Archeo n. 441, Novembre 2021

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2021 MITREO DI MARINO NOCETO VIAGGIATORE ETRUSCO

VENEZIA

LETTERE AGLI DÈI SPECIALE CIVILTÀ DELL’ AFGHANISTAN

Mens. Anno XXXV n. 441 novembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

AFGHANISTAN INCHIESTA SU UNA CIVILTÀ MILLENARIA

UN ENIGMATICO VIAGGIATORE ETRUSCO CASTELLI ROMANI

TUTTI I COLORI DI MITRA XXI I I BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO IL PROGRAMMA COMPLETO

IL NUOVO MUSEO DI NOCETO ALLA SCOPERTA DI UNO SPETTACOLARE MONUMENTO DELL’ETÀ DEL BRONZO

www.archeo.it

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IN EDICOLA L’ 11 NOVEMBRE 2021

AF SP GH EC AN IAL IST E ww w. AN a rc he o

ARCHEO 441 NOVEMBRE

€ 5,90



EDITORIALE

LA VERSIONE DI VIKTOR Se non fosse stato per le vicende di politica internazionale della scorsa estate, culminate nel rocambolesco abbandono dall’Afghanistan da parte delle forze occidentali e nel ritorno del regime talebano, quel volume, dalla copertina leggermente sbiadita ma dal titolo risonante, sarebbe rimasto a invecchiare sullo scaffale della libreria, dimenticato e senza essere, forse, mai piú sfogliato. Ma la vita – anche quella dei libri – riserva sorprese continue: e cosí ho riletto Die Kunst des alten Afghanistan (L’arte dell’antico Afghanistan. Architettura, ceramica, sigilli, opere d’arte in pietra e metallo), traduzione tedesca, pubblicata a Lipsia nel 1986, di un manoscritto vergato in russo dall’archeologo Viktor Ivanovic Sarianidi, noto ai nostri lettori per le spettacolari ricerche svolte nel deserto del Karakum (nell’odierno Turkmenistan) e che hanno portato alla ribalta una cultura protostorica fino ad allora sconosciuta, definita come «complesso archeologico battrianomargiano» o «civiltà dell’Oxus» (vedi «Archeo» n. 376 giugno 2016; anche on line su issuu.com). Il libro di Sarianidi rappresenta, ancora oggi, una sintesi preziosa – anche se inevitabilmente parziale – delle scoperte emerse nel Paese centro-asiatico a partire dagli anni Venti del Diadema in oro, dalla tomba VI di Tillja Tepe scavata da Viktor Sarianidi. I sec. d.C. Kabul, Museo Nazionale.

secolo scorso. E, sin dalle prime righe, riporta l’attenzione del lettore su un aspetto che ha accompagnato quell’incredibile avventura archeologica: «Il destino della maggior parte degli oggetti descritti e raffigurati in questo volume – esordisce Sarianidi – è inusuale, e il libro non sarebbe potuto nascere nella forma presente se non si fossero verificati scavi clandestini in una quantità che non ha precedenti nel XX secolo, coinvolgendo svariate migliaia di tombe, con il risultato che nelle botteghe degli antiquari di Kabul apparirono reperti mai visti fino ad allora e antichi migliaia di anni». «Risultò evidente – prosegue Sarianidi – che nelle terre dell’antica Battriana, nell’Afghanistan settentrionale, negli anni tra il 1974 e il 1978 la locale popolazione contadina sfruttò la confusa situazione politica per intraprendere il vasto e sistematico saccheggio delle antiche sepolture»… Nello Speciale di questo numero vi proponiamo una sintesi di quella drammatica, eppure cosí straordinariamente affascinante, epopea archeologica. Con la speranza che «la confusa situazione politica» dei nostri giorni non ne segni la conclusione definitiva. Andreas M. Steiner


SOMMARIO EDITORIALE

La versione di Viktor

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di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCAVI Dalle indagini nel santuario nuragico di Cuccuru Mudeju, nel Sassarese, affiora il prezioso bronzetto di un guerriero 6 di Giampiero Galasso

Minucia Frumentaria, a Roma, restituisce una vivida testimonianza del sacco patito dalla città per mano dei Lanzichenecchi 18

MOSTRE

Il ritorno del giovane «viaggiatore» 52 di Daniele F. Maras

di Enrico Zanini

PAROLA D’ARCHEOLOGO Le splendide pitture del mitreo di Marino sono ora finalmente accessibili, in un allestimento che evoca l’antico culto del dio d’origine iranica 22 di Flavia Marimpietri

PASSEGGIATE NEL PArCo L’emozione della scoperta delle pitture della Domus Aurea, le celebri «grottesche», rivive grazie alla mostra allestita nelle sale della residenza neroniana 10

MUSEI

L’acqua, il legno, il rito

36

di Stefano Mammini

di Francesca Guarneri e Stefano Borghini

36

52 € 5,90

www.archeo.it

IN EDICOLA L’ 11 NOVEMBRE 2021

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ARCHEO 441 NOVEMBRE

AF SP GH EC AN IAL IST E AN he o.

A TUTTO CAMPO Lo scavo di un pozzo nero scoperto nei pressi della Porticus

Presidente

2021

Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

VENEZIA

AFGHANISTAN Mens. Anno XXXV n. 441 novembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE CIVILTÀ DELL’ AFGHANISTAN

Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it

LETTERE AGLI DÈI

Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it

Federico Curti

NOCETO VIAGGIATORE ETRUSCO

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it

MITREO DI MARINO

Anno XXXVII, n. 441 - novembre 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

In copertina in primo piano, l’immanicatura in oro e pietre dure di una daga trovata in una delle tombe reali di Tillja Tepe (Afghanistan) e, sullo sfondo, la valle di Bamiyan.

INCHIESTA SU UNA CIVILTÀ MILLENARIA

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UN ENIGMATICO VIAGGIATORE ETRUSCO

CASTELLI ROMANI

TUTTI I COLORI DI MITRA

XXI I I BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO IL PROGRAMMA COMPLETO

IL NUOVO MUSEO DI NOCETO ALLA SCOPERTA DI UNO SPETTACOLARE MONUMENTO DELL’ETÀ DEL BRONZO

28/10/21 20:01

Comitato Scientifico Internazionale

Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Stefano Borghini è funzionario architetto presso il Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Dario Daffara è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia Antica. Anna Filigenzi è professore associato di archeologia e storia dell’arte dell’India presso l’Università di Napoli «L’Orientale». Giampiero Galasso è giornalista. Francesca Guarneri è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale. Daniele F. Maras è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Enrico Zanini è professore ordinario di metodologia della ricerca scientifica all’Università degli Studi di Siena.


LUOGHI DEL SACRO/10 Lettere agli dèi degli Etruschi

64

di Daniele F. Maras

64 Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Quando Giunone prese la lancia

110

di Francesca Ceci

SPECIALE

110 LIBRI

80 Afghanistan Civiltà perduta

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80

di Anna Filigenzi, Andreas M. Steiner e Massimo Vidale

Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 54, 55 (alto), 56-57, 65 (basso), 70-71, 74 (basso), 75, 76-77, 83, 86-91, 92, 94, 96-99, 103, 104 (alto), 105 (sinistra), 106-107, 108, 109 (basso) – Manca Editoriale – Cortesia Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Sassari e Nuoro: pp. 6-8 – Parco archeologico del Colosseo: Dotdotdot/ Andrea Martiradonna: pp. 10, 11 (basso); ERCO illuminazione: p. 11 (alto) – CNRS: Mission archéologique franco-saoudienne du Camel Site/Hubert Raguet: pp. 12-13 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 14-15 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 16-17 – Cortesia degli autori: pp. 18, 20, 66 (basso), 67, 72-73, 74 (alto), 110-111 – Cortesia Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Roma la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale: pp. 22-24, 53, 55 (basso) – Stefano Mammini: pp. 36/37, 46/47, 49 (basso), 50 – Archivio Università degli Studi di Milano-Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna: pp. 38/39, 40-41 – Riccardo Merlo: pp. 39 (alto), 43 (alto) – Giorgio Arcari: p. 39 (basso) – da: Acqua e civiltà nelle terramare, Milano 2009: pp. 42, 43 (basso), 44-45, 48/49 – Museo Archeologico «La vasca votiva», Noceto (Parma): pp. 46 (alto); Vladimir Cojarschi: pp. 47, 49, 50 (alto) – Mondadori Portfolio: Album/Oronoz: p. 52; Stefan Meyers/ardea.com: pp. 80/81; Fine Art Images/Heritage-Images: p. 81; AKG Images: pp. 82/83, 95, 100 (alto), 101, 105 (destra), 109 (alto); Zumapress.com: pp. 104/105 – ACP-Palazzo Franchetti: pp. 58-59 – Mariapia Statile: p. 60 – Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma: pp. 64, 65 (alto) – Shutterstock: pp. 68/69 – Studio Inklink, Firenze: p. 78 – Alamy Stock Photo: pp. 92/93 – Bridgeman Images: p. 100 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 38, 66, 85. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534 Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano


n otiz iari o SCOPERTE Sardegna

IL GUERRIERO DEL TEMPIO ROTONDO

L

e recenti indagini sistematiche condotte nel complesso nuragico di Cuccuru Mudeju, nel comune di Nughedu San Nicolò (Sassari), hanno restituito un nucleo di manufatti in bronzo che ridefiniscono riti e religiosità delle comunità nuragiche tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro.

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Posto nella fertile valle attraversata dal Rio Iscias de Trigu, a ridosso del territorio del comune di Anela e quindi non lontano dalla necropoli di Sos Furrighesos, il sito doveva costituire, fin dalla preistoria, un luogo di passaggio strategico lungo una via di penetrazione naturale, frequentata soprattutto per l’accesso alle risorse minerarie della zona. L’intero territorio risulta infatti abitato a partire dalla fase finale del Neolitico, come prova la presenza di numerose sepolture del tipo a domus de janas (case delle fate) coperte, mentre in età nuragica vi sorse un santuario in cui viene attivato, con molta probabilità, un culto delle acque. Queste aree sacre erano funzionali ai culti, ma costituivano anche luoghi di incontro, socializzazione e commercio tra le genti che abitavano lungo le coste del Mediterraneo. Tra i reperti venuti alla luce, vi sono una testa di bovino scolpita a tutto tondo e un pendaglio a forma di «fiasca del pellegrino», un tipo di recipiente introdotto in Sardegna dai mercanti provenienti dalle coste del Vicino Oriente e

reinterpretato dalle genti sarde, anche in forma miniaturistica, e spesso donato come offerta votiva nei santuari. «In occasione delle indagini precedenti – spiega Nadia Canu, funzionario archeologo e direttore scientifico dello scavo – sono emerse varie strutture, tra cui una a pianta circolare realizzata con una raffinatissima tecnica di costruzione in conci di trachite e basalto fissati tra loro da perni in piombo: si tratta di una rotonda, un tipo di costruzione sacra meno nota e meno diffusa rispetto ai pozzi sacri, di cui si conservano pochi esempi sparsi nell’Isola e tutti in precario stato di conservazione. Nel corso dei lavori si è provveduto al restauro della struttura circolare e all’allargamento dell’area di scavo, per comprendere al meglio tutti gli elementi residui del santuario. Nonostante i lavori agricoli eseguiti con mezzi meccanici abbiano in parte sconvolto il sito e rasato le strutture murarie, i recenti scavi si sono concentrati in un settore in cui è stato messo in evidenza un muro perimetrale che delimita una serie di ambienti, tra cui uno provvisto di panchina lavorata su


In alto: i resti del complesso nuragico di Cuccuru Mudeju (Nughedu San Nicolò, Sassari) in corso di scavo. Le indagini hanno accertato che nel sito sorse un santuario adibito, con ogni probabilità, al culto delle acque.

Nella pagina accanto: il bronzetto raffigurante un guerriero subito dopo la sua scoperta e dopo la pulitura. Si tratta di uno dei rari casi in cui un manufatto di questo tipo è stato rinvenuto grazie a uno scavo regolare.

due lati e altri con lacerti di lastricato. Sono state rinvenute basi litiche per offerte votive, nelle quali si possono osservare i fori per l’infissione di spade o il posizionamento di ex voto in bronzo e vaghi di collana in pasta

vitrea. Pochi sono i reperti fittili, mentre cospicuo è il gruppo degli oggetti in bronzo, subito sottoposti a restauro, analisi e documentazione fotografica presso il Centro di Restauro della Soprintendenza, tra cui si segnalano

un frammento di spada votiva, un pugnale foliato con un ribattino, un codolo di pugnale frammentario, un anello di incerta definizione e un frammento figurato, che rappresenta la porzione di un arco con la relativa legatura. Tra tutti, spicca soprattutto un bronzo figurato integro, caso rarissimo di ritrovamento in scavo: rappresenta un guerriero vestito con corto gonnellino e con elmo cornuto, con lunghe trecce che si dipartono da sotto l’elmo nella

archeo 7


n otiz iario

parte posteriore del collo; reca sul petto un pugnale a elsa gammata (cosí chiamato perché l’impugnatura ricorda la lettera greca gamma, n.d.r.), attributo distintivo del raggiungimento dell’età adulta; con la mano sinistra regge uno stocco poggiato sulla spalla corrispondente, al quale, attraverso un cappio, è legato uno scudo circolare con umbone e

La «rotonda» individuata all’interno del santuario nuragico al termine dell’intervento di scavo.

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motivo a raggi; le gambe sono divaricate e poggiano su uno dei canali di fusione, che doveva essere anche utilizzato per l’infissione dell’offerta su una tavola votiva». Gli esiti della campagna di scavo e restauro condotta a Cuccuru Mudeju confermano l’importanza strategica del santuario e dimostrano gli ottimi risultati raggiunti grazie alla sinergia tra il

Comune e la Soprintendenza competente per la gestione e valorizzazione del patrimonio archeologico del sassarese. Lo scavo, finanziato con fondi regionali e comunali è stato condotto sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari e Nuoro. Giampiero Galasso



PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte

UN’IMPRESA DAVVERO «GROTTESCA» CINQUECENTO ANNI FA TORNAVANO ALLA LUCE LE PRIME PITTURE DELLA DOMUS AUREA E FRA GLI SCOPRITORI DI QUEL TESORO NASCOSTO VI FU ANCHE RAFFAELLO: UN’AVVENTURA OGGI RIEVOCATA DALLA MOSTRA ALLESTITA NELLA STESSA RESIDENZA NERONIANA SOTTO IL COLLE OPPIO

«F

atevi menare alle grottesche sotto terra e vedrete la grandezza degl’antichi, et non v’andate sanza buona compagnia»: cosí scrisse un anonimo visitatore cinquecentesco della Domus Aurea, nelle cui sale quelle emozioni rivivono grazie alla mostra «Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche». È un’occasione suggestiva per riscoprire la residenza che Nerone iniziò a costruire dopo l’incendio del 64 d.C., seguendo i passi degli artisti che, dalla fine del Quattrocento, si calarono nelle cavità del Colle Oppio per ammirare le antiche decorazioni pittoriche: pensarono di trovarsi di fronte agli affreschi delle Terme di Tito e stavano invece scoprendo le rovine dimenticate del palazzo neroniano. Dopo la morte dell’imperatore, infatti, la Domus Aurea venne spogliata dei rivestimenti in marmo e delle sculture e riempita di terra fino alle volte, cosí da poter essere utilizzata come sostruzione artificiale per allargare la platea delle Terme di Traiano (inaugurate nel 109 d.C.). Privata della luce e trasformata in un complesso

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sotterraneo, la Domus Aurea fu riscoperta proprio dagli artisti che scesero in quelle «grotte sotterranee» nella penombra delle torce, per copiarne i motivi decorativi che presero il nome di «grottesche», termine che appare a stampa per la prima volta nel 1496 e usato ancora oggi. Con «pittura a grottesche» si indica infatti un genere, diffuso soprattutto nel XVI secolo, che riprende i motivi della decorazione parietale romana attraverso la loro rielaborazione e reinterpretazione.

UNA FORTUNA DURATURA Fu però Raffaello, nel secondo decennio del Cinquecento, insieme al collaboratore Giovanni da Udine, a comprendere a fondo la logica di questi sistemi decorativi e a riproporli in modo organico, prima nella Stufetta del cardinal Bibbiena (1516) e poi nella Loggetta (15161517), sempre nell’appartamento del Bibbiena nel Palazzo Apostolico in Vaticano, precedente importante del ciclo di stucchi e affreschi all’antica realizzato nelle Logge vaticane (1517-1519). La secolare fortuna delle grottesche raggiunse anche alcuni dei massimi artisti

novecenteschi, come Paul Klee e Alexander Calder e, soprattutto, i principali esponenti del surrealismo, che, sedotti dall’«arte magica» delle grottesche, la riproposero in chiave onirica e freudiana. La meraviglia e lo stupore che hanno accompagnato gli artisti nella loro discesa nelle «grotte» tornano con nuova forza nella fruizione della mostra. I visitatori vengono infatti coinvolti in un evento espositivo unico nel suo genere, con straordinari apparati interattivi e multimediali, in un allestimento curato dallo studio milanese di Interaction e Exhibit


Design Dotdotdot. La mostra si sviluppa nella Sala Ottagona e nelle Sale di Achille a Sciro e di Ettore e Andromaca e racconta la storia della riscoperta della pittura antica sepolta nelle «grotte» dell’originaria Domus Aurea di Nerone, che, come detto, ha segnato e influenzato l’iconografia del Rinascimento e non solo. Al centro della Sala Ottagona è esposto l’Atlante Farnese, prestato dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli: le costellazioni presenti sul globo della statua vengono proiettate sulla volta della Sala con un effetto di rotazione, evocando l’atmosfera della coenatio rotunda, di cui parla Svetonio, e riproponendo la volontà dell’imperatore di meravigliare i suoi ospiti. Il racconto si snoda poi nelle sale radiali in un percorso multimediale, che alterna videomapping immersivi che ricostruiscono opere di Raffaello, animazioni e scenografie digitali che raccontano aneddoti sugli artisti del Cinquecento, arte generativa e morphing, archivi e collage digitali di elementi decorativi grotteschi e d’ispirazione surrealista. Si tratta di un’esperienza inedita e personale, in cui il visitatore, muovendosi, attiva le narrazioni e fruisce dei contenuti, arrivando in questo modo a una comprensione piú profonda del racconto in atto.

LUCE E ACQUA A intervalli di tempo regolari le videoproiezioni si spengono per mostrare l’architettura del complesso, alternando visivamente la notte e il giorno, con un soundscape che ricrea suoni legati alla natura e in particolare all’acqua, che, insieme alla luce, aveva un ruolo centrale nella Domus Aurea. L’acqua torna infatti in uno spettacolo virtuale all’interno del Ninfeo, dove è esposta una copia settecentesca del

In alto: l’illuminazione del Grande Criptoportico 92. A destra: l’Atlante Farnese (II sec. d.C.) esposto nella Sala Ottagona. Nella pagina accanto: calco in gesso del gruppo del Laocoonte.

Laocoonte, prestato dal Museo dei Gessi dell’Università degli Studi di Urbino «Carlo Bo». In concomitanza con l’inaugurazione della mostra «Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche» è stato aperto un nuovo ingresso, attraverso la Galleria III che permette al visitatore, attraverso una passerella pedonale progettata dallo Studio Boeri, di scendere direttamente nella Sala Ottagona, attraverso due tornanti che si snodano tra i resti di un impianto termale e di una cisterna. Anche il percorso di visita offre interessanti novità: la suggestiva illuminazione che alterna toni caldi e freddi a simulare la luce delle torce e la luce naturale; i pannelli didattici caratterizzati da un approccio innovativo e immediato; l’apertura alla fruizione di vani prima non accessibili (come, per esempio, il Corridoio delle Aquile) e l’allestimento di una esposizione

permanente di materiale proveniente dai depositi. La riapertura della Domus Aurea, il 23 giugno 2021 è stata quindi un’occasione importante per offrire al visitatore un nuovo e suggestivo itinerario per la conoscenza di un monumento unico al mondo, grandioso nella sua concezione, con un fascino derivante da un’architettura visionaria frutto dell’ingegno di Severus e Celer, architetti di Nerone. Francesca Guarneri e Stefano Borghini

DOVE E QUANDO «Raffaello e la Domus Aurea. L’invenzione delle grottesche» Roma, Domus Aurea fino al 31 marzo 2022 Info www.raffaellodomusaurea.it Note mostra a cura di Alfonsina Russo, Vincenzo Farinella, con Stefano Borghini e Alessandro D’Alessio

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n otiz iario

SCOPERTE Arabia Saudita

UNA CAROVANA DI OTTOMILA ANNI FA

I

n Arabia Saudita, 8 km a nord della città di Sakaka, nel settentrione del Paese, alcuni abitanti del posto segnalarono a un’équipe franco-saudita la presenza di rocce scolpite, con figure di animali. Le successive ricognizioni accertarono l’effettiva esistenza di un giacimento d’arte rupestre, ribattezzato Camel Site, poiché nella pietra di tre speroni rocciosi erano state appunto tracciate le sagome di una dozzina di dromedari, a grandezza naturale. Inizialmente, basandosi sul confronto con le analoghe rappresentazioni presenti a Petra, nella vicina Giordania, si ipotizzò che i rilievi fossero sí antichi, ma di epoca storica, mentre adesso, grazie ai nuovi studi condotti da archeologi del CNRS francese, dell’Istituto Max Planck di Monaco di Baviera e della locale Università Re Sa’ud, è maturata la convinzione che la loro realizzazione debba essere collocata in età preistorica. A questa conclusione si è giunti sulla scorta dei dati scaturiti dalle numerose analisi condotte e dall’applicazione di metodi di datazione diretta e indiretta. Sono state per esempio esaminate le tracce lasciate sulla roccia dagli strumenti utilizzati per scolpire le figure, cosí come quelle dell’erosione subita dalla pietra nel corso del tempo. Né è mancato il ricorso alla termoluminescenza, applicata a uno dei blocchi scolpiti. Inoltre, un sondaggio di scavo effettuato fra due degli speroni rocciosi sui quali si concentrano i rilievi ha portato alla scoperta di un accumulo di ossa animali – sottoposti a datazione radiocarbonica – e di strumenti in selce, che provano l’occupazione del sito. L’insieme di

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In alto: Camel Site (Arabia Saudita). L’immagine di un equide scolpita nella roccia. Secondo le recenti ricerche, questa e le altre raffigurazioni scoperte nel sito sarebbero databili in età neolitica, intorno al VI mill. a.C. A destra: un momento della documentazione dei rilievi. questi elementi suggerisce dunque che le raffigurazioni siano state eseguite, al piú tardi, nel corso del VI millennio a.C. È assai probabile che il sito possedesse un forte valore simbolico e che la sua frequentazione si sia protratta a lungo, come suggerisce il fatto che piú di un rilievo venne rilavorato quando l’erosione aveva cominciato ad alterarne i dettagli. Risulta al momento difficile stabilire la data del suo abbandono, ma sembra verosimile credere che esso sia stato determinato, intorno al 1000 a.C., dall’accelerazione dei processi di degrado della roccia e, di conseguenza, delle raffigurazioni. Stefano Mammini


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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese

AGLI ALBORI DEL CRISTIANESIMO LA STORIA DELLA CHIESA DI S. ERCOLANO, UNO DEI PIÚ ANTICHI LUOGHI DI CULTO DELL’AREA OSTIENSE, SI SNODA NELL’ARCO DI MOLTI SECOLI E L’ARCHEOLOGIA NE HA DOCUMENTATO LE TAPPE PIÚ SIGNIFICATIVE. FRA LE QUALI SPICCA, NEL MEDIOEVO, L’UTILIZZO FUNERARIO DEL COMPLESSO

L

a chiesa di S. Ercolano, edificio di modeste dimensioni, a navata unica, posto accanto al moderno cimitero di Ostia antica, si trova in prossimità di quello che in età romana era il limite orientale della vasta necropoli di Pianabella, caratterizzata da monumenti funerari di varie tipologie e organizzata in un reticolo di strade ancora in parte riconoscibile. La data di fondazione del luogo di culto è incerta: la struttura sorge sopra un colombario in opera reticolata di I-II secolo, sul quale si impostano murature in opera listata del IV-V secolo. Al momento non è chiaro se queste murature siano pertinenti alla fase originaria dell’edificio, tanto che la critica si divide tra una datazione tardoantica e una altomedievale. A sostegno della cronologia piú alta viene citata un’epigrafe ritrovata nelle vicinanze, contenente una dedica a Dio e ai santi da parte di Anicio Auchenio Basso (praefectus Urbi nel 382 d.C.) e dalla moglie

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In alto: le sepolture su piú livelli (formae) addossate alla chiesa nell’Alto Medioevo, scavo 1988-89. A sinistra: S. Ercolano in una foto stereoscopica d’inizio Novecento.


L’interno della chiesa di S. Ercolano.

Tyrrenia Honorata, anche se nell’iscrizione non è specificato l’oggetto della dedica. Ugualmente discussa è l’antichità dell’intitolazione a sant’Ercolano, attestata con sicurezza a partire dal XV secolo. Secondo la tradizione agiografica, Ercolano fu martirizzato durante il regno di Claudio il Gotico (268-270) e sepolto probabilmente nella basilica di S. Ippolito (Fiumicino). La dedica dell’edificio potrebbe risalire all’Alto Medioevo, probabilmente dopo che papa Formoso (891-896) ordinò la traslazione delle reliquie di Ercolano e di altri santi portuensi a Roma, nella chiesa di S. Giovanni Calibita. Scavi condotti nel 1988-89 hanno dimostrato la prosecuzione dell’uso funerario durante il Medioevo, con la realizzazione di sepolture su piú livelli (formae) intorno all’edificio di culto. L’uso funerario è proseguito anche in età rinascimentale e moderna; il ritrovamento, nel 2006, di resti umani con evidenti traumi da corpo contundente, associati a frammenti di maiolica, suggerisce che intorno alla chiesa siano state sepolte le vittime di eventi bellici

rinascimentali, forse anche del famoso assedio del Castello condotto nel 1556 dal duca d’Alba. L’area continuò a essere utilizzata come cimitero al servizio di Gregoriopoli (oggi Borgo di Ostia antica) anche nel Seicento e nel Settecento, quando le relazioni delle visite episcopali menzionano numerosi interventi di restauro. Il 7 aprile del 1823 l’edificio fu rilevato e disegnato da Jacob Ignaz Hittorff, architetto francese autore della Gare du Nord di Parigi, durante il suo viaggio d’istruzione in Italia; dai suoi disegni sappiamo che, all’epoca, la chiesa aveva lo stesso aspetto di oggi.

LE TOMBE DEGLI SCARIOLANTI Alla fine dell’Ottocento vi trovarono sepoltura i primi scariolanti ravennati, giunti a Ostia per le opere di bonifica, deposti probabilmente in una fossa nelle adiacenze della chiesa o nell’ossario sotto al pavimento. In quest’epoca l’isolamento e l’abbandono del monumento sono ben documentati dalle fotografie dell’Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica e da un dipinto di Giulio Aristide

Sartorio, esponente del gruppo dei «Venticinque della Campagna Romana», oggi conservato presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma. A partire dal 1913, con la sepoltura del direttore degli scavi Dante Vaglieri, la chiesa è diventata una sorta di «Pantheon» ostiense, nel quale sono stati deposti alcuni degli archeologi che hanno legato il loro nome agli scavi della città antica; tra questi Guido Calza, Raissa Gourevich Calza e Giovanni Becatti, nonché l’architetto Italo Gismondi. Oggi priva del tetto a eccezione della parte absidale, la chiesa è caratterizzata internamente da un moderno intonaco giallo, sotto al quale sono state ritrovate tracce di pigmento blu e rosso. L’impegno del Parco archeologico di Ostia antica, che ha in gestione il bene per conto del Comune di Roma, prosegue con indagini scientifiche e aperture straordinarie al pubblico, per dare modo alla cittadinanza di conoscere un monumento che non solo racconta le origini del cristianesimo a Ostia, ma soprattutto custodisce le spoglie e tramanda la memoria dei pionieri dell’archeologia ostiense. Dario Daffara

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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi

NUOVE SCOPERTE A PONTE ROTTO LE RICERCHE NELLA NECROPOLI NELL’ANSA DEL FIUME FIORA GETTANO NUOVA LUCE SULLA COMPOSIZIONE DELLE PRIME COMUNITÀ INSEDIATESI A VULCI A PARTIRE DALL’ETÀ DEL FERRO

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ornano alla luce, grazie alle indagini nella necropoli orientale di Ponte Rotto, le sepolture dei primi abitanti di Vulci. «Le due campagne di scavo 2020 e 2021 – spiega Marco Pacciarelli, direttore scientifico delle ricerche – hanno permesso di indagare ben 58

sepolture scavate nella roccia travertinosa locale e datate almeno tra il IX e gli inizi del VI secolo a.C., per lo piú facenti parte di un unico nucleo topografico forse pertinente a una famiglia o a un piccolo gruppo di parentela». Una delle tombe individuate, A sinistra: una grande fossa d’età orientalizzante venuta alla luce nella necropoli di Ponte Rotto (scavo 2020). In basso: una fase dello scavo (2021) delle sepolture a cremazione villanoviane.

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risalente alla fine del VII secolo a.C., è del tipo con dromos di accesso e vestibolo a «T» scoperto che dava accesso a due camere. Un’altra, pressoché coeva o poco piú antica, è costituita da un grande ambiente scoperto rettangolare, circondato da un’ampia risega che serviva ad alloggiare una copertura di grandi lastre di calcare palombino, che poggiavano su una trave lignea disposta lungo l’asse centrale e inserita alle estremità in due profondi incassi nella roccia. Entrambe le tombe risultavano violate, ma hanno comunque restituito interessanti oggetti sfuggiti alla depredazione. Altre dieci sepolture, in parte intatte, sono del tipo con il defunto disteso entro una fossa, e presentano resti scheletrici ben conservati e significativi manufatti di corredo, databili approssimativamente dalla metà dell’VIII alla metà del VII secolo a.C., tra cui vasi dipinti in stile grecogeometrico (con ogni probabilità prodotti in loco), nonché ornamenti, utensili e armi in bronzo o ferro. Oltre quaranta sepolture appartengono invece al tipo con i resti della cremazione del defunto deposti entro un’urna in ceramica coperta da una scodella e da un coperchio (spesso imitante un elmo), sepolta entro un pozzetto, a


volte insieme a vasi, ornamenti e altri manufatti di corredo. Si tratta delle tipiche tombe della civiltà villanoviana della prima età del Ferro, epoca che va dalla fine del X a buona parte dell’VIII secolo a.C. Anche queste ultime sepolture sono spesso state oggetto di violazioni, in alcuni casi forse già in età antica, ma in grande maggioranza certamente nella seconda metà del Novecento, periodo in cui sembra sia stata utilizzata perfino una piccola ruspa, che ha causato gravi danni alle strutture. Tale accanimento da parte dei saccheggiatori fa pensare che alcune sepolture villanoviane potessero avere un ricco corredo di manufatti, forse comprendente anche oggetti di pregio. In effetti, si è constatata la presenza di due casi in cui i resti cremati erano deposti in urne di lamina di bronzo, un rito raro, praticato esclusivamente per alcuni individui di alto rango sociale. Di queste urne metalliche, trafugate forse già in età antica, rimaneva solo il piede troncoconico. La setacciatura del terreno di riempimento di alcune tombe devastate dai tombaroli ha permesso di rinvenire vaghi di collana in ambra, vetro, osso e frammenti di manufatti in bronzo e anche in metalli preziosi.

INCISIONI A PETTINE Altre cremazioni villanoviane erano invece intatte, oppure intaccate dalle profonde arature praticate negli ultimi settant’anni con mezzi meccanici. Le urne della prima fase villanoviana (IX secolo a.C.) e le relative scodelle di copertura sono decorate con i tipici motivi geometrici incisi mediante uno strumento a piú punte (il cosiddetto pettine). Un’urna, invece della scodella, aveva un coperchio ceramico evocante un elmo, di un tipo particolare, al momento senza confronto. Sono state rinvenute anche due tombe con una piccola

urna (anch’essa coperta da scodella) deposta coricata: si tratta forse di un peculiare rito locale riservato ai bambini. In alcuni casi – riferibili soprattutto all’VIII secolo a.C. – oltre all’urna e alla sua copertura nella sepoltura erano deposti anche vasi di corredo, tra cui tazze, coppe, scodelle, brocchette, ecc. Intorno all’urna sono talvolta presenti numerosi anellini e borchiette in bronzo oltre a vaghi in osso e vetro, che dovevano essere fissati a un tessuto. Grazie alla disponibilità del laboratorio di restauro della Fondazione Vulci è stato possibile avviare sia i primi interventi conservativi sui manufatti, eseguiti dalla restauratrice Eva Gentili, sia il microscavo del contenuto delle urne cinerarie. Quest’ultima attività ha permesso di recuperare le ossa cremate dei defunti e anche ornamenti personali a esse frammisti. Due tipiche urne

In alto: scavo (2020) dei resti scheletrici di una sepoltura a inumazione in fossa d’età orientalizzante. A sinistra: intervento conservativo su una delle urne cinerarie villanoviane rinvenute nello scavo 2021. In basso: una fase dello scavo (2021) delle sepolture a cremazione villanoviane. villanoviane del IX secolo a.C. contenevano per esempio tre fibule di bronzo, in un caso con gli aghi inseriti all’interno di una spirale usata come fermatrecce. Lo scavo, affidato al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università «Federico II» di Napoli e diretto da Marco Pacciarelli, è condotto da un’équipe che comprende assegnisti dell’Università di Basilea (F. Quondam), di Cardiff (C. Esposito) e della stessa «Federico II» (L. Fiorillo, P. Miranda), nonché altri allievi di vario grado dell’ateneo napoletano. La sua realizzazione è stata possibile grazie a un quadro di sistematica collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale (funzionario, Simona Carosi) e con la Fondazione Vulci (direttore scientifico, Carlo Casi). La società Pegaso ha fornito servizi legati alla sicurezza, alla documentazione e agli interventi conservativi.

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A TUTTO CAMPO Enrico Zanini

NEL POZZO DEI LANZICHENECCHI LO SCAVO DI UN POZZO NERO NEL CENTRO DI ROMA RIPORTA ALLA LUCE UNA TESTIMONIANZA DIRETTA DI UNO DEGLI EVENTI PIÚ DRAMMATICI VISSUTI DALLA CITTÀ NEL CORSO DELLA SUA STORIA MILLENARIA

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iscariche, fogne e pozzi neri sono notoriamente la passione degli archeologi, o almeno di quelli interessati a saperne di piú sulla vita quotidiana dei nostri predecessori, sulle loro abitudini alimentari, sugli oggetti che utilizzavano, sui modi in cui gestivano i propri rifiuti. Qualche volta, però, oltre a restituirci un frammento di vita quotidiana, un luogo di discarica può portarci nel cuore di un grande evento storico. Lo scenario in cui si svolge la nostra vicenda è il centro di Roma, lungo via delle Botteghe Oscure, dove un intervento di demolizione condotto negli anni Trenta del Novecento per l’ampliamento della strada riportò alla luce i resti di un tempio di età repubblicana, probabilmente dedicato alle Ninfe, in seguito compreso nella Porticus Minucia Frumentaria, il grande portico dove si gestiva la distribuzione gratuita di grano al popolo romano. Nel corso dei secoli i ruderi di quei monumenti erano stati inglobati in edifici di epoca medievale e moderna, che vennero brutalmente sventrati, proseguendo lo scavo fino alle pavimentazioni del monumento antico e cancellando quindi tutte le tracce materiali della storia di un quartiere centrale di Roma. O meglio, quasi tutte le

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romani, perché solo nella prima metà del XVI secolo la città si dotò nuovamente di una rete fognaria, agganciata peraltro ancora a quella della città romana.

PRESENZE INASPETTATE

Scudo veneziano del doge Andrea Gritti (1523-1538). tracce materiali, perché qualcosa, in realtà, sopravvisse: un miserabile pozzo nero che era stato scavato dalle cantine degli edifici moderni fino a raggiungere e oltrepassare i livelli antichi. Il ritrovamento di questi impianti igienici è frequente negli scavi

Ma il pozzo nero di via delle Botteghe Oscure apparve molto particolare agli archeologi dell’Università di Siena, che hanno lavorato per decenni in quella zona della città. Al suo interno furono infatti rinvenuti oggetti che normalmente non si trovano in quel genere di contesti: un gran numero di ciotole databili al XV secolo, integre o interamente ricostruibili; un numero altrettanto grande di pentole di varia forma e dimensione, anch’esse in gran parte interamente ricostruibili; piatti databili agli inizi del XVI secolo, alcuni dei quali di grande pregio, perché prodotti dai famosi laboratori di Deruta (Perugia); una grande quantità di calici e di coppe di vetro finissimo. E, infine, due candelabri di bronzo argentato e una moneta d’oro. Fu giocoforza logico domandarsi che cosa ci facessero quelle cose, cosí bizzarramente assortite, in un pozzo nero e una prima risposta la offrí la moneta: uno scudo veneziano a nome del doge Andrea



Ceramiche da mensa ritrovate nel pozzo nero: a. boccale di produzione romana degli inizi del XVI sec.; b-c. scodelle di produzione derutese, del primo quarto del XVI sec.; d. piatto di produzione romana degli inizi del XVI sec., decorato con lo stemma dei Colonna; e. piatto decorativo, di probabile produzione romana, della fine del XV sec. Gritti, coniato probabilmente nel 1523. La moneta poteva essere ovviamente finita nel riempimento del pozzo nero per un incidente durante l’uso proprio dei servizi igienici della casa, a cui il pozzo era connesso, ma, considerandone il valore e il modo in cui le monete venivano conservate in quell’epoca, non era l’opzione piú probabile. Era invece possibile che

si trattasse di un nascondimento volontario, anche perché, tra le ceramiche recuperate, c’era anche un frammento di salvadanaio, con tanto di scritta «denaro» ripetuta piú volte sulla pancia. Considerata la data della moneta, l’ipotesi piú probabile è che si trattasse del tentativo da parte del proprietario della casa di salvare se stesso, la sua famiglia e i suoi averi Salvadanaio in ceramica dipinta: nell’iscrizione, non ancora decifrata completamente, si legge almeno due volte la parola «denaro».

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dal grande saccheggio di Roma operato dai Lanzichenecchi nel maggio del 1527. Cosí si spiegavano bene, oltre la moneta – molte altre potevano essercene in origine, ma del pozzo rimaneva esplorabile solo una piccola porzione – anche i candelabri, i piatti di pregio e anche i vetri raffinati, probabilmente calati nel pozzo in un sacco o in un paniere per poterli recuperare in seguito. Cosí si spiegava anche la presenza di un piatto di maiolica di fattura ben piú dozzinale, che presentava una decorazione molto diffusa all’epoca (lo stemma araldico della famiglia Colonna), ma che in quel contesto poteva rappresentare un gravissimo pericolo per gli abitanti della casa: essere associati a una famiglia potente significava inevitabilmente essere rapiti per provare a ottenere un riscatto.

SEI SCUDI NELLA CASSA L’immagine offerta dal nostro pozzo nero si attagliava poi perfettamente a molte fonti che abbiamo a proposito di quella vicenda. La pratica del nascondimento anche di piccole somme di denaro è ben testimoniata: come in una lettera che nel giugno di quell’anno terribile Pietro Paolo Santini, rifugiatosi in un luogo sicuro fuori città, scrive a un amico rimasto a Roma, chiedendogli di andare a casa sua e «aprite la mia cassa, alzate la prima scudella de stangio, sotto troverete sei scudi». Che fogne e pozzi neri fossero poi il nascondiglio piú utilizzato lo sappiamo da molte fonti, che raccontano come il saccheggio venne sospeso proprio per una pestilenza scoppiata nell’estate, a causa del gran numero di cadaveri rimasti insepolti e, soprattutto, dello scoperchiamento di molti impianti igienici, alla ricerca di tesori da trafugare. (enrico.zanini@unisi.it)



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

TUTTI I COLORI DI MITRA A MARINO, CITTADINA DEI CASTELLI ROMANI, SI CONSERVA UN MITREO DECORATO DA PITTURE DI STRAORDINARIA BELLEZZA E DA POCO RESO NUOVAMENTE ACCESSIBILE. GRAZIE ALL’INTERVENTO DI RIQUALIFICAZIONE GUIDATO DA GABRIELLA SERIO

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ono tornate a offrirsi all’ammirazione del pubblico le magnifiche pitture del mitreo di Marino, a sud di Roma, oggetto di un intervento di riqualificazione funzionale e tecnologica che ha reso nuovamente visitabili affreschi dai colori eccezionalmente accesi e ben conservati. A raccontarci della «scoperta» è Gabriella Serio (nella foto), funzionaria responsabile della Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma, che, come archeologa, ha supervisionato i

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lavori, condotti dal Comune di Marino e finanziati con 400mila euro dal Segretariato Generale del ministero della Cultura. Dottoressa Serio, quali sono le ragioni dell’importanza del mitreo? «A rendere unico il mitreo di Marino è la qualità artistica della decorazione pittorica, superiore a quella degli altri esempi conosciuti in Italia nei quali è rappresentata la “tauroctonia” (il sacrificio del toro): il mitreo Barberini di Roma e quello di Santa Maria di Capua Vetere (Caserta). A Marino,infatti, il

notevole grado di conservazione delle pitture rende incredibilmente vivi e accesi i colori della scena in cui Mitra uccide il toro». Il luogo di culto vero e proprio dedicato a Mitra, divinità persiana diffusasi a Roma tra II e III secolo d.C., si trova all’interno di un luogo sotterraneo nascosto e inaccessibile...


«Il mitreo è realizzato all’interno di un ambiente ipogeo scavato in profondità nella roccia di peperino, ricavato dalla riconversione di una cisterna romana e reso ancora piú impenetrabile dalla presenza di un edificio degli anni Sessanta, che ne occlude la vista. Alla cisterna, forse connessa a un’antica villa o edificio romano di

epoca repubblicana, si accedeva oggi come in antico - attraverso alcuni gradini che immettevano in una galleria (lunga quasi 30 m e larga poco piú di 3). Verso la fine del II secolo d.C. il luogo venne trasformato in santuario mitraico, realizzando la splendida decorazione pittorica giunta a noi quasi integra».

Il progetto di allestimento museale ha dunque dovuto rendere «accogliente» un luogo per sua natura respingente e difficile… «Il luogo è sempre stato angusto e inospitale, sia perché si trova sottoterra (a 2 m di profondità), sia perché, all’epoca della sua scoperta, nei primi anni Sessanta, venne inglobato all’interno di una palazzina interessata da consistenti infiltrazioni d’acqua. Per questo motivo – oltre che per la sua particolare ubicazione lungo il fianco della collina – il sito in passato è stato visitabile solo per brevi periodi. Anche in epoca antica era inaccessibile: i culti misterici, per loro natura, si svolgevano in luoghi nascosti, segreti e sotterranei. Ambienti piccoli, destinati a una cerchia ristretta di fedeli, spesso bui». In età antica gli adepti, dopo aver percorso la lunga e scura galleria, giungevano al santuario vero e proprio per immergersi nella luce dei variopinti affreschi dedicati al dio Mitra, proprio come oggi può fare il visitatore. Quali soluzioni In alto: la galleria di accesso al mitreo di Marino. A sinistra: la cantina dell’edificio moderno in cui il mitreo è inglobato, trasformata in area museale che introduce alla visita dell’antico luogo di culto. Nella pagina accanto: la pittura raffigurante l’uccisione del toro da parte del dio Mitra.

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In alto: particolare della raffigurazione di Cautes, uno dei dadofori (protatori di fiaccole), che assistono Mitra nella celebrazione del sacrificio. In basso: uno dei vivaci quadretti che contornano la scena della tauroctonia.

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sono state adottate nel progetto di riqualificazione funzionale del sito? «L’accesso al mitreo avviene da quella che un tempo era la cantina dell’edificio moderno: qui sono state installate proiezioni multimediali per introdurre al mondo mitraico e creare la suggestione della discesa verso l’ipogeo. Gli adepti percorrevano una scalinata in discesa, quindi la lunga galleria sotterranea per giungere, infine, di fronte alla coloratissima tauroctonia. Il percorso era illuminato da lucerne poste all’interno di nicchie scavate nel muro: l’illuminazione moderna ricalca questa suggestione attraverso lampade a led, posizionate in corrispondenza delle nicchie antiche, che si accendono gradualmente al passaggio dei visitatori. Cosí il pubblico, oggi, può vivere la stessa esperienza degli antichi adepti». Anche gli «aiutanti» di Mitra accompagnano il visitatore moderno nel viaggio verso il mitreo…non è vero? «Man mano che il visitatore si avvicina viene accolto dagli

aiutanti di Mitra, i due dadofori (portatori di fiaccola, n.d.r.), dipinti sui lati lunghi della galleria. Sulla destra è rappresentato Cautes, sulla sinistra Cautopates. Il primo tiene tra le mani una fiaccola accesa, simbolo della vita; il secondo impersona la morte, ha copricapo e tunica blu e la fiaccola, spenta, rivolta in basso. I due dadofori sono rappresentati anche nel quadro principale con la tauroctonia, in posizione invertita». Come è stato risolto il problema delle infiltrazioni di acqua? «È stato irregimentato e deviato il percorso delle acque dall’alto, in corrispondenza della palazzina moderna e del fianco della collina. L’umidità non è mai stata un problema, invece, per le pitture antiche, che, proprio grazie a un tasso di umidità pari al 100%, si sono conservate in maniera eccezionale. Ora la cosa importante è monitorare l’impatto delle visite da parte del pubblico sul microclima interno, curato dal CNR. È la prima volta che il sito viene aperto con regolarità e ci si augura per lungo tempo».



n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

PER NON DIMENTICARE L’Afghanistan è tragicamente tornato alla ribalta delle cronache e anche «Archeo» torna a parlarne, vista l’importanza del patrimonio archeologico che il Paese asiatico possiede (vedi alle pp. 86-109). Anche la nostra rubrica è dedicata all’argomento, sia pure con materiale filatelico non proprio moderno, perché ben poche sono state le emissioni di francobolli negli ultimi decenni! L’argomento è stato affrontato nell’intervista ad Anna Filigenzi, professore associato di archeologia e storia dell’arte dell’India presso l’Università di Napoli «L’Orientale» e profonda conoscitrice della storia dell’arte e dell’archeologia dell’Asia Centrale, in particolare dell’Afghanistan. Nella presentazione dell’intervista, curata dal direttore della rivista Andreas M. Steiner, si fa riferimento alla triste vicenda della distruzione dei famosi Buddha avvenuta a Bamiyan (1) nel marzo del 2001; il primo francobollo, del 1985 (2), mostra una delle statue nel suo splendore, mentre il secondo, del 2002, mostra ciò che ne rimane oggi, con il gentile gesto del bozzettista che ha raffigurato alcune lacrime che cadono dall’alto sul vuoto della roccia e sui massi in basso che sono i resti della statua... (3). Dopo questo doloroso ricordo, inizia l’intervista e qui presentiamo i francobolli relativi ad alcuni dei siti citati. Cominciamo da Mes Aynak, famoso per l’enorme giacimento di rame e per il ritrovamento di molte statue di Buddha, nonché di diversi monumenti buddisti detti stupa, come quello in situ riprodotto dal francobollo dello Sri Lanka (4). Il patrimonio afgano conta molti altri stupa, come quello di Guldara (5) vicina a Kabul, e un gran numero di palazzi e minareti, come quello Ghazni (6). Si parla, poi, dei primi importanti scavi degli archeologi francesi che, alla metà del secolo scorso, hanno ottenuto grandi successi, quali la scoperta del sito buddista di Hadda, con un altro famoso stupa (7), e con il ritrovamento di diversi manufatti artistici (8). Nella località di Begram, murato in una stanza, fu trovato un vero tesoro di avori, vasi (9), statuette (10), vetri e altri reperti. Vengono citati altri due siti straordinari per l’importanza dei ritrovamenti: la piccola necropoli di Tillya Tepe che, benché composta di sole 6 tombe, ha restituito oltre 20 000 monili d’oro (11), e il grandioso tempio kushana in cima a una collina sulla quale fu scavata una scala nella roccia per facilitarne l’accesso (12).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Sergio De Benedictis Corso Cavour, 60 - 70121 Bari segreteria@cift.club oppure

Luciano Calenda C.P. 17037 - Grottarossa 00189 Roma lcalenda@yahoo.it www.cift.it







CALENDARIO

Italia ROMA Napoleone e il mito di Roma

Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 07.11.21

CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante

Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 09.01.22

CORINALDO (ANCONA) Il tesoro ritrovato

La tomba del Principe di Corinaldo Pinacoteca Comunale C. Ridolfi fino al 30.01.22

GROSSETO Una terra di mezzo

I Longobardi e la nascita della Toscana Museo Archeologico e d’Arte della Maremma fino al 06.01.22

L’eredità di Cesare e la conquista del tempo Musei Capitolini fino al 31.12.21

Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 07.01.22

I marmi Torlonia

Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 09.01.22

Misurare la terra

Un’epigrafe napoleonica dai Musei Vaticani al Mausoleo di Cecilia Metella Complesso di Capo di Bove-Mausoleo di Cecilia Metella fino al 09.01.22

Colori dei Romani

I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22

BRA (CUNEO) L’uomo svelato

Studi e restauro di una mummia egizia di 4500 anni Palazzo Mathis fino al 12.12.21

BRESCIA Palcoscenici Archeologici

Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22 32 a r c h e o

MANTOVA La città nascosta

Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22

MILANO Sotto il cielo di Nut

Egitto divino Civico Museo Archeologico fino al 30.01.22

NAPOLI Gladiatori

Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22

Divina Archeologia

Mitologia e storia della Commedia di Dante nelle collezioni del MANN Museo Archeologico Nazionale fino al 10.01.22

Omero, Iliade

Le opere del MANN nelle pagine di Alessandro Baricco Museo Archeologico Nazionale fino al 10.01.22


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

RIETI Strada facendo

Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 09.01.22 (prorogata)

TORINO Cipro

Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22

UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli

Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22

VARESE La civiltà delle palafitte

L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22

VULCI (CANINO, VITERBO) Gli ultimi Re di Vulci L’aristocrazia etrusca vulcente alle soglie della conquista romana Museo Archeologico di Vulci fino al 31.12.21

Francia LES EYZIES-DE-TAYAC Homo faber

2 milioni di anni di storia della pietra scheggiata, dall’Africa alle porte dell’Europa Musée national de Préhistoire fino al 29.11.21

PARIGI Parigi-Atene

Nascita della Grecia moderna 1675-1919 Museo del Louvre fino al 07.02.22

Germania FRANCOFORTE Sfingi, leoni e mani d’argento Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci Archäologische Museum fino al 10.04.22

VENEZIA Massimo Campigli e gli Etruschi Una pagana felicità ACP-Palazzo Franchetti fino al 16.01.22 (prorogata)

Power & Prestige

Simboli del comando in Oceania Palazzo Franchetti fino al 13.03.22

Grecia ATENE Kallos

La bellezza definitiva Museo d’Arte cicladica fino al 16.01.22

Regno Unito LONDRA Perú

Un viaggio nel tempo British Museum fino al 20.02.22 (dall’11.11.21)

Svizzera Venetia 1600

Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25.03.22

BASILEA animalistico!

Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 33


IE ARI P NER I M T I POOVI

LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO

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POMPEI

scavi • scoperte • restauri di Alessandro Mandolesi

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uasi come un’araba fenice, Pompei è piú volte rinata dalle ceneri e dai lapilli che la coprirono nel 79 d.C., a cominciare dal fatidico 1748, anno in cui Carlo III di Borbone decise di promuovere le prime esplorazioni del sito, dieci anni dopo quelle avviate a Ercolano. Negli ultimi decenni, l’idea di far sí che la città vivesse una nuova fioritura è stata ripetutamente rilanciata, ma la svolta decisiva si è avuta con il Grande Progetto Pompei, grazie al quale, dal 2014, sono stati allestiti numerosi cantieri di restauro e si è anche tornati a scavare in varie regioni dell’abitato, dando nel contempo un forte impulso alle attività di promozione del sito. Un impegno su piú fronti, dal quale è scaturita anche questa nuova Monografia di «Archeo», che propone un viaggio alla scoperta di quella che potremmo definire la «nuova» Pompei, disegnata dalle molteplici attività condotte sul campo. Nei vari capitoli è perciò possibile ripercorrere tutte le grandi scoperte che hanno riportato la città vesuviana agli onori delle cronache, non soltanto archeologiche: solo per citare qualche esempio, basti pensare al delicato affresco raffigurante Leda e il cigno, agli sgargianti colori del termopolio venuto alla luce nella Regio V, al sontuoso carro in bronzo di Civita Giuliana, o, ancora, poco fuori Porta Stabia, alla tomba di Gneo Nigidio Maio, della famiglia degli Alleii, nella cui iscrizione viene evocata la rissa scoppiata nell’anfiteatro, fra Pompeiani e Nucerini, nel 59 d.C. Un quadro vivace e variegato, che rende ancora piú nitidi i colori delle scene di vita quotidiana evocate dalle case e dalle botteghe della città antica.

GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONI • Nuovi percorsi e nuove esperienze di visita (Massimo Osanna) • Una città che non smette di stupire (Gabriel Zuchtriegel) • POMPEI, UNA NUOVA IMMAGINE • Restauri, scavi e studi: alla riscoperta di una città mai vista prima • Tutti i tesori della Regio V

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MUSEI • NOCETO

L’ACQUA, IL LEGNO, IL RITO HA APERTO I BATTENTI A NOCETO, IN PROVINCIA DI PARMA, IL MUSEO DEDICATO ALLA SPETTACOLARE VASCA VOTIVA, COSTRUITA DA CARPENTIERI ABILISSIMI AL TEMPO DELLE TERRAMARE. UN MONUMENTO RISALENTE ALL’ETÀ DEL BRONZO E UNICO NEL SUO GENERE, FRUTTO DI UNO STRAORDINARIO IMPEGNO COLLETTIVO. E LA CUI FUNZIONE, EVOCATA DAI NUMEROSI REPERTI RINVENUTI AL SUO INTERNO (ED ECCEZIONALMENTE CONSERVATI), SEMBRA ASCRIVERSI AD ANCESTRALI CULTI AGRICOLI... di Stefano Mammini

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ino a ieri, una delle piú importanti e spettacolari scoperte archeologiche di cui l’Italia sia mai stata teatro era nota quasi esclusivamente agli studiosi di preistoria, ma da un mese a questa parte è invece divenuta di dominio pubblico e può offrirsi all’ammirazione della collettività: come avevamo annunciato (vedi «Archeo» n. 440, ottobre 2021; anche on line su issuu.com), l’8 ottobre scorso è stato inaugu-

rato il Museo Archeologico «La vasca votiva di Noceto», che dà modo di vedere da vicino questa straordinaria struttura. Il museo ha sede all’interno del NUX (vedi box a p. 51), complesso polifunzionale del comune di Noceto (Parma), e il taglio del nastro ha rappresentato il coronamento di un’avventura cominciata nella primavera del 2005, quando affiorarono i primi resti della vasca. Fin da allora, l’eccezionalità del

ritrovamento apparve evidente, tanto che, a chiusura dell’articolo che la nostra rivista dedicò agli scavi (vedi «Archeo» n. 265, marzo 2007), cosí si era espressa Maria Bernabò Brea, che quelle ricerche stava guidando: «L’impegno della Soprintendenza e la determinazione del Sindaco di Noceto ci consentono di sperare di poter ricostruire la vasca cosí come l’abbiamo trovata, per offrire al pubblico l’opportunità di vedere da Noceto (Parma). La vasca lignea dell’età del Bronzo scoperta nel 2005 e ora musealizzata all’interno della struttura appositamente realizzata allo scopo e inaugurata l’8 ottobre scorso.

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vicino una struttura davvero speciale». Un auspicio che si è fatto realtà concreta, in un allestimento capace di valorizzare al meglio un manufatto che, a oggi, costituisce un unicum non solo per l’Italia, ma per l’intero continente europeo.

IL CONTESTO STORICO Prima di entrare nel dettaglio delle soluzioni museografiche, è opportuno ripercorrere la storia della vasca e il contesto in cui essa è

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A destra: l’area centrale della Pianura Padana, con l’ubicazione di Noceto e altri importanti siti terramaricoli (Poviglio, Montale). In basso, sulle due pagine: la vasca votiva in corso di scavo.


maturata, avvalendoci innanzi tutto dei dati forniti da alcuni dei protagonisti di questa avventura in occasione dell’inaugurazione del museo. Come ha ricordato Maria Barnabò Brea, la struttura venne realizzata all’epoca in cui l’area centrale della Pianura Padana fu teatro dell’avvento e dello sviluppo della civiltà delle terramare (vedi box alle pp. 42-44), in un arco cronologico compreso fra il 1650 e il 1150 a.C., dunque nell’età del Bronzo. A destra: disegno ricostruttivo nel quale si immagina un gruppo di terramaricoli impegnato in operazioni di diboscamento. In basso: un’altra immagine della vasca, che permette di coglierne la forma rettangolare.

Anche a Noceto, in località Torretta, esisteva un villaggio terramaricolo, che fu però distrutto nell’Ottocento, come molti altri insediamenti di quel tipo, per procurarsi la terra marna, che si era scoperto avere la proprietà di migliorare la resa dei ter-

reni padani. Dai materiali comunque recuperati, è stato possibile ipotizzare che l’insediamento fosse sorto nel XVI secolo a.C. e occupato per circa trecento anni. Ai margini dell’abitato, nel corso del XV secolo a.C., si mise mano alla costruzione della vasca, il cui utilizzo fu relativamente breve, pari a circa un centinaio d’anni. Tutto ciò accadeva nel momento in cui la civiltà delle terramare viveva il suo momento di massima fioritura: le indagini condotte in numerosi siti attibuibili a questa cultura hanno infatti provato come le dimensioni dei villaggi fossero allora aumentate e, parallelamente, si stesse vivendo una fase di sensibile crescita demografica. Uno sviluppo reso possibile da pratiche agricole particolarmente efficienti, grazie al diboscamento di vaste aree rese coltivabili, all’uso dell’aratro e alla attenta gestione delle risorse idriche. Fattori che, come vedremo piú avanti, si legano anche alla vasca votiva. Dobbiamo dunque immaginare il territorio in cui erano compresi il villaggio di Torretta di Noa r c h e o 39


MUSEI • NOCETO Sulle due pagine: immagini dello scavo del deposito stratificatosi nella vasca. Vi è stata trovata una vasta gamma di reperti: vasi, utensili, aratri, resti animali, contenitori in fibra vegetale. I manufatti lignei (gli aratri, per esempio) non erano mai stati utilizzati e il vasellame ha caratteristiche diverse da quello degli abitati: di qui l’ipotesi che fossero stati realizzati appositamente per essere immersi nella vasca.

ceto e la vasca come una delle aree piú popolose d’Europa. Un’Europa che, nell’età del Bronzo, si presentava divisa in due grandi blocchi: al mondo delle terramare e, piú in generale, delle regioni centro-occidentali, faceva da contraltare quello delle popolazioni stanziate nelle aree del Mediterraneo orientale, dove, si pensi per esempio ai Micenei, andavano sviluppandosi assetti sociali articolati, accompagnati dalla nascita dei primi centri urbani. Due mondi comunque fortemente interrelati, fra i quali era prassi normale lo scambio di materie prime e prodotti finiti, sospinto, innanzi tutto, dalla ricerca di rame e stagno. Si era perciò creata una rete assai estesa e, come l’archeologia ha ripetutamente dimostrato, beni come l’oro, l’ambra di origine baltica o le perle di vetro di produzione micenea potevano raggiungere de40 a r c h e o

stinazioni anche molto lontane dai loro centri d’origine. Le comunità terramaricole sono pienamente inserite in questo scenario, tanto che i manufatti in bronzo, la lega metallica che non a caso è stata scelta dagli studiosi per dare nome a questa fase storica, sono presenti in gran numero nei siti d’abitato, come anche a Noceto: non nella vasca, però, dove le indagini ne hanno accertato l’assenza. Un’assenza che non può certo essere frutto del caso e che ha rinsaldato gli studiosi nella convinzione di essere alle prese con una struttura dalla natura del tutto particolare.

ARMI NEI FIUMI Anche perché lo stesso bronzo, in questa fase storica e in varie regioni d’Europa, è spesso legato a pratiche cerimoniali ben precise, che consistevano nel farne offerta, sotto for-

ma di armi, a entità soprannaturali che possiamo immaginare come divinità guerriere, celesti, alle quali rimandano le molte riproduzioni di emblemi solari. E, come a Noceto, costante era il legame con l’acqua, in quanto i manufatti venivano gettati, per esempio, in fiumi e torrenti. Nel caso della vasca si può dunque ipotizzare un cerimoniale per molti versi affine, il cui destinatario non sarebbe stata una divinità guerriera, ma piú probabilmente legata alla sfera agricola e domestica. Dal punto di vista tecnologico la struttura ora musealizzata è un vero e proprio capolavoro della carpenteria antica, ma non solo. Mauro Cremaschi, che con Maria Bernabò Brea ha guidato l’intervento di scavo e ha poi seguito il lungo percorso culminato con l’inaugurazione del museo, ha spiegato come – sebbene i molti scavi a


tutt’oggi condotti abbiano confermato la straordinaria perizia nella lavorazione del legno delle comunità terramaricole – il caso di Noceto sia comunque eccezionale, anche perché dà prova di notevoli capacità progettuali e ingegneristiche. Alle quali si deve aggiungere la forza delle motivazioni addotte da chi decise di avviare una costruzione, che, date le sue proporzioni, dovette essere frutto di un impegno collettivo non indifferente. Inoltre, le indagini hanno dimostrato che si dovrebbe, in realtà, parlare di vasche, poiché quella che oggi possiamo vedere era stata preceduta da una struttura analoga, c h e p ro b a b i l m e n t e c e d e t t e prim’ancora d’essere ultimata. Si trattava, anche in questo caso, di un bacino di forma rettangolare, di 19 x 9 m – per alloggiare il quale fu scavata una fossa di 20 x 14 m, per

una profondità di 4 m –, i cui resti tornarono alla luce dopo lo smontaggio della seconda struttura, in vista del suo restauro e della sua, allora auspicata, musealizzazione. Il fallimento del primo tentativo non scoraggiò i costruttori, che,

anzi, fecero tesoro degli errori commessi e seppero correggerli. Fu dunque posta in opera, smantellando parzialmente la vasca piú antica, una sorta di grande scatola parallelepipeda, lungo il cui perimetro (segue a p. 45)

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LA CIVILTÀ DELLE TERRAMARE Per riassumere, seppur a grandi linee, i caratteri distintivi della civiltà delle terramare, occorre partire dal nome. Una vulgata ancora oggi molto diffusa lo attribuisce all’adattamento di un vocabolo dialettale emiliano, ma non è cosí. Tutto ebbe inizio nell’Ottocento, quando gli agronomi, riferendosi alla pratica – già citata da Plinio il Vecchio – di ammendare (vale a dire migliorarne la resa) le terre da prato troppo argillose con marna – ovvero con argilla scagliosa, sbriciolata, avente la funzione di rompere le zolle –, si resero conto che, invece di raggiungere le colline per procurarsela, si potevano utilmente sfruttare i cumuli di terra ricca di cenere, ossa, ceramica e altre sostanze organiche cosí frequenti nella Pianura Padana. Monticoli che furono quindi battezzati terre marne e la cui natura era data dall’essere quanto restava di antichi insediamenti.

In questa pagina: immagini degli scavi condotti nel 1877 nella terramara di Castione Marchesi (Parma), diretti da Luigi Pigorini. Come si vede nelle foto, le indagini misero in luce straordinarie strutture in legno.

Nella pagina accanto, in alto: disegno ricostruttivo del villaggio terramaricolo di Montale (Modena). Nella pagina accanto, in basso: un’immagine delle strutture della terramara Santa Rosa di Poviglio.

A fare chiarezza provvide Pellegrino Strobel (1821-1895), uno dei padri della paletnologia italiana, il quale sottolineò come il termine marna, dal punto di vista geologico, nulla aveva a che fare con quelle terre tanto ricercate, e sarebbe stato dunque meglio optare per terramare, una parola che, come scrisse, «se non ha il vantaggio di esprimere un’idea, non offre almeno lo svantaggio di offrirne una falsa». Questo particolare tipo di villaggi preistorici si diffuse nel corso del II millennio a.C. nella Pianura Padana centrale e illustri paletnologi, come Gaetano Chierici (1819-1886) e Luigi 42 a r c h e o


Pigorini (1842-1925), non ebbero dubbi sul fatto che l’organizzazione interna di questi insediamenti doveva essere caratterizzata dalla presenza di abitazioni su palafitte, pur ipotizzando scenari diversi. Chierici immaginava infatti che le case sopralevate fossero costruite su bacini allagati intenzionalmente, mentre Pigorini era convinto che le abitazioni fossero effettivamente sorrette da pali, ma che al di sotto non vi fosse acqua, se non quella piovana. Questo secondo scenario è stato peraltro confermato dalle ricerche degli ultimi decenni e se ne può oggi avere un’idea visitando il Parco archeologico della terramara

di Montale (www.parcomontale.it), dove sono state realizzate le ricostruzioni di alcune strutture palafitticole, basandosi sui dati offerti dagli scavi condotti nel sito. Mentre l’assetto generale delle terramare si ripete con regolarità, le dimensioni possono essere molto diverse tra loro e sono generalmente legate al tipo di area scelta per l’insediamento. È anche importante rilevare che la diffusione delle terramare ebbe riflessi rilevanti sul paesaggio. Il mutamento piú vistoso interessò la consistenza del patrimonio forestale: il diboscamento era infatti una pratica normale per popolazioni dedite

all’agricoltura e all’allevamento, al fine di aumentare la disponibilità di terre coltivabili e di pascoli. La scarsa consistenza delle testimonianze relative alle strutture architettoniche degli insediamenti è stata in larga parte compensata dai reperti recuperati in oltre un secolo di scavi e di ricognizioni di superficie. Il materiale relativo alle comunità terramaricole – per lo piú ceramica e manufatti in bronzo – è abbondante e ha permesso di ricostruire gli aspetti piú salienti della vita di queste genti e di identificarne le principali attività economiche e produttive. Le ricerche condotte negli ultimi anni sono state inoltre accompagnate da studi archeobotanici e archeozoologici, grazie ai quali è stato possibile identificare le specie che facevano parte della dieta delle genti terramaricole. Era molto diffusa la


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coltivazione di vari tipi di frumento, avena, orzo e panico (miglio), il cui consumo veniva integrato con quello dei frutti commestibili di piante come il corniolo, il nocciolo, il prugnolo, il melo selvatico e il pisello selvatico. Per quel che riguarda invece gli animali era nettissima la preponderanza delle specie allevate – pecore, capre, suini e bovini –, mentre era scarsa l’incidenza della selvaggina. Accanto all’agricoltura e all’allevamento, si svilupparono numerose attività, prima fra tutte la metallurgia, che raggiunse elevati livelli tecnologici ed estetici e divenne una delle caratteristiche piú significative della cultura terramaricola. È difficile stabilire quale fosse l’esatto ruolo dei metallurghi all’interno della società, ma è certo che col tempo la loro attività divenne sempre piú specializzata e si trasformò in una delle fonti di ricchezza per l’intera comunità, poiché i prodotti divennero un importante bene di scambio. In ambito domestico erano poi molto diffuse la produzione di oggetti in corno di cervo – accessori del vestiario, utensili per

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A destra: vaso decorato, dalla terramara di Castione Marchesi. Parma, Museo Archeologico Nazionale. In basso: grande tazza da Vicofertile, attribuibile a una fase avanzata della media età del Bronzo. Parma, Museo Archeologico Nazionale.

la filatura e la tessitura – e la lavorazione della lana. La ceramica prodotta dai vasai terramaricoli si caratterizza soprattutto per alcuni tipi di decorazioni plastiche e per la foggia delle anse (manici) che spesso sormontano le stoviglie. Il vasellame era realizzato con impasti di diverso spessore e colore, il piú diffuso dei quali era quello di colore bruno.

Il tornio era ancora sconosciuto e si adottavano tecniche diverse – colombina, stampi –, con le quali dare vita a una gamma abbastanza ampia di forme. Gli impasti piú fini erano utilizzati per fabbricare tazze e scodelle, mentre agli orci erano riservati impasti piú grezzi. Le decorazioni piú diffuse sono le solcature, le costolature e le bozze, mentre l’ansa spesso indicata come uno dei «marchi di fabbrica» della cultura delle terramare è quella avente la forma di una mezzaluna che ricorda le corna, tanto da essere spesso definita «cornuta». Alla metà del XII secolo a.C. le terramare entrarono in una profonda crisi, che non ebbe sbocchi e segnò la repentina scomparsa di questa cultura. Le cause di un declino cosí rapido sono ancora oggi sconosciute: è probabile che si sia trattato di fattori naturali – carestie ed epidemie provocate dall’eccessivo sfruttamento della terra e dal diboscamento – e umani, come lotte intestine, guerre, fragilità del sistema sociale.


Particolare della mappa del Catasto del Comune di Noceto del 1820, con l’indicazione della località Torretta: nella particella 1007 fu aperta la cava di terra marna che causò la distruzione del villaggio terramaricolo, mentre la vasca è stata trovata nella particella 1006, come indicato.

erano infissi 26 pali, alti piú di 3 m, che sostenevano le oltre 200 assi orizzontali che rivestivano le pareti d’argilla della fossa. A completare l’opera erano le due reti di travi, una alla base e una alla sommità della struttura, che disegnano altrettante griglie, con incroci perfetti. Un particolare, fra i tanti, conferma la maestria di chi mise mano al progetto e alla sua realizzazione: lo scavo del deposito accumulatosi nella vasca non ha restituito un solo truciolo di legno, a dimostrazione del fatto che pali, assi e travi furono preparati alla perfezione e non fu necessario alcun aggiustamento nel corso del montaggio. Altrettanto impressionante è la scelta del legname, che venne accuratamente selezionato: tutti gli elementi sono infatti in legno di quercia e, in alcuni casi, sono stati ricavati da alberi di notevoli dimensioni, alti fino a 13 m. Piante che, anche nell’età del Bronzo, non erano frequenti nei boschi della zona e che solo una profonda conoscenza del territorio e la capacità di governar-

Vasca votiva

ne le risorse potevano permettere di reperire. Sugli alberi utilizzati è stato inoltre possibile effettuare la conta degli anelli di accrescimento, grazie ai quali sono state ottenute, con un margine di approssimazione di quattro anni, le date in cui i tronchi furono abbattuti: i tagli avvennero in due momenti, a distanza di dodici anni, fra il 1444 e il 1432 a.C.

UNA MANUTENZIONE COSTANTE Le analisi archeobotaniche hanno inoltre permesso di ricostruire il contesto ambientale in cui la vasca era inserita e hanno rivelato che i bordi del bacino erano oggetto di manutenzione costante, affinché rimanessero sempre puliti e liberi da piante. Verosimilmente per permettere alle acque piovane di confluire nella vasca e mantenerne alto il livello. E, a questo proposito, vale la pena di sottolineare una delle numerose peculiarità rivelate dagli studi finora condotti: tutti gli oggetti furono deposti nella vasca quando era piena d’acqua.

Quanto agli oggetti, Angela Mutti, archeologa presso il Complesso Monumentale della Pilotta che – oltre ad avere partecipato allo scavo della vasca – ha lavorato all’allestimento del museo di Noceto, ha evidenziato come all’interno del bacino ne sia stata trovata una quantità notevole, con materiali eterogenei, che comprendono vasi interi o quasi, frammenti di vasi, manufatti in legno, in fibre vegetali, resti di animali, rami tagliati, oggetti miniaturistici. Un insieme eterogeneo, deposto in un arco che, come già ricordato, fu piuttosto breve – soprattutto se rapportato ai tempi lunghi dell’archeologia e della preistoria in particolare –, pari a circa un secolo, dunque a poche generazioni. Dal punto di vista tipologico, siamo di fronte al medesimo repertorio attestato nei villaggi terramaricoli a oggi noti, con alcune significative differenze: per esempio, gli oggetti miniaturistici sono percentualmente assai piú numerosi della norma e alcuni dei piú importanti a r c h e o 45


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manufatti in legno, quali gli aratri, non erano mai stati utilizzati e, con ogni probabilità, furono dunque fabbricati per essere deposti nella vasca. Circostanze che, se associate alle peculiarità in precedenza descritte, non fanno altro che corroborarne l’interpretazione in chiave votiva. Al di là dei dati offerti dallo scavo e poi dallo studio dei materiali, restano, naturalmente, molte questioni aperte e che forse non troveranno una risposta, dal momento che, è Sulle due pagine: particolari dell’allestimento del museo. Dall’alto, in senso orario: la vetrina dei manufatti in legno; i pannelli che corredano i reperti; materiali ceramici e reperti faunistici dei quali è stata riproposta la giacitura originaria.

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bene ricordarlo, siamo alle prese con un contesto ascrivibile a un’epoca per la quale non esistono fonti scritte.

UN ACCESSO RISERVATO A POCHI? Ma si tratta, in ogni caso, di interrogativi affascinanti: per esempio, se la vasca aveva una funzione legata al culto di una divinità agricola, la deposizione degli oggetti avveniva ciclicamente, al cambio delle stagioni, o magari in concomitanza di eventi eccezionali, quali

una carestia o un periodo di siccità? E l’accesso alla vasca era consentito a tutti i membri della comunità o solo ad alcuni dei suoi membri? O, ancora, la struttura era stata realizzata a uso e consumo del solo villaggio di Torretta di Noceto o costituiva una sorta di luogo di culto «federale» dei vari insediamenti esistenti nella zona? Come detto, è difficile, se non impossibile, rispondere, ma è piú che lecito immaginare scenari diversi, e a questo gioco offre ora un contributo prezio-

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so la visita del museo. L’intero allestimento possiede infatti una spiccata carica emozionale, sapientemente coniugata con l’indispensabile rigore scientifico delle informazioni offerte al visitatore. Il percorso espositivo si apre con una sala nella quale viene proiettato un video che aiuta a calarsi nell’ambiente che dovette fare da sfondo alla fioritura della civiltà delle terramare. Poste queste coordinate, ha inizio la ricca rassegna dei materiali recuperati nel corso degli scavi, a cui fanno da corredo i pannelli esplicativi, che puntualizzano, con linguaggio chiaro e testi brevi, ma esaurienti, tutti gli aspetti essenziali: dalle inda48 a r c h e o

gini archeologiche alla costruzione della vasca, dalle modalità di formazione del deposito trovato al suo interno alle indicazioni fornite dalle varie classi di reperti ai fini dell’inquadramento cronologico, solo per fare alcuni esempi.

REPERTI «PARLANTI» Nelle vetrine sono quindi gli oggetti a parlare e lo fanno con altrettanta efficacia, restituendo l’immagine di una comunità i cui membri avevano sviluppato una notevole perizia nel modellare l’argilla, lavorare il legno o intrecciare le fibre vegetali per ricavare una gamma di manufatti davvero ampia.

E se tazze, scodelle o orcioli costituiscono una presenza «normale» per un museo archeologico, del tutto eccezionali sono i reperti in materiali organici che le particolari condizioni di giacitura hanno permesso di recuperare. La vetrina degli utensili in legno offre in questo senso un colpo d’occhio spettacolare, non soltanto per la quantità degli oggetti, ma anche per la loro qualità: zappette, vanghe, immanicature per ascia, bastoni… un repertor io ricco, a cui appartengono arnesi dei quali si possono vedere molteplici varianti, a riprova di come per ciascuna delle attività legate


Aratro frammentario. Particolare del vomere e del foro ricavato per l’alloggiamento della stegola, vale a dire dell’elemento che serviva per guidare lo strumento. A destra: figurina fittile antropomorfa, interpretata come la rappresentazione di una donna ammantata, nella quale si potrebbe forse riconoscere il simbolo di una divinità femminile. In basso: due delle immanicature per ascia rinvenute nella vasca. Quest’ultima e i manufatti in legno che conteneva ci sono giunti in uno stato di conservazione eccezionale, favorito dall’assenza di ossigeno all’interno del riempimento del bacino e dalla sua natura argillosa.

all’agricoltura e alla silvicoltura fosse stata messa a punto la versione piú funzionale. Non meno impressionanti sono gli aratri, che possiamo immaginare come il simbolo di comunità che basavano la propria sussistenza sull’agricoltura. La vasca di Noceto ne ha restituiti cinque esemplari, ricavati da legno di quercia: nell’osservarli, si possono facilmente immaginare la perizia e il tempo necessari per poterli fabbricare, e sapere che quei vomeri non rivoltarono mai una singola zolla di terra non può che ribadire la certezza di essere di fronte alla testimonianza di un contesto senza dubbio particolare. Merita d’essere segnalata la scelta, qui ma non solo, di affiancare ai reperti e alle loro didascalie la riproduzione grafica di scene d’arte rupestre che mostrano l’oggetto in questione. Fanno da contraltare agli aratri i resti dei manufatti ottenuti grazie all’intreccio di fibre vegetali: si tratta per lo piú di ceste e cestini che, nella pratica quotidiana, potevano essere utilizzati, per esempio, per la raccolta e la conservazione di derrate alimentari. E, ancora

una volta, si deve alle particolari caratteristiche del deposito l’opportunità di vedere, perfettamente conservate, le trame degli intrecci. Tornando alla ceramica, oltre al vasellame – che comprende soprattutto tazze e orcioli – il repertorio degli oggetti miniaturistici è – come già ricordato

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– particolarmente ricco e include, oltre a repliche dei vasi d’uso piú comune, anche figurine di animali, nonché una statuina che riproduce una donna apparentemente ammantata, nella quale si potrebbe forse identificare l’immagine di una divinità (vedi foto a p. 49). Piú avanti, viene proiettato un video che ripercorre la storia della scoperta della vasca e documenta le varie fasi dello scavo e del successivo restauro. È una sorta di prologo al culmine del percorso espositivo: al termine della rassegna dei materiali, si giunge, infatti, alla grande sala in cui la vasca è stata collocata. Come si può intuire, quindi, l’allestimento è stato pensato come una sorta di ascensione: dopo aver superato, metaforicamente, le quote intermedie costituite dalla rassegna dei reperti e dalle loro spiegazioni, si raggiunge la vetta, vale a dire la grande struttura lignea costruita oltre tremila anni fa. E la scelta risulta senz’altro vincente, poiché quando si arriva a vedere da

vicino quell’opera grandiosa, crediamo sia impossibile rimanere indifferenti e certamente non ci si pente d’aver scelto di raggiungere Noceto, magari solo perché incuriositi dalla notizia dell’esistenza di una vasca antichissima… Prima d’essere accolta nella sua nuova casa, la struttura ha richiesto una lunga catena di

operazioni. Innanzi tutto, dopo aver ultimato lo scavo del deposito, la vasca è stata smontata, eseguendo all’inverso i passaggi messi in atto dai suoi costruttori. Ciascun manufatto è stato quindi avvolto in imballaggi impermeabili e «armato» con tavolette di sostegno esterne, per essere poi avviato al laboratorio di restauro, dove si è

Qui sotto: figurine fittili di animali. La presenza di un gran numero di oggetti miniaturistici è una delle peculiarità del deposito rinvenuto nella vasca. In basso: resti faunistici ascrivibili a varie specie animali: si possono riconoscere, fra gli altri, vari tipi di corna e un carapace di tartaruga. Nella pagina accanto: l’edificio che ospita il NUX, centro polifunzionale del Comune di Noceto di cui il museo è entrato a far parte.


proceduto all’immersione in vasche contenenti acqua e biocida. Il passo successivo e decisivo è stato rappresentato dal consolidamento, per il quale è stato utilizzato il glicole polietilenico, un polimero sintetico che si è sostituito all’acqua, impregnando le fibre lignee e assicurando cosí che i vari pezzi conservassero il loro volume originario. Al termine dell’intervento è stato quindi possibile avviare la ricostruzione della vasca che, naturalmente, ha richiesto particolari ac-

corgimenti, dal momento che la struttura non avrebbe piú avuto la «camicia» naturale costituita dalla terra nella quale era stata collocata.

DALL’ARGILLA ALL’ACCIAIO È stato quindi realizzato quello che gli specialisti hanno chiamato esoscheletro, vale a dire un’intelaiatura in acciaio alla quale sono stati ancorati gli elementi portanti della vasca, permettendo di replicare la situazione originaria. Il ri-

NEL NOME DELLA NOCE L’abbondanza di boschi di noci nel suo territorio sarebbe alla base del nome Noceto e questa tradizione è stata evocata con la scelta di ribattezzare NUX il Centro culturale «Biagio Pelacani», complesso polifunzionale nel quale sono riuniti la Biblioteca «Don Lorenzo Milani», il Teatro «Giuseppe Moruzzi» e il Centro museale «Francesco Barocelli». Quest’ultimo, intitolato allo storico e critico d’arte che fu anche sindaco di Noceto, ospita, oltre al Museo Archeologico «La vasca votiva di Noceto», il Museo della Tipografia «Ferdinando Libassi». Il museo custodisce l’antica tipografia «La Grafica Nocetana», acquistata dall’amministrazione

comunale nel 1977 dai familiari del maestro tipografo Ferdinando Libassi, onorandone cosí anche il desiderio di lasciare alla comunità le sue macchine e la sua produzione: milioni di caratteri, manifatture, filettature, un torchio della seconda metà dell’Ottocento, la macchina piana ottocentesca dei F.lli Mordini, la pedalina, la piana a macinazione cilindrica, nonché una collezione di vecchi manifesti. Uno spazio è inoltre riservato alla Sala delle Donne, una galleria di figure femminili, voluta per rendere omaggio alle donne – di nascita o d’adozione – del territorio comunale parmense che hanno lasciato un’impronta nella comunità di appartenenza.

sultato, ora sotto gli occhi di tutti, è di grande effetto, anche perché la passerella che corre lungo due lati del manufatto consente di osservare a distanza ravvicinata i vari elementi e dà modo di apprezzare l’altissima qualità della costruzione. Il racconto di un’avventura archeologica eccezionale si chiude quindi nella maniera piú logica, appagando le aspettative create dalla prima parte del percorso. È però doveroso sottolineare un aspetto che va oltre la puntuale descrizione degli aspetti archeologici e delle caratteristiche tecniche del monumento: la realizzazione del Museo Archeologico «La vasca votiva di Noceto» è infatti il frutto di un impegno collettivo costante e tenace, e tutti gli attori coinvolti – Ministero della Cultura, Università degli Studi di Milano, Comune di Noceto – hanno avuto il merito di credere nella bontà di un progetto che, in piú d’una occasione, poteva sembrare troppo complesso o ambizioso. Una storia esemplare, dunque, di come tutela, ricerca, valorizzazione e divulgazione siano gli anelli di una catena virtuosa, grazie alla quale un bene culturale può trasformarsi in un patrimonio realmente condiviso. DOVE E QUANDO Museo Archeologico «La vasca votiva di Noceto» Noceto (Parma), via Ignazio Silone 1 Orario 1° novembre-31 marzo: giovedí-domenica, 10,00-13,00 e 14,00-18,00; 1° aprile-31 ottobre: giovedí-domenica, 10,00-13,00 e 15,00-19,00 Info tel. 340 1939057; e-mail: info@vascavotivadinoceto.it; https://vascavotivadinoceto.it a r c h e o 51


MOSTRE • VENEZIA

IL RITORNO DEL GIOVANE «VIAGGIATORE»

LUNGHE TRECCE ROSSE, IL TORSO NUDO E LO SGUARDO PENSOSO: SI PRESENTA COSÍ, DOPO UN ATTENTO RESTAURO, IL PERSONAGGIO RAFFIGURATO SU UNA LASTRA DA CERVETERI, FELICEMENTE TORNATA IN ITALIA E OGGI ESPOSTA IN MOSTRA A VENEZIA. MA CHI RITRAE QUEL RAFFINATO ED ENIGMATICO VOLTO? di Daniele F. Maras

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ew York, 16 giugno 2020: la casa d’aste inter nazionale Christie’s mette in vendita un frammento di lastra etrusca in terracotta dipinta, del tipo prodotto a Cerveteri tra il VI e il V secolo a.C. La decorazione raffigura un giovane di profilo, dipinto con vividi colori, con lunghi capelli rossi intrecciati e raccolti in un’elaborata acconciatura e con un copricapo a tesa, e con un bastone sinuoso, che lo caratterizzano come un viaggiatore. L’oggetto proveniva dalla collezione di Hanita Edelman (1915-2019) e Aaron Dechter (1918-2000) ed era stato messo in vendita dopo la loro scomparsa. In precedenza, essi stessi l’avevano acquistato presso la medesima casa d’a52 a r c h e o

tura si attivò subito per seguire la vicenda e verificare se esistessero le condizioni per avviare una rogatoria internazionale per il suo rimpatrio. A quel punto, grazie a una fortunata serie di circostanze, la Fondazione Luigi Rovati di Monza si interessò all’oggetto in vendita e contattò la Soprintendenza per l’Etruria Meridionale, proponendo di acquistare il frammento dipinto e cederlo allo Stato, con il fine di completare la selezione conosciuta di lastre figurate dello stesso tipo, già presenti nelle collezioni italiane. La Fonste nel 1997, che nel catalogo dazione portava cosí a compidella vendita attribuiva il ma- mento una delle proprie vocanufatto a un’anonima «proper- zioni istituzionali – cioè quella di promuovere e rendere fruibity of a gentleman». Data l’importanza del reperto, le a tutti il patrimonio archeoil nostro Ministero della Cul- logico nazionale – e il Ministero


A destra: la lastra in terracotta dipinta raffigurante un giovane che porta un piccolo cappello a tesa, detto petaso, tipico dei viandanti: di qui la scelta di ribattezzarlo «Viaggiatore etrusco». Il manufatto è stato prodotto a Cerveteri attorno al 500 a.C. Nella pagina accanto: kylix raffigurante Edipo che, travestito da viandante, ascolta l’enigma formulato dalla sfinge di Tebe, da Vulci. 470 a.C. circa. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.

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MOSTRE • VENEZIA

poteva recuperare rapidamente un bene culturale finito all’estero. Iniziava cosí la novella odissea del «Viaggiatore etrusco», come è stato soprannominato il giovane raffigurato sulla lastra, che ha ripreso la strada di casa, attraversando di nuovo l’oceano, nonostante i limiti e i rallentamenti 54 a r c h e o

imposti dalla pandemia, che hanno richiesto piú tempo del previsto per consentirne il ritorno in Italia. Il frammento è dunque arrivato presso la Soprintendenza e ha potuto essere studiato da Leonardo Bochicchio, Rossella Zaccagnini e da chi scrive, vale a dire da alcuni

tra gli archeologi che maggiormente si sono occupati delle lastre ceretane negli ultimi anni, in connessione con le due esposizioni allestite al Castello di Santa Severa (2018) e alla Centrale Montemartini di Roma (2019-2020), nelle quali centinaia di nuovi frammenti


LE LASTRE DIPINTE: STORIA E RECUPERI La pittura parietale etrusca su lastre di terracotta dipinta è documentata in modo consistente solo a Cerveteri e per un periodo relativamente breve, tra la metà del VI e la metà del V secolo a.C. Già nell’Ottocento, la scoperta nella necropoli della Banditaccia delle Lastre Boccanera e delle Lastre Campana, poi finite rispettivamente al British Museum e al Louvre, aveva mostrato la qualità e il pregio di queste espressioni artistiche, alle quali si aggiunsero nel tempo numerosi frammenti, oggi conservati in musei italiani e stranieri. Nel 1965, in una monografia di Francesco Roncalli, il censimento degli esemplari noti annoverava 53 lastre. All’inizio del 2016 i Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale hanno recuperato a Ginevra una grande quantità di reperti sottratti illegalmente all’Italia, fra i quali, insieme a vasi greci e statue romane, si trovava una straordinaria serie di terrecotte etrusche, comprendenti frammenti architettonici e lastre parietali policrome. Quasi in contemporanea, gli strumenti di diplomazia culturale del Ministero della Cultura hanno portato a siglare un importante accordo di cooperazione internazionale con la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, che ha permesso il rientro in Italia di un’ulteriore serie di frammenti di lastre dipinte. Nel 2017, infine, alcuni altri frammenti sono stati ritrovati, una volta tanto, nel corso di uno scavo regolare a Cerveteri, in località Manganello. Lo studio, le analisi tecniche e il restauro condotti dalla Soprintendenza per l’Etruria Meridionale hanno portato a due grandi esposizioni che si sono susseguite a Santa Severa nel 2018 e Roma nel 2019-2020, dove il pubblico ha potuto ammirare le opere d’arte recuperare e apprezzare i risultati delle ricerche. Ma la storia delle lastre non finisce qui: altri esemplari furono infatti ritrovati nel corso di scavi clandestini del secolo passato e finirono all’estero sul mercato illecito. La Soprintendenza e le forze dell’ordine sono in costante collaborazione per proseguire attivamente la ricerca e il recupero delle antichità perdute. Il «Viaggiatore etrusco» è una storia a lieto fine, che si spera sia di buon auspicio per il futuro delle lastre dipinte.

appartenenti a questa classe di reperti sono stati presentati al pubblico per la prima volta. In seguito, il «Viaggiatore» è partito di nuovo, ma per un tragitto assai piú breve, per approdare al laboratorio di restauro del consorzio Kavaklik ed essere affidato alle

metà del V secolo a.C. Presumibilmente si trattava, almeno in origine, di un sostituto durevole delle tavole di legno che con ogni probabilità proteggevano e rivestivano le murature in pisé (terra compattata) o In alto: casse contenenti frammenti di lastre dipinte, al momento del sequestro operato nel 2016 presso il Porto Franco di Ginevra. Nella pagina accanto: frammento di lastra dipinta con figura di giovane uomo. Fine del VI sec. a.C. In basso: il «Viaggiatore etrusco» prima del restauro.

mani esperte di Antonio Giglio, specialista nella conservazione delle lastre dipinte. Lastre di terracotta dipinta con decorazione figurata simili a quella appena tornata in Italia furono prodotte e diffuse a Caere (Cerveteri) tra la metà circa del VI e la prima a r c h e o 55


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potendo contare sull’aiuto del con- sotto il mento della figura. Alla testo archeologico di provenienza, spalla destra si appoggia un lungo ormai irrimediabilmente perduto. bastone di colore arancione, la cui sommità è biforcata, con un’estremità piú lunga dell’altra. UN GIOVANE PENSOSO Il giovane di profilo rivolge lo Nei tratti del volto e nella forma del sguardo in basso a sinistra, con at- sopracciglio arcuato e dell’occhio teggiamento pensoso. I lunghi ca- sgranato dipinto in poche rapide pelli sono raccolti in robuste trecce pennellate si riconosce la maniera rosse, che ricadono sulle sue spalle e della piú recente officina di produsulla schiena, e incorniciano la fron- zione delle lastre ceretane, all’opera te e le tempie con un’elaborata serie nella prima metà del V secolo a.C., di riccioli bruni a spirale. Per quan- che da una caratteristica comune a to è dato di vedere dalla parte con- molti esemplari è stata denominata il «Gruppo delle labbra contornate». servata, il giovane è a torso nudo. Sulla sommità del capo è posato un In particolare, hanno caratteristiche minuto cappello a tesa di colore simili al «Viaggiatore» un Sileno DIMENSIONI grigio: il cosiddetto petaso, tipico ebbro scoperto nel santuario del STANDARDIZZATE Le lastre etrusche avevano per lo piú di viandanti e viaggiatori, trattenu- Manganello (vedi foto a p. 60) e un misure standard, comprese tra i 110- to da un sottile laccio che pende piccolo frammento con profilo ma120 cm di altezza e i 50-60 cm di larghezza e venivano poste l’una a fianco dell’altra per comporre scene elaborate, con molti personaggi, oppure, piú raramente, trattate come quadri singoli che raffiguravano scene chiuse in se stesse. A oggi, si conoscono oltre quattrocento esemplari, per la maggior parte noti da singoli frammenti, ma in alcuni casi conservati in larga parte o per intero. I soggetti delle scene dipinte, quando riconoscibili, si riferiscono soprattutto a temi mitologici, ma anche a musica e danze, giochi atletici e combattimenti di armati. Mancano invece del tutto le scene di banchetto e di cerimonie funebri che sono tra le tematiche preferite della pittura tombale etrusca coeva. In questo panorama si inserisce quindi il «Viaggiatore etrusco», tornato finalmente in Italia per incontrare le altre lastre sue sorelle, dopo che era stato riportato alla luce e poi spedito all’estero in un momento imprecisato del secolo scorso. Per saperne di piú sull’identità del giovane raffigurato sul frammento In alto: frammento di lastra dipinta con profilo maschile. superstite della lastra, occorre ripar- Nella pagina accanto: frammenti di lastra dipinta con raffigurazione di uomo tire dai dati a nostra disposizione e armato. La produzione di queste opere godette di un successo considerevole, in analizzare i confronti possibili nelle quanto permetteva di ottenere elementi decorativi di notevole pregio e assai piú iconografie della stessa epoca, non durevoli delle analoghe pitture su legno. mattoni crudi degli edifici pubblici e privati di maggior impegno. Cosí come i rivestimenti lignei potevano ospitare decorazioni dipinte anche grandi e complesse, delle quali non è giunta fino a noi alcuna traccia, le piú solide lastre di terracotta divennero un supporto privilegiato per decorazioni sia geometriche che figurate, che aveva l’innegabile vantaggio di essere assai piú resistente all’usura e alle intemperie, pur mantenendo una libertà d’esecuzione paragonabile a quella della grande pittura su tavola.

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schile da un sequestro del 2016 (vedi foto alla pagina precedente). Ma il «Viaggiatore» è di gran lunga più elaborato e raffinato e dipende dalla mano di un maestro. Giovani in abito da viandante, con petaso e bastone, sono spesso raffigurati su stele a rilievo e vasi dipinti su fondo bianco (lekythoi) in contesti funerari ateniesi coevi alla nostra lastra, con l’intento di alludere al momento della partenza per l’ultimo viaggio verso l’aldilà. Tuttavia, nonostante la somiglianza ideale con il giovane dai lunghi capelli, sembra difficile giustificare un riferimento funerario per una lastra dipinta destinata a decorare un edificio della città. Non si può invece escludere che il giovane, che forse porta una

parrucca, sia un attore, impegnato in in genere rappresentato con petaso una performance rituale. Ma anche e bastone quando si maschera da cosí, quale ne sarebbe il soggetto? vecchio viandante per entrare in incognito alla corte di Itaca occupata dai proci: un ruolo senz’altro inaIL VIAGGIO DEGLI EROI Resta da esplorare l’ipotesi mitolo- datto per il giovane dalla ricca capigica: quali sono dunque i miti in cui gliatura dipinto sulla nostra lastra. può comparire un giovane eroe in Altri possibili candidati, raffigurati tenuta da viaggio? Nonostante il a volte come viaggiatori nell’icopetaso, andrebbe escluso Hermes, da nografia della ceramica attica, sono una parte per l’assenza di ali sul co- Teseo, nel suo ritorno trionfale pricapo e, dall’altra, perché il lungo verso Atene; Bellerofonte, in viage tortuoso bastone mal si concilia gio per sconfiggere la Chimera; con una rappresentazione del cadu- Giasone, partito alla volta della ceo, principale attributo del dio in Colchide; eventualmente persino Perseo, prima che ricevesse in doGrecia come in Etruria. Molti sono gli eroi del mito che in no l’elmo di Ade che donava l’inun momento della loro storia han- visibilità. Ciascuno di loro ha qualno affrontato un viaggio, a partire che possibilità di corrispondere ovviamente da Odisseo, che però è all’aristocratico «Viaggiatore etru-

Nelle lastre dipinte a oggi note prevalgono le raffigurazioni a tema mitologico

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MOSTRE • VENEZIA

«UNA PAGANA FELICITÀ»

sco», benché la posa statica e pensosa non appaia del tutto compatibile con un eroe guerriero, come sono tutti quelli elencati.

E SE FOSSE EDIPO? Vale dunque la pena di considerare un’ultima ipotesi, che ha un fascino tutto suo e in effetti potrebbe rivelarsi appropriata. Nell’antica iconografia, l’abbigliamento da viaggio è tipico soprattutto di un personaggio del mito, che partí in esilio volontario dopo che l’oracolo di Delfi gli aveva predetto che avrebbe ucciso il proprio padre e sposato la propria madre. Si tratta di Edipo, il controverso e tormentato eroe tebano can58 a r c h e o

tato dai poeti tragici. Tra i momenti salienti della storia di Edipo, gli artisti antichi selezionarono quasi esclusivamente il suo incontro con la Sfinge: il mostro alato dal corpo di leone e dal busto di donna, che infestava Tebe e poneva a tutti il famoso enigma dell’animale che cammina con quattro zampe al mattino, due al mezzogiorno e tre alla sera. Com’è noto, l’eroe fu l’unico a comprendere la risposta (l’uomo nell’infanzia, nell’età matura e nella vecchiaia), liberando cosí la città dalla piaga del mostro e venendo di conseguenza acclamato re. Sin dall’epoca arcaica, le pitture vascolari e i rilievi greci raffigurano

«A Villa Giulia incontrai qualche cosa che già era in me». Cosí raccontava Massimo Campigli la sua visita a Roma nel 1928 che segnò un punto di svolta nella sua arte e individuò nel mondo etrusco un punto di riferimento essenziale per la costruzione del suo linguaggio pittorico. «Io a Roma non posso nemmeno dire di aver visto tale o tal altra opera etrusca. È lo spirito di quel mondo che mi avvolse e che mi sembrò di “ricordare”». È una vera e propria folgorazione, un colpo di fulmine, quello che descrive Campigli, che si inserisce in un filone di recupero dell’originalità etrusca da parte degli artisti italiani del primo Novecento in funzione anticlassica e specialmente antiromana. Modelli etruschi diretti o indiretti, per esempio, si riconoscono in quegli anni nelle opere di scultori come Libero Andreotti, Corrado Vigni, Arturo Martini, Marino Marini – gli ultimi due addirittura si definivano orgogliosamente «etruschi» essi stessi – e piú tardi anche Alberto Giacometti. La fascinazione etrusca si nota un po’ meno nella pittura, anche se accanto a Campigli si può menzionare una figura del calibro di Mario Sironi. La mostra di Palazzo Franchetti a Venezia permette quindi ai visitatori moderni di cogliere dal vivo questo dialogo per immagini tra le antichità preromane e gli artisti contemporanei. In alto: antefissa a testa femminile. Seconda metà del IV sec. a.C. Montalto di Castro, Depositi Fondazione Vulci. Nella pagina accanto: Donne velate, olio su tela di Massimo Campigli. 1943. Bologna, Collezione privata.


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Edipo in tenuta da viaggio, con il petaso sul capo o piú spesso sulle spalle, mentre ragiona sulla risposta da dare alla Sfinge, che di regola si immagina appollaiata su una colonna. Nella maggior parte delle rappresentazioni l’eroe è in piedi e si rivolge direttamente al mostro che, per esigenze di composizione, vincolate dai limiti del campo figurato, ha dimensioni ridotte e si trova spesso piú in basso di Edipo. Lo sguardo di quest’ultimo, perciò, in questi casi è puntato in basso come nel caso del «Viaggiatore etrusco», che quindi potrebbe celare l’identità del piú sfortunato degli eroi greci, perseguitato dal fato senza possibilità alcuna di scampo.

UNA NUOVA AVVENTURA Qualunque sia stata l’identità originaria del personaggio raffigurato – destinata a rimanere ipotetica a meno che un colpo di fortuna non porti alla luce altre parti della stessa lastra – il frammento ora rientrato in Italia merita di essere conosciuto e apprezzato dal pubblico. Frammento di lastra dipinta con l’immagine di un Sileno ebbro, da Cerveteri, località Manganello. VI sec. a.C.

Per questo motivo, il «Viaggiatore etrusco» è approdato a Venezia, dove è esposto nell’ambito della mostra «Massimo Campigli e gli Etruschi. Una pagana felicità». Nata dalla collaborazione tra la Soprintendenza per l’Etruria Meridionale e il gruppo ACP-Art Capital Partners, titolare della sede espositiva di Palazzo Franchetti nel sestiere di San Marco, la mostra vede a confronto le tele dipinte da Massimo Campigli – tra i massimi artisti italiani del Novecento –, con materiali archeologici di provenienza etrusca, per lo piú recuperati in seguito a sequestri da parte delle forze dell’ordine ed esposti qui per la prima volta. Campigli incontrò gli Etruschi per la prima volta nel 1928, durante una visita al Museo di Villa Giulia, quando venne colto da un «coup de foudre» – come lui stesso lo chiamò – mentre era in cerca di una nuova ispirazione artistica. «Avevo naturalmente già visto arte etrusca nelle riproduzioni e anche al Museo di Firenze», con-

fessa lo stesso pittore anni dopo, ripercorrendo la propria storia: «ma si ha un bel vedere un’opera d’arte, se non siamo maturi per essa è come se non la vedessimo» (vedi anche il box a p. 58). L’arte di Campigli è fatta soprattutto di forme geometriche e ritratti ideali, nei quali si prediligono le figure femminili e i colori tenui e bruni delle terre, che richiamano le antiche terrecotte. Dagli Etruschi il pittore trae soprattutto la lezione della caratterizzazione tipologica delle figure, che si allontanano dall’idea del ritratto individuale per assumere una funzione simbolica e ideale, in cui la figura umana si astrae dalla vita reale e diviene un simbolo espressivo in sé: «Ed ecco le urne etrusche, e una rivelazione: che queste grosse teste non importa che somiglino al defunto, sono l’equivalente, la somiglianza è segreta, come la vita dell’effigie è segreta». A Venezia il «Viaggiatore etrusco», ritratto idealizzato di un giovane in cui le forme geometriche che ne scandiscono la figura acquistano un gusto squisitamente decorativo, si trova a dialogare a distanza di millenni con un pittore del Novecento che vedeva nell’arte etrusca «un mondo di serenità» e «un assai bel simbolo d’Italia per chi viva nella modernità di Parigi». Un incontro tra due viaggiatori, dato che anche Massimo Campigli, nato a Berlino e cresciuto a Firenze, visse molta parte della sua vita in Francia, tra Parigi e Saint-Tropez, ma soggiornò e lavorò anche a Milano,Venezia e Roma. DOVE E QUANDO «Massimo Campigli e gli Etruschi. Una pagana felicità» Venezia, ACP-Palazzo Franchetti fino al 16 gennaio 2022 Orario martedí-domenica, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 041 2689389; www.acp-palazzofranchetti.com



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LUOGHI DEL SACRO/10

Statua in terracotta policroma raffigurante Eracle. Fine del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. La scultura faceva parte della decorazione del tempio di Portonaccio a Veio, a cui apparteneva anche il celebre Apollo, riprodotto nella pagina accanto, in alto. Nella pagina accanto, in basso: le lamine d’oro rinvenute presso il tempio B di Pyrgi (Santa Severa, Roma). Fine del VI-inizi del V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

LETTERE

AGLI DÈI DEGLI

ETRUSCHI LA SCRITTURA COME «LUOGO» PRIVILEGIATO DEL SACRO? A PARTIRE DALLA FINE DEL VII SECOLO A.C., IN ETRURIA – MA ANCHE IN ALTRE PARTI DELL’ITALIA ANTICA – L’ATTIVITÀ SCRITTORIA SI LEGA PROGRESSIVAMENTE ALL’AMBITO DELLA SFERA RELIGIOSA. A INSEGNARE QUELL’ARTE, INFATTI, SONO VERI E PROPRI SCRIBI-SACERDOTI. ED È GRAZIE, ESSENZIALMENTE, A QUELLE TESTIMONIANZE EPIGRAFICHE CHE OGGI POSSIAMO RICOSTRUIRE RUOLO E FUNZIONI SPECIFICHE DEI GRANDI SANTUARI DELLA CIVILTÀ ETRUSCA di Daniele F. Maras

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T

ra tutti i popoli del Mediterraneo antico, gli Etruschi hanno avuto un rapporto speciale con la scrittura, che utilizzavano in vari ambiti della loro vita quotidiana, dallo scambio di doni all’artigianato e dalle sepolture ai documenti ufficiali pubblici e privati. Le iscrizioni hanno inoltre trasmesso tracce di una tradizione poetica e sappiamo per certo che esisteva una letteratura tecnica etrusca, specializzata soprattutto nell’ambito sacro e rituale. Ecco perché, volendo trattare dei santuari d’Etruria, si è scelto di descrivere il rapporto tra la scrittura e il sacro e il ruolo delle testimonianze scritte nell’interpretazione dei contesti archeologici di carattere rituale. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, il legame tra scrittura e religione non è stato immediato in Etruria, ma si è sviluppato nel corso del tempo. Tra l’VIII e il VII secolo a.C., i primi documenti epigrafici etruschi hanno spesso a che fare con ambiti cerimoniali e rituali, ma in un contesto piut-

tosto profano, in connessione con i simposi e gli scambi di dono delle aristocrazie orientalizzanti. Le piú antiche dediche votive etrusche risalgono alla seconda metà del VII secolo e sono state trovate a Veio, dove una coppa di impasto rosso è dedicata a Tina, corrispondente al greco Zeus, e a Marsiliana d’Albegna, dove un unguentario miniaturistico è offerto in una tomba al demone funerario Vanth. Solo con il passaggio al VI secolo a.C., in corrispondenza con la fine dell’epoca orientalizzante, inizia a diffondersi una vera e propria tradizione di epigrafia sacra, destinata a svilupparsi nel tempo, fino a fare dei santuari etruschi i luoghi privilegiati per il ritrovamento di iscrizioni.

IL SANTUARIO DEI POTENTI Da apripista in questo senso funzionò il santuario di Portonaccio, a Veio, che, nel passaggio tra il VII e il VI secolo a.C., presenta una copiosa raccolta

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LUOGHI DEL SACRO/10

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di dediche votive iscritte, assai piú numerose di tutte le iscrizioni di altro genere provenienti dal resto della città e dalle sue necropoli. In particolare, nel settore orientale del santuario, un deposito votivo composto prevalentemente di buccheri e ceramica etrusco-corinzia era dedicato alla dea Menerva: i vasi consacrati furono frantumati e sigillati presso l’altare della dea, nel corso delle sue ricostruzioni successive, conservando cosí la traccia del culto piú antico. Le dediche seguono la formula standard del dono tra personaggi di rango (per esempio, mini muluvanice larice hvuluves, «mi ha donato Larice Fuluves»), come se la divinità fosse posta al vertice della gerarchia aristocratica e ricevesse graziosamente le offerte votive alla maniera di un principe o di un re. Tra i dedicanti si contano personaggi di stirpe regale (come Karcuna e Velthur Tulumnes), condottieri stranieri (come Avile Vipiiennas), figure impegnate in campo internazionale (come Mamarce Apunie, con contatti a Lavinio, e Avile Acvilnas, apparentato con gli Aquilii di Roma e in rapporto con le aristocrazie di Vulci) e persino una donna (Venalia Slarinas, caso unico nelle dediche di quest’epoca). In questa fase, a Veio, la scrittura è

Orbetello

Cosa

Tuscania

Vulci Regae

Norchia

Tarquinia

Mar Tirreno

Viterbo Falerii

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Blera

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Sutri Nepi Narce Gravisca S. Giovenale Lago di Capena Bracciano Pyrgi

Cerveteri

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In alto: carta dell’Etruria tosco-laziale, con i siti principali. In basso: frammento di una coppa in impasto rosso sulla quale si legge una dedica a Tina, lo Zeus degli Etruschi, da Veio. Seconda metà del VII sec. a.C.

Nella pagina accanto, in alto: vaso sul quale è graffita una dedica a Velthur Tulumnes, da Veio. Nella pagina accanto, in basso: modello alfabetico veiente di epoca orientalizzante.


ancora uno strumento elitario, ma la sua funzione si sta spostando lentamente dalla celebrazione della casa aristocratica alla manifestazione di una religiosità pubblica. Alcune caratteristiche particolari della scrittura di Portonaccio e l’analisi delle iscrizioni meglio conservate fanno capire che nel luogo di culto operavano scribi professionisti, formati in una vera e propria scuola di scrittura santuariale. Nel corso del VI secolo a.C., l’insegnamento della scrittura va legandosi sempre piú all’ambito sacro e i maestri di scrittura sono sacerdotiscribi: oltre che in Etruria ne abbiamo traccia nel Lazio, a Lanuvio, dove, alla fine di quel secolo, è stato inciso il piú antico alfabetario latino noto, in Veneto, a Este, dove il santuario di Reitia divenne il centro di diffusione della scrittura veneta, e nella celtica Como, che ha restituito i piú antichi alfabetari leponzi.

Lo spostamento dell’ultimo scriba «di corte», per cosí dire, dal palazzo al santuario si osserva a Pyrgi, in uno dei piú famosi luoghi sacri etruschi, che, alla fine del VI secolo a.C., fu ricostruito in forme monumentali da Thefarie Velianas, magistrato supremo di Caere (Cerveteri; città di cui Pyrgi era uno dei porti, n.d.r.): una figura di stampo tirannico, che i contemporanei fenici non esitarono a chiamare «re».

CARATTERI INNOVATIVI Alcune scoperte recenti e gli studi di Giovanni Colonna hanno permesso di raccogliere alcune interessanti informazioni su questo personaggio storico. La tomba della sua famiglia era la cosiddetta Tomba delle Iscrizioni Graffite, costruita nel cuore della necropoli della Banditaccia (uno dei sepolcreti di Caere, n.d.r.), dove, attorno al 530 a.C., fu sepolto Larice Veliinas, molto proba-

bilmente il padre del futuro tiranno. Nel ricco apparato epigrafico del sepolcro spiccano due iscrizioni di fondazione piú lunghe e articolate, riferite rispettivamente alla moglie del defunto, Ramtha Spesias, e al di lui braccio destro, Velcha Sitaras. I due testi sono stati incisi evidentemente da un solo scriba professionista, la cui grafia mostra caratteri molto innovativi, destinati ad avere importanti conseguenze nella storia della scrittura (vedi box a p. 69). Una ventina d’anni piú tardi, Thefarie Velianas raggiunse il vertice del potere a Caere e decise di far costruire a Pyrgi il tempio denominato B dagli archeologi, come ringraziamento per la dea Uni, assimilata alla greca Era e alla fenicia Astarte, che ne aveva favorito l’ascesa. La nuova costruzione prese il posto di un edificio sacro di piccole dimensioni, che venne interamente raso al suolo. Per questo motivo, al culto praticato a r c h e o 67


LUOGHI DEL SACRO/10

in precedenza nel luogo fu riservato un piccolo recinto scoperto (la cosiddetta area C), dotato di due altari per una coppia di divinità, la stessa Uni e il suo consorte Tina. In loro onore viene incisa una lunga preghiera su una lamina di bronzo (vedi box a p. 70), per scrivere la quale viene chiamato lo stesso scriba che anni prima aveva lavorato nella Tomba delle Iscrizioni Graffite. Piú o meno in contemporanea, un’anfora d’importazione, presumibilmente piena di pregiato vino greco, viene offerta anche all’Apollo di Pyrgi, venerato nel santuario meridionale con il nome di Suri, ed 68 a r c h e o

è ancora la stessa mano ad apporre l’iscrizione di dedica. Sembra evidente che lo scriba di famiglia di Thefarie Velianas, divenuto segretario ufficiale del leader, abbia curato anche le sue manifestazioni religiose pubbliche, utilizzando la sua grafia particolare e innovativa, che divenne di moda nella città.

UNA LEGGE SCRITTA NELL’ORO Un diverso scriba, benché formato alla stessa scuola, ha invece inciso le famose lamine d’oro di Pyrgi, che registrano la dedica del nuovo santuario monumentale attorno al

510-500 a.C., che comprendeva il tempio B, il recinto in muratura con un grandioso portale e l’edificio delle Venti Celle. Benché siano state ritrovate accartocciate nell’area C, le lamine d’oro erano in origine affisse a uno stipite della porta del tempio e ne rappresentavano il documento ufficiale di fondazione. Due di esse sono coeve alla costruzione del tempio: la prima è scritta in etrusco con un tono sacro e ufficiale; la seconda riporta una versione fenicia molto libera del testo etrusco. Evidentemente la doppia dedica in etrusco e fenicio sanciva un’alleanza


A PYRGI E CAERE SI SCRIVEVA COSÍ

La scrittura usata al tempo di Thefarie Velianas segna un punto di svolta per l’antica Caere, che la distingue da tutte le altre città dell’Etruria meridionale. Infatti, lo scriba che ha inciso i testi di fondazione nella Tomba delle Iscrizioni Graffite, la laminetta di bronzo dell’area C e la dedica di un’anfora nell’Area Sud, sembra essere stato il primo a ruotare di 90° il segno a M per indicare la sibilante marcata (che gli Etruschi pronunciavano come la sc di scena) e ha introdotto una forma di rho con l’accenno di una seconda gamba, che ebbe successo nella vicina città alleata di Roma, dando origine alla R latina che ancora oggi usiamo. Nelle lamine d’oro, invece, opera di un diverso scriba, venne introdotto per la prima volta a Caere il segno a 8 per esprimere il suono f (che era già in uso per esempio a Tarquinia), indispensabile per l’ortografia del nome stesso di Thefarie. Caere (Cerveteri). Uno scorcio della necropoli della Banditaccia, uno dei sepolcreti della grande città etrusca. Testimonianze epigrafiche rinvenute in alcune tombe, fra cui, in particolare, quella delle Iscrizioni Graffite, hanno provato la peculiarità dello stile adottato dagli scribi locali, che li distingueva in maniera netta dagli altri grandi centri dell’Etruria.

tra Caere e Cartagine, simile a quella che negli stessi anni anche Roma aveva stretto con la città fenicia. I Cartaginesi sarebbero stati accolti con pari diritti a Caere e, molto probabilmente, sacerdotesse di Astarte emigrarono a Pyrgi e si occuparono, fra l’altro, di scrivere il testo ufficiale in fenicio. Nel contenuto delle due lamine parallele sono riportate la richiesta dell’edificio sacro da parte della stessa dea Uni, la dedica da parte di Thefarie Velianas e le date in cui il voto era stato pronunciato e in cui avvenne poi l’inaugurazione. A conclusione del testo, in poche pa-

role viene espressa un’importante legge sacra, che si può intendere come segue: «Gli anni del tempio siano tanti quanti questi chiodi dalla testa dorata» (in etrusco pulumchva, forse «borchie, bullae», in fenicio hkkbm, letteralmente «stelle»). Questa espressione allude al rituale della clavifixio, che prevedeva di ribattere a ogni anniversario un chiodo, per segnare il passaggio del tempo e tenere il conto degli anni dell’edificio sacro. Un rito del genere si celebrava in epoca romana anche a Bolsena, nel santuario di Nortia, la Fortuna etrusca, e soprattutto a Roma, nel tempio di Giove Capi-

tolino, dove il clavus annalis («chiodo annuale») veniva fissato nella cella del tempio di Minerva a cura del piú importante magistrato in carica: di regola un console, ma a volte un dittatore creato appositamente per la durata del rito. La scrittura, perciò, oltre a lasciare traccia dei nomi dei dedicanti e delle divinità venerate, serviva a registrare e tramandare ai posteri le leggi sacre. Alcuni anni piú tardi (probabilmente dodici, secondo l’interpretazione piú probabile), una terza lamina si aggiunse alle prime due, con un testo piú breve solo in etrusco, in cui viene nominato ancora una volta il a r c h e o 69


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potente Thefarie Velianas, che sembra aver decretato una festa annuale alla dea Uni da svolgersi nel corso del mese di Masan. Ancora una volta un riferimento al calendario e una legge sacra che istituiva un rito ufficiale per la divinità. È impressionante, perciò, che diversi secoli piú tardi, il libro rituale etrusco recuperato grazie alle bende della celebre «Mummia di Zagabria» prescrivesse ancora, nella clausola finale, un sacrificio a Uni nel mese di Masan. Al di là dei documenti speciali co-

me leggi sacre, preghiere e testi religiosi, il rapporto tra la scrittura e i santuari si manifesta in Etruria soprattutto nelle dediche votive e nelle consacrazioni. Nel primo caso, come abbiamo già visto per Portonaccio, è essenziale il riferimento al dedicante, di cui si conserva il nome. Abbiamo cosí la possibilità di avere informazioni preziose sui devoti: quali fossero la loro condizione sociale, il sesso, la provenienza, i rapporti personali e a volte anche le motivazioni.

UNA PREGHIERA PER GLI SPOSI DIVINI Accanto alle famose lamine d’oro, anche una laminetta di bronzo era stata sepolta nell’area C adiacente al tempio B di Pyrgi. Larga circa 10 cm e lunga circa 29,6 cm (ovvero un piede, antica unità di misura in uso anche presso i Romani), aveva sei fori per chiodi di affissione ed era ridotta in piccoli frammenti che hanno richiesto un paziente e laborioso restauro. Il testo inciso su una delle due facce conserva una sorta di litania rivolta alle due divinità alle quali la piccola area sacra con i suoi due altari era dedicata (vedi il disegno qui sotto): ¹[uneial . chias . tinas .] atalen[as . sea]s . tin[as] ²[thvari]e[na]s [. tinas ?] . spuria[z]es . tera[s] ³teras [.] spu[r]iaze[s . u]neial var [.] thvarie chia 4uneial chias [.] tin[as . a]talenas . seas . tinas 5thvarienas [. -]e[------]ur Per la dea Uni si ripete l’epiteto Chia, mentre il suo consorte Tina è chiamato Atalena, Sea e Thvariena. Purtroppo le attuali conoscenze dell’etrusco non consentono di comprendere a pieno il significato di questi appellativi, che evidentemente servivano a elogiare gli dèi del luogo e a distinguerne le reciproche competenze. Tuttavia, secondo Giovanni Colonna, che a piú riprese si è occupato dell’interpretazione, si può avanzare l’ipotesi che Uni sia invocata come «la giusta» (Chia) e Tina come il dio «di questo luogo» (Thvariena) e «dei nostri padri» (Atalena): di entrambi gli dèi si implora l’attenzione benevola e propizia per chi rivolge loro questa preghiera.

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Se nelle fasi piú antiche l’uso di apporre dediche scritte sembra riservato alle classi agiate, nel corso del tempo si nota sempre piú l’accesso a queste pratiche da parte di personaggi di basso rango, stranieri, liberti e addirittura schiavi. La partecipazione femminile ai culti è documentata da iscrizioni in pochi casi, ma significativi, generalmente rivolti a divinità femminili, a conferma di una certa distinzione di genere nell’ambito votivo. A differenza delle dediche, le iscri-


zioni di consacrazione registrano A destra: modello solo il nome della divinità, alla quadel tempio B di le l’oggetto offerto resta indissoluPyrgi. bilmente legato. Dallo studio dei In basso: contesti che hanno restituito questo l’altorilievo genere di documenti sappiamo che, frontonale del di regola, in Etruria ogni luogo sa- tempio A di Pyrgi. cro ospitava piú di una divinità e 470-460 a.C. diversi tipi di attività cultuali. Roma, Museo A Pyrgi, per esempio, il santuario Nazionale Etrusco monumentale, come abbiamo visto, di Villa Giulia. era dedicato a Uni-Astarte, ma aveva posto anche per Uni Chia e Tina Thvariena, oltre che per Thesan, la

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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dea dell’aurora, alla quale, in un secondo tempo, fu dedicato il tempio A, persino piú grande del tempio di Uni. Nel santuario dell’Area Sud, invece, la coppia titolare del culto era composta dai signori dell’Oltretomba, Suri e Cavatha: il primo, in realtà, corrispondente a un Apollo infero e la seconda assimilata a Persefone fanciulla. Accanto a essi, però, sono attestate consacrazioni a Hercle (Eracle), Menerva (Atena), Fufluns (Dioniso). Nel santuario di Portonaccio, oltre a Menerva (Atena) e Rath (Apollo), rispettivamente titolari dell’altare e del tempio, si conoscono Turan (Afrodite), Aritimi (Artemide) e una altrimenti sconosciuta Vena, forse una ninfa delle acque. A Cerveteri, nel luogo sacro in località Sant’Antonio, al culto di Hercle è associato quello di Turms (Hermes) e Rath (Apollo). A Gravisca (località in cui sorgeva il porto di Tarquinia, n.d.r.) Turan (Afrodite) è venerata fianco a fianco con Uni e Vei (Demetra), ma anche con Suri/ Apollo e Cavatha. A Orvieto, infine, il tempio del Belvedere ha restituito dediche a Suri (Apollo/Ade) e a Tinia Calusna (Giove infero), ma non è escluso che vi fossero venerate anche Cavatha (Persefone) e altre divinità. Si direbbe che per gli Etruschi sia dunque inappropriato parlare di un santuario dedicato a un dio specifico, dal momento che al padrone di casa si potevano aggiungere molti compagni, cosí che i devoti potessero rivolgere offerte e preghiere a piú di una divinità quando si recavano al tempio, a seconda delle proprie esigenze.

TRACCE DI UN’ANTICA ACCOGLIENZA Grazie alle testimonianze scritte, abbiamo modo di osservare come i santuari etruschi fossero spesso luoghi di accoglienza di stranieri, frequentati da gente venuta da lontano. Oltre ai Cartagi72 a r c h e o

LA STORIA DI KANUTA Da oltre vent’anni, ormai, gli scavi in località Campo della Fiera, alle porte di Orvieto, stanno portando alla luce i resti del leggendario santuario di Voltumna: il fanum nel quale, secondo gli autori latini, si riunivano periodicamente i rappresentanti dei popoli d’Etruria per effettuare cerimonie sacre comuni e prendere decisioni politiche. Tra il 2007 e il 2008, lo scavo di una struttura interrata in conci di tufo riempita da materiale votivo comprendente basi di statuette e ceramiche di pregio, ha portato alla luce una grande base modanata di epoca arcaica, che, in origine, ospitava una statuetta di bronzo stante, a piedi uniti, alta almeno 40 cm. Su due lati della base, lungo il margine esterno della piattaforma superiore, è incisa una lunga iscrizione etrusca che ne registra la dedica da parte di «Kanuta Larecenas, liberta, moglie di Aranth Pinies».

Una seconda riga, incisa piú in basso al di sotto della modanatura, riporta il nome di un gruppo di divinità femminili destinatarie del dono votivo, le Tluschva del Marveth (probabilmente Ninfe o Grazie, ricordate con questo nome sul Fegato di Piacenza), e il suo luogo di destinazione «nel luogo celeste» (o qualcosa di simile). Vale la pena di soffermarsi sull’orgogliosa manifestazione della devozione di Kanuta, partita da una condizione servile e un tempo dipendente della nobile famiglia Larecena, ma poi resa libera e divenuta moglie di un membro della gens Pinies, i cui discendenti saranno tra le famiglie dominanti di Tarquinia e titolari della sontuosa Tomba Giglioli alla fine del IV secolo a.C. Quale migliore motivo di gratitudine per le dee che avevano favorito la sorprendente ascesa sociale della loro devota, consentendole di sposare un uomo libero e acquisire sufficiente ricchezza da offrire un dono prezioso? Da questa prospettiva risulta chiaro perché Kanuta avesse voluto esprimere chiaramente la propria condizione di liberta (lautenitha) a complemento dell’orgoglio e della felicità con cui poteva ora dirsi moglie (puia), libera e indipendente, come poteva essere una donna etrusca negli ultimi decenni del VI secolo a.C. La base modanata rinvenuta negli scavi del santuario individuato in località Campo della Fiera, a Orvieto. Epoca arcaica. Su due lati del manufatto è incisa una lunga iscrizione etrusca che ne registra la dedica da parte di «Kanuta Larecenas, liberta, moglie di Aranth Pinies».


nesi, ai quali era destinata la lamina d’oro in fenicio (come se fosse un invito ufficiale diplomatico), a Pyrgi si conserva un buon numero di dediche votive in greco, specialmente dall’area meridionale, ma anche alcune in latino e diverse iscrizioni in grafie etrusche diverse da quelle in uso a Caere, che dimostrano la presenza di viaggiatori provenienti da altre città della regione. Viaggiatori greci sono conosciuti anche a Gravisca, presso il porto di Tarquinia, dove i navigatori euboici avevano impiantato un santuario già nei primi decenni del VI secolo a.C., che continuò a essere frequentato per diversi secoli.

NOMI AGGIUNTI È suggestivo osservare qui l’uso di pre-consacrare i vasi da donare (in genere importati da Atene) con l’aggiunta del nome delle divinità graffito in etrusco a cura del personale del santuario. Quando poi, in

un secondo momento, gli oggetti erano acquistati e deposti nel luogo sacro al termine di un rito di offerta, spesso i dedicanti aggiungevano il proprio nome: è il caso, per esempio, di un greco Deialkos, che offrí un vaso a Turan/Afrodite, e di un etrusco Peithe, che ne offrí un altro a Vei/Demetra. Lo stesso fenomeno si ripete a Populonia, dove una glaux, una tazza attica a figure rosse decorata con il Tre immagini della tazza attica a figure rosse (glaux) decorata con il simbolo ateniese della civetta tra rami d’olivo e contrassegnata da uno scriba locale con il nome della dea Cavtha (Persefone), da Populonia. In un secondo momento un greco di nome Karmon aggiunse la propria dedica alla dea in bella scrittura etrusca.

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TALISMANI, MAGIA E DEFISSIONI I nomi delle divinità etrusche non ricorrono solo nelle iscrizioni di dedica e nei testi sacri: esistevano infatti anche casi speciali di consacrazione di oggetti allo scopo di conferire loro un potere magicoreligioso, come dei talismani che il devoto poteva portare con sé una volta uscito dai luoghi di culto. È il caso, per esempio, di una serie di preziosi vasi attici a figure rosse trovati a Vulci, che portano tutti la medesima iscrizione: fuflunsl pachies velclthi, ovvero «(Sacro) a Fufluns bacchico nella (città) di Vulci». Evidentemente i quattro vasi (due kylikes, un rhyton a testa di mulo e forse un kantharos) erano

stati consacrati al corrispondente etrusco di Dioniso e consegnati ad altrettanti adepti ai misteri del dio, che li conservavano a casa come pegno della propria iniziazione e, in almeno due casi, li portarono con sé nella tomba. Una simile funzione di talismano, anche se forse paragonabile a una sorta di souvenir di un pellegrinaggio, avevano probabilmente i cosiddetti pocola deorum: vasi a vernice nera con il nome di una divinità sovradipinto in latino (o piú raramente in etrusco), che sono stati trovati in diversi contesti dell’Italia centrale, ma soprattutto in Etruria e nel Lazio.

Qui sopra: statuette di piombo riferibili a una pratica magica, da una tomba della necropoli di Sovana. III sec. a.C. Raffigurano due personaggi nudi, un uomo e una donna (Zertur Cencnas e Velia Satnea), con le mani legate dietro la schiena. In alto: uno dei vasi attici a figure rosse recanti l’iscrizione: 74 a r c h e o

Diverso è invece il caso in cui gli dèi venivano chiamati in causa per augurare il male di qualcuno, con un rito assimilabile alle pratiche di magia nera. Anche in questo caso nell’antichità si faceva uso della scrittura, per inviare una lettera agli dèi inferi e chiedere il loro intervento contro il proprio nemico. Questo genere di lettere, spesso incise su laminette di piombo e deposte in contesti funerari, si chiamavano «defissioni» e se ne conservano molti esemplari in diverse lingue, compresi il greco, il latino e l’etrusco. In questi casi, si elencavano accuratamente i nomi delle persone da colpire, ma in genere si taceva di proposito il nome dell’autore del rito, per non correre il rischio che le divinità invocate si rivolgessero contro di lui o lei. Piuttosto originale è la testimonianza di una coppia di statuette di piombo da Sovana, raffiguranti un uomo e una donna con le mani legate dietro la schiena, i cui nomi sono stati incisi lungo il fianco: Zertur Cencnas e Velia Satnea. Sembra evidente, infatti, riconoscere un rito simile al voodoo, in cui ci si augurava di colpire le persone odiate per il tramite della loro effigie.

fuflunsl pachies velclthi, ovvero «(Sacro) a Fufluns bacchico nella (città) di Vulci», da Vulci. Nella pagina accanto: specchio raffigurante il mitico indovino Calcante nelle vesti di un aruspice, che esamina il fegato di una vittima sacrificata per trarne auspici. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco.


simbolo ateniese della civetta tra rami d’olivo, è stata contrassegnata da uno scriba locale con il nome della dea Cavtha (Persefone) e piú tardi un greco Karmon ha aggiunto la propria dedica alla dea in bella scrittura etrusca. Luoghi di incontro come questi, affacciati sul mare, facilitarono l’integrazione culturale tra viaggiatori e gente del posto e favorirono la nascita del sincretismo religioso, che diede alle divinità etrusche

l’aspetto di quelle greche corrispondenti e introdusse aspetti del culto e della mitologia classica presso gli Etruschi. Il rapporto tra la scrittura e il sacro trova il suo apice nella particolare attenzione che gli Etruschi prestavano alla previsione del futuro e alla registrazione della volontà degli dèi. Gli autori latini e greci insistono frequentemente sulla speciale competenza degli aruspici di tradizione etrusca nell’interpretare i se-

gni del volere divino nelle viscere degli animali e nel volo degli uccelli, ma anche nei prodigi celesti e nei fenomeni naturali. Esistevano però in Etruria anche forme piú dirette di consultazione delle divinità, che facevano uso della scrittura. Un esempio particolarmente interessante è quello delle cosiddette sortes: barrette o gettoni iscritti di pietra o di metallo, spesso forati, che venivano estratti a caso da un contenitore o da un mazzo legato (segue a p. 78)

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COSTRUIRE PER GLI DÈI La storia dei luoghi sacri in Etruria si può leggere nei siti archeologici grazie ai resti delle costruzioni che li caratterizzavano e che costituiscono l’impronta piú evidente dell’originalità e indipendenza della cultura etrusca nell’ambito del Mediterraneo antico. Per gli Etruschi, il sacrificio e l’offerta furono, da sempre, l’aspetto rituale piú importante per l’incontro con le divinità. Dal punto di vista della percezione del sacro, inoltre, era fortemente sentita la necessità di determinare nettamente i confini tra umano e divino, paesaggio naturale e abitato, lecito e illecito, nonché tra le sfere d’azione delle diverse divinità. Appare pertanto chiaro il motivo per cui l’unità base di ogni luogo di culto in Etruria sia sempre stato l’altare circondato da un recinto, che segnava i limiti dello spazio sacro nel quale andavano compiuti i riti di offerta. Diversi tipi di altare servivano per diverse funzioni: dai rozzi cumuli di pietre, come quelli osservati nell’area Sud di Pyrgi, alle tavole d’oro e d’argento, come quelle raccontate dalle fonti letterarie che, per ovvi motivi, non sono state conservate fino ai giorni nostri. Un tipo speciale di altare di pietra, caratteristico della religione etrusca, era perforato da un condotto verticale che si collegava a un foro nel terreno, per accogliere offerte liquide destinate a raggiungere le divinità ctonie o infere fin nel cuore della terra. L’area C di Pyrgi, come si è accennato, aveva un altare di questo tipo posto accanto a uno Lastra in terracotta dipinta della serie Campana raffigurante un sacerdote di fronte a un altare, da Cerveteri. 550-525 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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tradizionale per sacrifici celesti, e anche l’altare di Menerva a Portonaccio era del tipo perforato. Alcuni esemplari iscritti, invece, dedicati a Tinia (Giove) e a Culsans (Giano) sono stati trovati nel territorio dell’antica Volsinii, a Orvieto, Bagnoregio e Bolsena.

Modellino in terracotta di un tempio etrusco, da Vulci. II sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Di fronte alla preponderanza dell’altare, come strumento funzionale di contatto tra uomo e divinità, l’edificio di culto come casa del dio passava idealmente in secondo piano. Ciononostante, nel corso dei secoli si sviluppò una particolare tradizione architettonica, che, dall’epoca arcaica, fece del tempio il punto focale del santuario, con importanti aspetti decorativi e monumentali. Sin dalle piú antiche testimonianze si nota una tendenza a mantenere per la casa della divinità la forma delle piú antiche abitazioni, che asseconda la naturale resistenza conservatrice della religione: capanne rotonde o ovali quando quelle rettangolari erano divenute la norma; strutture rettangolari a oikos quando la casa aristocratica preferiva la forma a tre vani aperti su un cortile; templi tuscanici a tre celle, quando ormai le abitazioni si erano sviluppate in forme complesse, che preludevano alla forma della domus romana e italica. A partire dal VI secolo a.C. l’originario oikos fu dotato di un’anticamera (pronao) ed elevato su un podio, che fungeva in qualche modo da limite e sollevava l’edificio sopra la sfera umana, diventando piú tardi una caratteristica comune anche dei templi romani. L’aggiunta di colonne e prolungamenti laterali sulla fronte (alae) e delle tre celle sul fondo completò la formazione del cosiddetto «tempio tuscanico», immortalato da Vitruvio nel suo

trattato Sull’Architettura, che aveva la sua manifestazione piú compiuta e monumentale proprio nel tempio di Giove Capitolino a Roma, voluto dai Tarquinii e inaugurato agli inizi della repubblica. Lo sviluppo storico dell’architettura sacra non fu però lineare e presenta di volta in volta soluzioni speciali ed eccezioni, legate al materiale da costruzione, a particolarità regionali e alla funzione dei diversi edifici di culto. Per esempio, accanto ai modelli templari di tradizione etrusca (come il tempio A di Pyrgi o quelli di Portonaccio a Veio e del Belvedere a Orvieto), si conoscono templi peripteri alla maniera greca, circondati da una selva di colonne (come il tempio B di Pyrgi e il Tempio Grande di Vulci). Allo stesso tempo, nei frequentatissimi santuari emporici della costa, come a Gravisca e nell’area Sud di Pyrgi, continuavano a essere innalzati sacelli di materiale povero, simili a dimesse dimore, anche se dedicate alle potenti divinità che proteggevano le leggi dell’ospitalità e dell’accoglienza. Nella lontana Kainua (oggi Marzabotto), città rifondata tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. nel territorio controllato da Felsina (Bologna), la topografia sacra consente di comprendere la funzione dei diversi edifici sacri, a partire dal mundus, il pozzo sacro considerato origine della fondazione urbana, e

dall’auguraculum, da cui erano stati presi gli orientamenti astronomici delle strade, fino al quartiere settentrionale (regio I), interamente destinato al culto, con un grande tempio periptero dedicato a Tina (Giove) e un tempio tuscanico per Uni (Giunone), come divinità protettrici della città. In mancanza di pietre da costruzione pregiate, come marmo o travertino, gli edifici sacri etruschi avevano spesso l’elevato in legno e mattoni crudi costruito sopra le imponenti fondazioni di blocchi che di regola sono tutto ciò che resta al giorno d’oggi. La magnificenza delle costruzioni, però, era assicurata dalla versatilità di questi materiali poveri, che consentivano agli architetti soluzioni ardite e a volte grandiose, e soprattutto ai rivestimenti di terracotta, nella decorazione dei quali gli Etruschi divennero maestri indiscussi. Tetti decorati con lastre policrome, antefisse dalle forme sorprendenti e immaginifiche, grandi composizioni ad altorilievo con elaborati soggetti mitologici, statue acroteriali che popolavano il colmo dei tetti, grandi lastre dipinte affisse alle pareti con vivaci scene del mito e della vita quotidiana: gli artisti d’Etruria seppero trasformare i necessari rivestimenti di protezione delle strutture di legno e argilla nel supporto naturale di un’arte figurativa che attraversò i secoli e ancora oggi sorprende per le sue straordinarie capacità espressive.

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il nome di ogni divinità che avesse mandato un messaggio attraverso macchie, segni e deformità del fegato di una pecora sacrificata. Il potere magico della scrittura, come mezzo di comunicazione tra l’uomo e la divinità, richiedeva che i sacerdoti etruschi fossero eruditi e letterati, depositari di una scienza che si tramandava di generazione in generazione attraverso libri scritti nella lingua dei loro avi. PER SAPERNE DI PIÙ

Ricostruzione grafica del possibile aspetto del Tempio Grande di Vulci.

assieme per poi interpretarne il significato nel corso del rito detto in latino sortilegium (letteralmente «raccolta delle sorti», da cui il moderno sortilegio). Gli esemplari etruschi sono di regola contrassegnati con il solo nome di una divinità, come per esempio Suri (ad Arezzo e a Viterbo), Artumes (a Tarquinia), Menerva (a Veio), l’oscura Lurmita (a Perugia). Presumibilmente il sacerdote chiedeva quale divinità fosse offesa o richiedesse una speciale attenzione da parte di chi interrogava l’oracolo e la «pesca» casuale offriva una facile risposta. Non manca però il caso di un gettone di pietra da Arezzo consacrato ad Aplu Putes (probabilmente «Apollo Pizio») sul cui retro era riportata la prescrizione: tur fart(a)ns, vale a dire «fai un’offerta al genius», la divinità del luogo. Questo metodo di divinazione usava la parola scritta come mezzo per ricevere messaggi dagli dèi, ma anche quando si faceva ricorso a oracoli a voce, recitati o «cantati» da sacerdoti specializzati, la scrittura era un mezzo utile per fissare la voce del dio e 78 a r c h e o

metterla, per cosí dire, nero su bianco. Piú di una scena incisa su specchi di bronzo raffigura un indovino che pronuncia un vaticinio ispirato dalla divinità, mentre qualcuno prende nota su tavolette cerate. Purtroppo nessuna di queste testimonianze è giunta fino a noi, forse perché trascritte su materiale deperibile. Ciononostante, un nastro di lamina di piombo fittamente iscritto trovato nel santuario di Punta della Vipera presso Santa Marinella (Roma) è stato interpretato come la trascrizione di un oracolo della dea Menerva, lí venerata, contenente una serie di prescrizioni rituali.

Giovanni Colonna (a cura di), Santuari d’Etruria, Catalogo della mostra (Arezzo, 1985), Milano 1985 Mario Torelli, La religione, in Giovanni Pugliese Carratelli (a cura di), Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986; pp. 157-237 Nancy T. de Grummond (a cura di), The Religion of the Etruscans, Austin 2006 Daniele F. Maras, Il dono votivo. Gli dei e il sacro nelle iscrizioni etrusche di culto, in Biblioteca di «Studi Etruschi», 46, Pisa-Roma 2009 Nancy T. de Grummond, Ingrid E.M. Edlund Berry (a cura di), The Archaeology of Sanctuaries and Ritual in Etruria, in Journal of Roman Archaeology, Suppl. 81, Portsmouth 2011 Adriano Maggiani, La religione, in Gilda Bartoloni (a cura di), Introduzione all’etruscologia, Milano 2012, pp. 395-418 Vincenzo Bellelli, Paolo Xella (a cura di), Le lamine di Pyrgi. Nuovi studi sulle iscrizioni in etrusco e in fenicio nel cinquantenario della scoperta, in Studi Epigrafici e Linguistici, 32-33, Verona 2016 Daniele F. Maras, Religion, in Alessandro Naso (a cura di), Etruscology, Boston-Berlino 2017: pp. 277-316

LA VOLONTÀ DEGLI DÈI D’altro canto, gli Etruschi immaginavano che gli dèi avessero il potere di «scrivere» nel mondo la propria volontà tramite segni divini nei fenomeni della natura e nelle viscere delle vittime sacrificali. Gli aruspici, in qualità di sacerdoti specializzati, sapevano «leggere» questi segni e rivelarne il significato. Da questo punto di vista, la mappa divina inci- NELLA PROSSIMA PUNTATA sa sul Fegato di Piacenza era uno strumento per trascrivere in lettere • Il Tempio di Gerusalemme



AFGHANISTAN CIVILTÀ PERDUTA

Nel gennaio del 2001 presentammo per la prima volta un ampio servizio sulla storia antica dell’Afghanistan e il suo immenso patrimonio archeologico e monumentale, paventando i rischi ai quali quell’eredità culturale – di valore universale e già allora messa a dura prova da decenni di saccheggi – poteva andare incontro, alla luce della nuova temperie geopolitica che si stava profilando. Ci eravamo chiesti, in quell’occasione e parafrasando il titolo di un racconto dello scrittore e viaggiatore Bruce Chatwin, quanto dovesse durare ancora il «lamento per l’Afghanistan»... incontro con Anna Filigenzi, direttrice della Missione Archeologica Italiana in Afghanistan, a cura di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale Sulle due pagine: le montagne del Pamir, ai confini con il Tagikistan. 80 a r c h e o


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assarono due mesi e il mondo apprese la notizia della definitiva distruzione – avvenuta mediante l’uso di cariche esplosive nel corso di quattro giornate, a partire dal 12 marzo, – dei capolavor i dell’arte greco-buddhista, gli ormai tristemente celebri Buddha di Bamiyan. Un atto di profonda violenza, fisica e simbolica, seguita, solo poco tempo dopo, dagli attacchi dell’11 settembre. Fu l’inizio di un nuovo capitolo della martoriata storia dell’Afghanistan o, forse piú correttamente, si trattò del prosieguo di un complesso «gioco» di interessi internazionali, le cui origini risalgono a qualche secolo addietro… Sono trascorsi venti anni e il grande paese centroasiatico è tornato nuovamente sulle prime pagine della cronaca internazionale. Vent’anni in cui il mondo ha compiuto cambiamenti epocali. E l’Afghanistan? «La guerra ha ucciso due milioni di persone, e i feriti si contano a centinaia di migliaia. I campi profughi del Pakistan e dell’Iran ospitano quasi quattro milioni di rifugiati. Le campagne, le valli e i villaggi sono deserti, l’agricoltura e l’allevamento a un punto morto, le infrastrutture (ponti,

Piatto cerimoniale in argento dorato raffigurante Cibele, dea greca della natura, su un carro trainato da due leoni, in compagnia della dea alata Nike (25 cm di diametro), dal tempio a nicchie di Ai Khanum. III sec. a.C. Kabul, Museo Nazionale dell’Afghanistan.

strade, linee elettriche, canali e pozzi) distrutte al 99%. In città i mercati sono vuoti e le poche industrie ferme. L’Afghanistan non è che una distesa di rovine e la sua società è tornata indietro di piú di due secoli. […] e proprio allora le superpotenze che vi hanno condotto una guerra definita «a debole intensità» privano questo Paese martire di ogni aiuto e sostegno»: sono le parole di Philippe Flandrin, corrispondente di guerra, studioso e cronista tenace e appassionato delle vicende che riguardano il patrimonio archeologico afghano. Parole che – attenzione! – non sono state scritte oggi, bensí venti anni fa! Il suo libro-inchiesta, Le trésor perdu des rois d’Afghanistan, apparso nel 2001 (e tradotto in italiano con il titolo I tesori perduti dell’Afghanistan, Milano 2002) documenta le conseguenze di un ventennio terribile (quello precedente il 2001!), caratterizzato dal dominio di una mentalità oscurantista, ispirata a precetti religiosi, e sfociato nella dispersione del millenario patrimonio artistico e archeologico del Paese, distrutto dalla furia iconoclasta quanto, e soprattutto, dalle imperturbabili mire del mercato clandestino. a r c h e o 81


SPECIALE • AFGHANISTAN

Non è nostro compito, in questa sede, aggiungere alcunché alle tante notizie e ai commenti (troppo spesso conditi da rituale sdegno mediatico) che hanno monopolizzato la cronaca internazionale della scorsa estate. Desideriamo, invece, ricordare la storia e la vita di un Paese bellissimo, un tempo sogno di viaggiatori e archeologi, del suo patrimonio monumentale e archeologico, della sua civiltà. Ne abbiamo parlato con Anna Filigenzi, professoressa all’Università degli Studi di Napoli «L’Orientale» e profonda conoscitrice dell’archeologia e della storia dell’arte dell’Asia Centrale. Dal 2003, Anna Filigenzi dirige la Missione Archeologica Italiana in Afghanistan dell’ISMEO – Associazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente. ◆P rofessoressa Filigenzi, la conquista «occidentale» delle terre che oggi chiamia-

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A destra: Anna Filigenzi, direttrice della Missione Archeologica Italiana in Afghanistan, insieme a Ghulam Naqshband Rajabi, membro locale della Missione. In basso, sulle due pagine: la catena montuosa del Pamir, Afghanistan nord-orientale.

mo Afghanistan inizia millenni fa, e ha un protagonista d’eccezione… «Sí, e con esiti nel tempo che sembrano avvitarsi a spirale. Alessandro Magno dovette essere un geniale condottiero per riuscire a conquistare una porzione di mondo cosí vasta e a un prezzo cosí alto per i suoi eserciti, costretti ad attraversare deserti inospitali, valicare passi montani proibitivi, affrontare climi estremi e sfidare condizioni ambien-


tali sconosciute anche alle loro difese immunitarie, spesso perdendo la sfida, se dobbiamo tener fede ai racconti sulla decimazione dei soldati causata da malattie. Però, Alessandro Magno fu ancor piú geniale come “spin doctor” di se stesso. Avrà avuto dei consulenti di immagine, probabilmente, ma di certo ci avrà messo del suo per fare di sé un mito. Un mito che – va sottolineato – nasce già nel corso della sua breve vita e rimbalza poi attraverso la storia, dalle fonti classiche alla cultura idealistica dell’Ottocento, da cui sarà definitivamente consacrato eroe civilizzatore. E fu proprio quel che ci voleva per accompagnare, come un paradigma predittivo, la moder na conquista coloniale dell’Asia, che tuttavia, detto per inciso, in Afghanistan non ebbe molta fortuna». Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Testa in marmo bianco, forse raffigurante il principe Siddharta, da Peshawar (Pakistan). Arte del Ghandara, II sec. a.C. Collezione George Ortiz.


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I MILLENNI DI UNA CIVILTÀ 200 000-35 000 a.C. Numerosissimi siti in grotta testimoniano un forte popolamento databile al Paleolitico inferiore e medio. 35 000-8000 a.C. Siti in grotta del Paleolitico superiore e Mesolitico con industria litica e resti di arte figurativa. IV-III millennio a.C. Culture calcolitiche e dell’età del Bronzo. Tra il 3100 e il 2000 a.C. nell’Afghanistan meridionale si afferma la Civiltà dell’Hilmand, con città-stato ben organizzate, che allacciano rapporti con i centri della regione dell’Indo e della Mesopotamia. II millennio a.C. L’abbandono delle grandi città protostoriche coincide con l’affermazione di piccoli Stati locali incentrati su oasi fortificate; la diffusione delle lingue indoeuropee si accompagna a quella delle culture indo-iraniche. A partire dal 1500-1300 a.C. si diffonde la tecnologia del ferro. IX-VIII secolo a.C. (?) Forse in questo arco di tempo, nelle pianure del Sistan o della Battriana, visse e predicò Zarathustra, il grande profeta iranico (la cronologia ufficiale zoroastriana accetta invece la data del 630 a.C. per la nascita del profeta). VI-V secolo a.C. I territori che coincidono con il moderno Afghanistan vengono inglobati nell’impero achemenide; conquiste di Ciro il Grande e di Dario. 330-327 a.C. Alessandro Magno, seppur con difficoltà, acquisisce il controllo delle satrapie orientali dell’impero dei Persiani. 323 a.C. Morte di Alessandro Magno, seguita dalla rapida dissoluzione del suo dominio. 305-304 a.C. Seleuco e Chandragupta, fondatore dell’impero indiano dei Maurya, si dividono l’Afghanistan. 274-236 a.C. Sale al potere Ashoka, il piú grande sovrano della dinastia Maurya, che controllerà Kabul e Kandahar. 250-130 a.C. Regno greco della Battriana. 150 a.C. (?) Invasione dei Saka (Sciti). La Battriana viene occupata dalle tribú Yueh Chih, dalle quali si pensa discendano i Kushana. I-IV secolo d.C. L’Afghanistan e le pianure indiane sono unificate nell’impero dei Kushana. Kapisa (Begram) diviene capitale della regione di Kabul. Tra il I e il IV secolo d.C. fiorisce la straordinaria arte scultorea del Gandhara. 241 Invasione dei Persiani sasanidi: i Kushana vengono sottomessi. 371-420 Gli Unni Eftaliti si stabiliscono nella Battriana e si espandono anche nella parte meridionale dell’Hindukush. VI-X secolo Dinastie turche unificano il Paese e portano la capitale a Kabul. VII secolo Le prime armate islamiche si affacciano in Afghanistan. X-XI secolo Una dinastia turca si impadronisce di Ghazni e rovescia lo Stato induista degli Shahi. 1221 Invasione di Gengis Khan.

◆L ei ritiene, ci sembra di capire, che questa idea della «conquista» occidentale finisca per condizionare l’approccio alla storia afghana… «Per quanto riguarda la storia antica, noi continuiamo, pur senza rendercene troppo conto, a guardare lo scontro/incontro dialettico tra mondo greco e mondo asiatico con questa distorsione prospettica. Guardiamo senza vedere altro che la realtà (macroscopica, è vero) della penetrazione di modelli occidentali nel linguaggio figurativo e architettonico delle aree conquistate da Alessandro Magno, che peraltro non arrivano in una volta e per sem84 a r c h e o

pre, ma si nutrono di reiterazione, grazie ai rapporti con le culture microasiatiche, in cui l’elemento occidentale è inserito all’interno di un flusso costante di assorbimento e rielaborazione. L’archeologia ci ha già insegnato a guardare meglio questo cosiddetto “Oriente ellenizzato” da una prospettiva interna alle stesse culture asiatiche. Dovrebbe – e potrebbe – insegnarci molto altro, se la ricerca in quelle regioni non fosse resa cosí difficile dalle circostanze di questi ultimi anni e decenni. A questo punto vorrei aggiungere che preferirei usare la definizione concettualmente rovesciata di «Ellenismo orientalizzato»:


Samarcanda

K I R G H I Z I S T A N Pendjikent

C U Z B E K I S T A N

DUSHAMBE

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T A G I K I S T A N

Hissar Adjina Tepe Termez (Kara Tepe) Shortughai Dilbarjin Takht-i Sangin Altyn Depe

T U R K M E N I S T A N

Balkh Tillja Tepe (Bactra)

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Mazar-i Sharif

Mashhad Ak Kupruk

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Shotorak Shahar-i-Zohak Fondukistan Begram Kakrak Mingora Tepe SkandarJalalabad Bamiyan Païtava Foladi Khair-Khane KABUL K AB Hadda Passo Tepe Xazana Khyber M Mes Aynak Tep Guldara a Tepe Marandjan Peshawar Taxila Ghazni Landi T A N Kotal Islamabad Tepe Sardar Gardez

Srinagar

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Mundigak

Zabul

Bust Nad-i Ali

Shahr-i Sokhta Tar-o-Sar

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Kandahar

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Lashkari Bazar

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Amritsar

Deh Morasi Gundai

Hilmand

Harappa

IL PAESE IN CIFRE Quetta Mehrgarh

Forma di governo: Multan Stato islamico Superficie: 652 230 kmq Popolazione: 37 466 414 abitanti (al luglio 2021) Lingue ufficiali: dari e pashto Capitale: Kabul (4 336 000 abitanti nel 2021) (fonte: CIA’s World Factbook)

1271 Nel corso del viaggio che sarà poi raccontato ne Il Milione, Marco Polo visita il Paese. 1381 L’Afghanistan è conquistato da Timur (Tamerlano). Sotto i Timuridi, tra il XV e il XVI secolo, la capitale viene spostata a Herat. 1526 Parte dal cuore dell’Afghanistan il nucleo etnico e politico dell’unificazione imperiale del subcontinente da parte dei Moghul. 1747 Con l’elezione a sovrano del generale Ahmad, nasce il regno indipendente dell’Afghanistan. 1839-1841 e Scoppiano la prima e la seconda guerra anglo-afghana. 1878-1880

rende meglio l’idea e sgombera il campo dalla nozione paternalistica, forse oramai inconsapevole e involontaria ma fastidiosamente residuale, dell’Occidente civilizzatore». ◆C ome sintetizzare, se possibile, la grandiosità e la complessità di questo mondo greco «orientalizzato», riscoperto dall’archeologia? «In termini di patrimonio culturale, l’Afghanistan possiede un potenziale in gran parte ancora inesplorato, di cui ci rende certi quello che abbiamo potuto conoscere sin qui. L’Afghanistan è quello che ci piace definire «il

cuore dell’Eurasia», che, proprio per la sua posizione di cerniera fra mondi diversi ma tra loro collegati, nel corso del tempo ha donato e ricevuto stimoli infiniti. Pur se parzialmente, conosciamo dell’Afghanistan testimonianze che risalgono a culture del Paleolitico Superiore. Conosciamo le sue risorse naturali, che, insieme alla sua posizione geografica, pongono ancora oggi questo territorio al centro di grandi interessi economici e politici. Attraverso la ricerca archeologica abbiamo cominciato a capire che cosí doveva essere anche in antico. Tanto per fare un esempio, il lapislazzuli piú pregiato, in area euroasiatica, a r c h e o 85


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viene dall’Afghanistan e già nel periodo in cui fioriva la civiltà della Valle dell’Indo, tra III e II millennio a.C., il sito afghano di Shortugai (Afghanistan settentrionale) lo forniva ai grandi centri di produzione vallindi, che esportavano i prodotti finiti su scala internazionale. Monili prodotti in questi centri sono stati rinvenuti, per esempio, nelle tombe regali di Ur (nell’odierno Iraq)». ◆Q uanto era importante, in antico, questo minerale? «Di certo era estremamente prezioso nell’età pre e protostorica che alle pietre e ai colori abbinava significati e proprietà magico-terapeutiche. Dal lapislazzuli si ricavavano non solo monili, ma anche il pigmento da cui si traeva il blu intenso usato in pittura, sia per i dipinti murali sia per la decorazione policroma delle sculture. Per l’epoca storica, basta guardare ai grandi cicli pittorici dell’Asia Centrale di epoca tardo-antica e medievale per rendersi conto del ruolo centrale del blu lapislazzuli nelle culture visive di queste aree. In Afghanistan le testimonianze di pitture murali e policromie sono molto frammentarie (ma pur sempre eloquenti), anche a causa delle condizioni climatiche e della fragilità dei supporti (tra cui le sculture in argilla e gli intonaci a base di argilla e paglia triturata). 86 a r c h e o

Un pezzo di lapislazzuli proveniente dall’Afghanistan.

Recentemente, gli scavi di Mes Aynak (un sito a circa 40 km da Kabul, che siede sulla seconda piú grande miniera di rame al mondo, già sfruttata in antico; vedi box alle pp. 106-107), hanno restituito tracce piú consistenti, forse grazie proprio alle proprietà fungicide delle esalazioni di rame, che, oltre ad aver presumibilmente prodotto un inquinamento ambientale letale per il sito, potreb-


Nella pagina accanto, in alto: Shortugai (Afghanistan settentrionale). Resti dell’abitato della fine del III mill. a.C. Il sito, esplorato dal francese Henri-Paul Francfort negli anni Settanta del secolo scorso, era uno dei principali centri di esportazione del lapislazzuli, tra i minerali piú preziosi e ambiti in età pre e protostorica.

In questa pagina, in senso orario: sigillo a stampo raffigurante uno scorpione; sigillo in testatite rivestito in foglia d’oro raffigurante un leone con coda di scorpione e serpenti; collana con pendente aureo a forma di scorpione; statuina in steatite e testa in calcare bianco. Dalla Battriana, II mill. a.C. Collezione privata.

bero aver alterato il normale processo di deterioramento di colle e altri materiali organici presenti nei supporti». ◆ I l blu del lapislazzuli assume un valore particolare nella produzione artistica anche in epoca buddhista… «Ci hanno colpito molto gli occhi bistrati di blu di sculture di Buddha e di devoti. È cosí che abbiamo cominciato a cercare anche tra i reperti da altri siti buddhisti afghani tracce pur minimamente conservate e a studiarle. Si è aperto un mondo. Il blu degli occhi e, come abbiamo visto, anche dei capelli del Buddha, rimanda a una dimensione simbolica legata all’infinito, alla trasfigurazione spirituale e (come negli sfondi blu delle pitture centroasiatiche) a una dimensione mitica, sganciata dalle categorie di spazio e tempo, un tratto che si è poi trasmesso alla cultura visiva delle aree himalayane. Non è difficile comprendere quan(segue a p. 90)

Il blu del lapislazzuli rimanda a una dimensione simbolica legata all’infinito... a r c h e o 87


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1833-2021: COME UN PAESE RITROVA E CANCELLA IL SUO PASSATO 1833-1834 Charles Masson scopre Begram, dove raccoglie migliaia di monete; scava a Hadda, famosa per uno stupa che si diceva contenesse un frammento del cranio del Buddha. Gli storici russi manifestano già un profondo interesse per l’Afghanistan. 1920 Nasce il Museo Nazionale di Kabul. 1922 Il governo reale afghano decide di aprire il Paese alla ricerca archeologica straniera e concede il monopolio delle ricerche ai Francesi. 1923-1926 Inizio delle attività della Délégation Archéologique Française en Afghanistan (DAFA) fondata da Alfred Foucher. I siti piú studiati sono i centri di età storica di Hadda, Bamiyan e Begram. Alfred Foucher scava anche in Battriana. 1930-1936 Altre esplorazioni e scavi della DAFA nelle grotte di Bamiyan (Joseph e Ria Hackin); a Tepe Maranjan, presso Kabul, con arte del Gandhara del IV secolo d.C. (Jean Carl, Joseph Hackin); presso Kabul, al cosiddetto «forte Saka» e al monastero di Guldara, I-VII secolo d.C. (Jean Carl, Joseph Hackin); ricerche nel Sistan afghano (Joseph Hakin, Roman Ghirshman), su siti islamici; scavi di Nad-i Ali (I millennio a.C.); scavi a Kunduz (complessi buddhisti). 1936-1946 Scavi francesi a Begram, condotti da Joseph e Ria Hackin. Nel 1936 e nel 1939 vengono alla luce i famosi depositi di oggetti preziosi (II secolo d.C.). Nel contempo, si svolgono gli scavi del monastero del Fondukistan, datato al VII secolo d.C. (Jean Carl); e di Shahr-i Banu, in Battriana, presso Balkh, dal periodo greco-battriano a età Kushana (Jean Carl). 1940 Joseph Hackin e la moglie Ria si uniscono alle forze della resistenza francese, e, nel febbraio del 1941, muoiono nell’affondamento di una nave, durante una missione. L’architetto Jean Carl muore poco dopo. 1941 Roman Ghirshman scava con metodo stratigrafico uno dei palazzi reali di Begram e stabilisce una cronologia che dal I secolo a.C. si estende al IV secolo d.C. Questo quadro cronologico è oggi molto contestato; la fine del sito non è attribuibile, come pensava Ghirshman, alla conquista Eftalita, ma inizia nel VII secolo con lo spopolamento dell’abitato. 1949-1952 Scavi della DAFA a Lakshari Bazaar, sito dell’antica capitale ghaznavide (X-XI secolo d.C.). 1950 Ricognizioni statunitensi in Afghanistan meridionale (Sistan, Kandahar). Scavi di Louis Dupree a Deh Morasi Gundai, 35 km a sud-ovest di Kandahar, ai bordi del deserto del Registan (IV-III millennio a.C.). 1951-1958 Jean-Marie Casal scava a Mundigak, sulle rive dell’Arghandab, circa 40 km a nord-ovest di Kandahar, una città del III millennio a.C., con palazzi monumentali e una cinta difensiva di mura e torrioni. 88 a r c h e o

1952-1960 Scavi condotti da Daniel Schlumberger per la DAFA sul sito di Surkh Kotal, il «Colle Rosso», sulla strada che collega Mazar-i Sharif a Kabul, grande complesso cultuale dei primi secoli della nostra era, collegato alla dinastia Kushana (I-III secolo). 1954 L’americano Carleton Coon scava a Kara Kamar, presso Samangan, e trova le prime industrie litiche preistoriche dell’Afghanistan. Intorno alla metà degli anni Cinquanta sono attivi musei archeologici a Kabul, Kandahar, Herat e Mazar-i Sharif. 1955 Iniziano le ricerche dell’IsMEO nella valle dello Swat, in Pakistan, presso il confine orientale afghano, dirette da Giuseppe Tucci. Domenico Faccenna scaverà per lunghi anni alcuni importanti centri cultuali buddhisti, registrando accuratamente stratigrafia e architettura e costruendo una fondamentale griglia cronologica per lo sviluppo dell’arte del Gandhara. 1957 Iniziano le attività dell’IsMEO. Alessio Bombaci e Umberto Scerrato effettuano le prime ricognizioni nelle aree di Bamiyan e Ghazni; Scerrato scopre a Kandahar la prima iscrizione incisa dall’imperatore Maurya Ashoka, una bilingue greco-aramaica; poi, dal 1957 al 1958, scava il palazzo di Ma’sud III (998-1030) a Ghazni. A Rauza, presso Ghazni, viene allestito nel mausoleo di Abd-al Razzaq (XVI secolo) appositamente restaurato, un piccolo museo archeologico di arte islamica. Tra il 1959 e il 1961, Dino Adamesteanu e Salvatore Maria Puglisi effettuano i primi scavi nel sito buddhista di Tepe Sardar (Ghazni). Sempre Puglisi, tra il 1961 e il 1963, esplora le valli di Hazar Sum e Samangan e rinviene strumenti preistorici in selce. Dai primi anni Sessanta, l’IsMEO esegue e progetta opere di restauro a Kabul, a Ghazni, a Bamiyan e nei cantieri di scavo italiani. Nei primi anni Settanta, Giovanni Verardi esplora le grotte buddhiste del territorio di Ghazni. 1959-1966 Il Museo Americano di Storia Naturale di New York e il Servizio Archeologico Afghano esplorano il nord del Paese e trovano un centinaio di grotte e ripari sotto roccia con resti di industria litica. Tra il 1962 e il 1966 vengono scavati i siti di Ak Kupruk e Darrah-i Kur. La sequenza comprende il Paleolitico Medio e Superiore (50-35 000 anni fa circa), il Mesolitico, il Neolitico. 1959-1967 L’Università di Kyoto inizia ricognizioni e scavi in complessi monastici in grotte artificiali, come Haibak, Hazar-sum, Takht-i Rustum, Durman Tepe, Chaqalaq Tepe, nelle pendici dell’Hindukush, a nord, a Basawal, sul Passo Khyber, e altre attività di scavo nelle regioni di Jalalabad e Kabul. 1960 L’Accademia delle Scienze dell’URSS fonda un gruppo incaricato di ricerche archeologiche all’estero: l’Afghanistan è nell’agenda.


Il Buddha di Kakrak (valle di Bamiyan), databile al V-VI secolo e distrutto dai Talebani agli inizi del 2002.

1963 Iniziano gli scavi francesi a Ai Khanum (Alexandria Oxiana), la città greca piú orientale conosciuta. 1966 Scoperta casuale e saccheggio del tesoro di Fullol, a sud di Kunduz (III millennio a.C.). 1966-1972 Archeologi afghani riprendono gli scavi dei complessi cultuali buddhisti di Hadda, indagando i resti del monastero di Tepe Shotor (III-IV secolo d.C.). 1967-1976 Maurizio Taddei, dell’IsMEO, scava il sito monastico di Tepe Sardar, a Ghazni, ricco di opere scultoree in argilla (II/III-VII-VIII secolo d.C.). Maurizio Tosi e i suoi colleghi scavano l’antica città di Shahr-i Sokhta, nel Sistan iraniano, che rivela l’esistenza di una «Civiltà dell’Hilmand» che abbracciava buona parte dell’Afghanistan meridionale. 1969-1979 Tra gli anni Settanta e Ottanta la pressione culturale sovietica sul mondo afghano si fa fortissima. Scavi afghano-sovietici in Battriana meridionale portano inaspettatamente in luce sofisticati edifici della seconda metà del III millennio a.C.; palazzi analoghi vengono alla luce nello stesso periodo in Turkmenistan (delta del Murghab) e in Uzbekistan. Nel 1979, in Battriana, viene scoperta la necropoli reale di Tillja Tepe, con un grande tesoro di oreficerie di tradizione nomadica, alcune delle quali con motivi di origine occidentale. 1969-1975 Una missione indo-afghana effettua restauri a Bamiyan. I Giapponesi effettuano la documentazione fotogrammetrica di Bamiyan e di altri complessi buddhisti; scavano anche il sito induista di Tepe Skandar, 30 km a nord di Kabul (VIII-IX secolo d.C.). 1975-1979 Scavi DAFA a Shortugai, insediamento della Battriana legato alla Civiltà dell’Indo (2500-2000 a.C.), diretti da Henri-Paul Francfort. 1975-1980 Vengono clandestinamente scoperte e saccheggiate da gruppi tribali le grandi necropoli dell’età del Bronzo della Battriana meridionale; migliaia di preziosi reperti affluiscono in massa nei bazaar in Pakistan e Afghanistan, per essere acquistati da collezionisti e musei occidentali. 1978 Inizia la guerra civile afghana, e le armate sovietiche invadono l’Afghanistan. Si ritireranno, sconfitte, tra il 1988 e il 1989. La guerra si abbatte su musei e monumenti. 1992-1998 Nel conflitto, e soprattutto al crollo del regime filo-sovietico, fazioni armate saccheggiano a piú riprese il Museo di Kabul, devastandone gli ambienti. Malgrado

gli sforzi disperati dei curatori, nel 1996, alla presa del potere dei Talebani, la grande maggioranza delle raccolte è già stata rubata o distrutta. 1994 Nasce in Pakistan la SPACH (Society for the Preservation of Afghan Cultural Heritage), che si stabilisce in Afghanistan dopo la caduta del regime talebano nel 2001. 26 febbraio 2001. I capi dei Talebani ordinano la distruzione di tutti i reperti superstiti del museo, in quanto offensivi all’Islam. Migliaia di statue e oggetti antichi vengono fatti a pezzi. Molti di questi manufatti (tra cui le statue di Kanishka da Surkh Kotal e di un famoso bodhisattva da Tepe Maranjan) verranno ricomposti e restaurati grazie alla collaborazione internazionale, a cui partecipa con un progetto pluriennale anche l’ICR. Marzo 2001 Le statue colossali di Bamiyan vengono fatte saltare con l’esplosivo. 2002 Riapre l’Ufficio UNESCO di Kabul. Varie agenzie straniere, coordinate dall’UNESCO, avviano progetti di stabilizzazione delle nicchie e delle grotte di Bamiyan e di analisi chimicofisiche su dipinti e intonaci. Si apre anche una discussione sul se e come restaurare o riprodurre i Buddha colossali distrutti dalle esplosioni. 2003 Italia e Giappone sono i primi Paesi stranieri a riaprire in Afghanistan le attività dedicate ai beni culturali. La Missione Archeologica Italiana riprende i suoi lavori, sotto la direzione di Giovanni Verardi. A causa del deterioramento delle condizioni di sicurezza nell’area di Ghazni, le attività della MAIA si spostano nell’area di Kabul, concentrandosi su una collaborazione a scavi di emergenza dell’Archaeology Institute of Afghanistan, in particolare nei siti buddhisti di Tepe Narenj e Qol-e Tut (direttore di campo Zafar Paiman). 2007 La Compagnia Mettallurgica Cinese acquista i diritti di sfruttamento della miniera di rame di Mes Aynak per 30 anni. 2009 Vista l’importanza del sito, l’allora Afghan Institute of Archaeology (ora Archaeology Institute of Afghanistan), con l’assistenza della DAFA, lancia un programma di «salvataggio», guidato dall’Afghan Ministry of Information and Culture (MoIC) e che coinvolge l’Afghan Ministry of Mines and Petroleum (MoMP). Il progetto è sostenuto dalla Banca Mondiale. 2016 L’UNESCO Kabul lancia un piú articolato progetto di documentazione del sito. a r c h e o 89


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to e perché il lapislazzuli (piú di altri minerali meno costosi, come l’azzurrite che spesso lo sostituisce) reificasse questi concetti, non solo per la profondità del colore, ma anche per le inclusioni di pirite del colore dell’oro al suo interno (vedi foto a p. 86). Né dovremmo stupirci del fatto che sia l’Afghanistan, dove il lapislazzuli è di casa, ad averlo inserito in codici visivi e simbolici che sono stati accolti e sviluppati altrove, laddove il buddhismo fioriva mentre in Afghanistan si spegneva. E poi erano ambite (come oggi, per esempio, il litio) anche altre risorse minerarie di cui l’Afghanistan è ricco; basti pensare ai mega-giacimenti di rame, sempre a Mes Aynak, nell’area del Logar, poco distante da Kabul, e quelli di ferro ad Hajigak, nei pressi di Bamiyan».

«La ricchezza prodotta dalle risorse naturali e dalla posizione strategica lungo le principali vie di comunicazione ha attirato conquistatori di varia estrazione, sedentaria o nomade (greci, iranici, unni, turchi e islamici), ma ha anche nutrito culture straordinarie, che in epoca storica si sono polarizzate, nella tradizione degli studi, come pre-islamiche (prevalentemente buddhiste) e islamiche. Non è un caso che sia stato proprio l’Afghanistan a svelarci, sotto il profilo dell’evidenza archeologica, il caso finora piú emblematico della presenza greca nell’area iranico-indiana-centroasiatica: mi riferisco alla città di Ai Khanum (in uzbeko “Signora luna”), nell’antica Battriana, scavata a partire dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso dalla DAFA (Délégation Archéologique Française) e da alcuni ◆Q uanto deve la storia culturale dell’Af- identificata con una delle “Alessandrie” di Oriente. Forse non è cosí. Forse questa non è ghanistan a queste circostanze? La parete rocciosa nellla valle di Bamiyan, con le due nicchie vuote che, prima del marzo 2001, ospitavano le statue gigantesche dei Buddha.

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Nella pagina accanto: il Buddha minore (alt. 38 m) ancora all’interno della sua nicchia e i segni delle distruzioni operate in precedenza sul volto della statua.


LA DISTRUZIONE DEI BUDDHA La bellissima valle di Bamiyan divenne tristemente nota in tutto il mondo in seguito alla deliberata distruzione, perpetrata dai Talebani nel marzo del 2001, delle due gigantesche statue di Buddha, scolpite nella falesia prospiciente la fertile pianura. Le due sculture, alte 38 e 55 m, furono realizzate tra la metà del VI e la metà dell’VIII sec. d.C. e rappresentavano una testimonianza straordinaria dell’arte greco-buddhista.

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AI KHANUM, UNA CITTÀ GRECA SULLE RIVE DELL’OXUS Le immagini nella pagina accanto documentano alcuni momenti degli scavi di Ai Khanum («signora luna»), nel nordest dell’Afghanistan, all’estremità orientale della pianura della Battriana. Fondata forse dallo stesso Alessandro Magno intorno al 327 a.C. (alcuni studiosi propendono per una data di fondazione di poco successiva, vedi nell’intervista) potrebbe trattarsi della città di Alessandria sull’Oxus (nota dalle fonti antiche), successivamente denominata Eukratidia. Con le sue vaste dimensioni (2 x 1,5 km) è la piú grande città di età greco-battriana a oggi indagata. Identificata per caso nel 1961, venne scavata dagli archeologi Daniel Schlumberger e, tra il 1964 e il 1978, da una missione francese diretta da Paul Bernard. Nell’immagine qui sopra, una rara foto dell’archeologo e storico membro della missione francese, Jules Barthoux, a cavallo lungo le rive dell’Oxus (vedi intervista a p. 101) e, in basso sulle due pagine, il sito ai giorni nostri, con le evidenti tracce lasciate dagli scavatori clandestini.

l’Alexandria Oxiana delle fonti, ma di certo è una città che, fondata probabilmente non molto dopo il passaggio di Alessandro Magno, contiene tutti i piú significativi riferimenti identitari della società greca: il teatro, il ginnasio, il tempio dell’eroe fondatore, insieme a una mole di manufatti di stampo greco. Eppure, da questa città cosí fortemente connotata da un legame filiale con l’Occidente, vengono anche testimonianze significativamente diverse, evidentemente espressione del sostrato locale, alcune molto enfatiche per dimensione e proporzioni: cito, a titolo di esempio, il cosiddetto “Temple à redans” (o “tempio a nicchie”, nella seconda foto dall’alto, n.d.r.) che, per impianto e costumi rituali, non si può ascrivere al mondo greco. Vorrei poi citare qui uno dei reperti piú famosi di Ai Khanum, il frammento marmoreo di un piede di una statua colossale, certamente un acrolito, che viene appunto da


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quel tempio. La folgore raffigurata sul calzare ha fatto pensare a Zeus, ma, come ci insegnano altri casi, dobbiamo piuttosto ipotizzare che si trattasse di una divinità locale che condivideva con Zeus una sfera di significati in qualche modo assimilabile. È quanto succede, per esempio, nelle iconografie delle monete dei sovrani Kushana (I-III secolo d.C.). Questa dinastia nasce in seno a quello che possiamo ipotizzare fosse il clan egemone di una confederazione nomadica di ceppo iranico che nel II secolo d.C. aveva invaso la Battriana, dando probabilmente il colpo di grazia al regno in declino dei greco-battriani. In poco tempo, consolidato il potere in Battriana, comincia un’espansione da cui avrà origine un impero potentissimo. Sul rovescio delle loro monete, i Kushana pongono, tra le altre, divinità apparentemente greche, come per

esempio Hermes, che la leggenda però chiaramente indica come Pharro, personificazione dello splendore igneo della regalità (il xhwarenah): un concetto profondamente iranico, qui personificato e divinizzato, che prende a prestito un modello greco. E cosí, dunque, se dovessimo fermarci ai soli aspetti formali, estrinseci, rischieremmo di perderci una parte importante della storia. Dovremmo piuttosto cominciare a interrogarci seriamente sul significato delle iconografie greche adottate (e addattate) in Oriente, e in relazione non solo ai casi specifici, ma anche alle ragioni e ai meccanismi soggiacenti». ◆Q uindi, del patrimonio culturale afghano abbiamo una conoscenza parziale non solo in termini quantitativi ma anche qualitativi? GLI ANIMALI D’ORO DI FULLOL Alcuni frammenti di vasi in oro facenti parte del cosiddetto «tesoro di Fullol», nome che si riferisce al luogo (presunto) del ritrovamento, presso Kunduz (Afghanistan settentrionale). I vasi, datati al III mill. a.C., recano figure zoomorfe legate all’iconografia sia della Mesopotamia sia della Battriana e, verosimilmente, facevano parte di una sepoltura regale saccheggiata da scavatori clandestini. Kabul, Museo Nazionale dell’Afghanistan.

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Nella pagina accanto: frammento in marmo del piede di una statua colossale, proveniente dal «tempio a nicchie» di Ai Khanum. Kabul, Museo Nazionale dell’Afghanistan.


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IL TESORO DELL’OXUS Una straordinaria raccolta di monete e oggetti in oro e argento (statuette, vasi, modellini di carri, anelli, bracciali, ecc.) di foggia persiano-achemenide, greca e scitico-siberiana, databili dal V al II secolo a.C. costituiscono il cosiddetto Tesoro dell’Oxus, oggi un vanto del British Museum. Le circostanze esatte del ritrovamento, il primo a rivelare l’eccezionale livello artistico della gioielleria achemenide, resteranno per sempre un mistero. Tutto ebbe inizio nel 1877, sulle rive dell’Amu-Darya, l’antico Oxus, oppure del Kafirnahan, a due o tre giorni di cavallo da Kunduz. Forse provenivano da un santuario della città fortificata di Tacht-i Sangin (il «trono di pietra») o dalla vicina Tacht-i Kuwad, siti archeologici dell’antica Battriana, oggi nel Tagikistan meridionale, lungo la frontiera con l’Afghanistan. Si racconta che gli oggetti preziosi giacevano sparsi nelle sabbie fluviali,

come se la corrente avesse spazzato gli edifici o i tumuli che dovevano contenerli. Altri oggetti vennero scavati dai cercatori di tesori, nella medesima sconosciuta località, negli anni seguenti. Il

«Direi di sí. Vorrei spendere qui qualche parola proprio sulla ricchezza trascurata, o forse mal etichettata – anche a causa di alcuni pregiudizi – dell’Afghanistan. Uno riguarda la scansione crono-culturale della sua storia. In Afghanistan, periodi di grande fulgore artistico non corrispondono necessariamente all’esistenza di grandi poteri centralizzati, come generalmente siamo portati a immaginare. È il caso del periodo che si colloca tra la fine dell’impero Kushana e la conquista islamica (grosso modo tra il IV e il IX/X secolo). Un periodo complesso, in cui gran parte dell’Afghanistan sembra retta da vari principati, di cui non conosciamo chiaramente l’entità e le reciproche interazioni. Se però giudichiamo dall’evidenza materiale, in questo periodo la fiori96 a r c h e o

Placca in oro con raffigurazione stilizzata di un leone. Produzione achemenide, V-IV sec. a.C.

tesoro viaggiò a Kabul, quindi a Peshawar. Nel 1880, tre mercanti di Bukhara che viaggiavano con muli carichi d’oro commisero l’errore di staccarsi dal loro convoglio, e vennero rapinati e rapiti lungo lo stesso tragitto. I banditi trascinarono tesoro e mercanti di grotta in grotta, per procedere alla spartizione, ma il servo di uno dei mercanti riuscí a fuggire e avvisò il capitano F.C. Burton, dei Servizi britannici. Dopo lunghe traversie il tesoro venne venduto a gioiellieri di Rawalpindi. Qui il tesoro venne sottoposto a danneggiamenti e sottrazioni, nonché al rischio dell’aggiunta di oggetti falsi. Infine venne in parte acquistato da Sir Alexander Cunningham, fondatore dell’Archaeological Survey of India, e ben presto raggiunse il British Museum. Il tesoro dell’Oxus testimonia l’enorme ricchezza accumulata dalle famiglie reali battriane ai tempi del grande impero di Ciro e Dario.

tura dell’arte buddhista entra nella sua fase piú rigogliosa. Lo dobbiamo senza dubbio a mecenati potenti, che offrivano al buddhismo un sostegno generoso, ricevendone in cambio un vantaggio ideologico e politico non trascurabile. E si tratta di aristocrazie di origine nomadica, unna (o Huna) e turca. La realtà archeologica smentisce il pregiudizio che accompagna queste società, spesso immaginate e descritte come destabilizzanti e distruttive». ◆L ’archeologia, dunque, come spesso accade, induce a ripensare criticamente le certezze acquisite… «Infatti. Oggi sta nascendo una nuova storiografia, grazie soprattutto al lavoro di archeologi e numismatici, ma in pochi sembrano


Modellino in oro di un cocchio trainato da quattro cavalli. Arte iranica del V-IV sec.a.C. I reperti raffigurati in queste pagine fanno parte del tesoro dell’Oxus e sono oggi conservati al British Museum.

accorgersene e la storia dell’Afghanistan rimane tenacemente ancorata alla retorica dei grandi nomi della storiografia tradizionale, per esempio quello dei Sasanidi, cui spesso si attribuiscono manifestazioni riferibili all’epoca Huna. Il secondo mancato riconoscimento è quello dell’“ontologia dell’effimero”. Per noi occidentali è la pietra che interpreta al meglio la storia, la monumentalità, perfino la dignità e il prestigio del passato. È bello e importante ciò che dura e sfida i secoli. Il patrimonio culturale dell’Afghanistan, però, è perlopiú fatto di argilla e dei suoi compagni altrettanto effimeri, come legno e rivestimenti risplendenti di oro e colore. Per me, personalmente, misurarmi con questa dimensione è stata una specie di lezione di vita. Nulla può dirsi eterno, è solo una questione di prospettiva. Si può convivere con questo fatto o fingere che quello che si costruisce sia per

Nella pagina accanto in alto: bracciale in oro di stile achemenide, con due grifoni alle estremità. V-IV sec. a.C.

sempre, anche se si tratta di un “sempre” ridicolmente breve al cospetto del tempo». ◆ Può illustrarci con qualche esempio questi aspetti del patrimonio culturale afghano? «In Afghanistan erano di pietra alcuni elementi dell’architettura: per esempio, ad Ai Khanum le basi e i capitelli delle colonne e parte della statuaria; i paramenti dei grandi stupa (monumenti buddhisti, pieni e impervi, che ospitavano al loro interno, sigillati in un piccolo recesso, reliquiari contenenti i depositi votivi); poi, in epoca islamica, i monumenti funerari e i rivestimenti di architetture palatine, come le splendide zoccolature del palazzo sultaniale di Ghazni (XI secolo, portato alla luce dalla Missione Archeologica Italiana in Afghanistan). Ma la gran parte dei materiali archeologici è di argilla, o al piú di a r c h e o 97


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mattone cotto, e con questi materiali si realizzavano – non solo in Afghanistan, sia detto per inciso – opere grandiose (era di argilla il celebratissimo palazzo di Ctesifonte nell’attuale Iraq, tradizionalmente attribuito al re Sasanide Cosroe, del VI secolo d.C., cosí come tanti altri meno noti, quali il grande complesso di Kuh-i Khwaja in Iran). Possiamo assumere che fosse di legno e argilla anche lo splendido palazzo del principe Siddhartha, il futuro Buddha, vissuto nel V secolo a.C. Certo, l’argilla si frammenta e si discioglie. Spesso è difficile ricostruirne ipoteticamente le forme originarie, perfino riconoscerne le tracce. Ma non farlo, non provarci, significa perdere la cognizione olistica e paritaria dei valori immateriali legati alla materia lavorata,

plasmata dalle mani, sí, ma prima ancora da Daga da una delle un universo condiviso di conoscenze, signifi- tombe reali di cati e riferimenti culturali». Tillja Tepe. Arte ◆Q uali sono stati, per Lei, i principali episodi che hanno caratterizzato la scoperta delle antiche civiltà dell’Afghanistan? «Come in tutto il mondo, anche in Afghanistan la storia dell’archeologia inizia in periodo coloniale. Va precisato però che l’impero britannico, dopo aver conquistato gran parte del Subcontinente indiano, non ha mai veramente esteso il suo controllo sull’Afghanistan (se non per breve tempo e in maniera

centro-asiatica, I sec. d.C. A sinistra, in basso: l’immanicatura in oro e pietre dure, sormontata dalla figura di un orso.

LE TOMBE REALI DI TILLJA TEPE Tillja Tepe (la «collina dell’oro»), un monticolo archeologico situato in Battriana, presso il centro di Chebergan, fu scavato dal 1969 al 1979 (un anno prima, dunque, dell’invasione sovietica dell’Afghanistan) da una missione archeologica sovietica e afghana diretta da Victor I. Sarianidi (1929-2013). Il luogo era stato

abitato dalla seconda metà del II millennio a.C. fino all’età storica. Gli archeologi scavarono, sulla cima del colle, una residenza monumentale, principesca, eretta su piattaforme in crudo. Il palazzo era difeso da torrioni cilindrici, con sale a pilastri. Durante l’ultima campagna, tra il 1978 e il 1979, venne in luce una necropoli reale che forse custodiva i resti di un ramo dei sovrani Yueh-Chi, gli antenati dei futuri re Kushana, vissuto nel I secolo a.C. I corpi, sepolti in semplici bare lignee, erano stati rivestiti di strati di stoffe preziose trapunte di lastre ornamentali d’oro; vi erano fibbie, pettorali, corone, piatti, foderi di daghe in oro, decorati da forme umane e animali, e intarsiate di perle, turchese Nel disegno in basso, la ricostruzione assonometrica della residenza aristocratica del I mill. a.C., scavata dagli archeologi sovietici a Tillja Tepe.

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Alcuni gioielli in oro e pietre dure (due fibbie e una cintura) dalle sepolture reali di Tillja Tepe. I sec. d.C. Nel disegno a destra, ricostruzione di un personaggio che indossa alcuni dei reperti rinvenuti nel sito di Tillja Tepe.

precaria). Se gli studiosi occidentali hanno cominciato a occuparsi di questo Paese è stato grazie alle fonti scritte sulle imprese di Alessandro Magno e ai ritrovamenti di monete greco-battriane (peraltro, forse le piú belle tra quelle ascrivibili all’intera compagine politica greca, ivi compresa la Grecia stessa), che indicavano nell’Afghanistan la sede di importanti processi storici, politici e culturali legati all’Occidente. L’altro grande polo di attrazione per gli archeologi è stato il buddhismo, che, avendo goduto per secoli di una quasi incontrastata egemonia, ha lasciato molte tracce della sua esistenza. La conoscenza archeologica (se cosí si può definire) dell’Afghanistan deve parecchio a un personaggio sin-

golare e per molti versi discutibile: Charles Masson, pseudonimo di James Lewis. Dopo aver disertato l’esercito britannico di stanza in India e aver vagabondato in incognito, ottenne un perdono ufficiale, in cambio del quale fu obbligato ad affiancare alle sue attività di esploratore e archeologo ante litteram quella di spia al servizio del traballante governo britannico di Kabul. Tra il 1833 e il 1838, Masson scavò piú di 50 siti buddhisti nelle aree di Kabul e Jalalabad. Scavi anche sciagurati, in alcuni casi con esiti distruttivi. Non si può, dunque, propriamente definire “archeologia” l’attività di Charles Masson, cui va tuttavia riconosciuto il merito di averci lasciato note e schizzi che, raccolti e pubblicati da H.H. Wilson nel volume

e lapislazzuli. Ogni tomba conteneva da 2500 a 4000 oggetti, per un totale di oltre 20 000 reperti in oro. Nel prezioso metallo erano raffigurati un sileno che stringeva un rython e un guerriero armato, entrambi in stile macedone; i corpi contorti degli animali intarsiati di pietre dure seguivano la moda dei gioielli scito-sarmatici, mentre altri oggetti rivelavano influssi dell’arte della Battriana, del mondo partico e dell’India.

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Ariana Antiqua, costituiscono ancor oggi la base dei nostri studi per la loro messa a sistema sorprendentemente lungimirante». ◆C osa succede, dopo questo inizio «proto-archeologico»? «Nel 1922 comincia a operare nel paese la DAFA, la già citata Délégation Archéologique Française che, in pochi decenni, mette in luce siti che diverranno riferimenti imprescindibili per la futura archeologia del Paese centroasiatico: il sito buddhista di Hadda, nei pressi dell’odierna Jalalabad, uno dei luoghi di pellegrinaggio piú famosi dell’ecumene buddhi-

I resti di Surkh Kotal, nella provincia di Baghlan, Battria meridionale, in una foto recente e, in alto, uno scatto del 1964. Sono visibili le rovine di un grande tempio di epoca kushana, verosimilmente dedidcato a Kanishka (78-144 d.C.), il piú celebre sovrano dell’impero centro-asisatico. 100 a r c h e o


sta antica (vedi box a p. 108), in cui si diceva fossero conservate veneratissime reliquie del Buddha storico, sia corporali sia simboliche (un frammento del cranio, un globo oculare, la veste e il bastone ascetico che gli erano appartenuti); il sito urbano di Begram, dai cui livelli Kushana viene un sorprendente «tesoro» occultato in una stanza murata, composto da avori indiani (vedi box alle pp. 104-105), vetri alessandrini, lacche cinesi, che nel loro complesso testimoniano ricchezza, scambi commerciali e culturali e l’esistenza di un collezionismo colto di orizzonte internazionale, e tanti altri di cui non si potrebbe che fare un vuoto elenco. Vorrei però ricordare brevemente le vicende singolari di un sito di cui si è parlato sopra: Ai Khanum. Una città greca in prossimità del fiume Oxus (Amu Darya) a lungo cercata ma rimasta, per decenni e beffardamente, introvabile, tanto che Alfred Foucher, il primo direttore della DAFA, si era rassegnato a parlare di «miraggio battriano». C’è una foto, che oggi appare quasi struggente a noi che conosciamo Ai Khanum, di Jules Barthoux, uno dei membri storici della

In alto: dinaro in oro raffigurante il sovrano Kanishka, dall’India. 78-102 circa. Los Angeles, County Museum. In basso: statua in pietra acefala di Kanishka. Mathura, Government Museum.

DAFA: lo vediamo che percorre a cavallo le rive del fiume Oxus, forse pensando proprio a quel miraggio sfuggente. Poi, un giorno, molti anni dopo, un signore afghano, per riposare durante una battuta di caccia, si siede su una pietra sporgente dal terreno e si accorge che si tratta di un capitello. Fortunatamente, quel signore prova grande interesse per l’archeologia e fa una segnalazione: è cosí che Ai Khanum diventa finalmente una realtà. Mi piacerebbe aggiungere a questo breve elenco un paio di altri siti straordinari, anche per le loro implicazioni in termini di storia culturale. Uno è Tillja Tepe (vedi box alle pp. 98-99), una piccola necropoli risalente al I secolo d.C. che ha restituito 6 tombe di aristocratici appartenenti a un gruppo nomade saka, forse sedentarizzato. Le tombe hanno restituito piú di 20 000 monili d’oro, molti dei quali decorazioni originariamente cucite sugli abiti dei defunti. Lo scavo fu condotto a ridosso dell’occupazione sovietica (nel 1978, in Afghanistan si verificò un colpo di Stato filosovietico, cui seguí una guerra civile culminata nell’invasione sovietica del 25 dicembre 1979. L’occupazione e la relativa resistenza nazionale si protrassero per un decennio. La conclusione si ebbe nel 1988-89, con il ritiro delle truppe sovietiche, n.d.r.) e si concluse frettolosamente. Per anni, del tesoro di Tillja Tepe non si seppe piú nulla e sull’archeologo russo che aveva scavato il sito,Viktor Sarianidi (vedi anche «Archeo» n. 376, giugno 2012; anche on line su issuu.com) pesò il sospetto di trafugamento. Quando nel 2003, dopo la caduta del regime talebano, fu aperto il caveau della banca centrale, Sarianidi ebbe la sua rivincita morale di fronte al mondo; il tesoro era tutto lí, a testimoniare come l’Afghanistan sia stato davvero una terra di passaggio e accoglienza, anche per gruppi nomadi che, provenienti dal non lontano mondo delle steppe, hanno contribuito a forgiarne la varietà e la ricchezza culturale. Vorrei ricordare anche Surkh Kotal, grandioso tempio Kushana dedicato probabilmente alla “Vittoria di Kanishka” (il piú noto e celebrato tra i sovrani Kushana), sulla cima di un colle che domina un’ampia piana ed è perciò visibile da molto lontano. Per conferire al tempio un risalto ancora maggiore, la parete orientale del colle fu sbancata e trasformata in una monumentale scala di accesso che conduceva al a r c h e o 101


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tempio sulla cima. Il tempio ha vicende complesse, ma l’idea alla base di questo progetto cosí ambizioso ed enfatico è probabilmente quella di celebrare la fortuna regale, espressione della legittimazione divina della dinastia.Vengono da questo tempio i resti di sculture raffiguranti i sovrani, tra cui la meglio conservata (e purtroppo acefala) è proprio la statua di Kanishka stesso. I Kushana avevano probabilmente edificato diversi tempi di questo tipo, perché ne conosciamo un altro, il santuario di Mat, purtroppo assai mal scavato, nell’odierno Uttar Pradesh, in territorio indiano. Su questo tema abbiamo necessità di continuare a indagare, perché fa parte di un capitolo cruciale della storia dell’Afghanistan (e della storia globale), che sicuramente ci aiuterà a uscire dalla consolidata e oramai discutibile prospettiva gerarchica delle “grandi civiltà”». ◆Q uando debutta sulla scena la Missione Archeologica Italiana? «Nel 1957, nell’ambito dei nascenti progetti archeologici dell’allora IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente), diretto da Giuseppe Tucci. La zona operativa della Missione sarà principalmente Ghazni e lo scopo primario quello di indagare archeologicamente la Ghazni islamica, sino ad allora nota quasi esclusivamente dalle fonti, che ne celebravano la bellezza e il prestigio. Ghazni fu la prima sede del potere ghaznavide, che da qui avrebbe cominciato la sua espansione verso l’India. Vengono subito alla luce testimonianze, tanto piú preziose per il loro carattere di novità, di architettura domestica, palatina e funeraria, che aprono un orizzonte nuovo negli studi sul periodo Ghaznavide e il successivo periodo Ghuride. Si deve a Umberto Scerrato, l’archeologo islamista che diresse la maggior parte di quegli scavi e ricognizioni, la segnalazione di un sito buddhista, Tapa Sardar, e l’avvio dei primi saggi. Lo scavo sistematico di questo sito comincerà nel 1968, sotto la direzione di Maurizio Taddei e contribuirà notevolmente, grazie all’applicazione di metodi allora di avanguardia nello scavo e nel restauro, all’avanzamento delle nostre conoscenze sulla cultura visiva del buddhismo tardo-antico, sulle sue implicazioni ideologiche e sugli aspetti tecnici della scultura e della pittura».

te, ce n’è uno in particolare che vorrebbe segnalare? «Mes Aynak, di cui già sopra accennavo, senza dubbio uno dei siti piú straordinari mai venuti alla luce, che rischia di essere distrutto dall’impianto minerario per l’estrazione del rame, di cui la Compagnia Metallurgica Cinese ha acquistato dal governo afghano un leasing per 30 anni, quasi la metà dei quali già passati, senza però che i lavori di estrazione siano partiti (vedi «Archeo» n. 371, gennaio 2016; anche on line su issuu.com). Nel frattempo, riconosciuta l’importanza del sito archeologico di cui erano venute alla luce tracce cospicue proprio durante i lavori di impianto del campo minerario, si avviavano scavi di «salvataggio» disperato e, per la fretta, piuttosto inconcludente sotto il profilo archeologico. Piú volte i termini di scadenza delle indagini archeologiche sono stati prorogati, ma l’assenza di una pianificazione di lungo respiro ha prodotto danni irreparabili. A meno che il distacco di pitture e sculture dal loro contesto, mal compreso e mal documentato, possa definirsi un’operazione di carattere archeologico. Ora il governo talebano annuncia che gli accordi, firmati dal governo precedente, non sono piú validi e che si aprirà una ri-negoziazione con la compagnia cinese. C’è da dubitare che questa includa anche la protezione del sito, che imporrebbe come condizione necessaria l’estrazione dal sottosuolo e non a cielo aperto, come il contratto precedente prevedeva. Ecco, Mes Aynak potrebbe diventare un cantiere permanente per l’archeologia e gli studi paleo-ambientali. Avrebbe molte cose da rivelarci, ma non so se ci sarà mai spazio per questo nel futuro dell’Afghanistan, almeno non in quello imminente».

◆O ltre alla trascuratezza e all’insufficiente valorizzazione, l’altra seria minaccia è il saccheggio delle antichità dell’Afghanistan. Quando ha inizio, quali sono gli episodi piú eclatanti? «Credo che gli anni d’oro del saccheggio siano stati gli ultimi due decenni del Novecento, quando la guerra civile prima (19891996) e il regime talebano poi (1996-2001) hanno creato una zona grigia in cui scavi illegali, trafugamenti e mercato nero dell’arte hanno prosperato come e forse piú della produzione e del commercio di oppio. ◆E tra i siti venuti alla luce piú di recen- Molti siti sono stati saccheggiati e distrutti. 102 a r c h e o

Due immagini del prezioso reliquiario in oro sbalzato con rubini, da Bimaran, presso Jalalabad (Afghanistan orientale). Fine del I sec. a.C.II sec. d.C. Londra, British Museum. Nelle nicchie si susseguono le figure di Brahma, di Indra e di Buddha.


Alcuni di questi sono conosciutissimi, come Ai Khanum, Hadda e Surkh Kotal, ma altri ancora sconosciuti e non meno importanti, come l’enorme Kafir Kot, a Kharwar (Logar), una città costellata di insediamenti buddhisti, dove la Missione Archeologica Italiana, all’epoca diretta da Giovanni Verardi, fu autorizzata (per un solo giorno, per via delle precarie condizioni di sicurezza) a condurre una ricognizione nel 2003, che, nonostante la sua brevità, ha avuto il merito di aver definito, almeno approssimativamente, l’estensione, la natura e lo straordinario potenziale del sito.

IL RELIQUIARIO DI BIMARAN Forse nessun manufatto come il reliquiario di Bimaran illustra il preziosismo dell’antica arte gandharica. In oro e rubini, venne rinvenuto da Charles Masson nelle rovine di un grande stupa non lontano da Jalalabad, datato tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C.: è presumibile che, data la sua preziosità,

ospitasse autentiche reliquie del Buddha. Le figure racchiuse in nicchie architettoniche rappresentano le divinità Brahma, vestito da asceta, Indra, vestito da re, dei Buddha con aureola sul capo vestiti della semplice tunica dei monaci, e dei Bodhisattva adorni di gioielli: le figure piú care all’aristocrazia Kushana.

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LE STANZE MURATE DI BEGRAM La valle di Kapisha, a nord di Kabul, fu sede di grandi e importanti abitati, come Parvan (una delle antiche Alessandrie fondate ai piedi dell’Hindukush), il centro greco di Opian e quello di Barj-i Abdullah, nei pressi di Begram, dove Alfred Foucher identificò una «Città reale» fortificata, che attribuí alla rapida opera degli ingegneri di Alessandro. Il centro di Begram (nella valle di Kapisha, a nord di Kabul) – nelle cui vicinanze Alfred Foucher identificò una «città reale» fortificata che attribuí alla rapida opera degli ingegneri di Alessandro – divenne, dopo la caduta dei re greco-battriani, un’importante capitale kushana; fu distrutto nel 241 d.C. dalle armate iraniche di Shapur, fondatore dell’impero sasanide. Il sito ebbe grande rinomanza grazie alla sensazionale scoperta, nel 1936 e nel 1939, di due stanze murate che, nella foga del saccheggio, sfuggite ai conquistatori, erano rimaste per sempre sigillate nelle rovine del palazzo. Gli scavi portarono in luce statuette e utensili domestici in

Anche il museo di Kabul subí la stessa sorte. Parzialmente distrutto da un razzo nel 1993, fu piú volte saccheggiato e vandalizzato. Non si trattò solo di brutale scempio. Molti manufatti di grande valore (come per esempio il piede di “Zeus” da Ai Khanum o preziosi marmi islamici da Ghazni) uscirono fuori dal paese e finirono in collezioni private e perfino museali. Molti di

bronzo, un ricchissimo assortimento di vetrerie dipinte, forse di fattura siriana o alessandrina e, soprattutto, una famosa collezione di pannelli di avorio intagliato, che formavano pareti di raffinate scatole-cofanetto e intarsi di mobili. Gli avori di Begram si datano dal I secolo d.C. al momento della distruzione: di fattura indiana, mostrano raffinate scene di corte.I pannelli piú

Un paesaggio della regione di Parvan, la pianura dove si trova il sito archeologico di Begram.

quegli oggetti sono stati restituiti, altri, ridotti in frammenti (come la famosa statua in pietra di Kanishka da Surkh Kotal o l’iconico bodhisattva in argilla da Tepe Maranjan), sono stati pazientemente restaurati, ma non sapremo mai quanto è stato davvero sottratto al patrimonio culturale dell’Afghanistan. Forse assai piú di quello che riusciamo a immaginare».


antichi sono incorniciati da sfondi architettonici che riproducono i portali in pietra riccamente scolpiti dei grandi stupa della Valle del Gange.

◆Q uale è stato e quale può ancora essere il ruolo della missione archeologica italiana in Afghanistan da Lei diretta? «Lo stesso di tutti quelli che, a vario titolo, si sono occupati e si occupano del patrimonio culturale di questo Paese e ne assicurano la salvaguardia. Certo, non siamo la DAFA, che si è costituita come presenza permanente in Afghanistan, quasi una emanazione diretta e

Qui sopra e nella pagina accanto, in alto: elementi decorativi in avorio, originariamente applicati su mobilia o scatole lignee, provenienti dal tesoro di Begram: si riconoscono scene di caccia in ambiente silvestre e un elefante in cammino. Parigi, Museo Guimet. A destra: pannello in avorio (34,6 x 15,4 cm) con raffigurazione di musici e danzatrici. Kabul, Museo Nazionale dell’Afghanistan.

stabile della politica culturale del Ministero degli Esteri francese. Noi abbiamo risorse piú limitate e rinnovate annualmente, ma alle spalle abbiamo, oltre al supporto morale e finanziario del Ministero degli Affari Esteri e del MUR, una tradizione di studi che si è saldamente costruita sia in seno al vecchio IsMEO (di cui è erede l’attuale ISMEO, che simbolicamente ne ha ricalcato, pur riformulandolo, l’acronimo) sia nel contesto dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, sede storica dei nuclei direttivi della Missione: Umberto Scerrato, Maurizio Taddei, Giovanni Verardi e, negli ultimi anni, la mia collega Roberta Giunta, vice-direttrice della Missioa r c h e o 105


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NELLA PICCOLA MINIERA DI RAME Le immagini di queste pagine illustrano gli scavi nel sito di Mes Aynak («piccola fonte di rame» in lingua pashtu), situato a circa 40 km a est della capitale Kabul. Sulla sommità delle colline gli scavi hanno rivelato i resti di un grande complesso monastico buddhista, databile tra il II e il IV sec. d.C. 106 a r c h e o


ne e responsabile della sezione islamica, e io stessa. Questo significa, in termini di opportunità, tenere vivo e attivo un processo di trasmissione del patrimonio di conoscenze che, ciclo dopo ciclo, si rinnova e si amplia. In questi anni la ricerca sul campo non è stata possibile, per ragioni di sicurezza, se non con la strategia del controllo remoto. Abbiamo sostenuto finanziariamente e scientificamente alcuni scavi dell’Archaeology Institute of Afghanistan, contribuendo allo studio e divulgazione della documentazione condivisa. Con noi lavorano studenti avanzati, che al patrimonio culturale dell’Afghanistan dedicano le loro ricerche dottorali e post-dottorali, ma anche gli studenti dei nostri corsi. Ai miei studenti della magistrale quest’anno ho proposto un corso su Bamiyan. Quando, mesi fa, scelsi l’argomento, mi era sembrato doveroso farlo, perché non si dimenticasse che esattamente 20 anni fa, quando i nostri studenti di a r c h e o 107


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oggi erano ancora bambini piccoli, iniziava, proprio con la distruzione dei Buddha colossali di Bamiyan a opera dei Talebani, la stagione feroce del terrorismo culturale.Tristemente, l’attualità ha superato le ragioni di questo omaggio a Bamiyan e ci ha riproposto i Talebani al potere. Ma per me, per noi, ogni studente che decide di dedicare parte della sua formazione universitaria all’Afghanistan è un pacifico combattente, che con la conoscenza contrasta la distruzione fisica e l’azzeramento della memoria indotto dall’oblio». ◆È possibile fare qualche ipotesi circa la sopravvivenza dei tesori un tempo conservati nel Museo archeologico nazionale di Kabul? «Difficile rispondere, in questo momento di confusione. Non penso che i Talebani di oggi ripeteranno, almeno non in maniera plateale e di fronte al mondo che li osserva, gli scempi volontari e ricattatori del passato. Circolano notizie iperboliche di avvenute sottrazioni, per esempio di quel famoso tesoro di Tillja Tepe. Preferisco pensare che quegli oggetti siano, come prima, al sicuro da qualche parte e che, semplicemente, il direttore del Museo

di Kabul, Mohammad Fahim Rahimi, che è rimasto lí, preferisca non parlarne, per ovvi motivi. Ma in una situazione cosí incerta non possiamo far altro che mantenere su ciò che accade uno sguardo attento e rendere piú possibile chiaro un sentire comune e compatto: l’oltraggio al patrimonio culturale è una politica stupida e perdente, cosí come l’oltraggio legalizzato alla vita e alla dignità della società civile è inaccettabile e indifendibile da ogni punto di vista». ◆C osa possiamo fare, oggi, per salvare la memoria di questo immenso patrimonio di civiltà? «Per me e per la mia collega Roberta Giunta la risposta è facile: nei nostri corsi e in generale nelle nostre attività didattiche e di Il cosiddetto «Genio dei fiori», statua in stucco policromo, da Hadda. III-IV sec. d.C. Parigi, Museo Guimet.

HADDA E L’AMBIGUA FORTUNA DELL’ARTE DEL GANDHARA A 8 km a sud di Jalalabad si trovano le rovine del centro monastico di Hadda, che ancora nel VII secolo d.C. veniva vistato dai pellegrini cinesi; secondo la tradizione, infatti, un suo stupa (costruzione devozionale buddhista) conservava resti del cranio del Buddha. Solo nel 1923, gli scavi estrassero dalle rovine 23 000 sculture, portate al Museo di Kabul, e presto in parte disperse. Le sculture di Hadda (V-VII secolo d.C.) sono soprattutto in stucco, e rivestivano gli esterni degli stupa; raffigurano il Buddha, i Bodhisattva (creature illuminate), i devoti, le scene della vita e i miracoli del Buddha. Le affinità tra le sculture di Hadda e quelle greco-romane, e la natura della contaminazione stilistica, fecero scrivere centinaia di articoli e libri: per esempio, in una delle opere piú celebri di Hadda, il cosiddetto «Genio che getta fiori», gli studiosi europei ravvisarono l’influenza di Lisippo, il soffio dell’arte adrianea, la prefigurazione del gotico, e persino l’anticipazione di stili rinascimentali: tutto, pur di non considerare quest’arte nel suo stesso contesto creativo.

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all’Afghanistan si può continuare a offrire lo studio in profondità della documentazione disponibile, la nostra, quella della DAFA, quella di missioni giapponesi che hanno lavorato in passato su scavi e ricognizioni archeologiche (e ora, prevalentemente, sui restauri delle grotte e delle pitture di Bamiyan, con risultati di grande interesse, come per esempio una documentazione piú puntuale dei dipinti e l’inattesa scoperta dell’uso di colori a olio). Una conoscenza piú attenta e rispettosa e una memoria attiva sono forme irrinunciabili di salvaguardia e di proiezione nel futuro. Un giorno, speriamo non lontano, l’Afghanistan potrà rivendicare il suo passato, anzi, i suoi molti passati e potrà goderne come di una ricchezza comune. Per questo dobbiamo preservarne la memoria e a restituire a essa i suoi significati». PER SAPERNE DI PIÚ

In alto: Il passo Khyber che collega l’Afghanistan con il Pakistan, in una foto recente e in una litografia di James Rattray del 1848. Per millenni passaggio unico e obbligato tra l’Asia centrale e l’Asia meridionale, il Khyber è uno dei piú antichi passi montani della storia.

formazione (per la parte islamica nel caso della collega, per la parte pre-islamica nel mio caso) il patrimonio culturale afghano è di casa. Abbiamo nell’ISMEO e nell’Orientale di Napoli una sponda che ci consente di dare sistematicità ai nostri studi e ai nostri progetti e, come dicevo, di trasmetterli e diffonderli. Negli anni scorsi abbiamo creato, grazie ai finanziamenti ottenuti da una fondazione tedesca, la Gerda Henkel Stiftung, una piattaforma digitale in cui abbiamo raccolto tutta la documentazione della Missione a noi accessibile, trasformandola da archivio cartaceo ad archivio digitale condivisibile (https://ghazni.bdus. cloud/). È l’unica forma di resilienza che possiamo offrire, noi, oggi, qui in Italia. E anche se l’attività sul campo è ferma,

La bibliografia sull’archeologia del territorio e delle antiche culture dell’Afghanistan è sterminata, ma, al tempo stesso, frammentata in temi specialistici e spesso dispersa in riviste poco accessibili. Rare sono le opere in lingua italiana. Per le antiche civiltà protostoriche vi sono i due volumi pubblicati dalla casa editrice Erizzo, La città bruciata del deserto salato (Venezia 1976), sugli scavi di Shahr-i Sokhta nel Sistan iraniano, e Battriana. Una antica civiltà dalle sabbie dell’Afghanistan (Venezia 1988 Una rassegna parziale dei ritrovamenti piú eclatanti degli ultimi decenni, tra cui il tesoro di Tillja Tepe, è presentata in lingua tedesca da Viktor Sarianidi, in Die Kunst des Alten Afghanistan (Leipzig 1986). Sull’arte gandharica, ben illustrato è il volume di M. Bussagli L’arte del Gandhara (Torino 1984); i lavori della Missione Archeologica Italiana nello Swat, e le seminali interpretazioni di Giuseppe Tucci sulle regioni del nord-ovest del Pakistan, sono stati pubblicati dall’IsIAO a Roma, ma quasi sempre in lingua inglese. In lingua italiana sono da segnalare il catalogo della mostra Afghanistan. I tesori ritrovati (Umberto Allemandi & C, 2007), svoltasi al Museo delle Antichità di Torino nel 2007, e i due grandi servizi di «Archeo» pubblicati nei nn. 206 (aprile 2002) e 371 (gennaio 2016). a r c h e o 109


L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUANDO GIUNONE PRESE LA LANCIA UN INCONSUETO ATTEGGIAMENTO GUERRIERO DELLA SPOSA DI GIOVE RIMANDA A UN PASSATO IN CUI LA «MATRONALE» DEA PRESIEDEVA ANCHE ALLE BATTAGLIE

C

icerone, disquisendo sulla natura degli dèi e su come gli uomini li rappresentino e li adorino, conferendo a una stessa divinità determinati attributi e forme esteriori a seconda del luogo dove vengono venerati, a proposito di Giunone chiede al suo interlocutore come egli si immagini «la vostra famosa Giunone Sospita che tu non vedi mai, neppure in sogno, se non col caratteristico piede caprino, armata di asta e di scudo, calzata con le tipiche scarpe a becco. Eppure non è questo l’aspetto né di Giunone Argiva né della Giunone Romana. Altro è dunque l’aspetto di Giunone per i Lanuvini, altro per gli Argivi, altro per noi» (De natura deorum, I, 812). Il fine e logico ragionamento dell’Arpinate mette l’accento su un particolare aspetto di Giunone, solitamente considerata la sposa, spesso tradita, di Giove e che presiede fondamentalmente i ruoli essenziali del mondo muliebre, ovvero quelli di moglie e di madre.

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Inoltre, la dea è legata alle fasi lunari e quindi alla fertilità, ed è famosa per la violenta ostilità verso le amanti di Giove e i figli che ne derivavano, primo fra tutti Ercole. Questa Giunone tradizionale viene recepita dalla religione romana, che la inserisce nella canonica triade capitolina, con Giove e Minerva.

Esiste però una forma piú arcaica della divinità, legata al mondo agrario e pastorale latino e che trova diffusione in ambito laziale in una zona compresa tra Lanuvio e Falerii (Civita Castellana). Si tratta di una divinità bellicosa e armata, rivestita di una pelle caprina che indossa come copricapo e con le


zampe annodate sul busto, cosí come Ercole indossa la sua leontea. La dea è armata di lancia e scudo e ai suoi piedi si trova spesso un serpente – riferimento all’aspetto ctonio della dea e simbolo di eternità rigenerativa – che avanza con lei con fare altrettanto minaccioso. Gli epiteti che in questi casi accompagnano il nome di Giunone sono due: Curite e Sospita. Giunone Curite aveva il suo grande santuario a Falerii e l’etimologia del nome, ancora incerta, viene di regola collegata al fare guerresco, che vede la dea correre (currere in latino) in aiuto dei suoi protetti, a volte con tanto di carro (currus) e lancia (curis in lingua sabina: Varrone, ap. Dion. Hal. II 48, 4). Dice infatti Servio che «è detta Curite, quella [Giunone] che fa uso del carro e della lancia» (Ad Aen., I, 8 e17; IV, 59).

cavallo tra II e I secolo a.C. da magistrati originari di Lanuvio e che celebrano la loro dea eponima, raffigurata sul dritto coronata dalla pelle caprina e sui rovesci armata, sia stante che su carro, spesso accompagnata da un serpente

LA VERSIONE DI LANUVIO Giunone nell’aspetto di Promachos (che combatte in prima linea) – epiteto utilizzato per la colossale statua di Atena armata realizzata da Fidia nel 460 a.C. e collocata sul Partenone – era venerata anche in un celebre santuario a Lanuvio, dove si fregiava dell’epiteto di Sospita, cioè propizia e salvatrice. Il culto qui svolto (vedi «Archeo» n. 439, settembre 2021; anche on line su issuu.com) aveva un aspetto ctonio testimoniato dalla presenza di un grosso serpente alloggiato e nutrito ritualmente nelle viscere del tempio e che includeva anche la capra, riprendendo il modello etruscolaziale della divinità con copricapo a corna caprine del VI secolo a.C. Sebbene non ci siano giunte statue di culto siffatte, è possibile conoscere l’aspetto che dovevano avere da una ricca serie monetale di età repubblicana battuta a

anch’esso in posizione di attacco. La dea, molto simile a una Atena, indossa la pelle caprina annodata sul busto, brandisce la lancia con una mano e con l’altra regge un arcaico scudo bilobato a forma di otto, indossa un chitone ricco di pieghe ed è calzata con i calcei repandi, i tipici calzari con punta ricurva. Questa iconografia verrà ripresa anche da Antonino Pio, originario di Lanuvio, e poi da Marco Aurelio e Commodo. I Musei Vaticani conservano una statua marmorea di oltre 3 m, nota come Iuno Sospita, conservata originariamente già a Roma, nel Palazzo Mattei di Paganica, ammirata e descritta da Johann Joachim Winckelmann, venduta ai Musei nel 1782 e di incerta provenienza, anche se probabilmente romana, dato che a Roma esisteva il tempio dedicato a Iuno Sospita nel Foro Olitorio, poco lontano proprio dal Palazzo Mattei. La statua, di origine tardo-repubblicana e già restaurata in età imperiale, fu integrata in età moderna ispirandosi appunto alle monete lanuvine raffiguranti la divinità, con tanto di serpente che spunta tra i calzari di Giunone, creando un capolavoro di grande bellezza ed effetto, che dobbiamo immaginare colorato e inserito nel suo tempio per rivivere l’impatto che doveva avere sui fedeli che si recavano ad adorare la possente divinità lanuvina.

PER SAPERNE DI PIÙ In alto: denario di L. Procilius f. Roma, 80 a.C. Al dritto, testa laureata di Giove; al rovescio, Giunone Sospita, con lancia e scudo e un serpente davanti a lei; dietro la figura, la legenda L PROCILI / F. Nella pagina accanto: statua di Iuno Sospita, da Roma. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino.

Giorgio Ferri, Due divinità di Falerii Veteres: Giunone Curite e Minerva Capta, in MEFRA, 123,1, 2011; pp. 145-159. Claudia Valeri, L’iconografia di Iuno Sopita e la statua dei Musei Vaticani, in L’archeologia del sacro e l’archeologia del culto. Lanuvio, Roma 2016; pp. 63-94.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Maria Clara Martinelli

ISOLE VICINE L’arcipelago delle isole Eolie e le comunità umane nella preistoria mediterranea Edizioni di storia e studi sociali, Ragusa, 290 pp., ill. b/n 20,00 euro ISBN 978-88-99168-50-6 www.edizionidistoria.com

Martinelli, archeologa eoliana d’adozione, ripercorrendo le tappe salienti della preistoria e protostoria delle isole. Fasi alla cui conoscenza, come viene a piú riprese sottolineato, hanno contribuito in maniera decisiva le ricerche e gli studi di Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier. La trattazione è ricca di notizie e non manca un capitolo, Viaggio archeologico alle Eolie, nel quale l’autrice suggerisce gli itinerari da seguire per andare alla scoperta dei siti archeologici e monumentali. Mauro Cremaschi e Chiara Pizzi (a cura di)

sistematiche dalla seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso e, fin da subito, ha mostrato caratteristiche che ne fanno un termine di riferimento ormai imprescindibile negli studi in materia. In particolare, il corposo resoconto ora pubblicato, analizza un insieme di strutture idrauliche individuate ai margini del cosiddetto Villaggio Grande, che offrono una testimonianza eloquente delle capacità di gestione delle acque da parte delle comunità stanziatesi nella Pianura Padana centrale nel corso

TERRAMARA SANTA ROSA DI POVIGLIO

Le isole Eolie rappresentano un comprensorio archeologico di eccezionale rilevanza e la loro frequentazione, sebbene abbia avuto inizio solo in età neolitica, è stata intensa, facendo dell’arcipelago uno snodo cruciale negli scambi e nei rapporti culturali tra le culture mediterranee. Motore primo di questi fenomeni fu, a lungo, l’ossidiana di Lipari, che, proprio grazie ai suddetti scambi, giunse anche a notevoli distanze dal suo centro d’origine. Di tutto questo e delle consistenti testimonianze che oggi si conservano dà conto Maria Clara 112 a r c h e o

Le strutture idrauliche al margine del Villaggio Grande collana Origines, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 469 pp., ill. col. e b/n 70,00 euro ISBN 978-88-6045-085-2 www.iipp.it

La civiltà delle terramare è protagonista dell’articolo di apertura di questo numero, dedicato alla vasca votiva di Noceto, e a quel medesimo ambito culturale si lega questo volume, che dà conto dei risultati degli scavi condotti in un settore della terramara di Santa Rosa di Poviglio (Reggio Emilia). L’insediamento è oggetto di indagini

dell’età del Bronzo. Filo conduttore dell’opera è il costante confronto fra i dati ricavati dallo studio dei materiali e quelli scaturiti dalle osservazioni sulla geomorfologia del sito e, piú in generale, sul suo ambiente. Alessandro D’Alessio, Mirella Serlorenzi, Christopher J. Smith, Rita Volpe (a cura di)

ROMA MEDIO REPUBBLICANA Dalla conquista di Veio alla battaglia di Zama Atti del Convegno Internazionale (Roma, 5-6-7 aprile 2017), Edizioni Quasar, Roma, 576 pp., ill. b/n + 2 tavv. f.t. 60,00 euro ISBN 978-88-5491-119-2 https://edizioniquasar.it

Il volume costituisce la pubblicazione dell’omonimo incontro internazionale e propone la rassegna dei contributi allora proposti, suddivisi in quattro tematiche: I nuovi dati archeologici; Le fonti, la storia, le istituzioni; Il luogo e la forma della città; Gli spazi del sacro e del civile. L’insieme dei contributi offre dunque un quadro aggiornato di una delle fasi cruciali nella storia di Roma, quando, fra il IV e il III secolo a.C., aveva definitivamente imboccato la strada che l’avrebbe portata ad affermarsi come una delle grandi potenze dell’antichità. (a cura di Stefano Mammini)






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