ACROPOLI
VICINO ORIENTE
PYRGI
RITORNO IN IRAQ I LUOGHI DEL SACRO
RESTAURI IRAQ
MITO E RELIGIONE NEL LAZIO ANTICO ARTE DELLA GUERRA
SPECIALE
MIMETISMO SPECIALE OCEANIA A VENEZIA
Mens. Anno XXXVIII n. 443 gennaio 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
RELIGIONE NEL LAZIO ANTICO
ALLE ORIGINI DELLA TUTA MIMETICA
POTERE E PRESTIGIO IN OCEANIA
UN’AFFASCINANTE MOSTRA A VENEZIA
SCAVI DI PYRGI
IL GRANDE PORTO DEGLI ETRUSCHI
IN EDICOLA L’ 8 GENNAIO 2022
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2022
IN VISITA SULL’ACROPOLI
www.archeo.it
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ARCHEO 443 GENNAIO
ATENE
€ 6,50
EDITORIALE
SCAVARE E RACCONTARE Siamo fieri di inaugurare il nuovo anno presentando, in apertura di questo numero, uno dei «Grandi Scavi» condotti dagli archeologi della «Sapienza» Università di Roma. Con una premessa: il nostro principale compito, forse non facilissimo e che non sempre riusciamo ad assolvere quanto vorremmo, è quello di raccontare l’archeologia, di rendere comprensibili dati e risultati di una disciplina complessa e che, ormai, si avvale di strumenti e tecnologie scientifiche all’avanguardia. Di trasformare, insomma, l’archeologia in narrazione storica, coinvolgendo in questo fondamentale processo di comunicazione un pubblico di lettori piú vasto possibile. Con le pagine dedicate a Pyrgi, crediamo di avere raggiunto quel traguardo. Dalle parole di Laura Michetti, che dirige lo scavo del grande porto etrusco, emerge il quadro di un luogo aggregante e pieno di vita, di un crocevia commerciale e culturale dal respiro internazionale, attivo per ampia parte del I millennio a.C. Come leggerete, Pyrgi fu la sede di un grande santuario, uno dei piú importanti del Mediterraneo, intorno al quale – è uno dei dati emersi dalle recentissime esplorazioni – si articolava un quartiere di edifici pubblici che, forse, ospitavano gli uffici dell’«autorità portuale» dell’epoca. Non meno significativa è la storia della scoperta stessa del sito sulla costa tirrenica, iniziata nella primavera dell’ormai lontano 1957 e, in seguito, scandita da scoperte epocali, tra cui ricordiamo quella delle celebri lamine auree, documento epigrafico fondamentale tra quelli – rarissimi – attestanti la scrittura etrusca. Una storia bellissima che proseguirà, grazie all’impegno e alla dedizione dei nostri archeologi, e alla intelligente lungimiranza di politici e amministratori che ne favoriranno lo svolgimento. L’assenza di scrittura sottende anche altri due contributi di questo numero: l’escursione di Alessandro Locchi nell’universo mitico e religioso delle genti del Latium vetus, vero viaggio nel passato che i lettori potranno agevolmente ripercorrere, alla ricerca di quelle atmosfere che già avevano ispirato la monumentale ricerca dello studioso inglese James G. Frazer, pubblicata per la prima volta nel 1890 in due volumi (che poi crebbero a dodici) e intitolata, appunto, al «Ramo d’oro»; la presentazione, curata da Steven Hooper, di una tipologia di manufatti unica e, fino a ieri, quasi sconosciuta: quella dei «bastoni di comando» delle popolazioni indigene dell’Oceania, ora esposti in una mostra di straordinario fascino allestita a Venezia… Andreas M. Steiner Studenti della «Sapienza» Università di Roma impegnati nello scavo di Pyrgi.
SOMMARIO EDITORIALE
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di Andreas M. Steiner
di Martina Almonte e Ines Arletti
ALL’OMBRA DEL VULCANO L’offerta del Parco Archeologico di Pompei si arricchisce con l’apertura al pubblico della Casa dei Quattro Stili 10 di Alessandro Mandolesi
SCOPERTE Una ricca necropoli di epoca punica torna alla luce nel sottosuolo di Marsala di Giampiero Galasso
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Bellezza senza ostacoli
56 LUOGHI DEL SACRO/11
SCAVI
La città e il mare
di Alessandro Locchi
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€ 6,50
Comitato Scientifico Internazionale
ARTE DELLA GUERRA
ALLE ORIGINI DELLA TUTA MIMETICA
SPECIALE OCEANIA A VENEZIA
Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, John Boardman, Mounir Bouchenaki, Yves Coppens, Wim van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Svend Hansen, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto
SPECIALE
Mens. Anno XXXVIII n. 443 gennaio 2022 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MIMETISMO
amministrazione@timelinepublishing.it
RELIGIONE NEL LAZIO ANTICO
Amministrazione
I LUOGHI DEL SACRO
MITO E RELIGIONE NEL LAZIO ANTICO
RESTAURI IRAQ
Impaginazione Davide Tesei
In copertina Ùu, bastone di comando bifronte, Isole Marchesi, fine del XVIII-inizi del XIX sec. Venezia, Collezione Ligabue.
Federico Curti
VICINO ORIENTE
RITORNO IN IRAQ
PYRGI
Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
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Presidente
IN VISITA SULL’ACROPOLI
ACROPOLI
Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it
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All’ombra di un ramo d’oro
di Laura M. Michetti, con la collaborazione di Alessandro Conti
2022
Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it
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di Stefania Berlioz, Daniele Morandi Bonacossi e Giovanni Fontana Antonelli
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ARCHEO 443 GENNAIO
Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 – 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it
Ritorno in Iraq
di Valentina Di Napoli
ATENE
Anno XXXVIII, n. 443 - gennaio 2022 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
RESTAURI
DA ATENE
www.archeo.it
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PASSEGGIATE NEL PaRCo A conclusione degli interventi di restauro, il maestoso Tempio di Venere e Roma si avvia a mostrarsi in una nuova luce 8
IN EDICOLA L’ 8 GENNAIO 2022
NOTIZIARIO
di Carlo Casi
o. it
Attualità
VE CEA NE NIA ZI A
Scavare e raccontare
IN DIRETTA DA VULCI Si è chiusa con risultati di grande interesse la prima campagna di scavi a Poggio delle Urne 16
POTERE E PRESTIGIO IN OCEANIA
UN’AFFASCINANTE MOSTRA A VENEZIA
SCAVI DI PYRGI
IL GRANDE PORTO DEGLI ETRUSCHI
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23/12/21 11:47
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro Filippo Bondí, Francesco Buranelli, Carlo Casi, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Sergio Ribichini, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale, Andrea Zifferero Hanno collaborato a questo numero: Martina Almonte è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Ines Arletti è funzionario archeologo del Parco archeologico del Colosseo. Stefania Berlioz è archeologa. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesco Colotta è giornalista. Alessandro Conti è ricercatore in etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Alessandro D’Alessio è direttore del Parco archeologico di Ostia antica. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Valentina Di Napoli è professoressa di archeologia del teatro antico presso l’Università di Patrasso. Giovanni Fontana Antonelli è architetto. Giampiero Galasso è giornalista. Cristina Genovese è funzionario archeologo del Parco archeologico di Ostia antica. Maria Paola Guidobaldi è conservatore delle collezioni museali del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma. Steven Hooper è curatore della mostra «Power and Prestige». Alessandro Locchi è dottore di ricerca in storia delle religioni. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto del Parco archeologico di Pompei. Diego Mantero è dirigente dell’Area Geodiversità e Monumenti Naturali della D.R.
ARCHEOTECNOLOGIA Il nemico c’è, ma non si vede
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di Flavio Russo
84 Rubriche
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Le molte vite di un denario
108
di Francesca Ceci
LIBRI
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SPECIALE
Oceania Potere e prestigio
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di Steven Hooper
Ambiente della Regione Lazio. Laura Michetti è professore associato di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Daniele Morandi Bonacossi è professore ordinario di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università degli Studi di Udine. Antonella Pansini è cultore della materia in topografia antica, «Sapienza» Università di Roma. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Rossella Zaccagnini è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale.
Pubblicità e marketing Rita Cusani e-mail: cusanimedia@gmail.com – tel. 335 8437534
Illustrazioni e immagini: Ufficio Stampa Villaggio Globale International: pp. 92-93, 104-105, 106; The Trustees of the British Museum: pp. 90/91, 97, 100 (destra), 102 (basso, a sinistra e a destra), 107; Hughes Dubois: copertina e pp. 91, 95, 96, 98, 100 (basso), 102 (centro), 103; Collection Nationaal Museum van Wereldculturen: Irene de Groot: p. 101 – Cortesia «Sapienza» Università di Roma, Dipartimento Scienze dell’Antichità: pp. 3, 32-33, 34, 35 (basso), 36-55 – Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara: pp. 6-7 – Parco archeologico del Colosseo: Simona Murrone: pp. 8 (alto), 9 (basso); Azimuth 2020: p. 8 (basso); Cristiana Beltrami: p. 9 (alto) – Parco Archeologico di Pompei: pp. 10-11 – Archivio Fotografico del Parco archeologico di Ostia antica: Antonella Pansini: pp. 12-13 – Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani: pp. 14-15 – Parco Naturalistico Archeologico di Vulci: pp. 16-17 – Cortesia degli autori: pp. 18 (sinistra), 19 (alto, a sinistra, e basso, a sinistra), 56/57, 60-61 – Ufficio Stampa Fondazione Palazzo Strozzi: © Jeff Koons, foto: Tom Powel Imaging: p. 18 (destra); Ela Bialkowska/OKNO Studio: p. 19 (alto, a destra); © Jeff Koons: p. 19 (in basso, a destra) – Cortesia Corinium Museum: © Cotswold District Council: p. 20 (alto) – Newcastle University: Fowler, Olalde et al.: pp. 20 (basso), 21 (basso); Fowler, Olalde et al., da Saville 1990, su concessione di Historic England: p. 21 (alto) – Cortesia Teatro di Roma-Teatro Nazionale: p. 22 – Kostas Antoniadis: pp. 26, 27 (alto, a sinistra, e basso), 28, 29 – Cortesia Manolis Korrès: p. 27 (alto, a destra) – Cortesia Università degli Studi di Udine: pp. 58-59 – Archi.Media Trust: p. 63 (alto); Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Firenze: p. 62 (alto); Matteo Sordini: pp. 62/63; Giovanni Fontana Antonelli: p. 63 (basso) – Doc. red.: pp. 66-67, 68 (basso), 69, 70-71, 74, 77 (basso), 84, 87, 94 – Mondadori Portfolio: Archivio Luca Mozzati/Luca Mozzati: pp. 72-73; Album/Quintlox: p. 78; Electa/Zeno Colantoni: pp. 78/79, 80-83; The Print Collector/Heritage Images: p. 85; Erich Lessing/Album: p. 86; Fototeca Gilardi: p. 88 – Shutterstock: pp. 74/75, 76, 77 (alto) – Cippigraphix: cartine alle pp. 35 (alto), 57, 68.
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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/archeo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 – Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati: Telefono: 045 8884400 – E-mail: collez@mondadori.it – Fax: 045 8884378 Posta: Press-di Servizio Collezionisti – casella postale 1879, 20101 Milano
n otiz iari o SCAVI Emilia-Romagna
I ROMANI IN PALESTRA
U
n complesso insediativo di età romana è stato individuato a Castellarano (Reggio Emilia), grazie a indagini di archeologia preventiva condotte in località Tressano, nell’area del polo scolastico interessata dalla realizzazione di un nuovo impianto sportivo. Si tratta di un sito pluristratificato, che si estende su di una superficie di circa 600 metri quadrati e che ha restituito resti di strutture murarie in ottimo stato di conservazione databili in un periodo compreso tra la fine dell’età repubblicana (I secolo a.C.) e l’età tardo-antica (VI secolo d.C.). «L’indagine – spiega Monica Miari, funzionario archeologo della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Bologna e le province di Modena, Reggio Emilia e Ferrara e direttore scientifico dello scavo – ha riguardato
inizialmente le fasi della struttura databili tra il IV e il VI secolo d. C e relativa agli ambienti delimitati da murature in tegole e pezzame laterizio su fondazioni in ciottoli,
dotati di pavimenti in cocciopesto e in terra battuta, ma anche in pezzame laterizio costipato. In questa fase l’edificio doveva essere costituito da un ampio ambiente a pilastri, con stanze disposte verso nord e un colonnato a est. Per la realizzazione delle murature e dei In alto: Castellarano (Reggio Emilia), località Tressano. Fotopiano dell’area di scavo. Le indagini hanno riportato alla luce un complesso insediativo di epoca romana, la cui frequentazione si protrasse fino all’età tardo-antica. A sinistra: capitello corinzio-italico riutilizzato come base di pilastro. Nella pagina accanto, in alto: una vasca di età tardo-antica, il cui uso si lega ad attività artigianali. Nella pagina accanto, in basso: particolare dei resti di fognoli, rinvenuti in gran numero nel sito.
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piani in pezzame furono utilizzati numerosi elementi di recupero, come grossi frammenti di mattoni sesquipedali, tegole ad alette, mattoni circolari per suspensurae e semicircolari di colonna. Presenti anche alcuni elementi architettonici lapidei scolpiti, come frammenti di colonne scanalate. Si tratta di materiali che, verosimilmente, vennero riutilizzati a partire dal IV secolo d.C.,
recuperandoli dalle demolizioni dei fabbricati precedenti, collocati nella stessa area ma con una disposizione differente. Dallo scavo si rileva, infatti, l’esistenza di murature diversamente articolate, le piú antiche delle quali fanno pensare a un altro tipo di progettazione degli ambienti, anche dal punto di vista funzionale. Gli approfondimenti, infatti, hanno messo in luce un gran numero di grandi focolari accesi sul terreno, spesso a ridosso di muri, che, con la loro attività, hanno lasciato notevoli depositi di terreno carbonioso, cenere e concotto. Questi strati coprivano estesamente vasche e basamenti per attrezzature artigianali, ma anche alcune parti di pavimentazioni abitative. L’impressione che si ricava, quindi, è che lo scavo abbia intercettato l’area lavorativa di un grande complesso residenziale e produttivo di età romana, che però, nella sua parte abitativa, si estendeva al di sotto del margine dello scavo posto a sud dell’area. Da qui, tra l’altro, provengono un buon numero di fognoli, ripristinati in piú momenti, che dovevano scaricare acque di risulta verso la parte bassa del pianoro sul quale sorge l’edificio. Lo scavo ha inoltre restituito una quantità significativa di reperti ceramici, monete, elementi architettonici e vetri. In particolare sono stati rinvenuti
alcuni capitelli di tipo corinzioitalico, databili al I secolo a.C. ma riutilizzati come basamenti di pilastri già nella fase piú antica, un fatto che lascia ipotizzare l’esistenza di un complesso monumentale nelle immediate vicinanze. Ma solo un’analisi piú dettagliata del materiale rinvenuto, comunque, sarà in grado di precisare piú correttamente la cronologia e la funzione delle strutture rinvenute». L’area archeologica intercettata è stata accuratamente ricoperta e protetta e il nuovo edificio della palestra non ha quindi intaccato ulteriormente le stratigrafie conservate. I risultati degli scavi, illustrati anche mediante ricostruzioni digitali, potranno fornire la base per un’esposizione del materiale archeologico rinvenuto, da ospitarsi negli spazi che l’Amministrazione comunale metterà a disposizione. Gli scavi, condotti dalla ditta CLM Archeologia srl, sotto la direzione scientifica di Monica Miari, sono state eseguite sul campo dall’archeologo Mauro Librenti. Giampiero Galasso
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PASSEGGIATE NEL PArCo a cura di Federica Rinaldi e Martina Almonte
UN’IMPONENZA MAI VISTA IL RESTAURO DEL TEMPIO DI VENERE E ROMA, APPENA CONCLUSO, HA ARRICCHITO LA CONOSCENZA DEL MONUMENTO, LA CUI GRANDIOSITÀ NON EBBE EGUALI NELLA CAPITALE DELL’IMPERO
E
sattamente un anno fa, abbiamo raccontato il Progetto di restauro del Tempio di Venere e Roma, finalizzato al ripristino dell’unitarietà del monumento e reso possibile dalla sponsorizzazione tecnica di Fendi, pari a 2,5 milioni di euro (vedi «Archeo» n. 431, gennaio 2021; anche on line su issuu.com). Le operazioni di restauro, iniziate nel settembre 2020 e concluse nel luglio del 2021, con successivi interventi legati alla valorizzazione e alla accessibilità dell’area, hanno previsto l’impiego di oltre 60 professionisti. La sinergia lavorativa che si è creata con Fendi, ha permesso il pieno raggiungimento di tutti gli obiettivi programmati, nonostante le difficoltà causate dalla pandemia. Gli interventi di restauro hanno infatti interessato sia l’apparato architettonico che quello decorativo delle due celle, dalla copertura alle superfici, fino ai piani pavimentali. Nella visione e nella prassi antica, urbanistica, architettura e decorazione erano intimamente connesse: il progetto del monumento realizzato dall’imperatore Adriano teneva in egual conto tutti questi aspetti. Posizionato lungo al lato della via Sacra, tra il Foro Romano e il Colosseo, di cui rispettava
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armonicamente le proporzioni, il tempio aveva la peculiarità della doppia cella contrapposta, che lo distingueva da qualsiasi altro edificio sacro della città. Davvero A destra: la cella di Roma Eterna nel Tempio di Venere e Roma. In basso: veduta planimetrica del Tempio di Venere e Roma con le due absidi contrapposte (restituzione grafica del rilievo effettuato con laser scanner, Azimuth 2020).
impressionante doveva essere lo sviluppo del colonnato che circondava le aule di culto, se pensiamo che oggi ci colpiscono le ventidue che furono rialzate
su tutti i territori dell’impero. Le loro dimensioni colossali furono stigmatizzate dall’architetto Apollodoro di Damasco, il quale osservò che, se le dee... si fossero alzate in piedi, non sarebbero riuscite a uscire dal tempio (Dione Cassio, Hist. Rom., LXIX, 4, 5).
durante i restauri del 1934, dieci sul lato che fiancheggia la via Sacra e dodici su quello lungo via dei Fori Imperiali: le colonne del tempio infatti, tra la doppia fila in granito grigio di provenienza egiziana del peristilio e quelle in marmo proconnesio dei portici, dovevano essere oltre duecento. Il gioco chiaroscurale dei marmi era poi modificato dalla lavorazione dei fusti delle colonne, scanalate quelle
L’INTERVENTO DI MASSENZIO Alla ricostruzione operata da Massenzio dopo l’incendio del 307 d.C., si deve la realizzazione delle absidi di fondo, semicircolari e contrapposte. Si riferiscono alla fase massenziana anche le colonne di porfido su alto basamento e le due absidi con copertura a volta e decorazione a cassettoni, che costituiscono oggi il segno piú caratterizzante del monumento, In alto: traccia di foglia d’oro all’interno della losanga in stucco della calotta absidale della cella di Venere. A sinistra: il Tempio di Venere e Roma nel complesso di S. Maria Nova.
chiare piú interne, come testimoniano diversi frammenti conservati in loco, lisce quelle di granito; i capitelli di ordine corinzio erano tutti in marmo bianco. All’interno delle due aule di culto, al di sopra di un podio, si ergevano le maestose statue sedute delle due dee: Venere Felice, la dea del risveglio della natura, madre di Enea e quindi genitrice della stirpe giulia, fondatrice dell’impero, e Roma Eterna, personificazione sacra della città stessa e del dominio di questa
anche grazie all’anastilosi realizzata negli anni Trenta del secolo scorso. Sulle pareti interne rifulgevano le incrostazioni variopinte realizzate con alabastro, cipollino e serpentino, mentre i riquadri della pavimentazione erano in porfido, pavonazzetto, cipollino e giallo antico, con disegni che variavano nelle diverse zone, forse anche tra una cella e l’altra. L’osservazione ravvicinata delle superfici ha permesso di analizzare la successione delle fasi costruttive,
ricostruendo anche le differenti modalità di lavorazione utilizzate nelle due celle: per portare a termine i lavori nel piú breve tempo possibile, vennero utilizzati due gruppi di maestranze diverse, che lavoravano sul monumento in contemporanea. Ancor piú notevole è stata la riscoperta della ricchezza della decorazione: i frammenti di quanto sopravvissuto allo scorrere del tempo e all’azione antropica ci permettono di immaginare lo stupore di chi, già investito dalla grandiosità del monumento, dopo aver attraversato la foresta di colonne che lo circondava, si addentrava nell’area piú sacra e osservava la magnificenza delle colonne in porfido, dei pavimenti con marmi policromi e delle volte ricoperte da stucchi raffinati e impreziosite da foglia d’oro. Per valorizzare ulteriormente il monumento, il Parco e Fendi hanno deciso di realizzare un intervento di illuminazione, che contribuisca alla ricostruzione e alla reintegrazione dell’immagine del monumento, segno di come la luce possa essere strumento di conoscenza del monumento e di comunicazione dei restauri svolti. I fasci luminosi, che alternano toni caldi e freddi sulle differenti superfici, pennellano le antiche murature e ripropongono con grande suggestione i volumi delle celle delle dee, il disegno delle pavimentazioni, i cassettoni, le colonne in porfido, la scansione delle nicchie, in un magico gioco di luci e ombre. Oggi il piú grande tempio della Roma antica è finalmente restituito alla pubblica fruizione nella sua interezza, permettendo per la prima volta ai visitatori di entrare non solo nella cella dedicata alla dea Venere Felice, prospiciente il Colosseo, ma anche in quella dedicata a Roma Eterna, inglobata nell’edificio del convento di S. Maria Nova. Martina Almonte, Ines Arletti
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
TUTTE LE MANIERE IN UNA CASA COME SUGGERISCE LA SUA DENOMINAZIONE, LA CASA DEI QUATTRO STILI È UNA SORTA DI ATLANTE DELLA PITTURA POMPEIANA. UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA, ORA INSERITA NEL CIRCUITO DI VISITA NEL SITO, ARRICCHITA DA UNA PARTICOLARITÀ... FULMINANTE!
U
na nuova e interessante domus impreziosisce la visita al Parco Archeologico di Pompei. Si tratta della Casa dei Quattro Stili (Regio I.8.17), accessibile dal Vicolo dell’Efebo che si distacca da Via dell’Abbondanza: la dimora si caratterizza nel panorama cittadino per le forti contaminazioni architettoniche fra un tradizionale impianto romano-italico e quello delle dimore signorili della Grecia ellenistica. Costruita alla fine del II secolo a.C. e scavata in due momenti diversi, nel 19371938 e nel 1951, queste originali commistioni sono evidenti già nel vestibolo d’accesso di sapore
A destra: i battenti di una delle porte della Casa dei Quattro Stili. In basso: l’elegante atrio della domus, il cui compluvio è sostenuto da quattro colonne corinzie in tufo.
greco, un ambiente di attesa antistante l’atrio accessibile tramite due porte di grandezza diversa, disposte fra loro ad angolo retto di fronte e a destra dell’ingresso sulla strada (fauces). Di fatto, la chiusura quasi permanente del battente centrale sottraeva ai passanti la vista dell’interno della casa. Anche il monumentale atrio tetrastilo è di chiara derivazione ellenistica, con il compluvio sostenuto da quattro eleganti e imponenti colonne corinzie in tufo, una versione miniaturizzata del piú fastoso atrium Corinthium, attorno
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In questa pagina: varie immagini delle architetture e della decorazione pittorica della Casa dei Quattro Stili. al quale si aprono le stanze di ricevimento abbellite da una ricercata decorazione pavimentale e parietale. Nel grande oecus (salone) che si apre in posizione non assiale in fondo all‘atrio, scorrono per esempio sulle pareti tre bei quadri a tema mitologico, con le immagini di Dedalo e Icaro, una raffigurazione piuttosto ricorrente a Pompei, del Pantomimo e di un altro personaggio di incerta interpretazione, forse identificabile con Narciso. Il triclinio mostra
un’accurata decorazione pavimentale in cocciopesto a scaglie sparse di calcare bianco con rare scaglie policrome, versione diffusa in ambiente campano tra la fine del II e il I secolo a.C.
GLI AMBIENTI DI SERVIZIO Quasi in contrapposizione con lo stile architettonico raffinato della parte anteriore, il settore posteriore della casa conserva invece un aspetto prettamente rustico, e anche autonomo, vista la presenza di un accesso secondario che lo serviva, articolato in una serie di ambienti, fra cui si riconoscono la stalla, la cucina e varie stanze di servizio parzialmente raccordati da un semplice portico sostenuto da pilastri in laterizio; è inoltre presente un piccolo giardino. Una curiosità: nello spazio verde è stata rinvenuta una tegola con il graffito fulgur, posata su un cumulo di materiale edilizio, ritualmente radunato, composto di mattoni, tegole e frammenti di decorazione in I stile; questo materiale era destinato al seppellimento in una fossa (fulgur conditum), ed è probabilmente la
testimonianza di un drammatico episodio che evidentemente impose il restauro della casa in seguito al danneggiamento provocato dalla caduta di un potente fulmine. L’apprestamento segnalava l’area colpita, che diveniva sacra, e quindi, com’era prassi nell’antica Roma, veniva indicata con un’epigrafe o un eloquente segno grafico, a mo’ di sepoltura rituale della saetta. La casa si caratterizza per aver conservato, nel tempo, tutte le fasi decorative e stilistiche documentate a Pompei: come nelle stanze della vicina Casa di Giulio Polibio, qui troviamo, infatti, una piccola antologia di stili pompeiani, testimonianza degli aggiornamenti ricevuti dall’edificio durante la sua lunga storia, a partire dal I stile che doveva ornare originariamente gran parte dell‘abitazione, come dimostrano le cornici a dentelli visibili ancora in molti ambienti, circostanza che ha suggerito, appunto, la sua denominazione. Per notizie e aggiornamenti su Pompei: pompeiisites.org; Facebook: Pompeii-Parco Archeologico; Instagram: Pompeii-Parco Archeologico; Twitter: Pompeii Sites; YouTube: Pompeii Sites.
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FRONTE DEL PORTO a cura di Claudia Tempesta e Cristina Genovese
LA PERFEZIONE IN MINIATURA IL MODELLO DI UN TEMPIO RIPRODOTTO CON ECCEZIONALE ACCURATEZZA SCRIVE UN NUOVO CAPITOLO DELLA STORIA DI OSTIA. CONFERMANDO QUANTO POSSANO ESSERE FRUTTUOSI GLI «SCAVI» CONDOTTI NEI DEPOSITI
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ra le numerose e mirabili sculture rinvenute a Ostia antica, si distingue per la sua eccezionalità il modello architettonico miniaturistico di un tempio. Si tratta di un’opera del tutto inedita per l’area ostiense e che a oggi, per forme, dimensioni e caratteristiche metriche e compositive, costituisce un unicum nel panorama di questo genere di manufatti dalla funzione plasticorappresentativa di architetture reali esistenti o da edificare, se non del tutto ideali, e talvolta anche con valore votivo. Un primo elemento in marmo lunense che corrisponde al podio, con incorporata scalea di accesso e soprastanti pronao e cella al livello dei piani di spiccato (stilobate, basi e pavimentazioni) – che misura 68 x 37,5 cm, per un’altezza di 6,5 cm –, venne alla luce negli scavi che, tra il 1939 e il 1941, interessarono l’area del Decumano Massimo di Ostia e, in particolare, nel tratto compreso tra le Regiones II e V. In anni recenti le conoscenze sul reperto si sono ampliate grazie al rinvenimento nei depositi ostiensi di un ulteriore elemento riferibile al modello: questo consiste in due frammenti combacianti in cui è scolpita la trabeazione del lato destro dell’edificio, comprensivo di
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Databile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., il modello rappresenta un tempio pseudoperiptero tetrastilo, con pronao costituito da quattro colonne frontali e due laterali; ai muri della cella si addossano tre semicolonne sui lati lunghi e due sul lato posteriore, piú quattro angolari a ¾ di cerchio. Al centro delle basi di alcune colonne è visibile un foro, usato per il montaggio del fusto tramite l’inserimento di un perno, come testimoniano i resti bronzei ancora presenti e le tracce di ferro. quattro semicapitelli corinzi (o corinzieggianti) dei cinque pertinenti alla pseudoperistasi della cella sul medesimo fianco, e di una pur ridotta porzione dei rispettivi timpani della fronte e del lato posteriore. Tale circostanza ha consentito di formulare nuove ipotesi ricostruttive, anche grazie alla realizzazione e all’elaborazione di un nuovo rilievo fotogrammetrico e di modelli tridimensionali, nonché di riprendere l’esame dell’opera con riferimento anche al potenziale contesto di provenienza, tradizionalmente riconosciuto nella cosiddetta «Sede gli Augustali», sebbene la documentazione d’archivio riferisca di un luogo di rinvenimento piú generico.
UNA REPLICA FEDELE I dettagli esecutivi, rilevati anche nella porzione di trabeazione da ultimo rinvenuta, rivelano l’accuratezza complessiva del modello, in cui sono fedelmente riprodotte tutte le componenti architettoniche, comprese le modanature e le decorazioni; talvolta la resa tecnica risulta schematica e non priva di irregolarità dimensionali, fattori, questi, da imputare alle difficoltà materiali di scolpire con precisione elementi molto complessi, grandi solo pochi millimetri. Sulla base delle peculiarità morfologiche, metrologiche e stilistiche rilevate, il «tempietto», come accennato, non sembra avere
confronti puntuali e diretti, per quanto oggi a noi noto, nell’architettura ostiense o dell’Urbe. Sembrerebbe tuttavia indubbia la finalità progettuale del modello anziché votiva; certamente frutto delle abilità tecniche di un artigianato, verosimilmente locale, capace di realizzare un’opera in dimensioni miniaturistiche tanto compiute, sotto il profilo progettuale, e rifinite nei dettagli.
UN’IPOTESI SUGGESTIVA
In alto: ipotesi ricostruttiva del modello architettonico di tempio i cui frammenti sono stati rinvenuti nello scavo della «Sede degli Augustali» e poi nei depositi. A sinistra: rilievo fotogrammetrico della base e del frammento superiore. Nella pagina accanto: ipotesi ricostruttivarestituzione tridimensionale del modello architettonico di tempio.
Tutte queste caratteristiche suggerirebbero che il modello di tempio fosse destinato a un luogo pubblico o semipubblico: se una collocazione nella «Sede degli Augustali», edificio oggi identificato con una residenza privata (domus), risulta difficilmente dimostrabile – anche per le complesse dinamiche di riuso e «traslazione» delle sculture da un contesto a un altro nell’antichità, senza dimenticare la «migrazione» verso le calcare che i marmi ostiensi subirono a partire dal Medioevo –, qualche altra ipotesi potrebbe formularsi. Tra queste, una molto suggestiva è la provenienza dal vicino tempio collegiale dei fabri tignuarii, cioè dei costruttori, i quali avrebbero avuto tutte le motivazioni nell’attribuire al modello un riferimento simbolico, pur nella sua realizzazione plastica, all’attività edilizia promossa dalla stessa corporazione e quindi nell’esporlo nell’edificio di culto da loro realizzato. Quale sia stata la storia del modello di tempio ci aiuterà forse a scoprirlo la conoscenza dell’immenso patrimonio invisibile che giace nei depositi del Parco di Ostia e che, al pari di una città sepolta, racconta le molteplici vicissitudini delle scoperte che da secoli ci hanno restituito l’immagine potente di uno dei piú importanti siti del mondo antico. Alessandro D’Alessio, Cristina Genovese, Antonella Pansini
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n otiz iario
SCOPERTE Sicilia
AL TEMPO DELLA MARSALA PUNICA
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arsala è stata recentemente teatro della scoperta di una serie di ipogei funerari, venuti alla luce a seguito di indagini di archeologia preventiva condotte in via Alcide De Gasperi, durante il rifacimento della rete fognaria. Il ritrovameno è di straordinario valore, in quanto alcune tombe ricavate nel banco roccioso di calcarenite e intercettate a una notevole profondità dal piano stradale, risultavano inviolate e rientrano nell’ambito di una necropoli punica di IV-III secolo a.C. che finora ha restituito numerose deposizioni dello stesso periodo. «L’ipogeo 1 – spiega Girolama Fontana, Soprintendente per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani –, con ancora intatta la copertura litica e con accesso a pozzo rettangolare, si data presumibilmente intorno alla metà del IV secolo a.C. e presenta due camere funerarie di forma quadrangolare di 4 mq circa, in cui sono stati rinvenuti i resti di cinque inumati, tre adulti e due bambini, con il relativo corredo In alto: una delle tombe puniche scoperte in via De Gasperi. IV-III sec. a.C. Qui accanto: la camera funeraria dell’Ipogeo 2. IV-III sec. a.C. A destra: un’altra immagine dell’Ipogeo 2 in corso di scavo. IV-III sec. a.C. Nella pagina accanto: corredo di una sepoltura della metà del IV sec. a.C. nell’Ipogeo 1.
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funerario costituito da alcuni vasi e piccoli oggetti in metallo. L’ipogeo 2 si presenta invece come una struttura articolata su piú livelli e in cui si possono riconoscere diverse fasi architettoniche e di utilizzo, che sembrano coprire un arco temporale di almeno sette secoli. Un primo grande ambiente, di forma rettangolare, che misura 35 mq circa, sembra essere il risultato dell’ampliamento e dell’unione, effettuati in epoca romana (intorno al II secolo d.C.), di preesistenti sepolture puniche del IV-III secolo a.C. Quest’ultimo ipogeo presenta una serie di sepolture ricavate lungo le pareti: in particolare si sono rinvenute sei tombe a cassettone, otto loculi e otto nicchie quadrangolari. Due delle tombe a cassettone hanno conservato al loro interno resti di inumati, mentre le sei tombe a fossa rettangolare sono state scavate direttamente sul pavimento della camera funeraria. Il rinvenimento, al loro interno, di materiale ceramico e di lucerne
figurate e con bolli, oltre che di diversi defunti, lascia pensare a un utilizzo dal II al IV-V secolo d.C., con una prima fase di culto giudaico e una seconda cristiana, come già rilevato in scavi precedenti. Nella parte piú superficiale sono state inoltre ritrovate circa 50 tombe a pozzo e a fossa rettangolare, disposte con orientamento variabile nord-sud ed est-ovest, che sembrano anch’esse riferibili alla necropoli punica di IV-III secolo a.C. Un secondo livello piú profondo è stato individuato nella porzione settentrionale dell’Ipogeo 2, dove un grande pozzo di accesso, pertinente a un’altra tomba (Ipogeo 4), si sviluppa fino a una quota di
-7,5 m dal piano stradale, conducendo a due camere funerarie rettangolari contrapposte sui lati brevi, di 4 mq circa di ampiezza. Da un foro rinvenuto sul fondo di una delle tombe a fossa ricavate sul piano pavimentale dell’ipogeo 2 è stato possibile, inoltre, individuare e scavare le camere di due ulteriori ipogei punici (5 e 6), i cui pozzi di accesso risultano obliterati da grandi pietre e cemento in corrispondenza delle fondazioni di un edificio sovrastante e le camere funerarie hanno subito diversi riutilizzi nel corso dei secoli, pur avendo conservato al loro interno resti ossei e ceramici. Altri otto ipogei dello stesso
periodo (IV-III secolo a.C.) sono stati poi intercettati tra l’incrocio di via Alcide De Gasperi con via Antonio Gramsci, dove si sono rinvenuti i pozzi di accesso rettangolari, disposti a poca distanza l’uno dall’altro e con diverso orientamento, ma collocati a una quota particolarmente superficiale rispetto all’attuale piano stradale». Le attività di scavo archeologico sono state svolte sotto la direzione scientifica della competente Soprintendenza, funzionario archeologo Giuseppina Mammina, e sono state condotte dagli archeologi Sharon Sabatini e Sebastiano Muratore (SAMA Scavi Archeologici, Venezia srl). Giampiero Galasso
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IN DIRETTA DA VULCI Carlo Casi
UN DEBUTTO PROMETTENTE SI SONO APPENA CONCLUSE, CON RISULTATI DI NOTEVOLE RILIEVO, LE PRIME INDAGINI ARCHEOLOGICHE SISTEMATICHE NELL’AREA DI POGGIO DELLE URNE: UN PROGETTO TRIENNALE MIRATO ALLO STUDIO DELLE PIÚ ANTICHE FASI DI FREQUENTAZIONE DEL TERRITORIO VULCENTE
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i è svolta nello scorso novembre la prima campagna di scavo nella necropoli settentrionale di Vulci, nell’area denominata Poggio (o Punta) delle Urne. L’origine del nome, non presente nella cartografia, si deve al ritrovamento, occasionale, da parte di scavatori clandestini, nel 1964, della pregevole urna a capanna in bronzo attualmente esposta nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. «È stata esplorata – racconta Vincenzo d’Ercole, direttore delle ricerche – una superficie di 100 mq, situata nel punto piú alto della lingua di terra che si trova fra
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Casaletto Mengarelli a est e il Casale dell’Osteria a ovest. Nell’area di scavo, non esplorata, esaustivamente sono state finora identificate 25 sepolture a incinerazione, sia del tipo a pozzetto circolare che a fossa con risega. La maggior parte di esse era stata manomessa sia dalle lavorazioni agricole, che avevano tagliato e asportato la parte superiore delle urne cinerarie (colli e orli dei biconici), sia dagli interventi dei clandestini, particolarmente devastanti nei casi delle tombe piú monumentali». Alcune sepolture a pozzetto, tombe 2, 3 e 6, collocate nella porzione di banco
geologicamente piú solido, nell’angolo nord ovest dell’area indagata, si sono presentate vuote, prive cioè di ogni reperto archeologico e antropologico, probabilmente asportato in antico. Potrebbe infatti trattarsi dei resti di contesti a incinerazione scavati nei secoli scorsi e non posizionate esattamente sul terreno. Sul lato orientale dello scavo si individua un altro pozzetto già A sinistra: veduta dall’alto del Poggio delle Urne, in corso di scavo. In basso: la tomba a pozzetto 7bis. Nel biconico, chiuso da una scodella, vi erano i resti di un bambino di 2/3 anni.
In alto: i primi interventi di restauro sui materiali di Poggio delle Urne. A destra: lo scavo della tomba 11. svuotato, la tomba 24, eccezion fatta per i resti di rogo rinvenuti sul fondo. Visibili solo in parte e pertanto non indagate risultano una fossa posizionata nell’angolo nord ovest, la tomba 5, e i pozzetti nn. 14, 17, 18 e 23, ubicati nel settore orientale dello scavo. L’area meglio conservata è quella sud-orientale dello scavo, nella quale il banco di base risultava meno solido e compatto, tale da non permettere ai «forini» (strumenti in ferro a forma di T) dei tombaroli di distinguere con sicurezza il terreno in posto, di maggiore consistenza, da quello di riempimento delle sepolture, piú morbido e «penetrabile» con le punte degli spiedi. In questa zona è stato individuato un «grappolo» di pozzetti per incinerazioni manomessi solamente dalle arature meccaniche degli ultimi settanta/ottant’anni. In particolare, è stata portata alla luce la tomba 1, di 50 cm di diametro, pertinente a un individuo femminile di circa 18/20 anni di età, con un corredo composto da un biconico tagliato poco sopra il punto di massima espansione, nel quale vi erano due fibule in bronzo, frammenti di lamina in bronzo decorata a sbalzo, gancetti metallici e una fuseruola biconica in ceramica. La
tomba 1 era stata tagliata dalla sepoltura numero 7, che ha restituito frammenti dell’urna cineraria e anellini in bronzo. Sul lato sud-ovest della sepoltura precedente, di 80 cm di diametro, una lastra quadrangolare in pietra copriva un pozzetto di circa 40 cm di diametro, che conteneva, ancora in situ, un biconico coperto da una scodella (tomba 7bis). Nell’urna, oltre ai resti di un individuo infantile di 2/3 anni di età alla morte, vi era una fibula in bronzo.
UN «RICCO» CORREDO Ai margini occidentali di questo gruppo di sepolture è venuta alla luce la tomba 11, che ha restituito, oltre alla scodella e al biconico in frammenti, un «ricco» corredo, sempre di carattere femminile, con due scaraboidi in faïence con incastonatura mobile in argento, una tazza carenata, 158 borchiette di bronzo, vaghi in ambra, pasta vitrea e argento, tre elementi tubolari di collana in bronzo. Il «grappolo» di sepolture si chiude, per ora, con la tomba 25, contenente l’urna biconica e una armilla in bronzo. L’area centrale dello scavo è caratterizzata dalla presenza di grandi pozzetti circolari di oltre un metro di diametro che hanno suscitato l’interesse degli scavatori clandestini: tra questi si segnala la tomba 16, coperta da un grande lastrone circolare, con un orciolo decorato a lamelle metalliche, un rocchetto, due fibule
in bronzo, vaghi e anellini in ambra e bronzo, tre pendenti tubolari, biconici, in bronzo. La sepoltura piú recente (seconda metà dell’VIII secolo a.C.) è la tomba 4, una corta fossa con risega su cui poggiavano le lastre di copertura rinvenute cadute. Qui era deposto un incinerato in biconico con articolato corredo femminile formato da uno scaraboide, una coppia di alari in ferro, una fuseruola, elementi in bronzo, coppe baccellate in impasto bruno della caratteristica produzione vulcente e almeno una decina di vasi scampati al saccheggio. Le ricerche, autorizzate con concessione per il triennio 20212024 dalla Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Ministero per la Cultura su parere favorevole della Soprintendenza ABAP di Viterbo e l’Etruria meridionale, sono state condotte, in piena e totale collaborazione con il Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci, dall’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara, titolare il professor Carmine Catenacci, direttore il professor Vincenzo d’Ercole. Allo scavo hanno partecipato, oltre a studenti e laureati delle Università di Chieti-Pescara, Roma Sapienza e Padova, specializzandi dell’Istituto Centrale per il Restauro coordinati da Vilma Basilissi, antropologi fisici diretti da Alfredo Coppa e Francesco di Gennaro.
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A TUTTO CAMPO Mara Sternini
QUANDO IL CLASSICO SI FA POP PALAZZO STROZZI, A FIRENZE, SI COLORA DELLE SCULTURE DI JEFF KOONS TRA LE QUALI NON MANCANO LE RILETTURE DI ANTICHI CAPOLAVORI
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eff Koons (York, Pennsylvania, 1955) è l’artista vivente probabilmente piú noto al grande pubblico, sia per le sculturepalloncino (la piú famosa è certamente Balloon Dog), sia per le alte valutazioni raggiunte da alcune opere (nel 2019 Rabbit è stato battuto all’asta da Christie’s per 91,1 milioni di dollari). Sino alla fine del mese Koons è protagonista della mostra allestita nel quattrocentesco Palazzo Strozzi, a Firenze. Filo conduttore del progetto espositivo è la lucentezza (da cui il titolo della mostra, Shine), che in questo caso è quella dei riflessi restituiti dalle lucide superfici dell’acciaio inossidabile utilizzato per le sculture. Dopo una lunga formazione presso gli istituti d’arte di Baltimora e Chicago, l’artista è approdato a una cifra espressiva, che tende a valorizzare oggetti della vita quotidiana, riprodotti in scala maggiore e in materiale diverso, strappandoli al loro contesto abituale e trasformandoli in opere d’arte. Il palloncino a forma di cane, che richiama subito una festa per bambini, diventa cosí una gigantesca scultura in acciaio inossidabile lucidato a specchio, alta piú di tre metri e mezzo; eppure, nonostante le dimensioni e il materiale utilizzato, l’opera mantiene intatta la sensazione di
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A sinistra: variante dell’Apollo Liceo di Prassitele (IV sec. a.C.), da Tivoli. 130-138 d.C. Roma, Musei Capitolini.
A destra: Jeff Koons, Gazing Ball (Apollo Lykeios), gesso e vetro. 2013. Collezione dell’artista.
leggerezza propria di un palloncino, il che dimostra l’alto livello tecnico raggiunto dagli artigiani che lavorano con l’artista. Ma Koons non si limita a rivisitare
gli oggetti della vita quotidiana: nella sua produzione artistica non mancano infatti raffinati richiami all’arte classica, come si può vedere nella Metallic Venus, una
commistione tra la sensuale postura della Venere Callipígia (dalle belle natiche), riproduzione di un modello di età ellenistica, e il vaso presente nell’Afrodite Cnidia, copia romana del capolavoro di Prassitele (IV secolo a.C.).
IN EQUILIBRIO PRECARIO I richiami all’arte greca sono immediati nelle copie in gesso di sculture classiche, caratterizzate dalla presenza delle Gazing Balls, sfere in vetro soffiato di colore blu, appoggiate sulle statue in un equilibrio piuttosto precario. È il caso dell’Apollo Licèo, attribuito a Prassitele, noto dalle numerose copie romane giunte fino a noi, anche nella variante con la cetra. In realtà, nella serie Gazing Balls c’è un’evidente commistione tra la riproduzione di sculture dell’età classica e oggetti comuni, possiamo dire banali, come sono appunto le sfere a superficie riflettente, utilizzate spesso nella decorazione di giardini.
A sinistra: Venere Callipigia, copia romana da originale ellenistico risalente alla metà del II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra: Jeff Koons, Metallic Venus, acciaio inossidabile lucidato a specchio con verniciatura trasparente e piante in fiore. 2010-2012. Bruxelles, FABA. Il netto contrasto cromatico tra il bianco del gesso e il blu intenso del vetro mette in risalto la rilettura pop del soggetto classico. L’operazione di recupero coinvolge
A sinistra: la Venere di Lespugue, avorio (alt. 14,7 cm). 26-24 000 anni fa circa. Parigi, Musée de l’Homme. A destra: Jeff Koons, Balloon Venus Lespugue (Red), acciaio inossidabile lucidato a specchio con verniciatura trasparente. 2013-2019. Collezione privata.
però anche forme ben piú antiche, come nel caso dell’imponente Balloon Venus Lespugue, una trasposizione in acciaio inossidabile in grandi dimensioni di una statuetta in avorio alta solo 15 cm, rinvenuta in una grotta francese situata ai piedi dei Pirenei e risalente al Paleolitico, che riproduce una figura femminile secondo lo schema delle veneri steatopigie, cioè con sviluppo ipertrofico dell’adipe delle cosce e dei glutei. Riprese e citazioni che, invece di rimarcare la distanza tra arte antica e contemporanea, ne mettono in evidenza le profonde connessioni, come se l’aria contenuta nei finti palloncini di acciaio o nelle sfere di vetro blu fosse una sorta di soffio primordiale, in grado di riportare a nuova vita immagini sedimentate nella memoria collettiva.
DOVE E QUANDO «Jeff Koons. Shine» Firenze, Palazzo Strozzi fino al 30 gennaio Info www.palazzostrozzi.org
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n otiz iario
SCOPERTE Inghilterra
UN AFFARE DI FAMIGLIA
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uella di Hazleton North, nel Gloucestershire (Inghilterra sud-occidentale), è una delle tombe neolitiche meglio conservate della regione britannica e, dopo essere stata indagata tra il 1979 e il 1982, torna ora alla ribalta. Da ossa e denti di 35 individui sono stati estratti campioni di DNA che, sottoposti ad analisi, hanno rivelato che 27 di essi appartenevano a cinque generazioni diverse della stessa famiglia estesa, vissute fra il 3700 e il 3600 a.C., vale a dire circa un secolo dopo l’avvento dell’economia produttiva nelle Isole Britanniche. In particolare, è stato possibile accertare che la maggior parte dei defunti sepolti
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.
MASCHIO FEMMINA
INDISTINTO
RELAZIONE LONTANA NORD
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SUD
BAMBINO
A destra: ricostruzione grafica del tumulo di Hazleton North. In basso: i rapporti parentelari accertati dall’analisi del DNA. nel tumulo discendevano da quattro donne, che ebbero i figli dal medesimo uomo. Il dato offre un’istantanea di notevole interesse sui rapporti parentelari che vigevano all’interno di una comunità neolitica e, al tempo stesso, dimostra come
anche le pratiche funerarie tenessero conto dei legami di sangue. Il tumulo di Hazleton North è articolato in due camere di sepoltura, disposte a nord e a sud dell’asse della struttura, ed è stato osservato che gli individui vi furono distribuiti secondo criteri precisi.
A sinistra: planimetria generale del tumulo di Hazleton North. In basso: rilievo delle camere nord e sud con la distribuzione dei resti umani e l’omero di uno dei defunti, con tracce di fratture.
INGRESSO NORD
CAMERA SUD
INGRESSO SUD
CAMERA NORD
Gli uomini furono inumati insieme ai rispettivi padri e fratelli, suggerendo che la scelta ne riflettesse la discendenza patrilineare. Assieme a loro furono sepolte anche due delle figlie dello stesso ramo familiare morte in età infantile, mentre l’assenza di figlie morte in età adulta suggerisce che i loro resti furono inumati nelle tombe dei partner con i quali avevano avuto figli oppure altrove. Al di là dei legami patrilineari, la scelta di seppellire i defunti nella camera nord o in quella sud dipendeva inizialmente dalla donna della prima generazione di cui erano discendenti: una circostanza che prova come queste madri avessero un ruolo di spicco in seno al gruppo. Le ricerche hanno altresí indicato che vari «nipoti» furono adottati dal gruppo: si tratta di maschi di cui nella tomba non venne sepolto il padre biologico, ma la madre, che, a sua volta, ebbe anche altri figli con un uomo facente parte dello stesso ramo patrilineare. A queste norme sembra sfuggire un gruppo di otto individui, per i quali non è stato accertato alcun legame biologico, a probabile dimostrazione del fatto che la parentela non fosse, in ogni caso, il solo criterio in base al quale si poteva essere sepolti nel tumulo di Hazleton North. Peraltro, si tratta in tre casi di donne, la cui presenza è spiegabile con il fatto che i loro partner appartenessero al gruppo familiare dominante. Stefano Mammini
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n otiz iario
INCONTRI Roma
UNA CERTA IDEA DI CITTÀ
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entre questo numero andava in stampa, è stata presentata l’VIII edizione della rassegna «Luce sull’archeologia», i cui appuntamenti sono come sempre in programma al Teatro Argentina di Roma, la domenica mattina, alle 11,00. «Città Romane. Idee, realtà e utopie nel mondo antico»: è questo il titolo scelto per la manifestazione e l’obiettivo è quello di mettere in luce l’idea stessa di città, con i suoi elementi universali e comuni, i modelli urbani di altre civiltà, gli archetipi greci. Da Roma, dove sogno e materia si fondono alla città celeste di sant’Agostino, alle città ideali della pittura rinascimentale. Il percorso intende scrutare il sentimento degli antichi e dei moderni attraverso l’analisi delle strutture e delle forme urbanistiche delineate in scritti e immagini d’arte. Com’è ormai tradizione, ciascun incontro sarà arricchito dai contributi di storia dell’arte di Claudio Strinati, dalle anteprime del passato curate dal direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner, e verrà introdotto e presentato da Massimiliano Ghilardi. Riportiamo, qui di seguito, il calendario degli appuntamenti. 6 febbraio: Emanuele Greco, «Atene: la formazione della piú grande città del mondo greco classico»; Annalisa Lo Monaco, «Dall’utopia alla realtà: città narrate, città raffigurate, città vissute»; Francesco Sirano, «La città dei tre cuori. Capua antica tra Etruschi, Sanniti e Romani». 20 febbraio: Maurizio Bettini, «I romani e gli Dei»; Gianluca De Sanctis, «Il paesaggio sacro di Roma»; Massimiliano Papini, «Ombrose porticus: passeggiate oziose nell’antica Roma»; con la partecipazione di Alessandra
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Il magnifico soffitto dipinto del Teatro Argentina di Roma. Lo storico edificio si appresta a ospitare l’VIII edizione della rassegna «Luce sull’archeologia», in programma dal 6 febbraio all’8 maggio.
Cattoi, «RAM film festivalL’archeologia al cinema». 27 febbraio: Alessandro D’Alessio, «Neropolis. Realtà e utopia della nuova Roma di Nerone»; Antonio Marchetta, «L’altra faccia del potere: il Tieste di Seneca sullo sfondo del matricidio neroniano»; con la partecipazione di Annarosa Mattei, «Sogno notturno a Roma (1871-2021)». 6 marzo: Paolo Carafa, «Un nuovo fondatore, una nuova città: Augusto e Roma»; Francesca Cenerini, «I luoghi delle donne nelle città degli uomini»; Emanuela Prinzivalli, «Quale spazio per una donna cristiana nelle città dell’Impero romano?». 20 marzo: Carmine Ampolo, «La Segesta di Cicerone tra storia e archeologia: la città in età ellenistico-romana»; Giuseppe Parello, «Agrigentum. La città romana nelle fonti e nelle evidenze archeologiche»; Emanuele Greco,
«Thuri e Poseidonia diventano Copia e Paestum». 3 aprile: Federico Marazzi, «Città fra terra e cielo: San Vincenzo al Volturno e i grandi monasteri dell’Alto Medioevo»; Umberto Roberto, «Capitali d’Italia: Milano, Ravenna, Roma e l’imperatore»; Francesco Sirano, «Abitare ad Ercolano antica nel I sec. d.C. Viaggio sotto la cenere del Vesuvio». 8 maggio: Luciano Canfora, «Platone e la Kallipolis»; padre Giuseppe Caruso, «Una città in cielo. Agostino e il compimento della storia»; Francesca Ghedini, «La Roma di Ovidio: vissuta, sognata, rimpianta». Responsabile del progetto è Catia Fauci. Aggiornamenti e informazioni sono disponibili sul sito web del Teatro Argentina (www.teatrodiroma.net) e saranno anche pubblicati sui canali social di «Archeo», che è media partner dell’iniziativa. (red.)
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
I SEGNI DEL COMANDO Lo Speciale di questo numero è dedicato a «Power & Prestige», la mostra organizzata dalla «Fondazione Giancarlo Ligabue» a Venezia. Sono in esposizione per la prima volta in Italia e in Europa 126 «bastoni del comando»: mazze di straordinaria bellezza realizzate nel XVIII e XIX secolo dalle popolazioni aborigene dell’Oceania, tutte discendenti dai primissimi colonizzatori, il popolo «Lapita» (1), le cui prime tracce risalgono all’850 a.C. Abili navigatori, essi giunsero fino alle lontane isole di Tonga e Samoa, grazie alle speciali imbarcazioni con vele e bilancieri laterali (2), che consentirono lunghi viaggi di centinaia di chilometri in mare aperto. La mostra è incentrata sui «bastoni» solitamente intesi come armi (3, 4), ma forse mai usati a quello scopo, perché la loro foggia e il tipo di lavorazione non sembrano richiamare l’idea di uno strumento pensato per offendere; le armi vere, benché anch’esse opere d’arte, erano di ben altra foggia, come corti bastoni appuntiti (5) o di legno massiccio (6), accette (7), lance e scudi (8). Tornando ai «bastoni del comando», si tratta, quasi sempre, di eccezionali sculture in legno o pietra oppure osso di balena, realizzate soprattutto per servire come scettri cerimoniali (9) o per danze rituali (10). Ma l’arte dell’intaglio delle popolazioni australi non si è limitata a questi oggetti: ha realizzato anche magnifiche statuine di legno (11), coloratissimi scudi rituali (12) e una grande varietà di maschere, anch’esse rituali (13), senza trascurare le statuette lignee delle divinità locali, come il Tikis, entità dotata di una importante forza spirituale e simbolica, il Mana (14). Per concludere, è divertente rilevare come la tradizione dei 15 «bastoni di comando» quali simbolo di prestigio e autorità non sia esclusiva delle popolazioni locali del continente australe: basta vedere tutti i dipinti, le sculture e le foto ufficiali dei tanti regnanti raffigurati con uno scettro o altri simboli del potere. E allora, in chiusura, non si può non mostrare un francobollo emesso proprio dall’Australia, nel 1988, per la 34ª Conferenza Parlamentare del Commonwealth, ove gli scettri raffigurati non sono altro che l’evoluzione moderna dei «bastoni del comando» (15).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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RB AR I
Genserico e i Vandali invadono Roma, olio su tela di Karl Pavlovic Brjullov. 1833-1835. Mosca, Galleria Tretjakov.
L’ I M PE RO
RO DE M IB A A
LA NUOVA MONOGRAFIA DI ARCHEO
ROMA BARBARICA
Stranieri nel cuore dell’impero di Umberto Roberto
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a nuova Monografia di «Archeo» illustra uno degli aspetti che piú hanno caratterizzato la storia di Roma, vale a dire l’incontro/scontro con le genti straniere e con il vasto mosaico di popoli tradizionalmente etichettati come «barbari». L’obiettivo è puntato sui secoli dell’impero e della tarda antichità, nel corso dei quali il fenomeno fu particolarmente rilevante, ma non mancano riferimenti anche a fasi precedenti, come quelli che del resto si ritrovano in un celebre discorso tenuto dall’imperatore Claudio in senato, che a tutt’oggi è uno dei piú efficaci manifesti della politica estera romana. Al di là dei molti stereotipi negativi dettati dall’idea che il crollo dell’impero abbia avuto come unica causa la violenta irruzione sulla scena di popolazioni non romane, esiste una realtà – documentata dalle fonti e dall’archeologia – ben diversa e assai piú sfaccettata, in seno alla quale la pacifica convivenza ha a lungo costituito la cifra dominante del fenomeno. Poi, certo, ci furono anche momenti tragici, come in occasione dei ripetuti saccheggi di cui l’Urbe fu vittima, ma si tratta di eventi da collocare in un contesto di respiro ben piú ampio. Ed è questa l’operazione compiuta da Umberto Roberto, autore della Monografia, il quale ripercorre una fase storica cruciale avendo sempre come filo conduttore il tema del confronto fra culture diverse. Una trattazione di straordinario interesse, capace anche di cogliere quelli che dovettero essere i sentimenti dei protagonisti alle prese con un mondo che stava velocemente cambiando.
IN EDICOLA 24 a r c h e o
CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
BELLEZZA SENZA OSTACOLI SPOSTARSI FRA I MONUMENTI DELL’ACROPOLI DI ATENE È ORA PIÚ FACILE, GRAZIE ALLE NUOVE PASSERELLE CHE L’ATTRAVERSANO. L’INTERVENTO, PERÒ, HA SUSCITATO NON POCHE POLEMICHE: PER VERIFICARNE LA FONDATEZZA, ABBIAMO SPERIMENTATO PER VOI QUESTI «PERCORSI DELLA DISCORDIA»
A
ben cinque mesi dalla riapertura dei siti archeologici in Grecia, dopo l’ennesima chiusura imposta dalla pandemia, le polemiche non si sono ancora sopite. Dalla creazione di un gruppo Facebook che ha l’eloquente nome di «SOS Acropoli» agli appelli di archeologi e personalità varie, fino alle interviste e lettere di protesta, tanto si è scritto e detto a proposito della «cementificazione» dell’Acropoli di Atene. Il tutto amplificato dal clamore che solo
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delle foto postate ad arte sui social media possono fare. Pietra dello scandalo è il nuovo percorso per i visitatori sull’Acropoli, portato a termine durante l’inverno scorso e accusato di ricoprire di cemento la Rocca Sacra. Vi invito allora a seguirmi nella mia passeggiata su questa famigerata passerella in cemento, che ho voluto fare dopo aver sentito la voce di Manolis Korrès, l’architetto che, in qualità di Presidente della Commissione per il Restauro dei Monumenti
dell’Acropoli, ha proposto il progetto di questo percorso e ne ha seguito la realizzazione.
UNO SPIRITO VERSATILE A questo punto è d’obbligo una premessa. Korrès, ora professore emerito del Politecnico di Atene, ha dedicato una vita intera (oggi ha 73 anni) allo studio del Partenone e dell’Acropoli, tra i tanti altri argomenti, perché si tratta di uno spirito versatile. Gli interessi vastissimi e le conoscenze
Dida digendis poreic tem iust et qui dus eicat pratia dita que omnis nem videlessent aut ut volorat emporit iostia quiasintiur alitatem denimol orepero enihici dellat eicatur? Modi beribus aperior possimos reiciUcil et autectempos sunt illitas
enciclopediche, combinate a una genuina sete di apprendere, in totale autonomia, l’essenza piú profonda e la vera natura delle cose, ne fanno una personalità davvero unica. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo, non può non essere d’accordo sul fatto che, se al mondo c’è una persona che sente pienamente il fascino dell’Acropoli
e la conosce pietra per pietra (e l’espressione va in questo caso intesa in senso letterale!), è proprio Manolis Korrès. Il quale, sebbene lavori con impegno e passione sull’Acropoli da quasi cinquant’anni, ai tanti attacchi – scagliati a livello personale e spesso di natura puramente politica – ha preferito rispondere
In alto: Manolis Korrès (a destra) con l’archeologo Luigi Beschi (1930-2015), al cui lavoro l’architetto greco ha detto di essersi sempre ispirato. Sulle due pagine: immagini delle passerelle in cemento che percorrono l’Acropoli di Atene, agevolandone la fruizione anche da parte di persone con disabilità.
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In alto e nella pagina accanto, in basso: altre immagini delle passerelle, che ne evidenziano il rapporto rispetto al Partenone e l’effettivo spessore. Nella pagina accanto, in alto: la locandina del 7° Convegno sui Restauri dell’Acropoli, nel quale si è discusso dei futuri interventi sul sito. spendendo una buona parola per «l’inquietudine manifestata da alcuni cittadini premurosi». Cominciando dalla scelta del materiale impiegato, può essere forse utile ricordare che «il cemento è il materiale piú prossimo alla roccia dell’Acropoli», come ha dichiarato Korrès, il quale ha anche sottolineato la reversibilità di tutti gli interventi finora eseguiti. Tanto che i percorsi sui quali fino all’anno scorso si passeggiava sull’Acropoli erano… in cemento! Realizzati nel lontano 1976 dal valente architetto Ioannis Travlòs, erano ormai ridotti in uno stato talmente precario da rendere inutile e anzi pericoloso ogni tentativo di ripararli. Chiunque sia salito nell’ultimo decennio sull’Acropoli sarà scivolato almeno una volta, o avrà rischiato di farlo: gli incidenti erano ormai tornati ai livelli di molti anni fa e una barella era sempre pronta per ogni evenienza. Senza parlare di chi ha problemi di deambulazione e ha dovuto rinunciare del tutto alla visita. Un altro aspetto controverso è la larghezza del nuovo percorso: tutti ne abbiamo visto le foto, accuratamente scattate dal basso,
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per accentuare l’effetto dell’ampiezza. La larghezza attuale, però, supera di poco quella del percorso preesistente; inoltre, il criterio-guida è stata l’idea di riprodurre il flusso dei fedeli durante le processioni delle Panatenee, che convergevano sull’Acropoli attraversando i cinque intercolumni dei Propilei – ben meno di quanto sia permesso fare oggi. A questo asse del percorso, ne è stato aggiunto un secondo, che passa accanto all’Eretteo e funge da collegamento tra l’asse principale e l’ascensore per i disabili: quest’ultimo perfettamente funzionante, come dimostra il fatto che, per la prima volta dopo oltre vent’anni di frequentazione del sito, ho finalmente visto un visitatore in carrozzina girare in totale autonomia sull’Acropoli.
LA QUOTA ORIGINARIA C’è poi un altro aspetto che va sottolineato. Forse non tutti sanno che in età classica quasi tutta la superficie dell’Acropoli era ricoperta da strati, ben livellati, composti di argilla mista a ghiaia e calce, per la cui realizzazione la roccia era stata ribassata, in alcuni
punti, anche di 20 cm. Il percorso attuale permette di osservare i monumenti dell’Acropoli da un’altezza molto piú vicina, seppure ancora inferiore, a quella dell’età classica: di vederli, insomma, da una prospettiva piú simile a quella secondo la quale li avevano disegnati e immaginati gli architetti del V secolo a.C. E il nuovo percorso, infine, permette anche di proteggere dall’usura le fondazioni antiche lasciate ancora esposte dall’epoca della Megali Anaskafí, i «Grandi scavi» condotti negli anni 1885-1891. È forse arrivato il momento di scrollarci di dosso il mito della classicità greca, perfetta e pertanto irraggiungibile e quasi sacra, soprattutto se abbiamo a che fare con la spinosa questione della gestione del patrimonio culturale classico. La visione romantica di un’Acropoli per pochi eletti, da godere in esclusiva, fa a pugni con le migliaia di turisti che ogni mese desiderano visitarla (nel 2019 il sito ha registrato oltre 3 milioni e mezzo di visitatori); né la questione del turismo sostenibile va applicata alla sola Acropoli o risolta con un numero fisso di turisti (e quale, poi?). D’altra parte, in occasione delle processioni delle Panatenee, fin dall’età classica, attraverso i Propilei salivano all’Acropoli migliaia di fedeli festanti, mentre tutti i templi erano edifici vivi, oggetto di pellegrinaggio e di devozione, e l’intera superficie della Rocca Sacra era punteggiata di statue, iscrizioni, ex voto. La questione non finisce qui, anzi. Lo scorso febbraio l’organo del Ministero ellenico deputato a decidere in materia archeologica (KAS) ha approvato la proposta di ricostruire la scalinata marmorea di accesso all’Acropoli, che sostituirà l’attuale percorso (frutto di un progetto degli anni Venti del Novecento) e, oltre a risolvere problemi di circolazione dei
visitatori, restituirà integralmente una fase autentica della storia di questo santuario. La questione è stata ampiamente dibattuta, alla metà dello scorso novembre, in occasione del 7° Convegno per i Restauri sull’Acropoli. Come nel caso del nuovo percorso per i visitatori, ammetto in tutta franchezza di non aver sentito nemmeno in questa sede di
dibattito scientifico alcuna proposta alternativa circostanziata né piú concreta di un generico «si potrebbe fare altrimenti». E poi, per quanto riguarda la scalinata di accesso, si tratta (orrore!) di una fase del I secolo d.C.: di una scalinata, insomma, di epoca romana. La polemica è destinata a durare: che Zeus, o forse Giove, ce la mandi buona.
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CALENDARIO
Italia ROMA Raffaello e la Domus Aurea L’invenzione delle grottesche Domus Aurea fino al 07.01.22
I marmi Torlonia
Collezionare capolavori Musei Capitolini, Villa Caffarelli fino al 09.01.22
Misurare la terra
Un’epigrafe napoleonica dai Musei Vaticani al Mausoleo di Cecilia Metella Complesso di Capo di Bove-Mausoleo di Cecilia Metella fino al 09.01.22
Giacomo Boni
L’alba della modernità Foro Romano e Palatino fino al 30.04.22
Colori dei Romani
I mosaici dalle Collezioni Capitoline Centrale Montemartini fino al 15.06.22
CLASSE (RAVENNA) Classe e Ravenna al tempo di Dante Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio fino al 09.01.22
CORINALDO (ANCONA) Il tesoro ritrovato
La tomba del Principe di Corinaldo Pinacoteca Comunale C. Ridolfi fino al 30.01.22
FIRENZE A misura di bambino
Crescere nell’antica Roma Galleria degli Uffizi fino al 24.04.22
MANTOVA La città nascosta
Archeologia urbana a Mantova Museo Archeologico Nazionale fino al 30.01.22
MILANO Sotto il cielo di Nut
Egitto divino Civico Museo Archeologico fino all’08.05.22
NAPOLI Gladiatori
Museo Archeologico Nazionale fino al 18.04.22
Giocare a regola d’arte
Museo Archeologico Nazionale fino al 04.06.22
Sing Sing. Il corpo di Pompei Fotografie di Luigi Spina Museo Archeologico Nazionale fino al 30.06.22 (dal 21.01.22)
BOLOGNA Faïence-Faenza
RIETI Strada facendo
BRESCIA Palcoscenici Archeologici
SPOLETO (PG) Toccar con mano i Longobardi
CAMPELLO SUL CLITUNNO (PG) Trame Longobarde
TORINO Cipro
Dall’antico Egitto al contemporaneo Museo Civico Archeologico fino al 30.01.22
Interventi curatoriali di Francesco Vezzoli Parco Archeologico e Museo di Santa Giulia fino al 09.01.22
Tra Architettura e Tessuti Palazzo Casagrande fino al 20.02.22 30 a r c h e o
Il lungo viaggio del carro di Eretum Palazzo Dosi-Delfini fino al 09.01.22
Rocca Albornoz-Museo nazionale del ducato di Spoleto fino al 06.03.22
Crocevia delle Civiltà Musei Reali, Sale Chiablese fino al 09.01.22
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Gatti, falchi, anguille: i bronzi votivi per mummie animali Museo Egizio fino al 09.01.22
UDINE Antichi abitatori delle grotte in Friuli
Francia PARIGI Parigi-Atene
Castello, Museo Archeologico fino al 27.02.22
Nascita della Grecia moderna 1675-1919 Museo del Louvre fino al 07.02.22
VARESE La civiltà delle palafitte
Germania
L’Isolino Virginia e i laghi varesini tra 5600 e 900 a.C. Museo Civico Archeologico di Villa Mirabello fino al 04.09.22
FRANCOFORTE Leoni, sfingi, mani d’argento
Lo splendore immortale delle famiglie etrusche di Vulci Archäologische Museum fino al 10.04.22
VENEZIA Massimo Campigli e gli Etruschi Una pagana felicità ACP-Palazzo Franchetti fino al 16.01.22
Power & Prestige
Simboli del comando in Oceania Palazzo Franchetti fino al 13.03.22
Grecia ATENE Kallos
La bellezza assoluta Museo d’Arte Cicladica fino al 16.01.22
Regno Unito LONDRA Perú
Un viaggio nel tempo British Museum fino al 20.02.22
Venetia 1600
Nascite e rinascite Palazzo Ducale, Appartamento del Doge fino al 25.03.22
VERONA Vasi antichi
Museo Archeologico al Teatro Romano fino al 02.10.22
Svizzera BASILEA animalistico!
Animali e creature ibride nell’antichità Antikenmuseum fino al 19.06.22 a r c h e o 31
SCAVI • PYRGI
LA CITTÀ E IL MARE UN HUB COMMERCIALE DI RILIEVO INTERNAZIONALE CONOSCIUTO PERFINO NELLA LONTANA DELFI, UN SANTUARIO TRA I PIÚ IMPORTANTI DEL MEDITERRANEO FREQUENTATO ANCHE DA FENICI E GRECI: ECCO COME LE RECENTI INDAGINI ARCHEOLOGICHE RIVELANO LA STRAORDINARIA STORIA DI PYRGI, IL GRANDE PORTO DELLA METROPOLI ETRUSCA DI CERVETERI… di Laura M. Michetti, con la collaborazione di Alessandro Conti
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l Mediterraneo è stato nell’antichità un crocevia naturale di scambi, incontri e interazioni culturali. Gli Etruschi, con le metropoli costiere di Cerveteri, l’antica Caere, Tarquinia e Vulci (oggi nel Lazio settentrionale), Vetulonia e Populonia (nell’attuale Toscana), hanno esercitato per gran parte del I millennio a.C. un forte controllo politico ed economico sul Mar Tirreno e, grazie a un’accurata gestione
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del proprio hinterland, hanno plasmato un paesaggio tuttora fortemente distintivo della regione a nord di Roma. Le città etrusche, che sorgevano su ampi pianori a qualche chilometro dalla costa, controllavano il territorio attraverso un network di insediamenti collegati tra loro da complessi sistemi infrastrutturali e gestivano i contatti internazionali grazie a una serrata rete di approdi, porti ed em-
pori precocemente strutturati. Ciò ha favorito – molto in anticipo rispetto ad altre aree dell’Italia preromana – le relazioni con popoli di cultura e organizzazione economica e sociale diverse, predisponendo il rapporto, storicamente cruciale, tra Oriente e Occidente. Questo tipo di organizzazione, percepibile già agli inizi del I millennio a.C., è stabile dalla fine dell’VIII secolo e rimane costante almeno fino al III secolo
Via Caere-Pyrgi
Tratto urbano della via Caere-Pyrgi
Santuario Monumentale
Santuario Meridionale
Quartiere cerimoniale strada?
Via Glareata
Tempio A
Tempio B
In alto: planimetria generale del comprensorio archeologico di Pyrgi. Nella pagina accanto: il comprensorio archeologico di Pyrgi anche in una veduta aerea. A destra: antefissa a testa di Etiope facente parte della decorazione del tetto del Tempio B del Santuario Monumentale.
A sinistra: kylix attica a figure rosse, dal Vano A del quartiere «pubblico-cerimoniale». a r c h e o 33
SCAVI • PYRGI
a.C., quando le varie realtà urbane vengono progressivamente inglobate nel sistema politico romano. In questo quadro, Caere ha svolto con i suoi porti una funzione di primaria importanza quale hub commerciale di rilievo internazionale, grazie alla collocazione geografica sulla direttrice che portava verso le risorse minerarie dell’Etruria settentrionale. Un ruolo cosí rilevante da far guadagnare alla città il privilegio – caso unico per il
DALLA SCOPERTA AL «GRANDE SCAVO» La «Sapienza» Università di Roma ha da decenni investito grandi risorse nelle ricerche a Pyrgi del settore di Etruscologia del Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Lo scavo sistematico è iniziato il 28 maggio 1957 nella zona a sud del Castello di Santa Severa, con il colpo di piccone affidato da Massimo Pallottino (1909-1995) al senatore Raffaele Ciasca, nel campo arato dove, nel settembre dell’anno precedente, era stato scoperto un frammento dell’altorilievo in terracotta che decorava il Tempio A. È lo stesso Pallottino, fondatore della moderna etruscologia, a scrivere: «Quando l’Istituto di Etruscologia e di Antichità Italiche della Università di Roma chiese e ottenne, a partire dalla primavera del 1957, una concessione di scavo nella zona archeologica di Pyrgi, due motivi essenziali e chiarissimi si proponevano a giustificare la progettata impresa: in primo luogo l’aspirazione a svolgere un’attività di ricerca scientifica – non estranea ai compiti degli Istituti universitari – nel settore delle indagini archeologiche, e piú precisamente
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in un luogo la cui esplorazione, di notevole impegno tecnico, appariva connessa a un problema storico ben definito; secondariamente l’intento di favorire ancora una volta la collaborazione dell’Università con gli uffici delle Antichità e Belle Arti in vista del tirocinio dei giovani, vale a dire di un pressantissimo interesse comune» (da Notizie degli Scavi di Antichità XIII, 1959, p. 144).
Santuario Monumentale. Luglio 1964. Foto di gruppo all’indomani della scoperta delle lamine. In primo piano, da destra, Massimo Pallottino, Giovanni Colonna, Elena Di Paolo.
L’idea di fare dello scavo di Pyrgi anche una palestra nella quale formare gli studenti di archeologia è stata lungimirante: molti illustri archeologi italiani hanno mosso i primi passi su questo grande cantiere e ancora oggi gli scavi coinvolgono ogni anno studenti, dottorandi e specializzandi della «Sapienza» (e non solo) per i quali le attività sul campo rappresentano una formidabile esperienza didattica. La direzione scientifica della missione archeologica è passata nel 1981 a Giovanni Colonna (1981-2008), che fin dall’inizio aveva affiancato Pallottino nella conduzione delle attività, successivamente a Maria Paola Baglione (20092015) e a Laura Maria Michetti (dal 2016). Condotto sempre in collaborazione con la Soprintendenza competente, lo scavo è stato il primo in ordine cronologico dei «Grandi Scavi» dell’Ateneo romano, usufruendo in modo costante di un finanziamento dedicato alle ricerche di grande tradizione e rilevanza internazionale e nel 2021 è stato selezionato tra i migliori esempi nell’ambito delle attività di «Terza Missione» svolte dalla «Sapienza».
Artimino
Fiesole
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GLI OBIETTIVI DELLA RICERCA Gli scavi condotti a Pyrgi (Santa Severa, Roma) a partire dal 1957 dalla «Sapienza» Università di Roma, sempre in stretta collaborazione con la Soprintendenza archeologica competente, rientrano tra i piú antichi e illustri «Grandi Scavi» dell’Ateneo romano (vedi box alla pagina precedente) e hanno portato alla luce uno dei santuari piú importanti del Mediterraneo, ubicato presso il porto della grande città etrusca di Caere. Negli ultimi anni le ricerche
Marinella, Roma), la cui costruzione ha parzialmente inglobato i resti del porto di Pyrgi, in parte affioranti nelle acque antistanti. In basso: planimetria generale del comprensorio archeologico di Pyrgi e del Castello di Santa Severa.
Pisa
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comparto etrusco-tirrenico – di A destra: mappa erigere un piccolo edificio sacro dell’Etruria, con il (thesaurós) nel santuario panellenico sito di Pyrgi in di Delfi. Ma la città vanta anche un evidenza. forte legame con Roma, tanto da Nella pagina essere prescelta come luogo adatto accanto, in alto: il all’educazione dei rampolli della Castello di Santa nobiltà romana (Livio IX, 36). Severa (Santa
Blera
Gravisca
Pyrgi
Sutri Falerii
Veio
Vei
Cerveteri Kaisra
Roma
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SCAVI • PYRGI
della «Sapienza» si sono indirizzate anche sulla definizione dell’assetto urbanistico dell’antico insediamento e stanno interessando, in particolare, un quartiere di carattere pubblico, che accolse attività di tipo economico, amministrativo, doganale e di rappresentanza in relazione con il porto a partire almeno dalla metà del VI secolo a.C. Il ruolo di primo piano svolto da Caere nel controllo delle rotte tirreniche è attestato dai vari scali portuali lungo la costa, tra i quali spicca, appunto, quello di Pyrgi, collegato alla città madre da una grande arteria, la via Caere-Pyrgi, lunga circa 13 km e larga 10 m e paragonabile a quella che portava da Atene al Pireo. Non conosciamo il nome etrusco della località, ma solo quello greco, Pyrgoi (torri), forse collegato con l’etnico Tyrsenoi/Tyrrhenoi con il quale i Greci chiamavano gli Etruschi, gli «abi-
tatori di torri» (Dionigi di Alicarnasso I, 30, 2), in sintonia con la fama di pirati in agguato sulle coste. Grazie alle caratteristiche ambientali particolarmente favorevoli, nel VI secolo a.C. Pyrgi diviene il porto principale di Caere, sede della sua flotta navale, dotato di almeno due distinti bacini di attracco e di un complesso sacro la cui collocazione «epitalassica», come proiezione sul mare della città, non trova confron-
ti monumentali né in Etruria né altrove nel mondo antico. Nella prima metà del III secolo a.C., con la romanizzazione del territorio, viene fondata la colonia maritima, di dimensioni molto inferiori rispetto all’abitato etrusco, delimitata da poderose mura poligonali, tuttora visibili e in parte inglobate nella struttura del Castello di Santa Severa. Gli scavi hanno rivelato l’ubicazione esatta del porto e di uno dei santua-
Il santuario in epoca etrusca 1. Santuario Meridionale 2. Via Caere-Pyrgi 3. Edificio delle «Venti Celle» 4. Tempio B 5. Area C 6. Tempio A 7. Quartiere «pubblico-cerimoniale»
1 Sulle due pagine: ricostruzione del comprensorio archeologico di Pyrgi, cosí come doveva apparire all’epoca della sua frequentazione.
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A sinistra: gli studenti della «Sapienza» durante la campagna di scavo del 2021. Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione 3D del Tempio B del Santuario Monumentale. In basso, a destra: ricostruzione 3D del Tempio A del Santuario Monumentale.
A destra: Giornata di Archeologia pubblica del 28 settembre 2021: la visita all’area archeologica condotta da Laura M. Michetti, direttrice dello scavo, con la partecipazione della Rettrice della «Sapienza» Antonella Polimeni.
ri piú rilevanti d’Etruria e tra i pochissimi ricordati dalle fonti antiche (vedi box a p. 40) che, oltre ad attribuirlo alla dea Ilizia-Leucothea, ne ricordano la fondazione mitica a opera dei Pelasgi e il saccheggio compiuto dal tiranno Dionigi I, il quale, nel 384 a.C., si sarebbe mosso appositamente da Siracusa attirato dai tesori custoditi al suo interno, con il pretesto di combattere la pirateria degli Etruschi. Un luogo dal carattere multietnico, frequentato da Etruschi, Greci e Fenici, come testimoniano anche le celebri lamine d’oro con iscrizione bilingue in
etrusco e in fenicio (vedi box alle pp. 38-39) esposte nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma (vedi box alle pp. 54-55). Il complesso santuariale comprende due diverse aree separate da un fossato che convogliava verso mare l’acqua di una sorgente perenne sgorgante nell’immediato entroterra.Tale sorgente giustifica la frequentazione del sito già dal Neolitico ed è presupposto del suo ruolo di approdo internazionale assunto all’epoca della massima fioritura di Caere. Le due aree sacre, che si susseguono lungo la costa con un’estensione
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SCAVI • PYRGI
ERA DI LUGLIO... Le tre lamine d’oro furono scoperte l’8 luglio 1964 durante la VII campagna di scavo: accuratamente avvolte, apparvero collocate l’una accanto all’altra in un ripostiglio appositamente realizzato nel III secolo a.C. nel recinto sacro C con materiali di spoglio del vicino tempio. Tolte dalla terra e sommariamente ripulite, si poté subito osservare che le lamine erano iscritte. Consegnate da Massimo Pallottino al Soprintendente Mario Moretti, furono affidate all’Istituto Centrale del Restauro: qui, il 13 luglio, furono srotolate con il rinvenimento all’interno dei chiodini in bronzo con capocchia in lamina d’oro con i quali erano state affisse a uno
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A destra: ricostruzione grafica della porta del Tempio B con le lamine affisse. In basso: le tre lamine d’oro, con iscrizioni in etrusco e in fenicio.
degli stipiti della porta del tempio. La notizia della scoperta ebbe immediatamente un’enorme eco sulla stampa, al punto da far scrivere a Sabatino Moscati in un articolo sul Messaggero del 20 luglio: «Questa è la storia di una
delle piú grandi scoperte archeologiche del nostro secolo. È una storia non passata, ma presente, viva, vicinissima: una storia che stiamo vivendo giorno per giorno, anzi ora per ora…». Con tempi da record, nel novembre dello stesso
anno, la relazione preliminare sulla scoperta apparve nella rivista Archeologia Classica, allora diretta dallo stesso Pallottino, che firmò la pubblicazione insieme a Giovanni Garbini, Licia Vlad Borrelli e Giovanni Colonna.
Detriti di tufo
450 a.C.
a
p
complessiva di oltre 12 000 mq, si presentano completamente diverse sul piano della monumentalità, dei culti praticati, e della frequentazione. L’ampiezza, molto superiore a quella delle aree sacre urbane e suburbane di Caere, avvicina quello di Pyrgi ai grandi santuari extraurbani del mondo greco.
IL SANTUARIO MONUMENTALE La vita dell’area sacra piú monumentale inizia almeno alla metà del VI secolo a.C. in un settore margi-
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In alto: assonometria e sezioni della «vasca» del Santuario Monumentale, situata nell’area C e realizzata con materiali di spoglio del Tempio B; qui furono rinvenute le lamine d’oro. A destra: planimetria del Santuario Monumentale intorno al 450 a.C.
Area C Tempio B Tempio A
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SCAVI • PYRGI
IL SACCHEGGIO DEL SANTUARIO Il saccheggio di Pyrgi da parte di Dionigi di Siracusa (384 a.C.) è citato da piú autori antichi. Riportiamo, qui di seguito, alcuni dei passi piú significativi. 1. Pseudo-Aristotele: «[Dionigi] avendo fatto rotta verso la Tirrenia con cento navi, prelevò dal santuario di Leucothea sia oro che argento in grande quantità e il restante ornamento di non poco valore» (Oecon., II, 2, 20i). 2. Diodoro: «Dionigi, avendo bisogno di ricchezze, navigò alla volta della Tirrenia con sessanta navi al seguito, adducendo come pretesto l’abbattimento della pirateria, in realtà con l’intenzione di depredare un santuario venerando, ricco di molte offerte votive, eretto nel porto della città di Agylla tirrenica; il porto era chiamato Pyrgi. Avendo navigato di notte e fatto sbarcare l’esercito, assalí sul fare del giorno e vinse l’attacco, essendo insufficienti le guardie del posto le oppresse, depredò il santuario e raccolse non meno di 1000 talenti. Essendo gli Agyllei giunti in aiuto li
nale dell’abitato in corrispondenza del punto di arrivo della via che collegava la città con il suo principale approdo. Alla sua prima fase di frequentazione sono riferibili uno o piú edifici, non ancora rintracciati sul terreno, decorati da antefisse a testa femminile e lastre con scene di armati. Solo alla fine del VI secolo a.C., tuttavia, si assiste all’avvio di un ambizioso programma edilizio e del trasporto dall’entroterra di una enorme quantità di blocchi di tufo rosso, cavato nei dintorni di Caere, per realizzare le fondazioni templari. Preziosa è la testimonianza fornita dalle tre lamine d’oro originariamente affisse sugli stipiti della porta del Tempio B (vedi disegno e foto a p. 38), il piú antico dei due edifici sacri rinvenuti: iscritte con due testi in etrusco e uno in fenicio, menzionano la dedica dell’area sacra da parte di Thefarie Velianas, re-tiranno di Caere e promotore del progetto di monumentalizzazione, ricordandone la divinità titolare Uni, assimilata alla dea fenicia Astarte. Le lamine, oltre a darci informazioni sulla 40 a r c h e o
sconfisse in battaglia dopo aver catturato molti prigionieri e saccheggiato la regione fece ritorno a Siracusa. Dopo la vendita del bottino mise insieme non meno di 500 talenti» (XV, 14, 3). 3. Strabone: «A una distanza di poco inferiore di 180 stadi da Gravisca in direzione di Pyrgi, si trova il porto dei ceriti, situato a 30 stadi (scil. da Caere). Vi è un santuario di Eilithyia, fondazione dei Pelasgi divenuto un tempo ricco; lo depredò Dionigi, tiranno di Siracusa, durante la navigazione verso la costa» (V, 2, 8). 4. Polieno: «Dionigi avendo navigato verso la Tirrenia con 100 navi atte al trasporto della cavalleria, giunse al santuario di Leucothea e, dopo essersi impadronito di 500 talenti in moneta immediatamente fece ritorno indietro» (Strateg. V, 2, 21). 5. Claudio Eliano: «Qui [Dionigi] avendo navigato alla volta dei Tirreni saccheggiò tutto il tesoro di Apollo e Leucothea, e ordinò di portar via la tavola argentea, imbandita in onore di Apollo» (Var. Hist. 1, 20).
fondazione del santuario e sull’identità del personaggio che deteneva il potere in città, grazie a esse entrato nella storia, costituiscono un documento eccezionale sui rapporti tra Etruschi e Cartaginesi, sulla posizione egemone di Caere negli equilibri politici e commerciali del Mediterraneo e sul ruolo di Pyrgi come avamposto strategico.
ERACLE E LE SUE FATICHE Intorno al 510 a.C., dunque, il Tempio B viene edificato al centro di un’area sacra murata accessibile tramite un portale monumentale a tre fornici. Si tratta di una struttura a pianta ellenizzante su un basso podio, con una sola cella circondata da un colonnato. Il suo apparato decorativo è il risultato di un progetto del tutto originale: a eccezione delle antefisse a testa femminile, che mostrano forse proprio la dea Uni/ Astarte, affiancata da teste di satiro e di Etiope (vedi foto a p. 33, in alto), il programma narrativo è incentrato sulla figura di Eracle, protagonista dei quadri ad altorilievo che rive-
stono le testate delle travi del tetto e degli acroteri collocati sulla sommità.Tra le «fatiche» dell’eroe, sono rappresentate l’uccisione dell’Idra di Lerna, la vittoria sulle cavalle antropofaghe di Diomede, la lotta
con il leone nemeo, la cattura di Cerbero, la lotta con Gerione, la conquista della cintura di Ippolita. L’apoteosi dell’eroe è invece celebrata sul culmine del tetto, con le due statue in terracotta che lo ritraggono affiancato da Era. Sul lato nord, tra il muro di recinzione (témenos) e il tempio, è un piccolo recinto (area C), con un pozzo per attingere acqua, un altare forato per libagioni destinate a culti ctoni e un secondo altare da fuoco in peperino. Proprio in questo luogo sono state rinvenute le tre lamine d’oro e una quarta di bronzo iscritta in etrusco, che ci informa che il titolare del culto dell’area C era Tinia nel suo aspetto infero.
Nella pagina accanto: ricostruzione grafica della coppia di statue acroteriali raffiguranti Eracle e la dea Uni, e della loro posizione sul tetto del Tempio B del Santuario Monumentale.
In alto: terracotta raffigurante un giovane cavaliere dalle lunghe trecce, dalla decorazione della facciata del Tempio B del Santuario Monumentale. A sinistra: ricostruzione grafica della sua collocazione nel frontone.
LA PROSTITUZIONE SACRA Il tempio è affiancato sul lato opposto da un edificio composto da una ventina di celle in sequenza precedute da altari, forse il luogo in cui si svolgeva la pratica della prostituzione sacra ricordata dalle fonti letterarie. Servio, nel suo commento all’Eneide (X, 184), parla infatti di «Pyrgi antica: questa cittadella era molto nota nel periodo in cui gli Etruschi esercitavano la pirateria; in quel tempo era una metropoli (…) In relazione alla località Lucilio ricorda le prostitute pyrgensi». Il tetto di questa struttura è decorato con figure in terracotta di Eracle e Uni tra cavalli rampanti e personaggi isolati di natura divina che richiamano il percorso della luce dall’aurora alla notte. Con la costruzione del Tempio A, verso il 460 a.C., il santuario riceve un nuovo assetto, con l’ampliamento dell’area sacra e l’estensione del muro di recinzione verso nord, la monumentalizzazione del tratto terminale della via Caere-Pyrgi e la creazione di un imponente ingresso. Il nuovo tempio si presenta piú grande e diverso dal precedente: di tipo «tuscanico», secondo la definizione dell’architetto Vitruvio (I secolo a.C.), su un alto podio, accessia r c h e o 41
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bile solo dal lato anteriore, a tre celle con colonne sulla fronte e due pozzi sulla terrazza antistante. Alla decorazione del tetto appartiene l’eccezionale altorilievo con il mito dei Sette a Tebe, considerato uno dei capolavori dell’arte di tutti i tempi, originariamente inchiodato alla testata della trave di colmo sulla fronte posteriore dell’edificio (vedi box e foto in queste pagine e a p. 55). L’altorilievo è una preziosa testimonianza della diffusione del mito greco in Etruria, ma anche del suo utilizzo in chiave propagandistica da parte del nuovo regime politico che governa a Caere. Attraverso la scelta 42 a r c h e o
della saga, divulgata negli stessi anni ad Atene dalle opere dei tragediografi, si trasmette un monito morale nei confronti della superbia umana e, indirettamente, della temeraria condotta del tiranno Thefarie Velianas. La collocazione rende ben visibile l’altorilievo da quanti arrivano alla costa dalla città, percorrendo la strada di collegamento tra Caere e Pyrgi. Interamente perduta è l’originaria decorazione ad altorilievo della fronte anteriore, mentre frammenti di terrecotte rinvenuti nei due pozzi della terrazza templare indicano almeno due rifacimenti, entrambi con Eracle come protago-
nista. Nel tardo V secolo a.C. è presente il tema dell’amazzonomachia, mentre, intorno alla metà del IV secolo a.C., viene messo in opera un altorilievo di ispirazione prassitelica, con Eracle in riposo e una figura femminile di cui rimane la splendida testa con aria inquieta (vedi foto a p. 45, in alto), affiancata da un giovinetto a torso nudo: vi è stata riconosciuta la scena dell’arrivo in Occidente di Ino/Leucothea con il figlio Melicerte/Palemone e del loro accoglimento da parte di Eracle nel santuario di Pyrgi. Nel III secolo a.C., all’epoca della fondazione della colonia maritima
I Sette contro Tebe L’altorilievo in terracotta policroma dal Tempio A ha per tema il mito dei Sette a Tebe e narra la tragica fine di Tideo e Capaneo. In basso e in primo piano Tideo e Melanippo soccombono a terra dopo essersi feriti mortalmente; in alto a sinistra Atena, che reca l’ampolla con il farmaco per l’immortalità ottenuto da Zeus e destinato a Tideo, si ritrae disgustata, accorgendosi che questi sta per azzannare il capo del nemico in un empio gesto di cannibalismo (l’episodio, narrato dal poeta latino Stazio, ha ispirato Dante per la storia del conte Ugolino). In secondo piano, Zeus scaglia il fulmine contro Capaneo, colpevole di avere scalato le mura alla porta di Elettra, difesa dal tebano Polifonte.
A sinistra: ricostruzione grafica dell’edificio detto delle «Venti Celle», nel Santuario Monumentale. È possibile che la struttura fosse adibita alla pratica della prostituzione sacra ricordata dalle fonti letterarie.
romana, gli edifici templari sono stati oggetto di uno smantellamento rituale e il culto è proseguito all’aperto.
IL SANTUARIO MERIDIONALE Il secondo santuario è stato scoperto nel 1983 nella fascia a sud del santuario di Uni e Leucothea, sulla base delle tracce emerse dalla proa r c h e o 43
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spezione magnetometrica eseguita negli anni Sessanta del Novecento dalla Fondazione Lerici. A differenza di quella monumentale, questa area sacra si caratterizza per l’assenza di grandi edifici di culto, sostituiti da diversi tipi di altari e sacelli, realizzati con tecniche edilizie e materiale costruttivo analoghi a quelli delle locali case di abitazione, e distribuiti senza un apparente piano di sviluppo preordinato.
A destra: testa dell’altorilievo raffigurante Leucothea, dea dell’Aurora, che fa parte della decorazione della fronte del Tempio A nel IV sec. In basso: planimetria e sezioni dei pozzi individuati nella terrazza antistante il Tempio A del Santuario Monumentale. I frammenti di terrecotte rinvenuti al loro interno provano che il tempio è stato oggetto di almeno due rifacimenti.
Pozzo Ovest
TEMPIO A POZZI
peperino
dolio segato Pozzo Sud
livelli (tagli) di scavo
livello acqua
livello acqua
A
B monete
calcare organogeno
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argilla grigia
orli di dolii
In basso: altorilievo raffigurante Eracle, facente parte della decorazione della fronte del Tempio A nel IV sec.
Pozzo Sud
A sinistra: planimetria del Tempio A del Santuario Monumentale con l’indicazione dei due pozzi antistanti. In basso: planimetria generale del santuario dedicato a Suri e Cavatha, scoperto a sud del Santuario Monumentale.
Pozzo Ovest
L’area è delimitata da rigagnoli e bassure, inserendosi in una cornice ambientale fortemente dominata dalla presenza di acqua corrente e stagnante. A questo tipo di ambientazione si collega la decorazione della piú antica struttura, il sacello Beta (b; 530-520 a.C.), decorato sul tetto da acroteri a busto di Acheloo, divinità fluviale con testa umana e corna, orecchie e corpo taurino (vedi foto a p. 47, in basso), e antefisse a testa femminile, forse rappresentanti le Ninfe. Negli anni intorno al 500 a.C. si colloca un intervento rituale di definizione dell’area, culminato con la costruzione del recinto Tau (t ) che racchiude lo spazio consacrato, intorno al quale si distribuiscono tutti gli interventi successivi (vedi planimetria qui accanto). Il peculiare assetto planimetrico di questo santuario, i rituali, la deposizione di offerte ceramiche e metalliche in fosse, teche e altre sistemazioni suggeriscono la pratica di culti misterici e demetriaci, dei quali Pyrgi offre il piú antico ed elaborato esempio in Etruria. La fondazione
di alcuni degli altari è marcata da depositi votivi ricchissimi di vasi greci dedicati al culto della coppia divina, attestata dalle iscrizioni etrusche, di Cavatha (assimilabile alla greca Kore-Persefone) e Sur/Suri, identificabile con un Apollo infero
e collegabile al racconto delle fonti sull’asportazione da parte di Dionigi di Siracusa di un altare di argento dedicato al dio, nel corso del saccheggio di Pyrgi. Molto significativo il nome Sur, che significa «il Nero» con riferimento alla connotazione infera del dio, che riceve come offerta il piombo fuso o in lingotti.
RITI CODIFICATI La fondazione dell’area sacra è sancita dal deposito votivo Rho (r; vedi box alle pp. 46-47), costituito da vasi prevalentemente importati dall’Attica, collocati all’interno di una buca circolare, sigillata da pietre e argilla. Lo scavo ha permesso di ricostruire le diverse fasi di deposizione dei materiali, avvenute seguendo una rigorosa prassi cerimoniale. Nella prima metà delV secolo a.C. la fascia meridionale del santuario ospita il singolare altare sacrificale Lambda (l), un apprestamento a tamburo cilindrico preceduto da una rampa, che trova qualche confronto solo in ambito funerario. La valenza ctonia è sottolineata dalla presenza di lingotti di piombo (vedi foto a p. 48, in basso) che rivestono la funzione di
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LO SPAZIO SACRO E I DEPOSITI VOTIVI Nel santuario di Suri e Cavatha, il deposito votivo Rho rappresenta un intervento di sacralizzazione dello spazio sacro racchiuso dal recinto Tau, attuato intorno al 500 a.C. collocando 44 vasi di importazione, in prevalenza attici a figure nere, e due diversi monili all’interno di una buca ben sigillata da un livello di ciottoli. La deposizione dei vasi è avvenuta seguendo una rigorosa prassi cerimoniale, che ha preso avvio con la sistemazione, in posizione centrale e assetto verticale, di un’anfora contenente al suo interno una collana di grani di pasta vitrea alternati a pendenti in forma di ghianda e di guscio di tartaruga. L’azione è proseguita in movimento rotatorio disponendo i vasi, selezionati e suddivisi per forme funzionali, su tre diversi livelli in giacitura
prevalentemente orizzontale: vasi per bere e contenitori legati al mondo femminile nel livello inferiore; vasi per versare e contenitori per oli profumati in quello intermedio; vasi per contenere liquidi nel livello superiore. La circolarità della buca e la sequenza rotatoria degli atti compiuti, l’esaltazione della componente femminile mediante la selezione degli oggetti e di quella infera attraverso le offerte fatte colare nel
Livello inferiore
A sinistra e in alto, a sinistra: anfora attica collocata al centro della fossa e collana con pendenti in argento dal deposito Rho del Santuario di Suri e Cavatha. Nella pagina accanto, in basso: acroterio in terracotta a busto di Acheloo e ricostruzione grafica della sua posizione nella decorazione del sacello Beta del Santuario di Suri e Cavatha. 46 a r c h e o
offerta di fondazione e rappresentano anche il modo con il quale, sotto la protezione della divinità, si custodiscono le riserve di metallo. Anche in questo caso, l’altare è in rapporto con un deposito votivo, denominato Kappa (k; 480-470 a.C.), composto da diversi gruppi di offerte, che comprendono oggetti e vasellame in bronzo, vasi di importazione e di produzione locale, votati alla coppia di divinità titolari del santuario. L’abbondante presenza, nei depositi votivi, di oggetti di importazione testimonia la frequentazione dell’area da parte di mercanti stranieri ed evidenzia il ruolo di Pyrgi come «porta» del mare etrusco sotto il controllo della città di Caere, caratterizzata da una spiccata apertura ai contatti internazionali. Alla metà del secolo, all’angolo sud-ovest del santuario viene eretto l’edificio
Livello superiore
Livello intermedio
A sinistra, a destra e nella pagina accanto, a destra: le principali categorie di ceramiche rinvenute nei tre livelli del deposito Rho nel Santuario di Suri e Cavatha.
sottosuolo e la scelta della tartaruga conferiscono al contesto votivo una forte connotazione demetriaca. Il deposito Rho è segnalato da un altare (Ni), costituito da un disco di arenaria evocante il disco solare, in
Gamma (g), provvisto di un tetto di tipo campano, preceduto da un altare da fuoco con annesso contenitore votivo (Epsilon, e). In un’epoca successiva al saccheggio dionigiano, la fascia meridionale del santuario viene abbandonata e sigillata ritualmente e la frequen-
probabile collegamento con il culto della dea ctonia Cavatha, alla cui alterna accezione solare si riferisce la devozione per Sol Iuvans, documentata epigraficamente nella colonia romana di Pyrgi.
tazione si sposta nel settore settentrionale, con la creazione di un nuovo piazzale, ai cui estremi sono situati l’edificio quadrangolare Alpha (a) e l’edicola Pi (p) in origine adorna di statue votive. Smantellato il recinto Tau, il limite del santuario sul
lato dell’entroterra viene marcato da una serie di altari in pietre, come quello denominato Zeta (z). Nei diversi strati di accumulo realizzati allo scopo di livellare e drenare il terreno, è stata utilizzata anche una grande quantità di reperti significativi delle modalità e degli aspetti del culto: vasellame importato, ceramiche locali, gioielli in oro e argento (vedi foto a p. 48, in alto), ar mi in fer ro e bronzo, pani e grumi di bronzo e piombo con valore premonetale. Numerosi i vasi con iscrizioni di dedica in lingua etrusca e greca, menzionanti le divinità venerate nell’area: oltre alla coppia di Cavatha e Suri, sono attestati i noa r c h e o 47
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mi di Hercle, Menerva, Fufluns (Dioniso) e della greca Demetra. Come nel Santuario Monumentale, anche qui, scoperchiati e smantellati gli edifici, nel III secolo a.C. la frequentazione del santuario prosegue a cielo aperto con la deposizione di monete e ceramiche a vernice nera in recinti o buche scavate nel terreno, come la cosiddetta fossa Omicron (o).
pia insenatura, l’abitato di Pyrgi è caratter izzato da un impianto regolare nel quale la via CaerePyrgi costituisce un limite della maglia stradale, in un’organizzazione degli spazi che vede il santuario parte integrante di un piano urbanistico complessivo. A nord del Santuario Monumentale, è attualmente in corso I NUOVI SCAVI Fondato alla fine del VII secolo di scavo un complesso di edifici. a.C. in corrispondenza di un’am- La vicinanza con l’area sacra, la
In questa pagina: reperti provenienti dal Santuario di Suri e Cavatha: oreficerie e, in basso, lingotti in piombo (dall’altare Lambda).
rilevanza e le caratteristiche funzionali delle strutture, le tracce di pratiche rituali suggeriscono di interpretare questo settore come un quartiere «pubblico-cerimoniale» che ha svolto funzioni amministrative e di rappresentanza in relazione al porto a partire almeno dalla metà del VI secolo a.C. Strutture caratterizzate da orientamenti e tecniche costruttive diversi – in alcune si conservano ancora muri in mattoni crudi – sono l’esito della sovrapposizione di piú fasi edilizie a partire da un periodo precedente la fase di monumentalizzazione del santuario. I piú antichi livelli di frequentazione appartengono all’epoca della fondazione dell’abitato. Intorno al 500 a.C. viene impiantato un edificio in opera quadrata di tufo a pianta trapezoidale, per il quale è stata proposta la funzione pubblica di «casa-torre», considerate la sua posizione accanto a un varco di ingresso e l’eccezionale offerta di fondazione costituita dalla deposizione di un cane fatto a pezzi ritualmente. Significativo anche il rinvenimento di una grossa pietra Nella pagina accanto, in alto: planimetria dell’altare Lambda (l) del Santuario di Suri e Cavatha (vedi anche a p. 45, in basso). I cerchielli in colore blu scuro indicano la posizione dei lingotti di piombo. 48 a r c h e o
basaltica, inseribile in una categoria di cippi aniconici di colore scuro legati a culti di carattere infero e associati alla figura del dio Suri venerato nel Santuario Meridionale. Atti rituali si sono svolti anche nel vicino vano A, dove è incassato un pozzetto tronco-conico in tufo contenente strati di
bruciato, frammenti di un’olla di impasto con coperchio, chiodini di ferro con capocchia in lamina bronzea, un piccolo lingotto in piombo e una mandibola di suino. Sul piano pavimentale relativo a una delle fasi piú recenti dell’ambiente sono state trovate punte di freccia in bronzo e, deposta con
l’imboccatura verso l’alto, una kylix attica a figure rosse (vedi foto a p. 33, in basso). Una delle traverse della via CaerePyrgi separa questo isolato da un altro occupato da una grande struttura palaziale con portico, che, nelle sue diverse fasi di vita, deve aver avuto una funzione pubblica e di
A destra e qui sotto: i resti di un cane e la ricostruzione dei distretti ossei rinvenuti; l’animale è stato fatto a pezzi e deposto nell’«Edificio in opera quadrata» del quartiere «pubblicocerimoniale».
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rappresentanza, come dimostrano non solo la quantità e la qualità di terrecotte dipinte pertinenti a diversi sistemi decorativi dei tetti, ma anche la deposizione di elementi peculiari, come cinque lucerne di produzione cartaginese e un enorme dolio, rinvenuto schiacciato sul
pavimento. Altri atti rituali sono da mettere in relazione con le ristrutturazioni subite dal complesso. Per esempio, una fossa situata nell’angolo di uno dei vani del complesso accoglieva una selezione di oggetti allusivi alle diverse sfere del mondo femminile: dalla tessitura,
rappresentata da decine di pesi da telaio, alla preparazione e cottura del cibo, indiziate da olle e ciotole di impasto, alla salvaguardia del fuoco per il riscaldamento della casa, a cui rinvia un bel braciere ceretano decorato a cilindretto, uno dei pochissimi esemplari a
INSIEME PER LA VALORIZZAZIONE Santa Severa costituisce il luogo simbolo di quanto di lungimirante sia stato fatto nel tempo, salvandola dall’aggressione del cemento tramite l’apposizione di vincoli archeologici, monumentali e naturalistici (il sito è Monumento Naturale della Regione Lazio, proprietaria delle aree; vedi box a p. 52). Grazie agli scavi sistematici condotti dalla cattedra di Etruscologia della «Sapienza» Università di Roma, sono state riportate alla luce parte dell’antica città di Pyrgi e il suo celeberrimo complesso sacro. Fin dagli anni Settanta il piccolo Antiquarium statale ha raccolto un’ampia documentazione dello scavo, esponendo una scelta dei materiali. In questi ultimi anni la Soprintendenza per la provincia di Viterbo e per l’Etruria meridionale si sta facendo promotrice di importanti interventi di valorizzazione. In particolare, è in fieri un progetto di recupero e valorizzazione della zona del Santuario, con uno studio di ingegneria naturalistica che punta all’attivazione dell’esistente sistema di fossi, per drenare ed evitare gli allagamenti dannosi per la conservazione dei resti, ma che non interferisca con il delicato ecosistema della limitrofa Riserva Naturale di Macchiatonda. Nel progettare gli interventi si è prestata particolare attenzione a garantire l’accessibilità dell’area anche a persone con disabilità motorie, grazie alla posa in opera di specifiche pedane e passerelle (vedi il rendering in questa pagina). Il progetto di visita all’area archeologica si inserisce
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in un’operazione piú ampia che ha previsto anche il miglioramento per la fruizione dei depositi archeologici, che saranno corredati di centro visita, sala studio e laboratorio di restauro, per poi finalizzarsi con l’allestimento del nuovo Antiquarium all’interno della cosidetta «Manica Lunga» del Castello. Nel nuovo allestimento saranno ampiamente illustrati gli straordinari rivestimenti in terracotta policroma dei due templi e dei diversi sacelli ed esposti per la prima volta nel loro insieme i numerosi reperti votivi rinvenuti: statue in terracotta rappresentanti gli offerenti, come quella, di dimensioni reali, di una donna che reca in dono un porcellino (vedi foto a p. 63), vasi greci dalle forme peculiari, rarissimi in Etruria, offerte di frutti di mare rinvenuti eccezionalmente intatti all’interno di recipienti in ceramica, ornamenti in oro, argento e ambra, doni prediletti per le divinità femminili. Molto ampio è il repertorio delle offerte metalliche, specie in piombo: pesanti barre, ceppi d’àncora, lingotti, proiettili a forma di «ghianda» e centinaia di colature di metallo fuso, che rappresentano l’offerta principale per Suri, il dio «Nero». Stato, Regione Lazio e «Sapienza» sono dunque uniti nell’obiettivo di rendere Pyrgi un luogo simbolo di rinascita, sostenendo in ogni modo la valorizzazione, la conservazione e la fruizione del patrimonio culturale, paesaggistico e naturalistico. Rossella Zaccagnini
Il quartiere «pubblico-cerimoniale» in corso di scavo e, in basso, la planimetria delle strutture a oggi rinvenute.
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PROTEZIONE A 360 GRADI Il territorio laziale compreso tra la Riserva Naturale Regionale Macchiatonda, il Castello di Santa Severa, Pyrgi e l’omonimo Monumento Naturale è l’unico segmento di paesaggio conservato nel quale apprezzare senza soluzione di continuità tutto lo sviluppo dalla fascia litoranea ai rilievi. All’interno del Monumento Naturale, istituito nel 2017 ed esteso per poco piú di sessanta ettari, è interamente ricompreso il sito archeologico. Il complesso MN Pyrgi-RN Macchiatonda è caratterizzato da un puzzle ecosistemico che vede alternarsi zone umide fondamentali aventi funzione di stepping stone per gli uccelli. Lungo la costa tirrenica, l’attuale rarefazione e frammentazione di simili habitat rende tali aree insostituibili per la sosta e l’alimentazione di questa componente faunistica, per cui la loro tutela appare irrinunciabile. Anche gli ambienti rurali che prevalgono soprattutto nel MN Pyrgi rivestono un’importante funzione attrattiva per molte specie, soprattutto laddove sono presenti elementi propri di un paesaggio agricolo conservato con la persistenza di un disegno rurale con fontanili, siepi, alberature, prati, pascoli. Il Monumento Naturale di Pyrgi rappresenta emblematicamente il paesaggio del Bel Paese, in cui è impossibile definire a priori un limite tra naturalità estesa e dinamiche antropiche antiche. Il valore aggiunto sta nel coniugare forme di gestione coordinata tra i vari soggetti preposti alla conoscenza,
essere stato rinvenuto intero in un contesto non funerario. L’impianto del cortile centrale si collega alla deposizione di un’àncora in pietra collocata orizzontalmente nel corridoio di accesso, un’offerta dalla forte valenza sacrale ma anche connessa alla frequentazione dell’area da parte dei naviganti. Altre deposizioni hanno sacralizzato l’area del portico, come quella di un’anfora privata dell’imboccatura, collocata verticalmente all’interno di una buca e segnalata in superficie da un dado in tufo (vedi foto a p. 37, in alto). Resti di pasti sono stati invece rinvenuti nel settore sud-occidentale dell’isolato, dove un’enorme quantità di vasi per bere e per cuocere e consumare la carne, in 52 a r c h e o
tutela, conservazione dei beni naturalistici e culturali. Proprio nella ricerca di scelte condivise che rendano pienamente leggibile il sito e, nello stesso tempo, concorrano nella sua conservazione nell’ambito di un progetto di riqualificazione ambientale, si sta definendo, tra gli altri, un intervento «innovativo» nel suo genere. Le strutture archeologiche del sito di Pyrgi soffrono dell’innalzamento della falda invernale o legato alle forti piogge concentrate, nonché dell’alternanza di prolungati periodi siccitosi. Per contro, il ristagno nello stesso sedime degli scavi determina l’esistenza di importanti ecosistemi umidi, attrattivi per una ricca biodiversità. Ci si è chiesti come coniugare esigenze solo dall’apparenza contrastanti; con la Soprintendenza, e in accordo con la «Sapienza», a cui compete la direzione scientifica, la Direzione Regionale ha proposto di drenare le acque in eccesso dal complesso archeologico dell’area di Pyrgi, cosí da concorrere alla conservazione delle evidenze, verso un’area morfologicamente depressa posta a monte del sito stesso, in connessione con la rete dei canali di bonifica del sistema rurale. In questo modo si ottiene il duplice scopo di preservazione delle litologie e delle strutture murarie e la neoformazione di una piú vasta zona umida a compensazione di quella che necessariamente, per esigenze di preservazione, verrà drenata dal sito archeologico. Diego Mantero
associazione con moltissime ossa animali, offre l’immagine di grandi cerimonie collettive. Le ricerche future porteranno a chiarire ancora meglio la fisionomia di quello che appare come un settore di cerniera tra l’abitato e il complesso sacro, che ha svolto una funzione pubblica non solo a beneficio del porto, ma probabilmente anche a servizio del santuario.
GLI OBIETTIVI FUTURI Negli ultimi anni l’attenzione della missione archeologica della «Sapienza» si sta focalizzando anche sul rapporto tra Pyrgi e la cittàmadre Caere, segnalato fisicamente dalla grande arteria stradale lunga circa 13 km e larga 10 m, eccezionale opera di ingegneria antica. La
via Caere-Pyrgi è infatti ancora in gran parte da indagare nel suo lungo tragitto dalla città al mare: per una migliore comprensione di questa porzione di territorio, in parte urbanizzato, sono stati avviati la raccolta e lo studio della documentazione d’archivio e dei «vecchi» scavi e intraprese nuove indagini di tipo non invasivo (vedi box a p. 54, in basso). Sul percorso della strada si incontrano infatti necropoli e santuari, ma anche grandi tombe a tumulo di età orientalizzante (VII secolo a.C.) come quella in località Montetosto, di fronte alla quale ha trovato sede anche una particolare struttura sacra: in questa va probabilmente riconosciuto il luogo, fortemente simbolico, in cui gli
Statua di offerente con porcellino, dal Santuario di Suri e Cavatha.
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SCAVI • PYRGI
PYRGI A VILLA GIULIA Nell’attuale allestimento del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (Roma), al santuario di Pyrgi sono dedicate le sale 13a e 13b, poste in logica continuità con quelle che illustrano lo sviluppo della città madre, Caere. La storia del santuario, ricostruita grazie agli scavi della «Sapienza», è narrata attraverso una selezione dei piú rilevanti e non di rado eccezionali rinvenimenti. Innanzitutto, le lamine d’oro con iscrizioni in etrusco e in fenicio, delle quali viene evidenzata la straordinaria importanza sia per la comprensione della lingua etrusca, sia per la fondazione del piú antico degli edifici di culto del Santuario Monumentale. Nella
Metodologie non invasive Per lo studio dell’insediamento di Pyrgi e del territorio interessato dal percorso della via Caere-Pyrgi sono state utilizzate varie metodologie di indagine non invasiva, tra loro complementari: magnetometria, resistività elettrica e georadar (Ground Penetrating Radar, GPR). Le prospezioni verranno integrate da campagne di telerilevamento multispettrale da drone con analisi degli indici di vegetazione, un metodo finora poco usato in ambito archeologico, ma estremamente utile ai fini dell’individuazione e dell’analisi dei cosiddetti crop-mark, cioè delle tracce che le strutture sepolte lasciano sulle colture, influenzandone la crescita. Questo metodo sarà utilizzato soprattutto nelle aree scarsamente urbanizzate, ma ricche di vegetazione spontanea o sfruttate dal punto di vista agricolo, come l’entroterra di Santa Severa.
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vetrina contrapposta a quella delle lamine adeguato risalto è dato anche a un gruzzolo di monete greche e magno-greche appartenenti al tesoro del santuario e ai chiodi d’oro con cui le lamine erano affisse allo stipite di una porta del tempio. Del programma decorativo del Tempio B, incentrato sul mito di Eracle, l’esposizione dà conto attraverso molteplici elementi della decorazione architettonica in terracotta dipinta e con una parziale ricostruzione del rampante frontonale sinistro con acroterio raffigurante un cavaliere in corsa. Il complesso delle «Venti celle», forse sede della prostituzione sacra da parte delle sacerdotesse della dea
Uni-Astarte, a cui è intitolato il Tempio B, è rappresentato da una scelta di antefisse molto particolari, quali una divinità solare che vola sulle onde e un demone alato a testa di gallo. Ma il centro della scena, nella sala 13b, è occupato dalla ricomposizione dell’altorilievo in terracotta appartenente al frontone posteriore del Tempio A, dedicato a Thesan/Leucothea, la dea bianca dell’Aurora, costruito intorno al 47060 a.C. e in cui si dispiegano scene della saga dei Sette contro Tebe. L’immagine della dea titolare del tempio si può apprezzare nella vetrina successiva, ove la sua splendida testa in terracotta dipinta, che conserva tracce dei colori
antichi, appartiene, insieme alla statua di Ercole bibax, alla fase di ricostruzione del Tempio A dopo il saccheggio del santuario nel 384 a.C. a opera di Dionigi di Siracusa. Anche il Santuario Meridionale, individuato a partire dal 1983 a sud di quello monumentale, è rappresentato nella sala da due rilevanti testimonianze: un acroterio con il busto di Acheloo, divinità fluviale dalle forme taurine e dal volto umano, uno dei rari ornati architettonici portati alla luce, e un vaso rituale per libagioni di dimensioni eccezionali e dall’ancor piú eccezionale decorazione, ricomposto da innumerevoli frammenti: la phiale a figure rosse
dipinta ad Atene intorno al 490-480 a.C. con la rarissima raffigurazione dello sterminio dei Proci da parte di Odisseo al suo ritorno a Itaca. Maria Paola Guidobaldi
In alto: una delle sale che ospitano le antichità di Pyrgi nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma. A destra: testina in terracotta di Busiride pertinente alla decorazione dell’edificio sacro individuato nello spazio antistante il tumulo orientalizzante in località Montetosto (Cerveteri). Nella pagina accanto: mappa di un settore dell’abitato di Pyrgi ricavata grazie alla campagna di prospezioni effettuata con il georadar.
Etruschi di Cerveteri praticavano, secondo lo storico greco Erodoto, sacrifici e giochi ginnici ed equestri per espiare la colpa della lapidazione dei prigionieri focei catturati durante la battaglia navale di Alalia (540-535 a.C.). Lo scontro, che aveva visto gli Etruschi alleati con i Cartaginesi contro i Greci stanziatisi in Corsica, è uno degli episodi centrali nelle vicende lega-
te al controllo dei commerci tirrenici in età arcaica. Con il prosieguo delle indagini e la loro estensione su un territorio piú ampio, le prospettive di ricerca vanno sempre piú ampliandosi, nella consapevolezza che queste non possono essere disgiunte dall’impegno nelle attività di promozione e divulgazione dei risultati. Il modello virtuoso di collaborazione già in atto
tra enti diversi – «Sapienza», Soprintendenza, Regione Lazio, Comune di Santa Marinella – non potrà che rivelarsi sempre piú proficuo nella tutela e valorizzazione di un territorio cosí importante e ricco di storia (vedi i box alle pp. 50-51 e 52).
Per la preziosa collaborazione nelle attività di ricerca e valorizzazione e per aver elaborato o fornito alcune immagini si ringraziano: Barbara Belelli Marchesini, Manuela Bonadies, Claudia Carlucci, Alessandro Jaia, Martina Zinni («Sapienza» Università di Roma, Dipartimento di Scienze dell’Antichità); Alfonso Ippolito, Martina Attenni, Edoardo Valente («Sapienza» Università di Roma, Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura); Luciana Orlando («Sapienza» Università di Roma, Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale); Nicoletta Benedetti, Diego Mantero (Regione Lazio, Parchi e Riserve Naturali); Maria Paola Guidobaldi (Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma); Rossella Zaccagnini, Gloria Galanti (Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale); Marinella Marchesi (Museo Civico Archeologico di Bologna); Eugenio Cerilli.
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RESTAURI • IRAQ
RITORNO IN IRAQ NELLA REGIONE IRACHENA PIÚ MARTORIATA DALL’ISIS SONO IN CORSO TRE PROGETTI ITALO-IRACHENI SOSTENUTI DALLA FONDAZIONE SVIZZERA ALIPH, LA CUI MISSIONE È QUELLA DI PROTEGGERE IL PATRIMONIO ARCHEOLOGICO E CULTURALE NELLE AREE IN CONFLITTO O POST-CONFLITTO. QUESTO NOSTRO VIAGGIO INIZIA NEL CUORE DELL’IMPERO ASSIRO, CON LE IMMAGINI REGALI SCOLPITE NELLE PARETI ROCCIOSE DEL CANALE DI FAIDA, NEL KURDISTAN IRACHENO. CI
IL COMPLESSO DI ARTE RUPESTRE DI FAIDA
I
l ritrovamento del canale assiro di Faida, scavato nella roccia alla base di una dorsale collinare una dozzina di chilometri a sud dell’odierna città di Duhok nel Kurdistan iracheno settentrionale (vedi «Archeo» n. 422, aprile 2020; anche on line su issuu.com), rappresenta una di quelle scoperte che modificano profondamente la nostra comprensione delle infrastrutture idrauliche costruite dagli Assiri e del sofisticato dispositivo di arte
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figurativa che ne celebrava la creazione. Il canale, portato alla luce nel 2019 e 2021 dalla missione congiunta italo-curda dell’Università di Udine e della Direzione delle Antichità di Duhok, fu probabilmente scavato alla fine dell’VIII secolo a.C. dal grande sovrano Sargon II (721-705 a.C.) per captare le acque di una serie di risorgenti carsiche che affioravano ai piedi del versante settentrionale della collina e portarle a una estesa e fertile area agricola
ubicata a circa 9 km di distanza. Il canale di Faida si inseriva nella piú vasta rete di canali d’irrigazione costruiti da Sargon e, soprattutto, da suo figlio Sennacherib (704-681 a.C.) per irrigare l’entroterra delle ultime due capitali dell’impero assiro, Khorsabad/Dur-Sharrukin e Ninive, e aumentarne la produttività agricola allo scopo di sostenere la crescita economica e demografica delle capitali e del loro entroterra. Sulla sponda rocciosa sinistra
SPOSTEREMO POI NEL CUORE DELLA JAZIRA IRACHENA, 100 KM A SUD-OVEST DI MOSUL, DOVE UN TEAM ITALO-IRACHENO PROMOSSO DALL’ISMEO STA EFFETTUANDO INTERVENTI DI PRIMA EMERGENZA A HATRA, LA GRANDE CITTÀ ARABA FIORITA, TRA I E III SECOLO D.C., AL CONFINE TRA IMPERO ROMANO E PARTICO. ULTIMA TAPPA LA CITTADELLA STORICA DI MOSUL, DOVE L’ASSOCIAZIONE ARCHI.MEDIA TRUST È IMPEGNATA NEL COMPLESSO RESTAURO DI UNA MOSCHEA DEL XVIII SECOLO, DALLA SUGGESTIVA CUPOLA TURCHESE. ARCHEO SI FA TESTIMONE DEI LAVORI IN CORSO testi di Stefania Berlioz, Daniele Morandi Bonacossi e Giovanni Fontana Antonelli
Mar Caspio
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Ku rd is ta n Niin Nin N Nini ini iniv ve e
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del canale, Sargon e Sennacherib fecero scolpire almeno dodici monumentali pannelli di poco meno di 5 m di larghezza e 1,80 m di altezza che rappresentavano i sovrani assiri in preghiera di fronte alle statue delle sette maggiori divinità del pantheon assiro stanti sul dorso di
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Sulle due pagine: la recinzione del santuario centrale di Hatra al tramonto. A destra: cartina dell’Iraq, con le località citate nel testo in evidenza.
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Hatra
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Ara abia Saudita N 0
200 Km
Ku uw wa ait
Golfo Persico/ Golfo Arabico
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RESTAURI • IRAQ
animali e creature mitologiche a esse consacrate. La teoria di divinità era aperta dal dio piú importante dell’impero,Assur, rappresentato con i suoi attributi su un dragone e un toro e seguito dalla sua sposa, la dea Mullissu, raffigurata in trono su di un leone. Il dio lunare Sin impugnava una spada ricurva ed era rappresentato su di un essere mitologico, lo abubu, simbolo del diluvio, mentre il dio della sapienza, Nabu, su un dragone precedeva il dio del sole, Shamash, su di un cavallo bardato con finimenti. Chiudevano la serie di divinità il dio della tempesta, Adad, montato su un mostro abubu e un toro e con un mazzo di folgori nelle mani e la dea dell’amore e della guerra, Ishtar, su un leone. I rilievi di Faida, che fanno del canale assiro uno dei piú straordinari complessi di arte rupestre mai scoperti nel Vicino Oriente antico,
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celebravano, in un contesto religioso e rituale, la costruzione del canale da parte della corona assira e la creazione di un nuovo paesaggio imperiale attraversato da canali irrigui e contrassegnato dai simboli del potere regale e della sua legittimità rappresentati non solo dai rilievi rinvenuti a Faida, ma anche dagli estesi programmi scultorei rupestri associati ai canali di Maltai, Shiru Maliktha e Khinis.
IL MONITO DEL RE I rilievi scolpiti nella roccia alla testa dei canali (Maltai, Shiru Maliktha e Khinis) o lungo il loro corso (Faida) costituivano anche un potente monito che il sovrano assiro rivolgeva alla popolazione culturalmente e linguisticamente non uniforme residente nella regione centrale dell’impero attraversata da queste imponenti reti idrauliche.
A sinistra: il pannello n. 9, parzialmente distrutto dall’allargamento di una vicina stalla per bovini. Nella pagina accanto: foto satellitare del canale di Faida con ubicazione dei rilievi. In basso: uno dei pannelli (n. 4) scolpiti lungo la sponda del canale.
Qui, infatti, i re assiri insediarono grandi masse di deportati di guerra fatti prigionieri durante le campagne di conquista del Levante, delle regioni dell’altipiano iranico e della Babilonia. Si trattava, dunque, di comunità straniere non sempre necessariamente fedeli alla corona, la cui lealtà doveva essere stimolata anche attraverso la retorica imperiale, che propagandava la creazione dei canali d’irrigazione come infrastrutture protette dai grandi dèi d’Assiria e dai suoi sovrani che garantivano lo sviluppo agricolo e il benessere del Paese. L’immenso patrimonio culturale custodito a Faida, tuttavia, è purtroppo esposto a numerosi rischi, legati agli agenti atmosferici di tipo erosivo che ne minacciano i rilievi, ma anche – e soprattutto – al vandalismo, a scavi clandestini e all’espansione delle attività produttive del vicino villaggio, le cui fabbriche di blocchi di cemento letteralmente assediano il sito archeologico. Il sostegno della Fondazione ALIPH, erogato all’Università di
Udine mediante uno «Emergency Relief Grant», ha consentito di mettere in campo un progetto interdisciplinare di analisi dei rilievi di Faida da parte di geologi, idrogeologi e restauratori della pietra, che permetterà di definire un progetto di restauro e conservazione dei rilievi. Inoltre, un finanziam en to de ll a G erda He nke l Stiftung ha reso possibile mettere in sicurezza il complesso di arte
rupestre di Faida mediante la costruzione di una recinzione. L’obiettivo finale dell’azione congiunta dell’Università di Udine e della Direzione delle Antichità di Duhok consiste nella creazione di un parco archeologico di Faida, che renda possibile la fruizione sostenibile dei rilievi e del canale assiro da parte del turismo locale, iracheno e internazionale. Daniele Morandi Bonacossi a r c h e o 59
RESTAURI • IRAQ
UN ANNO A HATRA
S
In alto: ultimi ritocchi alla mensola antropomorfa, ricollocata sulla facciata dei Grandi Iwan. Nella pagina accanto, in alto, a sinistra: Carlo Usai impegnato nel restauro della statua di uno dei signori di Hatra in uno degli iwan del 60 a r c h e o
santuario di Shamash. Nella pagina accanto, in basso: Tempio di Allat. Mostro marino a busto umano e corpo serpentiforme vandalizzato a colpi di piccone dai militanti dell’ISIS. Il restauro verrà effettuato nel mese di febbraio.
iamo entrati a Hatra per la prima volta quasi in punta di piedi, come si addice a un luogo sacro. Era il febbraio del 2020 (vedi «Archeo» n. 424, giugno 2020; anche on line su issuu. com). Tre anni di occupazione dell’ISIS avevano lasciato il segno: il grande santuario urbano, al centro della città, ci è apparso come un immenso campo di battaglia, disseminato di macerie e residui bellici d’ogni tipo.Tra i cespugli e la spazzatura giacevano i corpi pietrificati dei caduti: re e regine, divinità e semplici soldati dilaniati a colpi di mazza e raffiche di proiettili. Abbiamo documentato i danni inflitti alle architetture e raccolto centinaia di frammenti scolpiti riparandoli, in previsione di futuri restauri, all’interno delle sale consacrate al culto di Shamash, il dio Sole. «Non c’è nulla di piú fragile dell’equilibrio dei bei luoghi», scriveva Maguerite Yourcenar nei suoi taccuini. Qui era passato un uragano. A un anno dalla nostra prima ricognizione, ancora grazie al sostegno della fondazione ALIPH sono iniziati i lavori di riabilitazione del sito archeologico, patrimonio UNESCO dell’umanità. I primi mesi di attività sono stati rivolti a un generale riassetto dell’area archeologica: la rimozione delle macerie, il ripristino dei sistemi di sicurezza – dai cancelli e dalle postazioni di polizia all’illuminazione notturna – e il restauro delle infrastrutture distrutte durante l’occupazione Jihadista. Ora Hatra ha una «casa della missione» che può ospitare sino a 10 persone e, nelle immediate vicinanze, la nuova residenza della Polizia Archeologica che garantisce la sicurezza del sito 365 giorni all’anno, 24 ore su 24. Nel nuovo laboratorio di restauro sono iniziati gli interventi su alcune delle sculture vandalizzate
In alto: i membri della missione, sullo sfondo del Tempio di Maran. In alto, da sinistra: Mahmood A. Wardi, Rwaed Mufak Mohammed, Ken Saito, Salih Jasim Mohammed, Massimo Vidale, Matteo Sordini, Adib fateh Alí, Aymen Jasim Mohammed, Stefano Campana. In basso chi scrive, tra gli operai di Hatra, vere anime del progetto.
dai militanti dell’ISIS: ogni ferita è stata pazientemente ricucita, ogni organo ricollocato al suo posto. Intenzionalmente, alcuni segni delle recenti violenze non sono stati cancellati, come il proiettile infilzato tra le costole del nobile hatreno a guardia di uno degli iwan del grande santuario: la memoria di quanto accaduto non deve andare persa. L’immensa città – oltre 300 ettari racchiusi da un possente circuito murario – è stata percorsa palmo a palmo, e documentata con droni e laser scanner, cosí da avere una precisa mappatura di tutte le criticità. La messa in sicurezza è già iniziata: siamo intervenuti là dove il pericolo si mostrava maggiore, architravi pericolanti, pareti instabili, pozzi
senza copertura. I problemi da affrontare sono ancora molti, come quello della conservazione dei magnifici pavimenti in gesso ceruleo delle celle, gonfiati e spezzati sotto la spinta di erbacce e arbusti. Nel tempio di Allat, dea araba per eccellenza, è in corso una prima sperimentazione dei trattamenti, che in futuro si spera verranno estesi agli altri edifici sacri.
VOGLIA DI RINASCITA Un lavoro immenso, che non sarebbe stato possibile senza il sostegno dei colleghi dello State Board delle Antichità di Mosul e, soprattutto, senza il contributo della popolazione del vicino villaggio di al-Hadr. La casa della missione è diventata un
po’ il centro della vita sociale, un luogo di incontro, discussione, ideazione di progetti futuri.Vent’anni di recessione e conflitti non hanno abbattuto lo spirito degli Hatreni. Da due anni non si verificano incidenti o attentati. La situazione, in termini di sicurezza, si sta normalizzando, e timidamente riprende anche il flusso dei turisti, anche stranieri, in particolar modo europei. Arrivano a Hatra da Mosul, in tarda mattinata, e ripartono prima del tramonto, perché nel villaggio adiacente al sito archeologico è impossibile pernottare: l’unico albergo esistente è stato distrutto dall’ISIS. Ma ci si ingegna: lo sceicco locale metterà a disposizione dei turisti delle tende arabe in cui accamparsi di notte, in completa sicurezza. Ora che Hatra ha il suo sole anche di notte, sarà possibile pure la visita notturna. Si può immaginare niente di piú emozionante? Il progetto «Hatra, Interventi di prima emergenza dopo l’occupazione ISIS» è promosso dall’ISMEO in collaborazione con lo State Board of Antiquities and Heritage di Baghdad e Mosul, l’Università di Padova e l’Università di Siena. A dirigerlo Massimo Vidale e Stefano Campana. Stefania Berlioz a r c h e o 61
RESTAURI • IRAQ
LA MOSCHEA DI AL-RAABIYA
Fotopiano della facciata principale della moschea vista dal cortile interno.
certa distanza e scomparso da tempo, sostituito da una struttura metalel 1766 il governatore Ot- lica verniciata posizionata sulla cotomano di Mosul, Isma’il pertura della madrasa. Pasha Jalili, volle rendere omaggio alla propria figlia, Rab’iya, UN MONUMENTO dando il suo nome a una splendida DALLA VITA TRAVAGLIATA moschea costruita nel cuore della Il complesso monumentale ha città. Mai avrebbe immaginato che, subíto pesanti rimaneggiamenti nenel nuovo millennio, questa sua cre- gli ultimi due decenni del secolo azione sarebbe diventata bersaglio scorso, comprese le sostituzioni di della furia distruttrice dei militanti importanti elementi strutturali, di un sedicente «Stato Islamico». La quali uno dei due grandi pilastri che moschea di Al-Raabiya è architet- sorreggono le volte della sala di tonicamente uno degli edifici reli- preghiera, e il rifacimento della cugiosi piú significativi della cittadella ottomana di Mosul, nonché uno dei piú complessi per la stratificazione degli interventi e delle alterazioni subite nel corso del tempo. Interamente decorato e in buona parte costruito con la tipica pietra locale, conosciuta con il nome di al-faresh (alabastro), il complesso si articola attorno a un cortile interno ribassato di circa 2 m rispetto al piano stradale, non pavimentato. Il corpo principale è costituito dalla sala di preghiera, composta da tre ambienti, di cui quello centrale coperto da un’ampia cupola riconoscibile dall’esterno per il rivestimento ceramico verde, sovrapposto al sobrio rivestimento originale di intonaco con fasce ceramiche. La sala di preghiera è preceduta da un porticato, che prosegue sugli altri tre lati del cortile, su cui si affacciano gli ambienti della madrasa (scuola coranica), dei locali amministrativi e dell’appartamento dell’Imam. Non c’è traccia del minareto originale, probabilmente situato a una
N
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pola esterna con l’inserimento di travi in c.a. Inoltre, la quasi totalità degli edifici che si affacciano sul cortile, ivi compreso il portico della moschea, sono stati sostituiti da strutture di nuova edificazione. Se a questo stato aggiungiamo i gravi danneggiamenti e gli atti vandalici perpetrati dai miliziani dell’ISIS nel 2014, quando tutte le decorazioni che ornavano la sala di preghiera, le facciate degli edifici e il rivestimento della cupola furono rimosse e le due tombe presenti nell’area totalmente distrutte, e il
bombardamento per la liberazione della città vecchia nel 2017, che ha provocato danni strutturali in alcune parti del complesso e il crollo di un’ala degli edifici che ospitavano la madrasa, il quadro che ci troviamo ad affrontare corrisponde a un vero e proprio puzzle. Al fine di tracciare i vari interventi che si sono susseguiti nel tempo, a partire dalla fine degli Anni Settanta, è stato necessario svolgere un rilievo dettagliato di tutte le parti del complesso. Per definire il quadro documentale abbiamo combinato l’utilizzo di un drone, del laser scanner e della fotogrammetria e, al fine di comprendere se le strutture fossero state sostituite, sono stati effettuati saggi sulle fondazioni e sulle murature.
A destra: il team del progetto durante la visita della delegazione ALIPH, nel giugno 2021. Da sinistra: Matteo Bigonciari, Francesco Cini, Claudia Cancellotti, Abdulrahman Al-Hajjar, Giovanni Fontana Antonelli e Valery Freland, Direttore Esecutivo della Fondazione.
nali della moschea, dei suoi paramenti murari e delle decorazioni miracolosamente risparmiate dalla furia iconoclasta, laddove possibile IL PROGETTO la rimozione degli elementi piú DI RESTAURO Il progetto prevede il restauro con- intrusivi introdotti negli ultimi anservativo delle componenti origi- ni del Novecento, e la ricostruzio-
In alto: la Moschea Al-Raabiya nel giugno 2019, prima della rimozione delle macerie. A sinistra: veduta zenitale del complesso monumentale nel contesto urbano nel giugno 2021.
ne dell’ala andata distrutta con i bombardamenti. Nel contesto socio-politico di Mosul il processo di recupero presenta alcune criticità logistiche, tecniche e operative, che devono essere affrontate con un approccio olistico in grado di coniugare il restauro e la ricostruzione delle componenti andate distrutte con le dimensioni sociali ed economiche della ricostruzione postbellica. I lavori si svolgeranno in modalità scuola-
cantiere; in modo complementare alle opere di restauro, infatti, il progetto include la formazione alle discipline della documentazione e del restauro di studenti, esperti locali e manodopera specializzata, nonché la creazione di una filiera del settore ceramico, con l’obiettivo di creare opportunità di lavoro a Mosul, soprattutto per le donne del centro storico. Il rafforzamento delle capacità locali e la costituzione di una nuova filiera nel settore ceramico, con ricadute positive in termini di creazione di posti di lavoro e di opportunità occupazionali per le donne sono alla base della strategia per la ricostruzione della città vecchia di Mosul e della sua rinascita socio-economica. Il progetto di restauro della Moschea Al-Raabiya è gestito e realizzato da Archi.Media Trust, agenzia di sviluppo per la conservazione del patrimonio culturale. Collabora la Cooperativa Ichnos sotto la supervisione scientifica dell’Università di Firenze. I partner locali del progetto sono la Direzione Statale per le Antichità e il Patrimonio del Ministero della Cultura iracheno, l’Autorità religiosa sunnita, e i dipartimenti di Ingegneria e Archeologia dell’Università di Mosul. Giovanni Fontana Antonelli a r c h e o 63
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LUOGHI DEL SACRO/11
ALL’OMBRA DI UN RAMO D’ORO CIME BOSCOSE, SELVE IMPENETRABILI, LAGHI PROFONDI E MISTERIOSI: SONO I LUOGHI PRIVILEGIATI IN CUI SI ESPRESSE LA RELIGIOSITÀ DELLE GENTI STANZIATE NEL LAZIO ANTICO PRIMA DELL’AVVENTO DI ROMA di Alessandro Locchi
«A
llora, o Cinzia, perché cerchi dubbi responsi a Preneste, perché ti dirigi alle mura dell’Eeo Telegono? Perché il tuo cocchio ti porta all’erculea Tivoli? Perché tante volte percorri la vecchia Via Appia? Potessi tu, o Cinzia, passeggiare in questi luoghi per tutto il tempo che avrai libero. Ma m’impedisce di crederti la folla quando ti vede correre devota con le fiaccole accese e portare nel bosco torce alla dea Trivia». In questi termini, qui nella traduzione di Luca Canali, il sospettoso Properzio (Elegie II 32, 3-10) si lamenta del comportamento dell’amata Cinzia, che, in preda a una sorta di furore religioso, diserta gli spazi monumentali dell’Urbe e la confortevole alcova del poeta, per raggiungere i principali santuari del cosiddetto Lazio
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arcaico, o Latium vetus: dall’oracolo prenestino alle mura di Tuscolo, il cui eroe fondatore (Telegono), figlio della maga Circe, proveniva dall’omerica isola di Eea, allo scenario boschivo sul lago di Nemi consacrato a Diana dalla triplice natura. I luoghi visitati dalla volubile donna cara a Properzio sono accomunati dall’essere compresi in un comparto strategico della penisola italica, indicato appunto come Latium vetus (o antiquum). Per inquadrarlo geograficamente, possiamo
ricorrere a Plinio il Vecchio, che cosí lo definisce: «Il Lazio antico si è mantenuto nella sua lunghezza di 50 miglia, dal Tevere al Circeo: cosí umili furono all’inizio le radici dell’impero. I suoi abitanti mutarono spesso, avvicendandosi nel corso del tempo: Aborigeni, Pelasgi, Arcadi, Siculi, Aurunci, Rutuli; e, oltre il Circeo, Volsci, Osci e Ausoni. Estendendosi a questi popoli, il nome del Lazio avanzò fino al fiume Liri» (Naturalis historia III 9, 56; traduzione di Giuliano Ranucci). Pur nell’estrema sintesi, il passo pliniano non lascia dubbi sui con-
fini di massima di un territorio, esteso tra il basso corso del Tevere e il promontorio del Circeo, al cui margine settentrionale ricade pertanto la stessa città di Roma e che ha il suo epicentro nel comprensorio dei Colli Albani. Altro dato significativo, rilevabile nel brano della Naturalis historia, è l’accenno conclusivo all’evoluzione dell’antica regione: il successivo espandersi di Roma verso sud, a spese di una serie di popoli e gruppi etnici (Ernici,Volsci, Aurunci…), determinò la creazione di una nuo-
Sulle due pagine: Il ramo d’oro, olio su tela di William Turner. 1834. Londra, Tate Gallery. Il dipinto viene descritto da James George Frazer nel suo saggio omonimo, centrato sui riti magici e nel quale compare anche un riferimento al rex nemorensis («il sovrano del bosco») che officiava nel tempio di Diana a Nemi. Nella pagina accanto: testa della statua di culto di Diana, rinvenuta in una delle celle del santuario nemorense a lei dedicato. II sec. a.C. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.
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LUOGHI DEL SACRO/11
va realtà territoriale, il Latium novum o adiectum – «aggiunto» – (l’attuale Lazio meridionale), confluito poi, insieme al vetus, nella riforma amministrativa augustea, nella Regio I, Latium et Campania. Il diffuso e precoce insediamento umano sul posto (identificabile già a partire dal Paleolitico Inferiore) venne favorito dall’apertura sul Mar Tirreno, dalla presenza di porti naturali e di rilevanti vie d’acqua – utili agli scambi commerciali –, mentre propizi all’attività pastorale si rivelarono i rilievi montuosi, sul versante interno, e la prossimità alla catena appenninica. A tali importanti risorse si aggiunge la disponibilità di un’ampia fascia pianeggiante adatta alle coltivazioni, dalla quale, secondo diversi esegeti, deriverebbe l’etimologia del nome Latium (da latus, ovvero «piano», «esteso»), il che qualificherebbe di conseguenza i suoi abitanti, i Latini, come «il popolo della pianura». La tradizione mitica evoca la formazione di questa arcaica popolazione a partire da un eterogeneo substrato autoctono (i cosiddetti Aborigines) e dal successivo aggregarsi di elementi stranieri, di ascendenza grecoorientale; a titolo esemplificativo, si può rammentare l’arrivo degli Arcadi al seguito di Evandro o dei Troiani fuggiaschi, capeggiati da Enea.
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A destra: cartina dei territori corrispondenti al Latium vetus, con, in evidenza, i principali luoghi citati nel testo. In basso: veduta della sponda settentrionale del lago di Nemi.
A 90
Te
Roma re Monte Cavo ve
(Mons Albanus)
Ariccia
Avezzano
Tivoli Palestrina
Colleferro
Nemi
Frosinone
Lago di Nemi
Aprilia
Sora
Ceccano Ceprano
SS7
Anzio
Roccaraso
Fiuggi
E 45
Latina Fondi Terracina
Cassino
Pontecorvo
Formia Gaeta
A prescindere da questi racconti e dalle conferme (vere o presunte) che essi hanno trovato, nell’ambito dei moderni studi storico-archeologici si evidenzia localmente un passaggio incruento dall’età del Bronzo alla prima età del Ferro e il definirsi, nei secoli iniziali del I millennio a.C., di un gruppo etnico dedito alla pastorizia (e poi anche all’attività agraria), accomunato dall’uso di una lingua italica, appartenente al ceppo indoeuropeo.
I TRENTA POPOLI Quanto alle modalità insediative, siamo debitori ancora una volta a Plinio il Vecchio di una preziosa indicazione: sulla configurazione arcaica della regione, l’enciclopedico autore fa esplicito riferimento
alla presenza di trenta populi Albenses (tutti meticolosamente elencati), delineando una confederazione di potenti comunità latine, distribuite in un territorio circondato da temibili vicini: gli Etruschi, oltre il Tevere, popolazioni osco-umbre come i Sabini, a nord-est, e gli Ernici e i Volsci, a sud. Con la denominazione complessiva di populi Albenses risalta il ruolo dei Colli Albani come epicentro del Latium vetus: eloquente è infatti il richiamo al rilievo del mons Albanus (monte Cavo), fondamentale scenario cultuale per la confederazione, nonché alla mitica madrepatria dei Romani, Alba Longa, che all’interno della lega in questione avrebbe inizialmente assolto il ruolo di città egemone. Al contempo, la presenza nell’elen-
co di comunità inquadrabili nel territorio di Roma, evoca il successivo emergere di quest’ultima e l’inevitabile clima di scontro e di belligeranza venutosi a creare con gli altri centri laziali. Questa fase conflittuale durò fino alla seconda metà del IV secolo a.C. quando all’affermazione decisiva di Roma nella Guerra Latina (338 a.C.) seguirono lo scioglimento della confederazione e la conseguente, prevedibile, romanizzazione del territorio.
I CULTI DELLA LEGA LATINA Fin dagli albori, la religione esercitò una vitale funzione unificatrice per la popolazione del Lazio arcaico: nell’ambito territoriale in questione si ricordano infatti centri cultuali di particolare antichità e rilevanza (è il caso, per esempio, di Lavinio), ma, soprattutto, importanti santuari federali, presso i quali si rinsaldavano i legami tra le varie comunità e si tenevano assemblee utili per deliberare su questioni di ordinaria amministrazione o istanze di particolare gravità. Deputati a tale scopo furono per lo piú suggestivi scenari naturali (cime boscose, aree perilacustri, selve impenetrabili): è il caso del Lucus Ferentinae, di In alto: disegno di Pirro Ligorio con due schiavi in lotta davanti al tempio di Virbio. 1569 circa. New York, Pierpont Morgan Library. A destra: antefissa frammentaria in terracotta con testa di Diana, dalle «celle donarie» del santuario nemorense.
discussa localizzazione, ma, soprattutto, della menzionata vetta del mons Albanus, teatro di un’importante celebrazione, a cadenza annuale, le Feriae
Latinae. In occasione di tale festività, la locale area boschiva e il relativo santuario, di incerta consistenza, dedicato a Giove Laziare (Iuppiter Latiaris), venivano raggiunti da magistrati romani e dai rappresentanti dei populi Albenses. Carichi di offerte da presentare alla divinità (agnelli, latte, formaggi), costoro dovevano percorrere processionalmente una via basolata – ancora in ottimo stato di conservazione – che da Ariccia saliva al santuario; una volta giunti a destinazione, assistevano a una libagione di latte presso l’ara sacrificale (ulteriore elemento che rimanda, visibilmente, alla società pastorale delle origini). Alla successiva immolazione di un toro bianco (momento centrale delle Feriae) seguiva la distribuzione di porzioni della vittima ai convenuti: dato utile, quest’ultimo, a dimostrare a r c h e o 69
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come nel caso specifico l’esecuzione del rito sacrificale avvantaggiasse palesemente il gruppo umano, riconfermandone, sotto l’egida di Iuppiter Latiaris, i vincoli di alleanza. Il succedersi di eventi significativi (dalla distruzione di Alba Longa all’inarrestabile ascesa di Roma) incise sulle sorti del venerato luogo di culto del mons Albanus, che, pur restando noto e frequentato fino all’epoca tardo-antica, dovette cedere il proprio ruolo a un altro santuario federale dei Latini: quello dedicato a Diana Nemorensis, nell’antico territorio di Ariccia. Con questo celebrato complesso aricino si passa da una sommità dei Castelli Romani (950 m circa) a 70 a r c h e o
QUANTI NOMI PER IL BOSCO... Come il greco antico, la lingua latina impiegò diversi termini per designare il paesaggio boschivo. Tra i nomi piú correntemente utilizzati figurano silva, lucus e nemus. Il primo, a giudicare dalla documentazione pervenutaci, appare d’uso prevalentemente generico; agli altri due si attribuisce invece la definizione piú circostanziata di «bosco sacro», senza particolari diversificazioni. In realtà, utili a distinguerli, esaltandone le specifiche sfumature semantiche, si rivelano
talune indicazioni rintracciabili in vari autori antichi, in particolare l’asserita derivazione etimologica di lucus dal sostantivo lux «luce». All’origine di questa denominazione del bosco sacro vi sarebbe, per alcuni, l’assenza di luce, determinata dall’intrico degli alberi; per altri, invece, a stabilirne l’origine era piuttosto la luminosità d’una radura, di uno spazio ricavato dall’uomo a fini cultuali, nel folto del bosco (quest’ultimo definibile come nemus). Con ogni probabilità, corrispondeva al vero la seconda
A sinistra, sulle due pagine: i resti dell’edificio (K), identificato come tempio di Diana, scoperto grazie ai recenti scavi nel santuario di Nemi. In alto, a sinistra: ricostruzione 3D del ninfeo di Egeria, scoperto anch’esso grazie alle recenti indagini.
In alto, a destra: colonna in peperino donata da Caius Atilius al santuario di Nemi che attesta il culto per Diana. In basso: la struttura per l’albero sacro a Diana, da cui l’aspirante rex nemorensis doveva staccare il ramo da presentare per avviare il duello.
delle due opzioni. Un’eloquente testimonianza al riguardo si ha in un frammento delle Origines di Catone, relativo alla dedicazione del complesso aricino. L’esplicita affermazione che a essere consacrato dal magistrato Egerius Baebius era il lucus di Diana nel nemus di Ariccia lascia ben pochi dubbi sull’identificazione del primo col santuario e del secondo con la circostante area boschiva, quel Nemus Dianae sopravvissuto poi, in ambito toponomastico, nel nome della soprastante località di Nemi.
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uno scenario di rara suggestione, localizzato sensibilmente piú in basso, ai piedi della moderna località di Nemi, sul margine settentrionale di un bacino lacustre indicato già nell’antichità (come si apprende da una preziosa testimonianza del commentatore Servio) come speculum Dianae, ovvero «lo specchio di Diana». A caratterizzarne il paesaggio non era però soltanto questo piccolo e placido lago di origine vulcanica, ma anche il circostante manto boschivo, nell’ambito del quale esso venne a inserirsi. Cellula iniziale del santuario (la cui frequentazione sembrerebbe attestata già in epoca protostorica) è appunto la realtà del bosco sacro o, piú correttamente, del lucus, da interpretarsi come una radura ricavata, a fini cultuali, nel fitto comprensorio silvestre (vedi box alle pp. 70-71). Un decisivo momento di svolta
si ebbe a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., quando, come riferisce Catone nelle Origines, il magistrato latino Egerius Baebius, di Tuscolo, avrebbe proceduto alla dedicazione ufficiale del lucus, iniziativa che è difficile scindere dallo status privilegiato da esso assunto nell’ambito di una nuova coalizione politico-religiosa formata dai seguenti populi: Tusculanus,Aricinus, Lanuvinus, Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometinus,Ardeatis Rutulus. Tale rilevanza politico-religiosa, stabilmente detenuta fino al periodo cruciale della Guerra Latina, non subí particolari contraccolpi a seguito della successiva romanizzazione del Latium vetus.
LA DEVOZIONE DI CALIGOLA Ad attestarlo è la ristrutturazione in forme monumentali del complesso, eseguita sullo scorcio del II secolo a.C. analo-
gamente ad altri celebri santuari laziali, nonché le vistose premure riservategli dall’imperatore Caligola (37-41 d.C.). Oltre a rivitalizzare l’antico culto locale, associandolo a quello egiziano di Iside, il successore di Tiberio si sarebbe fatto allestire un’imponente dimora nelle vicinanze, sul lato opposto al santuario, insieme a due faraoniche imbarcazioni da parata, laboriosamente recuperate dalle profondità del lago tra il 1928 e il 1932 e malauguratamente devastate da un incendio nel 1944. Pochi decenni prima dell’avvento al potere del discusso princeps, l’erudito Strabone sintetizza in questi termini le peculiarità del santuario nemorense (V 3, 12): «Dall’altra parte, sulla sinistra della via per chi sale da Aricia, c’è il santuario di Artemide, che chiamano Nemus. Dicono che il tempio di Artemide Aricina sia una copia di quello di Arte-
In questa pagina: plastico ricostruttivo del santuario della Fortuna Primigenia di Praeneste. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: mosaico policromo che raffigura il Nilo e il paesaggio egiziano, da Praeneste. Fine del II sec. a.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
mide Tauropolos, e infatti nei riti predomina un elemento barbarico e scitico. Come sacerdote del tempio viene infatti preposto uno schiavo fuggitivo che abbia ucciso di sua mano il sacerdote precedentemente in carica: perciò è sempre armato di una spada e si guarda intorno dagli attacchi, pronto a difendersi. Il tempio è situato in un bosco sacro, davanti al quale c’è un lago profondo come il mare. Tutt’intorno le montagne formano un cerchio ininterrotto e assai elevato che abbraccia anche il tempio e l’acqua in un luogo incavato e profondo» (traduzione di Anna Maria Biraschi). Appare evidente come Strabone enfatizzi la natura barbarica e sanguinaria del culto in questione. Il riferimento dichiarato è alla descritta pratica rituale che regolava la successione del sacerdote della dea, il rex nemorensis («il sovrano del bosco»): dopo aver individuato e re-
ciso un ramo da un determinato albero, all’interno del recinto sacro, uno schiavo fuggiasco aveva la facoltà di sfidare a duello il rex in carica e, se riusciva a ucciderlo, ne prendeva il posto.
FORTUNA DI UN MITO Oggetto di interesse nell’ambito degli studi moderni (ineludibile è il richiamo al monumentale studio dell’inglese James Frazer, Il ramo d’oro, pubblicato per la prima volta nel 1890 e centrato sulla disamina dei riti magici), il singolare avvicendamento sacerdotale suscitò già l’attenzione di poeti ed eruditi antichi. Nel rievocarlo, a piú riprese, costoro aggiungono preziosi dettagli sul complesso aricino, i
cui tratti alieni vengono sistematicamente ricondotti a particolari racconti della mitologia greca o ad angoli remoti e inospitali del mondo antico. Si diceva, per esempio, che la divinità onorata nella selva Aricina non era altro che l’Artemide abituata a ricevere sacrifici umani nella lontana terra dei Tauri (l’attuale penisola di Crimea), la cui effigie, sottratta con l’inganno, sarebbe stata trasportata nel bosco Albano dall’eroe matricida Oreste, figlio di Agamennone. Quanto al rex nemorensis, si riconosceva in esso l’enigmatica figura di Virbio, venerato in loco al fianco della dea e identificato con un illustre protetto della greca Artemide: lo sventurato Ippolito, protagonista dell’omonimo dramma di Euripide. Come riferiscono, tra gli altri, Virgilio e Ovidio,
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l’eroe trascinato a morte dai propri cavalli imbizzarriti (accadimento mitico in genere addotto per giustificare l’ingresso interdetto ai quadrupedi nel santuario di Nemi), sarebbe stato riportato in vita dal dio Asclepio, e di seguito occultato con una nuova identità – quella appunto di Virbio «il due volte uomo» –, nel fitto della selva Aricina. Tutto ciò sarebbe stato disposto dalla sua divina protettrice, del cui culto Virbio avrebbe cominciato subito a occuparsi. Da questi riferimenti risalta l’accentuata complessità della divinità titolare del lucus: Diana Nemorensis ci appare non solo come una patrona della natura e dei boschi, ma come una figura complessa, collegata alla schiavitú e per certi versi anche alla sovranità (sia pure, quella precaria del rex nemorensis). Viene inoltre concepita in forma triplice, come si nota, per esempio, in un denario coniato da P. Accoleius Lariscolus (43 a.C.), ovvero simultaneamente associata alla dimensione celeste e luminosa, allo scenario silvestre e alla realtà notturna e sotterranea. Un’altra sfaccettatura della poliedrica dea latina ben documentata nell’ambito del lucus ormai romanizzato è il legame privilegiato con la sfera femminile. Tale aspetto si manifesta con particolare evidenza in occasione della grande festività di Diana, fissata alle idi di agosto: segno tangibile, quest’ultimo, dell’affermazione della dea rispetto al potente Giove che, oltre all’offuscarsi del santuario federale sul monte Cavo, finiva ormai estromesso anche in ambito calendariale, dato che tutte le idi erano a lui dedicate. In tale occasione festiva era appunto consistente la partecipazione femminile: una moltitudine di donne dal capo inghirlandato si muoveva da Roma e, giunta al misterioso bacino lacustre, portava torce accese al luogo di culto. Stando a una suggestiva descrizione di Ovidio (Fasti III 267-268), dalle siepi 74 a r c h e o
che fiancheggiavano il viale di accesso al santuario (probabilmente, il clivus Virbii, ricordato dal poeta Persio) pendevano tavolette votive e i licia, interpretati come lunghi nastri per legare i capelli, appesi dalle frequentatrici del lucus. Ma come si presentava, ai loro occhi, il luogo di culto? La rammentata ristrutturazione tardo-repubblicana aveva trasformato quella che doveva apparire inizialmente come una semplice radura, dotata di are e altri apprestamenti cultuali, in un complesso imponente, articolato almeno su due estesi ripiani.
DAGLI STERRI AGLI SCAVI In epoca moderna, il santuario fu oggetto, a piú riprese, di sterri, finalizzati al recupero di materiali di pregio; particolarmente fruttuosi furono quelli del diplomatico inglese John Savile Lumley, nell’estate
1885. A questa prolungata fase di saccheggi, responsabili della dispersione all’estero di sculture e altri reperti (non a caso, il nucleo piú consistente di questi materiali è conservato nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen), fecero seguito numerose campagne archeologiche, susseguitesi tra la prima metà del Novecento e gli ultimi anni. Tali indagini hanno restituito una visione piú definita del santuario, a cominciare da quella che a lungo è stata ritenuta un’unica, grandiosa piattaforma templare e che si è invece rivelato essere il terrazzamento inferiore del complesso, probabilmente raggiungibile dalla citata via processionale. Si tratta di un vasto ripiano rettangolare (superficie complessiva: 45 000 mq), rafforzato da strutture di contrafforte nonché delimitato, sul lato a monte, da due portici dorici.
Degno di nota è un settore del lato di fondo del recinto, nel quale, in un secondo tempo, si ricavò una sequenza di vani chiusi, in muratura. La denominazione di «celle donarie» che gli è stata attribuita si deve alle numerose erme e altre splendide sculture rinvenute al loro interno dagli scavatori della fine dell’Ottocento: risaltano, in particolare, un busto marmoreo di divinità maschile barbata (identificata con Esculapio) e una pregevole testa femminile, riferita al simulacro di culto della dea (vedi foto a p. 66, in basso). Al di là di alcuni resti individuati piú a ovest (e successivamente reinterrati), tra i quali spicca un piccolo teatro – elemento immancabile nell’assetto monumentale dei santuari laziali –, si segnala anche una costruzione rettangolare, inglobata in un casale moderno e
Nella pagina accanto: statua di Fortuna con cornucopia. Età imperiale (da un originale del IV sec. a.C.). Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
In alto: i resti del santuario della Fortuna Primigenia rendono ancora oggi inconfondibile lo skyline della moderna Palestrina.
identificata negli studi piú recenti come il tempio di Diana. Il ritrovamento poco distante di una struttura a volta ha fatto pensare alla presenza sul posto di una rampa, utile a collegare la terrazza inferiore con quella superiore. E le indagini svolte presso quest’ultimo a partire dal 2003, frutto della collaborazione tra l’Università di Perugia e la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, ne hanno confermato la presenza e l’indubbia rilevanza (vedi «Archeo» n. 368, ottobre 2015; anche on line su issuu.com).
direzione scientifica di Giuseppina Ghini, Filippo Coarelli, Paolo Braconi (e l’assistenza di Francesca Diosono), figurano a buon diritto le testimonianze di una frequentazione arcaica. Sembrano infatti rinviare alla venerata realtà silvestre frammenti di ceramica protostorica e residui di piante carbonizzate, unitamente a una sorta di aiuola quadrangolare, suggestivamente messa in relazione con l’albero «sacro» visitato dall’aspirante rex nemorensis (vedi foto a p. 71, in basso). Sul medesimo terrazzamento, a monte dei ritrovamenti appena descritti, è da segnalare infine uno LE FASI ARCAICHE Tra le acquisizioni piú significative scenografico edificio absidato, di di queste ricerche, condotte con la epoca imperiale, identificato come a r c h e o 75
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un ninfeo, alimentato in antico da una sorgente ormai disseccata (vedi a p. 71). La particolare ubicazione della struttura, visibilmente decentrata rispetto all’asse del complesso, insieme al consueto supporto delle fonti letterarie antiche, hanno indotto a localizzare in questo settore della terrazza superiore un’ultima, rilevante, componente del culto nemorense: la venerazione nei confronti di Egeria. Questa divinità minore, collegata
alle acque sorgive, ma ricordata soprattutto come musa ispiratrice del secondo re di Roma, Numa Pompilio, era localmente oggetto di devozione femminile accanto a Diana e al suo paredro Virbio. Qui pertanto, dovevano con buona verosimiglianza affluire, periodicamente, le donne laziali, in cerca di un aiuto divino, per esigenze connesse alla sfera della maternità: un’intensa frequentazione che si concluse solo alla fine del IV secolo d.C., con la
chiusura e il conseguente abbandono del lucus aricino.
AL COSPETTO DELLA DEA FORTUNA Lasciando il comprensorio albano, è di nuovo un importante culto femminile a scandire il nostro percorso, orientandoci verso un centro periferico del Latium vetus, a lungo caratterizzato da particolari condizioni di agiatezza e, al contempo, da una persistente fase di
BEATO CHI CI CREDE... A Marco Tullio Cicerone dobbiamo l’illustrazione piú ricca ed esaustiva delle pratiche divinatorie che si svolgevano nel santuario prenestino. Nel De divinatione, dialogo di argomento religioso in due libri, pubblicato intorno al 44 a.C., l’Arpinate fornisce una cospicua serie d’informazioni sulle modalità specifiche della consultazione oracolare, di cui testimonia peraltro la spiccata vitalità ancora ai suoi tempi. Agli occhi dell’illustre personaggio, il fenomeno descritto doveva costituire l’ennesima «aberrazione» popolare rispetto alle forme del culto ufficiale. Questo spiega il tono ironico e distaccato col quale viene presentato l’apprezzamento del popolo nei confronti delle sortes prenestine: «Che cosa di sicuro può esserci dunque in
queste sorti, che per ispirazione della Fortuna, per mano di un bambino vengono mescolate e tratte su? E in che modo codeste sorti furono poste entro quella rupe? Chi tagliò, chi squadrò quel legno di quercia, chi vi incise quelle scritture? “Non c’è nulla – rispondono – che la divinità non possa fare”. (...) Ma ormai l’opinione pubblica non dà piú credito a questo genere di divinazione: la bellezza e l’antichità del tempio mantiene ancora in vita la fama alle sorti prenestine, e soltanto tra il popolino. Quale magistrato, oggi, o quale uomo di un certo prestigio ricorre a quelle sorti? In tutti gli altri luoghi, poi, l’interesse per le sorti si è raffreddato completamente» (De divinatione II 41, 86-87; traduzione di Sebastiano Timpanaro).
Palestrina. Il pozzo quattrocentesco collocato ai piedi della cavea del santuario della Fortuna Primigenia, alla base della grandiosa scalinata del Palazzo Colonna-Barberini, costruito utilizzando la terrazza superiore dell’antico complesso.
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Particolare delle strutture superstiti del santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina. In basso: testa di Fortuna. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
antagonismo rispetto alla crescente potenza di Roma: Praeneste, l’attuale Palestrina. All’origine di tale florida situazione, ben testimoniata dai fastosissimi corredi restituiti dalle tombe principesche del periodo orientalizzante, vi è senz’altro la collocazione nel territorio, oltremodo favorevole: adagiata sul pendio di uno sperone del massiccio appenninico (il monte Ginestro, 752 m) e in posizione dominante rispetto all’imbocco della valle del Sacco e del Liri, Praeneste si trovava a controllare quello strategico corridoio naturale che congiungeva l’Etruria alla Campania. Occupava inoltre una posizione estremamente favorevole rispetto a un secondo itinerario commerciale: quello che, all’altezza dell’antico approdo di Anzio, collegava il litorale laziale all’entroterra appenninico.
Tali peculiarità territoriali determi- volte, ai ferri corti con l’inarrestabinarono, come detto, la fortuna di le potenza romana. questo superbo insediamento dei Monti Prenestini che, nel corso PRIMIGENIA O dell’età repubblicana, si trovò, piú PRIMOGENITA? In un saggio del 1955, Roma e Praeneste. Una polemica religiosa nell’Italia antica, lo storico delle religioni Angelo Brelich forní un’interessante lettura della storica inimicizia tra le due potenti città, ravvisandovi una netta contrapposizione sul piano religioso. Indicativa, in proposito, è la querelle sulle mitiche origini rispettivamente vantate: al bellicoso Romolo, fondatore dell’Urbe, i loro antagonisti avrebbero contrapposto un discutibile personaggio locale collegato al fuoco, di nome Caeculus. Costui sarebbe riuscito a radunare, sul posto, una primitiva popolazione raccogliticcia, riferendo e dando prova della sua nascita dal dio a r c h e o 77
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Vulcano: invocandolo, avrebbe infatti suscitato un cerchio di fiamme attorno agli attoniti presenti. Al di là dell’irreprensibilità dell’eroe fondatore (tutt’altro che garantita sia per l’una che per l’altra popolazione), la polemica religiosa si manifesterebbe nondimeno nel confronto tra i rispettivi culti principali: al Giove Capitolino, sommo protettore dei Romani, i fieri abitanti di Praeneste avrebbero contrapposto la loro venerata patrona, Fortuna, localmente venerata con l’epiteto di Primigenia. L’appellativo in questione è stato motivo di discussione: se alcuni studiosi, optando per l’inusuale traduzione come «primogenita», hanno riconosciuto nella dea una figlia di Giove (soggetta quindi alla potestà del dio), altri, attenendosi all’accezione comune del termine, vi hanno invece ravvisato una figura «primordiale», collegata alla dimensione delle origini. A riscontro di una
ostentata anteriorità, un’immagine esposta nel locale santuario la mostrava seduta e intenta ad allattare Giove e Giunone in fasce: il signore del pantheon romano sarebbe stato quindi evocato come un inerme lattante, attaccato al seno della divina patrona di Praeneste!
In basso: i resti del santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, in un’incisione di Luigi Rossini. 1824.
A destra: l’aspetto odierno dei resti del prospetto laterale del santuario tiburtino.
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NEL SEGNO DELLA DUPLICITÀ Prescindendo dalla controversia nei confronti dei Romani, la figura menzionata offre l’occasione per segnalare come, nell’antica Palestrina (cosí come nella collegata località di Anzio), la dea venisse concepita, nell’immaginario religioso, in una duplice versione: giovanile e amazzonica, da un lato, matronale e dispensatrice di vaticini, dall’altro. Tale duplicità è rilevabile, in qualche modo, anche nell’articolazione del santuario, caratterizzata dalla complementarietà tra l’abitazione della divinità (il tempio) e la sede
dell’oracolo. In un primo tempo, topograficamente distinte benché correlate, queste due realtà vennero successivamente unificate all’interno di uno strutturato complesso monumentale, la cui cronologia, a lungo discussa, è stata fissata con buona verosimiglianza agli ultimi decenni del II secolo a.C. Indispensabile premessa all’imponente operazione è il coinvolgimento dei Prenestini in quello che all’epoca era un fiorentissimo polo commerciale: l’isola di Delo, «il piú grande mercato del mondo», come scrive il grammatico Festo. La prolungata fase di benessere che ne seguí, insieme all’esigenza di autopromozione da parte dell’élite locale, ebbe come positiva ripercussione il rinnovamento del tessuto cittadino e l’ampliamento del santuario di Fortuna. Grazie all’intraprendente committenza locale, il venerato luogo di culto assunse caratteri di spiccata monumentalità,
sul modello delle grandiose architetture ellenistiche. Appariva infatti (e appare tuttora) come una maestosa sequenza di terrazze artificiali collegate, contraddistinte da studiate geometrie e dal massiccio ricorso al conglomerato cementizio, associato pressoché sistematicamente a un paramento murario a tessitura irregolare (opus incertum). Si aggiungeva anche la suggestiva localizzazione, da sempre esaltata: riferisce Cicerone che il filosofo Carneade (di manzoniana memoria), visitandolo, avrebbe affermato di non aver mai trovato altrove una «Fortuna piú fortunata» di questa. Travisato o nascosto per lunghi secoli, il complesso tardo-repubblicano si rivelò appieno solo a seguito dei devastanti bombardamenti del 1944, responsabili della cancellazione delle numerose storiche costruzioni che nel tempo gli si erano sovrapposte. I fondamentali studi pub-
blicati nell’immediato dopoguerra dall’archeologo Giorgio Gullini e dall’architetto Furio Fasolo hanno consentito di definire, almeno a grandi linee, la configurazione del santuario (vedi alle pp. 72 e 75).
L’ASCESA E LE ABLUZIONI Anche grazie alle successive ricerche, è oggi possibile ricostruire il percorso ascensionale del fedele verso la divinità, a partire dal terrazzamento ubicato sopra l’antico Foro (attuale piazza Regina Margherita). Due scalinate simmetriche, ricavate nel poderoso basamento, in opera poligonale, permettevano di raggiungere un ripiano superiore, dove si imponevano, alla loro vista, all’interno di edifici tetrastili, le vasche, solitamente ricollegate alle necessarie abluzioni da compiersi all’inizio del percorso. Suddivisa in due corsie esterne, prive di aperture, e due interne, scoperte e lastricate, una scenografica doppia
rampa conduceva dalla zona delle vasche lustrali al centro della soprastante terrazza, denominata «degli Emicicli» per la presenza di due esedre colonnate, disposte simmetricamente a movimentare un frontespizio porticato. L’emiciclo est (a destra per chi saliva) doveva costituire uno dei due punti nodali della topografia del santuario: vi si è riconosciuto, di volta in volta, il centro della devozione alla dea da parte delle madri prenestine e/o lo scenario della consultazione oracolare. All’adempimento di tali funzioni sono stati ricondotti i ritrovamenti effettuati nell’area: le presumibili testimonianze del citato simulacro di Fortuna in atteggiamento materno (come la bellissima testa marmorea, a esso riferita, esposta nel vicino museo; vedi foto a p. 77, in basso) e, soprattutto, il profondo pozzo, sormontato da un’edicola circolare, messo in relazione con lo specifico metodo divinatorio localmente in uso.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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Il podio del tempio che costituiva il cuore del santuario tiburtino dedicato a Ercole Vincitore. Nella pagina accanto: statuetta di Ercole giovane seduto sulla leonté, dal santuario di Ercole Vincitore. I sec. a.C. Tivoli, Antiquarium del Santuario di Ercole Vincitore.
In linea con il concetto di casualità associato alla dea Fortuna, qui si praticava una particolare forma di cleromanzia, cioè una divinazione basata sull’utilizzo di pezzetti di legno di quercia, con segni incisi, chiamati sortes. Sulla genesi e le modalità del loro impiego siamo ben informati da un passo di Cicerone che si mostra però piuttosto sarcastico e agnostico (vedi box a p. 76). Stando a un racconto locale, da lui riportato, i fatidici legnetti sarebbero stati prodigiosamente individuati da un eminente cittadino di Praeneste, tale Numerius Suffustius, il quale, atterrito da minacciose visioni notturne, avrebbe iniziato a perforare la roccia naturale, in una determinata località, scoprendo le sortes nella spaccatura prodotta. Grazie ancora a uno scettico Cicerone e a una rara attestazione iconografica si apprende che, al momento della consultazione oracolare, nella citata 80 a r c h e o
fenditura rocciosa identificata col misterioso pozzo presente sulla terrazza degli Emicicli, veniva calato un fanciullo che, «su ispirazione di Fortuna» (Fortunae monitu), provvedeva a estrarre una o piú sortes, dall’arca di legno in cui si trovavano riposte, e le portava in superficie.
IL RESPONSO FINALE La parola passava a questo punto al sortilegus, uno specialista interprete di cose sacre, il quale formulava il responso. È interessante rilevare in proposito come il termine «sortilegio», che oggi designa un maleficio o un incantesimo malvagio, avesse invece nell’antichità un’accezione prettamente tecnica, collegata proprio all’interpretazione di questi strumenti oracolari. Se poi per alcuni frequentatori il percorso si chiudeva con l’oracolo e il pozzo delle sorti, per altri l’itinerario si snodava attraverso ulteriori rampe e scali-
nate, alla volta del secondo polo del santuario: l’edificio templare vero e proprio e le sue pertinenze. Attraverso un terrazzamento di minore importanza, detto dei «fornici a semicolonne», si raggiungeva infatti quella che oggi è chiamata «Piazza della Cortina». Tuttora apprezzabile nella sua monumentalità, questo enorme ripiano rettangolare, circondato su tre lati da portici e aperto, a sud, verso la vallata sottostante, conferma la vicinanza di questa realizzazione scenografica al modello dei santuari ellenistici. A imitazione di questi ultimi si segnala infatti l’inserimento di una struttura teatrale, situata in prossimità del tempio. Specifiche esigenze cultuali (come lo svolgimento di riti in forma spettacolare) ne giustificano la presenza qui, come in altri venerati complessi del Latium vetus: un esempio degno di nota è anche quello di Giunone a Gabi, precedente di qualche
le, che faceva di essa il teatro di un evento prodigioso: lo stillare di miele da un albero d’olivo.
NEL NOME DI ERCOLE Pur non potendo rivaleggiare con la popolarità del luogo di culto fin qui descritto, un altro santuario prenestino, riferibile a Ercole in seguito al rinvenimento di due basi iscritte, dovette godere di particolare favore tra l’età arcaica e quella tardo-repubblicana: ad attestarlo è l’ingente numero di frammenti architettonici e di ex voto fittili restituiti dai depositi votivi. Degna di attenzione è però soprattutto la sua collocazione: si decennio e ubicato sulla stessa trovava, infatti, poco al di fuori delle direttrice stradale. Nel caso di Praeneste, la cavea, mura della città seppur modificata, coincide bassa, in prossicon la gradinata di accesso allo mità dell’instorico Palazzo Colonna-Bar- crocio tra berini (attuale sede del Museo Archeologico Nazionale; vedi foto a p. 76), la cui costruzione ingloba le componenti superiori del santuario: un portico semicircolare, sul culmine della cavea, e, sopra di esso, visibile a grande distanza, il tempio circolare dedicato a Fortuna Primigenia. Isolato dalla retrostante parete rocciosa da un’intercapedine in opus incertum, l’edificio doveva ospitare al proprio interno un simulacro bronzeo della dea in versione giovanile e guerriera. A comprovare l’importanza di questa parte sommitale era anche la tradizione loca-
la via Prenestina e una diramazione della Labicana. L’ubicazione in corrispondenza di importanti vie di comunicazione, tutt’altro che rara in relazione ai santuari del dio, viene in genere ricondotta allo specifico dossier di Ercole, che, a prescindere dalla natura eroica dell’Eracle greco, viene localmente concepito come patrono
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dei commerci, collegato al bestiame e ai suoi spostamenti. Tale caratteristica offre l’occasione per mettere a fuoco un ultimo, considerevole polo religioso del Latium vetus: quello di Ercole Vincitore a Tivoli, l’antica Tibur. Piuttosto frequente era l’accostamento di quest’ultimo alla venerata Fortuna di Praeneste. Ad associarli era un’intensa e prolungata frequentazione, nonché una comune funzione oracolare (purtroppo mal conosciuta nel caso del santuario tiburtino). Similare era inoltre l’appartenenza a un potente centro periferico del Latium antiquum, a lungo caratterizzato da una fase di antagonismo e di
aperta belligeranza nei confronti di Roma. Analoga era infine, assieme ai monumentali interventi di epoca tardo-repubblicana, l’ubicazione in uno scenario di particolare suggestione e visibilità. Nel caso di Ercole Vincitore, il luogo di culto (i cui inizi si collocano verosimilmente intorno al VI secolo a.C., a seguito di una vittoria sui Volsci) sorgeva in posizione dominante rispetto alla valle del fiume Aniene, su un pianoro interessato dal passaggio di quel fondamentale collegamento tra l’area romana e l’entroterra appenninico che era la via Tiburtina-Valeria. Accanto alla strategica localizzazio-
In basso: il teatro compreso nel santuario di Ercole Vincitore a Tivoli. Nella pagina accanto: la cosiddetta via Tecta, ovvero il passaggio in galleria della via Tiburtina nel santuario di Ercole Vincitore.
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ne, è da tenere in debito conto l’opinione, ampiamente condivisa, di una coincidenza tra lo storico tracciato, appena menzionato, e un remoto percorso della transumanza: tali fattori hanno indotto a ipotizzare, all’origine del sito religioso, la presenza di un antichissimo punto di sosta e di un mercato degli ovini, posto sotto la tutela di Ercole.
DONAZIONI GENEROSE Nel corso dei secoli, ad assicurare condizioni di particolare prosperità al santuario tiburtino fu l’insieme delle caratteristiche fin qui rilevate: una rispettata sede oracolare e un vivace luogo di transito e di scambi commerciali, nel quale si facevano generose largizioni alla divinità e si era tenuti a versare la decima sui guadagni localmente ottenuti. Come a Praeneste, questa florida situazione economica culminò verso la fine dell’età repubblicana, grazie alla partecipazione dei mercanti di Tibur ai lucrosi traffici dell’Egeo. L’afflusso di ricchezze che raggiunse il centro laziale consentí, anche in questo caso, di ridisegnarne il tessuto urbano e di rielaborarne, in forme grandiose, il principale luogo di culto. Improntato, ancora una volta, al linguaggio innovativo dell’architettura ellenistica, un poderoso intervento sul complesso religioso nei decenni iniziali del I secolo a.C. mutò radicalmente l’aspetto della zona, ubicata poco al di fuori delle mura urbiche. A un’incerta configurazione iniziale si sostituí infatti un organismo architettonico di dimensioni inaudite, che combinava mirabilmente le funzioni religiose e quelle commerciali. La struttura si affacciava sul precipizio dell’Aniene con un imponente apparato sostruttivo, su tre livelli, il terzo dei quali (in alto) ospitava ambienti verosimilmente destinati al deposito e alla vendita di merci, nonché il passaggio in galleria della via Tiburtina (la cosiddetta via Tecta). Al di sopra di questo sotterraneo li-
vello commerciale si innalzava all’esterno l’area templare: un ampio piazzale rettangolare (152 x 119 m), contornato su tre lati da due ordini sovrapposti di portici e dotato dell’immancabile edificio teatrale, al centro del quarto lato, che si apriva verso la campagna sottostante. In asse con il teatro, verso il lato di fondo porticato, si ergeva su un podio il tempio vero e proprio: a pianta rettangolare, doveva presentare otto colonne in facciata e dieci su ognuno dei lati lunghi. Un andito sotterraneo, raggiungibile dal fondo della cella, ha costituito, nell’ambito degli studi, un suggestivo richiamo alla misteriosa sede della consultazione oracolare.
DA TEMPIO A CARTIERA Incessante meta di frequentazione e pellegrinaggi fino al IV secolo d.C., il santuario di Ercole Vincitore fu in seguito oggetto di molteplici trasformazioni e di riusi, fino agli ultimi interventi di valorizzazione, collegati all’apertura al pubblico. Degno di nota è il suo reimpiego industriale, prima come armeria e ferriera e, infine, come cartiera.
Nell’ambito della musealizzazione del sito, spiccano iscrizioni e basi onorarie, che testimoniano munifici interventi a favore del santuario da parte di agiati cittadini e di potenti magistrati tiburtini. A questa categoria di benemeriti personaggi è in qualche modo ascrivibile il mercante Marcus Octavius Herrenus, il quale, stando a una discussa testimonianza di Macrobio, riuscito vincitore da un attacco piratesco, si sarebbe preoccupato di dedicare a Roma una statua e un tempio di Hercules Victor (da identificarsi col tempio rotondo del Foro Boario, erroneamente detto di Vesta) in segno di ringraziamento. L’episodio, rilevante sotto diversi profili, si rivela indicatore di un sistematico atteggiamento conciliante e «inclusivo» di Roma rispetto ai culti dei territori conquistati. Nel caso del Latium vetus, è agevole rilevare come i piú noti santuari locali continuino a godere di particolare considerazione anche dopo la conquista romana e, al contempo, come le principali divinità patrone delle città laziali (dall’Ercole Vincitore di Tivoli al-
la popolarissima Giunone Sospita di Lanuvio) vengano via via evocate sulle rive del Tevere, finendo con l’arricchire di templi e are, a loro dedicate, la topografia religiosa dell’Urbe. PER SAPERNE DI PIÚ Giuseppina Ghini (a cura di), Guida agli antichi Templi e Santuari dei Castelli Romani e Prenestini, Carsa, Pescara 2008 Elisa Marroni, Letizia Ceccarelli, Repertorio dei santuari del Lazio, Giorgio Bretschneider, Roma 2011 Stefano Ardito, Monica Di Gregorio, Sandra Gatti, Giuseppina Ghini, Claudia Piancatelli, Palestrina e il santuario della Fortuna Primigenia, Carsa, Pescara 2016 Giuseppina Ghini, Architettura e topografia del sacro nel Latium Vetus tra il IV e il III sec. a.C., in Francesco Cifarelli, Sandra Gatti, Domenico Palombi (a cura di), Oltre «Roma medio repubblicana». Il Lazio fra i Galli e la battaglia di Zama (Atti del Convegno Internazionale, Roma, 7-9 giugno 2017), Roma 2019; pp. 305-324 a r c h e o 83
ARCHEOTECNOLOGIA • MIMETISMO E CAMUFFAMENTO
IL NEMICO C’È,
MA NON SI VEDE... NAVI DEL COLORE DEL MARE, SCUDI SOTTRATTI AI NEMICI PER CELARE LA PROPRIA IDENTITÀ E, PIÚ DI RECENTE, UNIFORMI DALLE TINTE «NATURALI»: QUESTI E ALTRI ESPEDIENTI HANNO FATTO LA STORIA DEL MIMETISMO. ALLE CUI ORIGINI SI STAGLIA IL CAVALLO DI TROIA... di Flavio Russo 84 a r c h e o
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l mimetismo può essere definito, in estrema sintesi, come l’arte di essere presenti sembrando assenti; per contro il camuffamento, con il quale spesso viene confuso, può a sua volta definirsi come l’arte di essere presenti sembrando però qualcos’altro. In particolare il mimetismo si qualifica «criptico» (dal greco kryptikos, idoneo a nascondere) quando chi l’adotta tende a confondersi con l’ambiente circostante per nascondersi a un suo predatore o a una sua preda. È, invece, «fanerico» (dal greco faneros, che si vede), quando chi vi ricorre, pur restando sempre ben visibile, assume le sembianze di altri organismi, una prassi piú nota come camuffamento. Da sempre, in natura, il mimetismo criptico è ampiamente utilizzato da animali e piante, mentre l’uomo ha cominciato a servirsene solo da poco piú di un secolo in ambito bellico, in particolar modo con le tenute mimetiche. Per fare qualche esempio, la livrea di quasi tutti gli animali, dai mammiferi agli insetti, dagli uccelli ai rettili obbedisce alla logica di uniformarsi il piú possibile con l’ambiente circostante: l’orso polare si confonde con la neve e si copre il muso nero, per meglio cacciare; similmente, volpi e cani adattatisi ai climi artici hanno sempre il mantello bianco sia per garantirsi il pasto, sia per evitare di divenirlo. Per lo stesso motivo, nelle foreste la livrea preferenziale è verde, mentre nei deserti è gialla: tutte soluzioni apprese e copiate nelle uniformi da combattimento. Perché questa prassi abbia trovato un’adozione tanto tardiva si spiega con la mutazione delle modalità stesse di combattimento. Dall’antichità fin quasi alla prima guerra mondiale, gli scontri si sono infatti consumati innanzi tutto attraverso il contatto fisico delle opposte schiere dei belligeranti, una modalità che soltanto le armi da fuoco automatiche hanno interrotto. Ora nello
scontro corpo a corpo, quattro sensi contribuiscono alla esatta percezione del nemico: lo si vede, lo si sente, se ne avverte l’odore e lo si tocca, direttamente o col fisico o indirettamente con l’arma, condizione che rende inutile qualsiasi tentativo di sottrarsi all’individuazione basata unicamente sulla vista.
COLORI SGARGIANTI Si spiegano cosí le sgargianti uniformi variopinte dalle bande gialloblu, rese famose dalla guardia svizzera, o le giubbe rosse di britannica adozione, abbigliamenti che sembrano perfetti per favorire l’avvistamento del nemico. Del resto, anche il luccichio delle armature, che fossero le loriche dei legionari romani o le corazze dei cavalieri, come pure degli elmi e delle lame, fu per millenni l’avvertimento della vicinanza del nemico. Perdurando, quindi, il contatto diretto negli
scontri, non si sentí l’esigenza di alcun tipo di mimetismo. Assai diverse erano le tecniche della guerra sul mare: qui, prima di ingaggiare una battaglia, era necessario valutare le forze nemiche, ovvero avvistare e stimare il numero e la tipologia delle sue unità, poiché lo scontro navale è un combattimento di mezzi prima ancora che di uomini. La vista diveniva cosí l’unico senso utilizzato per l’individuazione, e, in quanto tale, abbastanza facilmente ingannabile, un criterio informatore su cui insiste il mimetismo animale e militare. In questo contesto celarsi mimeticamente alla vista nemica ebbe e ha una basilare valenza tattica, tanto che di un espediente del genere si trova menzione sin dal I secolo a.C. A voler ravvisare una peculiarità umana in questo vasto ambito, sarebbe quella di applicare espedienti mimetici non solo agli indumenti,
Nella pagina accanto: particolare della decorazione di un grande vaso di epoca arcaica che mostra la prima raffigurazione a oggi nota del cavallo di Troia. 675 a.C. Mykonos, Museo Archeologico. Lo stratagemma ideato da Ulisse può essere considerato un
esempio di mimetismo fanerico, piú noto come camuffamento. In basso: stampa ottocentesca che ricostruisce uno scontro combattuto dalle navi «venete», ovvero dipinte di un colore ceruleo, di Giulio Cesare durante la conquista della Britannia.
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ARCHEOTECNOLOGIA • MIMETISMO E CAMUFFAMENTO
che in sostanza corrispondono alle livree degli animali, ma persino ai mezzi utilizzati per la guerra, vuoi per nasconderli o per evidenziarli. Anche in questo contesto le livree mimetiche variano quindi secondo i luoghi, le stagioni e persino l’ora della giornata. Un sommergibile che abitualmente emerge di notte sarà scuro, quasi nero; una nave avrà invece la tinta del mare al crepuscolo; un carro armato che combatte nel deserto sarà giallastro, mentre nella neve sarà bianco. Pertanto, sebbene l’adozione militare del mimetismo, come accennato, sia assai recente, in età classica possiamo indidivuare i primi espedienti tesi a celare militi e imbarcazioni con una adeguata colorazione cerulea, tipica della superficie marina. Stando alle fonti, tra i primi ad adottare il mimetismo criptico vi sarebbe stato Giulio Cesare durante la conquista della Britannia, quando utilizzò in avanscoperta delle navi speculatorie (speculatoria navigia), ovvero battelli spia o da assalto insidioso. Secondo Flavio Renato Vegezio, quelle piccole unità adibite alla ricognizione, e non di rado ad abbordaggi alle navi da trasporto maggiori, erano dipinte come la superficie del mare, di un colore definito «veneto», compreso fra l’azzurro e il verde. Dello stesso colore, oltre agli scafi, era la cera con la quale, per aumentarne la velocità, venivano spalmate le vele, i remi, le gomene e le uniformi degli equipaggi, che, ovviamente, non avrebbero indossato alcuna lorica di ferro, né l’elmo tradizionale: una simile armatura, riflettendo i raggi del sole ed emettendo vistosi lampi di luce, avrebbe finito con lo svelare quanto il mimetismo cercava di nascondere. È perciò probabile che le corazze, se indossate, fossero coperte da tuniche, magari munite di cappuccio, cosí da celare anche l’elmo. Ecco dunque la testimonianza di Vegezio: «Tuttavia, affinché la presenza dei battelli da ricognizione spia non 86 a r c h e o
venga tradita dal loro stesso chiarore, si tingono le vele, i cavi delle manovre e la stessa cera con la quale si spalmano gli scafi, di colore veneto, verde-azzurro, che somiglia a quello delle onde marine. Inoltre anche i marinai come i fanti di marina indossano vesti dello stesso colore veneto, per celarsi piú facilmente all’osservazione nemica non solo di notte, ma anche di giorno» (IV, XXXVII). Appaiono evidenti la consapevolezza e la volontarietà dell’adozione del mimetismo criptico, per cui uomini e mezzi tentano di sottrarsi all’individuazione nemica assumendo una colorazione cerulea che li fa confondere con l’ambiente marino circostante, presupposto per un utilizzo insidioso.
LA REGINA DEI PIRATI Dal momento che tra la conquista della Britannia da parte di Cesare nel 54 a.C. e il testo di Vegezio (350-450 d.C.), intercorrono oltre quattro secoli, è poco plausibile immaginare che di quel vantaggioso espediente, sicuramente efficace soprattutto nei pattugliamenti fluviali o nella guerra ai pirati, si fosse del
tutto persa la memoria, tanto piú che proprio i predoni dovettero avvalersi in maniera sistematica del mimetismo criptico, che infatti ritroviamo adottato sulle loro imbarcazioni. Particolarmente aggressivi erano i pirati illirici, che ebbero per regina Teuta, unica donna della storia a capo di uno stato di pirati! Filostrato il Vecchio, nato a Lemno intorno al 191 d.C., e autore del poema Immagini, in cui descrive 68 quadri esposti in una villa presso Napoli, cosí ricorda, infatti, una nave di predoni: «La nave dei pirati e dotata di gru, di rostro, di arpioni di ferro e lance acuminate. Per incutere paura e dare al nemico l’impressione di essere un mostro marino è dipinta di verde, e sulla prora ha occhi minacciosi che sembrano fissare una preda, mentre la poppa che termina a mezza luna, somiglia alla coda ricurva dei pesci» (Filostrato I, 19). Filostrato, che non era un esperto d’arte militare, attribuisce la tinteggiatura cerulea delle navi dei pirati al tentativo di renderle somiglianti, per colore e per forma, a un mostro marino, il che, a suo dire, ne avrebbe
Nella pagina accanto: Pasifae entra nella vacca di legno costruita per lei da Dedalo, affresco finito a secco di Giulio Romano. 1526-1258 circa. Mantova, Palazzo Te. Il leggendario episodio può essere considerato un esempio di mimetismo fanerico. A destra: affresco raffigurante Dedalo che mostra a Pasifae, moglie di Minosse, la vacca in legno che ha costruito per lei, perché possa congiungersi con il toro inviato da Poseidone. I sec. d.C. Pompei, Casa dei Vettii.
fatto un esempio di mimetismo fanerico o di camuffamento. In realtà, appare di gran lunga piú plausibile che la conformazione della poppa non imitasse affatto quella di un mostro marino, ma fosse tipica delle navi da guerra di età classica: si sarebbe infatti trattato dell’aplustre, un ornamento costituito da piú legni ricurvi verso il ponte di coperta aperti a ventaglio. L’ultimo discendente dell’aplustre è il cosiddetto «ferro di poppa» o risso (riccio), il punto piú alto della gondola veneziana e che perciò segnala la possibilità di passare sotto qualche ponte minore in caso di acqua alta. Quanto alla coppia apotropaica di occhi dipinta simmetricamente alla
ruota di prua, trovava la sua ragion d’essere nella superstizione essendo destinata ad allontanare o a scongiurare gli influssi negativi e la malasorte, su ogni nave da guerra.
UNA PRATICA DI LUNGA DURATA? Assodato che quelle connotazioni delle navi dei pirati non erano dunque finalizzate a farle somigliare a mostri marini, la colorazione cerulea delle stesse fu adottata per renderle meno evidenti, cosí da non allarmare le ignare vittime. Come già per gli speculatoria navigia, anche per le unità navali dei pirati non siamo in grado di stabilire per quanto tempo la colorazione mimetica
venne adottata, e se altre imbarcazioni se ne avvalsero prima della dissoluzione dell’impero d’Occidente o magari durante la restante longeva vicenda esistenziale delle flotte di quello d’Oriente. Il mimetismo fanerico ebbe una adozione di gran lunga diversificata e ricca di esempi, definibile anche come camuffamento. Attestazioni celebri si rinvengono persino nella mitologia, come nel caso della vicenda di Pasifae, moglie di Minosse e madre del Minotauro. Stando alla tradizione piú diffusa, Poseidone inviò a Minosse un bianchissimo toro per sacrificarlo in suo onore, rito che il re si astenne dal compiere per la bellezza dell’animale, sostia r c h e o 87
ARCHEOTECNOLOGIA • MIMETISMO E CAMUFFAMENTO
tuendolo con un altro, somigliante. La vendetta del dio non si fece attendere, ispirando in Pasifae una folle passione per quel candido toro, al punto di suscitare nella donna il desiderio di congiungersi con l’animale. Pur di farlo, Pasifae incaricò Dedalo di costruire una vacca di legno rivestita di pelle, cava, nella quale nascondersi per consumare il rapporto. E, fecondata dal toro, diede alla luce il Minotauro. Per restare nell’abito dei finti animali, possiamo ricordare che anche il cavallo di Troia fu una forma di mimetismo fanerico, un camuffamento militare, destinato ad avere le ben note conseguenze. Un episodio affine, ma di gran lunga piú recente, è ricordato dallo storico Tito Livio, quando dà conto degli antefatti dell’agguato alle Forche Caudine, nel 321 a.C., e scrive che il comandante sannita: «Di lí inviò dieci soldati travestiti da pastori a Calazia, dove gli era giunta voce si trovassero già il console e l’accampamento dei romani, e ordinò loro di pascolare il bestiame vicino alle loro guarnigioni armate, a distanza l’uno dall’altro. Nel caso si fossero poi imbattuti in predatori
nemici, avrebbero dovuto riferire tutti la stessa storia, e cioé che gli eserciti sanniti si trovavano in Apulia, che erano impegnati ad assediare Luceria con tutte le forze e ormai stavano per prenderla d’assalto» (Livio IX, 2).
LEGIONARI SOTTO COPERTURA Un fatto sostanzialmente simile, sebbene di quasi quattro secoli piú tardo, ebbe luogo durante il sacco di Cremona nel 69 d.C. (l’evento si consumò nel corso della guerra civile scoppiata nell’anno detto «dei quattro imperatori» – Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano – e vide prevalere i sostenitori di quest’ultimo sui sostenitori di Vitellio, n.d.r.), cosí rievocato da Tacito: «I vitelliani avevano piazzato le loro baliste sull’argine della strada, per poter scagliarne i colpi da un terreno libero e scoperto mentre prima si perdevano contro gli alberi senza danno per i nemici. Un servente gigantesco della Quindicesima legione, massacrava le file opposte con pietre enormi. Ne sarebbe scaturita una strage se due legionari, passando inosservati, dopo aver sottratto due scudi ai cadaveri, non fossero riusciti con straordinaria te-
Cannone da 149 mascherato. Campo Rossignolo, 5/3/1918, carboncino del pittore e illustratore italiano Gerolamo Bartoletti (1893-1962), che partecipò al primo conflitto mondiale in fanteria nella Brigata Perugia.
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merarietà a tranciare le corde delle matasse e le cinghie di caricamento della macchina. Furono uccisi sul posto e non se ne seppero i nomi, ma il fatto è certo» (Tacito IIII, 23). In questa circostanza, gli scudi sottratti ai cadaveri appartenevano alla fazione avversa, per cui i due legionari, servendosene, si camuffarono da vitelliani, in modo da poter compiere senza alcuna resistenza il loro sabotaggio. Scoperti, furono subito uccisi, non essendo riusciti a fuggire. Al pari della precedente, anche questa operazione fece ricorso al camuffamento – e oggi verrebbe definita «sotto copertura» –, ma entrambe possono a ragione essere ricondotte nell’ambito del mimetismo fanerico. Per rintracciare un nuovo espediente mimetico in un contesto bellico si deve attendere il 1592, quando l’ingegner Giovanni Francesco Fiammelli, al seguito di Alessandro Farnese, riuscí a compiere una ricognizione nell’accampamento di Enrico IV sotto Rouen, come racconta in una delle sue opere (Il principe guerriero, IV, c. 7), in pieno giorno, utilizzando vari stratagemmi, tra cui quello di vestirsi color di terra, prima tuta mimetica propriamente detta. Né possiamo escludere che, sia pur sporadicamente, i legionari si avvalessero di piccoli rami coperti di foglie per nascondersi, creando cosí il presupposto al quale si ispirerà William Shakespeare nel 1623 per l’episodio finale del Macbeth, cosí rievocato: «Malcolm, a capo di un esercito inglese, ordina a ogni soldato di tagliare un ramo d’albero della foresta di Birnam e di nascondersi dietro di esso, come scudo mimetico per sferrare l’assalto al castello di Macbeth… e [quandi questo] si prepara a fronteggiare l’assalto, le vedette, quasi trasecolate, riferiscono di aver avuto dagli spalti la sensazione che la foresta di Birnam si stia avvicinando alle mura. Le truppe mimetizzate, giunte a ridosso del castello, procedono all’assalto». Un espediente tuttora ampiamente impiegato.
SPECIALE • OCEANIA
OCEANIA POTERE E PRESTIGIO di Steven Hooper
Nelle società delle isole del Pacifico, i cosiddetti «bastoni di comando» erano simbolo di rango e autorità, incarnazioni del potere divino, preziosi beni di scambio e accessori usati nelle occasioni rituali o ufficiali. Molti di essi non sono mai stati impiegati come armi. L’incredibile varietà delle forme in cui erano realizzati dimostra le eccezionali capacità innovative degli scultori del Pacifico. Non piú in uso, oggi sono per lo piú abbandonati nei depositi di musei sparsi in tutto il mondo. Una raffinata mostra allestita a Palazzo Franchetti di Venezia, ideata e promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue e curata da Steven Hooper, espone 130 magnifici esemplari di «bastoni del comando» realizzati tra la fine del XVII e il XIX secolo. Restituendo dignità e conoscenza a questi manufatti, testimoni unici di un mondo scomparso 90 a r c h e o
Sulle due pagine: «Spada cerimoniale» in legno, conchiglie e gomma. Micronesia, Palau, seconda metà del XVIII sec. Londra, British Museum. In basso, a destra: Kinikini, bastone di comando a pagaia. Figi, XVIII-inizi del XIX sec. Belgio, Collezione privata.
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ella mente di molti europei, il termine «mazza» e i suoi equivalenti in altre lingue evocano l’immagine di un’arma primitiva, un pezzo di legno grezzo brandito da un eroe dell’antichità come Ercole o magari da un isolano dei mari del Sud. Nell’arte classica il semidio viene spesso raffigurato con accanto la sua mazza, che però, come gli esemplari presentati in questo articolo, non era affatto un pezzo di legno qualunque. Ricavata da un albero di ulivo – a sua volta ricco di significato nel mondo antico – essa consentí a Ercole di uccidere, nella sua prima fatica, il leone di Nemea, invulnerabile a qualsiasi spada o lancia, e di indossarne la pelliccia protettiva dopo averlo tramortito con un rapido colpo, strangolato e scuoiato. Le mazze o bastoni non erano dunque armi ordinarie, né nella mitologia europea né tantomeno nei «mari del Sud», ossia in Oceania. Si potrebbe essere tentati di associarli a un periodo piú violento dei conflitti umani, benché si fatichi a credere come armi del genere possano essere ritenute piú brutali di una bomba a mano, una mitragliatrice o un ordigno nucleare. A incutere timore è forse il fatto che essi, salvo i pochi esemplari che venivano scagliati, erano utilizzati in scontri ravvicinati e in combattimenti corpo a corpo, che evocano a r c h e o 91
SPECIALE • OCEANIA
un orrore viscerale e immediato. Nel Settecento e Ottocento l’idea che fossero dispensatori di morte ossessionava e al tempo stesso affascinava gli europei, soprattutto quelli che avevano fatto l’esperienza o stavano per avventurarsi nei mari del Sud. Herman Melville, che aveva visitato le isole del Pacifico lavorando sulle baleniere, descrisse un atteggiamento simile in Moby Dick. Entrando nella Locanda della Balena a New Bedford, Ismaele rimane colpito da ciò che vede di fronte a sé: «La parete opposta di questo vestibolo era tutta quanta coperta di una paganesca serie di mazze e lance mostruose. Alcune erano fittamente ornate di denti luccicanti simili a seghe d’avorio; altre erano impennacchiate con ciuffi di capelli umani; ed una era fatta a forma di falcetto, con un gran manico che si curvava come la traccia lasciata nell’erba falciata di fresco da un falciatore dalle lunghe braccia. C’era da rabbrividire a guardare» (Melville 1851, edizione italiana 2015, p. 36). Mentre alcuni viaggiatori e missionari furono testimoni oculari della potenza di questi manufatti, molti altri non ne ebbero esperienza
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diretta ma ne immaginavano gli effetti. L’orrore scaturisce forse dalla prossimità della violenza. A differenza dei bastoni, armi come fionde, archi e frecce, zagaglie, moschetti e fucili, cannoni o lanciarazzi compiono il loro crudele lavoro a distanza. L’aggressore prova una sorta di distacco asettico, una separazione che mitiga l’impatto sanguinoso e immediato delle sue azioni, mentre il destinatario dell’attacco sperimenta sempre lo stesso trauma violento, come tanti figiani, tahitiani o maori della Nuova Zelanda avrebbero potuto riferire, se ne avessero avuto i mezzi, di quando venivano colpiti dai moschetti americani o bombardati dai cannoni britannici.
COLPIRE A DISTANZA Ma questo articolo, e la mostra in corso a Venezia, non riguarda la condizione morale di quegli uomini – si tratta quasi sempre di uomini – dell’Oceania e oltre, che brandivano bastoni o uccidevano a distanza. E neppure ha come tema principale la guerra, benché gli esseri umani si siano sempre organizzati per sterminare altri membri della loro specie, e mai cosí efficacemente come
Sulle due pagine, da sinistra: ‘Akatara, lancia con lama dentellata (Isole Cook centrali, Atiu, Aitutaki, Mitiaro, Mauke (?), fine del XVIIIinizi del XIX sec.); Tokotoko pioo, bastone cerimoniale (Isole Marchesi, prima metà del XIX sec.); Úu, bastone di comando bifronte (Isole Marchesi, fine XVIII-inizi del XIX sec.); Rapa, bastone da danza bifronte (Rapa Nui/ Isola di Pasqua, prima metà del XIX
sec.); Úu, bastone di comando bifronte (Isole Marchesi, fine del XVIII-inizi del XIX sec.); Ua, bastone da combattimento bifronte (Rapa Nui/Isola di Pasqua, prima metà del XIX sec.); mazza cerimoniale/ bastone da danza (Papua Nuova Guinea, Buka, fine del XIX-inizi del XX sec.); ’Akatara, lancia dentellata a punta doppia (Isole Cook centrali, Atiu, Aitutaki, Mitiaro, Mauke (?), fine del XVIIIinizi del XIX sec.).
nei secoli recenti, nel corso dei quali gli europei hanno messo a punto dispositivi letali spaventosamente efficienti che si sono diffusi nel pianeta come un virus. In genere queste moderne macchine di morte sono standardizzate e non è possibile personalizzarle: un Kalashnikov è piú o meno identico a qualsiasi altro. I bastoni di comando dell’Oceania, invece, sono tutti diversi. Essendo fabbricati a mano, ognuno è un pezzo unico; spesso avevano nomi personali e svolgevano molteplici ruoli, uno solo dei quali aveva risvolti violenti. La loro varietà lascia sbalorditi: i depositi dei musei di tutto il mon-
do, compresa la regione del Pacifico, ne conservano a migliaia, appesi a rastrelliere o adagiati su mensole, testimoni pazienti e silenziosi di glorie passate e malintesi attuali. Variamente classificati come bastoni, massues, casse-têtes, clubs, clavas, keules, sono in molti casi la tipologia di manufatto antico piú numerosa giunta fino a noi da una cultura oceanica. Di solito, tuttavia, questa abbondanza non si riflette – almeno attualmente − nel numero di pezzi esposti nei musei, dove sembra ormai prevalere una certa riluttanza nei confronti delle armi. Se nell’Ottocento collezionisti e curatori facevano a
«La parete opposta di questo vestibolo era tutta quanta coperta di una paganesca serie di mazze e lance mostruose. Alcune erano fittamente ornate di denti luccicanti simili a seghe d’avorio; altre erano impennacchiate con ciuffi di capelli umani; ed una era fatta a forma di falcetto, con un gran manico che si curvava come la traccia lasciata nell’erba falciata di fresco da un falciatore dalle lunghe braccia. C’era da rabbrividire a guardare»
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SPECIALE • OCEANIA
CRONOLOGIA DELL’OCEANIA Circa 50 000 I primi esseri umani giungono dal Sud-Est asiatico alle attuali Nuova Guinea e Australia. anni fa 1300-1000 a.C. Il popolo lapita di lingua austronesiana, produttore di un particolare tipo di ceramica, esplora l’arcipelago di Bismarck e le Salomone, facenti parte dell’«Oceania vicina», e si spinge fino alle isole di Vanuatu e della Nuova Caledonia, appartenenti all’ «Oceania lontana». Colonizzazione della Micronesia occidentale, probabilmente dalle Filippine. 1000-800 a.C. I «lapita» navigano verso est per insediarsi nelle isole Figi, Tonga e Samoa. 800 a.C.-950 d.C. Ulteriori migrazioni e mescolanze in tutte le aree colonizzate dell’Oceania, compresa la Micronesia. 950-1050 Viaggiatori provenienti da Samoa/Tonga navigano verso est per stabilirsi nella Polinesia centrale, isole della Società e Marchesi incluse. 1050-1250 Viaggiatori provenienti dalla Polinesia centrale esplorano e colonizzano tutte le restanti parti della Polinesia, tra cui Hawaii, Rapa Nui e infine Aotearoa/Nuova Zelanda (1250 d.C. circa); alcuni raggiungono il Sudamerica e ritornano con la patata dolce, che si diffonde verso ovest. 1200-1500 Viaggiatori provenienti dalla regione di Samoa navigano verso ovest per occupare zone della «Polinesia periferica» in Melanesia e Micronesia; le isole Chatham vengono colonizzate dall’Aotearora Nuova Zelanda.
Mappa dell’Oceania realizzata sotto la direzione di Jean-Guillaume Barbie du Bocage. Vi compaiono Australia (indicata come «Paese sconosciuto o Nuova Olanda»), Nuova Zelanda, Polinesia, Micronesia, Melanesia e Malesia. 1852. 94 a r c h e o
1520-1521 Quella di Magellano (Spagna) è la prima spedizione europea che attraversa il Pacifico, visitando Guam nelle Marianne. Settecento, Nel Settecento furono compiuti i primi tentativi, infruttuosi, di fondare missioni cattoliche e Ottocento e protestanti a Tahiti (1775,1797), alle Marchesi (1797) e a Tonga (1797). Missioni cristiane vennero Novecento progressivamente insediate nel corso dell’Ottocento e del Novecento in tutta l’Oceania, la cui popolazione in molti luoghi è oggi per lo piú cristiana. Nel corso dell’Ottocento i viaggi di occidentali in Oceania – in particolare britannici, francesi e americani – diventano piú frequenti. Sin dall’arrivo di questi primi viaggiatori, le frequenti epidemie portate dall’Europa falciarono le popolazioni di molte isole. Tra Ottocento e l’inizio del Novecento, la maggior parte degli arcipelaghi passa sotto il dominio coloniale diretto o indiretto di britannici, francesi, spagnoli, tedeschi e americani. L’Australia viene rivendicata dalla Gran Bretagna nel 1788. In diversi luoghi, tra cui Australia, Aotearoa/ Nuova Zelanda e Hawaii, gli indigeni diventano una minoranza nelle loro terre ancestrali. Tutti i viaggiatori, i missionari e gli ufficiali coloniali europei in Oceania raccolsero materiali oggi conservati in musei e collezioni in Europa, Nord America, Oceania e altrove. Una porzione rilevante di questi materiali è costituita da «bastoni». ’Akatara, lancia dentellata in legno con iscrizione in foglia d’oro. Isole Cook centrali, Atiu, Aitutaki, Mitiaro, Mauke (?), fine del XVIII-inizi del XIX sec. Venezia, Collezione Ligabue.
gara nell’allestirne splendide esposizioni in grado di rivaleggiare con le parate marziali organizzate dai proprietari originari, beandosi dei racconti delle loro prodezze solo immaginate, oggi invece il sentore di morte e il retaggio maschilista hanno reso questi oggetti meno desiderabili sia per le istituzioni museali sia per il pubblico, dal momento che la sensibilità moderna impone di tacere il passato bellicoso delle terre colonizzate. Il fatto che probabilmente molti di essi non siano mai stati utilizzati in combattimento passa generalmente inosservato. Considerando questo recente imbarazzo, forse non stupisce il fatto che, nonostante l’abbondanza di bastoni di comando provenienti dall’Oceania, non sia mai stata realizzata alcuna mostra o pubblicazione esaustiva sull’argomento. Alcuni autori si sono concentrati su esemplari provenienti da luoghi specifici, come le Figi e le Tonga, o hanno trattato il tema nell’ambito di ricerche culturali piú ampie, ma raramente essi sono stati considerati qualcosa di diverso da armi pure e semplici. Qualche collezionista entusiasta dell’Ottocento, come il tenente generale Augustus Pitt-Rivers, li usò per suffragare teorie, oggi screditate, sull’evoluzione delle armi da semplici a complesse. In alcuni
casi furono anche inseriti in elaborate esposizioni di un genere precedentemente frequente nelle armerie europee, nei castelli baronali scozzesi o persino in musei di strumenti agricoli. A posteriori queste mostre sono state bollate come «trofei» colonialisti, analogamente a quelle allestite nell’Ottocento per presentare trionfalisticamente le teste di animali selvaggi dell’Africa o dell’Asia meridionale.Tuttavia nel caso dei bastoni oceanici, questa ipersensibilità postcoloniale è dettata probabilmente da una discutibile lettura delle intenzioni dei collezionisti.
IL «RECUPERO» DI UNA CULTURA Le motivazioni dei collezionisti erano molteplici e non sempre autocelebrative. Raramente si trattava di bottini di guerra, come dimostra il fatto che questi e gli altri esemplari della cultura delle Figi, raccolti in gran numero negli anni Settanta dell’Ottocento dal barone Anatole von Hügel, da Alfred Maudslay e da Sir Arthur Gordon (la maggior parte dei quali si trova oggi a Cambridge e al British Museum), rientravano in un progetto di «recupero», volto a conservare traccia della ricchezza della cultura delle Figi prima che, come ci si aspettava allora, i figiani si estinguessero. Anche se una devastante epidemia di a r c h e o 95
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morbillo scoppiata nel 1874-1875 aveva reso questa possibilità molto realistica, i figiani non scomparvero. La popolazione subí un drastico declino, ma la loro cultura seppe adattarsi, sopravvisse ed è rimasta vivace fino a oggi: i bastoni continuano a essere usati nelle danze organizzate per intrattenere turisti e locali e in occasioni cerimoniali in cui sono esibiti da guerrieri della guardia d’onore. In molte parti dell’Oceania è usuale offrire versioni moderne o copie di bastoni come doni diplomatici, nel caso dei britannici spesso destinati ai membri della famiglia reale. Nel 1978 gli abitanti dell’isola di Tanna, nell’arcipelago di Vanuatu, ne donarono uno al duca di Edimburgo, che ricambiò con una sua foto in cui teneva l’esemplare in mano. I principi William e Harry hanno ricevuto bastoni di comando in ricordo della loro visita alle isole Salomone e Figi rispettivamente nel 2012 e 2018, mentre Sua Maestà la regina Elisabetta II è stata omaggiata con un tewhatewha maori dalla banda militare che nel 2016 si è esibita al castello di Windsor durante i festeggiamenti per il suo novantesimo compleanno.
CHE COS’È UN BASTONE DI COMANDO? Proponiamo la tesi che i bastoni oceanici non siano puri e semplici strumenti di guerra. Vorremmo quindi andare «oltre l’arma» per dar conto della grande varietà di forme, dimensioni, ornamentazioni, disegni e materiali che li caratterizza, allo scopo di sfidare assunti e pregiudizi, smontare concetti diffusi e ricostruire una comprensione di questi oggetti basata sulle prospettive e le pratiche indigene. Una delle domande fondamentali che hanno orientato il progetto è: «Se per combattere in maniera efficace era sufficiente un bastone ben bilanciato, perché le popolazioni di tutto il Pacifico si prendevano 96 a r c h e o
la briga di creare queste preziose sculture con la loro incredibile varietà di forme e motivi?». Una risposta semplice potrebbe essere: «Perché chi le fabbricava pensava a ben altro che alla loro efficacia come armi». In combattimento, cosí come in ogni altro aspetto della vita in Oceania (o in qualsiasi altra parte del mondo tra il Settecento e l’Ottocento), il successo o il fallimento di una persona dipendeva tanto dallo stato dei suoi rapporti con le potenze divine, gli antenati e gli dei, quanto dalle sue abilità personali. Fin da quando si è raggiunto il pieno sviluppo delle capacità cognitive, gli esseri umani hanno ritenuto che potenze superiori potessero intervenire nei loro affari terreni e hanno profuso notevoli energie creative per interagire in maniera efficace con quelle fonti di potere. La principale forma assunta da questa interazione è, in pratica, lo scambio: gli esseri umani fanno offerte e sacrifici alle potenze superiori nella speranza e nell’attesa che esse ricambino con benedizioni, salute e abbondanza, ossia le cose che gli esseri umani desiderano. Per facilitare e celebrare questo rapporto fondamentale, nell’arco di molti millenni gli esseri umani hanno creato quelle straordinarie istituzioni culturali e tradizioni filosofico-etiche che vanno generalmente sotto il nome di «religioni». Fino a un periodo molto recente della storia dell’uomo, le piú grandi forme d’arte – scultura, architettura, musica, pittura, arte del tessuto – sono
Nella pagina accanto: bastone-ascia «tomahawk» in legno, acciaio, madreperla e pasta di noce. Isole Salomone, probabilmente Makira, fine del XIX-inizi del XX sec. Collezione Bart van Bussel. In questa pagina: dio-bastone in legno con estremità decorate da figure. Isole Cook, Rarotonga, fine del XVIII-inizi del XIX sec. Londra, British Museum.
nate nell’ambito di questi rapporti di scambio tra individui e potenze superiori, cioè nell’ambito della religione. Gli uomini hanno sacrificato tempo, abilità ed energia per edificare templi e cattedrali, decorarli riccamente, foggiare immagini e altri manufatti su cui concentrare l’attenzione rituale, come pure per creare danze, canti e musiche volti a compiacere spiriti/antenati/dei.
IL RAPPORTO CON GLI SPIRITI Come ho sostenuto altrove, questa prospettiva transculturale dell’arte e della religione, per alcuni discutibile, prende in considerazione la storia profonda del comportamento umano senza privilegiare tradizioni emerse in Medioriente negli ultimi due millenni. È in questo quadro analitico che i bastoni dell’Oceania vengono presi in esame. Gli artigiani che li rifinivano e li decoravano solo di rado tenevano in considerazione particolarità tecniche che ne determinavano l’efficacia in battaglia; pensavano piuttosto al rapporto con spiriti, antenati e dei, oltre che con altri individui. Essi venivano «adornati» per le stesse ragioni per cui i cristiani abbellivano le chiese con vetrate e i musulmani decoravano le moschee con mattonelle colorate. Se tali compiti, che esigevano tempo e capacità, non erano fondamentali per il culto, creavano tuttavia grande bellezza nel contesto di una devozione profonda. L’intento della mostra (e del catalogo che l’accompagna) è far uscire i bastoni di comando oceanici dall’ombra dei depositi per riportarli alla luce, consentendo al pubblico di apprezzarli. Un punto chiave per ottenere questo risultato è assumere il punto di vista di chi li ha creati e utilizzati nel «lungo Ottocento», ossia il periodo che va dalla fine del Settecento all’inizio del Novecento, sul quale il presente saggio è prevalentemente incentrato. Che cosa significavano questi manufatti per gli uomini che li realizzavano e per quelli che li usavano in combattimento? Per
Perché a questi manufatti sono stati conferiti forme e motivi cosí particolari?
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chi li brandiva nelle danze, li esibiva, li consacrava, li scambiava, li conservava, li cedeva, li distruggeva? Perché sono stati conferiti loro forme e motivi particolari? Benché l’operato di associazioni missionarie e amministrazioni coloniali, il passare del tempo e la modernità abbiano complicato il recupero di conoscenze, in questa sede si è cercato di riunire informazioni in grado di fornire una piattaforma per studi e ricerche future nel Pacifico e oltre. Gran parte dei saperi e delle abilità è andata perduta, ma si può far molto per collocarli in una categoria non confinata ad «armi primitive». A titolo di esempio, il direttore del Cook Islands Library & Museum sta attualmente lavorando a un progetto di ricerca assieme a me e all’intagliatore locale Henry Tavioni in modo da riprodurre le sofisticate tecniche usate duecento anni fa per creare la forma e la patina delle famose lance dai bordi dentellati delle isole Cook, considerate da Te Rangi Hiroa «le piú belle della Polinesia».
NUOVI ORIZZONTI Un altro obiettivo del progetto «Power and Prestige» è restituire a questi oggetti artistici la dignità di una storia.Troppo spesso in passato, nell’ambito di mostre o pubblicazioni e sulla scia di inesatte teorie evoluzioniste (come quella proposta da Augustus Pitt-Rivers), l’arte oceanica, e in particolare i bastoni di comando, sono stati presentati in maniera astorica. Mentre armi e armature europee e asiatiche sono state oggetto di grande attenzione da parte degli storici dell’arte, che hanno fornito date e segnalato adattamenti, gli splendidi manufatti oceanici sono presentati spesso come «Bastone Figi», quasi fossero il frutto di uno stile sempre uguale a se stesso esistito fuori del tempo. Noi sappiamo invece che gli artisti oceanici erano − come qualsiasi altro artista − estremamente sensibili al mutare delle influenze e che le forme e i motivi cambiavano nell’arco di periodi piuttosto brevi. Né questi oggetti né i loro creatori erano collocati in un limbo storico, contrariamente al pregiudizio europeo comune su regioni come l’Oceania che è stato 98 a r c h e o
A sinistra: altre due immagini di un Rapa, bastone da danza bifronte in legno. Rapa Nui/ Isola di Pasqua, prima metà del XIX sec. Roma, Congregazione dei Sacri Cuori di Gesú e Maria.
Qui accanto: ‘Ao, bastone di comando bifronte in legno. Rapa Nui/ Isola di Pasqua, prima metà del XIX sec. Roma, Congregazione dei Sacri Cuori di Gesú e Maria.
DEFINIZIONI E PROBLEMI DI CLASSIFICAZIONE Gli esseri umani hanno costantemente classificato il mondo circostante e gli oggetti che producono. Questi sistemi di classificazione non trovano sempre corrispondenza tra una cultura e l’altra, ma hanno senso nell’ambito di un determinato contesto culturale. Per esempio, da quando la zoologia è formalmente diventata una branca della scienza secondo il sistema tassonomico linneano – frutto di una tradizione culturale europea – le balene sono classificate come mammiferi, dunque piú strettamente imparentate con i maiali che con i pesci perché respirano aria e danno alla luce dei piccoli già formati. Analogamente, le tartarughe sono classificate come rettili perché respirano aria e hanno in comune altre caratteristiche con serpenti e coccodrilli, come la deposizione delle uova. Tuttavia i figiani e altri isolani del Pacifico, che attribuiscono grande importanza culturale alle distinzioni tra terra e mare, considerano balene e tartarughe come pesci, perché ritengono l’habitat in cui vivono piú significativo del fatto che respirino o del modo in cui si riproducono. Dal punto di vista di un figiano ciò è del tutto logico. Vale quindi la pena ricordare che i sistemi di classificazione sono costrutti culturali, invenzioni fondate su logiche culturali dominanti. Imposti talvolta in maniera inopportuna per fanatismo o ignoranza, essi possono rivelarsi utili oppure ostacolare il processo di comprensione. Riguardo alle balene, gli
zoologi danno priorità al respiro e al processo riproduttivo, mentre i figiani danno priorità al mare, l’habitat che esse condividono con squali, razze – e tartarughe. Per i curatori di musei, quotidianamente alle prese con sistemi di classificazione che impongono ordine – o disordine – alle loro collezioni, i bastoni sono un dilemma. Quando un bastone è un bastone e quando una zagaglia? O magari uno scettro, una mazza cerimoniale, un’asta, una picca o uno spuntone (una lancia di media lunghezza)? Quando invece è un’immagine divina? Rientra nell’ambito della guerra o della religione? Questi interrogativi riguardanti materiali extraeuropei non sempre vengono risolti facilmente nei musei moderni, che sono fenomeni culturali di origine europea, e hanno creato non poche difficoltà anche ai componenti del progetto «Power and Prestige». La vasta terminologia sviluppata dai musei per classificare le armi a mano della tradizione europea e asiatica include alcuni dei termini che abbiamo già incontrato, come mazza cerimoniale, e altri quali falcione, falce da guerra, alabarda, guandao e naginata, che indicano forme specifiche provenienti da Europa, Cina e Giappone. I manufatti del Pacifico sono generalmente classificati come bastone, zagaglia o arco e freccia, ma poiché si è detto di voler andare «oltre l’arma», abbiamo lasciato permeabili i confini tra mazza, bastone da danza e altri oggetti analoghi.
ben evidenziato da Eric Wolf nel suo importante volume L’Europa e i popoli senza storia (Bologna, Il Mulino 1990). Sappiamo che la maggior parte dei fabbricanti di bastoni resteranno inevitabilmente senza nome, ma numerosi esempi del frutto del loro lavoro sono stati conservati nei musei per essere studiati dalle generazioni successive, compresi i loro discendenti. Le loro scelte creative possono essere apprezzate in quella che Alfred Gell avrebbe chiamato la «persona distribuita» negli oggetti che essi hanno prodotto e che li rappresentano, oggi disseminati in tutto il mondo.
QUALCOSA DI DIVERSO Il tempo, l’energia e le capacità profusi nella realizzazione di questi oggetti sono una prova evidente di come questi fossero un aspetto indubbiamente importante delle culture che li producevano. È auspicabile che il tentativo di comprenderli da un punto di vista locale, e non secondo i pregiudizi europei, elimini ogni residuo imbarazzo o pudore da parte degli isolani o dei curatori di musei. Essi sono «fatti sociali» della storia, al pari della spada giapponese, dello spuntone italiano, dell’alabarda inglese, delle pistole con intarsi in corno tedesche, dei Dzeferdar con inserti in madreperla dei Balcani o dei fucili a pietra focaia francesi con le splendide incisioni di Nicolas-Noël Boutet: tutte erano (occasionalmente) armi, ma ciascuna era ed è qualcosa di diverso, ossia il raffinato risultato della creatività umana. Da questo punto di vista, alla domanda «Che cos’è un bastone di comando?» si può rispondere sinteticamente che è piú di un’arma. Fornire una risposta piú articolata è invece il compito della mostra. Il nostro obiettivo è respingere le risposte semplici per costruire una comprensione piú approfondita che li riveli, interpreti e celebri come sculture, preziosi beni di scambio, simboli di autorità, accessori per rappresentazioni e incarnazioni del potere divino – in sintesi, che renda loro giustizia e restituisca ai loro creatori i meriti dovuti. Con il procedere del progetto «Power and Prestige» è emerso con chiarezza quanto scarse siano le nostre conoscenze e quanto resti ancora da fare sul piano della ricerca. Se il progetto riuscirà a stimolare ulteriori approfondimenti sul tema, soprattutto nella regione da parte degli isolani, il nostro obiettivo sarà stato raggiunto. a r c h e o 99
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LA COLONIZZAZIONE DELL’OCEANIA
I
primi esseri umani arrivarono in quelle che oggi si chiamano Australia e Nuova Guinea circa 50-60 000 anni fa. Allora la topografia della regione era molto diversa. Nell’ultima fase del Pleistocene (2,5 milioni circa-11 500 anni fa circa), la Terra fu interessata da diversi cicli di glaciazioni – i cosiddetti periodi glaciali. Dal momento che enormi quantitativi di acqua marina furono imprigionati sotto forma di ghiaccio nelle calotte polari, il livello del mare si abbassò, a volte persino di centoventi metri rispetto a oggi. Nel corso di queste glaciazioni, uno stretto d’acqua profondo e sinuoso, detto linea di Wallace dal nome del contemporaneo di Darwin che lo individuò, impediva agli esseri umani di passare dal Sud-Est asiatico (Sundaland) alla Nuova Guinea e all’Australia, che all’epoca formavano un’unica massa continentale, oggi nota come Sahul. Benché in alcuni punti questa barriera marina fosse larga meno di cento chilometri, essa ostacolò il transito da ovest a est fino a che lo sviluppo di tecniche efficaci per la costruzione di zat-
tere e pagaie non rese possibili le ripetute traversate necessarie per popolare e colonizzare quelle terre, cosa che avvenne prima di 50 000 anni fa. La linea di Wallace spiega anche lo scarso numero di mammiferi che si insediarono in Oceania prima dell’arrivo dell’uomo. Quelli che riuscirono a compiere la traversata a nuoto o su rami spezzati dal vento si evolsero nell’ampia gamma di marsupiali tipici della regione. Il pipistrello fu l’unico mammifero terrestre che riuscí a penetrare a est, oltre le grandi isole del Pacifico occidentale, prima che l’uomo portasse ratti, cani e maiali e, in tempi piú recenti, cavalli, bestiame, conigli e altri flagelli per la fauna locale, come gatti e manguste. I primi antenati dei moderni aborigeni australiani e di molti papuani si diffusero in tutta l’area di Sahul. Sicuramente furono raggiunti da ulteriori ondate di migranti, finché l’innalzamento del livello marino sopraggiunto alla fine del Pleistocene non li separò definitivamente dalle loro terre d’origine. In tempi recenti, il livello del mare si è stabiliz-
In basso: Napa, bastone da danza in legno, fibra, gusci di noce. Isole Salomone, isola Santa Cruz, fine del XIX sec. Collezione Bart van Bussel.
A destra: bastone di comando in legno con testa antropomorfa. Figi, fine del XVIII-inizi del XIX sec. Londra, British Museum.
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zato, delineando il profilo di isole e coste che riconosciamo oggi. Per facilitare la comprensione di queste migrazioni, gli archeologi hanno diviso questa vasta aerea in due zone distinte: l’Oceania vicina, formata dalle isole occidentali maggiori come la Nuova Guinea e le Bismarck, abitate da molti millenni («vicina» alla fonte della migrazione dal Sud-Est asiatico), e l’Oceania lontana, formata dalle isole minori piú a est che furono colonizzate solo poco piú di tremila anni fa. Data la scarsa disponibilità di materiale organico risalente a questa prima fase di colonizzazione del Pacifico occidentale, è impossibile stabilire se i bastoni facessero parte dell’insieme della cultura materiale, anche se è probabile che i conflitti insorti sia all’interno dei gruppi sia fra tribú vicine siano stati uno dei fattori scatenanti delle migrazioni.
ABILI NAVIGATORI In una fase piú recente, avvenuta circa 35003000 anni fa, una nuova ondata di colonizzatori si spostò con relativa rapidità da ovest a est partendo dall’Asia orientale, forse da Taiwan, e compí il primo salto dalle isole maggiori dell’arcipelago di Bismarck e dalle Salomone occidentali alle piccole isole dell’Oceania lontana, molto piú distanti. Il popolo «lapita», cosí chiamato dal sito archeologico della Nuova Caledonia in cui fu rinvenuto un tipo di ceramica decorata con stampi dentati appartenente a questa cultura, si espanse rapidamente in tutte le isole a sudest delle Salomone fino a Tonga e a Samoa, dove il primo insediamento lapita è databile all’850 a.C. circa. Popolo di mare, i lapita avevano sviluppato una sofisticata tecnologia navale e le loro imbarcazioni provviste di vele e probabilmente di bilancieri attaccati allo scafo principale resero possibili viaggi di oltre ottocento chilometri in mare aperto per la prima volta nella storia dell’uomo. Parlavano lingue austronesiane, completamente diverse da quelle dei primi coloni (solitamente dette papuane o non austronesiane), abitavano villaggi costieri e la loro sussistenza si basava principalmente sulle risorse marine. Nel corso dei secoli successivi, ulteriori ondate migratorie si spinsero nell’Oceania lontana fino a Tonga e a Samoa, il che spiega la diversità linguistica di luoghi come Vanuatu. Per ragioni non interamente chiarite, circa mille anni fa si verificò un nuovo massiccio
Mazza cerimoniale/ bastone da danza in legno e pigmento. Papua Nuova Guinea, Buka o nord di Bougainville, seconda metà del XIX sec. Leida Amsterdam, Nationaal Museum van Wereldculturen. a r c h e o 101
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flusso di spostamenti in direzione est, dalla Polinesia occidentale alle isole della Società, alle Tuamotu e alle Marchesi. Questi primi polinesiani, forse discendenti da migranti giunti nella Polinesia occidentale alcune centinaia di anni prima, si espansero rapidamente verso nord alle Hawaii, verso sudest a Rapa Nui (Isola di Pasqua) e verso sud e ovest alle isole Australi e Cook, per poi raggiungere Aotearoa («terra della lunga nuvola bianca», l’antico nome dato dal popolo Maori all’odierna Nuova Zelanda, n.d.r.) intorno al 1250 e approdare infine alle isole Chatham, l’ultimo arcipelago della Polinesia a essere popolato, nel XV secolo.
COL FAVORE DEI VENTI Queste avventurose spedizioni furono rese possibili dallo sviluppo di sofisticate tecniche di navigazione e conoscenze veliche, incluse le canoe a doppio scafo che permettevano di affrontare ambiziosi viaggi a lungo raggio in oceano aperto. Approfittando dei venti occidentali che soffiano in determinati periodi dell’anno, si poteva veleggiare verso oriente per diverse settimane, per poi tornare a casa sospinti dagli alisei sud-orientali. È verosimile che questi intrepidi esploratori abbiano raggiunto le coste del Sudamerica tra il 1100 e il 1200 e siano ritornati con la patata dolce, una pianta coltivata che non sarebbe potuta arrivare in Polinesia senza l’intervento dell’uomo, dal momento che non sopravvive nell’acqua salata. E poiché in questo periodo le popolazioni sudamericane non si inoltravano in oceano aperto perché le loro piccole imbarcazioni e zattere permettevano solo spostamenti lungo la costa, è altamente probabile − benché nel 1947 Thor Heyerdahl abbia tentato di dimostrare il contrario viaggiando dal Perú alle Tuamotu sulla zattera
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A sinistra e nella pagina accanto: veduta d’insieme e particolare di una Tavatava, mazza da lancio in legno con intarsi in avorio di balena. Figi, prima metà del XIX sec. Venezia, Collezione Ligabue.
Kon-Tiki − che siano stati i polinesiani a intraprendere uno o piú viaggi di andata e ritorno fino alla costa sudamericana. Una volta portata nel Pacifico centrale, la patata dolce si diffuse rapidamente fino a diventare una coltura di base in molte parti dell’Oceania, integrando la coltivazione dell’igname, del taro e del banano. Nel clima temperato della Nuova Zelanda, inadatto alle colture tropicali, le patate dolci (kumara) divennero un alimento essenziale e contribuirono alla prosperità e al benessere dei colonizzatori polinesiani. In una fase successiva, intorno al 1400-1500, diverse spedizioni salparono verso ovest, dirigendosi dalla Polinesia occidentale a isole minori della Melanesia e della Micronesia meridionale come Tikopia, Rennell, Nuku-
manu e Nukuoro, le cui popolazioni sono strettamente imparentate con i samoani e che probabilmente soppiantarono gli abitanti originari. Il precedente flusso di spostamenti verso est nell’Oceano Pacifico, avvenuto intorno al 900-1000, coincise con un altro evento di rilievo, il popolamento del Madagascar da parte di genti di lingua austronesiana provenienti dal Sudest asiatico. La colonizzazione quasi simultanea di Rapa Nui/Isola di Pasqua da un lato e del Madagascar dall’altro rese gli austronesiani il gruppo linguistico piú ampiamente diffuso nella storia dell’uomo, fino all’avvento dei coloni europei in tutto il pianeta, in tempi piú recenti. Entro il 1250 tutte le isole piú importanti dell’Oceania a eccezione delle Chatham (segue a p. 111) Nella pagina accanto, in basso, a sinistra: Koka, bastone da danza in legno e pigmento. Papua Nuova Guinea, Bougainville, Buin, seconda metà del XIX sec. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in basso, a destra: Siriti, bastone di comando in legno a due mani. Figi, XVIII -inizi del XIX sec. Londra, British Museum.
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SPECIALE • OCEANIA LA LAGUNA COME UN PEZZETTO D’OCEANO Promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue e dal Musée du quai Branly di Parigi (che la ospiterà in seconda sede), la mostra allestita in Palazzo Franchetti riunisce ben 126 «bastoni di comando»: mazze di straordinaria bellezza con diverse funzioni, realizzate nel XVIII e XIX secolo. Si tratta della prima esposizione interamente dedicata a questi manufatti, sui quali getta nuova luce, ed è una rivelazione per tutti coloro che sono interessati alla scultura e alle affascinanti culture dei «mari del Sud».
DOVE E QUANDO «Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania» Venezia, Palazzo Franchetti fino al 13 marzo Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 041 2705616 (attivo ma-do, 9,30-17,30); e-mail: prenotazioni@fondazioneligabue.it www.palazzofranchetti.it, www.fondazioneligabue.it
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Il Nuovissimo Continente, come viene oggi indicata l’Oceania, l’ultimo a essere scoperto dagli Europei prima dell’Antartide, è un insieme estremamente diversificato di isole sparse su metà della superficie del nostro pianeta, accomunate dal grande Oceano che le unisce. A destra: Inti Ligabue, presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue. In basso: Palazzo Franchetti, sede della mostra «Power and Prestige».
In alto e in basso, sulle due pagine: particolari dell’allestimento della mostra.
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SPECIALE • OCEANIA
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Nella pagina accanto: l’allestimento di un gruppo di bastoni selezionati per la mostra. In basso: immagine divina, bastone cerimoniale in legno e fibra di cocco. Isole Australi, Rurutu (?), XVIII sec. Londra, British Museum.
erano state colonizzate. Le masse continentali e le isole piú grandi a ovest erano popolate già da tempi antichi e avevano accolto successive ondate di migranti, che oggi costituiscono le popolazioni linguisticamente variegate della Melanesia e dell’Australia. Il Sudamerica era stato visitato da un numero imprecisato di spedizioni che avevano sfidato l’oceano aperto ed erano rientrate a mani
vuote o erano finite male dopo aver girovagato in lungo e in largo per il Pacifico, nella vana ricerca di una terra che – come oggi sappiamo – non esisteva.
AFFINITÀ E DIFFERENZE Escludendo l’Australia (Terra del Sud), la divisione dell’Oceania in tre regioni − Polinesia, Melanesia e Micronesia, dal greco polus (tanti), melas (nero), mikros (piccolo) e nesos (isola) – è insoddisfacente in quanto frutto di una visione intrinsecamente europea, molto utile per delineare aree geografiche, ma che in origine fu coniata dall’ufficiale navale francese Jules Dumont d’Urville (1832) per sottolineare un significato culturale e razziale oggi screditato. Se nel Settecento gli abitanti della Polinesia avevano un’ascendenza comune relativamente recente e condividevano lingue strettamente correlate, la Melanesia presentava un’enorme diversità linguistica e culturale e non poteva essere in alcun modo considerata un’«area culturale». Mentre molte sue parti erano occupate da popolazioni antiche, numerose isole e zone costiere, come le Trobriand di Papua Nuova Guinea, avevano accolto in tempi relativamente recenti genti di lingua austronesiana con sistemi di trasmissione del potere ereditari, collegabili ad alcune forme trovate in Polinesia. Quanto alla Micronesia, costituita da arcipelaghi di isole di piccole dimensioni sparsi in un’ampia fascia del Pacifico settentrionale, da diversi millenni era lambita dalle migrazioni verso est e avrebbe potuto costituire una rotta supplementare per i polinesiani diretti nella Polinesia centrale. I testi di questo Speciale sono stati tratti dal catalogo della mostra e qui appaiono per gentile concessione dell’Editore Skira e della Fondazione Giancarlo Ligabue. PER SAPERNE DI PIÚ Steven Hooper (a cura di), Power and Prestige. Simboli del comando in Oceania, Skira Editore-Fondazione Giancarlo Ligabue, 320 pp., ill. col. ISBN 88-572-4617-5 EAN13 9788857246178 www.skira.net, www.fondazioneligabue.it a r c h e o 107
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
LE MOLTE VITE DI UN DENARIO GRAZIE ALLA LORO QUALITÀ ARTISTICA, LE MONETE PERDEVANO SPESSO LA LORO FUNZIONE. COME NEL CASO DI UN PEZZO D’ETÀ AUGUSTEA
L
a moneta nasce per facilitare gli scambi commerciali, ottimizzare i pagamenti (in particolare agli eserciti), favorire l’accumulo di ricchezza. I tipi che compaiono sulle sue due facce attestano di regola l’autorità emittente e immagini che celebrano la nazione o la città che la emise. A questa funzione intrinseca del mezzo di scambio si affiancano ben presto, complice l’alta qualità artistica degli incisori dei tondelli e le iconografie suggestive, altri utilizzi, che sottraggono la moneta al circuito commerciale, convertendola in gioiello, in corredo funerario, tessera, oggetto magico o anche amuleto dal potere profilattico, da usare in ambito scaramantico e religioso. A questo proposito è interessante seguire le vicende e le trasformazioni subite da un denario di Augusto ritrovato in Inghilterra, a St. Albans, l’antica Verulamium, uno tra i maggiori centri della Britannia romana. Nel 1931, durante gli scavi effettuati nella città, sotto il muro dell’edificio denominato IV.1, venne ritrovato uno strato con materiali della seconda metà del II secolo d.C. Tra questi spicca appunto il denario in argento di età augustea battuto dal monetiere Publio Petronio Turpiliano nel 19-18 a.C.: reca, al dritto, la testa di Augusto, con leggenda CAESAR AVGVSTVS; e, al rovescio, Tarpea sommersa dagli scudi dei Sabini e leggenda TVRPILIANVS IIIVIR, che allude al
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mito di Tarpea che tradí Roma per avidità, aprendo le porte dell’Urbe ai Sabini che reclamavano le loro donne rapite da Romolo.
SCHIACCIATA DAGLI SCUDI Una volta entrati, la giovane fu schiacciata dagli scudi sabini, invece di ottenere, come si aspettava, una ricompensa in
monili d’oro. Fermo restando che il mito conosce molteplici versioni, si rimanda l’approfondimento su questa iconografia per focalizzarsi invece sul denario di Verulamium, radicalmente mutato dal punto di vista funzionale e iconografico. L’anonima mano di un personaggio probabilmente del contesto locale modificò il pezzo augusteo, legandolo al culto del dio Mitra
IL MITRAISMO
Alla luce delle fiaccole Il mitraismo è un culto misterico diffuso in tutto l’impero romano. Secondo Plutarco sarebbe stato introdotto dai pirati cilici sconfitti da Pompeo nel 67 a.C.; nel 90 d.C. era già conosciuto a Roma quando Stazio lo descrive nei suoi versi (Tebaide). Le attestazioni diventano piú numerose nel II secolo d.C., perdurando sino alla seconda metà del IV. Le sue origini sono ancora ignote; il nome della divinità rimanda al dio persiano, le cui prime menzioni risalgono al II millennio a.C. Mitra, dio del sole creatore e protettore della lealtà e dei giuramenti, affiancava Ahura Mazda, massima divinità dello zoroastrismo. Circa il culto occidentale di Mitra, alcuni studiosi riprendono Plutarco e sostengono provenisse dall’Oriente, mentre per altri sarebbe una creazione occidentale con fattezze e influssi orientali. Mitra indossa abiti persiani con il berretto frigio dal quale fuoriescono i lunghi capelli, la tunica corta, gli anaxyrides (pantaloni attillati) e mantello. L’immagine cultuale piú comune nei santuari era la tauroctonia: il dio uccide il toro generando una nuova era di prosperità. Egli è accompagnato da due personaggi maschili abbigliati alla sua stessa maniera, Cautes e Cautopates, l’uno con una torcia rivolta verso l’alto e l’altro con una torcia rivolta verso il basso a indicare il sorgere del sole e il tramonto, la vita e la morte. I fedeli di Mitra si riunivano in ambienti per lo piú ipogei, illuminati da fiaccole e lucerne. In questi antri si celebrava la cena comune e si svolgevano i riti di iniziazione, riservati ai soli uomini. Religione esclusivamente maschile, il mitraismo trovava proseliti soprattutto nell’ambito dell’esercito e del personale dell’amministrazione statale, ma anche tra schiavi, liberti e semplici cittadini. È noto il legame anche di alcuni imperatori, come Commodo, e la diffusione nell’ambito della classe senatoria del IV secolo d.C. L’aspetto soteriologico del culto di Mitra esprimeva un desiderio di salvezza ultraterrena destinato a trovare la sua espressione piena nel cristianesimo. Annarita Martini
A sinistra: denario di Augusto trasformato in gettone mitraico, da Verulamium. II sec. d.C. Londra, British Museum. In basso: statua di Mitra petrogenito adolescente con iscrizione dedicatoria, dal mitreo di S. Stefano Rotondo a Roma (Castra Peregrina). Fine del II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. (vedi il box alla pagina accanto). Egli erase completamente il dritto e vi incise in lettere greche MITHRAS OROMASDES lungo il bordo e al centro PHREN. Si tratta dei nomi delle divinità Mitra e Ohrmadz, quest’ultimo il dio supremo della religione iranica, noto nello zoroastrismo come Ahura Madza e al quale Mitra è strettamente connesso, mentre il teonimo Phren
si riferisce al dio del sole egizio Ra (Phre). I nomi di tre divinità solari ben simboleggiano il sincretismo religioso di età imperiale. Al rovescio venne erasa la leggenda, mantenendo la figura a braccia alzate, capelli lunghi e gli ovali degli scudi che la sommergono. L’autore della conversione lesse l’immagine come la nascita di Mitra dalle rocce,
con le braccia alzate. La moneta divenne cosí un amuleto o meglio un gettone, dato che non presenta un foro che permettesse di appenderlo e indossarlo. Che il gettone possa essere stato usato in un ignoto mitreo di Verulamium o appartenesse a un adepto del culto che transitò in zona non è dato, per ora, saperlo. E cosí, mentre Tarpea è sommersa, Mitra emerge.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Wilhelm Dorow
VIAGGIO ARCHEOLOGICO NELL’ANTICA ETRURIA a cura di Giulio Paolucci, Johan & Levi EditoreFondazione Luigi Rovati, Monza, 128 pp., ill. b/n + 5 tavv. 23,00 euro ISBN 978-88-6010-252-2 www.johanandlevi.com
Alle undici della sera del 28 luglio 1827, tre uomini si accingevano a lasciare Firenze per compiere un viaggio in Etruria. Erano il diplomatico, archeologo e collezionista Wilhelm Dorow, l’antiquario Francesco Inghirami e un giovane pittore, il «signor Lucherini». Si proponevano di raggiungere Cortona, Chiusi e, sulla via del ritorno, Arezzo. La stagione dell’etruscheria, quei decenni durante i quali agli Etruschi era stata riconosciuta una centralità superiore a quella dei Greci e dei Romani, si stava chiudendo. Luigi Lanzi, il fondatore 110 a r c h e o
dell’etruscologia scientifica, aveva già pubblicato il Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia, in due edizioni, prima a Roma (1789) e poi a Firenze (1824); Giuseppe Micali aveva dato alle stampe L’Italia avanti il dominio dei Romani (Firenze, 1810) e fu poi la volta della monografia Die Etrusker di Karl Otfried Müller (Brelasvia, 1828). Pur con motivazioni diverse, i tre viaggiatori erano attratti dal mondo degli Etruschi: Francesco Inghirami era stato l’autore di un’opera in nove volumi intitolata Monumenti etruschi o di etrusco nome, pubblicata a Fiesole nel 1826, e Dorow stava preparando il saggio Notizie intorno alcuni vasi etruschi, scritto a Roma nel settembre del 1827 e pubblicato nel 1828 come estratto del volume IV delle Memorie Romane di antichità e di belle arti. Egli, inoltre, era interessato a incrementare la sua collezione di antichità. Il giovane Lucherini aveva interessi meno specifici, ma era stato coinvolto nel viaggio nella sua qualità di valente disegnatore. Il racconto di quel viaggio, durato sino al 10 agosto 1827, divenne un volumetto, Voyage Archéologique dans l’Ancienne Étrurie, pubblicato a Parigi nel 1829 e dedicato allo
scultore Bertel (Albert) Thorvaldsen, di cui Dorow era amico. Quel testo, a cura di Giulio Paolucci, è stato tradotto ora in lingua italiana e riproposto con una prefazione interessante – in realtà un saggio introduttivo – del curatore, che illustra l’importanza di quel viaggio, che precede quelli piú noti della scrittrice inglese Elisabeth Hamilton Gray (Londra, 1840) e del diplomatico e archeologo, sempre inglese, George Dennis (Londra, 1848). L’interesse è dato dalla descrizione della realtà archeologica dei tre centri, con uno sguardo ravvicinato sulle collezioni di antichità che vi si erano formate, molte delle quali sono andate disperse a causa del fiorente mercato antiquario del tempo. Ma colpiscono anche l’attenzione per chiese e palazzi delle città visitate, per il paesaggio della Toscana e per le abitudini dei suoi abitanti, che sorpresero positivamente il «Consigliere aulico di Sua Maestà il Re di Prussia». In particolare, a Cortona – prima tappa del viaggio e all’epoca già sede dell’Accademia Etrusca, istituita proprio un secolo prima nel 1727 – Dorow ebbe modo di visitare il museo e la biblioteca della prestigiosa istituzione, la raccolta dei conti Venuti, avvertendo che verrà posta in vendita, i resti delle mura
della città e la Tanella di Pitagora. Ricorda anche la collezione Corazzi, acquistata dal re di Olanda per 12 000 scudi. A Chiusi visitò le raccolte Bonci Casuccini, Paolozzi, del Vescovo e le raccolte di alcuni canonici locali e del capitano Federico Sozzi. Quest’ultima lo colpí in maniera particolare e l’acquistò quasi per intero: comprendeva soprattutto vasellame di bucchero, bronzetti e alcune sculture. Altri acquisti di antichità fece presso il canonico Antonio Mazzetti, tra cui alcuni reperti scoperti proprio nei giorni del suo soggiorno chiusino. Il suo interesse s’indirizzò, in particolare, verso i buccheri che divennero oggetto dei suoi studi. Visitò alcune tombe scoperte negli anni precedenti: nel suo diario di viaggio si sofferma, in particolare, su quella del Granduca, scoperta nel febbraio del 1818, e non solo per l’interesse archeologico: «La nostra guida all’interno della volta aveva le fattezze di un vero angelo: si trattava di una fanciulla che reggeva un lume in mano. La sua fisionomia, che esprimeva candore e innocenza, e l’aria di santità che brillava sul suo volto contrastavano violentemente con le spoglie mortali che ci circondavano. Uscimmo dalla tomba che ormai erano le dieci di sera».
L’incanto sembra non svanire: «la luna rischiarava il nostro cammino e imboccammo un sentiero piú breve del precedente attraverso un grazioso querceto, su consiglio di alcuni contadini che rincasavano. Raggiungemmo Chiusi a mezzanotte». Chiusi fu l’occasione per fare qualche riflessione sulla tolleranza religiosa: «gli ecclesiastici qui si distinguono per il loro sapere, per la loro tolleranza e per l’accoglienza che offrono agli stranieri senza interrogarli sulla loro appartenenza alla fede cristiana. Una sola volta mi sono sentito
domandare se fossi cattolico o protestante, ma il religioso che mi pose la domanda fu subito redarguito da un altro che gli fece notare quanto fosse inopportuno. Che differenza rispetto alle terre germaniche!». Ad Arezzo, dove si fermarono dall’8 alla sera del 9 agosto, i tre viaggiatori ebbero occasione di visitare la chiesa di S. Maria della Pieve, che sarebbe stata edificata su un tempio dedicato a Bacco, il Duomo, la casa di Petrarca, l’anfiteatro romano incorporato in parte nel convento degli Olivetani. Ebbero inoltre modo di vedere
In basso: il frontespizio della prima edizione del Voyage Archéologique dans l’Ancienne Étrurie di Wilhelm Dorow, pubblicata a Parigi nel 1829.
In alto: una delle tavole che corredavano l’edizione originale del Voyage Archéologique dans l’Ancienne Étrurie di Wilhelm Dorow. la collezione Bacci e il museo allestito in alcune sale adiacenti alla biblioteca cittadina, con le sezioni naturalistica e archeologica. Agli occhi di Dorow, Arezzo apparve come una delle città meglio costruite della Toscana, con strade ampie e bei palazzi e con gli abitanti di bell’aspetto. L’altro aspetto che colpisce il viaggiatore prussiano è – come già accennato – il paesaggio: per la sua bellezza, per come era curato e per la sua profondità storica. Vale la pena riportare alcune sue riflessioni, fatte osservando il panorama dalla finestra del palazzo
del canonico Brunori che lo ospitò a Cortona: «si gode di una vista impareggiabile. Si tratta di una delle vedute piú ampie e incantevoli sulla celebre Val di Chiana (…) A poche miglia di distanza si ammira, sulle rive del lago Trasimeno, il campo di battaglia su cui Annibale riportò la sua immortale vittoria sul console romano Flaminio: cosí davanti ai miei occhi si riunivano l’affascinante scena del tempo presente e uno dei momenti piú gloriosi del tempo antico». Ecco descritto, in poche righe, il fascino dell’Italia. Giuseppe M. Della Fina a r c h e o 111
Giorgio Manzi
L’ULTIMO NEANDERTHAL RACCONTA Storie prima della storia il Mulino, Bologna, 221 pp., 12 ill. col. 15,00 euro ISBN 978-88-15-29413-5 www.mulino.it
Tra il 1974 e il 1975 le Interviste impossibili hanno fatto un pezzo di storia della radio italiana e non è un caso che Giorgio Manzi le evochi nell’introduzione a questo libro, poiché, al di là del fatto che una delle prime puntate di quella formidabile invenzione fu dedicata proprio all’Uomo di Neanderthal («intervistato» da Italo Calvino), lo spirito di questa sua narrazione è per molti versi affine. Per descrivere le caratteristiche del piú famoso dei nostri «cugini» preistorici, l’autore ha scelto infatti un espediente originale e tutt’altro che ampolloso, capace di rendere la lettura davvero intrigante e piacevole. E se lasciamo a voi il piacere di scoprire
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quale sia l’escamotage in questione, è invece doveroso sottolineare che l’opera si dipana nel segno del rigore scientifico, offrendo una mole di notizie magistralmente riassunte nelle circa duecento pagine del volume. Forte della sua esperienza e autorevolezza, Manzi – che è uno fra i piú brillanti paleoantropologi attualmente in attività – ripercorre dunque la lunga parabola dei Neanderthal e ha il merito di proporre temi in molti casi notevolmente complessi con grande chiarezza, aiutando anche il lettore meno attrezzato a orientarsi in un mondo lontanissimo dal nostro tempo e fra le specificità delle molte discipline che concorrono a studiarlo. Né mancano gli agganci con realtà a noi piú vicine, come nel capitolo Selezione sessuale, un ampio paragrafo del quale è dedicato alle grandi emigrazioni (e non migrazioni) delle antiche specie umane, le cui dinamiche presentano significative coincidenze con gli scenari dei quali siamo oggi testimoni. E il cui studio, come osserva Manzi, può fornire un aiuto prezioso anche per governare i problemi che ne derivano. Da segnalare poi l’ampio capitolo riservato alle testimonianze italiane e un epilogo nel quale
l’autore non ha paura di attribuire al Neanderthal l’epiteto di «icona pop». Infine, per chi, all’epoca fosse troppo giovane per averla ascoltata in diretta o l’avesse persa, la gustosa intervista curata da Calvino è disponibile sul sito delle Teche Rai (www.teche.rai.it). Stefano Mammini Edoardo Guzzon
DÈI E DEE DELL’ANTICO EGITTO Guida semplice a un pantheon molto affollato Neos Edizioni, Torino, 78 pp., ill. b/n 12,00 euro ISBN 978-88-66083-18-4 www.neosedizioni.it
Fortemente pervasa dalla religiosità, la civiltà egizia visse nella certezza che a regolare le proprie sorti fosse la popolosa famiglia di divinità che ne popolavano il pantheon. Una schiera di dèi e di dee che Edoardo Guzzon passa in rassegna in questo agile e utile volume, che può costituire un ottimo complemento alla visita delle grandi collezioni egizie. Per ciascuno dei principali esseri divini è disponibile una sorta di carta di identità, che ne illustra le prerogative e, soprattutto, ne descrive l’aspetto e gli attributi che ne permettono il riconoscimento nelle figurazioni dipinte o nei rilievi. Da Osiri, il dio forse piú noto e citato, ad Apopi, il malefico serpente che impediva al sole di sorgere (ma che da questi veniva ogni giorno
sconfitto e fatto a pezzi), le trenta schede che compongono il volume non sono, tuttavia, solo un repertorio iconografico, ma aiutano a comprendere una visione del mondo e del soprannaturale originale e peculiare. S. M. Edoardo Vanni
L’IDEOLOGIA DEGLI ARCHEOLOGI Egemonie e tradizioni epistemologiche alla fine del postmoderno BAR International Series 3050, BAR Publishing, 176 pp., ill. b/n 49,00 GBP ISBN 978-1-4073-5884-0 www.barpublishing.com
Opera di taglio prettamente specialistico, questo volume costituisce una lettura impegnativa e va detto che, per seguire i molti spunti di riflessione proposti dall’autore, occorre servirsi di risorse ben piú ampie della sola conoscenza dell’archeologia. Come
del resto s’intuisce fin dal titolo, e ancor piú dal sottotitolo, questa Ideologia degli archeologi non è un saggio «tradizionale», ma invita (obbliga?) a ragionare sul modo in cui la disciplina viene oggi praticata e su come lo si è fatto, in particolare, nel corso degli ultimi decenni. È perciò difficile, se non impossibile, sintetizzare nello spazio di una recensione la complessa costruzione di Edoardo Vanni, ma è però possibile indicarne alcuni degli elementi che maggiormente la connotano. Spicca, per esempio, l’approfondita indagine sulle tendenze osservabili nella pubblicazione di articoli accademici su una serie di riviste internazionali, corredata da tabelle e grafici di sapore inequivocabilmente «archeologico», sebbene prodotte con tutt’altro intento. Ed è non meno stimolante il costante richiamo al rapporto fra lo studio del passato, la sua percezione e la realtà contemporanea, in un gioco di reciproche
influenze, che può forse apparire inaspettato. D’altro canto, il volume si pone a piú riprese come un utile compendio delle elaborazioni teoriche che hanno maggiormente segnato la storia della disciplina a livello internazionale, quando cita, per esempio, i riflessi generati dalla New Archaeology o dall’archeologia processuale. Il merito maggiore dell’impresa di Vanni sta tuttavia nell’essersi interrogato sullo stato dell’arte dell’archeologia, fornendo non pochi e originali stimoli per ulteriori riflessioni. S. M. Isabella Damiani, Alberto Cazzella, Valentina Copat (a cura di)
PREISTORIA DEL CIBO L’alimentazione nella preistoria e nella protostoria Studi di preistoria e protostoria 6, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze, 848 pp., ill. b/n + 1 CD 90,00 euro ISBN 978-88-6045-088-3 www.iipp.it
Il volume scaturisce dai lavori della 50a Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, svoltasi a Roma nel 2015, e la sua consistenza ben esprime quanto il potenziale del tema prescelto, il cibo, possa essere ricco e prestarsi a uno spettro assai ampio di analisi e riflessioni. Un centinaio di contributi,
suddivisi per grandi temi e per cronologia, tracciano un panorama di notevole interesse, grazie al quale viene spontaneo rispondere affermativamente all’interrogativo scelto per la prima sezione del convegno e, ora, della pubblicazione: «L’uomo è ciò che mangia?». Fin dalle testimonianze piú antiche, infatti, appare innegabile il ruolo svolto dalle risorse alimentari: al di là dell’essere indispensabili per la sopravvivenza, il loro procacciamento determinò l’elaborazione di strategie, la fabbricazione di utensili sempre piú specializzati o, ancora, l’invenzione di metodi di conservazione o di contenitori per il loro stoccaggio. E, grazie alla sempre piú vasta gamma delle tecniche d’indagine, i quadri che si possono ricostruire si fanno sempre piú dettagliati, come accade, per esempio, con gli studi su ossa e denti che restituiscono informazioni precise sulla dieta alimentare delle antiche comunità umane. Non
meno importante – e piú di un contributo lo sottolinea – fu la considerazione del cibo come elemento legato alla sfera del sacro, di cui sono testimonianza le pratiche attestate, per esempio, in ambito eneolitico e neolitico. A conferma di quanto, anche in epoca preistorica e protostorica, non si vivesse di solo pane. S. M. Francesco Bongiorni, Massimo Polidoro
ATLANTE DEI LUOGHI MISTERIOSI DELL’ANTICHITÀ Bompiani, Milano, 160 pp., ill. col. 25,00 euro ISBN 978-88-301-0219-4 www.bompiani.it
Anche in archeologia il mistero «si porta bene» ed ecco quindi una vasta rassegna di siti che, da sempre, hanno alimentato l’idea che la loro esistenza avesse qualcosa di enigmatico e insondabile. Salvo scoprire che si tratta, quasi sempre, di misteri a dir poco presunti, che studi e ricerche hanno puntualmente svelato. S. M.
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presenta
SANTO MEDIOEVO
STORIE DI UOMINI, MIRACOLI E RELIQUIE La devozione religiosa e la pratica del culto sono elementi fortemente distintivi dell’età di Mezzo e il nuovo Dossier di «Medioevo» ne offre una ricca documentazione, cercando soprattutto di mettere in luce quanto sia spesso labile il confine fra realtà storica e tradizione leggendaria, alimentata, quest’ultima, dal fiorire delle agiografie di santi. Un confine lungo il quale occorre comunque muoversi con attenzione, poiché, come si legge nelle pagine introduttive, «un preconcetto eccesso di razionalismo può avere in questo ambito la medesima influenza deleteria di un cieco fideismo». Resta intatta la potenza di episodi comunque passati alla storia, quali l’incontro fra papa Leone I e Attila, in occasione del quale il pontefice fu capace di convincere il re unno ad astenersi dal mettere Roma a ferro e fuoco, o l’incrollabile tenacia di sant’Antonio Abate nel resistere alle tentazioni del diavoli. Fatti come questi furono peraltro alla base della diffusione delle reliquie, fenomeno che assunse contorni eccezionali, ma che, proprio per la sua portata, non fu esente, già allora, da critiche, anche molto aspre. Questo nuovo Dossier di «Medioevo» propone dunque un vasto repertorio di temi e, facendo luce sul rapporto con la religione, ne testimonia l’importanza e la centralità nella vita quotidiana del tempo. Un ruolo di cui sono figlie anche la nascita dei grandi luoghi di culto, prime fra tutti le cattedrali, e la ricca produzione artistica a carattere sacro. Le cui immagini compongono il ricco corredo iconografico del fascicolo.
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