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FIBULA PRENESTINA
KALLOS
LONGOBARDI IN MAREMMA
POTOCKI
GRAND TOUR
L’ANTICHITÀ SECONDO STANISŁAW POTOCKI
TERTIVERI
GROSSETO
I LONGOBARDI IN MAREMMA L’INTERVISTA
IL RACCONTO DELLA FIBULA PRENESTINA
SPECIALE ANIMALI FANTASTICI
BASILEA
ANIMALI FANTASTICI
NEL MONDO DEGLI
www.archeo.it
IN EDICOLA IL 14 DICEMBRE 2021
2021
Mens. Anno XXXV n. 442 dicembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 442 DICEMBRE
ATENE
QUANDO LA BELLEZZA ERA ASSOLUTA
€ 5,90
EDITORIALE
UNA SFINGE NELLA CITTÀ DI GOETHE Dedichiamo l’editoriale di fine anno a un evento espositivo degno della massima attenzione, e non solo per le condizioni in cui si è realizzato, rese difficili dalla perdurante emergenza sanitaria. Ci riferiamo alla mostra «Leoni, sfingi, mani d’argento. Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci», inauguratasi lo scorso 2 novembre al Museo archeologico di Francoforte. Con essa la vita antica di una delle piú importanti città etrusche varca le Alpi per presentarsi a un pubblico internazionale in una maniera mai accaduta in precedenza. I nostri lettori conoscono Vulci. Sanno delle ricerche che vi si svolgono costantemente e a ritmi serrati, quasi a voler prevenire il riproporsi di quelle distruzioni che hanno segnato l’esistenza di questo venerando e magnifico luogo in età moderna: se, infatti, dopo la sua fine decretata dal trionfo di Roma nel 280 a.C., la città cadde in un protettivo e secolare oblio, le prime scoperte dei suoi straordinari corredi funerari, verificatesi agli inizi dell’Ottocento, scatenarono una «caccia al tesoro» protrattasi fino a tempi recenti. Quella di Vulci è – per riprendere le parole dell’archeologo Carlo Casi – l’esempio per eccellenza di una vicenda di depredazione, e conseguente smembramento, di un patrimonio storico-archeologico immenso: reperti di provenienza vulcente, vale ricordarlo, si incontrano in tutti i principali musei archeologici europei (ve ne è uno nello stesso museo di Francoforte) e d’oltreoceano. Oggetti bellissimi ma muti, privi di ogni biografia, salvo forse il dato anagrafico della loro nascita. A questo silenziamento della storia risponde ora la mostra di Francoforte nella quale sono riuniti, insieme alla minuziosa documentazione dei contesti di scavo, i ritrovamenti emersi nel corso delle esplorazioni degli ultimi anni, condotte sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria Meridionale con la collaborazione di Fondazione Vulci (l’ente preposto alla gestione dell’omonimo Parco Archeologico e Naturalistico): vi troviamo – per citare solo alcuni dei reperti piú spettacolari – i corredi della Tomba delle Mani d’Argento, quelli dello Scarabeo Dorato, la rarissima coppa tolemaica della Tomba 18, e poi gli splendidi esempi della statuaria vulcente, tra cui la ormai celebre Sfinge e il Leone Alato, quest’ultimo scoperto nel 2019. La mostra, che si sarebbe dovuta aprire già la scorsa primavera, rimarrà a Francoforte fino al 10 aprile del 2022. A «Leoni, sfingi, mani d’argento» auguriamo il successo che davvero merita. E a voi, cari lettori, un Natale e un Nuovo Anno i piú sereni possibili. Andreas M. Steiner Gli organizzatori della mostra di Francoforte: Carlo Casi (direttore scientifico della Fondazione Vulci), Simona Carosi (funzionaria archeologa della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale) e Wolfgang David (direttore del Museo archeologico di Francoforte).
SOMMARIO EDITORIALE
Una sfinge nella città di Goethe
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
testimonianza dell’uso del tabacco, databile a oltre 10 000 anni fa
20
di Stefano Mammini
6
SCOPERTE Le analisi sugli intestini dell’Uomo di Tollund svelano gli ingredienti dell’ultimo pasto che consumò prima della morte 6 di Elena Percivaldi
ALL’OMBRA DEL VULCANO La villa suburbana di Civita Giuliana torna protagonista: il prosieguo delle indagini ha portato alla luce la stanza in cui viveva una famiglia di schiavi 14
A TUTTO CAMPO Le ricerche nella rada di Portoferraio confermano la duplice natura dell’isola d’Elba, sospesa fra mito e storia 26
PAROLA D’ARCHEOLOGO Fin dall’annuncio della sua scoperta, la Fibula Prenestina è stata uno dei reperti archeologici piú discussi di sempre. E ora è anche protagonista di un romanzo avvincente... 34 di Flavia Marimpietri
MOSTRE
di Laura Pagliantini
Il senso della Grecia per il bello
ITINERARI Le rocce delle Alpi Apuane custodiscono numerose incisioni rupestri raffiguranti il pennato, una sorta di falcetto, che sembra costituire un vero e proprio «fossile» culturale 30
di Stefano Mammini
46
di Giancarlo Sani
di Alessandro Mandolesi
30
46
2021
Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it
ATENE Mens. Anno XXXV n. 442 dicembre 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
SPECIALE ANIMALI FANTASTICI
Impaginazione Davide Tesei
TERTIVERI
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
POTOCKI
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
Comitato Scientifico Internazionale
LONGOBARDI IN MAREMMA
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
Federico Curti
KALLOS
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
In copertina vaso plastico in forma di Medusa accovacciata con capelli di serpente e denti di cinghiale. Metà del VII sec. a.C.
Presidente
FIBULA PRENESTINA
Anno XXXVII, n. 442 - dicembre 2021 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
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IN EDICOLA IL 14 DICEMBRE 2021
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ARCHEO 442 DICEMBRE
M IL M UM IS M TE IA R DI TO O D LL ELLA UN D he
SCOPERTE Lo scavo di un insediamento di cacciatori-raccoglitori del Nord America restituisce la piú antica
QUANDO LA BELLEZZA ERA ASSOLUTA
GRAND TOUR
L’ANTICHITÀ SECONDO STANISŁAW POTOCKI
GROSSETO
L’INTERVISTA
I LONGOBARDI IN MAREMMA
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IL RACCONTO DELLA FIBULA PRENESTINA
BASILEA
NEL MONDO DEGLI
ANIMALI FANTASTICI 30/11/21 12:40
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Maria Chiara Alati è funzionario architetto del Parco archeologico di Ostia antica. Roberta Alteri è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Lukas Clemens è professore di storia medievale all’Università di Treviri. Francesco Colotta è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Antonella Docci è funzionario restauratore del Parco archeologico di Ostia antica. Giampiero Galasso è giornalista. Laurent Gorgerat è curatore della sezione Vicino Oriente dell’Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig di Basilea. Federico Marazzi è professore ordinario di archeologia cristiana e medievale all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Michael Matheus è professore di storia medievale e moderna all’Università Johannes Gutenberg di Magonza. Jerzy Miziołek è storico dell’arte. Italo M. Muntoni è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Barletta-Andria-Trani e Foggia. Laura Pagliantini è assegnista di ricerca
MOSTRE
SCAVI
di Elena Percivaldi
di Lukas Clemens, Michael Matheus, Italo M. Muntoni, Heike Pösche e Wolf-Rüdiger Teegen
Quando la Maremma era (anche) longobarda 60
60
82
PERSONAGGI
Le passioni di un conte polacco di Jerzy Miziołek
Nel feudo del vassallo musulmano 82
70
Rubriche L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Giunone dei miracoli 106 di Francesca Ceci
88 SPECIALE
70
Quegli uccelli con il volto di donna
106 LIBRI
108
88
di Laurent Gorgerat
all’Università degli Studi di Siena. Elena Percivaldi è giornalista e storica del Medioevo. Heike Pösche è ricercatore presso il Centre National de Recherche Archéologique del Lussemburgo. Sergio Salvati è restauratore. Wolf-Rüdiger Teegen è professore di preistoria e protostoria all’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera. Claudia Tempesta è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Giancarlo Sani è membro del Comitato Scientifico del CAI Toscana.
p. 87 (alto) – Mondadori Portfolio: Fototeca Gilardi: pp. 102-103; Veneranda Biblioteca Ambrosiana/Paolo Manusardi: p. 107 (basso) – Cippigraphix: cartina a p. 83 (basso).
Illustrazioni e immagini: Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig, Basilea: A.F. Voegelin: copertina (e p. 96) e pp. 93, 95, 101, 104-105 R. Habegger: pp. 88-89, 90/91, 92/93, 94/95, 97, 98-99 – Renate Hoyer: p. 3 – Doc. red.: pp. 6, 7 (alto), 8, 34, 38, 72, 90, 100 – da: Nina H. Nielsen et alii, The last meal of Tollund Man: new analyses of his gut content, Antiquity, First View: foto di P.S. Henriksen, Museo Nazionale Danese, Copenaghen: p. 7 (basso) – Parco archeologico del Colosseo: Simona Murrone: pp. 10-11 – Cortesia Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia: pp. 12, 12/13 – Parco Archeologico di Pompei: pp. 14-15 – Cortesia Soprintendenza ABAP Friuli Venezia-Giulia: pp. 16-17 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: pp. 18-19 – Cortesia Far Western Anthropological Research Group, Desert Branch, Henderson, NV, USA: pp. 20 (alto); Sarah K. Rice: pp. 20 (basso), 21 (alto); Daron Duke: pp. 20/21 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 21 (basso, a destra) – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 22-23 – Cortesia Missione archeologica dell’Università di Bologna: p. 24 (alto) – Cortesia Missione archeologica del Deutsches Archäologisches Institut di Istanbul: p. 24 (basso) – Laura Pagliantini: p. 26 – Archivio Università degli Studi di Siena: p. 28 – Cortesia degli autori: pp. 30-33, 70-71, 73-81, 106, 107 (alto) – Cortesia Sergio Fontana: pp. 35, 36-37 – Hellenic Ministry of Culture and Sports: Ephorate of Antiquities of Arcadia/HOCRED/Paris Tavitian: pp. 46; Ephorate of Antiquities of Chalcidice and Mount Athos/HOCRED: p. 49; Ephorate of Antiquities of the Dodecanese/HOCRED/Yorgos Kassiotis: p. 50; Acropolis Museum: Sokratis Mavrommatis: p. 51 (destra); Ephorate of Antiquities of City of Athens/HOCRED/Sokratis Mavrommatis: p. 54 (alto); Ephorate of Antiquities of Aetoloakarnania and Leukas/HOCRED/ Georgios Markianos: p. 54 (basso); Ephorate of Antiquities of Eleia/HOCRED/Irini Miari: p. 55; Athens, National Archaeological Museum/HOCRED: Giorgos Fafalis: p. 56 (basso) – Museum of Cycladic Art, Atene: Paris Tavitian: pp. 46/47, 48 (basso), 51 (alto), 52/53, 56 (destra), 57; Irini Miari: p. 48 (alto) – Cortesia MAAM-Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Grosseto: pp. 60/61, 62-69 – Cortesia Fortebraccio Veregrense: p. 61 – Shutterstock: pp. 82/83 – John Zimmer: cartina a p. 83 (alto) – Lukas Clemens: pp. 84, 85 (alto, a sinistra), 86 (alto, a sinistra), 87 (basso) – Heike Pösche: p. 85 (alto, a destra) – Harald Stümpel/Christina Klein: p. 85 (basso) – Wolf-Rüdiger Teegen: p. 86 (centro) – Martina Diederich: disegni a p. 86 – Università Christian-Albrecht di Kiel, Lascito Arthur Haseloff:
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534
Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Distribuzione in Italia Press-di - Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCOPERTE Danimarca
UN ULTIMO PASTO NELLA TORBIERA
U
na sorta di zuppa simile al porridge inglese, di consistenza piuttosto densa e composta di orzo, semi di lino, Persicaria lapathifolia e altre erbe selvatiche, e completata da tracce di pesce. Al gusto non sarà stato appetibile, ma il contenuto dell’ultimo pasto dell’Uomo di Tollund, la mummia di palude rinvenuta l’11 maggio 1950 in una torbiera a Bjældskovdal, una decina di chilometri a ovest della città danese di Silkeborg, getta nuova luce sullo stile di vita e sulla ritualità dei sacrifici che venivano praticati nella Scandinavia dell’età del Ferro, 2500 anni fa. L’uomo di Tollund è forse la piú celebre tra le oltre mille «mummie di palude» riemerse a partire dal Settecento dalle torbiere del Nord Europa, in Gran Bretagna e in Irlanda. Si tratta di corpi preservatisi in ottimo stato di conservazione: sebbene le ossa a causa dell’acido presente nella torba, che scioglie il carbonato di calcio, si siano per lo piú dissolte, la mancanza di ossigeno combinata al grado di acidità dell’acqua, alle temperature rigide e alla presenza di particolari microrganismi, specifici delle paludi, ha consentito alla pelle, per quanto scurita dai processi chimici, di preservarsi perfettamente insieme agli organi interni. Fornendo in tal modo una miniera di preziose informazioni La mummia dell’Uomo di Tollund all’indomani della sua scoperta, avvenuta nel 1950 in una torbiera a Bjældskovdal, nei pressi della città di Silkeborg, in Danimarca.
6 archeo
sulle popolazioni che vissero in Scandinavia e nelle Isole britanniche nel remoto passato. Dell’uomo di Tollund, per la verità, molte cose erano già note. Gli studi condotti sulla mummia subito dopo il ritrovamento avevano infatti permesso di stabilire con
buona approssimazione l’altezza dell’individuo – poco piú di 1 m e 60 cm – e l’età del decesso, avvenuto a un’età compresa tra i 30 e i 40 anni. Le analisi al Carbonio 14 avevano inoltre datato la salma alla fine del III-inizio IV secolo a.C., un range poi circoscritto agli anni 405-380 a.C. da
Particolare del volto dell’Uomo di Tollund, che venne deposto con cura all’interno della fossa in cui è stato ritrovato.
Nina H. Nielsen del Museo di Silkeborg e colleghi grazie a uno studio condotto nel 2018 con l’ausilio delle moderne tecnologie. Al momento della scoperta, il corpo giaceva sul fondo della torbiera in posizione rannicchiata e composta, deposto con cura e con gli occhi chiusi, come se stesse dormendo. Indosso non aveva abiti: portava soltanto un berretto di pelle di pecora in testa e una cintura di
cuoio alla vita, nessun altro indumento. La corda, ancora stretta intorno al collo, faceva intuire la drammatica causa della sua fine, poi confermata dall’ultima autopsia condotta sui resti nel 2004: frattura all’osso ioide, compatibile con la morte per strangolamento o impiccagione. Ma chi era l’Uomo di Tollund e perché la sua vita era stata troncata in maniera cosí violenta? Di certo non si trattava di
Ricostruzione degli ingredienti dell’ultimo pasto dell’Uomo di Tollund in proporzione al contenuto delle viscere: a. orzo (Hordeum vulgare); b. persicaria comune (Persicaria lapathifolia s.l.); c. segmenti di rachide d’orzo; d. lino (Linum usitatissimum); e. poligono convolvolo (Fallopia convolvulus); f. farinello comune (Chenopodium album); g. sabbia; h. canapetta screziata (Galeopsis speciosa); i. dorella coltivata (Camelina sativa); j. renaiola comune (Spergula arvensis); k. viola dei campi (Viola arvensis).
un delinquente comune. Il suo aspetto generale, cosí come le unghie e i capelli, era molto ben curato: doveva dunque trattarsi di una persona di rango agiato, non di uno sbandato, né di un criminale. La sua morte, per quanto plateale, non era avvenuta a seguito di una normale esecuzione, ma come esito di un sacrificio disposto per propiziare una divinità oppure gli spiriti della palude: una sorte condivisa da molti altri sfortunati – a cominciare dalla Donna di Elling, trovata nella stessa palude nel 1938 e anch’ella deceduta per impiccagione circa due secoli dopo – i cui corpi sono riemersi da altre torbiere del Nord Europa, ritenute nell’antichità un luogo di confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Le fonti antiche, a cominciare da Cesare e Tacito, riportano che le popolazioni celto-germaniche avevano l’usanza di praticare sacrifici umani per propiziare le divinità e lasciano intendere che ciò avvenisse in particolari occasioni, come guerre o carestie, oppure in momenti ritualmente e astronomicamente significativi, legati alle ricorrenze agresti. L’entità reale di questi sacrifici, cosí come le modalità della loro esecuzione, in parte però ancora ci sfugge.
archeo 7
n otiz iario
Gli studi condotti negli anni Cinquanta sul contenuto degli intestini, molto ben preservati, rivelarono che prima di subire il sacrificio l’Uomo di Tollund era stato nutrito con un pasto complesso, con ogni probabilità proprio di carattere rituale: il porridge di cereali e pesce descritto in apertura. Un pasto dal sapore ben poco appetibile, anzi disgustoso come ipotizzò l’archeologo britannico Mortimer Wheeler (1890-1976) assaggiandone un’approssimativa ricostruzione durante un programma televisivo realizzato poco dopo la scoperta. La composizione esatta della «terribile» pietanza, però, non era stata stabilita. A colmare la lacuna giunge dunque ora lo studio intrapreso dalla stessa Nina H. Nielsen del Museo di Silkeborg. I dati raccolti da Nielsen insieme a un’équipe di colleghi di altri istituti dimostrano che l’Uomo di Tollund
ingerí una mistura di orzo e semi di lino provenienti da coltivazioni locali «arricchita» con erbe comuni quali la persicaria, il poligono convolvolo, il farinello comune, la canapetta screziata, la dorella, la renaiola e la viola campestre; la zuppa era stata cotta in una pentola di terracotta usando acqua di lago o di palude, come suggerisce la presenza di alghe e microrganismi. La mancanza di bacche e frutta indica che la somministrazione avvenne durante il lungo e cupo inverno nordico, tra le 12 e le 24 ore prima del sacrificio e della conseguente sepoltura nella torbiera. Un ultimo pasto abbondante, ma squilibrato, sia sul piano nutrizionale che del gusto, proprio come nel caso di altre mummie di palude: l’Uomo di Grauballe per esempio, prima di essere sgozzato, intorno al 290 a.C., e gettato in una torbiera dello Jutland danese aveva ingerito un
miscuglio di oltre 60 tipi diversi di vegetali uniti a cereali e carne. Un pasto rituale, composto – azzardiamo – da una vasta selezione di erbe e cereali in rappresentanza delle varietà utili e disponibili, da offrire in «dono» alle divinità per placarle e propiziarsi in tal modo un raccolto abbondante. Al di là delle possibili interpretazioni di simili sacrifici, le novità dello studio di Nielsen e colleghi non si fermano qui. L’intestino dell’Uomo di Tollund conteneva uova di diversi parassiti – Trichuris trichiura, Ascaris e tenia – ingeriti insieme a cibo venuto in contatto con terriccio contaminato: una circostanza che conferma il quadro di scarsa igiene, promiscuità tra uomini e animali, utilizzo di acque contaminate e consumo di carne non sufficientemente cotta, purtroppo assai comune tra le comunità dell’età del Ferro. Elena Percivaldi
Bjældskovdal (Danimarca). L’area in cui, nel 1950, fu ritrovata la mummia dell’Uomo di Tollund.
8 archeo
PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
QUEI DEPOSITI PIENI DI STORIE GRAZIE ALLA MULTIMEDIALITÀ, I MAGAZZINI DEL PARCO ARCHEOLOGICO DEL COLOSSEO DIVENTANO SPAZI «APERTI»: UN’OCCASIONE PER RIVIVERE OLTRE UN SECOLO DI SCAVI E RESTAURI
«D
epositi inVisibili» è il progetto che il Parco archeologico del Colosseo ha realizzato per valorizzare e rendere virtualmente accessibili alcuni dei suoi depositi, dislocati tra Palatino, Foro Romano, Domus Aurea e Colosseo, anche in considerazione delle nuove modalità di fruizione dei beni culturali, dettate dalle misure di contenimento del contagio da Covid-19. I «tesori» custoditi nei quasi cento magazzini del Parco sono svelati al pubblico, in modalità digitale, dagli archeologi e dai restauratori che raccontano la storia dei reperti e dei monumenti da cui provengono. L’immenso patrimonio custodito nei depositi diventa visibile grazie a un reportage che, in 4 puntate – in onda sul canale YouTube e sulla pagina Facebook del PArCo – si snoda dalla Domus Aurea al Palatino e fino al Colosseo. Lo spettatore si trova immerso in uno spazio virtuale, esplorabile come se camminasse realmente all’interno di esso, e ha la possibilità di osservare oggetti non esposti negli spazi museali e quindi in genere non fruibili. È possibile in tal modo comprendere le modalità di immagazzinamento, spesso effettuato in tempi ormai lontani e di conservazione dei beni del
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nostro ricco e variegato patrimonio storico-artistico. Il visitatore virtuale è invitato a soffermare l’attenzione su alcuni elementi di decorazione architettonica, sulla statuaria o su reperti ceramici, fittili e pittorici attraverso la narrazione della loro storia, delle loro caratteristiche e della loro funzione originaria, con contenuti innovativi e specifici approfondimenti tematici. Durante il percorso virtuale nei depositi viene dato spazio anche alle modalità del restauro del materiale archeologico, poi valorizzato e restituito alla pubblica fruizione mediante l’esposizione, come nel caso delle statue di Muse della Domus Aurea, ora apprezzabili durante la visita alla dimora neroniana.
I PRIMI SCAVI Nel caso dei depositi del Palatino, a cui sono dedicate queste pagine, i numerosi reperti provengono per lo piú dagli scavi storici e dalle ricerche condotte a partire dagli anni Ottanta del Novecento dall’allora Soprintendenza archeologica di Roma, sotto l’egida del professor Adriano La Regina, e dalle diverse Università e Istituti di cultura italiani e stranieri. È bene ricordare che, dopo un secolo di ricerche condotte dalla famiglia
Un capitello conservato nei magazzini del Parco archeologico del Colosseo. Spazi che possono essere ora «visitati» virtualmente grazie al progetto «Depositi inVisibili». Farnese e dopo la sistematica dispersione del ricchissimo materiale archeologico utilizzato per abbellire le loro dimore, a partire dal 1861 l’architetto Pietro Rosa, studioso di topografia antica e Soprintendente agli scavi del Palatino e dei monumenti della provincia di Roma, riprese le indagini per conto dell’imperatore francese Napoleone III nella vasta area degli Horti Farnesiani, esplorando per circa un decennio in modo organico l’intero settore occidentale della collina. Gli scavi restituirono una molteplicità di materiale statuario di particolare rilevanza storica e
artistica con il quale il Rosa istituí un piccolo Antiquario sul colle, a documentazione della decorazione scultorea dei palazzi imperiali, che in parte costituisce l’attuale consistenza della collezione del Museo Palatino e in parte è confluito nei depositi dislocati lungo la Domus Tiberiana e il criptoportico neroniano. Nei magazzini si conservano anche numerosi reperti provenienti dagli scavi dell’archeologo Dante Vaglieri, il quale, a partire dal 1907, condusse le sue ricerche nell’area sud-occidentale del Palatino, ove furono riportate alla luce numerose testimonianze delle origini della città, tra cui i resti di un villaggio capannicolo che emerse poi piú chiaramente negli anni Quaranta e Cinquanta con gli scavi stratigrafici di Pietro Romanelli e Salvatore Puglisi. Il materiale, rinvenuto da questi ultimi scavatori, è custodito, anch’esso, nei magazzini palatini e consiste in particolare in frammenti di ceramica e punte di freccia dei primi abitanti del Palatino e in numerose figurine fittili, alcune delle quali rappresentanti Attis, il paredro di Cibele, ovvero il servitore auto-eviratosi, che guida il carro della Magna Mater. Sempre nel 1907, in seguito all’annessione del Palatino all’Ufficio scavi del Foro Romano, Giacomo Boni, che dal 1898 dirigeva gli scavi forensi grazie ai quali furono riportati alla luce numerosi monumenti e reperti oggi
Reperti archeologici ed elementi architettonici custoditi nei magazzini del Parco archeologico del Colosseo.
conservati nei depositi del Foro Romano, avviò indagini anche sulla collina. Questi scavi, concentrati negli anni 1912-1914, interessarono quasi esclusivamente l’area della Domus Flavia, della Domus Transitoria, già indagata nel Settecento, e dell’Aula Isiaca e hanno restituito numerosi oggetti in bronzo, terrecotte architettoniche e raffinate ceramiche che ci raccontano la storia arcaica e repubblicana del colle.
DAL PALAZZO DEGLI IMPERATORI Altri importanti ritrovamenti si devono ad Alfonso Bartoli, successore di Boni nella direzione dell’Ufficio scavi del Foro Romano e del Palatino. Questi scava nel palazzo degli imperatori Flavi e lungo pendici meridionali nell’ambito del complesso del Paedagogium, ritrovando numerosi resti della ricca decorazione architettonica dei palazzi imperiali, quali capitelli, fusti di colonna, cornici riccamente ornate, in parte ancora custodite nei magazzini. Ma
i depositi del Palatino contengono anche i numerosi reperti riportati alla luce durante le ricerche di Gianfilippo Carettoni, soprintendente del Palatino a partire dagli anni Cinquanta, a cui si deve lo scavo del grande complesso di Casa di Augusto. Tra i materiali di maggior rilievo sono da annoverare i numerosi reperti marmorei e i frammenti pittorici e di stucco che ornavano le pareti della dimora del princeps e restituiscono l’immagine della raffinatezza della pittura di epoca repubblicana e della prima età imperiale. A partire dal 1979, con Adriano La Regina, l’indagine archeologica del Palatino ha avuto un impulso eccezionale. Scavi sistematici hanno interessato piú punti del colle palatino grazie a ricerche condotte da università italiane, in particolare dalla «Sapienza» di Roma, e straniere, che hanno restituito una messe eccezionale di reperti che arricchiscono la collezione dei depositi del Parco. Roberta Alteri
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n otiz iario
ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Friuli-Venezia Giulia
UN BASTIMENTO CARICO DI VINO
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i sono concluse, al largo di Grado (Gorizia), le operazioni di ricerca, tutela e valorizzazione del relitto di un’imbarcazione romana, noto come Grado 2. L’intervento ha permesso di riconoscere i limiti del giacimento, eseguire le operazioni di fotogrammetria necessarie alla realizzazione del modello 3D, indagare gli strati di giacitura attraverso tre saggi di approfondimento, e, infine, ricoprire l’intera area con un reticolo di griglie modulari, finalizzato alla protezione, ma, soprattutto, alla fruizione e accessibilità al sito da parte di subacquei. Nel corso delle operazioni è stato possibile ospitare una decina di subacquei afferenti a circoli della regione Friuli-Venezia Giulia, sia professionisti che sportivi, appassionati della materia, che hanno potuto godere in anteprima della visita al futuro «museo sommerso», il primo relitto in Italia visitabile in sicurezza. I materiali, infatti, sono stati conservati sul fondo, a eccezione di un’anfora, recuperata perché isolata, di una brocca in ceramica e di alcuni frammenti che si è preferito portare in superficie per garantirne la conservazione. Il relitto Grado 2 si trova a 19 m di profondità, coperto da pochi centimetri di fondale sabbioso. Fu scoperto il 17 marzo 2000 e, nello stesso anno, la Soprintendenza condusse una prima indagine, con un’équipe dell’Università di Catania. Le anfore del carico sono contenitori adibiti al trasporto di vino e noti come «anfore grecoitaliche antiche», prodotti tra IV e III secolo a.C. in Toscana meridionale, Lazio, Italia meridionale, Sicilia e sul versante adriatico della Penisola. La loro cronologia,
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seconda metà del III secolo a.C., è estremamente interessante: si tratterebbe del carico di anfore piú antico dell’Adriatico centrosettentrionale, per di piú antecedente la fondazione della colonia di Aquileia (181 a.C.) Da dove proveniva e dov’era diretta la nave che trasportava queste anfore? A oggi non abbiamo elementi sufficienti per dirlo. Sappiamo però che anfore simili erano numerose nei grandi empori etruschi posti nel delta del Po, come Adria e Spina, e sono state prodotte lungo la costa romagnola, a Cattolica. La presenza di una nave carica di anfore greco-italiche, forse
A destra: Grado (Gorizia). Il reticolo di griglie utilizzato per coprire il relitto Grado 2 e, al contempo, permetterne la fruizione da parte dei subacquei. In basso: una delle anfore greco-italiche che costituivano il carico del natante. Seconda metà del III sec. a.C.
prodotte nell’alto Adriatico e contenenti quindi vino locale, potrebbe essere un altro segnale dell’avanzata di Roma verso est (che già aveva fondato le colonie di Rimini nel 268 a.C. e Brindisi nel 244 a.C.), per lo sfruttamento dei fertili territori agricoli di questo versante e il controllo delle rotte dirette a Oriente. Nel corso di due ulteriori campagne condotte dalla Soprintendenza tra il 2012 e il 2015, con un’équipe dell’Università di Udine, è stata
messa in opera una prima struttura metallica modulare (telaio e griglie rimovibili) per proteggere il relitto e permetterne la fruizione diretta. In seguito, le otto griglie già posizionate sono state rimosse, è stato messo in luce e documentato in maniera accurata l’intero giacimento e, infine, sono state riposizionate le griglie preesistenti e ne sono state aggiunte altre, identiche, per coprirlo completamente, assicurandone in questo modo la protezione e
CIVITAVECCHIA
Il giovedí ci vediamo al museo
l’accessibilità da parte di subacquei, attraverso convenzioni con «diving center» e circoli subacquei, come già accade nella vicina Croazia. La realizzazione di un modello 3D darà modo anche a chi non può o non vuole immergersi di fruire di questo insigne patrimonio sommerso, attraverso l’uso narrativo e comunicativo della realtà virtuale. Il progetto «UnderwaterMuse», infatti, ha come obiettivo la promozione e la valorizzazione del patrimonio archeologico subacqueo di alcune aree dell’Adriatico, attraverso la progettazione di parchi/sentieri archeologici sommersi e la creazione di soluzioni digitali innovative per la sua fruizione, come la realtà virtuale e aumentata. Già da tempo sono in corso azioni di sensibilizzazione e coinvolgimento degli attori locali, nonché di formazione di guide subacquee, anche per l’accessibilità ampliata. È stato inoltre creato un portale web pubblico, geo-referenziato, a disposizione delle comunità e dei turisti, per l’esplorazione virtuale
dei siti archeologici sommersi attraverso informazioni vocali, testuali, immagini e animazioni (www.italy-croatia.eu/web/ underwatermuse). Quello condotto sul relitto Grado 2 è uno dei tre interventi-pilota del progetto «UnderwaterMuse», approvato e finanziato nell’ambito del Programma di Cooperazione transfrontaliera – Interreg ItaliaCroazia 2014-2020, di cui è capofila l’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli-Venezia Giulia – ERPAC FVG, in partnership con l’Università di Venezia Ca’ Foscari, la Regione Puglia, l’agenzia RERA – Spalato e il Comune di Kaštela. Le operazioni sul relitto, condotte da ERPAC FVG in collaborazione con le Università di Cà Foscari-Venezia, partner di progetto, di Udine e del Salento, sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia, hanno visto il supporto tecnico-logistico di una «ATI» composta dalle ditte Archeotest, Essetre e Marine Innovation Tech. (red.)
Il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia, in collaborazione con l’Ufficio Cultura del Comune di Civitavecchia, ha organizzato un ciclo di incontri culturali su temi relativi alla storia del territorio dal titolo «I giovedí dell’Archeologia». Autorevoli studiosi, archeologi e direttori di museo faranno il punto sulle novità degli studi che riguardano aspetti storici e archeologici connessi al territorio di Civitavecchia. Dalle recentissime indagini sull’insediamento di Aquae Tauri, al santuario di Pyrgi e al progetto Cencelle; dalle scoperte nella necropoli ceretana di Monte Abatone ai complessi tardo-antichi e medievali individuati sui Monti della Tolfa, fino all’archeologia subacquea del litorale altolaziale. E tanto altro ancora... Le conferenze sono in programma il giovedí alle ore 17,00, presso la Biblioteca Comunale «Alessandro Cialdi» fino al 12 maggio 2022. Info e prenotazioni: Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia, tel. 0766 23604; e-mail; drm-laz.mucivitavecchia @beniculturali.it; Facebook: @MANCivitavecchia; Instagram: @mancivitavecchia
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
UNA SCOPERTA «INCLUSIVA» GLI SCAVI NELLA VILLA DI CIVITA GIULIANA AGGIUNGONO UN TASSELLO SIGNIFICATIVO ALLA RICOSTRUZIONE DELLA VITA QUOTIDIANA DI POMPEI. E IL RITROVAMENTO DELLA STANZA IN CUI VISSE UNA FAMIGLIA DI SCHIAVI PORTA ALLA RIBALTA, PER UNA VOLTA, IL MONDO DELLE CLASSI SUBALTERNE
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li scavi nella villa suburbana di Civita Giuliana, subito a nord delle mura di Pompei, continuano a svelare, grazie all’approccio multidisciplinare delle ricerche, significative pagine di vita quotidiana. La nuova scoperta è avvenuta negli ambienti
Veduta dall’alto della stanza della villa suburbana di Civita Giuliana occupata da una famiglia di schiavi a servizio della residenza.
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di servizio alla facoltosa residenza, disposti ad angolo attorno a un cortile porticato nel quale sostava, al momento dell’eruzione, un carro cerimoniale a quattro ruote, quasi unico nel suo genere e ritrovato in ottimo stato di conservazione. Di fronte al mezzo, sul lato corto del
portico si affacciava la lunga stalla con mangiatoia, nella quale erano presenti tre equidi, fra cui un cavallo con ricche bardature in bronzo. Adiacenti alla stalla, allineati lungo il portico, almeno tre ambienti simili, quadrangolari, in origine stanze di ricovero e
In questa pagina: due immagini dello scavo della stanza «degli schiavi». Grazie alla tecnica sperimentata con gli scheletri, è stato possibile ottenere il calco dei letti presenti nel piccolo vano. immagazzinamento di materiali e attrezzature necessarie per le svariate attività lavorative del cortile e per la gestione dei carri. Dei tre locali, quello centrale ha offerto un interessante squarcio su una situazione organizzativa ed economica marginale e meno nota dell’antichità, una sorta di «fotografia» estemporanea di una stanza con soggetti rimaterializzati grazie all’affinamento della tecnica dei calchi, che di fatto ha permesso di far rivivere oggetti in materiale deperibile connessi al lavoro e alle condizioni di vita degli schiavi a Pompei e, in generale, nel mondo romano. Secondo gli archeologi, oltre a magazzini, queste stanze erano anche gli alloggi degli addetti alle attività quotidiane della villa, fra cui appunto la manutenzione e la preparazione del carro cerimoniale posizionato proprio davanti all’ambiente centrale. Qui sono state trovate tre
brandine in legno e una cassa lignea con oggetti in metallo e in tessuto forse relativi ai finimenti dei cavalli sistemati nella stalla.
ANCHE UN BAMBINO I letti sono composti da poche assi lignee, che potevano essere assemblate a seconda della lunghezza necessaria. Mentre due misurano 1,70 m circa, un letto raggiunge appena 1,40 m, e poteva perciò essere stato destinato a un ragazzo o a un bambino. La rete dei letti è formata da corde, le cui impronte erano impresse nella cinerite, al di sopra delle quali furono appoggiate delle coperte in tessuto, anch’esse restituite attraverso il metodo dei calchi. Sotto le brandine si trovavano pochi oggetti personali, tra cui anfore per conservare oggetti, brocche in ceramica e il «vaso da notte». L’ambiente era illuminato da una piccola finestra in alto e
non presentava decorazioni parietali. Oltre a fungere da dormitorio per un gruppo di schiavi, forse una piccola famiglia – come lascerebbe intuire la brandina a misura di bambino –, l’ambiente serviva come ripostiglio, viste le otto anfore stipate negli angoli lasciati appositamente liberi a tale scopo. Lo scavo di Civita Giuliana rientra in un’attività che il Parco Archeologico di Pompei sta portando avanti insieme alla Procura di Torre Annunziata; purtroppo, anche in queste stanze di servizio, una parte delle testimonianze sono andate perdute per via dei cunicoli scavati dai clandestini che hanno interessato quasi tutta la villa. «Si tratta di una finestra nella realtà precaria di persone che appaiono raramente nelle fonti storiche, scritte quasi esclusivamente da uomini appartenenti all’élite, e che per questo rischiano di rimanere invisibili nei grandi racconti storici», ha sottolineato il direttore di Pompei Gabriel Zuchtriegel. «È un caso in cui l’archeologia ci aiuta a scoprire una parte del mondo antico che conosciamo poco, ma che è estremamente importante. Quello che colpisce è l’angustia e la precarietà di cui parla questo ambiente, una via di mezzo tra dormitorio e ripostiglio di appena 16 mq, che possiamo ora ricostruire grazie alle condizioni eccezionali di conservazione create dall’eruzione del 79 d.C. Il vero tesoro di questa scoperta è l’esperienza umana, in questo caso dei piú deboli della società antica, di cui questo ambiente fornisce una testimonianza unica». Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.
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n otiz iario
SCAVI Friuli-Venezia Giulia
TUTTI IN PIAZZA... PER GIOCARE
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cavi condotti nell’area del Fondo ex Pasqualis, all’estremità sud-occidentale di Aquileia, hanno portato a nuove e interessanti scoperte. Come spiega Patrizia Basso, direttore delle ricerche, «Le indagini hanno portato alla luce in un terreno mai indagato in precedenza un nuovo e finora ignoto edificio che faceva parte di un grande complesso mercantile, già in parte individuato nel 1953-54 da Giovanni Brusin. Confermando le anomalie individuate con le prospezioni geofisiche condotte nel 2018, sono emerse una piazza ancora intatta nella sua pavimentazione in lastre in calcare di Aurisina, estesa per 26 metri in lunghezza e 6 in larghezza, e due serie di basi allineate ai lati, pertinenti ai pilastri dei portici che la attorniavano. Assieme agli altri due edifici già noti nell’area, questa nuova acquisizione attesta la vitalità del complesso di carattere commerciale, che, posto immediatamente a sud della basilica, costituiva il cuore pulsante della vita economica e sociale dell’Aquileia tardo-antica. Vi si accedeva da nord e quindi appunto dall’area della basilica, ma anche dal fiume, come hanno mostrato le aperture sul piú esterno dei due muri di cinta urbani portati alla luce già da Brusin a sud delle stesse piazze, nonché le rampe correlate a queste aperture individuate grazie agli scavi condotti dall’Università di Verona nel 2018-19. Non è ancora del tutto chiara l’articolazione planimetrica complessiva del mercato, per cui negli anni futuri sarà importante continuare le indagini di scavo per accertare l’esistenza di un ulteriore edificio menzionato da Brusin nel settore orientale del terreno e per
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verificare le relazioni fra tutte queste strutture, ricostruendo cosí l’aspetto unitario del complesso. Tuttavia, già da ora si intuisce la straordinarietà dell’insieme monumentale, che non sembra
trovare confronti nell’intero impero, caratterizzato com’era da ben quattro edifici allineati, che si differenziavano tra loro nelle strutture di vendita e anche nei prodotti commercializzati.
Di grande interesse sono anche alcune tracce di vita quotidiana emerse grazie allo scavo, che permettono di “popolare” i resti strutturali: si tratta di incassi regolari per giochi con pedine che si osservano sul cordolo laterale alla pavimentazione della nuova piazza, a riprova che nell’area non solo si vendeva e comprava, ma anche si sostava e passava del tempo a giocare e chiacchierare con altri avventori e che dunque questi mercati erano luoghi di incontro e di socialità di centrale importanza urbana. La continuazione delle indagini mirerà anche a verificare se i
mercati, come crediamo, abbiano conosciuto fasi di vita precedenti a quelle del V secolo, oggi visibili in sito, a cui rimandano i materiali e le monete raccolti con gli scavi. Proprio tra i rinvenimenti monetali si segnala quello, straordinario, di una moneta d’oro, un solido di Leone I (457-474 d.C.), coniato per la zecca di Costantinopoli». «Il reperto – sottolinea Diana Dobreva, che collabora alla direzione dello scavo – è di estremo interesse, sia poiché in generale i rinvenimenti singoli di monete d’oro sono di estrema rarità, sia perché l’esemplare di Leone da noi rinvenuto è il primo A destra: solido aureo di Leone I (457-474 d.C.), coniato per la zecca di Costantinopoli. A sinistra: l’area di scavo nel Fondo ex Pasqualis. Nella pagina accanto: due immagini della piazza riportata alla luce, pavimentata con lastre in calcare di Aurisina.
noto a oggi per Aquileia. Tale moneta attesta la circolazione in loco di nominali in metallo prezioso nel V secolo d.C. e costituisce un riferimento estremamente importante per l’ultima frequentazione dei mercati Pasqualis e in generale del sito di Aquileia». La campagna di scavo è stata condotta su concessione ministeriale da un’équipe dell’Università di Verona (Dipartimento Culture e Civiltà), in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Friuli-Venezia Giulia e con la Fondazione Aquileia, che ha anche assicurato il sostegno economico all’intervento. Le indagini archeologiche sono state rese possibili, sotto il controllo del funzionario archeologo Paola Ventura (SABAP FVG). Giampiero Galasso
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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
COLORI NEL BUIO IL DIO MITRA FU MOLTO VENERATO A OSTIA: FRA I NUMEROSI LUOGHI DI CULTO SORTI IN SUO ONORE, VI È QUELLO DI LUCREZIO MENANDRO, NEL QUALE SI È APPENA CONCLUSO UN IMPORTANTE INTERVENTO DI RESTAURO
«A
l dio invitto Mitra Diocle diede e dedicò come dono, in onore del padre Gaio Lucrezio Menandro»: questa iscrizione, incisa sulla lastra in marmo che riveste l’altare, identifica al di là di ogni dubbio come luogo di culto mitraico il piccolo vano ubicato nell’isolato delimitato a sud da via di Diana, L’iscrizione del mitreo di Lucrezio Menandro. Vi si legge: «Al dio invitto Mitra Diocle diede e dedicò come dono, in onore del padre Gaio Lucrezio Menandro».
a ovest da via dei Balconi e a est da via dei Molini, non lontano dal Foro di Ostia. Alla stessa funzione rimandano anche i banconi laterali (praesepia o podia) – utilizzati dagli adepti durante i banchetti rituali –, l’accesso angusto e nascosto alla vista e la posizione semi-ipogea, che contribuivano a creare un’atmosfera di oscurità, appena rischiarata dalle lucerne che ardevano nel foro a forma di crescente lunare ricavato nell’altare e nelle nicchie poste nella parte bassa dei podii. Un’atmosfera che ben si adeguava al carattere iniziatico di un culto che a Ostia doveva avere in età imperiale un larghissimo seguito, come attestano i diciannove mitrei finora noti, disseminati nei diversi quartieri della città.
RIPETUTE TRASFORMAZIONI D’altronde, la riconversione in mitreo, databile all’inizio del III secolo d.C., fu solo l’ultima delle numerose trasformazioni che interessarono il caseggiato di Lucrezio Menandro, a partire dall’età adrianea e fino alla distruzione avvenuta sullo scorcio del III secolo d.C. a causa di un incendio che coinvolse anche gli
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Un momento dell’intervento di restauro eseguito sulle pitture del mitreo dalla società RES di Luigi Loi. Nella pagina accanto: il mitreo al termine dell’intervento di restauro. edifici circostanti. Nella fase originaria (databile intorno al 127 d.C. grazie ai bolli laterizi) l’ambiente occupato in seguito dal mitreo era uno spazio aperto, stretto e allungato, che separava il Molino del Silvano da un edificio di analoga funzione, come suggeriscono la presenza di un forno per il pane, di due grandi ambienti con pilastri centrali probabilmente adibiti alla molitura del grano, e di una fila di botteghe per la vendita al dettaglio, affacciate su via dei Balconi. Nella seconda metà del II secolo d.C., lo spazio scoperto e gli ambienti adiacenti sul lato ovest
furono isolati dagli edifici circostanti e trasformati in una piccola ma lussuosa abitazione. L’ambiente del mitreo si presentava in questa fase suddiviso in due vani piú piccoli da un tramezzo e da una porta di cui rimane in posto la soglia marmorea: il vano piú meridionale, aperto a sud su un piccolo cortile, aveva forse la funzione di sala di ricevimento. Al medesimo periodo risale la realizzazione degli apparati decorativi dell’abitazione, costituiti da mosaici in bianco e nero a motivi geometrici e vegetali e affreschi caratterizzati da grandi pannelli a fondo bianco con quadretti paesistici al centro, su zoccolature di colore diverso, profilati in alto da una cornice in stucco, con motivi campiti in rosso e azzurro. Proprio il mosaico e gli affreschi dell’ambiente del mitreo sono stati l’oggetto principale del restauro condotto nel 2020-2021 dal Parco archeologico di Ostia, recentemente conclusosi, che ha dovuto dialogare con gli interventi
conservativi pregressi, condotti negli anni Trenta (contestualmente allo scavo), negli anni Sessanta e negli anni Novanta del secolo scorso. I condizionamenti maggiori sono stati imposti dall’intervento di stacco degli affreschi (con successivo riallettamento su pannelli in cemento armato), eseguito negli anni Sessanta, in linea con le teorie e le pratiche dell’epoca, con l’obiettivo di limitare i fenomeni di degrado dovuti al peculiare contesto ambientale ostiense, caratterizzato da una forte umidità di risalita.
PIENA LEGGIBILITÀ L’intervento di restauro è stato principalmente finalizzato a restituire una piena leggibilità agli schemi compositivi della semplice ma raffinata decorazione musiva del pavimento e alle caratteristiche espressive delle superfici pittoriche: tale risultato è stato ottenuto grazie alla pulitura e alla reintegrazione pittorica delle lacune e delle abrasioni, ma anche per mezzo
della risagomatura dei pannelli lungo l’originario contorno dei lacerti. Tra gli interventi complementari vi sono stati il restauro dei podia, delle cortine e delle creste murarie, il rifacimento della copertura moderna e la progettazione e la realizzazione di un nuovo sistema di ancoraggio dei supporti degli affreschi alla muratura, finalizzato ad assicurarne la facile manutenibilità e una minima invasività percettiva sull’osservatore. L’intervento di restauro ha infine costituito l’occasione per avviare uno studio analitico sulle fasi edilizie e decorative dell’edificio, con l’obiettivo di restituire ai visitatori la piena percezione delle sue componenti materiche e delle sue valenze estetiche, ma anche di costruire una narrazione che aiuti a comprenderne le trasformazioni e a valorizzarne il complesso intreccio di valori storici, culturali e archeologici. Maria Chiara Alati, Antonella Docci, Sergio Salvati e Claudia Tempesta
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n otiz iario
SCOPERTE Stati Uniti d’America
UN VIZIO ANTICHISSIMO
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l tabacco è senza alcun dubbio la sostanza psicoattiva che, nella storia, ha avuto il piú forte impatto sui modelli di comportamento delle società e però è tuttora vivo il dibattito su quanto indietro nel tempo si debba risalire per fissare le origini del fenomeno. Un contributo di notevole interesse viene ora dagli scavi condotti nel sito di Wishbone, nello Utah (Stati Uniti d’America), dove lo scavo dei resti di un sito occupato da nativi americani ha restituito tracce di utilizzo del tabacco risalenti a 12 000 anni fa circa e dunque di circa 9000 anni piú antiche delle testimonianze finora note. Le indagini hanno restituito semi carbonizzati di Nicotiana, trovati nel deposito di un focolare dell’insediamento, che venne occupato da una comunità di cacciatori-raccoglitori, la cui frequentazione è attestata anche dal ritrovamento di numerosi
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.
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strumenti in pietra e osso. L’area appare oggi come un’ampia distesa, ma si deve immaginare che, all’epoca in cui venne occupato, il sito di Wishbone si trovava ai margini del delta di un fiume, in una vasta zona paludosa: i gruppi umani trovarono qui un habitat favorevole, occupando le terre asciutte che emergevano fra acquitrini e corsi d’acqua veri e propri. La datazione del sito è stata ottenuta sottoponendo all’analisi radiocarbonica i resti di salice (Salix sp.) trovati anch’essi nel riempimento del focolare. L’esame ha fornito la data di 10 390±20 anni da oggi, che, calibrata, ha permesso di definire una forchetta compresa fra i 12 480 e i 12 060 anni da oggi. Dal punto di vista culturale, i cacciatori-raccoglitori di Wishbone sono ascrivibili al complesso noto come Western Stemmed Tradition, composto da gruppi di lingua shoshone. Si tratta di una cultura
attestata quasi esclusivamente nell’America nord-occidentale, all’epoca della transizione fra Pleistocene e Olocene, e che è stata distinta per la produzione di un particolare tipo di punte con peduncolo (da cui la definizione inglese di stemmed), che venivano utilizzate per la caccia ad animali di grossa taglia. La piú antica versione di queste punte, detta Haskett (dal nome dello studioso, Parley Haskett, che ne rinvenne i primi esemplari), è presente anche a Wishbone, a conferma
ROMA
Al centro del mondo
In alto: Wishbone Site (Utah, USA). Un omero di volatile rinvenuto, incombusto, nel deposito del focolare. Nella pagina accanto, in alto: ortofoto del focolare: la macchia piú scura corrisponde al centro della struttura ed è qui che sono venuti alla luce i
semi carbonizzati di tabacco. Nella pagina accanto, in basso e qui sotto: il focolare in corso di scavo. In basso, a destra: l’epigrafe geodetica in origine esposta sul Mausoleo di Cecilia Metella. 1809. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
dell’inquadramento crono-culturale dell’insediamento. Nel focolare, oltre a quelli di tabacco, sono stati trovati semi carbonizzati di altre specie vegetali, fra cui: Chenopodium berlandieri (una pianta erbacea nota
popolarmente come «pelle d’oca»), Calandrinia spp. (pianta apartenente alla famiglia delle Portulacaceae) e Deschampsia spp. (una pianta graminacea perenne, detta «erba dei capelli»). Stefano Mammini
Articolata nelle sedi espositive del Complesso di Capo di Bove e del Mausoleo di Cecilia Metella, la mostra «Misurare la Terra. Un’epigrafe napoleonica dai Musei Vaticani al Mausoleo di Cecilia Metella», visitabile fino al 9 gennaio 2022, descrive il contesto scientifico e culturale nel quale, al tempo dell’ancien regime, il Mausoleo di Cecilia Metella fu scelto come punto trigonometrico per disegnare la cartografia dei territori pontifici e per una nuova misurazione del Meridiano Terrestre, necessaria allo studio della forma della Terra, divenendo in questo modo un luogo di riferimento della storia delle scienze e della tecnica. L’utilizzo del monumento per le rilevazioni è emerso di recente, anche grazie alla fortunata riscoperta nei Musei Vaticani di un’epigrafe napoleonica che, tra il 1810 e il 1813, era stata posizionata sul tamburo del sepolcro per segnalarne la funzione di caposaldo geodetico. E la mostra nasce dalla ricollocazione della copia dell’epigrafe, realizzata nel laboratorio di restauro dei Musei Vaticani, nel punto preciso in cui venne osservata tra il 1811 e il 1812 da Philippe Petit-Radel, un colto viaggiatore francese. Info: tel. 06 7806 686; e-mail: pa-appia.comunicazione@ beniculturali.it; www. parcoarcheologicoappiaantica.it
IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
ECHI DI RITI ANTICHI UNA NECROPOLI ETRUSCA È STATA SCOPERTA IN LOCALITÀ QUATTRO PINI, A MONTALTO DI CASTRO, NELL’AREA DESTINATA AD ACCOGLIERE UN IMPIANTO PER LA PRODUZIONE DI ENERGIA RINNOVABILE. E UNA DELLE TOMBE INDAGATE HA RIVELATO LA PRESENZA DI UNA STRUTTURA UTILIZZATA PER CALARE LE OFFERTE DI CIBO NEL CORSO DELLE CERIMONIE FUNEBRI
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na piccola area di necropoli di epoca etrusca è venuta alla luce nel territorio del comune di Montalto di Castro (Viterbo) in località Quattro Pini, a poche centinaia di metri dal sito della necropoli di Due Pini, indagata tra il 2011 e il 2012 dal personale del Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci. La scoperta è avvenuta nella zona dell’ex Cementificio di Montalto sulla quale sorgerà un parco fotovoltaico commissionato da Green Frogs Montalto s.r.l. (società del Gruppo Iberdrola S.A.). Oltre alla necropoli sono stati rinvenuti alcuni assi stradali tagliati nel banco naturale, uno dei quali doveva collegare Vulci con l’area costiera; ai lati delle strade era inoltre presente una rete idrica costituita da cunicoli ipogei per il drenaggio e la regimentazione delle acque, probabilmente per uso agricolo. Nell’area doveva essere inoltre presente una fattoria romana, testimoniata da pochi resti di murature e materiali ceramici databili tra il II e il I secolo a.C. Solamente una delle 4 sepolture
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rinvenute a Quattro Pini è stata risparmiata dai crolli dovuti alle lavorazioni agricole moderne: si tratta di una tomba ipogea a camera, con dromos e vestibolo a cielo aperto, sul quale si aprono tre coppie di ambienti assiali. Le varie parti della tomba sono state scavate assecondando la diversa durezza degli strati geologici: il soffitto delle camere (di cui due con tetto a falda e
columen centrale) è stato ricavato in un banco di arenaria molto resistente, mentre le pareti sono state realizzate in un banco sabbioso ricco di conchiglie, meno consistente e perciò piú agevole da lavorare. Nonostante sia stata saccheggiata
in passato da scavatori clandestini, all’interno delle camere sono stati recuperati numerosi oggetti facenti parte dei corredi funerari, tra cui molti vasi in bucchero, anfore, olle in ceramica comune, elementi in bronzo attribuibili a bracieri, catini e contenitori di vario genere, armi in
Nella pagina accanto, in alto: Montalto di Castro (Viterbo), località Quattro Pini. Veduta dell’area indagata, dove sono state scoperte una piccola necropoli etrusca e una strada, anch’essa di epoca etrusca. Nella pagina accanto, in basso: l’interno della tomba ipogea a camera con dromos e vestibolo a cielo aperto. Fine del VII-prima metà del VI sec. a.C. In alto: la tomba in corso di scavo.
Qui sotto: visita al cantiere di dell’etruscologo Stephan Steingräber (al centro, con il berretto), Wolfgang David, direttore del Museo di Francoforte (primo a sinistra, in seconda fila), accompagnati da Carlo Casi (primo a destra) e dagli archeologi Andrea Zocchi (in primo piano) e Valerio Spaccini. In basso: Carlo Casi e Valerio Spaccini esaminano alcuni reperti.
ferro come lance, coltelli e asce; sconvolte dai saccheggiatori, sono state anche rinvenute le spoglie degli individui sepolti nelle camere funerarie posteriori.
UN RICCO REPERTORIO DI FORME CERAMICHE I materiali permettono di inquadrare l’utilizzo della tomba tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. Nel caso del vasellame in bucchero (calici, brocchette, oinochoai, kantharoi), tutte le forme ceramiche sono interamente ricostruibili: è probabile che, durante il saccheggio, i vasi, forse perché considerati di poco valore,
siano stati gettati a terra nella ricerca di preziosi eventualmente contenuti al loro interno. Diverso invece è il caso di una kylix attica a figure nere (un esemplare di lip cup dei Piccoli Maestri), di cui sono stati trovati solo pochi frammenti: la coppa risulta priva dell’intero tondo centrale figurato, che, evidentemente, deve essere stato considerato di particolare pregio e trafugato assieme ad altri materiali preziosi. In attesa del loro studio, tutti i reperti sono stati prelevati e trasferiti presso il laboratorio di diagnostica e restauro di Montalto di Castro. Una particolarità è emersa nella camera anteriore destra, direttamente affacciata sul vestibolo: il vano è provvisto di un foro sul soffitto, comunicante con l’esterno, con funzione di caditoia attraverso la quale calare offerte di cibo all’interno della tomba durante i riti funebri in onore dei defunti. In effetti, all’interno della camera si è rinvenuta una notevole quantità di ossa animali, attualmente in corso di studio (al momento è stato possibile riconoscere solamente una testa caprina, deposta in un angolo della camera) al fine di documentare quali specie animali venissero offerte durante i riti. Le indagini sono state condotte sotto la direzione scientifica della SABAP per la Provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale (funzionario responsabile: Simona Carosi) e sono state svolte sul campo dagli archeologi Andrea Zocchi, Valerio Spaccini, Sara Ciampi e Daniele D’Aprile, coordinati da Davide Mancini della Kleos S.r.l.s.
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INCONTRI Torino
ULTIMISSIME DALLA TERRA DEGLI ITTITI
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remessa: nasce una nuova rivista, perché? Nel 2017 tre studiosi di altrettanti atenei italiani (Napoli, Pavia, Torino) fondavano una rivista dedicata agli studi anatolistici (News from the Lands of the Hittites). L’iniziativa mirava a creare uno strumento di informazione sulle novità (scoperte archeologiche, ritrovamento ed edizione di nuove evidenze epigrafiche, particolari iniziative nell’ambito della ricerca) nel settore degli studi sulla civiltà degli Ittiti. Già dal primo numero, la rivista si è perciò articolata in due sezioni: nella prima, di carattere piú tradizionale, gli studiosi hanno la possibilità di informare su tematiche specifiche nell’ambito delle quali si trovano a lavorare; la seconda (Newsletter) è dedicata all’illustrazione di progetti in corso e alla celebrazione di eventi (seminari, tavole rotonde, giornate di studio). La scelta di puntare su una rivista in formato elettronico (ma con la possibilità del print on demand) e di scegliere
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un formato tradizionale (A4) è stata dettata proprio dall’opportunità di offrire, soprattutto agli archeologi, uno strumento di informazione adeguato alla necessità di presentare nuove scoperte, senza limiti di documentazione grafica e fotografica.
IL COMITATO SCIENTIFICO A sostegno del lavoro dei tre direttori, la rivista si è dotata di un comitato scientifico internazionale, composto da ittitologi attivi in Germania (Daniel Schwemer), Inghilterra (Mark Weeden), Stati Uniti (Billie J. Collins) e Turchia
(Metin Alparslan e Andreas Schachner), oltre, naturalmente, a ricercatori provenienti dai tre atenei iniziatori. La redazione è stata affidata all’ateneo napoletano, mentre la Casa Editrice Mimesis di Milano ha assunto il compito della diffusione e distribuzione (https://www.mimesisedizioni.it/ catalogo/rivista/755). Tutti sappiamo come la pandemia, che ha colpito tutti i settori produttivi, abbia fortemente limitato e penalizzato, nell’ambito della produzione intellettuale, soprattutto le attività incentrate sul movimento e l’incontro reale delle
persone; quindi tutte le iniziative proprie della ricerca archeologica collegate con lo scavo e la ricognizione. Le missioni italiane in Turchia hanno rappresentato in questi ultimi vent’anni uno dei settori di punta della nostra ricerca all’estero; esse non hanno significato solo «scavo sul campo», ma anche una vetrina aperta sul mondo orientale delle capacità delle università italiane di mettere in gioco le proprie potenzialità nei settori dell’innovazione tecnologica, della conservazione e della formazione. E proprio nel campo della ricerca di una delle civiltà piú prestigiose del Vicino Oriente antico, quella degli Ittiti, le missioni italiane hanno saputo mettersi in particolare evidenza, operando in siti chiave e raggiungendo risultati di particolare rilievo. Proprio nella temperie pandemica, è sembrata quindi opportuna la scelta di dedicare un numero doppio delle News a questo aspetto della ricerca italiana: unire in un unico volume tutti i risultati e le attività in corso di svolgimento delle diverse missioni che i gruppi di ricerca italiani, anche in collaborazione con altre istituzioni internazionali, si trovavano a svolgere. La «frenata» imposta dalla situazione pandemica poteva in questo modo essere trasformata in un momento di riflessione sulle attività e di diffusione delle stesse. Non è stato facile mettere a sistema l’iniziativa; e probabilmente non si sarebbe raggiunto il risultato prefissato se tutti i gruppi di lavoro non
Nella pagina accanto, in alto: l’acropoli di Karkemish vista da nord, con l’Eufrate in primo piano. Nella pagina accanto, in basso: veduta aerea da sud di Hattusa: in primo piano, la cosiddetta Città Alta, con il bastione della «Porta delle Sfingi».
avessero risposto attivamente, mobilitandosi, in tempi estremamente brevi, per offrire una documentazione di alto livello scientifico. Fondamentali per il successo dell’operazione sono state altresí le istituzioni che da sempre sostengono le attività archeologiche italiane in Turchia: la Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese (Ufficio VI: Cooperazione culturale
in ambito multilaterale, missioni archeologiche) del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, e, direttamente sul territorio, l’Ambasciata d’Italia a Ankara. Nello scorso giugno il progetto si è concretizzato nell’edizione di un numero doppio delle News, di ben 400 pagine (seguite da 24 pagine di Newsletter), introdotte dall’Ambasciatore italiano ad Ankara e da un contributo dell’Ufficio VI del MAECI, comprendente le attività nei siti archeologici di Kinik Höyük, Malatya, Usaklı Höyük, Sirkeli, Hattusa/ Bogazkale, Karkemish. Alla pubblicazione di quest’opera si è voluto affiancare un evento finalizzato alla sua presentazione. È stata l’Università di Torino (Dipartinemto di Studi Storici) che, d’intesa con il Museo Egizio e con il Centro Ricerche Archeologiche e Scavi per il Medio Oriente e l’Asia, ha organizzato e sostenuto l’incontro. Il 14 dicembre, alla presenza dei rappresentanti del MAECI e dell’Ambasciata di Turchia a Roma, sotto il patrocinio dello stesso Ministero degli Affari Esteri, il volume verrà ufficialmente presentato nella sala delle conferenze del Museo Egizio di Torino. Nell’occasione saranno presentate, attraverso conferenze dei rispettivi direttori di scavo, i due piú importanti centri della civiltà ittita: quello della capitale Hattusa, situata nel cuore del plateau anatolico, e quello del vicereame di Karkemish, sul fiume Eufrate, al confine fra la Turchia e la Siria. (red.)
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A TUTTO CAMPO Laura Pagliantini
FUMO E SUDORE UN INTRECCIO DI MITO E STORIA: NELLA RADA DI PORTOFERRAIO, SULL’ISOLA D’ELBA, LA LEGGENDA COLLOCA LO SBARCO DEGLI ARGONAUTI MENTRE L’ARCHEOLOGIA RIVELA LE TRACCE DELL’ATTIVITÀ MINERARIA. UN QUADRO AFFASCINANTE, AL CENTRO DEL PROGETTO CONDOTTO DALL’UNIVERSITÀ DI SIENA E DAL GRUPPO DI RICERCA AITHALE
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ttorno alla rada di Portoferraio si sono concentrate nel corso dei millenni frequentazioni umane, approdi mitici, scambi culturali e storie produttive, divenute imprescindibili per la comprensione delle dinamiche storiche dell’intera Etruria. La ricerca ha preso le mosse da un quesito: perché l’isola d’Elba è cosí importante già a partire dal
VII secolo a.C.? Il suo nome è senza dubbio greco: Aethalia, o Aithale, è l’isola «fuligginosa», con chiara allusione ai fumi dei forni siderurgici o, ancora meglio, al colore che la caratterizza come massa scura, quale appariva ai navigatori antichi. L’elemento cromatico assume un rilievo anche maggiore, come è stato osservato, considerando altri toponimi, In alto: anfore contenenti semi di mela selvatica in corso di scavo nella villa romana di San Marco a Portoferraio. A sinistra: foto zenitale da drone della villa di San Marco. egualmente coloristici, ma di senso opposto: i Capi Bianchi, all’Elba assai numerosi, dovevano risaltare in modo particolare per contrasto, rispetto alla costa «color della fuliggine». Ma vi è di piú: nella tradizione letteraria antica, Portoferraio è chiamato Porto Argòo, cioè il «porto splendente», toponimo spiegato da Diodoro Siculo e da Strabone (autori vissuti nel I secolo a.C.), con la sosta della
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Uno dei dolia defossa della villa di San Marco in corso di scavo. In questi grandi contenitori, alloggiati nella cantina dell’edificio, avveniva la fermentazione del vino.
nave di Giasone e degli Argonauti, che qui avrebbero fatto tappa durante la ricerca del vello d’oro. In una località caratterizzata dalla roccia bianca, gli eroi greci avrebbero svolto gare sportive e il loro sudore avrebbe picchiettato di nero la roccia bianca, tanto da renderla inconfondibile. Questa roccia (aplite con inclusioni di tormalina nera), compare effettivamente nelle immediate vicinanze di Portoferraio e nella stessa rada ed è rarissima nel Mediterraneo, un fattore che confermerebbe la coincidenza fra tradizione del mito e geologia. Il racconto nasconderebbe quindi il ricordo di antiche navigazioni dalla Grecia, a cui fecero seguito quelle fenicie e i contatti, culturali ed etnici, con le vicine isole della Corsica e della Sardegna. Trattare dell’Isola d’Elba e della rada di Portoferraio significa tuttavia, a piú di trent’anni dalla chiusura definitiva delle miniere di ematite, avvenuta nel 1981, rievocare un mondo minerario e siderurgico che ebbe grande rilievo nell’economia e nella società dell’isola e ne costituisce tuttora un aspetto fortemente identitario.
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A partire dal periodo etrusco nella rada si lavoravano i minerali di ferro estratti nel versante orientale dell’isola: questo luogo, uscito dal mito, era avvolto nei fumi emanati dalle fornaci e attraversato dai rumori assordanti delle forge e delle officine in cui si producevano i lingotti di ferro, diretti poi verso Populonia e i grandi centri dell’Etruria costiera. Alla fine del II secolo a.C., quando i Romani si erano ormai impossessati dell’isola, il paesaggio della rada conobbe un ulteriore, radicale cambiamento. All’indomani della cessazione delle attività estrattive, anche le fornaci si spensero, lasciando il posto a ville e a coltivazioni di pregio, testimoniate dalle monumentali residenze romane della Linguella e delle Grotte.
LA VILLA RUSTICA Lo scavo nel podere San Marco (San Giovanni) nella rada di Portoferraio è quindi nato dalla necessità di indagare un sito adatto a illustrare le profonde mutazioni del paesaggio, con particolare attenzione alla fase metallurgica antica, che sull’isola ha avuto un
impatto dirompente. Localizzato nell’estremità orientale della pianura costiera omonima, ai piedi della collina occupata dalla villa delle Grotte, il sito è infatti uno dei primi a essere stato riconosciuto ed esplorato come luogo di riduzione del ferro in età romana. Dallo scavo non sono però emerse le fornaci per il ferro, bensí i resti di una villa rustica, sviluppata su due piani, dotata di una cantina con sei grandi dolia in cui fermentava il vino e di un ambiente destinato alla conservazione di aceto di mele all’interno di anfore. Le testimonianze epigrafiche rinvenute sui dolia hanno permesso di stimare una produzione vitivinicola importante, che si doveva aggirare attorno ai 9000 litri, affiancata dalla produzione di frutta. Si tratta di un edificio molto esteso (l’area indagata occupa circa 900 mq), in cui la pars fructuaria, dedicata alla produzione e all’immagazzinamento, era collocata ai piani inferiori; i piani superiori erano invece adibiti a scopi abitativi, con stanze e ambienti riccamente decorati e affacciati verso il mare. Costruito alla fine del II secolo a.C. e distrutto da un incendio nel I secolo d.C., l’edificio risale ad alcune generazioni prima della grande villa delle Grotte, di età augustea, situata sul promontorio soprastante e di cui diventerà in seguito la pars rustica, funzionale alla conservazione del vino e delle derrate alimentari. Gli scavi, che si protraggono da otto anni, hanno permesso di attribuire la proprietà dell’intero complesso alla potente famiglia romana dei Valerii. (laura.pagliantini@unisi.it)
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ITINERARI Toscana
LA LUNGA STORIA DI UN FALCETTO
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uella dei Liguri è stata a lungo una delle popolazioni meno conosciute dell’Italia preromana, ma grazie al moltiplicarsi delle scoperte archeologiche degli ultimi decenni e all’esame delle fonti scritte greche e romane, il quadro si è fatto piú nitido. Nel II secolo a.C., lo storico greco Polibio fu il primo a definirne chiaramente i confini, specificando che essi controllavano i territori compresi tra la foce del Rodano e Pisa, le Alpi occidentali ed entrambi i versanti dell’Appennino settentrionale, fino al Casentino. Elemento caratterizzante dei Liguri sembrano essere lo spiccato senso di appartenenza etnica e il forte desiderio di indipendenza, difeso
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fino allo stremo nei confronti dei Romani che, dal III secolo a.C., si interessarono al loro territorio. Erano suddivisi in numerose tribù, tra cui gli Apuani (abitanti le colline sopra Pistoia, la Garfagnana, l’alta Versilia e la Valle del Magra), i Veleiati e i Friniati (stanziati nell’Appennino emiliano), gli Statielli e i Bagienni (nell’odierno Piemonte), i Salluvii e gli Oxybii (nel Sud francese), gli Intemelii, gli Ingauni e i Tigullii (sulla costa). Gli Apuani, in particolare, si dimostrarono, a piú riprese, abili strateghi, come testimonierebbe la battaglia del 186 a.C., nella quale i Romani guidati da Quinto Marcio Filippo furono pesantemente sconfitti; i legionari furono attirati in
una gola e massacrati dai guerrieri nemici, che li avevano abilmente accerchiati calando dalle alture circostanti. Sappiamo dalle cronache che, in tale circostanza, i Liguri utilizzarono un’arma micidiale, il «pennato». E, sulla scia di questa notizia, circa vent’anni fa, ha preso il via la ricerca delle incisioni rupestri delle Alpi Apuane caratterizzate dalla presenza di incisioni raffiguranti appunto i «pennati». Questo strumento è costituito da una breve impugnatura, da cui parte una larga lama, lunga una quarantina di centimetri, che termina con una punta ricurva in avanti. Si tratta di un utensile riconducibile alla famiglia dei falcetti e delle roncole,
In questa pagina, dall’alto, a sinistra, in senso orario: Roccia del Sole (Alpi Apuane), incisioni forse legate a riti di iniziazione; Seradina (Valcamonica), incisione raffigurante un guerriero che impugna un pennato; Fosso delle Comarelle (Alpi Apuane), grande raffigurazione di un pennato incisa a martellina; Masso delle Girandole (Alpi Apuane), incisioni nelle quali si distinguono gruppi di pennati disposti a formare svastiche. Nella pagina accanto: Sella dell’Anguillara (Alpi Apuane): il sito che i Liguri Apuani potrebbero aver utilizzato come luogo di adunanze.
e l’origine della cui morfologia potrebbe risalire alla tarda età del Bronzo, come suggerirebbe il ritrovamento di manufatti simili in contesti preistorici. L’alta funzionalità gli avrebbe permesso di mantenere a lungo inalterate le caratteristiche strutturali. A riprova della sua diffusione e della lunga durata del suo utilizzo, possiamo qui ricordare alcune significative attestazioni. Nel 1979 nei pressi di Albegna (Grosseto) fu rinvenuto un bronzetto votivo etrusco datato al III secolo a.C. raffigurante un giovane nudo con un grande pennato nella mano destra, probabile rappresentazione di una divinità campestre; nel territorio di Arlena di Castro (Viterbo) sono state recentemente recuperate sei stele funerarie (II secolo d.C.), sulle quali sono incisi pennati; il museo dell’area archeologica di Luni custodisce una stele votiva, decorata a rilievo, che mostra un uomo barbuto con un pennato nella mano destra e un ramo d’albero nella sinistra. Infine,
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sulla facciata della chiesa di S. Martino a Lucca (XI secolo) sono scolpiti due pennati contrapposti. Tornando all’area delle ricerche di cui si dà conto in queste pagine, a sud della catena delle Alpi Apuane, il primo sito si trova sul monte Gabberi, dove, su un piccolo pianoro calcareo molto compatto, sono incisi quindici pennati, due asce e tre croci. Le incisioni sono disposte a semicerchio intorno a una piccola vaschetta rettangolare. Risalendo la dorsale apuana, si arriva alla cresta dell’Anguillara e, risalendola, si raggiunge una grandiosa e panoramica sella; qui, si possono vedere venticinque pennati associati a simboli sessuali femminili, impronte di mani, graffiti filiformi e arabeschi. Le lame pennate si presentano in gruppi e alcune di esse sono incrociate ortogonalmente, formando cosí figure a svastica. Nella zona centrale della catena montuosa è stato individuato uno dei siti principali: la Roccia del Sole, dove sono incisi una cinquantina di segni (pennati, orme di piedi e impronte di mani, cerchi e rosoni a sei petali sono i principali e i piú evidenti). È qui importante ricordare come piú di uno studioso identifichi nel rosone un simbolo solare per eccellenza, conosciuto anche come Sole delle Alpi, Rosa dei Pastori o Fiore della Vita. Nel gruppo delle Panie è ubicato il Masso delle Girandole. Si tratta di una roccia che affiora dal terreno per pochi metri quadrati e sulla quale sono stati incisi a martellina una ventina di pennati. In due rappresentazioni le lame pennate, divise a gruppi di tre, sono sovrapposte, in modo da formare delle svastiche. Chi sosta davanti a questa roccia può ammirare lo spettacolare tramonto del sole che
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va a spegnersi dietro la vetta del Monte Freddone; questo è il momento dove il simbolismo delle lame pennate sembra emergere in tutta la sua forza. Ancora nel gruppo delle Panie, al centro dell’anfiteatro naturale che i rilievi descrivono, si trova l’altopiano carsico della Vetricia. I siti che conservano i segni piú significativi sono la roccia del Rosone e la Pietra Tonante. La prima, piú difficile e pericolosa da raggiungere, è posta a strapiombo sull’orrido solco della
Borra di Canala. Si tratta di una roccia piatta e panoramica, con numerose incisioni di pennati, molto consunti e visibili solo con un’ottima luce radente. Tutti i segni si trovano compresi dentro un grande cerchio di 3 m di diametro. Il secondo sito, la Pietra Tonante, è ubicato nella parte centrale dell’altopiano ed è anch’esso istoriato con figure di pennati e altri segni di particolare iconografia. Il luogo è assai particolare, in quanto, nelle immediate vicinanze di un profondo crepaccio e dei
In basso: Altopiano della Vetricia (Alpi Apuane), incisione raffigurante un rosone a sei petali, sovrapposto alle immagini dei pennati. Nella pagina accanto: Lucca, cattedrale di S. Martino. Tarsie raffiguranti una coppia di pennati inserite nella ricca decorazione della facciata: la loro presenza è una delle numerose e piú significative prove della diffusione di queste immagini e della loro persistenza nel tempo.
graffiti, si trova un lastrone basculante (la pietra tonante, appunto): camminandovi sopra, si provoca un suono che, amplificato dal crepaccio, crea un effetto di notevole suggestione. A tutt’oggi, studiosi e appassionati si interrogano su chi abbia realizzato i segni, sull’epoca in cui sono stati incisi, e, soprattutto, su quale messaggio volessero trasmettere. Molte sono le risposte possibili, in quanto il significato simbolico delle incisioni dei pennati, in mancanza di fonti documentarie scritte coeve, rimane sfuggente. L’analisi diacronica dell’iconografia dello strumento ci offre in compenso un dato pressoché certo: siamo di fronte a una manifestazione cultuale e religiosa che affonda le proprie radici in epoche precristiane. Il fatto che i siti con le incisioni si trovino in altura e su rocce panoramiche dominanti, spesso
allineate con il moto solare e le vette delle montagne, farebbe pensare a luoghi preposti a particolari adunanze, come per esempio i «conciliabula» (riunioni nelle quali venivano discusse argomentazioni di carattere socioamministrativo o bellico). Questi luoghi sembrano caratterizzarsi soprattutto per una funzione cultuale comune e l’atto di incidere il pennato potrebbe avere rappresentato una sorta di ex voto, realizzato come segno di devozione nei confronti di una divinità che antropomorfizza le forze naturali (per esempio il dio Silvano); un’ipotesi senza dubbio suggestiva, ma che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, solo ulteriori verifiche e analisi piú approfondite potranno confermare. Per quanto riguarda le impronte di piccole mani e, soprattutto, di orme di piedi, si può immaginare che si tratti di segni tracciati nell’ambito di
rituali che prevedevano atti simbolici, finalizzati all’attestazione del passaggio dall’adolescenza alla maturità virile: vita, guerra, religione, caccia. Nelle culture primitive il rito dell’iniziazione è importante per acquisire l’identità riconosciuta di appartenenza alla comunità e, nel nostro caso specifico, alla tribú apuana. La consegna del pennato, accompagnata dal rito della sua incisione sulla roccia, avrebbe certificato il nuovo status del membro della comunità, considerando come questo strumento sia indispensabile per l’uomo di montagna. Come testimonianza di antiche ritualità, il pennato potrebbe essere considerato un magnifico «fossile», poiché l’atto di inciderne l’immagine, come abbiamo visto, è stata proseguita in epoca moderna come tradizione e imitazione. Giancarlo Sani
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
VENGO DA PRENESTE E QUESTA È LA MIA STORIA... CORRE L’ANNO 1887 E L’ARCHEOLOGO TEDESCO WOLFGANG HELBIG ANNUNCIA LA SCOPERTA DI UN MONILE IN ORO CON UN’ISCRIZIONE DAI CARATTERI ARCAICI: È L’INIZIO DELLA STORIA MODERNA DELLA FIBULA PRENESTINA. OGGI TRASFORMATA IN ROMANZO DA SERGIO FONTANA
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on si spegne l’interesse intorno alla Fibula Prenestina, la preziosa spilla in oro sulla quale corre la piú antica iscrizione latina a oggi nota: «Manio mi fece per Numasio». Dopo lunghi studi e alterne vicende, il gioiello – che proviene da Palestrina (l’antica Praeneste) ed è oggi conservato al Museo delle Civiltà di Roma – è stato datato alla metà del VII secolo a.C. Ma è vero o falso? Alla domanda che per decenni ha accompagnato il destino della fibula sembrano avere risposto in maniera definitiva gli studi scientifici condotti nel 2011, che ne
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hanno confermato l’autenticità. Ma il reperto continua a far parlare di sé, o meglio «a parlare di sé», nel romanzo di Sergio Fontana, Fibula. Confidenze di un oggetto parlante (Edipuglia, 2020), come ci spiega l’autore del volume, archeologo e autore multimediale. Come e perché ha scelto di far parlare un reperto come la Fibula Prenestina nel suo ultimo libro? «Nel romanzo la fibula è l’io narrante, una presenza lieve che ogni tanto prende per mano il lettore. Ma anche nella realtà è un “oggetto parlante”, perché si presenta in prima persona.
L’iscrizione, incisa da destra a sinistra secondo l’uso etrusco e del primo latino, è tra i piú antichi testi latini conosciuti: “Manio mi fece per Numasio”, recita. Sembra tracciata in modo maldestro, come se non potesse essere opera dello stesso esperto orefice che realizzò
A sinistra: Wolfgang Helbig con la moglie Nadine. Nella pagina accanto, in alto: Sergio Fontana. Nella pagina accanto, al centro: la Fibula Prenestina e il disegno del reperto: al centro l’iscrizione «Manio mi fece per Numasio». In basso: Roma, piazza Montanara (oggi scomparsa).
Fibula è soprattutto la storia delle vite delle donne e degli uomini che le si sono intrecciate attorno, che lei stessa descrive, raccontandone gli intrighi, le manie, i desideri, le aspirazioni, le miserie». Fin dalla sua presentazione ufficiale, nel 1887, da parte dell’archeologo Wolfgang Helbig, la Fibula Prenestina è stata al centro di accesi dibattiti riguardo alla sua autenticità. Negli ultimi anni c’è stata però una netta convergenza degli studiosi nel considerarla autentica, soprattutto dopo la pubblicazione, nel 2011, delle indagini scientifiche condotte con il microscopio elettronico a scansione, che datano la spilla al VII
la fibula, ma l’iscrizione ne fa un “oggetto parlante”. Il reperto accompagna il lettore nell’intricata “storia” che lo ha visto protagonista, con un punto di vista esterno. In tutte le culture gli oggetti sono portatori di storia e di memoria, per cui sono parlanti». Nel romanzo, è proprio la Fibula Prenestina che comincia a raccontare… e tutto inizia da un particolare autobiografico, o meglio da una domanda che le fece sua figlia, non è vero? «Sí. Allora aveva 15 anni e frequentava il terzo anno di liceo. All’inizio del volume di letteratura latina si parlava della Fibula Prenestina come prima testimonianza scritta della lingua latina. “Perché il professore dice che è vera, ma il libro dice che è falsa?”, mi chiese. Iniziai a studiare, mi appassionai alla rocambolesca vicenda di cui il reperto è stato protagonista e da lí nacque il libro.
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secolo a.C. Ci è voluto oltre un secolo per sciogliere il «rebus»? «Ho trovato una mole enorme di materiale sul tema della verità o falsità della spilla. Dapprima considerata autentica, venne ritenuta falsa, negli anni Ottanta, dall’epigrafista Margherita Guarducci, che scrisse un documentato studio nel quale ne sosteneva strenuamente la falsità. Nel 2011 le indagini scientifiche condotte da Daniela Ferro dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati (Ismn) del CNR, ed Edilberto Formigli, restauratore e docente presso l’Università “Sapienza” di Roma e quella di Firenze, hanno portato a concludere che sia autentica.
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Ma la cosa che mi ha piú appassionato sono i personaggi e le storie che hanno ruotato attorno a questo reperto, diventando uno strumento per scandagliare l’animo umano di molti archeologi». Uno dei protagonisti della storia moderna della Fibula Prenestina è dunque Helbig. Quale idea si è fatto di questa controversa figura? «Wolfgang Helbig (1839-1915) è un personaggio discusso già all’epoca: tacciato di essere un archeologo salottiero, una sorta di vip, con la moglie Nadine costituiva una coppia molto in vista nella Roma di quegli anni. Dopo la pubblicazione della fibula abbandonò l’Istituto Archeologico
Germanico, di cui era stato secondo direttore, e divenne consulente per grandi musei, come quello di Copenaghen. È uno studioso che rappresenta un mondo ancora
ottocentesco, prima dei grandi nazionalismi. E lo troviamo invischiato in tutte le vicende del commercio antiquario della fine dell’Ottocento. Quando presentò la
Nella pagina accanto, in alto: Felice Barnabei, fondatore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a cui Francesco Martinetti donò la Fibula Prenestina. Nella pagina accanto, in basso: Villa Lante, al Gianicolo (Roma), che fu residenza di Wolfgang Helbig e della moglie Nadine, che ne fece il salotto buono della società romana. In basso: Vincenza Sforza Cesarini, contessa di Santa Fiora, un altro dei personaggi che ruotano intorno alla vicenda della Fibula Prenestina.
Fibula Prenestina disse che apparteneva a un suo amico ed era stata comprata a Palestrina». Il proprietario della fibula era Francesco Martinetti, figura nota nel mercato antiquario, che alcuni all’epoca accusavano di essere un falsario. Nel romanzo cosa racconta di questo personaggio? «Francesco Martinetti (1833-1895) è una figura importante della Roma della fine dell’Ottocento, oscura ma interessante. È il proprietario della Fibula Prenestina. Si muove nell’area attorno a piazza Montanara, a Roma, nei pressi del Teatro di Marcello, punto di scambio tra città e campagna: durante la settimana vi sorgeva un mercato di polli e ortaggi, la domenica il mercato clandestino delle antichità. Martinetti si arricchisce grazie alla frequentazione con questi contadini che portavano reperti archeologici dalla campagna. Nel romanzo viene descritto questo mondo di antiquari e di falsari, cercando di descrivere un momento importante, cioè quello della Roma immediatamente precedente l’unità d’Italia. Successivamente, la città perderà quel ruolo di luogo cosmopolita e accogliente. La storia della fibula permette di tracciare questo percorso. Il reperto viene conteso tra i principali musei dell’epoca: Martinetti – sotto pressione – la dona a Felice Barnabei (1842-1922), fondatore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia; poi il reperto, nel 1901, per alterne vicende, va al Museo Preistorico, diretto da Luigi Pigorini (1842-1925) – attuale Museo delle Civiltà di Roma – dove è tuttora conservato». E poi – nel romanzo – ci sono le figure femminili che si sono «battute» pro e contro la fibula. Di chi si tratta? «La prima è la grande studiosa di epigrafia greca e latina
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Margherita Guarducci, la studiosa che ha a lungo sostenuto la falsità della Fibula Prenestina.
Margherita Guarducci (1902-1999), una studiosa determinata, che è andata sulle tracce della fibula come una sorta di investigatore, cercando di dimostrarne la falsità. Ha condotto una vera e propria «crociata» contro la fibula. Riteneva fosse falsa poiché era venuta fuori da personaggi poco raccomandabili come Helbig e Martinetti. La seconda figura femminile è la moglie di Helbig, la ricca principessa russa Nadine, allieva della pianista Clara Schumann, che della sua residenza – Villa Lante al Gianicolo – fece il salotto buono della società romana. E poi c’è Vincenza Sforza Cesarini, contessa di Santa Fiora, che fu amante sia di re Umberto che di Felice Barnabei, manovratrice occulta della politica di quegli anni e personaggio dimenticato che rivive nelle pagine del romanzo».
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Lei personalmente ha avuto dubbi sull’autenticità della Fibula Prenestina? Alla fine, che cosa ha risposto a sua figlia? «A lei ho suscitato piú domande che risposte. Ho scritto il libro senza un’idea preconcetta. La questione certo non è semplice e non ha risposte univoche. Le indagini archeometriche spingono verso l’autenticità, ma non c’è un metodo assolutamente oggettivo per datare l’oro. Gli esami dicono che la spilla ha subito una sorta di attacco con dell’acido, forse per pulirla? O per invecchiarla? Il supporto dell’iscrizione è sicuramente una fibula del VII secolo a.C.: forse proviene dalla Tomba Bernardini di Palestrina, ma l’iscrizione in linea teorica potrebbe essere stata incisa successivamente. Margherita Guarducci era convinta che l’avesse scritta
Helbig: forní anche una perizia calligrafica per dimostrare che quella era la sua scrittura. Cosa – a dire il vero – improbabile. La studiosa ripescò dalla sua memoria un particolare degli anni Venti, quando il suo professore di preistoria e protostoria, Giovanni Pinza (1872-1940), disse che la fibula era falsa: lo sapeva per certo poiché glielo aveva detto il collezionista Augusto Castellani (1829-1914), che conosceva l’orafo a cui era stata commissionata. E non è l’unica voce sulla sua falsità. Già nel 1887, anni della prima pubblicazione della fibula, il linguista Giacomo Lignana (1827-1891) aveva avanzato dubbi: l’iscrizione sembrava una summa di ciò che dicevano i grammatici latini sulla lingua arcaica. La mia impressione è che qualche dubbio rimanga, ma sono altrettanto convinto che leggendo il libro ognuno potrà farsi la sua idea».
PER SAPERNE DI PIÚ Sergio Fontana, Fibula. Confidenze di un oggetto parlante, Edipuglia, Bari, 345 pp. ISBN 978-88-7288-933-4 www.edipuglia.it
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ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
QUEL FASCINO MOSTRUOSO... Lo Speciale di questo numero è dedicato alla bella e originale mostra in corso al Museo di Antichità di Basilea (vedi alle pp. 88-105), nel quale Laurent 1 Gorgerat, curatore dell’evento, spiega come gli animali siano stati in stretta connessione con l’uomo sin dall’antichità, sia dal punto vista materiale (caccia, agricoltura e altro), sia da quello spirituale (religione, simbolismo, miti, ecc.) e come questa doppia valenza sia immanente in quasi tutte le forme di 2 3 rappresentazioni artistiche di animali 4 realizzate dall’uomo. Ma l’autore pone l’accento anche sulle opere che raffigurano creature «ibride» (unione di animali diversi o caratteri animali accoppiati a caratteri umani), molte delle quali considerate «mostri», spiegando 7 5 come esse siano nate nel nostro immaginario collettivo e abbiano esercitato 6 una grande influenza sulle culture antiche. Anche la nostra rassegna si divide in due parti, documentando dapprima gli animali reali e poi quelli 8 fantastici. Le pitture delle grotte di Chauvet (1) e Lascaux (2) in Francia e quelle di Altamira (3) in Spagna sono le prime rappresentazioni a oggi note 10 di animali, che ne sono i protagonisti esclusivi. Poi l’animale diventa oggetto di caccia (4), ma viene anche allevato (5) per fornire cibo, latte, carne. 9 Ma la parte piú interessante del contributo di Gorgerat è quella relativa alle creature fantastiche, delle quali l’autore spiega l’origine geopolitica o religiosa e come si siano diffuse e combinate con le tradizioni delle varie 12 11 popolazioni incontrate lungo i passaggi da una regione a un’altra. Gli ibridi compaiono per la prima volta nella pittura vascolare di Corinto, tra l’VIII e il VI secolo a.C., soggetto di una serie della Polonia del 1976, di cui proponiamo la sfinge (6) e le sirene, esseri uomo-uccello (7) che, con Omero, acquistano sembianze femminili (8). Poi ci sono i centauri, propri della tradizione greca: dapprima corpo d’uomo completo e posteriore di cavallo e successivamente solo busto umano su corpo di cavallo (9). 13 Fra gli ibridi piú noti possiamo ancora ricordare la chimera (10), con busto di leone, coda di serpente e IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può testa di capra sul dorso, il grifone (11), uccello grande come un lupo e quattro zampe simili a quelle scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: di un leone e la medusa (12), con i serpenti al posto Segreteria c/o Luciano Calenda dei capelli. A chiudere questa sfilata è il Minotauro, Sergio De Benedictis C.P. 17037 - Grottarossa metà uomo e metà toro, ucciso da Teseo nel Corso Cavour, 60 - 70121 Bari 00189 Roma francobollo greco che abbiamo scelto (13). segreteria@cift.club lcalenda@yahoo.it oppure
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CALENDARIO
Italia ROMA L’eredità di Cesare e la conquista del tempo Musei Capitolini fino al 31.12.21
CAMPELLO SUL CLITUNNO (PG) Trame Longobarde Tra Architettura e Tessuti Palazzo Casagrande fino al 20.02.22
CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 09.01.22
CORINALDO (ANCONA) Il tesoro ritrovato
La tomba del Principe di Corinaldo Pinacoteca Comunale C. Ridolfi fino al 30.01.22
Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 07.01.22
I marmi Torlonia
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 09.01.22
Misurare la terra
Un’epigrafe napoleonica dai Musei Vaticani al Mausoleo di Cecilia Metella Complesso di Capo di Bove-Mausoleo di Cecilia Metella fino al 09.01.22
Colori dei Romani
I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22
BOLOGNA Faïence-Faenza
Dall’antico Egitto al contemporaneo Museo Civico Archeologico fino al 30.01.22
BRA (CUNEO) L’uomo svelato
Studi e restauro di una mummia egizia di 4500 anni Palazzo Mathis fino al 12.12.21
BRESCIA Palcoscenici Archeologici
Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22 42 a r c h e o
Il mausoleo di Cecilia Metella raffigurato a micromosaico su una tabacchiera.
FIRENZE A misura di bambino
Crescere nell’antica Roma Galleria degli Uffizi fino al 24.04.22
GROSSETO Una terra di mezzo I Longobardi e la nascita della Toscana Museo Archeologico e d’Arte della Maremma fino al 06.01.22
MANTOVA La città nascosta
Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22
MILANO Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino all’08.05.22 (prorogata)
NAPOLI Gladiatori
Museo Archeologico Nazionale fino al 06.01.22
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Divina Archeologia
Mitologia e storia della Commedia di Dante nelle collezioni del MANN Museo Archeologico Nazionale fino al 10.01.22
Omero, Iliade
Le opere del MANN nelle pagine di Alessandro Baricco Museo Archeologico Nazionale fino al 10.01.22
RIETI Strada facendo
Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 09.01.22
SPOLETO (PG) Toccar con mano i Longobardi
VERONA Vasi antichi
Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22
VULCI (CANINO, VITERBO) Gli ultimi Re di Vulci L’aristocrazia etrusca vulcente alle soglie della conquista romana Museo Archeologico di Vulci fino al 31.12.21
Francia PARIGI Parigi-Atene
Rocca Albornoz-Museo nazionale del ducato di Spoleto fino al 06.03.22
Nascita della Grecia moderna 1675-1919 Museo del Louvre fino al 07.02.22
TORINO Cipro
Germania
Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22
Gatti, falchi, anguille: i bronzi votivi per mummie animali Museo Egizio fino al 09.01.22
UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22
VARESE La civiltà delle palafitte
L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22
FRANCOFORTE Leoni, sfingi, mani d’argento
Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci Archäologische Museum fino al 10.04.22
Grecia ATENE Kallos
La bellezza assoluta Museo d’Arte Cicladica fino al 16.01.22
Regno Unito
VENEZIA Massimo Campigli e gli Etruschi
LONDRA Perú
Power & Prestige
Svizzera
Una pagana felicità ACP-Palazzo Franchetti fino al 16.01.22
Simboli del comando in Oceania Palazzo Franchetti fino al 13.03.22
Venetia 1600
Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25.03.22
Un viaggio nel tempo British Museum fino al 20.02.22
BASILEA animalistico!
Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 43
LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
Roma
L’impero dei barbari di Umberto Roberto
Genserico e i Vandali invadono Roma, olio su tela di Karl Pavlovic Brjullov. 1833-1835. Mosca, Galleria Tretjakov.
L
a nuova Monografia di «Archeo» illustra uno degli aspetti che piú hanno caratterizzato la storia di Roma, vale a dire l’incontro/scontro con le genti straniere e con il vasto mosaico di popoli tradizionalmente etichettati come «barbari». L’obiettivo è puntato sui secoli dell’impero e della tarda antichità, nel corso dei quali il fenomeno fu particolarmente rilevante, ma non mancano riferimenti anche a fasi precedenti, come quelli che del resto si ritrovano in un celebre discorso tenuto dall’imperatore Claudio in senato, che a tutt’oggi è uno dei piú efficaci manifesti della politica estera romana. Al di là dei molti stereotipi negativi dettati dall’idea che il crollo dell’impero abbia avuto come unica causa la violenta irruzione sulla scena di popolazioni non romane, esiste una realtà – documentata dalle fonti e dall’archeologia – ben diversa e assai piú sfaccettata, in seno alla quale la pacifica convivenza ha a lungo costituito la cifra dominante del fenomeno. Poi, certo, ci furono anche momenti tragici, come in occasione dei ripetuti saccheggi di cui l’Urbe fu vittima, ma si tratta di eventi da collocare in un contesto di respiro ben piú ampio. Ed è questa l’operazione compiuta da Umberto Roberto, autore della Monografia, il quale ripercorre una fase storica cruciale avendo sempre come filo conduttore il tema del confronto fra culture diverse. Una trattazione di straordinario interesse, capace anche di cogliere quelli che dovettero essere i sentimenti dei protagonisti alle prese con un mondo che stava velocemente cambiando.
GLI ARGOMENTI • PRESENTAZIONE • Roma, comunità aperta e multietnica • STRANIERI E BARBARI • Al centro del mondo • Germani a guardia dell’imperatore • Alarico e Roma • Valentiniano III e Genserico: il ritorno dell’imperatore • Flavio Valila: un barbaro a Roma • Alarico e Roma
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MOSTRE • ATENE
Tutte le immagini si riferiscono alle opere attualmente esposte nella mostra «Kallos. La bellezza assoluta», in corso presso il Museo d’Arte Cicladica di Atene. A sinistra: statua di danzatrice, assegnata a Callimaco, dalla villa di Erode Attico a Eva di Cinuria (Laconia). V sec. a.C. Sulle due pagine: l’allestimento della sezione dedicata alla cura del corpo. Al centro, l’Afrodite accovacciata, che replica un originale in bronzo di Doidalsas. 46 a r c h e o
IL SENSO DELLA GRECIA PER IL BELLO ASSEGNARE LA PATENTE DI «BELLEZZA» È UN’INIZIATIVA POLITICAMENTE SCORRETTA? NON LO ERA DI CERTO PER I GRECI DI ETÀ ARCAICA ED ELLENISTICA, VERI CREATORI DI UN CANONE ESTETICO TRAMANDATOSI NEI MILLENNI. MA COSA RESTA, OGGI, DI QUELLA LORO PRETESA «ASSOLUTA»? LA RISPOSTA POTREMMO TROVARLA VISITANDO LA MOSTRA IN CORSO AL MUSEO D’ARTE CICLADICA DI ATENE... di Stefano Mammini
L
a statua di una danzatrice rinvenuta nella villa di Erode Attico a Eva di Cinuria, nella Laconia (regione situata all’estremità sud-orientale del Peloponneso) apre il percorso espositivo di «Kallos», la mostra attualmente in corso
negli spazi del Museo d’Arte Cicladica di Atene che documenta i molteplici aspetti del concetto di bellezza nella vita quotidiana e nella speculazione filosofica dell’antica Grecia. Per farlo, è stata riunita una selezione di 300 opere, di no-
tevole pregio, giunte nella capitale ellenica anche grazie ai numerosi e spesso eccezionali prestiti concessi da importanti musei stranieri, molti dei quali italiani. A fronte di un tema potenzialmente sterminato, gli artefici del progetto espositivo a r c h e o 47
MOSTRE • ATENE A sinistra: l’interno di una kylix attica a figure rosse con una scena legata al simposio: l’immagine del giovane che attinge vino da un cratere è accompagnata dall’iscrizione «Lysis kalos», «Lysis (è) bello». 480 a.C. circa. Nella pagina accanto: kantharos attico con corpo bicefalo: la figura femminile è la «bellissima» Eronassa, mentre quella maschile ritrae Timillo, scherzosamente definito «tanto bello quanto questo volto», da Acanto (Calcidica). 480-470 a.C. In basso: una delle vetrine che riuniscono oggetti legati alla cura e all’ornamento della persona, fra cui contenitori per essenze profumate e unguenti, cofanetti e accessori per il maquillage.
ED UNA VESTE MAGNIFICA CINSE... – Nikolaos Stampolidis e Ioannis Fappas – hanno scelto di porre come estremi cronologici e culturali l’epoca arcaica e quella ellenistica e, di conseguenza, i materiali sono in massima parte ascrivibili a un orizzonte compreso fra il VII e il I secolo a.C. A questo nucleo, preponderante, si aggiunge un gruppo di copie d’epoca romana di originali greci perduti. La scelta di esordire con la danzatrice – che per la sua origine è detta anche «ragazza di Laconia» – appare emblematica: è infatti difficile, ma forse impossibile, non associare alla statua, riconosciuta come opera originale di Callimaco databile nel V secolo a.C., l’idea della bellezza. Sebbene parzialmente mutila, la figura colpisce per l’equilibrio delle proporzioni, per la vivacità delle movenze, capaci di far dimenticare la fissità della pietra, e per il generale senso di armonia che riesce a trasmettere.
CALLIMACO, MAESTRO TROPPO PIGNOLO Fra le qualità della scultura, spicca anche la resa del panneggio, che fu del resto una delle maggiori virtú di Callimaco, anche se agli occhi di molti gli valse l’epiteto di catatexitechnos, aggettivo traducibile con «colui che indebolisce la sua arte», facendosi prendere la mano dalla meticolosità con cui si dedicava alla resa dei dettagli. È peraltro probabi48 a r c h e o
La sezione della mostra dedicata alla cura del corpo e agli accorgimenti piú diffusi per accrescere le proprie qualità ha preso ispirazione dal passo del XIV libro dell’Iliade nel quale Omero narra di come Era si fosse fatta bella e seducente per catturare le attenzioni di Zeus e distoglierlo dall’occuparsi della guerra di Troia, in modo da offrire agli Achei – per i quali la dea parteggiava – l’opportunità di primeggiare nel confronto con i Troiani. Ecco dunque la descrizione della meticolosa toletta della consorte del signore dell’Olimpo: «Entrata qui, la Diva richiuse la porta lucente. E con ambrosia linfa da prima le amabili membra tutte purificò, le asperse di limpido unguento divino, ch’ella aveva, piacevole, tutto fragrante: con l’agitarlo solo, dal bronzeo palagio di Giove se n’effondeva l’olezzo pel cielo e per tutta la terra. Tutte con questo la Dea cosparse le belle sue membra, si pettinò la chioma, le fulgide trecce compose, lucide, belle, tutte fragranti, sul capo immortale. Ed una veste poi magnifica cinse, che Atena tessuta avea per lei, lavorata, adornata di molti ricami: la fermò sul seno con fibule d’oro, cinse alla vita una zona ornata di pendule frange; poi gli orecchini infilò nei lobi forati, a tre gemme, riscintillanti: attorno spandeasi fulgore di grazia. Poi con un velo copri, la Dea fra le Dee, la sua fronte, bello, tessuto di fresco, che al pari d’un sole fulgeva. Infine, strinse ai piedi suoi nitidi i sandali belli». (traduzione di Ettore Romagnoli)
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MOSTRE • ATENE Statua di Afrodite accovacciata, subito dopo il bagno, da Rodi. I sec. a.C. Con ogni probabilità, si tratta di una replica o di una derivazione da un originale plasmato nel bronzo da Doidalsas nel III sec. a.C.
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Nella pagina accanto, a sinistra: la sezione dedicata alla bellezza degli atleti. Nella pagina accanto, a destra: la kore dall’Acropoli di Atene ribattezzata Chiotissa, «ragazza di Chio», perché assegnata a un artista originario di quella località. Ricavata da un blocco di marmo pario, la scultura, databile intorno al 510 a.C., era arricchita dalla policromia, della quale oggi si conservano solo labili tracce.
le che in origine, prima di andare ad arricchire l’apparato ornamentale della villa di Erode Attico, la danzatrice si trovasse sull’Acropoli di Atene, forse vicino alle korai dell’Eretteo, che, secondo una tradizione leggendaria, sarebbero state ribattezzate Cariatidi perché messe in relazione con le korai di Karyes, in Laconia, una delle quali sarebbe stata proprio la statua di Callimaco.
UN MESSAGGIO CHIARO Agli occhi di noi visitatori contemporanei, che spesso esitiamo nell’assegnare patenti di bellezza, temendo di sconfinare nel politicamente scorretto, la «ragazza di Laconia» e le altre opere distribuite nelle dieci sezioni in cui la mostra si articola trasmettono un messaggio chiaro ed esplicito e che, di fatto, costituisce l’elemento di maggior interesse di «Kallos»: nell’epoca presa in considerazione dalla mostra erano stati definiti canoni ben precisi e, al di là delle riflessioni di piú di un pensatore, tutti concordavano su quali fossero gli ideali di bellezza. E sarebbe discutibile, se non grottesco, biasimare simili atteggiamenti alla luce delle ideologie moderne, poiché, è bene ribadirlo, siamo di fronte a scelte compiute oltre duemila anni fa, in un contesto culturale di cui senza dubbio siamo in parte eredi, ma dal quale, nei secoli, ci siamo progressiva-
mente differenziati. Al proposito, un kantharos (calice a due manici) proveniente da Acanto (Calcidica) offre un esempio eloquente (vedi foto a p. 49). Il corpo del vaso ha la forma di una doppia testa: da un lato si vede un volto femminile, dalla pelle bianca, accompagnato dall’iscrizione «Sono Eronassa, molto bella»; sul lato opposto compare il viso di un uomo, dalla pelle nera e dai tratti fortemente accentuati, corredato dalla scritta «Sono Timillo, tanto bello quanto questa faccia». L’intento di chi realizzò il vaso, assecondando un gusto per lo scherzo molto popolare all’epoca (il kantharos è databile fra il 480 e il 470 a.C.), era quello di sottolineare la scarsa avvenenza di Timillo, associandolo dunque a uno dei tipi umani considerati evidentemente lontani dagli ideali di bellezza. Un messaggio che non si presta a doppie letture e la cui schiettezza può esa r c h e o 51
MOSTRE • ATENE
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sere utile tenere a mente nel prosieguo della visita, il cui percorso, come accennato, si articola in dieci tappe, le prime delle quali sono riunite nell’ampia trattazione riservata alla vasta gamma di accorgimenti messi a punto per esaltare il proprio aspetto fisico. In una parola, a tutto ciò che poteva aiutare a «farsi belli», proprio come fece la divina sposa di Zeus, Era, quando per distogliere il consorte dall’occuparsi delle sorti della guerra di Troia si dedicò a un’accurata toletta, seguita dalla sapiente scelta degli abiti. L’episodio è narrato da Omero nell’Iliade (vedi box a p. 48), con una dovizia di particolari che possiamo immaginare basati sulla realtà quotidiana dei mortali a cui anche il poeta apparteneva. Di quelle pratiche sono testimonianza, solo per fare qualche esempio, vasi per unguenti, cofanetti, contenitori per paste coloranti usate per il trucco, ma anche «istantanee» come quella offerta da una kylix attica a figure rosse sulla quale compare una scena di depilazione. Materiali che fanno bella mostra di sé nelle vetrine sotto l’occhio attento di uno dei numerosi capolavori confluiti nelle sale del museo: si tratta di una Afrodite accovacciata, colta subito dopo un bagno, che con ogni probabilità è una replica o una derivazione di un’opera originale plasmata nel bronzo da Doidalsas nel III secolo a.C. (vedi foto a p. 50). La statua, che conserva il suo basamento originale, è scolpita nel marmo e mostra la dea che si volge sul fianco destro, sollevando i suoi lunghi boccoli, sorridente. Provie-
ne da Rodi e viene considerata come uno degli esempi migliori dello stile fiorito nell’isola del Dodecaneso in epoca tardo-ellenistica e ribattezzato «rococò rodiese»: una moda caratterizzata soprattutto dalla replica in scala minore e dalla rivisitazione di originali di proporzioni monumentali. Nella stessa sala viene proposta una selezione di oggetti, per lo piú vasi, che recano iscrizioni in cui si tesse l’elogio della bellezza di uomini e donne. Si tratta di brevi notazioni, come «Pythodoros (è) bello», incise da chi creava i manufatti o su richiesta di chi ne aveva commissionato la fabbricazione oppure, piú semplicemente, da qualcuno che ammirava le doti della persona citata. In altri casi, le iscrizioni non citavano singoli individui, ma esaltavano, per esempio, la bellezza dei giovani.
Statua in marmo di Eros che imbraccia il suo arco. Già Collezione del cardinale Giovanni Grimani (1587). I sec. d.C. circa. Secondo l’archeologo e umanista Ennio Quirino Visconti (1751-1818), nell’opera si deve riconoscere una delle repliche piú fedeli dell’originale in bronzo creato
da Lisippo nel 335 a.C. La scultura lisippea godette di notevole fortuna, come prova il gran numero di copie che ne vennero eseguite dall’età ellenistica fino all’epoca romana. E nella stessa Collezione Grimani figurava anche un torso frammentario raffigurante il medesimo soggetto.
MORTALI ILLUSTRI Nel complesso, sono testimonianze dal carattere terreno, concettualmente affini ai moderni graffiti, come terrene sono le figure scelte che animano le sezioni immediatamente successive. Anche se, a dire il vero, alcuni dei personaggi scelti come rappresentanti dei mortali sono individui tutt’altro che secondari. Basti pensare che qui sfilano Ulisse, del quale viene proposto un ritratto concesso in prestito dal Museo Archeologico di Venezia, e Alessandro il Macedone, presente grazie alla testa in marmo proveniente dal Museo dell’Acropoli, che è una delle piú antiche immagini scolpite a oggi note dell’uomo che arrivò a essere padrone del mondo. Accanto a loro si succedono i volti
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MOSTRE • ATENE A sinistra: particolare della decorazione di una hydria a figure rosse del Pittore di Meidias con l’immagine di Elena di Sparta che, seduta, tiene in braccio Eros, da una stipe votiva del Ceramico di Atene. 410 a.C. circa. In basso: acroterio in terracotta policroma in forma di sfinge seduta, dal tempio di Apollo Termio a Thermos (Etolia). 470-460 a.C.
anonimi, ma ricchi di fascino, di una ragazza (dal santuario di Artemide a Brauron) e di un efebo (da Rodi), rispettivamente ascrivibili al primo e al tardo ellenismo. Qui è stata inserita anche un’hydria (vaso per acqua) del Pittore di Meidias la cui decorazione ha per soggetto un’altra figura femminile, tutt’altro che anonima, però: è infatti, Elena di Sparta (vedi foto in questa pagina, in alto). Appare seduta, mentre tiene in braccio Eros, e non sembra presagire i tragici eventi di cui si sarebbe resa, suo malgrado, protagonista. Un gradino piú in alto dei mortali stavano gli eroi, spesso assunti a semidei. Con gli eroi la bellezza assume i contorni della vigoria e della prestanza fisica e non poteva perciò mancare Eracle. Le cui gesta vengono qui evocate da vasi che riportano alcune delle leggendarie fatiche, come la lotta contro il leone di Nemea o la cattura del cinghiale di Erimanto. A Eracle fa quasi da pa54 a r c h e o
redro Achille, uno dei cui ritratti, su un’anfora a figure rosse dai Musei Vaticani, ripropone il tipo del Doriforo di Policleto, in un ideale connubio fra ideale eroico e canone statuario. E ci sono poi eroi senza nome, come i giovani guerrieri ritratti su due lekythoi (bottiglie per profumi) a fondo bianco, che esaltano il sacrificio di chi è pronto a morire per la patria; né manca l’altra metà del cielo, in questo caso rappresentata dalle Amazzoni.
«BELLO E BUONO» Alle leggendarie donne combattenti è legata una delle opere di maggior pregio di questa sezione: si tratta della statua, frammentaria, che raffigura un guerriero con un elmo di tipo corinzio sul capo (vedi foto a p. 55). La scultura apparteneva infatti alla rappresentazione di un’amazzonomachia che in origine decorava il frontone occidentale del tempio di Atena a Scillunte, nella regione dell’Elide (Peloponneso nordoccidentale). La figura è purtroppo
Statua raffigurante un guerriero con un elmo di tipo corinzio. Inizi del IV sec. a.C. La scultura apparteneva alla rappresentazione di un’amazzonomachia che decorava il frontone occidentale del tempio di Atena a Scillunte, nell’Elide (Peloponneso nord-occidentale).
priva degli arti, ma la posizione delle natiche suggerisce che il guerriero fosse chino, con la gamba sinistra piegata in avanti e la destra all’indietro. Ciononostante, l’opera, attribuita a una bottega peloponnesiaca e databile agli inizi del IV secolo a.C., esprime con particolare efficacia il concetto del kaloskagathos (letteralmente, «bello e buono»), secondo il quale l’uomo virtuoso non poteva non essere anche bello. Una simile combinazione di elementi caratterizza poi la bellezza atletica, frutto, in questo caso, dell’unione tra la forza fisica e quella mentale, che permettono a chi le possiede di primeggiare nelle competizioni, senza però perdere di vista la correttezza dei comportamenti, quello che oggi chiameremmo fair play. Fra le opere scelte per dare forma a questi concetti, spicca innanzi tutto la base della statua di un kouros che su tre delle sue facce mostra rilievi raffiguranti giovani atleti impegnati in varie discipline sportive. Proveniente dal Ceramico di Atene e databile intorno al 510 a.C., la base offre una sorta di catalogo dei canoni della bellezza sportiva e, visto il soggetto della decorazione, doveva a sua volta accogliere la statua di un atleta. Squisita è anche la fattura della stele funeraria del giovane Stephanos, proveniente da Tanagra e databile agli inizi del IV secolo a.C. Il ritratto dell’atleta, che si immagina morto prematuramente, fonde i canoni della bellezza arcaica con il modello dell’eroe defunto. Nella mano sinistra tiene un aryballos per l’olio e uno strigile (lo strumento con il quale ci si detergeva al termine della competizione) e accanto a lui si vede anche un cane, che probabilmente lo seguiva negli allenamenti in palestra. La parte del percorso che si snoda negli spazi della palazzina neoclassica che ospita il primo nucleo del Museo d’Arte Cicladica si apre con la sezione dedicata al concetto di a r c h e o 55
MOSTRE • ATENE
bellezza in età arcaica e classica, riprendendo e ampliando i concetti accennati nella prima parte del percorso. Inteso come un’idea che va oltre la bellezza fisica e le virtú dell’animo, il concetto di kallos comincia a prendere forma nel pensiero filosofico della Grecia antica nel corso dell’età arcaica (VI secolo a.C.) per poi evolversi in epoca classica (V-IV secolo a.C.) ed ellenistica (III-II secolo a.C.). Una fase documentata soprattutto da sculture, che mostrano la figura umana per come essa realmente appare, ma ambiscono a rappresentarne anche i valori morali.
LA RAGAZZA DI CHIO Esemplare in questo senso è la kore dall’Acropoli di Atene nota come Chiotissa, cioè «ragazza di Chio» (vedi foto a p. 51), perché ritenuta opera di un artista originario di quella località. Ricavata da un blocco di marmo pario, la scultura, da-
A destra: gruppo scultoreo raffigurante Teseo, leggendario re di Atene, che rapisce Antiope, regina delle Amazzoni, dal frontone occidentale del tempio di Apollo Dafneforo a Eretria. 510-500 a.C. Nella pagina accanto: la sala che propone una rassegna delle piú importanti divinità della Grecia antica, ritenute prime depositarie della bellezza.
A sinistra: testa marmorea identificata con un’effigie della dea Afrodite, rinvenuta nell’Agorà romana di Atene, in prossimità della Torre dei Venti. Fine del I sec. d.C. Studi recenti hanno proposto di identificare l’opera con un ritratto di Frine, cortigiana e modella di Prassitele. 56 a r c h e o
tabile intorno al 510 a.C., sembra voler impersonare la freschezza della gioventú e si rimane colpiti dall’equilibrio delle proporzioni, cosí come dalla ricchezza e dalla cura dei particolari, come l’elaborata acconciatura o la ricchezza delle vesti. Si deve peraltro considerare che, in origine, l’impatto doveva essere accentuato dalla policromia, oggi appena percettibile. La kore è priva delle braccia, ma, come nella maggior parte delle sculture di questo tipo presenti sull’Acropoli, è verosimile immaginare che in una mano tenesse un dono per la dea Atena – una colomba, un frutto o un fiore – e con l’altra reggesse un lembo del chitone che indossa. Oggi ricomposta, la Chiotissa fu recuperata in due momenti diversi: nel 1886 ne venne trovata la testa, a est del Partenone, mentre nel 1888 fu la volta del corpo, che venne alla luce a sud del medesimo tempio. Poco oltre s’incontra una delle opere che meglio traducono il concetto di una bellezza che non consiste unicamente nel valore estetico del soggetto: è il gruppo che raffigura il
rapimento di Antiope, regina delle piú compiuta. E anche i piú belli fra Amazzoni, da parte di Teseo (vedi i mortali erano considerati uguali foto alla pagina precedente, a destra). alle divinità e mai potevano ambire a esserne superiori. Sfilano quindi Zeus, Era, Atena, Ares, Poseidone, L’ABBRACCIO DEL RE Risalente al 510-500 a.C., la scultu- Apollo, Artemide Afrodite… ra apparteneva alla decorazione del E proprio quest’ultima si fa confrontone occidentale del tempio di templare in una delicata effigie proApollo Dafneforo a Eretria e, pur veniente dall’Agorà romana di Atenella fissità della pietra, riesce a tra- ne (vedi foto alla pagina precedente, a smettere la passione del leggendario sinistra), che, secondo studi recenti, re di Atene, che stringe Antiope in potrebbe essere un abbraccio vigoroso, come s’intu- stata in origine un isce dal particolare delle dita della ritratto di Frine, la sua mano, che creano piccole pie- cortigiana che posò per il grande ghe nel busto della rapita. Un saggio di maestria a cui fa da Prassitele e forse contraltare, nella sezione dedicata fu anche compaagli esseri soprannaturali, l’acroterio gna del maestro. angolare in terracotta policroma in forma di sfinge seduta proveniente DOVE E QUANDO dal tempio di Apollo Termio, nel santuario pan-etolico di Thermos, «Kallos. La bellezza assoluta» in Etolia (vedi foto a p. 54, in basso). Atene, Museo d’Arte Cicladica Databile al 470-460 a.C., l’opera è fino al 16 gennaio 2022 in questo caso un magnifico pro- Orario lu, me, ve, sa: 10,00-17,00; dotto dell’arte coroplastica. gio, 10,00-20,00; do e festivi, Epilogo di «Kallos» è la bellezza 11,00-17,00; chiuso il martedí divina. Per i Greci, infatti, la bellez- Info www.cycladic.gr; Facebook: za discendeva sempre dagli dèi, i CycladicArtMuseum; Instagram: quali la possedevano nella sua forma Cycladic_museum a r c h e o 57
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P 001
MOSTRE • GROSSETO
QUANDO LA
MAREMMA ERA (ANCHE) LONGOBARDA
LA SEPOLTURA DI UNA GIOVANE DONNA DAL CRANIO ARTIFICIALMENTE ALLUNGATO, UNA CELEBRE LAMINA AUREA DALLA FUNZIONE ANCORA INCERTA, UN ANELLO-SIGILLO APPARTENUTO A UN ALTO FUNZIONARIO: SONO ALCUNI DEGLI OGGETTI ESPOSTI IN MOSTRA AL MUSEO ARCHEOLOGICO E D’ARTE DELLA MAREMMA DI GROSSETO, PER RACCONTARE L’AVVENTO DEL POPOLO DI ORIGINI GERMANICHE NELLE TERRE COMPRESE TRA TOSCANA E ALTO LAZIO di Elena Percivaldi 60 a r c h e o
A
l momento della morte aveva all’incirca 40 anni ed era stata seppellita secondo il costume germanico orientale, come lasciano supporre la fibbia da cintura, la fibula e il piccolo coltello che, per quanto ossidati, ancora giacevano nella sua tomba. Tuttavia, a rendere interessante la sepoltura femminile, rinvenuta nel 2019 nella catacomba di S. Mustiola a Chiusi, nel Senese (dov’era in corso una campagna di scavo della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra e dell’Università di Roma Tre, diretta da Matteo Braconi e condotta in collaborazione con il Servizio di Bioarcheologia del Museo delle Civiltà di Roma) sono due caratteristiche
molto particolari. La prima è che la donna, vissuta tra il V e il VI secolo d.C., era stata sepolta all’interno di una catacomba cristiana, una delle due sole note in città (l’altra, di minori dimensioni, è quella di S. Caterina d’Alessandria). Il contesto sepolcrale, una tomba ad arcosolio (denominata dagli archeologi A28), fu utilizzato in due fasi distinte, la prima tra la fine del III e il IV secolo, la seconda nel V, entrambe caratterizzate da inumazioni plurime: tre donne e un infante di sesso maschile poi spostate per far posto a un maschio adulto di 40-50 anni, a un altro subadulto di circa 12 mesi e, appunto, alla donna, oggi nota come «Individuo 1».
Sulle due pagine: la lamina di Agilulfo o di Valdinievole, dal nome della località in cui fu trovata nel 1891. L’interpretazione del manufatto, in bronzo, è controversa, ma potrebbe trattarsi del frontale di un elmo, come suggerisce la ricostruzione riprodotta nella foto qui sopra, in cui la lamina è applicata sulla replica di un elmo lamellare simile a quello rinvenuto a Niederstotzingen (Germania), realizzata da Sergio Verna per Diego Giulietti, della Scuola di Scherma Storica Fortebraccio Veregrense.
La seconda e piú appariscente caratteristica è che la defunta presentava il cranio allungato artificialmente, una modificazione corporea indotta in età infantile attraverso appositi bendaggi, allo scopo – si ritiene a r c h e o 61
MOSTRE • GROSSETO
– di definire l’identità sociale di un Nel caso degli individui di sesso individuo, per lo piú in relazione a femminile – come quelli rinvenuti un ruolo di carattere elitario. in sei cimiteri bavaresi del V-VI secolo e il cui genoma è stato analizzato e pubblicato nel 2018 nei ProUNA PRATICA ceedings of the National Academy of VENUTA DALL’EST La pratica, ben nota grazie a nume- Sciences – si è ipotizzato che si tratrosi ritrovamenti archeologici, è at- tasse di donne inviate allo scopo di testata in Europa centro-orientale stabilire alleanze matrimoniali tra tra il V e il VI secolo nel quadro dei genti diverse: in questo caso, le spoprocessi migratori innescati dallo se avevano raggiunto la Baviera parspostamento verso ovest dei popoli tendo dall’Europa sud-orientale (a asiatici, che, a loro volta, causarono dirlo sono gli isotopi), settore all’ela migrazione delle genti germani- poca occupato da popolazioni coco-orientali stanziate nelle steppe, me gli Unni e i Gepidi. spingendole a varcare i confini Poteva essere questo il caso della «donna di Chiusi»? Una cosa è cerdell’impero romano. In basso: il cranio femminile rinvenuto nella tomba ad arcosolio A28 nella catacomba di S. Mustiola, a Chiusi. Ne appare evidente l’allungamento, ottenuto attraverso bendaggi applicati in età infantile. La donna, la cui età alla morte è stata stimata intorno ai 40 anni, visse tra il V e il VI sec. A destra, sulle due pagine: particolare dell’allestimento della sezione della mostra in cui viene descritto l’abbigliamento tipico dei Longobardi.
ta. Rispetto al resto dell’Europa centro-orientale i casi di deformazione cranica rinvenuti in Italia sono molto meno numerosi: 11 in tutto tra Collegno (Torino), Frascaro (Alessandria), Padova, Casalecchio di Reno (Bologna), San Genesio-San Miniato (Pisa), Fiesole (Firenze), compresi i tre crani di San Giusto-Lucera, nel Foggiano, che presentano modifiche di minore entità. Il cranio di Chiusi va ad aggiungersi agli altri tre finora noti nella città toscana, due dalla necropoli dell’ex Foro Boario e il terzo 62 a r c h e o
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
ritrovato in una nicchia all’esterno del duomo di S. Secondiano. E con molta probabilità è da inquadrare nell’ambito della presenza ostrogota in questo centro, strategico in quanto posto alla congiunzione tra la via Cassia e l’Amerina. Le fonti ci dicono che il goto Vitige scelse Chiusi come sede, tra il 537 e il 538 – ossia poco dopo l’inizio del conflitto contro i Bizantini –, di una guarnigione di mille uomini posta al comando di Gibimero; qualche anno piú tardi, nel 545, il Chronicon di Marcellinus
Comes ci informa che venne oc- «Longobardo d’Oro» dell’Arcisa, cupata nuovamente da Totila. un alto dignitario accompagnato da un eccezionale corredo di armi e finimenti –, sia i rinvenimenti UNA STAGIONE FELICE Terminato il conflitto con la vitto- sporadici come l’anello-sigillo di ria dei Romani d’Oriente, la città Faolfus, segno di potere del funzioconsolidò il proprio ruolo come nario regio dopo che la città era centro politico-religioso grazie alla stata elevata a sede di ducato. (ri)costruzione del duomo voluta La sepoltura della «donna di Chiudal vescovo Florentinus: fu questo si» è stata ricostruita ed esposta l’inizio di un momento di splendo- nella sezione intitolata «Goti, Bire che raggiunse l’apice proprio zantini e Longobardi» della mostra dopo l’arrivo dei Longobardi, co- «Una terra di mezzo. I Longobardi me dimostrano sia le ricche sepol- e la nascita della Toscana», in corso ture – per esempio quella del al Museo Archeologico e d’Arte di a r c h e o 63
MOSTRE • GROSSETO
Grosseto, insieme a un secondo scheletro femminile proveniente dallo scavo dell’Ospedale Nuovo e caratterizzato anch’esso da deformazione cranica, per illuminare il momento di transizione tra vecchi abitanti e nuovi «invasori». L’esposizione che raccoglie per la prima volta in modo organico le ampie tracce archeologiche lasciate dai Longobardi in Tuscia, regione strategica compresa tra Toscana e alto Lazio in cui penetrarono intorno al 574, pochi anni dopo il loro ingresso nella Penisola (vedi box alle pp. 66-67).
INTRECCI DI CULTURE Il percorso espositivo si sviluppa in quattro sezioni con un allestimento di impatto, basato sull’idea dell’intreccio sia come simbolo della compenetrazione tra autoctoni e «invasori», sia come tratto distintivo di alcune decorazioni che caratterizzano le oreficerie realizzate dai Longobardi e molti dei loro capolavori scultorei in pietra. Si parte dalla sala d’ingresso, che accoglie il visitatore nella «terra di mezzo»: qui, accompagnate dall’incipit dell’Origo Gentis Langobardorum, due mappe forniscono una visione d’insieme della migrazione del popolo longobardo dal nord Europa fino all’Italia e alla sua progressiva conquista tra il 568, anno dell’ingresso nella Penisola, e il 774, l’anno della caduta del regno a opera di Carlo Magno. La seconda sala, come già detto, è dedicata all’interazione tra Goti, Bizantini e Longobardi: oltre alle due citate sepolture femminili di Chiusi, uno spazio speciale viene riservato al tesoro di Galognano (rinvenuto casualmente nel 1963 in località Pian dei Campi, nel comune di Poggibonsi), composto da vasi e oggetti liturgici in argento risalenti al VI secolo, probabilmente occultati proprio per metterli al riparo dai nuovi invasori. Ascoltando la recita, su sottofondo musicale, dell’«atta unsar», il Padre 64 a r c h e o
A destra: la ricostruzione di un’altra sepoltura femminile in cui la defunta presenta il cranio deformato, rinvenuta nella necropoli tardo-antica e medievale scoperta nell’area dell’ex ospedale I Forti a Chiusi. Seconda metà del VI-inizi del VII sec. All’altezza del gomito sinistro della donna (vedi particolare alla pagina accanto, in alto) sono state trovate sei monete in bronzo intenzionalmente forate cosí da comporre, insieme a sedici perline in vetro, gli elementi di un bracciale. Nella pagina accanto, in basso: la tomba ad arcosolio A28 di S. Mustiola in corso di scavo. Sono visibili i resti dell’Individuo 1 (la donna dal cranio deformato) e quelli dell’Individuo 4, un subadulto di circa 12 mesi, che fu con ogni probabilità inumato nello stesso momento.
Nostro in lingua gota – il cui testo (conosciuto grazie alla traduzione realizzata nel IV secolo dal vescovo ariano Ulfila) è riportato su una parete della sala – si possono ammirare due tra i reperti piú noti in assoluto
presenti in mostra: la lamina di Agilulfo (vedi foto alle pp. 60/61) e il già citato anello-sigillo di Faolfus. La prima, conosciuta anche come «lamina di Valdinievole» (dal nome della località, oggi in provincia di
Pistoia, dove fu ritrovata nel 1891), è un controverso manufatto in bronzo dorato interpretato come frontale di elmo, forse ricavato da una placca decorativa di un reliquiario. Al centro compare il re Agilulfo (591-616), identificato dalla scritta D(omi)NO AGILU(lf) REGI («Al signore re Agilulfo») e assiso in trono: con la mano sinistra stringe la spada, mentre la destra si atteggia nel gesto dell’adlocutio, tipico degli imperatori romani. Lo accompagnano due guerrieri con le tipiche «lunghe barbe», due angeli-Nike che reggono cornucopie e un labaro inneggiante alla Vittoria (VICTURIA) e quattro offerenti che gli porgono un casco-corona sormontato dalla croce, classica insegna di potere. Il reperto, oggi conservato al Museo Nazionale del Bargello di Firenze, rappresenta iconograficamente la duplice azione, tradizionalista e «fia r c h e o 65
MOSTRE • GROSSETO
lo-romana», che caratterizza il tentativo di Agilulfo e della consorte Teodolinda (da lui sposata dopo la morte del suo primo marito Autari) di consolidare il regno e trasformarlo da un agglomerato di entità precarie coese intorno a valori di tipo etnico-tribale in un potere stabile, forte e durevole, amministrato in senso territoriale.
IL SIGILLO DEL FUNZIONARIO Il secondo reperto a catturare l’attenzione è l’anello-sigillo di Faolfus, appartenente anch’esso alle collezioni del Bargello e ritrovato alla fine dell’Ottocento sul colle dell’Arcisa di Chiusi (vedi foto in questa pagina). Era utilizzato, verosi-
milmente, per sottoscrivere documenti da parte di un funzionario insignito di poteri amministrativi e politico-militari in un ambito territoriale strategico. Proprio come quelli di Trezzo d’Adda (Milano), Udine, Palazzo Pignano (Cremona), Milano, Benevento e Bergamo – quest’ultimo femminile, attribuito alla badessa Gumetruda –, l’anello di Chiusi presenta, inciso a bulino, un volto stilizzato accompagnato da un nome scritto in senso rovesciato (qui «Faolfus»). Il confronto possibi-
le, in Tuscia, è con l’altro esemplare a oggi noto, quello di «Aufret», trovato nella chiesa di S. Pietro a Civita di Bagnoregio (Viterbo). Cuore pulsante dell’esposizione è la terza sezione, focalizzata proprio sul territorio del ducato. I reperti qui raccolti provengono sia dalla Toscana che dall’area maremmana (Salica, Casette di Mota, Grancia,Talamone, Saturnia, Semproniano, Podere Macereto, San Martino sul Fiora, Pitigliano, Vetricella, Castiglione della Pescaia), un settore ritenuto tradi-
durata solo due secoli, ma destinata, grazie alla sua prodigiosa capacità di sintesi tra il mondo «germanico» e pagano e quello classico e cristiano, a incidere profondamente sulla storia della Penisola nel delicato momento di passaggio tra l’età antica e l’Alto Medioevo. Per quanto concerne la Tuscia, l’occupazione longobarda iniziò, stando allo stesso Paolo Diacono e al piú tardo Agnello Ravennate (IX secolo), intorno al 574. Ottenuto il
controllo dei centri cittadini di Lucca e Chiusi, i Longobardi avanzarono da Lucca verso Pisa, Pistoia, Volterra fino a inglobare parte del territorio di Populonia, ricca di risorse minerarie, e l’area di Roselle; da Chiusi, invece, si spostarono a ovest, verso Arezzo e il Monte Amiata, per giungere a Siena e Fiesole, alle porte di Firenze; a sud, infine, arrivarono fino a Sovana e Tuscania, stabilizzandosi tra il ducato di Spoleto e il «corridoio
L’anello-sigillo in oro di Faolfus, dal colle dell’Arcisa a Chiusi. VI-VII sec. Con ogni probabilità, simili manufatti erano utilizzati da funzionari regi insigniti di poteri amministrativi e politico-militari in territori considerati particolarmente strategici.
I LONGOBARDI IN TUSCIA Originari – secondo l’Origo gentis Langobardorum e Paolo Diacono, il loro principale cronista che scrive nel tardo VIII secolo – del Sud della Scandinavia, i Longobardi furono protagonisti di una secolare migrazione che li condusse dal Baltico, seguendo il corso del fiume Elba, fino alla Pannonia e al Norico per giungere infine, nel 568, in Italia, dove diedero vita a un regno destinato a durare quasi due secoli fino alla conquista, nel 774, da parte dei Franchi di Carlo Magno (con la sola eccezione del ducato, poi principato, di Benevento, rimasto indipendente fino alla conquista normanna, avvenuta alla metà dell’XI secolo). Un’epopea breve, quella dei Longobardi in Italia,
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zionalmente marginale, ma del quale recenti scavi archeologici hanno invece dimostrato la rilevanza. Ne sono prova, in particolare, le sepolture dell’area di Roselle, caratterizzate da corredi «tradizionali» comprensivi di cinture per la sospensione delle armi, databili al pieno VII secolo; altri reperti, come uno splendido orecchino femminile a cestello da Grosseto (vedi foto in questa pagina, in basso), rimandano invece a un contesto piú propriamente italico e sono sintomatici dell’acculturazione prodotta dall’incontro tra «invasori» e le genti autoctone. Il quadro si completa con i reperti provenienti dal resto del Ducato: Luni, Fiesole, Lucca, Volterra, Pisa,
In alto: le decorazioni dello scudo da parata di Villa Guinigi montate su un supporto che replica le possibili dimensioni del disco ligneo originario.
A destra: orecchino a cestello in oro che testimonia la ricezione di tradizioni autoctone da parte dei Longobardi, da Grosseto.
bizantino» che collegava Ravenna a Roma tramite la via Flaminia. Quanto all’area costiera, alcuni porti e città di mare rimasero dapprima all’impero per poi passare ai Longobardi, come nel caso di Pisa, i cui ritrovamenti sono concentrati in piazza dei Miracoli; lo stesso avvenne agli inizi del VII secolo con le fortificazioni bizantine, soprattutto quelle lungo l’Aurelia, alla lunga abbandonate in mano longobarda. Nella Tuscia, come nella Pianura Padana, i Longobardi controllavano il territorio dalle città e dai castra preesistenti, che – come a Pistoia, Siena, Volterra e Tuscania – costituivano i «centri del potere» dai quali i funzionari regi gestivano
l’amministrazione per conto del sovrano. Fuori dai grandi centri abitati e nei valichi appenninici, invece, la viabilità e i beni fiscali erano presidiati da nuclei di arimanni armati. Per quanto, probabilmente, non sia stata ovunque capillare, l’occupazione longobarda in Tuscia lasciò ampie tracce archeologiche che spaziano dai ricchi corredi, espressione delle nuove élite al comando, agli oggetti d’influenza italica, testimoni della trasformazione culturale innescata dall’incontro tra elementi alloctoni e presenze indigene: un dialogo tra genti diverse che ha contribuito a plasmare e «ricodificare» l’identità del territorio agli albori del Medioevo.
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MOSTRE • GROSSETO
Fibula femminile a staffa in argento dorato (lungh. 14 cm, largh. massima 8,7 cm), dal colle dell’Arcisa (Chiusi). Fine VI-inizi VII sec. d.C. Chiusi, Museo Nazionale Etrusco. Il volto al centro della lunetta è forse identificabile con l’immagine di Odino.
Nella pagina accanto: un’edizione dell’opera Della serie degli antichi duchi e marchesi di toscana con altre notizie dell’imperio romano e del regno de Goti e de Longobardi. Firenze, 1690. Grosseto, Fondo antico della Biblioteca Comunale Chelliana.
area senese (Aiano, Sovicille), Arezzo, Chiusi, Pistoia, Chiusa del Belli (Farnese), Bolsena, Perugia, Isola del Giglio. Tra questi, rivestono straordinario interesse le note decorazioni dello scudo di Villa Guinigi (vedi foto a p. 67), appartenente a un cavaliere sepolto nella chiesa di S. Giulia, a Lucca, verso la metà del VII secolo. Oltre alle sei lamine a forma di teste equine disposte intorno all’umbone centrale in ferro con sei raggi e borchie a rilievo, al margine del disco ligneo erano collocati un kantharos (coppa a due manici) tra due pavoni e una figura umana (giunta acefala) rivestita con tunica e stivali e che regge scudo, spada e un’asta crociata sormontata da una colomba, forse Daniele nella fossa dei leoni. I due motivi paleocristiani sono ribaditi
dalla scr itta «Domine ad adiuvandum me festina» («Signore vieni presto in mio aiuto») disposta intor no all’umbone e dalla presenza, nel corredo, di crocette auree, a testimoniare l’avvenuta conversione, almeno nella ritualità funeraria e seppur in presenza di armi, di un personaggio di altissimo rango che scelse di farsi seppellire, con grande probabilità, in quella che in origine era la sua cappella privata.
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IL VOLTO DI ODINO? Altrettanto spettacolare è la fibula femminile a staffa, in argento dorato, rinvenuta sul colle dell’Arcisa di Chiusi (vedi foto in questa pagina). Le dieci protomi umane, disposte a raggiera, presentano la scriminatura centrale dei capelli secondo la tipica acconciatura «odinica» descritta da Paolo Diacono, riscontrabile an-
ALLA (RI)SCOPERTA DEL MEDIOEVO MAREMMANO L’area maremmana è da sempre nota soprattutto per la presenza etrusca. La mostra ospitata al MAAM è stata dunque una novità che ha portato per la prima volta l’attenzione su un capitolo importante della storia del territorio, quello medievale, ancora poco indagato e valorizzato. «Ci siamo resi conto – spiega la direttrice scientifica Chiara Valdambrini – di quanto fosse poco conosciuta, a livello locale, la storia dei Longobardi, percepiti quasi come se fossero “lontani da noi”. Del resto anche la distribuzione e la quantità dei reperti ospitati nel museo porta a pensare la Maremma come presidio della civiltà etrusca e romana. Da qui la volontà di sensibilizzare il pubblico nei confronti di tutta la storia che ha influenzato il nostro territorio, come quella medievale, fatta di tante fasi, una delle quali è raccontata proprio nella mostra “Una terra di mezzo”». Una scelta coraggiosa, che è stata premiata con un riscontro molto positivo:
«Locali e fruitori esterni – continua Valdambrini –, anche fidelizzati, ci hanno ringraziati, nei loro commenti a fine visita, per aver dato spazio a un argomento storico affascinante e poco noto. La sala immersiva è stata particolarmente apprezzata». Un altro passo verso la riscoperta del Medioevo grossetano, dunque, ma che non sarà certo l’ultimo. «L’idea – anticipa la direttrice – è quella di continuare con il filo rosso che ha portato al MAAM appuntamenti come la mostra “Oltre il duomo”, dedicata a Grosseto e alla sua storia nel periodo di passaggio tra Basso Medioevo e Rinascimento, e quella di quest’anno sui Longobardi di Tuscia. Del resto, se pensiamo che Grosseto nasce come abitato stabile proprio nell’Alto Medioevo e diventa città nel 1138, momento in cui eredita dalla vicina Roselle la cattedra vescovile, non è possibile prescindere da eventi che permettano la consapevolezza di tali fatti storici sia per i cittadini che la vivono, sia per il pubblico piú ampio».
che su alcuni anelli-sigillo; al centro della lunetta appare un volto umano (forse Odino?) affiancato da animali, mentre lungo i lati si scorgono quattro teste di rapaci. La tipologia della decorazione assegna la fibula alla prima fase di occupazione longobarda in Italia (fine del VI-inizi del VII secolo) ed è sintomatica del suggestivo immaginario religioso e tribale diffuso durante l’età delle migrazioni. Completano l’esposizione punti multimediali che propongono lo storytelling di episodi e personaggi chiave dell’epopea longobarda – l’arrivo di Alboino, la storia di Teodolinda e la figura di Paolo Diacono – e le ricostruzioni di abbigliamento e accessori, realizzate dall’associazione «La Fara». Con il suo suggestivo impianto narrativo e didattico, la mostra del MAAM – curata da Chiara Valdambrini, direttore scientifico del museo, e dall’architetto Barbara Fiorini, e corredata dall’ampio catalogo scientifico (pubblicato da Silvana Editoriale) – contribuisce a far luce su un momento poco noto della lunga storia della Toscana, dimostrando come anche in questo contesto l’epopea longobarda abbia contribuito a consolidare, anche e soprattutto nella transizione tra tarda antichità e Alto Medioevo, il ruolo cruciale della Penisola come crocevia di culture e «cerniera» di popoli tra Europa continentale e Mediterraneo. DOVE E QUANDO «Una terra di mezzo. I Longobardi e la nascita della Toscana» Grosseto, MAAM-Museo Archeologico e d’Arte della Maremma fino al 6 gennaio 2022 Orario ma-ve, 9,30-13,30; sa-do e festivi, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 0564 488752; e-mail: maam@comune.grosseto.it; https://maam.comune.grosseto.it a r c h e o 69
PERSONAGGI • STANISŁAW KOSTKA POTOCKI
LE PASSIONI DI UN
CONTE POLACCO
FRA I TANTI EUROPEI CHE VISITANO L’ITALIA NELL’EPOCA DEL GRAND TOUR, C’È STANISŁAW KOSTKA POTOCKI. ANIMATO DA UN PROFONDO AMORE PER LE ANTICHITÀ, STUDIA, COMPIE SCAVI E RIUNISCE PREGEVOLI COLLEZIONI: UN’ATTIVITÀ INSTANCABILE, CONTINUATA ANCHE DOPO IL RIENTRO IN PATRIA CON LA CREAZIONE DI UNO DEI PRIMI MUSEI PUBBLICI DELLA POLONIA di Jerzy Miziołek
F
ra i Polacchi che a piú riprese si recarono in «dotto» pellegrinaggio a Roma e ai piedi del Vesuvio per compiere scavi archeologici, spicca il conte Stanisław Kostka Potocki, nato nel 1755 e morto nel settembre del 1821. Malgrado se ne conosca un famoso ritratto su cavallo eseguito a Roma da Jacques-Louis David, al di fuori della Polonia viene spesso confuso con il cugino Jan Potocki (1761-1815), l’autore del celebre Manoscritto trovato a Saragozza (romanzo fantastico-filosofico che, dopo varie vicissitudini, fu pubblicato postumo nella sua versione integrale nel 1847, n.d.r.). Negli anni 1772-1774, Potocki, allievo dell’Accademia Reale di Torino, in patria organizzatore
A destra: particolare di un’anfora attica attribuita al Pittore del Louvre raffigurante un guerriero che parte e saluta una donna stringendole la mano, da Nola. 475-425 a.C. Varsavia, Museo Nazionale. 70 a r c h e o
di scuole, scrittore e teorico d’arte, legato all’Italia da molteplici legami e attività di ricerca e cultura, si dedicò agli scavi di Nola, a studi di archeologia e architettura antica, nonché alla raccolta di quadri, incisioni e vasi. E a lui si deve anche la pregevolissima ricostruzione su carta della Villa di Plinio il Giovane a Laurentum (centro di cui tuttora si ignora la localizzazione esatta, ma che comunque ricade nei confini dell’odierna Tenuta Presidenziale di Castelporziano, presso Roma, n.d.r.). Tra il 1785 e il 1786, soggiornando a Napoli in compagnia di un noto architetto polacco e suo valente collaboratore, Chrystian Piotr Aigner, il conte aveva tratteggiato una pianta di Nella pagina accanto: Ritratto di Stanisław K. Potocki, olio su tela di Jacques-Louis David. 1780. Varsavia, Palazzo di Wilanów. Il pittore realizzò l’opera durante il suo soggiorno a Roma, presso l’Accademia di Francia.
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PERSONAGGI • STANISŁAW KOSTKA POTOCKI
Pompei, andata persa durante la seconda guerra mondiale. Ingegno versatile, studioso di sicura dottrina, filosofo illuminista, Stanisław Kostka Potocki fu altresí divulgatore di Winckelmann: sulla base dei testi dello studioso tedesco scrisse Sull’arte degli antichi ossia il Winckel72 a r c h e o
mann polacco, un’opera ricca di idee e suggestioni proprie dell’autore, pubblicata tra il 1805 e il 1815. In queste pagine tratteremo dunque della ricostruzione della villa di Plinio il Giovane e degli scavi condotti a Nola. Plinio il Giovane (61-113 d.C.), scrittore e alto fun-
zionario imperiale, amico dell’imperatore Traiano, parla della sua villa a Laurentum in diverse lettere, ma soprattutto in quella indirizzata all’amico Gallo, dove ne offre un fine «ritratto» letterario: una descrizione che nessun’altra residenza del mondo antico può vantare. «La
del quartiere dell’EUR, a sud di Roma, a qualche chilometro da Ostia antica e dall’aeroporto di Fiumicino. Sono invece in pochi a ricordare l’antico toponimo di Laurentum e l’omonima strada che, da Roma, raggiungeva il litorale tirrenico. È come una briciola dell’antica memoria rimasta intatta nel caotico viavai della vita moderna, quel caos che induce i Romani di oggi, cosí come un tempo Plinio, a cercare rifugio fra le pinete sempreverdi, lontano dal frastuono della grande metropoli.
In alto: la ricostruzione delle pitture della coenatio della Villa Laurentina realizzata da Vincenzo Brenna secondo le indicazioni di Stanisław Potocki, disegno su carta e acquarello. 1777-1778. Varsavia, Biblioteca Nazionale. In uno dei riquadri è possibile osservare come sia stato preso a modello l’affesco raffigurante il centauro Chirone che insegna al giovane Achille a suonare la lira, dall’Augusteum di Ercolano (vedi alla pagina precedente). La magnifica pittura, datata all’età claudia o flavia, è oggi conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
villa – scrive Plinio – dista diciassette sole miglia dall’Urbe, sí che puoi esserci dopo di avere sbrigata ogni faccenda e utilmente e interamente compiuta la giornata. Si può giungervi per due vie, ché vi conduce tanto l’Ostiense quanto la Laurentina. Ma questa si deve lasciare al decimo quarto miglio,
l’Ostiense all’undecimo (...). Ti meravigli ch’io ami tanto la mia Laurentina o, se cosí preferisci dire, Laurente. Non ti meraviglierai piú quando avrai conosciuto quanto sia gradevole la villa, comodo il sito, ampia la spiaggia». «Laurentina», oggi, è il nome di una stazione della metropolitana
FINESTRE GRANDI COME PORTE Nella sua villa il proprietario trovava il suo prediletto otium, luogo di riposo e di cimento letterario. La lettera a Gallo non si limita a trattare i collegamenti viari con Roma e l’ubicazione della villa nel mezzo di un giardino a pochi passi dal mare, ma si sofferma in primo luogo sul numero davvero impressionante dei locali, tra cui le sale da pranzo e dei bagni: «Un triclinio abbastanza bello, che si avanza sulla spiaggia e, quando il mare è spinto dall’Africo, è lievemente lambito da flutti ormai rotti e morenti. Su tutti i lati ha porte e finestre grandi come le porte e cosí di fianco e di fronte dà su quasi tre diversi aspetti del mare». Infine, segue la descrizione del criptoportico e il giardino. Per piú di cinque secoli la descrizione della villa a Laurentum di Plinio ha affascinato architetti, mecenati e appassionati di antichità, tra cui Lorenzo il Magnifico, Raffaello, Palladio, Vincenzo Scamozzi, Robert Castell e Luigi Canina. La piú spettacolare è tuttavia quella intrapresa dal conte Potocki, il quale, come nessuno prima e nessuno dopo di lui, realizzò una ricostruzione completa, in cui spicca soprattutto la decorazione di undici stanze. Si tratta di una ricostruzione idealizzata, eseguita negli anni 17771778, a Roma, in collaborazione con tre artisti: due italiani (ena r c h e o 73
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trambi romani),Vicenzo Brenna e Giuseppe Manocchi, e un polacco, Franciszek Smuglewicz. I disegni commissionati da Potocki prospettano il piano complessivo, compreso il giardino, il piano della villa, tutte e quattro le facciate e la proiezione orizzontale del pianterreno; i rivestimenti dei singoli vani comprese le pavimentazioni; il criptoportico con due padiglioni ornati di sculture e pitture in stile pompeiano e con il solario chiamato heliocaminus, modellato su quello presso la Villa di Adriano a Tivoli.
RILETTURE IN CHIAVE NEOCLASSICA Potocki aveva immaginato che la Laurentina dovesse somigliare ad altre ville di quel periodo e, per realizzare la sua ricostruzione, si serví degli esempi di architettura e di decorazioni architettoniche, scultoree e pittoriche ispirate dalle «città del Vesuvio», nonché di Roma e dei suoi dintorni. Di conseguenza, le tavole illustrano gli esempi delle ornamentazioni architettoniche in una versione neoclassica raffinata ed elegante, che deriva soprattutto dal cosiddetto IV stile pompeiano, conosciuto principalmente grazie alla Domus Aurea e ad alcune case a Pompei ed Ercolano. Nella sua visione della villa Potocki inserí anche molte famose statue antiche e soggetti e motivi preferiti dell’epoca (le Tre Grazie, Eracle ed Ebe, Bacco, Igea/ Salus, Asclepio, l’aquila imperiale della chiesa dei Ss. Apostoli in Roma e il trionfatore in quadriga). Nella coenatio, una delle sale da pranzo della villa, ci si imbatte in una citazione pressoché fedele di un’immagine scoperta nel 1739 nella basilica di Ercolano (grazie di un’epigrafe sappiamo che «Marco Nonio Balbo, figlio di Marco, proconsole, ha finanziato la basilica, le mura e le porte»). Al centauro Chirone e all’Achille dell’artista stipendiato da Po74 a r c h e o
tocki manca la finezza del capolavoro ercolanense; si ha, anzi, l’impressione che il pittore li avesse dipinti pensando all’originale, ma senza averlo dinanzi, a memoria. Ma soffermiamoci ancora sulla decorazione della coenatio, che presen-
ta un’altra interessantissima citazione tratta dall’arte antica: si tratta del Baccante danzante raffigurato di fianco al Centauro e ad Achille, ripreso da una famosa gemma, che sarebbe assurta a grande notorietà grazie a Pierre-Jean Mariette e a Giovanni
proprio in un albergo situato a ridosso della celebre piazza Potocki ebbe a soggiornare piú volte.
ECHI PALLADIANI Nella ricostruzione di Potocki, uno degli interni piú belli della villa è il triclinio, che Plinio descrive con queste parole: «Un triclinio abbastanza bello, che si avanza sulla spiaggia (...) Su tutti i lati ha porte e finestre grandi come le porte e cosí di fianco e di fronte dà su quasi tre diverse parti del mare». Il conte e i suoi disegnatori operarono in questo caso un interessante adattamento dei disegni che accompagnano le descrizioni «Delle sale di quattro colonne» e «Delle sale corinthie» nell’opera I Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio (1570), in cui vediamo quattro colonne, quattro statue nelle nicchie, nonché compartimenti di stucchi o di pitture. Tuttavia, solo qui viene adottato lo schema palladiano, dal momento che le partizioni con i fregi si basano sulle pitture della Domus Aurea. Anche le quattro sculture nelle nicchie hanno modelli concreti, ben noti nel Sei e Settecento: si tratta di Artemis/Diana di Brauron/Gabii, di due statue di Dioniso, e di Igeia/ Salus (Mattei), descritta da François Perrier come Vestale. Le statue di Dionisio si trovano a Villa Borghese (Sala IV), la statua di Diana fa parte della collezione del Palazzo Doria Pamphili (Salone Aldobrandini); e solo per la statua di Igea non si conosce la sua collocazione attuale. Incisioni di tutte queste opere sono reperibili nel volume di Perrier Segmenta nobiliorum Signorum (1638); una cui copia si trovava nella biblioteca di Potocki, ora conservata nella Biblioteca Nazionale a Varsavia. Battista Piranesi. Quest’ultimo la riprodusse nella raccolta di incisioni Vasi, candelabri, cippi, sarcofaghi, tripodi, lucerne ed ornamenti antichi, pubblicata nel 1778. In due ambienti della Laurentina, la biblioteca e una sala la cui funzione
non risulta precisata, spuntano altri richiami alle opere di Piranesi. Alludiamo, in particolare, alle composizioni egizio-etrusche con sfingi e piramidi, la fenice, il bue Api e vasi «etruschi» che decoravano il Caffè degli Inglesi in piazza di Spagna. E
Incisione di Giovanni Battista Piranesi raffigurante un particolare della decorazione del Caffè degli Inglesi, a Roma, dalla raccolta Diverse Maniere D’Adornare I Cammini, pubblicata nel 1796. Appaiono evidenti i richiami e le citazioni dell’arte egizia. a r c h e o 75
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Non esistono ritratti «vesuviani» di Potocki ma si è conservata una lettera del conte alla moglie con la splendida descrizione di un’escursione sul Vesuvio: «Ci muovevamo lungo l’orlo del fosso che circonda il cratere, come tra le nuvole. Dopo appena cinque o sei passi sentimmo sprigionarsi da sotto i nostri piedi un caldo vapore che ricopriva la cima di un manto trasparente e leggero. Il vento ci scaraventava addosso le nuvole del cratere e il denso fumo della lava che a fianco scendeva a valle (...) Il paesaggio che avevo davanti era sereno, con il vulcano in netto contrasto. Il mio sguardo indugiava su una fertile pianura, tra il mare e il Vesuvio, teatro dei piú terribili sconvolgimenti. Mi rammentai della morte, tante volte compianta, di Plinio il Vecchio, magistralmente descritta dal nipote. Ciò che vedevo ai miei piedi era il sepolcro di tanti uomini e delle città inghiottite o distrutte». 76 a r c h e o
Sulle due pagine: confronto tra due disegni appartenenti alla ricostruzione della Villa di Plinio il Giovane a Laurentum realizzata da Stanisław Potocki e le elaborazioni in 3D dei medesimi ambienti. In particolare, qui a destra, è raffigurato il solario, definito come heliocaminus.
Dopo una discesa protrattasi per ben cinque ore, il conte e i suoi compagni avevano raggiunto Portici. Lí, al centro del Palazzo Reale, videro una carrozza e, sotto il portico, le statue equestri dei due Balbi rinvenute nel teatro di Ercolano che, chiosava il conte, trent’anni prima giacevano ancora sottoterra, coperte da sette o otto strati di lava. E concludeva con una riflessione sul caso che aveva consentito il ritrovamento della città. Il brano, in precario equilibrio tra il terrificante e il a r c h e o 77
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sublime, è del 1786. Il conte Potocki vi ricordava di essere già salito sul Vesuvio nel 1775.
LE LETTERE ALLA MOGLIE Non siamo certi se prima della ricostruzione della Villa di Plinio Potocki avesse intrapreso scavi archeologici a Castelporziano, nell’antica Laurentum. Ma per i suoi scavi a Nola possediamo una bella documentazione reperibile nelle lettere inviate alla consorte a cavallo degli anni 1785-1786. Ad appena un giorno dall’arrivo a Napoli, nella lettera del 13 dicembre 1785, scriveva: «Stamattina ho acquistato un meraviglioso vaso etrusco, molti di questi sono restituiti dai recenti scavi in Campania, e cosí mi sono preparato a (…) dedicare il mio tempo a Napoli a questo passatempo», cioè quello di raccogliere vasi antichi. Il conte è rapito da un grandissimo interesse per i vasi «etruschi», lasciandosi A destra: anfora a figure nere attribuita al Pittore di Edimburgo con un combattimento fra guerrieri, da Nola. 525-475 a.C. Varsavia, Museo Nazionale. Nella pagina accanto: il Gabinetto Etrusco allestito da Stanisław Potocki nella sua residenza di Wilanów, alle porte di Varsavia. 1830 circa. 78 a r c h e o
contagiare da un fascino diffuso in città da quasi un secolo. Nella lettera del 7 gennaio 1786 si legge: «Sono appena tornato da Nola dove si fanno le scoperte dei vasi etruschi. Io ho fatto condurre lavori per conto mio, la fortuna mi ha assistito fino a farmi trovare le cose piú interessanti del mondo, e soprattutto, ho avuto il piacere di levarle con le mie proprie mani da una tomba nella quale sono restate per almeno duemila anni. Immagina un grande masso di pietra (…) a 30 o 40 piedi sotto terra, perché tali sono le tombe etrusche, lo scheletro di un morto perfettamente conservato, tra le sue gambe tutto pieno di piccoli lacrimatoi, ultimi doni dei suoi amici,
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verso la testa un bel vaso di terra nera, piú grande degli altri, e ai piedi un vaso di dieci o dodici palmi di altezza di una bellezza unica, evidentemente consacrato al morto dalla sua famiglia». Nel Winckelmann polacco, a proposito di questi scavi, il conte scrive: «Io stesso, durante il mio soggiorno a Napoli ho riunito piú di cento vasi
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etruschi, nel che mi è servita la facilità che avevano allora gli stranieri di scavare a Nola». In brevissimo tempo costituí una raccolta di 115 vasi.
collezione di vasi «etruschi» e di marmi acquistati a Roma, dando vita a uno dei primi musei di Polonia; le sue raccolte furono offerte nel 1805 alla pubblica fruizione con ALLE PORTE DI VARSAVIA finalità didattiche ed educative. Nel 1799 Potocki divenne proprie- Il Lapidario e il Gabinetto Etrusco tario della residenza di Wilanów, a Wilanów, insieme con la ricostrualle porte di Varsavia, e vi trasferí la zione della Villa di Plinio a Lauren-
In alto, a sinistra: la Sala delle Colonne in una incisione ottocentesca. Qui sopra, a destra: il Lapidario nella residenza di Wilanów. 1830 circa. A sinistra: Eruzione del Vesuvio, olio su tela di Pierre-Jacques Volaire. 1771. Collezione privata.
tum – che ora può essere ammirata in una affascinante ricostruzione in 3D – attestano il grande amore di Potocki per l’archeologia. Ne è una confer ma anche la splendida Sala delle Colonne, costruita al fine di ospitare la raccolta dei calchi in gesso delle statue antiche piú famose. Concepita già intorno al 1780, venne ultimata tra il 1809 e il 1820, quando Potocki, essendo ministro dell’educazione al tempo del Ducato di Varsavia e del cosiddetto Regno Congressuale della Polonia, creò l’Università di Varsavia e il suo dipartimento delle Belle Arti. Alla fine della sua vita il conte scrisse: «I primi passi nel campo delle belle arti li ho mossi in Italia. Gli anni giovanili trascorsi in quel bel paese mi fecero assimilare i loro criteri artistici». a r c h e o 81
SCAVI • PUGLIA
NEL FEUDO DEL VASSALLO
MUSULMANO A POCHI CHILOMETRI DA LUCERA, IN PUGLIA, SI TROVANO I RESTI DI TERTIVERI, L’ANTICA TORTIBULENSIS. IN ETÀ MEDIEVALE IL SITO DIVENNE SEDE VESCOVILE, CIRCONDATA DA UN PICCOLO INSEDIAMENTO. CHE, COME HANNO RIVELATO LE INDAGINI PROMOSSE DA UN PROGETTO DI RICERCA INTERNAZIONALE, FU TEATRO DELLE GESTA DI UN SINGOLARE DOMINUS DI ORIGINE SARACENA di Lukas Clemens, Michael Matheus, Italo M. Muntoni, Heike Pösche e Wolf-Rüdiger Teegen
T
ertiveri, oggi nel territorio del comune di Biccar i (Fogg ia), viene menzionata per la prima volta in una bolla di papa Stefano IX dell’anno 1058, con la quale viene riordinata la diocesi metropolitana di Benevento. La sede vescovile, in parte sotto il controllo bizantino, faceva parte delle 139 piccole diocesi del regno di Sicilia sulla terraferma. Scarse sono le testimo-
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nianze sui suoi vescovi nei secoli successivi e, probabilmente, venne abbandonata già nel corso del XIII secolo. È dunque certo che i vescovi di Tertiveri attestati dopo quella data agissero come vescovi titolari presso la curia romana. L’abbandono di Tertiveri potrebbe essere stato causato dalla deportazione di ribelli musulmani dalla Sicilia, per ordine dell’imperatore Federico II di
Svevia nel territorio della Puglia settentrionale, intorno alla città di Lucera, in Capitanata, che in precedenza era relativamente poco popolato. È stato stimato che, fra il 1220 e il 1240, fossero state costrette a trasferirsi almeno 15-20 000 famiglie. A oggi, gli effetti di queste trasformazioni sociali sulla Capitanata non sono stati studiati, e il solo dato certo è che, all’indomani di quegli eventi, molte
sedi vescovili rimasero vacanti, intere città furono abbandonate o rioccupate da musulmani, mentre parte della popolazione cristiana si trasferí altrove.
UN ANELLO PER L’INVESTITURA Nel 1296, il cavaliere musulmano ´Abd al-´Aziz ottenne l’allora disabitata Tertiveri come feudo da Carlo II per i servigi militari resi ai re angioini, che avevano conquistato il regno di Sicilia dopo il declino degli Svevi. La condizione posta dall’Angiò era che, fin quando l’insediamento fosse rimasto di proprietà saracena, non vi potessero risiedere i cristiani. L’investitura era avvenuta tramite la consegna dell’anello da parte di Carlo, al quale il vassallo musulmano aveva fatto omaggio e prestato giuramento di fedeltà. La consegna di Tertiver i sotto for ma di feudo dimostra la posizione di spicco del Saraceno, la cui cerchia era composta da 40 uomini e 60 donne. I possedimenti del nuovo «do-
Sulle due pagine: i resti della torre di Tertiveri, nel territorio di Biccari (Foggia). A destra: gli insediamenti di epoca romana (in rosso) e medievale (verde) localizzati nell’area di Tertiveri grazie alle prospezioni. In basso: cartina della Puglia con l’ubicazione di Tertiveri.
minus» risultano implicitamente documentati dall’insorgere di controversie legali riportate dalle fonti, nelle quali si dà conto non soltanto di contrasti tra il Saraceno e i signori vicini, ma anche con il re. All’inizio del XIV secolo ´Abd al-´Aziz, su pressione del sovrano, si convertí al cristianesimo assumendo il nome di Nicola. Allo stesso tempo, Carlo II distrusse
Molise Foggia
Terrti tiveri tiv e eri
Mare Adriatico Barletta Bari
Campania
Puglia Basilicata
Taranto
Brindisi Lecce
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SCAVI • PUGLIA
la colonia saracena in Puglia settentrionale e gran parte degli abitanti furono venduti come schiavi, cosicché le tracce dei musulmani si persero nel buio della storia. Gli archeologi e gli architetti coinvolti nel progetto di ricerca su Tertiveri stanno studiandone il passato e la sua trasformazione da sede vescovile a residenza di un dominus musulmano. I primi sopralluoghi hanno permesso di localizzare i siti dell’insediamento romano e medievale.Tra il 2007 e il 2010, Harald Stümpel e Christina Klein (†) – dell’Università Christian-Albrecht di Kiel – hanno effettuato prospezioni geofisiche nell’area della sede vescovile, individuando un insediamento che si estende su una superficie di circa 7 ettari, nonché le piante di singoli edifici di notevoli dimensioni, tra cui due chiese. La piú grande, una basilica a tre navate delle dimensioni di 28 x 12 m, dotata di campanile, va identificata come cattedrale. Negli anni successivi sono state condotte piccole campagne di scavo. È stata esplorata l’area dell’altare della
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basilica a tre navate e, oltre alla fondazione dell’altare principale, anche nella navata laterale meridionale sono stati individuati i resti di un altare sotto il quale è stato rinvenuto un deposito di reliquie bordato di mattoni. Nelle vicinanze è stata rinvenuta una sepoltura femminile accompagnata da un corredo di gioielli comprendente orecchini e anelli di bronzo, nonché un paio di ciondoli in argento. Le indagini hanno peraltro accertato che quel settore fu in seguito distrutto da un incendio.
LA SEPOLTURA DI UN VESCOVO Gli scavi hanno permesso di riportare alla luce quattro fosse sepolcrali murate annesse all’esterno della chiesa, sul fianco meridionale dell’edificio. Nello strato inferiore di una delle tombe è stato rinvenuto lo scheletro di un uomo morto a un’età compresa tra i 70 e gli 80 anni, in un momento che la datazione al C14 colloca all’inizio del XIII secolo. Un pastorale trovato alla sua destra – del quale si sono
conservati il riccio in forma di testa di drago, il nodo in avorio e il puntale in ferro della parte inferiore dell’asta – lo identifica come vescovo di Tertiveri, del quale non è stato però tramandato il nome. Sui resti dell’uomo sono state rilevate tracce di ben dieci fratture ossee, segno di una vita piuttosto movimentata. La fossa sepolcrale murata in cui era sepolto il vescovo conteneva anche gli scheletri di altri quattro adulti – fra cui una donna con anello e orecchini in argento – e di due bambini di circa tre anni. Le varianti anatomiche poco frequenti riscontrate su vari scheletri fanno supporre, in quanto «marcatori di parentela», che i defunti fossero membri della famiglia del vescovo ed evidentemente ritenevano importante essere sepolti nella fossa destinata all’illustre antenato. Le prime analisi degli isotopi stabili del carbonio e dell’azoto indicano che l’alimentazione del gruppo era povera di carne. In un caso l’analisi del DNA ha permesso di confermare il sospetto che l’individuo avesse contratto la
Qui sopra: lo scavo delle fosse sepolcrali. In alto, a destra: la planimetria della chiesa identificata come cattedrale ottenuta grazie alle prospezioni geofisiche. A sinistra: i risultati delle prospezioni geomagnetiche (grigio scuro) e con georadar (grigio chiaro). Nella pagina accanto: l’area della cattedrale in cui sono venuti alla luce i resti dell’altare.
lebbra, basato sull’osservazione di mutamenti del cranio in sede facciale e delle dita di mani e piedi (Ben Krause-Kyora, Università di Kiel), mentre un altro defunto aveva chiaramente sofferto di torcicollo (torticollis). Secondo la datazione basata sulla spettrometria di massa con acceleratore (AMS) effettuata dall’Università di Erlangen, la sepoltura piú recente risale agli anni intorno al 1300. Occorre tuttavia sottolineare che i resti di ossa frammisti alle inumazioni sono di circa due secoli piú antichi. Anche le altre deposizioni, contenenti fino a dieci sepolture, consistono in fosse sepolcrali murate riferibili alle medesime famiglie, appartenenti ai ceti dominanti. In tutte le fosse gli individui di sesso maschile sono presenti in numero maggiore. Si trovano sempre anche resti di scheletri di feti o bambini in tenera età, ma non è possibile precisare se i primi fossero stati sepolti insieme alle madri o se si tratti di prematuri nati morti. In due fosse sepolcrali murate l’ultimo dei corpi inumati non era stato deposto, come gli altri, sulla schiena con lo sguardo verso est, ma sul fianco, con il viso rivolto verso sud, grosso modo in direzione della Mecca. Questa disposizione è tipica delle sepolture musulmane ed è documentata in vari casi in Sicilia. I reperti aprono interessanti interrogativi: i defunti sono stati sepolti dopo il passaggio del sito nelle maa r c h e o 85
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Al periodo della dominazione musulmana sul pianoro appartiene probabilmente anche una fortificazione risalente a un’epoca assai piú recente, annessa alla cattedrale medievale, che può essere seguita per 40 m circa e che copre parti del cimitero intorno alla cattedrale. Nel XVI secolo al muro esterno di una torre semicircolare di questa fortificazione è stata annessa l’officina di un fabbro; qui sono stati trovati reperti ossei risalenti al XVI secolo di animali domestici: bovini, caprovini, maiali, cavalli, cani e pollame, nonché tartarughe. Non è stato possibi-
In alto: la deposizione messa in luce nel livello superiore della fossa sepolcrale n. 112. Si tratta, probabilmente, di uno degli individui sepolti secondo il rito musulmano. A destra: disegno del riccio in forma di testa di drago stilizzata e del nodo in avorio del pastorale trovato nella fossa sepolcrale n. 105
ni del clan musulmano di ‘Abd al’Aziz e quale uso ha avuto in questo periodo la cattedrale? O forse musulmani convertiti al cristianesimo sono stati sepolti in un luogo eminente, mantenendo tuttavia gli usi dei loro antenati? Le analisi degli isotopi sul materiale scheletrico forniranno informazioni su alimentazione e provenienza dei defunti. 86 a r c h e o
In questa pagina: confronto tra le condizioni dei resti della torre di Tertiveri documentate nel 1908 da una foto di Arthur Haseloff (a destra) e quelle attuali. Nella pagina accanto, al centro, a destra: particolare del cranio rinvenuto nella fossa sepolcrale n. 105: si noti l’erosione della spina nasale, che potrebbe essere un indicatore della lebbra.
le stabilire se queste ultime venissero consumate per esempio durante la Quaresima o se rappresentino un’interferenza naturale, ma anche nella fossa sepolcrale del vescovo e in un’altra sepoltura sono stati trovati resti di carapace di tartaruga.
FOTO INEDITE E PREZIOSE L’alzato originario dell’insediamento medievale è oggi conservato solo nei suoi resti piú consistenti, vale a dire quelli di una torre delle dimensioni di 10 x 10 m con edificio annesso e fossato rettangolare. Nel 2007 lo studioso di architettura antica John Zimmer ha analizzato la struttura e, grazie alla dendrocronologia, ha potuto datarla intorno al 1340. La ricostruzione dell’impianto è stata realizzata anche grazie all’impiego di foto inedite dello storico dell’arte Arthur Haseloff. Nel corso delle sue ricerche su quelli che all’epoca erano considerati i monumenti svevi dell’Italia meridionale, Haseloff aveva infatti scattato alcune fotografie, conserva-
te nel suo lascito a Kiel. Queste immagini si sono rivelate estremamente utili, in quanto nel frattempo diversi sismi – tra cui il disastroso terremoto del 1980 – hanno causato la perdita di gran parte della torre. Anche nelle allora sedi vescovili vicine di Montecorvino e Castel Fiorentino – quest’ultima è la località in cui morí l’imperatore Federico II – sono oggi conservate parti di case-torri medievali, che, come la torre di Tertiveri, dovevano essere visibili dalla grande fortificazione angioina di Lucera. Le ricerche sull’insediamento medievale di Tertiveri sono iniziate nel 2006 sotto la direzione dell’Istituto Storico Germanico di Roma (DHI). Dal 2013 esse vengono portate avanti dalla cattedra di storia medievale dell’Università di Treviri e della cattedra di storia medievale e moderna dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. Tra i partner vi sono il Dipartimento di Scienze Umane
dell’Università di Foggia, il Centre National de Recherche Archéologique Luxembourg e l’Università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera. Le campagne di scavo del 2015 e del 2016 sono state finanziate soprattutto dalla Gerda Henkel Stiftung e dalla Key Subject Area «Contact and Discourse within Christianity» del Leibniz Science Campus «Byzantium between Orient and Occident». a r c h e o 87
SPECIALE • ANIMALI REALI E FANTASTICI
QUEGLI UCCELLI CON IL VOLTO DI DONNA SIRENE E SFINGI, MEDUSE E CHIMERE, GRIFONI E CENTAURI: ECCO ALCUNI TRA GLI INNUMEREVOLI MODI IN CUI L’UOMO ANTICO DECLINA IL SUO RAPPORTO CON L’«ALTERITÀ» ANIMALE. UNA GRANDE MOSTRA ALLESTITA AL MUSEO DELLE ANTICHITÀ DI BASILEA TENTA DI INDAGARE GLI ASPETTI PIÚ RECONDITI DI QUESTO MILLENARIO LEGAME. A PARTIRE DA UNA PRIMA, FONDAMENTALE DISTINZIONE… di Laurent Gorgerat 88 a r c h e o
Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono all’allestimento e agli oggetti della mostra «animalistico! Animali e creature fantastiche nell’antichità», in corso presso l’Antikenmuseum und Sammlung Ludwig di Basilea. Sulle due pagine: un particolare dell’allestimento della mostra.
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a tempo immemorabile, l’uomo si è definito in relazione al mondo animale, cercando somiglianze e differenze, tentando di interpretare e spiegare la sua posizione nei confronti degli animali. Due poli ambivalenti hanno plasmato la relazione tra animali ed esseri umani nell’antichità greco-romana. Da un lato, gli animali erano considerati come gli esseri piú perfetti, superiori all’uomo, grazie alle capacità che li caratterizzavano e che dovevano essere imitate. Le ragioni di una simile posizione «animalista» si basavano su vari approcci filosofici, secondo i quali uomini e animali erano fondamentalmente esseri viventi con, al massimo, differenze di grado. Una posizione sostenuta principalmente nella prima fase della filosofia greca, al tempo dei cosiddetti presocratici. A questa visione si contrapponeva la Particolare della decorazione di una kylix (coppa a due manici) attica raffigurante una battuta di caccia al capriolo. V sec. a.C.
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SPECIALE • ANIMALI REALI E FANTASTICI
Questa ambivalenza tra la superiorità degli animali e il loro sfruttamento da parte dell’uomo può essere esemplificata da antiche opere pittoriche, come quelle selezionate per la mostra attualmente in corso al Museo delle Antichità di Basilea. Da quando l’uomo ha cercato di catturare il suo ambiente in immagini, le rappresentazioni di animali sono state presenti. Le famose pitture rupestri nelle grotte di Chauvet e Lascaux in Francia o Altamira in Spagna lo
corrente che presupponeva il dominio degli uomini sugli animali. Fondamentale per questo atteggiamento antropocentrico fu, per esempio, Aristotele, il quale creò le basi della moderna zoologia con il suo ordine empirico del mondo animale. Definí la natura come una struttura gerarchica in cui gli esseri con meno capacità di giudizio erano inferiori gli altri e, per di piú, a loro servizio. L’animale, quindi, in assenza di ragione, doveva servire l’uomo e, in ogni caso, essere a lui subordinato.
PITAGORA, PRIMO VEGETARIANO? «Raccontano che una volta, passando accanto a un cagnolino che veniva picchiato, ebbe pietà e disse questa frase: “Fermati, non colpire: è l’anima di un uomo amico; la riconobbi udendone il lamento”». (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei piú celebri filosofi, 8, 36; III secolo d.C.) Pitagora di Samo (VI secolo a.C.) è oggi famoso soprattutto per il teorema geometrico che porta il suo nome. Spesso si dimentica che – a parte le sue indiscusse intuizioni in matematica – egli fu prima di tutto un pioniere
della filosofia greca antica. Come uno dei primi filosofi in Grecia, sostenne l’idea della trasmigrazione delle anime, secondo la quale ogni essere vivente possiede un’anima immateriale che lascia il corpo dopo la morte e prende residenza in un altro corpo. Questa idea fu ulteriormente sviluppata, soprattutto da Platone, fino a sfociare nell’idea cristiana di un dualismo di immortalità dell’anima e mortalità del corpo. Per questo si dice che Pitagora abbia esortato i suoi studenti non solo ad astenersi dal consumare carne, ma, in generale, a trattare gli animali con rispetto.
A sinistra: Pitagora difende il vegetarianismo, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1628-1630. Londra, Royal Collection Trust.
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Sulle due pagine: la sezione della mostra dedicata alla natura ferina degli esseri animali e alle divinità legate ad alcuni dei loro rappresentanti.
testimoniano. Queste prime rappresentazioni mostrano una fauna abbondante e l’uomo – se c’è – non è dominante, ma è parte di questo mondo popolato da animali. Nell’antichità, gli animali erano sinonimo di sostentamento e allo stesso tempo una metafora del pericolo. Come fonte di cibo e materie prime, sono stati prima cacciati e, piú tardi, anche allevati. Uno stile di vita basato principalmente sull’agricoltura era inconcepibile senza gli animali come fornitori di carne, latte e lana o come forza lavoro e mezzi di trasporto. Allo stesso tempo, però, il mondo animale era una fonte di minacce, da cui l’uomo doveva proteggersi. Gli animali e le creature selvagge e sconosciute erano considerati una caratteristica di uno spazio natu-
rale alieno e potenzialmente pericoloso in cui l’uomo doveva cercare il suo posto. L’esame intellettuale degli animali, i tratti caratteriali osservati o da essi assunti, la loro potenza e la loro forza culminarono infine nella creazione di creature ibride: un’evoluzione che dovette plasmare in modo decisivo il mondo visivo dell’antichità.
ESSERI DA BLOCKBUSTER Mostri, creature ibride o mitologiche hanno sempre acceso l’immaginazione umana. Ancora oggi, i blockbuster dell’industria cinematografica includono storie, i cui protagonisti devono resistere a tutti i tipi di mostri della preistoria, del futuro, dello spazio esterno o delle profondità del mare. a r c h e o 91
SPECIALE • ANIMALI REALI E FANTASTICI
In contrasto con l’Egitto, dove le divinità apparivano molto spesso, ma non esclusivamente, in forma mista animale e umana, i Greci e i Romani rappresentavano i loro dèi con caratteristiche puramente umane. Tuttavia, numerose figure ibride hanno popolato l’immaginario e la fantasia dell’antichità classica. Questi esseri ibridi mostrano le composizioni piú diverse, soprattutto l’unione di corpi animali individuali. Ma non mancava la combinazione di elementi animali con corpi umani. Come in Egitto, la scelta dei motivi sembra essere stata determinata principalmente dai tratti caratteriali attribuiti a un animale, dalla sua natura o dalle sue capacità superiori a quelle umane.
«La Chimera, che aveva il busto di leone, la coda di serpente e, in mezzo, una testa di capra – la terza – da cui emetteva fiamme; e devastava il paese, razziava il bestiame: aveva, in un corpo solo, la forza di tre belve». (Apollodoro, Biblioteca 2, 3; II secolo a. C.)
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Piccolo gruppo in bronzo raffigurante una coppia di buoi aggiogati a un carro, dalla Siria settentrionale. III mill. a.C.
Le creature ibride nell’arte greca conobbero un periodo d’oro tra l’VIII e il VI secolo a.C. Anche se in questo periodo potevano anche apparire come creature singole, compaiono principalmente nei fregi di animali della pittura vascolare di Corinto, che in quel periodo era predominante. Le creature ibride di questo primo periodo non erano ancora soggette ad alcuna standardizzazione, per cui erano possibili numerose combinazioni di rappresentazioni. All’interno dei fregi di animali del VII secolo a.C. esse non erano ancora integrate in un contesto narrativo specifico. Cosí non siamo di fronte alla rappresentazione di una pre-
cisa scena mitologica quando incon- In basso, a destra: triamo una sfinge o una sirena in un anfora attica con fregio di animali. Ma ciò non significa l’immagine della che questi fregi di animali, con o senza Potnia theron (la creature ibride, avessero una funzione «signora degli puramente ornamentale. animali»). Metà
UNA REALTÀ FITTIZIA L’immagine rappresentata da questi fregi era piuttosto l’illustrazione di un mondo animale esotico ma reale. In un saggio sulla rappresentazione delle creature mostruose nell’arte greca, Lorenz Winkler-Horacek parla di una «realtà fittizia», cioè un mondo che potrebbe essere considerato abbastanza plausibile per la presenza di animali reali di natura domestica, ampliato da animali eso-
del VI sec. a.C.
«Infatti, la parte della Libia verso oriente, dove vivono i nomadi, è bassa e sabbiosa fino al fiume Tritone, mentre la parte che va dal fiume verso occidente, quella degli agricoltori, è molto montagnosa, ricca di boschi e di fiere. Presso gli agricoltori ci sono i serpenti immani e i leoni, gli elefanti, orsi e aspidi, gli asini con le corna, i testa di cane, i senza testa, che hanno gli occhi sul petto come almeno raccontano i Libi, gli uomini selvaggi e le donne selvagge, e una quantità di molti altri animali non inventati». (Erodoto, Storie 4, 191, IV secolo a.C.)
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tici ed esseri fantastici. La questione se sfingi e sirene fossero effettivamente reali è secondaria. Erano integrate in immagini insieme a pantere e leoni – che gli antichi spettatori probabilmente conoscevano altrettanto poco – e diventavano cosí parte di un mondo selvaggio, ma possibile. La loro funzione era quindi inizialmente quella di estendere la natura selvaggia, di cui volevano sottolineare la pericolosità e l’estraneità. I paesaggi rappresentati in questo modo sulle pitture vascolari – in cui si uniscono esseri autoctoni, esotici e fantastici – suggeriscono quindi che queste zone non facessero parte del mondo che si poteva sperimentare direttamente, ma che erano possibili zone di confine ai margini del mondo conosciuto.
NELLE TERRE PIÚ LONTANE Non è certo una coincidenza che tali contesti pittorici siano emersi in un momento in cui – storicamente parlando – i Greci stavano cercando di espandere la loro zona di influenza, o piú in generale, il mondo che conoscevano, attraverso viaggi di esplorazione e commercio cosí come la fondazione di co94 a r c h e o
lonie. Come dimostra la citazione di Erodoto (vedi a p. 93), non solo gli animali esotici, come elefanti e leoni, ma anche le creature ibride si credeva esistessero nelle parti piú lontane del mondo. L’adozione di elementi pittorici stranieri nel repertorio degli artisti e degli artigiani greci può anche essere vista come direttamente collegata a questo ampliamento degli orizzonti greci all’inizio del I millennio a.C. Soprattutto con la fine del VII secolo a.C. – comunemente indicata come l’inizio del «periodo orientalizzante» dell’arte greca – furono adottati modelli mediorientali, che per lo piú arrivarono in Grecia sotto forma di oggetti di importazione. Cosí le creature ibride «classiche», come la sfinge (uomo e leone), la sirena (donna e uccello) e il Minotauro (uomo e toro) – come le conosciamo dall’immag inar io dell’antichità – non sono sorte ex nihilo. Le loro manifestazioni sono raramente delle vere e proprie invenzioni greche, ma rappresentano una ricezione e un adattamento di composizioni provenienti dall’Egitto e soprattutto dal Vicino Oriente antico.
Sulle due pagine: la sezione della mostra che presenta una rassegna delle piú famose creature mostruose dell’antichità. Nella pagina accanto, in basso: oinochoe (brocca da vino) corinzia decorata da un fregio, articolato in due registri, con sfingi, volatili, felini e capre selvatiche. Metà del VII sec. a.C.
L’esempio piú evidente è il motivo dell’«Uomo Leone», comunemente chiamato «Sfinge». Questa creatura appare per la prima volta intorno al III millennio a.C. sia in Mesopotamia che in Egitto, anche se non è chiaro se le sfingi egiziane e mesopotamiche siano nate indipendentemente o si siano influenzate a vicenda. Mentre in Mesopotamia appaiono sui sigilli di pergamena, in Egitto sono presenti nella scultura monumentale, come testimonia la Sfinge di Giza. Nell’immaginario egizio, le sfingi sono rappresentate come la combinazione di un corpo di leone e una testa maschile. Come copricapo portano il velo reale (Nemes), spesso anche il serpente ureo sulla fronte e la barba reale, riferendosi cosí al dominio del faraone. In Egitto, questa creatura ibrida era usata principalmente nell’iconografia reale, dove combinava la potenza sfrenata del felino predatore con la persona del re, incarnando cosí il suo potere unico. La sfinge era considerata come la manifestazione divina del re. Attraverso un percorso complesso, la formula dell’immagine dell’«Uomo Lea r c h e o 95
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one» raggiunse il Mediterraneo orientale dall’Egitto, dove fu adottata e adattata nel nord della Siria e della Fenicia, e arricchita con elementi della versione mesopotamica. In questo processo, la creatura ibrida ha acquisito le ali. Da lí e attraverso i contatti commerciali dei Greci con i Fenici, l’essere trovò finalmente la sua strada nell’immaginario greco dell’VIII secolo a.C. Anche se molte delle prime sfingi in Grecia erano raffigurate con la barba e quindi erano percepite come esseri maschili, la versione femminile dell’essere ibrido alla fine prevalse.
QUEL CANTO AMMALIATORE Questo processo di ricezione può essere tracciato piú chiaramente con l’aiuto delle sirene, creature ibride per metà donna e per metà uccello. Uno degli episodi piú famosi dell’epica di Omero è il racconto delle sirene. Nel XII libro dell’Odissea (versi 39-54 e 166200), Omero riporta come Ulisse e i suoi compagni navigano oltre l’isola delle sirene, provenienti dai regni oltretomba. Sedute su un prato fiorito, queste creature cercano di attirare i naviganti di passaggio con canti seducenti e la promessa di onniscienza e li fanno sprofondare nella rovina, come testimoniano i numerosi corpi in decomposizione in mezzo ai quali si trovano le sirene. Su consiglio di Circe, Ulisse si fa legare all’albero della nave per poter ascoltare i suoni, ma senza mettersi in pericolo mortale. Tappa le orecchie dei suoi compagni con la cera per proteggerli. Questo episodio dell’Odissea, che probabilmente si è formato linguisticamente alla fine dell’VIII secolo a.C., costituisce la piú antica testimonianza letteraria delle sirene. Omero, tuttavia, non ci dice nulla sull’aspetto di questi demoni della morte, se non che sono esseri femminili. La rappresentazione delle sirene come ibridi di esseri umani e uccelli si è affermata a partire dal VII secolo a.C. Anche se la stragrande maggioranza delle sirene che sono giunte fino a noi dalla Grecia mostrano uccelli con teste femminili, i primi rappresentanti di queste immagini includono anche raffigurazioni maschili. Un vaso plastico di Corinto mostra un corpo di uccello con un piumaggio finemente strutturato e differenziato e una testa barbuta, cioè maschile (vedi foto a p. 101). Altri esempi di sirene maschili dell’inizio del VII secolo a.C. provengono da Creta e Rodi.
A destra: anfora etrusca raffigurante il cavallo alato Pegaso cavalcato da Perseo. Fine del VI sec. a.C. Nella pagina accanto: vaso plastico in forma di Medusa accovacciata con capelli di serpente e denti di cinghiale. Metà del VII sec. a.C.
L’emergere e la diffusione di tali motivi, fino ad allora sconosciuti all’arte greca, avvenne in un periodo noto come «fase orientalizzante» dell’arte greca, caratterizzata dall’adozione di formule artistiche del Vicino Oriente nel repertorio degli artigiani greci. Attraverso i contatti commerciali e gli scambi culturali con la regione siro-fenicia, numerose creature ibride, come le sirene, ma anche la sfinge o il grifone, sono probabilmente migrate verso ovest. In particolare, i manici che adornavano grandi calderoni di bronzo nord siriani possono essere citati come modello per la nostra sirena maschile. Tali accessori in a r c h e o 97
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forma di creature alate maschili, sebbene fossero originari dell’area siro-fenicia, ornavano anche offerte votive per santuari greci e tombe principesche etrusche e quindi funzionavano come veicoli per motivi artistici esotici. Non c’è dubbio che l’essere ibrido uomouccello ebbe origine nell’immaginario del Vicino Oriente, erede di una tradizione millenaria popolata da geni alati e barbuti. Immaginario che, in seguito, influenzò opere come il già citato vaso plastico di Corinto.
UNA QUESTIONE DI GENERE All’indomani dell’episodio omerico in cui le sirene sono descritte come esseri femminili, la loro immagine come combinazione di un corpo di uccello e una testa maschile non sembra aver prevalso nell’arte greca. Presumibilmente, nel VII secolo a.C., i modelli maschili del Vicino Oriente furono utilizzati per la prima volta, ma senza applicare specificamente questa formula iconografica alle sirene. Solo
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Modello in calcare di sfinge, dall’Egitto. III-II sec. a.C.
quando le sirene si sono affermate nella coscienza collettiva come demoni femminili, hanno gradualmente soppiantato la loro versione maschile. Oltre a questa adozione di motivi del Vicino Oriente nel repertorio della prima arte greca, come esemplificato dalla sirena, i Greci crearono anche figure proprie, come i centauri. Anche se gli «uomini-cavallo» erano già raffigurati a Babilonia e in Assiria – sebbene con la coda di uno scorpione e con le ali – la combinazione di cavallo e uomo sembra essere un’invenzione dei primi artisti greci. I primi centauri noti mostrano una creatura la cui parte anteriore consiste in un corpo umano completo, dalle cui natiche sembra emergere il corpo del cavallo. La parte piú grande di questo corpo si presenta cosí come umana, mentre quella animalesca è segnata solo dai quarti posteriori del cavallo. Già nel corso
del VII secolo a.C., questa versione del centauro fu sostituita da una nuova combinazione, che venne rapidamente accettata e godette di ampia diffusione. Da allora in poi, la parte umana della creatura ibrida fu ridotta alla sola parte superiore del corpo, mentre l’intero corpo del cavallo, con le sue quattro zampe, si estendeva a tutta la parte inferiore del corpo. Che siano ispirate e adottate dall’esterno o create interamente ex novo, tutte queste prime creature ibride sono apparse inizialmente in modo anonimo, senza, cioè, un quadro narrativo dichiarato e riconoscibile all’interno del contesto artistico dei Greci. Solo alla fine dell’VIII secolo a.C. gli artisti greci crearono le prime immagini mitiche chiaramente identificabili. Forse non è una coincidenza che, nello stesso lasso di tempo, miti e storie che inizialmente erano stati tramandati solo oralmente furono fissati per la prima volta in una versione scritta. Per le creature ibride, questo significa che per la prima volta è stata data loro un’identità concreta e visiva nell’immagine, come dimostra l’esempio delle sirene di Omero.
L’UOMO CONTRO IL SELVAGGIO I centauri, le sfingi e i grifoni sono un altro eccellente esempio di come questi esseri sono stati rappresentati inizialmente come figure neutre della natura e solo in un secondo momento associati agli esseri delle varie saghe eroiche. Nel processo, formule già esistenti, spesso importate o ispirate dall’immaginario del Vicino Oriente, furono recepite, adattate e, soprattutto, dotate di nuovi contenuti adeguati alle proprie esigenze e idee. Alcuni paesaggi, come ci appaiono nelle prime immagini dell’arte ellenica, rappresentano dunque un mondo che i Greci situavano ai margini estremi di quello conosciuto, la cui pericolosità era resa piú intensa dalla presenza di creature ibride. Che si trattasse della Chimera, che viveva nella lontana Licia,
Scultura raffigurante una sfinge, copia romana di un originale greco del 450 a.C. circa.
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della Gorgone Medusa, che si presumeva fosse al di là del mare, o del Ciclope Polifemo, la cui isola si trovava ai margini del mare, queste creature fantastiche si muovevano sempre in zone «estreme». Questo era anche vero, del resto, per esseri meno remoti, come i centauri, che risiedevano nelle foreste di montagna della Tessaglia. Questo mondo periferico e potenzialmente pericoloso doveva essere tenuto sotto controllo, se non completamente conquistato, perché rappresentava una
QUEL «CANE» DI UN FILOSOFO! «In vita fosti un cinico, Antistene, e di natura tale da mordere il cuore a parole» (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei piú celebri filosofi, 6, 19; III secolo d. C.) «Alessandro, una volta, si mise in piedi da fronte a lui e gli disse: “Io sono Alessandro, il gran re“, “E io”, replicò, “sono Diogene il Cane”» (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei piú celebri filosofi, 6, 60; III secolo d. C.) Mentre Aristotele stabiliva la supremazia degli uomini «razionali» sugli animali «irrazionali», la scuola dei cosiddetti filosofi «cinici» aveva una visione praticamente opposta. L’ateniese Antistene e il suo allievo Diogene di Sinope sono considerati i fondatori del cinismo. Consideravano la ragione e la cultura umana come un ostacolo a una vita naturale e soddisfacente. Esigevano che le persone conducessero un’esistenza quasi senza proprietà – analoga a quella degli animali –, al fine di raggiungere la felicità attraverso la maggiore indipendenza possibile. I cinici coltivarono quindi una vita orientata ai bisogni naturali, il che valse loro la derisione del popolo e delle altre scuole filosofiche, che li chiamarono «cani». Etimologicamente, il termine «cinico» deriva dalla parola greca per cane (kyon). I filosofi cosí ribattezzati si riunivano anche in una palestra fuori Atene, che si chiamava kynosarges (in greco «dove giaceva il cane»). La designazione dei cinici come cani si riferiva non solo al loro stile di vita, ma anche al loro modo talvolta aggressivo e beffardo di trattare i loro simili. Il cane era quindi considerato da loro come un modello sia nel suo modo di vivere, che era orientato ai bisogni piú elementari, sia attraverso il suo comportamento mordace, che è stato tramandato in numerosi aneddoti. I termini «cinismo» o «cinico», tuttora in uso per indicare un atteggiamento mordace e privo di sentimento e compassione, sono dunque derivati dagli antichi filosofi della scuola cinica. Testa ritratto in marmo del filosofo Antistene. Copia romana da un originale di età ellenistica. 120-140 d.C. Londra, The British Museum.
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minaccia per l’esistenza della comunità greca. Esistevano numerosi animali selvatici o creature ibride che devastavano i campi coltivati e quindi mettevano a rischio il sostentamento delle popolazioni, come il leone di Nemea o il cinghiale del monte Erimanto. In questo contesto vanno interpretate le immagini mitiche registrate per la prima volta per iscritto e rappresentate in immagini alla fine dell’VIII e soprattutto nel VII secolo a.C. Il tema dominante di questa prima arte narrativa è incentrato sulle battaglie degli eroi greci contro una varietà di creature ibride.
ERACLE INCONTRA IL CENTAURO Il primo e piú importante è Eracle, che ha dovuto combattere una moltitudine di mostri nel corso delle sue famose gesta ed è considerato il protagonista piú comune del-
«Il leone nemeo, che Era, la nobile sposa di Zeus, allevò, e gli fece calcare i colli di Nemea, flagello per gli umani; là quello risiedendo distruggeva le generazioni degli uomini, sovrano di Treto, Nemea e Apesante. Ma lo domò la vigorosa forza di Eracle». (Esiodo, Teogonia 327-331, VIII secolo a.C.)
A destra: vaso plastico corinzio con testa umana su corpo di uccello. Inizi del VI sec. a.C. In basso: manico in forma di uccello di un calderone bronzeo, dalla Siria settentrionale. Fine dell’VIII sec. a.C.
le prime immagini mitiche greche. La storia di Eracle e Polo mostra che queste storie tradizionali erano molto piú della semplice rappresentazione di una battaglia tra un eroe «umano» e creature selvatiche: esse erano anche destinate a trasmettere valori sociali assolutamente centrali. Quando Eracle cacciò il cinghiale erimanteo nelle lontane regioni montuose dell’Arcadia, all’inizio fu ricevuto e intrattenuto con ospitalità dal centauro Polo. Tuttavia, la natura rozza dei Centauri incivili – unita all’eccessivo consumo di vino – dovette portare a una degenerazione dell’accogliente riunione e a una minaccia per Eracle, che alla fine
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si trasformò in una battaglia. Dal punto Sulle due pagine: di vista storico-culturale, Eracle non tavoletta dipinta stava solo difendendo se stesso sconfigcon scena di gendo i Centauri; piuttosto, si ergeva a sacrificio, da difesa delle regole del consesso civile. Il Pitsa (Grecia). simposio e l’ospitalità erano considera540 a.C. circa. ti dai Greci elementi centrali della Atene, Museo convivenza sociale, parte dell’apparato Archeologico normativo di un’identità culturale. Nazionale. Eracle, quindi, non stava combattendo Nella pagina solamente per se stesso, ma stava difen- accanto, in basso: dendo un’importante conquista umana coppa attica che era minacciata dal popolo selvagraffigurante il gio e non civilizzato dei Centauri. Una sacrificio di un storia simile, in cui i Centauri assunsemaialino. ro lo stesso ruolo minaccioso e incivile, VI sec. a.C. 102 a r c h e o
IL SACRIFICIO DEGLI ANIMALI E IL CONSUMO DI CARNE Nell’antica Grecia, il sacrificio di animali era considerato il piú alto atto rituale della comunità. Esiodo e Omero ci danno descrizioni dettagliate delle procedure codificate. Il sacrificio animale piú comune era quello agli dèi dell’Olimpo e veniva eseguito come offerta di un pasto. La comunità si riuniva prima intorno all’altare, posto di fronte al tempio vero e proprio (in contrasto con la chiesa, dove l’altare è collocato all’interno dell’edificio). L’animale sacrificale (di solito bovino, ovino
o caprino), decorato con corone, veniva condotto in una solenne processione all’altare e cosparso d’acqua. L’annuire dell’animale infastidito dall’acqua veniva interpretato come consenso. L’effettiva uccisione dell’animale sacrificale veniva fatta recidendo la carotide. Il sangue doveva scorrere sull’altare. L’uccisione era accompagnata dall’urlo stridulo delle donne presenti. Cruciale per la comprensione di questo evento è il fatto che si trattava principalmente di una macellazione rituale. Coinvolgendo gli dèi, l’atto di uccidere e il successivo consumo di carne venivano legittimati.
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SPECIALE • ANIMALI REALI E FANTASTICI Statuetta in bronzo raffigurante un centauro, da Atene. Metà del VI sec. a.C.
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si racconta sia avvenuta al matrimonio del re dei Lapiti Peritoo. I Centauri invitati al banchetto persero il controllo, a causa della loro natura libidinosa, assalirono la sposa e le donne presenti. La conseguente terribile battaglia tra i Centauri e i Lapiti, sostenuti dall’eroe Teseo, non aveva solo lo scopo di preservare la vita e l’onore dei secondi, ma, piú in generale, di difendere l’istituzione del matrimonio, cosí importante per i Greci. Anche questo scontro, dunque, ha come finalità ultima la salvaguardia di norme civili. D’altra parte, sebbene i Centauri fossero connotati soprattutto in maniera negativa e rappresentassero l’antitesi dell’ideale razionale dei Greci, esistevano alcune eccezioni. Il centauro Chiro-
colosa, il Minotauro rappresentava una minaccia tale che dovette essere imprigionato nel labirinto e placato con sacrifici umani. Il mostro si poneva come sovvertitore di qualsiasi ordine valido e solo l’eroe ateniese Teseo, con l’aiuto dell’astuta figlia del re, Arianna, riuscirà a sventare la minaccia.
ne, per esempio, era considerato particolarmente saggio e giusto; come amico degli dèi, gli fu affidata la formazione di numerosi eroi, tra cui Achille. Un ultimo esempio di battaglia mitologica è quella tra Teseo e il Minotauro. Come punizione per il comportamento sacrilego del re Minosse e di sua moglie Pasifae, che avevano rifiutato di sacrificare agli dèi, questi ultimi fecero innamorare Pasifae del toro cretese. Un’unione «innaturale» che diede origine alla creatura metà uomo e metà toro. La sua genealogia, da sola, contraddiceva qualsiasi regola culturale. Inoltre, a causa della sua natura peri-
In questa pagina: particolari della decorazione di una kylix attica. Inizi del V sec. a.C. In alto, Eracle a banchetto accolto dal centauro Polo; in basso, Eracle che combatte contro i Centauri.
PER DIFENDERE LA CITTÀ Il numero significativo di battaglie mitologiche che incontriamo in queste immagini, in cui si difendono non solo le basi della vita, ma anche i valori del vivere civile, può essere inserito in un contesto storico e quindi spiegato. Ciò è particolarmente vero per le prime immagini del mito del VII secolo a.C., in cui le gesta di Eracle innanzi tutto, ma anche di Teseo, godono di grande popolarità. Questi miti e le loro rappresentazioni rientrano in una fase segnata dall’emergere e dal consolidamento delle cittàstato, le poleis greche, come modello dominante di società. Le città erano il fulcro della vita culturale, politica e religiosa, da salvaguardare e proteggere. Sul piano simbolico, questo compito viene illustrato attraverso il tema della battaglia tra eroi e animali, siano essi reali o – ancor piú minacciosamente – ibridi. In questo senso, i miti (insieme ai loro protagonisti umani e non), tramandati oralmente, per iscritto o attraverso la loro raffigurazione pittorica e scultorea, si configurano come metafore formative dell’identità civile, sullo sfondo di un ipotetico scontro tra la «cultura» degli uomini e la «natura» del mondo animale e selvaggio. DOVE E QUANDO «animalistico! Animali e creature ibride nell’antichità» Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 19 giugno 2022 Orario ma-do, 11,00-17,00 (gio-ve, apertura serale fino alle 22,00); chiuso il lunedí Info www.antikenmuseumbasel.ch a r c h e o 105
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
GIUNONE DEI MIRACOLI VENERATA A LANUVIO, SU ALCUNE EMISSIONI MONETALI LA SPOSA DI GIOVE APPARE IN ATTEGGIAMENTO GUERRESCO. E MUNITA DI UN MANUFATTO DALLE POTENTI ASCENDENZE MITOLOGICHE...
N
el santuario di Lanuvio dedicato a Giunone Sospita, ovvero colei che corre in aiuto e soccorre, la dea era particolarmente venerata nel suo aspetto bellicoso, diffuso nel Lazio sin dal V secolo a.C. La statua di culto, che la raffigurava appunto con attributi guerrieri, fu piú volte soggetto di prodigi eccezionali – che in alcuni casi ricordano i miracoli attestati anche oggi per le statue di culto cristiane – testimoniati da Livio, il quale li elenca datando l’evento prodigioso: la statua muove la lancia nel 218 a.C. (Livio, 21, 62, 4), trasuda sangue nel 215 a.C. (23, 31, 1) o versa lacrime nel 181 a.C. (40, 19, 2;); i corvi nidificano nel tempio nel 214 a.C. (24, 10); infine, rumori spaventosi provengono dalla cella nel 204 a.C. (29, 14, 3). Insomma, un interagire della dea con i suoi fedeli cadenzato nel tempo, in particolare nel corso del III secolo a.C. I magistrati monetari originari di Lanuvio dedicarono alla loro dea guerresca e dal copricapo caprino alcune emissioni monetali, che la raffigurano mentre incede armata oppure su un carro in corsa. Quest’ultima figurazione compare sui denari serrati (ovvero con il bordo dentellato, la cui motivazione è ancora dibattuta) della gens Procilia emessi dal monetiere Lucio nell’80 a.C. Su questi il dritto è riservato al profilo di Giunone Sospita, con il capo coperto dalla testa della capra che veniva
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ritualmente sacrificata alla dea; le corna e il vello le ricoprono la nuca, mentre le zampe sono annodate sul collo, rendendola molto simile alla testa di Ercole con la leontea. Al rovescio, Giunone è su una biga da guerra con bassa sponda e ruota a otto raggi: indossa un copricapo caprino ed è in posizione di attacco, armata di lancia nella mano destra, mentre con la sinistra impugna uno scudo bilobato, decorato al centro con un fulmine. Due focosi destrieri dalla criniera perlinata conducono il carro in corsa, sotto il quale si trova un serpente dritto, crestato e con la coda arrotolata, fedele compagno della dea lanuvina e presente anche nei denari in cui Giunone Sospita procede a piedi (vedi «Archeo» n. 441, novembre 2021; anche on line su issuu.com).
UNA SCELTA SCANDALOSA
Denario serrato di L. Procilio, 80 a.C. Al dritto, Giunone Sospita con pelle di capra con piccole corna. Al rovescio, la dea su biga in corsa con scudo e lancia; sotto i cavalli, un serpente.
Poco meno di quarant’anni piú tardi, lo stesso tipo iconografico viene adottato sui denari del gennaio 44 a.C. dal magistrato M. Mettius, legato di Cesare nel corso delle guerre galliche. Al dritto campeggia il ritratto giovanile di Cesare cinto da una ricca corona trionfale: un fatto eccezionale e scandaloso, poiché sino ad allora era vietato apporre sulle monete un personaggio vivente, in quanto, cosí facendo, lo si poneva al di sopra degli altri cittadini,
conferendogli la supremazia propria di un sovrano. L’onore era connesso alla sua carica di dittatore, ricoperta per la quarta volta come riportato nella leggenda (DICT QVART). L’omaggio, peraltro, gli costò la vita: da lí a pochissimo, infatti, alle Idi di marzo del 44 a.C., Cesare fu assassinato Al rovescio compare Giunone Sospita in biga, secondo lo stesso modello del denario di Lucio Procilio, reso con una
maggiore vemenza bellica e differente solamente per lo scudo, che in questo caso invece che trilobato è bilobato, con la piastra costellata di bullae che probabilmente ripropongono i chiodi che dovevano rendere piú resistente l’arma. La dea indossa poi un’egida sul petto, anch’essa rinforzata. La forma dello scudo ricorda quelli antichissimi usati dai Salii, sacerdozio istituito addirittura dal re Numa al quale Marte Gradivo (colui che conduce) In alto: denario di M. Mettius per Giulio Cesare, gennaio 44 a.C. Al dritto, testa di Giulio Cesare; al rovescio, Giunone Sospita su biga con scudo e lancia. A sinistra: Enea e Anchise, olio su tela di Antonio Mariani. Ante 1621. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. consegnò inviandolo dal cielo, in occasione di una pestilenza, uno scudo di tal forma, pegno eterno dell’invincibilità romana.
A TUTELA DELL’URBE Il manufatto era conservato insieme ad altri sei oggetti che garantivano la grandezza e la salvezza di Roma in vari luoghi sacri dell’Urbe, i pignora imperii, elencati da Servio (Commentari all’Eneide, VII, 188): l’ago della Madre degli Dèi (un betilo sacro a Cibele), la quadriga in argilla dei Veienti (la scultura di Vulca che decorava il tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio), le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona (una delle figlie di Priamo e Ecuba) e il Palladio (il simulacro ligneo di Minerva custodito a Troia e salvato da Enea dalla rovina della città). Come si vede, ben quattro pignora erano collegati alle tristi vicende di Troia che portarono all’arrivo di Enea nel Lazio e quindi alla nascita di Roma: dalla tragedia di un popolo nacque la gloria di un altro.
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I LIBRI DI ARCHEO
LE ANCELLE DEGLI SCAVI
DALL’ITALIA Lauretta Colonnelli
STORIE MERIDIANE Miti, leggende e favole per raccontare l’arte Marsilio Editori, Venezia, 352 pp. 29,00 euro ISBN 978-88-297-1175-8 www.marsilioeditori.it
Giornalista e scrittrice, Lauretta Colonnelli prende spunto da un reperto archeologico, da un dipinto, da una scultura, da un’opera di architettura dell’Italia meridionale, per raccontare – di volta in volta – una storia che rinvia sempre ad altre vicende. Artisti piú o meno noti dall’antichità sino ai nostri giorni, gente comune ma decisa a vivere a pieno il proprio tempo, luoghi conosciuti o quasi ignoti si alternano in un libro che si legge con il piacere della sorpresa. E del quale, nelle pagine che seguono, pubblichiamo ampi stralci di due capitoli. Giuseppe M. Della Fina 108 a r c h e o
Se non fosse per i dipinti di Édouard de Sain e di Filippo Palizzi, non avremmo mai conosciuto le giovani donne che lavorarono agli scavi di Pompei trasportando, sul capo e sulle spalle, le grandi ceste colme della terra di risulta. Entrambi i quadri hanno la data del 1865. Sain era francese, e aveva visitato la Campania due anni prima. Tornato a Parigi, dipinse la grande tela Fouilles à Pompéi, un metro e venti per uno e settantadue, oggi al Musée d’Orsay. Vi ritrasse la vita concitata del cantiere, con le figure monumentali delle operaie che sistemano sopra il cercine, per meglio reggerli in equilibrio sulla testa, i panieri pieni di terra. In secondo piano, si intravedono i muscolosi scavatori che a colpi di piccone riportano alla luce la Casa del Citarista. Le dodici ragazze, con i begli ovali del viso, le braccia tornite, i piedi scalzi, hanno le dimensioni epiche dei protagonisti di un quadro di storia, un genere che andava forte nei Salons internazionali. Anche l’abruzzese Filippo Palizzi dipinse la sua Fanciulla pensierosa negli scavi di Pompei
(ora Torino, collezione privata, Archivio Marino) dopo aver visitato il sito archeologico. Ne fece poi diverse versioni, con impercettibili varianti. E sempre con la stessa giovane operaia che si ferma a guardare assorta un affresco affiorante dal terreno, dove Venere ingioiellata e seminuda appare in uno sfolgorío di colori. Nel tentativo di confrontarsi con la dea, la ragazza si alza la gonna su un fianco e scopre le gambe fin sopra il ginocchio. Ha lasciato cadere dietro di sé, in cima al cumulo di detriti che l’attende, il paniere da riempire. Alle sue spalle, le compagne si avviano una dietro l’altra, curve sotto il peso delle ceste stracolme. Queste ragazze sono avvolte dal mistero. Nessun archeologo ne ha lasciato notizia. Nessuno storico se n’è occupato. (...) Ad accorgersi delle sterratrici fu l’architetto francese François Wilbrod Chabrol, che visitò Pompei tra il 1863 e il 1867, quando era pensionnaire dell’Accademia di Francia a Roma, e citò le portatrici di terra nei suoi Mémoires. La citazione fu ripresa da Marc Monnier, scrittore con radici franco-svizzere, nella sua breve guida Pompéi et les Pompéiens, pubblicata per la prima volta nel 1864. «Niente è pieno di vita
piú dei lavori degli scavi. Gli uomini vangano la terra e nugoli di ragazze accorrono senza sosta, coi loro panieri in mano. Sono solerti campagnole prelevate dai villaggi vicini, la maggior parte operaie di fabbriche chiuse o sospese per l’invasione dei tessuti inglesi e per il rincaro del cotone. Mai si sarebbe potuto credere che il libero scambio e la guerra d’America avrebbero fornito operai a Pompei», scriveva Chabrol. Si riferiva alla guerra di secessione, scoppiata nel 1861, che fece crollare di colpo la produzione del cotone negli Stati Uniti provocando un aumento dei prezzi della materia prima. In Campania, l’industria tessile del cotone aveva messo radici cinquant’anni prima, grazie all’iniziativa di alcuni imprenditori svizzeri spinti a lasciare il loro paese dal blocco continentale deciso dai francesi e da Napoleone contro gli inglesi. Anche allora la crisi degli opifici tessili in Svizzera era stata provocata dalla mancanza di materie prime provenienti dall’America. E gli industriali avevano deciso di ricollocare la propria attività altrove. Scelsero la valle dell’Irno e l’agro nocerino perché qui esisteva, da tempo immemorabile, la tradizione della tessitura: lana, seta, bisso, cotone.
Inoltre la pianta del cotone, qui chiamata bombace, si coltivava fin dal Trecento in Terra di Lavoro e nelle pianure acquose del tarantino. Gli svizzeri si trasferirono con le proprie famiglie e con gruppi di tecnici specializzati nella lavorazione del cotone, costruirono rapidamente grandi capannoni nei quali montarono nuovi e moderni macchinari, reclutarono migliaia di lavoratori fino ad allora impiegati nei campi o nelle botteghe artigiane. Dopo cinquant’anni di prosperità arrivò la nuova crisi, gli opifici cominciarono a ridurre gli operai, e molti di questi risposero all’appello di Fiorelli. E la gran parte erano donne. Dunque, proseguiva Chabrol, le ex operaie tessili «si affrettano, riempiono i loro panieri di terra, cenere e lapilli, li caricano sulla testa con l’aiuto degli uomini, con un solo movimento brusco e pronto, e se ne vanno cosí, in gruppi ogni volta diversi, verso la ferrovia, incrociandosi con le loro compagne che ritornano. Molto pittoresche nei loro cenci laceri, di vivaci colori, camminano a lunghi passi nelle lunghe gonne che disegnano i movimenti delle gambe nude e che tremano al vento dietro di loro. Le braccia, in una posa che ricalca quella delle
cariatidi, sostengono sulla testa il pesante carico. Sono in perfetta armonia con i monumenti che emergono poco a poco da sotto terra mentre il sole va calando. Se questa armonia non venisse turbata dai visitatori stranieri che di quando in quando ci sfiorano, potremmo chiederci, immersi in questo paesaggio virgiliano, tra festoni di vigneti, di fronte al Vesuvio fumante sotto un cielo antico, se tutte queste giovani laboriose che vanno e vengono non siano le schiave di Pansa l’edile e del duunviro Olconio». (...)
LE ANTICHE RAGAZZE IN BIKINI
Nei primi anni cinquanta del secolo scorso, mentre sulle spiagge italiane cominciavano ad apparire le prime donne in bikini e i benpensanti si affrettavano a deprecare il costume «troppo piccolo e osceno», nel cuore della Sicilia un archeologo scopriva dieci ragazze in bikini che risalivano al tempo degli antichi romani. L’archeologo si chiamava Gino Vinicio Gentili e aveva iniziato a scavare nella campagna a una trentina di chilometri da Enna e a pochi minuti da Piazza Armerina, in un
sito detto Casale. Gentili riportò alla luce una sontuosa villa, abitata intorno al IV secolo dopo Cristo, dotata di un impianto termale e decorata con splendidi mosaici, oggi riconosciuti come patrimonio dell’umanità. Tra questi mosaici ne apparve uno con le ragazze in due pezzi. Ossia con il subligar, come si chiamava allora il pezzo inferiore, e la «fascia mamillare», detta anche strophium, a coprire il petto. Bagnanti, si disse subito. Poi si appurò che erano atlete. I romani, infatti, alle terme già conosciute
Scavi a Pompei, olio su tela di Edouard Sain. 1865. Parigi, Musée d’Orsay.
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dai greci associarono la palestra, dove potevano svolgere gli esercizi di ginnastica prima di tuffarsi in acqua. Le dieci atlete siciliane sono impegnate in vere e proprie gare sportive, dal lancio del disco al gioco della palla, dalla corsa agli esercizi con i pesi. Le due vincitrici ricevono una corona e la palma della vittoria. Mentre gli atleti maschi furono celebrati fin dai tempi piú remoti nelle ceramiche, nelle statue e negli affreschi, il mosaico della Villa del Casale è una delle rarissime rappresentazioni di agonismo femminile nell’antichità. In Grecia l’attività sportiva era in genere riservata ai maschi, di rango aristocratico e fisicamente perfetti. Le Olimpiadi, celebrate ogni quattro anni dal 776 avanti Cristo fino al 393 dopo Cristo, furono severamente vietate alle donne, che non potevano assistere alle gare e tanto meno parteciparvi. Forse perché gli atleti gareggiavano nudi, da quando il leggendario Orsippo di Megara aveva lasciato scivolare nello stadio il gonnellino. Chi infrangeva le regole rischiava la morte. (...) Esempi di ragazze impegnate in competizioni sportive che non fossero le Olimpiadi si ritrovano tuttavia nelle fonti letterarie e nei reperti archeologici. Nella mitologia correva 110 a r c h e o
Piazza Armerina (Enna), Villa del Casale. Il mosaico con le «ragazze in bikini». IV sec. d.C. Si tratta di una delle rarissime rappresentazioni di donne impegnate in gare atletiche. la dea Iris, anzi aveva addirittura le ali ai piedi. E la principessa Atalanta promise di sposare soltanto chi l’avesse battuta in una gara di corsa. Plutarco, nella Vita di Licurgo, racconta che il legislatore spartano, per favorire l’addestramento fisico delle donne, «sollecitò le giovani a esercitare il corpo con la corsa, la lotta, il lancio del disco e del giavellotto». Senofonte conferma che negli incontri di lotta le donne partecipavano «alla stessa stregua degli uomini». Filostrato cita
gare di corsa riservate alle adolescenti, che venivano disputate alla presenza del pubblico. Negli intervalli tra le Olimpiadi, sedici donne sposate organizzavano a Olimpia giochi femminili, dopo aver tessuto un peplo e invocato Era, dea protettrice dei matrimoni. Questi giochi si chiamavano Erei. Li descrisse Pausania: «Consistono in una gara di corsa fra ragazze, di età diverse: le piú giovani corrono per prime, poi le meno giovani e per ultime le piú grandi. Corrono in questo modo: i capelli sciolti, il chitone
che arriva un po’ sopra il ginocchio, la spalla destra scoperta fin sotto il seno. Corrono nello stadio, ma per loro la lunghezza della corsa viene ridotta di circa un sesto rispetto a quella stabilita per i maschi. Alle vincitrici vengono date corone di ulivo e una porzione della vacca sacrificata a Era, ed è loro consentito di farsi fare statue con la propria immagine e il proprio nome». Queste gare di corsa si diffusero anche nella Roma imperiale. Domiziano ne inserí una all’interno del Certamen Capitolinum.
Massimliano Ghilardi
SAECULUM SANCTORUM Catacombe, reliquie e devozione nella Roma del Seicento Luoghi Interiori-Istituto Nazionale di Studi Romani, 265 pp., 35 tavv. col. 24,00 euro ISBN 978-886864-214-3 www.studiromani.it
L’uragano generato, a partire dal 1520, dal movimento protestante produsse una fase di generale ripensamento nella Chiesa cattolica, alla cui giurisdizione spirituale, in poco tempo, erano stati sottratti immensi territori, soprattutto nel Nord Europa. L’autorevolezza del papato era stata sfidata apertamente e, con essa, era stato posto in discussione il primato romano, costruito sulla base del prestigio della tradizione apostolica petrina, discendente direttamente dall’investitura compiuta dal Cristo in favore del Principe degli Apostoli. La reazione a tutto ciò richiese tempo per essere
elaborata ma poi, come ben sappiamo, produsse un movimento tra i piú potenti e pervasivi che mai siano stati visti in azione nella storia dell’Occidente: la Controriforma. I suoi esiti andarono ben al di là del profilo strettamente dogmatico e accesero un processo incredibilmente fecondo di rinnovamento nelle strategie di comunicazione del messaggio cristiano, i cui esiti, sul piano artistico, sono presenti in tutti i territori d’Europa in cui il cattolicesimo seppe resistere o addirittura riguadagnare terreno. Questo slancio in avanti fu però sostenuto in modo significativo anche da un processo di revisione interna della memoria storica della Chiesa nel suo insieme, in grado di rendere facilmente accessibili le fonti necessarie a ricostruire il percorso attraverso cui essa aveva prima vinto contro il paganesimo e poi conservato in vita il messaggio cristiano nei secoli bui della barbarie. La ricerca storica sul Medioevo nasce proprio nei tempi della Controriforma, grazie a eruditi come Cesare Baronio, Jean Bolland, Jean Mabillon, Gian Domenico Mansi, i quali – pubblicando a stampa fonti e documenti sino ad allora difficilmente accessibili –, ricostruirono in poco tempo l’anatomia
degli eventi storici di cui la Chiesa era stata protagonista. Meno noto è però il fatto che questo intenso periodo di ricerche fu anche il primo incubatore della ricerca archeologica sull’età postclassica, poiché anche la ricerca delle testimonianze materiali piú antiche delle comunità cristiane – e di quella di Roma in primis – fu reputata fondamentale per risarcire l’autorevolezza del papato, che aveva pagato in prima persona con il sangue di diversi martiri la sua lotta affinché il Verbo infine trionfasse. La storia di queste ricerche, grazie alle quali iniziarono a essere studiati i cimiteri cristiani, a partire da quelli del suburbio di Roma, viene ora esaminata dal brillante libro di Massimiliano Ghilardi. L’emozione della riscoperta di quelli che erano ritenuti i luoghi nei quali riposavano i resti dei martiri non travolse l’attenzione con cui la Chiesa cercò comunque di guidarne il processo, per evitare da un lato che esso divenisse preda di millantatori e, dall’altro, per sfruttarne però dal punto di vista propagandistico tutto il potenziale evocativo. L’esplorazione delle antiche catacombe e il rinvenimento dei resti ivi sepolti – considerati «santi» per il solo fatto di trovarsi in quei luoghi
– era percepito come una resurrezione ante litteram di guerrieri pronti a interrompere il loro sogno secolare per tornare a testimoniare Cristo nelle complicate circostanze presenti. Sino alla fine del XVII secolo fu tutto un frenetico succedersi di attività, che possiamo dire di archeologia «involontaria», perché, sebbene animate da propositi essenzialmente confessionali, permisero di rendere noti per la prima volta gli incredibili ipogei suburbani, con la loro complessa topografia, le loro opere d’arte, e le informazioni che essi racchiudevano sulla vita della popolazione romana dei primi secoli dell’era volgare. Ghilardi dà conto con piglio narrativo veloce e rigore inappuntabile dell’ambiente degli eruditi che guidò quest’avventura di scoperte, ma racconta anche del mondo che vi gravitava intorno, costituito da semplici scavatori, artisti, prelati e da tanti altri curiosi personaggi, tutti compartecipi dell’idea che in quei cunicoli si riportasse alla luce un pezzo fondamentale dell’armamentario indispensabile a respingere gli attacchi delle forze che volevano annientare la gloria della Chiesa di Roma e dei suoi pontefici. Federico Marazzi a r c h e o 111
Giulio Guidorizzi
IL GRANDE RACCONTO DI ROMA ANTICA E DEI SUOI SETTE RE il Mulino, Bologna, 382 pp., ill. col. 40,00 euro ISBN 978-88-15-29411-1 www.mulino.it
Si legge come un romanzo questa storia dei re di Roma raccontata da Giulio Guidorizzi e però, a differenza della letteratura di finzione, il libro è costruito su ciò che le fonti hanno tramandato, sui dati offerti dall’archeologia e sull’analisi della ricca storiografia dedicata all’argomento: la cifra stilistica, quindi, ha il merito di rendere accessibile e godibile anche al vasto pubblico dei non addetti ai lavori un’opera che, di fatto, garantisce il rigore di un saggio specialistico. La materia affrontata è vasta e affascinante al tempo stesso, sospesa com’è tra la realtà delle notizie storicamente accertate e la corposa tradizione mitologica. Al proposito, fin dall’inizio, 112 a r c h e o
l’autore offre molteplici spunti, come quando fa notare che è assai improbabile che i re di Roma siano stati effettivamente solo sette: considerando che regnarono, secondo le date tradizionalmente tramandate, dal 753 al 509 a.C. – cioè per duecentoquarantaquattro anni –, ciascuno di essi sarebbe rimasto in carica per trentacinque anni, una durata poco plausibile e dunque «si può pensare che l’elenco si sia consolidato sulla cifra canonica attraverso l’eliminazione di figure minori». E una simile selezione ben risponderebbe alla volontà di trasmettere l’idea di un passato glorioso, dal momento che, scrive ancora Guidorizzi, «sette è il numero magico per eccellenza, tale da conferire a ogni elenco una qualità di perfetta compiutezza», come accade, per esempio, alle note, ai giorni, ai colori dell’arcobaleno, ma anche ai colli sui quali la stessa Roma venne costruita. La trattazione è divisa in due sezioni, la prima delle quali, piú corposa, si apre con il racconto della leggenda che identificò in Enea il primo artefice della lunga e straordinaria parabola di cui la città nata sul Palatino si rese protagonista: una scelta evidentemente dettata dalla volontà di ammantare di gloria le proprie origini,
intrecciandole con il destino del nobile principe troiano. Seguono quindi i ritratti dei sette re e, anche in questo caso, l’aura mitica che li circonda non ha fatto altro che assecondare il reale sviluppo di Roma, che, oltre a darsi un assetto via via piú strutturato di quello del primigenio agglomerato di capanne, mise a punto leggi, fissò le norme della vita religiosa, organizzò il proprio esercito, solo per citare gli interventi piú importanti fra quelli assegnati a Romolo e ai suoi successori. La galleria si chiude con il piú abietto del gruppo, Tarquinio il Superbo, che finí ingloriosamente esiliato, dopo aver governato con metodi tirannici ed essersi macchiato di svariati delitti. Nella seconda sezione viene invece illustrato il ricco complesso di principi morali, credenze religiose e consuetudini che regolavano la vita dei Romani, dal matrimonio al culto dei Lari e dei Penati, alla festa dei Lupercalia, solo per citare alcuni dei temi toccati. L’esito di questa lunga cavalcata è davvero, come recita il titolo, un «grande racconto», che, a distanza di oltre duemila anni, rimane di eccezionale interesse e non manca di sorprendenti possibili paralleli con realtà a noi molto piú vicine. Stefano Mammini
Sauro Gelichi, Claudio Negrelli, Elena Grandi (a cura di)
UN EMPORIO E LA SUA CATTEDRALE Gli scavi di piazza XX Settembre e Villaggio San Francesco a Comacchio All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 752 pp., ill. b/n e col. 120,00 euro ISBN 978-88-7814-799-7 www.insegnadelgiglio.it
Il volume, di taglio specialistico, costituisce la pubblicazione degli interventi di scavo condotti in due settori della città di Comacchio. Nel primo caso si tratta dell’area di piazza XX Settembre, di fronte e accanto al duomo di S. Cassiano, dove è stato indagato un deposito che ha restituito livelli di frequentazione compresi fra il VI e il XX secolo. Un arco di tempo assai lungo, dunque, nel corso del quale la funzione del sito è piú volte mutata e ha compreso episodi di notevole rilievo, come la costruzione di una cattedrale (VIII secolo) e poi di un palazzo episcopale (XI secolo). Il secondo settore d’indagine è l’area del Villaggio San Francesco, a cui si è aggiunto il comparto dell’ex Zuccherificio. Gli scavi miravano in questo caso a verificare la consistenza delle testimonianze di età altomedievale intercettate a piú riprese, ma in maniera disorganica, e di accertare la loro possibile connessione con il coevo
Alessandra Caravale, Paola Moscati
LA BIBLIOGRAFIA DI INFORMATICA ARCHEOLOGICA NELLA CULTURA DIGITALE DEGLI ANNI NOVANTA All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino, 158 pp., ill. b/n e col. 29,00 euro ISBN 978-88-9285-047-7 www.insegnadelgiglio.it
porto di Comacchio. Le ricerche hanno messo in luce resti di numerose strutture, interpretabili come abitazioni e come magazzini, ma anche come costruzioni effettivamente pertinenti all’antico scalo. All’ampia presentazione dei dati di scavo fanno seguito i contributi grazie ai quali è stato possibile ricostruire le forme del vivere quotidiano e lo sviluppo delle attività produttive e commerciali, un obiettivo raggiunto grazie, per esempio, allo studio dei reperti ceramici, dei manufatti metallici, cosí come alle analisi paleobotaniche e archeozoologiche. Ne risulta dunque un quadro assai particolareggiato, sul quale si impernia la sezione conclusiva del volume, che, dalle microstorie dei contesti indagati, si amplia fino a comprendere la macrostoria di Comacchio e del suo territorio, inquadrata nell’ancor piú vasto contesto dell’Adriatico. S. M.
Il volume inaugura una nuova collana, 30 anni di informatica archeologica, che, come scrive Paola Moscati, intende offrire «un percorso privilegiato per
sembrare impossibile che già 35 anni fossero passati dal primo collegamento a Internet realizzato in Italia, a Pisa, adesso quasi sorprende che un settore per sua natura moderno abbia già trent’anni. Una sorpresa che la ricchezza della produzione scientifica fa presto svanire, lasciando presagire le molte potenzialità che l’informatica archeologica tuttora conserva. S.M. Giancarlo Susini
L’ANTICO IN TERZA PAGINA Scritti giornalistici a cura di Valeria Cicala, Fratelli Lega Editori, Faenza, 298 pp. ISBN 978-88-7594-148-2 www.fratellilega.it
Giancarlo Susini (1927-2000) è stato un insigne storico dell’antichità e, nella sua veste di professore di storia romana e poi anche preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, ha a lungo rappresentato un’analisi retrospettiva, ma anche prospettica, di un settore disciplinare di recente formazione». Per l’esordio, si è scelto di passare in rassegna la bibliografia esistente in materia, il cui spoglio sistematico già ha costituito una delle attività di punta di Archeologia e calcolatori, la rivista di cui la nuova pubblicazione rappresenta una sorta di spin off. E cosí come nello scorso aprile poteva forse
uno dei pilastri dell’Alma Mater StudiorumUniversità degli Studi di Bologna. Accanto all’impegno accademico, mostrò sempre una particolare sensibilità per la divulgazione, attuata anche grazie all’attività giornalistica, di cui questa raccolta offre un saggio eloquente. Nel volume sono stati raccolti settanta articoli, che mostrano quanto Susini seguisse con attenzione le novità e gli sviluppi metodologici dell’archeologia, ma fosse anche consapevole della necessità di analizzarne l’interazione con la realtà contemporanea. Un rapporto non sempre facile, soprattutto nelle occasioni in cui gli interventi di tutela e valorizzazione potevano, per esempio, richiedere piccole e grandi rivoluzioni degli assetti urbanistici. Illuminante, al proposito, un articolo del 30 dicembre 1980, nel quale lo studioso interveniva nel dibattito, allora particolarmente acceso, sullo smantellamento della via dei Fori Imperiali a Roma. Di quelle righe, cosí come di tutti i contributi selezionati, colpiscono la lucidità del ragionamento e, soprattutto, il costante invito a vedere nella storia, anche molto antica, un riferimento prezioso. Il libro non è in vendita, ma può essere richiesto all’editore Lega e viene spedito gratuitamente. S. M. a r c h e o 113
presenta
DIALOGHI TRA
MONDI LONTANI
Amicizie, incomprensioni, viaggi e prove di diplomazia nell’età di Mezzo di Furio Cappelli
Il nuovo Dossier di «Medioevo» ha come filo conduttore il confronto fra l’Occidente e l’Oriente, intesi, però, non soltanto come realtà geografiche, ma come sedi di civiltà e culture diverse tra loro. Ad animare la rassegna sono personaggi che hanno fatto la storia dell’età di Mezzo (e non solo): da Carlo Magno a san Francesco, da Liutprando al duca Ivan III il Grande, solo per citare alcuni dei piú noti. Le vicende di cui sono protagonisti furono dettate da motivazioni diverse, come scambi diplomatici, viaggi di esplorazione, ricerca di nuovi mercati, ma anche, piú semplicemente, desiderio di conoscere l’«altro».
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E, in piú di un caso, non mancarono risvolti gustosi, che, se non avessero il conforto delle fonti, sembrerebbero frutto della fantasia di un novelliere: come quando Carlo Magno si vide portare in dono un elefante, o quando Berta di Toscana scrisse al califfo al-Muktafi una lettera in cui millantò meriti e poteri ben superiori a quelli di cui era effettivamente titolare. Piú veritieri, e per noi preziosi, furono i resoconti di due ambasciatori inviati da Venezia in Oriente e in Russia, Josafat Barbaro e Ambrogio Contarini, che descrissero terre favolose, ma anche singolari usi e costumi dei popoli che le abitavano. Un quadro, dunque, vivace e poliedrico, che ci restituisce l’immagine di un Medioevo costantemente proteso verso il dialogo.