Medioevo Dossier n. 22, Settembre 2017

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EDIO VO M E Dossier GLI ARABI IN ITALIA

Identikit del «Saraceno» ● La conquista della Sicilia ● La minaccia alle porte di Roma ● Palermo normanna, emblema di civiltà ●

N°22 Settembre 2017 Rivista Bimestrale

€ 7,90

GLI ARABI IN ITALIA

IN EDICOLA IL 22 AGOSTO 2017 My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

di Marco Di Branco



GLI ARABI IN ITALIA di Marco Di Branco

6 Presentazione Il vero volto del «Saraceno» 8 Gli esordi Storia di una presenza 24 Le prime conquiste Guerra e diplomazia 42 L’intervento imperiale La campagna di Ludovico 64 La conquista della Sicilia Signori della «terra grande» 82 I Fatimidi E venne il tempo dei discendenti di Fatima 108 I Normanni I Mille di Ruggero 122 Lucera Storie di una Civitas Sarracenorum


Il vero volto del «Saraceno» L

e vicende affascinanti della presenza arabo-islamica in Italia costituiscono un campo in cui la storiografia italiana ha prodotto frutti straordinari: dall’insuperata (e forse insuperabile) Storia dei musulmani in Sicilia di Michele Amari, mirabilmente annotata da Carlo Alfonso Nallino (1933-19392), al saggio di Giosuè Musca sull’emirato di Bari (19672), alla storia dell’Italia meridionale longobarda di Nicola Cilento (19712), fino alla grande opera di sintesi sugli Arabi in Italia curata da Francesco Gabrieli e Umberto Scerrato, apparsa a Milano, per i tipi di Scheiwiller, nel 1979. Accanto a questi capolavori, si collocano poi numerosi saggi, dedicati ad aspetti regionali (i musulmani in Calabria, in Basilicata, in Puglia, nel Lazio, ecc.), e alcune opere di divulgazione di qualità varia, in cui talvolta trionfa purtroppo lo stereotipo e il racconto storico si stempera nel mito del malvagio «Saraceno», assetato di sangue. Recentemente, il vuoto bibliografico ormai trentennale sul tema è stato colmato da una monografia di Alex Metcalfe (The Muslims of Medieval Italy, Edinburgh University Press, Edimburgo 2009) e dal lavoro divulgativo di Amedeo Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana (Laterza, Roma-Bari 2011). Questo Dossier di «Medioevo» nasce allora dal desiderio di fare il punto della situazione, presentando alcune delle ricerche sui musulmani in Italia condotte negli ultimi anni, dalle quali emerge un quadro molto piú complesso e sfaccettato di quello abitualmente delineato nella storiografia che si è occupata del tema. Siamo certi che i lettori di «Medioevo», da sempre attenti alle novità e agli approcci innovativi, sapranno apprezzare il taglio particolare di questo Dossier davvero «speciale».

Uno scorcio della Sala della Fontana nel Palazzo della Zisa, a Palermo. Il magnifico edificio – che prende nome dall’arabo al-aziz, «nobile», «splendido» – fu voluto da Guglielmo II d’Altavilla come luogo di delizie e si ispira ai canoni dell’architettura araba. XII sec. 6

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Storia di una presenza L’espansione dell’Islam, iniziata fin dal tempo del Profeta Maometto, toccò anche il territorio italiano. Si trattò di un’azione attentamente pianificata e non di un insieme di improvvisate «scorrerie», dimostrano studi recenti

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a storia della presenza islamica in Sicilia e in Italia meridionale può forse apparire molto lontana dalle vicende attuali che vedono il diffondersi dell’Islam nella Penisola, sull’onda della massiccia immigrazione dalle coste africane e dal Medio Oriente. Eppure, proprio tali vicende finiscono non di rado per dimostrare come le scienze storiche – in una società tecnologica e globalizzata come la nostra – abbiano ancora un ruolo sociale e politico estremamente importante, perché offrono preziosi strumenti

conoscitivi per interpretare una realtà sempre piú complessa e possono contribuire a fornire soluzioni ai problemi di convivenza interculturale e interreligiosa che la società contemporanea si trova a dover affrontare con sempre maggior urgenza. In realtà, almeno nella loro fase iniziale, sia le spedizioni militari guidate dal Profeta, sia quelle capitanate dai generali musulmani inviati dai califfi a occupare la Siria e l’Iraq non sono altro che scorrerie. In particolare, la celebre battaglia di Badr, che per storici, tradizio-

L’assedio di Messina raffigurato in una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.


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Gli esordi

nisti e giurisperiti islamici, rappresenta il classico archetipo del jihad, la guerra santa sulla via di Dio, fu poco piú di una razzia ai danni di una carovana meccana. Ugualmente, le prime sortite arabe contro la Siria cominciarono già negli ultimi anni di vita di Muhammad (Maometto), su piccola scala e senza molto successo, nella forma di attacchi improvvisi a villaggi e carovane finalizzati all’acquisizione di bottino, e quelli alla regione mesopotamica ebbero inizio, sotto la guida di al-Muthanna ibn alHaritha, come scorribande e saccheggi portati a termine non per insediarsi o conquistare, ma semplicemente per affermare il diritto dei nomadi a esigere un tributo.

Una strategia ben precisa

Proprio il carattere apparentemente «estemporaneo» delle prime conquiste islamiche ha portato alcuni studiosi contemporanei a porre l’accento sui fattori incidentali che le caratterizzano: il movimento non avrebbe avuto alcuna coerenza e non avrebbe obbedito a principi dettati da un’autorità centrale, ma sarebbe consistito essenzialmente in una serie di razzie accidentalmente coronate dal successo; l’idea di una conquista pianificata sarebbe stata dunque una sorta di mito inventato dagli storici e dai tradizionisti musulmani almeno un secolo dopo gli eventi in questione. In un suo studio fondamentale, Fred Donner ha evidenziato la sostanziale infondatezza di tale approccio, mostrando come la conquista sia stata organizzata ideologicamente e strategicamente dal potere centrale (cioè dai cosiddetti «califfi ben guidati», che governarono la comunità islamica dal 632 al 661) e come anche quelli che potrebbero sembrare solo piccoli raid tribali fossero in realtà accuratamente pianificati dall’élite del nuovo Stato musulmano, secondo una strategia ben precisa. Analogamente, una consolidata e autorevole tradizione di studi – che risale in parte al magistero del grande storico italiano Michele Amari (vedi box a p. 12) – interpreta le alterne vicende della presenza islamica in Italia centro-meridionale solo come incursioni piratesche. Peraltro, il mancato consolidamento di un dominio musulmano nell’area in questione ha impedito la nascita di un dibattito storiografico simile a quello concernente le grandi conquiste del VII secolo e ha favorito invece la liquidazio10

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In alto miniatura da un manoscritto arabo raffigurante il santuario della Ka’ba, a Mecca. XIII sec. In basso miniatura raffigurante l’ascensione di Muhammad. XVI sec. Washington, Smithsonian Institution.

ne dei tentativi di espansione araba nel continente italiano come fenomeno del tutto marginale, da inquadrare utilizzando esclusivamente le categorie interpretative della razzia, della predazione e del saccheggio. La questione è stata recentemente riaperta dall’archeologo Federico Marazzi, che ha criticato con forza il «paradigma della scorreria» e ha sostenuto la necessità di tornare a occuparsi del tema della presenza arabo-islamica nel Meridione d’Italia, cercando di soffermarsi sul problema della strategia araba di penetrazione nella Penisola, al fine di acquisire elementi sull’«intelligenza» e quindi sulle finalità di essa. Si rende dunque necessaria una nuova scansione delle principali fasi della presenza islamica in Italia, che valorizzi il piú possibile i pochi ma rilevanti dati desumibili dalle fonti arabe, al fine di ricostruire il quadro storico complessivo – non solo italiano, ma anche mediterraneo – in cui esse vengono a collocarsi. Le prime spedizioni arabe nell’odierno territorio italiano ebbero inizio nella seconda metà del VII secolo: esse partirono dalle coste africane ed ebbero come principali obiettivi la Sicilia bizantina e la Sardegna. La loro forma caratteristica, in questa fase embrionale


L’Arabia prima dell’Islam 1. NABATEI Lo Stato nabateo, con capitale Petra, si estendeva dal golfo di ‘Aqaba e dal Mar Morto, alle montagne del Hijaz settentrionale. Come altre popolazioni arabe, anche i Nabatei erano politeisti. Il periodo di massimo splendore del loro regno, che traeva le sue ricchezze dal commercio carovaniero, si ebbe tra il II sec. a.C. e il II sec. d.C.

2. PALMIRA Ricca città carovaniera nel deserto siriaco, fu a lungo al centro di importanti traffici. Entrò nella sfera di influenza dell’impero romano nel I sec. a.C., ma la sua massima fioritura si ebbe nel III sec. d.C., quando un tentativo di ribellione all’autorità imperiale portò al declino repentino e alla totale perdita dell’autonomia.

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5. SABEI Nell’odierno Yemen, intorno al 1000 a.C., sorse il grande regno di Saba, con capitale Marib. Abili mercanti, i Sabei si espansero fino all’Etiopia, mantenendo una forte egemonia territoriale fino al IV sec. d.C. Dediti ai culti politeistici, in seguito si avvicinarono al monoteismo.

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6. MECCA Città dell’Arabia occidentale, era un importante centro di scambi commerciali lungo la via carovaniera del Hijaz e ospitava la Ka’ba, uno dei piú importanti santuari pre-islamici della Penisola Araba.

QATAR

In alto rilievo funerario in pietra calcarea dorata e dipinta con ritratto di Batmalkû e Hairan. III sec. d.C. Roma, Museo delle Civiltà, Collezioni d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci».

RIYADH

OCEANO INDIANO Socotra

Golfo di Aden

GIBUTI

SOMALIA

4. LAKHMIDI Il loro regno, con capitale al-Hira, era localizzato nella Mesopotamia meridionale. Erano Arabi cristiani, prima nemici, poi alleati dei Persiani. Sotto la protezione sasanide, praticavano il culto cristiano nestoriano, che si opponeva all’ortodossia bizantina.

3. GHASSANIDI Erano Arabi di origine yemenita, convertiti al cristianesimo monofisita e occupavano la Siria meridionale. Il regno ghassanide era alleato dei Bizantini e fungeva da Stato-cuscinetto, arginando l’invadenza dei Beduini lungo la frontiera dell’impero d’Oriente.

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Gli esordi

UN GIGANTE DEGLI STUDI ISLAMICI Michele Amari (1806-1889), uno dei piú grandi studiosi del mondo islamico medievale, fu anche un fervente patriota e fu per questo costretto a un lungo esilio in Francia, dove intraprese lo studio dell’arabo. La condanna all’esilio fu legata alla pubblicazione, nel 1842, della sua opera su La Guerra del vespro (a cui la censura impose il generico titolo Un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII), sgradita al governo di Napoli. Nel 1848-49, Amari venne eletto deputato nel parlamento siciliano e ministro delle Finanze. Tornato a Parigi, intensificò i suoi rapporti con Mazzini, collaborando alla sua attività propagandistica. Rientrò in Italia nel 1860, fu senatore nel 1861, ministro dell’Istruzione dal 1862 al 1864 e, dal 1860 al 1873, professore presso l’Istituto di studi superiori di Firenze. In politica passò dall’autonomismo regionale a una salda convinzione unitaria, pur restando sostenitore di un sistema di largo decentramento, e dalla collaborazione con Mazzini all’appoggio, nel 1860, del progetto unitario e monarchico di Cavour. Ma la sua opera piú preziosa e duratura fu quella nel campo degli studi islamici e in particolare i suoi memorabili saggi dedicati alla storia, alla letteratura e alla civiltà della Sicilia musulmana (Storia dei Musulmani di Sicilia, 3 voll., 1854-72, 2a ed. 1933-38; Biblioteca Arabo-Sicula, 1857-87, testi e traduzioni; Le epigrafi arabiche di Sicilia, 1875-85, in tre parti), che si allargano a considerare, con ampia visione, la storia di tutta l’Italia meridionale durante l’Alto Medioevo, e dei rapporti tra la Sicilia musulmana e gli Stati arabi del Mediterraneo.

dell’espansione islamica verso Occidente, fu effettivamente quella dell’incursione, che tuttavia è quasi sempre il frutto di una pianificazione da parte delle autorità musulmane del Nord Africa. Dal 703 al 710, il coordinamento delle operazioni militari contro Sicilia e Sardegna fu esercitato da Musà ibn Nusayr, il futuro conquistatore della Spagna, che in quegli anni era appunto governatore dell’Ifriqiya (la parte orientale del Maghreb, di popolamento berbero, il cui nome arabo deriva dal latino Africa e che comprendeva un territorio sovrapponibile in gran parte all’odierna Tunisia, n.d.r.), estremo lembo occidentale del califfato abbaside di Baghdad. Tra il 710 e il 719, le truppe nordafricane concentrarono i loro sforzi in terra spagnola, e la Sicilia e la Sardegna godettero di un breve periodo di relativa quiete. Le spedizioni contro le due isole ripresero nel 720, e, con maggiore intensità, fra il 727 e il 75253. Esse furono pianificate dai governatori dell’Ifriqiya: Bishr ibn Safwan al-Kalbi (che guidò in prima persona una campagna), ‘Ubayda ibn ‘Abd al-Rahman al-Sulami, ‘Ubayd Allah ibn al-HabHab e dal ribelle ‘Abd al12

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Ritratto di Michele Amari, storico e uomo politico italiano. XIX sec. Palermo, Biblioteca Comunale.

Rahman ibn Habib ibn Abi ‘Ubayda ibn ‘Uqba ibn Nafi‘ al-Fihri, che si era impadronito della provincia con la forza. A quest’ultimo si deve il grande attacco combinato del 752-53, che, nel giro di pochi mesi, investí nell’ordine la Sicilia, la Sardegna e «il paese dei Franchi»; come registra lo storico musulmano Ibn al-Athir, in seguito a esso, le due isole furono costrette a pagare la gizya, cioè la tassa dovuta ai musulmani dalle comunità religiose a essi sottomesse, la qual cosa mostra che siamo di fronte a ben di piú di un semplice raid.

Non senza la Sardegna...

Come è stato giustamente notato, per esempio, senza la Sardegna la conquista del Maghreb e della Spagna non avrebbe probabilmente avuto luogo. Di certo, non con la rapidità che conosciamo. Le spedizioni che interessarono l’isola ebbero come risultato occupazioni militari circoscritte territorialmente, delle quali è ancora difficile cogliere a pieno le caratteristiche, ma che, senz’altro, determinarono il controllo sistematico dei porti, per periodi piú o meno lunghi, al fine di neutralizzare le flotte


La battaglia di Badr, in una raffigurazione ad acquarello, oro e inchiostro su carta. L’illustrazione è tratta da un manoscritto ottomano (1595), prodotto nello scriptorium regio del sultano Murad III, che illustra il Siyar-i Nabi (Vita del Profeta), completato da Darir di Erzurum intorno al 1388. Parigi, Museo del Louvre.

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Gli esordi

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Quando i califfi presero la spada... In alto carte geopolitiche che mostrano, a sinistra, le conquiste islamiche dall’Egira alla morte di Maometto e, a destra, i territori assoggettati sotto i primi quattro califfati islamici (632-661).

In basso ancora una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, raffigurante una battaglia tra cavalieri bizantini e arabi. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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IL RACCONTO DI UN GIURISTA Sy

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Lo storico al-Maliki riporta la testimonianza di un giurisperito, Sulayman ibn Imran, che in seguito assunse la carica di giudice supremo di Qayrawan: «Ero presente alla riunione consacrata alla tregua (hudna) con la Sicilia durante il regno di Abu ’l-‘Abbas. Erano stati riuniti gli shaykh e i notabili di Qayrawan, e io ero fra i presenti. Alla presenza dell’emiro si redasse il patto della tregua e se ne diede lettura nell’assemblea. Tra l’altro, v’era stipulato che le genti di Sicilia si impegnassero a rendere ai musulmani tutti gli adepti dell’Islam che, essendo penetrati nel loro paese, lo desiderassero».

bizantine che navigavano in quei paraggi e che utilizzavano la Sardegna come rampa di lancio verso l’estremo Occidente. Dopo la spedizione di al-Fihri, i violenti disordini che sconvolsero l’Ifriqiya per circa un cinquantennio fecero perdere alla regione il suo ruolo di base delle operazioni militari contro le due grandi isole italiane. Scrive in proposito un altro storico arabo, al-Nuwayri: «I governatori di Ifriqiya furono in seguito occupati a domare i tumulti già menzionati. Gli abitanti della Sicilia ritrovarono allora la sicurezza e i Bizantini (al-Rum) ne approfittarono per fortificare l’isola da tutti i lati, coprendola di ridotti (ma‘aqil) e di cittadelle (husun), e non v’era una cima che essi non coronassero di una fortezza». Gli storici medievali, a differenza di molti studiosi moderni, avevano dunque ben chiaro il legame inscindibile tra le incursioni e la «politica estera» dei governatori dell’Ifriqiya e prendevano atto esplicitamente del fatto che, con il venir meno della loro spinta espansionistica, frenata dalle rivolte e dall’instabilità politica e sociale, i raid e le incursioni diminuivano, fino a scomparire.

Alle origini della dinastia aghlabita

La dinastia islamica che portò a termine la conquista della Sicilia fu una casata di emiri di origine araba, di stanza ad al-Qayrawan, che dominò in forma quasi autonoma la Tunisia e le regioni circostanti per l’intero corso del IX secolo. In quest’epoca, è possibile rintracciare i primi segni del declino del califfato abbaside di Baghdad, il piú evidente dei quali fu il rapido collasso dell’autorità che il califfo riusciva a esercitare nelle province. A Occidente, la Spagna, l’Egitto e, appunto, il Nord Africa divennero praticamente indipendenti sotto i rispettivi emiri, che tributavano agli Abbasidi un riconoscimento meramente formale. Fondatore dell’emirato aghlabita fu Ibrahim ibn al-Aghlab al-Tamimi, governatore della regione algerina dello Zab, ove ristabilí l’ordine turbato

da violente sollevazioni; procedendo poi vigorosamente a domare altri disordini verificatisi nell’Ifriqiya. In seguito alle sue gesta, egli finí cosí per ottenere dal califfo una speciale investitura, le cui condizioni non sono interamente note, ma che gli conferiva una forma di potere superiore a quella dei comuni governatori dipendenti direttamente dal governo centrale, e che difatti costituí l’inizio di un dominio ereditario in gran parte autonomo. Ibrahim ibn alAghlab, che visse fino all’812, rafforzò il suo status con vari provvedimenti, e represse numerose rivolte. Secondo la sua designazione, gli successe il figlio Abu ’l-Abbas ‘Abd Allah, e, dopo la morte di costui, tenne il potere suo fratello Abu Muhammad Ziyadat Allah I, abile politico che consolidò il dominio aghlabita, e diede inizio, nell’827, alla conquista della Sicilia.

La «grande tregua»

Durante i primi venti anni del loro regno, gli Aghlabiti vissero in pace con i cristiani, proseguendo una politica di diplomazia e buon vicinato che durava ormai da un cinquantennio. In effetti, le prime tregue con i Bizantini di Sicilia furono stipulate, già dal secondo venticinquennio dell’VIII secolo, dai governatori abbasidi dell’Ifriqiya: l’ultimo di essi, Muhammad ibn Muqatil al-‘Akki (797-800) intratteneva rapporti talmente cordiali con il patrikios bizantino di Sicilia (che le fonti arabe di epoca successiva chiamano al-taghiya, «il tiranno») da scatenare il biasimo e l’indignazione dei giurisperiti di Qayrawan. In questo lungo periodo di pace, si stabiliscono rapporti commerciali particolarmente intensi tra l’Ifriqiya, la Sicilia, Napoli, Salerno, Amalfi e Gaeta, al punto che Carlo Magno giunge a sospettare una collaborazione fra Romani e «Saraceni» nel campo del commercio degli schiavi: papa Adriano I risponde a tale accusa sostenendo che la vera minaccia per le popolazioni della costa non viene dai Saraceni ma dai Longobardi e dai Bizantini. (segue a p. 19) ARABI

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Gli esordi

ATTACCHI DAL MAGHREB Un documento, finora piuttosto sottovalutato da questo punto di vista, individua come possibili organizzatori dei raid musulmani anche gli Idrisidi del Marocco e i Rustemidi di Tahart. Il documento in oggetto è la descrizione di Roma del siriano Harun Ibn Yahya, contenuta nell’opera geografica di Ibn Rustah, composta fra il 903 e il 913. Nella parte finale di questa descrizione, si trova appunto questo interessante ragguaglio: «A Occidente di questa città c’è il Grande Mare ed essa è circondata da orti e uliveti. La sua popolazione è attaccata dai Berberi che vengono dall’Andalusia o da Tahart, sul mare appartenente ai paesi di Idris ibn Idris e di Tahart “la alta”». Il quadro cronologico a cui il passo fa riferimento è, almeno in larga parte, quello della grande hudna (tregua): in esso infatti sono menzionati Idris ibn Idris, che regnò sul Marocco tra l’803 e l’828, e la città di Tahart, che nella prima metà del IX secolo raggiunse il suo apogeo come capitale dell’imamato rustemide. Il raid contro Centumcellae (813, l’odierna Civitavecchia) e gli attacchi contro i dintorni di Reggio, Lampedusa, Ponza e Ischia (812/3) vanno dunque ascritti alle tre entità menzionate da Harun Ibn Yahya.

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Sulle due pagine Susa (Tunisia). Una veduta dell’interno del ribat (fortezza-monastero), dominato dal nador (torre di avvistamento). La struttura rivestiva il duplice ruolo di presidio militare e di luogo per la diffusione della fede islamica. VIII sec.

In alto e in basso diritto e rovescio di dirham aghlabita, moneta d’argento il cui conio inizia con il califfato omayyade di ‘Abd al-Malik ibn Marwan. VII-VIII sec.

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Agar scacciata da Abramo, olio su tela di Horace Vernet. 1837. Nantes, MusĂŠe des Beaux-Arts.

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SARACENI: BREVE STORIA DI UN TERMINE Nella Geografia di Tolomeo, erano chiamati «Saraceni» alcuni gruppi stanziati in territorio siriano, al confine con la Penisola Araba; nel Medioevo cristiano, il termine passò a indicare in generale i musulmani, anche non arabi. La derivazione piú probabile è dall’arabo sharqiyyun «gli orientali». Appare fantasioso invece il significato di «coloro che sono privati di Sara» (Sarras-kénoi), suggerito dal Padre della Chiesa Giovanni Damasceno, per indicare gli Arabi in quanto discendenti dalla schiava e concubina di Abramo Hagar, attraverso il figlio Ismaele. Il latino Saraceni (dal greco Sarakenoí, plurale di Sarakenós) fu introdotto da vari autori cristiani tra il IV e il V secolo e indicava gli abitanti nomadi del deserto siriano e arabo noti nell’Antico Testamento come «Madianiti», «Ismaeliti» e «Agareni». Con l’avvento dell’Islam, i «Saraceni», agli occhi dei cristiani, si trasformarono nei nemici per antonomasia. Il già menzionato Giovanni Damasceno, vissuto in Siria tra il VII e l’VIII secolo, fu il primo a descrivere il nuovo monoteismo musulmano come un’eresia cristiana, diffondendo la convinzione che Maometto fosse un eretico, un «falso profeta», e non il fondatore di una nuova religione. Questa visione ostile verso ogni elemento esterno all’ortodossia venne poi amplificata da diversi cronisti dell’VIII e IX secolo nei loro racconti delle invasioni dei «Saraceni» nell’area del Mediterraneo. Negli scriptoria di diversi monasteri del Sud Italia furono raccolte le complesse vicende dell’Italia longobarda che, durante tutto il IX secolo, conobbe la presenza di questi Saraceni. Seppur esigua, questa produzione storiografica rappresenta l’unica testimonianza della visione cristiana degli Arabi musulmani nell’Italia altomedievale. Autori come Erchemperto, l’Anonimo salernitano e l’Anonimo cassinese sono tra i piú significativi per quanto riguarda la narrazione degli eventi. Essi costruiscono un’immagine omogenea del «nemico» saraceno attraverso una serie di epiteti: crudelis et terribilis, perfidi et infedeles, iniusti et indisciplinati.

Particolare da una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, raffigurante un accampamento arabo. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

Ibrahim I (800-812), il fondatore della dinastia aghlabita, seguí la politica di al-‘Akki, e altrettanto fece il figlio e successore Abu ’l-‘Abbas ‘Abd Allah I (812-817), il quale, verso la fine del suo emirato, concluse una nuova tregua (hudna) con la Sicilia bizantina. Per evitare gli attacchi di cui era stato fatto oggetto al-‘Akki, l’emiro coinvolse nella trattativa i giurisperiti della capitale, che quindi si schierarono al suo fianco. La «grande tregua», che rimase in vigore fino all’827, fu particolarmente gradita ai mercanti, che poterono esercitare la loro attività liberamente e in piena sicurezza. La sua rottura provocò un totale ribaltamento della politica messa in atto dall’élite aghlabita e aprí le porte alla conquista della Sicilia e a quasi un secolo e mezzo di guerra nell’Italia continentale, che i musulmani chiamavano la «Terra grande» (al-ard al-kabira). La hudna fu turbata solo da sporadici raid musulmani, che peraltro non avevano nulla a che fare con gli Aghlabiti: in effetti, le incursioni portate a termine in questo periodo sono state attribuite soprattutto a bande di Arabi e Berberi provenienti dall’Andalusia (vedi box a p. 16).

La presa della Sicilia

A proposito della conquista islamica della Sicilia, va in primo luogo sottolineato che la decisione di violare il patto sancito con i Bizantini non fu presa a cuor leggero dall’élite di Qayrawan. Una splendida pagina dello storico alMaliki riferisce con dovizia di particolari il dibattito fra il principale rappresentante del «partito» della pace e l’omologo leader del «partito» della guerra con Bisanzio: il primo tenta di far valere le ragioni del diritto e del rispetto dei patti, il secondo fa appello a una serie di cavilli giuridici e, soprattutto, chiama in causa il versetto 35 della sura XLVII del Corano: «Non siate dunque deboli e non proponete l’armistizio mentre siete preponderanti. Dio è con voi e non diminuirà le vostre azioni». In effetti, a partire dagli anni Dieci del IX secolo si assiste a un rapido mutamento della congiuntura politica; l’equilibrio raggiunto alla metà dell’VIII secolo viene turbato da una serie di catastrofi che colpiscono Bisanzio: non ultima, la rivolta del turmarca Eufemio da Messina, foriera di profondi sconvolgimenti nel tessuto sociale e politico siciliano. Cosí, nonostante la maggior parte dei giurisperiti dell’Ifriqiya fosse contraria alla guerra, il nuovo emiro aghlabita, Ziyadat Allah I (817-838) si risolse a sostenere l’intervento militare, che ebbe inizio nel giugno 827. Secondo la tradizione, Eufemio, con altri turARABI

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Gli esordi

I governatori aghlabiti di Sicilia Asad ibn al-Furat ibn Sinan (827–828) Muhammad ibn al-Jawari (828–829) Zuhayr ibn Ghawth (829–830) Asbagh ibn Wakil (830) ‘Uthman ibn Kohrib (830-832) A bu Fihr Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn al-Aghlab (832–835) Fadl ibn Ya‘qub (835) Abu l-Aghlab Ibrahim ibn ‘Abd Allah (835–851) A bu l-Aghlab al-’Abbas ibn al-Fadl ibn Ya‘qub (851–861)

Ahmad ibn Ya‘qub ibn Fazara (861–862) ‘ Abd Allah ibn Sufyan ibn Sawada ibn Sufyan ibn Salim (862–869) Muhammad ibn Khafaja (869–871) Muhammad ibn Abi Husayn (871) Rabah ibn Ya‘qub ibn Fazara (871)

Abu l-‘Abbas ibn Ya‘qub ibn ‘Abd Allah (871) ‘Abd Allah ibn Ya‘qub (871) A hmad ibn Ya‘qub ibn Mudha ibn Sawada ibn Sufyan ibn Salim (872) al-Husayn ibn Rabah (872) A bu l-‘Abbas ‘Abd Allah ibn Muhammad ibn ‘Abd Allah ibn al-Aghlab (873) H abbashi Abu Malik Ahmad ibn Ya‘qub ‘Umar ibn ‘Abd Allah ibn Ibrahim I ibn al-Aghlab (873–875) Ja‘far ibn Muhammad ibn Khafaja (875–878) K hurj al-Ruuna al-Aghlab ibn Muhammad ibn al-Aghlab (usurpatore, 878) Husayn ibn Rabah (seconda volta, 878–881 circa) Hasan ibn al-‘Abbas (881–882) Muhammad ibn Fadl (882–884/885) al-Husayn ibn Ahmad (884/885) Sawada ibn Muhammad ibn Khafaja (885–887)


Abu l-‘Abbas ibn ‘Ali (usurpatore, 887-890) S awada ibn Muhammad ibn Khafaja (seconda volta, 886–892)

Muhammad ibn Fadl (seconda volta, 892–898) Ahmad ibn ‘Umar (898-900) ‘Abd Allah ibn Ibrahim ibn al-Aghlab (900) Abu Malik Ahmad ibn ‘Umar ibn ‘Abd Allah (900) Abu l-‘Abbas ‘Abd Allah ibn Ibrahim (900–902) I brahim (II) ibn Ahmad ibn al-Aghlab (emiro di Tunisi 875-902) (902)

A bu Mudar Ziyadat Allah ibn Abi l-‘Abbas (emiro di Tunisi 903-909) (902–903)

Muhammad ibn al-Sarqusi (903) ‘Ali ibn Muhammad ibn Abi Fawaris (903) Ahmad ibn Abi Husayn ibn Rabah (903–909) ‘ Ali ibn Muhammad ibn Abi Fawaris (seconda volta, 909–910)

STORIE DI TRADIMENTI La conquista islamica della Sicilia, come del resto quella della Siria, dell’Egitto e dell’Andalusia, ha come premessa l’assenza di coesione interna della classe dirigente del territorio sotto attacco, il cui icastico riflesso sono i racconti relativi ai tradimenti e alle complicità con i «vincitori» da parte dell’élite dei «vinti» che contraddistinguono le narrazioni arabo-bizantine concernenti le grandi conquiste arabe. Si pensi per esempio alla stessa vicenda di Eufemio, alla storia delle trattative segrete con il vescovo di Damasco per la resa della città e dell’accordo tra ‘Amr ibn al-As e il patriarca Ciro per la consegna di Alessandria, o, per quanto concerne l’Andalusia, alla cosiddetta «leggenda di Don Julián».

Sulle due pagine ancora una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, raffigurante la presa di Messina da parte dei Saraceni. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. marchi (il turmarca era il funzionario responsabile di una turma, una delle unità in cui si suddivideva un tema, la provincia bizantina ordinata militarmente, n.d.r.), avrebbe cospirato contro il patrizio Gregora, che venne ucciso. L’imperatore Michele il Balbo inviò allora, a domare quei condottieri, lo stratego Fotino, il quale cercò di sopprimere Eufemio l’animatore del complotto, accusandolo di aver rapito da un convento una fanciulla: a questo punto, i suoi complici si ribellarono apertamente, sconfissero e uccisero lo stratego e proclamarono imperatore lo stesso Eufemio (826). Contro di lui si rivoltarono però con le loro milizie altri capitani bizantini: costretto a fuggire, riparò in Africa, dove ad al-Qayrawan indusse il principe aghlabita Ziyadat Allah ad accettare la sovranità della Sicilia, ricevendone tributo, e a fornirgli delle truppe, di cui chiese e ottenne il comando Asad ibn al-Furat, che sbarcò a Mazara il 16 giugno 827: la conquista della Sicilia aveva inizio. Intanto, Eufemio, esautorato da Asad da ogni ruolo politico e militare, cercò il sostegno dei cittadini di Castrogiovanni, ma questi lo uccisero e ne portarono trionfalmente la testa in città (828). ARABI

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L’espansione dell’Islam Mare

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Territori unificati da Maometto (622-632) Unificazione dell’Arabia con Abu Bakr (632-634) Conquiste dei califfi «ortodossi» (632-661) e data

Rivolta abbaside (terza guerra civile). Fine della dinastia degli Omayyadi e inizio del califfato abbaside (750) 830

Nascita delle dinastie autonome del califfato abbaside e data Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione e i conflitti interni Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico Impero carolingio in sfacelo ai tempi di Carlo il Grosso (887) Impero bizantino

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Guerra e diplomazia La penetrazione islamica nelle regioni dell’Italia meridionale non avvenne soltanto nel segno dell’aggressione: in piú di una circostanza, infatti, i capi musulmani seppero abilmente proporsi come alleati, volgendo a proprio favore i conflitti che spesso dilaniavano le terre occupate

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a conquista della Sicilia costituisce un vero e proprio punto di non ritorno nelle relazioni fra i musulmani e l’Italia meridionale. E tuttavia, le dinamiche che vengono a instaurarsi in seguito a questo evento epocale sono piú complesse di quanto si possa pensare. A ben vedere, esse sono infatti il frutto dei rapporti diplomatici e, soprattutto, commerciali, stabilitisi fra città quali Napoli, Gaeta, Salerno e Amalfi durante il periodo della «grande tregua», rapporti di cui restano testimonianze frammentarie e disperse, ma che devono essere sempre tenuti ben presenti. Tutto ciò emerge con chiarezza analizzando il

L’imperatore Teofilo emette un proclama, particolare di una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. L’imperatore è fiancheggiato dai soldati della guardia reale, raffigurati a capo scoperto.

dossier relativo al primo importante intervento musulmano sulla terraferma italiana del IX secolo d.C.: quello in aiuto dei Napoletani contro i Beneventani (835). Dalle fonti latine veniamo infatti a sapere che si trattò di un intervento richiesto ufficialmente ai musulmani dal dux napoletano Andrea, attraverso l’invio di un ambasciatore. Il testo non precisa il luogo in cui l’ambasciata era diretta, ma sembra estremamente plausibile pensare a Palermo, sede del governatorato aghlabita di Sicilia, o, piú probabilmente, a Qayrawan. D’altra parte, la controprova dell’esistenza di un’alleanza tra Napoli e gli Aghlabiti è data dalla partecipazione di truppe napoletane all’assedio di Messina (842-43). In questo stesso periodo, i musulmani occupano brevemente Brindisi (838-39 circa), e anche questa azione, diretta contro il principe longobardo di Benevento, si inserisce perfettamente nel quadro della politica filo-napoletana e antibeneventana messa in atto dall’élite aghlabita. Ma la presa di Brindisi è solo il prologo di una grande offensiva lanciata verso al-ard al-kabira dall’emiro di Ifriqiya Abu ‘Iqal al-Aghlab ibn Ibrahim (838-41) tra l’839 e l’840, che investí la Calabria e la Puglia ed ebbe il suo culmine nella conquista del gastaldato longobardo di Taranto (840). Secondo il Chronicon Salernitanum, l’idea di tale spedizione sarebbe stata suggerita alla leadership musulmana dalla conoscenza delle divisioni interne al principato beneventano; in realtà, la situazione sembra assai piú complessa, perché, come attestano chiaramente le fonti arabe, il vero scontro è con i Bizantini.

840: un anno chiave

Che l’obiettivo dei musulmani fossero soprattutto i possedimenti bizantini in Italia meridionale è confermato dalle ambasciate inviate dall’imperatore di Bisanzio Teofilo a Ludovico il Pio (17 giugno 839) e ai Veneziani (maggio 840) allo scopo di ottenere il loro aiuto contro i musulmani dell’Ifriqiya. Proprio in seguito a tale richiesta, Venezia inviò una flotta di sessanta navi verso Taranto. L’attacco veneziano si risolse in una grande controffensiva della flotta musulmana, che si spinse fino al Quarnaro (primavera 841 e primavera 842). Come si evince dal testo di Giovanni Diacono, le truppe aghlabite avevano posto il loro quartier generale nella Taranto appena conquistata. Che l’840 rappresenti un anno chiave nella storia dei tentativi di espansione islamica in al-ard al-kabira è testimoniato dal fatto che, per il cronista Lupo Protospatario, esso è a tutti gli effetti il terminus a quo della presenza ARABI

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ARABI IN ITALIA

Le prime conquiste musulmana in Italia. A tal proposito, va rilevato come alla radice di questa prima «campagna italiana» degli Aghlabiti vi sia il sincronismo tra crisi bizantina (tra l’827 e l’838 la perdita della Sicilia e la caduta di Amorio, la piú importante roccaforte del tema anatolico, avevano gettato Bisanzio nello sconforto e nella disperazione) e momentanea assenza di problemi interni all’emirato di Qayrawan. Vedremo come tale concomitanza sarà alla base di tutti i successivi interventi della dinastia in Italia meridionale.

Il «Grande gioco»

Se l’840 è l’anno della conquista di Taranto, l’anno successivo è invece quello del primo attacco islamico contro Bari, su cui ci si soffermerà piú oltre. Qui invece è necessario accennare al fatto che in tale occasione emerge chiaramente una divisione all’interno dello schieramento musulmano, che fino all’841 aveva agito in maniera estremamente compatta. La prima fonte storica a dare conto di tale contrasto è l’Historia Langobardorum Beneventanorum di Erchemperto (fine del IX secolo), secondo la quale i musulmani sarebbero stati divisi in due fazioni che sostenevano rispettivamente Radelchi e Siconolfo, i due principi longobardi che, tra l’839 e l’848, si contesero la leadership del principato di Benevento: i «Libici», schierati con Radelchi, e gli «Hispani» o «Spani», al fianco di Siconolfo. La testimonianza dello storico longobardo è avvalorata da due passi della Chronica Monasterii Casinensis e della Chronica Sancti Benedicti Casinensis, nei quali si afferma che Siconolfo si era appropriato di un certo numero di oggetti di valore appartenenti al monastero di S. Benedetto allo scopo di offrirli ai suoi alleati andalusi. I Libici chiamati in causa da Erchemperto sono probabilmente da identificarsi con le milizie libiche del berbero Khalfun (il Calfo di Erchemperto), evidentemente provenienti dalla regione del Jabal Nafusa, che faceva parte della provincia aghlabita di Tripoli: le stesse truppe con le quali Khalfun avrebbe portato a termine l’occupazione di Bari. Gli Andalusi schieratisi con Siconolfo furono invece certamente un reparto di mercenari, non dissimile dal contingente di miliziani andalusi agli ordini di Asbagh ibn Wakil, detto Farghalush, che, partito nell’anno 830-31 per 26

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante Ludovico il Pio come soldato, con la croce e uno scudo, dal manoscritto De Laudibus Sanctae Crucis di Rabano Mauro. 810-814 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

una spedizione «privata» contro insediamenti bizantini, si era in seguito messo a disposizione delle truppe aghlabite assediate dai Bizantini in Mineo e aveva contribuito al loro successo. Il capo riconosciuto della spedizione inviata in terraferma dall’emiro di Ifriqiya era un personaggio che le fonti latine e bizantine chiamano «Saba»: Amari ha dimostrato che costui altri non era che il comandante in capo della flotta musulmana (sahib al-ustul) inviata dall’Ifriqiya dall’emiro aghlabita. Come rivela-

no alcuni aneddoti romanzeschi riferiti dall’anonimo autore del Chronicon Salernitanum, egli seguí una politica abile e ambigua, schierando le proprie truppe ora con Radelchi (appoggiato anche dai Berberi di Khalfun) ora con Siconolfo (sostenuto dagli Andalusi), a seconda delle convenienze. In effetti, dietro i continui mutamenti di campo dei musulmani – che il Chronicon attribuisce a motivazioni del tutto risibili –, affiora un tratto tipico del modus operandi islamico in terra nemiARABI

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ARABI IN ITALIA

Le prime conquiste

IN LOTTA PER LA SUCCESSIONE Nell’839 Sicardo, il principe longobardo di Benevento, fu assassinato in una congiura ordita dal suo tesoriere Radelchi. Alcuni dei maggiorenti salernitani, in odio a quest’ultimo, proclamarono principe il fratello di Sicardo, Siconolfo, aprendo di fatto una lotta per la successione. Lo scontro fra i due pretendenti si protrasse per oltre dieci anni, durante i quali Siconolfo trasferí a Salerno la capitale del principato beneventano. La controversia fra Siconolfo e Radelchi rese pericolosamente instabili gli equilibri politici dell’Italia meridionale e suscitò le preoccupazioni dell’allora re d’Italia Ludovico, il quale, nell’846, si recò nella Penisola per tentare una mediazione fra le due parti in lotta. Tra l’848 e l’849 si addivenne a un accordo che fu ratificato da Ludovico: in esso si sanciva l’indipendenza del nuovo Principato di Salerno dal dominio beneventano. La Longobardia Minore venne divisa in due nuove entità statali autonome.

ca, che vede nelle collaborazioni trasversali e nei repentini cambi di alleanze un fondamentale strumento strategico. Per molti autori, antichi e moderni, tale comportamento costituirebbe un carattere originario della scienza militare musulmana, tanto da essere riassumibile nel topos della «volubilità saracena». In realtà, esso appare piuttosto un elemento peculiare del «Grande gioco», cioè dei tentativi di penetrazione di una o piú potenze militari all’interno di un sistema caratterizzato da una pluralità di piccole entità politiche in lotta tra loro, tentativi in cui, all’uso della forza, si alterna con disinvoltura l’impiego delle arti della diplomazia e dello spionaggio.

Continui cambiamenti di fronte

In alto dritto e rovescio di un Solido di Siconolfo. Zecca di Salerno. 832-839. Qui sopra dritto e rovescio di un Solido di Radelchi. Zecca di Benevento.

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Dai racconti delle fonti si individua inoltre una costante: il grosso delle truppe musulmane, che pure, nel corso del conflitto fra Siconolfo e Radelchi, cambia per ben tre volte alleato, sembra comunque agire in maniera compatta sotto la guida di un solo leader: il capo dei musulmani stanziati in Taranto e al tempo stesso dei musulmani della Calabria. L’unica eccezione a questa regola è costituita dagli Andalusi menzionati da Erchemperto, i quali, non a caso, non fanno parte dei contingenti inviati dall’Africa settentrionale. A «Saba» si giustappongono poi altri due capi menzionati dalle fonti, Khalfun e Sawdan (che nei testi latini è chiamato Satan o Soldanus), che avranno un ruolo fondamentale nelle vicende della

Sulle due pagine scontro di armati davanti ad una fortezza, particolare di una miniatura dal manoscritto De Universo di Rabano Mauro. XI sec.


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Le prime conquiste

UNA FONTE PREZIOSA I Longobardi dell’Italia meridionale riuscirono a evitare la sottomissione a Carlo Magno e a creare l’indipendente principato di Benevento. Tuttavia, l’esasperata rivalità delle fazioni e gli interessi delle aristocrazie locali segnarono la storia del principato fino alla sua disgregazione. Il contemporaneo indebolimento dell’impero di Bisanzio consentí ai musulmani di impadronirsi della Sicilia e di insediarsi in alcune zone del Meridione: da lí condussero devastanti incursioni. Vittima illustre ne fu Montecassino. Alla fine del IX secolo, nell’Historia Langobardorum Beneventanorum, il monaco cassinese Erchemperto raccontò la storia di questo travagliato periodo, sottolineando le gravi responsabilità dei governanti longobardi, che avevano condotto alla rovina il loro mondo. Cosí lo scrittore sperò che la descrizione di quei tragici eventi servisse da lezione per le future generazioni.


In alto Benevento, S. Sofia. Zaccaria muto davanti al popolo, particolare dell’affresco facente parte del ciclo delle Storie di Cristo, opera di un artista di probabile formazione siro-palestinese, che forse la portò a termine entro il 768, anno che segna la fine della costruzione della chiesa, fondata intorno al 758 per volere di Arechi II, duca di Benevento. Nella pagina accanto ancora una miniatura dal De Universo di Rabano Mauro, raffigurante la vita all’interno di un monastero. XI sec.

conquista di Bari e nella costituzione di un emirato barese. Essi agiscono sul campo in maniera alquanto autonoma, accentuando sempre di piú la loro indipendenza dal comando aghlabita, ma senza distaccarsene mai del tutto.

L’attacco al cuore della cristianità

Dall’inizio del IX secolo, le coste laziali erano divenute obiettivo di incursioni musulmane provenienti dal Marocco, dall’Algeria e dall’Andalusia; proprio per proteggere Roma da tali sortite, papa Gregorio IV (828-844) aveva fondato una nuova città fortificata presso Ostia, dotandola di strutture necessarie alla difesa e dandole il nome di Gregoriopoli. Ma tutto ciò non valse a fermare i saccheggiatori. Secondo il Liber Pontificalis, il 10 agosto 846 il comes Adelvertus, marcensis et tutor Corsicanae insulae, avrebbe inviato una lettera a Roma per avvertire papa Sergio II (844-847) dell’approssimarsi di un’imponente armata musulmana. Tuttavia, l’appello di Adelvertus non fu preso seriamente in considerazione, e il 23 agosto quelli che le

fonti latine chiamano «Saraceni» giunsero ad littus Romanum senza incontrare ostacoli. Appresa la notizia dello sbarco e della presa di Ostia e di Porto (che furono abbandonate senza che i loro abitanti opponessero alcuna resistenza), i Romani decisero di inviare nell’area effettivi sassoni, frisoni e franchi appartenenti alle scholae peregrinorum (associazioni di pellegrini residenti nel Borgo vaticano con funzioni civili e militari), ma, dopo una prima scaramuccia, resisi conto dell’effettiva portata della minaccia musulmana, molti di essi rientrarono a Roma per rafforzare le difese della città. Cosí, il 26 agosto, i «Saraceni», dopo avere attaccato e ucciso i soldati di guardia presso Porto e inseguito i sopravvissuti fino a ponte Galeria, poterono iniziare indisturbati la loro marcia verso la Città Eterna, investendo in pieno la chiesa di S. Pietro. Successivamente essi saccheggiarono anche la basilica di S. Paolo, per poi ritirarsi nella zona di Gaeta, A proteggere i Gaetani intervenne allora (segue a p. 34) ARABI

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ARABI IN ITALIA Città del Vaticano, Palazzi Apostolici, stanza dell’Incendio di Borgo. L’affresco raffigurante la battaglia di Ostia, che, nell’846, vide contrapporsi le truppe di Leone IV ai Saraceni e si concluse con la vittoria delle armate papali. La decorazione pittorica fu realizzata da Raffaello e dai suoi allievi tra il 1508 e il 1524.

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Le prime conquiste


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Le prime conquiste

una squadra navale, inviata da Napoletani e Amalfitani e guidata da Cesario, figlio del duca di Napoli Sergio I. La situazione si sarebbe risolta a causa di una tempesta che avrebbe spinto i musulmani ad accordarsi con Cesario: egli avrebbe consentito a che le navi «saracene» venissero tirate in secco, evitando il naufragio, a patto che la flotta, una volta tornato il bel tempo, fosse ripartita. I musulmani avrebbero rispettato i patti, ma le loro navi sarebbero state quasi totalmente distrutte da un vento «divino».

La conquista di Bari

Subito dopo il fallimento della spedizione di Hablah, da un lato emerge e si rafforza la leadership del generale berbero Khalfun, dall’altro si sancisce l’alleanza dei musulmani con il principe longobardo di Benevento Radelchi, alla ricerca di un sostegno militare contro il suo rivale salernitano Siconolfo. Come si è visto, la fonte piú antica a informarci di tale alleanza è Erchemperto, il quale, in un capitolo particolarmente denso della sua opera storica, concentra il racconto di vicende svoltesi nell’arco cronologico che separa il fallito attacco di Hablah dagli

In basso medaglione in argento con ritratto del califfo abbaside al-Mutawakkil. IX sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto Samarra (Iraq). Veduta del minareto della moschea di Abu Duuf, fatta costruire dal califfo al-Mutawakkil. IX sec.

Una vicenda-chiave per comprendere la natura dei rapporti fra musulmani e Longobardi dell’Italia meridionale è la fondazione del cosiddetto «emirato di Bari», a cui lo storico Giosuè Musca (1928-2005) ha dedicato quasi cinquant’anni fa una notevole monografia, che costituisce, con gli opportuni distinguo, una solida base per ulteriori studi sull’argomento. La Bari islamica esercitò un ruolo fondamentale nel tentativo di conquista di aree importanti dell’Italia meridionale da parte delle milizie aghlabite e raggiunse un notevole grado di autonomia rispetto alla leadership di Qayrawan. Bari fu attaccata dai musulmani per la prima volta nell’841, sotto la guida di un certo Hablah, legato da rapporti clientelari con la famiglia degli emiri di Qayrawan: questo dato di fatto e la cronologia stessa degli eventi sembrano indizi piuttosto evidenti del fatto che tale impresa avvenne nel quadro dell’attacco alla Calabria e alla Puglia sferrato dal corpo di spedizione aghlabita per ordine dell’emiro Abu ‘Iqal al-Aghlab ibn Ibrahim. Il tentativo di Hablah non ebbe successo, ma da questo momento in poi si consolida nella regione una consistente presenza musulmana.

DAL CAPOLAVORO DI AL-BALADHURI Vissuto nel IX secolo, Abu ’l-Hasan Ahmad ibn Yahya ibn Jabir ibn Dawud al-Baladhuri è uno dei piú importanti storici musulmani medievali. Trascorse gran parte della propria vita a Baghdad e godette di grande influenza presso la corte del califfo al-Mutawakkil, che gli mise a disposizione gli archivi del suo palazzo. Il capolavoro di Baladhuri è il Kitab futuh al-buldan, cioè Il libro delle conquiste dei paesi, che tratta delle guerre e delle conquiste degli Arabi a partire dal VII secolo, dalle conquiste della Siria-Palestina, dell’Egitto e del

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Nordafrica (Ifriqiya), a quelle della Spagna (al-Andalus), della Mesopotamia (Iraq), dell’Iran e del Sind. In quest’opera, l’autore dedica una pagina di estremo interesse alla conquista di Bari e alla designazione di emiro concessa a Sawdan dal califfo al-Mutawakkil e confermata dal suo successore Musta‘in- bi-’llah Ahmad ibn Muhammad ibn al-Mut‘asim: «Piú tardi, Bari venne invasa da Khalfun al-Barbari (probabilmente un liberto della tribú dei Rabi‘ah), che la conquistò durante il primo periodo del califfato di al-Mutawakkil.


Prese poi il potere un certo Mufarraj ibn Sallam, che si impadroní di ventiquattro piazzeforti da lui custodite. Poi, annunciò la novità al Ministro della Posta in Egitto, dicendogli che lui e i suoi seguaci non avrebbero potuto guidare la preghiera senza che l’imam lo confermasse sul distretto e lo facesse governatore, cosicché non potesse essere incluso nella categoria degli usurpatori. Mufarraj eresse una moschea congregazionale. Alla fine i suoi uomini insorsero contro di lui e lo uccisero. A lui successe Suran (cioè Sawdan, n.d.r.) che inviò il suo messaggero ad al-Mutawakkil, l’Emiro dei Credenti,

che richiedeva una conferma e una lettera di incarico quale governatore (wali). Tuttavia, al-Mutawakkil morí prima che il suo messaggero partisse con il messaggio per Suran. Al-Muntasir bi-’llah morí dopo aver esercitato il califfato per sei mesi. Poi venne al-Musta‘in- bi-’llah Ahmad ibn Muhammad ibn al-Mut‘asim (862), che ordinò al suo ministro sul Maghrib, Utamish, un liberto dell’Emiro dei Credenti, di confermare Suran. Ma non appena il messaggero del califfo partí da Samarra, Utamish fu trucidato (6 giugno 863). La regione fu allora governata da Wasif, un liberto del califfo, che confermò Suran nella sua posizione».

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GLI ANNALES BERTINIANI

eventi successivi alla conquista di Bari a opera di Khalfun. Da questo passo, e da un analogo brano della Chronica Sancti Benedicti Casinensis, che parla esplicitamente di «Saraceni […] diu erga Barim residentes» («Saraceni […] a lungo residenti nei dintorni di Bari»), in quanto chiamati a stabilirvisi come alleati dal gastaldo longobardo Pandone, risulta chiaro che l’alleanza fra i musulmani e Radelchi fu sancita, con la mediazione del gastaldo barese, assai prima della conquista della città. Per quanto concerne la data dell’occupazione musulmana di Bari – oggi fissata pressoché concordemente nell’autunno dell’847 –, essa è essenzialmente desunta da quanto afferma lo storico arabo Baladhuri, secondo il quale [Bari] fu invasa da Khalfun al-Barbari, che la conquistò al principio (fi awwal) del califfato di alMutawakkil. Poiché al-Mutawakkil salí al potere nel mese di dhu ’l-hijja 232, cioè nell’agosto 847, Musca deduce, in maniera del tutto arbitraria, che la città sia stata occupata all’incirca nell’autunno dell’847. In realtà, al terminus post quem dell’agosto 847 si affianca un ulteriore dato cronologico: in effetti, sia Erchemperto sia 36

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CRONOLOGIA

Conosciuti anche come Annali di San Bertino, gli Annales Bertiniani sono una cronaca franca relativa al periodo fra l’830 e l’882; essi prendono il nome dall’abbazia di S. Bertino, fondata nel VII secolo dal vescovo di Thérouanne a Saint-Omer, in Francia, all’interno della quale furono rinvenuti.

● 330 circa In seguito ai ritrovamenti che la tradizione attribuisce a sant’Elena, madre di Costantino, vengono fondate a Gerusalemme e a Betlemme alcune basiliche per ricordare i principali momenti della vita del Cristo; inizia la devozione per i Luoghi Santi cristiani. ● 614 I Persiani del Gran Re Cosroe conquistano Gerusalemme; la basilica della Resurrezione, che ospita l’edicola del Santo Sepolcro, viene distrutta e la reliquia della Vera Croce portata a Ctesifonte come trofeo di guerra. ● 622 Ègira (hijrah, «migrazione») del profeta Muhammad da Mecca a Yatrib (piú tardi detta Medina, 15 giugno «la Città»). ● 629 L’imperatore bizantino Eraclio libera Gerusalemme dai Persiani, conquista Ctesifonte capitale del Gran Re e recupera la reliquia della Vera Croce; si restaura la basilica della Resurrezione. ● 632 Morte del profeta Muhammad a Medina. ● 638 Il califfo Umar conquista Gerusalemme.

In alto Saint-Omer (Francia). Una veduta dei resti dell’abbazia di S. Bertino. VII-XVI sec.


●6 39 Inizia la conquista araba dell’Egitto. ●6 41 Gli Arabi conquistano Alessandria. ●6 47 Inizia la conquista araba dell’Ifriqiyah (corrispondente all’antica provincia romana d’Africa), terminata attorno al 705. ●7 32 25 ottobre Battaglia di Poitiers (la data è quella piú comunemente accettata). ●7 50 Fondazione del califfato abbaside. ●7 56 L’umayyade Abd ar-Rahman I fonda l’emirato di Córdoba. ●7 62 Fondazione di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside. ●7 97 Avvio delle relazioni diplomatiche fra Carlo Magno e Harun ar-Rashid. ●8 01 I Franchi riconquistano Barcellona. ●8 27 Inizio della conquista aghlabita della Sicilia (completata nel 902). ●8 27-961 Emirato arabo nell’isola di Creta. ●8 33 Conquista musulmana di Palermo. ●8 44 Assalto normanno a Siviglia, respinto da cristiani e musulmani che combattono insieme. ●8 46 Incursione araba su Roma. ●8 47-871 Emirato arabo di Bari. ●8 49 Battaglia di Ostia, conclusasi con la vittoria dei cristiani sugli Arabi. ●8 59 I Normanni incendiano la moschea di Algesiras, in Spagna. ●8 70 Occupazione musulmana dell’isola di Malta. ●9 02 Conquista musulmana delle Baleari. ●9 60-961 I Bizantini riconquistano Creta. ●9 69 Fondazione del Cairo. ●9 82 A Capo Colonna, in Calabria, i Saraceni battono l’imperatore romano-germanico Ottone II di Sassonia. ●9 97 Al-Mansûr, vizir del califfo di Córdoba, attacca e saccheggia la città di Santiago de Compostela. ●1 009 Il califfo fatimide d’Egitto al-Hakim fa distruggere la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. ●1 031 Fine del califfato umayyade di Córdoba. ●1 085 6 maggio Alfonso VI di Castiglia conquista Toledo. ●1 086 I Castigliani sono sconfitti dagli Almoravidi a Zallaqa. ●1 090 Ruggero d’Altavilla occupa Malta e Gozo. ●1 094 15 giugno El Cid conquista la città di Valencia. ●1 095 18-27 novembre Concilio di Clermont d’Alvernia. Discorso di Urbano II. ●1 096-1099 Prima crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale. ● 1098 Giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. ● 1099 10 luglio El Cid Campeador muore a Valencia. ● 1099 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme.

● 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del Regno «franco» di Gerusalemme. ● 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. ● 1128 Concilio di Troyes: la fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici trasformata in militia (Ordine religioso-cavalleresco). ● 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia regolatrice del movimento crociato. ● 1147 Ottobre I crociati prendono Almeria e poi Lisbona. ● 1148-1152 Seconda crociata in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. ● 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. ● 1177 25 novembre Le truppe cristiane guidate da Baldovino IV di Gerusalemme sconfiggono l’armata di Saladino nella battaglia di Montgisard. ● 1187 Vittoria saracena a Hattin; Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. ● 1187-1192 Terza crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. ● 1195 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. ● 1202-1204 Quarta crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino. ● 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi». ● 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola Iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. ● 1212 «Crociata dei fanciulli» (o «degli innocenti»). ● 1212 17 luglio Le truppe cristiane franco-ispano-portoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. ● 1217-1221 Quinta crociata, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. ● 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico II); Gerusalemme è recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. ● 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. ● 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. ● 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. ● 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. ● 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. ● 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. ● 1270 Ottava crociata (seconda crociata di Luigi IX, che muore durante l’assedio di Tunisi). ● 1291 Caduta di Acri. ● 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII.

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la Chronica Monasterii Casinensis affermano che, dopo la conquista di Bari, Radelchi, non potendo cacciare i musulmani dalla città, si alleò nuovamente con loro, e intraprese alcune operazioni militari comuni, scontrandosi anche con Siconolfo. Poiché tali operazioni non possono essere state condotte dopo la stipula della Divisio ducatus Beneventani, quest’ultima costituisce il terminus ante quem della presa di Bari da parte di Halfun.

Benevento occupata e liberata

In effetti, la Divisio, cioè il trattato di pace tra Radelchi e Siconolfo, che appare in larga parte originata dalla consapevolezza del «pericolo saraceno», presuppone la presenza a Benevento del rex Italiae Ludovico, ed è comunemente datata tra l’848 e l’849. Sembra però possibile restringere ulteriormente questo arco cronologico: infatti, poiché gli Annales Bertiniani testimoniano che, nel corso dell’848, Benevento subí una nuova invasione musulmana che non trovò alcuna opposizione nell’esercito franco – evidentemente già ritiratosi dalla città –, la ratifica dell’accordo dovette avvenire tra il 12 maggio 848, giorno della liberazione di Benevento da parte delle truppe imperiali, e un momento imprecisato prima della fine dello stesso anno. Di conseguenza, la conquista di Bari dev’essere collocata tra l’agosto 847 e gli ultimi mesi dell’848. In questa prima fase, il dominio musulmano su Bari sembra comunque ancora strettamente le-

COS’È UNA MOSCHEA? Di fondamentale importanza è anche la decisione di Mufarraj di costruire una moschea congregazionale (masjid jami‘). La moschea, infatti, è il centro della vita islamica: non un tempio, ma il majlis, il modesto parlamento della tribú, la tenda del consiglio in cui si concentrava la vita sociale. La moschea congregazionale è il risultato finale di una lenta evoluzione, della trasformazione di un edificio destinato all’uso domestico in un luogo di ritrovo dei credenti, in modo da costituire non solo un centro religioso, ma anche politico. Per la stessa ragione, la moschea è anche il centro amministrativo e il luogo nel quale si esercitano le funzioni giuridiche, dal momento che viene usata quale tribunale. La costruzione della moschea congregazionale, insomma, è un atto che segna in maniera inequivocabile l’acquisizione di Bari e del suo territorio nella sfera islamica (dar al-Islam).

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A sinistra particolare di una miniatura dalle Makamat di Hariri, illustrate da Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti, raffigurante un sermone in una moschea, in cui si vedono le donne che assistono da una terrazza sopraelevata, separate dagli uomini. 1273. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


gato alle strategie della leadership aghlabita. Le fonti menzionano per l’ultima volta Khalfun in relazione a eventi dell’848. Nello stesso anno, si registrano la «liberazione» di Benevento per mano del rex Italiae Ludovico (eletto imperatore nell’850) e successivamente un nuovo attacco islamico alla città, che segna la fine dell’alleanza tra i musulmani di Bari e Radelchi. Dopo l’848, il signore di Bari adotta una politica estremamente aggressiva, che inquieta gli abati di Montecassino e S. Vincenzo al Volturno e induce Ludovico a cercare di eliminare alla radice il problema. Ma chi è in questo periodo il signore di Bari? I dati cronologici a nostra disposizione mostra-

In basso Venafro (Isernia), Castello Pandone. Una veduta dell’imponente fortificazione. X-XVI sec.

no che si tratta ancora di Khalfun. Se quest’ultimo riuscí a superare con abilità e acume politico le grandi sfide diplomatiche e militari del quinquennio tra la conquista di Bari e l’attacco di Ludovico, a gestire la nuova fase apertasi con il fallimento dell’assedio franco fu invece colui che le fonti latine chiamano «Ferraci», cioè, come sappiamo da Baladhuri, Mufarraj ibn Sallam (851-854 circa). Dal racconto di Baladhuri risulta evidente che il secondo signore di Bari, dopo aver consolidato il suo potere occupando una serie di postazioni strategicamente rilevanti, prese un’iniziativa politica estremamente significativa: quella di richiedere a Baghdad l’investitura a wali, governatore a capo di una provincia dell’impero abbaside. E tuttavia, Mufarraj non ebbe il tempo di vedere i frutti delle sue risoluzioni e dei suoi provvedimenti: dopo tre anni e sei mesi di governo, nel dicembre dell’854, i suoi uomini insorsero contro di lui e lo uccisero, mettendo al suo posto quel Sawdan che già da tempo doveva avere un ruolo di primo piano fra le milizie musulmane stanziate presso Bari e che attendeva paziente-

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Le prime conquiste

mente di cogliere il momento propizio per impadronirsi del potere. In ogni caso, pur avendo origini molto diverse da quelle di Mufarraj (probabilmente yemenite), Sawdan ne proseguí a tutti gli effetti le politiche, portando a compimento, non solo di fatto ma anche de iure, il processo di distacco dall’autorità aghlabita avviato con grande sagacia dal suo predecessore. Mentre il berbero Khalfun non sembra entrare mai in conflitto con gli interessi aghlabiti, Sawdan, che pure in alcuni casi collabora con le truppe degli emiri di Qayrawan, si pone tuttavia su un piano di concorrenza rispetto a tali interessi. Divenuto signore di Bari, egli prosegue infatti la politica di «legittimismo» filo-abbaside inaugurata da Mufarraj ibn Sallam, il successore di Khalfun, ignorando volutamente la Sicilia e l’Ifriqiya e guardando decisamente all’Oriente. Non sappiamo quando Sawdan abbia inviato il suo messaggero ad al-Mutawakkil: la data dell’861 indicata da Musca non si basa su alcun elemento concreto. Conosciamo invece con certezza il terminus post quem relativo al ricevi-

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SAWDAN, PRINCIPE CORTESE Se per le fonti cristiane non passava giorno senza che Sawdan non uccidesse cinquecento o piú uomini, esiste un testo che dà una visione ben diversa del signore di Bari. Si tratta del Libro della Genealogia di Ahimaaz ben Paltiel di Oria, una storia degli antenati della sua famiglia ebraica composta nell’XI secolo. A Oria, infatti, che ospitava una delle piú popolose e colte comunità ebraiche dell’Italia meridionale, visse un certo Aaron, un dotto che si recò a Bari tra l’863-865 e rimase presso la corte di Sawdan per sei mesi. In questo torno di tempo Sawdan sarebbe stato estremamente attratto dalla sua profonda saggezza e lo avrebbe trattato con grande cortesia. Da questa storia emerge un profilo diverso di Sawdan: accogliente, rispettoso verso la comunità ebraica e pronto ad ascoltare i consigli del «maestro». Insomma il crudelissimus Sawdan si mostra anche un uomo colto e ospitale. Questo episodio fa il paio con un altro che leggiamo nel racconto di viaggio di Bernardo, monaco franco della Champagne, il quale, avendo ricevuto dal papa Niccolò I la benedizione e la licentiam peragendi, cioè il permesso di compiere un pellegrinaggio in Terra Santa, era partito intorno all’870 da Taranto per Gerusalemme. Dopo una sosta al santuario di S. Michele sul Gargano, nell’867


passò per Bari, dove pagò una tassa a Sawdan che avrebbe dovuto permettergli di viaggiare nella dar al Islam, quindi in territorio musulmano. Ecco il suo racconto: «Nell’anno dell’incarnazione di nostro Signore Gesú Cristo 867 (…) Lasciando il monte Gargano viaggiammo per 150 miglia, a una città in mano ai Saraceni, chiamata Bari che era formalmente soggetta a Benevento. È posta sul mare ed è fortificata a sud da due grandi muri; a nord sporge alta sul mare. Qui ottenemmo dal principe della città, chiamato “Suldanum”, il necessario equipaggiamento per il viaggio, con due lettere di salvacondotto che descrivevano le nostre persone e l’oggetto del nostro viaggio al principe di Alessandria e al principe di Babilonia. Questi principi sono sotto la giurisdizione dell’Emir-al Muminin,che governa su tutti i Saraceni e risiede a Bagdad e ad Axinarri [Samarra, n.d.r.] che sono oltre Gerusalemme. Da Bari andammo al porto della città di Taranto, alla distanza di 90 miglia, dove trovammo sei navi che avevano a bordo 9000 schiavi cristiani di Benevento. In due navi che salpavano per prime e che erano dirette in Africa c’erano 3000 schiavi; nelle due seguenti che erano destinate a Tunisi ce ne erano altri 3000. Le ultime due che contenevano parimenti lo stesso numero di schiavi cristiani, ci portarono al porto di Alessandria dopo un viaggio di trenta giorni».

In alto Siponto (Foggia), abbazia di S. Leonardo in Lama Voltara. Particolare di uno dei capitelli del portale: san Michele Arcangelo conduce un pellegrino verso il santuario sul Gargano, a lui intitolato. XII sec. Nella pagina accanto Oria (Brindisi). Una veduta della porta d’accesso alla città vecchia. Nel Medioevo, la cittadina pugliese ospitava una delle piú importanti comunità ebraiche dell’Italia meridionale.

mento dell’«investitura califfale»: è il 6 giugno 863, giorno della morte di Awtamish, un liberto (mawla) al quale il califfo aveva affidato l’amministrazione delle regioni occidentali dell’impero; il secondo terminus è invece la data di morte del califfo. Fu infatti il successore di Awtamish, un altro liberto di nome Wasif, a conferire ufficialmente a Sawdan il rango di emiro. Quest’ultimo fu dunque il primo e unico «vero» emiro di Bari, e ciò solo per meno di otto anni, fino al 3 febbraio dell’871, giorno della caduta della città nelle mani di Ludovico II.

Pressioni e alleanze

Negli anni immediatamente successivi alla sua presa del potere, Sawdan mette in atto una poliedrica strategia complessiva: da un lato, la penetrazione militare in Molise, nel basso Lazio e in Campania, con la conquista di centri strategici come Venafro e Teano, e la forte pressione esercitata su Conza (che Sawdan, dopo averla già una volta attaccata e saccheggiata, sottopose invano a un assedio di quaranta giorni); dall’altro, l’alleanza con Napoli, dove certamente stazionavano truppe musulmane, sia nell’area di Miseno, sia in campo Neapolitano. Di tale strategia fanno parte anche gli ottimi rapporti intrattenuti con Salerno, di cui dà testimonianza il Chronicon Salernitanum. Nella seconda metà degli anni Cinquanta del IX secolo, il fulcro del conflitto tra musulmani e

Longobardi in Italia meridionale sembra comunque essere il Beneventano, che vedeva coesistere, in uno stato di continua mobilitazione e ostilità reciproca, le truppe islamiche direttamente connesse con l’Ifriqiya e la Sicilia, e le milizie longobarde, guidate dal nuovo principe Adelchi (e in alcuni frangenti, anche le truppe franche di Ludovico II). In questo scacchiere, si registra l’intervento di Sawdan, da poco divenuto signore di Bari, il quale, come ci informa Erchemperto, devastò tutta la terra beneventana; un contingente franco cercò di opporvisi, ma fu costretto a ripiegare senza avere ottenuto alcun risultato positivo. Le conseguenze di questa sconfitta furono gravissime: secondo lo stesso Erchemperto, infatti, Adelchi fu costretto a firmare la pace e a pagare un tributo annuale ai musulmani. La gravità della situazione si coglie meglio se tradotta in termini arabi: Adelchi, infatti, è costretto a sottomettersi ai musulmani, accettando lo status di dhimmi, cioè di «protetto» della comunità islamica, con tutti gli onori e soprattutto gli oneri che esso comporta, tra cui, appunto, l’impegno al pagamento della tassa di compensazione (jizya, termine reso dal latino pensio). Il principe di Benevento resterà in tale condizione fino all’intervento di Ludovico II, e questo spiega perché l’area beneventana, per tutto il periodo precedente a tale intervento, si mantenga relativamente tranquilla. ARABI

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La campagna di Ludovico

Il consolidarsi della presenza musulmana induce l’imperatore carolingio a scendere in Italia. Un’avventura che si conclude ingloriosamente, con la cattività del sovrano, vittima, prim’ancora che degli «infedeli», delle trame che oppongono Longobardi e Bizantini

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a consapevolezza del grande pericolo rappresentato dalla penetrazione islamica nell’Italia centro-meridionale e dalla possibilità di impia foedera (patti scellerati) fra i musulmani e potenze estranee e ostili all’impero franco, come appunto Napoli, indussero l’imperatore Ludovico II a indire una nuova, grande campagna contro i «Saraceni», una decisione a cui non dovettero essere estranei gli abati di Montecassino e S. Vincenzo al Volturno, che avevano sperimentato sulla propria pelle le conseguenze di una vigorosa presenza islamica nella regione. Dal canto loro, i Longobardi di Benevento non vedevano certo di buon occhio l’intervento imperiale: non sembra un caso che, nell’866, Adelchi abbia emanato alcuni capitoli di legge, introdotti da un prologo a carattere storico, di intonazione fortemente ostile nei confronti dei Franchi, nei quali si celebrava la grandezza dei re longobardi prima che fossero soppiantati con l’astuzia e la frode da Carlo Magno. Adelchi, comunque, non era in grado di resistere alle soverchianti forze franche, e dunque dovette adeguarsi, facendo atto di sottomissione all’imperatore e permettendogli di entrare in città.

Bari o Benevento?

Alla fine degli anni Sessanta del IX secolo, la città-emirato di Bari era certamente il nucleo islamico piú forte e vitale dell’Italia continentale. Sebbene gli studiosi contemporanei siano propensi a credere che la sua riconquista fosse sin 42

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dall’inizio il principale obiettivo dell’imperatore Ludovico II, sembra invece probabile che l’idea di attaccare Bari si sia presentata alla sua mente solo una volta giunto nel Beneventano, quando egli ebbe modo di rendersi conto de visu del fatto che sarebbe stato di fatto impossibile garantire la sicurezza della Campania e di Roma senza eliminare la minaccia barese. In effetti, il testo del Capitulare de exercitu Beneventum promovendo, che annuncia la mobilitazione, mostra chiaramente come il principale obiettivo dell’imperatore fosse il Beneventano, il cui controllo rappresentava il vero nucleo strategico della missione di Ludovico. Né è un caso che nel medesimo Capitulare Bari non venga nemmeno menzionata, e che anche gli Annales Bertiniani parlino inizialmente (anno 866) di una spedizione «in Beneuentum contra Sarracenos», e solo a partire dall’869 chiamino in causa Bari, senza neppure accenBari, basilica di S. Nicola, cripta. Primo piano di uno dei capitelli zoomorfi, raffigurante leoni e arieti. XI-XII sec. La rappresentazione dei leoni è risolta in modo originale, con i due corpi che si fondono in un’unica testa, posizionata sullo spigolo del capitello.



ARABI IN ITALIA

L’intervento imperiale

nare alla sua conquista da parte dell’imperatore. Narra Erchemperto che, nella primavera dell’867, l’imperatore, dopo aver rafforzato il suo esercito con truppe ausiliarie inviategli da suo fratello Lotario, marciò su Bari, ma, in un primo scontro fu sconfitto dalle truppe di Sawdan, lasciando sul campo molti caduti; allora, Ludovico cambiò tattica, adeguandosi a quella saracena: evitando le battaglie aperte, bruciò i raccolti e conquistò Matera, che venne data alle fiamme; si accampò quindi nei pressi di Venosa e pose un presidio di combattenti in prossimità di Canosa, trattando con clemenza le popolazioni cristiane che avevano accettato la sovranità dell’emiro e che ora gli si arrendevano. Per completare l’accerchiamento di Bari e per impedire che essa potesse comunicare con Taranto, l’imperatore occupò anche Oria. La Puglia tornava dunque in larga parte in mani cristiane, e ciò costituiva un motivo di grande soddisfazione per il papa: rivolgendosi ai monaci e ai sacerdoti di tutte le nationes, riuniti a Roma nel febbraio 868, Adriano II li invitava infatti a pregare per l’imperatore, perché sottomettesse i «Saraceni».

Miniatura raffigurante papa Sergio II che incorona Ludovico II, primo imperatore italiano, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Un’imprevista battuta d’arresto

Tutto sembrava pronto per l’attacco decisivo contro il cuore dell’emirato di Sawdan. Ciononostante, invece di attaccare subito Bari, Ludovico rientrò a Benevento: in effetti, come ci informa l’abate-cronista Reginone di Prüm, le truppe ausiliarie inviate da Lotario – decimate dal caldo, dalla dissenteria e dai morsi di ragni velenosi – erano state costrette ad abbandonare la spedizione, inducendo l’imperatore a sospendere le operazioni e a riflettere sulla migliore strategia da mettere in atto. Fu probabilmente durante questa pausa obbligata che ebbero inizio le trattative per un’alleanza tra l’imperatore franco e Bisanzio. Come afferma l’anonimo autore del Chronicon Salernitanum, l’iniziativa sarebbe stata presa dall’imperatore Basilio (forse con la mediazione di papa Adriano II), che avrebbe inviato a Ludovico un’ambasceria allo scopo di sancire un patto finalizzato a cacciare i musulmani dal continente italiano. Sui contenuti di tale missione diplomatica, le informazioni piú dettagliate sono contenute in una lettera di Ludovico a Basilio riportata dal Chronicon Salernitanum e, soprattutto, negli Annales Bertiniani sotto l’anno 869: da quest’ultimo testo si deduce che Ludovico, che nel marzo dell’868 si trovava ancora a Benevento, aveva promesso in sposa a Basilio sua figlia e che tuttavia, un anno dopo, per ra44

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gioni imprecisate, venne meno agli accordi. In realtà, Ermengarda, figlia di Ludovico, era stata promessa al figlio di Basilio Costantino. Nei primi mesi dell’869 Ludovico muove nuovamente contro Bari: in effetti, dagli Annales Bertiniani veniamo a sapere che nella primavera dello stesso anno è in corso l’assedio dei Saraceni (obsessio Sarracenorum). L’imperatore resiste alle pressioni del fratello Lotario, il quale lo vorrebbe a Roma per risolvere una spinosissima questione familiare, con importanti implicazioni politico-religiose: quella del divorzio fra lo stesso Lotario e sua moglie


Teutberga, a cui papa Adriano II avrebbe dovuto dare il suo assenso. Il momento è troppo importante: si attende l’arrivo di una grande flotta bizantina inviata da Basilio I in auxilium contra eosdem Sarracenos. Ma Lotario non desiste, e alla fine riesce a ottenere un abboccamento con l’imperatore: come precisa Andrea da Bergamo, tale incontro avvenne presso Venosa e gli Annales Bertiniani sottolineano che esso dovette contribuire in maniera decisiva al buon esito della vicenda, al quale, tuttavia, seguí, dopo poco tempo, la morte di Lotario presso Piacenza.

Nell’estate dell’869 giunge intanto a largo di Bari la flotta bizantina proveniente dalla Dalmazia e rinforzata da truppe slave croate e narentane, composta da 400 navi agli ordini di Niceta Ooryphas, che aveva l’ordine di portare aiuto a Ludovico e di prenderne in consegna la figlia Ermengarda per accompagnarla a Costantinopoli, alla corte di Basilio. Tuttavia, quando sbarcò nei pressi di Bari, non trovò né l’imperatore né sua figlia. Ludovico scrisse poi a Basilio che il ritardo nell’arrivo della flotta lo aveva indotto ad autorizzare i soldati a tornare alle proprie terre, trattenendo solo quanti riteARABI

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ARABI IN ITALIA

L’intervento imperiale

La città di Bari, incisione da Il Regno di Napoli in prospettiva, di Giovan Battista Pacichelli. XVII sec. nuti bastevoli a impedire che l’assedio fosse spezzato; per questo, quando la flotta bizantina fece inaspettatamente la sua apparizione, ad accoglierla non v’erano che pochi effettivi franchi: lo stesso Ludovico si era già ritirato per svernare a Venosa e Benevento, come era solito fare, portando con sé sua figlia. Cosí Niceta Ooryphas si ritirò sdegnato a Corinto, non senza aver infierito sugli Slavi alleati con Ludovico II e stanziati presso Bari, che furono fatti prigionieri, suscitando le tanto vivaci quanto inutili proteste dell’imperatore franco. In realtà, le ragioni del voltafaccia di Ludovico erano ben altre: quest’ultimo, infatti, pentito di essersi spinto troppo oltre negli accordi con l’Oriente, non voleva prendere Bari con l’aiuto di Bisanzio, né voleva essere in debito con Basilio, in un momento in cui il conflitto religioso tra Roma e l’Oriente non era acora risolto, e stavano per tornare in discussione il problema del titolo imperiale e quello della sovranità sulle terre dell’Italia meridionale che Ludovico stava faticosamente riconquistando. La malafede fu indiscutibilmente da parte franca. Gli accordi, che senza dubbio c’erano stati, andarono infatti a monte, e Ludovico dovette da quel momento contare solo su se stesso.

Difensore della cristianità

Il genio strategico di Sawdan tentò subito di approfittare della mancata coesione tra Franchi e Bizantini: alla fine dell’869, l’emiro di Bari attaccò in forze il santuario di S. Michele sul Gargano, spingendo Ludovico a riprendere le trattative con i Bizantini, che tuttavia non ebbero buon esito: nella primavera dell’870, quando ripresero le operazioni contro Bari, Ludovico era di nuovo solo. In effetti, Basilio aveva lasciato a presidiare l’Adriatico solo una piccola squadra navale comandata da uno «stratigius Georgius», del tutto insufficiente a opporsi a eventuali flotte o armate nemiche. E tuttavia, Ludovico sembrò non essere turbato piú di tanto da questa solitudine: al contrario, mise in atto una strategia che integrava azioni militari e diplomazia, accreditandosi come unico difensore della cristianità minacciata dai «Saraceni». L’azione diplomatica di Ludovico si rivolse soprattutto verso le popolazioni cristiane della Calabria. Narra Andrea da Bergamo che, mentre era impegnato ad assediare Bari, giunsero all’imperatore i messi dai territori calabresi con la richiesta di divenire suoi sudditi e di ricevere 46

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la sua protezione; impressionato dal racconto della malvagità dei «Saraceni», rappresentati come devastatori di campi, saccheggiatori di città e distruttori di chiese, Ludovico decise di selezionare un drappello scelto di militi, tra cui spiccavano un nobile bergamasco di nome Hotone e ben due vescovi (presumibilmente, la fonte – diretta o indiretta – di Andrea per questo episodio), e di passare all’azione.

La strage dei mietitori

I Christiani, ai quali si uní lungo il cammino una folla di fedeli, giunsero in una valle dove i musulmani, credendosi al sicuro, mietevano il grano insieme ai loro captivi; si scagliarono su di loro, li massacrarono e liberarono i prigionieri; ma a questo punto, dalla città di Amantea, si fece loro incontro un princeps musulmano, chiamato «Cincimus»; lo scontro che seguí vide prevalere i Franchi, che fecero grande strage dei musulmani e li costrinsero a darsi alla fuga. Hotone e i suddetti vescovi, trionfanti, tornarono dall’imperatore, che rese loro grandi onori. Il passo di Andrea da Bergamo contiene vari elementi particolarmente interessanti: in primo luogo, vale la pena di soffermarsi sulla richiesta di aiuto all’imperatore e l’offerta di sottomissione da parte di emissari provenienti de finibus Calabriae: essa infatti, sembrerebbe indicare come ormai le élite locali non si aspettassero piú 48

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Sulle due pagine Bari. In alto, la città vecchia; a destra, la facciata della basilica romanica di S. Nicola. XII sec.


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alcun sostegno dai Bizantini; in realtà, è assai probabile che i messi fossero giunti dall’area latina della regione calabrese, e cioè quella dei gastaldati longobardi di Cosenza e di Cassano allo Ionio: non appare casuale il fatto che la spedizione inviata da Ludovico avesse per obiettivo il territorio di Amantea, che si trova esattamente sul confine fra la zona longobarda e il ducato bizantino di Calabria. Vale poi la pena di soffermarsi sul quadro descritto dallo storico a proposito dei «Saraceni», che Andrea coglie in un momento di vita quotidiana, mentre sono intenti alla mietitura in una valle (la Val di Crati?), in collaborazione con i loro prigionieri. Che i musulmani mietessero (e seminassero, evidentemente) non è certo un dato da poco: esso indica infatti che il loro modus vivendi nella regione era ormai sedentario e stanziale, con buona pace degli stereotipi antichi e moderni che descrivono i «Saraceni» dell’Italia meridionale unicamente come razziatori e pirati: d’altra parte, sappiamo dal cronista Ibn al-Athir che i musulmani erano presenti stabilmente nell’area in questione da piú di dieci anni.

Nessun emiro ad Amantea

Occorre infine prendere in considerazione la figura di colui che viene comunemente considerato come l’«emiro di Amantea», chiamato «Cincimus» da Andrea da Bergamo. Il primo a qualificare «Cincimus» con il termine di «emiro» è Amari, seguito da molti altri studiosi, tra cui, da ultimo, Amedeo Feniello. Questa definizione non ha alcun fondamento, come d’altra parte non ha senso parlare di «emirato» per Amantea, e tuttavia il «princeps dei Sarracini Cincimus», anche alla luce degli eventi successivi, sembra essere un capo militare di notevole importanza, al punto che non va esclusa la possibilità che si tratti addirittura del nuovo comandante della flotta aghlabita. Per quanto concerne la sua identità, si rivela decisivo un passo dello storico Ibn ‘Idari, il quale afferma che, nell’888-89, mentre era in corso una rivolta, l’emiro aghlabita Ibrahim II fece il suo ingresso a Qayrawan, accompagnato da un personaggio di nome Nasr ibn al-Samsama, che viene definito hajib («ciambellano») dell’emiro, alla testa di un distaccamento dell’armata. Data la perfetta corrispondenza prosopografica e cronologica, appare estremamente plausibile pensare che proprio Nasr ibn al-Samsama abbia esercitato per un certo periodo la carica di comandante in capo delle truppe aghlabite in Italia meridionale, per poi coronare la sua car50

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Bari. Veduta a volo d’uccello del centro storico e della fronte della basilica di S. Nicola.


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ARABI IN ITALIA In basso dritto e rovescio di un solido di Basilio I. IX sec. Washington, Dumbarton Oaks Research Library and Collection.

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riera come hajib di Ibrahim II alla fine degli anni Ottanta del IX secolo. Secondo Andrea da Bergamo, «Cincimus» si fa incontro ai Franchi «de Civitate Amantea»: in effetti, è ben possibile che il nucleo principale delle truppe aghlabite si fosse spostato nella regione, a protezione degli insediamenti musulmani calabresi, minacciati dalla spedizione franca. Lo storico bergamasco sostiene che i Franchi, nello scontro che ne seguí ebbero la meglio. Ma, come riferisce lo stesso Andrea, ciò non impedí a «Cincimus» di tentare la controffensiva, venendo in aiuto di Bari assediata.

Una vittoria miracolosa

«Cincimus» agisce non solo in stretta collaborazione con l’emiro di Bari, ma anche con l’emirato aghlabita, certamente ben consapevole dell’importanza della posta in gioco. L’armata guidata da «Cincimus» marcia dunque su Bari verso la fine di dicembre dell’870 e tenta di spezzare l’assedio sorprendendo le truppe cristiane impegnate nella celebrazione del Natale, ma l’imperatore viene a conoscenza del piano e invia un esercito incontro ai Sarracini. Non conosciamo il luogo del nuovo scontro tra Franchi e musulmani, ma sappiamo che l’esito della battaglia fu favorevole ai primi, anche per un non meglio precisato intervento celeste: i musulmani, sconfitti, si dettero alla fuga, inseguiti dai cristiani, che non si fermarono fino a quando non ne ebbero ucciso un gran numero. La sconfitta di «Cincimus» fu un duro colpo per Sawdan. Per un lungo periodo il fine della sua azione politico-militare era stato quello di emanciparsi dalla sfera di influenza degli Aghlabiti: rivolgersi a loro per chiedere protezione era già l’ammissione di un fallimento. Ma senza un aiuto esterno, il destino di Bari era segnato. Quando l’emiro venne a sapere che anche l’esercito di «Cincimus» non era riuscito a fermare le truppe cristiane, dovette comprendere che resistere era ormai inutile. Cosí, Ludovico II dette l’assalto decisivo alle mura di Bari e, il 3 febbraio dell’871, il suo esercito entrò finalmente in città. Le fonti latine danno ampiamente conto della presa di Bari, mentre in quelle arabe la caduta 52

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dell’emirato non è registrata direttamente. Tuttavia, gli echi dell’evento affiorano in maniera evidentissima in due notizie riportate dagli storici: quella dell’arresto di Sawdan da parte dei Franchi e quella dell’istituzione da parte del governatore aghlabita della Sicilia, all’indomani della caduta di Bari, della carica di «governatore della terra grande» (wali al-ard al-kabira). La conquista di Bari da parte di Ludovico II è invece la grande assente nelle fonti bizantine. Sembra probabile che gli storici bizantini si siano limitati a far passare sotto silenzio la conquista di Ludovico II al fine di valorizzare maggiormente la presa bizantina della città, che avvenne nell’876. Le fonti latine, arabe e bizantine concordano sul fatto che uno dei principali esiti della missione di Ludovico II a Bari fu la caduta di Sawdan in mani cristiane. Secondo Erchemperto, da parte dell’imperatore, la cattura dell’emiro di Bari fu un grave errore strategico e una vera e propria empietà, che l’autore mette sullo stesso piano degli atti sacrileghi contro alcuni delegati papali compiuti dallo stesso Ludovico


in Roma nel gennaio dell’864, e dell’episodio biblico della clemenza di Saul nei confronti di Agag, re degli Amaleciti, stigmatizzata dal profeta Samuele nell’Antico Testamento. In realtà, quella di Ludovico II fu in qualche modo una scelta obbligata: il motivo per cui Sawdan non venne immediatamente eliminato fu la richiesta fatta in tal senso da Adelchi, il quale, intorno all’856 si era sottomesso all’emiro di Bari. Erchemperto ricorda che tra le condizioni poste allora da Sawdan per accordare la pace al sovrano di Benevento v’era il pagamento di una pensio (in termini islamici, jizya) e, appunto, la consegna di ostaggi. Quest’ultima pratica, pur essendo estranea alla dottrina islamica concernente la cessazione delle ostilità, fu utilizzata anche nel corso delle grandi conquiste del VII secolo: il caso piú noto è quello del cosiddetto «trattato di Alessandria», in base al quale i musulmani si riservavano il diritto di prendere come ostaggi 150 militari e 50 civili a garanzia dell’attuazione dell’accordo. Ebbene, tra gli ostaggi consegnati all’emiro c’era proprio

una figlia del principe di Benevento, che potrebbe essere stata Ageltrude, futura regina d’Italia e imperatrice, la cui figura dominò gli avvenimenti della storia d’Italia nello scorcio finale del IX secolo. È dunque evidente che per Adelchi era prioritario salvare Sawdan per ottenere la liberazione della figlia.

La strategia di Adelchi

Ancora un particolare di una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, raffigurante il banchetto dell’imperatore Basilio I. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

Tuttavia, come è stato giustamente rilevato, non fu certo solo l’amore paterno a spingere il sovrano longobardo a chiedere all’imperatore la grazia per l’emiro di Bari. Il prosieguo degli eventi lascia infatti pensare che Adelchi avesse già in mente una possibile alleanza con i musulmani al fine di disfarsi dell’ingombrante presenza di Ludovico. D’altra parte, sin dalle origini, gli scambi di ostaggi e di prigionieri tra mondo cristiano e mondo islamico avevano avuto una fondamentale funzione diplomatica. In ogni caso, Sawdan, con i suoi sodali «Annosus» e «Abdelbach», venne consegnato nelle mani di Adelchi e recluso a Benevento. ARABI

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Monte Sant’Angelo (Foggia), Santuario di S. Michele Arcangelo. Veduta della facciata principale della chiesa del complesso. XIII sec.

A questo punto, Ludovico cercò di sfruttare la situazione favorevole e di strappare ai musulmani la Puglia e la Calabria. La sua azione culminò nel breve assedio di Taranto, che tuttavia si rivelò impresa impossibile senza la collaborazione di una flotta. In realtà, nonostante la presa di Bari, la questione musulmana era ben lungi dall’essere risolta. Dal suo quartier generale di Benevento, dove si era ritirato con la moglie Engelberga e la figlia Ermengarda, l’imperatore cercò poi di riannodare i fili della diplomazia nei confronti di Bisanzio: come è ormai acclarato, la celebre lettera all’imperatore Basilio I, riportata dal Chronicon Salernitanum, venne infatti composta proprio nel periodo che va dalla presa di Bari alla rivolta contro Ludovico, che scoppiò il 13 agosto dell’871, e fu consegnata alla corte costantinopolitana dal longobardo Autprando, fratello del vescovo di Bergamo Garibaldo e familiaris e vassallo dell’imperatore.

Tensione fra le righe

In primo luogo, il tono della lettera, al di là delle forme, lascia trasparire un clima di forte tensione, solo in parte connessa alla questione del titolo imperiale, rivendicato da Ludovico e negato da Basilio: se essa, in effetti, è senza dubbio al centro della prima sezione dell’epistola, nella seconda l’oggetto del contendere diviene chiaramente il problema della presa di Bari e del futuro assetto dell’Italia meridionale e della Sicilia. Per ciò che concerne la conquista di Bari, Ludovico si sofferma sugli eventi immediatamente precedenti e successivi a essa, rivendicando il ruolo decisivo delle milizie franche, deplorando il comportamento disdicevole delle truppe bizantine e minimizzando la portata del loro contributo all’impresa. Un altro punto chiave è la «questione napoletana»: in effetti, l’imperatore paragona esplicitamente Napoli a Palermo e Qayrawan («Panormus vel Africa»), affermando che essa è ormai divenuta a tutti gli effetti una base «saracena». Si tratta ovviamente di un’esagerazione, che però coglie l’essenza della politica napoletana nei confronti dei musulmani sin dagli inizi della loro presenza in Italia meridionale, alludendo soprattutto ai suoi recenti sviluppi, che avevano condotto alla creazione di due stabili piazzeforti islamiche nell’area di Miseno e «in campo Neapolitano» e a continue scorrerie islamiche all’interno del patrimonium Petri. Naturalmente, per Ludovico tale politica era stata ed era possibile solo a causa dell’ambiguità dei Bizantini, che avevano consentito e consentivano alle ARABI

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autorità napoletane di stringere accordi commerciali e militari con i musulmani. L’imperatore invitò dunque i Napoletani a mettere fine all’alleanza con gli infedeli. In ogni caso, la comprensibile attitudine antibizantina di Ludovico non gli impedí di riconoscere la necessità di un’alleanza con Bisanzio: d’altra parte, lo stesso imperatore, subito dopo la presa di Bari, aveva sperimentato in prima persona l’impossibilità di ottenere una vittoria definitiva contro i musulmani senza disporre di una flotta in grado di fermare l’afflusso di vettovaglie e rinforzi inviati via mare da Palermo e Qayrawan, afflusso che aveva causato il fallimento del progetto imperiale di riconquista di Taranto e di ulteriore espansione verso la Calabria.

L’imperatore prigioniero

A questo punto si verifica però la famigerata congiura che porta alla reclusione a Benevento dell’imperatore, di sua moglie Engelberga e di sua figlia Ermengarda per quaranta giorni, dal 13 agosto al 17 settembre 871. Su questo celebre episodio molto è stato scritto, individuandone di volta in volta la causa nelle vessazioni dei Franchi nei confronti dei Longobardi; nell’arroganza dell’imperatrice; nei vecchi rancori anti-franchi dei principi meridionali, concordi nel suggerire ad Adelchi di rivoltarsi contro l’imperatore; nelle trame dei Bizantini, per i quali il crollo della potenza franca nell’Italia del Sud significava di fatto nuove possibilità di espansione della loro influenza nella regione. In alcune fonti latine, si accenna, piú o meno esplicitamente, anche al 56

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In alto ancora una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, raffigurante la presa di Amantea. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale. Sulle due pagine Amantea (Cosenza). Veduta panoramica del promontorio su cui si trovano i resti dell’antico castello, alle pendici del quale si è sviluppato l’odierno centro abitato.


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In basso particolare di una miniatura dal Codex Legum Langobardorum, raffigurante il principe longobardo Adelchi. XI sec. Cava dei Tirreni, Archivio dell’Abbazia della SS. Trinità. Sulle due pagine particolare di una miniatura da un Corano tunisino. IX sec. Tunisi, Bibliothèque Nationale.

IL PRINCIPE E L’EMIRO Nell’agosto dell’871, dopo la riconquista di Bari, a Benevento venne ordita una congiura contro l’imperatore Ludovico. In tale occasione, Adelchi non esitò a ricorrere ai consigli di Sawdan, che aveva salvato dalla condanna a morte al momento della presa della città pugliese. Che Sawdan non sia stato del tutto estraneo alla vicenda appare confermato non solo dal Rythmus de captivitate Ludovici imperatoris, un rozzo componimento poetico abecedario probabilmente contemporaneo alla congiura contro Ludovico, che rappresenta il deposto emiro di Bari mentre, insieme a un nobile esponente dell’aristocrazia longobarda, Sadutto, dà vita a una vera e propria parodia dell’incoronazione imperiale, ma anche e soprattutto dalle fonti bizantine, che insistono sulle buone relazioni intrattenute dal prigioniero Sawdan con

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ruolo di consigliere che nell’affaire avrebbe esercitato Sawdan, con il quale Adelchi, un tempo a lui formalmente sottomesso, si sarebbe appunto consultato in merito alla condotta da tenere nei confronti dell’imperatore. In ogni caso, la cattività di Ludovico II costituí senza dubbio un enorme trauma per l’Occidente, suscitando scandalo e deplorazione, al punto che, secondo Erchemperto, Dio avrebbe punito i cristiani con una nuova invasione musulmana. Questa visione tipicamente medievale dei musulmani come flagellum Dei chiamato a castigare gli empi congiurati contro la sacra figura imperiale non ha mancato di esercitare la propria influenza anche sugli storici contemporanei. In realtà, sia le fonti latine sia le fonti arabe forniscono informazioni sufficienti a far intendere che la reazione musulmana alla caduta di Bari fu immediata ed estremamente decisa. Se gli autori latini si diffondono sugli scontri militari, gli storici arabi si concentrano soprattutto sugli aspetti amministrativi della questione, riferendo come in tale occasione si riorganizzasse il governatorato (wilaya) della «terra grande».

L’offensiva dopo la caduta di Bari

l’aristocrazia capuana e beneventana e sui suoi intrighi finalizzati a ottenere la propria liberazione. Sebbene il racconto bizantino degli eventi in questione sia disseminato di elementi favolistici, aneddotici e propagandistici, esso mostra che anche nella percezione greca Sawdan ha una parte di primo piano nella congiura contro Ludovico II. In effetti, l’analisi delle relazioni beneventano-saracene intercorse dalla presa del potere di Adelchi all’adventus dell’imperatore in Benevento dell’866 suggeriscono che il principe longobardo fosse legato all’emiro di Bari e al suo sistema di potere assai piú di quanto generalmente non si creda. Tutto ciò dovrebbe spingere gli studiosi a riconsiderare con attenzione le strategie di espansione islamica in Italia meridionale, evitando accuratamente un approccio imperniato sul logoro schema interpretativo dello scontro di civiltà e di religioni.

Il 18 settembre 871, Ludovico II viene infine liberato: prima d’essere rilasciato, l’imperatore giura di non consumare future vendette né contro Adelchi, né ai danni degli altri congiurati e di non tornare mai piú nel territorio di Benevento; ma papa Adriano II lo libera dal giuramento pronunciato in stato di pericolo e lo incorona nuovamente imperatore il 18 maggio dell’872, mentre Adelchi viene dichiarato tiranno e nemico pubblico («tyrannus atque hostis reipublicae»). Nel frattempo, truppe musulmane assediano Salerno e Adelchi organizza la resistenza, pur mantenendo un canale di comunicazione nella persona di Sawdan, che continua a essere prigioniero a Benevento. In una data imprecisata fra la seconda metà di settembre dell’871 e il 31 agosto dell’872, il principe longobardo riporta un’importante vittoria, lasciando sul campo 3000 musulmani. In questo stesso torno di tempo, 1000 soldati musulmani sono intercettati e massacrati dai Capuani presso Suessola (località nei pressi dell’odierna Acerra, a metà strada fra Caserta e Napoli, n.d.r.). Tuttavia, i due rovesci non inducono la leadership islamica a levare l’assedio alla città campana. Il vescovo di Capua, Landolfo, decide allora di rivolgersi all’imperatore, che prima (cioè tra l’agosto e il settembre dell’872, giacché Erchemperto afferma che era ARABI

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ARABI IN ITALIA Sulle due pagine Veduta di Benevento, incisione su rame tratta da Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo naturale, politico, e morale, con nuove osservazioni, e correzioni degli antichi e moderni viaggiatori, di Thomas Salmon. Venezia, 1761.

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quasi passato un anno dall’inizio dell’assedio) invia un esercito, che ottiene un successo importante, uccidendo circa 9000 musulmani, e infine, qualche tempo dopo, interviene di persona. L’adventus imperiale spezza definitivamente l’assedio di Salerno, convincendo i musulmani a ripiegare sulla Calabria, da cui parte delle truppe dovettero fare poi ritorno in Sicilia e in Ifriqiya.

La «riconquista» bizantina

Se l’872 si chiude con alcune importanti affermazioni delle forze imperiali e dei Longobardi dell’Italia meridionale, l’anno successivo ha anch’esso inizio con una vittoria «cristiana». Da una lettera del pontefice Giovanni VIII, databile tra la seconda metà di dicembre

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dell’872 e il maggio dell’873, veniamo infatti a sapere che in quel mentre era giunta sul litorale campano-laziale una flotta islamica, che fu però intercettata in un luogo imprecisato da una squadra navale greca al servizio del pontefice, seguita da terra da una milizia papale; l’azione combinata ebbe successo e portò all’affondamento di numerose imbarcazioni nemiche: a detta di Giovanni VIII, oltre alle navi disperse, solo quaranta musulmani riuscirono a sfuggire all’imboscata, rifugiandosi sul Monte Circeo; il papa, nell’epistola, si rivolge dunque ai prefetti di Amalfi, Marino e Pulcharis, proprio per ottenere la loro collaborazione al fine di snidare i nemici dal loro rifugio. Nella sua Historia, Andrea da Bergamo scrive che, nel luglio dell’875, poco prima della mor-


te di Ludovico II, avvenuta il 12 agosto dello stesso anno, una flotta musulmana apparve davanti a Grado e la pose sotto assedio, ma fu respinta dai difensori della città e da una squadra navale inviata dal doge Orso I Partecipazio e capeggiata da suo figlio Giovanni. I musulmani allora si ritirarono, non prima di aver messo al sacco la città di Comacchio. Tutto ciò mostra chiaramente come l’offensiva musulmana che segue la caduta di Bari si dispieghi a tutto campo su piú direttrici, investendo non solo la terraferma, ma anche le coste tirreniche e adriatiche. La gravità della situazione emerge chiaramente nelle epistole in cui papa Giovanni VIII, in questo stesso frangente, si lamenta della recrudescenza degli attacchi «saraceni» contro le coste del LaIn alto particolare di una miniatura da un manoscritto di un exultet beneventano raffigurante un gruppo di soldati longobardi. X sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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Peschici (Foggia). Uno scorcio della baia di Manaccora, sulla costa garganica, qui dominata da una torre di avvistamento saracena e da un caratteristico trabucco per la pesca.

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zio, che si tradussero in un secondo saccheggio musulmano del suburbio di Roma, dopo quello celeberrimo dell’846. Prima di esaminare la documentazione relativa a questo episodio, è però necessario tornare a considerare la situazione del Beneventano dopo la partenza di Ludovico II. Come si è visto, Adelchi non aveva indugiato nell’intervenire a sostegno di Salerno assediata e vi aveva ottenuto anche un buon successo militare; nel frattempo, come afferma Erchemperto, egli continuava a tenere prigionieri Sawdan e i suoi compagni «Annosus» e «Abdel-

bach». Sappiamo dallo stesso Erchemperto che questi ultimi furono inviati da Adelchi in Ifriqiya, evidentemente allo scopo di trattare con i musulmani. In effetti, la situazione era precipitata: il territorio di Bari e di Canosa era oggetto di continui attacchi da parte di truppe islamiche provenienti da Taranto, che, dopo aver corso il rischio di essere riconquistata dalle forze imperiali all’indomani della presa di Bari, era stata rinforzata da nuovi contingenti «saraceni». Di conseguenza, il principe di Benevento pensò di risolvere il problema come aveva già fatto alcuni anni prima, cioè instau-


rando una trattativa, e a tale scopo inviò in Ifriqiya i due sodali dell’ex emiro barese. Tuttavia, se Sawdan si era rivelato un interlocutore interessato a un accordo e – come si ricorderà – aveva concesso ad Adelchi lo status di dimmi, a Qayrawan gli «ambasciatori» del principe trovarono evidentemente un clima molto diverso: secondo Erchemperto, infatti, «Annosus», una volta in Ifriqiya, si pose piú o meno volontariamente al seguito di un certo «Utmagnus» (‘Uthman), che in precedenza era stato esiliato proprio da Sawdan, non sappiamo se perché membro di una fazione lealista nei confronti degli Aghlabiti o per qualche altro motivo a noi ignoto; in ogni caso, «Utmagnus» insieme ad «Annosus», si recò a Taranto e assunse il comando delle truppe presenti in loco. Ma a questo punto, lungi dall’accettare le profferte di pace di Adelchi, «Utmagnus» attaccò il territorio di Bari e Canosa e il Beneventano, concentrandosi in particolare sui centri di Telese e Alife, nell’alta valle del Volturno, che già in passato erano stati oggetto di attacchi da parte delle truppe aghlabite. Il culmine dell’offensiva musulmana si ebbe presumibilmente nell’873, spingendo i Beneventani a ricercare e a ottenere l’appoggio

LA «TERRA GRANDE» La nozione di al-ard al-kabira (la «Terra grande»), che ricorre nelle fonti islamiche medievali, comprende anche la Penisola italica, ma non è a essa esclusiva, come comunemente si crede. Sembra tuttavia evidente che una nozione cosí ampia e generica, utile a rendere l’idea del continente europeo, sia destinata a essere limitata e precisata dal contesto in cui essa viene utilizzata: e sembra altresí ovvio che in questo caso il contesto indichi chiaramente la terraferma italiana.

dell’esercito bizantino di stanza a Otranto, con la promessa di destinare all’imperatore di Bisanzio il tributo che fino a quel momento essi destinavano agli imperatori franchi. Intanto, Ludovico II, da Capua, dove soggiornò fino all’autunno dell’873, seguiva con preoccupazione l’evolversi degli eventi, inquietato tanto dai movimenti delle truppe musulmane, quanto dall’interferenza bizantina nel Beneventano: le fonti danno testimonianza della sua volontà di intervenire nuovamente a Benevento sia per via diplomatica sia per via militare, probabilmente anche al fine di recuperare, almeno in parte, il thesaurus imperiale che, se-

condo Erchemperto, Adelchi avrebbe trattenuto presso di lui al momento della liberazione del sovrano franco. Ma tutti i suoi tentativi si dimostrarono vani, e Ludovico lasciò definitivamente l’Italia meridionale, per morire due anni dopo nei dintorni di Brescia.

L’ennesimo accordo

Nel frattempo, Adelchi, ancora una volta, addivenne a un accordo con i musulmani, sulle cui clausole nulla sappiamo, se non che esso prevedeva la consegna di Sawdan e che, in seguito a esso, i membri dell’élite longobarda che governava la città da poco riconquistata, per il timore dei «Saraceni» chiamarono in aiuto l’ufficiale bizantino Gregorio che stazionava con la flotta bizantina presso Otranto. Entrato a Bari, quest’ultimo, secondo gli accordi, inviò il gastaldo e gli altri notabili della città a Costantinopoli. Era il 25 dicembre dell’anno 876, e Bari tornò in mani bizantine, nelle quali rimase per quasi due secoli. Il crollo del programma di Ludovico II era tanto piú clamoroso in quanto non solo egli non era riuscito a soggiogare le forze particolaristiche locali, ma non aveva neppure creato tra di esse quello spirito di solidarietà che avrebbe dovuto portarle a combattere tutte unite contro i Saraceni e la rinnovata minaccia bizantina. In effetti, Erchemperto, quasi a epigrafe del racconto degli eventi culminanti nella presa di Bari da parte dei Bizantini, afferma che non solo Benevento, Salerno e Capua avevano piú volte respinto i legati greci che chiedevano aiuto contro i musulmani, ma che le stesse Salerno, Napoli, Gaeta e Amalfi mantenevano con essi delle relazioni del tutto pacifiche, e ciò costituiva un grave danno per Roma, esposta alle devastazioni delle flottiglie islamiche senza poter sperare, come in passato, nell’aiuto delle squadre navali napoletane e amalfitane. Resta da chiedersi quale sia stato il destino di Sawdan, consegnato nelle mani dei musulmani di «Utmagnus». L’ultima notizia, per altro estremamente vaga, che lo riguardi è fornita dallo storico e monaco di Montecassino Giovanni Diacono (852 circa-ante 882), e lo localizza a Taranto, dove quasi certamente era iniziata la sua «avventura» italiana. Se si riflette sulla condotta politico-militare dell’ex emiro di Bari, tutta tesa a rendersi autonomo dall’autorità degli Aghlabiti, sembra plausibile pensare che la consegna di Sawdan nelle mani dei musulmani di Taranto, in diretta connessione con l’Ifriqiya aghlabita, abbia costituito la sua fine politica e, forse, non soltanto tale. ARABI

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Signori della «terra grande» Nella seconda metà del IX secolo, le mire espansionistiche musulmane si rivolgono alla Sicilia: assedi e offensive si moltiplicano e, nell’878, la caduta della città di Siracusa segna l’affermazione definitiva delle forze islamiche


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otto il governatorato di Khafaja Ibn Sufyan, giunto dall’Ifriqiya in Sicilia nell’862, le spedizioni militari musulmane contro le città dell’isola non ancora sottomesse si intensificarono e si concentrarono sul territorio siracusano. Nell’871, Khafaja sarebbe stato vittima di una di queste scorrerie sulla via del ritorno: del delitto, si accusò un milite islamico traditore, che avrebbe trovato rifugio proprio nella città di Siracusa. Negli anni successivi, gli attacchi continuarono sempre piú numerosi e, nell’estate dell’877, iniziò l’assedio della città. In principio, i musulmani occuparono i sobborghi, chiudendo i suoi accessi sia da terra che dal mare; poi, cominciò l’attività piú propriamente bellica, con l’utilizzo di balliste e mangani di un tipo nuovo, che permetteva di battere direttamente in breccia evitando i colpi a parabola, assai meno

efficaci. Per un caso fortunato, sull’assedio di Siracusa possediamo una testimonianza diretta: la lettera di un monaco greco, Teodosio, indirizzata, alcuni anni dopo i fatti narrati, a un arcidiacono di nome Leone. Il ricordo delle macchine da guerra, del duro assedio e delle sofferenze subite è mescolato a richiami alla storia sacra, nei quali queste ultime sono paragonate a quelle patite da Mosè e dal popolo di Israele (vedi box a p. 66). Nel maggio dell’878, i musulmani entrarono infine nella città dalla parte del porto grande, dopo averne demolito e incendiato le fortificazioni. Gli assediati lottarono fino all’ultimo e proprio questa circostanza li condannò al massacro. Chi scampò alla carneficina venne fatto prigioniero, come accadde appunto a Teodosio, che descrive la sua città espugnata come un labirinto di rovine senza piú anima viva.

La sezione della Tabula Peutingeriana che comprende l’Italia centro-meridionale. XII-XIII sec. Vienna, Hofbibliothek. Sulla destra, in basso, è disegnata la Sicilia, in una curiosa prospettiva «ribaltata», rispetto alle odierne carte geografiche. Nella seconda metà del IX sec. si intensificò l’offensiva islamica ai danni dell’isola, che poté dirsi conquistata nell’878, dopo la presa di Siracusa.


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La conquista della Sicilia

Con la caduta di Siracusa, la conquista islamica dell’isola era ormai quasi completa. Ai Bizantini non restava che la parte nord-orientale, da Demenna a Rometta e Taormina: una zona impervia, fatta di gole e montagne, che avrebbe ancora resistito per quasi ottanta anni.

L’insediamento del Garigliano

Tra il IX e l’XI secolo, accanto all’occupazione islamica della Sicilia, si registrano sul continente italiano varie forme di insediamento, soprattutto a carattere militare. Rispetto ad altri stanziamenti sulla terraferma (per esempio, i già menzionati siti di Taranto, Bari e Benevento), quello presso il fiume Garigliano è relativamente tardo, ma anche uno dei piú importanti e duraturi. Sebbene nelle fonti arabe non vi sia quasi alcun riferimento alla sua storia, essa è abbastanza ben documentata dalle fonti latine. Poco, invece, sappiamo dei musulmani, dei loro rapporti con la popolazione locale e dei loro legami con il mondo islamico. La letteratura secondaria li definisce spesso come «pirati», «bande di Saraceni», «avventurieri», «saccheggiatori avidi di preda». Da quando Michele Amari ha pubblicato la sua monumentale Storia dei Musulmani di Sicilia (1854–1872) si è diffusa l’opinione che – a differenza della Sicilia, dove nel IX secolo nacque un durevole emirato – i musulmani siciliani «fondarono in terraferma (...) pícciole colonie independenti». Fu, quindi, anche lo stanziamento vicino al Garigliano uno di quei campi trincerati senza stretti legami con il resto del mondo islamico? Rileggendo le fonti latine, ma anche quelle bizantine e arabe, e con uno sguardo volto oltre i confini regionali, si può rilevare un’immagine ben diversa da quella finora nota. Tutto il Mezzogiorno della Penisola costituisce infatti una larga e mobile zona di confine tra il mondo islamico e non-islamico, una terra da conquistare e in parte, benché solo per breve tempo, conquistata, nella quale cristiani e musulmani non furono semplicemente nemici, ma spesso si trovarono a collaborare. Sicilia e Italia meridionale sono insomma terre di thagr, termine arabo che reca in sé l’idea di separazione, di luogo di passaggio e, in generale, di apertura: dal punto di vista geografico e politico, esso designa confini di natura precisa, cioè quelle zone della dar al-Islam in contatto con la dar al-harb, cioè con territori designati giuridicamente come zone ostili, oggetto di attacchi musulmani. In questa visione si inserisce anche l’insediamento al Garigliano. Per tutto il periodo che va dall’883 fino alla cosiddetta 66

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UNA CITTÀ RIDOTTA ALLA FAME Teodosio siracusano, un monaco presente agli avvenimenti che portarono gli Arabi a impadronirsi della città di Siracusa, narra in un’epistola famosa alcuni particolari terribili e sconvolgenti dell’assedio dell’878: «Il pollame domestico era consumato; conveniva mangiare come si poteva di grasso o di magro; finiti i ceci, gli ortaggi, l’olio; la pesca era cessata dal giorno in cui il nemico si era impadronito dei porti. Ormai, un moggio di grano, se avveniva di trovarlo, si comperava centocinquanta bizanti d’oro; uno di farina, duecento; due once di pane, un bizante; una testa di cavallo o d’asino, da quindici a venti. Una giumenta intera trecento. I poveri, poiché mancavano loro i salumi e le erbe solite a mangiarsi, andavano raccogliendo quelle amare e immangiabili su per le muraglie; masticavano le pelli fresche; raccoglievano le ossa spolpate, e pestate e, ammorbidite con un po’ d’acqua, le trangugiavano; rosicchiavano il cuoio. Infine, superato dalla rabbiosa fame ogni ribrezzo, ogni sentimento di religione e di natura, dettero di piglio ai bambini: mangiavano i cadaveri dei morti in battaglia, solo nutrimento di cui non vi fosse penuria. Da ciò nacque una terribile e crudele epidemia per cui alcuni morivano improvvisamente in preda a orribili convulsioni; altri si gonfiavano come otri; altri avevano tutto il corpo ricoperto di piaghe; altri restavano paralizzati».


L’assedio di Siracusa raffigurato in una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

«Battaglia del Garigliano» del 915, vi è stata infatti una stretta collaborazione con Gaeta. Fu soprattutto questo legame a permettere alle truppe musulmane di avere una permanenza relativamente stabile, nonostante i vari tentativi di riconquista. E fu lo stesso legame che permise alla piccola Gaeta, dipendente dal commercio marittimo, di rafforzarsi politicamente e di difendersi contro gli attacchi provenienti soprattutto da Capua o Napoli.

Da Napoli ad Agropoli

In quel tempo, anche Napoli basava il suo potere in gran parte sull’efficacia dei federati musulmani. Essi provenivano da Agropoli, da dove, all’inizio degli anni Ottanta del IX secolo, si era separato un gruppo che poi trovò sede stabile al Garigliano. Si trattava di musulmani provenienti dalla Sicilia, che si erano stanziati in Calabria e Puglia durante i primi attacchi sulla terraferma. Da quei luoghi vennero nella zona

di Napoli, e per un certo periodo furono ospitati dentro le mura della città e nel porto. Piú tardi si stabilirono fuori città ai piedi del monte Vesuvio, per poi ritirarsi ad Agropoli. I musulmani del Garigliano avevano certamente rapporti con l’emirato aghlabita in Sicilia e Nord Africa. Per esempio, sappiamo da Erchemperto che essi rafforzarono le truppe aghlabite, quando i Bizantini, verso la fine del IX secolo, erano di nuovo all’offensiva in Calabria. Ciò induce a pensare che l’insediamento al Garigliano non fosse completamente indipendente e che le truppe stanziate al confine tra Gaeta e Capua fossero tutt’altro che bande di pirati che agivano a livello privato. Come che sia, esso fu distrutto nel 915 da una «grande coalizione» cristiana, che sfidò e vinse i musulmani in una battaglia che avrebbe avuto due fasi: dopo uno scontro campale, le truppe musulmane si sarebbero ritirate nella loro roccaforte. A questo punto, il patricius bizantino Nicola

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Isole Eolie

M R TI MAR MA TTIRRENO I RR RRREN ENO EN O Messina

Palermo

(831-1072) (8 831 31-1072) 3 1072)

Trapani

Rometta

Marsala

ON

(842-1061)

E

(841?-1077)

VAL M AZ AR A

A destra cartina della Sicilia del IX-XI sec., con le direttrici della conquista araba, le principali città e gli anni in cui queste rimasero assoggettate. In basso Sambuca di Sicilia (Agrigento), borgo fondato dagli Arabi intorno all’830.

La conquista della Sicilia

M V A L DE Iato IIat to o

Entella Entel Ent Entel t lllla l

Cerami Ceram mi

Troina Tro oina

Taormina

(902-1079)

Castrogiovanni C Ca Castrog giovanni (859-108?) (859-1 108?)

Mazara

Catania Cata

(???-1071) (???-1

(827-1077)

MAR MA M A R IONIO IIO O NI NIO O Girgenti

MEDITERRANEO M A R ME MAR MA M EDI D TEE RR DI R R AN A N EO O

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Ca

nal ed i Sic ilia

Mineo

(828-1087) Butera

I LD VA

(828-1086)

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TO

Noto

(864-1091)

Siracusa

(878-1086)


Picingli avrebbe fatto costruire un castrum. Ha dunque inizio l’assedio, che sappiamo essere durato tre mesi e che si risolse con la vittoria dell’esercito cristiano. Tuttavia, le fonti latine hanno tramandato della conclusione della vicenda due racconti leggermente diversi: per alcuni autori, si trattò di un successo totale e inequivoco, e il trionfo dei cristiani è suggellato dall’apparizione dei principi degli Apostoli; altri, al contrario, danno spazio a una versione dei fatti meno univoca e piú ambigua, in cui emerge il ruolo fondamentale del duca di Napoli, Gregorio, e dell’ipata di Gaeta, Giovanni, che devono aver intavolato una trattativa con i musulmani, inducendoli ad abbandonare volontariamente l’insediamento. Quest’ultimo viene incendiato dagli stessi occupanti, evidentemente con l’implicita garanzia di aver salva la vita. Da questo punto di vista, l’insistenza sulla strage compiuta dai cristiani e sui pochissimi musulmani superstiti (destinati peraltro a scomparire nei racconti delle fonti piú tarde) sembra avere lo scopo di sminuire la portata della trattativa e di nascondere al lettore un fatto fondamentale, cioè che la battaglia del Garigliano (in realtà, soprattutto un assedio) fu vinta dall’esercito alleato solo grazie a un accordo con il nemico musulmano. D’altra parte, va ricordato che, solo qualche anno prima, l’esercito cristiano, giunto nella zona con lo scopo di farla finita con i musulmani del Garigliano, era stato messo in fuga da truppe congiunte di «Saraceni cum Caietanis».

Missione segreta a Tunisi

All’inizio dell’anno 902, l’emiro aghlabita Ibrahim II ricevette presso Tunisi un inviato del califfo abbaside al-Mu‘tadid. Gli storici arabi che riferiscono di questa ambasciata sono concordi nell’affermare che il messaggero non era latore di alcuno scritto: si trattava dunque di una missione segreta il cui scopo sarebbe stato quello di richiamare Ibrahim a Baghdad e di designare al suo posto come emiro dell’Ifriqiya suo figlio, o avrebbe avuto come fine la destituzione dell’emiro. Ma queste non sono altro che deduzioni, alla cui base v’è da un lato un atteggiamento ostile nei confronti di Ibrahim, dall’altro la volontà di offrire del califfato abbaside – che attraversava una gravissima crisi politica – un’immagine dinamica e prestigiosa. D’altro canto, sempre ammesso che lo volesse, al-Mu‘tadid non avrebbe certo avuto la forza di imporre alcunché all’emiro aghlabita. Sembra (segue a p. 76)

UNA PRESENZA SFUGGENTE Come ha scritto Alessandro Vanoli, autore di una bella sintesi sui musulmani in Sicilia (La Sicilia musulmana, Il Mulino, Bologna 2012), ben poco si può dire sull’organizzazione dell’isola sotto gli Aghlabiti. All’inizio, ai tempi dell’invasione, le cronache narrano dell’arrivo in terra siciliana di Arabi e Berberi, ma nulla dicono sull’entità di tali gruppi. Vari indizi fanno pensare alla partecipazione di compagini diverse: uomini dell’armata aghlabita, ma anche avventurieri provenienti da al-Andalus e dal Nord Africa. Si potrebbe ipotizzare che, visti i suoi legami e la sua vicinanza geografica con l’Ifriqiya, la Sicilia sia stata subito oggetto di massicci insediamenti di popolazione berbera, ma, in realtà, le fonti non lo lasciano intravedere e anche le tracce linguistiche sono relativamente scarse. L’analisi sociale sulla popolazione islamica dell’isola in epoca aghlabita va comunque elaborata su scala microregionale, distinguendo, per esempio, tra ciò che accade nella parte occidentale e quanto si verifica in quella orientale, e tenendo conto delle notevoli differenze di popolamento che dovevano intercorrere fra aree urbane e spazi rurali. Per quanto riguarda invece le indagini archeologiche, negli ultimi anni si sono registrati notevoli progressi: grazie ai lavori di Lucia Arcifa, Fabiola Ardizzone, Alessandra Bagnera e Alessandra Molinari e delle loro équipe, sono state infatti acquisite nuove importanti conoscenze sulle ceramiche siciliane di questo periodo e, piú in generale, si sono poste le basi metodologiche per ulteriori auspicabili studi sull’argomento.

In alto kharruba in argento coniata in Sicilia all’epoca della dominazione aghlabita. Londra, British Museum. In basso fronte d’altare in marmo raffigurante l’Albero della Vita e realizzata per una chiesa della Kerkent arabo-musulmana (Agrigento). 875–900. Londra, British Museum.

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L’assedio di Messina raffigurato in una miniatura dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

Sulle due pagine al-Qayrawan (Kairouan, Tunisia). La Grande Moschea (o moschea di Sidi ‘Uqba), costruita a partire dal 670. In basso, a destra il portico della Grande Moschea di al-Qayrawan.

IL «PENTIMENTO» DI IBRAHIM Il programma politico-religioso di Ibrahim II è mirabilmente sintetizzato in un passo dello storico Ibn ‘Idari, che vale la pena di riportare integralmente: «Nel anno dell’ègira 289 (902 d.C.) il signore dell’Ifriqiya Ibrahim ibn Ahmad, ostentò conversione e pentimento. Con il suo gesto, egli voleva dare soddisfazione al popolo e attirarsi la simpatia dei ceti superiori. Cosí, restituí le imposte non canoniche, abolí l’appalto della riscossione delle tasse, percepí la decima in granaglie e consentí ai proprietari terrieri di rinviare di un anno il pagamento dell’imposta e chiamò questo anno “l’anno della giustizia”. Ugualmente, affrancò i suoi schiavi e consegnò ai giurisperiti e ai notabili di Qayrawan importanti somme di denaro da distribuire ai deboli e ai poveri (…). Infine, giunse Abu ’l-‘Abbas, il figlio dell’emiro, inviato dalla Sicilia, e suo padre gli affidò il potere. A questi provvedimenti di notevolissimo impatto, l’emiro fece seguire la sua partenza per lo hagg, il pellegrinaggio alla Mecca, uno dei pilastri dell’Islam a cui è tenuto ogni musulmano che ne abbia le possibilità».

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Garigliano, alla ricerca del monte perduto Strettamente connessa alle ricerche sulla storia e sul significato dell’insediamento musulmano presso il Garigliano è la questione della sua localizzazione. Sin dal XVII secolo, fra gli studiosi e gli esperti di storia locale si era diffusa la credenza che la fortezza musulmana fosse situata tra le rovine dell’antica Minturno e la piccola collina che domina la foce del Garigliano, ora nota come Monte d’Argento. Su queste fragili basi, il Museo Nazionale di Arte Orientale ha condotto, tra il 1985 e il 1998, varie campagne di scavo sul Monte d’Argento dirette da Paola Torre. Le indagini hanno definitivamente smentito la teoria di una presenza islamica nell’area in oggetto, rilevando la completa assenza di elementi archeologici islamici nel sito sottoposto a indagine. A partire dal 2010 un’équipe dell’Istituto Storico Germanico di Roma, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica del Lazio, ha ripreso in mano la documentazione medievale sulla storia e la topografia dell’insediamento musulmano presso il Garigliano, giungendo a conclusioni totalmente nuove. In primo luogo, va sottolineato come nelle fonti medievali relative a tale installazione, alla parola Garilianus non sia mai associato il termine flumen. In effetti, Garilianus vi appare come toponimo indipendente dal fiume e sembra indicare piuttosto un centro abitato. Inoltre, se da un lato l’esistenza di un borgo con questo nome è attestata da vari documenti, dall’altro il toponimo Garelianus risulta

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strettamente legato all’area di Suio – attuale frazione di Castelforte (Latina) – posta sulle estreme propaggini dei Monti Aurunci, presso il fiume Garigliano: tale legame non sorprende, poiché, almeno a partire dall’XI secolo i conti di Suio erano denominati anche comites Gareliani, o comites Castri Gareliani (o Castrigariliani), cioè del castello di Suio. È questa la zona su cui è dunque necessario concentrare l’attenzione. Tornando alle fonti, una delle piú importanti è l’Antapodosis di Liutprando da Cremona (morto nel 972), che contiene una serie di notizie fondamentali sull’insediamento islamico. In particolare, il cronista parla esplicitamente di una munitio costruita sul mons Garelianus (del tutto diverso dal Garelianus flumen, pure menzionato dall’autore), nella quale gli occupanti avrebbero custodito donne, bambini, prigionieri e suppellettili d’ogni tipo (uxores, parvulos, captivos omnemque suppellectilem). Anche nella Chronica Monasterii Casinensis, il toponimo Garilianus riferito all’insediamento musulmano appare chiaramente svincolato dal fiume. Inoltre, la concisa ma rilevante descrizione dello scontro fra cristiani e musulmani, avvenuto presso Traetto nel 903, contiene un ulteriore dato topografico: in effetti, secondo la Chronica, le forze cristiane, per attaccare i Saraceni, costruirono un ponte di barche in una zona detta Set(e)ra, alla destra delle anse del fiume, in prossimità delle odierne contrade di Parchetto e Fustara, nel comune di Santi Cosma e Damiano. Una simile scelta

In absso veduta di un tratto del fiume Garigliano e della sua valle dall’altura di Monte Castelluccio, nel territorio di Castelforte (Latina).


A destra mappa degli insediamenti musulmani nella terraferma italiana. In basso foto satellitare dell’area di Monte Castelluccio (Castelforte, Latina). Sono indicate le piú importanti presenze individuate nel corso delle ricognizioni di superficie condotte dalll’Istituto Storico Germanico di Roma, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica del Lazio.

Ostia

Farfa Roma

Monte S. Angelo

S. Vincenzo Al Volturno Montecassino Gaeta

Capo Miseno

Lucera (1225-1300) Boiano Sepino Capua Napoli

Bari (847-871)

Benevento Gravina Matera

Salerno Agropoli (882...)

Punta Licosa

Brindisi Oria

Taranto

Cassano

Amantea

Cosenza Crotone

A sinistra, nel riquadro opere murarie di epoca medievale individuate nei pressi di Monte Castelluccio.

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La conquista della Sicilia

LA BATTAGLIA DEL GARIGLIANO Il passo che segue, tratto dall’opera storica del longobardo Liutprando (Antapodosis, I, 2, 3, II, 43-44, 52-54), narra con vivezza e ricchezza di particolari il celebre episodio della battaglia del Garigliano (915): «Nel medesimo tempo i Saraceni, salpati con le loro navi dall’Africa, occuparono la Calabria, l’Apulia, il Beneventano e anche quasi tutte le città dei Romani, di modo che ogni città, metà la tenevano i Romani, metà gli Africani. Avevano inoltre stabilito una fortificazione sul monte Garigliano, in cui conservavano ben al sicuro le donne, i bambini, i prigionieri e tutte le loro robe. Nessuno da occidente o da settentrione poteva passare per andare a Roma a pregare sulle tombe dei beatissimi apostoli, senza che fosse preso da questi o lasciato libero col pagamento di un forte riscatto. Sebbene infatti l’infelice Italia fosse oppressa da molte stragi degli Ungari e dei Saraceni di Frassineto, tuttavia da nessuna furia o peste era tormentata come dagli Africani. Udite queste cose, il papa si affretta a inviare ambasciatori a Costantinopoli, chiedendo supplichevolmente che gli si desse l’aiuto dell’imperatore. Questi poi, come uomo santissimo e timorato di Dio, inviò senza indugio truppe trasportate con la flotta. E mentre risalivano il fiume Garigliano, fu presente anche il papa Giovanni con Landolfo principe potentissimo di Benevento, e anche con gli abitanti di Cammino e gli Spoletini. Scoppia una battaglia orrenda fra loro. Ma quando i Saraceni videro che la parte dei cristiani prevaleva, si rifugiano sulla sommità del Monte Garigliano e tentano di difendere soltanto le anguste vie d’accesso. Da quella parte dove era piú difficile la salita e piú adatta a fuggire per i Saraceni, i Greci nello stesso giorno piantano un accampamento, stando nel quale osservavano che i Saraceni non fuggissero e assalendoli ogni giorno, ne uccidevano in gran numero. Lottando quotidianamente i Greci e i Latini, per la misericordia di Dio, neppure uno dei Saraceni rimase che non fosse trucidato di spada o catturato ancor vivo. Furono visti dai fedeli religiosi nella medesima battaglia i santissimi apostoli Pietro e Paolo, per le preghiere dei quali crediamo che i cristiani meritarono la fuga dei Saraceni e di ottenere la vittoria».

Palermo, Palazzo dei Normanni, Cappella Palatina. L’abbraccio fra gli apostoli Pietro e Paolo in uno dei magnifici mosaici che ornano il monumento. 1131-1143.

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Qui sotto, a destra la zona situata a nord del porto fluviale di Suio, oggi frazione di Castelforte (Latina). sarebbe stata logisticamente del tutto incomprensibile nel caso in cui l’insediamento musulmano fosse installato sulla collina di Traetto (dove sorge l’odierna Minturno) o nella piana antistante la foce del Garigliano. Essa diviene invece perfettamente plausibile qualora si ipotizzi che i «Saraceni» fossero arroccati nell’area di Suio. Emergono dunque con chiarezza alcuni dati incontrovertibili. In primo luogo, vanno accantonate le teorie che collocano l’insediamento islamico sul Monte d’Argento o nella pianura presso la foce del fiume. È poi ugualmente da respingere la bizzarra ipotesi di storici locali secondo la quale «il colle sulla cui sommità si arroccarono gli Arabi» sarebbe «lo stesso ove oggi è Minturno». Quando i musulmani si stabiliscono nell’area, tale colle, almeno a partire dall’839, ospita già il cosiddetto Castrum Leopoli e ciò lo rende del tutto incompatibile con la sede del castrum islamico del mons Garelianus. Infine, indizi topografici e toponomastici inducono a prendere in considerazione come plausibile luogo dell’insediamento musulmano l’area circostante gli odierni centri di Suio e Castelforte. A quanto fin qui esposto, vanno aggiunti due elementi di sicuro interesse: nell’area di Suio si trovava infatti un importantissimo terminale commerciale, un porto fluviale, che fungeva da centro di smistamento delle merci provenienti dal Tirreno e dirette verso Montecassino. Tale via d’acqua conobbe particolare fortuna a partire dall’epoca dell’abate Desiderio, ma era certamente già attiva anche nel periodo

precedente. A questo punto, la rilevanza strategica di un eventuale insediamento di altura nell’area di Suio-Castelforte appare molto piú chiara: esso, infatti, avrebbe tra l’altro posto sotto il proprio controllo il porto di Suio e tutte le attività commerciali del Garigliano. Inoltre, in vari documenti riferibili all’arco cronologico che va dal X al XIV secolo, è menzionata una «Via Sarracenisca»: il fatto che fosse cosí definito un simile asse viario – che metteva in comunicazione la zona di Castelforte-Suio da un lato e con la foce del Garigliano, dall’altro con il centro di Traetto – costituisce un ulteriore indizio della presenza di un importante insediamento musulmano nell’area in oggetto.

A destra il castello di Suio (Castelforte, Latina).

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ARABI IN ITALIA In basso solido aureo dell’imperatore bizantino Leone VI. IX sec. Atene, Museo Benaki.

La conquista della Sicilia

invece assai piú probabile ipotizzare che la trattativa segreta fra Ibrahim e l’emissario del califfo avesse come oggetto l’individuazione di una strategia comune finalizzata a porre un freno all’espansione del califfato sciita dei Fatimidi. Nei mesi immediatamente successivi all’incontro di Tunisi, venne infatti messo in atto un ambizioso programma politico e propagandistico incentrato sul concetto di tawba («pentimento, conversione»).

Marciare su Roma e Costantinopoli

Dopo aver consegnato l’Ifriqiya nelle mani del figlio, il 5 marzo Ibrahim lasciò Tunisi alla volta di Mecca; giunto a Sus, i suoi piani però cambiarono: secondo alcuni storici, egli avrebbe deciso di rinunciare al pellegrinaggio a Mecca per evitare spargimenti di sangue fra musulmani, indicendo invece il jihad; secondo altri, Ibrahim si sarebbe invece limitato a cambiare il suo itinerario, scegliendo la via marittima – che passava per la Sicilia – in modo da associare al pellegrinaggio la guerra santa. La spedizione militare di Ibrahim avrebbe avuto inizialmente lo scopo di conquistare le piazzeforti (husun) siciliane che ancora resistevano ai musulmani, ma il suo fine ultimo sarebbe stato assai piú ambizioso: quello cioè di impadronirsi di Costantinopoli. Gli storici contemporanei non sembrano dare particolare credito a questa notizia, riportata solo nella cronaca di Ibn al-Athir. Tuttavia sono costretti ad ammettere che essa ha un importante riflesso nelle fonti latine, come per esempio un passo degli Acta translationis sancti Severini del cronista napoletano Giovanni Diacono (vissuto tra il IX e il X secolo): in essi l’autore ricorda i provvedimenti presi dalle città dell’Italia meridionale in previsione dell’attacco di Ibrahim e fa parlare in prima persona lo stesso emiro, che afferma di volersi impadronire, nell’ordine, di Roma e di Costantinopoli. La volontà di conquistare Costantinopoli è esplicitamente attribuita a Ibrahim anche dal bios di sant’Elia il Giovane. Dalle fonti storiche bizantine si evince, inoltre, che la situazione dell’Italia meridionale, dopo la caduta di Taormina, doveva preoccupare non poco l’imperatore Leone VI, spingendolo a stanziare una notevole somma di denaro per sostenere l’esercito bizantino stabilito in Calabria, che si voleva far intervenire in Sicilia. Ibrahim passò lo Stretto di 76

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Messina il 3 settembre del 902, e il 1° ottobre diede l’ordine di attaccare Cosenza, uno dei piú importanti centri urbani della Calabria. Qui però, come riferiscono concordemente le fonti, egli fu colpito da un acutissimo attacco di dissenteria, che in breve tempo lo condusse alla morte, il 23 ottobre 902.

La «politica estera aghlabita»

La fine ingloriosa dell’emiro e la di poco successiva caduta degli Aghlabiti hanno condotto le fonti medievali – e gli storici contemporanei – a svalutare largamente la portata dei disegni di espansione militare di Ibrahim. In particolare, è passato quasi del tutto sotto silenzio un dato fondamentale: le sue mire espansionistiche in


al-ard al-kabira (la «Terra grande») non furono il frutto di un’infatuazione estemporanea, ma costituirono una vera e propria costante della politica aghlabita, almeno dalla caduta dell’emirato di Bari (871), alla quale, come si è visto, seguí la creazione di un wali ’l-ard al-kabira, destinato a sovraintendere agli interessi politico-militari della dinastia in Italia meridionale. Lo stesso Ibrahim – che nella prima parte del suo regno dedicò la maggior parte degli sforzi bellici a porre le basi della conquista di Siracusa e a rafforzare il proprio potere in Sicilia – tentò in ogni modo di resistere e di replicare all’offensiva bizantina di Niceforo Foca in Italia meridionale. Secondo quanto riferisce lo storico longobardo

Erchemperto, un musulmano di stirpe regia, cioè appartenente alla famiglia degli Aghlabiti, si sarebbe addirittura recato ad Agropoli e al mons Garelianus per ottenere l’appoggio delle truppe musulmane colà stanziate a una campagna militare da condurre contro i Bizantini in Calabria. Come prova il fatto che Erchemperto, nello stesso passo, menziona la conquista bizantina di Amantea e Santa Severina, l’episodio in questione deve essere avvenuto in concomitanza con l’inizio dell’offensiva di Bisanzio in Puglia e Calabria voluta da Basilio I e magistralmente condotta da Niceforo. Una volta consolidato il potere aghlabita in Sicilia, Ibrahim guarda dunque all’ard al-kabira come alla tappa successiva dell’espansione

Istanbul, S. Sofia. Particolare di uno dei mosaici raffigurante l’imperatore Leone VI il Saggio (o il Filosofo) che si prostra ai piedi del Cristo Pantocratore. IX sec.

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La conquista della Sicilia

Piccole case nel cuore dell’impero Disegno ricostruttivo del Foro di Cesare, a Roma, cosí come si presentava intorno al X sec. e come doveva apparire anche all’epoca in cui l’Urbe era divenuta uno degli obiettivi dell’espansione musulmana: la struttura del Foro stesso è ancora leggibile, dominata,

dalla Curia, trasformata nella chiesa di S. Adriano. La piazza è occupata da piccole case, perlopiú costituite da un solo ambiente. Nella pagina accanto la sezione della Tabula Peutingeriana che mostra il Mediterraneo orientale e il Mar Nero. XIII-XIV sec.


della comunità islamica guidata dall’emiro di Qayrawan. Vien fatto dunque di chiedersi come si collochi in tale quadro l’ultima sua grande campagna militare, che, come si è visto, le fonti designano esplicitamente con il nome di jihad. In primo luogo, occorre ribadire che, se sul piano propagandistico tale campagna viene presentata dallo stesso Ibrahim come estremamente innovativa, e come il frutto di una vera e propria «svolta etica», nella realtà dei fatti essa è al contrario perfettamente inserita nelle linee guida trentennali della politica aghlabita, sia nei confronti della Sicilia, sia dell’ard al-kabira. L’unica differenza sostanziale rispetto al passato consiste dunque nel fatto che la spedizione militare del 902 è guidata dall’emiro in persona. In effetti, si tratta di una differenza di non poco conto, giacché non era mai accaduto prima che l’emiro di Ifriqiya guidasse personalmente le sue truppe in operazioni belliche contro gli infedeli. È dunque comprensibile che le fonti insistano sul carattere straordinario dell’evento: un emiro alla guida dell’esercito riportava alla memoria l’epoca, peraltro vicina nel tempo, delle grandi conquiste islamiche, quando i soldati musulmani erano capitanati dai grandi emiri qurayshiti (come i celeberrimi Khalid ibn al-Walid o ‘Amr ibn al-As), che, da generali, si trasformavano spesso in amministratori delle regioni da loro conquistate. Al contrario, già dall’epoca omayyade, la figura dell’emiro tende sempre di

piú a esercitare la sua guida militare in maniera indiretta, demandando la conduzione delle campagne ai cosiddetti quwwad (plurale di qa’id), comandanti in capo a lui sottoposti. D’altra parte, già la tradizione islamica piú antica rilevava come lo stesso Profeta non avesse sempre preso parte attiva alle azioni militari della sua comunità. Come mostra inequivocabilmente l’exemplum di Muhammad, chi detiene la leadership della comunità islamica (umma) non può sempre prendere parte alle spedizioni «sulla via di Dio». Essendo infatti chiamato ad affrontare e a risolvere i problemi politici, economici e sociali con cui la umma deve confrontarsi, egli deve rinunciare alla guerra e all’eventuale martirio in nome degli interessi superiori della umma stessa.

I doveri del capo

Dal punto di vista della tradizione islamica, la mancata partecipazione diretta del capo della comunità non toglie nulla allo status di jihad di una spedizione militare da lui decretata. Il vero problema è semmai quello di stabilire i criteri indispensabili a qualificare il «capo della comunità» con le prerogative connesse, tra cui, in prima istanza, appunto quella di promuovere ed eventualmente guidare il jihad. Una chiara risposta a questa domanda è fornita dal diritto islamico. Esso, infatti, non solo prevedeva che la forma di emirato detta imarat al-istikfa’ («emirato di concessione») avesse tra le sue prerogative ARABI

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La conquista della Sicilia

CHE COS’È, VERAMENTE, IL JIHAD Per ciò che concerne piú propriamente il concetto di jihad, esso è indissolubilmente legato a quello di umma, l’insieme dei credenti nel messaggio profetico. Va tuttavia rilevato che, sino alla fine dell’VIII secolo, fra gli intellettuali dei maggiori centri del mondo musulmano si registra un notevole disaccordo riguardo l’idea di jihad: se tale dissonanza concerne fondamentalmente il problema della natura del dovere di portarlo avanti (è un dovere che spetta a tutti? Spetta a ciascun individuo?), essa, tuttavia, coinvolge anche la questione della sua essenza (guerra offensiva o solo difensiva?). Al contrario, dall’inizio del IX secolo, il jihad può essere senz’altro definito come la forma assunta dalla guerra di conquista agli occhi della comunità musulmana: un’azione bellica diretta contro gli «infedeli» (e non contro altri musulmani), sentita e/o presentata dai

suoi promotori e partecipanti come un combattimento «sulla via di Dio», finalizzato a estirpare l’empietà dal mondo e favorire l’espansione della comunità dei credenti, dai cui rappresentanti – che si tratti del califfo di Baghdad o del comandante di un reparto militare in una remota provincia di frontiera, piú o meno autorizzato dall’autorità centrale – esso è portato avanti. Un contributo decisivo a questa evoluzione dell’idea di jihad è stato dato dai cosiddetti «studiosi guerrieri», esperti di religione che si impegnarono in prima persona nella guerra contro gli «infedeli» nelle zone di frontiera del mondo islamico fra il VII e l’VIII secolo e la cui attività militare, unita alla speculazione giuridico-religiosa, costituí un vero e proprio atto fondante del jihad. A questo processo di fondazione dettero un contributo

Costantinopoli in un olio su tela del pittore tedesco Edmund Berninger (1843-dopo il 1909). Collezione privata.

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essenziale anche le due province occidentali di al-Andalus e Ifriqiya. Ciò non significa che, prima del IX secolo, il jihad non fosse un elemento centrale della prassi politica islamica (le prime conquiste islamiche sono per esempio assolutamente inseparabili dal tema del jihad), ma è solo da questo momento in poi che esso viene storicizzato e inserito in un quadro concettuale preciso e congruente. Punto di partenza di una simile analisi furono da un lato le imprese militari del Profeta Maometto, considerate come veri e propri esempi prototipici di pratiche del jihad da tutta la tradizione storica e giuridica islamica (sebbene mai definite come tali nelle fonti piú antiche), dall’altro le grandi campagne del VII-VIII secolo, modello ineludibile di ogni futura guerra di conquista della comunità musulmana.

quelle di comandare le truppe, difendere la religione e portare avanti il jihad senza consultare in merito il califfo, ma riconosceva esplicitamente alle autorità locali delle province eccentriche dell’impero il diritto di intraprendere una campagna militare senza l’autorizzazione pre-

ventiva del leader della umma, nel caso di un attacco inopinato o qualora ci si fosse trovati di fronte a una minaccia grave e improvvisa. Tutto si giocava, ovviamente, su una lettura estensiva o limitativa di tale norma e, non di rado, l’autorità centrale era messa nelle condizioni di sanzionare ex post una situazione ambigua scaturita da una conquista inaspettata portata a termine da un generale senza il consenso del califfo. Conseguenza fondamentale di un simile, ambiguo stato di cose è l’inefficacia dei tentativi antichi e moderni di distinguere, nell’ambito di azioni militari condotte contro gli «infedeli», tra «guerra giusta», «scorreria», «guerra ingiusta» e jihad, giacché tali distinzioni, oltre a basarsi su criteri di tipo soggettivo e arbitrario, sono sempre costruite a posteriori sulla base dell’esito finale, piú o meno positivo, delle operazioni belliche considerate e del giudizio politico sui protagonisti di tale operazioni. D’altra parte, va tenuto presente che la giurisprudenza musulmana, per quanto concerne le dottrine politiche, non è altro che un tentativo di razionalizzazione, interpretazione e giustificazione ex post della storia della umma, giacché, nella visione islamica, ogni potere – in quanto stabilito secondo una logica di rapporti di forza – è potenzialmente contestabile.

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E venne il tempo dei discendenti di Fatima


All’inizio del X secolo, l’Ifriqiya cadde sotto il dominio di un nuovo califfato sciita, quello degli ismailiti fatimidi. Dichiaratasi erede diretta della figlia di Maometto, la loro dinastia inaugurò un’epoca di grande fioritura, che presto coinvolse anche la Sicilia Veduta del Cairo da est, disegno di David Roberts tratto dal volume Egypt and Nubia. Londra, 1846-1849.


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I Fatimidi

a dottrina islamica sciita, in diretta opposizione al sunnismo, ritiene che esista un’autorità umana suprema, per quanto stabilita da Dio, responsabile di tutte le questioni religiose. Durante la sua vita, fu il Profeta a svolgere questo compito: le sue decisioni su qualsiasi argomento coincidevano sotto tutti gli aspetti con quelle di Dio stesso. Dopo la morte di Maometto, essendo venuta a mancare l’ultima interpretazione del messaggio divino, si avvertí la necessità di un altro metodo: in ogni epoca deve esistere un individuo profeticamente ispirato che, in quanto erede del Profeta medesimo, ne rivivifichi i princípi del governo in tutte le occasioni in cui la sua autorità era stata una volta suprema. Il piú compiuto tentativo di dare una concreta strutturazione politica a questa costruzione dottrinale fu messo in atto dalla fazione degli sciiti noti come ismailiti. Ai loro devoti, gli

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ismailiti offrivano il rispetto per il Corano; agli intellettuali proposero una spiegazione filosofica dell’universo ricavata dal pensiero neoplatonico; ai mistici offrivano una fede forte e personale, sostenuta dall’esempio, dalle sofferenze degli imam e dai sacrifici dei fedeli; agli scontenti, infine offrivano la seduzione di un vasto movimento di opposizione, che sembrava garantire la possibilità di rovesciare l’ordine esistente e di costruire al suo posto una società nuova e giusta.

Missionari ismailiti

Per piú di un secolo, gli imam della nuova setta restarono sostanzialmente nell’anonimato, pur promuovendo la loro causa in tutte le regioni dell’impero islamico grazie a un numero notevole di «missionari» (da‘i) e fomentando rivolte contro il califfato abbaside di Baghdad. È stato giustamente sostenuto che, per molti versi, l’atteggiamento dell’uomo medio musulmano

In basso placchetta intagliata in avorio, raffigurante un banchetto allietato da vino e musici. Civiltà fatimida, XI-XII sec. Berlino, Museum für Islamische Kunst.


verso l’ismailismo fu paragonabile a quello di molti borghesi attuali verso il comunismo; per un nonnulla si poteva essere accusati di «estremismo» (ghuluww) e di eresia, ma al tempo stesso la dottrina e la prassi ismailita attraevano molti intellettuali. Nell’899 la comunità andò incontro a una vera e propria scissione motivata da serie divergenze politico-religiose: in quell’anno, infatti, la nuova guida ismailita, ‘Abd Allah, reclamò l’imamato per se stesso. Il progetto di ‘Abd Allah provocò una divisione del movimento in due fazioni rivali: una rimase fedele al nuovo imam (e si identifica con quelli che piú tardi diverranno gli ismailiti fatimidi), sostenendo la dottrina della continuità dell’imamato; l’altra fazione, che era particolarmente forte in Iraq, Bahrein e Persia, si dette il nome di qarmati e tenne per piú di un secolo in scacco i califfi abbasidi, con rivolte e saccheggi che non risparmiarono nemmeno le città sante di Mecca e Medina.

I califfi fatimidi ‘Abd Allah al-Mahdi bi-’llah (909–934) Muhammad al-Qa’im bi-amr Allah (934–946) Isma‘il al-ManSur bi-naSr Allah (946–953) al-Mu‘izz li-din Allah (953–975) Abu ManSur Nizar al-‘Aziz bi-’llah (975-996) al-Hakim bi-amr Allah (996-1021) ‘ Ali al-Zahir (1021–1036) al-MustanSir bi-’llah (1036-1094) al-Musta‘li bi-’llah (1094–1101) a l-Amir bi-aHkam Allah (1101-1130) al-Hafiz li-din Allah (1130–1149) a l-Zafir bi-din Allah (1149–1154) al-Fa’iz bi-naSr Allah (1154–1160) al-‘Adid li-din Allah (1160-1171)

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Nella pagina accanto frammento di pittura murale che riproduce un commensale durante un banchetto, da Fustat (Egitto). Civiltà fatimida, X-XIII sec. Il Cairo, Museo d’Arte Islamica.

In alto piatto in ceramica decorato con figura di cacciatore a cavallo con falco. Civiltà fatimida, XI sec. Il Cairo, Museo d’Arte Islamica.

Nel 902, ‘Abd Allah, onde evitare di essere catturato da agenti abbasidi, fuggí in Palestina con la sua famiglia e una piccola scorta. L’anno successivo, i membri della setta rimasti in Siria vennero annientati dagli Abbasidi, che si misero con decisione sulle tracce dell’imam. ‘Abd Allah si rifugiò in Egitto, dove rimase fino al 905, riprendendo contatti con i membri della da‘wa (propaganda, n.d.r.) ismailita, per poi trasferirsi nella remota città di Sijilmasa (nel Marocco sud-orientale), dove risiedette fino al 909. Nel frattempo i suoi da‘i (missionari,

n.d.r.) riuscirono a convertire la maggior parte dei Berberi Kutama, che si trasformarono in un disciplinato esercito al servizio dell’imam. Tra il 903 e il 909, le truppe ismailite portarono a termine la conquista dell’Ifriqiya e nel 908 conquistarono al-Qayrawan, capitale dell’emirato aghlabita. Il luogotenente di ‘Abd Allah, Abu ‘Abd Allah al-Husayn ibn Ahmad operò come governatore facendo coniare monete

che annunciavano l’avvento della hujjat Allah, la «Prova di Dio», e promuovendo pubblici dibattiti in cui si esponevano le dottrine ismailite davanti ai principali giurisperiti dell’Ifriqiya. In tal modo vennero gettate le basi per la fondazione di un nuovo califfato sciita.

Nasce il nuovo califfato

Una volta impadronitosi dell’Ifriqiya, Abu ‘Abd Allah provocò anche la caduta dell’emirato rustamide di Tahart, in Algeria Occidentale; giunto a Sijilmasa, liberò l’imam, che era stato messo agli arresti domiciliari dall’emiro locale e assunse il controllo della città. Si concludeva cosí il «periodo di occultamento» della prima fase ismailita: nell’agosto del 909, ‘Abd Allah venne acclamato califfo nel corso di spettacolari cerimonie, e, nell’ottobre dello stesso anno, partí per l’Ifriqiya; il 4 gennaio del 910 fece il suo trionfale ingresso nella città di Raqqada, e il giorno successivo, per la prima volta, nel tradizionale discorso del venerdí (hutba), in tutte le moschee di alQayrawan venne menzionato il nome del nuovo califfo con tutti i suoi titoli: ‘Abd Allah Abu Muhammad, al-imam al-Mahdi bi-’llah, amir al-mu’minin. Nello stesso tempo, si annunciò che l’imamato era stato finalmente conferito alla famiglia del Profeta («la gente della casa»), ed ebbe inizio un processo di adeguamento della giurisprudenza vigente in Ifriqiya ai principii fondamentali del diritto sciita. Aveva inizio ufficialmente il califfato della dinastia fatimida (Fatimiyya), cosí chiamata perché al-Mahdi e i suoi successori facevano risalire la loro ascendenza a Fatima, la figlia del Profeta. I primi tre califfi fatimidi che governarono l’Ifriqiya incontrarono molteplici difficoltà nel consolidare il loro potere, scontrandosi ripetutamente con gli Abbasidi, con gli Omayyadi di al-Andalus, con i Bizantini e con varie tribú berbere che non riconoscevano la loro leadership. Nel 921 al-Mahdi si stabilí nella nuova capitale eponima di Mahdiyya, il cui sito aveva scelto personalmente e le cui strutture di epoca fatimida – in particolare la grande moschea e lo straordinario complesso portuale – sono ancora oggi ben visibili e visitabili. Sin dagli esordi i Fatimidi si caratterizzarono come una grande potenza marittima, la cui base, oltre alle coste ARABI

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Il Cairo. La moschea di al-Azhar. X sec. La capitale dell’odierno Egitto venne fondata dai Fatimidi nel 969.

dell’Ifriqiya, era costituita dalla Sicilia, che rimase sotto il loro controllo (prima diretto, poi, come vedremo, mediato dal governo della dinastia semi-indipendente dei Kalbiti) fino al 1070, quando fu conquistata dai Normanni; già nell’epoca di al-Mahdi, tuttavia, essi assunsero anche il controllo delle vie carovaniere che conducevano nell’Africa transahariana, da cui traevano oro e schiavi. Il terzo califfo fatimida, alMansur, domò definitivamente le rivolte dei Berberi e spostò la capitale del califfato ad alMansuriyya, una città reale da lui fondata a sud di al-Qayrawan, che fu sede califfale dal 948 al 973 e che costituí il modello urbanistico del Cairo, fondata, come ora vedremo, nel 969.

Da Fustat al Cairo

Le ingenti risorse ottenute dal commercio carovaniero furono impiegate in un vasto progetto di rafforzamento delle frontiere nei confronti del califfato omayyade di al-Andalus e di espansione verso est, che diede i suoi frutti sotto il quarto califfo fatimida, al-Mu‘izz li-din Allah (953-975). Il suo generale, Jawhar ibn ‘Abd Allah (che alcune fonti designano come «al-Siqilli», «il Siciliano», mentre altre come «alSaqlabi», «lo Slavo»), un liberto (mawla) di origini siciliane o slave, guidò l’esercito fatimida alla conquista dell’Egitto (969) e di parte della Siria (969-970), ambedue nelle mani di dinastie formalmente dipendenti da Baghdad (l’Egitto in quelle della debole dinastia degli Ikhshididi; la Siria del Nord in quelle della dinastia degli Hamdanidi). Jawhar governò l’Egitto come viceré fatimida fino al 973. Nel frattempo, al-Mu‘izz si occupava personalmente di riorganizzare la da‘wa, cercando anche una riconciliazione con i qarmati, e di creare una scuola giuridica (madhhab) ismailita, mettendo a frutto il lavoro prezioso di alQadi al-Nu‘man (morto nel 974), il piú eminente giurisperito fatimida. Al-Nu‘man aveva collaborato con i califfi fin dal 948 e composto un grande trattato, i Da‘a’im al-Islam (I Pilastri dell’Islam), approvato da al-Mu‘izz come codice ufficiale dello Stato fatimida, nel quale confluivano elementi giuridici sciiti, ma anche malikiti (quella sunnita malikita era la scuola giuridica fino ad allora prevalente in Ifriqiya). In tal modo, il califfato ismailita si dotava di uno strumento fondamentale per dare corpo alle proprie aspirazioni imperiali. Dopo la conquista dell’Egitto, Jawhar stabilí il suo quartier generale nei pressi dell’antico insediamento di Fustat. Secondo una tarda leggenda, che potrebbe verosimilmente derivare ARABI

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I Fatimidi

I MANOSCRITTI DELLA GENIZAH Dopo essersi stabiliti in Egitto, i Fatimidi riorganizzarono il settore agricolo e le attività produttive interne e crearono una vasta rete di commerci e scambi, assai ben documentata dai testi provenienti dal deposito (Genizah) della sinagoga Ben Ezra del Cairo, nella quale la comunità ebraica di al-Fustat (il «vecchio Cairo», che, con lo sviluppo della città fatimida, era divenuto il quartiere degli Ebrei e dei Copti), a partire dall’XI secolo, aveva ammucchiato vecchi documenti in cui compariva il nome di Dio e che quindi non dovevano essere distrutti. I manoscritti della Genizah, scoperti a partire dal 1896, contengono frammenti di varia natura: testi sacri, opere letterarie, un gran numero di lettere commerciali, ma anche la corrispondenza personale di molte grandi figure dell’ebraismo medievale. Prima che le lettere commerciali della Genizah cominciassero a essere esaminate dagli studiosi, le informazioni sulla vita economica del mondo islamico medievale erano assai scarse. Fu dunque estremamente importante la decisione dello storico ed etnografo Shlomo Dov Goitein di studiare questi documenti al fine di ricostruire la vita economica e sociale di quella che egli definí efficacemente «una società mediterranea». I testi della Genizah non illuminano solo la vita degli Ebrei che abitavano ad al-Fustat: costoro erano infatti in corrispondenza con familiari, amici e operatori commerciali disseminati in una vasta area che comprendeva al-Andalus, la Sicilia e i territori dell’impero bizantino, e gli armatori delle navi da loro utilizzate erano perlopiú musulmani. Numerosi sono

da una tradizione di epoca fatimida, il comandante, la notte stessa del suo arrivo a Fustat, avrebbe tracciato il perimetro della nuova città che si apprestava a fondare piantando alcuni picchetti, ai quali era attaccata una corda con molti campanelli. Gli operai avrebbero dovuto cominciare il lavoro quando la corda si fosse mossa e la campana e i campanelli avessero suonato: in tal modo il comandante avrebbe potuto scegliere il momento astrologicamente piú favorevole per l’inizio dell’opera. Poco dopo, un corvo si posò sulla colonna e mise in azione i campanelli. Vedendo la corda vibrare e udendo i suoni, gli operai gettarono le fondamenta della città, resero grazie e pregarono. Gli astrologi notarono che l’intervento del corvo fece sí che l’inizio dei lavori venisse a trovarsi sotto la tutela del pianeta Marte, il cui soprannome di qahir al-falak, «il Dominatore del firmamento», si trasmette addirittura alla città stessa: al-Qahira, «la Dominatrice». La città fatimida aveva un’estensione di 136 ettari circa ed era circondata da una cinta mura90

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In alto Il Cairo. Veduta dell’arca dell’antica sinagoga Ben Ezra, dove si trovava il deposito di documenti (Genizah).


anche i riferimenti a mercanti islamici ai quali venivano spesso affidate le merci inviate via terra, per evitare il divieto ebraico a viaggiare nel giorno del sabato. I traffici degli Ebrei di al-Fustat andavano ben oltre i confini del Mediterraneo, raggiungendo l’Oceano Indiano. Ben presto i mercanti fatimidi conquistarono l’egemonia commerciale in tutto il Medio Oriente, soprattutto per gli articoli di lusso, come spezie e tessuti, convogliando gli scambi sulla via del Mar Rosso attraverso l’Egitto, e traendone enormi profitti. Con Abu Mansur Nizar al-‘Aziz bi-’llah (975-996), figlio di al-Mu‘izz,

i Fatimidi si assicurarono anche il controllo delle piste che giungevano dall’Abissinia: l’oro e gli schiavi provenienti dalla regione transahariana attraverso le vie carovaniere centrali e orientali (quelle piú occidentali erano state perse a favore degli Omayyadi di Cordova) consentirono alla loro corte non solo un incredibile sfarzo, descritto con ammirazione dai viaggiatori, ma anche un’efficace burocrazia e un temibile esercito multietnico, composto da Berberi, Turchi, Circassi, Persiani, Arabi e un’élite di schiavi neri provenienti dalla regione del Sudan e dall’Africa orientale.

Particolare di una miniatura raffigurante la pesa delle mercanzie. Epoca fatimida, X-XII sec. Il Cairo, Museo d’Arte Islamica.

Nella pagina accanto, in basso tesoretto di oreficeria islamica con recipiente in terracotta, da Tiberiade. XI sec. Gerusalemme, Israel Antiquities Authority.

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Il Cairo. Il mihrab della Moschea di al-Hakim. 928-992.

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ria nella quale si aprivano otto porte: due sul lato Nord (Bab al-Futuh e Bab al-Nasr), due sul lato Est (Bab al-Baraqiyya e Bab al-Qarratin), due sul lato Sud (Bab al-Zuwayla e Bab al-Faraj) e due sul lato Ovest (Bab al-Sa‘ada e Bab al-Qantara). Nata come «città dinastica», originariamente destinata a ospitare il califfo e le sue truppe scelte, al-Qahira si trasformò presto in una vera e propria megalopoli, assorbendo in un contesto urbano senza piú soluzione di continuità tutti gli agglomerati sorti nell’area dall’epoca della conquista araba dell’Egitto e dotan-

dosi presto di enormi mercati, dove affluivano da tutto il Mediterraneo ogni genere di prodotti, strutture artigianali, bagni, giardini.

Le splendide dimore dei sovrani

Ai sovrani erano destinati due palazzi, costituiti in realtà da numerosi padiglioni posizionati all’interno di grandi parchi, che sorgevano a ovest e a est della via principale della città; quest’ultima, a metà del suo percorso, si allargava a formare una piazza, detta Bayn alQasrayn («Tra i due palazzi»). I califfi promos-


Frammento di tessuto ricamato di epoca fatimida. Parigi, Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge.

sero la costruzione di grandi edifici religiosi, tra i quali i piú importanti sono la moschea alAzhar (970), in prossimità dei palazzi, destinata a divenire uno dei principali centri di insegnamento religioso del mondo arabo; la moschea di al-Hakim (990-1003), lungo il principale asse viario cittadino, e la moschea al-Salih Tala’i‘, edificata per ospitare la reliquia della testa di Husayn. Negli edifici fatimidi, purtroppo giunti fino a noi solo in minima parte, si individuano influenze bizantine, copte, maghrebine, siriane e mesopotamiche, ma la sintesi proposta da

architetti, artisti, artigiani e decoratori è di straordinaria originalità, e, dopo la caduta della dinastia, costituí una fonte di ispirazione per l’arte «arabo-normanna» della Sicilia. Il 10 giugno del 973, al-Mu‘izz fece il suo trionfale ingresso nella nuova capitale e prese possesso del suo palazzo; poco dopo guidò per la prima volta la preghiera nella nuova moschea congregazionale della città. L’Egitto e tutto il mondo islamico entravano in una nuova era. Con la presenza del califfo, al-Qahira diveniva il centro di un’intensa vita di corte, con istituARABI

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Gli emiri fatimidi di Sicilia H asan ibn Ahmad ibn ‘Ali ibn Kulayb, soprannominato Ibn Abi Khinzir (910–912) Khalil ibn Ishaq (912) ‘ Ali ibn ‘Umar Balawi (912-913)

A Hmad ibn Ziyadat Allah ibn Qurhub (913-916) A bu Sa‘id Musa ibn Ahmad, detto al-Da’if (916-917)

S alim ibn Asad ibn Rashid al-Kutami (917-937) A bu l-‘Abbas Khalil ibn IsHaq ibn Ward (937-944) Ibn Attaf al-Azdi (944-946) M uHammad ibn Ash‘at (946-947)

I bn Attaf al-Azdi (seconda volta 947-948)

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Placchetta intagliata in avorio, raffigurante un cacciatore e un contadino. Civiltà fatimida, XI-XII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

zioni palatine estremamente complesse e un cerimoniale grandioso e minuzioso, che trova un equivalente solo in quello bizantino. Se i califfi di Baghdad seguivano in larga parte la tradizione «democratica» ed egualitaria del Profeta e dei suoi primi successori, i califfi fatimidi si consideravano invece detentori dell’imamato che Dio aveva istituito e rimesso ai successori del Profeta, i quali continueranno a esercitarlo fino al giorno del Giudizio; l’imam ha un carattere divino ed era l’ipostasi dell’intelligenza attiva nel mondo, principio emanato dell’intelligenza universale. La fede in Dio e nel suo Profeta è incompleta senza la fede nell’imam, che è dunque oggetto di un culto speciale, di cui fanno parte, per esempio, il rito della prosternazione (analoga alla proskynesis ellenistica e bizantina) e l’esposizione di emblemi della sovranità, quali la corona (taj, in realtà un turbante arrotolato in un modo particolare e ornato da una decorazione di pietre preziose), lo scettro (qadib almulk), la sciabola, la lancia, lo scudo, lo scrittoio, il parasole e i ventagli scacciamosche (di tradizione persiana), il timpano. Nella capitale si svolgevano cerimonie solenni, simili al complesso cerimoniale di corte bizantino, che potevano essere o meno accompagnate da processioni, sia religiose, sia militari, sia civili. I cortei religiosi avevano luogo all’inizio e alla fine del mese di ramadan e in occasione delle grandi feste musulmane della Rottura del digiuno e del Sacrificio; quelli civili avvenivano il Primo dell’anno, il giorno dell’unzione del Nilometro (strumento che misurava l’altezza della piena del Nilo), il giorno dell’apertura del Canale all’inizio della piena, e nell’anniversario della trasmissione del potere dal Profeta ad ‘Ali; c’erano poi processioni minori, legate a occasioni particolari. La posizione dei partecipanti all’interno del corteo era regolata da un rigido protocollo e, a seconda dei casi, il califfo poteva essere presente di persona o assistere al passaggio della sfilata da una porta del suo palazzo. Tutta la città era comunque coinvolta: le strade attraverso le quali passava una processione erano riccamente decorate a spese di commercianti, gioiellieri, cambiavalute, mercanti di stoffe, che desideravano ottenere la benedizione di uno sguardo del califfo.

I Fatimidi in Sicilia

Nel 910, subito dopo la proclamazione califfale di al-Mahdi, giungeva in Sicilia il primo governatore fatimida, Ibn Abi Khinzir. Uno dei suoi primi atti ufficiali fu quello di guidare l’esercito

islamico contro i principali insediamenti cristiani della zona del Val Demone. Nello stesso periodo si insediò il primo giudice (qadi) fatimida, anche se va detto che nell’isola rimase forte la presenza di giuristi malikiti, e dunque sunniti. Intorno al 911, i Palermitani si sollevarono contro il governatore, accusato di opprimere la popolazione: nemmeno l’invio di un nuovo emiro riuscí a riportare la calma nell’isola e, anzi, si aprí la strada a una rivolta piú strutturata che vide emergere la figura di Ahmad Ibn Qurhub, un comandante militare che aveva servito sotto gli Aghlabiti come governatore di Tripoli. La ribellione assunse una dimensione politica piú vasta dei confini insulari, perché Ibn Qurhub, in chiave anti-fatimida, si rivolse ufficialmente al califfo abbaside al-Muqtadir (908932) e, in risposta, ricevette un’investitura ufficiale. Come è stato da tempo notato, tale rivolta può essere letta a piú livelli: conflitto per il potere, contrasto fra sciiti e sunniti, rivendicazioni regionalistiche. È certo che Ibn Qurhub, con la sua richiesta di investitura califfale, volle affrancarsi dal controllo dell’Ifriqiya, esattamente come, circa un cinquantennio prima, aveva fatto l’emiro di Bari Sawdan. La fortuna di Ibn Qurhub fu comunque breve: intorno al 915, egli dovette affrontare dissensi e contestazioni, e, approfittando della situazione, il califfo fatimida inviò verso Palermo un nuovo governatore a capo di truppe arabo-berbere. Nel 917 Ibn Qurhub e suo figlio furono fatti prigionieri e portati in Ifriqiya, dove vennero torturati e giustiziati. I Fatimidi concessero poi il perdono e la pace (aman) alla Sicilia, ma il loro controllo divenne piú stretto.

La fondazione dell’«Eletta»

Tra gli elementi di tensione, c’era sicuramente il problema della tassazione: nel 935, dopo due anni di carestia, scoppiò una nuova rivolta, per porre fine alla quale, nel 937, giunse nell’isola un’armata guidata dal comandante dell’esercito fatimida di stanza a Qayrawan, Khalil ibn Ishaq. A Palermo, nella zona del porto, cominciarono i lavori per la costruzione di un nuovo distretto fortificato, destinato a diventare la sede del governo. Scrive in proposito lo storico arabo Ibn al-Athir: «Dal canto suo, Khalil Ibn Ishaq mise mano a fabbricare sul porto della città una città nuova, che egli rafforzò abbattendo molte parti dell’antica e togliendone via via le porte». Questa «città nuova» fu chiamata al-Khalisa, «l’Eletta» o «la Pura», un nome che portava con sé anche alcune connotazioni fiscali, dato (segue a p. 99) ARABI

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I Fatimidi

LE MERAVIGLIE DELLA CITTÀ «BISLUNGA» Una delle piú interessanti testimonianze sulla Palermo dell’epoca fatimida è la descrizione della città di Ibn Hawqal, un mercante di Bagdad vissuto nel X secolo e autore di un’opera a carattere geografico. Il testo è riportato nella traduzione ottocentesca di Michele Amari, solo in parte modernizzata nel linguaggio: «Della Sicilia Questa isola è lunga sette giorni [di cammino], larga quattro giornate; montuosa, irta di rocche e di castelli, abitata e coltivata per ogni luogo. Essa non ha altra città famosa e popolosa che quella che chiamano Palermo, ed è la capitale dell’isola. Sta [proprio] sulla spiaggia, nella costiera settentrionale. Palermo si compone di cinque quartieri, non molto lontani [l’un l’altro], ma sí ben circoscritti che i loro limiti appaiono chiaramente. [Il primo è] la città grande, propriamente detta Palermo, cinta d’un muro di pietra alto e difendevole, abitata dai mercanti. Quivi la moschea congregazionale, che fu un tempo chiesa dei Bizantini (Rum); nella quale [si vede] un gran santuario. Ho inteso dire da un certo logico che il

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filosofo dei Greci antichi, ossia Aristotele, giaccia entro [una cassa di] legno sospesa in cotesto santuario, che i Musulmani hanno mutato in moschea. I Cristiani onoravano assai la tomba di questo [filosofo] e soleano implorare da lui la pioggia, prestando fede alle tradizioni [lasciate] dai Greci antichi intorno i suoi grandi pregi e le virtú [del suo intelletto]. Raccontava [il logico], che questa cassa era stata sospesa lí a mezz’aria, perché la gente vi si radunava a pregare per la pioggia, o per la [pubblica] salute e [per la liberazione di tutte] quelle calamità che spingon [l’uomo] a volgersi a Dio e propiziarlo; [come accade] nei tempi di carestia, moría o guerra civile. [Per vero] io vidi lassú una [cassa] grande di legno, e forse racchiudeva l’avello. L’[altra città] che ha nome Al-Halisah («la pura» o «l’eletta»), è cinta anch’essa d’un muro di pietra, ma non tale che sia simile al primo [da noi descritto]. Soggiorna nella Halisah il Sultano con i suoi seguaci: quivi non mercati, non fondachi; v’ha due bagni, una moschea congregazionale, piccola, ma frequentata; la prigione del Sultano; l’arsenale


Nella pagina accanto mappa del mondo disegnata dal cartografo Ibn Hawqal. 980 d.C. In basso mappa dei principali insediamenti di epoca araba nella città di Palermo. [di marina] e il diwan (ufficio dell’amministrazione, n.d.r.). Ha quattro porte a mezzogiorno, tramontana e ponente; a levante un muro senza porte. Il quartiere dello Harat al-Saqalibah è piú ragguardevole e popoloso che le due città anzidette. In esso il porto; in esso parecchie fonti, le acque delle quali scorrono tra questo quartiere e la città vecchia: tra l’uno e l’altra il limite non è segnato se non che dalle acque. Il quartiere che si chiama Harat al-Masgid (…) è spazioso anch’esso; ma difetta d’acque vive, per cui gli abitanti bevono dai pozzi. [Scorre] a mezzogiorno del paese un grande e grosso fiume che s’appella Wadi ’Abbas, sul quale sono piantati molti mulini; ma [l’acqua di esso] non si adopera per l’[irrigazione degli] orti, né dei giardini. Grande è Al-Harat al-gadidah il quale s’avvicina al Quartiere della moschea, senza separazione, né intervallo: neanche ha mura il quartiere degli Schiavoni. La maggior parte dei mercati giace tra la moschea di Ibn Siqlab e questo Quartier nuovo: per esempio, il mercato degli oliandoli, che racchiude tutte le botteghe de’ venditori di tal derrata. I cambiatori e i droghieri soggiornano anch’essi fuor le mura della città; e similmente i sarti, gli armaiuoli, i calderai, i venditori di grano e tutte quante le altre arti. Ma i macellai tengono dentro la città meglio che cinquanta botteghe da vender carne; e qui [tra i due quartieri testé nominati] non ve n’ha che poche altre. Questo [grande numero di botteghe] mostra la importanza del traffico suddetto e il grande numero di coloro che lo esercitano. Il che si può argomentare ugualmente dalla vastità della loro moschea; nella quale, un dí ch’era zeppa di gente, io contai, cosí in aria, piú di settemila persone; poiché v’erano schierate per la preghiera piú di trentasei file, ciascuna delle quali non passava il numero di duecento persone. Le moschee della città, della Halisah e de’ quartieri che giacciono intorno la città fuori le mura, passano il numero di trecento (…) Invero, io non ho visto tanto numero di moschee in nessuna delle maggiori città, fosse anche grande al doppio [di Palermo], né l’ho sentito raccontare se non che da quei di Cordova [per la loro patria]; per la quale città io non ho verificato il fatto, anzi l’ho riferito a suo luogo non senza dubbio. Lo posso affermare bensí per Palermo, perché ho veduta con gli occhi miei la piú parte di [queste moschee]. Giaccion su la spiaggia del mare molti ribat (conventi fortificati, n.d.r.) pieni di sgherri, uomini di mal affare, gente da sedizioni, vecchi e giovani, ribaldi di tante favelle, i quali si son fatta in fronte la callosità delle prosternazioni per piantarsi lí ad acchiappare l’elemosina e sparlar delle

donne oneste. La piú parte sono mezzani di lordure o rotti a vizio infame. Ripararono costoro nei ribat, come quegli uomini da nulla che sono, gente senza tetto, [vera] canaglia. Ho detto della Halisah, delle sue porte e di quanto c’è lí [da notare]. Venendo ora al Qasr (palazzo) propriamente chiamato Palermo, dico ch’è questa la città antica. Delle sue porte, la principale è la Bab al-bahr, cosí chiamata perché vicina al mare. La città, [di figura] bislunga, racchiude un mercato che l’attraversa da ponente a levante e si chiama al-Simat: tutto lastricato di pietra da un capo all’altro; bello emporio di varie specie di mercanzie. Scaturiscono intorno a Palermo acque abbondanti, che scorrono da levante a ponente, con forza da volgere ciascuna due macine; onde son piantati parecchi mulini su quei rivi. Dalla sorgente allo sbocco in mare sono essi fiancheggiati di vasti terreni paludosi.

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Veduta di Jibla, città dello Yemen sud-occidentale, che fu capitale della regione degli altopiani tra il 1064 e il 1138. Origini yemenite aveva la tribú dei Banu Kalb, che appoggiò i Fatimidi nell’occupazione del Nord Africa e venne da questi ricompensata con la nomina di un loro membro a governatore della Sicilia. che, nelle province orientali, era in genere riferito a terre che erano proprietà personale dei governanti. Tracce evidenti della Khalisa rimangono nel nome e nell’impianto urbanistico dell’attuale quartiere palermitano della Kalsa. Le rivolte, comunque, continuarono, sia in Sicilia sia in Nord Africa. La risposta dei Fatimidi fu la scelta, come governatori dell’isola, dei membri del potente clan dei Banu Kalb, la cui ascesa avrebbe segnato l’apogeo della Sicilia musulmana.

Una ricompensa significativa

Originaria dello Yemen, la tribú dei Banu Kalb fu una delle maggiori sostenitrici della dinastia sciita dei Fatimidi nel processo di occupazione del Nord Africa che culminò con la conquista dell’Egitto. Essa venne perciò ampiamente premiata e favorita dai califfi del Cairo, che affidarono a un suo membro eminente, alHasan ibn ‘Ali, il governatorato della Sicilia, che i Kalbiti mantennero fino alla metà dell’XI secolo. Ben presto i Banu Kalb importarono nell’isola prassi amministrative e cerimoniali tipiche della corte fatimida, oltre a guidare attacchi contro le forze bizantine, che le fonti arabe definiscono come jihad. Secondo la communis opinio, che risale al magistero di Michele Amari, sotto i Kalbiti si sarebbe verificata anche una notevole fioritura culturale, estrinsecatasi soprattutto alla corte di Palermo, vero e proprio crocevia intellettuale fra Egitto, Nord Africa e Meridione italiano. Quello dell’effettiva consistenza di una fioritura economica e culturale in epoca kalbita è certamente un punto chiave, che meriterebbe ulteriori approfondimenti alla luce delle nuove fonti resesi disponibili nel periodo successivo alla trattazione di Amari (tra cui vale la pena di menzionare almeno alcune fondamentali edizioni critiche, quali la monumentale monografia sul califfato fatimida composta nel XV secolo dal celebre erudito mamelucco al-Maqrizi e l’opera del grande storico e giurisperito fatimida al-Qadi ’lNu‘man, la piú importante trattazione storica sulla nascita della grande dinastia sciita nordafricana). Dal giudizio che si dà sul periodo kalbita, infatti, dipende la valutazione di fasi decisive della storia della Sicilia e dell’Italia meriARABI

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dionale medievale (come il periodo aghlabita, che precede l’epoca dei Kalbiti), e in particolare tutta la questione del rapporto tra cultura normanna e cultura fatimida. Ugualmente centrali sono i temi della diffusione dello sciismo, dell’amministrazione, del cerimoniale, della «guerra santa» e della propagazione della cultura letteraria, filosofica e artistica fatimida in ambito siciliano. Su tali temi esistono al momento solo pochi studi pionieristici, che trattano singoli punti degni di interesse. Sarebbero dunque auspicabili nuove ricerche che forniscano un quadro complessivo del mondo kalbita (storia, prosopografia, politica, economia, religione, società, cultura), in un’ottica non piú limitata al panorama siciliano, ma aperta sul piú vasto orizzonte mediterraneo e mediorientale.

La forza di un nome

La storia dei Kalbiti, scelti dalla dinastia sciita ismailita dei Fatimidi (909-1171) per rappresentare i suoi interessi in terra siciliana, non ha riscontrato finora particolare interesse negli studiosi contemporanei. Le piú recenti opere di sintesi sulla Sicilia islamica tendono a riproporre l’impalcatura fattuale fornita da Michele Amari, attenuandone gli aspetti piú marcatamente ideologici; altre, come il lavoro di Salvatore Tramontana sulle condizioni materiali e sociali della Sicilia tra il IX e l’XI secolo (L’isola di Allah, Einaudi, Torino 2014), si rivelano comunque dipendenti dalla visione amariana, e non mettono in discussione il quadro che emerge dai capitoli dedicati ai Kalbiti nella Storia dei Musulmani di Sicilia. Il peso dell’auctoritas di Amari è del resto cosí forte da condizionare l’approccio di tutti gli studiosi intenzionati a lavorare sulla storia della Sicilia islamica: come ha scritto Carlo Alfonso Nallino, con parole che, a ottant’anni di distanza, appaiono piú che mai attuali, «la solidità della costruzione storica dell’Amari è tale da renderne il testo narrativo assai poco suscettibile di miglioramenti per effetto di nuovi studi, di nuovi testi; ancor’oggi chi volesse scrivere la storia delle dominazioni e incursioni musulmane in Sicilia e nell’Italia meridionale non potrebbe far altro che ripetere, in grandissima parte, quel che l’Amari ha scritto». Tuttavia, occorre sottolineare che la prospettiva amariana, tutta incentrata sulla Sicilia e sull’Italia meridionale – delle quali l’autore mette in rilievo quelli che egli considera i caratteri originali, enfatizzando supposti elementi di continuità fra passato e presente che contraddistin100

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guerebbero in maniera costante il paesaggio socio-politico meridionale –, ha come risultato quello di «isolare» la presenza islamica sul suolo italiano (che nell’opera di Amari tende a divenire un oggetto di ricerca a sé stante) e, conseguentemente, di sottovalutare l’analisi del contesto mediterraneo in cui essa andrebbe invece utilmente collocata. Ciò è tanto piú evidente nella trattazione amariana riguardante la dinastia kalbita, i cui stretti legami con i Fatimidi del Cairo – intensamente proiettati in una dimensione mediterranea, ma fortemente connessi anche con aree interne del mondo islamico medievale di tradizione sciita, come l’Iraq, parte della Siria e il Nord dell’Iran – non sono adeguatamente valorizzati in tutta la loro portata storica, politica, culturale e religiosa.

In alto una mappa rettangolare del mondo, da un’edizione manoscritta del Kitab Ghara‘ib al-funun wa-mulah al-‘uyun (Il libro delle curiosità delle scienze e delle meraviglie degli occhi), un trattato cosmografico egiziano redatto nell’XI sec. Oxford, Bodleian Library. Nella pagina accanto brocca in cristallo di rocca e lamina d’oro. Civiltà fatimida, X sec. Firenze, Palazzo Pitti.


sola?); il già menzionato problema della supposta grande fioritura economica e culturale di età kalbita; l’idea secondo la quale sotto i Kalbiti si sarebbe addirittura verificata «l’emancipazione della Sicilia», al punto che la massima autorità politica dell’isola, a partire dal 970, sarebbe stata scelta dai «Siciliani». Quest’ultima teoria, fortemente connessa alle aspirazioni risorgimentali di Amari («Raro avvien che rimangano frustrati i popoli quando fermamente si propongano e tenacemente procaccino di scuotere il giogo», scrive l’autore) e che lo conduce ad affermare che, dopo il 970, la Sicilia «salí al sommo grado di libertà d’un popolo musulmano», necessita di una revisione radicale, anche alla luce dei recenti studi sul sistema politi-

Inoltre, va sottolineato come l’approccio amariano, per quanto filologicamente inappuntabile e sostenuto da un’enorme mole di documentazione, sia fortemente condizionato dalle visioni politiche e culturali dell’autore, che non di rado lo inducono a leggere le vicende della presenza islamica in Sicilia e in Italia meridionale quali allegoria della situazione politica a lui contemporanea. A questo proposito, restano da affrontare alcuni nodi fondamentali trattati da Amari in maniera poco soddisfacente, quali, per esempio, la questione dello status legale della Sicilia in epoca fatimida (per quest’epoca si può parlare legittimamente di «emirato» siciliano? Che cosa sottende il termine «sultano» utilizzato dal geografo Ibn Hawqal per definire la massima autorità dell’iARABI

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Gli emiri kalbiti A bu ’l-Qasim al-Hasan ibn ‘Ali ibn Ali al-Husayn (948-954)

Ahmad ibn Hasan Abi ’l-Husayn (954-969) A bu ’l-Qasim ‘Ali ibn al-Hasan (969-982) J abir al-Kalbi (982-983) J a‘far al-Kalbi (983-985)

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‘ Abd Allah al-Kalbi (985-989) A bu l-Futuh Yusuf ibn ‘Abd Allah al-Kalbi (989-998)

Ja‘far al-Kalbi II (998-1019) A hmad ibn Yusuf al-Akhal (1019-1037) a l-Hasan al-Samsam (1040-1053)


LA SETTA DEI KALBITI La setta «radicale» sciita degli ismailiti è oggi presente come minoranza religiosa musulmana in piú di venticinque Paesi. Le sue origini risalgono al IX secolo e la sua storia è ancora per molti aspetti avvolta nella leggenda, anche a causa delle interpretazioni distorte che ne sono state date sia dagli autori musulmani sunniti, sia da scrittori dell’Occidente medievale, quali, per esempio, Marco Polo, Odorico da Pordenone, Guglielmo di Rubruck o l’ebreo spagnolo Beniamino di Tudela. Dalla filosofia al diritto, dall’arte alla storiografia e alla letteratura, gli ismailiti hanno contribuito in maniera decisiva alla formazione della cultura islamica, e parte di questa importante eredità religiosa e culturale è giunta fino in Sicilia proprio grazie ai Kalbiti, che, secondo alcune fonti, si sarebbero convertiti all’ismailismo seguendo i loro patroni fatimidi.

La mappa della Sicilia, da un’edizione manoscritta del Kitab Ghara‘ib al-funun wa-mulah al-‘uyun (Il libro delle curiosità delle scienze e delle meraviglie degli occhi), un trattato cosmografico egiziano redatto nell’XI sec. Oxford, Bodleian Library.

co e amministrativo messo in atto dai Fatimidi, che non hanno ancora suscitato alcuna nuova indagine sulle origini della dinastia kalbita, sui suoi rapporti con i Fatimidi e sulla diffusione delle dottrine ismailite in terra siciliana.

Ismailismo: alcune questioni cruciali

Il problema del ruolo e della diffusione delle dottrine sciite ismailite in ambito kalbita è quasi del tutto ignorato da Amari, anche a causa della scarsità di conoscenze sull’ismailismo

all’epoca della composizione della Storia dei Musulmani di Sicilia. Un’indagine su questo tema fondamentale è oggi invece possibile grazie al notevole progresso degli studi ismailiti, sviluppatisi enormemente sotto l’egida di Farhad Daftary, il massimo esperto mondiale di ismailismo, e dell’Institute of Ismaili Studies di Londra da lui diretto. Una ricerca in tal senso coinvolge la sfera storico-religiosa, la sfera giuridica e la sfera politica e può contribuire a fare luce su problematiche di notevole importanza. Ne ricordiamo alcune delle piú significative: la questione dell’effetiva adesione dell’élite kalbita alle dottrine ismailite; il senso delle polemiche anti-kalbite contenute in testi di numerosi storici e geografi arabi, spesso fraintese o banalizzate proprio a causa della mancata comprensione dei termini religiosi e giuridici delle questioni in oggetto (è il caso, per esempio, del resoconto concernente la Sicilia del geografo Ibn Hawqal, in cui sono stigmatizzati gli usi e costumi dei musulmani di Sicilia, che assume ben altro rilievo alla luce della conoscenza delle pratiche ismailite); la comprensione delle dinamiche in atto in Sicilia tra Arabi sunniti, Arabi convertiti all’ismailismo e Berberi ibaditi; il tema dell’evolversi delle relazioni tra musulmani, cristiani ed ebrei in Sicilia durante il dominio kalbita; il fenomeno della propaganda ismailita (da‘wa) nell’isola e i suoi rapporti con la scuola giuridica malikita (e dunque sunnita), che sembra svolgere un ruolo importante anche sotto i Fatimidi; l’analisi dell’influenza e del ruolo del diritto ismailita in ambito siciliano, anche per approfondire nei giusti termini la problematica del jihad, e che costituisce una chiave di lettura ARABI

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Miniatura raffigurante una carovana di mercanti, da un’edizione delle Maqamat del filologo e letterato arabo musulmano al-Hariri, illustrate da Yahya ibn Mahmoud al-Wasiti. 1237. Parigi, Bibliothèque nationale de France. fondamentale per interpretare le vicende politico-militari di cui i Kalbiti sono stati protagonisti in Sicilia e in Italia meridionale.

Un legame profondo

Secondo Michele Amari, i Kalbiti costituirebbero in fondo un fenomeno specificamente siciliano. In realtà, l’analisi dello spazio geografico nel quale si estrinseca la presenza kalbita, rivela legami profondi con lo Yemen, l’Ifriqiya, l’Egitto, la Siria e altre regioni del mondo islamico. In tale quadro sarebbe necessario tornare ad affrontare i due temi centrali dello sviluppo dell’urbanistica kalbita, in connessione diretta, ma anche dialettica, con quella fatimida, e dell’evoluzione del sistema dei ribat, vera e propria rete di fortificazioni a protezione dell’isola (e utilizzata anche come base di partenza per raid e incursioni) sulla quale, sono in corso vivaci dibattiti che ne coinvolgono il concetto stesso in ambito islamico. Un ruolo essenziale esercitano in questo campo i risultati delle indagini archeologiche, che, proprio negli ultimi anni, grazie al lavoro di un valente team di ricercatori italiani, hanno registrato grandi progressi. Tali ricerche hanno migliorato la conoscenza delle produzioni ceramiche islamiche e la loro articolazione, stabilendo griglie temporali dettagliate, che hanno condotto alla messa in discussione di molte certezze consolidate nel tempo, soprattutto relativamente alla cronologia di tali produzioni, un tempo considerate di epoca normanna ma che ora sono ricondotte all’ambito fatimida. Grazie all’archeologia, comincia a essere meglio conosciuto anche lo sviluppo urbanistico di alcuni centri siciliani di epoca islamica: un caso estremamente interessante è quello di Palermo, la capitale della Sicilia musulmana, sulla quale, in anni recenti, si sono concentrate numerose iniziative scientifiche. Particolare importanza, in questo campo, ha l’analisi, ancora in parte da elaborare, del Kitab Ghara‘ib al-funun wa-mulah al-‘uyun (Il libro delle curiosità delle scienze e delle meraviglie degli occhi), un testo geografico dell’XI secolo, scoperto recentemente, e che contiene un’inedita descrizione dello «spazio fatimida» (compresa la Sicilia), corredata di mappe di straordinario interesse geografico.

Nei due secoli di fioritura della dinastia fatimida, le vie commerciali del Mediterraneo sono state largamente frequentate dalla «società mediterranea» dei mercanti ebrei del Cairo Vecchio (al-Fustat), la cui corrispondenza, oggetto di un mirabile studio di Shlomo Dov Goitein, è sopravvissuta nella Genizah, il deposito della sinagoga di al-Fustat (vedi box alle pp. 90-91). Amari non poté avvalersi di questa documentazione (scoperta a partire dal 1896), e ciò rappresenta un motivo fondamentale per procedere ex novo a un’accurata analisi socio-economica dell’epoca kalbita, valorizzando i sia pur limitati riferimenti alla Sicilia e all’Italia meridionale presenti nei testi della Genizah e mettendoli in relazione con altri tipi di evidenza (storica, epigrafica, prosopografica, numismatica e archeologica) già nota o di recente acquisizione.

Una prospettiva mediterranea

A tale analisi andrà poi affiancata un’indagine piú a largo raggio che valorizzi al massimo la pur limitata documentazione disponibile, allo scopo di contestualizzare l’area kalbita nelle reti commerciali mediterranee predisposte e utilizzate dal califfato fatimida del Cairo e, al tempo stesso, di approfondire la questione dell’interazione fra religione e commercio in un ambito che vede la coesistenza, piú o meno pacifica, di Islam, giudaismo e cristianesimo. Un problema di notevolissimo interesse, affrontato solo in maniera estremamente limitata e parziale, è poi quello del nuovo regime di tassazione instaurato dai Kalbiti, sul quale è ora possibile fare piú luce grazie alla pubblicazione del Kitab al-amwal (Libro del fisco) di al-Dawudi (morto nel 1101), un importante trattato riguardante le questioni fiscali e della gestione della terra in epoca fatimida, che fornisce molte preziose informazioni su alcune aree della Sicilia. Una nuova ricerca sulla dinastia kalbita non può che essere gravida di importanti novità e acquisizioni che andrebbero a coinvolgere molte discipline: dalla storia medievale italiana alla numismatica; dalla storia islamica all’archeologia; dalla letteratura araba alla storia dell’arte islamica; dalla giurisprudenza alla storia economica; dagli studi mediterranei agli studi ismailiti. Inoltre, una piú approfondita comprensione dei caratteri originali della dominazione kalbita in Sicilia verrebbe a costituire un indispensabile punto di partenza per valutare meglio gli elementi di continuità e discontinuità rispetto all’epoca precedente che contraddistinguono il periodo normanno-svevo. ARABI

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I «SUCCESSORI» DEI CALIFFI

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● 700 circa Primi stanziamenti norvegesi nell’arcipelago scozzese. ●7 86 circa Prime incursioni normanne in Inghilterra. ●8 10-814 Incursioni normanne in Frisia. ● 834 Prime incursioni in Francia. ● 845 I Normanni assediano Parigi. ● 859 I Normanni raggiungono il Mediterraneo; attaccate le coste toscane e la città di Pisa. ● 911 Carlo il Semplice, re di Francia, è costretto a riconoscere l’insediamento normanno nella Bassa Senna, che diviene un ducato. ● 1029 Rainulfo Drengot ottiene la contea di Aversa (Italia meridionale). ● 1043 I fratelli Altavilla, provenienti dalla Normandia, ottengono il ducato di Melfi. ● 1053 Roberto il Guiscardo sconfigge l’esercito pontificio e fa prigioniero papa Leone IX. ● 1059 Accordi di Melfi. I Normanni si riconoscono vassalli del papa e Roberto il Guiscardo diventa duca di Puglia e Calabria. ● 1060 Ruggero I d’Altavilla è conte di Sicilia. ● 1060-1091 I Normanni conquistano la Sicilia araba. ● 1095 Nascita di Ruggero II. ● 1101 Morte di Ruggero I; reggenza di Adelaide del Vasto. ● 1112 Inizio del governo personale di Ruggero II. ● 1117 (?) M atrimonio di Ruggero II con Elvira, figlia di re Alfonso VI di Castiglia-Léon. ●1 122 Il duca Guglielmo di Puglia lascia a Ruggero II Calabria e Sicilia per intero. ● 1124 Ruggero II penetra in Basilicata (Montescaglioso). ● 1127 Morte senza eredi del duca Guglielmo di Puglia; Ruggero II principe di Salerno, duca di Puglia, Calabria e Sicilia. ● 1128 Papa Onorio II investe Ruggero II con il ducato di Puglia, Calabria e Sicilia. ● 1129 Rivolte sedate in Puglia, pace generale di Melfi. ●1 130 Guglielmo II assume il titolo di re di Sicilia. ●1 131-1139 Lotte contro i rivoltosi nel Mezzogiorno. ● 1135 Ruggero II investe il figlio Alfonso con il principato di Capua; precedentemente aveva investito Ruggero con il ducato di Puglia e Tancredi con il principato di Bari. ● 1137 Campagna dell’imperatore Lotario III e di Innocenzo II contro Ruggero II; investitura di Rainulfo d’Alife con il ducato di Puglia. ● 1139 Vittoria di Ruggero II sull’esercito di Innocenzo II; pace di Mignano; il papa investe Ruggero II del regno di Sicilia. ● 1149 M atrimonio di Ruggero II con Sibilla di Borgogna. ● 1151 Elevazione di Guglielmo I a coreggente; matrimonio di Ruggero II con Beatrice di Rethel.

● 1154 Morte di Ruggero II, nascita di Costanza d’Altavilla. ● 1166 Morte di Guglielmo I. ● 1186 Costanza d’Altavilla sposa Enrico VI di Svevia, che eredita il regno normanno nell’Italia meridionale. ● 1189 Morte di Guglielmo II. ● 1190 Tancredi di Lecce re di Sicilia. ● 1194 Enrico VI prende possesso del regno di Sicilia; nascita di Federico II.

In alto Palermo, Cappella Palatina. Particolare della decorazione pittorica del soffitto ligneo, raffigurante un personaggio regale. La Cappella Palatina fu realizzata per volere di Ruggero II. XII sec. Sulle due pagine mantello per l’incoronazione in seta, ricamato in oro, perle e smalti e decorato con animali araldici. Produzione palermitana, 1133-1134. Vienna, Kunsthistorisches Museum.


Norvegia

Scozia

Svezia

Primi spostamenti di genti normanne da Danimarca e Norvegia (VIII-IX sec.)

REGNO D’INGHILTERRA Danimarca

Irlanda

Espansione normanna Espansione plantageneta Spedizioni dell'XI sec. NORMANDIA IMPERO REGNO PLANTAGENETO DI FRANCIA

Spedizioni deI XII sec.

SACRO ROMANO IMPERO

1075-1076

Roma

1117-1151

1185

RA VID

I

1117

1071

AL

MO

REGNO DI SICILIA

1083

TURCHI

1073

1072

Ifriqiya 1135-1160

1098-1289

1153 1147

Malta

Cipro

1149

Tripoli

1185-1189 1191-1192 1145

IMPERO FATIMIDA

REGNO DI GERUSALEMME

In alto l’espansione dei Normanni tra l’XI e il XII sec. I primi gruppi di queste genti vichinghe, provenienti dalla Scandinavia, mossero alla volta della Francia e dell’Inghilterra nel X sec.

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I Mille di Ruggero Dopo aver conquistato la Calabria, il conte normanno rivolse le sue attenzioni alla Sicilia, teatro delle lotte intestine che dilaniavano l’emirato kalbita

L’

ultimo periodo dell’emirato kalbita fu caratterizzato da continue ribellioni, che si conclusero con l’assasinio dell’emiro Ahmad al-Akhal nella cittadella della Khalisa. Da questo momento in poi, l’emirato cominciò a frammentarsi, anche a causa dell’intervento nell’isola delle truppe berbere degli Ziriti di Ifriqiya e dei Bizantini. Le fonti arabe parlano della formazione di piccoli staterelli, definiti «regni delle fazioni» (muluk al-ta’ifa), indipendenti e in continuo stato di conflitto. In effetti, quando i Normanni decisero di invadere la Sicilia (1061), furono grandemente favoriti dai forti contrasti fra vari potentati musulmani, tanto che Ruggero I riuscí a ottenere i suoi primi successi con appena 1000 cavalieri, che peraltro operarono in stretta collaborazione con Ibn al-Tumna, il potente signore di Siracusa, con il quale i Normanni avevano stabilito un’alleanza.

Un’amministrazione tollerante

La prima capitale siciliana di Ruggero fu Troina (1064), facilmente difendibile perché in posizione elevata. Già nel 1072, però, i Normanni riuscirono a entrare trionfalmente anche a Palermo, che venne affidata a Roberto il Guiscardo. L’amministrazione di Roberto fu, per quanto possibile, tollerante, cosí come quella del fratello Ruggero. Palermo venne divisa in varie zone, ognuna delle quali appannaggio quasi esclusivo di un gruppo etnico: la Kalsa venne concessa agli Arabi, il quartiere della Cattedrale ai Greci, l’Albergheria ai Latini e la zona del Ponticello agli Ebrei. La Palermo normanna divenne l’emblema della coesistenza 108

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Palermo, Cappella Palatina. Una veduta del soffitto della navata centrale. XII sec. Il tetto ligneo a muqarnas (alveolato e intagliato con stalattiti pendenti) è decorato in rosso, oro e azzurro, con pitture a tempera che presentano scene di vita cortigiana, di battaglia e di caccia, danzatori e musici.



RE ARTÚ

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Fortuna del mito


Nella pagina accanto Palermo, Palazzo della Zisa. Uno scorcio della Sala della Fontana, con la nicchia decorata a muqarnas. XII sec. A sinistra Palermo, Cappella Palatina. Una veduta del trono regale.

UN CANTO PER IL PARADISO PERDUTO ‘Abd al-Jabbar ibn Muhammad ibn Hamdis (1056 circa-1133), fu uno dei piú grandi poeti arabi di Sicilia. Verso il 1078, quando era già iniziata la conquista normanna dell’isola, si trasferi in Andalusia. A Siviglia, fu accolto dal principe, poeta e mecenate Muhammad al-Mu‘tamid, al quale rimase vicino anche dopo la sua deposizione a opera degli Almoravidi. Dopo la morte dell’amico (1095), fu accolto a Bijaya, in Algeria, presso il sovrano hammadita Mansur ibn Nasir, poi fu ospite per un ventennio nella città tunisina di Mahdia, alla corte dei principi Ziridi. Morí a Maiorca, quasi ottantenne, nel 1133, lontano dalla patria che non aveva mai dimenticato. Ecco una delle sue poesie piú struggenti per l’isola perduta: «Sicilia mia. Disperato dolore si rinnova per te nella memoria Giovinezza. Rivedo le felici follie perdute e gli amici splendidi Oh paradiso da cui fui cacciato! Che vale ricordare il tuo fulgore? Mie lacrime. Se troppo non sapeste di amaro formereste ora i suoi fiumi Risi d’amore a vent’anni sventato a sessanta ne grido sotto il peso Ma tu non aggravare le mie colpe se il tuo Dio già concesse il perdono In alto la penombra si dirada agitata dai veli della luce ma questa luce è un modo del distruggersi manda luce chi perde la sua vita».

pacifica tra civiltà diverse e Ruggero permise a ogni singolo membro delle quattro etnie di essere giudicato in base alle proprie leggi.

Il primo Parlamento

Tuttavia, va rilevato come il modello di convivenza messo in atto dai Normanni fosse ben lungi dal caratterizzarsi quale ugualitario: i conquistatori, infatti, imposero ai musulmani il tributo personale gravante sui sudditi di diversa confessione rispetto a quella dominante, esattamente come questi ultimi avevano fatto con i cristiani all’epoca del loro dominio sull’isola. I Normanni, inoltre, introdussero in Sicilia il sistema feudale e la Sicilia conobbe per la prima volta il Parlamento: in realtà si trattava di un’assemblea convocata periodicamente e formata dai piú influenti signori del tempo. Nel 1101 il conte Ruggero morí e il suo corpo venne deposto all’interno della Cattedrale. A succedergli furono una serie di reggenti, tra cui la moglie dello stesso Ruggero, la contessa Adelasia, che preparò la discesa in campo di suo figlio Ruggero II, il quale nel 1130, nella Cattedrale di Palermo, venne incoronato «Re di Sicilia, Puglia e Calabria». Ruggero II accentuò la spinta autoritaria del suo regno, introducendo una nuova legislazione, in parte basata sul diritto romano codificato dall’imperatore Giustiniano (Corpus iuris civilis). A lui si deve la costruzione della splendida Cappella Palatina, (segue a p. 115) ARABI

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A sinistra Palermo, chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio anche nota come «la Martorana». Particolare di uno dei mosaici della decorazione, raffigurante l’incoronazione di Ruggero II (identificato da una didascalia in greco-bizantino).

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LA SICILIA, PERLA DEL SECOLO Una delle piú interessanti descrizioni della Sicilia di epoca normanna è quella offertaci dal geografo e scienziato Al-Idrisi, colto viaggiatore e raffinato erudito, giunto dal Marocco alla corte di Ruggero II nel 1138, con l’incarico di redigere un compendio del mondo allora conosciuto. Per Idrisi, la Sicilia è la «gemma del secolo», ospitale e cosmopolita, centro culturale del Mediterraneo: «Diciamo dunque che l’isola di Sicilia è la perla del secolo per abbondanza e bellezze; il primo paese del mondo per bontà di natura, frequenza di abitazioni e antichità. Vengovi da tutte le parti i viaggiatori e i trafficanti delle città e delle metropoli, i quali tutti a una voce la esaltano, attestano la sua grande importanza, lodano la sua splendida bellezza, parlano delle sue felici condizioni, degli svariati pregi che si accolgono in lei e dei beni d’ogni altro paese del mondo che la Sicilia attira a sé. Nobilissime tra tutte le altre che ricordi la storia, furono le sue dominazioni; potentissime sopra tutt’altre le forze che i Siciliani prostrarono chi lor facesse contrasto. E veramente i re della Sicilia vanno messi innanzi di gran lunga a tutti gli altri re, per la possanza, per la gloria e per l’altezza dei proponimenti».

In alto carta della Sicilia tratta da un manoscritto del cosiddetto Libro di re Ruggero, trattato geografico commissionato da Ruggero II al geografo arabo Muhammad ibn Muhammad Al-Idrisi, e completato tra il 1138 e il 1154. XIII-XIV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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UN NUMERO INCALCOLABILE DI MOSCHEE Dopo una visita della Palermo normanna, l’arabo andaluso Ibn Jubayr stila un’interessante descrizione della città, che mette in rilievo la presenza fra le sue mura di una vivace comunità islamica: «In realtà e in apparenza, la città offre tutto quanto sapresti desiderare, i frutti e le foglie della vita. Antica ed elegante, magnifica e piacevole, d’aspetto seducente, giace tra colli e pianure che sono tutto un giardino. I musulmani di Palermo conservano un poco di fede. Tengono in buone condizioni la maggior parte delle moschee, fanno la preghiera alla chiamata del muezzin, possiedono dei quartieri ove risiedono, insieme con le loro famiglie, senza mescolarsi ad alcun cristiano. Tengono i mercati e li frequentano. Hanno a Palermo un qadi, che è giudice dei loro processi, e una moschea congregazionale dove si riuniscono per la preghiera durante il mese santo. Le altre moschee sono cosí numerose che non si saprebbe contarle; la maggior parte servono come scuole a coloro che insegnano il Corano. Si possono qui notare palazzi magnifici e castelli, con torri che si innalzano nel cielo a perdita d’occhio e che stupiscono per la loro bellezza».

situata all’interno del Palazzo Reale (oggi noto come Palazzo dei Normanni). Alla morte di Ruggero II, salí al trono Guglielmo I (1154-1166), detto «il Malo», probabilmente perché non favorí le pretese politiche dei nobili siciliani, trovandosi piú volte in difficoltà nei giochi politici di corte. A Guglielmo I succedette Guglielmo II, detto «il Buono» (1166-1189), che configurò il suo regno sul modello della struttura imperiale bizantina. A lui si devono, tra l’altro, la costruzione del grandioso Duomo di Monreale e del padiglione arabo-normanno della Cuba, e la messa in opera della maggior parte dell’apparato architettonico dell’altro celebre luogo di delizie denominato Zisa (dall’arabo al-aziz, «nobile», «splendido»).

Nella pagina accanto Veduta di Palermo, acquerello su carta di Carl Friedrich Heinrich Werner. 1939. Collezione privata. La chiesa raffigurata è probabilmente S. Giovanni degli Eremiti, costruita da Ruggero II ed esempio dello stile arabo-normanno. Durante la dominazione normanna, la condizione socio-economica dei musulmani peggiorò sempre di piú: oltre al testatico (forma di imposizione fiscale per testa, cioè per persona, n.d.r.), le popolazioni islamiche delle campagne erano vincolate alla terra e i contadini erano assimilati a veri e propri servi della gleba. L’oppressione fiscale creava enorme risentimento tra le masse musulmane, che non di rado sfociava in gravi episodi di violenza e ribellismo.

Una «riserva» per i musulmani

Guglielmo II cercò di dare al problema una soluzione definitiva con la creazione della diocesi di Monreale, che nelle intenzioni del re venne concepita come un native homeland, una sorta di grande riserva nella quale i musulmani potessero vivere e lavorare la terra al riparo dalle persecuzioni dei feudatari. Ciò, sotto il controllo diretto dell’arcivescovo-abate, investito di eccezionali poteri amministrativi e giudiziari. In tal modo, il sovrano affidava all’ente ecclesiastico la gestione agraria e fiscale dell’area, delegando ai monaci di Monreale il difficile compito di controllare la popolazione musulmana. Il tentativo era evidentemente destinato al fallimento: alla morte del re, il territorio dell’arcidiocesi si trasformò nel centro dell’ultima resistenza islamica. I musulmani abbandonarono i campi e si ritirarono sulle montagne dichiarando apertamente guerra ai Normanni. Quando Federico II di Svevia sale sul trono del regno di Sicilia è dunque questa la situazione che egli si trova a dover fronteggiare. Ed egli comincia a farlo all’inizio degli anni Venti del XIII secolo, attaccando le posizioni di Ibn Abbad, un immigrato dal Nord Africa che, imitando la titolatura degli Almoravidi, si era fatto proclamare amir al-muslimin e aveva posto il suo quartier generale tra Entella e il Monte Iato, assumendo di fatto la guida della rivolta islamica contro il potere cristiano nell’isola.Tra il 1222 e il 1223, dosando abilmente forza, diplomazia e inganno, Federico riuscí ad avere ragione di Ibn Abbad e a sedare quasi completamente i fenomeni ribellistici. Cospicui contingenti di «Saraceni» ribelli furono trasferiti in Puglia: nacque cosí, verso il 1223, il primo nucleo della colonia militareagricola islamica lucerina. ARABI

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Splendori arabo-normanni Sulle due pagine Palermo, Palazzo della Cuba. XII sec. Situata sulla strada per Monreale, la Cuba è un palazzo di piacere, edificato per volere di Guglielmo II d’Altavilla nel 1180. Boccaccio vi ambientò la sesta novella della quinta giornata del Decamerone. A destra una nicchia decorata a muqarnas nel Palazzo della Cuba. In basso Monreale (Palermo), Duomo. Uno scorcio dell’interno del chiostro: ornato di archi a sesto acuto retti da colonnine decorate con mosaici, rappresenta la fusione di elementi architettonici romanico-normanni e arabo-bizantini. XII-XIII sec. Anche l’edificazione dell’abbazia monrealese (1166-1178) viene attribuita al regno di Guglielmo II d’Altavilla.

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LE ISCRIZIONI ARABE NEI MONUMENTI NORMANNI Fatta erigere attorno alla metà del XII secolo da Ruggero II di Sicilia nel Palazzo dei Normanni di Palermo, la Cappella Palatina è un esempio unico di fusione di tradizioni artistiche differenti: l’architettura romanica, la mosaicistica bizantina, i soffitti arabi. Un monumento straordinario, che merita l’analisi approfondita offerta dalla collana Mirabilia Italiae. La Cappella Palatina a Palermo (Franco Cosimo Panini Editore, Modena 2010), un’opera in quattro volumi, due di Atlante Fotografico, uno di Saggi e uno di Schede, tutti a colori, danno al lettore la possibilità di esplorare tutti gli ambienti della Cappella e di conoscerne i dettagli piú nascosti, le vicende meno note. Un risultato reso possibile grazie a una campagna fotografica di oltre un anno, che ha messo a disposizione di un’équipe internazionale di studiosi immagini inedite e di altissima qualità delle opere d’arte della Cappella, realizzate al termine di un lungo intervento di restauro. Coordinati da Beat Brenk, storico dell’arte e archeologo, gli autori del volume hanno potuto cosí scrivere una serie di interventi che rappresentano lo stato dell’arte delle nostre conoscenze sulla Cappella, la sua storia, le sue funzioni. Tra gli elementi piú importanti che caratterizzano il monumento vanno annoverate le iscrizioni arabe che decorano il suo splendido soffitto, alle quali l’arabista Jeremy Johns ha dedicato un saggio fondamentale di cui riportiamo qui la parte introduttiva: «Sotto il regno di Ruggero e dei suoi successori, le iscrizioni in arabo costituivano parte integrante della decorazione dei palazzi regi. Come altri aspetti della componente araba e islamica dell’arte e dell’architettura eterogenee assemblate da Ruggero e dai suoi ministri, l’epigrafia araba non riprese né proseguí alcuna tradizione locale siciliana fiorita sotto l’emirato dei Kalbiti, ma piuttosto creò un nuovo strumento comunicativo attraverso l’importazione di forme e contenuti dal coevo mediterraneo islamico, impiegato da Ruggero e dai suoi successori per migliorare l’immagine della monarchia e promuovere le sue politiche. Le iscrizioni arabe regie raggiungevano questo scopo attraverso la manipolazione del contenuto e, soprattutto, della forma. Basteranno in questa sede pochi cenni appena per presentare il contenuto delle iscrizioni arabe dei re normanni. A seconda del contenuto, le iscrizioni possono essere divise in tre gruppi differenti. Un gruppo commemora iniziative di costruzione, come l’iscrizione trilingue sull’orologio ad acqua di re Ruggero. Un secondo riunisce i versi di panegirico che un tempo decoravano i palazzi regi, comprese le iscrizioni in opus sectile della Cappella Palatina. Il terzo gruppo consiste di suppliche (ad‘iya) rivolte a Dio perché conceda al re svariate benedizioni, qualità e virtú. Quest’ultimo gruppo è quello che si è conservato meglio, e comprende tutte le

Palermo, Cappella Palatina. Ancora un’immagine, qui più ravvicinata, della copertura lignea della navata centrale. Si può apprezzare l’eccezionale complessità della decorazione, che coniuga la componente plastica, risultante dall’impiego del muqarnas e la componente pittorica, che si stende su ogni superficie. XII sec.

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iscrizioni arabe del soffitto dipinto della Cappella Palatina, oltre all’iscrizione sulla maniglia della porta sud del transetto meridionale. Passando dal contenuto alla forma, pochi tra coloro che videro le iscrizioni arabe nel palazzo di Ruggero, compresi il re stesso e molti tra i suoi ministri e cortigiani, erano in grado di leggerle e comprenderne il contenuto letterario. Per quanto chi non sapeva leggere l’arabo non prestasse attenzione a queste iscrizioni, ne avrebbe potuto leggere solo la forma, non il

A destra Palermo, Palazzo dei Normanni. Iscrizione in tre lingue (latino, greco-bizantino e arabo) posta a fianco della Cappella Palatina che ricorda la costruzione di un orologio idraulico nel 1142, durante il regno di Ruggero II.

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contenuto. Questo non solo perché in pochi avevano una padronanza della lingua e dell’epigrafia arabe sufficiente a decifrare i testi, ma anche perché la maggior parte delle iscrizioni non era facile da leggere nemmeno per chi sapeva l’arabo. Solo le legende arabe sulle monete e alcune iscrizioni monumentali sulle facciate di palazzi regi come la Cuba e la Zisa erano visibili al lettore comune. La forma di queste iscrizioni operava indipendentemente dal loro contenuto per fornire a


Nella pagina accanto, in alto iscrizione funeraria cristiana, in quattro lingue (latino, greco-bizantino, arabo ed ebraico). 1149. Palermo, Palazzo della Zisa, Museo Islamico.

un pubblico variegato un complicato intreccio di messaggi sulla natura della monarchia normanna; questo vale anche per la pseudo-epigrafia che decorava i palazzi regi perché, sebbene non abbia alcun contenuto verbale, trasmette molti di quegli stessi messaggi attraverso l’imitazione della forma delle vere iscrizioni arabe. L’uso dell’arabo in queste iscrizioni regali voleva far intendere come prima, e piú importante, nozione che il re padroneggiava la lingua araba. In realtà, è quasi certo che Ruggero non fosse in grado di

In basso iscrizione funeraria cristiana in tre lingue (grecobizantino, latino, e arabo). 1153. Palermo, Palazzo della Zisa, Museo Islamico.

leggere o scrivere in arabo e che fosse solamente l’uso dell’arabo su monete, documenti e iscrizioni a creare l’illusione che sapesse farlo. Questa abilità era considerata una manifestazione, meravigliosa e potenzialmente minacciosa, del suo potere e della sua autorità. Infatti, Ibn Jubayr, un musulmano spagnolo in visita alla corte di Guglielmo II, scriveva: “Possa Dio proteggere i musulmani dall’inimicizia e dalle doti [del re]. Una delle cose meravigliose che dicono di lui è che legge e scrive in arabo”».

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Storie di una Civitas La fortezza Svevo Angioina di Lucera, acquaforte tratta da Voyage pittoresque Ă Naples et en Sicile di Jean-Claude Richard de Saint-Non. Parigi, 1829.


Sarracenorum Il viaggio sulle orme degli Arabi in Italia si conclude in Puglia, nella Daunia. Qui, infatti, la cittadina di Lucera venne trasformata da Federico II di Svevia in una sorta di colonia «saracena»: una vicenda emblematica dei rapporti di convivenza fra comunità diverse e alla quale si lega anche la misteriosa storia di un’iscrizione scomparsa...

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na sintesi storica sulla presenza islamica in Italia non può non concludersi con un accenno alla vicenda di Lucera, che Federico II di Svevia trasformò appunto in una vera e propria colonia «saracena» a partire dagli anni Venti del XIII secolo. La storia medievale di Lucera è poco documentata prima del 1300. La città è l’unica sede vescovile paleocristiana della Daunia sopravvissuta alla conquista longobarda. Il suo sito eccezionale ne fa un insediamento strategico di prim’ordine. Fin dall’Alto Medioevo, la sua diocesi è particolarmente estesa, chiaramente piú grande di quelle create dai Bizantini dopo il Mille. Ma c’è una grande frattura nella storia medievale della città: si tratta, per l’appunto, dell’episodio saraceno e di quello della sua brutale fine, che ha annientato la documentazione precedente. Di fatto, fra il 1224-1225 e il 1300, Lucera è stata, almeno in gran parte, popolata da musulmani ribelli deportati dalla Sicilia occidentale per volere di Federico II. La «colonia» saracena di Lucera (nota nelle fonti come Civitas Sarracenorum) è stata studiata, all’inizio di questo secolo, da Pietro Egidi, che ha pubblicato il corpus delle fonti dell’età di Carlo II e ha inoltre redatto una sintesi storica di ampio respiro (vedi box a p. 125). La qualità stessa delle sue opere ha, in seguito, distolto la ricerca dall’argomento, ma, in realtà, molto lavoro resta ancora da fare, sia sul piano dell’analisi della documentazione esistente, sia, soprattutto, su quello archeologico. Ma quali furono le motivazioni della fondazione dell’insediamento lucerino? Secondo lo storico Jean-Marie Martin, Federico II intendeva fare della Capitanata la sua residenza principale, trasformandone l’habitat e il paesaggio, affinché rassomigliasse alla regione di Palermo. ARABI

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ARABI IN ITALIA Testa ritratto di Federico II di Svevia in età giovanile. XIII sec. Lucera, Museo Civico «Giuseppe Fiorelli».

L’epilogo

L’insediamento di un gruppo militare devoto, senza legami con l’ambiente locale, si accordava bene con tale compito. Certamente, Lucera conservò anche una popolazione cristiana minoritaria e un vescovo, sebbene la cattedrale fosse già in rovina nel 1238. Durante il regno di Federico II, la comunità musulmana sembra organizzata secondo le proprie norme. Il suo capo è denominato alchadi o archadius, parole che traducono certamente l’arabo qadi («giudice») e non qa’id («capo militare») come riteneva Egidi. In effetti, quest’ultimo termine, ben documentato in Sicilia, viene normalmente trascritto nella forma gaytus, del resto attestata a Lucera nell’età di Carlo I d’Angiò per indicare un altro tipo di magistratura, sulla quale ci soffermeremo nelle pagine che seguono. In uno studio importante e innovativo, da poco

pubblicato, lo studioso tedesco Richard Engl, utilizzando il metodo della social network analysis, ha dimostrato in maniera convincente come la fine dell’insediamento musulmano di Lucera non sia affatto da riconnettere a motivazioni religiose, bensí a gravi problemi di «ordine pubblico» causati da discordie interne alla comunità musulmana che rischiavano di destabilizzare l’intera regione. Vengono cosí confutate le tesi contrapposte di Pietro Egidi – secondo il quale il movente primo ed essenziale della distruzione della universitas Sarracenorum (la comunità dei Saraceni) fu la brama di confiscare i loro beni e di far denaro delle loro persone –, e di David Abulafia, per cui alla base della soppressione di Lucera vi sarebbero state la «pietà» del monarca angioino Carlo II, il suo odio contro Ebrei e musulmani, l’insistenza, in un’epoca di fallite crociate, su una vittoria simbolica contro l’Islam.

Tollerati e protetti

Quest’ultima teoria è peraltro smentita dalla documentazione esistente, dalla quale si evince non solo che Carlo II usò verso i musulmani di Lucera piena tolleranza religiosa, ma soprattutto che lo stesso sovrano, a meno di due anni di distanza dal «pio sterminio», autorizzò la fondazione di una nuova comunità di Saraceni, di ben duecento famiglie, proprio in Capitanata. In vari luoghi del regno si formarono dunque nuovi nuclei di Saraceni, sfuggiti alla strage e alla schiavitú oppure affrancati e vi continuarono a vivere indisturbati, anzi protetti nell’esercizio della loro attività, poiché erano ancora utili al benessere del Paese e alle sempre stremate finanze degli Angioini: Roberto, detto il Saggio, figlio di Carlo II li riconosceva utiles rei publicae e ordinava che fossero tutelati contro quelli che li molestavano. L’annientamento della Lucera islamica fu dunque un’interruzione, una parentesi, nella continua tolleranza religiosa dei due primi Angioini verso i Saraceni: occupata la fortezza e la città, impadronitisi di quanto vi era di buono, venduti i Saraceni, fatti prigionieri, la persecuzione si rallentò e cessò poi completamente. I Saraceni superstiti – e non dovettero essere pochi – non furono costretti alla conversione, anzi furono autorizzati a rimanere musulmani. In effetti, la spiegazione «religiosa» di Abulafia risulta incompatibile con il dato di una consistente e diffusa presenza musulmana in Capitanata anche dopo la dispersione della «colonia» di Lucera; al contrario, l’analisi di Engl è pienamente coerente con tale presenza. Un interessante tassello relativo a questa pre124

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Lucera (Foggia). Uno scorcio della possente cinta muraria della città, munita di numerose torri difensive.

UNA VITA PER I «SARACENI» DI LUCERA Nato a Viterbo nel 1872, Pietro Egidi studiò all’Università di Roma, dove si laureò nel 1892. La sua attività storiografica, ebbe inizio già sullo scorcio dell’Ottocento, quando elaborò alcuni materiali relativi all’ordinamento della milizia regionale romana in età comunale, rettificando le conclusioni alle quali era pervenuto in proposito il grande storico tedesco Ferdinand Gregorovius. Durante il suo lungo soggiorno napoletano, Egidi impresse una svolta alla sua carriera di storico, poiché non solo abbandonò progressivamente le ricerche concernenti la provincia romana per accostarsi alla storia dell’Italia meridionale sotto il dominio angioino, ma, soprattutto, si mostrò sempre piú sensibile alle esigenze di rinnovamento delle metodologie e degli strumenti di indagine poste dalla ormai agguerrita storiografia economico-giuridica, che ebbe in Ettore Ciccotti, Giuseppe Salvioli e Gaetano Salvemini i suoi piú illustri rappresentanti. A Napoli egli redasse il suo celebre studio su La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, pubblicato a piú riprese, fra il 1911 e il 1914, nell’Archivio storico per le provincie napoletane ed edito quindi in volume (Napoli 1915). L’occasione per tale studio gli venne fornita da Giuseppe De Blasiis, fondatore della Società Napoletana di Storia Patria e dell’Archivio Storico Napoletano, dal quale ricevette una gran quantità di documenti e lo stimolo a reperirne altri ancora (ciò che condusse Pietro Egidi a mettere in cantiere il monumentale Codice diplomatico dei Saraceni di Lucera dall’anno 1285 al 1343, pubblicato a Napoli nel 1917). L’efficacia del saggio su Lucera derivava non tanto dalla tesi che vi era sostenuta – secondo la quale lo sterminio della colonia saracena voluta dagli Svevi sarebbe stato perpetrato da Carlo II d’Angiò unicamente con il proposito di rimpinguare le finanze del Regno –, quanto dal considerevole apparato analiticodescrittivo che ne costituiva il supporto in relazione alle condizioni della popolazione dell’Italia meridionale sullo scorcio del XIII secolo.

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L’epilogo

senza e finora non adeguatamente valorizzato è un’iscrizione funeraria (vedi foto alla pagina accanto), le cui vicende costituiscono un piccolo enigma su cui vale la pena di soffermare l’attenzione. Il primo a menzionare l’epigrafe è l’arabista Michelangelo Lanci (1779-1867), che la pubblicò nel suo Trattato delle sepolcrali iscrizioni in cufica tamurea e nischia lettera da’ Maomettani operate. Secondo Lanci, l’iscrizione sarebbe stata rinvenuta «nel suolo di Foggia in Capitanata», e, all’epoca dell’autore, sarebbe stata conservata «fra oggetti di antichità nel museo del Lombardi in Lucera», cioè nella collezione di monsignor Filippo Antonio Lombardi († 1854), discendente di un’illustre famiglia lucerina di storici e antiquari, erudito di chiara fama e appassionato raccoglitore di antichità patrie, soprattutto monete ed epigrafi, che, insieme al fratello Francesco Paolo († 1817), costituí un vero e proprio antiquarium. Lanci scrive che Lombardi avrebbe inviato a Roma una copia in gesso dell’iscrizione, «diligentemente asseguita», che sarebbe stata consegnata all’orientalista da uno dei Lucerini piú eminenti dell’epoca, Onofrio Bonghi, che fu sindaco di Lucera, consigliere di Intendenza a Foggia, sottointendente a Pozzuoli, segretario generale dell’Intendenza di Terra di Bari. Verso il 1840, Bonghi si trasferí a Napoli, ricoprendo anche qui cariche di grande rilievo; membro dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, fu anch’egli un notevole collezionista di reperti archeologici e antichità, tra i quali va almeno menzionato il complesso di bronzetti con figure umane e animali meglio conosciuto come «Carrello di Lucera». La copia in gesso dell’iscrizione permise a Lanci di offrire la sua edizione del testo, su cui avremo modo di soffermarci tra poco.

Ricordi di uno scrittore

Nel 1907, piú di sessant’anni dopo questi avvenimenti, Lucera fu visitata dallo scrittore inglese George Norman Douglas, il quale, proprio all’inizio del suo Old Calabria, pubblicato nel 1915, riporta la notizia secondo cui nel piccolo museo municipale lucerino sarebbe stato conservato un calco di un’iscrizione funeraria araba, dandone anche la traduzione. L’elemento 126

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interessante di questa breve annotazione di Douglas non è tanto la traduzione del testo arabo, basata sulla versione italiana contenuta nel libro di Lanci, quanto l’indicazione che, al tempo della sua visita, nel Museo Civico di Lucera poteva vedersi «a plaster cast» della nostra iscrizione. Da quanto affermato da Douglas, che certo non era in grado di verificare autopticamente che quella custodita nel museo lucerino fosse una copia completa, non è però chiaro se si trattasse di un calco integrale, né, tantomeno, se esso andasse o meno identificato con la copia inviata a Roma da Bonghi. L’iscrizione torna a essere menzionata solo dopo piú di mezzo secolo: nel 1964, viene infatti inclusa nel sesto volume del Répertoire Chronologique d’épigraphie arabe. La scheda a essa relativa è estremamente sintetica e si limita a riportare la parte essenziale del testo, riproducendo, senza alcuna variazione, la lettura di Lanci. Nella bibliografia viene naturalmente citato il Trattato delle sepolcrali iscrizioni, ma anche un articolo dell’orientalista tedesco Gotthelf Bergsträsser, nel quale sono pubblicate due iscrizioni funerarie provenienti dal cimitero del Cairo Vecchio risalenti alla prima metà del IX secolo dell’ègira (XV secolo), che per il formulario e la calligrafia utilizzati possono essere utilmente confrontate con l’epigrafe di Lucera. Elementi che, tuttavia, non sono sufficienti ad avvalorare l’ipotesi, avanzata nella scheda del Répertoire, che il pezzo lucerino possa provenire dall’Egitto.

Una consegna mai avvenuta Piatto in ceramica invetriata realizzato da maestranze saracene a Lucera in epoca sveva. XIII sec. Lucera, Museo Civico «Giuseppe Fiorelli».

La situazione si complica ulteriormente se si legge la breve nota dedicata all’iscrizione da Julie Anne Taylor, autrice della piú importante monografia recente sulla Lucera musulmana, che, nelle poche righe dedicate all’iscrizione, concentra due inesattezze. In primo luogo, attribuisce erroneamente a Lanci l’idea di una provenienza egiziana dell’epigrafe, e poi sostiene che la lapide originale dovette essere stata «evidentemente» inviata al Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» in Roma, ma non fornisce in merito alcuna precisazione, se non quella relativa al fatto che nel museo non v’è traccia di essa. In effetti, chi


scrive, grazie alla preziosa collaborazione di Paola D’Amore e Gabriella Di Flumeri (funzionarie del suddetto istituto), ha potuto riscontrare che l’iscrizione non ha mai fatto parte delle raccolte del museo romano. Anche dalla testimonianza della Taylor, come da quella di Douglas, non si evincono comunque elementi utili sulla natura della «plaster copy» e sull’epoca in cui essa fu eseguita. L’epigrafe è infine menzionata in una recente monografia su Lucera di Giuseppe Staccioli e Mario Cassar, i quali ipotizzano che possa trattarsi «della tomba di un saraceno lucerino, vissuto a Foggia dopo il 1300, e che alla morte ha richiesto di essere ricordato secondo la tradizione musulmana». Nel testo è pubblicata una foto del calco, ma gli autori non si sono resi conto del fatto che si tratta unicamente di un frammento, contenente solo una piccola parte del testo pubblicato da Lanci. Nel corso di un sopralluogo effettuato da chi scrive nel maggio 2013 presso il Museo Civico «Giuseppe Fiorelli» di Lucera – grazie alla cortesia di Italo Maria Muntoni (funzionario della locale Soprintendenza) e del professor Pasquale Favia – si è potuto esaminare il pezzo in questione: non è chiaro se sia un frammento superstite del calco fatto eseguire da Lombardi o se sia parte di una copia prodotta successivamente. Resta da chiarire dove si trovino gli altri frammenti del calco e, soprattutto, la lapide originale. Al momento, purtroppo, sia gli uni sia l’altra risultano irreperibili.

Il testo dell’epigrafe

In mancanza dell’originale, l’edizione del testo dell’iscrizione effettuata da Michelangelo Lanci costituisce un punto di riferimento fondamentale, tanto piú che essa è corredata dall’accurata riproduzione del monumento e dal disegno del «fronte» e del «dorso» dell’epigrafe: la riporto qui, con alcune minime correzioni di refusi. La traduzione è la seguente: «In nome di Dio Clemente e Misericordioso. La pace e la benedizione di Dio siano su Muhammad e sulla sua famiglia. Questo è il sepolcro del qa’id Yahya Al-Bashash, che Dio abbia misericordia di lui. Egli morí nel giorno di sabato a mezzogiorno, il quinto giorno del mese di muharram dell’anno

749 (sabato 5 aprile 1348). Dio abbia misericordia di chi legge ciò». Se la lettura di Lanci è corretta, l’iscrizione appartiene dunque al cenotafio di un qa’id musul-

mano sepolto «nel suolo di Foggia» nel 1348. I quwwad (denominati in latino gayti), che erano originariamente dei comandanti militari, a Lucera si erano trasformati in autorità cittadine che esercitavano un importante ruolo amministrativo. Per usare ancora una volta le parole del piú importante studioso della Lucera «saracena» Pietro Egidi, «evidentemente qui il kaid è un’autorità, è quegli che ha preminenza e governo nella città, il capitano si direbbe in un paese cristiano, cosí come kaid erano chiamati i capitani e i castellani della Sicilia al tempo della conquista (…). Probabilmente, l’arcadio è l’amministratore delle entrate della Curia, il responsabile di fronte al re della riscossione del canone e di ogni altro diritto (…). Ebbe anche attribuzioni militari? Certo il nome conservò l’originario significato di condottiero molto a lungo (…). Ma che dell’arcadio dei Saraceni di Lucera si possa dire altrettanto, non pare». La presenza di un qa’id in Capitanata quasi cinquant’anni dopo la soppressione dell’insediamento musulmano di Lucera, sembra dunque costituire un indizio che conferma il dato della presenza nella regione di comunità musulmane strutturate sul modello lucerino anche dopo l’agosto del 1300. La qual cosa sarebbe stata possibile unicamente nel caso in cui, alla base della distruzione della «colonia», non vi fossero state motivazioni religiose o legate alla mera volontà di saccheggio dei beni dei musulmani. La distruzione di Lucera rappresenta comunque la conclusione di un capitolo importante della presenza islamica sul continente italiano: con essa possiamo dunque far idealmente terminare anche questo breve profilo storico.

Frammento del calco dell’iscrizione funeraria di un qa’id musulmano sepolto «nel suolo di Foggia» nel 1348. Lucera, Museo Civico «Giuseppe Fiorelli». A oggi, si ignora dove possano trovarsi gli altri frammenti della replica e, soprattuto, il manufatto originale.

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L’epilogo

CENNI BIBLIOGRAFICI Sul problema delle conquiste arabe e della strategia messa in campo: Hugh Kennedy, Le grandi conquiste arabe, Newton Compton, Roma, 2008; pp. 65-71; Fred M. Donner, The Early Islamic Conquests, Princeton University Press, Princeton 1981; pp. 96-112; Fred M. Donner, Centralized Authority and Military Autonomy in the Early Islamic Conquests, in Averil Cameron (a cura di), The Byzantine and Early Islamic Near East, III. States, Resources and Armies, Darwin Press, Princeton 1995 (SLAEI, 1); pp. 337-360. Sui musulmani in Sicilia e nell’Italia continentale sono fondamentali: Michele Amari, Storia dei musulmani di Sicilia, I-III, R. Prampolini, Catania 1933-19392; Mohamed Talbi, L’émirat aghlabide (184-296/800-909). Histoire politique, Maisonneuve, Paris 1966; pp. 384-389; Giosuè Musca, L’emirato di Bari. 874-871, Dedalo, Bari 19672, Nicola Cilento, Italia meridionale longobarda, Ricciardi, Milano-Napoli 19712; Francesco Gabrieli, Gli Arabi in terraferma italiana,

Monreale, Duomo. Uno scorcio dell’esterno del versante absidale, decorato con motivi tipici dell’architettura araba. XII-XIII sec.

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in Gli Arabi in Italia, Scheiwiller, Milano 1989; pp. 109-148; Federico Marazzi, Ita ut facta videatur Neapolis Panormus vel Africa. Geopolitica della presenza islamica nei domini di Napoli, Gaeta, Salerno e Benevento nel IX secolo, «Schede Medievali», 45 (2007); pp. 159-202. Vedi anche: Hugh Kennedy, The Muslims in Europe, in The New Cambridge Medieval History, II. c. 700-c. 900, Cambridge University Press, L’EPOPEA DEL CID CAMPEADOR Cambridge 1991; pp. 249-271; Alex Metcalfe, The Muslims of Medieval Italy, Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella Edinburgh University Press, Edinburgh 2009. dell’Ottocento: i pittori Un’ottima e recente sintesi sulla presenza islamicavedutistica in Sicilia ènapoletana quella di Alessandro della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci Vanoli, La Sicilia musulmana, il Mulino, Bologna 2012. collinari declinandoli nelle infinite sfumature di Sulla fine della dominazione islamica nell’isola: Ferdinando Maurici, L’emirato verde, un occhio di riguardo sulle montagne, Centro di documentazione e ricerca percon la Sicilia antica «Paolo per i valori lirici e romantici. Partendo da un disegno realizzato Orsi», Palermo 1987. dalStaccioli vero, gli artisti accostano talvolta al gusto Su Lucera islamica, si veda, da ultimo: Giuseppe e Mariosi Cassar, pittoresco, per dipingere opere che incontrano il L’ultima città musulmana: Lucera, CaratteriMobili, Bari 2012. favore del mercato. Tra quanti hanno immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.

L’EPOPEA DEL CID CAMPEADOR Cava diventa uno dei temi ricorrenti nella vedutistica napoletana dell’Ottocento: i pittori della scuola di Posillipo riprendono i suoi scorci collinari declinandoli nelle infinite sfumature di verde, con un occhio di riguardo per i valori lirici e romantici. Partendo da un disegno realizzato dal vero, gli artisti si accostano talvolta al gusto pittoresco, per dipingere opere che incontrano il favore del mercato. Tra quanti hanno immortalato angoli del borgo nato attorno al monastero figurano Giacinto Gigante, Domenico Morelli, e poi i fratelli Palizzi, Achille Vianelli, Achille Carelli e De Tra il XIX e il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati dalla luce cavese: si sono spinti qui Alinari, Brogi, Mauri, che hanno siglato immagini di forte suggestione. E il XX secolo sono invece i fotografi a rimanere abbagliati.

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VO MEDIO E Dossier n. 22 (settembre 2017) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007 Direttore responsabile: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it L’autore: Marco Di Branco è assegnista di ricerca all’Università di Padova. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina (e p. 14) e pp. 8-10, 11, 13, 17, 19, 24/25, 28, 31-33, 36, 52, 56, 58, 61, 66/67, 68, 80/81, 86, 96, 102/103, 106, 106/107, 112/113, 120 (basso), 127 – Shutterstock: pp. 6/7, 16/17, 38/39, 48-51, 54/55, 62/63, 76/77, 88/89, 98/99, 108-111, 112, 116 (basso), 118/119, 120 (alto), 125, 128/129 – DeA Picture Library: pp. 44/45, 87, 104/105, 124; A. Dagli Orti: pp. 12, 28/29, 30, 101; V. Pirozzi: p. 18; C. Sappa: p. 35; A. De Gregorio: pp. 46/47; S. Vannini: pp. 56/57; Galleria Garisenda: pp. 60/61, 122/123; G. Dagli Orti: pp. 91, 94; Archivio J. Lange: p. 126 – Mondadori Portfolio: Album: pp. 20/21, 52/53, 100/101; Electa: p. 26; Archivio Mozzati/ Luca Mozzati: pp. 70-71, 92; AGE: pp. 74/75; Leemage: p. 76; AKG Images: pp. 79, 82-85, 90 (alto e basso), 116 (alto), 121 – Bridgeman Images: pp. 34, 38, 58/59, 64/65, 114/115 – Marka: Zoonar/Barbara Boens: p. 40; Ivan Vdovin: pp. 42/43; Oliviero Olivieri: pp. 116/117 – Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 41 – British Museum, Londra: p. 69 – Cortesia dell’autore: pp. 72, 73 (basso), 75 – Studio InkLink, Firenze/Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, Roma: pp. 78/79 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais/Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge/Michel Urtado: pp. 92/93 – Cippigraphix: cartine alle pp. 11, 14 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 22/23, 27, 68, 73, 107. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: miniatura raffigurante un manipolo di cavalieri arabi in battaglia, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

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