimo» o «il potente». L’espressione potrebbe riferirsi a un capo politico e militare, forse addirittura a un sovrano (magari sepolto nei dintorni); tuttavia in contesti piú tardi tale espressione è associata solitamente a Odino, la divinità principale del pantheon norreno. Nella religione pagana professata anche dai Danesi prima della conversione, Odino era associato alla capacità di vedere e conoscere il sacro, all’ispirazione poetica, alla profezia, alla guerra e alla vittoria. Che la raffigurazione sul bratteato rappresenti il dio, come accade nel caso di altri esemplari simili già noti, è molto probabile. Odino possedeva un cavallo grigio dotato di otto zampe di nome Sleipnir («colui che scivola rapidamente»), definito il miglior cavallo esistente, nonché il piú veloce, in grado di cavalcare il cielo, le acque e i Nove mondi. Osservando bene l’animale rappresentato sul medaglione, sembra di intravedere quattro coppie di zampe (stilizzate), proprio come quelle di Sleipnir; secondo alcune versioni del mito, inoltre, i denti della bestia erano incisi con alcune rune, e l’iscrizione runica che definisce «l’altissimo» o «il potente» è collocata in prossimità del muso. Odino, infine, aveva al suo seguito diversi animali tra cui i corvi Huginn e Muninn (letteralmente «pensiero» e «memoria»), che inviava ogni giorno a perlustrare il mondo per poi riferirgli quello che avevano visto. Anche la figura sul bratteato presenta, di fronte al volto, un uccello, un rapace oppure un corvo, con il quale sembra intento a comunicare.

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è lo splendido bracciale dorato decorato a nastro intrecciato, un motivo ornamentale riscontrabile anche sulle pietre runiche. Gli altri sono bratteati, medaglioni da indossare come gioielli o amuleti. Uno di essi presenta una testa con acconciatura a treccia che sormonta un cavallo; a fianco, sulla sinistra, si nota l’antico simbolo solare della svastica. La figura maschile a cavallo – un uomo o forse un dio: tutte le divinità norrene erano dotate di cavalcatura, che utilizzavano per recarsi quotidianamente al frassino Yggdrasill, sede del concilio divino – appare anche in un altro bratteato accompagnata da un uccello; in questo caso l’iconografia, insieme alla parola «houar» incisa in alfabeto runico e tradu-

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cibile con «l’altissimo» o «il potente», suggerisce la possibile associazione con un sovrano oppure con Odino, la divinità piú importante del pantheon norreno (vedi box a p. 43).

IL LUNGO VIAGGIO DI UNA MONETA La tipologia delle raffigurazioni, le tecniche di realizzazione e vari particolari stilistici suggeriscono che buona parte dei bratteati del tesoro siano stati prodotti nel VI secolo. Alcuni medaglioni sono stati invece ricavati riadattando monete piú antiche circolanti nell’impero romano. Per uno di essi è stata utilizzata una moneta d’oro coniata da Costantino (285-337), l’imperatore «cristiano». Come e perché la moneta sia giunta fino al Nord

Europa – paga per un soldato oppure frutto di scambi commerciali, o ancora bottino di una razzia – è oggetto di dibattito. Di certo il suo lungo viaggio prova ancora una volta l’entità dei collegamenti esistenti tra il Nord Europa e l’impero romano nei secoli di In alto: il bracciale dorato decorato a nastro intrecciato, che è, a oggi, unico nel suo genere. Presenta un motivo ornamentale che ricorre anche sulle pietre runiche. In basso: gli oggetti del tesoro dopo la ripulitura.


transizione tra l’epoca tardoantica e l’Alto Medioevo. Resta da stabilire in quali circostanze il tesoro di Vindelev sia stato occultato e per quali ragioni. La spiegazione piú plausibile giunge dal contesto storico dell’epoca. Sappiamo che gli anni compresi tra il 535 e il 550 furono caratterizzati da rilevanti anomalie climatiche, che provocarono prolungate carestie. Procopio di Cesarea, nelle Guerre vandaliche registra che nell’anno 537 il sole si presentava indebolito, «privo di In alto: Ole Ginnerup Schytz (a sinistra), lo scopritore del tesoro, nel laboratorio del Museo di Vejle.

raggi a somiglianza della luna» e quasi impercettibile in cielo. Confor memente al sentire dell’epoca, interpretò il fenomeno come presagio di guerre, pestilenze e inedia: era del resto in corso da poco il conflitto greco-gotico (535-553), i cui devastanti effetti sulla Penisola sarebbero perdurati per decenni. Uno scenario simile a quello (segue a p. 49)

Un altro dei magnifici bratteati, vistosamente deformato, con ogni probabilità per effetto del seppellimento. a r c h e o 45


SCOPERTE • DANIMARCA

NELLA CULLA DELL’IDENTITÀ DANESE A 8 km circa da Vindelev sorge il villaggio di Jelling, il cui insieme monumentale – costituito da due antichi tumuli, due iscrizioni runiche e la locale chiesa – fa parte dal 1994 del Patrimonio dell’Umanità UNESCO, in quanto «culla» dell’identità nazionale danese. Qui, infatti, ebbe sede la dinastia che, unificando e consolidando il regno, avrebbe costituito le fondamenta per il futuro sviluppo dello Stato scandinavo. I due tumuli, situati a nord e a sud della chiesa, sono molto simili nella forma e nelle dimensioni: 70 m circa di diametro per 11 circa di altezza. Il primo, quello piú settentrionale, fu realizzato da Aroldo Dente Azzurro, re di Danimarca tra il 933 e il 986 circa, come sepoltura per il padre Gorm il Vecchio, fondatore della prima dinastia di monarchi danesi citata nelle fonti antiche. All’epoca della costruzione, sia Gorm che Aroldo erano ancora pagani e quindi il sovrano defunto venne sepolto alla maniera degli avi in una grande

camera sepolcrale di legno di quercia ricavata nel tumulo; sul posto esisteva già un piú antico monumento a forma di nave («ship setting») realizzato tramite monoliti disposti in modo da tracciare la sagoma dello scafo. Questa gigantesca nave di pietra, grazie ai suoi 360 m circa di lunghezza è la piú imponente di tutta la Danimarca. Quando venne indagata, nell’Ottocento, la camera risultò vuota a causa di precedenti saccheggi, a eccezione di una coppa d’argento decorata; il successivo studio dendrocronologico delle strutture lignee confermò tuttavia che le querce erano state tagliate negli anni 958-959, coincidenti con la presunta data di morte di Gorm. Quanto al tumulo meridionale, invece, pur essendo in tutto e per tutto simile all’altro, non contiene alcuna sepoltura. È comunque possibile che fosse stato concepito per ospitare i resti di Tyra, madre di Aroldo, alla quale

Gorm dedicò una pietra incisa a caratteri runici definendola «orgoglio della Danimarca». Appena divenuto re, Aroldo aderí al cristianesimo e avviò un programma ambizioso di costruzione e consolidamento del regno ereditato, favorendo inoltre la conversione del suo popolo. Tra le sue prime azioni si annovera la costruzione di una chiesa nello spazio tra i due tumuli; in essa egli fece inoltre trasferire i resti del padre, cosí da sancirne il simbolico «battesimo» post mortem. Intorno al 960 Aroldo fece infine realizzare una grande pietra runica, molto piú grande di quella voluta dal padre (243 cm circa contro 139) per onorare la memoria dei genitori, ma anche – e soprattutto – per sottolineare per iscritto le proprie eclatanti imprese: l’unificazione di tutta la Danimarca (Gorm aveva invece regnato sul solo Jutland), l’imposizione del proprio dominio su parte della Norvegia e la conversione dei suoi al cristianesimo. Oltre all’iscrizione


A sinistra: particolare della pietra runica eretta da Aroldo Dente Azzurro a Jelling. Nella pagina accanto: veduta a volo d’uccello del sito di Jelling, con le pietre che segnalano un antico monumento funerario a forma di nave e, piú indietro, uno dei tumuli sepolcrali.

celebrativa, la monumentale stele contiene due raffigurazioni emblematiche del programma politico e religioso di Aroldo: una è la cosiddetta «Bestia di Jelling», un leone avvinghiato da un motivo serpentiforme che rappresenta, forse, la regalità o la monarchia; l’altra è un’originale raffigurazione della Crocifissione, la piú antica di tutta la Scandinavia. Quest’ultima è senza dubbio la piú interessante delle due. Sul piano formale, si tratta di una crocifissione «senza croce» in quanto il patibolo non è raffigurato, ma è Cristo stesso, in posizione frontale e con le braccia aperte, a «incarnare» la crocifissione. Gli arti superiori e il busto sono avviluppati da un nastro che si intreccia al corpo, terminando in volute trilobate, probabile allusione alla Trinità. Per quanto chiaramente cristiana, l’iconografia scelta da Aroldo come «manifesto» della propria politica in campo religioso, contiene ancora evidenti riferimenti al mondo culturale pagano. Il modo in cui è rappresentata la crocifissione

sembra inoltre alludere a un noto episodio della mitologia norrena contenuto nell’Hávamál (vv. 138-141), laddove Odino appare appeso all’albero di Yggdrasil, l’albero del mondo. Secondo alcuni studiosi, le volute del nastro che cinge il corpo di Cristo sarebbero quindi proprio i rami dell’albero del cosmo. Le analogie non si fermano qui, giacché l’Hávamál specifica che, mentre è sospeso dall’albero, Odino viene trafitto da una lancia, proprio come accade a Cristo, ferito dall’arma di

Longino. Il ricorso al sincretismo in raffigurazioni di questo genere non deve stupire: rispondeva alla necessità di diffondere i dogmi della nuova religione in una comunità che, sebbene formalmente convertita, era ancora culturalmente e «visivamente» pagana. Le due stele di Jelling sono considerate le «pietre fondanti» della nazione danese: quella di Gorm, che contiene peraltro la piú antica menzione del nome «Danimarca» conservata nel Paese (tanmarkar nella traslitterazione dal

Le pietre runiche fatte realizzare da Aroldo Dente Azzurro (a sinistra) e da suo padre, Gorm il Vecchio. La seconda contiene peraltro la piú antica menzione del nome «Danimarca».

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SCOPERTE • DANIMARCA

In alto: l’interno della chiesa di Jelling. L’edificio originale, voluto da Aroldo Dente Azzurro, venne distrutto da un incendio. La struttura che oggi si può visitare è frutto della ricostruzione eseguita nel 1100. Nella pagina accanto: placchetta in oro raffigurante Aroldo Dente Azzurro che proclama la fede cristiana. 985.

runico, Danmork in lingua norrena normalizzata), ne rappresenta la base politica, quella di Aroldo quella religiosa in chiave cristiana. La chiesa costruita da Aroldo, una stavkirke («chiesa dai pali portanti») interamente in legno, fu distrutta da un incendio e altrettanto accadde alle altre due che in successione ne presero il posto. Quella attuale, in stile romanico, risale al 1100. Gli scavi effettuati al suo interno tra il 1976 e il 1979 hanno svelato le diverse fasi dell’edificio e hanno riportato alla luce, in corrispondenza della fase piú antica, lo scheletro di un uomo di età compresa tra i 40 e i 50 anni. Nella tomba si rinvennero

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anche parti del broccato aureo che ornava l’abito del defunto e due finimenti aurei con decorazioni simili a quelle riscontrate sui manufatti superstiti rinvenuti nel tumulo. I resti furono identificati come appartenenti a Gorm e ricollocati al loro posto, dove sono rimasti fino alla riesumazione avvenuta alla fine del secolo scorso per consentirne lo studio. Nel 2000 ciò che restava del sovrano danese fu definitivamente deposto in una teca di zinco; nel novembre 2017 le ossa di Gorm sono state ricostruite virtualmente grazie all’ausilio delle tecnologie digitali e la ricostruzione stampata in 3D, cosí da consentire

agli studiosi di proseguirne lo studio senza disturbare la sepoltura. Le ultime indagini archeologiche, realizzate a Jelling dal 2006, hanno riscontrato le tracce di una grande palizzata che circondava in origine la zona monumentale. All’interno dell’enorme area recintata, che abbraccia una superficie di 120 000 mq, sono emersi i resti di diversi edifici probabilmente afferenti a un grande complesso residenziale (il palazzo regio?). Futuri scavi potranno chiarire la natura e l’esatta cronologia delle strutture, gettando nuova luce sulle vicende di un insediamento che, nonostante la fama, ha ancora molto da raccontare.


tratteggiato dallo storico romano Cassiodoro, ma con tratti decisamente piú apocalittici, nell’Epistola XXV delle Variae (databile tra il 535 e il 538), in cui si legge che il «sole sembra aver perso la capacità di splendere e ha assunto un colore bluastro (…), i corpi non lasciano ombre sul terreno, la luce solare un tempo potente riesce a scaldare solo debolmente la pelle, e tutto scorre come in un’interminabile eclissi lunga un intero anno (…), in estate è mancato il caldo, i raccolti sono stati gelati dai venti del nord (…) e la pioggia non vuol piú cadere dal cielo». Altre fonti, come gli Annali dell’Ulster e gli Annali di Inisfallen, riportano che negli anni 536-539 l’Irlanda ebbe pessimi raccolti e che la mancanza di pane provocò una pesante carestia. La causa di un simile cataclisma, che ebbe rilevanti conseguenze anche sul piano geopolitico, provocando migrazioni e razzie, è stata tradizionalmente individuata in una potente eruzione vulcanica verificatasi in Indonesia o in Islanda, oppure nell’impatto con la superficie terrestre di uno o piú meteoriti, le cui tracce sono state riscontrate in un vasto cratere sui fondali del golfo di Carpentaria, al largo dell’Australia settentrionale.

sia verificata nell’ambiente sottomarino equatoriale: i gas generati dalla vaporizzazione dell’acqua marina, insieme a microscopiche creature e sedimenti di calcio, sarebbero stati proiettati nell’aria per poi depositarsi, dopo essere stati trasportati dalle correnti, sui ghiacciai artici. In ogni caso, la nube di pulviscolo atmosferico dovette circolare per circa 18 mesi, inficiando l’attività solare; il calo generalizzato delle temperature avrebbe diminuito la

LA RISPOSTA NEI GHIACCI? Un recente studio dell’Earth Institute della Columbia University sui materiali recuperati da carotaggi eseguiti in Groenlandia e in Antartide, ha tuttavia rilevato la presenza nei ghiacci di depositi anomali di solfati, databili tra il 536 e il 538, originati con tutta probabilità dalle polveri acide diffuse durante uno o piú fenomeni vulcanici. Il contestuale ritrovamento di microfossili appartenenti a specie marine tipiche degli habitat tropicali e subtropicali ha però suggerito che l’eruzione responsabile del cataclisma si

produttività forestale – rilevata dagli studi dendrocronologici condotti sugli anelli di accrescimento degli alberi –, causando contrazione o perdita dei raccolti e carestie, proprio come riportato dalle fonti. Gli antichi attribuivano simili sciagure a cattive congiunzioni astrali oppure alla collera divina. Secondo la Voluspá, il primo e piú famoso poema dell’Edda poetica – uno dei testi fondanti della cultura nordica –, un interminabile inverno della durata di tre stagioni consecutive – Fimbulvetr in norreno – avrebbe preannunciato l’avvento del Ragnarok, la fine del mondo. Al Fim-

bulvetr sembra alludere, secondo gli ultimi studi (vedi «Archeo» n. 423, maggio 2020; anche on line su issuu.com), anche la celebre stele di Rök (Östergötland, Svezia), databile agli inizi del IX secolo, che esprimerebbe l’angoscia indotta dal possibile ripetersi di una catastrofe ambientale simile a quella verificatasi intorno al 536. Un tesoretto di bratteati, gioielli e altri oggetti preziosi accostabile e coevo a quello di Vindelev, ma meno ricco, è riemerso nel 2017 sull’isola di Hjarnø, alla foce del fiordo di Horsens; ritrovamenti minori si sono verificati in altre località scandinave.Tutto ciò ha suggerito a Morten Axboe, ispettore emerito del Museo Nazionale Danese, che possa trattarsi di doni votivi «sacrificati» dagli abitanti dei villaggi alle divinità nella speranza di riottenere la piena funzionalità solare. Donando agli dèi la lucentezza dell’oro in cambio dello splendore del Sole, gli antichi danesi confidavano che essi restituissero vigore all’astro, ponendo fine al freddo e alle carestie e consentendo il ritorno a una vita normale. L’interpretazione, suggestiva e verosimile, non ne esclude altre: gli oggetti preziosi, avverte il responsabile delle ricerche al Vejlemuseerne, Mads Ravn, potrebbero anche essere stati nascosti per tesaurizzare l’oro oppure per salvaguardarli da razzie e conflitti, sempre incombenti nel turbolento contesto del tempo. Il tesoro di Vindelev sarà esposto per la prima volta in occasione della mostra sui Vichinghi che sarà visitabile nel Vejlemuseerne dal 3 febbraio 2022. La mostra ripercorrerà le vicende di Aroldo Dente Azzurro e della dinastia di Jelling e sarà realizzata in collaborazione con il Museo di Moesgaard, che ospiterà una seconda esposizione incentrata sui viaggi dei Vichinghi in Oriente. a r c h e o 49


SCAVI • SAN CASCIANO DEI BAGNI

NELLA

VASCA DELLE MERAVIGLIE LO SCAVO DEL SANTUARIO DI SAN CASCIANO DEI BAGNI – DI CUI ABBIAMO RIFERITO PER LA PRIMA VOLTA NELLO SCORSO APRILE – SI ATTESTA COME UNA DELLE PIÚ PROMETTENTI REALTÀ ARCHEOLOGICHE DEL MOMENTO: NUOVE E SORPRENDENTI SCOPERTE STANNO RIVELANDO LA STORIA DI QUESTO AFFASCINANTE LUOGO SACRO PER GLI ETRUSCHI E PER I ROMANI di Emanuele Mariotti e Jacopo Tabolli

N

el tempo del mito le antiche sorgenti sono spesso scoperte da creature fantastiche, in momenti talvolta drammatici della fondazione del mondo e delle cose. Quando le Muse e le Pieridi si sfidarono in una gara di canto, il monte Elicona, udite le 50 a r c h e o

Tutte le foto che corredano questo articolo sono di Alessandra Fortini e documentano gli scavi nel santuario del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni (Siena). Sulle due pagine: il recupero del putto in bronzo rinvenuto in prossimità del fondo della vasca del santuario.



SCAVI • SAN CASCIANO DEI BAGNI

voci celestiali delle dee, si innalzò come a minacciare il cielo. È allora che sulle pendici del monte, Pegaso, il piú celebre tra i cavalli del mito, avrebbe colpito la roccia e in quel luogo sarebbe scaturita la sorgente Ippocrene, nota appunto come la «fonte del cavallo». E il nome stesso di Pegaso, la cui radice è pege – che in greco antico significa sorgente – lega indissolubilmente l’animale fantastico alla scoperta dell’acqua. Molti secoli dopo il tempo del mito, in un orizzonte drammatico per le vicende dell’Italia centrale

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tirrenica, il V secolo d.C., nel celebre viaggio di ritorno in nave verso la Gallia, il poeta latino Rutilio Namaziano (De Reditu 240-260) attinge ancora al mito per raccontare in distici elegiaci l’etimologia delle immense Terme Taurine, le Aquae Tauri, di Civitavecchia, che si stagliavano imponenti nel profilo delle colline, visibili dal mare.

na sarebbe scaturita la sorgente di acqua calda, cuore dell’impianto termale di età imperiale. E questo toro altri non sarebbe che Zeus sotto mentite spoglie, nel ciclo mitico del rapimento della bella Europa, figlia di Agenore e sorella di Cadmo, re di Tebe. In realtà, il nome del complesso termale di Civitavecchia non racchiude in sé la memoria del mito del toro di Zeus, bensí il legame con la gens IL SEGNO DEL TORO Racconta Rutilio che un toro di- Statilia, di rango equestre, e, in vino avrebbe scalzato la terra e particolare, con quel Tito Statilio che dal movimento delle sue cor- Tauro, al quale si deve l’edificazio-


ne di gran parte del complesso occidentale delle terme. Anche il racconto delle scoperte nella quarta campagna di scavi dell’estate 2021 al Bagno Grande di San Casciano dei Bagni prende forse le mosse da un toro. In quello che viene sempre di piú definendosi come il centro del complesso santuariale, nella grande vasca in travertino colma di acqua calda (38°-42°), costruita in età augustea, a quasi due metri di profondità, su uno dei blocchi aggettanti è apparsa dal fango caldo la testa di un

toro, scolpita in bassorilievo. Non si tratta di uno dei tanti bucrani (teste di toro) a decorazione dei rilievi monumentali di età romana, spesso accompagnati da sistemi di festoni e ghirlande. Il toro del Bagno Grande, di cui leggiamo chiaramente le corna, il pelo, gli occhi e il muso, oltre a uno spazio sulla fronte che doveva con ogni probabilità ospitare un inserto metallico, occupa una posizione particolare: non decora l’esterno della vasca, ma il suo interno ed è localizzato in profondità.

Lo scavo ha rivelato come sotto le fauci del toro si apra ancora un canale, costruito in travertino, molto probabilmente funzionale al deflusso delle acque calde dalla vasca. L’acqua si sarebbe dunque attestata in antico a livello della bocca del toro, restituendo ai fedeli dall’alto della vera della vasca la sensazione che il toro bevesse l’acqua stessa della sorgente. Che il toro della vasca del Bagno Grande abbia dunque solamente un valore funzionale alla gestione del «troppo pieno» o che invece alluda

Emilia-Romagna

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San Casciano dei Bagni

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Lazio

Veduta dall’alto delle strutture del santuario del Bagno Grande (sulla sinistra), i cui resti sono stati localizzati a ridosso delle polle tuttora frequentate per i bagni.

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SCAVI • SAN CASCIANO DEI BAGNI

a un significato piú profondo, come a richiamare il legame semantico con il tema sacrificale, con il mondo agro-pastorale che certamente era la cornice naturale del santuario extraurbano sulle pendici della montagna di Cetona, o che rimandi alla rifondazione mitica della sorgente, è prematuro affermare con certezza.

...CON I PIEDI DI PIOMBO È però certo che un fil rouge lega la costruzione augustea della vasca alle sue trasformazioni nel corso dei due secoli seguenti e, in particolare, all’orizzonte della fine del II secolo d.C., quando sulla vera vengono posizionati gli altari dedicati a Iside e a Fortuna Primigenia dalle potenti famiglie senatorie dei Sextii Asinii e degli Erucii. Lo scavo di questa estate ha restituito altri elementi che, assieme agli altari, contribui-

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scono a definire il contesto rituale della vasca. È riemersa infatti una singolare serie di piedi in piombo con tracce di argento, che sono stati rinvenuti alloggiati all’interno di impronte scolpite nel travertino: tra questi ci sono piedi di adulti, piedi di giovani e persino di bambini. Ma non solo. Il paziente lavoro condotto nel fango dagli archeologi ha permesso di portare alla luce le tracce scolpite di orecchie e di zoccoli, dove le colature interne alle impronte testimoniano la presenza in antico dei pezzi in metallo. Già nelle prime campagne di scavo

(vedi «Archeo n. 434, aprile 2021; anche on line su issuu.com) ex voto configurati a orecchio avevano richiamato la tradizione etrusco-italica dell’offerta dell’organo uditivo nel binomio che lega la necessità di guarigione dell’orecchio – grazie all’acqua calda della sorgente – al valore metaforico, quasi oracolare, dell’ascolto della divinità verso le preghiere dei fedeli. Gli zoccoli sono stati invece rinvenuti in caduta all’interno della vasca e corrispondono certamente a bovini, forse proprio a simboleggiare gli zoccoli di tori. Tuttavia,

Sulle due pagine: lo scavo della vasca colma d’acqua calda (38-42°), costruita in età augustea. Su uno dei blocchi della muratura è stata scoperta la raffigurazione di un toro (vedi il particolare nella pagina accanto, in basso), realizzata a rilievo: dell’animale si possono distinguere le corna, il pelo, gli occhi e il muso, e si può inoltre osservare la presenza di uno spazio sulla fronte che, con ogni probabilità, era stato ricavato per ospitare un inserto metallico.


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SCAVI • SAN CASCIANO DEI BAGNI

per interpretare il legame taurino tra il bassorilievo nella parete interna della vasca e gli zoccoli in superficie, occorre davvero «andare con i piedi di piombo». Per l’insieme di dati che emergono

sulla decorazione della vera della vasca è invece possibile immaginare che essi corrispondessero alle cosiddette vestigia, le «impronte» di natura prevalentemente isiaca, cosí come ci (segue a p. 60)

Veduta zenitale dei resti del santuario, con la grande vasca in travertino, sulla destra della foto.

L’ARCHITETTURA DELLA VASCA SACRA Il santuario del Bagno Grande si caratterizza per una esibita monumentalità, testimoniata in particolare dalle architetture di pregio – tutte in travertino locale – e dal sistema di decorazioni. Se fino alla campagna 2020 spiccavano tra il fango caldo i fusti di colonna abbandonati e in parte spezzati, le basi attiche con i plinti quadrangolari e le raffinate decorazioni (doppio toro, scozia delimitata da listelli), i capitelli tuscanici con rosette scolpite negli angoli inferiori dell’abaco e le mensole intagliate, lo scavo condotto all’interno della vasca nel 2021 ha svelato come questa stessa sia eccezionale nella sua monumentalità. In posizione centrale rispetto all’edificio circostante e probabilmente dedicata alla raccolta delle vicinissime acque sorgive, si configura come una grande piscina di forma allungata, circondata da un portico, di cui è emerso il vertice absidato meridionale. Come in un’aula dedicata al culto delle acque e delle divinità connesse, la vasca di epoca augustea comincia a mostrare una complessità e un’imponenza forse ancora percepite nei racconti antiquari sancascianesi, quando, a partire dal Seicento, si fa menzione delle meraviglie architettoniche al Bagno Grande, cancellate dal fango e dalle trasformazioni medicee del paesaggio antico per la costruzione delle grandi Terme del Portico (l’attuale Fonteverde SPA). Della grande opera della vasca possiamo identificare probabilmente piú fasi, leggibili nelle evidenze architettoniche. Per la sua costruzione sono stati impiegati grandi blocchi ben squadrati e messi in opera con accuratezza, sia nei letti di posa, che nel contatto verticale tra i blocchi, eccezion fatta per i filari collocati a quota inferiore, la cui posizione risulta alterata probabilmente da movimenti tellurici. Al momento attuale (al termine della quarta campagna di scavo 2021) sono emersi quattro filari, compreso il primo, di copertura del bordo della vasca. Si può ipotizzare che la copertura del bordo della vasca sia stata oggetto di rimaneggiamenti, mentre i filari sottostanti presentano interessanti caratteristiche architettoniche, tra cui spicca l’elemento piú pregiato, il blocco con la testa di toro sbalzata. Si possono ancora leggere segni di lavorazione, e forse anche di cavatura e messa in opera abbastanza simili su quasi tutti gli elementi che compongono la muratura, che, attorno a questa porzione della parete della vasca, presenta interessanti caratteristiche. E proprio nel filare sottostante si trova l’elemento architettonico con la testa di toro: il blocco risulta lavorato sulla faccia rivolta all’interno della vasca, mentre la parte inserita nella muratura è caratterizzata da una sorta di risega che porta il blocco a sporgere rispetto al filo del muro. Sotto le narici dell’animale sbalzato, si apre la bocca della canaletta. Essa appare libera per alcuni metri al suo interno: la struttura è costituita da un blocco di travertino nella parte bassa, di forma rettangolare, allungato e con il canale scolpito sulla superficie alta, mentre la copertura è data da lastre, sempre in travertino, messe per piatto, come tectum della canaletta stessa. Il diametro dell’apertura è di circa 20 cm e appare consono alla portata delle acque: le canalizzazioni usate attualmente, tra la sorgente e i vasconi medievali ancora in uso, ne ricalcano dimensioni e sistema, non potendo escludere che utilizzino in parte le stesse opere idrauliche romane. È possibile immaginare che la struttura abbia subito un collasso per un singolo evento, come un terremoto o il crollo del terreno sottostante, che ne ha interrotto la normale inclinazione, rendendo, di fatto, inutilizzabile la grande vasca sacra e contribuendo al processo di dismissione e abbandono del santuario.

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SCAVI • SAN CASCIANO DEI BAGNI

In alto: un’altra immagine della vasca. A sinistra: uno degli ex voto in bronzo a forma di orecchio: la loro presenza evoca l’associazione fra l’uso terapeutico dell’acqua calda e l’ascolto delle preghiere dei fedeli da parte delle divinità. 58 a r c h e o


QUASI COME UNA PROCESSIONE

In alto, a destra: i due piedi destri in piombo, con calzari, trovati sul lato est della vasca.

La forza del culto isiaco all’interno del santuario del Bagno Grande trova la sua piú importante manifestazione nella teoria di orme scolpite e inserite sul bordo della vasca sacra. Una processione simbolica che richiama subito alla mente quella misteriosa, nei versi di Apuleio e del suo Asino d’Oro: piedi, orecchie, piccole impronte di bambini, sino alle «vestigia tauri», trovano spazio sul bordo probabilmente ricostruito sullo scorcio del II secolo d.C. proprio per accogliere i

nuovi altari offerti alle dee. Se ne contano decine: sul bordo ovest, da cui probabilmente viene anche l’inserto in piombo a forma di zoccolo recuperato nel riempimento della vasca; sul lato est, dove, all’estremità visibile, appaiono due piedi destri con calzari, sormontati (quasi cancellati) dai grandi blocchi che sigillarono il complesso sacro nel V secolo d.C., quando la cristianizzazione di Chiusi comportò l’abbandono di un luogo cosí fortemente pagano nel

paesaggio circostante. Altri incavi con abbondanti tracce di metallo al loro interno si dipanano verso la porzione di bordo su cui erano posti gli altari agli dèi, interrompendosi in corrispondenza di questi. Qui le impronte scompaiono e lasciano il posto ai singoli inserti di piombo per l’alloggiamento delle arae, completando quella spettacolare esibizione di culto e potere con cui le famiglie dei Sexti Asinii quasi si appropriano del santuario.

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SCAVI • SAN CASCIANO DEI BAGNI

ha suggerito Valentino Gasparini. Sono le impronte nelle quali il fedele che si recava al santuario poteva porre i propri piedi, e che rappresentano, al contempo, l’offerta stessa alla divinità. Se questa lettura dell’orizzonte della fine del II secolo d.C. è corretta, occorre considerare come la gran parte dei confronti per questo rituale – un unicum in Etruria – rimandi all’Africa romana. Non è forse un caso che al vertice delle famiglie che offrirono gli altari al tempo dei Severi al Bagno Grande, alcuni membri di spicco erano patroni della città numida di Diana Veteranorum od onorati nella città africana di Abbir Maius (nell’odierna Tunisia, n.d.r.) cosí come ricostruito nelle iscrizioni degli altari dal punto di vista prosopografico da Gian Luca Gregori. Potremmo forse immaginare una ritualità rimessa in scena a San Casciano dei Bagni, in una trasposizione in chiave locale di riti lontani, sopra la vasca preesistente, caratterizzata dal grande toro in bassorilievo.

I TESORI DAL PROFONDO Ma le piú grandi sorprese restituite dalla campagna di scavo provengono dal cuore piú profondo della vasca sacra. Come sigillate dal crollo di una possente colonna in traverti60 a r c h e o

no, antiche offerte gettate nell’acqua calda sono riemerse intatte nelle fasi di scavo. Il deposito votivo ha dischiuso piú di mille e duecento monete di età romana, frammiste a statuette in bronzo, piombo e argento di antichi offerenti, piccoli fauni e lari a protezione della sacralità familiare. Alcune clave in bronzo potrebbero alludere alla presenza del culto di Ercole Salutare, attestato peraltro da un’epigrafe su un altare – oggi disperso – dalla vicina San Pietro Aquaeortus (nel territorio di Allerona). Lo stato di conservazione dei materiali rinvenuti è stuA destra e nella pagina accanto: due immagini delle monete, ben 1200, rinvenute in eccellente stato di conservazione sotto una colonna crollata all’interno della vasca. Si tratta di emissioni battute nei primi due secoli dell’impero romano.

In alto: il recupero dell’ex voto in forma di lastra aniconica in bronzo, che forse simboleggia un infante in fasce.


1200 MONETE PRESERVATE DALL’ARGILLA Il crollo della colonna nella vasca segna uno dei tanti atti con cui il santuario fu defunzionalizzato all’alba del V secolo d.C. e chiuso alle offerte rituali dei culti pagani. Il peso della colonna ha compresso il deposito sottostante e il fango caldo si è espanso ai suoi lati. Rimossa la colonna, dall’acqua e dall’argilla sono cominciate a emergere le monete, via via sempre piú frequenti. Centinaia di assi, sesterzi, monete d’argento e d’oro, fino a raggiungere il numero esorbitante di 1200 esemplari. Il ritrovamento, già straordinario per numero e contesto, diventa ancor piú importante perché indagato stratigraficamente. La particolare composizione chimica dell’acqua e la presenza dell’argilla hanno preservato i colori originali delle monete. Dalle sfumature rosa per l’abbondante

presenza di rame, allo splendore dell’oricalco (una lega a base di rame e zinco, simile all’ottone, n.d.r.), le monete si mostrano per quello che dovevano essere, configurandosi come un vero e proprio tesoro. È difficile dire se siano state gettate nella vasca sacra come singole donazioni o in piú gruppi, ma l’arco cronologico abbraccia i primi due secoli dell’impero, da Augusto a Marco Aurelio, testimoniando le serie di ogni imperatore e delle relative imprese in una sequenza pressoché completa. Tre monete piú tarde con le effigi del Divo Caro, di Massimiano e di Costantino I, ci parlano della sopravvivenza del santuario fino a età tardo-antica, in accordo con i materiali ceramici, le lucerne in particolare, che datano la sua dismissione tra il IV e il V secolo d.C.

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SCAVI • SAN CASCIANO DEI BAGNI

CON LA BULLA COME AMULETO Prossimo al fondo della vasca, il putto giaceva a testa in giú. Raffigura un bimbo sorridente, con le gambe leggermente accavallate: la mano sinistra reca un pomo; la destra doveva reggere una colomba. L’elegante panneggio restituisce al centro del petto la caratteristica «bulla». Si tratta di un gioiello circolare, sorretto da collane. È l’attributo caratteristico dei riti di passaggio infantili, amuleto di protezione dell’infanzia, posto a tutela e cura di un’età cosí delicata nel mondo antico. Un’iscrizione lunga piú di quattro righe in etrusco corre lungo la coscia fino all’inguine e reca, probabilmente, il nome dell’offerente e delle divinità venerate a cui il capolavoro in bronzo fu offerto. Il recupero del putto in bronzo e, a destra, la statuetta dopo la prima ripulitura. L’opera, di altissima qualità, può essere assegnata a un artista attivo nella tarda età etrusca.

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Si tratta del piú eccezionale putto in bronzo rinvenuto a oggi e che compete, in quanto a perizia artistica e linguaggio evocativo, con i grandi capolavori del tardo periodo etrusco come il Putto Carrara o il Putto Graziani ai Musei Vaticani. L’artista che lo plasmò fu certamente formato dalle grandi scuole del tempo e rivela conoscenze di prototipi ellenizzanti di altissimo livello. Non è un caso che un putto del genere sia apparso a San Casciano dei Bagni: con l’eccezione del Putto Carrara, che, con ogni probabilità, proviene da un grande santuario di Tarquinia, la stragrande maggioranza di questi bimbi si localizza tra i territori di Chiusi, Cortona e Perugia. Un fenomeno artistico che potremmo dire «interno», che però dimostra la grande vitalità delle terre tra Trasimeno e Clanis, a un tempo in cui l’Etruria meridionale era quasi tutta già romana e l’Etruria interna settentrionale si affacciava al dialogo con la romanizzazione difendendo le tradizioni, anche artistiche, etrusche.


pefacente: la peculiare composizione chimico-fisica delle acque ha, infatti, permesso la conservazione in ambiente totalmente anaerobico dei materiali. I metalli non hanno dunque patine o prodotti di corrosione e appaiono con la medesima lucentezza e con gli stessi colori del tempo in cui furono gettati all’interno della vasca sacra. Se la gran parte del materiale votivo, celato dal crollo della colonna, segue la vita di quanto finora noto dal santuario di San Casciano dei Bagni – abbracciando l’arco cronologico che va dal regno di Augusto all’epoca severiana (dall’inizio del I all’inizio del III secolo d.C.) –, un recesso prossimo al fondo della vasca ha restituito invece reperti molto piú antichi, che rimandano ai secoli in cui queste aquae Clusinae erano luogo di venerazione per gli Etruschi prima che per i Romani.

Due immagini di una statuetta di offerente recuperata nella vasca. Il deposito votivo si è rivelato particolarmente ricco: oltre al tesoro di monete (vedi box a p. 61), sotto una colonna è infatti affiorato un gran numero di bronzetti e statuette in piombo e argento, in molti casi raffiguranti piccoli fauni e lari, protettori della sacralità familiare.

UN PUTTO PER GLI DÈI ETRUSCHI Lo scavo ha messo in luce una sequenza di deposizioni di statue ed ex voto in bronzo e, in particolare, di una lastra aniconica che potrebbe simboleggiare un infante in fasce (vedi foto a p. 60) e, immediatamente al di sopra, un putto in bronzo, raffigurato in posizione semiseduta. L’opera, di un artista etrusco dei primi anni del II secolo a.C., reca incisi sulla gamba i nomi delle divinità venerate nel santuario etrusco a cui il putto era offerto. La paziente e complessa lettura dell’iscrizione etrusca da noi affidata ad Adriano Maggiani restituirà presto uno spaccato del «santuario prima del santuario». Con ogni probabilità questo materiale votivo che già era presente nel thesauros dell’area sacra in età etrusca, con la rifondazione del culto al tempo di Augusto, venne risemantizzato nella nuova vasca, a testimonianza della sacralità genitrice di quell’acqua calda, attorno al cui culto ruota il cosmo del Bagno Grande di San Casciano. a r c h e o 63


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BIOARCHEOLOGIA • TARTARO

QUANDO IL PASSATO MOSTRA I DENTI

NEMICO NUMERO UNO DELL’IGIENE ORALE, IL TARTARO STA INVECE AFFERMANDOSI COME UNO DEI MIGLIORI ALLEATI DELL’ARCHEOLOGO: LO STUDIO DEI SUOI RESIDUI, NEL CASO DI INDIVIDUI VISSUTI NELL’ANTICHITÀ, SI RIVELA UNA VERA E PROPRIA MINIERA DI DATI di Emanuela Cristiani e Claudio Ottoni

«C

on quella bocca può dire ciò che vuole»: cosí sentenziava lo slogan di una famosa marca di dentifricio in un Carosello andato in onda nel 1958 e presto trasformatosi in un vero e proprio tormentone. Oggi sappiamo che l’igiene orale, oltre a donarci un bel sorriso, è anche la migliore cura per la salute della nostra bocca. L’uso quotidiano dello spazzolino previene patologie del cavo orale e tiene lontani batteri

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che altrimenti prolifererebbero nella famigerata placca dentale. Quest’ultima, in condizioni di particolare acidità della nostra bocca, può arrivare a calcificarsi, formando il tartaro, o calcolo dentale.

LO SPAZZOLINO DEI TANG Strumento indispensabile per prevenire l’insorgere del tartaro, lo spazzolino da denti è diventato oggi un oggetto iconico nella cultura moderna, in tutte le sue declinazioni:

colorato, ergonomico, di design, fino alle piú recenti evoluzioni tecnologiche basate sull’intelligenza artificiale.Tuttavia, per come lo conosciamo noi, lo spazzolino è un’invenzione che risale alla dinastia imperiale cinese Tang (618-907 d.C.), mentre invece, ben prima dell’epoca storica, la rimozione meccanica della placca non avveniva con regolarità e, anche per questo motivo, sono arrivati a noi molti calcoli dentali di individui lontani nel tempo.


Sebbene l’eziologia del calcolo non sia ancora pienamente nota, il processo di mineralizzazione di questo biofilm permette di «intrappolare», insieme ai batteri e alle cellule umane naturalmente costituenti la placca, anche microscopici frammenti di cibo, strutture vegetali, animali,

muni. La frequenza di questo deposito mineralizzato nelle popolazioni umane antiche è stata spesso spiegata in relazione alle differenti strategie di sussistenza come, per esempio, la caccia o l’agricoltura. Grazie ai progressi tecnologici degli anni Novanta è stato possibile

composti chimici e biomolecolari, nonché minerali transitati almeno una volta nella bocca di un individuo. Ben protetti dalla matrice minerale del calcolo, tali microscopici residui possono resistere millenni, mantenendo spesso inalterate le loro caratteristiche distintive. Per questo motivo, il tartaro antico costituisce oggi una fonte preziosa di informazioni biografiche sulla dieta, la salute, le condizioni di vita e, addirittura, sulle abitudini sociali e lavorative del passato. Il suo studio è divenuto uno dei principali interessi della bioarcheologia, la disciplina che indaga i reperti di origine biologica rinvenuti in contesti archeologici. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, le analisi sul tartaro fossile si sono fatte sempre piú co-

Sulle due pagine: le dentature di due individui vissuti in epoca antica sulle quali si possono osservare residui di tartaro. Denti e tartaro costituiscono una risorsa importante per ricostruire aspetti biografici tra cui la dieta, gli stili di vita, le attività lavorative e lo stato di salute.

esplorare il tartaro dentale a livello microscopico, rivelando la morfologia di residui di origine vegetale e animale associati alla dieta e persino i batteri intrappolati nella matrice minerale di primati vissuti quasi 10 milioni di anni fa.

UNA TRAPPOLA PER GLI AMIDI In particolare, si è scoperto che il tartaro intrappola e conserva strutture vegetali come i fitoliti, – microscopici depositi di silice che si formano in molte cellule vegetali –, ma, soprattutto, gli amidi, ovvero la riserva energetica delle piante. L’a-

mido si deposita in granuli semicristallini nella maggior parte dei tessuti, ma si rinviene in particolare abbondanza in semi, radici e tuberi. Il ruolo di tali piante nella nostra storia evolutiva è stato confermato attraverso lo studio dei calcoli dentali di specie oggi estinte di australo-

piteco (Australopithecus sediba) e Neandertal. L’identificazione di microresidui vegetali ha permesso anche di caratterizzare meglio la dieta dei cacciatori-raccoglitori, l’esistenza di pratiche di cottura dei vegetali e, infine, valutare in che misura cereali spontanei e altre piante costituissero parte del menú quotidiano prima dell’introduzione dell’agricoltura, che ha avuto origine piú di 10 000 anni fa nel Vicino Oriente. Ma le potenzialità dello studio dei calcoli antichi si spingono oltre lo studio della paleodieta. Per esempio, il rinvenimento di fibre e altre strutture vegetali ha evidenziato il ricorrente a r c h e o 67


BIOARCHEOLOGIA • TARTARO

uso dei denti in pratiche extra-masticatorie, mentre la presenza di microscopiche particelle di lapislazzulo intrappolate nel tartaro di una monaca vissuta tra il 997 e il 1162 d.C. in un monastero medievale a Dalheim, in Germania, ha recentemente rivelato che donne amanuensi potevano realizzare miniature di testi religiosi al pari dei monaci. Strutture vegetali e composti chimici intrappolati nel tartaro antico, inoltre, permettono di ricostruire le rotte commerciali che dal Sud-Est asiatico garantivano la circolazione di specie esotiche come lo zenzero e la curcuma nel Mediterraneo già nel II millennio a.C. I calcoli dentali divengono quindi un tesoro fossile, capace di far luce su aspetti socioculturali ed economici poco esplorati dalle ricerche storiche. Un ulteriore contributo allo studio del tartaro antico è arrivato nell’ultimo decennio dalla biologia molecolare. Il progresso tecnologico raggiunto da questa disciplina ha fornito infatti un livello di risoluzione analitica ancora superiore, permettendo di caratterizzare il contenuto del tartaro dal punto di vista delle singole molecole di DNA e proteine. Insieme a frammenti di cibo, infatti, i calcoli denUn momento dell’analisi del tartaro antico mediante l’utilizzo di microscopia a luce trasmessa effettuata presso il laboratorio DANTE per lo studio della Dieta e della Tecnologia Antica («Sapienza» Università di Roma).

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tali possono intrappolare microrganismi del cavo orale e persino patogeni delle vie respiratorie e del tratto intestinale. Attraverso le modernissime piattaforme di sequenziamento del DNA, è possibile analizzare il contenuto genetico dei microrganismi intrappolati nei campioni di tartaro, riuscendo cosí a ricostruire la flora batterica dei nostri antichi progenitori.

L’ATTIVITÀ DEI BATTERI Tale scenario può essere ulteriormente integrato dall’analisi delle proteine di origine batterica, permettendo in particolare di studiarne la storia funzionale: i batteri oggi responsabili di carie e infezioni orali facevano altrettanto in passato? L’evoluzione della patogenicità nei microrganismi della flora orale può essere associata a particolar i attività umane o a cambiamenti nella dieta? Studi recenti suggeriscono, per esempio, che l’avvento della rivoluzione industriale nella seconda metà del XVIII secolo e la conseguente introduzione di zuccheri raffinati nella nostra dieta, possano aver comportato significativi cambiamenti nella flora della bocca, incrementando la capacità di sviluppare

carie da parte di determinate specie, come lo Streptococcus mutans. Ma l’analisi biomolecolare nel tartaro antico non si limita allo studio della flora batterica orale. Le proteine in particolare, vista la loro aumentata capacità di conservarsi nel tempo rispetto al DNA, rappresentano un importante indicatore delle antiche abitudini alimentari. Recentemente è stato possibile ricostruire dal tartaro antiche sequenze proteiche derivanti dal latte, cereali e altri vegetali. Ciò ha permesso di individuare l’introduzione del latte e derivati nella nostra dieta millenni fa attraverso l’addomesticamento di bovini e ovicaprini nelle prime comunità agricole. Lo studio delle antiche proteine del latte permette anche di risalire alla specie animale (capra o mucca), e i meccanismi di lavorazione di prodotti caseari adottati dalle antiche comunità. Sebbene in quantità inferiore, anche il DNA e le proteine umane rimangono incapsulate attraverso il tempo nella matrice minerale del tartaro, offrendo la possibilità di studiare i caratteri fisici e le genealogie di individui di comunità antiche e la loro suscettibilità a infezioni orali provocate dai batteri che proliferavano nella loro bocca.


A sinistra: a. amidi intrappolati nella matrice di tartaro antico osservata ad alto ingrandimento e luce trasmessa; b-c. amidi moderni di orzo processati sperimentalmente e osservati ad alto ingrandimento e luce trasmessa.

Tesoro di informazioni sulla dieta e salute dell’antichità, il tartaro fossile potrebbe presto fornire nuove testimonianze sulla «materia medica» del passato. Gli sforzi dei ricercatori si stanno infatti orientando verso la comprensione delle pratiche di automedicazione in uso nell’antichità, intrappolate sotto forma di micro-resti e composti chimici nel tartaro antico. Eccezionalmente preservati sui denti di Neandertal vissuti tra 47 300 e 50 600 anni fa nel sito di El Sidrón in Spagna, composti chimici di origine vegetale hanno svelato l’uso di achillea e camomilla (piante prive di valore nutrizionale) a scopo curativo. Tracce di curcuma e ginseng sono

state invece scoperte nel tartaro di una donna vissuta nell’impero romano tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C.

FELCI CURATIVE Queste erbe e spezie, tipiche della medicina tradizionale antica cinese, sono state usate per trattare i disturbi intestinali provocati dalla celiachia di cui la donna era affetta. Anche le felci sono state usate a scopo curativo secondo uno studio condotto su calcoli di una popolazione altomedievale della necropoli di Can Reiners nelle isole Baleari. Già verso la fine del V secolo, Ippocrate di Coo enfatizzava con «Lascia che il tuo cibo sia la tua medicina e

Qui sopra: il rinvenimento di fibre vegetali e/o animali nel tartaro antico può aiutare a far luce sull’utilizzo della bocca e dei denti in attività extra-masticatorie quali, per esempio, la tessitura o l’intreccio.

la medicina sia il tuo cibo» la profonda relazione che lega cibo e medicina, ripresa oggi dagli studi etnofarmacologici che spingono verso un ritorno alla medicina tradizionale. In questa ottica i calcoli antichi possono svelare molte pratiche curative o medicamentose passate, utili a un futuro terapeutico meno invasivo. Emanuela Cristiani ringrazia Franco Fatigati per i preziosi suggerimenti nella stesura del testo. a r c h e o 69


UNA NUOVA PER I D’

IDEA NUMI EGITTO MONUMENTALI, ETERNI, IMMUTABILI: È L’IMMAGINE TRASMESSA, DALL’ANTICHITÀ FINO AI GIORNI NOSTRI, DAI GRANDIOSI SANTUARI DI ETÀ FARAONICA. EPPURE, UNA CESURA EPOCALE SI VERIFICÒ CON L’AVVENTO IN EGITTO DI UN PERSONAGGIO RIVOLUZIONARIO, ALESSANDRO MAGNO. DA QUEL MOMENTO, LUNGO LE RIVE DEL NILO SI DIFFONDE UNO SPIRITO INNOVATIVO, CHE AI SUOI MILLENARI LUOGHI DEL SACRO INFONDERÀ UN’INEDITA, AFFASCINANTE VITALITÀ. DESTINATA A SEGNARE L’IMMAGINARIO MITICO-RELIGIOSO DI QUELLA TERRA FINO ALL’AVVENTO DEL CRISTIANESIMO… di Francesca Iannarilli 70 a r c h e o


Ricostruzione virtuale dell’isola di File, con il maestoso tempio di Iside. Negli anni Sessanta del Novecento, l’enorme bacino artificiale creato dalla costruenda diga di Assuan avrebbe sommerso il complesso monumentale, che fu dunque smontato e ricostruito sull’isola di Agilkia, situata poco piú a nord.

I

templi egiziani (Hwt-necer, «dimora del dio») costituiscono la residenza terrena delle divinità e il luogo in cui si rinnovava ciclicamente la creazione: ogni giorno a seguito della notte, ogni mese con la luna nuova e ogni anno con la piena del Nilo. Il ruolo dei tem-

pli e dei rituali in essi celebrati era dunque necessario alla corretta progressione del corso degli eventi, della vita degli uomini e del cosmo. Ma i luoghi di culto mantennero realmente questa sostanziale funzione per piú di tre millenni di storia? Talvolta si tende a considerare


LUOGHI DEL SACRO/9

il periodo successivo alla caduta di Alessandro Magno come una fase conclusiva, di declino della storia egiziana, mentre nulla è piú lontano dalla verità e proprio la cultura templare riserva numerose sorprese, riflettendo la straordinaria ricchezza di innovazioni e peculiarità del contesto storico-sociale dell’Egitto tolemaico e romano. Dopo aver trionfato contro i Persiani a Isso nel 333 a.C., Alessandro Magno marciò su Menfi e prese l’Egitto senza resistenza, anzi fu acclamato come liberatore, nell’autunno del 332 a.C. Un anno piú tardi fondò la città di Alessandria nel Delta, cosí da connettere via mare Egitto e Grecia, e fu nominato faraone dall’oracolo di Amon a Siwa. Sostò nei templi egiziani di Eliopoli e Menfi, dove offrí libagioni e sacrifici alle divinità locali. Alla morte prematura del grande condottiero macedone (323 a.C.),

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l’impero subí una scossa non da poco e gli ex generali di Alessandro furono nominati governatori dei diversi territori che si estendevano dal Mar Ionio fino all’Himalaya.

TRA RE E IMPERATORI Nel 322 a.C. Tolomeo I Sotere, figlio di Lago (da cui prende il nome la dinastia dei Lagidi), ottenne l’autorità sull’Egitto, costituendolo in regno autonomo (satrapia), riprendendone le tradizioni faraoniche, ma contemporaneamente abbracciando le innovazioni dell’ellenismo. A questi successe il piú famoso Tolomeo II Filadelfo (283 a.C.), noto per avere fondato e arricchito la grandiosa Biblioteca di Alessandria. La dinastia macedone tolemaica regnò sull’Egitto per quasi tre secoli (304-30 a.C.), in un amalgama di rispetto per la tradizione e mutamenti culturali.

Il processo di rinnovamento della società egiziana fu allora favorito dall’influenza dei popoli greci che si spostarono proprio verso la nuova capitale d’Egitto,Alessandria appunto, per ragioni prevalentemente economiche e commerciali. La presenza di forestieri consentí, però, un’ampia diffusione non soltanto di merci e di beni, ma anche d’idee, tecniche e, talvolta, divinità. La costruzione di templi dedicati a numi egiziani divenne il metodo piú diffuso per legittimare il ruolo dei nuovi reggenti stranieri, favorendo una transizione apparentemente scorrevole e assicurando la continuità necessaria alla tradizione faraonica. In seguito, al pari dei sovrani tolemaici, anche i Romani adottarono modelli locali per avallare il proprio controllo sul trono faraonico (30 a.C.-395 d.C.), garantendo contemporaneamente il consenso ideologico della classe sacerdotale


Porto Said Alessandria

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L’INCORONAZIONE DEL FALCO VIVENTE Il contenuto stesso delle iscrizioni attraversa vari cambiamenti e alle composizioni tradizionali se ne aggiungono di nuove, come, per esempio, il rituale di incoronazione del falco sacro vivente: il primo giorno del quinto mese dell’anno, Horus, figlio ed erede di Osiride, assume la regalità sulle due terre (l’Alto e il Basso Egitto, n.d.r.) e la festa in suo onore è la rievocazione annuale di questa vicenda mitica, che appare necessaria alla legittimazione del faraone sul trono d’Egitto. Ogni tappa del rituale è rappresen-

Mar Mediterraneo

De

e la stabilità socio-economica necessaria per governare. Alcune delle costruzioni piú note d’Egitto si devono, in effetti, all’impero; un caso emblematico è il chiosco di Traiano sull’isola di File. A primo impatto, i santuari egiziani di epoca tolemaica possono apparire perfettamente in linea con la tradizione faraonica di epoca precedente, ma sono invece numerose le innovazioni, sia nell’apparato architettonico che in quello decorativo. Basti pensare che, in epoca tolemaica, il numero di segni del sistema scrittorio geroglifico passa dall’ordine delle centinaia a quello delle migliaia, producendo un’infinita varietà di combinazioni possibili per scrivere e rappresentare la realtà. Come i loro piú antichi precursori, anche i templi tolemaici, dunque, mostrano pareti ricche di segni e immagini a rilievo vivacemente colorate, ma le iscrizioni sono ora piú articolate e ricoprono l’intera superficie dei muri, restituendo la percezione di un vero e proprio horror vacui. Nell’epigrafia templare di Esna, Dendera, File ed Edfu questa nuova fioritura di segni costituisce non soltanto una impressionante modalità di decorazione parietale, ma anche una vera e propria interpretazione dello spazio sacro.

el-Balyana Abydos

Qena Coptos Dendera Tebe Esna

Luxor

Egitto Edfu

Kom Ombo

Assuan File

tata dettagliatamente sulla facciata interna del muro di cinta di Edfu. Qui si vedono, nell’ordine: una processione della statua di Horus a testa di falco dal santuario al cosiddetto «Tempio del falco sacro»; la scelta di un falco sacro allevato nel recinto

In alto: cartina dell’Egitto con, in evidenza, le località sedi di templi citate nell’articolo. Nella pagina accanto: il soffitto di una delle sale del tempio di Esna, sorretto da colonne sormontate da capitelli in forma di papiro. a r c h e o 73


LUOGHI DEL SACRO/9

LA CREAZIONE DEL MONDO A ESNA Alle descrizioni scritte e figurate delle festività religiose locali, si accompagnano testi teologici, come la narrazione sull’origine del mondo. I rilievi del tempio di Esna (I-II secolo d.C.), in particolare, ci raccontano come Neith abbia creato il mondo, le ore, gli anni, i mesi e le stagioni attraverso «sette formule creatrici». Il santuario di Esna aveva molti nomi: «Tempio del Padre», «Tempio della Madre», «Tempio di Khnum», «Tempio di Neith». La divinità piú rappresentata nel luogo sacro è Khnum, il dio vasaio dalla testa d’ariete «Signore di Esna»; egli comprende in sé molte forme e funzioni: è «il primo dio primordiale», «Colui che crea gli dèi e gli esseri umani», «Signore della vita» e altre sue manifestazioni, che lo accompagnano durante le processioni, quasi fossero il suo entourage. Non meno importante è Neith, «Signora di Esna», dall’appellativo e le fattezze femminili, eppure considerata contemporaneamente dio e dea, padre e madre di ogni cosa. Di Neith si dice che «due sue parti sono maschio, mentre una sua parte è femmina»; nella sua essenza coesistono, dunque, l’elemento maschile e quello femminile, che rappresentano la diversificazione ideale su cui l’intero impianto culturale egiziano è costruito. Probabilmente i due dèi di Esna rappresentavano le facce di una stessa medaglia: Khnum crea materialmente sul tornio del vasaio, mentre Neith crea cognitivamente, prima pensando e poi scrivendo i nomi di ciò a cui vuole dare vita.

del tempio, come erede del dio; l’esposizione dell’esemplare alla folla riunita davanti al tempio; l’incoronazione del falco nel tempio; infine il pasto rituale all’interno del «Tempio del falco sacro». I sacerdoti responsabili di progettare le composizioni che dovevano coprire le pareti del tempio di Esna crearono addir ittura un nuovo inventario grafico: un centinaio di geroglifici, infatti, non hanno paralleli nelle iscrizioni contemporanee e si osservano numerose particolar ità anche nell’uso degli altri segni; il che 74 a r c h e o


rende particolarmente complessa In alto: tempio di Esna. Rilievo la lettura dei testi di Esna. raffigurante l’imperatore Tiberio,

QUANDO SORGE IL SOLE Dal punto di vista architettonico, i templi tolemaici devono molto ai loro predecessori del Nuovo Regno (1070 a.C. circa): sono costruiti in pietra, materiale eterno, come si conviene alla casa di un dio; spesso orientati a est, in modo che il sole potesse sorgere tra i due grandi piloni (torrioni) di accesso; le colonne della sala ipostila (dal greco ypó, «sotto», e stéle, «colonna») mostrano capitelli variegati, scolpiti nella forma

abbigliato come un faraone, che viene condotto dalle dee Uadjet e Nekhbet al cospetto del dio vasaio Khnum,

dalla testa d’ariete, sul cui tornio sta Harpokrates, cioè «Horus il fanciullo». Nella pagina accanto: l’immagine del dio Horus in uno dei rilievi del tempio per lui fondato a Edfu nel 237 a.C.

di un loto, un papiro chiuso o aperto, a sostenere un soffitto stellato. Una sostanziale differenza rispetto all’epoca precedente riguarda l’enfasi data alla dimensione locale della divinità: i templi tardi fissano la presenza divina sulla terra in maniera piú incisiva, attraverso il coinvolgimento dell’intera regione circostante in ampie processioni e

litanie. È come se tutta la società divina si rispecchiasse in quella terrena, ed è anche per questa ragione che ogni tempio non ospitava un solo e unico dio, ma, accanto a quello, anche un gran numero di divinità secondarie. La statua del dio principale è sempre conservata nel sacrario, il luogo piú interno e protetto dell’edificio a r c h e o 75


LUOGHI DEL SACRO/9

templare; a esso si affiancano varie cappelle accessorie dedicate ad altri dèi, e una, la wabet, includeva uno spazio aperto in cui si celebrava la Festa del Nuovo Anno. Quest’ultima, nota soprattutto per Edfu e Dendera, annunciava l’arrivo della piena del Nilo e si festeggiava interamente tra le mura templari: le statue divine erano condotte in processione dal sacrario, attraverso le cappelle accessorie, fino alla wabet e al suo cortile, ove venivano purificate, vestite e adornate. La processione proseguiva poi verso il tetto: lí l’esposizione alla luce del sole doveva rivitalizzare la statua e, di conseguenza, la divinità che essa rappresentava e con cui era totalmente identificata. A questa unione del dio con il disco solare, si accompagnava

I MISTERI DI OSIRIDE I rituali celebrati nel mese di Khoiak, anche noti come «misteri osiriaci», ruotavano attorno al racconto di Osiride assassinato da suo fratello Seth e poi ricomposto da Iside, con la quale il dio, benché ormai deceduto, aveva generato il

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figlio Horus. Al defunto Osiride era stato infine destinato il regno dei morti, mentre Horus, una volta cresciuto, aveva sconfitto lo zio Seth ed era salito sul trono d’Egitto. Il ciclo di morte e rinascita di Osiride fornisce una risonanza

mitica al processo annuale di rifioritura del raccolto e alla piena del Nilo; quando il fiume inizia a salire il dio rinasce (e viene celebrata la Festa del Nuovo Anno), mentre quando il fiume si ritira egli muore di nuovo (quando si celebra


l’antica cerimonia dell’Apertura della bocca, costituita da un gruppo di rituali idonei a infondere nuova vita nella statua divina.

AL RITIRO DELLE ACQUE Lo spazio sacro, dunque, si ridefinisce in modo estremamente articolato e ogni ambiente diventa lo scenario di uno o piú momenti cultuali specifici: il tetto del tempio di Hathor a Dendera, per esempio, viene utilizzato per il rituale dell’unione del sovrano con il disco solare e per celebrare i misteri del dio Osiride durante il mese di Khoiak (piú o meno corrispondente al nostro dicembre, quando le acque si ritiravano per esporre i campi coperti di limo pronti per la semina; vedi box in queste pagine).

la Festa di Khoiak). Durante il I millennio a.C. si diffondono le cosiddette Corn Mummies o Osiris végétant, cioè figurine mummiformi di Osiride costituite da terra, cereali, resina e bende di lino. E proprio nel Tempio di Hathor a Dendera sono riportate le istruzioni su come realizzare tali figurine, all’interno delle quali venivano piantati i semi di orzo durante la festa di Khoiak (nome copto derivante dall’ antico egiziano ka-her-ka) che poi germogliavano. L’orzo che spuntava dal corpo di Osiride, o dalla sua riproduzione figurata, consentiva idealmente al dio di creare e rinnovare la vita.

PER SAPERNE DI PIÙ

Nella pagina accanto, in alto: rilievi e iscrizioni sulle pareti di uno degli ambienti del tempio di Horus a Edfu. A destra e nella pagina accanto, in basso: due esemplari delle cosiddette Corn Mummies, figurine mummiformi di Osiride nelle quali si piantavano semi di orzo che poi germogliavano.

Emanuele Marcello Ciampini, Rigenerazione e trasmissione del potere: la statua di Khentimenti nel rituale di Khoiak e i precedenti di una tradizione dell’Egitto tardo, in Aegyptus 87, 2007; pp. 257-87.

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Dalla Nubia alla Grande Mela Il tempio di Dendur, in Nubia, in un acquerello di David Roberts. 1848. Costruito nel 15 a.C. dal governatore romano d’Egitto, Petronius, l’edificio, dopo essere stato smontato, fu donato agli Stati Uniti d’America in segno di riconoscenza per la partecipazione al salvataggio dei monumenti nubiani altrimenti destinati a essere sommersi dal lago Nasser, creato dalla diga di Assuan. Dedicato a Iside e a Pedesi e Pihor, due figli divinizzati di un capo nubiano, il tempio è oggi visibile nel Metropolitan Museum of Art di New York, al cui interno è stato ricostruito.

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Se sul tetto si erigono cappelle per i riti connessi al sole, nei sotterranei del tempio vengono ricavate cripte, ben dodici a Dendera, dedicate a diverse divinità e atte a conservare gli arredi sacri impiegati nel culto giornaliero e custodire i manoscritti templari. Tutti gli stretti ambienti e passaggi sono disposti su tre o quattro livelli, uno sopra l’altro, e accessibili tramite botole; alcuni di essi mostrano pareti riccamente decorate. All’esterno delle mura del tempio, poi, si svolgono ulteriori tappe del culto: i testi di Dendera ci informano degli spostamenti della dea Hathor e di altre statue divine verso il lago sacro o verso l’edificio detto mammisi. Quest’ultimo è certamente una caratteristica tipica dei templi tolemaici: una costruzione innalzata

a fianco del tempio principale, nello stesso recinto sacro del complesso templare. Si ritrova a File, Kom Ombo ed Edfu. Il suo nome egiziano, per meset, letteralmente «casa della nascita», designa precisamente la sua funzione: all’interno di questa struttura veniva infatti celebrata la nascita del figlio (il re) da parte di una madre divina, modalità prediletta per legittimare il sovrano regnante. La natività identificava il giovane dio con il sole nascente e, di conseguenza, il monarca sul trono con l’eterno e quotidiano rinnovamento della vita. Quanto alla topografia, le case della nascita occupano un luogo ben definito all’interno del recinto templare, su un lato della facciata del tempio principale. Le planimetrie sono simili: circondate su tutti


i lati da un deambulatorio (corridoio di passaggio), hanno colonne connesse da bassi intercolumni (muri divisori) e ornate di capitelli floreali che richiamerebbero le paludi di papiri in cui il piccolo Horus fu nascosto dal vendicativo zio Seth. Nella decorazione non mancano figure divine strettamente legate al parto, come Bes a Dendera, e alla fertilità, come Hathor a File. I mammisi dei templi tolemaici vengono talvolta ampliati col tempo rispetto al progetto iniziale, tramite l’aggiunta di corti, chioschi o colonnati; l’estensione degli spazi sacri deve essersi verificata gradualmente, a seguito di una crescente necessità di accogliere piú partecipanti nelle festività pubbliche, come le processioni e, piú in generale, con l’intenzione di arricchire le attività legate al culto.

HORUS DI EDFU... Fondato nel 237 a.C. e completato nel 57 d.C. sui resti di un edificio del Nuovo Regno, il tempio di Horus a Edfu è probabilmente la realizzazione tolemaica meglio conservata in Egitto: sorge su un asse sudnord, ha un ingresso monumentale fiancheggiato da due grandi statue in granito del dio nella sua forma di falco e nel cortile mostra pareti ricoperte di rilievi raffiguranti le scene della Festa del bell’incontro, in cui Horus di Edfu incontra Hathor di Dendera. Si riteneva che questo cosiddetto «Horus di Behdet» giungesse da sud, dalla Nubia; a lui i Greci equipararono Apollo, rinominando il sito Apollinopolis megalé, la «Grande città di Apollo». Il santuario principale è circondato da cappelle dedicate anche ad altre divinità, tra cui Osiride, Hathor, Ra e Min; la cappella collocata sul retro della struttura è invece riservata alla barca sacra sulla quale il dio doveva essere condotto fuori dal tempio in occasione delle processioni pubbliche. Cosí come Dendera, anche Edfu ha uno spazio sacro sul tetto della

struttura templare, raggiungibile tramite una scala, nel quale si collocano i magazzini, con camere nascoste. La corte a cielo aperto è circondata da un peristilio, costituito da trentadue colonne con capitelli dagli ornamenti floreali e policromi: palme, papiri, loti e gigli, tutti elementi vegetali apparentemente inadatti a sostenere i carichi dei pesanti soffitti. Eppure, proprio questa varietà decorativa contraddistingue fortemente i peristili, le sale ipostile e i chioschi dei templi greco-romani. La ragione è prevalentemente simbolica: il tempio è un microcosmo, uno spazio in cui si vuole riprodurre idealmente l’intero universo, del quale gli elementi vegetali rappresentano una componente essenziale. Cosí, se i fusti di colonne riproducono i tronchi degli alberi e i loro capitelli il fogliame o le infiorescenze, allo stesso modo il soffitto degli ambienti chiusi riproduce la volta celeste. Inoltre, si può ipotizzare che le piante scelte indicassero varie regioni o specifici luoghi di culto di cui erano originarie: le piú riprodotte sono quelle del Basso Egitto (il Delta), cioè papiro, loto e palme, mentre il giglio dell’Alto Egitto (il

sud) è usato piú raramente. Alcuni schizzi per la progettazione di capitelli con motivo a giglio risalenti al 675 a.C. ci informano sul loro utilizzo a partire dalla XXVI dinastia. La colonna con capitello palmiforme, nota sin dall’Antico Regno (III millennio), viene modificata durante l’epoca tolemaica: da slanciata diviene piú tozza e ricca di dettagli, come frutti o datteri. Il fiore di loto può essere scolpito in forma chiusa o aperta, come a File, con petali riccamente modellati. A queste forme decorative si aggiungono i capitelli scolpiti nella forma del volto della dea Hathor con chioma a volute e orecchie bovine: questi capitelli hathorici non sono limitati a una diffusione locale, ma, anzi, vengono particolarmente apprezzati e impiegati anche al di fuori dell’Egitto, come risultato dell’espansione del culto di Hathor-Iside nel Mediterraneo e a Roma.

...E ISIDE DI FILE Il tempio di File, un tempo collocato sull’omonima isola e oggi sulla piú settentrionale Agilkia, è il piú meridionale d’Egitto; la struttura fu spostata negli anni Sessanta del seco-

Statua in granito del dio falco Horus nel cortile del tempio a lui dedicato a Edfu.

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lo scorso, in occasione della costruzione della diga di Assuan, che causò l’inondazione di numerosi siti archeologici al confine tra Egitto e Sudan. Grazie all’imponente progetto UNESCO – a cui parteciparono ben cinquanta Paesi –, fu possibile smontare e trasferire i monumenti a rischio in aree protette; del comitato per la salvaguardia faceva parte anche l’Italia, nella persona di Sergio Donadoni (1914-2015), allora professore di Egittologia all’Università «La Sapienza» di Roma (vedi «Archeo» n. 428, ottobre 2020; anche on line su issuu.com). Il tempio principale dell’isola è dedicato a Iside e la sua fondazione risalirebbe a Psammetico II (590 a.C. circa), nonostante esistano anche tracce di strutture piú antiche. Proprio in epoca greco-romana il culto di Iside raggiunge forse il suo culmine, sopravvivendo a lungo anche all’avvento del cristianesimo in Egitto. Come a Dendera ed Edfu, anche il tempio di File ha uno spazio ricavato sul tetto per i culti osiriaci e un suo mammisi; il primo è decorato a rilievo con scene di la-

mentazione per la morte di Osiride e del recupero delle sue membra da parte di Iside, mentre nel secondo la dea è raffigurata nell’atto di allattare il piccolo Horus tra le paludi.

Sulle due pagine: ricostruzione virtuale della città di Dendera, sorta sulla riva sinistra del Nilo. Al centro il colossale tempio della dea Hathor.

In basso: il rilievo del tempio di Hathor a Dendera con i fiori di loto fantasiosamente interpretati come prova dell’uso dell’energia elettrica.

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«IL LETTO DEL FARAONE» A sud-est dell’isola sorge uno dei monumenti piú noti di File: il chiosco di Traiano, detto dai locali sarir fireawn, «il letto del faraone». Si tratta di un edificio attualmente a cielo aperto (forse in passato coperto da un tetto ligneo o di altri materiali leggeri), costituito da quattordici colonne, connesse da bassi muri divisori, a sostegno di imponenti architravi. I chioschi hanno precursori già in epoca piú antica (forse nei baldacchini provvisori usati a copertura del trono), ma si trasformano in maniera significativa nell’epoca greco-romana, divenendone elemento caratteristico. A differenza dei portici addossati sulla facciata principale del tempio, che offrivano ombra ai fedeli riuniti per le processioni, i chioschi erano baldacchini a sé stanti e dovevano


LE LAMPADE DI DENDERA Tra i rilievi piú noti rinvenuti nelle cripte sottostanti al tempio di Hathor a Dendera, sulla sponda occidentale del Nilo, compare quello delle cosiddette «lampade di Dendera», considerate nell’egittomania come prova dell’uso di energia elettrica nell’antichità. In realtà, sulle lastre parietali sono raffigurati due grandi e oblunghi fiori di loto, come conferma anche il testo geroglifico scritto accanto a essi, da cui spuntano due lunghi serpenti. È possibile che il serpente sia una forma del dio bambino Ihy, figlio di Hathor, il quale, secondo il mito, all’alba di ogni anno nasce proprio da un loto che sboccia dall’abisso del Nun (una sorta di «brodo primordiale» che gli Egiziani ritenevano all’origine della vita). Egli è infatti detto «il bel loto d’oro al mattino». Probabilmente la processione che si teneva in occasione della festa del Nuovo Anno aveva inizio proprio da queste cripte e, dunque, le rappresentazioni a rilievo sulle pareti dovevano essere pensate per accompagnare il mito celebrato.

svolgere un altro ruolo, contemporaneamente funzionale e simbolico: offrire protezione alla barca sacra o alla statua di culto, che costituiva l’immagine vivente del dio. Tali chioschi non sono diffusi soltanto in Egitto ma, anzi, nei maggiori centri di culto della Nubia (Jebel Barkal, Meroe, Naga e Kawa) se ne hanno vari esempi, che combinano elementi tipici della tradizione egiziana con le influenze dell’architettura romana, realizzando originali forme locali. Quello di Traiano a File segna, probabilmente, il picco massimo nello sviluppo di questa tipologia architettonica. Accanto al tempio di Iside, sorgevaa r c h e o 81


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no anche un tempio e una cappella In alto: ricostruzione virtuale di uno degli ambienti. del tempio di File. dedicati a due divinità nubiane, ri- In basso: il primo Pilone del tempio di Iside a File, iniziato durante il regno del spettivamente Arensnuphis, adorato faraone Nectanebo I (XXX dinastia) e ricostruito sull’isola di Agilkia. in qualità di compagno della dea, e Mandulis, venerato dagli abitanti del deserto orientale. I Tolomei integrarono sapientemente i culti di queste divinità provenienti dal sud, da un lato con il culto di Iside, la cui predominanza era parte di una strategia politica motivata dal suo ruolo di legittimatrice del potere regale, dall’altro con il culto dinastico.

IL CULTO DINASTICO Tra le maggiori innovazioni introdotte dai Tolomei rientra quella del culto dinastico: tutti i membri della famiglia regnante diventano «divinità associate» (in Greco: synnaoi theoi), dunque il sovrano reca offer82 a r c h e o


te di incenso e libagioni quotidiane A destra: uno dei non solo al dio principale del temcapitelli del pio, ma anche ai propri antenati, portico di enumerati sulle pareti. Augusto di File, L’ascendenza divina del sovrano rericostruito gnante ha una lunga tradizione in anch’esso Egitto, e lo stesso Alessandro Magno sull’isola di era ritenuto figlio di Amon: dopo Agilkia. essere stato accolto come «figlio di In basso: il Zeus», Alessandro entra nel tempio chiosco di dell’oracolo di Amon nell’oasi di Traiano. Attribuito Siwa, regione al limite col deserto all’imperatore libico, e qui riceve dalla stessa divi- sulla base di due nità l’autorizzazione a governare rilievi che lo sull’Egitto come faraone. raffigurano I Tolomei integrarono questa vicen- nell’atto di recare da nella loro mescolanza tra ele- offerte sacrificali menti indigeni egiziani e la propria alla dea Iside, il specifica ideologia reale. Il culto di monumento, in Alessandro fu sostenuto da Tolomeo verità, fu iniziato I nello sforzo di convalidare il pro- sotto l’imperatore prio dominio sull’Egitto e fu proAugusto. lungato sotto i successori. I nomi di culto dei re tolemaici divinizzati suonano tipicamente greci (Soter, Euergetes, Philadelphos), ma, nello stesso tempo, abbracciano i princípi insiti alla titolatura dei sovrani egiziani, permettendo alla popolazione nativa di riconoscere e accettare il culto regale. Un caso noto è quello di Arsinoe II, regina e sorella di To-


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lomeo II Filadelfo, che una volta morta fu assimilata a Iside e Afrodite, divenendo una delle dee piú popolari in Egitto e a Cipro. Il successo del culto del sovrano, sia per la legittimazione del potere monarchico che come mezzo di interazione tra il sovrano e la comunità, fu confermato dalla sua prosecuzione in età romana: Cesare ricevette onori divini ad Alessandria e Marco Antonio venne assimilato a Dioniso ed Eracle. Sulle mura dei grandi templi di epoca romana l’imperatore continuerà a essere rappresentato come mediatore tra uomini e dèi e il suo compleanno diverrà occasione di processioni e feste pubbliche. Parallelamente, però, il sovrano perde una sua chiara identità storica e sarà sempre piú spesso individuato non dal proprio nome, bensí dal generico titolo per-aa, termine egiziano per «faraone», mentre i sacerdoti confermano e rafforzano sempre piú il proprio ruolo di interpreti del culto.

UN DUPLICE RAPPORTO Già dalla fine del Nuovo Regno aveva iniziato a manifestarsi una duplice modalità di accesso al divino, che si fece sempre piú evidente durante il I millennio: da una parte un approccio esoterico, legato a culti misterici che si svolgevano in aree chiuse e inaccessibili del tempio; dall’altra un approccio piú «pubblico», che si realizzava nelle aree piú esterne dello spazio sacro. Un esempio di questo secondo atteggiamento è offerto dai graffiti lasciati dai fedeli sulle pareti esterne dei templi, a testimonianza della volontà di partecipazione del singolo alla religiosità: essi si collocano spesso presso il portale o nel cortile esterno del tempio, gli ambienti di passaggio tra il mondo divino e il mondo esterno, dove tradizionalmente il dio si manifesta ai fedeli durante le processioni. Le porte sono anche lo spazio in cui si amministra la giustizia e si difen84 a r c h e o

Rilievo della facciata meridionale del tempio di Hathor a Dendera raffigurante, a sinistra, Cleopatra e suo figlio Tolomeo XV (Cesarione) che fanno offerte agli dèi.

dono i deboli; il portale del tempio di Edfu, per esempio, viene definito letteralmente come «il luogo in cui si ascoltano le denunce di tutti coloro che si lamentano, per poter distinguere la giustizia dall’ingiustizia», come ben rimarcato dall’egittologo francese Serge Sauneron (La justice à la porte des temples, 1954). In alcuni graffiti i fedeli si avvalgono di speciali intermediari, personaggi storici, talora divinizzati, che mediano tra uomini e divinità: è il caso di Imhotep, l’architetto di Djoser (III dinastia, 2700 a.C. circa), abile costruttore della prima piramide, che in età greco-romana è ormai una leggenda. Sul pronao del Tempio di Dendera, Imhotep viene infatti evocato in un inno graffito come intermediario e guaritore, probabilmente in connessione con l’area del sanatorium che sorgeva a ovest del tempio di Hathor: si tratta di uno spazio ben definito, al quale i fedeli potevano accedere e dove era loro consentito dedicarsi a pratiche curative tramite l’immersione e la detersione in acque sacre o tramite incubazione, cioè dormire nella struttura sacra per ricevere rivelazioni in sogno. Parallelamente al culto ufficiale del tempio si sviluppavano le cosiddette «corporazioni» (in demotico snt, in greco synodos), cioè associazioni religiose i cui membri pagavano quote regolari e partecipavano a riunioni cadenzate, durante le quali si consumavano bevande e si offrivano tributi alla divinità. I titoli degli officianti sono spesso simili a quelli dei sacerdoti del culto principale, quali «il profeta di Osiride» o «il profeta di Horus», ma anche ruoli piú gerarchici, come «il capo-truppa»; nella documentazione papiracea si riscontrano anche

titoli femminili riferibili a corporazioni religiose gestite da donne: «la Grande di Bastet», «la Grande di Hathor», «la profetessa» e cosí via. L’accesso limitato della popolazione ai grandi templi può essere stata anche una delle cause di diffusione di piccoli santuari «aperti», costituiti da uno o due ambienti e costruiti in gran parte con mattoni di fango. Di questa categoria di tempietti minori facevano parte i numerosi isei (santuari di Iside) nelle aree rurali, cosí come i serapei (santuari di Serapide) diffusi all’estero. In questi contesti il faraone non è necessario come intermediario tra dèi e uomini, poiché è sufficiente una gestione familiare, che genera un rapporto piú diretto e personale del fedele con la divinità. Potrebbe


essere questa una concausa alla dif- egli è dio dinastico del re, mentre fusione di una religione «senza Iside resta associata alla regina e il figlio Harpokrates (trasposizione templi» nel IV secolo d.C. greca dell’egiziano Her-pa-kheredj, letteralmente «Horus il fanciullo») LA FINE DI UN’ERA Gli effetti dell’acculturazione reci- sostituisce o integra Horus. La leproca, derivanti dall’influenza gre- gittimazione del sovrano straniero co-romana in terra egiziana, dettero e della famiglia regnante è dunque vita a nuove forme divine: un esem- compiuta nella sua interezza attrapio piuttosto noto è quello di Sera- verso l’identificazione con la nuopide, combinazione tra Osiride e il va, ma pur sempre legata alla traditoro Apis di Menfi. Serapide assume zione, famiglia divina. il ruolo di Osiride come signore Si tratta di un programma politico dell’aldilà e viene dunque identifi- ben chiaro della dinastia tolemaica, cato talvolta con Ade/Plutone, talal- che vuole conservare le tradizionatra con Dioniso, dio ctonio. Essendo li istituzioni ideologiche egiziane poi Osiride legato al Nilo, anche per garantirsene il controllo. TuttaSerapide diviene responsabile della via, la presenza straniera diventa piena del fiume e quindi della ri- gradualmente sempre piú riconogenerazione annuale della vegeta- scibile, nell’architettura come nella zione; piú di ogni altra cosa, però, lingua: a Luxor viene inaugurato

un tempio a Serapide per il compleanno dell’imperatore Adriano (126 d.C.), mentre iscrizioni miste, greche e geroglifiche, compaiono sugli architravi della cappella di Iside a Dendera e delle porte di File e Kom Ombo. A ciò si unisce l’ampia diffusione nei principali templi di decreti trilingui, in greco, demotico e geroglifico, tra i quali si annovera la famosa Stele di Rosetta che consentí a Jean-François Champollion, nel 1822, la decifrazione dell’egiziano antico. Pur custodendo la tradizione locale, infatti, i membri della classe sacerdotale non disdegnavano la cultura ellenistica, anzi conservavano e tramandavano papiri greci contenenti opere letterarie (anche frammenti omerici!), mediche e a r c h e o 85


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LO ZODIACO DI DENDERA piena del Nilo; il Drago come un ippopotamo. Ad alcuni segni zodiacali si associano i pianeti, con nomi tipicamente egizi: Marte è «Horus il rosso» e si collega al Capricorno; Giove è «Horus che svela il mistero» e si lega al Cancro; Venere è «il dio del mattino», connesso all’Acquario. Datato al 50 a.C., l’intero complesso decorativo è una magnifica testimonianza risultante dalle contaminazioni tra saperi diversi, con teorie astronomiche e astrologiche di derivazione greca nel già ricco sostrato culturale e ideologico egiziano.

La tematica dello zodiaco come decorazione astronomica dei templi egiziani è una caratteristica delle epoche ellenistica e romana. Il piú antico attestato è quello del tempio di Khnum a Esna, costruito al tempo dei Tolomei III e V (200 a.C. circa): oggi è scomparso e ne abbiamo testimonianza solo grazie ai disegni della Description de l’Égypte, una serie di volumi (1808-1829) frutto delle campagne napoleoniche. Il piú noto è, invece, lo zodiaco circolare di Dendera, conservato al Museo del Louvre dal 1821 (su concessione di Mohamed Ali Pasha alla Francia), ma rinvenuto sul tetto del tempio di Hathor e, in particolare, sul soffitto di una delle due cappelle dedicate a Osiride.

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Si tratta di un bassorilievo in arenaria di forma circolare, dal diametro di circa due metri e mezzo, che rappresenta la volta del cielo come un disco sostenuto da quattro divinità femminili dei punti cardinali e sei maschili a testa di falco. Attorno al cerchio, i trentasei decani (spiriti) egizi simboleggiano i 360 giorni del calendario egiziano; all’interno del cerchio sono invece rappresentate le dodici costellazioni dello zodiaco: alcune come Ariete, Pesci, Toro, Leone, Scorpione e Capricorno sono ben riconoscibili, mentre altre hanno caratteristiche specificatamente locali: la nostra Orsa Maggiore, per esempio, è raffigurata come una zampa di toro; l’Acquario come Hapy, dio della


finanche astrologiche. Il famoso soffitto astrologico del tempio di Dendera rappresenta in effetti uno zodiaco greco in stile egiziano (vedi box in queste pagine). I Romani ostentarono grande interesse nei confronti della cultura egiziana, e lo dimostra anche la dislocazione di statue e obelischi dall’Egitto nella capitale dell’impero. Oggi a Roma svettano ancora nove obelischi iscritti importati direttamente dalla terra del Nilo, piú una copia romana (quello di Trinità dei Monti). I primi due secoli di dominio romano in Egitto, pur tenendo sotto controllo amministrativo i grandi templi, non ne abolirono totalmente i privilegi: i sacerdoti erano infatti ben pagati ed esenti da alcune Nella pagina accanto, in alto: lo zodiaco raffigurato sul soffitto del tempio di Hathor a Dendera in un disegno di Edouard Devilliers e Jean-Baptiste Prosper Jollois. 1826. In alto e a sinistra: due particolari della rappresentazione originale dello zodiaco.

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tassazioni, molti di loro divennero ricchi proprietari fondiari, altri membri dell’élite di lingua greca. Si suppone, quindi, che il declino dei culti tradizionali sia stato causato piú da un cambiamento che avveniva dal basso, tra la popolazione, che non da un’interferenza proveniente dall’alto, cioè dall’impero. La religione faraonica, evidentemente, non era piú sufficiente a soddisfare le necessità e le esigenze di culto della nuova popolazione mista dell’Egitto romano: le grandi divinità del passato vennero gradualmente sostituite da nuovi dèi, le iscrizioni dedicatorie nei templi scomparvero all’inizio del III secolo, cosí come le attività sacerdotali fino a quel momento documentate dai papiri. Il punto di arrivo di questo lento ma inevitabile processo fu infine l’avvento del cristianesimo, con un

testo sacro unico per tutto l’impero e un dio unico che sostituí per sempre gli dèi del politeismo vicinoorientale, greco e romano. Nel 378 d.C. l’imperatore Teodosio fece chiudere con il suo editto i templi «pagani», gli antichi e maestosi santuari si trasformarono pian piano in cave per il recupero dell’arenaria e del calcare, spesso furono sostituti da basiliche e cappelle cristiane, prima, e da moschee, poi. L’ultimo baluardo della tradizione faraonica è File, che resistette sino al 550 d.C. e continuò a custodire le ultime iscrizioni geroglifiche a noi note. L’ultima epigrafe risale al 24 agosto del 394 d.C.: dopo quella data il sistema geroglifico non fu piú impiegato e la capacità di interpretarlo rimase smarrita fino alla decifrazione di Champollion avvenuta ben due

Il portale del tempio Edfu, luogo nel quale si amministrava la giustizia e si dava ascolto alle «denunce di tutti coloro che si lamentano».

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millenni piú tardi. Curioso caso è che il testo della Stele di Rosetta, rinvenuta nell’omonima cittadina del Delta, abbia proprio a File un suo corrispettivo, inciso su una parete del mammisi e poi obliterato da iscrizioni piú tarde. NELLA PROSSIMA PUNTATA • Lettere per gli dèi degli Etruschi

PER SAPERNE DI PIÚ Emanuele Marcello Ciampini, L’accesso al tempio nel I millennio tra linguaggio monumentale e modelli popolari, in Aegyptus 85, No. 1/2, La pratica della religione nell’antico Egitto: Atti del X Convegno Nazionale di Egittologia e Papirologia, Roma 2005, Vita e Pensiero, Milano; pp. 103-34. Marco Rolandi, Rapporti fra Stato e Templi nell’Egitto tolemaico: alcuni esempi, ibidem; pp. 249-267.



SPECIALE • SALAMINA

SALAMINA LA VITTORIA DIMENTICATA

In primo piano: Kynosoura (Cinossoura). Particolare del monumento in memoria dei Greci caduti a Salamina.


NEL V SECOLO A.C. L’IMPERO PERSIANO DÀ LIBERO SFOGO ALLE PROPRIE MIRE ESPANSIONISTICHE, DECIDENDO DI RISOLVERE, UNA VOLTA PER TUTTE, LA «QUESTIONE GRECA». NEL 480 A.C., ALLE TERMOPILI, LA FORMIDABILE ARMATA COMANDATA DA SERSE SCONFIGGE L’ESIGUO ESERCITO CAPEGGIATO DA LEONIDA, RE DI SPARTA. QUALCHE SETTIMANA DOPO, PERÒ, QUEGLI STESSI VINCITORI SUBISCONO UNA CLAMOROSA SCONFITTA NELLE ACQUE DI SALAMINA. E ATENE, LA GRECIA, FORSE L’INTERO OCCIDENTE SONO SALVI… di Fabrizio Polacco Sulle due pagine: la baia di Salamina, teatro della battaglia. In primo piano, l’isolotto di Aghios Georghios, oggi unito all’isola, e, sullo sfondo, il monte Egialeo, con Perama.

S

trana sorte, quella di Salamina. Il suo nome campeggia improvviso nei libri di storia – quella poca storia, improvvidamente mescolata alla geografia, che ancora si studia nelle scuole superiori – quando arriva il momento di citare una delle battaglie piú importanti dell’antichità: uno scontro che determinò il corso della seconda guerra greco-persiana all’inizio dell’autunno del 480 a.C., con la catastrofica sconfitta inflitta alla flotta del Gran Re Serse dalle forze navali riunite delle poleis greche. Salamina viene a malapena definita un’isola, in certi casi un’isoletta, presso le coste dell’Attica, e poi sparisce dai radar anche della maggior parte di coloro che intraprendono gli studi classici al liceo e perfino, in molti casi, all’università. Inspiegabilmente, poi, una guida turistica tra le piú diffuse al mondo – dedicata alle Isole della Grecia – omette perfino di citarla, e lo «sgarbo» è ripetuto in altre pubblicazioni dello stesso genere. L’idea che se ne ricava, stando cosí le cose, è che quella che per lunghi secoli i Greci hanno chiamato «Kouloura» («Ciambella»), sia poco piú di uno scoglio, presso il quale casualmente si trovarono a confliggere le navi

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SPECIALE • SALAMINA

dei due contendenti. Ma questo trattamento è del tutto ingiustificato. Come dimensioni, innanzitutto, rispetto alle altre isole della Grecia Salamina non è affatto tra le piú piccole. Possiede 104 km lineari di coste, ed è grande poco piú di Mykonos e Santorini, due celebrità dell’Egeo turistico e vacanziero. Ma la vera sorpresa è il numero degli abitanti, che la rende tra tutte quella piú densamente abitata. Una popolazione che nei mesi estivi esplode, arrivando a sfiorare i 300 000 abitanti.

UNA SFORTUNATA COINCIDENZA Perché, dunque, questa rimozione? La ricorrenza dei 2500 anni dalla celebre battaglia avrebbe potuto significare anche un rilancio della conoscenza dell’isola presso il grande pubblico, ma, purtroppo, l’anniversario è caduto proprio nell’anno dell’insorgenza della pandemia provocata dal Sars-CoV-2. E cosí,

QUANDO 10 + 10 FA... 19! Calcolare quanti anni intercorrano tra due date è molto semplice quando il loro anno è collocato per entrambe prima, o per entrambe dopo Cristo. Ovviamente, anche quando le date che ci interessano sono collocate l’una avanti, l’altra dopo Cristo, bisogna fare una somma tra due cifre, per individuare un anniversario a cifra tonda. Se volessimo calcolare la ricorrenza del duemilacinquecentesimo anniversario delle battaglie delle Termopili e di Salamina, entrambe avvenute nel 480 a.C., ci verrebbe perciò spontaneo calcolare 480 a.C. + 2020 d.C. = 2500, e fissarla cosí nel 2020 d.C. Ma sbaglieremmo. In questo caso occorre infatti tenere conto di un fattore di disturbo, e cioè che nel passaggio tra la serie degli anni che precedono e quelli che seguono la nascita di Cristo, la numerazione non mantiene sempre lo stesso ordine, che, infatti, si inverte a cavallo delle due serie. Gli anni a.C. procedono infatti in ordine decrescente (480, 479, 478 a.C. e cosí via), mentre quelli della nostra si enumerano in modo crescente (2019, 2020, 2021, ecc.). Stando cosí le cose, si crea però un vuoto di calcolo proprio tra le due ere. Poiché infatti tra di esse non è stato mai collocato l’anno 0 (sfido chiunque a trovare un evento storico verificatosi in quella data…), ne consegue che tra l’anno 1 a.C. e l’anno 1 d.C. intercorre un anno solo, non due, perché, appunto, non vi è un anno 0 tra i due. Allo stesso modo, tra il 10 a.C. e il 10 d.C. gli anni intercorsi saranno 19, non 20. Per arrivare ai 20, bisogna aggiungere l’unità mancante. E ciò vale per tutte le altre date a cavallo tra le due ere. Ecco perché, per le due celebri battaglie tra Greci e Persiani, il calcolo corretto andrebbe effettuato cosí: 480 a.C. + 2020 d.C. + 1 = 2021 d.C. A sinistra: particolare dell’interno di una coppa attica con la rappresentazione di un arciere persiano. Attribuita al pittore Oltos, 530-520 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, in basso: il rostro in bronzo di una trireme greca rinvenuto nelle acque di Salamina. Atene, Museo Archeologico del Pireo. L’utilizzo delle triremi contribuí in maniera decisiva alla vittoria ottenuta dall’alleanza delle poleis elleniche che presero parte allo scontro.

LE TERMOPILI «MARINE» DELL’ARTEMISIO «Il capo Artemisio in realtà non esiste, è tutta la zona in generale»: cosí, dopo una mezza giornata di infruttuose ricerche del luogo da cui prendeva il nome la prima battaglia navale tra Greci e Persiani (la «prova generale» di Salamina), mi ammoní la colta 92 a r c h e o

proprietaria della taverna sulla riva del mare in cui mi ero fermato a riprendere fiato ed energie. In effetti, m’ero illuso di trovare un promontorio roccioso, una sorta di spartiacque tra il mare Egeo aperto e il canale che poi va a incunearsi per due centinaia di chilometri tra

la terraferma greca e l’isola Eubea, sulla cui cuspide settentrionale mi stavo aggirando. In realtà, il Nord dell’isola, ricco di verde e panoramico, è arrotondato, e il cosiddetto capo Artemisio sarà stato semplicemente un punto rilevato che ha dato il nome alla


Mar Nero

Battaglie on Strryym

Impero persiano nel 493 a.C.

Ax ios

Stati vassalli della Persia nel 493 a.C.

Ne st os

Stati neutrali o filopersiani

Percorso della flotta persiana sotto Dati nel 490 a.C. Percorso della flotta persiana sotto Serse nel 480 a.C. Percorso dell’esercito persiano sotto Serse nel 480 a.C.

Potidea

Corfú

Larisa sa

Lemno

Ka Kasthanaia

Mar Egeo

Zacinto

A destra: la Grecia e l’Egeo al tempo della prima e della seconda guerra persiana.

Elide

E Elea

Eubea Eretria t

Tebe

Cefalonia

Atarneus

Lesbo

Artemision 480

Termopili 480

Leucade

A Ainos

A Abido Sigeo geo Troia A Antandro

M. Athos M

Ambracia Anaktorion

D Doriskos

Taso Samotracia a

Therme

Percorso della flotta sotto Mardonio nel 492 a.C. Percorso dell’esercito persiano sotto Dario nel 492 a.C.

Abde Abdera

Pella a

Stati in guerra con la Persia

Platea 479 Philious Argo

Salamina 480

A Atene

Chio

Caristo

Efeso

Maratona 490

Pireo P Pir ir i

Sardi

S o Samo

Paro

Sparta

Delo Nasso

Micale 479 Mileto Alicarnasso

Milo Rodi

Citera

Mar Mediterraneo

Creta

nonostante l’istituzione in Grecia di un apposito comitato, gli eventi celebrativi effettivamente realizzati sono stati necessariamente pochi e soprattutto destinati a una partecipazione piú che altro on line. S’impongono tuttavia due considerazioni. La prima è che, cosí come è avvenuto per eventi ben piú impegnativi come le Olimpiadi di Tokyo e i campionati europei di calcio, le celebrazioni avrebbero potuto essere rimandate a questo 2021, magari tenendo sempre impressa la data simbolica del 2020. Tra l’altro, come avevamo già avuto modo di sotto-

zona in quanto su di esso si trovava un famoso tempio di Artemide, non ancora esattamente identificato. Credo probabile che al santuario possano essere pertinenti i resti che ho visitato in un minuscolo villaggio della zona, ma forse sono stato suggestionato dallo

spettacolare panorama che si gode in quel punto. Molto piú plausibile, invece, è l’identificazione di una tondeggiante insenatura marina con il porto che avrebbe accolto i navigli greci, se non altro perché non ve ne sono altre di simili nei dintorni. È un dato di fatto, però,

che da qui mossero per la triplice battaglia dell’Artemisio i marinai, soprattutto ateniesi, di cui il poeta Pindaro, rievocando la resistenza gloriosa al nemico, disse che «avevano posto un luminoso fondamento alla libertà» dell’intera Grecia. a r c h e o 93


SPECIALE • SALAMINA

lineare in un precedente articolo (vedi «Archeo» n. 321, novembre 2011; anche on line su issuu.com), il vero 2500° anniversario del 480 a.C., da un punto di vista cronologico, è proprio il 2021: una singolarità che coinvolge tutti gli anni del passato ricadenti nell’era avanti Cristo (vedi box a p. 92). La seconda, a parere di chi scrive, è che anche gli altri Paesi europei avrebbero dovuto ricordare l’evento, poiché quelle vicende non hanno affatto una portata solo nazionale. Dal punto di vista storico, infatti, le guerre greco-persiane sono una sorta di Big Bang, capace di determinare l’affermarsi della civiltà europea, o di quella occidentale, oppure, se non vogliamo usare termini che ormai suonano limitanti, quella del mondo libero, ovunque esso sia oggi collocato: dalla Gran Bretagna al Giappone, dall’Australia alla Repubblica Sudafricana, dall’India al Canada.

LIBERI E UGUALI Questo perché, negli anni attorno al 480 a.C., la libertà politica era – come del resto rivela l’etimologia dell’aggettivo «politico» – una conquista esclusiva delle poleis elleniche, le prime entità statali in cui si ebbero

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cittadini (pochi o molti, questo adesso è secondario) eguali tra loro nell’esercizio dei diritti civili e nella partecipazione al governo della cosa pubblica. Ad Atene, la democrazia non aveva ancora trent’anni: e questo sistema di governo, per allora assolutamente innovativo, non sarebbe sopravvissuto, né si sarebbe diffuso se la città dell’Attica fosse stata spazzata via dalla storia, come era nelle intenzioni del Gran Re persiano Serse quando radunò l’immensa armata destinata a sottomettere la Grecia intera. Anche quella che chiamiamo «età classica», addirittura l’intero «mondo classico» stavano per muovere i primi passi. Basti pensare che ancora non si erano affacciati alla ribalta della storia personalità del calibro di Sofocle, Fidia, Erodoto, Euclide, Socrate, Ippocrate, Eratostene o Alessandro Magno. Perfino i Romani, che divennero qualche secolo dopo i padroni del Mediterraneo e di buona parte di tre continenti, sarebbero rimasti quel ferum victorem, quel «rozzo vincitore» che erano secondo Orazio prima d’essere «conquistati» dalla cultura ellenica. L’avvento di un mondo, del nostro mondo, sarebbe stato soffocato sul nascere.

Sparta. Veduta d’insieme e particolare del monumento che celebra le gesta di Leonida: la statua in bronzo che si staglia al centro del sacello è opera di Vasos Falireas. 1950.


RE SPARTANI, RE PERSIANI Portano lo stesso titolo di re, ma diversissimo era il senso del termine in una polis come Sparta e presso l’impero persiano. Serse era un vero autocrate, da lui dipendevano vita e morte di tutti i sudditi, compresi i suoi funzionari piú alti, i generali, i nobili che lo attorniavano. Tutti erano costretti a prostrarsi dinanzi a lui, non potevano rivolgergli direttamente la parola, ma dovevano passare per un intermediario: erano in pratica suoi «schiavi». Al Gran Re, o Re dei Re (cosí si faceva chiamare dopo aver assoggettato le altre monarchie avendone sconfitto i rispettivi sovrani), spettava ogni effettivo potere, ogni decisione ultima. Ovviamente si consultava con un gruppo di fedeli e capaci ufficiali e ministri, ma era egli stesso a selezionarli, cosí come i «satrapi», i capi delle province e nazioni sottomesse, che però non comandavano gli eserciti in esse dislocati. Dall’altro lato, gli Spartani a tal punto temevano la «monarchia» da averla trasformata sin dalle origini in «diarchia»: avevano quindi contemporaneamente due re, che regnavano in alternanza, con meno poteri, per esempio, dei due consoli romani, sebbene il titolo spettasse loro a vita e per diritto ereditario. Potevano inoltre essere destituiti e sostituiti con un altro membro delle loro casate regnanti dalla magistratura elettiva degli «efori» («ispettori», «sorveglianti») in caso di alto tradimento o indegnità, il che talvolta effettivamente avvenne. Il loro potere si esercitava soprattutto in campo militare, in quanto uno dei due era inviato a capo delle spedizioni piú importanti (tipo quella alle Termopili), mentre l’altro restava a proteggere la città. Da qui, anche il diverso comportamento dei due sovrani avversari, Serse e Leonida, alle Termopili. Il primo dirigeva e seguiva lo scontro a prudente distanza, mentre il secondo combatteva tra i suoi, tanto da arrivare a perdere eroicamente la vita nel corso della battaglia.

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Tutto ciò, naturalmente, col senno di poi. Ma anche questo senno, va detto, è nato proprio in occasione e in seguito alle guerre persiane: e per opera di un «padre della Storia» per metà greco e per metà asiatico, Erodoto di Alicarnasso: nella sua opera, frutto, per la prima volta, di ricerca critica sulle fonti, quindi della verità dei fatti (historie, in greco, vuol dire appunto ricerca), fu il primo a prendere coscienza del fatto che quelle guerre erano state epocali. Epocali, sí, e neppure perché avevano diviso due popoli: quanti Greci, volenti o nolenti, avevano combattuto dalla parte di Serse? E non perché avevano diviso due etnie: l’esercito radunato dai Persiani era un coacervo di genti che andavano dagli Iranici ai Fenici, dagli Indi ai Traci, dagli Etiopi ai Greci di Cipro. Ma neanche perché si confrontarono due religioni e divinità avverse: i Greci ne avevano molte, spesso e volentieri in conflitto tra loro, e i sacerdoti di Apollo a Delfi, il piú importante santuario della penisola ellenica, arrivarono quasi a sconsigliare di opporsi all’invasore. Altre, insomma, sono le ragioni per le quali possiamo definire epocale questo conflitto. Ma prima di scoprirle, vedia96 a r c h e o

mo in che modo si svolse la vicenda bellica, a cominciare da quel fatidico 480 a.C., e anche questo forse ci aiuterà a comprenderne i caratteri.

LE «PORTE CALDE» Iniziamo dalla prima delle due battaglie, che precedette l’altra di poco piú di un mese: quella delle Termopili. Queste ultime sono una delle porte della Grecia, come dice il nome (che significa «Porte calde» per via delle acque termali ancor oggi sgorganti nei pressi). Il Gran Re era a capo di uno Stato che già si estendeva su tre continenti, dall’Egitto all’Asia centrale, comprendendo tutto il Medio Oriente, e fino alla zona balcanica dell’Europa: tuttavia, affinché diventasse veramente universale, secondo un progetto espansionistico che i Persiani avevano ripreso da imperi piú antichi (l’accadico e l’assiro, per esempio), mancavano ormai pochi popoli e territori civilizzati: la Grecia, Cartagine, l’Etruria. Ma i Greci furono investiti per primi semplicemente perché si trovavano a contatto diretto con l’impero persiano: le poleis fondate sul suolo asiatico erano state già sottomesse da circa un cinquantennio, s’erano poi ribellate anche

In alto, a sinistra: una delle sorgenti di acque termali che sgorgano nei pressi delle Termopili, che dalla loro presenza hanno preso il nome di «Porte calde».


L’armatura di un guerriero greco raffigurata su una hydria (vaso per acqua) a figure rosse. 490-480 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

IL CANTO DEI GRECI E LA NASCITA DELLA TRAGEDIA Alle guerre persiane è dedicata quella che è probabilmente la piú antica opera teatrale tragica che possediamo, composta da Eschilo per gli spettatori ateniesi nel 472 a.C. e intitolata appunto I Persiani. Certo non fu la prima che il sommo poeta scrisse, ma il fatto che le altre non ci siano pervenute non è forse casuale: questa venne considerata forse la prima tragedia degna di essere conservata, la prima davvero memorabile. Non c’è cosa migliore da fare che riportarne un brano nella traduzione di Monica Centanni: «E quando il giorno, con i suoi cavalli splendenti, invase tutta la terra – splendida vista di luce – riecheggiò, dalla schiera dei Greci, un rimbombo prima, ecco sembrava un canto, una musica

sacra; e alta ne riprodusse la roccia dell’isola l’eco. Il terrore calò sui barbari, vacillava ora ogni certezza: no, non per la fuga intonavano i Greci quel sacro peana! Era un incitamento a lanciarsi in battaglia con un animo prode! Il suono di una tromba, e fu ovunque, là, un incendio di fuoco. Ecco il rumore dei remi che simultaneamente battono la profonda acqua del mare, a un solo comando; ecco tutti insieme appaiono, ora possiamo vederli! L’ala destra prima ben schierata avanzava alle testa della formazione e dietro tutto lo stuolo seguiva. E intanto un grido, alto, si udí: “Figli dell’Ellade, avanti! Liberate i vostri figli, le donne, i templi dei nostri dei, i sepolcri dei nostri antenati: qui, ora, tutto è in gioco!”».

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con l’aiuto di Atene (da qui l’astio vendicativo dei Re dei Re contro la piccola città-stato collocata al di là dell’Egeo), e poi ancora di nuovo sottomesse nel 494 a.C. Una prima spedizione punitiva era fallita: il padre di Serse, Dario, con l’aria di chi delega ad altri una noiosa e sbrigativa incombenza, aveva mandato i suoi ammiragli Dati e Artaferne a distruggere Atene nel 490 a.C.: ma le cose non erano andate come previsto. Alcuni storici hanno paragonato la sconfitta inflitta a Maratona dagli Ateniesi a una puntura di spillo, per lo sterminato impero. E tuttavia una puntura che doleva. Tanto doleva, che Serse decise di sistemare i conti con i Greci – i quali, contrariamente ad altri popoli già sottomessi, si stavano dimostrando riottosi, intraprendenti e irrequieti – e questa volta in modo definitivo. L’esercito era immenso (sebbene non fossero gli oltre 5 milioni e passa di uomini indicati da Erodoto, si trattava quanto meno di trequattrocentomila armati, tra fanti e cavalieri), la flotta raccolta altrettanto imponente, poiché si parla di oltre 1200 navi da guerra, piú innumerevoli altre di servizio. Ecco perché la colossale armata incontrò il primo, serio intoppo alle Termopili, che erano «porte», sí, ma strette. Troppo strette. Il piano elaborato dalla coalizione di Greci che s’era riunita attorno a Sparta e Atene era conseguente: profittando dell’aspra e frasta-

M. Egialeo

Baia di Eleusi

Attica Korydallos

Paloukia Aghios

Perama

Gheorgios

Cinossoura

Isola di Salamina

Psittalea

Ioni

Golfo Saronico

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i

c Feni

gliata conformazione del suolo ellenico, si doveva impedire a ogni costo che gli invasori giungessero nel cuore della penisola. Il modo migliore era attestarsi in quelle strettoie naturali obbligate, da dove un insieme di forze decisamente minore rispetto a quelle dell’attaccante, radunate tra le varie poleis, avrebbe potuto difendersi senza temere d’essere soverchiato, né circondato.

UN MARE PIATTO E PALLIDO Ora, chi oggi visita le Termopili – quasi un pellegrinaggio per molti Greci e per i cultori stranieri della storia antica – stenterebbe a capire di esservi davvero arrivato. Non vi troverebbe alcuna strettoia, nessun passo obbligato, tanto meno quello descritto da Erodoto, che gli assegnava un’ampiezza d’una quindicina di metri.Vi è un monte boscoso e assai ripido da una parte, è vero, il Kallidromos (Callidromo); ma dall’altra, verso il mare piatto e dal lucore pallido che appare a distanza, si stende un’ampia estensione di campi coltivati, dove trovano spazio una strada statale, un’autostrada, un elettrodotto, una ferrovia, e due ampi parcheggi: il primo di fronte al monumento commemorativo moderno dedicato al re spartano Leonida e ai suoi Trecento, il secondo pertinente a un centro di informazioni storiche costruito piú di recente. Si può dire che nessun altro campo di battaglia della Grecia antica abbia subito una cosí radicale trasformazione rispetto ad allora. Per una volta, però, la colpa non è dell’uomo. La spiegazione ci viene suggerita proprio dal colore poco intenso, celestegrigio di quelle acque marine: nulla a che vedere con il blu scintillante dei mari della Grecia. Qui il fondale è bassissimo, quasi fangoso, ricoperto di acque piú simili a quelle di una laguna. Il «responsabile» della trasformazione è un fiume, lo Spercheo, che, sfociando da millenni nell’antico golfo Maliaco – quello dove la lunga e puntuta isola Eubea s’incunea nella terraferma proprio di fronte alle Termopili –, lo sta interrando con l’apporto dei suoi detriti alluvionali. In pratica, lo trasforma in una fertile pianura. Eppure qui una volta c’era davvero un passo cosí angusto che poche migliaia di uomini, raccolti dalle poleis alleate sotto la guida di uno dei due re spartani, Leonida, potevano ben sperare di bloccare il passaggio a un esercito tanto numericamente superiore

A sinistra, in basso: schema che riassume il momento cruciale dello scontro navale svoltosi nelle acque di Salamina, nel 480 a.C. Sebbene le forze di cui disponevano fossero in numero inferiore, i Greci (in verde) sconfissero la flotta persiana, perché con navi piú veloci ed efficienti di quelle nemiche poterono manovrare piú abilmente nello stretto braccio di mare fra l’isola e la costa dell’Attica. Nella pagina accanto: stele funeraria degli opliti Chairedemos e Lykeas, armati di lancia e scudo, da Salamina. 420 a.C. circa. Atene, Museo Archeologico del Pireo.


Assai piú addestrati dei soldati persiani, gli opliti furono una delle chiavi del successo greco

(vedi box a p. 95). Invece, non uno stretto altrettanto angusto, ma comunque un canale marino, era quello dove il disegno strategico dei Greci aveva mandato una flotta di circa 300 navi, le famose «triremi», a sbarrare in simultanea l’avanzata della ben piú numerosa flotta persiana. Quello che oggi si chiama «canale di Tricheri», prende il nome da un pittoresco paesino collocato in alto, sulle ultime propaggini dei monti della Tessaglia, regione settentrionale che precede le Termopili. Da lassú, ma soprattutto dalle pendici nelle immediate vicinanze, si gode una vista impareggiabile del teatro marittimo in cui si svolse una battaglia collegata e parallela a quella condotta da Leonida: la battaglia dell’Artemisio, il capo settentrionale dell’isola Eubea (vedi box alle pp. 92-93).

PRORE MINACCIOSE Le due battaglie, terrestre e navale, si combatterono negli stessi giorni, verso la metà di agosto del 480 a.C., con esiti diversi. La flotta greca, grazie anche al fatto che le navi persiane erano state provate e indebolite da alcune terribili tempeste marine prima di trovare rifugio in un porto capace di contenerle, affrontò il nemico per tre volte, in tre giorni consecutivi. Resistette al suo tentativo di accerchiamento disponendo le proprie navi a raggiera, le prore minacciosamente rivolte all’esterno, e ottenne in pratica un successo, perché i Persiani, per quanti sforzi facessero, non riuscirono a passare oltre (vedi box a p. 106). A questo punto, decisivo per la saldezza della linea del fronte sarebbe risultato l’esito dello scontro di terra alle Termopili. Cosí come aveva previsto Leonida, il combattere in quella strettoia si rivelò assai proficuo per i suoi Spartiati e per i contingenti forniti dalle poleis di altre regioni del Peloponneso e della Grecia centrale. Non piú di una piccola schiera di guerrieri alla volta, disposti su un numero limitato di file, trovava spazio per contendersi il passo. Veniva cosí meno d’un colpo la superiorità numerica dell’invasore, maggiore di circa cento volte rispetto alle quattro, forse cinque migliaia di guerrieri greci lí presenti. Ma l’altra circostanza decisiva, che avrebbe a r c h e o 99


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davvero potuto determinare il tracollo dell’impresa di Serse, fu che non si trattava di guerrieri qualsiasi, bensí di opliti. Interamente armati di ferro e bronzo, addestrati a una tecnica di combattimento condivisa poiché apKylix (coppa a due manici) a figure rosse del Pittore di Makron raffigurante alcuni guerrieri nell’atto di indossare le armature, uno dei quali si taglia i capelli. 480 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

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presa nei ginnasi delle varie città-stato durante l’efebia (periodo di addestramento che avveniva all’età di circa 20 anni), erano soprattutto cittadini soldati, pienamente consapevoli d’essere lí a fare da baluardo alle proprie picco-


le e amate patrie, ai propri campi, alle proprie dimore, ai propri cari. Dall’altro lato c’era un esercito immenso, sí, ma inviato a combattere per obbedienza alla volontà del Gran Re da uno stuolo di popoli eterogenei, che non condividevano né armamento, né tecnica militare, né spirito guerre-

sco, e, soprattutto, non erano motivati da alcun ideale, se non dal desiderio di dominio, che nei soldati semplici si traduceva in una promessa di saccheggio. Per due giorni l’andamento della battaglia fu tanto cruento quanto ripetitivo: gli assalitori avanzavano a ondate, e si schiantavano contro il muro uma-


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LA CIAMBELLA CHE SALVÒ LA GRECIA Salamina è a tal punto assimilabile a un verdeggiante quartiere periferico ateniese da essere trascurata dagli itinerari turistici, e possiede pochissimi alberghi. Qui prevalgono le seconde case, o anche le prime per chi abbia scelto di fare il pendolare con la città, godendosi però un mare che, inaspettatamente, è limpidissimo (al centro della «ciambella», costituita dalla particolare forma dell’isola, ho visto testuggini marine nuotare pacifiche attorno al molo del porticciolo di Aianteo). Giungervi è molto facile, anche se nessuno ha mai pensato (per fortuna) di costruirvi un ponte. È opportuno, prendendo un traghetto, disporre poi di un mezzo di locomozione, perché l’isola è abbastanza grande, ha una forma frastagliata e richiede tempo per visitarne i siti di interesse. A sinistra della punta di Cinossoura, per esempio, un piccolo molo in pietra, sicuramente antico, è semisommerso dal mare. Sulla costa all’interno della «ciambella», nel pittoresco capoluogo di Salamina, che porta familiarmente ancora il nome di Kouloura, un piccolo museo ben tenuto è una buona base di partenza per il tour archeologico dell’isola, e i custodi si prodigano nel fornire informazioni. Un luogo da non perdere, alto sul mare, è il sito miceneo di Kanakia, che alcuni ritengono sede della reggia di Aiace, il

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possente guerriero morto suicida a Troia, che non a caso Sofocle, nella omonima tragedia, farà invocare come «il figlio di Salamina…!». A Kolones, una grandiosa tomba cilindrica in pietra del IV secolo a.C. domina il golfo Saronico. È invece piú difficile entrare nella cosiddetta Grotta di Euripide, lí nelle vicinanze. Occorre salire per venti minuti circa su un sentiero in mezzo al verde, ma è raro trovarla aperta. Secondo la tradizione il tragediografo, nato in quest’isola proprio lo stesso giorno della battaglia, si ritirava quassú per comporre nella solitudine e nel silenzio i propri drammi musicali.


no dei pochi difensori, che però, una volta stanchi, potevano essere sostituiti da quelli delle retrovie. Un turn over provvidenziale, che rendeva possibile ai Greci una difesa a oltranza altrimenti impensabile. Solo nella notte seguente la sorte mutò di segno. Un abitante della zona, un greco di nome Efialte, rivelò al Gran Re l’esistenza, nei pressi del campo persiano, di un sentiero che saliva sul monte Callidromo, ne tagliava la costa al di sotto della vetta, e poi riscendeva a valle, dietro il passo delle Termopili. Cioè, alle spalle dei Greci. Era questo un elemento decisivo: assalire la falange anche alle spalle, in pratica circondarla, vanificava il piano di battaglia di Leonida. Le sorti si rovesciarono, sí, ma non per questo Sulle due pagine: isola di Salamina. La tomba circolare di Kolones ai tempi dell’anastilosi, recentemente completata. Nella pagina accanto, in alto: la baia interna della «Kouloura» («Ciambella»), come è anche chiamato l’odierno capoluogo di Salamina.

venne meno la resistenza dei Greci: con un gesto di lungimirante magnanimità, vista ormai persa la partita, il re spartano congedò le truppe degli alleati, raccomandando loro di sottrarsi all’accerchiamento finché erano in tempo, e di correre a rafforzare il nuovo fronte che, da qualche parte piú indietro, si sarebbe sicuramente ricomposto. Solo i trecento Spartani, ai quali per spirito di solidarietà ed eroismo si aggiunsero i settecento opliti della piccola città di Tespie, in Beozia, rimasero a combattere sino alla fine.

SOTTO UNA PIOGGIA DI FRECCE Una fine tragica, ma gloriosa: caduto Leonida e ormai presi tra due fuochi, i superstiti si addossarono a una collinetta alle pendici del monte, pronti a uccidere e a morire fino all’ultimo. Fu concesso loro di morire, nel senso che nessuno subí l’umiliazione della cattura; ma non piú di uccidere: per non subire ulteriori perdite, i nemici si limitarono a circondarli e a colpirli a distanza, con una pioggia di dardi e di giavellotti. Quegli stessi le cui punte ritrovate sul posto dagli archeologi campeggiano, tanto evocative quanto silenti, arrugginite ma sempre aguzze, nella vetrina di un museo ateniese. Oggi le Termopili sconcertano il visitatore


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perché quasi irriconoscibili, lo rendono pensoso di fronte al verde cupo dei boschi del Callidromo rivolti alle brume del settentrione, lo immelanconiscono perché la morte e la sconfitta, pur gloriose, sono sempre un po’ lugubri. Completamente diverso è l’effetto per chi vede la prima volta Salamina. È tanto vicina alla terraferma che dapprima, quando la si avvicina in auto lungo la costa, quasi non si distingue dalle alture dell’Attica che digradano a mare. Solo dopo essere arrivati alla piana di Eleusi – la sacra Eleusi dei Misteri –, si scorge di lato la prima delle baie tra la costa e l’isola che furono fatali ai Persiani, spesso ab104 a r c h e o

bagliante al sole del meridione, e che ancora oggi, come in quel giorno lontano della battaglia, pullula di navi d’ogni tipo: da carico, da guerra, da pesca, perfino petroliere. Niente paesaggi mesti e solitari, qui, perché l’isola è un pittoresco, verdissimo, gradevole borgo marino di Atene, metropoli tentacolare che raccoglie in sé quasi la metà dell’intera popolazione greca. Forse per questo suo essere considerata «periferia urbana» è stata ignorata da piú di una guida turistica (vedi box a p. 102). Come ai tempi della battaglia, vi si può arrivare solo via mare: è un tragitto breve, che però vale la pena di compiere, perché

Sulle due pagine: Kanakia, Salamina. I resti dell’acropoli micenea che alcuni identificano con la reggia di Aiace, l’eroe che morí suicida a Troia.


A destra: il cortile del Museo Archeologico di Salamina.

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TRIREMI E TATTICHE NAVALI Inventata probabilmente dai Corinzi nel VII secolo a.C., la trireme fu una macchina bellica rivoluzionaria. In precedenza le battaglie sul mare erano combattute tra distaccamenti di soldati armati di frecce e lance imbarcati sul ponte delle navi, come la famosa pentecontore, tra due file di vogatori; giunti a contatto tra loro cercavano di sopraffare gli avversari con l’arrembaggio o colpendoli da lontano: qualcosa di non molto diverso da uno scontro terrestre, collocato però come su pontili galleggianti. La trireme implicava invece una tattica diversa di combattimento, finalizzata all’affondamento del naviglio avversario, ottenuto lanciandosi a tutta forza con la prua, armata di un possente sperone bronzeo, contro la chiglia nemica. Il problema era che, per ottenere questo risultato, occorrevano una velocità e una forza d’urto ben maggiori del consueto, e

passa in rassegna tutti i punti chiave dello scontro. La prima che si avvista, venendo dal Pireo, è l’isoletta di Psittalea, dove una schiera di opliti accolse, facendone strage, i naufraghi nemici che vi cercavano scampo. Segue poi il promontorio puntuto di Cinossoura, al riparo del quale molto probabilmente era ancorato il grosso della flotta greca, costituita prevalentemente da navi ateniesi, di Egina e di Corinto, al comando dell’ammiraglio spartano Euribiade. Entrando nel porto attuale di Paloukia, invece, si lascia a destra l’isoletta di Aghios Georghios, ora unita con un molo a Salamina, oltre 106 a r c h e o

fu questo a essere risolto dall’inventore della trireme. Anziché una singola fila di rematori per parte, la trireme si chiama cosí poiché ne conteneva ben tre. Il numero dei remi, e quindi la potenza e la velocità complessive, venivano cosí a triplicarsi. La trovata fu quella di inserire la prima fila di vogatori in basso, poco sopra il livello del mare entro la chiglia, con i remi che fuoriuscivano da bocchettoni; la seconda era regolarmente alloggiata sul ponte, i remi negli scalmi. Per la terza venne creato un secondo ponte sopraelevato sopra le fiancate della nave, aggettante verso l’esterno, una sorta di mensola contenente i sedili per un altro ordine di rematori coi loro remi. In tutto, ben 170 marinai vogavano all’unisono, moltiplicando la potenza d’urto di un’imbarcazione appena piú pesante di quelle usate fino ad allora.

In alto: replica moderna di una trireme greca, battezzata Olympias, in navigazione nelle acque di Atene. A destra: i resti di un’antica struttura portuale, nell’antico porto di Salamina, baia di Ampelaki.


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la quale svettano le antenne radar, i cannoni, le torrette grigiastre della flotta militare ellenica: oggi, come duemilacinquecento anni fa, Salamina è una formidabile base navale. Tra l’altro, se si raggiunge con un piccolo tour via terra la punta del promontorio, si arriva a un bel monumento moderno che commemora i caduti nella battaglia. Qui, però, non c’è alcuna struttura di accoglienza per i visitatori, né mi è capitato di trovare corone o mazzi di fiori freschi, che invece non mancano mai al monumento dei Trecento.

IL TEATRO DELLA BATTAGLIA Strano destino dei luoghi. Per chi, dalla terra attica, raggiunge il sobborgo di Perama che si staglia lungo la pendice di un’altura vagamente piramidale proprio in faccia a Salamina (Perama infatti, significa «passaggio»), l’intero teatro della battaglia appare chiarissimo dall’alto, ed è sostanzialmente identico a quello di allora. Qui i Persiani, convinti di aver finalmente chiuso i Greci entro un tratto di mare da cui era impossibile fuggire, manovrarono ai remi tutta la notte, pronti ad aggredirli alle prime luci del mattino. Questa volta però, la sproporzione delle forze non era tale da impedire alla flotta ellenica di assumere l’iniziativa, sotto la guida del grande Temistocle.

In alto: un cartellone affisso nel porto del Pireo per ricordare il 2500° anniversario della vittoriosa battaglia di Salamina. Nella pagina accanto: il gruppo scultoreo realizzato da Achilleas Vasilleiou per il monumento in memoria dei combattenti greci caduti a Salamina, inaugurato nel 2006 sulla penisola di Kynosoura.

E furono i Greci ad avanzare per primi, a partire all’assalto con i vogatori che spingevano a tutta forza le triplici file di remi, gettando ben presto lo scompiglio nell’avversario che pensava di sorprenderli sulla difensiva, e invece se li trovava di fronte baldanzosi, agguerriti come non mai. Eschilo, che era allora nel pieno delle forze, e combatté a Salamina, descrive la scena nei suoi Persiani. Sotto il limpido sole già autunnale, gli equipaggi e gli opliti imbarcati cantarono all’unisono l’inno ad Apollo protettore e vendicatore, il peana (vedi box a p. 97). Quella di Salamina, nell’autunno di 2500 anni fa, fu per gli invasori una catastrofe. Si dice che Serse pianse, assistendo impotente dall’alto del suo trono eretto a Perama a quella disfatta generale. È probabile che sotto la baia, nei suoi fondali, giacciano ancora gli scheletri di centinaia di navi. Qui, come alle Termopili, l’esito fu solo apparentemente diverso, poiché in entrambi i casi la concordia, l’efficienza, l’esperienza e l’agguerrito spirito di libertà di piccole città-stato ebbe la meglio su un impero di dimensioni continentali, che aveva dalla sua parte solo il numero e la grandezza, ma la cui unità d’intenti era dovuta a null’altro che a un’uniforme oppressione. Una lezione, questa, da tener presente in ogni tempo. a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUANTI ILLUSTRI FIGLI DI SERPENTI! FRUTTO DI UN CONCEPIMENTO PRODIGIOSO, LA NASCITA DI ALESSANDRO CONOBBE NUMEROSI «TENTATIVI D’IMITAZIONE»...

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a fama di Alessandro Magno e le sue straordinarie imprese militari, in bilico tra realtà e mito, divennero subito dopo la sua morte – ma già in vita sapientemente suffragate dal sovrano stesso – un topos letterario di enorme fortuna, noto come imitatio Alexandri e al quale si rifecero condottieri e sovrani d’ogni tempo. La suggestione «alessandrina» non riguardò solo le vastissime conquiste, ma interessò anche la nascita del condottiero macedone, che si voleva frutto dell’incontro amoroso di Olimpiade con Zeus sotto forma di serpente, origine del quale lo stesso Alessandro andava fiero, ribadendola in piú occasioni, e forse essendone anche intimamente convinto. In età imperiale numerosi regnanti si ispirarono – in forma piú o meno esaltata – al Macedone, a partire da Augusto. Questi, nel 30 a.C., dopo la vittoria di Azio, si recò ad Alessandria d’Egitto per visitare la tomba di Alessandro e deporre una

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corona d’oro intrecciata di fiori sul corpo che riposava in un grande sarcofago; inoltre l’imperatore fece realizzare i sigilli con l’immagine di Alessandro per autenticare i suoi documenti ufficiali (Svetonio, II, 18 e 50).

età augustea. Il vaso mostra una raffinata composizione sacra con personaggi in un contesto idilliaco, tra cui una donna a busto nudo semisdraiata con un serpente a testa di drago in grembo, mentre si volta verso un uomo nudo di bellezza apollinea che esce da un tempio, tendendogli il braccio che egli prende con la mano. La scena è stata appunto interpretata come l’unione di Azia con il serpente, simbolo di Apollo come poi lo sarà di suo figlio Asclepio, con il dio che osserva e in certo senso partecipa all’unione mistica.

NEL CUORE DELLA NOTTE La profonda fascinazione esercitata da Alessandro su Augusto si riflette anche nella diffusione di una leggenda sui suoi natali, riguardante la madre Azia – nipote di Giulio Cesare e moglie di Gaio Ottavio – e il concepimento del futuro imperatore. Sempre nella vita dedicata ad Augusto (II, 94), Svetonio racconta infatti che nei libri delle Avventure divine di Asclepiade di Mende era scritto che «durante i sacrifici solenni per Apollo, Azia, nel bel mezzo della notte, si stese nel tempio e si addormentò, insieme alle altre matrone. Ad un tratto un serpente (draconem) strisciò fino a lei e subito se ne andò. Quando si svegliò, si purificò come se si levasse dopo gli abbracci del marito e subito apparve sul suo corpo una voglia a forma di serpente, della quale non riuscí piú a liberarsi, tanto che da quel momento in poi smise di andare ai bagni pubblici. Dieci mesi dopo nacque Augusto, che venne quindi considerato come il figlio di Apollo. Azia, prima di darlo alla luce, sognò che i suoi organi vitali erano innalzati fino alle stelle e distribuiti su tutta l’estensione della terra e del mare, mentre Ottavio (il marito) sognò che il sole sorgeva dal grembo di Azia». Augusto nacque il 23 settembre del 63 a.C., mentre la fecondazione – secondo quanto riportato dalla fonte di Svetonio – era avvenuta dieci mesi prima, nel tempio di

DIECI MESI D’ATTESA

In alto: aureo di Augusto, zecca di Tarraco (Spagna), 17-16 a.C. Al dritto, la testa di Augusto; al rovescio Capricorno con globo tra le zampe e cornucopia in alto. Nella pagina accanto: Vaso Portland in vetro cammeo. Età augustea. Londra, British Museum. Particolare del lato con una donna con serpente in grembo affiancata da altri personaggi. Apollo a Roma, quando la Luna si trovava in Capricorno: e questa è una delle spiegazioni fornite per motivare l’adozione di quel segno zodiacale sulla monetazione dell’imperatore. Tale racconto, che mirava a esaltare ulteriormente Augusto come figura semidivina, figlio adottivo del Divo Giulio, ma cosí anche figlio di Apollo, sua divinità protettrice, è stato da alcuni riconosciuto nella decorazione del magnifico Vaso Portland in vetro a cammeo bianco su sfondo blu, di

La tradizione del connubio fecondo con un serpente foriero di progenie d’eccezione che parte da Olimpiade/Alessandro e giunge ad Azia/Augusto riguarda anche un altro illustre condottiero di età repubblicana, Publio Cornelio Scipione, il vincitore di Annibale. Secondo Tito Livio, Scipione stesso dava adito e aveva anzi provveduto a diffondere ad arte, come già il Macedone, la leggenda della sua nascita, definita dallo storico «inconsistente e favolosa», scaturita dal ripetuto rapporto della madre Pomponia con un grande serpe che si snodava nel letto della sua camera e spariva quando giungeva qualcuno, facendo cosí di se stesso, novello Alessandro, il figlio di Giove (Ab urbe condita, XXVI, 19, 7). In età antonina Gellio (Notti attiche, 6, 1) ribadisce tale favola, precisando che Pomponia era sterile e dieci mesi dopo l’incontro con il rettile – la stessa lunga gestazione di Azia – partorí l’Africano, destinato anch’egli a imprese mirabolanti che provvidero ad accrescere in maniera esponenziale il predomino di Roma nel Mediterraneo.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Stefano Rocchi, Roberta Marchionni

OLTRE POMPEI Graffiti e altre iscrizioni oscene dall’impero romano d’Occidente prefazione di Antonio Varone, Deinotera Editrice, Roma, 150 pp., ill. b/n 16,00 euro ISBN 978-88-89951-29-3 www.deinoteraeditrice.com

I mezzi di comunicazione contemporanei e i social innanzi tutto hanno moltiplicato a dismisura i canali attraverso i quali lo sberleffo e l’insulto possono essere veicolati, ma già in età romana, pur non potendo contare su una simile «attrezzatura», la pratica era diffusissima. E questo libro ne offre un saggio davvero eloquente, attingendo allo sterminato patrimonio dei graffiti. Come scrive Antonio Varone nelle pagine introduttive e come poco piú avanti ribadiscono gli autori stessi, l’opera si presta a piani di lettura diversi ed è stata pensata sia 112 a r c h e o

per quanti desiderino soddisfare la curiosità nei confronti dell’argomento, sia per chi voglia farne uno strumento di studio, utile allo sviluppo di ulteriori approfondimenti. Cuore della trattazione è una selezione di 23 iscrizioni che ruotano intorno a quelle che sono, da sempre, vere e proprie ossessioni, vale a dire le funzioni sessuali ed escretorie del corpo umano: aspetti della nostra natura che nel tempo hanno generato in egual misura vergogna e desiderio di ostentazione, spesso cruda e violenta. E si potrebbe anche aggiungere che in questo bipolarismo poca o nulla è la differenza fra passato e presente. Tornando però alla materia del volume, i documenti scelti da Rocchi e Marchionni abbracciano un orizzonte cronologico molto ampio – dall’epoca delle guerre civili tardo-repubblicane al V secolo d.C. – e un ambito geografico che, come annuncia il titolo, va ben oltre la città di Pompei. Ogni iscrizione è corredata dalla sua riproduzione grafica e/o fotografica e, dopo la traduzione, viene ampiamente commentata dagli autori. È peraltro importante sottolineare come la raccolta sia molto piú di una schedatura, soprattutto grazie ai capitoli che la precedono e, in particolare, all’excursus nel quale gli autori si interrogano su cosa, in età romana,

fosse effettivamente considerato osceno. Si tratta dunque di un lavoro di grande interesse e non si può che concordare con l’auspicio che la sua pubblicazione sia presto seguita da una disamina ancora piú ampia e sistematica del fenomeno.

La trattazione – corredata da un ricco apparato iconografico – si sviluppa in ordine cronologico, grazie al contributo di piú autori, e si chiude con un utile atlante dei siti citati nel testo.

Giovanni Curatola (a cura di)

AA.VV.

IRAQ

SCAVA CON ARCHEOKIDS

L’arte dall’antica Mesopotamia all’Islam Editoriale Jaca Book, Milano, 280 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-16-60652-4 www.jacabook.org

Il manuale del giovane archeologo illustrazioni di Stefano Tognetti, Editoriale Scienza, Firenze-Trieste, 96 pp., ill. col. 14,90 euro ISBN 978-88-9393-101-4 www.editorialescienza.it

Torna in libreria questa pregevole sintesi sull’arte della regione mesopotamica, nella quale si sono succedute civiltà di primissimo piano nella storia dell’umanità e alle quali si devono testimonianze di straordinario valore, molte delle quali, occorre ricordarlo, sono oggi lontane dai loro luoghi d’origine e costituiscono uno dei vanti di raccolte come quelle del Louvre o del British Museum.

PER I PIÚ PICCOLI

Dosando con equilibrio il fascino della «caccia al tesoro» con il rigore metodologico che deve accompagnare l’indagine sul campo, il volume offre a tutti i piccoli aspiranti archeologi un prontuario su quale sia la strada da intraprendere per coronare il loro sogno. Ed è la riprova di come anche questioni complesse possano essere brillantemente divulgate. (a cura di Stefano Mammini)



presenta

DANTE UN DESTINO TRA AMORE E POLITICA di Chiara Mercuri

Nel settimo centenario della morte, sottolineare la statura di Dante in quanto poeta e letterato non smette d’essere un’operazione certamente lecita, se non doverosa. Tuttavia, esiste un «altro» Alighieri, la cui vicenda non è meno importante e si dipana nel panorama politico della Firenze e dell’Italia del Trecento: questo alter ego è dunque il protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo» e la sua parabola viene magistralmente ripercorsa da Chiara Mercuri, che ricostruisce, passo dopo passo, il percorso di un uomo rivelatosi ben presto «scomodo» e condannato a pagare un prezzo altissimo per la sua integrità morale.

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In filigrana, c’è naturalmente spazio anche per le grandi creazioni letterarie, culminate nella Divina Commedia, ma il filo conduttore è innanzi tutto legato alle turbolenze e alla sanguinosa divisione fra guelfi e ghibellini che condizionarono la vita di Dante, obbligandolo a dolorose rinunce e a vivere da esule per un ventennio. La sua storia, tracciata a partire dalle testimonianze di Dino Compagni, diviene lo specchio di una realtà piú ampia e si rivela in molti momenti sorprendentemente attuale. Perché, allora come oggi, essere «tutto d’un pezzo» poteva costare molto caro.




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