AP LE OL AN AV NI OR I
DI M C IL
MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E
ALL’ARTE MEDIEVALE MILLE ANNI DI CAPOLAVORI di Furio Cappelli
con una presentazione di Chiara Frugoni
N°25 Marzo 2018 Rivista Bimestrale
€ 7,90
INTRODUZIONE ALL’ARTE MEDIEVALE
INTRODUZIONE
IN EDICOLA IL 17 FEBBRAIO 2018 My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
Dossier
INTRODUZIONE
ALL’ARTE MEDIEVALE MILLE ANNI DI CAPOLAVORI di Furio
Cappelli, con una presentazione di Chiara Frugoni
PRESENTAZIONE 6 I doni del Medioevo L’ARTE NEL TEMPO 10 L’esordio (dal tardo V al X secolo) 15 Lo snodo dei secoli XI e XII 18 Comuni, Stati e signorie (dall’inizio del XIII secolo al primo Trecento) I GRANDI TEMI 24 L’eredità del mondo antico 42 I protagonisti 49 Ricerca e invenzione LE VIE DELLA CREAZIONE 56 Lo sviluppo dell’architettura 64 I mille volti della scultura 72 La pittura: fra tradizione e innovazione LE ARTI MINORI 98 L’oreficeria 106 La miniatura 112 Vetrate, stucchi e intagli GLI SPAZI DELL’ARTE 118 Monasteri, cattedrali e palazzi APPARATI 126 Cronologia 128 Glossario
I doni del MEDIOEVO di Chiara Frugoni
I
l Dossier sull’arte del Medioevo che ci accingiamo a leggere ci aiuta sia a ripercorrere gli eventi storici di un periodo lunghissimo – quasi mille anni –, sia ad ammirare gli straordinari capolavori a questo legati. È anche un valido aiuto per smentire i numerosi pregiudizi che ancora circondano il Medioevo: per esempio, che il Medioevo sia l’epoca dei «secoli bui», o quelli sui terrori dell’anno Mille, sempre risorgenti e applicati anche oggi a svariati contesti. Cominciamo da questi ultimi per sottolineare invece che tali supposti terrori si legano a una grossa novità del Medioevo, pilastro della nostra vita: il poter calcolare il tempo, la capacità di appropriarci con precisione del passato e del futuro. Nel (nostro) anno 525, papa Giovanni I chiese a un monaco nativo nella Scizia, ma vissuto lungamente a Roma, famoso per la sua competenza scientifica (è considerato il fondatore del diritto canonico), Dionigi il Piccolo (il nomignolo lo scelse lui stesso, per umiltà), di calcolare quando dovesse cadere la Pasqua, questione che da tempo divideva le Chiese di Oriente e Occidente. La novità piú importante del lavoro di Dionigi fu un risultato che non era stato però l’obiettivo del nuovo computo. Infatti, nella sua tabella pasquale, Dionigi non fece piú cominciare gli anni dal persecutore dei cristiani, Diocleziano, come si faceva fino ad allora, bensí e assai piú logicamente, dalla nascita di Cristo.
L’errore di Dionigi
Tuttavia, si sbagliò, scegliendo una data troppo avanzata, perché la fissò all’anno 754 ab Urbe condita, 754 dalla fondazione di Roma. La nuova datazione, però, entrò in vigore molto lentamente e, comunque, grazie soprattutto al venerabile Beda, il quale se ne serví nella sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum del 731, diffusa in tutto l’Occidente. Fu dal tempo di Carlo Magno che si cominciò a datare abitualmente dalla nascita di Cristo. Il dotto Dionigi fissò il primo Natale con un margine di errore di almeno quattro anni. È infatti cosa nota che Gesú nacque sotto il regno di Erode il Grande (colui che ordinò la «strage degli innocen6
ARTE DEL MEDIOEVO
Belzebú in un particolare del Giudizio Universale, tempera su tavola del Beato Angelico. 1431 circa. Firenze, Museo di S. Marco.
ARTE DEL MEDIOEVO
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ARTE DEL MEDIOEVO
Presentazione
ti»), morto – secondo gli storici – nel 4 a.C., mentre un altro riferimento è offerto dal censimento indetto da Augusto nell’8 a.C.: in altre parole, secondo questi calcoli, Gesú sarebbe nato tra il 7 e il 4 a.C. Il che significa anche che tutte le paure legate all’anno 2000 (eccettuate quelle del «baco del millennio», legate invece a un problema di datazione interna dei computer) non avevano senso: nel 2000, il 2000 era già passato da qualche anno. E tuttavia il presagio di «Mille e non piú Mille» è ancora ripetuto, efficace sintesi di un disagio diffuso e insieme vago che – oggi – la gente crede risalga al Medioevo e a un tempo ancora piú lontano, il I secolo, quando fu scritta l’Apocalisse, dove (20, 1-3) si dice che Satana sarebbe rimasto legato mille anni, prima di essere di nuovo liberato, sebbene per poco. Tuttavia, né in questo passo, né in alcuna altra fonte biblica ricorre la suggestiva espressione: «Mille e non piú Mille».
Una leggenda dura a morire
La evoca invece Giosuè Carducci nell’inizio a effetto del primo di cinque discorsi dedicati allo Svolgimento della letteratura nazionale. Dopo aver ricordato un insieme di fosche profezie, a cominciare dagli Etruschi, conclude: «Tutti questi terrori, come nubi diverse che aggrappandosi fan temporale, confluirono su il finire del Millennio cristiano in una sola e immane paura. – Mille e non piú Mille – aveva, secondo la tradizione, detto Gesú: dopo mille anni, leggevasi nell’Apocalipsi, Satana sarà disciolto (...). E che stupore di gioia e che grido salí al cielo dalle turbe raccolte in gruppi silenziosi intorno a’ manieri feudali, accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e ne’ chiostri, sparse con pallidi volti e sommessi mormorii per le piazze e alla campagna, quando il sole, eterno fonte di luce e di vita, si levò trionfale la mattina dell’anno Mille!». Cosí «Mille e non piú Mille», una tenace leggenda dei nostri tempi, ci rende umilmente vicini al Medioevo. Anche noi abbiamo i nostri timori, alcuni profondi e incoerenti, che cerchiamo di placare in modi altrettanto irragionevoli, con i ma-
ghi, i guaritori, l’astrologia. Forse una delle ragioni per cui amiamo tanto il Medioevo è perché lo riteniamo l’ambientazione adatta in cui riversare le nostre angosce ritenendo, di nuovo a torto, che fosse stato un tempo dominato dall’irrazionabilità e dalla fantasia al potere, con streghe, folletti e pozioni magiche, e col valore aggiunto di ritenere tutto questo vero, realmente accaduto, ma anche definitivamente passato. I terrori dell’anno Mille sono dunque frutto di una leggenda romantica. C’è solo una fonte medievale che parla di queste paure, ma per smentirle, quella di un monaco dell’abbazia di Saint-Benoît-surLoire: «Mi è stato raccontato che nell’anno 994, a Parigi, alcuni preti annunciavano la fine del mondo». Scrivendo quattro o cinque anni piú tardi, all’immediata vigilia dell’anno Mille, il monaco aggiungeva: «Questi preti sono pazzi. Basta aprire il testo sacro, la Bibbia, per constatare come Gesú abbia detto che mai si sarebbe saputo il giorno, né l’ora». Un altro luogo comune che si sente spesso ripetere, per circoscrivere meglio una notizia, è citare il Medioevo in un’accezione negativa; si parla cosí di barbarie medievali e di torture medievali, ovviamente senza precisare mai a quale momento del lunghissimo Medioevo – un migliaio di anni –, ci stiamo riferendo e come se il secolo appena trascorso, con due guerre mondiali e il nazismo, fossero esempi di un periodo luminoso. Ma anche oggi le atrocità delle guerre e delle torture ci permettono di sentirci distanti da quel remoto passato? «Medioevo, secoli bui» è un’icastica frase di Indro Montanelli che è solo un’efficacissima, dal punto di vista comunicativo, espressione giornalistica. Artisti e artigiani medievali ci hanno invece donato invenzioni importantissime. Facciamo qualche esempio: gli occhiali, la carta, la filigrana, il libro, la stampa a caratteri mobili, i numeri arabi, le note musicali e la scala musicale, l’orologio a scappamento. Le meravigliose opere d’arte che questo Dossier analizza in ogni campo, dall’architettura alla pittura, non solo ci fanno esprimere gioia e ammirazione, ma costituiscono la netta sconfessione di tanti pregiudizi.
Anagni, cattedrale di S. Maria, cripta di S. Magno. Clipeo del catino dell’abside centrale raffigurante l’Agnello Mistico, con sette occhi, sette corna e il libro dei sette sigilli, affresco attribuito al cosiddetto Primo Maestro o Maestro delle Traslazioni. 1225-1250. 8
ARTE DEL MEDIOEVO
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Nell’arco di circa mille anni, i secoli del Medioevo sono scanditi da una vicenda artistica ricca e sfaccettata. Un panorama con forti richiami alla tradizione classica, ma nel quale si moltiplicano, con altrettanto vigore, gli elementi di novità, spesso rivoluzionari
L’esordio
(dal tardo V al X secolo)
L’ARTE NEL TEMPO
N
ell’Umanesimo e nel Rinascimento, la riscoperta del mondo antico aveva fatto risaltare, per contrasto, la diversità, e dunque l’inadeguatezza – in termini di storia e di civiltà – del Medioevo. La nostra percezione dell’età di Mezzo si è assai approfondita e raffinata, e i pregiudizi sull’inferiorità dell’uomo medievale hanno lasciato sempre piú spazio all’entusiasmo per la riscoperta di un periodo che si è dimostrato pregno di vitalità, ricchissimo di fermenti e gravido di conseguenze per il definirsi stesso del modo in cui viviamo. Tuttavia, per quanto possiamo mostrarci rapiti e affascinati dalle oreficerie barbariche, dai castelli, dalle cattedrali e dai grandi centri monastici medievali, rimane un dato di fondo con cui doversi confrontare. Il Medioevo, infatti, nasce sulle ceneri di un mondo che aveva raggiunto livelli ragguardevoli in ogni ambito della cultura e della vita politica e sociale. Ed è inevitabile che, di fronte al Pantheon, al Colosseo, o al cospetto delle pitture delle domus di Pompei, si rimanga colpiti dal fatto che, per secoli, nulla ha potuto eguagliare l’eleganza, l’efficienza e la solidità del mondo antico. Un mondo in cui simili requisiti erano talmente diffusi da essere codificati in una norma a cui ci si doveva necessariamente conformare, se si voleva realizzare qualcosa di degno. Lo si voglia ammettere o meno, quel mondo di giganti si era dissolto. Dopo la caduta di Roma, nessuno sapeva costruire opere insigni come quelle che ancora sopravvivono nel tessuto dell’Urbe, opere cosí vive e po-
tenti che proprio un osservatore del Medioevo, l’inglese maestro Gregorio (XIII secolo), compilando il suo percorso tra le meraviglie della città, nomina quasi di sfuggita le basiliche cristiane, meta di pellegrini da ogni parte del mondo, per lasciare invece ampio spazio alle statue e agli edifici che risalivano all’epoca dell’impero. Erano sopraggiunti i barbari, e tutto era decaduto. Possiamo senz’altro ridimensionare la visione apocalittica della loro venuta, ma la loro presenza, o anche la minaccia della loro irruzione, veniva comunque percepita come un elemento di rottura nei riguardi di strutture ed equilibri consolidati, lasciando spazio all’incertezza se non all’angoscia.
Una spada come bandiera
Basterebbe pensare alle parole dure che papa Gregorio Magno (590 circa-604) dedica talvolta ai «suoi» Longobardi. Essi avevano chiuso a tenaglia la città di Roma e un corridoio esteso fino a Ravenna, quando entrambe le città erano ancora formalmente incluse tra i domini di Costantinopoli, ultimo presidio della romanità imperiale. Ebbene, in un momento di particolare amarezza, Gregorio si definisce «vescovo non dei Romani, ma dei Longobardi, [un gregge] la cui bandiera bianca è la spada e i cui gesti di buona volontà assumono la forma di atrocità». D’altronde, si rimane ben piú impressionati da un’iscrizione graffita nella seconda metà del VI secolo, e oggi conservata nel Museo Archeologico di Zagabria, nella quale un atterrito testimone invoca la protezione di-
vina di fronte al tumulto che sta per investirlo: «Cristo Signore! Aiuta la città, scaccia gli Àvari, proteggi le terre romane e colui che scrisse queste righe, amen». L’ignoto testimone, proprietario di una casa a Sirmium, città della Pannonia non lontano dall’attuale Belgrado (Serbia), assisteva impotente a un assedio che sarebbe durato tre anni. Le sue preghiere rimasero inascoltate, perché nel 582 l’imperatore Tiberio I Costantino gettò la spugna, e le truppe degli invasori irruppero in città. Dopo aver subito questo trauma, l’an-
tica Sirmium non si riprese piú, e quell’iscrizione graffita in greco da un suddito dell’impero fu l’ultima voce a lasciare il ricordo di una terra che era appartenuta a Roma. Dapprima fu l’Urbe propriamente detta a conquistare quella regione, e infine la nuova Roma sul Bosforo, Costantinopoli, aveva mantenuto la dominazione finché fu possibile. E, nonostante le gravi perdite territoriali che l’impero d’Oriente subí, soprattutto nel VI e nel VII secolo, sotto il fuoco di Goti, Àvari, Persiani e Arabi, la città fondata da
Costantinopoli, (oggi Istanbul, Turchia), Santa Sofia. Mosaico della porta di accesso al nartece della basilica con la Madonna in Trono col Bambino, affiancata da Giustiniano (che offre la chiesa) e da Costantino (che offre la città). X-XI sec.
ARTE DEL MEDIOEVO
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L’ARTE NEL TEMPO
L’esordio A sinistra San Gregorio Magno, tempera su tavola trasportata su tela di Antonello Da Messina. 1470-1475 circa. Palermo, Palazzo Abatellis, Galleria Regionale della Sicilia.
Già ai tempi di Eraclio (610-641) questo Stato aveva assunto una propria connotazione, adottando il greco come lingua ufficiale (fino a quel momento il sovrano era ancora imperator, dopo di allora si adottò il corrispettivo ellenico basileus). Divenne cosí l’impero bizantino propriamente detto, ma continuò a professare la propria qualifica di erede diretto della Roma antica.
«Voi non siete romani...»
Costantino Magno preservò il suo ruolo di capitale fino alle soglie dell’età moderna (1453). Rispetto all’imperium che Giustiniano poté restaurare, con una vastità che restituiva un bagliore della Roma di Traiano o di Settimio Severo, l’impero di Costantinopoli si ridusse enormemente nel giro di pochi decenni. Tuttavia, grazie all’inviolata maestosità della capitale, che non subí alcuna irruzione fino al 1204, quando l’esercito crociato interruppe – sia pure per pochi decenni – la continuità di uno Stato che perdurava ormai da 900 anni, quell’impero mantenne con vigore e con appassionata convinzione il senso di un’identità incorruttibile, tanto piú preziosa quanto piú mantenuta entro i vincoli di una sacrosanta tradizione. 12
ARTE DEL MEDIOEVO
Nel 968, quando Liutprando, vescovo «longobardo» di Cremona, si presentò alla corte del sovrano bizantino Niceforo II Foca (963-969) in veste di ambasciatore dell’imperatore germanico Ottone I (962-973), venne duramente apostrofato riguardo a tale «questione ereditaria». Niceforo in persona si rivolse infatti a Liutprando e tuonò: «Voi non siete romani, voi siete longobardi!». Stando al sovrano bizantino, l’impero risorto in Occidente con il franco Carlo Magno e tornato poi in auge con i sassoni Ottoni, non aveva niente a che fare con Roma, ma era emanazione di quei barbari che a Roma si erano sostituiti. Liutprando replicò con altrettanta retorica, affermando che i barbari erano migliori dei Romani. Nessuna popolazione germanica aveva infatti l’onta di avere come capostipite un Romolo, che fondò la città sul Tevere mettendo insieme un’accolita di sbandati e di briganti. Cosí facendo, il «barbaro» Liutprando rivendica una purezza, una semplicità naturale che si riallaccia all’idea stessa dei Germani che traspare
matici che minarono un vasto sistema politico ed economico, rimasto pressoché indisturbato fino a tutto il IV secolo. Vi erano già stati momenti di flessione, soprattutto dopo la fine della dinastia dei Severi – che, a giudizio di molti storici, segna l’inizio del tardo-antico e il lento progredire di una crisi che marchiò profondamente l’impero nel corso del III secolo –, ma anche se non furono raggiunti gli apici di attività economica e di espansione militare del passato, l’assetto generale dell’impero rimase pressoché stabile.
Costantino, imperatore «cristiano»
dall’opera dello storico Tacito. Al tempo stesso, però, ribalta il luogo comune del barbaro come essere incolto, ingordo e distruttivo. Per Tacito, l’essenza primitiva del barbaro era anche e soprattutto l’elemento ideologico che giustificava la sopraffazione e la conquista da parte del mondo civile impersonato da Roma. Per Liutprando, invece, proprio quella purezza ha permesso ai barbari di dare una forma e una vitalità nuove a un mondo che rischiava di diventare come la Costantinopoli di Niceforo: rigida, opprimente, polverosa, decaduta. In realtà, né la capitale, né il suo sovrano erano cosí deprimenti come il polemico ambasciatore li raffigura. Lo stesso Liutprando era stato in missione in quella città pochi anni prima (949), e ne era rimasto folgorato. C’era infatti da rimanere a bocca aperta quando, nei rutilanti ambienti della reggia (il Sacrum Palatium), si assisteva a generose elargizioni di denaro, a prodigi scenici come quelli offerti dai marchingegni che sfruttavano raffinate conoscenze di idraulica, per non dire delle esibizioni degli acrobati o dello splendore delle stoffe policrome istoriate intinte nella porpora, una sostanza rara e talmente esclusiva da essere divenuta un elemento distintivo della dinastia regnante. In Occidente si assisteva a un altro scenario, per effetto di una situazione che si era fatta difficile già prima del 476. La conquista della capitale Ravenna da parte del goto Odoacre fu solo uno dei molti episodi trau-
La grande novità che trasformò l’impero all’inizio del IV secolo fu semmai l’editto di Milano promulgato da Costantino Magno nel 313. Beninteso, come ha puntualizzato, tra gli altri, Paul Veyne, quell’editto era in realtà una «lettera circolare» che diffondeva un provvedimento già adottato da Galerio, ultimo persecutore dei cristiani. Tuttavia, Costantino nutriva una predilezione particolare per il dio dei cristiani, tanto da attribuire a lui il merito per la vittoria conseguita su Massenzio a Ponte Milvio. Lo stesso imperatore, pur non essendo battezzato, legò il proprio nome alla fondazione di basiliche che costituiscono ancora oggi il solido tessuto di base della devozione e dell’immagine universale del cristianesimo: la cattedrale romana di S. Giovanni in Laterano, S. Pietro in Vaticano, il Santo Sepolcro di Gerusalemme, per citare solo le realizzazioni piú celebri, tutte radicalmente trasformate nel corso del tempo. Il cristianesimo si avviò rapidamente a giocare un ruolo essenziale. E un brillante storico come Edward Gibbon (1737-1794) ha ravvisato proprio nella nuova religione del dio unico la principale causa della decadenza di Roma. In realtà,
Sulle due pagine modello ricostruttivo ipotetico della città romana di Sirmium (l’attuale Sremska Mitrovica in Serbia). In basso la personificazione della città di Costantinopoli in un particolare di una coppa in oro di fattura bizantina. VI sec.
L’ARTE NEL TEMPO
L’esordio
i fattori che determinarono il declino dell’Occidente furono di natura politica e militare, con conseguenze sempre piú marcate nell’economia e nella società. Lotte di potere e invasioni barbariche sono senza dubbio alla base di questo tracollo. La nuova fede, semmai, ebbe un carattere dirompente negli sviluppi dell’arte e del pensiero, determinando una diversa visione del mondo, e dirottando risorse verso la devozione privata e collettiva propiziata dal nuovo credo. Tuttavia, anche se taluni templi pagani chiudevano i battenti o se, nelle province, erano oggetto di atti «vandalici» a danno delle statue degli antichi dèi, Roma manteneva la sua tenuta, ed ebbe proprio nel «pio» Costantino uno dei suoi piú memorabili sovrani. Non mancò chi, all’epoca, ravvisò un rapporto di causa e di effetto tra il trionfo del cristianesimo e il traumatico saccheggio di Roma da parte di Alarico (410), ma sant’Agostino ebbe buon 14
ARTE DEL MEDIOEVO
In alto miniatura raffigurante Ottone I incoronato dalla Vergine, dal Sacramentarium Episcopi Warmundi. Ivrea, Biblioteca Capitolare. X sec. A sinistra lastra funebre dell’abate Cumiano, realizzata dal lapicida Giovanni per volere di re Liutprando. 712-744. Bobbio (Piacenza), Museo dell’Abbazia.
gioco nel rispondere che quella che contava non era la Roma storica, la città terrena. Occorreva infatti prepararsi per giungere al cospetto di Dio nella sua corte celeste, in quella città immateriale e incorruttibile che era la meta di ogni credente: Roma poteva decadere, ma il cristianesimo continuava a trionfare. La nuova fede forniva una solida sponda al potere sovrano, ma era anche libera da un legame identitario con lo Stato. Chiunque, purché battezzato, poteva aspirare alla Gerusalemme celeste e ciò permise al cristianesimo di garantire una continuità alla realtà storicoculturale di Roma, offrendo a tutti i nuovi dominatori di origine germanica una chiave di accesso a quella eredità. Il grande esperimento di Teodorico a Ravenna (493-526), che rinvigorí un’idea di romanità in tutto l’Occidente facendo tesoro dell’esperienza maturata a Costantinopoli, rappresenta cosí il primo barlume di quella sintesi di esperienze che sul lungo periodo, partendo da basi sempre piú difficili e deteriorate, pose le premesse alla nascita di un nuovo mondo. L’idea di Roma permea l’azione di un sovrano longobardo come Liutprando (712-744), tanto che le sue realizzazioni hanno fatto pensare a una rinascita delle arti, e lo stesso Carlo Magno, dopo aver sconfitto proprio i Longobardi, fu, in definitiva, l’erede e il piú fortunato propagatore di queste esperienze.
Lo snodo dei secoli XI e XII
L’
anno Mille rappresenta nella sensibilità comune un momento-chiave o un punto di svolta nella storia europea. Secondo molti storici e letterati del romanticismo ottocentesco, il Mille era considerato dai contemporanei come il momento in cui si sarebbe verificata nientemeno che la fine del mondo, e questo sull’autorità dell’Apocalisse di Giovanni: «Trascorsi i mille anni, Satana verrà sciolto e uscirà dalla sua prigione a sedurre le nazioni che sono ai quattro angoli della terra…». Di conseguenza, tutta l’umanità sarebbe stata in attesa della catastrofe. Stando al cronista Sigeberto di Gembloux (inizi del XII secolo), proprio nel 1000 si verificò una serie di terremoti devastanti e apparve in cielo una grande cometa. Nel vederla – cosí recita un’aggiunta del XVI secolo – molti «credettero fosse l’annunzio dell’ultimo giorno». Ma Satana non si fece vedere e i terrori dell’anno Mille si dissolsero, cosicché gli uomini poterono riprendere il loro cammino, guidati dalla fioca luce di un’alba incerta. Si tratta senz’altro di una visione suggestiva che ha goduto di una grandissima fortuna, ma le fonti narrative dell’epoca ci presentano un quadro diverso. Come ha rilevato in particolare Georges Duby (1919-1996), la discussione sulla fine del mondo era senz’altro viva, ma rappresentava un tema d’obbligo in una visione della storia tutta votata al compimento dei tempi, specialmente in ambiente monastico. La fine del mondo sarebbe giunta, ma nessuno poteva sapere con certezza quando si sarebbe compiuta. Bisognava forse contare dalla morte di Cristo? Se cosí fosse, l’anno fatidico era il 1033? Non doveva poi trattarsi, necessariamente, di una catastrofe subitanea. Tra la venuta dell’Anticristo e il giudizio finale poteva esserci un lungo lasso di tempo. L’anno Mille, in ogni caso, suscitò sicuramente interesse e timore, come testimonia la Cronaca del monaco cluniacense Rodolfo il Glabro (985 circa-1050 circa). La sua visione del periodo è basata proprio sulla lettura di segni e di prodigi in vista di un evento epocale: dapprima si addensa l’ombra del peccato con uno strascico di castighi divini, poi, sempre piú definiti, si delineano i contorni di una primavera del mondo. In definitiva, il Mille individua un momento simbolico nell’arco di un ampio periodo, tra la
fine del X e gli inizi dell’XI secolo, in cui effettivamente si compí un trapasso graduale, ma inarrestabile, verso una nuova fase storica. È lo snodo o il momento centrale del periodo che chiamiamo Medioevo. Sul piano politico, gli Ottoni riportano in auge il Sacro Romano Impero, che suggella un’alleanza matrimoniale con Bisanzio grazie alle nozze di Ottone II con la principessa Teofano. Torna in primo piano il desiderio di ricreare i fasti della prima intesa tra impero e cristianesimo, quando regnava Costantino e quando papa Silvestro sedeva sulla cattedra di S. Pietro. In questa fase storica la spinta al rinnovamento non si esaurisce però nel quadro della ideologia imperiale e investe l’intera società a ogni livello.
Segnali di ripresa
Superata la lunga fase di stagnazione che ancora affliggeva l’Occidente all’epoca di Carlo Magno, e dissoltosi ormai l’incubo delle invasioni, si era infatti creato il presupposto naturale per una ripresa su larga scala delle attività produttive e commerciali. Il segnale fondamentale è dato in tal senso dallo sviluppo di un’agricoltura che può giovarsi di una maggiore sicurezza e di un’organizzazione territoriale saldamente incardinata intorno ai castelli e ai centri monastici. Il paesaggio stesso si modifica: i centri abitati si ampliano e si edificano in modo piú accurato, i capisaldi del territorio si fanno sempre piú evidenti e, per effetto dell’ampliamento delle colture, gli spazi prima assorbiti da una natura preponderante vedono sempre piú il ritorno dell’attività umana. Il lungo assopimento delle città sembra interrompersi quasi d’incanto e le situazioni piú sconvolgenti si osservano in Italia. Città di antica fondazione, ma dall’estensione davvero esigua per tutto l’Alto Medioevo – sia costiere (Genova, Pisa), sia nell’entroterra (Firenze, Bologna) –, raggiungono nel XII secolo lo status di metropoli illustri. D’altro canto quella curiosa gente appollaiata in un arcipelago di isole sull’alto Adriatico, e che, come notava Cassiodoro (490 circa-583 circa), usava la barca al posto del mulo, dette vita nel giro di pochi decenni a Venezia, una delle piú potenti città europee. Questa vigorosa accelerazione si spiega con il ruolo sempre piú preponderante dei mercanti italiani nel Mediterraneo, dove la lunga egemonia dell’Islam venne sensibilmente ridimensionata. Si arrivò al punto che il Mare nostrum poteva essere definito un «lago italiano». L’egemonia marittima conseguita sul piano commerciale fece presto da sponda all’avventu-
Le insegne imperiali del Sacro Romano Impero germanico, da sinistra: la corona imperiale, la spada, la croce imperiale e il globo imperiale. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Schatzkammer.
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ra crociata. Non a caso, le potenti città marinare di Pisa e di Genova ebbero, sin dall’inizio, un ruolo fondamentale nel piano di «riconquista» della Terra Santa. La presa di Gerusalemme (1099) venne interpretata come una svolta epocale, ed ebbe ripercussioni psicologiche e culturali di vasta portata in tutto l’Occidente. In meno di 200 anni tutti i domini d’Oltremare andarono perduti, ma in quella fase storica si rafforzò un sentimento di appartenenza a un’epoca privilegiata, una sorta di «età dell’oro», in cui l’Eterno aveva stabilito una fruttuosa alleanza con i suoi sudditi terreni. Come annota Rodolfo il Glabro, segno inequivocabile di ciò era il miracoloso e incessante riemergere di sante reliquie in ogni dove. I pellegrini, sempre piú numerosi, si muovevano soprattutto lungo le strade che conducevano a Roma e sulle rotte verso la Palestina, ma ogni regione vantava una costellazione di santuari, e ogni chiesa piccola o grande era investita da un’esigenza di abbellimento e di ingrandimento.
Nella pagina accanto miniatura dal Beatus di Girona raffigurante le locuste dell’Abisso che colpiscono gli uomini. 975. Girona, Museo Capitolare.
La «candida veste»
Da tanto fervore prende spunto la famosa metafora del predetto Rodolfo: sembrava che il mondo avesse cancellato la sua patina di vecchiume, rivestendosi di una «candida veste» di chiese. Molto si è dibattuto su quella veste, poiché spesso vi si coglieva un riferimento al biancore dei paramenti esterni delle chiese, che, proprio in questo periodo e quasi coralmente, assumevano connotati precisi grazie all’utilizzo della pietra da taglio. Si è allora controbattuto che le aule sacre erano in realtà ricolme di decorazioni policrome, e che il connotato del biancore non valeva per tutti i tipi di pietra impiegata, né teneva conto di una sensibilità cromatica evidente anche sulle pareti esterne. A ben vedere, l’immagine di Rodolfo non ha nulla di «illusionistico», non rappresenta cioè la realtà in una sorta di fotografia, ma si riferisce semplicemente, in chiave simbolica, alla «veste candida» di lino indossata dal battezzato non appena si conclude il rito di purificazione. Se, dunque, l’intero Occidente si ricopre di chiese, è perché il mondo sente l’esigenza di un rinnovamento, ed è ostinatamente alla ricerca della gloria eterna. Lo stesso impulso purificatore guidava la rifor-
In alto particolare dell’evangeliario d’oro di Enrico III (Codex aureus Epternacensis) in cui è raffigurata la Madonna in trono nella cattedrale di Spira, tra l’imperatore, nell’atto di offrirle il codice e la regina Agnese. 1050 circa. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.
ma della Chiesa, animata dal desiderio di un ritorno a quella vagheggiata comunità cristiana delle origini, che osservava in modo convinto e coerente i precetti evangelici, con il rifiuto della gloria e delle ricchezze terrene. L’anelito alla povertà poteva essere utilmente condiviso, perché se imponeva ai religiosi obblighi personali chiari e severi, non escludeva affatto l’ampliarsi e l’estendersi dei patrimoni delle comunità ecclesiali. Quelle ricchezze, infatti, erano gestite dai religiosi, ma appartenevano ai singoli santi, ai quali i rispettivi episcopati e monasteri erano dedicati. E tanto piú quelle istituzioni erano ricche, maggiore era la loro capacità di assistere poveri e diseredati. In assenza di Stati ben organizzati sul territorio, e in presenza di un impero senza capitale – che svolgeva la sua azione attraverso intense relazioni con gli innumerevoli poteri locali –, signorie feudali, monasteri ed episcopati furono a lungo i grandi protagonisti della storia politica dell’Occidente. E il ruolo chiave della Chiesa nella società del tempo fu ben percepito dall’imperatore salico Enrico III (1046-1056). C’era stato un lungo periodo di anarchia, in cui troppo spesso i capisaldi religiosi erano finiti sotto il controllo di potenti famiglie signorili. Roma stessa, per lungo tempo, rimase in mano a un clan che manovrava l’elezione del papa. Per evitare simili situazioni, il sovrano intervenne personalmente sulla scelta dei nuovi pontefici, e dette cosí inizio a quel processo di riforma che mirava a consolidare la costellazione dei capisaldi religiosi dell’impero. Facendo in modo che questi ultimi si attenessero a precisi parametri disciplinari, si impediva la dispersione dei patrimoni e si poteva fare affidamento su istituzioni solide, ben organizzate e ben ramificate in ogni territorio, requisito fondamentale per un impero preso dal costante impegno di mantenere ed estendere la rete dei propri referenti e sostenitori. Enrico non poté minimamente presagire che quella riforma avrebbe finito per asserire l’autonomia di una Chiesa sempre piú potente, con un papa che rivendicava sempre piú il crisma della propria autorità sovrana, in aperta polemica con il potere imperiale. E fu proprio il figlio di quel sovrano, Enrico IV (1084-1105), a dover sostenere per primo l’impatto con questa conflittualità imprevista. ARTE DEL MEDIOEVO
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L’ARTE NEL TEMPO
Comuni, Stati e signorie
Comuni, Stati e signorie
(dall’inizio del XIII secolo al primo Trecento)
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ella campagna umbra, non lontano da Assisi, un giovane penitente entrò in una piccola chiesa abbandonata e, vedendo un grande crocifisso dipinto, rimase come folgorato. Avrebbe poi raccontato che quell’immagine lo aveva talmente impressionato da sembrargli vera. Quel Cristo che lo guardava fisso si tramutò in una visione: parlò a quel giovane – un ricco borghese che aveva tentato invano di intraprendere il mestiere delle armi –, e lo spinse a restaurare quell’edificio. Cosí facendo, lo convinse ad abbracciare con gioia i duri precetti del Vangelo, alla lettera, fino in fondo e senza alcun tentennamento. Francesco seguí quella chiamata, si mise al servizio del piú potente dei signori, e divenne ben presto una delle figure piú amate del cristianesimo di tutti i tempi. Il miracolo del crocifisso di S. Damiano non rivela soltanto il potere fascinatore di una solenne immagine sacra, ma mette in scena il confronto tra un’opera d’arte di solido impianto tradizionale e un uomo in carne e ossa del proprio tempo. E proprio quel miracolo verrà raffigurato da Giotto nel complesso delle Storie francescane di Assisi, nell’ambito dell’impresa che segna proverbialmente la nascita della pittura italiana. C’è tutto un complesso di aspetti che crea un prodigioso gioco di incastri intorno a san Francesco e al celebre ciclo pittorico di Assisi. Quest’opera, infatti, parla un linguaggio nuovo, e proprio l’Assisiate, con il suo Cantico di Frate Sole, aveva scritto la prima pagina della storia della letteratura italiana, e aveva dato della natura una visione che la esaltava per quello che era, senza scorgervi un riflesso di mondi invisibili. Dante, che del volgare è stato il primo trattatista e che in quella lingua ha scritto il suo poema, proprio nella Commedia (Purgatorio, XI, 94-96) racconta dei diversi destini che erano toccati a due pittori d’ingegno: l’uno, fedele ai canoni di uno stile reso solido e autorevole da una tradizione che sembrava indiscussa; l’altro, pronto a recepire l’esigenza di una svolta. 18
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In basso particolare di una tavoletta o coperta di biccherna raffigurante il Duomo di Siena. XIV sec. Siena, Archivio di Stato.
Nella pagina accanto La preghiera dinanzi al Crocifisso di san Damiano, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
Quei due pittori, entrambi fiorentini, erano Cimabue e Giotto, ed entrambi ebbero modo di lavorare nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, in due spazi e in due momenti distinti: Cimabue nel transetto, su commissione di papa Niccolò III (1277-80); Giotto nella navata, dietro l’impulso se non con la diretta committenza di papa Niccolò IV (1288-92). Le parole di Dante trovano cosí immediato riscontro nella realtà tangibile del monumento, dove due approcci di segno assai diverso si contrappongono in modo sorprendente, a tal punto che si rimane increduli al pensiero che tra quei complessi pittorici sia intercorso un solo decennio o poco piú. Dietro quel passaggio di testimone ci sono lo stesso fermento e la stessa inquietudine che avevano guidato le scelte di vita di Francesco. C’è un mondo ormai incardinato intorno alle città, le cui magistrature hanno dato vita all’istituzione comunale. In quelle città c’è gente nuova che scalpita per acquisire gli spazi che erano in passato una prerogativa della nobiltà. Il padre di Francesco, Pietro di Bernardone, ricco mercante di panni, aveva soldi in abbondanza, ma non gli bastavano per sentirsi realizzato. Per garantire al figlio primogenito l’entrata nell’élite, finanziò ben volentieri le sue aspirazioni nel mondo della cavalleria.
Il ruolo delle città
Le città sono ormai i cardini sui quali si concentra ogni attenzione e in cui si addensa ogni attività di primo piano, in qualsiasi ambito. Il monachesimo benedettino, da secoli presenza chiave su tutto il territorio europeo, conosce l’ultima grande stagione del suo sviluppo grazie al movimento cistercense propiziato da san Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Ma la devozione popolare, insieme a larghi spazi dell’attività intellettuale, trova il suo punto di riferimento in città, nei conventi degli Ordini mendicanti, le cui ampie chiese gareggiano per importanza con le cattedrali. Riguardo a queste ultime, si era esaurito il ruo-
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L’ARTE NEL TEMPO
Comuni, Stati e signorie
lo del vescovo come autorità «supplente», con prerogative di potere pubblico, come si poteva riscontrare all’epoca in cui il Comune non si era ancora affermato. Per tutto il Duecento, la spinta verso il rinnovamento della principale chiesa cittadina non veniva perciò dall’istituzione religiosa, ma dall’intera comunità, grazie, per esempio, alle esigenze di distinzione delle arti e delle corporazioni dei mestieri. Nel caso particolare di Napoli, la nuova capitale del regno di Sicilia, la cattedrale dell’Assunta viene fondata ex novo nel 1294 presso la basilica costantiniana di S. Reparata. L’iniziativa parte dal clero, visto che il principale protagonista dell’impresa è l’arcivescovo Filippo Minutolo, ma re Carlo II (1285-1309), finanziando e sostenendo il progetto, se ne appropriò proclamandosi unico committente dell’opera. D’altronde, le cattedrali gotiche francesi sono essenzialmente emanazioni di una società laica, e vedono spesse volte l’intervento diretto dell’autorità regia. La casistica italiana si differenzia, tuttavia, per la scarsa incidenza che ebbe il rinnovamento architettonico nello sviluppo delle arti del periodo. Di fatto, se vogliamo osservare esempi compiuti di architettura duetrecentesca, dobbiamo soprattutto rivolgerci alle chiese mendicanti, che respingevano per definizione lo sfarzo delle cattedrali, sia sul piano strutturale che sul piano ornamentale.
Un progetto roboante
Furono poche, al confronto, le cattedrali rinnovate in questo periodo, e spesso videro una vicenda edilizia lunga e ingarbugliata, magari trovando compimento in età moderna. Siena, come Orvieto, vide il nascere e il compiersi della propria nuova cattedrale entro i limiti del Medioevo, grazie anche alla relativa precocità del suo cantiere. Ma un progetto roboante, nel 1339, volle che quell’edificio fosse trasformato 20
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nella piú grande chiesa della cristianità. Il tempio fin lí realizzato (il «Duomo vecchio») doveva divenire nientemeno che il transetto del gigantesco edificio. L’opera fu intrapresa, ma venne abbandonata, ponendo cosí anche Siena nell’elenco delle cattedrali incompiute del Basso Medioevo, insieme a Firenze e a Milano. Nel caso del capoluogo toscano, proprio il fatto che S. Maria del Fiore trovò compimento alle soglie del Rinascimento, con la cupola del Brunelleschi, assume un significato particolare. Un filo rosso, infatti, lega con impressionante continuità e progressione il battistero romanico di S. Giovanni (1118-1150), la nuova cattedrale progettata da Arnolfo di Cambio (iniziata nel 1294) e il capolavoro del Brunelleschi (iniziato nel 1420). L’esigenza di ricerca e di distinzione, di pari passo a una crescita demografica ed economica sempre piú vistosa, qualifica in modo coerente ciascuna di queste tre realizzazioni, tese tra il XII e il XV secolo, e mostra come la culla del Rinascimento poté dare luogo a quella travolgente riscoperta de-
In alto, a sinistra Firenze. La cattedrale di S. Maria del Fiore, con la cupola realizzata da Filippo Brunelleschi. XV sec. In alto, sulle due pagine Effetti del Buon Governo in città, particolare dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Siena, Palazzo Pubblico, Sala della Pace. Nella pagina accanto Siena, Palazzo Pubblico. Uno scorcio della Sala della Pace, affrescata con il ciclo Allegoria del Buono e del Cattivo Governo e i loro Effetti in Città e in Campagna, di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339.
gli antichi grazie a una lunga vicenda artistica e culturale, che, sin dall’inizio, aveva guardato alla romanità come a una determinante fonte ispirativa. Chi progettò il battistero ebbe modo, tra l’altro, di studiare attentamente il Pantheon (sin dal VII secolo in funzione come chiesa di Santa Maria ad martyres), e la sua opera risultò talmente ambiziosa e accurata nei dettagli che gli ingegni stessi del Rinascimento identificarono il «bel San Giovanni» con un leggendario monumento dell’antica Florentia, il tempio di Marte.
Le forme del potere
Di fianco ai prodigi della città comunale di maggiore risalto, capitali di se stesse (le si definiscono infatti città-repubblica o città-stato), l’Italia si presenta ormai punteggiata da realtà politiche ben definite e organizzate. Ci sono gli Stati di impronta monarchica come il regno di Napoli in mano agli Angiò. C’è il caso particolare dello Stato della Chiesa, punto culminante in termini politico-amministrativi della ARTE DEL MEDIOEVO
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L’ARTE NEL TEMPO
Comuni, Stati e signorie
tenace difesa e propugnazione delle prerogative papali. E poi ci sono le signorie, allorquando l’organizzazione comunale della città lascia spazio a una dominazione di tipo «tirannico». Dante vedeva queste forme di governo sotto una luce sostanzialmente negativa, e il termine stesso «tiranno» innesca subito la naturale sensazione che qualcosa venga imposto alla comunità in modo prepotente e vessatorio.
Governi a confronto
Le Allegorie del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti (1338-39), dipinte nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena, propongono la contrapposizione manichea tra il governo di tipo consociativo, che è l’essenza dell’esperienza comunale, e il governo signorile, presentato come un orrido spettacolo infernale. In realtà, non c’era una repulsione diffusa a priori per le forme di governo di tipo personale. C’era, semmai, il ricordo di personaggi che, dopo aver assunto la signoria su un territorio, avevano dato prova di una ferocia e di un’avidità senza freni, come Ezzelino III da Romano (1194-1259). L’allegoria del Lorenzetti, poi, nasconde una situazione contingente ben precisa, opponendo il regime di Siena a un governo tirannico come quello condotto da Vanni degli Abati del Malia a Grosseto, città che Siena stessa tentò di conquistare. Come risulta da una recente rilettura della studiosa Bianca Maria Dessí, Lorenzetti non asserisce quindi che la tirannide sia da respingere in principio, ma intende riferirsi a situazioni e a personaggi ben definiti, giustificando tra l’altro la politica militare del regime dei Nove. Proprio il ricordo funesto di Ezzelino da Romano sembra d’altra parte aver ispirato la tremenda personificazione dell’Ingiustizia nella Cappella degli Scrovegni, a Padova (1303-05). E il suo committente, Enrico Scrovegni, aveva affidato a Giotto quell’incarico di cosí grande impatto nello scenario padovano in vista di una sua possibile ascesa al governo signorile della città. Come ha chiarito Chiara Frugoni, la sua non era un’opera di espiazione, ma un vero e proprio atto di autopromozione sociale. Anche grazie ai duri giudizi dell’Alighieri, una leggenda nera, per dirla con lo storico Salvatore Tramontana, aleggia sugli Angiò, «rei» 22
ARTE DEL MEDIOEVO
peraltro di aver sconfitto gli eredi del monarca svevo Federico II. Sembra anzi che l’enorme notorietà di Federico e delle sue imprese in campo architettonico (basti pensare a Castel del Monte o alla Porta di Capua) annulli tutto ciò che si è compiuto dopo di lui nelle terre del regno. In realtà già Carlo I (126685), e in particolar modo suo figlio Carlo II e il nipote Roberto (1309-43), fecero della nuova capitale, Napoli, un fulcro di cultura e uno scenario di grande fervore edilizio. Passando in rassegna i nomi degli artisti che hanno prestato servizio presso la corte partenopea, si evidenzia infatti un chiaro aggancio agli indirizzi piú avanzati delle arti figurative del tempo: Pietro Cavallini, Giotto, Simone Martini in pittura; Arnolfo di Cambio e Tino di Camaino in scultura. Il panorama si fa ancor piú complesso e intrigante se ricordiamo la presenza di Boccaccio a Napoli o l’incoronazione di Francesco Petrarca propiziata dal re Roberto d’Angiò in persona: quello stesso Roberto che guidava le forze filopapali della
Toscana, e che ebbe modo di esercitare una forma lieve di signoria su Firenze e su Siena.
Il tiranno che guardava all’Oriente
I Visconti di Milano, i Carraresi di Padova e gli Scaligeri di Verona, dal canto loro, fecero ben percepire che la conquista illuminata del potere signorile comportava sicurezza militare, rilancio dell’economia, investimenti sul piano dell’immagine che avevano positive ricadute sulla città e sul senso di identità dei loro abitanti. Sarà un caso davvero singolare, ma Cangrande I della Scala (1291-1329), famoso per aver dato accoglienza all’esule Alighieri, fu in tal senso un tiranno di ben felice memoria.
Personaggio abile e risoluto, si fece seppellire sotto una coltre di tessuti preziosissimi di fabbricazione orientale. Il suo nome, d’altronde, era un calco del titolo dei sovrani-condottieri mongoli (gran khan). La sua statua equestre, voluta dal successore, il nipote Mastino II (1329-51), lo immortala in vesti guerresche mentre sfoggia un sorriso inafferrabile, emanazione di un mondo lontano, cosparso di meraviglie. Non a caso la sua predilezione per le stoffe della lontana Persia si agganciava alla fascinazione di Costantinopoli e le nuove mura di Verona di cui promosse la costruzione erano in parte esemplate proprio sulle fortificazioni erette da Teodosio II (408-450) sul Bosforo.
In alto Verona, Arche scaligere. Da sinistra, i monumenti di Cansignorio I, Mastino II e Cangrande I. Nella pagina accanto la statua equestre di Cangrande I (sostituita in situ da una replica). 1340-1350. Verona, Museo di Castelvecchio.
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Nello svolgersi dell’arte medievale, molteplici sono gli elementi che ne definiscono i caratteri, non solo stilistici, ma anche tecnici. Un panorama non privo di stereotipi, come quello secondo il quale i suoi attori sarebbero stati altrettanti anonimi analfabeti...
L’eredità del mondo antico
I GRANDI TEMI
L
a mattina di Natale dell’anno 800, quando Carlo Magno fu incoronato a Roma da papa Leone III (795-816), si mise in atto un rinnovamento dell’impero sotto l’egida dell’autorità celeste. L’evento fu pressoché ignorato dalla corte bizantina, fino a quel momento unica erede istituzionale dell’antica Roma. Soltanto nell’812, a conclusione di un lungo periodo di tensione militare e di intensa attività diplomatica tra i due «blocchi», a Carlo venne riconosciuto un generico titolo imperiale, senza alcun riferimento a Roma. L’impero d’Oriente aveva buon gioco nel respingere o magari nel ridicolizzare gli intenti di un sovrano di stirpe barbarica che si atteggiava a rinnovatore dei fasti di Augusto e di Costantino Magno. Di fatto, Carlo poteva solo ambire a una pallida imitazione della gloriosa capitale sul Bosforo, e i limiti della sua azione ben si percepiscono nel suo progetto piú ambizioso e rappresentativo, vale a dire la corte di Aquisgrana, progettata nel 786. Non era nulla di paragonabile al Sacrum Palatium di Costantinopoli, ma, d’altro canto, con il suo complesso palaziale, Carlo mirava piuttosto a definire il proprio ruolo rispetto a Roma, dove risiedeva la corte pontificia, vale a dire l’unica grande forza istituzionale allora esistente in Europa. La residenza dei papi presso la cattedrale costantiniana di S. Giovanni in Laterano vantava un prestigio ininterrotto e aveva un carattere «regale», come nessun altro centro di potere in tutto l’Occidente, e Aquisgrana, di fatto, fu una sorta di Laterano in terra d’Oltralpe. Carlo mirava infatti a creare nel cuore del mondo germanico un contraltare alla dignità e alla continuità storica della sede papale. E il triclinio lateranense, un’aula di riunione riccamente decorata e ispirata agli usi di corte di Bisanzio, fece
da esplicito modello all’aula regia di Carlo. A buon diritto, quindi, il complesso di Aquisgrana era anche noto come Laterano, ed era sorto senza la pretesa di legarsi a una capitale. La corte regia di Carlo faceva capo a se stessa e, con un sapiente utilizzo delle esigue risorse disponibili, dava alla figura del sovrano una dignità e un’attendibilità che nessun dominatore era riuscito a conseguire in tutto l’Occidente sin dai tempi di Giustiniano. Ed era naturale che la cappella palatina di Carlo fosse in parte esemplata sulla basilica ravennate di S. Vitale, l’ultima realizzazione imperiale compiuta sul suolo italico. Iniziata da Amalasunta, figlia di Teodorico, fu infatti completata da Giustiniano, colui che mise fine al regno ostrogoto d’Italia. Affinché il legame con questa realtà storica risultasse ancor piú efficace, l’appropriazione ideale della Ravenna di Teodorico e di Giustiniano fu rafforzata dall’importazione ad Aquisgrana di una statua bronzea con l’effigie equestre del monarca ostrogoto. Venne anche organizzato il costoso trasporto di materiale costruttivo strappato a monumenti di età antica situati in Italia, forse proprio nel cuore dell’Urbe.
Desiderio di autocelebrazione
Colonne e blocchi di marmo non erano introvabili nelle città d’origine romana della Gallia, come la vicina Treviri, ma Carlo volle che venissero condotti da una lunghissima distanza proprio perché contava in primo luogo la loro pertinenza alla sede dell’imperium. Inserendo (segue a p. 29) Aquisgrana (Germania), cappella palatina. Il candelabro bronzeo donato da Federico Barbarossa, modellato come rappresentazione della «Gerusalemme Celeste». 1165 circa
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I GRANDI TEMI
L’eredità del mondo antico
IL LATERANO DI CARLO MAGNO A destra Aquisgrana, L’altare maggiore e il coro gotico della cattedrale visti dalla capella palatina. In primo piano, la Pala d’oro (1002-1014); sul fondo, il Reliquiario della Vergine (1214-1237). In basso, sulle due pagine prospetto del fronte occidentale del palazzo e della cappella palatina di Aquisgrana. Il lungo portico collegava l’aula regia (1), a sinistra, con l’atrio della cappella, sulla destra (3). A metà circa della sua lunghezza era interrotto da una porta monumentale (2) che dava l’accesso al palazzo.
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CASTELLI ARTE DEL D’EUROPA MEDIOEVO
In alto disegno ricostruttivo del complesso palaziale carolingio di Aquisgrana.
Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Decima di Gossolengo, nei pressi della città emiliana. Databile tra la seconda metà del II e gli inizi del I sec. a.C., è un modello in bronzo del fegato di una pecora sul quale sono definite caselle recanti i nomi delle divinità del pantheon Qui sopra il trono di Carlo Magno, nella etrusco. Simili modelli cappella palatina erano utilizzati daidi Aquisgrana. sacerdoti che praticavano l’epatoscopia, cioè la predizione del futuro basata appunto sull’osservazione del fegato.
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In alto spaccato assonometrico della cappella palatina, costituita da un nucleo a pianta ottagonale, coperto a cupola.
ARTE CASTELLI DEL MEDIOEVO D’EUROPA
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I GRANDI TEMI
L’eredità del mondo antico
A sinistra Roma, basilica di S. Clemente. Veduta del presbiterio, con il ciborio sull’altare maggiore. Sul fondo, il grande mosaico che inquadra e riveste il catino absidale. In primo piano, la schola cantorum, corredata da due amboni. XII sec.
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ARTE DEL MEDIOEVO
quei pezzi antichi nella cappella palatina e concentrandoli intorno alla tribuna del trono, il desiderio di celebrare degnamente l’autorità di re Carlo si esprimeva in tutta la sua pienezza. Sino a questo momento di svolta, dopo la caduta «senza rumore» dell’impero romano d’Occidente, si può dire che la tarda antichità si fosse pigramente prolungata. C’erano lunghi momenti di stasi e l’iniziativa nel campo dell’edilizia monumentale e dell’arte figurativa si era ridotta, in sostanza, ai luoghi nei quali risiedeva una corte, senza pensare ai centri monastici e a talune cattedrali. Le risorse disponibili erano ridotte rispetto al passato, e la grandezza delle basiliche costantiniane rimase inimitabile, ma i patrimoni di tecniche e di forme si tramandavano in modo naturale, quasi per inerzia. Un caso limite, che travalica la stessa età carolingia, è costituito dalla città di Roma, dove si perpetuano schemi progettuali, stili decorativi e pratiche
costruttive di matrice paleocristiana persino nel Basso Medioevo. L’impermeabilità di Roma a certi sviluppi di tecnica e di stile non era tuttavia assoluta. Quando infatti venivano adottate tipologie edilizie e pratiche decorative estranee alla tradizione costantiniana, si creava lo spazio per nuove sperimentazioni. È il caso delle torri campanarie, introdotte soltanto a partire dall’Alto Medioevo, e quindi necessariamente aggiornate in base allo stile piú diffuso, adottato in perfetta armonia con le consuetudini edilizie locali. Nel XII secolo, grazie a maestranze che proprio a Roma ebbero modo di esordire, si adottò la tecnica del pavimento di marmo intarsiato, con le tessere di marmo e di vetro colorato disposte a comporre tracciati geometrici inconfondibili, come le quinconce, formate da quattro cerchi disposti intorno a un cerchio maggiore. Si tratta dell’opera dei maestri Cosmati e dei loro allievi
In alto Roma, Basilica di S. Giovanni in Laterano. una veduta del chiostro con la vera da pozzo risalente al IX sec.
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Civita Castellana, cattedrale di S. Maria Maggiore. Uno scorcio della facciata con l’ampio pronao. 1200 circa.
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e seguaci (cosmateschi, nel complesso). Seppero adottare schemi e metodi già diffusi in area bizantina, e che erano stati introdotti nella chiesa abbaziale di Montecassino da maestri levantini appositamente reclutati. Con questa tecnica si potevano comporre tappeti marmorei elegantissimi, facendo ricorso a materiale di reimpiego di ogni fattura. Il mosaico policromo, unito al candore del marmo modanato e scolpito, trovò poi un’applicazio-
ne assai originale nei monumentali chiostri che proprio i cosmateschi realizzarono di fianco alle basiliche romane piú importanti (S. Giovanni in Laterano, S. Paolo fuori le Mura). Solo nel duomo di Civita Castellana, però, si ebbe l’opportunità di realizzare con le stesse tecniche una facciata dal tono innovativo (1200 circa), grazie a Lorenzo e al figlio Giacomo, magistri doctissimi romani. Come si è accennato, maestri levantini concor-
sero alla ricostruzione della chiesa abbaziale di Montecassino, nell’edizione voluta e seguita visceralmente dal grande abate Desiderio, tra il 1066 e il 1071. L’edificio è stato purtroppo cancellato da un terremoto nel 1349, ma ha lasciato un riflesso assai significativo in una fonte piuttosto dettagliata al riguardo, la Cronaca del monaco Leone Marsicano. Esattamente come re Carlo, Desiderio fece trasportare preziosi elementi architettonici individuati nel cuore
dell’Urbe. Si trattava di una serie di colonne antiche che furono poste a delimitare la navata centrale della nuova chiesa, che si esemplava cosí sul modello delle basiliche costantiniane, dove i colonnati interni erano costituiti da serie omogenee di pezzi di reimpiego. Il riuso, naturalmente, non bastava, e, per realizzare una chiesa capace di distinguersi dalle altre, occorreva trovare maestranze specializzate. Il cronista Leone sa bene che Oriente e Oc-
In alto Civita Castellana, cattedrale di S. Maria Maggiore. Uno scorcio del portale d’ingresso con i due leoni stilofori.
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L’eredità del mondo antico A sinistra Sant’Angelo in Formis, basilica di S. Michele. Particolare degli affreschi bizantinocampani dell’abside raffigurante l’abate Desiderio nell’atto di offrire la basilica. 1072-1086. In basso Sant’Angelo in Formis, basilica di S. Michele. Un particolare degli affreschi della parete sinistra della navata centrale raffigurante la Crocifissione. 1072-1086.
cidente possono vantare tradizioni illustri gemmate da una stessa matrice (l’antica Roma) pur essendo sottilmente differenti. In Oriente si dà piú importanza all’effetto generale e alla cura del dettaglio. In Occidente prevale l’inventiva, vale a dire il talento personale del singolo artefice. Ma c’è anche una differenza di condizioni economiche e organizzative, per cui da molto tempo nella terra dei Latini l’arte monumentale tace. Che questo silenzio perdurasse da 500 32
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A destra Roma, basilica di S. Prassede. Veduta dei mosaici dell’arco trionfale e del catino absidale. 817-824.
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anni è senz’altro una esagerazione, ma è pur vero che i grandi mosaici absidali realizzati a Roma sotto papa Pasquale I (817-824), prima del 1050 erano l’ultima espressione disponibile di un genere tipico dell’arte di rappresentanza. La soluzione si trova reclutando a Costantinopoli squadre di pittori, mosaicisti e fonditori. Il cronista Leone attesta, d’altra parte, che Desiderio curò la formazione di maestranze autoctone capaci di apprendere i segreti del mestiere, lavorando come aiutanti di fianco ai capomastri d’Oriente. E, subito dopo la chiusura del cantiere di Montecassino, pittori di estrazione locale, ma di chiara «educazione» bizantina, agirono proprio su disposizione di Desiderio nella basilica di S. Angelo in Formis (1072-86). Del resto, con un decennio circa di anticipo rispetto a Desiderio, mosaicisti di Bisanzio erano all’opera nella laguna veneziana, nella cattedrale di Torcello, dove si ebbe un saggio della ben piú complessa realizzazione della basilica di S. Marco, avviata nel 1063. L’anno seguente si avviava il grandioso cantiere della nuova cattedrale di Pisa. Mentre S. Marco di Venezia era la cappella palatina annessa al Palazzo Ducale (la residenza dei dogi), S. Maria Assunta di Pisa fu voluta e sostenuta dall’intera comunità urbana. È per questo motivo che Jacques Le Goff ha ri-
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conosciuto in questo frangente il primo grande cantiere urbano del Medioevo europeo.
Simboli di fede e di identità
Entrambe le chiese erano ambiziose e impegnative, ed entrambe costituivano un simbolo di riferimento per la cittadinanza, da un punto di vista religioso e identitario. Ma S. Marco, nel cuore di Rialto, era il generatore della città stessa, individuando un polo di aggregazione simbolica che doveva condurre tutte le isole venetiche a comporre una solida realtà. Nel caso di Pisa, invece, una città di lungo corso, ravvivata dal suo protagonismo nel commercio marittimo, determina e plasma la «sua» chiesa, senza che questa avesse un contatto diretto con la residenza di un’autorità della sfera religiosa o della sfera pubblica. Osservando le epigrafi che la chiesa pisana sfoggia sulla facciata, alla sinistra del portale centrale, il nesso tra la chiesa e la città è reso manifesto in modo sorprendente, e l’esaltazione dell’impresa implica un coinvolgimento quasi spudorato di immagini e concetti altisonanti presi di peso dal mondo antico. Sulla scorta dell’Eneide di Virgilio, si riteneva infatti che Pisa fosse stata fondata ben prima di Roma da quei Greci che abitavano un’omonima città
Nella pagina accanto Venezia, basilica di S. Marco. Il mosaico della Porta di S. Alipio. XIII sec. In basso, sulle due pagine Venezia. Veduta a volo d’uccello che evidenzia le cinque cupole disposte a croce greca della basilica di S. Marco e il legame della chiesa con l’adiacente Palazzo Ducale.
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I GRANDI TEMI
L’eredità del mondo antico situata nel Peloponneso. Per la precisione, secondo una cronaca del XII secolo, la città toscana sarebbe sorta grazie a Pelope figlio di Tantalo (il re dei famosi supplizi inferti da Giove). I Pisani, poi, dettero man forte proprio a Enea (anche lui esule del mondo egeo!) durante la guerra contro i Latini, dando cosí un contributo proprio alla nascita dell’Urbe. E greco, secondo la tradizione, sarebbe stato anche l’architetto della chiesa pisana, Buscheto. Poco importa se egli avesse davvero l’origine esotica che gli riconosce lo storico dell’arte aretino Giorgio Vasari (1511-74). Resta il fatto che egli ebbe il privilegio di una sepoltura allestita sulla parete della facciata, riutilizzando un sarcofago romano.
In alto Pisa, duomo. Particolare della facciata in cui è murato il cosiddetto sarcofago di Buscheto, lastra marmorea di epoca romana, riutilizzata per accogliere le spoglie dell’architetto della chiesa, ornata di due iscrizioni celebrative. XI-XII sec.
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Sulle due pagine Pisa, duomo. Sulla facciata, a sinistra, nella prima arcata cieca, si può distinguere il sarcofago di Buscheto. XI-XII sec.
In perfetta coerenza con la visione mitografica delle origini di Pisa e con la rievocazione epica di Buscheto, la chiesa che egli ha progettato si avvale di una vasta messe di materiale antico di reimpiego, e ha una decisa intonazione paleocristiana con il suo impianto a cinque navate, che si ricollega agevolmente alle basiliche costantiniane dell’Urbe. E tale volontà di distinzione nel segno della romanitas travalica l’architettura e costituisce lo sfondo ideale per delineare nuove prospettive in campo figurativo. In prima battuta, infatti, operano artisti ingegnosi come Guglielmo o Bonanno, che sviluppano con maestria soluzioni e tipologie decorative ben ancorate alla tradizione. Ma c’è una vasta schiera di sculture antiche concentrate intorno alla chiesa, grazie ai sarcofagi che vengono riutilizzati proprio in funzione di tombe, e che verranno poi trasferiti nel Camposanto. Quella sorta di esposizione museale mostra in tutta la sua intensità il movimento e il virtuosismo formale della scultura classica, e proprio
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I GRANDI TEMI
L’eredità del mondo antico In questa pagina Cagliari, duomo. Due immagini del pulpito, opera di Maestro Guglielmo. 1159-1162. Realizzato per il duomo di Pisa, venne trasferito nella cattedrale di Cagliari nel 1312 e
quindi smembrato nel XVII sec., quando le due metà furono sistemate sulla controfacciata. Nella pagina accanto Pisa, battistero. Uno scorcio del pulpito di Nicola Pisano. 1255-1260.
verso quella che viene spesso ricordata come riscoperta del vero. La memoria dell’antico continua a essere il cuore pulsante di questa riscoperta anche in Giotto (1267 circa-1337). L’adesione del pittore fiorentino a un concetto della messinscena pressoché teatrale, con gli elementi dello sfondo che hanno la stessa concretezza e la stessa plausibilità dei personaggi, spinge a credere che abbia anch’egli avuto modo di studiare esempi figurativi antichi. L’ipotesi è stata recentemente sviluppata dalla studiosa Serena Romano. Infatti, anche se le nostre conoscenze della pittura narrativa romana partono in sostanza dalla riscoperta settecentesca di Pompei, non è affatto escluso che monumenti oggi scomparsi in una Roma ricchissima di vestigia, potessero guidare il pittore nella formazione della sua particolare sensibilità. Lo suggerisce, tra l’altro, il persistere di una scenotecnica di stampo antico nelle situazioni piú disparate: a Salonicco (Grecia, inizi del V secolo), a Damasco (Siria, 705-715), a Oviedo (Spagna, 812-842). Allo stesso modo Giotto poté trarre ispirazione studiando rilievi del genere Nicola Pisano (1220/25-1278/84) elabora il concetto fondamentale della sua arte. Oriundo della Puglia, era stato a contatto con la rinascita dell’antico propugnata da Federico II, i cui ritratti eseguiti per le sue solenni architetture sembrano usciti da uno scavo archeologico, come evidenzia Georges Duby, tanta è la loro rispondenza alle effigi imperiali dell’antica Roma.
La riscoperta del vero
Stabilendosi a Pisa e impegnandosi in primo luogo nella realizzazione del pulpito del battistero, Nicola sviluppa un senso della plasticità che conferisce evidenza e verità alle figure e alle composizioni in cui sono inserite. Nel loro complesso, i riquadri narrativi del parapetto dell’opera presentano le vicende della Rivelazione come sequenze di un fregio celebrativo del mondo classico. Cosí facendo, Nicola schiude un percorso che guida tutta l’arte figurativa 38
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L’eredità del mondo antico
dai fregi scolpiti, come è evidente dell’aggancio tra la zoccolatura della Cappella degli Scrovegni e la fascia istoriata che correva alla base dell’Hadrianaeum a Roma, e che ora è ricomposta parzialmente nel cortile del Palazzo dei Conservatori. Nel caso della cappella padovana, era importante anche il peso della cultura locale, cosí legata a Bisanzio, con il filtro della vicina Venezia. Ogni suggestione entrava poi nel quadro di riferimenti forniti dai cicli narrativi oggi perduti che decoravano le basiliche costantiniane. D’altro canto, i mosaici superstiti del V secolo sulla navata e sull’arco trionfale della basilica liberiana (S. Maria Maggiore) danno ancora oggi il senso di una romanitas nel segno della cristianità che rimaneva disponibile a ogni ricerca di rigore compositivo e di verità scenica.
Echi della tradizione romana
Per tutto l’arco del Medioevo, in sostanza, Roma è un punto costante di riferimento. Nelle aree d’Oltralpe, alcune chiese importanti erano espressamente realizzate more Romano («secondo l’uso di Roma»), magari solo perché se ne orientava l’abside a occidente, come si osserva 40
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Nella pagina accanto Damasco (Siria), Grande Moschea Omayyade. Particolare dei mosaici della facciata della sala della preghiera, dei quali traspare una concezione scenografica e paesaggistica. VIII sec. A destra i resti del fregio dell’Hadrianaeum. II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. In basso Padova, Cappella degli Scrovegni. Particolare degli affreschi di Giotto nella zoccolatura raffiguranti figure allegoriche. 1303-1305.
nelle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo fuori le Mura. Sempre Oltralpe, le prime cripte, particolarmente complesse, cercavano di ricreare l’effetto labirintico delle catacombe dell’Urbe. Innumerevoli cicli pittorici dedicati alle Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, ben prima di Giotto facevano riferimento ai grandi modelli iconografici dei cicli romani, anche se solo l’effetto compositivo generale veniva tenuto in conto. Nel citato complesso di affreschi di S. Angelo in Formis, di fianco all’indubbia matrice bizantina dello stile, emerge chiaramente l’aggancio a Roma, se non altro su un
piano puramente ideale. La Crocifissione, per esempio, occupa un quadro piú ampio, che spezza la continuità visiva della griglia in cui si colloca, esattamente come avveniva negli affreschi di S. Pietro a Roma. Le colonne di ripartizione della navata centrale, d’altronde, derivano tutte dal tempio romano di Diana che si trovava in situ. La sovrapposizione tra Medioevo e romanità che cosí si compie, non si riallaccia solo alla perduta chiesa di Montecassino, ma a tutta una galassia di edifici piú o meno illustri che hanno incorporato parti intere di antiche costruzioni templari con la stessa
disinvoltura. Si pensi al S. Pietro di Alba Fucens, nell’Abruzzo aquilano, o al S. Gregorio di Ascoli Piceno. La cattedrale di Siracusa, d’altronde, reimpiega elementi in situ del tempio magno-greco della dea Atena, e lo stesso Partenone nel V secolo fu adattato a cattedrale di Atene, con dedica alla Vergine. Per noi la Roma dei Cesari e la Roma paleocristiana sono realtà ben distinte, ma gli stili costruttivi della tarda antichità, una volta applicati alle prime chiese basilicali, in piena coerenza con quello che avveniva nell’edilizia civile, avevano fatto sí che la Roma di san Pietro e dei suoi successori incorporasse la Roma pagana. Quel che della seconda rimaneva, reimpiegato o incorporato nei modi piú vari, faceva parte integrante di un paesaggio urbano e mentale del tutto omogeneo. Ciò significava che Roma stessa, nella sensibilità del tempo, era uno scrigno inesauribile, pieno di suggestioni e di autorevoli modelli di riferimento, di ogni genere e di ogni epoca. Ne derivava una senso di continuità ininterrotta che proprio il Rinascimento interruppe, ponendo la giusta distanza tra il presente e l’irrecuperabile tempo degli antichi. ARTE DEL MEDIOEVO
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I protagonisti
I protagonisti
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ra i luoghi comuni che hanno spesso ostacolato la corretta lettura dell’arte medievale, spicca l’idea che gli artisti del periodo non firmassero le loro opere perché analfabeti. Prima del Rinascimento, se si esclude il caso di Giotto e di pochi altri, sembrava che il mondo dell’arte fosse avvolto da una nebbia impenetrabile, a riprova della scarsa o comunque minore qualità di quell’arte e dei suoi anonimi protagonisti. Si poteva facilmente controbattere che in epoca classica era raro che un artista firmasse le proprie opere: ci sono giunte firme di ceramisti o di incisori, e le sculture greco-romane erano spesso dotate sui piedistalli di informazioni non sempre attendibili (perché tardive) sui loro artefici. Tuttavia, a parte queste situazioni, anche opere di grande impatto – basti pensare al Pantheon, al Colosseo, alla Colonna Traiana o all’Arco di Costantino – sono a tutti gli effetti «anonime», ma nessuno oserebbe azzardare conclusioni categoriche sul grado di alfabetizzazione dei loro rispettivi architetti.
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La verità è che l’arte classica vanta una rinomata tradizione letteraria che documenta con risalto e con ammirazione l’opera di pittori, scultori e architetti. Poco importa se molti edifici, statue e dipinti citati sono perduti, perché l’appartenenza di un monumento al mondo classico definisce di per sé un orizzonte di valori indiscutibile. Ma quando si rivolge l’attenzione a un periodo sfuggente come il Medioevo, frammentario, caleidoscopico e ricco d’ombre, ogni monumento sembra fare caso a sé. Poiché i committenti non hanno mai la statura di un politico ateniese o di un imperatore romano, viene istintiva l’esigenza di conoscere almeno il nome dell’autore. Effettivamente, sin dall’Alto Medioevo, proprio per il definitivo slabbrarsi del tessuto politico dell’Occidente, l’impatto pubblico, propagandistico dell’opera d’arte si ridimensiona considerevolmente, riducendosi a quelle poche realtà che tenevano viva una parvenza di capitale, per la presenza di una corte. L’iniziativa individuale dell’artista assume, di conseguenza, uno spazio
Modena, duomo. Particolare della facciata, opera di Wiligelmo, con la lastra raffigurante i profeti Enoch ed Elia, che sorreggono un cartiglio sul quale si leggono la dedicazione e la data di fondazione della cattedrale. Le ultime due righe sono un elogio in versi leonini, che a Wiligelmo attribuisce la paternità delle sculture. 1099.
potenziale del tutto inedito, con la possibilità di tramandare il proprio nome grazie a un’attestazione di sé nel vivo dell’opera eseguita. Le «firme» che si incontrano sempre piú spesso nelle oreficerie, nei codici miniati, negli apparati scultorei e nei complessi pittorici, sono in realtà diverse migliaia, e basterebbe questo semplice dato numerico a sfatare la leggenda dell’artista analfabeta o magari troppo timido. Il fenomeno delle attestazioni è molto complesso, con situazioni ben differenziate. In primo luogo, dobbiamo parlare di «firma» per non cadere nella facile associazione tra mondo medievale e mondo contemporaneo in fatto di protagonismo e di individualità dell’artista. Nel Medioevo la firma dell’artista, come la intendiamo noi, non esiste, e solo nelle fasi finali del periodo, con fenomeni del calibro di Giotto o di Giovanni Pisano, si fanno spazio l’idea condivisa e l’autocoscienza del pittore o dello scultore come ingegno creativo, cioè come persona che concepisce ed elabora la propria opera in termini di realizzazione individuale.
Onore agli artefici
Le firme del Medioevo sono, in realtà, attestazioni epigrafiche o letterarie, in cui il nome dell’artista, insieme magari ad altre informazioni (qualifica e provenienza), anche in un contesto apertamente elogiativo, è chiamato in causa nel quadro di una logica che travalica sempre l’individualità. L’opera in sé, semmai, consente di onorare l’artefice che l’ha realizzata, come si afferma nell’epigrafe in cui si nomina lo scultore Wiligelmo, nel duomo di Modena (1099). L’onore gli può essere conferito in quel momento (nunc, «ora»), proprio perché è stato compiuto quel determinato lavoro. Tutto ciò che è stato fatto prima non conta, e se Wiligelmo non fosse stato coinvolto in quell’impresa il suo nome non sarebbe stato tramandato. Il discorso non cambia se la formula adottata prevede la citazione del nome in prima persona, come se fosse l’artista a parlare. Nel caso delle numerose firme apposte negli apparati scultorei e nei codici miniati, eseguite di propria mano dall’artefice, si può supporre un naturale senso di orgoglio per l’opera realizzata, ma il miniatore, in particolare, proprio perché piú esposto intimamente all’attenzione del lettore, sente sempre l’esigenza di allontanare questa sensazione. Il suo nome si inserisce molto spesso all’interno di formule ricorrenti che sminuiscono l’apporto individuale, per esaltare invece il senso dell’opera come emanazione di Dio, di cui l’artefice è il semplice strumento o interme-
diario terreno, oppure come offerta a Dio nella speranza della beatitudine eterna. Il fatto che le officine di questi codici (gli scriptoria) fossero spesso nei monasteri, e che gli autori dei codici fossero perlopiú religiosi, favoriva questo atteggiamento. In un caso forse estremo, ma comunque significativo, uno scultore in piena esaltazione mistica, a Autry-Issards (Francia centrale), forse un religioso, scrive: «Dio ha fatto ogni cosa. Fattosi uomo [Cristo] ha fatto ogni cosa. Natale mi fece». Natale, dunque, pone la sua creazione artistica (che è una manifestazione del divino) nella grande architettura della Creazione e della Rivelazione. Non bisogna tuttavia credere che un artista laico fosse indotto a ragionare in termini diver-
Perugia, piazza IV Novembre. Particolare di una delle formelle della Fontana Maggiore opera di Nicola e Giovanni Pisano, con bassorilievo raffigurante l’aquila, simbolo di san Giovanni evangelista. 1275-1278.
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si. Persino uno scrittore come Dante, che non difettava certo di personalità, è ancora legato allo schema mentale dell’artista o del letterato che trae meriti per il lavoro svolto, senza che questo implichi, però, una coscienza di sé tale da elevarlo al di sopra di una categoria di appartenenza. Egli aderiva infatti a una corporazione come qualsiasi artigiano, e definiva la sua specialità come l’arte di legare le parole, quasi riducendo l’atto creativo alla semplice azione «meccanica» di un orafo o di uno scalpellino.
Giovanni, artista inquieto
Proiettando la nostra mentalità sul passato, si ricava la sensazione che il lavoro dell’artista venisse sottovalutato, dando luogo a una certa insoddisfazione. Non possiamo escluderlo in assoluto, ma precise attestazioni in tal senso giungono piuttosto tardi, agli inizi del Trecento. Giovanni Pisano (1245/48-1318) rivendica con orgoglio di essere figlio di un grande scultore, Nicola, anche se, da giovane, scalpitava per crearsi un suo spazio mentre collaborava con il padre, consapevole di essere ben piú agguerrito e talentuoso. Nella Fontana Maggiore di Perugia (1276-78) trasforma l’aquila di san Giovanni nel proprio emblema, grazie a un’epigrafe di corredo che egli incide proprio per rivendicare il ruolo svolto nella riuscita dell’impresa. Evidentemente, non gli bastava che il suo nome si trovasse annoverato di fianco a quello del padre nell’epigrafe ufficiale del monumento. Col tempo, si fa sempre piú collerico e intransigente. Le epigrafi che corredavano il pergamo del duomo di Pisa (1302-10), sul basamento e sul fregio (solo quest’ultima è stata ripristinata), dovettero in tal senso lasciare esterrefatti gli spettatori piú colti dell’epoca, poiché questa volta non c’erano le formule consuete e variamente rielaborate in cui l’opera veniva a presentarsi come un’offerta all’Eterno. Questa volta il Signore si pregia di aver concesso a Giovanni un talento smisurato, e, in virtú di ciò, l’artista si scaglia contro tutti coloro che lo hanno ostacolato e sottovalutato, con implicito riferimento all’amministratore dell’Opera, Burgundio di Tado. Sotto le righe, esige un compenso che sia appropriato a un’opera di cosí grande impatto e la sua lamentela non è motivata solo dall’esperienza specifica, ma da un atteggiamento generale che tende a sminuire il lavoro degli scultori. Dapprima furono gli orafi a guadagnare una fama indiscussa già solo per la categoria di appartenenza. Nella loro schiera c’è persino un santo, Eligio. Il motivo del loro rapido successo si spie44
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ga facilmente per il fascino delle opere realizzate con il nobile metallo, il cui valore era tale da mettere in secondo piano l’abilità creativa dell’artista. Ciò che contava, infatti, era la sua competenza tecnica, che consentiva di soddisfare le esigenze di committenti di alto rango. Gli architetti come figure professionali a sé stanti, senza che la loro qualifica si riduca cioè al ruolo di capomastri muratori o scalpellini, si sono affermati precocemente in casi molto particolari, come a Pisa e a Modena, quando le comunità locali sentirono l’esigenza di donare alle loro chiese una dimensione epica. In tali situazioni, la narrazione richiede che l’artefice passi in primo piano, ma solo perché la chiesa come realtà architettonica esige di essere esaltata. La menzione dell’architetto, perciò, si inserisce in un piú ampio quadro celebrativo. Nel novero delle specialità pittoriche, i miniatori hanno goduto per primi di notorietà. Anche i mosaicisti erano tenuti in grande considerazione, ma agivano sempre in gruppo, e nessuno si preoccupava di distinguere il ruolo di colui che dirigeva le squadre, e che spesso era anche l’autore dei disegni preparatori piú importanti. Di fatto conosciamo solo i nomi tardi dei pittori che si occupavano anche di mosaico, ma che traevano lustro in primo luogo dai dipinti realizzati ad affresco e su tavola. E, all’epoca di Giovanni Pisano, i pittori erano di gran lunga piú apprezzati degli scultori. Duccio di Buoninsegna (1255 circa-1318/19) non si preoccupava del fatto che la sua grande pala realizzata in onore della Vergine per il duomo di Siena (1308-1311) fosse tenuta in altissima considerazione come oggetto in sé, piuttosto che per l’ingegno di chi l’aveva realizzata. Doveva essere una gratifica soddisfacente la mercede che gli era stata riconosciuta, con una stima del lavoro che, in parte, non era la consueta «paga» giornaliera. Per il lato retrostante della pala, Duccio era stato infatti retribuito «a corpo», in base a una valutazione specifica dell’opera da realizzare, e aveva cosí guadagnato una somma esorbitante rispetto a quella che otteneva di solito Giovanni Pisano, peraltro sempre retribuito a giornata, come ogni operaio o artigiano. Una giornata di lavoro di Giovanni finí per equivalere a circa 3 cmq di pittura di Duccio. La disparità di trattamento, secondo lo storico dell’arte Clario Di Fabio, si può spiegare con la particolare mentalità dell’epoca, cosí come è impersonata da un illustre letterato quale Francesco Petrarca. Egli, infatti, concede la palma della genialità e della grandezza ai soli pittori (e sono ben noti i sentimenti di stima che provava
Pisa, duomo. Il pulpito di Giovanni Pisano. 1302-1310.
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I protagonisti nei confronti di un Giotto o di un Simone Martini, a cui era assai legato da rapporti di amicizia e di collaborazione). Con buona pace di Giovanni Pisano e dei suoi colleghi, Petrarca ritiene infatti che non manchino certo validi scultori, ma nessuno di loro è riuscito a eguagliare i prodigi di verità e di bellezza delle statue antiche. Molte di queste statue erano ancora bene in vista a Roma, e costituivano quindi un arduo paradigma di confronto, man mano che l’umanesimo incipiente spingeva alla rinascita del mondo greco-romano. I modelli illustri del passato in fatto di pittura, per le conoscenze del tempo, non risalivano oltre i mosaici e gli affreschi delle chiese paleocristiane, e su questo versante la genialità di Giotto aveva avuto buon gioco. Di conseguenza, l’autorevolezza del pittore toscano poté imporsi in modo rapido e pervasivo negli ambienti piú vari, nelle corti signorili del Nord e nelle grandi città comunali, al servizio della borghesia urbana, cosí come nella Roma papale e nella corte angioina di Napoli. Giotto e Giovanni Pisano ebbero peraltro modo di collaborare a un caposaldo dell’arte italiana come la Cappella degli Scrovegni, ma è molto difficile, una volta entrati, che le tre sculture della Madonna col Bambino tra due Angeli cerofori sull’altare, opera di Giovanni (1305-06), riescano a strappare piú di un attimo di attenzione all’osservatore, subito rapito dal grande apparato giottesco.
In alto Padova, Cappella degli Scrovegni. Il monumento funebre di Enrico Scrovegni, committente della chiesa, e, a sormontare l’altare maggiore, il gruppo scultoreo in marmo raffigurante la Madonna col Bambino tra due Angeli di Giovanni Pisano. 1305-1306 circa. A destra particolare di una pagina con disegno architettonico dal Livre de Portraiture di Villard de Honnecourt. Prima metà del XIII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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Una libertà indiscutibile
Anche se, come si è detto, prima del XIII secolo non si può parlare di una vera autocoscienza dell’artista, va comunque rilevato che questi assunse un ruolo rimarchevole, indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali in cui operava. I forti cambiamenti di scala degli assetti politici e la mancanza di pratiche diffuse e condivise a largo raggio lasciavano ampio spazio all’azione individuale dell’artefice. Le prescrizioni dei committenti non erano infatti tali da condizionarne l’operato, se non nelle scelte di soggetti e nella loro disposizione, limitatamente al mobilio liturgico e ai punti focali di una chiesa, per esempio. Esistevano naturalmente maestri piú o meno esperti, e di conseguenza piú o meno richiesti nei cantieri di maggior impegno, ma la sintassi dell’architettura e delle arti figurative, pur basata su una tradizione pressoché ininterrotta, rivela una varietà di approcci e di combinazioni impressionante, che rende conto, nei fatti, di una indiscutibile libertà. Paradossalmente, proprio l’avvento della modernità, con l’emergere della personalità dell’ar-
In realtà, la tendenza all’astrazione e il gusto della figurazione fantastica non erano una prerogativa del mondo profano. Il Beatus di Girona (Spagna, 975), uno dei codici miniati piú strepitosi per inventiva – sia per la forma delle figure che per la loro composizione –, non solo è stato prodotto in un centro monastico, ma annovera tra i suoi autori una monaca. Il fatto che i committenti, in sede di pianificazione dell’opera, non potessero determinare ogni dettaglio, non esclude che nei cantieri comparissero i religiosi in veste direttiva. Essi potevano d’altronde prestare manodopera, e, nel caso dell’abbazia tedesca di Fulda (Assia), all’epoca di Carlo Magno, è attestato un vero e proprio sciopero dei monaci, che arrivano a inviare una lettera di protesta al sovrano lamentandosi del fatto che il nuovo abate-architetto Ratgaro li costringe a costruire edifici enormi e inutili, distogliendoli dalla preghiera.
Un committente «speciale»
tista e dell’individualità del suo percorso creativo, coincide con il rinascere di canoni e di norme stilistiche che dapprima non solo non esistevano, ma non avevano ragion d’essere. Di fatto, è stato tramandato un ricettario, quello del monaco Teofilo (XII secolo), che riguarda solo le tecniche di realizzazione artigianalmente intese, mentre il famoso taccuino di Villard de Honnecourt (prima metà del XIII secolo) è solo un repertorio di curiosità e di soluzioni architettoniche e figurative. Anche se l’autore avesse voluto trasformarlo in un manuale o in un trattato, il risultato finale sarebbe stato ben lontano dalla precisa norma espositiva di un Vitruvio o di un Leon Battista Alberti. La libertà nelle scelte formali e, entro certi limiti, nelle scelte dei contenuti, ha fatto ritenere a un brillante conoscitore dell’arte medievale, Meyer Schapiro (1904-1996), che i pittori e gli scultori dell’epoca, soprattutto quelli che identifichiamo come romanici, potessero essere accostati ai loro colleghi del Novecento, liberi com’erano dai condizionamenti delle norme «accademiche». Schapiro arriva a parlare di un’arte essenzialmente profana, messa al servizio di committenti religiosi tutt’altro che rigidi nel controllo delle scelte messe in atto nei cantieri che essi stessi promuovevano.
Miniatura dal Beatus di Girona, manoscritto contenente un commento all’Apocalisse. 975. Girona, Museo della Cattedrale di Girona.
D’altra parte, proprio la forte connessione fra l’arte e la liturgia creava un intreccio profondo di funzioni e di significati, con ripercussioni immediate sulla figura stessa dell’artista. Se egli, infatti, viene considerato come un semplice prestatore d’opera, è pur vero che vanta un datore di lavoro di tutto rispetto, l’Eterno in persona. I committenti, quale che sia l’incidenza della loro azione, sono anch’essi intermediari che agiscono in nome e per conto del Signore. Ogni chiesa, con tutti i suoi annessi e tutte le sue dotazioni patrimoniali, appartiene al santo dedicatario persino sotto un aspetto prettamente giuridico. Di conseguenza, chiunque lavorasse in un contesto del genere, difficilmente si poneva il problema della propria promozione sociale e dell’adeguatezza dei compensi alle proprie abilità e competenze. Solo con il fiorire delle cattedrali gotiche e con il rinascere delle città, il ruolo dell’artista si demistifica del tutto, adattandosi a un concetto univoco della professione quale che fosse l’ambito in cui si svolgeva. Naturalmente, cosí facendo, si guadagnava uno spazio ulteriore di azione e di rinomanza in ambiti sempre piú dinamici e propositivi, quelli delle città e delle corti, ma, al tempo stesso, si perdeva un’aura preziosa, che aveva dato fino a quel momento una grande motivazione e una ragion d’essere all’opera dell’artista. D’altronde proprio la Bibbia ricorda i nomi di chi realizzò il Tabernacolo che custodiva l’Arca dell’Alleanza, seguendo le prescrizioni del Signore. Si chiamano Besalèl e Ooliàb e Dio infonde a entrambi «saggezza, intelligenza e scienza», di modo che ARTE DEL MEDIOEVO
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I protagonisti A sinistra Milano, basilica di S. Ambrogio. Particolare del lato posteriore dell’altare maggiore in legno, oro e argento dorato, pietre e smalti, opera di Vuolvinio. 824-859. In basso Ferentillo (Terni), abbazia di S. Pietro in Valle. Particolare dell’antependio dell’altare maggiore, con la lastra di Orso. 739.
riescano a eseguire qualsiasi lavoro: modellare in oro, argento e bronzo, incastonare pietre preziose o scolpire il legno. In una recente indagine, lo storico dell’arte Ivan Foletti individua un riflesso del dettato biblico in due opere altomedievali, nelle quali l’artista non viene solo nominato, ma anche raffigurato. Nel caso dell’altare aureo di Sant’Ambrogio a Milano (835 circa), l’aggancio è diretto, poiché l’opera nel suo complesso, in anima di legno rivestita di oro e argento sbalzato, e ricca di pietre incastonate, allude proprio all’Arca dell’Alleanza collocata nel «santo dei santi» del Tempio. Il committente, l’arcivescovo Angilberto II (824-859), offre la «sua» arca a sant’Ambrogio in una delle formelle che rivestono le ante della fenestella confessionis, l’apertura che permetteva di vedere il sarcofago delle reliquie situato all’interno dell’altare. In una formella contigua, sant’Ambrogio benedice l’esecutore materiale dell’opera, l’orafo Vuolvinio. In tal modo, il presule milanese dell’epoca, che dovette anche essere l’ideatore dell’opera, fa coppia con il maestro e risponde cosí al duo degli artefici dell’Antico Testamento. Un concetto simile si ritrova nell’antependio che il longobardo Ilderico Dagileopa fece eseguire nel 739 per l’altare maggiore della chiesa abbaziale umbra di S. Pietro in Valle, a Ferentillo (Terni), nell’allora ducato di Spoleto. Lo scultore Ursus, con tanto di scalpello in mano, e il committente sono al centro della composizione, uno di fianco all’altro, e tutt’intorno a loro si dispiega un complesso di figure simboliche 48
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dominato da tre enormi flabelli (ventagli) liturgici con un decoro a croce. Tra l’opera milanese e il rilievo umbro c’è un abisso dal punto di vista tipologico e formale. L’altare di Sant’Ambrogio è un caposaldo dell’arte carolingia, mentre l’antependio di Ferentillo è l’opera ingegnosa di uno scalpellino locale al quale non interessava l’eleganza del disegno e del modellato. Ma la funzione e la simbologia delle due opere hanno molti punti in comune, ponendo in primo piano un ruolo tutt’altro che irrilevante o secondario dell’artista. A fianco del committente, lavora per la gloria di Dio e si prepara a raggiungere la beatitudine eterna come lauto compenso per l’opera svolta. L’immagine a Ferentillo si riduce a un puro segno, proprio perché si qualifica essenzialmente come un messaggio rivolto all’aldilà.
Ricerca e invenzione
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ran parte dell’arte figurativa medievale è all’insegna dell’astrazione, esaltando il ruolo svolto dai pittori e dagli scultori del Duecento inoltrato allorché si ingegnarono a riscoprire la realtà, secondo gli insegnamenti immortali del mondo classico. Sembra anzi che ai primi «geni» dell’arte italiana vada assegnato il merito di aver guardato per la prima volta il mondo con i propri occhi, anziché ripetere le convenzioni della «maniera greca». Fino a non molto tempo fa, il mito di Giotto si tramandava grazie alle confezioni di una nota marca di matite colorate. Su quelle scatole campeggiava infatti l’immagine dell’artista in veste di pastore, intento a disegnare una pecora su una roccia, sotto gli occhi di Cimabue. Secondo un’antica leggenda, l’animale era stato disegnato cosí bene da sembrare vero. Alla capacità di osservare la realtà si univa un talento innato, votato all’eccellenza, cosicché il giovane Giotto era anche capace di disegnare un cerchio perfetto al primo tentativo, la celebre «O». Ma prima di Giotto, verrebbe da chiedersi, erano tutti incapaci o privi di talento? Se valutiamo un’opera in base ai parametri che derivano da una certa idea del maestro toscano, dobbiamo senz’altro rispondere che sí, salvo qualche rara eccezione, è tutto da buttar via. Il primo storico dell’arte italiana, Giorgio Vasari, ragiona in questi termini senza alcun tentennamento. Il grande discrimine, oltre alla resa piú veritiera, è la collocazione delle figure e dei dettagli scenici in uno spazio verificabile, tridimensionale. Di qui nasce la fama di Giotto come riscopritore della prospettiva, anche se, in realtà, l’artista costruí piuttosto uno spazio empirico che suggeriva la prospettiva, senza applicarla in modo rigoroso. L’impatto della maniera giottesca fu nondimeno considerevole ed è quindi innegabile la portata della rivoluzione da lui innescata. Osservando le sue opere con attenzione, è d’altronde evidente il persistere di
In basso San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò, olio e oro su tavola di Simone Martini. 1317 circa. Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
determinate convenzioni, anche in un pittore cosí moderno. La Madonna di Ognissanti (1310 circa) si staglia su un fondo monocromo dorato con l’espressione immota e impenetrabile delle Vergini bizantine. Lo schema viene ovviamente reinterpretato con una sensibilità personale in molti dettagli, ma la sostanza «greca» di fondo è fuori discussione. Quanto alle scene ambientate all’aperto, dove maggiormente pesavano i canoni della tradizione, i rapporti proporzionali tra i personaggi e gli elementi naturali o urbani dello sfondo, sono sempre artificiosi. Gli alberi, le alture e le case, che la norma prevedeva fossero interamente inseriti nel quadro, sono di conseguenza troppo piccoli rispetto ai personaggi raffigurati in primo piano.
Nella scia di Giotto
L’accelerazione che le novità di Giotto impressero alla pittura, con il proverbiale discrimine tra vecchio e nuovo, tra greco e latino, non deve indurci a valutare l’abilità di un pittore in base all’applicazione o meno di nuovi schemi. Molti pittori si misero sulla scia di Giotto, aderendo alla sua maniera in modo scontato, «automatico», poiché quella maniera, come diremmo oggi, cominciava a fare tendenza e occorreva quindi adeguarsi alle novità. Ma un pittore che curava con un minimo di attenzione le scatole prospettiche dei fondali e che ripeteva espressioni e movenze usando gli stessi cartoni in molteplici combinazioni, non era necessariamente migliore rispetto a un collega di analogo talento attivo cinquant’anni prima. D’altronde, Cimabue venne «superato» da Giotto, suo presunto allievo, ma le qualità del suo stile, dal punto di vista espressivo e formale, sono indiscutibili. Né la raffigurazione iconica (l’effigie immota e frontale) o l’evocazione fantastica muoiono con Giotto, e non vanno valutate negativamente, perché continuano a imporsi ai suoi tempi, o dopo di lui. Pensiamo al San Ludovico di Tolosa di Simone Martini (1317) o ai mondi evocati da Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa (1336 circa), senza dimenticare che lo stesso Giotto, nel Giudizio ARTE DEL MEDIOEVO
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MaestĂ di Ognissanti, tempera e oro su tavola di Giotto. 1310 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.
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A sinistra Padova, Cappella degli Scrovegni. Il Cristo giudice affrescato da Giotto nella controfacciata. 1303-1305. In basso Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Il Cristo giudice compreso nelle Storie del Vecchio Testamento di Jacopo Torriti. 1290 circa.
universale di Padova, dà conto di una inventiva terrifica davvero potente, perfettamente in linea con la grande tradizione romanica. Vi riemerge in particolare il ricordo dei mosaici del battistero di Firenze, avviati nel 1240-50 e attribuiti in parte a un pittore di vecchia maniera come Coppo di Marcovaldo.
Talenti insospettabili
Non dobbiamo inoltre pensare che un dipinto realizzato secondo i canoni tradizionali costasse meno fatica di un’opera «fedele al vero». E la stereotipia delle espressioni e delle fisionomie, da cui lo stesso Giotto non è affatto immune, nasconde spesso talenti insospettabili. A tal riguardo, basta esaminare la sinopia (disegno preparatorio) del volto del Padre Eterno che Jacopo Torriti dipinse per il riquadro della Creazione nell’ambito delle Storie del Vecchio Testamento, sulla fascia alta della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi (1290 circa). Paragonando il volto dell’affresco al volto del disegno di base, si rimane sorpresi dallo scarto di qualità del dipinto finale. Il disegno, infatti, è una prova grafica di altissimo valore, con un volto palpitante che dà una sensazione di presenza. Sembra un ritratto dal vivo. L’affresco, invece, spegne e sigilla ogni tratto di freschezza, le linee si irrigidiscono e lo sguardo si spegne in un’espressione fissa. Che cosa è accaduto? Nulla di strano. Torriti ha eseguito ciò che gli è stato richiesto secondo le ARTE DEL MEDIOEVO
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I GRANDI TEMI
Sulle due pagine Roma, basilica di S. Maria Maggiore. I mosaici paleocristiani con le Storie del Nuovo Testamento. Nella pagina accanto, nel registro piú alto, compare l’episodio della Presentazione al Tempio. V sec.
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ARTE DEL MEDIOEVO
Ricerca e invenzione
modalità consuete. Era un gran disegnatore, ma quella dote era utile al suo mestiere solo in quanto gli permetteva di delineare con disinvoltura e rapidità il progetto del dipinto da eseguire. Per la nostra mentalità e per il nostro gusto, il disegno vale molto piú del dipinto. All’epoca del Torriti, quando a un pittore si chiedeva di decorare una chiesa, era la resa finale a essere apprezzata e richiesta, per dare al meglio il senso di una realtà superiore. Queste scelte, legate a precise esigenze, non erano il risultato di un impoverimento o di un
imbarbarimento della gloriosa tradizione antica. Agli albori dell’iconografia cristiana, i pittori che lavoravano nelle catacombe appartenevano alla stessa categoria di coloro che decoravano le case e le ville private della nobiltà «pagana», e, anche se lo stile delle figure accomunava i vari generi e ambienti dell’arte pittorica, la nuova fede impose selezioni e adattamenti che da subito privilegiarono l’astrazione e la lettura delle figure in chiave simbolica, come specchio dell’ultraterreno. In questo modo, la figura del pastore con l’agnello sulle spalle, cosí tipica
della pittura di genere bucolico, divenne l’immagine del Buon pastore che guida le greggi, ossia Cristo in persona che conduce i fedeli in paradiso. Ritagliata dal contesto di una narrazione ambientata in un paesaggio campestre, la figura divenne cosí un’altra cosa, e si pose al servizio del nuovo credo come immagine sacra. Simili adattamenti e reinvenzioni portarono ad attrarre nell’universo figurativo cristiano temi e figure dell’antica iconografia religiosa degli dèi pagani, oppure simbologie trionfali desunte dalla retorica celebrativa degli imperatori.
Alla maniera delle miniature
Gli unici scampoli di «realismo» erano limitati alla pittura narrativa, nei modi severi piú consoni ai fregi dei monumenti celebrativi, con le loro sequenze figurate dedicate alle imprese militari degli imperatori. Nessuno, lavorando in una basilica, osava adeguarsi alla raffinata teatralità dei dipinti delle dimore nobiliari. Tutt’oggi, osservando i mosaici paleocristiani di S. Maria Maggiore, disposti da papa Sisto III (432-440), si ha l’impressione di una Colonna Traiana rivista in chiave biblica, con una narrazione che culmina nell’apoteosi di Cristo sulla parete di fondo, tutta dedicata, su piú fasce, al racconto
della sua vita. Se osserviamo le scene in dettaglio, poi, è evidente un aggancio con i modi della miniatura di stampo epico, come se i mosaici avessero trasferito nell’ambiente cristiano lo stile di chi, per esempio, aveva illustrato l’Eneide nel codice Virgilio Vaticano. Cristo finisce per essere un nuovo Enea fondatore di Roma, tanto che, nella Presentazione al Tempio, la facciata dell’edificio è chiaramente esemplata sull’architettura templare dell’Urbe. La statuaria fu da subito rigettata come possibile campo d’azione dell’arte cristiana, proprio perché in questo settore l’aderenza all’arte religiosa «pagana» sarebbe stata un ostacolo insormontabile, e il dettato biblico era esplicito nel respingere il culto degli idoli. Ciò significava che un intero settore della produzione artistica romana era destinato a esaurirsi. Persino le scelte sul piano architettonico imposero conseguenze rimarchevoli. Il fatto che per le aule sacre venisse adottato il modello della basilica coperta a capriate, significava fare un passo indietro, in rapporto agli sviluppi dell’edilizia romana di rappresentanza. Le basiliche erano infatti strutture molto semplici, il piú delle volte prive di soffitti in mattoni, e con modeste articolazioni planimetriche. I battisteri ARTE DEL MEDIOEVO
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I GRANDI TEMI
Ricerca e invenzione
IMMAGINI CELESTI I Vangeli di Kells, risalenti alla fine dell’VIII secolo, sono stati realizzati in Irlanda o in Northumbria (Inghilterra). Nelle sue illustrazioni a tutta pagina e nelle sue iniziali miniate si leggono tutte le componenti essenziali dello stile «britannico». Nella componente decorativa convergono lo sgargiante cromatismo e il gusto vorticoso dell’intreccio degli ori e degli smalti di gusto celtico e germanico, come quelli rinvenuti nel famoso tesoro di Sutton Hoo, custodito in una nave interrata tra il 625 e il 655, e ricollegato a Raedwald, re «criptocristiano» degli Angli orientali. Sui margini del codice si crea uno spazio per figure vivaci di svariati animali, ma i santi, Cristo e la Vergine, pur debitori dello stile «romano» del continente, mantengono un aspetto rigido, quasi «pietrificato», come si conviene a un’immagine sacra che emana direttamente dal cielo, come una stella fissa.
In alto la pagina dell’Evangeliario di Kells raffigurante i simboli dei quattro evangelisti. Tempera su pergamena. IX sec. Dublino, Trinity College Library. Dall’alto, in senso orario: Matteo, Marco, Luca e Giovanni, rispettivamente rappresentati da un angelo, un leone, un toro e un’aquila.
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ARTE DEL MEDIOEVO
svilupparono il raffinato modello della costruzione a pianta centrale coronata da una cupola, assai ricorrente nei mausolei e nei padiglioni che corredavano terme o giardini nobiliari. Le crisi economiche e le invasioni barbariche ebbero come effetto principale la drastica riduzione degli investimenti, con la realizzazione di edifici dalle dimensioni ben piú contenute rispetto a quelle dell’epoca gloriosa di Costantino Magno. Lo sfaldarsi del sistema organizzativo e produttivo dell’arte romana non significò d’altra parte una irreparabile cesura rispetto al passato, ma un complesso fenomeno di resistenze, recuperi e arricchimenti. Si definiva cosí un quadro all’insegna della continuità, ma anche costellato da aspetti di rottura o di disgiunzione, che condussero a sintesi nuove. In particolare, emerse una sensibilità linearistica, una vera e propria passione per i tracciati geometrici piú complessi,
unita a un gusto per le materie preziose che derivava dall’oreficeria romana e «barbarica». I complessi intrecci che animano le pagine dei manoscritti irlandesi come l’Evangeliario di Kells (vedi box in questa pagina), o un capolavoro a sbalzo e cesello ricco di preziosi castoni tra cui un cammeo romano, come la croce di Desiderio (Brescia, Museo di S. Giulia; 756-774), rappresentano bene queste nuove istanze. In definitiva, si era creato uno spazio fertile per tutte le suggestioni che l’Oriente aveva da sempre propiziato, e che il mondo romano conosceva già, senza però concedere a questi indirizzi di gusto quel protagonismo marcato che assunsero nell’Alto Medioevo, arrivando a promuovere al rango di una vera e propria arte-guida un’arte minore come l’oreficeria. L’Oriente bizantino (compreso l’Egitto copto) e l’Oriente persiano e caucasico sono di fatto una
forza motrice ininterrotta in fatto di gusti e di cultura figurativa. Molto di quel repertorio di forme che definiamo barbarico, ravvisando matrici celte o germaniche, deriva proprio da quella cultura delle steppe che si era sviluppata alle frontiere dell’impero persiano. Quando quel patrimonio di forme venne assunto anche in chiave monumentale dalle genti del Nord Europa, si crearono gli universi fantastici degli intrecci britannici e scandinavi. E quando si afferma l’Islam, assorbendo l’Egitto e la Persia, le tradizioni locali continuano il loro corso o lasciano spazio a nuove esigenze, mantenendo sempre una forza di suggestione indiscussa sugli sviluppi dell’arte occidentale. Dal canto suo, l’impero bizantino, pur ridimensionato, continua con pervicacia la sua storia, e mantiene con l’Occidente un legame vitalissimo.
Maestranze siriache per l’imperatore
All’indomani della caduta dell’impero romano d’Occidente, la costruzione del mausoleo di Teodorico segna per molti versi l’exploit del Medioevo e sembra quasi raccogliere in sé tutti i sedimenti che consentirono lo sviluppo dell’arte di questa nuova epoca. Vi lavorarono probabilmente maestranze siriache, sempre pronte a realizzare strutture impegnative con un solido apparato di conci ben squadrati di grosso taglio, e di sicuro Teodorico coinvolse un probabile architetto siriaco, Aloisio, per le terme e per il palazzo di Abano (Padova), intorno al 510. La struttura di base, con la sua corona di arcate, rimanda alle grandi strutture circensi della romanità, come il Colosseo o l’Arena di Verona, trasformata dal re in un fortilizio. A Roma rimanda anche l’uso della pianta centrale, ben definito proprio per i mausolei, romana è la vasca di porfido che funge da sepoltura, mentre la cupola monolitica dalle 12 nervature allude a Costantinopoli, con riferimento alla basilica dei Ss. Apostoli, dove era sepolto Costantino Magno in persona. La decorazione che corre lungo l’imposta della cupola, all’esterno, è invece un omaggio ai gusti dell’oreficeria. Se, come sembra, la cornice doveva essere arricchita da castoni policromi, l’edificio nella sua interezza poteva alludere a una portentosa corona. Tutti questi elementi sono assunti in una sintesi unitaria di indiscutibile originalità, e rendono conto di un desiderio di distinzione che si adegua bene alla personalità e alle aspirazioni di Teodorico, il barbaro ostrogoto che volle farsi romano. E nessuno di questi elementi si rispecchia fedelmente in una realtà pregressa. Qui, come in tutta la vicenda dell’arte medievale, gli
agganci a edifici o a repertori di forme disponibili non limitano l’inventiva. Al contrario, si schiude un periodo di grande impegno e di immenso fervore sul piano della concezione e della realizzazione architettonica. Dapprima si imponeva solo la voce di uno Stato che faceva riferimento a una o piú capitali. D’ora in avanti un profluvio di realtà richiede e ottiene uno spazio per esprimere la propria dignità e la propria ragion d’essere, con innumerevoli investimenti di idee e di denari. Ben presto l’architettura di rappresentanza non è piú prerogativa delle sole corti regie o principesche. Episcopati e grandi centri monastici, a partire dalla Roma papale, individuano anch’essi nuclei di riferimento e di potere e, come tali, partecipano attivamente alla grande competizione dell’architettura e delle arti figurative. Senza queste esperienze, lo sboccio delle città-repubblica e il fenomeno di un Giotto o di un Giovanni Pisano, non avrebbero avuto luogo.
Ravenna. Il mausoleo di Teodorico. 520 circa.
ARTE DEL MEDIOEVO
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LE VIE DELLA CREAZIONE
Nell’ambito dei grandi edifici religiosi si rafforza il legame inscindibile fra arte e architettura. E, parallelamente, si sperimentano nuovi linguaggi nel campo della scultura e in quello della pittura
Lo sviluppo dell’architettura
N
el coro del duomo tedesco di Magdeburgo (Sassonia-Anhalt), spicca una serie di fusti marmorei che sfilano lungo l’emiciclo, verso l’aula di culto. Sono elementi di reimpiego, che provengono dalla chiesa piú antica. Quando si decise di realizzare il duomo attuale – aggiornato alla «moda» delle cattedrali francesi dello stile che definiamo gotico –, quei fusti vennero infatti «salvati» e ricollocati in opera per molteplici motivi. Il duomo antico era stato voluto dall’imperatore Ottone I (962-73), che volle impreziosirlo con marmi fatti pervenire dall’Italia, secondo un uso già attuato da Carlo Magno, del quale Ottone, non a caso, si proclamava continuatore. Per rendere le colonne ancor piú significative, una volta giunte nel cantiere ottoniano, furono trasformate in reliquiari, ricavando in ciascuna di esse un piccolo vano in cui riporre le spoglie di santi illustri. Di conseguenza, i solenni marmi, già segno della romanitas imperiale, furono santificati e resi ancor piú illustri dal contatto con le sacre reliquie. Una circostanza forse riconducibile a certe letture simboliche delle chiese, dove le colonne impersonano i santi martiri e gli apostoli in processione. Il caso è fin troppo programmatico per essere chiamato a simboleggiare l’immenso e variegato sviluppo dell’architettura medievale, ma il duomo di Magdeburgo, nonostante la sua eccezionalità di monumento-reliquia del Sacro Romano Impero, delinea una mentalità e una pratica condivise sostanzialmente a largo raggio, e definisce bene un senso di continuità e di
Magdeburgo (Germania). Veduta interna del coro in cui si possono notare i fusti marmorei di reimpiego delle colonne. 1209-1266
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LE VIE DELLA CREAZIONE
Pisa, duomo. Veduta interna della navata centrale.
L’architettura
persistenza che lega solidamente tutte le fasi storiche del Medioevo, nonostante le trasformazioni sopravvenute nel tempo.
Una norma estetica ben studiata
L’eredità di Roma, in particolare, costituí un tema di fondo ricorrente, e non solo suggerí un riutilizzo piú o meno impegnativo, consapevole e pianificato di colonne antiche, ma propiziò anche l’avvento di uno stile corinzio di stampo medievale variamente declinato. Il contatto con le spoglie antiche imponeva infatti che gli edifici si adeguassero a una norma estetica ben studiata ed elaborata, in modo che 58
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parti riutilizzate e parti realizzate ex novo componessero un insieme armonico. Nel caso di Pisa, il reimpiego di tanti elementi scultorei ed epigrafici non mette certo in secondo piano l’impegno richiesto dai giganteschi colonnati interni, dove ogni elemento (base, fusto e capitello) è stato appositamente realizzato sotto la guida dell’architetto Buscheto. Come ricorda la seconda epigrafe che lo celebra, scolpita nel mezzo del suo sarcofago, egli era talmente ingegnoso da trasformare le prove piú difficili in giochi da ragazzi. Grazie a lui, a un suo semplice cenno, dieci fanciulle potevano sollevare quel che a stento mille buoi
sto è inevitabile, se insistiamo a considerare la storia dell’architettura medievale come un lungo processo omogeneo, finalizzato alla magica fioritura delle cattedrali gotiche. Secondo questa impostazione, l’indirizzo piú progredito e significativo dell’edilizia sacra prevedeva infatti una certa articolazione della struttura, alla quale si legava la copertura a volte su tutta l’estensione dell’edificio. A Pisa, invece, si osserva un discorso di base ben legato alla tradizione paleocristiana, come si è già detto. In luogo del sistema articolato dei sostegni, con un’alternanza ritmica tra elementi «forti» e «deboli» (pilastri e colonne), appare infatti una lunga e omogenea sfilata di «semplici» colonne. Mancando i pilastri, non ci sono i blocchi spaziali (le campate) che i pilastri stessi delimitano e definiscono, nei punti su cui di norma ricadono le imposte delle volte a crociera. Lo splendido duomo tedesco di Spira (Renania-Palatinato), realizzato intorno agli stessi anni con il patrocinio degli imperatori della dinastia salica, appare cosí incomparabilmente piú complesso e innovativo. La sua copertura a volte, in particolare, fu realizzata su patrocinio di Enrico IV tra il 1082 e il 1106.
I mastri «comacini»
potevano muovere e quel che una barca stracarica poteva trasportare. Buscheto, insomma, sapeva padroneggiare gru, argani e leve, a tal punto che una attendibile tradizione gli attribuisce uno spostamento dell’obelisco Vaticano, secoli prima della traslazione progettata da Aristotele Fioravanti (1471) e infine compiuta da Domenico Fontana (1586). Eppure, nonostante un impegno costruttivo cosí eclatante, al quale si lega a doppio filo la sensibilità decorativa evidente nella bicromia dei paramenti e nella profusione di finiture scultoree, modanate o figurate, il duomo di Pisa può apparire in un certo senso deludente. Que-
L’interno della cattedrale di Spira (Germania) in un disegno ottocentesco.
Tuttavia, a ben vedere, si delineano semplicemente indirizzi diversi, senza che essi possano essere giudicati e distinti in funzione di un apogeo finale. L’Italia, d’altronde, ha comunque modo di esprimere un’architettura di tipo «avanzato», come nel S. Ambrogio di Milano o nel S. Abbondio di Como, soprattutto grazie alle competenze acquisite dai maestri lombardi. Il loro epiteto altomedievale, «comacini», se, a quanto sembra, non ha alcun rapporto con Como, deriva dalla loro abilità tecnica, dalla capacità di avvalersi di adeguati strumenti di sollevamento (lavorano cioè cum machinis). Fu comunque di un approccio condiviso in maniera determinante solo nella Padania, con un attecchimento ben ritardato rispetto alla casistica d’Oltralpe. Il sistema delle volte si impone, per esempio nelle illustri cattedrali emiliane di Parma, Piacenza e Fidenza, ma viene introdotto o giunge a compimento quando ormai è già diffuso il linguaggio dell’arte gotica. Nel caso di Modena le volte sono introdotte in seconda battuta solo nel XV secolo. Il celebrato architetto Lanfranco si era limitato all’adozione del sistema delle campate, inframmezzando archi trasversali lungo la direttrice della navata. La specificità dell’apporto italico dev’essere ARTE DEL MEDIOEVO
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LE VIE DELLA CREAZIONE
L’architettura IL CAPOLAVORO DI LANFRANCO In basso assonometria del duomo di Modena, intitolato a S. Maria Assunta e S. Geminiano. La costruzione della chiesa venne avviata nel 1099, sotto la guida dell’architetto Lanfranco. Rappresenta il cuore e il nucleo identitario di una nuova città medievale, ed è un esemplare illustre della fioritura architettonica e figurativa del romanico europeo.
perciò valutata con altri parametri, fermo restando che certe rinunce non sono sintomo di limiti tecnici o culturali, ma rispondono a scelte consapevoli. In questi termini, occorre quindi dare il giusto peso a una consapevole rielaborazione dell’antico, unita a una sensibilità inventiva che seleziona dal mondo d’Oltralpe ciò che può riuscire utile e funzionale a un concetto «classico» della costruzione senza dimenticare gli apporti del Mediterraneo orientale, sia sul «fronte» bizantino che su quello islamico.
Volontà di distinzione
Da questo deriva anche la tipica «individualità» dei monumenti italiani, legati a identità civiche e territoriali assai differenziate. Ogni città acquisiva connotati particolari, e gli edifici di riferimento riflettevano in pieno questa capacità e questa volontà di distinzione. Un monumento come il battistero di Firenze, come si è visto, poteva cosí esprimere il senso di una nuova e aggressiva realtà, anticipando quel Rinascimento che proprio dalla città toscana ebbe modo di scaturire. La particolarità del «paesaggio artistico» italiano perdura anche quando sorgono le cattedrali del gotico francese, momento in cui, in area transalpina, si afferma la figura professionale dell’ar60
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Milano, basilica di S. Ambrogio. Veduta generale dell’interno. La prima fondazione della chiesa risale all’epoca dello stesso vescovo Ambrogio, vale a dire alla seconda metà del IV sec. Nel tempo, si sono poi succeduti ripetuti rimaneggiamenti e l’aspetto attuale è in larga parte frutto della ricostruzione integrale avviata nel XII sec.
In alto particolare di una delle lastre del pontile con Scene della Passione raffigurante il bacio di Giuda. A destra il pontile del duomo, struttura sopraelevata di recinzione presbiteriale per le letture liturgiche, realizzata da maestranze piacentino-emiliane intorno al 1184, anno di consacrazione della chiesa. Sullo sfondo, la cripta che custodisce le reliquie del patrono, ricostruita tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. a seguito dell’erezione del pontile.
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LE VIE DELLA CREAZIONE
PROGETTISTI ILLUSTRI In alto miniatura della Relatio Translationis Corporis Sancti Geminiani nella quale, sulla sinistra, compare Lanfranco, architetto del duomo di Modena, durante l’apertura della tomba. XIII sec. Modena, Museo del Duomo. A destra una veduta e la restituzione su pergamena del progetto della facciata del duomo di Orvieto. L’opera viene attribuita all’architetto senese Lorenzo Maitani, il quale, nel 1310, dopo anni di apprendistato, fu scelto come universalis caputmagister della Fabbrica del Duomo.
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L’architettura
chitetto. Lo strumentario di base, molto semplice, era rimasto lo stesso: una corda, una squadra, un compasso. Dapprima nei cantieri si incontrava soprattutto un capomastro, vale a dire uno scalpellino o un muratore di lunga esperienza, il quale, con grande talento empirico e avvalendosi di un progetto di massima e di schemi elaborati in cantiere, utilizzava quegli strumenti: la corda per delineare i tracciati sul terreno, la squadra per impostare gli alzati e il compasso per stabilire e mantenere le proporzioni degli elementi. Nei casi piú definiti, si realizzava un modellino in legno o in terracotta, quello stesso modellino che il committente dona a un santo in molteplici dipinti o sculture con scene di dedica, laddove la rappresentazione in scala allude alla chiesa concretamente intesa.
Autoritari e altezzosi
Con l’avvento del gotico si impone uno stile costruttivo e decorativo assai elaborato, grazie alla specializzazione del progettista, il quale non è piú soltanto un operatore sul campo, ma un personaggio di una certa distinzione che sfoggia conoscenze e competenze appartenenti al bagaglio delle arti liberali. Non di rado, grazie alla fortuna conseguita, veste di fino e non si sporca con la polvere del cantiere, e questo suo aspetto aristocratico lasciava stupefatti e talvolta indignati, proprio perché si era abituati a tutta un’altra idea e a tutta un’altra immagine. Nel 1261, un predicatore domenicano, Nicola de Biard, ironizza su questi signori che giungono in cantiere solo e soltanto per impartire ordini. Sono a tal punto altezzosi che guardano con distacco il lavoro dei maestri e degli operai, e non si tolgono neanche le «chiroteche», ossia quei guanti che fasciano e proteggono le loro mani, lisce e delicate come si conviene a un intellettuale o a un nobiluomo sfaccendato. In realtà il grosso del loro lavoro si esauriva nella pianificazione, che divenne sempre piú approfondita e rigorosa. Lo stesso aggiornamento tecnico si avverte in Italia, dove, per esempio, il progetto della facciata del duomo di Orvieto elaborato da Lorenzo Maitani (1310 circa) venne steso su pergamena. Una certa distinzione nel ruolo dell’architetto era d’altronde già stata evidenziata dalle miniature della Relatio modenese dedicata alla traslazione delle reliquie di san Geminiano. Lanfranco vi comprare come un uomo molto distinto che affianca da pari a pari le personalità piú importanti coinvolte, mentre si rapporta agli operai su un piano ben piú elevato, impartendo ordini e rafforzando la sua autore-
volezza con un’asta che gli consente di indicare con precisione gli elementi e gli ambiti a cui si riferisce. Sebbene le miniature attuali siano duecentesche, è probabile che si basino su originali perduti, anche perché l’epigrafe celebrativa della costruzione dona a Lanfranco un profilo di tutto rispetto, in perfetta coerenza con le immagini. Nell’età gotica, il piú grande architetto italiano è il senese Arnolfo Di Cambio. Attivo in prima battuta come scultore, rientra per certi versi nel quadro tradizionale dell’operatore specializzato, che acquisisce lo status di architetto grazie all’esperienza maturata nei cantieri. S. Maria del Fiore, la nuova cattedrale di Firenze, è il suo capolavoro incompiuto. Il ruolo di Arnolfo nella progettazione della chiesa francescana di Firenze, S. Croce (avviata nel 1294), non è invece accertato, ma l’opera esprime bene quella specificità dell’approccio italiano alle novità del gotico, che si misura con un atteggiamento di selezione e di reinvenzione. Anche in S. Maria del Fiore il verticalismo è stemperato da una proporzione classica, senza i virtuosismi delle grandi chiese francesi, e l’apporto decorativo rientra appieno nei canoni generali della tradizione locale, respingendo i fastosi assembramenti di statue e di ornamenti minutamente elaborati. Chiesa dei frati Minori, e a maggior ragione votata all’essenziale, S. Croce ripropone addirittura la copertura a capriate a vista su tutta l’estensione dell’aula.
Firenze, S. Croce. Veduta generale dell’interno. La costruzione della chiesa ebbe inizio nel 1294, sulla base di un progetto attribuito ad Arnolfo di Cambio.
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LE VIE DELLA CREAZIONE
La scultura
I mille volti della scultura
L
a scultura monumentale su pietra si afferma con eloquenza evidente negli ultimi decenni dell’XI secolo, grazie al rinnovato fervore religioso che innerva l’intera Europa, rilanciando su larga scala la pratica del pellegrinaggio, che è poi il presupposto delle crociate. I santuari, infatti, si rivolgono a un pubblico sempre piú ampio e variegato, che desidera omaggiare le reliquie e ascoltare le storie dei vari santi, magari in forma di sacra rappresentazione. La scultura permette di teatralizzare queste esigenze in una forma stabile e solenne, che affascina, attrae e coinvolge, in stretta adesione con l’architettura. Dal canto suo, l’edificio sacro esige spazi piú ampi e articolati, e non solo per accogliere un maggior numero di persone. Gli ambulacri, ossia i corridoi che si snodano intorno al luogo in cui si custodiscono le reliquie (gli altari e le cripte), servono a favorire l’afflusso dei pellegrini, talvolta cosí massiccio da creare incidenti di una certa gravità. Ma quegli spazi, cosí come le gallerie (spesso note come matronei) che si sviluppano sulle fasce superiori delle chiese-santuario, servono soprattutto a dare una sensazione di grandezza e di nobiltà. Il concetto è ben espresso nella Guida del pellegrino (XII secolo) redatta per chi si recava a Compostela, in Galizia, per omaggiare le reliquie dell’apostolo Giacomo. Gli ambienti della cattedrale sono molteplici, molto sviluppati e articolati su piú piani, per creare una dimensione di incanto e di rapimento che strappa dalle miserie del quotidiano, immergendo lo spettatore nelle glorie dell’invisibile. Il concetto anima e motiva la profusione di figure scolpite che si concentra talvolta negli ingressi monumentali, proprio per sottolineare il senso di un trapasso verso mondi celestiali. Se Cristo stesso è la porta, secondo il celebre passo evangelico (Giovanni, 10, 9), non bisogna stupirsi se la sua immagine troneggia spesso al centro della lunetta, in veste di giudice o come apparizione dell’Eterno all’inizio e alla fine dei tempi. Proprio a Compostela il Cristo giudice accoglie i 64
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In basso Souillac (Francia), Monastero di S. Maria. Scultura raffigurante il profeta Isaia, ricomposta sulla controfacciata della chiesa.
convenuti nel celebre Portico della Gloria, opera del maestro Matteo (1188). Simili complessi scultorei di sorprendente complessità e finezza, sembrano sorgere quasi per incanto, e spesso si cerca di individuare il percorso che poteva aver condotto a tali risultati, attingendo a repertori di vario genere e di varia epoca. In realtà, è fuorviante credere che le esperienze pregresse potessero condurre a quegli esiti con una sorta di spinta inerziale, e si deve ammettere che i capolavori della scultura romanica – cosí come le sue realizzazioni minori – sono creazioni originali, inconcepibili come pure e semplici sintesi di temi e di suggestioni ricavabili dall’antichità classica e paleocristiana, dalla miniatura, dall’oreficeria o dall’arte dei tessuti istoriati.
L’omaggio dei seguaci
Nella pagina accanto Moissac (Francia), Abbazia di S. Pietro, chiostro. Stele-ritratto dell’abate Durand. 1072 circa.
L’abate Durand di Bredon (1047-72) profuse grandi energie nel cenobio francese di Moissac (Occitania) e nel suo territorio per il rinnovamento degli edifici sacri, e finí per essere ricordato come un santo dai suoi monaci, i quali, all’indomani della sua morte, gli dedicarono, su un pilastro del chiostro, una stele-ritratto in cui la sua figura è impaginata entro un’arcata su colonne, come si vede in tanti esempi di scultura funeraria romana. Tuttavia, il modo in cui la figura è delineata e sagomata, con un rilievo poco pronunciato, ma assai accurato nei dettagli, e con il volto sigillato da un’espressione fissa, non ha niente a che fare con i modelli antichi. Lo scultore romano è un ritrattista, mentre lo scultore romanico non è interessato alla realtà. Non c’è nulla che restituisca la parvenza della persona e solo l’epigrafe permette di identificare Durand, del quale si può altrimenti intuire solo la qualifica, grazie agli attributi della sua carica di vescovo-abate (la casula e il pastorale). L’autore del ritratto di Durand non si riduce a una commemorazione che bada solo all’etichetta del personaggio, ma compone la sua figura attraverso un gioco di simmetrie e di contrappunti, delineando in particolare le vesti con un virtuosismo di forme ondulate, appuntite, angolate. La figura è apparentemente schiacciata, immota, eppure le braccia tese nell’atto di benedire e di impugnare il pastorale sollevano i lembi della casula e scoprono gli altri strati del vestiario: il camice, la tunica e la stola. Un dinamismo vitale anima la composi-
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zione secondo modi e concetti del tutto nuovi. Ed è questo il segreto di un’arte che comunica sensazioni precise e coinvolgenti pur senza obbedire ai canoni di un realismo che nessuno, al momento, richiedeva.
Come una sacra rappresentazione
Se la tradizione dei portali istoriati ebbe solo una lieve risonanza in Italia, lo studio delle raffigurazioni di singoli personaggi e il gusto della narrativa ebbero sviluppi importanti, a partire da Wiligelmo, lo scultore coinvolto nel cantiere del duomo di Modena (1099-1106). Le lastre della Genesi destinate alla facciata, compongono un fregio compatto e unitario, di grande finezza e armonia. Sembra di assistere a una sacra rappresentazione, secondo le norme di quei drammi di ispirazione biblica che proprio in questo periodo iniziano a essere composti e messi in scena negli spazi della liturgia, tanto che l’arca di Noè, evocata in una delle scene, sembra proprio una chiesa romanica, protesa anch’essa verso la salvezza. La sequenza degli archetti delinea il fondale ben ritmato su cui si stagliano le figure, stabilendo scandita da co-
UN RITRATTO VERITIERO «Io solo dispongo di tutto e corono i meriti. La pena inflitta da me giudice arresta quelli che son dominati dal vizio, e cosí risorgerà chiunque non è vittima di una vita empia, e per lui brillerà senza fine la luce del giorno. Gisleberto ha fatto ciò. Questo terrore atterrisca coloro che l’errore terreno tiene vincolati. Infatti, qui l’orrore delle immagini annuncia che davvero avverrà cosí». Queste parole – qui nella traduzione di Carla Guglielmi Faldi – accompagnano la visione del Giudizio nel portale di ingresso di Saint-Lazare ad Autun, in Borgogna, la grande chiesa di pellegrinaggio in stile cluniacense iniziata nel 1119 ed elevata a cattedrale nel 1195. Si è anche ritenuto che Gisleberto non fosse lo scultore ma il committente, pianificatore dell’opera e autore delle epigrafi. L’artefice del grande complesso scultoreo, in ogni caso, si è visto anche attribuire la magnifica Eva di un capitello della chiesa, oggi conservato nel Museo Rolin della città. Si tratta di un nudo femminile dinamico e veritiero. Proprio nell’esaltare la natura «felina» della peccatrice, come sottolinea lo scrittore Raymond Oursel, lo scultore fornisce una sorprendente prova di realismo.
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lonnine in primo piano, stabilisce un raccordo tra la partitura architettonica e la narrazione. Stava intanto per delinearsi un nuovo linguaggio piú aperto, sempre piú orientato verso una maniera classica e sempre meno condizionato dall’ossessione romanica per la salvezza eterna. Quella che definiamo arte gotica, infatti, dette grande spazio a una statuaria di ispirazione antica, restrinse lo spazio prima concesso alla speculazione fantastica, e impose una nuova musicalità, fatta di spazi ben definiti e connessi, grazie anche a una tecnica costruttiva che privilegiava la composizione scrupolosa delle parti. L’apporto scultoreo, soprattutto concentrato sui portali della facciata, si connette cosí a un’architettura limpida e razionale. Le figure emergono sempre piú dal fondo e acquisiscono un’incisiva presenza nello spazio. Il momento del trapasso alla nuova epoca è ben rappresentato in Italia da Benedetto Antelami, il cui appellativo si ricollega a quei magistri Antelami provenienti dalla vallata del fiume Intelvi, tributario del lago di Como. Attestati per la prima volta a Genova nel 1157, hanno lasciato nel capoluogo ligure, soprattutto nella
cattedrale, molti segni della loro operosità. Si trattava di artefici di alto livello, capaci di reinventare motivi del repertorio classico, in una situazione storica e ambientale che si mostrava assai ricettiva nei confronti delle novità che pervenivano dal mondo oltralpino. Proprio da Genova, forse, deriva una scultura a tutto tondo della Madonna in trono col Bambino (oggi a Santa Margherita Ligure) che si allinea allo stile dei maestri all’opera nelle cattedrali dell’Île-de-France, tanto da essere stata attribuita a uno scultore alloctono attivo negli anni 1170. Senza escludere, ma senza implicare come necessario, un viaggio formativo in Francia, Benedetto Antelami poté elaborare il suo modello di Sedes Sapientiae (cosí è nota questa tipologia di scultura mariana) proprio a contatto con simili opere, entro i confini italici, e per la precisione nel vivace contesto genovese. Il nome dell’Antelami è legato in prima battuta alle realizzazioni parmensi. Dapprima, in cattedrale realizzò un pulpito a cassa con i parapetti decorati sul lato esterno. La lastra della Deposizione (1178), ancora intrisa di una sostanza romanica nel modellato delle figure, possiede ritIn alto, sulle due pagine Modena, duomo. Scorcio della facciata con il portale centrale affiancato dalle lastre della Genesi di Wiligelmo. A sinistra capitello con Eva nell’atto di cogliere la mela dall’albero dell’Eden, attribuito a Gisleberto. XII sec. Autun, Musée Rolin.
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La scultura
ANTELAMI E IL SUO TEMPO
In alto Parma, duomo. La Deposizione di Benedetto Antelami. 1178. A sinistra Madonna in trono col Bambino, attribuita a scultore oltrealpino. 1170 circa. Santa Margherita Ligure, Convento dei Cappuccini. Nella pagina accanto Parma, battistero. Madonna col Bambino, particolare della lunetta del Portale della Vergine di Benedetto Antelami. 1196-1216.
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mo, concitazione e un’energia di movimento che danno vivacità e potenza a tutta la composizione. L’ampio corpus di sculture realizzato da lui e dai suoi collaboratori nel vicino battistero, iniziato nel 1196, segna una svolta evidente, di chiara impronta gotica. Molti elementi della decorazione dei portali, tra cui la raffigurazione della Madonna in trono col Bambino, si ricollegano infatti al linguaggio d’Oltralpe, ma l’intervento figurativo, rispetto ai modelli francesi, è pacato ed essenziale, ed è soprattutto subordinato a un’architettura di nitido stampo «classico», con tutta probabilità progettata proprio dall’Antelami. Emerge la dominante di linde superfici basali, a cui si contrappone il chiaroscuro delle loggette cieche architravate, nel solco di un gusto prettamente italico, e ben connesso alla vicenda di un Comune autonomo e agguerrito, che promosse l’edificio in prima battuta.
La riscoperta del realismo
Di fatto, i fenomeni di rinnovamento stilistico sono in perfetta sincronia con analoghi fenomeni di affermazione del mondo urbano: in Francia, sotto l’egida di uno Stato autorevole e ben rappresentato da una capitale, Parigi, che è un grande crogiuolo di economia e di cultura,
oltre a essere sede di una potente corte regale; mentre in Italia, a parte i casi di Roma e di Napoli, le città piú dinamiche, con un regime comunale o signorile, fanno capo a se stesse. In entrambi i versanti, al di qua e al di là delle Alpi, l’evocazione della natura si libera delle sue connotazioni simboliche e speculative, e riscopre una realtà ormai nobilitata. Ciò non significa che un tema come il Giudizio universale venga accantonato, ma il suo aspetto terrifico e per cosí dire «realistico» si smussa. Non c’è piú interesse a raccontare le pene dell’inferno con l’evidenza spesso feroce dei timpani romanici, voluti per mostrare un’istantanea dei paesaggi orridi dell’eterno castigo. La scansione del tempo acquisisce una vita propria grazie alle rappresentazioni dei mesi, dove, con un’evidenza nuova, il ritmo delle stagioni è raccontato serenamente attraverso le diverse fasi del lavoro dei campi. Il lavoro stesso non è piú percepito come un castigo, ma diviene una veritiera espressione dell’umanità. Grazie ad Andrea Pisano e a suo figlio Nino, nelle formelle del campanile giottesco di S. Maria del Fiore (iniziato nel 1334), la rappresentazione del lavoro «esce» dal consueto calendario e «rientra» con grande risalto in una visione ARTE DEL MEDIOEVO
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LE VIE DELLA CREAZIONE In basso due formelle di Andrea Pisano provenienti dal Campanile della cattedrale di S. Maria del Fiore. Dall’alto l’Arte di edificare, la Medicina. 1337-1343. Firenze, Museo del Duomo.
A destra Perugia. Particolare della Fontana Maggiore di Nicola e Giovanni Pisano con l’Augusta Perusia, statua collocata sul perimetro della vasca superiore. 1276-1278.
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La scultura
dell’umanità che coinvolge sullo stesso livello le arti liberali. L’attività lavorativa non solo è uscita dalla visione moralistica legata al peccato originale, ma, anche nei suoi aspetti piú umili, è divenuta il fondamento e la chiave del successo di una vivace città mercantile come Firenze.
I mesi e le arti liberali
Già nella Fontana Maggiore di Perugia, realizzata tra il 1276 e il 1278, Nicola e Giovanni Pisano avevano costituito sulla vasca inferiore una teoria di 50 raffigurazioni in cui i 12 pannelli del calendario erano associati alle quattro arti liberali e alle sequenze dedicate alla storia dell’umanità, da Adamo alla nascita di Roma. Tra le statue della vasca superiore, insieme alla personificazione dell’Urbe, compare Augusta Perusia, in omaggio alla dignità storica del capoluogo umbro. La stessa dicitura si legge sui conci radiali dell’Arco Etrusco. Fu incisa quando Perugia, sotto Augusto, entrò nello Stato romano, e non a caso la statua è volta a sud, proprio sulla direttrice che conduce alla porta monumentale. Si vede chiaramente, dunque, come ci sia una perfetta consonanza tra la riscoperta dell’antico e l’affermarsi delle maggiori città comunali. Arnolfo di Cambio si forma come scultore nella bottega di Nicola Pisano, di cui è aiutante nella realizzazione del pulpito del duomo di Siena (1265-68) ed è, come si è visto, un protagonista di primo piano anche come architetto. La sua vocazione in entrambi i settori si evidenzia già negli apparati che progetta. Nei cibori eseguiti a Roma, a S. Paolo fuori le Mura (1284) e a S. Cecilia in Trastevere (1293), crea una sintesi tra la ricercatezza del gotico transalpino (ridotta all’osso) e la poderosa tradizione locale, dove il linguaggio del marmo intagliato e figurato con inserti a mosaico è il cavallo di battaglia dei maestri cosmateschi. Il monumento funebre del cardinale De Braye (morto nel 1282), in S. Domenico a Orvieto, ha poi un’importanza epocale poiché introduce una scenografia di lunga fortuna, con la camera sepolcrale resa visibile da due accoliti che, disposti simmetricamente, scostano la cortina di chiusura. In alto si prefigura la gloria eterna del defunto, che si ritrova al cospetto della Vergine e di due santi. Fatto eclatante, la testa della Madonna altro non è che la rilavorazione di una scultura romana.
Tino di Camaino (1280 circa-1336), di Siena, figlio di colui che diresse la costruzione del duomo toscano dopo che un inviperito Giovanni Pisano aveva abbandonato il cantiere (1297), fu tra i piú rinomati propagatori della lezione di Arnolfo, non solo in Toscana, ma alla corte angioina di Napoli, dove prestò servizio dal 1323 senza piú fare ritorno in patria. In precedenza, aveva legato il suo nome a un’importante committenza, quella per il monumento funebre in onore di Arrigo VII di Lussemburgo (1312-13), l’imperatore che, secondo l’utopia dantesca, avrebbe dovuto risollevare le sorti di un’Italia in preda alla discordia. L’opera, in seguito smontata, venne allestita nel 1315 nell’abside del duomo di Pisa, con un ampio apparato a piú piani, esemplato sul modello arnolfiano. L’effigie del
sovrano, tra gli elementi superstiti, rivela la personalità di Tino, per nulla incline ai virtuosismi di Giovanni Pisano, ma teso a delineare con uno stile spoglio e immediato una figura «ossuta», veritiera, tutt’altro che esaltante. Le insegne del sovrano, l’aquila e il leone rampante, furono replicate ad affresco, su un finto velario a parete, mentre sulla calotta dell’abside dominava il mosaico che vide Cimabue all’opera nel 1301-02, poco prima della sua morte (suo è il San Giovanni Evangelista, a destra). Il complesso musivo venne poi completato solo nel 1321.
Un sepolcro per l’imperatore
Un altro importante monumento funebre era stato in precedenza realizzato per la moglie di Arrigo VII, Margherita di Lussemburgo, morta a Genova a causa di una epidemia di peste nel 1311. L’opera fu commissionata dall’imperatore in persona al quasi settantenne Giovanni Pisano nel 1313, e venne allestita nella scomparsa chiesa di S. Francesco di Castelletto. Il destino volle che il sovrano morisse 24 ore prima della stipula del contratto con l’artista. Giovanni aveva forse riproposto lo schema della camera sepolcrale con due angeli che scostano la cortina. La scena sommitale, con l’ascesa dell’anima al cielo, proponeva però una toccante evocazione invece della consueta scena del risorto inginocchiato al cospetto dei santi. Lo scultore aveva infatti ideato un gruppo composto dalla regina e da due angeli. Margherita era nell’atto di sollevarsi dalla sua posizione di giacente con l’aiuto degli angeli. D’altro canto, in luogo della rappresentazione immota del gisant (giacente) sul sarcofago, Giovanni aveva creaA sinistra statua dell’imperatore Arrigo VII, dal monumento funebre opera di Tino di Camaino. 1315. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.
to una scena di gruppo, in cui la sovrana, perdendo le forze, sprofondava nella cassa sottostante. Sia pur frammentaria, l’elevatio animae si è conservata (Genova, Museo di S. Agostino), ed è l’apogeo dell’arte di Giovanni. La posizione sghemba della donna rende in modo impressionante l’emergere dal sepolcro, e il suo corpo mostra un realismo palpitante per come viene afferrato dagli angeli. Il volto della regina, come rapita in un sonno profondo e devastante, lascia emergere l’estasi e lo sconvolgimento di fronte alla rivelazione divina. E per vedere un’esperienza intima cosí vivida e al tempo stesso inafferrabile, dopo Giovanni si dovrà attendere l’Estasi di Santa Teresa (1674-1652) di Gian Lorenzo Bernini (Roma, S. Maria della Vittoria).
In alto Orvieto, chiesa di S. Domenico. Monumento funebre del cardinale De Braye, opera di Arnolfo di Cambio. 1282 circa.
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La pittura
La pittura: fra tradizione e innovazione
T
eodorico fece di Ravenna la capitale di un regno che voleva essere al tempo stesso romano e ostrogoto, ortodosso e ariano. E sotto di lui è ben viva la gloriosa tradizione pregressa, che tuttora si legge nei mosaici paleocristiani superstiti della stessa Ravenna, di Roma, di Napoli e di Milano. In quei casi, la vicenda artistica era riconoscibile nell’unitarietà dei suoi caratteri di base sia in Italia che a Costantinopoli, proprio perché agiva la radice comune dell’arte tardo-antica. Tuttavia, proprio all’epoca del regno ostrogoto, il mondo latino comincia a differenziarsi. Se osserviamo il mosaico absidale dei Ss. Cosma e Damiano a Roma, realizzato sotto papa Felice IV (526-530), le figure si stagliano su un cielo solcato da nuvole screziate con una evidenza davvero scultorea. Sono figure ben caratterizzate, ma anche solide, squadrate, con espressioni mute, severe, che emanano forza e senso di presenza dalle profonde orbite degli occhi, fissi sullo spettatore. È uno stile che traspone con una vena di realismo ancora pulsante i modi della ritrattistica ufficiale del tardo impero, quando i sovrani e i loro dignitari furono sempre piú evocati come presenze immanenti, pervase da un’aura sacrale, perdendo naturalezza ma anche acquisendo un senso quasi truce di superiorità.
Verso l’astrazione
Sempre all’epoca di Teodorico, Ravenna si arricchí di una nuova cattedrale preposta alla confessione ariana degli Ostrogoti, e il battistero di corredo conserva la decorazione musiva dell’epoca. Confrontandola con il precedente complesso decorativo degli Ortodossi, commissionato dal vescovo Neone (451-475), si avverte come la tendenza all’astrazione abbia guadagnato terreno, riducendo enormemente il gusto del dettaglio, l’ornatismo, la vivacità e anche la complessità realizzativa dell’opera precedente, che sfoggia per giunta una raffinatissima decorazione architettonica a stucco. Nonostante le modifiche disposte dall’arcivescovo Agnello (556-565), circa vent’anni dopo 72
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Ravenna, battistero Neoniano o degli Ortodossi. Una veduta della cupola, con il corteo degli apostoli e, nel tondo centrale, la scena del Battesimo di Gesú. 451-475.
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La pittura
Qui sopra Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Il ritratto a mosaico di Giustiniano, che forse raffigurava in origine Teodorico. VI sec. In alto Roma, Ss. Cosma e Damiano. Particolare della decorazione del catino absidale. 526-530. A sinistra Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Il mosaico della navata centrale raffigurante il Palatium di Teodorico. Fine V-inizi VI sec.
la presa della capitale da parte di Giustiniano (540), la basilica palatina di S. Apollinare Nuovo conserva il carattere solenne della cappella annessa alla sede del potere regio. La damnatio memoriae di Teodorico comportò la sostituzione delle lunghe teorie dei dignitari con le processioni dei santi martiri. Furono eliminate le figure che corredavano la raffigurazione del palatium (sopravvivono, però, qualche mano e qualche lembo di testa, in coincidenza delle colonne della quinta architettonica). Un ritratto dello stesso Teodorico venne forse trasformato in un’effigie di Giustiniano grazie alla semplice apposizione di una nuova dicitura. Nella basilica di S. Vitale, l’imperatore ebbe modo di agire in una nuova realizzazione, terminata nel 547/8. Egli si fece ritrarre nell’abside, nel riquadro laterale in cui compare insieme all’arcivescovo Massimiano e ad alcuni dignitari della sua corte. Sul lato opposto compare invece la consorte Teodora. Non si tratta di una pura esibizione dei sovrani e dei loro corteggi, e lo splendore dell’apparato è in funzione della felicità eterna. Il servitore che scosta una tenda di fianco a Teodora allude al suo passaggio scenico verso l’aldilà e la tenda scostata individua infatti il percorso diretto verso l’immagine di Cristo. Entrambi i cortei, d’altronde, seppur raffigurati frontalmente, sono nell’atto di muoversi lungo la direttrice principale. C’è sicuramente un effetto generale di sfarzo, ed è notevole lo stacco rispetto all’austerità del ARTE DEL MEDIOEVO
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Ravenna, basilica di S. Vitale. Due particolari della decorazione musiva dell’abside raffigurante l’imperatrice Teodora (in alto) e l’imperatore Giustiniano (qui sopra) con il loro seguito di corte. 547 circa.
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La pittura
periodo teodoriciano. Nell’abside, i fondali sono animati da spunti paesaggistici assai stilizzati, e le figure hanno una consistenza vigorosa, esaltata dal chiaroscuro dei panneggi. Ma il presbiterio rivela un’intonazione diversa. Riemerge, infatti, un concetto classico della figura insieme a un’ambientazione proporzionata e tridimensionale. Le due splendide scene bibliche, e tutto l’apparato decorativo, formano cosí un insieme che ripropone la componente ellenistica della tradizione antica, quella attenta al vero, con una tecnica pittorica che cura abilmente i trapassi tonali, dando una sensazione di naturalezza e di levità. Quando poi è l’arcivescovo ravennate ad agire in prima persona, come si osserva negli stessi
anni a S. Apollinare in Classe (549), lo stile di S. Vitale si spoglia di ogni realismo e l’elemento astratto emerge con forza, grazie alla figura esangue del santo vescovo titolare che si staglia su un paesaggio di pura valenza simbolica. Si tratta di un vasto, oleografico paradiso su cui campeggia una gigantesca croce gemmata.
Un’arte poliedrica
Il quadro di questa fase storica si arricchisce ancor piú se consideriamo il Codex Purpureus di Rossano Calabro, nel quale vediamo scene di sorprendente compostezza antica, mentre le molteplici testimonianze pittoriche in S. Maria Antiqua, a Roma, ci mostrano un’arte davvero poliedrica. Dapprima, forse già all’epoca di
Ravenna, basilica di S. Vitale. Lunetta a mosaico della zona del presbiterio con scena raffigurante l’accoglienza di Abramo ai tre Angeli a Mamre e il sacrificio di Isacco. 547 circa.
Teodorico, un ambiente del Foro risalente all’età di Domiziano (81-96 d.C.) accolse un affresco con la Madonna regina intenta a sorreggere il Bambino, con due Angeli al fianco nell’atto di rendere omaggio alla Vergine con il dono di una corona aurea. La rappresentazione si ricollega cosí al tema classico dell’aurum coronarium, ossia l’offerta di una corona aurea ai conquistatori, secondo un uso diffuso nel Vicino Oriente e nel mondo ellenistico, e tramandato poi ai Romani, che introdussero un tributo equivalente al dono della corona. È lo strato figurato piú antico tra i molteplici (ben quattro) che compongono il palinsesto riscoperto nell’anno 1900 sulla parete di fondo dell’aula. Ci troviamo senza appigli precisi nella
prima metà del VI secolo, e c’è dunque l’incognita sulla committenza e sulla matrice dell’opera: teodoriciana o giustinianea, romana o bizantina? Di sicuro, l’immagine cattura in modo quasi ipnotico lo sguardo dello spettatore: il volto della Vergine è rigidamente frontale e i suoi grandi occhi sprigionano un senso di altera maestà; la corona e il manto spiccano grazie agli enormi castoni bianchi che alludono a pietre preziose, con un effetto analogo alla magnetica e scintillante visione di Teodora nel S. Vitale di Ravenna. L’alta qualità pittorica nella resa dei dettagli e negli incarnati fa capire che la fissità è un requisito espressamente voluto per ottenere un effetto particolare, e non è dunque il segno rivelatore dei limiti espressivi dell’artista. È poi ARTE DEL MEDIOEVO
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La pittura
tal senso è ancora quello del palinsesto di S. Maria Antiqua. Alla fine del VI secolo, quando l’Italia è in balía dei Longobardi, la Roma papale e bizantina istituisce la chiesa di S. Maria Antiqua in luogo della cappella precedente. Sulla parete di fondo si apre un’abside che taglia il riquadro della Vergine Regina, e sullo strato di questo dipinto si sovrappone un programma pittorico di ampia estensione che prevede, in luogo della precedente «icona», la scena dell’Annunciazione. Il dipinto è ampiamente perduto, ma ne sopravvive il volto dell’arcangelo Gabriele, la cui folgorante qualità gli è valsa l’epiteto di «angelo bello».
Le immagini bandite
In alto icona di Santa Maria Antiqua, encausto su tela incollata su tavola. Ultimo quarto del VI sec. Roma, basilica di S. Francesca Romana. Nella pagina accanto miniatura dal Codex Purpureus Rossanensis raffigurante Cristo e Barabba di fronte a Pilato. VI sec. Rossano Calabro, Museo Diocesano.
interessante notare che questa visione della Madonna come basilissa (imperatrice bizantina) conoscerà una fortuna tutta particolare in Italia, trovando invece scarso seguito proprio nel mondo bizantino. Come si è visto a S. Vitale di Ravenna, persino in uno stesso contesto cronologico la tendenza all’astrazione e un naturalismo di stampo ellenistico potevano trovare il loro spazio, senza alcuna disomogeneità. Le due tendenze, infatti, non erano percepite come contrastanti e, in generale, l’interpretazione astratta funzionava meglio quando occorreva dare un senso dell’autorità, o quando era opportuno concentrare l’attenzione sulle valenze simboliche dell’immagine. Il naturalismo era soprattutto apprezzato nella pittura di tipo narrativo e nei dipinti votivi (le icone). Si parla cosí di un ellenismo perenne che non si spegne mai, che riemerge di continuo spezzando ogni luogo comune sulla ripetitività e sulla fissità dell’arte bizantina. Un caso eclatante in
Nel 730 inizia l’iconoclastia, ossia la messa al bando delle immagini sacre disposta dall’imperatore bizantino Leone III l’Isaurico, e Roma diviene una delle roccaforti degli iconoduli, convinti assertori della liceità del ritratto di Cristo. Sotto il pontificato di Zaccaria (741-752), il laico Teodoto, che ricopre un incarico di alto livello nella corte papale, si fa ritrarre nella cappella che ha disposto in onore dei santi medici Quirico e Giulitta. È raffigurato insieme al pontefice, ai principi degli apostoli e ai santi dedicatari nell’atto di offrire la cappella. Al centro campeggia, frammentaria, la Madonna in trono col Bambino. Nella nicchia soprastante compare una Crocifissione che è la capostipite ideale di un’infinita serie di interpretazioni che si svolgeranno nei secoli successivi, in parallelo all’altro grande tema della Vergine col Bambino. La tabella che sormonta la croce è in greco, mentre le scritte che identificano i personaggi sono in latino. Gesú veste un capo tipicamente orientale, senza maniche – un colobium –, ma si mostra a occhi aperti, contrariamente alle consuetudini bizantine. La scelta rifletteva verosimilmente la volontà di sottolineare la vittoria sulla morte, dal momento che vediamo raffigurato il momento culminante del supplizio, quando Longino trafigge Cristo al costato. Da una simile esperienza «bilingue», greco-latina sia sul piano epigrafico che su quello iconografico e formale, si sviluppa una tipologia figurativa che gode di particolare fortuna in Occidente, soprattutto in età romanica. È il Christus triumphans, che si rivolge al fedele con gli occhi spalancati, in un’espressione pressoché spettrale. Talvolta il volto è reclinato, ma il Cristo può presentarsi piú facilmente in una rigida posizione frontale, per esprimere al meglio il suo trionfo sulla morte, e il senso della sua regalità divina. Il piú delle volte la pittura prende corpo su croci ARTE DEL MEDIOEVO
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La pittura
UN TESORO NEL CUORE DI ROMA
lignee a grandezza naturale, e talvolta completa l’immagine scultorea del Cristo. Tra le effigi scolpite, si può ricordare il Volto Santo di Lucca (XII secolo), nel quale ritroviamo il colobium di S. Maria Antiqua. Proprio i crocifissi scolpiti hanno contribuito molto al successo di questa interpretazione, ed è probabile che all’origine di questa tendenza vi siano i monumentali crocifissi metallici particolarmente diffusi sin dal X secolo nelle terre del regno italico. La loro potente aura di regalità non è solo un riferimento di forte presa sulla devozione collettiva, ma era anche un valore fondante per l’autorità religiosa, a tal punto che è stato proposto un nesso tra l’immagine trionfante di Cristo e la riforma della Chiesa tra l’XI e il XII secolo. Gli splendidi esemplari di Pavia e di Vercelli, in ogni caso, si ricollegano a committenti di alto prestigio: la badessa Raingarda (in carica negli anni 96365) dell’importante monastero longobardo di S. Maria Teodote nel primo caso, nel secondo il vescovo Leone di Vercelli (999-1024), come è stato ipotizzato da Adriano Peroni. Si tratta di un presule filoimperiale di origini germaniche, in rapporti di amicizia con l’arcivescovo Bernoardo di Hildesheim.
Il Cristo sofferente In alto Roma, Foro Romano, chiesa di S. Maria Antiqua. Particolare della «parete palinsesto», nella quale sono state identificate ben quattro fasi pittoriche diverse, realizzate fra il VI e l’VIII sec. In basso Roma, Foro Romano, chiesa di S. Maria Antiqua. Veduta generale della cappella dei santi Cosma e Damiano. Sulla parete di fondo, in alto, la Crocifissione. 741-752.
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Si trattava di un’interpretazione squisitamente occidentale, e nessun rimprovero può quindi essere mosso al riguardo alla tanto deprecata maniera bizantina, anzi. La linea trainante nello sviluppo del tema fa capo proprio alla probabile opera di un abilissimo pittore greco, o comunque di fresca ispirazione bizantina. È l’autore della croce n. 20 del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa (1210 circa), che inaugura la lunghissima serie dei crocifissi in cui il Cristo si mostra sofferente (patiens), secondo un’interpretazione intima e partecipata che era stata da sempre patrimonio dell’iconografia bizantina. Non solo Gesú mostra il volto abbandonato e reclinato, con gli occhi chiusi e un’espressione mesta, ma il corpo esprime lo strazio al quale viene sottoposto inarcandosi in modo innaturale, ma assai efficace da un punto di vista drammatico. Da qui si sviluppano, proprio in ambiente pisano, le esperienze di Giunta, che ebbe tra l’altro modo di realizzare la perduta croce che decorava la Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, voluta dal controverso frate Elia, rappresentato in veste di offerente (1236). Cimabue porta il soggetto alle massime vette di elaborazione formale e di
A sinistra Lucca, duomo. Il Volto Santo. XII sec. In basso crocifisso in lamina d’argento sbalzata e dorata. Fine del X-inizio dell’XI sec. Vercelli, duomo.
impatto emotivo, come nell’esemplare di S. Croce a Firenze (1272-80). Egli rende infatti il Cristo con maestria, con un’evidenza plastica di sconvolgente vivezza, facendone una grande «presenza» magnetica, sublime e agghiacciante, che attrae e sconvolge lo spettatore. Giotto non si discosta sostanzialmente dalla tipologia di questi dipinti. Non esita per esempio a ricorrere a raffinati pattern decorativi per impreziosire il fondale, di stampo bizantino per preziosità cromatica e materica, ma conferisce all’ornamento un rigore geometrico insolito, per dare il senso tattile di un «vero» drappo che avvolge il corpo di Gesú, come si vede a Padova (Musei Civici), nella croce destinata alla Cappella degli Scrovegni (1303-05). Il suo Cristo non ha d’altro canto le accentuazioni chiaroscurali e le pose estenuate dei modelli cimabueschi. Il corpo si fa piú proporzionato, la resa del modo in cui si abbandona è piú veritiera, né troppo arcuata né troppo rigida. Il suo volto, poi, si libera da ogni schema trasfigurante per assumere la fisionomia «semplice» di un essere umano nel momento del trapasso. L’altro grande tema iconografico della Madonna col Bambino si pone sulla direttrice della
modernità proprio quando recupera l’interpretazione soave e partecipata tipica del mondo bizantino. Anche su questo versante si era sviluppata un’interpretazione severa e rituale, in cui la Vergine riproponeva l’immagine della Madonna regina di S. Maria Antiqua. In questi casi, anche in assenza di attributi regali, quando la Vergine è in posizione frontale e il Bambino benedicente si trova in posizione perfettamente assiale, si parla di Vergine Nikopeia, ossia «colei che porta la vittoria», intendendo una vittoria sui nemici di ogni tipo. Possono essere truppe che assediano la città, tant’è che una celebre icona, la Hodigitria («colei che mostra la via»), dove il Bambino era ritratto in modo non assiale, appoggiato sul braccio sinistro della Vergine, a Costantinopoli veniva esposta sugli spalti delle mura proprio quando incombeva il pericolo di una espugnazione. Piú in generale, la Madonna fortifica i fedeli contro gli assalti del peccato e dell’eresia. La sua immagine in forma solenne con il Bambino in grembo si richiama al concetto di Maria come trono di Dio. Proprio perché sorregge il Figlio, è anche sede della sapienza del Padre Eterno. Di qui nasce il titolo di Maestà e di Sedes ARTE DEL MEDIOEVO
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LE VIE DELLA CREAZIONE Sapientiae, spesso riservato a queste raffigurazioni nel Basso Medioevo italiano. Le molteplici esigenze della devozione avevano favorito, in Occidente, uno sviluppo della tipologia nell’ambito della statuaria, per esempio nel gruppo ligneo scolpito e dipinto nel 1199, opera del prete Martino (oggi a Berlino, BodeMuseum). Proveniente da Borgo Sansepolcro, presenta alla base del trono un suppedaneo con un motivo di leoni accovacciati che rimanda alla descrizione biblica del trono di Salomone. L’epigrafe di corredo evidenzia che nel grembo della Madre rifulge la sapienza del Padre. Il Bambino, d’altronde, si rivolge al fedele con un gesto imperioso, come un sovrano che parla agli astanti dall’alto di una tribuna. L’aspetto solenne e imperturbabile di questa e di tante altre composizioni romaniche, in scultura come in pittura, mette in primo piano l’elemento teologico e simbolico, a tal punto che l’aspetto della maternità viene assorbito dall’aura divina dell’immagine. Questo aspetto è indiscutibile nel magnifico mosaico absidale di Torcello, dove la Hodigitria stante, integralmente ricomposta nel XII secolo, si staglia su un immenso, avvolgente campo d’oro. Nel settore delle icone, l’aspetto intimo della devozione aveva favorito a Bisanzio un’interpretazione piú empatica della maternità divina, con un coinvolgimento affettivo del fedele. L’immagine del Bambino allattato al seno o che scambia con la Madre uno sguardo pregno di tenerezza, o un semplice gesto della Madre – come lo stringere tra le dita il piedino del Figlio –, permisero di sviluppare nel solco di una tipologia radicata una ricerca espressiva sempre piú attenta a un sentimento di umanità soave e partecipe.
Cura dei particolari
Queste istanze si affacciarono con un moto lievissimo nel Duecento italiano. Dapprima si sviluppò un senso di presenza che dava all’immagine una concretezza quasi scultorea, unitamente a una resa piú accurata dei particolari decorativi, che dovevano sempre piú trasmettere sensazioni visive e tattili precise. In Toscana si muove presto su queste coordinate l’abile Margaritone di Arezzo, il quale organizza una bottega attiva ad ampio raggio. La sua Madonna di Montelungo, che si ascrive in modo significativo a una data-crinale, il 1250, prelude cosí a quelle maestà tipicamente toscane in cui si afferma il magistero, tra gli altri, di Coppo di Marcovaldo e, soprattutto, di Cimabue. Il tema prevede talvolta, di fianco all’immagine 82
ARTE DEL MEDIOEVO
La pittura
LA SALVEZZA DELL’UMANITÀ L’arcivescovo Bernoardo di Hildesheim (Bassa Sassonia) fu un prodigioso committente, e a tal fine poté avvalersi di un ruolo di spicco anche su un piano prettamente politico. Ricoprí infatti il ruolo di consigliere dell’imperatrice Teofano e fu precettore di Ottone III. Nel 1010 intraprese nella sua diocesi la chiesa abbaziale di S. Michele, che costituisce una testimonianza fondamentale già sul piano architettonico. Ma Bernoardo lega il proprio nome anche a preziose suppellettili, che vedono emergere un grande senso della composizione e della narrazione nell’ambito della fusione in bronzo. Proprio per S. Michele, Bernoardo realizza nel 1015 i due battenti della porta di ingresso (oggi collocati in cattedrale) con otto riquadri ciascuno che raccontano la Genesi (a sinistra) e la vita di Cristo (a destra). Si tratta di un programma che esalta il sacrificio del Messia per la salvezza dell’umanità, e che è reso da un punto di vista formale in modo impressionante, con le figure che aggettano con forza dal piano di fondo, su cui si delineano pochi elementi descrittivi.
statuaria centrale, lo sviluppo di scene narrative, e il prototipo in tal senso è costituito dalla tavola di S. Maria Maggiore a Firenze (1270 circa), in cui si assiste peraltro a una sorta di perfetta fusione solidale tra pittura e scultura, proprio perché il gruppo centrale della Vergine in trono col Bambino è eseguito a rilievo. Come si accennava, Giotto rispetta in pieno il dettame della tradizione. D’altronde, sul piano scultoreo, lo stesso Arnolfo di Cambio offre piú volte un’interpretazione solenne del tema, ma lo stile «rompe» lo schema iconografico con lo studio dei panneggi che ricadono in modo credibile, senza rigidezze ed estenuazioni, con una sensibilità prettamente classica. Nella Madonna di S. Giorgio alla Costa (1295 circa), il giovane Giotto rinnova allo stesso modo la costruzione dello spazio e la resa dei dettagli. L’idea degli Angeli omaggianti dietro un paravento si riallaccia in modo quasi archeologico allo stile ellenistico delle icone del Sinai dell’epoca di Giustiniano. Il drappo stesso ha una sua concretezza e una sua credibilità proprio perché ripropone una manifattura tessile dell’epoca con minutissima attenzione. L’aureola della Vergine, poi, nascondendo in gran parte la raffinata architettura del trono, con uno schienale dall’apice gotico, rende bene la scansione dello spazio, creando la giusta distanza tra il fondale e il gruppo delle figure in primo piano. Quando poi, nel pentittico di S. Maria del Fiore (1310 circa), il tema della Vergine col Bambino ritorna come raffigura(segue a p. 86)
Hildesheim, duomo. Particolare della porta bronzea con bassorilievi raffiguranti episodi del Nuovo Testamento: la Presentazione al Tempio e la Visita dei Magi. 1015.
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LE VIE DELLA CREAZIONE IMMAGINI DI UN SACRIFICIO
In alto Crocifisso di Padova, tempera e oro su tavola di Giotto. 1303-1305. Padova, Musei Civici agli Eremitani. A destra Crocifisso, tempera e oro su tavola di Giunta Pisano. 1250-1254. Bologna, chiesa di S. Domenico.
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CASTELLI ARTE DEL D’EUROPA MEDIOEVO
La pittura Nella pagina accanto croce dipinta, tempera e oro su pergamena applicata su tavola. 1210. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.
CASTELLI D’EUROPA
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La pittura
zione centrale, Giotto (o il cosiddetto Parente di Giotto) mostra l’adesione al tipo della Vergine affettuosa, rivolta al Figlio con uno sguardo da cui traspare una maternità tutta umana. Molto simile ma piú incisivo e moderno è il percorso di Ambrogio Lorenzetti. A San Casciano Val di Pesa, nel 1319, parte da una raffigurazione in cui la Vergine si para frontalmente con un’espressione severa, ma il Bambino sembra intento a dibattersi e a contorcersi sulle sue ginocchia, come se rifiutasse di adeguarsi alla norma iconografica, e rivolge alla Madre uno sguardo brillante e vivacissimo, che evidenzia una giocosità tutta infantile. Ambrogio offre poi una delicatissima Madonna del latte (Siena, Museo Diocesano, 1320-25 circa), dove la Vergine rivolge al Figlio uno sguardo sorridente, fatto di gioia e di appagamento. Quando realizza una Maestà nell’ambito di un polittico di grande impegno anche dal punto di vista dottrinario, a Massa Marittima (1335-37), Lorenzetti anticipa le Sacre conversazioni in cui la Madonna è nel mezzo di una schiera di Santi, come in una sorta di dotto cenacolo di teologia, ma ella resta ben delimitata nel proprio spazio, tutta presa nell’intimo colloquio con il Figlio.
Uno stile immediato
Nella basilica inferiore di S. Clemente a Roma, una Vergine col Bambino del tardo VIII secolo dipinta in una nicchia si conforma al modello della Vergine Regina di S. Maria Antiqua. Tuttavia, l’emergere di uno stile linearistico trasforma profondamente il senso e l’effetto della figura, che, a confronto, sembra appiattita, esangue, scolorita. Un brano narrativo come la notevole Discesa agli inferi di Cristo – tema nel quale Gesú risorto si reca negli abissi dell’aldilà per salvare le anime dei progenitori Adamo ed Eva – mostra d’altro canto che questo tipo di pittura, seppur meno iridescente e paludato rispetto ai modelli, possiede una certa immediatezza. Tale requisito riemerge e si amplifica nelle Storie di San Clemente e di Sant’Alessio (1078-1084 circa). Le cornici di ripartizione con eleganti tralci simmetrici recuperano motivi ornamentali classici, con un’intonazione tutta romana, completamente indipendente da Bisanzio, come se i pittori locali avessero studiato dal vivo i dipinti e i mosaici dell’Urbe antica. La scenografia è gustosa, in particolare nel Miracolo del Tempietto, dove la tomba-chiesa di san Clemente è «esplosa» con un procedimento descrittivo che unifica interno ed esterno, e che mostra le tre navate all’unisono da una visuale 86
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A sinistra Madonna col Bambino, raffigurata come Sedes Sapientiae, opera del presbitero Martinus. Legno dipinto e dorato. 1199. Berlino, Bode-Museum.
unica. È un bell’esempio di raffigurazione riassuntiva, che, in spregio della verosimiglianza, non si accontenta di mostrare una sola parte dell’edificio. L’insieme è arricchito da una visione sottomarina, con figure di pesci di sorprendente effetto, dal momento che la leggenda di san Clemente situa la tomba del santo nell’abisso di un fondale. In tutti i riquadri, costumi e oggetti di scena sono resi con un’evidenza e un’eleganza mol-
to particolari. Si registra, per esempio, l’insistenza nella resa puntigliosa delle tuniche sacerdotali e delle sopravvesti femminili, sempre confezionate con tessuti serici di grande pregio, animati da complessi motivi ornamentali. Sotto il solenne riquadro della Messa di San Clemente, poi, nella fascia che in genere è occupata da finte tappezzerie e da figure del repertorio favolistico e simbolico, appare una sorta di fumetto, un episodio della vita del santo
In alto Venezia, cattedrale di S. Maria Assunta. Particolare del mosaico del catino absidale raffigurante la Madonna col Bambino come Hodigitria, opera di maestranze bizantine. XII sec.
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La pittura A sinistra Madonna in trono col Bambino, tempera e oro su tavola di Margaritone d’Arezzo. 1240-45 circa. Washington, National Gallery of Art.
trattato come una scenetta teatrale, con uno stile dal grafismo esasperato. Pochi tratti buttati giú in una sorta di bianco e nero bastano a delineare i personaggi e gli oggetti di scena, ossia i due archi di un edificio e il fusto di una colonna deposto a terra. Il tutto si completa con le didascalie che riportano le battute del persecutore pagano Sisinnio. Ha ordinato ai suoi servi di incatenare e imprigionare il santo, ma Clemente, per miracolo, si fa sostituire da una pesantissima colonna che non è possibile trascinare a forza di braccia. Di qui l’ira di Sisinnio, che incita inutilmente i tre malcapitati: «Fili de le pute, traite! Gosmari, Albertel, traite! Falite dereto colo palo, Carvoncelle!» («Tirate, figli di puttana! Tirate voi, Gosmario, Albertello! Tu, Carvoncello, spingi da dietro col palo!»). Nel mezzo della scena un’epigrafe in latino sentenzia: «Per la durezza del vostro cuore, meritaste di trainare sassi». Nella Crocifissione di Teodoto a S. Maria Antiqua si poteva osservare il bilinguismo greco-latino. Qui si passa invece a un audace accostamento tra latino e volgare, adottato in 88
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In basso Madonna di San Giorgio alla Costa, tempera e oro su tavola di Giotto. 1295 circa. Firenze, Museo Diocesano.
Madonna del latte, tempera e oro su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1324. Siena, Oratorio della Compagnia di San Bernardino.
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Madonna di Vico l’Abate, tempera e oro su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1319. San Casciano in Val di Pesa, Museo di San Casciano.
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La pittura
un contesto drammatico e dunque in una funzione letteraria. Si tratta di un caso isolato e molto particolare, ma che rende bene il senso di un’estetica che sa essere ricercata, elegante, e al tempo stesso sapida, verace, immediata. Non va infine dimenticato che i committenti dei dipinti erano laici, i coniugi Beno di Rapiza e Maria Macellaria (che a dispetto del nome, non era figlia di un macellaio), nobili romani
che si sono fatti raffigurare insieme ai propri figli al cospetto di un medaglione con la figura del santo dedicatario. Non molti anni dopo, la basilica viene ricostruita, e sulla nuova calotta absidale prende corpo un mosaico che annuncia trionfalmente il recupero della tradizione paleocristiana dell’Urbe (1118). Il crocifisso si delinea al centro di un bellissimo, gigantesco motivo a girali
di acanto, che recupera la suggestione dell’antico in funzione del concetto di Cristo come lignum vitae. La croce, in sostanza, si qualifica come Albero della vita e si ambienta in uno scenario paradisiaco. Le monumentali figure dei Profeti, ai lati, sono figure statuarie, ben paludate, che nobilitano in pieno lo stile lineare della tradizione locale. L’intervento di maestranze bizantine tornava
intanto a essere determinante dopo il 1050, non solo nella laguna veneziana. Dopo il cantiere di Montecassino, è il turno della Sicilia normanna, che elabora complessi decorativi di altissimo impegno con grandi ripercussioni su tutta l’Italia meridionale e non solo. I mosaicisti che si sono cimentati nella vasta impresa della cattedrale di Monreale voluta dal re Guglielmo II (1172-1189) vengono chiama-
Maestà di Massa Marittima, tempera e oro su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1335. Massa Marittima, Museo d’arte sacra.
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ti a Roma da papa Innocenzo III, tra il 1202 e il 1209, per il rifacimento del mosaico absidale di S. Pietro. Pochi anni dopo, un maestro di chiara formazione monrealese, il doctor Solsterno, dichiarandosi orgogliosamente «moderno», realizza il mosaico di facciata del duomo umbro di Spoleto (1207). L’autorevole stile bizantino si fa da araldo e da portavoce dell’autorità papale, anche perché il mosaico in facciata era una prerogativa proprio della basilica costantiniana di S. Pietro.
Nel solco della tradizione bizantina
L’importanza dell’apporto monrealese si evidenzia però anche nell’attività dei maestri toscani del secondo Duecento. Per rendersi conto di questo legame tutt’altro che sotterraneo, basta confrontare la Madonna in trono col Bambino dell’abside siciliana con la Maestà di S. Maria dei Servi a Orvieto (1265-70). Un vigoroso apporto bizantino è rinnovato poi dai pittori, forse greci, che a Parma (nel battistero, intorno al 1250) si muovono sulla linea della migliore tradizione di Costantinopoli, creando un complesso di elevata intonazione classica. Gli affreschi recentemente scoperti presso il duomo di Siena (1270-80) sono d’altro canto il preludio ideale 92
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La pittura
Nella pagina accanto Roma, S. Clemente, basilica inferiore. In alto, il miracolo del Mar d’Azov, particolare del ciclo di affreschi con le Storie di San Clemente. 1078-84 circa. In basso, la leggenda di Sisinnio, particolare del ciclo con le Storie di San Clemente. L’affresco mostra nel registro mediano san Clemente mentre celebra la Messa, e, nell’inferiore, il prefetto di Roma, Sisinnio, che ordina ai suoi servi, accecati dalla luce divina, di trascinare in prigione Clemente, scambiato con una colonna marmorea. A sinistra La leggenda di Sisinnio, in una riproduzione ottocentesca dell’affresco. Le vignette del registro inferiore sono corredate da «fumetti» che costituiscono un importante documento della nascente lingua volgare italiana.
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La pittura
di Duccio di Buoninsegna, con una solida vena bizantina destinata a rimanere un elemento fondamentale in tutto lo sviluppo della pittura locale, anche nel secolo successivo. Il grandioso complesso pittorico della cripta di Anagni, ricollegato alla committenza di papa Gregorio IX (1227-1241), che della cittadina laziale era originario, segna una prima avvisaglia di rinnovamento. Tre maestri di diversa indole evidenziano i limiti e le potenzialità di uno stile eclettico e sfarzoso, che passa da una rigida riproposizione di vecchie tipologie a vertici di spiccata inventiva visionaria e che ha il suo punto di forza nell’orchestrazione dell’insieme. L’elemento decorativo e scenografico fa da collante all’intero complesso, e suggerisce la creazione di una nuova grammatica generale, dove la ricerca espressiva e la cura del dettaglio devono entrare nel cuore della scena, nella resa delle figure e dei fondali, senza fermarsi alla cornice. Basta una precisa volontà in tal senso e, nel volgere di pochi decenni, l’esperienza di Anagni può essere archiviata. Papa Niccolò III (127780), disponendo gli affreschi della cappella del Sancta Sanctorum, consacra una pittura concreta ed energica, accurata nel complesso e nel dettaglio, e, soprattutto, capace di competere con la migliore pittura bizantina nella resa credibile di uno spazio tridimensionale. Si schiude cosí il vaso di Pandora della riscoperta del vero. Nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francisco ad Assisi, con le Storie di Isacco (1290 circa), si compie una svolta epocale, persino da un punto di vista specificamente organizzativo, poiché da quel momento in poi i pittori lavorano a giornate, non piú a pontate: portano avanti il lavoro stabilendo volta per volta le aree da realizzare a seconda della scena, cosí da non procedere a blocchi lineari lungo la fascia della parete interessata dall’impalcatura. Il procedimento favorisce una costruzione della scena piú meditata, evitando di ripetere schemi di massima.
Un’attribuzione discussa
Forte di una sicura esperienza romana – e di scuola romana erano i pittori che avevano agito prima di lui –, il Maestro di Isacco viene da molti critici identificato con Giotto in persona. Che sia stato lui, sin da questa fase di snodo, il regista della grande svolta assisiate, è assai credibile, anche se un dibattito appassionante e tutt’altro che risolto non lascia ancora spazio a una visione unanime. Comunque, a parte l’aggancio delle fisionomie a un’opera auto-
grafa giovanile come il crocifisso di S. Maria Novella a Firenze, la costruzione rigorosa, quasi compiaciuta degli spazi interni, una precisa caratterizzazione dei personaggi e un’avvincente scansione degli eventi lasciano emergere una sensibilità scenica, narrativa e teatrale, che sicuramente Giotto padroneggia in modo pressoché unico non molti anni dopo, nella Cappella degli Scrovegni a Padova (130305). Si tratta verosimilmente di un’abilità e di una competenza che l’artista fiorentino ebbe modo di elaborare e di sperimentare proprio ad Assisi, complice la necessità di raccontare la storia di un personaggio contemporaneo, san Francesco, con un piglio realistico e con evidenza monumentale, in linea con lo stile del Sancta Sanctorum. Come ha evidenziato Chiara Frugoni, le Storie di Isacco costituiscono uno snodo anche iconografico in rapporto alle Storie francescane intraprese in seguito. Il personaggio biblico di Giacobbe, infatti, figlio minore di Isacco, era visto come un corrispettivo del santo di Assisi. Anche Giacobbe, infatti, impersona colui che eredita un ruolo dal padre pur essendo mino-
In alto Monreale (Palermo), cattedrale di S. Maria Nuova. Particolare della decorazione a mosaico del catino absidale raffigurante la Madonna col Bambino. 1172-89. Nella pagina accanto Maestà di Orvieto, tempera e oro su tavola attribuita a Coppo di Marcovaldo, ma anche riferita alla scuola senese. 1265-70. Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo.
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In alto Assisi, basilica di S.Francesco, chiesa Superiore. Esaú respinto da Isacco, particolare di uno dei due riquadri delle Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento attribuiti al Maestro di Isacco. 1290 circa.
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La pittura
re, pur non avendone, sulla carta, il diritto. La volontà di Dio si compie con un inganno «necessario» ai danni del vecchio Isacco. Il ritratto di Giacobbe nella scena in cui egli riesce a fingere di essere Esaú, il prediletto figlio maggiore, si impone per senso di nobiltà e verità di espressione. Si indovina la tensione di chi sta attuando un piano, come pure la determinazione di chi, con fierezza, sa di poter riuscire nei propri intenti. La stessa tempra eroica, anche se con diversi effetti, viene travasata nel san Francesco delle Storie, dove trionfa il suo carattere di nuovo apostolo, eroe della Chiesa e profeta di una nuova età. Giotto immerge l’epica dell’Assisiate in uno spazio realistico e talvolta riconoscibile, con personaggi di contorno che hanno la credibilità di comparse reclutate nelle piazze dell’epoca. Quando giunge a ripercorrere le stesse Storie in S. Croce a Firenze, nella Cappella Bardi (1325 circa), l’aspetto eroico risulta sfumato, e il distacco del santo nei riguardi del mondo che lo circonda si attenua. Non c’è piú una figura energica e imperiosa, ma un personaggio che insegue il suo ideale con una tenacia che non ha alcunché di sovrumano. La sua morte si compie in una clima di mestizia, senza empiti, senza soprassalti e senza luci che ricadono dall’alto. La via che conduce al Cristo morto del Mantegna inizia a essere tracciata. L’impatto della lezione di Giotto fu percepito immediatamente ed ebbe ricadute anche su
opere di pittori che avevano già una lunga carriera alle spalle. Pietro Cavallini rivela un senso dello spazio e della corporeità in modo ben rimarcato nel Giudizio universale di S. Cecilia in Trastevere (1293), dove il suo dominio dei registri della tradizione gli consente di calare le novità assisiati in un magistero di altissimo livello, con esiti forse superiori a quelli conseguiti piú tardi dallo stesso Giotto nel Giudizio universale di Padova.
Eleganza e ricercatezza
Sulla scia di Duccio, Simone Martini sa essere iridescente, «bizantino», con un’eleganza e una ricercatezza che a Giotto non interessano, ma sa anche dare vita a figure e narrazioni di sapiente verità. Proprio ad Assisi, nella Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco, sfoggia tutte le tonalità della sua arte nella scena di dedica della cappella di S. Martino di Tours (1312 circa). Sotto un tabernacolo di gusto arnolfiano perfettamente costruito, la figura paludata e solenne del santo cavaliere riceve l’omaggio di un anziano cardinale, il committente Gentile da Partino, ritratto con un’immediatezza che rende senza alcun abbellimento o astrazione i segni del tempo. Pietro Lorenzetti, fratello maggiore di Ambrogio, realizza una celebre Natività della Vergine (Siena, Museo dell’Opera del Duomo, 1335-42) che è un saggio di elaboratissima costruzione scenica, con uno spazio ben
A destra Firenze, basilica di Santa Croce, cappella Bardi. Esequie di san Francesco, particolare dal ciclo di affreschi con gli Episodi della vita di san Francesco, opera di Giotto. 1325 circa.
In basso Padova, basilica di S. Antonio da Padova, cappella di S. Giacomo. Il comparto centrale della Crocifissione, affresco di Altichiero da Zevio. 1376-1379. scandito che sviluppa in modo armonico la narrazione e che conferisce la giusta evidenza a ogni singolo personaggio. E tra tutti coloro che svilupparono la lezione giottesca dopo la morte del grande pittore fiorentino, un posto di tutto rilievo merita Altichiero di Zevio da Verona. La Crocifissione che affresca per la cappella di S. Giacomo nella Basilica del Santo (S. Antonio) a Padova, già completata nel 1389, non incombe dall’alto con un facile effetto, conferendo magari la massima evidenza alla croce e alla figura del Cristo. La drammaticità della scena emerge dall’ambientazione e dall’atmosfera. Incombe un cielo cupo, sul quale si staglia centralmente l’immagine di Cristo, ma il nerbo della composizione, ampiamente sviluppata sui lati, è dato da un concitato e fittissimo gruppo di figure che si dispiega tra due quinte murarie, con paesaggi urbani attentamente resi. Scaturisce dall’insieme un senso di sgargiante e coinvolgente musicalità. Nell’oratorio di S. Giorgio, contiguo alla basilica, Altichiero ripropone il soggetto tra il 1379 e il 1384. Il Cristo è ora affiancato dai ladroni, e le tre croci compongono un gioco di traiettorie divergenti. Il gruppo di figure che si stringe alla base è meno fitto, ed emerge nel complesso un’intonazione meno aristocratica. Si privilegiano tipi popolari con un gusto per la ritrattistica di sapiente immediatezza. Con queste supreme prove di orchestrazione, l’orizzonte di Giotto è ormai superato. ARTE DEL MEDIOEVO
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Giocando sulla bidimensionalità di miniature e vetrate o sulle tre dimensioni dei monili e degli intagli in avorio, anche le produzioni delle arti «minori» ci hanno consegnato un patrimonio di valore inestimabile
L’oreficeria
LE ARTI MINORI
O
riginario di Chaptelat, nei pressi di Limoges, sant’Eligio (590-660) è il patrono «naturale» degli orafi, avendo egli stesso esercitato, e con successo, quell’attività. Guadagnò la santità nella difficile attività missionaria in Sassonia, Svevia e nella stessa Francia, ma, stando al suo agiografo, anche il suo lavoro di orafo era pervaso dalla luce divina, poiché solo apparentemente dava forma agli oggetti con le proprie mani: in realtà, egli leggeva un libro aperto, invisibile, che Dio gli metteva davanti agli occhi dell’anima. Grazie alle sue istruzioni, quel sacro testo gli permetteva di essere lo strumento stesso del Signore. Come addetto alla zecca, entrò al servizio di Dagoberto I, il sovrano merovingio che nel 629 governò su tutti i Franchi (esclusa l’Aquitania), e che, nel 639, fu sepolto nell’abbazia di SaintDenis, presso Parigi. Oltre a essere il santuario del martire Dionigi, primo vescovo della città, la chiesa, a partire dallo stesso Dagoberto, divenne il mausoleo dei sovrani franchi. Al suo interno, sull’altar maggiore, si poteva ammirare un presunto lavoro di sant’Eligio, ossia una croce rilucente di oro e di gemme preziose.
Un reliquiario monumentale
Sullo stesso altare troneggiava lo «Scrigno di Carlo Magno», un monumentale cofanetto-reliquiario in argento dorato, pietre, perle e gemme, donato all’abbazia reale da Carlo il Calvo (875-77). Sopra al basamento, si innalzava una gloria di finiture che componeva la facciata ideale di una chiesa, con tre ordini di arcate da cui pendevano i castoni, a formare finti lampadari o campanule. L’apparato venne distrutto durante la Rivoluzione francese, ma a Parigi se ne conserva la montatura sommitale, nella quale è incastonata una gemma intagliata con il ritratto di Giulia, figlia dell’imperatore Tito (79-81 d.C.). Firmato dall’artista greco Evodos, lo splendido
In alto frammento della croce di sant’Eligio. Oro, pasta vitrea colorata. Prima metà del VII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto La messa di Sant’Egidio, scomparto di pala d’altare del Maestro di Sant’Egidio. 1500 circa. Londra, National Gallery. La scena evoca il miracolo che ebbe luogo nell’abbazia di Saint-Denis: sull’altare, al di sopra di un paliotto d’oro, spicca la croce di sant’Eligio. Non riuscendo a confessare un peccato, Carlo Martello (in altre versioni Carlo Magno), in ginocchio, sulla sinistra, chiese a Egidio di pregare per lui e un angelo portò allora al futuro santo un foglio sul quale era scritto il peccato commesso dal re e la penitenza che gli si doveva assegnare per la sua remissione. cammeo assunse nel nuovo contesto la funzione di immagine di Maria Vergine. La furia dei rivoluzionari non risparmiò neanche la croce di sant’Eligio, della quale si salvò una placchetta – oggi a Parigi – con un fine disegno di alveoli d’oro, un tempo riempiti da castoni, gemme di tipo almandino, per la precisione. Di fronte alla croce di sant’Eligio e allo «Scrigno di Carlo Magno», l’abate Sugerio di Saint-De-
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LE ARTI MINORI
L’oreficeria
nis (1081-1151) provò una sensazione di rapimento e di esaltazione, al punto tale da concepire quella estetica della luce e della materia preziosa che ispirarono la sua opera di rinnovamento dello storico edificio. Ed è la stessa estetica che è alla base dell’architettura gotica. Il culto di Sainte-Foy (Santa Fede) a Conques, nella Francia meridionale, si sviluppò a seguito del «furto sacro» delle reliquie della martire, perpetrato tra l’856 e l’882. Stando alle fonti agiografiche, il monaco Arinisdo prese l’incarico di trafugare le sacre spoglie da Agen, in Aquitania, con una missione in incognito che, secondo una versione, sarebbe durata addirittura dieci anni. La decisione del furto era stata presa per «la salute della zona e la redenzione dei suoi abitanti», ed ebbe i frutti sperati, poiché la nuova tomba della santa, da cui scaturivano guarigioni miracolose, divenne una meta popolarissima dei pellegrini, situata peraltro sul percorso di Compostela. Santa Fede veniva d’altro canto «coinvolta» come presi-
A destra il presunto piatto anteriore dell’Evangeliario di Ariberto da Intimiano. XI sec. Milano, Tesoro del Duomo. La figura centrale del Crocifisso è lavorata a sbalzo, e tutt’intorno si dispongono le figure e le scene di corredo, lavorate in smalto cloisonné («tramezzato, a cellette»).
A sinistra l’unica parte superstite della decorazione dello «Scrigno di Carlo Magno» che comprende una gemma intagliata con il ritratto di Giulia, figlia dell’imperatore Tito, che nel nuovo contesto assunse la funzione di immagine di Maria Vergine. 875 circa. Parigi, Bbiliothèque nationale de France. 100
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A destra reliquiario antropomorfo di santa Fede. IX-X sec. Conques, Tesoro. Il prezioso manufatto consiste in una statua lignea rivestita d’oro, alta 85 cm, in lamina sbalzata, arricchita da filigrane, pietre dure, gemme incise (di età romana) e cristalli di rocca.
LE ARTI MINORI
L’oreficeria
dio dei soldati cristiani nella lotta contro i Mori della Penisola iberica. Il culto si imperniava su un impressionante reliquiario antropomorfo elaborato in due versioni, nel IX e nel X secolo. Si tratta di una statua lignea rivestita d’oro, alta 85 cm, in lamina sbalzata, arricchita da filigrane, pietre dure, gemme incise (di età romana) e cristalli di rocca. La santa siede in trono, in posizione frontale, e si rivolge allo spettatore con uno sguardo inquietante, degno di una divinità arcaica. Si tratta, d’altronde, di una testa di reimpiego, con la rudezza severa tipica della ritrattistica tardoantica. Una statua come quella, che all’epoca non era affatto unica nel suo genere, poteva suscitare perplessità per il sospetto che fosse l’«idolo» ad attrarre l’attenzione dei fedeli piuttosto che la santa raffigurata.
Il «desiderio» dell’artista
Molto interessante, a tal riguardo, è la testimonianza del maestro Bernardo d’Angers (XI secolo), il quale, nella sua compilazione sui miracoli compiuti da santa Fede, confessa di aver avuto in precedenza forti riserve sulla sua statua, finendo per considerarla un simulacro, al pari delle raffigurazioni pagane di Venere o di Diana. Ma poi si era ricreduto. Si tratta sempli102
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cemente della «pia memoria di una vergine santa», che rafforza e accresce il coinvolgimento dei fedeli, favorendone la salvezza. L’artista, inoltre, ha dato vita a una figura umana qualsiasi, seguendo il proprio «desiderio», ma quel che conta, al di là dell’involucro, è il vero tesoro costituito dalle reliquie custodite all’interno. Il Tesoro del Duomo di Milano conserva due «piatti» di grande valore storico e artistico, vale a dire la parte anteriore e la parte posteriore della legatura che rivestiva un perduto Evangeliario di alta rappresentanza, conservato nell’antica cattedrale «invernale» di S. Maria (sul luogo del duomo attuale di Milano). I due pezzi di oreficeria si devono ad Ariberto da Intimiano, in veste di arcivescovo della città lombarda (1018-1045). Personaggio di forte carisma, egli ha legato il proprio nome alla committenza di diverse opere significative, e, prima ancora di salire sulla cattedra ambrosiana, aveva patrocinato l’importante complesso architettonico e pittorico di S. Vincenzo a Galliano, nella Brianza. La legatura dell’Evangeliario doveva conservare ed esaltare adeguatamente il testo sacro come in una sorta di teca preziosa, e celebrava la dignità conseguita da Ariberto nella sua nuova carica di presule, in una sede di altissimo prestigio storico.
Sulle due pagine una veduta d’insieme e un particolare del trittico in cui sono state ricomposte le formelle in rame dorato e smalto realizzate da Nicolaus di Verdun per il pulpito della chiesa abbaziale dei canonici di sant’Agostino. 1181. Klosterneuburg (Vienna), Stift Klosterneuburg.
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Calice in argento dorato, lavorato a bulino e a cesello, nonché incrostato realizzato dal’orafo senese Guccio di Mannaia per papa Niccolò IV. Fine del XIII sec. Assisi, Museo del Tesoro del Sacro Convento.
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L’oreficeria
Nel presunto piatto posteriore, realizzato in argento sbalzato, l’arcivescovo è raffigurato nell’atto di offrire l’Evangeliario, nella sua nuova fodera, al Signore. Nella fascia sottostante, sant’Ambrogio fa da pendant a Cristo ed è affiancato dai santi locali Gervasio e Protasio, compagni di sepoltura nell’arca ambrosiana. Il presunto piatto anteriore, forse realizzato in un secondo momento, sfoggia una formidabile ricchezza iconografica, materica e tecnica. È una lamina d’oro minutamente intessuta di filigrane, con numerosi inserti di pietre e perle. La figura centrale del Crocifisso è a sbalzo, e tutt’intorno si dispongono le figure e le scene di corredo, lavorate in smalto cloisonné («tramezzato, a cellette»). In questa tipologia, la pasta vitrea colorata viene colata negli alveoli, delimitati da una sottilissima lamina d’oro. Ma il lavoro viene qui diversificato in due modalità: a fondo riservato, quando la figura è «ritagliata» dal fondo d’oro; a smalto pieno, quando la pasta vitrea viene colata anche tutt’intorno alla figura. Le placche con i dolenti (la Vergine e san Giovanni Evangelista) e con i carnefici (Longino e Stephaton), sono a fondo riservato. Cosí facendo, le figure risaltano sulla liscia e rilucente superficie d’oro, suggerendo una loro collocazione in primo piano, in stretta connessione con la figura a sbalzo del Crocifisso.
Eleganza e ricercatezza
L’utilizzo dello smalto arricchisce la produzione orafa non solo da un punto di vista puramente tecnico ed estetico. La componente scultorea è sempre piú affiancata e arricchita proprio dagli smalti, che assumono maggior spazio e sono delineati con un’eleganza e una ricercatezza degne degli indirizzi piú avanzati della pittura contemporanea. Un aspetto interessante degli smalti è dato peraltro dal fatto che si ricollegano bene alle esperienze dell’oreficeria altomedievale, laddove erano esposte agli influssi delle migliori tecniche in uso nel Mediterraneo orientale. L’oreficeria dei secoli XII e XIII recupera quindi un ampio bagaglio di esperienze del passato, e le mette a servizio delle esigenze sempre piú trascinanti dei nuovi indirizzi del gusto. I primi grandi risultati di questa tendenza si vedono già con grande nettezza nel caso del maestro orafo Nicolaus di Verdun. Originario di una città dell’alta Lorena situata sul corso della Mosa, lascia la prima testimonianza di sé a Klosterneuburg, in Austria, non lontano da Vienna, dove, nel 1181, firma un complesso di decorazioni in rame dorato e smalto, montate
in origine sul pulpito della chiesa abbaziale dei canonici regolari di sant’Agostino, importante fondazione di Leopoldo III di Babenberg, margravio (marchese) d’Austria (1095-1136). Nicolaus realizzò una serie composta da ben 45 scene bibliche di straordinaria bellezza, con l’adozione dello smalto champlevé («campo levato»), tecnica in cui la pasta vitrea non è collocata in alveoli delimitati da lamine auree (come nel cloisonné), ma è versata entro le campiture direttamente ricavate a incisione sulla superficie metallica. Esperto modellatore di figure a sbalzo, in queste placche Nicolaus dimostra per giunta un indubbio talento pittorico, tanto da evidenziare una posizione nettamente preminente dell’oreficeria istoriata sulle grandi arti figurative del tempo. Al di là dell’indubbia perizia tecnica, le figure esprimono infatti vivezza, movimento e credibilità di espressione, trovando un termine di paragone solo nell’arte miniaturistica che inizia a svilupparsi in Francia nel solco del classicismo gotico.
Dalla Francia all’Italia
Alla fine del Duecento la lezione di Nicolaus viene raccolta e sviluppata anche dagli orafi italiani, sensibili ai modi dell’arte oltremontana. Non solo, infatti, giungono sempre piú numerosi i raffinati prodotti dell’oreficeria e della scultura in avorio, ma pittori e maestri vetrai oriundi della Francia danno man forte, in prima battuta, alla decorazione della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. Papa Niccolò IV (1288-1292), primo pontefice francescano della storia, e con tutta probabilità fautore del completamento della decorazione pittorica della chiesa assisiate, lasciò in dono al Sacro Convento umbro un magnifico calice in argento dorato, lavorato a bulino e a cesello, e letteralmente incrostato di smalti. Il suo autore, Guccio di Mannaia, era un orafo senese. Questi si dimostrò particolarmente versato nell’uso dello smalto traslucido, dove la pasta vitrea esalta la lavorazione a bassorilievo del fondo, e, nel complesso, elaborò l’equivalente sul piano dell’oreficeria di un grande complesso decorativo, come un ciclo di affreschi o una sequenza di vetrate istoriate. Non solo le figure possiedono animazione e ricercatezza di particolari, come, per esempio, nelle elaborate chiome dei capelli, ma si presentano talvolta entro scene ben architettate. Le Stimmate di San Francesco, come ha evidenziato Chiara Frugoni, preludono chiaramente alla scena corrispondente del famoso ciclo pittorico della Chiesa Superiore. ARTE DEL MEDIOEVO
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La miniatura
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el Medioevo, grazie alle miniature che «illuminavano» i codici, l’attività libraria ha un’importanza fondamentale anche sul fronte artistico. Il probabile riferimento all’alumen, l’allume di rocca che era alla base di alcuni pigmenti per la colorazione, ha dato appunto origine all’espressione altomedievale illuminatura o alluminatura per definire la tecnica di questo particolare tipo di pittura, mentre illuminatores erano i suoi artefici. Tale attività unifica Oriente e Occidente e, per la natura stessa del supporto, favorisce una conoscenza a largo raggio di contenuti e di stili figurativi. Nel caso della miniatura bizantina, i testimoni superstiti conservati sono di importanza capitale, non solo perché documentano la conoscenza dei codici miniati di Costantinopoli nell’Occidente carolingio e ottoniano, ma anche perché costituiscono le uniche testimonianze consistenti di un intero capitolo dell’arte dei maestri greci. Il classicismo che essi avevano ricreato nei secoli IX e X, durante la «rinascenza macedone», con un senso plastico della figura, un vivace cromatismo e un senso tridimensionale della scena, è cosí attestato soprattutto grazie alle miniature del Salterio greco 139 di Parigi (inizi del X secolo), o al rotolo di Giosuè della Biblioteca Vaticana (X secolo). Da queste istanze si sviluppa un filone classico nel cuore della stessa miniatura carolingia. Questo effetto si coglie bene nelle guizzanti miniature del Salterio di Utrecht (820-30), che si ricollega alla scuola In alto una pagina miniata del Salterio di Utrecht. 820-30. Utrecht, Universiteitsbibliotheek. Nella pagina accanto il combattimento fra Davide e Golia, dal Salterio greco 139. Inizi del X sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra Castelseprio (Varese), S. Maria foris portas. Affresco raffigurante la Natività.
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La miniatura
miniatoria di Reims. D’altra parte, è probabile che persino i controversi affreschi di Castelseprio, dall’accento cosí antichizzante, si ricolleghino a questa particolare fase storico-artistica.
Una rappresentazione solenne
I Vangeli di Ottone III (fine del X secolo), prodotti nel celebre centro scrittorio dell’isola di Reichenau, mostrano su due pagine affiancate il monarca solennemente seduto in trono, circondato dai grandi dignitari laici e religiosi. Lo schema del sovrano circondato dai suoi favoriti, dal canto suo, può ricordare vagamente il riquadro di Giustiniano a S. Vitale di Ravenna, ma si vede bene come lo schema aulico bizantino venga adattato a nuove esigenze espressive. In particolare, si afferma uno stile grafico che dà molta importanza alla linea e a un cromatismo acceso, irreale, che gioca sull’accostamento di tinte forti, quasi smaltate. Tali modalità avranno di lí a poco sviluppi importanti su alcuni filoni della pittura romanica, come nella superba Visione dell’Apocalisse di Civate. D’altro canto, la Lombardia gioca un ruolo importante negli sviluppi della pittura tra X e XI secolo, e lo si vede nell’opera di un miniatore italico attivo a Treviri, forse di origine milanese, il Maestro del Registrum Gregorii, il cui nome convenzionale si lega a un codice di lettere di san Gregorio Magno che egli ebbe modo di arricchire con alcune miniature (fine del X secolo). In una, in partico108
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In alto pagina miniata dell’Evangeliario di Ottone III. Fine del X sec. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. Nella scena compare l’imperatore stesso, affiancato da dignitari laici e religiosi. A destra Civate (Lecco), abbazia di S. Pietro al Monte. Visione dell’Apocalisse, affresco. XI sec.
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L’oreficeria
In alto iniziale istoriata di una pagina del Codice di S. Giorgio. 1320-1325. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto il frontespizio del Codice di Virgilio, miniato da Simone Martini. 1336-1340. Milano, Biblioteca Ambrosiana. lare, nella quale il santo papa è ritratto mentre riceve l’ispirazione dallo Spirito Santo, si notano un’efficace disinvoltura nella costruzione dello spazio e una nobile evidenza statuaria nella resa del protagonista.
Avignone, centro di cultura
La Biblioteca Vaticana conserva un importante codice trecentesco, il Codice di S. Giorgio, commissionato da Jacopo Gaetano Stefaneschi (1270 circa-1343), cardinale di S. Giorgio in Velabro. Suo fratello Bertoldo aveva fatto realizzare i mosaici di S. Maria in Trastevere sulla fascia basale dell’abside, opera di Pietro Cavallini, ed egli stesso è noto per aver affidato a Giotto il polittico per la basilica di S. Pietro (1320). Il codice è stato realizzato negli anni 1320-25 ad Avignone, dove allora risiedeva la corte papale, e dove lo Stefaneschi è deceduto. Durante la «cattività» dei pontefici, si era creato un centro pulsante di cultura artistica italiana in piena Provenza, e l’anonimo maestro che ha realizzato il codice (noto appunto come Maestro di S. Giorgio), dimostra di essere stato ben attento ad assorbire la lezione dei pittori di Firenze e di Siena. L’adesione a Giotto, in particolare, è mediata da un’eleganza cortese e da un gusto per l’ambientazione fantastica che lo avvicina piuttosto ai modi di Simone Martini, suo presunto mae-
Qui sopra una pagina miniata della Bibbia del Pantheon con storie tratte dal Libro dell’Esodo. 1125 circa. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
stro. Martini, d’altronde, era presente alla corte dei papi già nel 1336, e morí proprio ad Avignone nel 1344. Tra le opere che realizzò in Provenza in questo periodo, va ricordata la splendida miniatura del frontespizio del Codice di Virgilio, appartenuto a Petrarca, oggi custodito presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Il Maestro di S. Giorgio si distinse in particolare nelle iniziali istoriate, ed è famosa proprio quella che apre l’agiografia del santo, con la tipica scena che lo vede impegnato a uccidere il drago. ARTE DEL MEDIOEVO
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Vetrate, stucchi e intagli
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a vetrate istoriate policrome sono strettamente connesse all’immagine delle cattedrali gotiche. L’abate Sugerio di Saint-Denis le considerava elementi centrali nella sua estetica della luce, e l’evoluzione stessa dell’architettura che scaturí dall’Île-de-France, tendeva a «svuotare» le pareti, creando punti di forza alternati a oblunghe finestre, il che impose questa tecnica come unica alternativa possibile alle consuete stesure di affreschi. Occorre però rilevare che un significativo gruppo di esemplari con figure di profeti, nella cattedrale tedesca di Augusta, mostra l’uso della vetrata in piena età romanica, intorno al 1100. Una vetrata con una presunta figura di Cristo, databile all’VIII secolo, è stata d’altronde ricostruita a seguito degli scavi condotti presso la chiesa di S. Paolo a Jarrow, nella Northumbria (Gran Bretagna). La studiosa Francesca Dell’Acqua ha poi di recente analizzato una vetrata istoriata frammentaria, con un’accertata figura di Cristo, derivante dagli scavi dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno, in Molise.
Echi del pensiero teologico
In questa pagina Aosta, cattedrale di S. Maria. I tondi con la Morte e l’Assunzione della santa già compresi nelle vetrate dell’abside centrale e oggi esposti nel Museo Diocesano. Fine del XII sec.
Il frammento, oggi conservato presso il Museo Archeologico di Venafro (Isernia), era forse pertinente all’importante cripta affrescata disposta dall’abate Epifanio (824-842), e rivela interessanti connessioni con il pensiero teologico dell’epoca. All’origine stessa dell’idea di situare una figura di Cristo nel decoro vitreo di una finestra, c’è una riflessione sulla duplice natura, umana e divina, di Gesú. Il vetro, con il piombo che lo contorna, è la materia che allude alla natura umana, mentre la luce che viene filtrata dal vetro è invece la diretta emanazione del divino. A sinistra particolare della vetrata che chiudeva l’occhio absidale del duomo di Siena raffigurante l’Incoronazione della Vergine, forse realizzata su un disegno di Duccio di Buoninsegna. 1288. Siena, Museo dell’Opera del duomo. La qualità dell’opera fa ritenere che Duccio sia stato presente anche al momento della realizzazione, quando occorreva dipingere sul vetro. ARTE DEL MEDIOEVO
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Vetrate, stucchi e intagli
Cividale del Friuli, Tempietto Longobardo. Particolare della parete ovest, dominata da una teoria di Vergini. Il monumento è perlopiú attribuito all’epoca del re Desiderio (756-774). Già alla fine del XII secolo, la cattedrale di S. Maria di Aosta sfoggiava nell’abside centrale una serie di vetrate di alta qualità, con un programma iconografico dedicato alla Vergine. Rimangono due tondi con la Morte e l’Assunzione della santa. Negli anni 1240-50 si avviò poi il primo grande complesso superstite di vetrate istoriate, in Italia, montato nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. Dapprima vi fu l’importazione diretta di elementi già eseguiti in area germanica, e in seguito giunsero appositamente in Umbria alcuni maestri vetrai della Francia. A Siena, il grande occhio absidale del duomo (ampio circa 6 m) fu chiuso nel 1288 da una vetrata raffigurante l’Incoronazione della Vergine. Secondo una pratica ignota agli atelier transalpini, ma che in Italia era già affermata nel XIV secolo, il disegno venne fornito da un pittore, anziché da uno specialista del settore. Fu probabilmente coinvolto Duccio di Buoninsegna, che realizzerà in seguito la celeberrima pala della Vergine (1308-11) proprio per la cattedrale senese. La qualità dell’opera fa ritenere che Duccio sia stato presente anche al momento della realizzazione, quando occorreva dipingere sul vetro, ed è evidente come l’eleganza di tratto e lo sfavillio cromatico delle vetrate d’Oltralpe si incontrino con una solida sensibilità compositiva e spaziale, di «marca» toscana.
Alla ricerca della plasticità
Nell’Alto Medioevo, gli unici ambiti in cui si poteva notare una ricerca di effetto plastico nella resa delle figure a rilievo, erano l’oreficeria, l’arte dello stucco e l’intaglio in avorio. La scultura monumentale in pietra, infatti, inizia a definire le sue ricerche di effetto tridimensionale solo nell’XI secolo inoltrato. Per quel che concerne lo stucco, il monumento piú affascinante è senz’altro il corteo delle Vergini che adorna in controfacciata il cosiddetto Tempietto di Cividale del Friuli (Udine), vale a dire la cappella palatina annessa alla residenza dei duchi longobardi. Le figure hanno uno stile paludato e solenne che ricorda vagamente il corteo a mosaico delle Sante Vergini in S. Apollinare Nuovo a Ravenna. La decorazione prevede anche una raffinatissima ghirlanda a rilievo, sempre in stucco, intorno all’archivolto del por114
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Vetrate, stucchi e intagli
tale, con l’inserto di vetri colorati (anforette) negli interstizi. La cronologia dell’opera è stata molto dibattuta, ma sembra ormai accertato che si collochi nella fase finale del regno longobardo, sotto Desiderio (756-774) o pochi anni prima della sua ascesa al trono. Come è risultato dalle analisi, l’impasto cementizio utilizzato per i rilievi si allinea alle ricette dell’epoca tardo-antica. Viene quindi consapevolmente riesumata una tecnica di lunghissimo corso, che nell’Alto Medioevo riemerge con estrema ricchezza di esiti in tutt’altro contesto, vale a dire nelle decorazioni delle residenze aristocratiche del mondo islamico, laddove non valeva il divieto religioso di decorare le pareti con immagini di uomini e di esseri viventi in genere. Questo aspetto ha naturalmente suggerito la presenza di artefici orientali a Cividale, ma è possibile che uno stesso patrimonio di base sia stato riscoperto e riproposto in situazioni lontane da maestranze ben differenziate. Si trattava infatti di una tecnica e di uno stile decorativo che si ritrovano anche in un’altra contemporanea fondazione longobarda, la chiesa di S. Salvatore a Brescia.
Balene e trichechi
L’intaglio in avorio ha conosciuto una fortuna pressoché ininterrotta sin dall’epoca tardo-antica. Si tratta forse dell’unico ambito della produzione artistica che, pur conoscendo diversi livelli di intensità e una certa varietà di tipologie, non ha mai fatto registrare soluzioni di continuità, soprattutto grazie alla particolare materia utilizzata, il prezioso corno di elefante. Nell’Alto Medioevo si ricorreva costantemente al reimpiego degli avori superstiti di età romana, e quando la materia prima piú ricercata non era disponibile, gli intagliatori trovarono alternative lavorando le ossa delle balene e dei trichechi. Tipici dell’età tardo-antica erano i dittici consolari, vale a dire raffinate
Nella pagina accanto valva di dittico in avorio con l’immagine di Giustiniano. Prima metà del VI sec. Parigi, Museo del Louvre. In basso situla in avorio dell’arcivescovo Gotofredo con le immagini della Madonna in trono e degli Evangelisti. 974-979. Milano, Museo del Tesoro del Duomo.
custodie di documenti in dotazione degli ufficiali, come dono dei consoli in carica, e che ritraevano, su entrambe le facce interne, i consoli stessi, gli imperatori o figure simboliche. L’uso si tramanda all’impero d’Oriente nell’Alto Medioevo, come si vede in uno splendido avorio del Louvre, in cui il presunto Giustiniano, in una posa da arco trionfale, sottomette il nemico dall’alto della sua cavalcatura, con gli auspici della dea Tellus (la Terra) e della dea Vittoria, «ridotte» a semplice decoro antichizzante. All’epoca della rinascita ottoniana, il genere dell’intaglio eburneo trova un rilancio perfettamente in linea con le esigenze di glorificazione della nuova fase storica, e Milano rappresenta in questo settore un centro di produzione di primo piano. La situla (vaso sacro) commissionata dall’arcivescovo Gotofredo (974-979), emanazione dell’imperatore Ottone II, presenta entro una raffinata architettura la Madonna in trono col bambino e la schiera degli Evangelisti. Una placca databile al 983 con l’immagine di Cristo in trono vede alla base, inginocchiati, proprio Ottone II, sua moglie, la bizantina Teofano, e il piccolo successore, il futuro Ottone III. È stato peraltro sottolineato un possibile legame stilistico tra questi rilievi e le figure in stucco che decorano il ciborio della basilica di S. Ambrogio. L’utilizzo dell’avorio contraddistingue poi una tipologia scultorea di grande fortuna nell’età gotica. Si tratta delle raffinate immagini della Madonna stante col Bambino in braccio realizzate in particolar modo dagli atelier di Parigi. Lo stesso Giovanni Pisano studiò queste produzioni e realizzò, con il suo stile inconfondibile, una statua eburnea della Vergine per la cattedrale di Pisa (1298-99). Oltre alla preziosità del materiale e al particolare effetto della sua lavorazione, la forma curvilinea della zanna favoriva l’effetto dinamico alla composizione, con il tipico hanchement della statuaria gotica, dove le gambe scostate spezzavano la rigida postura prevista dalla tradizione. ARTE DEL MEDIOEVO
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La scomparsa chiesa abbaziale di Cluny, le basiliche del primo cristianesimo, le grandi cattedrali gotiche di Saint-Denis e Chartres, i luoghi del potere temporale a Palermo e Roma: un breve itinerario alla scoperta dell’ingegno artistico e architettonico medievale
Il monastero
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immagine-principe del monastero medievale si riassume nella memoria di un insediamento quasi del tutto scomparso: l’abbazia di S. Maria di Cluny, in Borgogna. La sua chiesa monumentale conobbe due fasi di riedificazione, l’ultima delle quali avviata nel 1088 dall’abate Ugo (1049-1109). Nel nuovo edificio, si superò di gran lunga la basilica di S. Pietro a Roma, riprendendone l’assetto a cinque navate con quadriportico frontale, con un’articolazione plani-volumetrica e una ricchezza figurativa che surclassavano il modello della chiesa apostolica dell’Urbe. Grazie all’aggiunta del quadriportico (o galilea), vennero anche superate le celebri chiese dei pellegrini, come la cattedrale di Compostela, creando cosí, su una lunghezza complessiva di oltre 187 m, la piú grande chiesa della cristianità. Tutt’intorno dobbiamo poi immaginare un chiostro, ricco anch’esso di apporti scultorei, e l’articolata serie degli edifici che facevano da supporto alla vita monastica e all’attività agraria che le era connessa. Proprio all’interno di un bel granaio, si possono oggi ammirare i 10 capitelli superstiti della chiesa, che erano presumibilmente collocati nel coro. Vi scorrono, tra l’altro, i grandi temi del peccato e della redenzione, i fiumi del Paradiso, le Virtú. Due esemplari, unici nel loro genere, propongono un tema musicale. Suddivise entro mandorle, vi sono le personificazioni degli otto toni della monodia, e le mandorle stesse potevano alludere alle raffigurazioni del Cristo giudice che dobbiamo immaginare nel portale di ingresso e nel catino dell’abside centrale. Si trattava dunque di una coerente e coinvolgente rappresentazione della vita monastica, che trovava il suo culmine nell’intonazione dei canti. Ed è stata evidenziata una connessione con le parole che il grande monaco san Pier Damiani (1007-1072) offrí all’abate Ugo: «Sí, è forse altro, il monastero cluniacense, di un campo fecondo del Signore? E il coro dei monaci che ci vi-
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vono in carità non è simile al manipolo di messi celesti? Questo campo è lavorato dalla zappa della santa predicazione, inseminato dalle semenze della parola Santa. Ivi sono riuniti i raccolti spirituali, che saranno poi riposti nei granai del cielo».
La lezione di san Bernardo
Se volgiamo lo sguardo a una fondazione cistercense come Fossanova (presso Priverno, in provincia di Latina; 1200-1208), che è invece splendidamente conservata, abbiamo un saggio avvincente del pensiero di san Bernardo di Chiaravalle, votato, non senza verve polemica, a restituire un senso rigoroso della vita monastica. Entrando in chiesa, si ha l’impressione di trovarsi in una sorta di zona franca. È un’architettura sapiente e orgogliosa, che non si riconosce negli indirizzi piú in voga: si respingono lo sfarzo pittorico e scultoreo di Cluny, a favore di pareti nude, attraversate da semplici cornici modanate, cosí come il verticalismo delle cattedrali; non esistono torri campanarie; erano ammesse le vetrate, ma senza i decori figurati. Solo negli ambienti secondari e nelle fasi avanzate dell’edilizia cistercense, si crea uno spazio per la decorazione ad affresco, quasi sempre con motivi aniconici (senza figure) che imitavano l’arte tessile o le tarsie pavimentali. Raramente i capitelli si discostano da modelli standardizzati, ba-
In basso disegno ricostruttivo dell’abbazia di Cluny, al tempo della riedificazione dell’abate Ugo, nel 1088: 1. Terza chiesa abbaziale (Cluny III) 2. Seconda chiesa abbaziale (Cluny II) 3. Chiesa di S. Maria 4. Cimitero dei monaci 5. Cappella di Notre-dame-duCimetière 6. Infermeria di Pietro il Venerabile 7. Chiostro dell’infermeria 8. Chiostro 9. Edificio del priore 10. Chiostro dei professi 11. Refettorio dei monaci 12. Noviziato 13. Ospizio dell’abate Ugo (e scuderie) 14. Ospizio di Pietro il Venerabile 15. Muro di cinta dell’abate Ugo
sati sulla scarna interpretazione dello stile corinzio. Memorabili sono il chiostro e la sala capitolare, e persino il refettorio – questa aula spaziosa semplicemente ritmata da archi trasversali che sostengono le travature del tetto – offre una sensazione chiara di grandiosità nonostante la sua veste spoglia. In alto Cluny. Il granaio del complesso monastico (1251-75), nel quale sono stati collocati i 10 capitelli superstiti della chiesa abbaziale.
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Nella pagina accanto Fossanova (Priverno, Latina). L’abbazia, di fondazione cistercense. 1200-1208.
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La cattedrale
La cattedrale
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e origini dell’architettura cristiana si situano in un luogo e in un momento preciso. La cattedrale di Roma, S. Giovanni in Laterano (iniziata nel 312), inaugura una nuova categoria di edificio religioso in una zona periferica dell’Urbe, dove il patrocinatore dell’impresa, l’imperatore Costantino Magno, mise a disposizione i terreni precedentemente occupati da una caserma. La forma conferita alla basilica avrebbe avuto un ruolo non solo sul piano architettonico, ma anche su quello figurativo, in un nesso inscindibile con la simbologia e con le funzioni liturgiche. Fu sempre rispettato uno schema concettuale di base, valido nelle piccole come nelle grandi realizzazioni, in cui l’aula preposta ad accogliere l’assemblea, con il suo sviluppo longitudinale, può essere vista come l’allegoria di un percorso salvifico. Per questo motivo i cicli pittorici di tipo narrativo si concentrano proprio sulle navate: come tutte le figurazioni in genere, essi non hanno una funzione educativa per gli illetterati, come spesso si afferma, perché a costoro si deve dedicare l’officiante con la propria voce, durante l’omelia, che si spinge sempre piú ad adottare la lingua locale, anziché il latino o il greco «ufficiale», previsto dalla norma per tutto il restante apparato della messa. Al contrario, tutti i dipinti hanno essenzialmente una motivazione rituale e dimostrativa. Ciò è tanto piú evidente quando si giunge nello spazio della celebrazione, che è quello deputato alle teofanie, e dunque alla rivelazione trionfante del divino, come nelle immagini del Cristo giudice che campeggiano sulle calotte delle absidi o al culmine delle cupole (soprattutto nell’Oriente bizantino).
La separazione degli spazi
La separazione tra lo spazio dell’assemblea e lo spazio della celebrazione dà spesso luogo a un diaframma che separa la navata dal coro. Nell’Oriente bizantino si evidenzia l’iconostasi, cosí chiamata perché vi viene collocata una schiera di immagini sacre. D’altro canto, come mostra Giotto stesso nel riquadro assisiate del Presepe di Greccio, nel Due-Trecento italiano era diffusa la pratica di collocare i crocifissi e le grandi Maestà della Vergine proprio sull’alto del diaframma ligneo che separava la navata dal coro. La recinzione può anche prevedere uno spazio 120
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Istanbul. L’interno della basilica di S. Sofia, nata per volere di Costantino e destinata alla liturgia solenne. La chiesa venne convertita in moschea nel 1453 e, dopo essere stata sconsacrata, fu trasformata in museo.
di rispetto, nell’ambito liminare della navata, nel quale trovano posto i cantori per l’esecuzione degli inni liturgici (schola cantorum), come si vede ancora oggi, per esempio, nella basilica di S. Clemente a Roma, in cui spicca l’uso del marmo in tutta la struttura. In questo spazio nevralgico si può collocare anche l’ambone, dall’alto del quale l’officiante si rivolge ai fedeli durante la lettura dei brani evangelici. Un capitolo a parte merita poi il battistero, ossia il luogo adibito alla cerimonia di iniziazione del fedele. Sin dal caso di Roma, era previsto un edificio preposto a questa funzione, distinto dalla cattedrale. Il senso di questa separazione è fornito dalla liturgia. Per molto tempo, infatti, il rito fu amministrato solo in momenti precisi dell’anno, soprattutto alla vigilia della domenica di Pasqua. Si trattava quindi di una cerimonia collettiva, che prevedeva poi, dopo il rito della purificazione, l’entrata del battezzato in cattedrale. Proprio per solennizzare adeguatamente questi momenti, la chiesa battesimale aveva dunque un suo preciso valore rituale, magari prevedendo ingressi distinti per il neofita e per il celebrante, come si vede nel battistero di Parma. Il Portale della Vita era riservato appunto ai battezzandi, mentre il vescovo entrava sul lato opposto, attraverso il Portale della Vergine, rivolto verso il sagrato della cattedrale. Questo, naturalmente, spiega la particolare insistenza sui temi del peccato e della redenzione che si nota sulla lunetta antelamica del Portale della Vita. A Parma, come in altre città del pieno Medioevo italiano, a partire da Firenze, il battistero a sé stante viene eccezionalmente recuperato come tipologia di edificio sacro dopo essere caduto generalmente in disuso già in età carolingia. La sua riscoperta nasce dall’esigenza di solennizzare l’acquisita autonomia delle comunità urbane. Il rito battesimale, infatti, acquisisce un valore civico, in quanto l’imposizione del nome equivale alla «creazione» di un nuovo cittadino.
Due chiese per due liturgie
Costantino istituí per la «sua» capitale sul Bosforo due cattedrali intitolate a Cristo: S. Sofia (ossia la Sapienza) e S. Irene (ossia la Pace). La prima, la maggiore, era destinata alla liturgia solenne, mentre la seconda, probabilmente collegata da un sistema di portici, era la chiesa d’uso, destinata alla liturgia quotidiana. Si parla in questi casi di «cattedrale doppia». È probabile che, in origine, S. Sofia avesse uno sviluppo longitudinale, come le grandi chiese di Roma o la basilica originaria del Santo Sepolcro di GeARTE DEL MEDIOEVO
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GLI SPAZI DELL’ARTE
Istanbul, S. Sofia. Mosaico raffigurante la Madonna con il Bambino, affiancata dall’imperatore Giovanni II Comneno e dalla consorte Piroska d’Ungheria, che assunse poi il nome di Irene. 1118-1122.
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ARTE DEL MEDIOEVO
La cattedrale
rusalemme, collegata alla «rotonda» della Resurrezione (Anastasis). In ogni caso, entrambe le cattedrali di Costantinopoli ci sono giunte a seguito della ricostruzione patrocinata da Giustiniano (527-565). S. Sofia fu l’impresa piú impegnativa, già solo da un punto di vista strutturale, perché si decise di adottare un impianto a croce greca imperniato su una gigantesca cupola centrale. Il ruolo di questo elemento fu duplice. Inserendo un’immensa immagine della volta celeste nel fulcro dell’edificio, risultava esaltato il ruolo
della liturgia, ma poiché S. Sofia era anche il luogo in cui, durante le cerimonie, si incontravano le «due metà di Dio» (il patriarca e l’imperatore), l’immagine stessa del sovrano trovava la massima consacrazione. A questo fine risultò determinante l’impegno di due ingegneri, Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto. Eppure, nonostante ogni attenzione, dopo alcuni anni fu necessario ricostruire proprio la cupola, restringendo il raggio e aumentando la convessità della calotta. Il risultato fu sublime: nonostante la presenza di quattro poderosi
pilastri che sostengono la «volta celeste», l’articolazione delle tribune sul piano superiore maschera del tutto gli ingombri murari. L’illuminazione non è mai pervasiva, ma si distribuisce a fasci o si soffonde nelle penombre, esaltando l’immanenza dell’insieme e la preziosità dei dettagli.
Il mausoleo dei sovrani
Quando sul trono di Francia sedeva il re capetingio Luigi VI (1108-1137), l’abbazia di SaintDenis, che dei sovrani di Parigi era il mausoleo,
In alto, a destra Parigi, abbazia di Saint-Denis. Particolare del timpano centrale del Portale centrale, con la raffigurazione del Giudizio universale. 1133-1140.
divenne un punto di riferimento essenziale negli sviluppi dell’arte monumentale. Nel 1130 l’abate Sugerio promosse l’erezione della nuova facciata occidentale, sovrastata da due torri simmetriche e coronata da merli come un fortilizio, sulla scia delle severe chiese abbaziali normanne. È traforata da un rosone e, soprattutto, impreziosita alla base da tre portali che componevano un insieme di grande coerenza stilistica, con le imposte bronzee figurate che facevano da rimando all’ornamento scultoreo. Le imposte sono andate perdute e le sculture presentano ampi restauri e integrazioni per i danni subiti durante la Rivoluzione, ma nell’Île-de-France risorgeva frattanto la cattedrale di Chartres, la cui nuova facciata occidentale, intrapresa intorno al 1150, tiene proprio conto dell’illustre prototipo di Saint-Denis. Il vescovo Geoffroy de Lèves, infatti, volle con tutta probabilità competere con l’abate Sugerio. L’insieme dei tre ingressi della facciata compone il celebre Portale reale, che trae probabilmente nome dai riti pasquali celebrati in onore di Cristo re. Il Cristo entro la mandorla, infatti, domina nel timpano centrale, non ancora «spodestato» dalla Vergine col Bambino, che diventerà il tema prediletto dei portali principali di ingresso delle cattedrali a partire dagli anni 1170. Le statue-colonna che si evidenziano lungo gli strombi (ossia sulle fasce di imposta degli archivolti), già introdotte a Saint-Denis, evidenziano il recupero di un senso classico della figura strettamente connesso con la nuova immagine della monarchia. ARTE DEL MEDIOEVO
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GLI SPAZI DELL’ARTE
Il palazzo
Il palazzo
P
er via delle perdite e delle trasformazioni succedutesi nel tempo, è difficile avere un’immagine attendibile di una residenza medievale di spicco, religiosa o laica, nobiliare o pubblica. Castel del Monte, la residenza edificata nell’altopiano pugliese delle Murge dall’imperatore Federico II (1220-50), si conserva nella sua solida «buccia» calcarea, ma gli spogli ambienti interni suggeriscono appena lo sfarzo del mobilio, delle tappezzerie e delle decorazioni parietali. La Sicilia normanna, che costituisce la premessa stessa delle esperienze culturali che fanno capo a Federico, conserva in compenso numerose testimonianze. Basti pensare alla Zisa di Palermo (1164-80), con i suoi mosaici e i suoi giochi d’acqua che si ricollegano all’edilizia palaziale dell’area islamica. Il Palazzo Reale mostra poi due ambienti indimenticabili. La sala di Ruggero ha un rivestimento a mosaico che trasmette un’idea «perenne» di sfarzo e di diletto, tale da travalicare il tempo e lo spazio, con il riferimento implicito all’attività venatoria dei sovrani e dei loro dignitari. Temi del genere potevano essere riproposti con gli stessi accenti nel mondo islamico o a Bisanzio.
Per sancire la regalità
La cappella palatina è poi una delle vette assolute dell’arte medievale, per la sua capacità di abbacinare lo spettatore, non tanto per le sue dimensioni, quanto per la sgargiante preziosità dell’insieme. Voluta da re Ruggero II (11301154), è un’affermazione di regalità prorompente. Proprio l’esaltazione del Cristo giudice è in funzione delle prerogative del sovrano. Tra il re e il sovrano dei cieli c’è solo una lieve sfasatura di piani. La sua volontà di estendere in ogni dove il suo potere si legge proprio nella capacità di unificare in un solo ambiente gli sfarzi di Bisanzio e dell’Islam. Proprio sopra i mosaici realizzati dai maestri greci, si articola infatti un particolarissimo soffitto ligneo a muqarnas, con una struttura cioè tipicamente islamica, che forma una fitta trama di nicchie completamente rivestite di dipinti a soggetto profano. Come dimostra il Palazzo dello Steri, anch’esso a Palermo, questo gusto esotico della decorazione si poté addirittura riproporre in un edificio nobiliare dell’epoca aragonese, nel soffitto della sala magna (1377-80). 124
ARTE DEL MEDIOEVO
La cosiddetta Aula gotica presso il monastero dei Ss. Quattro Coronati a Roma individua uno spazio preposto all’amministrazione della giustizia, nell’ambito di una residenza fortificata (i documenti parlano infatti di castrum) che si ritenne opportuno allestire in quel luogo strategico dell’Urbe, ben arroccato rispetto alle strade che conducevano al Laterano. La splendida decorazione pittorica – scoperta nel 1996 e poi sottoposta a un lungo intervento di restauro – si data tra il 1235 e il 1246, quando si svolgono i pontificati di Gregorio IX (122741) e di Innocenzo IV (1243-54), nel pieno della dura lotta contro Federico II. Proprio all’epoca di Innocenzo, presso la basilica, l’oratorio di S. Silvestro presentava, già nel 1246, una decorazione pittorica che costituisce un
Palermo, cappella palatina. Il mosaico della controfacciata, con Cristo fra gli apostoli Pietro e Paolo. Costruita per volere di re Ruggero a partire dal 1129, la cappella venne consacrata nel 1140 e ultimata nel 1143.
clamoroso manifesto antifedericiano, a sostegno delle prerogative «regali» del pontefice. D’altro canto, la scelta di realizzare un castrum presso la stessa basilica si deve probabilmente al cardinale Stefano Conti, parente di Gregorio IX, in vari momenti preposto sia alla giustizia che alla difesa militare del Patrimonio di San Pietro.
Architetture a confronto
Nell’Aula gotica c’è spazio per due sole immagini religiose, i ritratti dei santi Francesco e Domenico. La struttura a due campate e piú d’una componente iconografica, soprattutto quelle che configurano, nel complesso, uno sgargiante Calendario, potrebbero comparire anche in un ambiente prettamente laico. La conferma di questo aspetto, legato alla particolare funzione dell’ambiente, viene da un’altra aula di giustizia, ad Angera (Varese), collocata nell’ambito di un castello. Questo edificio si ricollega sí alla figura di un religioso, il vescovo Ottone Visconti di Milano, ma il presidio fortificato si lega alla sua qualifica di signore della città ambrosiana. Gli stessi affreschi dell’aula di giustizia sono largamente dedicati proprio alla sua presa del potere sulla città, conseguita nel 1277. L’evocazione del cielo non era certo una prerogativa religiosa, posto che abbia senso stabilire un confine netto, nel Medioevo, tra sacro e profano. Già all’inizio del XII secolo, nel palazzo della contessa di Blois si poteva ammirare una sala adorna di arazzi sulle pareti, e con un soffitto affrescato nel quale erano raffigurati i pianeti e lo Zodiaco. Intorno al 1171 gli scultori Gerardo da Mastegnanega e Anselmo da Alzate (che si definisce «un altro Dedalo») realizzano i rilievi superstiti della scomparsa Porta Romana di Milano, nei quali gli eventi storici della lotta contro il Barbarossa vengono narrati con un piglio trionfale. Nella stessa città, nel 1233, il Palazzo della Ragione, ossia il broletto (sede del Comune), sfoggia il ritratto equestre del podestà Oldrado da Tresseno. Nulla resta però dei dipinti che, sempre a Milano, Giotto eseguí per volontà di Azzone Visconti, discendente del vescovo-signore Ottone, nel palazzo di famiglia (1335). Si trattava di un ciclo dedicato agli uomini illustri, che, imperniato in chiave moralistica su una raffigurazione allegorica della Vanagloria, mostrava una scelta di eroi storici e mitologici dell’antichità «pagana» (Enea, Attila, Ettore, Ercole…), lasciando spazio a un solo eroe cristiano, Carlo Magno, senza dimenticare, naturalmente, lo stesso Azzone.
In questa pagina Roma. Una veduta d’insieme dell’Aula gotica del complesso dei Ss. Quattro Coronati e la personificazione del mese di maggio. Scoperta nel 1996, la splendida decorazione pittorica si data tra il 1235 e il 1246.
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Mille anni di invenzioni DATE
ARTE
432-440 Mosaici paleocristiani di S. Maria Maggiore a Roma. 451-475 Battistero degli Ortodossi a Ravenna. 476
493-526 Basilica di S. Apollinare Nuovo, Battistero degli Ariani, Mausoleo di Teodorico a Ravenna. 526-530 Mosaico absidale dei Ss. Cosma e Damiano a Roma. 527-565 Viene ricostruita la cattedrale di S. Sofia a Costantinopoli. 547-548 Viene ultimata la basilica di S. Vitale a Ravenna. 590 circa-604
610-641 705-707 Nuova decorazione pittorica a S. Maria
STORIA Pontificato di Sisto III. Neone vescovo di Ravenna. Odoacre spodesta Romolo Augustolo a Ravenna. Regno di Teodorico.
Pontificato di Felice IV. Giustiniano imperatore a Costantinopoli.
Pontificato di san Gregorio Magno (Gregorio I). Eraclio imperatore a Costantinopoli. Pontificato di Giovanni VII.
Antiqua a Roma.
712-744 741-752 Crocifissione di Teodoto a S. Maria Antiqua a
Liutprando re dei Longobardi. Pontificato di Zaccaria.
Roma.
756-774 Tempietto di Cividale. 760-790 Torhalle di Lorsch. 786 Carlo Magno avvia la reggia di Aquisgrana.
Desiderio re dei Longobardi.
800 817-824 Mosaici absidali di S. Prassede e di S. Maria
Carlo Magno è incoronato imperatore. Pontificato di Pasquale I.
CRONOLOGIA
in Domnica a Roma.
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835 circa Altare d’oro di S. Ambrogio a Milano. 962-973 1015 Battenti bronzei di S. Michele a Hildesheim. 1046-1056 1063 Si posa la prima pietra della nuova basilica
Ottone I imperatore.
Enrico III imperatore.
di S. Marco a Venezia.
1064 Si avvia la cattedrale di Pisa a opera di Buscheto.
1066-1071 Viene ricostruita la chiesa abbaziale di Montecassino.
1072-1086 Decorazione pittorica di S. Angelo in Formis. 1078-1084 circa Nuovi affreschi della Basilica inferiore di S. Clemente a Roma.
1082-1106 Si realizza la seconda fase del duomo di Spira. 1088 L’abate Ugo avvia la nuova chiesa abbaziale di Cluny (Cluny III). 1099 Si avvia la cattedrale di Modena a opera di Lanfranco e dello scultore Wiligelmo.
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Enrico IV imperatore.
Presa di Gerusalemme.
1114-1120 Portale dello Zodiaco di Niccolò a S. Michele in Val di Susa.
1118 Mosaico absidale di S. Clemente a Roma. 1130 Sugerio avvia la nuova facciata di Saint-Denis.
1130-54 Cappella palatina di Palermo. 1150 circa Si avvia la nuova facciata di Chartres. 1153 1172-89 Cattedrale di Monreale. 1178 Deposizione di Benedetto Antelami
Ruggero II re di Sicilia. Muore san Bernardo di Chiaravalle. Guglielmo II re di Sicilia.
a Parma.
1181 Nicolaus di Verdun a Klosterneuburg. 1196 Si avvia il Battistero di Parma dell’Antelami. 1200-1208 Abbazia di Fossanova. 1220-1250 Castel del Monte. Porta di Capua (perduta). 1227-41 Affreschi della cripta del duomo di Anagni. 1236 Croce di Giunta Pisano ad Assisi (perduta). 1243-54 Oratorio di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati a Roma. 1250 Madonna di Montelungo di Margaritone d’Arezzo. 1277-1280 Affreschi del Sancta Sanctorum. Affreschi di Cimabue ad Assisi. 1284 Ciborio arnolfiano di S. Paolo fuori le mura. 1285-1309 1288-1292 Si avvia il completamento della decorazione pittorica della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1291-1329 Si realizza la nuova cinta fortificata di Verona. 1293 circa Giudizio Universale del Cavallini a S. Cecilia in Trastevere. 1294 Si avviano le nuove cattedrali di Firenze e di Napoli. Fondazione di S. Croce a Firenze. 1302-10 Giovanni Pisano realizza il pergamo del duomo di Pisa. 1303-05 Cappella degli Scrovegni a Padova. 1308-11 Pala di Duccio in onore della Vergine per il duomo di Siena. 1312-13 Monumento sepolcrale di Margherita di Lussemburgo a Genova, opera di Giovanni Pisano. 1315 Monumento sepolcrale di Arrigo VII a Pisa, a opera di Tino di Camaino. 1317 San Ludovico da Tolosa di Simone Martini. 1335-42 Natività della Vergine di Pietro Lorenzetti. 1336 circa Buonamico Buffalmacco dipinge al Camposanto di Pisa. 1338-39 Ambrogio Lorenzetti dipinge le Allegorie nella Sala della Pace a Siena. Nella stessa città, viene fondato il Duomo Nuovo. 1389 Crocifissione di Altichiero.
Federico II imperatore. Pontificato di Gregorio IX. Pontificato di Innocenzo IV.
Pontificato di Niccolò III.
Re Carlo II d’Angiò a Napoli. Pontificato di Niccolò IV.
Signoria di Cangrande I della Scala a Verona.
Arrigo VII imperatore.
Qui sopra il monumento funebre per Arrigo VII realizzato da Tino di Camaino. 1315. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo. In alto Palermo, chiesa della Martorana (S. Maria dell’Ammiraglio). Mosaico raffigurante Cristo che incorona Ruggero II. XII sec. Nella pagina accanto una delle metope realizzate per il duomo di Modena da un artista ribattezzato appunto Maestro delle Metope. 1125-1130. Modena, Musei del Duomo.
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CASTELLI D’EUROPA
ABSIDE Struttura a pianta semicircolare o poligonale, oppure con un impianto poligonale all’esterno e semicircolare all’interno (come nelle basiliche ravennati), oppure con una conformazione polilobata (formata cioè da corpi semicircolari disposti a raggiera, perlopiú in numero di tre). Deriva dalle basiliche civili dell’architettura romana, dove era preposta a sottolineare la presenza del seggio del giudice. Nelle chiese fa da fondale ai presbiteri, ossia i luoghi della celebrazione liturgica. Si situa dietro l’altare dove si celebrano le funzioni, e può ospitare il seggio (la cattedra) del vescovo o di un’altra autorità religiosa. AFFRESCO Tecnica di pittura murale dove i colori fanno corpo unico con l’intonaco su cui sono stati stesi. Grazie a un processo chimico (la carbonatazione), la calce di cui è composto l’intonaco fresco, man mano che questo si essicca, si trasforma in carbonato di calcio, che indurisce la superficie, incorporando i colori. C’è anche una diversa modalità molto diffusa di pittura murale, la tecnica a secco, dove il colore è steso sul muro asciutto. Le due tecniche possono essere adottate nello stesso contesto, per perfezionare il dipinto dopo che si è concluso il processo di carbonatazione (rifiniture a secco). AMBONE Tribuna sostenuta da colonne, dotata di gradinata di accesso, perlopiú di forma quadrata, da cui il celebrante si rivolgeva ai fedeli soprattutto per la lettura dei Vangeli. Per gli amboni di forma poligonale, soprattutto quelli di Nicola Pisano, si usa correntemente il termine pulpito (vedi). ANTEPENDIO Decorazione che interessa il lato frontale dell’altare. Può trattarsi di una composizione scultorea che fa corpo con la struttura (come nel caso di Ferentillo), oppure di un singolo lavoro o di un ampio corredo di oreficeria, magari esteso anche agli altri lati (come nel caso dell’Altare d’oro di S. Ambrogio a Milano). BASILICA Tipologia edilizia derivata dall’architettura civile romana, dove era adottata negli spazi pubblici per accogliere assemblee d’ogni tipo. Nell’uso corrente, il termine individua i primi grandi edifici pubblici di culto cristiano eretti a Roma, e designa in genere una categoria di chiese in area urbana o extramuranea di particolare prestigio storico. BROLETTO Denominazione di alcuni palazzi pubblici dell’autorità comunale in area lombarda, e deriva dallo spazio aperto (brolo) che accoglieva in origine le assemblee cittadine. CALOTTA Nelle absidi, dove è detta anche semicatino, è la sezione sferica di raccordo tra il muro e l’arco di inquadramento finale. CATTEDRALE Chiesa di esclusiva pertinenza del vescovo, cosí designata perché accoglie la cattedra a lui destinata.
TERMINI E TECNICHE
Germania • Austria • Svizzera
CIBORIO Edicola eretta sopra un altare di spicco (perlopiú l’altar maggiore), a pianta quadrata o rettangolare, costituita da quattro colonne che sostengono un apparato decorativo. CODICE Libro manoscritto realizzato in pergamena, nei casi di particolare pregio corredato da decorazioni e da illustrazioni miniate, oltre a essere magari impreziosito da lavori di arte orafa sull’esterno della legatura. CORO Prima che il termine individuasse la struttura lignea che ospitava i cantori, il coro era la parte della chiesa destinata ai celebranti. A questi era riservato il presbiterio con gli spazi di rispetto e di transito annessi (se la chiesa ha un impianto cruciforme, si parla in questi casi di capocroce, includendo presbiterio, ali del transetto e absidi). Poteva anche essere interessata un’area della navata centrale, dove veniva individuato lo spazio destinato ai cantori (delimitato talvolta da una struttura nota come schola cantorum). DEAMBULATORIO Corridoio ricavato lungo il perimetro dell’abside centrale, per favorire l’afflusso dei fedeli nelle aree presbiteriali dei santuari, soprattutto se molto frequentati dai pellegrini. È spesso arricchito da una corona di cappelle radiali. DUOMO Termine alternativo per cattedrale, ossia la chiesa del vescovo, come «casa del Signore». EVANGELARIO Libro liturgico che raccoglie i Vangeli. GOTICO Letteralmente «barbarico», in riferimento ai Goti, e con un’accezione dichiaratamente negativa. Si tratta infatti di una terminologia applicata a tutta l’arte medievale in pieno Rinascimento, e che ebbe grande risonanza grazie soprattutto all’opera letteraria di Giorgio Vasari. Nonostante la rivalutazione dell’arte dell’età di Mezzo che si ebbe nel XIX secolo, il termine era ormai entrato nell’uso, e rimase nella letteratura critica per designare l’arte scaturita in Francia negli anni 1130-40, e sviluppatasi poi fino all’avvento stesso del Rinascimento, in pieno XV secolo. HANCHEMENT Vocabolo d’origine francese che indica l’ancheggiamento, ossia la disposizione lievemente flessa delle figure tipica di molte espressioni della statuaria gotica oltralpina. ICONA Immagine votiva di piccolo formato destinata al culto privato o pubblico, già attestata nella religiosità greco-romana. In ambito cristiano i temi piú diffusi sono la Madonna in trono col Bambino e la Crocifissione. Si può parlare di «icona murale» quando il dipinto è realizzato sulla parete di una chiesa su iniziativa di un fedele, senza rientrare in un piano decorativo generale. MATRONEO Corridoio che si sviluppa in elevato negli edifici sacri, con aperture che consentono di vedere l’aula dall’alto. Letteralmente, si intende che
tale spazio sia destinato alle donne maritate (matrone), anche se in realtà non esiste un termine specifico documentato, né l’uso è chiaramente attestato. Simili strutture sono spesso richieste in primo luogo dall’elevazione degli alzati, e possono svolgere al piú la funzione di corridoi di collegamento e di ispezione. Ad Aquisgrana è accertata la presenza di una tribuna sopraelevata per funzioni di rappresentanza. Vi sono anche diversi casi, soprattutto nell’architettura carolingia, in cui le tribune superiori sono in funzione di altari, e hanno quindi un utilizzo prettamente liturgico. PALA Dipinto (o, piú raramente, complesso scultoreo) che si caratterizza per l’articolazione e le notevoli dimensioni, e che è destinato a impreziosire un altare di grande spicco. PENTITTICO Polittico (vedi) composto da cinque comparti. PERGAMO Termine attestato già all’epoca per l’ambone (vedi) realizzato da Giovanni Pisano per il duomo di Pisa. Esalta l’aspetto torreggiante della struttura. POLITTICO Tavola d’altare con una struttura lignea a rilievo che inquadra le figure entro un numero variabile di comparti. PULPITO Struttura perlopiú lignea destinata alla predicazione, con un impalcato addossato alla parete dell’edificio, lungo l’aula oppure all’esterno. Il termine viene anche adottato tradizionalmente per gli amboni (vedi) di forma poligonale introdotti da Nicola Pisano. ROMANICO Termine coniato nel XIX secolo per designare quasi l’intero complesso dell’arte medievale. Deriva da espressioni mediolatine come romanice parabulare, ossia «parlare in romanzo», dove per «romanzo» dobbiamo intendere gli idiomi in latino volgare che daranno luogo alle lingue neolatine. Si riteneva infatti che l’arte romanica fosse il corrispettivo dei fenomeni di trasformazione della lingua classica. Oggi questa prospettiva di lettura non è piú condivisa, ma si utilizza comunque l’espressione per tutto il periodo che va dalla fine del X agli inizi del XIII secolo, escludendo quelle manifestazioni del gotico (vedi) che già si definiscono negli anni 1130-40. ROSONE Finestra di forma circolare con transenna interna a forma di ruota di carro, con mozzo centrale e raggiera di colonnine. È molto diffusa nell’architettura cistercense e nelle cattedrali gotiche transalpine. SALTERIO Libro liturgico con la raccolta dei Salmi. SBALZO In oreficeria e scultura, tecnica che permette di mettere in rilievo le figure lavorando in negativo sulla lamina metallica. SCENOTECNICA Arte di rappresentare lo spazio in termini di scenario teatrale, con una costruzione che si avvale di fondali architettonici scalati in modo tridimensionale. SMALTO Vernice vetrosa che assume un aspetto compatto e lucido a seguito di una cottura ad alta temperatura. STUCCO Impasto di calce e altri elementi variamente
scelti e combinati (come per esempio la polvere di marmo). TEOFANIA Termine che designa la rivelazione del divino e che si utilizza nell’ambito dell’iconografia per tutte le raffigurazioni che celebrano l’inizio e la fine dei tempi in punti ben precisi dell’aula sacra (il portale, la parete di controfacciata, l’abside). TESSERA Elemento di pietra, vetro o marmo utilizzato per la composizione dei mosaici parietali o pavimentali. TRANSETTO Il termine indica letteralmente ciò che si trova al di là di una separazione e designa gli spazi laterali che affiancano il presbiterio. Si adotta soprattutto quando tali spazi sporgono dalle pareti perimetrali dell’aula, formando in pianta il braccio trasversale della croce. TROMPE-L’OEIL Termine francese che significa letteralmente «inganna l’occhio». Viene adottato qualora il dipinto intenda rompere illusionisticamente la barriera tra spazio immaginato e spazio reale. VOLTA Struttura che copre gli spazi, in varie conformazioni. Fu particolarmente adottata nel Medioevo, sia perché riduceva i rischi di incendio, sia perché consentiva di ideare strutture sempre piú impegnative dal punto di vista statico e strutturale. Replicata o prolungata lungo la struttura di un’aula, ne compone il soffitto. Si può altrimenti situare al culmine di una cupola, in coincidenza con il presbiterio. Può assumere in sezione l’aspetto di un arco a tutto sesto o di un arco a sesto acuto. Essenzialmente, quando ricopre un’aula, può essere a botte o a crociera. Se a crociera, può essere dotata o meno di costoloni, ossia di elementi a rilievo che corrono lungo le sue nervature. La sua presenza impone accorgimenti estetici e statici che interessano l’intera struttura: l’impostazione di una volta, infatti, richiede una particolare ripartizione dell’aula, e la spinta che determina dev’essere talvolta assorbita da contrafforti esterni.
LA CATTEDRALE GOTICA
N nartece navata navate laterale torri
portico transetto crociera
abside absidiole coro deambulatorio
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VO MEDIO E Dossier n. 25 (marzo 2018) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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Editore: My Way Media S.r.l. Direttore generale: Andrea Ferdeghini Coordinatore editoriale: Alessandra Villa
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Redazione: Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it
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Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione: Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Furio Cappelli è storico dell’arte. Chiara Frugoni è storica del Medioevo. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: pp. 12, 19, 21, 68/69, 75 (basso), 97 (basso), 104/105; Leemage: copertina (e p. 84, basso) e pp. 6-9, 32/33, 45, 48 (alto), 90, 102/103, 108/109; AKG Images: pp. 13, 16-17, 46 (basso), 47, 56/57, 59, 83, 88 (alto), 102, 114/115; Archivio Lensini/Fabio e Andrea Lensini: pp. 18, 84 (alto), 89, 112/113; Antonio Quattrone: pp. 20/21; Archivio dell’Arte Luciano Pedicini/Luciano Pedicini: p. 49; Electa: p. 50; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: pp. 51, 97 (alto); Album: pp. 54, 78, 106; Electa/Sergio Anelli: pp. 85, 90/91; Archivio Magliani/Mauro Magliani & Barbara Piovan: pp. 86/87; Domenico Ventura: p. 88 (basso); AGE: pp. 101, 124 – Shutterstock: pp. 10/11, 20, 22/23, 24/25, 26, 27 (centro, a sinistra), 28/29, 30-31, 3437, 39, 40, 40/41, 46 (alto), 55, 58/59, 60, 63, 69, 72/73, 74/75, 76-77, 95, 120-123 – Doc. red.: pp. 12/13, 14 (sinistra), 15, 22, 27 (centro, a destra), 38, 41-43, 48 (basso), 52-53, 61, 62, 64, 66-67, 70-71, 75 (alto), 79, 80-81, 86, 92-94, 96, 98, 100/101, 107, 111, 113, 116, 118-119, 125 – DeA Picture Library: pp. 14 (destra), 68, 98/99, 110; A. Dagli Orti: p. 32 – Marka: Christian Hand/Imagebroker: p. 28; J.D. Dallet/Age Fotostock: p. 65 – Francesco Corni: disegno alle pp. 60/61 – Archivi Alinari, Firenze: p. 117; Dist. RMN-Grand Palais/image BnF: p. 100 – Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera: p. 108.
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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: Crocifisso, tempera e oro su tavola di Giunta Pisano. 1250-1254. Bologna, chiesa di S. Domenico.
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