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INTRODUZIONE ALLA PITTURA MEDIEVALE
UNA STORIA DI AMORE E ODIO ● L’EREDITÀ ORIENTALE ● LA RIVOLUZIONE DI GIOTTO ● LA PIÚ ANTICA CROCE DIPINTA ● ALLA SCOPERTA DEI CAPOLAVORI ●
INTRODUZIONE ALLA
PITTURA MEDIEVALE di Furio Cappelli
NASCITA DELL’ICONOGRAFIA 6. Una questione d’immagine L’ARTE BIZANTINA 44. La lezione venuta da oriente I MATERIALI E LE TECNICHE 80. Per dare forma alle idee GLI AMBIENTI E I CONTESTI 100. Grandi maestri e artisti senza nome 102. Napoli e Ravenna S. Giovanni in Fonte e Battistero degli Ortodossi 103. Matera Cripta del Peccato Originale 106. Aosta Cattedrale di S. Maria Assunta e collegiata dei Ss. Pietro e Orso 112. León Collegiata Reale di S. Isidoro 113. Capua S. Angelo in Formis 116. Venezia Basilica di S. Marco 119. Palermo Cappella Palatina 120. Siena Sala dei Nove del Palazzo Pubblico 124. Padova Cappella di S. Giorgio 128. Cronologia
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PITTURA DEL MEDIOEVO
Nascita dell’iconografia
UNA QUESTIONE D’IMMAGINE L’arte cristiana tra la tarda antichità e i primi secoli del Medioevo risente, inevitabilmente, dell’influenza di temi e modelli elaborati nelle epoche precedenti. Un esempio eclatante: la dea Iside che si trasforma iconograficamente, assumendo le sembianze della Vergine Maria. La disputa sui nuovi canoni artistici da adottare e su cosa effettivamente possa essere raffigurato travalica, tuttavia, lo stesso ambito della cristianità...
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a sempre, si tende ad associare l’idea della pittura medievale all’immagine sacra, sia nel mondo cristiano d’Occidente che in quello d’Oriente. Un collegamento suggerito dal fatto che, nonostante sia sempre rimasta viva una produzione destinata ad ambienti profani o comunque non attinenti al culto religioso o alla vita monastica, le sopravvivenze piú estese e significative dell’arte figurativa si collocano nelle chiese. Sebbene fuorviante, si ha cosí la convinzione che i pittori del tempo si dedicassero esclusivamente alle immagini religiose, in forma di effigie o di narrazione. E da ciò scaturisce un’immediata e inscindibile associazione tra arte figurativa e culto cristiano. Questo legame, tuttavia, non è scontato. Fra le tre religioni scaturite dal ceppo di Abramo, il Cristianesimo è l’unica che abbia non solo tollerato, ma anche teorizzato e incentivato la creazione e il culto di immagini sacre. L’Ebraismo e l’Islam hanno ben presto maturato un rifiuto assoluto al riguardo. La sinagoga e la moschea, infatti, non lasciano spazio ad alcuna figurazione. In entrambi gli ultimi due casi, sia sul fronte ebraico che su quello islamico, il rifiu6
PITTURA MEDIEVALE
Affresco raffigurante la consacrazione del Tabernacolo, alla presenza di Aronne, dalla sinagoga di Dura Europos. 244-245 circa. Damasco, Museo Nazionale.
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PITTURA DEL MEDIOEVO
Nascita dell’iconografia
LA FIGURA NEL TEMPIO GIUDAICO Sul fronte giudaico, non c’era un orientamento compatto riguardo al problema delle immagini nel luogo di culto. La tendenziale mancanza di ornamenti figurati può basarsi su alcuni brani del Talmud, elaborato tra il III e il VII secolo d.C. Il testo sacro, però, non impone divieti assoluti, ma anzi ammette la presenza di mosaici e di affreschi, anche con figure umane. La discussione dottrinale, d’altronde, era tenuta ancora viva dai rabbini nel pieno Medioevo, tant’è che Mosè Maimonide (1132-1204), grande autorità spirituale dei figli di David in terra egizia, ribadisce l’ammissibilità della figura umana nella decorazione delle sinagoghe, purché non sia presente in forma tridimensionale. Il Talmud, infatti, rilevava il pericolo dell’idolatria nelle raffigurazioni scultoree, in accordo con il secondo comandamento della legge mosaica. Riguardo a questo testo fondamentale, i teologi del primo giudaismo maturarono in sostanza un duplice atteggiamento. Come osserva lo studioso Conrad Rudolph, da un lato si evitò una rappresentazione della divinità, ma, al tempo stesso, si ritenne ammissibile qualunque altro soggetto, anche di carattere religioso. Dall’altro lato, il contatto traumatico con il mondo ellenistico, all’epoca dei Maccabei, sollecitò una marcata distinzione di usi, con un forte rigorismo che precludeva qualsiasi figura nei luoghi di culto. Va detto, peraltro, che anche in epoche successive gli aspetti dell’arte giudaica dipesero molto dai rapporti delle comunità con il contesto politico e culturale in cui agivano. Piú tesa era la situazione, piú si evidenziava un concetto di radicale semplicità nell’assetto dei luoghi di culto.
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All’atto pratico, in definitiva, la decorazione figurata doveva essere molto piú diffusa nelle sinagoghe di quanto possiamo supporre, soprattutto nel tardo antico e nell’Alto Medioevo (fino al VII secolo). Se la già citata sinagoga di Dura Europos ci sembra un’eccezione, questo è dovuto al fatto che gli edifici giudaici a noi noti in forma integrale sono solo quelli sopravvissuti in Europa, databili al massimo al XIII secolo. La stessa sinagoga di Dura è stata tramandata in modo del tutto casuale, poiché venne interrata dai Romani ai fini del potenziamento delle fortificazioni urbane. Oltre ai suggestivi agganci formali con la coeva pittura del battistero locale, si può inoltre ricordare che i dipinti della sinagoga mesopotamica erano finanziati dai membri piú facoltosi della comunità locale, «per un appassionato desiderio del loro cuore». In ricordo della loro munificenza, essi videro ricordati i loro nomi in una epigrafe, esattamente come sarà in uso nelle epigrafi dedicatorie delle chiese cristiane, in prima battuta quelle che erano poste a corredo dei mosaici pavimentali. Lo storico Peter Brown ricorda, per esempio, i mosaici istoriati della chiesa «doppia» del vescovo Teodoro (304-315), rinvenuta sotto la cattedrale di Aquileia.
In alto un altro affresco dalla sinagoga di Dura Europos raffigurante Mosè che fa sgorgare l’acqua dal pozzo di Be’er per placare la sete del suo popolo, che ha liberato dal giogo egiziano e sta riportando in Israele. 244-245 circa. Damasco, Museo Nazionale.
to non venne elaborato una tantum, in un momento fondativo, senza ammettere alcuna concessione, tanto che in talune fasi storiche o in situazioni particolari si è prodotta un’arte sacra ebraica di tipo figurativo, cosí come un’arte sacra islamica di tipo «paesaggistico» (con l’esclusione di esseri animati al suo interno: non vi sono né uomini né animali). A Dura Europos (l’antica città della Mesopotamia, oggi in Siria, n.d.r.) le scene narrative della sinagoga (244-245 d.C.) «competono» con quelle del battistero cristiano (232-33) e del mitreo pagano (II secolo d.C.). La Grande Moschea degli Omayyadi di Damasco, dal canto suo, è decorata da ampi riquadri a mosaico con piacevoli vedute paradisiache, che discendono direttamente dalle fantasie di tipo «nilotico» (ispirate cioè al paesaggio dell’antico Egitto) ampiamente sperimentate nell’arte ellenistica. Nell’adottare quell’elegante modello, si sottoponeva a un filtro rigoroso la visione d’insieme. Città, corsi d’acqua e alture furono mutati in realtà metafisiche, prive come sono di quelle figure animate che «abitavano» la scena nei mosaici e negli affreschi della classicità.
Nel caso di Dura Europos, la comunità ebraica si era perfettamente integrata nella cultura romana di quella città di confine. Damasco, capitale originaria del califfato, rientra invece in un’ampia casistica, cioè nell’alveo dei fasti che contraddistinsero l’Islam nella prima fase storica del «suo» impero, quando i califfi della dinastia omayyade manifestarono una certa apertura nei riguardi dell’eredità di Roma. Nonostante simili «scivolate» nel mondo della figura, l’arte sacra di entrambe le fedi sviluppò comunque un concetto del luogo di culto estraneo alla familiarità tra creazione figurativa e religione propria del mondo classico «pagano». Quella familiarità che il Cristianesimo aveva chiaramente proseguito, pur con tutti gli adattamenti e le selezioni che si rilevarono come necessari.
In basso mosaico raffigurante il Buon Pastore, da Hinton St Mary (Dorset, Inghilterra). IV sec. Londra, British Museum.
Una simbologia d’origine pagana
Nella pittura delle catacombe, la fortunata immagine del Cristo come Buon Pastore deriva dal repertorio delle antiche scene allegoriche. Si tratta infatti di una figura che nel mondo classico richiamava il concetto della filantropia, e quindi del soccorso che si doveva presta-
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Nascita dell’iconografia
Roma, basilica di S. Pudenziana. Mosaico del catino absidale raffigurante Cristo in trono circondato dagli Apostoli. 402-417. Sullo sfondo è rappresentata la città di Gerusalemme, con il Golgota sormontato da una croce gemmata e dai simboli dei quattro evangelisti. Ai lati di Cristo, le due donne raffigurate nell’atto di incoronare san Pietro e san Paolo, sono state variamente interpretate come ecclesia ex circumcisione ed ecclesia ex gentibus, o come le sorelle Prassede e Pudenziana. re a un soggetto inerme e in difficoltà. Il concetto poteva essere facilmente adottato nel contesto funerario cristiano, come promessa della ricompensa ultraterrena, quando Cristo avrebbe dispensato la salvezza alle anime elette. Ma poteva anche darsi che, per evocare Cristo stesso, si facesse ricorso all’immagine trionfale del Sol Invictus, e dunque a una simbologia direttamente «rubata» a un culto «pagano», peraltro interrelato con le celebrazioni della maestà imperiale. Lo si vede bene nel Mausoleo dei Giulii, nella necropoli del Vaticano (250 circa), alla sommità della volta (che è l’apice dell’ambiente e dunque il punto simbolico di contatto con il cielo). Il tema del Cristo in gloria sul carro solare, trainato da una quadriga di cavalli, fu poi riproposto in una delle absidi della cappella di S. Aquilino (410-450) nella basilica milanese di S. Lorenzo. In un caso come questo era possibile trincerarsi dietro al fatto che il Sole poteva essere coinvolto come immagine della luce del «vero» Dio, anziché evocare una realtà divina coincidente con l’astro in sé e per sé. Ma l’immagine frontale del Cristo benedicente, cioè quella che dovette poi imporsi negli apparati piú vistosi, fu pressoché esemplata sulla piú diffusa iconografia di Zeus/Giove, il dio supremo del paganesimo greco-romano, i cui lineamenti erano già condivisi da alcuni degli dèi piú potenti: Nettuno, Asclepio/Esculapio, Serapide e Suchos. Cristo, in questo modo, ereditò il «tipo» della figura in trono, solenne e imperiosa, dai lunghi capelli scuri che scendono in massa dietro le spalle, con una fronte spaziosa e una barba folta, ma ben curata. Come sottolinea lo studioso Thomas F. Mathews, in tal modo «rubò l’aspetto degli dèi con cui era in competizione». Si veda per tutti il mosaico absidale di S. Pudenziana a Roma, commissionato da papa Innocenzo I (402-17), dove Cristo si sostituisce al Giove capitolino non solo nell’iconografia (troneggia come un vero signore dell’Olimpo), ma nella ripresa del titolo di Conservator, che era prerogativa del dio PITTURA MEDIEVALE
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In basso Madonna del Latte (Galaktotrophúsa) detta anche della Catena, icona di scuola romana. Prima metà del XIII sec. Roma, chiesa di S. Silvestro al Quirinale. Il tema è una rielaborazione dell’immagine della dea Iside in trono che allatta il figlio Arpocrate.
pagano come protettore dell’augusto sovrano. Ora al posto di Giove c’è Cristo, appunto, protettore della Chiesa. In una scultura del Buon Pastore (Musei Vaticani, 300 circa), tratta da un sarcofago istoriato, l’iconografia già diffusa nella pittura funeraria fu sottoposta a una raffinata sofisticazione, in modo che la figura adoloscente del Cristo alludesse alle fattezze efebiche di un Apollo o di un Dioniso. In realtà, i casi di conclamata commistione tra immaginario religioso pagano e iconografia cristiana potrebbero essere elencati in gran numero. Per esempio, l’idea di rappresentare il Cristo in gloria racchiuso entro una mandorla, tra due angeli che lo affiancano, si basa su una famosa raffigurazione classica di ben altro genere. Si tratta della scena con Afrodite (la dea Venere) che emerge dalla valva di una enorme conchiglia, mentre ai suoi fianchi si presentano a renderle omaggio un tritone e una nereide. È un’iconografia che, debitamente arricchita, si riaffaccerà nel celebre dipinto del Botticelli, in pieno Rinascimento. 12
PITTURA MEDIEVALE
Ebbene, il trapasso dall’immagine pagana alla nuova raffigurazione si compí nell’Egitto copto, nel VI secolo. In quel contesto, proprio nello stesso periodo, convivono infatti le ultime raffigurazioni di Afrodite e la nuova immagine del Cristo in gloria, che allude alla seconda venuta del Messia, alla fine dei tempi. Per giunta, si è peraltro ipotizzato che alla base di questo trapasso vi fosse un parallelismo tra la nascita di Cristo da Maria Vergine e la nascita della dea da una perla, simbolo di purezza.
La fede come un trionfo
Si è anche tentati di vedere nella ritrattistica ufficiale degli imperatori tardo-antichi una fonte ispirativa delle icone bizantine, che, di pari passo ai grandi mosaici absidali, elaborarono un concetto trionfale della fede cristiana. Spesso, infatti, il sovrano dei cieli vi appare in maestà, seduto in trono e in posizione frontale. Può essere in sembianze di adulto o di Gesú Bambino, nel qual caso siede sul grembo di Maria. È sempre omaggiato da un corteo di
In alto Palermo, Cattedrale. Particolare della decorazione di un sarcofago paleocristiano riutilizzato come sepolcro dell’arcivescovo Pietro di Tagliavia. Vi sono raffigurati gli Apostoli che stendono la mano, mentre giurano fedeltà alla «Crux invicta». Nella pagina accanto il Buon Pastore, scultura già inerente a un sarcofago del 300 circa, trasformata in statuetta nel 1764 con l’intervento del restauratore Giuseppe Angelini. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano.
santi e di angeli, che verrebbero cosí a sostituire, rispettivamente, i dignitari di corte e i geni alati della vittoria pagana. In realtà il fenomeno di «competizione» tra il sovrano dei cieli e il sovrano dell’impero si sviluppa in modo ben piú complesso e intrigante. In primo luogo, l’associazione tra la vittoria pagana e gli angeli cristiani, con tutto ciò che suggerisce a livello di rapporti tra la sfera celebrativa a quella religiosa, può essere sostenibile in senso compositivo, per via di un perpetuarsi di impaginazioni e pose tipiche, ma non si può asserire che l’angelo come tema iconografico derivi dalla vittoria. Alle origini, infatti, era codificato in forma aptera (senza ali), in sembianze di semplice uomo vestito di tunica e pallio. Le ali degli angeli fecero la loro prima comparsa in forma di «apposizione iconografica» solo alla fine del IV secolo, quando la figura del messaggero divino venne associata a quella del cherubino biblico. D’altro canto, va rilevato che si era sviluppata in parallelo alle icone degli dèi una consuetudine PITTURA MEDIEVALE
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PITTURA DEL MEDIOEVO
Nascita dell’iconografia e aureolati, e su scala minore (come nelle icone cristiane e in tante opere d’arte medievale) poteva essere raffigurato il donatore. L’immagine egizia della dea Iside in trono che allatta il figlio Arpocrate, avuto da Osiride, in un affresco domestico di area egizia (da Karanis, presso il Fayum, III-IV secolo), oggi osservabile al Museo di Ann Arbor (Michigan, USA), è verosimilmente in linea con tante icone destinate alla devozione privata dei pagani, e costituisce il precedente di una delle antiche superstiti icone mariane del Sinai (VII secolo), con l’immagine della Madonna del Latte (Galaktotrophúsa). Nella transizione del modello iconografico, il trono ligneo della raffigurazione pagana si trasforma in un trono di metallo prezioso, e lo sguardo fisso rivolto allo spettatore trapassa dalla dea pagana alla madre di Dio con la stessa intensità e con lo stesso senso di ultraterrena presenza.
Un confine sfuggente
di effigi imperiali di piccolo formato, destinate sia ad ambienti pubblici che privati, verosimilmente prodotte in serie a sostegno del culto del sovrano. Il fenomeno doveva avere un particolare sviluppo e risalto in età tardo-antica, laddove l’immagine dell’imperatore doveva trascendere la sua persona e imporre all’attenzione un senso di divina maestà. In quanto oggetto cultuale per antonomasia, l’icona rafforzava la sua presenza e ne garantiva l’ispirazione ultraterrena, divenendo di conseguenza strumento del suo potere e della sua «funzione pubblica». Questo aspetto toccava il suo apice al momento della morte, quando il sovrano stesso veniva divinizzato. E qui torna il problema delle origini delle icone cristiane, viste talvolta come derivate dal culto imperiale. A parte il fatto che proprio il culto dei sovrani esclude una netta separazione tra l’ambito politico e quello religioso, le immagini devozionali di Cristo, di Maria e dei santi non derivano dalla ritrattistica ufficiale romana, bensí dalle piccole raffigurazioni su tavola di deità pagane, note agli antichi come pinakes, eikones (in greco) o tabulae (in latino). Già in antico esistevano pannelli dipinti strutturati a trittico, a fungere da tempio in miniatura in ambiente domestico. Gli dèi erano rappresentati in trono 14
PITTURA MEDIEVALE
Riproduzione ad acquerello di una pittura murale scoperta a Karanis (Egitto) con l’immagine di Isis lactans. III-IV sec. Ann Arbor, University of Michigan, Kelsey Museum of Archaeology.
Risulta a questo punto difficile stabilire un preciso confine tra un prima e un dopo, nel corso di quel lungo processo che vide il declino del paganesimo e l’affermazione del Cristianesimo. Una vicenda davvero emblematica sotto questo punto di vista riguarda la figura dell’imperatore Costantino (vedi box a p. 18). Devoto al dio cristiano, non rinunciò alle prerogative dei suoi predecessori. Da un lato fu un fervente catecumeno, e promosse la realizzazione dei primi grandi edifici di culto della nuova fede. Dall’altro lato era il pontifex maximus, garante ufficiale dei culti religiosi antichi, e aveva fondato templi pagani anche nel cuore stesso della «sua» Costantinopoli. Se prestiamo fede al suo fervente biografo Eusebio, vescovo di Cesarea (Palestina), mentre era in vita rifuggí ogni forma di culto diretto alla sua persona. Vietò ai pagani di apporre icone in suo onore nei templi, e se un cristiano gli dava del «beato» si irritava, imbarazzato per la commistione che quel titolo creava con i suoi potenti protettori celesti. Non risparmiava risorse per erigere superbe statue che lo ritraevano negli spazi pubblici, ma la sua immagine prese corpo in una o piú chiese solo nella veste di un umile offerente, ritratto in proporzioni ridotte a lato delle figure principali negli apparati a mosaico. Nell’arco trionfale dell’antica basilica di S. Pietro (317-322), l’imperatore donava la basilica a Cristo e all’apostolo fondatore della Chiesa. La scena, esattamente come si vedrà in tante immagini di dedicazione del Medioevo, consisteva nella consegna di un plastico/modello dell’edificio.
L’antico mosaico absidale raffigurava dal canto suo una Traditio legis, ossia il momento fondativo della Chiesa. Cristo, ritratto in posizione frontale, affidava il rotolo della sacra Legge a san Pietro, mentre san Paolo assisteva alla scena sul lato opposto, con le mani protese ad acclamare il Signore. Lo schema della composizione si può tuttora vedere a Roma, riproposto pochi decenni piú tardi, nel mosaico dell’abside sud del Mausoleo di S. Costanza (figlia di Costantino), databile agli anni 350-375. Tornando all’abside della basilica vaticana, un’iscrizione che correva lungo il profilo dell’arco alludeva probabilmente a una vittoria riportata da Costantino su una popolazione barbarica del Medio Oriente, i Sarmati (322-23). Sull’arco trionfale, invece, a corredo della scena di dedicazione, si poteva leggere: «Poiché sotto la tua guida il mondo s’innalzò trionfante verso gli astri / Costantino Vincitore ti costruí questa basilica» (traduzione di Paolo Liverani). Si tratta in questo caso di un riferimento alla vittoria su Licinio (324), a seguito della quale il sovrano assunse appunto la qualifica di Victor. Ripetendo quindi lo schema mentale dell’ossequio alla divinità
Roma, mausoleo di S. Costanza. Mosaico raffigurante la Traditio clavium ossia la consegna delle chiavi, da parte del Cristo a san Pietro, che qui appare in una insolita rappresentazione senza barba, facendone il primo pastore della Chiesa cristiana. 350-375.
che aveva propiziato la sconfitta del nemico, il sovrano celebrava il suo trionfo in nome di Cristo, come già aveva fatto a seguito della celebre battaglia di Ponte Milvio (312). Ma in questo frangente, nel cuore di un tempio cristiano, la devozione assume ancor piú i connotati di una esaltazione della maestà imperiale, sia pure sottomessa all’autorità divina. Forse Costantino ricevette il battesimo in punto di morte (è sempre Eusebio ad attestarlo), ma le sue esequie, nel 337, furono svolte con tutti gli onori che si dovevano a un sovrano. Innumerevoli icone, che lo ritraevano asceso nella gloria celeste, vennero dipinte per celebrarne il ricordo in termini prettamente tradizionali (pagani). Per Paolo Liverani, Costantino vi compariva assiso su un globo, secondo una modalità iconografica comune sia ai ritratti degli dèi che alle icone imperiali. In tal modo, si asseriva chiaramente una signoria sul mondo, dal momento che il globo alludeva a un trono celeste e all’universo tout court. E lo stesso Liverani ipotizza che, proprio nella scena di dedicazione a S. Pietro, Cristo fosse ritratto sopra la sfera celeste, come si PITTURA MEDIEVALE
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PITTURA DEL MEDIOEVO
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PITTURA MEDIEVALE
Nascita dell’iconografia
Roma, mausoleo di S. Costanza. Mosaico dell’abside sud, raffigurante la Traditio legis, ossia il momento fondativo della Chiesa: Cristo affida il rotolo della sacra Legge a san Pietro, mentre san Paolo assiste alla scena sul lato opposto, con le mani protese ad acclamare il Signore. 350-375. osserva d’altronde nel mosaico dell’abside nord di S. Costanza (350-375). Nel giro di pochi anni, il concetto della divinità dominatrice del cosmo (kosmokrator) sarebbe stato cosí condiviso negli stessi termini da Cristo (immagine di Dio Padre) e dall’imperatore a Lui devoto. Ma se questo poteva essere compreso e tollerato nella misura in cui le due raffigurazioni «agivano» in ambienti diversi, la devozione cristiana del sovrano e la sua maestà imperiale finirono per creare un imbarazzante «corto circuito» nel mausoleo che Costantino stesso aveva predisposto per le sue spoglie. Egli non aveva rinunciato alla propria divinizzazione e al proprio solenne mausoleo personale (heroon), degno di un Augusto o di un Diocleziano, pur desiderando una sepoltura nel vivo di una chiesa cristiana. Aveva infatti eretto una grande basilica in onore degli Apostoli (Apostoleion) a Costantinopoli, e aveva disposto che il suo corpo venisse tumulato proprio al centro del santuario. La sepoltura era ridossata o sottoposta all’altare, e ai lati si trovava il cenotafio degli Apostoli. Il sacro collegio era simboleggiato da 12 lapidi («teche») disposte tutt’intorno. A seguito delle polemiche scatenate dalle alte gerarchie della Chiesa, questo assetto venne modificato (356-57), ma Costantino si trovò comunque ad assumere la qualifica di santo, e i canti liturgici che si intonavano nella cattedrale di S. Sofia già nel X secolo lo acclamarono come «l’Imperatore divenuto tuo apostolo, Signore».
La lotta contro le icone
La resistenza all’arte figurativa nei luoghi di culto poteva fare affidamento sull’autorità della Bibbia. Il secondo comandamento recita infatti: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassú nel cielo, né di quanto è quaggiú sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prosterrai davanti a loro [gli idoli] e non li servirai» (Esodo 20, 4-5). Stando alla lettera della legge di Mosè, i luoghi di culto non devono mostrare in alcun modo pitture o sculture, a prescindere dal soggetto, dal formato e dalla materia. In realtà, il comandamento tiene conto di quell’ampia gamma di credenze di ogni luogo e di ogni tempo che davano una forma plastica e concreta al loro oggetto di venerazione, cosic-
ché queste statue raffiguranti questo o quel dio costituivano il perno delle celebrazioni religiose, e finivano per essere identificate con l’entità sovrumana a cui gli adepti si rivolgevano. Il Cristianesimo delle origini dovette effettivamente tenere conto di questa proibizione, proprio perché non lasciò spazio a immagini scultoree a tutto tondo. E forse, piú ancora del precetto biblico, pesava proprio l’ingombrante tradizione religiosa greco-romana, con tutti i suoi templi chiamati a custodire la statua degli dèi venerati. Il rifiuto della statua come strumento/oggetto di culto, nonché del tempio come modello architettonico della chiesa, erano d’altronde coerenti con la diversità intrinseca del credo giudaico-cristiano rispetto alla pletora delle fedi pagane. Tanto piú che proprio il rifiuto di rendere omaggio alle statue venerate degli dèi fece piombare tanti cristiani nel vortice delle persecuzioni. Di conseguenza, per un cristiano ormai libero di professare il proprio culto, veniva piú istintivo distruggere una statua degli dèi «falsi e bugiardi» piuttosto che erigerne una nuova consacrata al proprio culto. Troppo difficile, d’altronde, sarebbe stato trovare uno stile o una gamma di atteggiamenti tali da escludere ogni possibile rapporto di continuità con la statuaria pregressa. Non mancano naturalmente alcune eccezioni, ma si tratta solo di esempi sporadici di statuette. Dal canto suo, Costantino dotò l’altare della cattedrale di Roma (l’odierna basilica di S. Giovanni in Laterano) di statue o rilievi in argento, a grandezza naturale, con le figure di Cristo e degli apostoli. Ma l’arte paleocristiana, a tutti gli effetti, si limita alla pittura e alla decorazione scultorea dei sarcofagi. I problemi e le perplessità, tuttavia, iniziarono presto ad affacciarsi sulla scena. La contiguità tra la nuova iconografia cristiana e quella degli dèi pagani poteva essere avvertita con un certo imbarazzo, e alcune storie edificanti sono illuminanti al riguardo. Si narra, per esempio, che a Costantinopoli un pittore ebbe l’ardire di eseguire un volto di Cristo con una somiglianza smaccata all’immagine di Zeus. Puntualissimo giunse il castigo divino, e andò a colpire la mano dell’artista, trasformandola in un moncherino rinsecchito. Il malcapitato ebbe poi modo di guarire, grazie alle cure spirituali del patriarca Gennadio (458-471). Questi, poi, illuminò l’artista con un precetto prezioso, onde evitare ulteriori incidenti. Gli disse infatti che la forma di Cristo che si avvicinava di piú all’originale era «l’altra», quella cioè «con chioma corta e crespa». Bastava quindi evitare di eseguire folte chiome di capelli lisci per eludere il rispecchiaPITTURA MEDIEVALE
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RELIGIOSITÀ E POTERE La vicenda del primo imperatore cristiano è del tutto particolare, ma innesca un connubio tra la sfera politica e la sfera religiosa che avrà ripercussioni eclatanti, e su un lunghissimo periodo. Di fatto, proprio grazie a Costantino la fede cristiana si affaccia sulla scena pubblica con il sigillo della massima autorità. Questo comporta che i simboli religiosi assumano sempre piú un valore politico e sociale, e inizia già a prefigurarsi la spinosa questione del rapporto tra regnum e sacerdotium che ebbe tanto peso nel Medioevo. La Chiesa si avvia infatti ad acquisire un ruolo marcato nella società ben oltre l’ambito prettamente cultuale. L’immagine religiosa cristiana esce sempre piú spesso dallo spazio del culto, idealmente e concretamente. Diviene garante di equità e giustizia, sostituendosi in ciò all’immagine del sovrano. Diviene uno stendardo protettivo che fa mostra di sé nelle processioni e nelle ostensioni pubbliche. Nel mondo bizantino, l’icona della Vergine assume spesso il ruolo di «palladio» ossia di immagine divina (in
mento con l’immagine di Zeus. La storia rende cosí evidente che questo nesso era plateale, e che ci si ingegnava ad apportare modifiche al modello per renderlo meno manifesto. Per giungere al volto autentico di Cristo, insomma, bisognava rettificare al meglio il volto di Zeus. La capigliatura crespa, in particolare, dava un tono piú autoctono e quindi piú veritiero all’immagine di Gesú. Nel distrutto tempio di Bel (o Baal) a Palmira (Siria), esisteva un ritratto di questo tipo, definito «semitico», risalente al VI secolo.
Quale ruolo per le immagini?
Con il passare del tempo, le consuetudini dovettero tuttavia lasciare questi problemi alle spalle. La tradizione, ormai consolidata, aveva ben presto fornito un crisma di autenticità alle immagini sacre. Il problema, semmai, era che queste immagini avevano iniziato ad avere un ruolo sempre piú incisivo e diffuso. La discussione verteva soprattutto sulle effigi di Cristo, della Vergine e dei santi. Se, infatti, i complessi narrativi potevano agire come testi e compendi visivi della Scrittura o delle memorie agiografiche – assolvendo cosí a un trasparente ruolo comunicativo e celebrativo –, le icone, cioè le pitture su tavola, di piccolo formato o a grandezza naturale, esposte nelle chiese o destinate alla devozio18
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riferimento alla Pallade Atena) posta a protezione della città, sia in presenza di un morbo o di una carestia, sia quando un esercito nemico giunga minaccioso. D’altro canto, come sottolinea lo studioso Michele Bacci, l’autorità politica si serve con disinvoltura degli stessi simboli religiosi. Già Costantino avrebbe adottato il monogramma di Cristo sulle proprie insegne, e la croce divenne un emblema di vittoria allorché il nemico sconfitto apparteneva al rango degli infedeli. Nel mondo bizantino, poi, la figura dell’imperatore era fortemente associata all’immagine di Cristo, in particolare sin dal VI secolo. Giustiniano II (685-95; 705-711) non esitò a far battere monete con la propria effigie sul recto e l’effigie del Salvatore sul verso. La contiguità tra il sovrano celeste e il sovrano terreno non poteva essere meglio sottolineata. Erano due facce della stessa moneta. D’altra parte, nelle liturgie solenni che si tenevano nella cattedrale di S. Sofia di Costantinopoli, quando l’imperatore e il patriarca si incontravano, si ricongiungevano «le due metà di Dio».
In alto solido aureo battuto al tempo di Giustiniano II dalla zecca di Costantinopoli. 705-711. Al dritto, l’immagine del Cristo di tipo «semitico» (con i capelli crespi); al rovescio, i busti dell’imperatore e di suo figlio Tiberio. Nella pagina accanto la Salus populi Romani, icona che rappresenta Maria come Theotokos (Madre di Dio) con il Bambino. Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Un’antica tradizione la vuole dipinta dall’evangelista Luca. Nella sua forma attuale, l’opera è il risultato di un rifacimento del XII o del XIII sec., sulla base di una immagine piú antica databile forse al VII sec.
ne privata, avevano innescato un rapporto ambiguo. Erano diventate esse stesse oggetto di culto, e si affacciava cosí il pericolo di idolatria paventato dalla legge di Mosè. Qualora, infatti, il fedele si fosse convinto che il dipinto era l’oggetto delle sue preghiere, l’immagine veniva a coincidere con il concetto di idolo, innescando cosí lo stesso rapporto che si era stabilito tra l’adepto pagano e la statua venerata. Le cose si complicarono allorché le immagini sacre risultarono dotate di qualità o di funzioni sovrumane. Ve n’erano alcune che si dicevano realizzate per diretta volontà divina, senza alcun intervento di mano umana. D’altronde i miracoli che le icone di ogni genere erano in grado di compiere, in ogni dove e in ogni circostanza, si moltiplicarono in modo esponenziale, in perfetto accordo con la loro sempre piú ampia e ramificata diffusione, dal VI secolo in poi. Si impose cosí la necessità di una riflessione e di una normativa. Ben presto si crearono, tra i pensatori, due partiti ben distinti. C’era chi avversava le immagini sacre e chi le giustificava. I detrattori sono definiti di norma «iconoclasti», un termine già in uso nell’VIII secolo per identificare chi rimuoveva le immagini sacre. I difensori sono generalmente definiti «iconofili». Gli «iconoduli», in particolare, sono gli avversa-
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San Filippo costretto a sacrificare a Marte, affresco di Guariento di Arpo. 1361-1365. Padova, chiesa degli Eremitani. ri dottrinali degli iconoclasti, dal momento in cui il problema viene affrontato collegialmente, in sede conciliare. Tra i primi e piú convinti detrattori va senz’altro ricordato il vescovo Epifanio di Salamina (Cipro). Egli, infatti, non soltanto affrontò il tema in forma dottrinale, ma passò ai fatti con un’azione clamorosa, come risulta da una sua lettera scritta nel 394. Strappò di propria mano uno stendardo dipinto con l’immagine di Cristo o di un santo, all’entrata di una chiesa palestinese, nella città di Anablata (forse l’attuale Bir Nabala, non lontano da Gerusalemme). Dal canto suo, Eusebio di Cesarea, il biografo di Costantino già ricordato, si esprime con fermezza in una lettera inviata a Flavia Giulia Costanza, sorellastra del sovrano e moglie del suo collega/rivale Licinio (308-324). Nega recisamente che sia possibile rappresentare il volto di Cristo. Nella stessa Vita dell’imperatore, si scaglia contro l’idolatria pagana e annovera come temi cristiani appropriati l’allegoria del Buon Pastore o la croce-vessillo non figurata. Nella discussione che si sviluppò in modo assai intenso tra l’VIII e il IX secolo, confluirono varie impostazioni difensive. Un argomento di buona presa era fornito dalle stesse Scritture. Proprio Mosè, infatti, su diretta indicazione divina, dispone la realizzazione di ornamenti scolpiti e figurati. Erige un serpente di bronzo nel deserto (Numeri 21, 9) e due cherubini d’oro nel Tabernacolo del Tempio, là dove era conservata l’Arca dell’Alleanza (Esodo 25, 18). Di grande risonanza fu inoltre il pensiero del santo papa Gregorio Magno (590 circa-604), il quale sostenne l’opportunità e la necessità delle immagini sacre in quanto consentivano agli analfabeti di accedere ai contenuti della fede. Non potendo avvalersi dei libri, essi potevano imparare con il solo sguardo ciò che altrimenti sarebbe stato a loro inaccessibile. Questa difesa venne formulata in due celebri lettere, proprio per contrastare l’azione iconoclasta del santo vescovo Sereno di Marsiglia, che nella propria diocesi aveva intrapreso un’azione sistematica di rimozione delle figure sacre. Gregorio non aveva quindi intenzione di elaborare una teoria delle icone, ma voleva intervenire in un caso specifico, facendo appello a un efficace cavillo. Distruggere le immagini significava accecare gli incolti (i poveri d’intelletto). Giovanni Damasceno (645-750 circa) fu il pri-
mo Padre della Chiesa che si impegnò a elaborare una dottrina specificamente rivolta alla difesa delle icone. La rappresentazione di Cristo, della Vergine e dei santi deve essere considerata sullo stesso piano della Rivelazione. Negare l’umanità e la realtà terrena di questi personaggi è un oltraggio al dettato biblico, poiché Dio, facendosi carne, ha voluto assumere una sembianza umana in un contesto terreno. Il culto delle immagini, poi, per Giovanni è lecito, allorché l’atto di devozione sia rivolto al «prototipo» ispiratore, ossia a una presenza situata ben altrove. Occorre cioè vedere nel dipinto una sorta di finestra aperta sull’intangibile. È uno strumento che ci avvicina alla percezione spirituale del mondo celeste, senza tuttavia attingere a quella realtà con il solo ausilio dei sensi.
Una definizione coniata di recente
Il partito iconoclasta si affermò in due circostanze, suscitando a Bisanzio altrettanti periodi di crisi nella fruizione e nella produzione delle icone, dove per «icone», in questo contesto, si intendono anche ampi complessi figurati su qualsiasi supporto: i ritratti di Gesú, della Vergine e dei santi erano infatti presenti ovunque, non solo nei dipinti su tavola, nel vasellame liturgico e nelle tovaglie d’altare, ma anche nei mosaici e negli affreschi. Si tratta di quelle fasi storiche contraddistinte, nel linguaggio corrente, dal termine «iconoclastia», che si ricollega al concetto di «iconoclasmo», impostosi in prima battuta. Come ha però sottolineato la studiosa Leslie Brubaker, questo vocabolo ha una storia piuttosto recente. Lo si trova impiegato a partire dal XVI secolo, e gode di fortuna, in origine, per descrivere la distruzione di statue e dipinti messa in atto durante la Riforma protestante. Il termine «iconoclasmo» implica infatti una distruzione sistematica delle immagini, il che trova pearltro un’immediata risonanza con situazioni che concernono la nostra attualità. I fondamentalisti islamici (i Talebani prima, gli affiliati dell’ISIS poi) si sono segnalati per azioni «purificatrici» di propaganda, volte a eliminare «idoli» d’ogni tipo e d’ogni epoca. Ma a Bisanzio non si produssero situazioni di quel genere. Brubaker rileva a tal riguardo che i Bizantini adottarono piuttosto il termine «iconomachia» per descrivere le dispute dottrinali che si scatenarono nel loro territorio tra l’VIII e il IX secolo. Si tratta quindi di «una lotta contro le immagini», che non implica affatto azioni distruttive su vasta scala, quanto piuttosto una revisione di concetti e di attitudini, senza implicare l’eliminazione radicale del pregresso, peraltro espliciPITTURA MEDIEVALE
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CONTRO LE IMMAGINI SACRE
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Un precedente significativo nella lotta contro le immagini sacre può essere trovato in un contesto regionale, prima che il cosiddetto editto di Milano (313) recepisse la libertà di culto dei cristiani. Il concilio di Elvira (Spagna meridionale, 300 circa) si prefisse di rafforzare la Chiesa con un approccio ai temi e ai problemi piuttosto severo e rigorista. Al 36° canone, i vescovi
della casa d’Israele stavano davanti alle raffigurazioni» (Ezechiele, 8, 10-11). Dal canto suo, il vescovo cipriota Epifanio, qui menzionato, asserisce in modo veemente in una lettera all’imperatore Teodosio I (394): «Chi fra gli antichi Padri ha mai dipinto un’immagine di Cristo e l’ha mai posta all’interno di una chiesa o di una casa privata? Quale vescovo del passato ha mai
sentenziarono: «Si è deciso che non debbano esservi dipinti in chiesa, dimodoché quel che è oggetto di adorazione e di culto non venga rappresentato sulle pareti». La proibizione riguardava specificamente i soggetti religiosi, ed era mirata a stabilire una contrapposizione con gli usi cultuali del paganesimo romano, con cui non ci si doveva assolutamente confondere. Altrimenti, come sottolinea lo studioso Conrad Rudolph, si sarebbe avverato il crimine dell’idolatria che gli stessi Israeliti avrebbero commesso nel loro tempio, come prefigura una visione biblica: «Tutti gli idoli della casa d’Israele erano dipinti sulle pareti tutt’intorno; e settanta anziani
disonorato Cristo raffigurandolo sulle tende di una porta? Chi di loro ha mai tratto un esempio o un modello dai Profeti, dai Patriarchi o dagli Apostoli raffigurandoli su tende o su mura? Le immagini su stoffa di Apostoli, Profeti e del Signore stesso siano tolte via dalle chiese, dai battisteri, dalle case e dalle tombe dei martiri (…). Le immagini sui muri siano coperte di calce (…) e non sia piú possibile in futuro dipingere in questo modo. I nostri padri, infatti, non raffigurarono nient’altro che il segno portatore di salvezza di Cristo [cioè la croce, n.d.t.] sulle loro porte e in qualsiasi altro luogo» (traduzione di Eliana Carrara).
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A sinistra Istanbul. L’abside della chiesa di S. Irene con una croce «iconoclasta» a mosaico (755-760), che ripropone la croce già presente nella ricostruzione avviata da Giustiniano nel 532.
tamente vietata. Tra le norme prodotte dal concilio iconoclasta del 754, si prescrive infatti che nessuno può manomettere gli oggetti liturgici e gli arredi figurati delle chiese senza richiedere licenza direttamente al sovrano o al patriarca. Chiunque avesse preso iniziative personali al riguardo avrebbe disonorato la Chiesa. Si sarebbe comportato, né piú né meno, come un invasato in preda al diavolo. La norma era stata chiaramente studiata proprio per evitare che prelati zelanti si accanissero sulle tovaglie d’altare, sul vasellame liturgico e sui drappi istoriati: tutti elementi di evidente valore sacrale che potevano essere facilmente «vandalizzati» con azioni estemporanee e im-
In alto miniature raffiguranti l’adorazione del vitello d’oro, dalla Biblia Visigótico-Mozárabe o Codex Biblicus Legionensis. 960. León, Biblioteca della Collegiata Reale di Sant’Isidoro.
barazzanti. Diverso era il discorso per i dipinti ad altezza d’uomo e per le ampie immagini murali, quasi sempre a mosaico. I singoli dipinti su tavola o ad affresco, dal momento che cessavano di avere una qualifica di «oggetto sacro», potevano essere effettivamente distrutti, oppure occultati con un velo di calce. Dal canto loro, le immagini musive richiedevano un minuzioso lavoro di «cuci e scuci» per rientrare nella norma. Non si poteva stendere una mano di intonaco neutro sui mosaici, il che avrebbe avvilito la nobiltà e la bellezza dello spazio sacro. Occorreva quindi stabilire una «nuova edizione», riveduta e corretta, per cosí dire, in base ai con(segue a p. 26) PITTURA MEDIEVALE
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L’ARCA DELL’ALLEANZA Teodulfo, vescovo di Orléans (800-821 circa), esponente di spicco della corte palatina di Carlo Magno, è il probabile autore dei Libri Carolini, un corposo trattato che espone la posizione ufficiale del sovrano riguardo al problema delle immagini sacre, cosí come era stato affrontato e risolto a Nicea nel 787. Si tratta di un’operazione politica e teologica al tempo stesso. Non si discute, infatti, la legittimità dell’immagine sacra, ma si vuole affermarla in altri termini, respingendo modi e argomentazioni del concilio. Occorreva infatti delegittimare colei che lo aveva indetto, la sovrana reggente Irene. Tra l’altro, viene cosí respinto come inammissibile l’argomento delle opere di arte figurata disposte da Mosè su ordine divino. La Bibbia non può infatti essere chiamata in causa per giustificare la realizzazione e il culto delle icone, prive di qualsiasi requisito sacrale. Esse rispondono semmai a un bisogno di insegnamento e di visualizzazione, per avvicinare gli analfabeti ai misteri divini e per facilitarne la memoria. A tal fine si chiamava in causa il predetto papa Gregorio Magno, fornendo alle sue parole un significato dottrinale che effettivamente non avevano. La posizione di Teodulfo si esprime bene quando promuove un oratorio nell’ambito della sua residenza privata, a Germigny-des-Prés (Francia centrale, 799 circa-806). Il dettato biblico è messo in piena evidenza in un ambizioso mosaico absidale, che si presenta come un chiaro manifesto iconofilo, ma con un marcato tratto personale. La citazione di Mosè «non funziona» negli Atti del concilio di Nicea, ma qui, evidentemente, Teodulfo è convinto di averla utilizzata correttamente. Stilisticamente, l’opera è piú vicina ai mosaici voluti a Roma da papa Pasquale I (817-824) che all’arte bizantina. Non c’è la rappresentazione della divinità. Si vede solo la mano del Creatore che sporge dal cielo. Teodulfo rinuncia cosí alla consueta immagine di Cristo come Gesú Bambino o Pantocratore, per restare aderente alla purezza del messaggio divino. Sotto un grande «arco figurato», costituito da due enormi cherubini dalle doppie ali, si delinea al centro l’Arca dell’Alleanza, su cui spiccano due piccole figure angeliche, con chiaro rimando ai cherubini del testo biblico. Completava la visione il mosaico che si sviluppava sulle pareti laterali, con una visione paradisiaca di alberi e di fiori. Recita l’iscrizione alla base del catino absidale: «Guarda il santo Oracolo e i cherubini, contempla lo splendore dell’Arca di Dio e, a questa vista, pensa di toccare con le tue preghiere il Maestro del tuono [Dio, n.d.r.], e associa, ti prego, il nome di Teodulfo alle tue preghiere» (traduzione di Marcello Lenzini). La visione è solo il primo passo. Solo la preghiera permette di sfiorare l’intangibile.
Germigny-des-Prés (Francia centrale). L’abside dell’oratorio fatto realizzare nella sua residenza privata, da Teodulfo, abate di Fleury e arcivescovo di Orléans. 799-806.
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cetti propugnati dal concilio. Visto che la croce era ammessa e sollecitata, si poteva cosí sostituire questo simbolo alle varie figure rappresentate. Un tale lavoro di riedizione richiedeva lo stesso impegno necessario per una qualsiasi impresa decorativa, e difficilmente fu attuato in maniera sistematica, se non quando talune opere di ristrutturazione davano l’opportunità di sfruttare i ponteggi allestiti a questo fine.
Decorazioni aniconiche
C’è poi un altro aspetto da evidenziare. Ancora Brubaker ha distinto un’arte «aniconica» da un’arte «anticonica». Nel primo caso, l’immagine figurata viene esclusa a priori, al di fuori di qualsiasi disputa. Nel secondo viene rimossa proprio per effetto delle nuove disposizioni. Ebbene, ben prima dell’«iconomachia», sia a Roma che a Costantinopoli le basiliche conobbero decorazioni realizzate in forma aniconica, senza alcuna figura. Le absidi di S. Pietro e di S. Giovanni in Laterano, nelle prime fasi, furono probabilmente decorate da una semplice croce. Altrettanto dovette verificarsi nella «cattedrale doppia» di Costantinopoli, ossia nelle chiese di S. Sofia e di S. Irene. L’impostazione originaria della S. Sofia costantiniana venne ribadita nella costruzione attuale, voluta da Giustiniano, e 26
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sono tuttora presenti i resti della decorazione aniconica attuata nel VI secolo. S. Irene venne ricostruita proprio durante la crisi «iconoclastica» (755-760), e mostra tuttora una croce non figurata (sebbene di altissima fattura) nel catino absidale. L’intervento venne attuato tenendo senz’altro presente la norma che era stata introdotta, ma con tutta probabilità non venne affatto sostituito un mosaico figurato pregresso. Anche nell’assetto precedente poteva campeggiare una semplice croce! Croci iconoclastiche vennero effettivamente realizzate in modalità «anticonica» in S. Sofia, in coincidenza con impegnativi lavori di ristrutturazione (768-769). In questi casi si vede chiaramente che, là dove c’era un clipeo figurato con il busto di un santo, fu realizzata una croce sostitutiva. Ma quando l’imperatrice Irene, iconofila, si occupò della decorazione di S. Sofia di Salonicco, si allineò all’antica tradizione, e fece ricorso nuovamente alla semplice croce (780-790). In definitiva, per via di un atteggiamento «purista» di lungo corso, a Costantinopoli le absidi non conobbero ampi complessi figurati, se non a partire del IX secolo, quando la disputa sulle immagini si concluse. Diversa fu la situazione a Roma, dove le absidi figurate presero piede già nel IV secolo, e nello stesso impero d’Oriente,
In alto Nimrud (Iraq), marzo 2015. Un miliziano dell’ISIS si accanisce contro le immagini raffigurate in un rilievo di epoca assira. Nella pagina accanto miniature dal Salterio di Teodoro. 1066. Londra, British Library. Dall’alto: Niceforo, patriarca di Costantinopoli, e Teodoro Studita, egumeno del monastero di Studion, con un’immagine del Cristo: entrambi si batterono contro l’iconoclastia; il patriarca a colloquio con l’imperatore Leone V l’Armeno; un gruppo di iconoclasti deturpa l’immagine del Cristo.
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Istanbul, S. Sofia. Mosaico raffigurante il Cristo Pantocratore (onnipotente). L’opera si data all’epoca dei restauri della basilica promossi dopo la riconquista della città da parte dei Bizantini, nel 1261.
fuori dalla capitale, i mosaici absidali sono noti sin dal VI secolo. È stato ipotizzato che la resistenza a questa «moda» fosse dovuta alla volontà dei sovrani-committenti, che intendevano in tal modo ostentare una certa ritrosia nei confronti degli usi trionfali del mondo classico, soprattutto se si agiva all’interno di uno spazio sacro. Ma ciò, naturalmente, non implicava una proibizione, né manifestava un qualche imbarazzo nei riguardi dell’immagine sacra in sé. In ogni caso, è difficile rendersi conto delle effettive conseguenze dell’«iconomachia» sull’arte pregressa. Le notizie relative a singole, distruttive azioni plateali si desumono da interpolazioni o da fonti comunque successive ai fatti narrati, e spesso tendenziose.
La Vergine lapidata
Teofane il Confessore, un cronista profondamente contrario alla rimozione delle immagini sacre, racconta che, nel corso di un’offensiva musulmana (727), sugli spalti delle mura di Nicea un ufficiale si accorse della presenza di una icona della Vergine. La situazione sembrava critica, e questi pensò bene di prendere l’immagine a sassate, attribuendole la causa del difficile momento che la città stava vivendo. Non si accontentò di vedere la sacra icona piombare a terra, ma iniziò a saltarci sopra, fino a ridurla in frantumi. L’esercito musulmano si ritirò. Gli iconoclasti riconobbero in ciò un chiaro segno dell’approvazione divina. Proprio rinunciando all’«idolatria» i cristiani potevano trarsi in salvo. Essi, in sostanza, dovevano dare una nuova accezione alla funzione protettiva delle icone. Se prima sembravano proteggere i fedeli, qualora costoro avessero rivolto preghiere ispirate al loro cospetto, ora i miracoli si potevano compiere distruggendo in malo modo quelle stesse immagini! E che cosa dicevano gli imperatori? Al momento della prima fase di crisi iconoclastica, era sul trono Leone III. Secondo il predetto Teofane e secondo un racconto agiografico, egli dispose la rimozione di un ritratto di Cristo che campeggiava sulla Chalké, la porta principale della residenza imperiale. La decisione sarebbe stata presa per effetto di una terribile eruzione vulcanica nell’isola egea di Thera, ed ebbe conseguenze drammatiche. Gli uomini incaricati della distruzione dell’icona furono uccisi da un gruppo di fedeli inferociti (uomini – in larga parte colti e di nobile stirpe – per Teofane, donne oneste, devote e zelanti secondo l’agiografo). I giustizieri furono a loro volta puniti con la morte, e andarono direttamente in paradiso. PITTURA MEDIEVALE
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Leslie Brubaker mette inoltre in evidenza la scarsa credibilità del racconto, e sottolinea piuttosto che una fonte contemporanea presenta l’imperatore come tutt’altro che avverso alle immagini. Il patriarca Germano (715-730), infatti, in una lettera scritta dopo il 730 (l’anno cruciale che segna il momento di inizio della crisi), condanna l’iniziativa iconoclasta del vescovo Tommaso di Claudiopoli, e ricorda che proprio Leone III e suo figlio Costantino V, associato al trono, avevano disposto di fronte al loro palazzo una composizione (a mosaico?) incentrata sulla croce, arricchita dalle immagini dei profeti e degli apostoli, in segno della «fede imperiale». Germano stesso decise di ritirarsi dalla vita pubblica nel 730, ma non fu né deposto né perseguitato dal sovrano.
Un malcontento diffuso
Sembrerebbe quindi che la crisi non avesse avuto, all’inizio, un avallo dello Stato. Si trattava del frutto di un malcontento diffuso piuttosto nelle alte gerarchie della Chiesa, scaturito dagli episcopati di varie città, e poi giunto a investire la capitale. Ma da cosa nasceva questo malcontento? Perché, dopo quattro secoli di iconografia cristiana, si innesca questa brusca retromarcia? Bisanzio non è in decadenza, presenta anzi una certa vivacità nell’attività intellettuale, nell’economia e nello scambio interculturale con i territori sotto il dominio islamico. Sull’impero pesa tuttavia proprio il repentino affermarsi dell’Islam, che, di là dal Bosforo, ha strappato a Costantinopoli l’Egitto, la Siria e gran parte dell’Anatolia. Nella seconda metà del VII secolo questa perdita è stata vista come un castigo divino, se non come il segno dell’approssimarsi della fine dei tempi. Nella migliore delle ipotesi, incombeva il pericolo che la stessa capitale venisse aggredita. E proprio in quella fase si impose una prima riflessione sul ruolo delle icone. Si tenne cosí il concilio Quinisesto (691-92), chiaramente motivato dall’ansia di purificare e quindi rafforzare la Chiesa, garantendo la benevolenza divina. Non emerse alcuna polemica sull’opportunità delle icone. Anzi, si ribadí l’importanza del ritratto del Salvatore, e si proibí che venisse raffigurato in forma simbolica, in particolare con il ricorso all’agnello mistico (Agnus Dei). L’icona veniva quindi ribadita non solo nella sua opportunità e giustezza, ma si volle dare importanza all’immagine antropomorfica del Creatore. Come si è visto, sotto Giustiniano II il volto di Gesú compare persino sulle monete, in chiara risposta all’aniconismo islamico. Una certa inquietudine 30
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UNA SCENA SENZA FIGURE Affascinanti e problematici, gli affreschi della chiesa di San Juliàn de los Prados (detta anche Santullano, 812-842), a Oviedo (Spagna settentrionale), mostrano complesse e compiaciute costruzioni architettoniche, con una successione continua di nicchie, esedre e tabernacoli su fasce sovrapposte. La croce è l’unico elemento che abita questi spazi «metafisici». Se non vi fosse questo elemento marcante, l’opera potrebbe considerarsi concettualmente affine ai decori della Grande Moschea omayyade di Damasco, dove compaiono analoghi brani di scenotecnica. Una realizzazione cosí particolare, che si raccorda con orgoglio ai modi dell’antichità classica, si deve ad Alfonso II il Casto, re dell’Asturia (791-842). Il suo regno era un avamposto cristiano ai confini della Spagna musulmana. E se l’arte dei vicini seguaci del Profeta non gioca qui alcun influsso, la rinuncia alla figura poteva comunque avere un ruolo polemico nei riguardi dei Mori, in risposta allo stile purista delle loro moschee. In ogni caso, Alfonso volle esprimere con le sue imprese la rinascita dei fasti del regno visigoto, distrutto dai Mori stessi nel 711, e volle anche adeguarsi ai modelli di sacra maestà piú illustri, gettando lo sguardo non solo sulla corte carolingia di Aquisgrana ma anche su Costantinopoli. Si è cosí ipotizzato che le architetture dipinte, in quanto prive di figure, siano proprio un riflesso dell’arte bizantina della fase iconoclasta, dove solo la croce era ammessa. Rimane tuttavia la possibilità che venga rielaborato un antico stile locale. Questa impostazione aniconica, cioè, poteva essere già presente nell’arte paleocristiana ispanica, grazie anche alle già citate disposizioni del concilio di Elvira (300 circa). In seguito, la decorazione senza figure poté essere magari riproposta nelle scomparse chiese della Toledo visigota, che potevano fungere da naturale prototipo per le committenze di re Alfonso.
Sulle due pagine Oviedo (Spagna settentrionale), chiesa di San Juliàn de los Prados (detta anche Santullano). Veduta d’insieme degli affreschi e un particolare raffigurante la croce dell’Anastasis (Resurrezione). 812-842.
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PITTURA DEL MEDIOEVO In basso, sulle due pagine miniatura raffigurante il patriarca di Costantinopoli Giovanni VII inviato in ambasciata dal califfo al-Ma’mu’n (a sinistra) dall’imperatore Teofilo (a destra), dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.
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indusse però questo sovrano a rettificare le sue scelte. Dopo aver ripreso il potere, nel 705, pensò bene di adottare il ritratto «semitico» di Gesú, con una doppia cerchia di capelli crespi, in luogo dell’effigie «classica» scelta in precedenza. In una sorta di nemesi della predetta storia ambientata all’epoca del patriarca Germano (V secolo), Giustiniano dovette convincersi che la prima effigie non aveva «funzionato» a dovere come immagine tutelare. A conti fatti, fu controproducente. Piombato in una situazione tragica, egli dovette infatti subire la detronizzazione e il taglio del naso (695). Dio, evidentemente, non aveva apprezzato le sue scelte, e occorreva perciò un cambio di marcia. Alla morte di Leone III, Costantinopoli si avvia verso un periodo particolarmente funesto. La lotta di Costantino V per garantirsi la successione al trono sfocia in un assedio della capitale, e si intreccia con una terribile epidemia di peste e con un terremoto (740). Tornò cosí l’ombra dell’inquietudine, e lo stesso Costantino indisse
nel palazzo di Hiereia, sulla sponda asiatica del Mar di Marmara, il primo concilio da cui scaturirono le norme iconoclaste (754). Lo guidava proprio l’esempio di Costantino Magno, il quale, indicendo il primo concilio ecumenico della storia, si era imposto come difensore della vera fede a fronte dell’eresia e dell’idolatria pagana. Gli stessi atti dell’assemblea riportano una riflessione teologica del sovrano in persona. Solo l’eucarestia può essere considerata come una valida raffigurazione dell’invisibile. Costantino V fu naturalmente bersagliato dagli iconofili. I monaci, in larga parte contrari alla sua politica, gli affibbiarono un epiteto con cui passò alla storia. Lo chiamarono «Copronimo», il che, nel gergo odierno, può essere tradotto nientemeno che con «Faccia di Merda». I suoi successi militari e la sua gestione avveduta dello Stato, d’altronde, poterono far pensare che Dio fosse davvero dalla sua parte, e che le sue mosse in fatto di politica religiosa fossero provvidenziali. Tuttavia, la Chiesa di Roma non accolse le tesi
A sinistra Belisirma (Cappadocia, Turchia). Particolare degli affreschi nella Kırk Dam Altı Church (chiesa di S. Giorgio).
iconoclaste, e l’avvento di Carlo Magno sullo scacchiere occidentale mise Bisanzio in allarme. Erano state infatti poste le premesse di una realtà politica e ideologica concorrenziale, e si doveva correre ai ripari. Era inoltre necessaria una pacificazione della Chiesa d’Oriente, dove il partito iconofilo non dava tregua.
Un basileus di nome Irene
Quando ancora era reggente in nome di suo figlio Costantino VI, Irene, vedova di Leone IV, indisse un concilio a Nicea (787), esattamente dove era stato celebrato il primo concilio della storia. Il punto forte degli atti che ne seguirono riguardava l’incarnazione. Negare l’immagine del Salvatore equivaleva a negarne la realtà terrena (storica). La Chiesa d’Oriente premiò per questa iniziativa la sovrana, sebbene avesse assunto la qualifica di basileus (non era previsto un corrispettivo femminile) eliminando brutal-
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UN INFLUSSO ISLAMICO? Rimane sul tappeto un problema. La proibizione delle immagini sacre nell’Islam ha avuto un qualche ruolo nell’iconomachia bizantina? Gli iconofili, nei loro attacchi alla parte avversa, ne erano spesso convinti, ma non sappiamo con quanta sincerità. Si trattava infatti di affermazioni mirate a infangare la controparte, che sarebbe cosí apparsa assimilabile agli stessi «infedeli». La prima attestazione di una controversia ufficiale tra musulmani e cristiani su questioni relative alla fede e al culto sarebbe costituita da uno scambio epistolare tra il califfo Omar II (717-720) e l’imperatore Leone III (717-741). Le relative attestazioni sono state giudicate un falso del IX secolo, ma potrebbero in ogni caso definire un quadro veritiero. Si tratta del nascere di una polemica anticristiana in terra islamica, scaturita dalla forte presenza dei seguaci del Messia nelle terre conquistate. Lo scopo di questa polemica era duplice: contrastare l’autorità plurisecolare della «gente del Libro», e spingere i cristiani stessi alla conversione. L’esigenza di rafforzare ideologicamente la Chiesa a fronte di questa situazione, può aver favorito la linea rigorista che sta alla base dell’iconomachia. Ma non è sostenibile che Bisanzio «copiasse» l’Islam sulle questioni del sacro, proprio dove era necessario stabilire delle precise distinzioni. Il problema, infatti, era già stato sollevato in ambito cristiano ben prima della nascita di Maometto, e veniva infine affrontato per effetto di una particolare congiuntura che si era verificata nel cuore della società bizantina. La differenza tra i concetti iconoclasti cristiani e l’aniconismo musulmano, d’altronde, stava nel fatto che a Bisanzio venivano presi di mira i ritratti dei santi, di Cristo e della Vergine, mentre nell’Islam era preclusa qualsiasi figura di essere vivente animato in contesto religioso.
In alto miniatura raffigurante Maometto (senza volto) in preghiera davanti alla Ka’ba della Mecca, da un’edizione del Siyer i-Nebi, biografia romanzata del profeta. 1595 circa. Istanbul, Museo del Palazzo di Topkapi.
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mente il figlio dalla scena. Venne eletta santa e fu raffigurata nelle effigi con un’immagine del Salvatore in mano. La stessa iconografia fu riservata a santa Teodora, la moglie dell’imperatore iconoclasta Teofilo. Costui chiude la seconda ondata dell’iconoclasmo, iniziata con Leone V (813-820), ammiratore di Costantino V e dunque restauratore della sua politica purificatrice. Un nuovo concilio iconoclasta (815) finí per stabilire che la vera immagine di Dio era costituita dall’animo del
credente. Teofilo, dal canto suo, si guadagnò una folta schiera di detrattori allorché dimostrò in modo smaccato una certa ammirazione per gli usi di corte dei califfi abbasidi. Si trattava di un ottimo motivo in piú per rovesciargli addosso accuse infamanti. Oltre a essere un iconoclasta, egli si dimostrava infatti un ammiratore degli «infedeli». Questo, peraltro, poteva rafforzare la convinzione che i dispregiatori delle immagini sacre fossero affascinati proprio dall’aniconismo delle moschee.
Non deve insomma sorprendere cha Teofilo si attribuisca l’immagine di un despota e di un persecutore pagano. Un suo presunto quasimartire è un monaco-pittore dal biblico nome di Lazzaro: non avendone apprezzato la propaganda iconofila, il sovrano gli fece applicare sui palmi delle mani due lastre di metallo arroventato e lo sbatté in prigione. Grazie al pio interessamento della moglie di Teofilo, la predetta Teodora, Lazzaro uscí di prigione come un vero resuscitato, dato che molti lo avevano
Miniatura raffigurante l’arcangelo Gabriele (Jibril) che trasporta Maometto nel viaggio notturno durante il quale, fra l’altro, avrebbe sorvolato il baratro infernale. XIV sec. Istanbul, Museo del Palazzo di Topkapi.
dato per morto. Si rimise subito all’opera e dipinse un ritratto di san Giovanni Battista che assicurò ai fedeli malati un tripudio di miracolose guarigioni. In piú, dopo che la santa Teodora indisse il concilio che ristabilí definitivamente il culto delle immagini sacre (843), Lazzaro avrebbe restaurato il volto di Cristo eliminato dal palazzo imperiale nel momento dell’inizio epico della crisi (730). In definitiva, la crisi stessa finí per rafforzare la presenza delle immagini sacre, dotandole di una giustificazione teologica di cui erano all’origine sprovviste. Il santo monaco Teodoro Studita (759 circa-826), in particolare, asserí che il rapporto tra il soggetto e l’icona era sullo stesso piano del rapporto tra un oggetto e la propria ombra. L’ombra non è l’oggetto che la proietta, ma è comunque connessa a quell’oggetto, e non ne può prescindere. Allo stesso modo, l’immagine sacra non è il soggetto raffigurato, ma racchiude comunque una particella di quell’energia che Cristo o il santo venerato riesce a irradiare. Assumendo questa linea, il concilio «finale» dettò legge su tutto il futuro della Chiesa ortodossa d’Oriente. Occorreva semplicemente distinguere tra l’aspetto e l’essenza del santo raffigurato. L’icona è una «fedele» rappresentazione, e come tale va rispettata. Rimane comunque un lavoro eseguito da un artigiano sulla pietra o sul legno. Non può in alcun modo fare le veci del santo rappresentato, però può comunque ricevere gli atti di omaggio che a lui sono dovuti. Non assicura una «reale presenza», asseriscono i teologi, ma, all’atto pratico, l’icona non smise affatto di compiere miracoli d’ogni genere, esattamente come le sante reliquie. Questo aspetto difficilmente poteva essere risolto dalla riflessione teologica, se non eliminando alla radice la fonte stessa del miracolo. Era quanto si erano prefissi gli iconoclasti, ma una marea montante di immagini era ormai fissata nell’animo di ogni fedele da quattro secoli, e le convinzioni e le attitudini radicate non potevano essere «epurate» di punto in bianco, in nome di un principio «restauratore». Per questo i «puristi» persero la guerra.
Nel Medio Oriente islamico
Il rifiuto musulmano delle immagini di uomini o di animali, in ambito sacro, non può essere ricondotto a Maometto. Nessun passo del Corano può essere invocato al riguardo. Non si tratta quindi di una proibizione «fondativa». D’altra parte, il Profeta non aveva avversari assimilabili ai pagani del mondo greco-romano. I pagani della Mecca, infatti, non si rivolgevano a PITTURA MEDIEVALE
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In alto Damasco, Grande Moschea. Particolare dei mosaici del cortile che mostrano vedute paradisiache ispirate alle fantasie di tipo «nilotico» sperimentate nell’arte ellenistica. 706-715. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’«orologio delle porte», da un’edizione del Kitab fi ma’rifat al-Hiyal al-handasiyya (Libro della conoscenza delle apparecchiature ingegneristiche) di al-Jazari. Al centro del meccanismo sta una candela che, bruciando, a ogni ora fa cadere dal becco del falcone una sfera in una delle aperture che la circondano, facendone uscire una figura.
un’«immagine animata» da venerare, intesa in senso «classico» (statua o icona). I culti preislamici locali, semmai, facevano ricorso a simulacri di vario genere, come semplici pietre sagomate e incise, oppure statuette prive di qualsiasi intento realistico, qualora proponossero un qualche tratto antropomorfo. Secondo la concezione religiosa semitica, condivisa da Arabi e da Ebrei, non era infatti possibile rappresentare la divinità nelle forme di un essere vivente, cercando una qualche mimesi della realtà terrena, perché questo comportava un atto di rivalità (e quindi un sacrilegio) nei riguardi della potestà creativa degli esseri superiori. Un’effigie troppo «vera», come ricorda lo stesso comandamento di Mosè, rischiava poi di far cadere l’adepto nell’abisso della idolatria. Alla Mecca si presentava dunque una pletora di oggetti sacri che si era stretta intorno alla Ka’ba senza condizionare l’essenza del luogo, e per Maometto, di conseguenza, fu soltanto necessario un «restauro» che riportasse il santuario arabo alla presunta purezza originaria dei tempi di Abramo. Ed è significativo che, quando si provvide alla rimozione di questi idoli, Maometto stesso avrebbe salvato un’immagine del-
la Vergine col Bambino, venerata dai cristiani del luogo. La tradizione, quand’anche non fosse veritiera, è stata comunque ritenuta plausibile da chi l’ha recepita e diffusa in ambiente islamico. Gesú e la Vergine, non a caso, hanno un ruolo importante nel Corano.
Pittori all’inferno
Il divieto delle immagini sacre si rispecchia semmai nei detti attribuiti post mortem al Profeta, gli hadith. Vi leggiamo, per esempio, che i dipinti realizzati nell’intento di scimmiottare l’opera divina, dando forma (si sottintende) alla figura umana, si ritorceranno contro l’artefice. Quando infatti il malcapitato si troverà al cospetto di Dio, gli verrà chiesto di infondere alle sue creazioni il soffio vitale (ruh), ma egli non ne sarà ovviamente capace, e cosí, beffato dall’unico vero creatore di tutte le cose, finirà all’inferno. Si dà per scontato che qualsiasi atto di imitazione del reale rientri nella categoria del magico, in evidente conflitto con l’esercizio della potestà divina. D’altronde, in arabo esiste una sola parola per definire il creatore e il pittore: musawwir. E, a ben vedere, qui si ritrova in filigrana il principio coranico PITTURA MEDIEVALE
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espresso dalla voce di Gesú in persona, allorché si rivolge a Maria dicendole che solo Dio è capace di insufflare l’anima in un uccello plasmato nell’argilla (Corano, III, 49). Il dettato coranico dà cosí lo spunto a una norma di vita «aniconica», che prende di mira i pittori piuttosto che gli scultori (che sarebbero il bersaglio piú naturale, proprio perché modellano la materia creando figure «plastiche»). Evidentemente erano i dipinti a suscitare i problemi, nonché le raffigurazioni sugli oggetti di uso e di arredo, anche perché presentavano le raffigurazioni piú diffuse nell’Islam. Nasce da qui l’hadith che giudica come impura, e quindi inadatta alla visita dell’arcangelo Gabriele, una casa dove sia presente un’immagine o un cane. Un altro hadith da citare ha proprio il Profeta come protagonista. Vi si narra che sua moglie Aisha decorò la casa con drappi figurati, ma Maometto non approvò una simile scelta. Fece rimuovere questi tendaggi e ne consentí il riutilizzo in una forma meno appariscente. Una volta ridotti in fasce, i tessuti furono trasformati in federe per cuscini. Si asserisce cosí che la figura può essere ammissibile solo se «confina38
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ta» entro un ambito limitato e secondario. Ebbene, per quanto legate alla memoria del Profeta, queste norme non hanno avuto un peso sostanziale nello sviluppo dell’arte islamica. A parte ogni questione sull’autenticità dei fatti e dei detti riportati, si tratta infatti di elaborazioni tardive risalenti, al piú, agli inizi del IX secolo. Per giunta, nessuna di queste proibizioni, seppure diffuse in precedenza, ha avuto un effetto concreto. Le figure, infatti, sono state largamente ammesse in ogni settore della produzione artistica, ma non in qualsiasi ambiente. Le moschee effettivamente si differenziarono proprio in virtú del rifiuto della figura animata, fatte salve alcune raffigurazioni scultoree di aquile e serpenti, in forma totemica, negli edifici sacri della Turchia selgiuchide (XIII secolo). In questo «rifiuto» non va però visto un intento polemico, ma una semplice scelta estetica. Le immagini «animate» erano presenti nelle residenze califfali e nelle case, negli ambiti cioè del quotidiano e del profano. Implicavano una piacevole varietà di sensazioni che non si addiceva al rigore dello spazio sacro, esattamente come la musica o la poesia. Occorreva quindi
In alto Fes (Marocco). Particolare della decorazione della corte della madrasa (scuola coranica) Bou Inania con lastre e maioliche che riportano passi del Corano. XIV sec. Nella pagina accanto un’edizione manoscritta dei Munajat (Colloqui confidenziali) del primo imam sciita ‘Ali ibn Abu-Talib. 1200 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.
una ricerca di modi e di strumenti che andasse in un’altra direzione. Dapprima si creò una fruttuosa aderenza con i temi paradisiaci del mondo romano, con le fantasie di tralci fioriti che rimandano alla simbologia millenaria dell’Albero della Vita, come si vede nella Cupola della Roccia a Gerusalemme, oppure con grandi quadri evocanti paesaggi fiabeschi, come nella Grande Moschea degli Omayyadi di Damasco.
Figure dell’aldilà
La ricerca poi si sviluppò sempre piú in termini di pura astrazione, con il ricorso ai motivi geometrici, ai motivi vegetali fortemente stilizzati e alla calligrafia. Le epigrafi con le citazioni del Corano divennero esse stesse figure dell’aldilà. In definitiva, si elaborò un raffinato ideale di purezza architettonica e ornamentale, con un processo graduale che non seguiva nel dettaglio alcuna norma prestabilita in forma dottrinale. È possibile, d’altra parte, che i detti attribuiti al Profeta nascondano un’avversione per il ruolo preponderante della figura nei luoghi di culto dei cristiani. Non si può ragionevolmente credere, infatti, che l’intera categoria dei «creatori di
ARTE E COMPETIZIONE L’apporto delle stesse maestranze cristiane risulta evidente nella realizzazione dei mosaici dell’epoca omayyade. Ma questa apertura verso l’arte dei Romani nasceva essenzialmente da una logica di competizione. D’altronde l’atteggiamento culturale dei califfi in questa fase storica è stato definito al tempo stesso filo-ellenico e anti-bizantino. La Cupola della Roccia di Gerusalemme è una «risposta» al Santo Sepolcro, e tra le sue epigrafi si legge: «O Gente del Libro! [i cristiani: il Libro è la Bibbia, n.d.r.] Non siate stravaganti nella vostra religione. (…) Gesú figlio di Maria non è che il messaggero di Dio» (Corano, 4, 171; traduzione di Alessandro Bausani). Dal canto suo la Grande Moschea di Damasco fu realizzata sul luogo della cattedrale di S. Giovanni Battista, espropriata ai cristiani in spregio degli accordi di pace. Il califfo al-Walid I aveva infatti stabilito con gli abitanti della città una resa, con la garanzia di rispettare la chiesa. Come rileva lo storico Claudio Lo Jacono, per giustificare l’arbitrio venne asserito che, al momento della stipula, un drappello musulmano aveva già superato le mura, e dunque era troppo tardi per concludere una pacificazione. Di conseguenza le condizioni dell’intesa non erano piú valide.
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immagini», attivissima nell’arte profana e nella miniatura dell’Islam, fosse condannata all’inferno. Alcuni hadith sono espliciti al riguardo, poiché sottolineano come fosse impossibile per un credente musulmano pregare in una chiesa, proprio per colpa delle immagini. Si trattava effettivamente di un problema «pratico», perché in alcune circostanze cristiani e musulmani condividevano nelle chiese lo stesso spazio di culto, senza contare le trasformazioni delle chiese stesse in moschee. Per giunta, un hadith prende di mira l’uso cristiano di seppellire i morti nelle chiese e di dipingervi figure per onorare i defunti. In questo modo, all’impurità del cadavere si assomma l’impurità del dipinto. All’atto pratico, l’Islam non fu affatto univoco e coerente nei riguardi degli usi cristiani, sia a livello di mentalità che di comportamenti. Esistono tuttavia divieti imposti sin dall’inizio dell’espansione musulmana. In particolare, non è ammesso esibire la croce all’esterno dello spazio sacro, e questo per vari ordini di motivi. Il Corano respinge il racconto della crocifissione di Cristo come apocrifo. In piú, la croce aveva assunto un significato politico e trionfale presso i cristiani, e fungeva dunque da vessillo «imperialista» negli spazi pubblici, il che, peraltro, rinfocolava gli attriti tra i cristiani stessi e le comunità ebraiche. Di conseguenza, le croci già allestite venivano rimosse, e potevano essere anche oggetto di dileggio da parte dei conquistatori, venendo per esempio trascinate per le strade.
L’importanza della posizione
Un altro divieto importante riguarda le manifestazioni pubbliche del culto. I cristiani non possono svolgere processioni e tanto meno ostensioni di simboli o di immagini sacre. Nel caso in cui le chiese fossero state condivise tra cristiani e musulmani, il problema delle icone poteva essere risolto tenendo conto di dove queste erano situate. Esiste al riguardo una norma molto dettagliata. Se le figure si trovano sul pavimento, non c’è problema. Se le figure si trovano ai lati del fedele, non c’è problema. Ma se in direzione della Mecca c’è qualche figura, deve essere senzameno velata con un telo. Casi isolati di provvedimenti iconoclasti o di atti plateali contro le immagini sacre sono spesso attestati dalle fonti cristiane, ma non è possibile accertarne la piena veridicità. Per rafforzare l’analogia tra gli usi musulmani e gli atteggiamenti della fazione dei cristiani iconoclasti, agli atti del sinodo del 787 fu acquisita una testimonianza da cui si evinceva che il califfo Ya40
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Sulle due pagine monastero di S. Caterina sul Monte Sinai (Egitto). In alto, l’iconostasi (struttura che divide la zona presbiteriale da quella riservata ai fedeli, di regola completata da immagini sacre, icone, donde il nome) nella basilica della Trasfigurazione; nella pagina accanto, la piú antica icona con l’immagine del Cristo a oggi nota, databile all’epoca di Giustiniano (527-565).
zid II, nel 721, sotto l’influenza di uno «stregone dei Giudei» di Tiberiade, aveva emesso un vero e proprio decreto che imponeva l’eliminazione di tutte le raffigurazioni di ogni genere, a partire da quelle presenti nei luoghi di culto dei cristiani. «In questo modo depredò le chiese di Dio spietatamente, sotto l’influenza dello stregone giudeo» (traduzione di Susanna Ognibene). Si comprende chiaramente come il racconto, svolto da Giovanni, un sacerdote di Gerusalemme, sia alquanto tendenzioso, eppure alcuni studiosi non escludono elementi di plausibilità. Atti di distruzione delle immagini sacre su ordine del califfo sono confermati nello stesso sinodo del 787 dal vescovo di Messene (Peloponneso). Naturalmente non si possono escludere singoli casi di vessazione, ed è appurato un accanimento di Yazid contro le croci nei luoghi pubblici, ma è assai dubbia un’azione sistematica contro le icone. La storiografia islamica tace al riguardo, come pure un importante testimone dell’epoca nell’ambito cristiano della Siria, l’iconofilo Gio-
vanni Damasceno, già menzionato, monaco presso S. Saba a Gerusalemme. Succosa e veridica è senz’altro la testimonianza fornita da Teodoro Abu Qurrah, vescovo di Harran (Mesopotamia, 799-812) e allievo del predetto Giovanni. Il confratello Abba Yannah di Edessa (oggi in Turchia) lo informa sulle difficoltà che hanno investito le comunità cristiane della Siria, in particolare quelle che sono allineate alla Chiesa ortodossa di Bisanzio. Teodoro gli risponde con un trattato in difesa delle immagini sacre, scritto in arabo. Dice Teodoro, proprio rivolto ad Abba Yannah: «Tu mi hai informato che molti Cristiani hanno abbandonato l’uso di prostrarsi davanti alle immagini di Cristo (…) e alle immagini dei Santi (…) perché i nonCristiani [ebrei e musulmani, n.d.r.] (…) li rimproverano per l’atto di prostrarsi di fronte a queste immagini, e perché imputano loro il culto degli idoli, e di aver infranto quanto Dio aveva comandato» (traduzione di Susanna Ognibene). Teodoro si sofferma poi sull’hadith attribuito a PITTURA MEDIEVALE
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ICONOFOBIA IN GIORDANIA Le campagne archeologiche condotte in Giordania da Michele Piccirillo hanno svelato pagine inedite di storia dell’arte, come pure episodi sorprendenti di autocensura nei riguardi delle immagini presenti nelle chiese. Nel sito di Umm al-Rasas (l’antica Kastron Mefaa), non lontano dal Mar Morto, gli scavi condotti presso la chiesa di S. Stefano hanno permesso di riportare alla luce l’intero complesso dei mosaici pavimentali istoriati. Si tratta di un’opera riferibile in via ipotetica all’anno 718. Ebbene, una squadra di musivari, sicuramente reclutati dalla comunità cristiana locale, non molti anni dopo è intervenuta a compiere un meticoloso lavoro di chirurgica rimozione di tutte le figure animate, eliminandole totalmente o rendendole non identificabili. I vuoti sono stati poi colmati con le stesse tessere musive, in modo da mimetizzare le lacune. Si sono create «pezze» neutre o si è fatto ricorso a immagini sostitutive: piante, fiori, gemme. Sono state cosí cancellate tutte le immagini di uomini e di animali, con una meticolosità e una pervasività che sarebbero apparse eccessive agli stessi iconoclasti di Bisanzio. In tal modo, l’intervento avrebbe allineato la chiesa ai dettami estetici delle moschee. Nel 756 venne inoltre allestito un nuovo mosaico nell’area absidale, in sovrapposizione a quello precedente, adottando temi decorativi puramente geometrici. Ulteriori indagini hanno appurato che simili interventi furono attuati in altre circostanze su tutto il territorio dell’attuale Giordania. Ovviamente le «epurazioni» non si fermavano ai pavimenti ma si estendevano anche alle pareti. Nella stessa Umm al-Rasas, la chiesa del Prete Wu’ail, realizzata nel 586, subí la scalpellatura dei Santi affrescati sull’abside. Dall’analisi dei diversi casi si può stabilire che il fenomeno, definito come «iconofobia», si sviluppò negli anni 715-765. Ma che cosa lo scatenò? Nessun documento ci viene in aiuto. Potrebbe trattarsi di una strategia di autodifesa, attuata dalle comunità cristiane per evitare tensioni con l’Islam in una fase di crisi. Oppure vi si può riconoscere
Maometto e relativo all’eterno castigo dei pittori di immagini con esseri viventi, un testo di riferimento che rappresentava chiaramente una spina nel fianco per i cristiani sotto la dominazione islamica. In modo raffinato, il vescovo contesta agli stessi musulmani il fatto che essi decorino le loro moschee con immagini di piante, assimilabili senz’altro agli esseri viventi, e dunque inammissibili in base al detto del Profeta. Torna poi in ballo il secondo comandamento, che infatti, se inteso in senso radicale, vieta anche la raffigurazione delle piante, in quanto elementi della realtà terrena. L’apologia di Teo42
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un’autocritica dettata da un atteggiamento rigorista, per cosí dire in concorrenza con l’Islam, sulla scorta del secondo comandamento. Ma è difficile credere che una manomissione del genere, pochi anni dopo una costosa realizzazione, potesse scaturire da un improvviso timore di peccato. Si tratta in ogni caso di operazioni autocensorie attuate in regime di pace da cristiani consenzienti, in ambiente cittadino. Il fatto che le chiese monastiche, piú rispettate e meno «esposte», non abbiano conosciuto fenomeni del genere, suggerisce che l’opera di «purificazione» fu attuata a malincuore. Finita questa fiammata di scrupolo «iconofobico», si ebbero timidi interventi di restauro e la realizzazione di nuove immagini sacre. Cosí, nel 767, a quanto pare, una tipica immagine della Madonna col Bambino prese corpo sul catino absidale della chiesa della Vergine a Madaba. Ma l’epoca d’oro dell’Arabia cristiana era ormai al crepuscolo.
In alto Umm al-Rasas (antica Kastron Mefaa, Giordania). Particolare dei mosaici pavimentali scoperti grazie agli scavi condotti presso la chiesa di S. Stefano. 718.
doro finisce cosí per riconoscere un «peccato originale», comune sia al Cristianesimo che all’Islam. «Essi [i musulmani] imputano ad altri la stessa colpa che loro stessi hanno, ma non se ne accorgono neppure» (traduzione di S. Ognibene). Ma quel che stupisce nella testimonianza di Teodoro è che proprio i cristiani sono tormentati dai dubbi, al netto di comportamenti oppressivi da parte dei dominatori. Le norme iconoclaste prescritte a Bisanzio nel 754 ebbero un ruolo in ciò? Di sicuro avranno creato dissidi e perplessità, ma non sembrano aver avuto molto effetto in Siria e in Egitto. Come è attestato a S. Saba, nei pressi di
sulmani nella loro polemica anticristiana. È significativo al riguardo quanto dice il patriarca Germano di Costantinopoli, commentando le prime avvisaglie dell’iconomachia bizantina nella già citata lettera scritta dopo il 730. Il rischio che si correva adottando provvedimenti contro le immagini sacre era, appunto, di fornire alla controparte dei motivi per calunniare i cristiani.
Un furore sorprendente
Gerusalemme, e come si vede, per esempio, a S. Caterina sul Monte Sinai, le piú importanti comunità monastiche in terra islamica divennero vere roccaforti degli iconofili. Si trovarono infatti al riparo da eventuali reprimende di Bisanzio, ed erano rispettate dai governanti islamici, complice la ruvida simpatia di Maometto per la figura del monaco cristiano (Corano, LVII, 27). I monaci stessi, d’altronde, fungevano da naturali custodi dei luoghi venerati da entrambe le fedi. Le dispute dottrinali di Bisanzio ebbero semmai un effetto indiretto. Venne alla luce un punto sensibile su cui poterono accanirsi Ebrei e mu-
In alto Umm al-Rasas (antica Kastron Mefaa, Giordania). Veduta d’insieme dei mosaici pavimentali presso la chiesa di S. Stefano. 718.
All’ostilità sul piano ideologico si abbinavano atti sacrileghi che erano dovuti all’arbitrio dei capi o all’azione predatoria dei briganti, nei momenti di instabilità del califfato. Come si è accennato, molte chiese furono trasformate in moschee o furono distrutte. L’azione piú clamorosa fu senz’altro la meticolosa vandalizzazione del Santo Sepolcro a opera del califfo fatimide Abu Ali al-Hakim, nel 1009. Di madre cristiana, si era accanito contro la «gente del Libro» con sorprendente furore iconoclasta. L’azione fu accolta con giubilo dagli Ebrei e dai suoi correligionari, pur trattandosi di un luogo da sempre rispettato dai musulmani come memoriale di Cristo. Il sepolcro del Calvario non venne infatti aggredito. Quando però il califfo si identificò con Allah, gli islamici ortodossi lo contrastarono con ferocia e lo consegnarono alla storia come un pazzo. Naturalmente queste tensioni non devono essere viste come uno stato che incombesse di continuo. Poteva darsi che un nipote del califfo sputasse su un’immagine della Vergine col Bambino, stando a una testimonianza cristiana, mentre un hadith attesta che il Profeta avrebbe salvato dalla distruzione proprio un’immagine del genere, come è stato già ricordato. Nel caso del Partenone, convertito in cattedrale nel V secolo, si registra addirittura il mantenimento della figura di Maria Vergine nel catino absidale quando la chiesa fu trasformata in moschea. Non mancano, poi, chiare attestazioni su una schietta ammirazione rivolta proprio ai decori delle chiese, in un senso puramente estetico. Lo studioso Michele Bacci ricorda che, nella poesia araba, l’«icona nella chiesa» è un’immagine ricorrente per evocare una bellezza rifulgente nei componimenti di tema amoroso. Il califfo di Baghdad al-Mutawakkil (847-861) espresse un forte entusiasmo per le chiese e per la bellezza dei loro dipinti. La cosa è tanto piú significativa se consideriamo che il califfo è, per definizione, il capo dei credenti. E proprio a Baghdad era presente una chiesa talmente sfavillante di forme e di colori al suo interno che, nei giorni di festa, gruppi di musulmani assistevano volentieri alle funzioni religiose che vi si svolgevano. PITTURA MEDIEVALE
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L’arte bizantina
LA LEZIONE VENUTA DA ORIENTE Sguardi fissi, pose ieratiche, abiti sontuosi, prospettive inesistenti in natura: immerse in uno sfavillio dorato, sono queste alcune delle caratteristiche distintive dell’arte bizantina. Dall’evidente «sapore antico» – eccessivo, secondo alcuni critici d’Occidente – quegli stilemi antiquati contengono, però, i germi della svolta «moderna». Ai quali farà riferimento una folta schiera di artisti occidentali, primo fra tutti il grande Giotto
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e proviamo a definire l’arte bizantina, viene istintivo pensare a qualcosa di rigido, rituale e privo di vita, replicando uno schema mentale già maturato al tramonto del Medioevo. Infatti, quando si era ormai affermato lo stile di Giotto, in quella Toscana dove l’artista era nato, si iniziò a guardare con una certa spocchia alla maniera che egli stesso soppiantò. Il pittore-trattatista Cennino Cennini, nel suo Libro dell’arte (1390 circa), parla di Giotto come colui che «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino, e ridusse al moderno; et ebbe l’arte piú compiuta ch’avessi mai piú nessuno». Tradusse cioè la pittura dal greco in latino, introducendo uno stile che si definisce espressamente come «moderno». È un epiteto che stabilisce uno spartiacque tra il vecchio modo di fare e i nuovi sviluppi. Si ponevano cosí le basi al giudizio sferzante dell’aretino Giorgio Vasari, il primo storico dell’arte di quell’era che proprio noi definiamo «moderna». A suo giudizio, infatti, Giotto «sbandí affatto quella greca goffa maniera, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, introducendo il ritrarre bene di naturale le persone vive». Si era insomma avverata una rigenerazione dell’arte grazie a un passaggio epocale. Da una pletora di forme e di immagini ormai esangui, frutto di una tradizione decaduta, impersonata dai logori Bizantini, si era giunti all’eloquio immediato e veritiero del 44
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tempo antico dei Romani, riscoprendo la capacità di rappresentare il reale. Tuttavia, con buona pace di Cennino e di Vasari, la tanto vituperata maniera dei Greci era stata l’asse portante della cultura figurativa occidentale, e non esaurisce del tutto il suo ruolo all’epoca di Giotto, e anche oltre. Basti pensare alla cultura pittorica di Venezia, ancora intrisa di arte bizantina in pieno Quattrocento: che cosa ne sarebbe del magistero di Paolo Veneziano (1320 circa-1362) senza l’arte bizantina? E persino un ingegnoso pittore rinascimentale come Carlo Crivelli (1430/35-1494/95) sa scavare nel repertorio dei Greci, donando nuova forza e attualità ai fondi dorati oppure infondendo un rinnovato senso di presenza ai gruppi della Vergine col Bambino, esemplati sull’inossidabile repertorio delle antiche icone.
Quasi come un vestito fuori moda
Se il formulario di modelli e di stili di Bisanzio può sembrarci stantio, alla stregua di un vecchio vestito ritrovato in soffitta, non è tanto per i modi che aveva elaborato e diffuso, quanto piuttosto per l’interpretazione debole e approssimativa di quel messaggio. In Occidente, piú di un pittore si era adagiato su quelle formule, stancamente, senza attenersi in modo adeguato ai parametri di qualità che la stessa arte bizantina richiedeva. Si tratta della cosid-
Madonna con il Bambino (nota anche come Madonna Lochis), tempera e oro su tavola di Carlo Crivelli. 1482 circa. Bergamo, Accademia Carrara.
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PITTURA DEL MEDIOEVO Madonna con il Bambino (nota anche come Madonna di Macerata), tempera e oro su tavola di Carlo Crivelli. 1470 circa. Macerata, Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi.
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BISANZIO ETERNA L’aspetto intimo della devozione aveva favorito a Bisanzio una maggiore ricerca del sentimento nella resa della maternità divina. Per esempio, la Vergine del tipo Eleúsa («intenerita, compassionevole») ha la guancia posata sul volto del Bambino, mentre questi è intento ad abbracciarla. Si esprime cosí, oltre a un senso di reciproco affetto, la triste consapevolezza della madre per il destino del figlio. Una famosa Eleúsa è la Vergine di Vladimir, palladio della prima Russia (XII o XIII secolo), tradizionalmente attribuita a san Luca. Ebbene, la delicatezza dello schema riemerge nella fine cesellatura della crivellesca Madonna di Macerata (1470), che si esempla su un’icona assai legata alla tradizione religiosa del territorio.
detta pittura bizantineggiante, che si sviluppa comunque su vari livelli di qualità. Esisteva senz’altro l’alternativa della reinvenzione e dell’eclettismo. Per esempio, sempre in Occidente fu importante, già nell’VIII secolo, la diffusione di un linearismo che esaltava l’aspetto grafico (ossia disegnativo) della composizione, smorzando la solennità, accentuando l’impatto degli effetti cromatici oppure esaltando una vena narrativa sempre piú vivace. Si creavano cosí spazi di sperimentazione che spingevano verso soluzioni nuove, senza tuttavia produrre tendenze di ampio sviluppo e di lungo periodo. Già alla fine dell’XI secolo si avvertiva in Italia la mancanza di uno stile autorevole impersonato da maestri di alta scuola, tanto che l’abate Desiderio di Montecassino dovette far ricorso proprio agli artisti levantini per dare corpo ai suoi progetti ambiziosi. Nella stessa laguna veneziana, a Torcello prima e a S. Marco poi, le grandi imprese decorative sarebbero state inimmaginabili senza l’apporto dei musivari bizantini. Un’analoga situazione si ripresenta nella Sicilia normanna, tra Palermo, Cefalú e Monreale, nell’arco di sessant’anni, quando torna di prepotenza il protagonismo indiscusso dell’abilità greca. Musivari già impegnati a Monreale e a Venezia, per giunta, furono attivi nella stessa Roma. Il cronista Leone Ostiense, nel dare risalto all’opera dell’abate cassinese, esagera senz’altro quando parla di un vuoto dell’arte occidentale, che da secoli non era in grado di esprimersi degnamente. Tuttavia, soltanto il fatto che un simile giudizio potesse essere elaborato in una sede di prestigio per essere poi diffuso a larga
La Vergine di Vladimir, con Maria nel tipo detto Eleúsa («intenerita, compassionevole»), palladio della prima Russia, la cui realizzazione viene tradizionalmente attribuita a san Luca. XII-XIII sec. Mosca, Galleria Tret’jakov, chiesa di S. Nicola in Tolmachi.
scala, rende evidente come potesse fare presa su un certo qual senso di inferiorità. Costantinopoli, d’altronde, era rimasta l’unica realtà superstite dell’impero di Roma. E quando, nel VII secolo, il latino cessò di essere la loro lingua ufficiale, i Bizantini continuarono a definirsi Romani (Rhomaioi), anche in pieno Medioevo, e non senza ragione. Né è un caso che gli Arabi e i Persiani chiamassero Rum Costantinopoli. La stessa Roma, d’altro canto – formalmente compresa nell’impero orientale fino all’VIII secolo –, fu un centro pulsante di cultura greca. La contrapposizione ideologica che scaturí con il neonato Sacro Romano Impero, prima con i Carolingi e poi con gli Ottoni, si riassume bene nel giudizio, a dir poco tranchant, che il sovrano PITTURA MEDIEVALE
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PITTURA DEL MEDIOEVO Venezia, basilica di S. Marco. Particolare del mosaico del nartece raffigurante l’ebbrezza di Noè: dopo il Diluvio, il patriarca pianta una vigna e poi si ubriaca con il vino, sprofondando nel sonno: uno dei figli lo deride, mentre gli altri due lo coprono. 1230 circa. Niceforo Foca pronunciò nel 968 di fronte all’ambasciatore Liutprando di Cremona: «Voi non siete Romani, voi siete Longobardi!». E proprio Liutprando fornisce due evocazioni diametralmente opposte del mondo bizantino, che rendono perfettamente conto di come Costantinopoli potesse suscitare un sentimento di ammirazione e di repulsione con la stessa intensità. Il fasto, la ricchezza, le cognizioni tecniche, l’abilità nel creare prodotti di lusso esclusivi – come le sete istoriate – esprimono il senso di un mondo meraviglioso, esotico, quasi da sogno. La rigidezza degli apparati, la supponenza del sovrano, l’attaccamento a norme, precetti e tradizioni piuttosto longeve danno invece il quadro di un’atmosfera stagnante, in cui già si definisce lo stereotipo di una realtà chiusa, oppressa e incapace di rinnovarsi.
L’immutabilità come punto di forza
In ogni caso, se tutto ciò che la civiltà paleocristiana aveva creato nelle città italiche – da Napoli fino a Milano – rimase senza seguito come la rovina di un passato irripetibile, la Roma d’Oriente continuò a svolgere indisturbata il suo ruolo di capitale, dalla fondazione costantiniana (330) sino alla conquista ottomana (1453), a parte la parentesi traumatica del dominio latino (1204-1261). Si potrebbe dire che un ruolo cosí incisivo e continuato fu un limite e, al tempo stesso, una fonte di autorevolezza. Il limite era dato da una struttura mentale e culturale che traeva forza dalla sua immutabilità. Si trattava di una grandezza che nutriva se stessa, chiusa a ogni confronto (se non quando si poteva carpire qualcosa di utile e di prezioso) e gelosa delle proprie prerogative. D’altro canto, proprio la frammentarietà dell’Occidente determinò una nuova e autorevole compiutezza, nell’incessante ricerca di uno stile capace di esprimere pienamente le istanze di una società in continua trasformazione. La chiave di questo successo stava nel saper recuperare in pieno la sapienza espressiva degli antichi, secondo un percorso destinato a culminare nel Rinascimento. Ma Bisanzio stessa trovava ciclicamente istanze di questo genere, recuperando con grande facilità un magistero di altissimo livello. Bastava fare affidamento sul proprio bagaglio di tecniche e di 48
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RINASCITA IN TERRA BALCANICA Approfittando di un periodo di crisi di Bisanzio, al quale fece seguito la presa del 1204 da parte dei «crociati» latini, la Serbia dette luogo a un regno di tutto rispetto. Il fondatore della dinastia dei Nemanidi, Stephan, quando decide di ritirarsi sul Monte Athos (1196) lascia uno Stato in piena espansione al figlio Stefano I Incoronato (cosí chiamato perché nel 1217 ottiene la corona reale). L’erede dell’Incoronato, Uros I (1243-1276), realizzò come mausoleo di famiglia e come opera espiatoria la chiesa di Sopocani, che venne dotata di una sorprendente decorazione pittorica. Il complesso si data tra il 1263 e il 1268, e costituisce una compiuta ed eccezionale testimonianza di quanto si stava realizzando a Costantinopoli grazie all’avvento dei Paleologi, appena saliti al potere (1261). La severità classica riemerge in alcuni ritratti di sorprendente intensità. La levigatezza delle espressioni attenua spesso la robusta plasticità delle figure, che hanno comunque una evidenza scenica impressionante, come si vede bene nel solenne Transito della Vergine in controfacciata.
Sulle due pagine particolari del Transito della Vergine affrescato nella controfacciata della chiesa fatta costruire dal re Uros I (1243-1276) a Sopocani (Serbia). 1263-1268.
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forme, rielaborandolo con scrupolo e con inventiva, e anche lí si poteva avverare una rinascenza dell’antico. Successe in particolare sotto i Macedoni (867-1056) e sotto Andronico II Paleologo (1282-1328). Gli eventi storici scatenanti furono la fine dell’iconomachia (843) e il tramonto del dominio latino (1261). D’altro canto, la pittura bizantina dell’epoca paleologa contribuí a rinnovare l’arte figurativa nello scenario italico, e in particolare nella Roma pontificia. In quel contesto, simili istanze attecchivano con una potenzialità vigorosa. Fuori della stessa Roma, poi, c’era un pullulare di energie e di volontà che si era coagulato nella civiltà
comunale. Grazie a questa situazione sociale e culturale assai dinamica e agguerrita, il germe della rinascita si sviluppò in Italia in un modo che a Bisanzio sarebbe stato inconcepibile. La stessa pittura del Trecento bizantino può mostrare influssi giotteschi! Ne sono prova i complessi pittorici della chiesa reale di Studenica (Serbia; 1314) o della chiesa dell’Annunciazione di Gracanica (Kosovo; 1320 circa), nei quali si nota una connessione piú accurata tra le figure e il loro sfondo architettonico o paesaggistico. C’è un senso piú forte della scena, insomma. Anziché vedere nel (segue a p. 54)
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Studenica (Serbia). Affreschi nella chiesa reale, che denotano influssi giotteschi. 1314. Tema di questa rappresentazione è la Natività della Vergine.
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L’arte bizantina Nella pagina accanto Gradanica (Kosovo), chiesa dell’Annunciazione. Affresco raffigurante il profeta Elia a cui un corvo porta del cibo per nutrirlo. 1320 circa. In basso Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, Cappella della Maddalena. Affresco raffigurante Zosimo, nel deserto, mentre offre un mantello a Maria Maddalena. Scuola giottesca, 1315-1318.
GIOTTO E BISANZIO Tra i diversi accostamenti che si possono proporre, due scene di ambientazione «desertica» (con figure ritratte in un luogo solitario) segnano un insospettabile contatto tra Giotto e la maniera greca. Il Profeta Elia che riceve la visita di un corvo (gli porta del cibo per nutrirlo), all’interno della sua grotta, nel complesso di Gracanica (Kosovo), ricorda tanto la Maddalena della Chiesa Inferiore di Assisi mentre riceve il dono del mantello, sia per l’evocazione dello scenario, sia per la collocazione della figura nel vano, anche se il «greco» non rinuncia a una raffinata ambiguità. Le gambe di Elia, infatti, «fluttuano» fuori dalla grotta.
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Nella pagina accanto Trinità, icona dipinta dal del santo monaco Andrej Rublëv. 1410-1420 circa. Mosca, Galleria Tret’jakov.
blëv (1360 circa-1430), hanno d’altronde una personalità che è tanto piú memorabile quanto piú si «mimetizza» nello stile antico, come è evidente nell’icona della Trinità oggi conservata a Mosca (1410-20 circa). In definitiva, Bisanzio poteva accedere con maggiore facilità ai mezzi per riportare in auge la perfezione antica, ma non poteva «capitalizzare» questo recupero. Dopo un certo lasso di tempo il guizzo di novità si esauriva. Il ritorno a una situazione di «normalità» significava comunque il mantenimento di un certo livello qualitativo, rigidamente osservato nei suoi canoni irrinunciabili, entro i registri di una preziosa tradizione.
La classicità come modello
In principio, è sempre utile ripeterlo, stava l’estetica greco-romana e i modelli classici hanno fornito costantemente i mezzi espressivi dell’arte bizantina: anche nella sue declinazioni piú austere, essa fece infatti proprio un ideale di perfezione, di armonia e di bellezza che trovava espressione nel senso «statuario» della figura umana, e nel suo comporsi in uno scenario organico ed equilibrato. Sul modello antico agiva una sensibilità nuova. Lo storico dell’arte André Grabar si riallaccia a tal riguardo al pensiero di Plotino, un neoplatonico dell’età tardo-antica che, in assenza di una teologia dell’arte paleocristiana, fornisce un utile strumento di lettura. Il cristianesimo, d’altronde, faceva leva su un’adesione mistica a una dimensione superiore, secondo un’esigenza particolarmente sentita in quella fase storica, nella filosofia come nella religione. Ebbene, Plotino suggerisce di guardare «con gli occhi dello spirito», nel senso che la visione dei fenomeni getta uno spiraglio sulla realtà dell’Intelligibile (Dio). Questa meta si può raggiungere, nell’arte, componendo immagini nelle quali la disposizione stessa delle figure e la presenza di particolari oggetti/segni astratti, stanno a indicare una sospensione della realtà terrena (apparizione, miracolo) o una visione celeste. Tipica è la rappresentazione di Dio che «soggiorna» eternamente sopra al cosmo o che troneggia all’interno di una mandorla (alone di luce), dando vita all’immagine proverbiale del Cristo Pantocratore (che «domina tutto con forza»). Affinché l’effetto sia credibile, ossia (in senso lato) realistico, è necessario ridurre al minimo l’adesione della scena alla realtà fenomenica (materiale). Per attingere alla realtà celeste, occorre cioè rinunciare a quelle norme e a quei dettagli che assicurano una vicinanza della rap-
presentazione a tutto ciò che siamo, e a tutto ciò che ci attornia. Questo perché le figure umane, gli arredi e gli oggetti di scena, la terra e il cielo, devono essere sí riconoscibili come tali, ma solo come «vocaboli» di un linguaggio calibrato per comunicare con un’altra dimensione, esattamente come le parole del testo sacro. Lo stile si conforma a queste esigenze, e mira perciò a togliere tutto ciò che nell’estetica classica è essenziale per dare corpo a un’immagine congrua. Ecco allora gli «errori» ripetutamente imputati ai maestri bizantini e ai loro imitatori: le figure perdono di consistenza, come peso e come volume, e tendono a uniformarsi nell’ambito di specifiche tipologie. Un altare rappresentato in primo piano, per esempio, si rovescia mostrando di sbiego la superficie della mensa, altrimenti quest’ultima non sarebbe immediatamente riconoscibile. La scena stessa, quindi, perde la fatidica terza dimensione, e in essa c’è spazio solo per elementi attinenti al soggetto o all’evento narrato. Se il mondo è fatto di varietà e di mutevolezza, la rappresentazione bizantina si trascende nell’immutabilità e nell’immediatezza. Come non c’è spazio per l’aneddoto o per il particolare secondario, cosí non c’è spazio neanche per il mostruoso o il demoniaco. Secondo la felice definizione di Grabar, l’arte bizantina non è né cupa, né divertente.
Unità ed equilibrio
La gerarchia dei soggetti definisce la loro evidenza: maggiore è l’importanza, maggiore è la statura. Se un soggetto importante è in seconda fila, non risponde alle leggi della prospettiva, e si presenta come se fosse posizionato davanti. E piú si guarda verso l’alto, piú i personaggi acquistano grandezza, secondo una logica prettamente cerimoniale. Si parla cosí di prospettiva rovesciata. La scena tende in genere a essere schiacciata in un primo piano puramente astratto, in cui le figure si accalcano a formare un corteo, senza tenere i piedi ben piantati in terra. I piedi stessi sono scorciati in modo volutamente irreale, dando la sensazione che le figure fluttuino in una dimensione impalpabile. Ne deriva una sensazione di unità generale e di equilibrio, accentuata da una luce diffusa, senza punto di origine, e senza ombre. I volti possono anche avere lineamenti accurati, ma assumono sempre un’espressione immota, oppure contratta in una «maschera» di dolore. Inoltre, ogni dettaglio fisionomico è ricondotto a uno schema o a un modello, sicché ogni viso appare trasfigurato, in posa frontale e in atteggiamento «ipnotico», anche se è ripreso di lato. PITTURA MEDIEVALE
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L’arte bizantina I DIPINTI ERANO DAVVERO LE «BIBBIE DEI POVERI»?
Può d’altronde verificarsi che un attributo del personaggio sia attentamente delineato, cosicché l’elemento di corredo (armatura, vestiario, attributo del santo) definisce l’essenza e l’importanza del personaggio, non il suo volto. È stato ipotizzato che in questa visione estetica riemerga un sustrato preclassico, riconducibile al mondo egizio o al Vicino Oriente preislamico, con particolare riguardo alla Persia. Si tratta comunque di tendenze già riscontrabili nelle province asiatiche dell’impero, in Siria per la precisione, nel I secolo d.C. Il bagaglio prettamente classico dell’arte bizantina è comunque riconoscibile, come si è accennato, nel tono generale colto, «linguisticamente» cesellato, pregno di gravità e di solennità. A questo fine, molto importante è l’apporto dell’antichità greco-romana nel gusto della figura umana drappeggiata, mutuato dalla rappresentazione dei filosofi. Bisanzio prolunga cosí la tradizione paleocristiana, che aveva già scelto questo modello per raffigurare Cristo (nella sua versione giovanile o senile) e gli Apostoli, tanto che Eusebio di Cesarea, os58
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A che cosa servivano i dipinti nelle chiese? Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto la testimonianza di un toscano del primo Trecento, ben disposto nei riguardi della maniera greca, esattamente all’opposto di Cennino. È il frate domenicano Giordano da Pisa (o da Rivalto, 1260 circa-1310), che ci ha tramandato una sua predica tenuta proprio a Firenze, in S. Maria Novella, nell’Epifania del 1305, all’epoca in cui Giotto lavorava alla Cappella degli Scrovegni. Il tema è la venuta dei re Magi, e il frate tiene ad evidenziare che l’immagine che li ritrae va tenuta in grande considerazione, perché è del tutto veritiera. Le raffigurazioni dei santi, della Vergine e del Crocifisso, infatti, godono tutte del sigillo dell’autenticità. I santi stessi, in prima battuta, hanno elaborato queste iconografie! Infatti, «le dipinture vennono tutte da’ santi primamente». Lo scopo di questi dipinti – dice fra’ Giordano – è la «conoscenza». Grazie a essi, noi possiamo appunto conoscere «le figure de’ santi prima come erano, e nella figura, e nella condizione e nel modo». Due sono gli esempi-chiave. Nicodemo, testimone oculare della crocifissione di Cristo, da quando venne inchiodato al momento in cui fu deposto dal patibolo («quando vi fu posto e quando ne fu levato»), è l’autore della «bella tavola» che consente allo spettatore di assistere a «quasi tutto ‘l fatto pienamente». Roma conserva poi il ritratto della Vergine eseguito da san Luca in persona. Grazie a questa tavola, possiamo vedere Maria «tutto appunto com’era». In definitiva, quindi, i santi pittori si preoccupavano di dare «piú chiara notizia alle genti», e questo è ancor piú evidente nei dipinti antichi «che vennono di Grecia» e che «sono di troppa grande autoritade».
I santi-pittori affidarono al mondo, cosí facendo, «una copia» dei fatti, e le loro tavole hanno la stessa autorità di un libro. La testimonianza è stata evidenziata dallo storico dell’arte Anthony Cutler, perché mostra molto bene qual era il significato dei dipinti «greci» agli occhi dei fedeli e degli uomini di Chiesa. Le tavole tramandano informazioni di prima mano che risalgono all’epoca stessa dei fatti e dei personaggi che raffigurano. Sono quindi una fonte autorevole, un documento figurativo da porre sullo stesso piano di un’opera letteraria. Pertanto, la ripetizione di schemi e di forme delle immagini non è un limite o un difetto, bensí una strategia consapevole, del tutto funzionale all’intima e indiscutibile conoscenza della storia sacra. I dipinti antichi, in altre parole, fanno testo e rappresentano essi stessi la realtà storica. La riconoscibilità dei soggetti e delle storie era molto piú importante di una resa attenta alla verità fenomenica della scena e delle figure. Si comprende inoltre che l’immagine non va intesa come semplice illustrazione a beneficio di chi non sa leggere. È molto di piú; è una fonte di autorità. Fra’ Giordano, che è un dotto Domenicano, è chiaro su questo punto: le immagini sacre sono come i libri. Piú precisamente, sono il «libro de’ laici, ed eziandio d’ogne gente». Sono, cioè, un libro offerto all’attenzione di tutti, ma specialmente rivolto ai fedeli, al di là del loro grado di cultura, per fornire un’«istantanea», chiara e immediata, di quanto viene narrato nei testi sacri. Le immagini, quindi, fanno da supporto alla catechesi, e si affiancano alla Bibbia nella diffusione del messaggio divino. È d’altra parte del tutto inappropriata la nozione dei dipinti
stessi come «Bibbia dei poveri» (ossia analfabeti), alla stregua di uno strumento didattico che può funzionare di per sé senza un supporto informativo (orale o testuale), il che è impossibile. La frustrazione del visitatore dei nostri tempi di fronte a una narrazione figurata di un santo ignoto, era condivisa all’epoca da tutti coloro che non conoscevano in partenza personaggi e dettagli della
vicenda. Il dipinto, infatti, «funziona» solo se il fedele è istruito dall’officiante, e solo l’omelia (o predica) pronunciata nella lingua locale è adatta a svolgere un corretto insegnamento «di base». L’espressione Biblia pauperum, inoltre, è sí medievale, ma si riferisce a una particolare tipologia di libro sinottico (senza immagini) che faceva da supporto all’attività itinerante
dei predicatori. I cicli figurati delle chiese, con storie bibliche, non hanno nulla a che vedere con simili opere! I «poveri» in questione, del resto, non sono gli analfabeti, ma i pauperes praedicatores, vale a dire i religiosi (monaci o chierici) che osservano la povertà evangelica e che svolgono la loro funzione pastorale rivolgendosi ai ceti meno abbienti.
In alto la Madonna di san Luca, attribuita, grazie al restauro, a Filippo Rusuti. Fine del XIII sec. Roma, S. Maria del Popolo. Nella pagina accanto san Luca ritrae la Vergine col Bambino in un affresco di Andrea Delitio. 1465-1470. Atri, Cattedrale.
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LA VISIONE DI COSTANTINO La funzione «documentaria» delle immagini risulta in maniera evidente proprio dalla ripetizione di determinate convenzioni iconografiche. Le modalità di raffigurazione di san Pietro e di san Paolo, per esempio, sono definite da una lunga consuetudine di ritratti, sia in composizioni monumentali che su tavola. San Paolo è calvo e reca con sé la spada. San Pietro è canuto e ha le chiavi della Chiesa. Dopo che Costantino li vede apparire in sogno, come è narrato a Roma, nel ciclo della Cappella di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati (1243-54), può riconoscerli agevolmente quando il santo papa gliene mostra i ritratti. Si accerta cosí che l’invito alla conversione gli è giunto direttamente da due personaggi celesti di altissima levatura.
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Sulle due pagine Roma, basilica dei SS. Quattro Coronati, oratorio di S. Silvestro. Particolari della Leggenda di Costantino e San Silvestro. 1243-1254. In alto, Costantino riconosce i ritratti di san Pietro e san Paolo che gli vengono mostrati da papa Silvestro; in basso, sotto il Giudizio Universale, tre episodi del ciclo: Costantino è colpito dalla peste; gli appaiono in sogno Pietro e Paolo che lo esortano a invitare papa Silvestro a rientrare a Roma; i messi imperiali si dirigono al monte Soratte per incontrare il pontefice. servando ritratti del genere, non riusciva a percepire alcuna differenza con le immagini dei sapienti del mondo pagano. L’attributo della veste panneggiata conosce infiniti modi di trattamento della sua caratteristica ondulazione, che può essere spinta fino a effetti estenuati, nel numero delle pieghe cosí come nel loro risalto chiaroscurale. La veste all’antica, inoltre, esalta bene la postura e la gestualità delle figure, mettendo in atto torsioni, avvallamenti e increspature. La dinamica della figura viene cosí espressa da queste «tensioni» superficiali piú che dall’atteggiamento generale del corpo, che risulta «assorbito» o esaltato dalla veste che lo ricopre. Può anche accadere che un lembo del manto fluttui nell’aria, sebbene il personaggio non sia in corsa: si tratta di un vezzo ripreso dalle raffigurazioni onorifiche dei cavalieri. In questo modo si restituisce il senso di un’energia che pervade le figure al di là di ogni parvenza «reale». Per citare Grabar, emerge cosí un «senso pneumatico» che pervade le cose visibili, come una brezza impetuosa e sottile che avvolge ogni figura, alla luce del confronto tra il materiale e il divino.
Giotto e la maniera moderna
«Oh vana gloria de l’umane posse! com’ poco verde in su la cima dura, se non è giunta da l’etati grosse! Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sí che la fama di colui è scura: cosí ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido. Non è il mondan romore altro ch’un fiato di vento, ch’or vien quinci or vien quindi, e muta nome perché muta lato». Queste terzine della Commedia dantesca (Purgatorio XI, 91-102) sono un punto di partenza obbligato quando arriva il momento di presentare il celebre pittore fiorentino. Le parole sono messe in bocca a un miniatore, Oderisi da Gubbio, ma è chiaro quanto Dante si riPITTURA MEDIEVALE
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L’arte bizantina
COPIA E PROTOTIPO Lo sforzo piú grande da compiere per accedere alla mentalità medievale sta nel superare il nostro concetto di autenticità. Per noi, una copia non può essere considerata sullo stesso piano del modello, poiché è derivata da qualcosa di preesistente. Per quanto possa essere accurata, è un’altra cosa. Per giunta, se la derivazione è taciuta oppure occultata, non esitiamo a parlare di falsificazione o di manipolazione. In realtà, l’oggetto può essere dotato di un’aura che travalica la sua essenza materiale, soprattutto nel caso in cui si tratti di un dipinto sacro, e ancor piú una reliquia. Di conseguenza, il supporto non ha alcun ruolo. L’importante è che l’aura sovrannaturale trasmigri dal prototipo alla copia. A quel punto, se il processo si è compiuto, non ha alcun senso parlare di «copia», perché la replica possiede la stessa autorità del modello. La copia può addirittura divenire antica quanto il modello, perché l’aura che la
pervade è eterna (divina). Lo storico dell’arte Anthony Cutler riferisce a tal riguardo la storia di Atanasio bar Gumaye, un personaggio siriaco dell’VIII secolo che voleva a tutti i costi il Mandylion («panno») di Edessa (Turchia). Era un’icona (oggi perduta), già attestata nel 590, e che viene spesso chiamata in causa nelle discussioni sulla Sacra Sindone di Torino. Presentava infatti l’immagine del volto di Cristo cosí come era stata impressa direttamente dal Signore durante la salita al Calvario, nel momento in cui utilizzò un telo per detergersi il viso. Rientrava quindi tra le riverite immagini che si erano fatte da sé, ossia che non avevano richiesto l’intervento di un pittore (erano dette «acheropite», dal greco acheiropoietos, derivante dall’unione tra l’alfa con funzione privativa, cheir, «mano», e poiein, «fare», n.d.r.). Stando allo storico e teologo Michele il Siro (1126-99), Atanasio ottenne in prestito l’originale del telo e
specchiasse in questa rappresentazione. Egli stesso si chiama in causa celandosi dietro quel «forse è nato». Il poeta Guido Cavalcanti ha surclassato Guido Guinizzelli (l’uno e l’altro Guido), e ora è arrivato il turno dell’Alighieri, apogeo dello Stil Novo, che getterà ombra su entrambi. Un simile destino si compie anche nel campo della pittura. Giotto (1267 circa-1337), figlio del fabbro Bondone, ha eclissato Cimabue allo stesso modo. L’accostamento tra quei due grandi talenti che la Toscana espresse nell’arte figurativa, a cavallo tra il Duecento e il Trecento, conduce poi a un’altra citazione d’obbligo. Nelle Vite de’ piú eccellenti pittori, scultori, e architettori, Giorgio Vasari, come si è già visto, ravvisa in Giotto l’iniziatore dell’era moderna della pittura, e, nelle righe precedenti, attesta che il suo maestro fu proprio Cimabue (Cenni di Pepo, 1272-1302). La storia di come l’anziano pittore aveva scoperto l’enfant prodige è celeberrima: «Andando un giorno Cimabue per sue bisogne, da Fiorenza a Vespignano, trovò Giotto, che mentre le sue pecore pascevano, sopra una lastra piana, & pulita con un sasso un poco spuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza havere imparato, modo nessuno di cio fare da altri, che dalla natura». 62
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richiese a un pittore di eseguirne una copia, con la prescrizione di rendere «in maniera meno intensa i colori in modo da farla sembrare antica». Dopodiché trattenne l’originale e inviò la copia a Edessa, senza che nessuno si accorgesse dello scambio. Se le cose andarono davvero cosí, quella stessa copia, nel 944, venne trionfalmente portata come trofeo di guerra a Costantinopoli, nel Gran Palazzo imperiale, a seguito della vittoriosa azione condotta proprio contro Edessa, che si trovava in territorio islamico. Fu poi dispersa con il sacco latino del 1204. Fosse o non fosse la tela di Atanasio, l’icona poté tranquillamente svolgere il ruolo di reliquia del Salvatore, senza che nessuno potesse discuterne i poteri. D’altronde, l’originale (o la copia) aveva fatto da base a un’ulteriore copia miracolosa pure conservata nel Sacro Palazzo di Costantinopoli, il Keramion («tegola»), realizzato per contatto su terracotta.
L’attenzione al dato fenomenico della natura è qui l’aspetto fondante del genio giottesco. La grandezza dell’artista sta nel guardare il mondo con i propri occhi, senza il filtro dell’opera o dell’insegnamento altrui. La natura è la sua prima maestra. Quanto a Cimabue, il legame tra i due personaggi è attestato solo da questa narrazione, già proposta dall’orafo Lorenzo Ghiberti (1378-1455), ma è una storia che ha tutti i caratteri del mito. Di certo l’evocazione dantesca, già diffusa nel primo ventennio del Trecento (la seconda cantica fu conclusa nel 1316), aveva fornito una contrapposizione di grande effetto tra l’illustre esponente della vecchia maniera e l’apostolo di una nuova epoca.
Piú vero del vero
Dal canto suo, Giovanni Boccaccio, intorno al 1350, fa di Giotto il protagonista di una delle novelle del Decamerone (VI, 5), e lo presenta in un modo altamente onorifico: «Ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sí simile a quella, che non simile, anzi dessa paresse, intanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso
Nella pagina accanto icona di scuola russa che riprodurrebbe il Mandylion di Edessa, da Novgorod. XII sec. Mosca, Galleria Tret’jakov.
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degli uomini vi prese errore, quello credendo essere vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte riportata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni che piú a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’ savii dipignendo intendevano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della florentina gloria dirsi puote». La capacità di imitare la natura, cosí come verrà ribadita da Vasari, è un tema ricorrente nella glorificazione dell’artista classico, e stabilisce una netta barriera con le opere precedenti, in preda all’errore e a beneficio degl’ignoranti. Già nel Basso Medioevo, quindi, l’arte si doveva dividere in due categorie: prima e dopo Giotto. La novella è ancor piú interessante nel definire aspetto e temperamento dell’artista, con tratti mordaci che si ritrovano in altre testimonianze.
Cimabue e aiuti
Maestro di Isacco (Giotto ?)
Jacopo Torriti e i Romani
Maestri di cantiere/ Giotto e altri (?)
Maestri di cantiere
Giotto e bottega
Maestro della Cattura
Maestro del Crocifisso di Montefalco (?)
Maestro dell’Andata al Calvario
perduto
In alto schema della paternità degli affreschi realizzati nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. A sinistra Natività, affresco attribuito a Jacopo Torriti, sul lato sud della navata della Chiesa Superiore. 1288-1290 circa. 64
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In alto due episodi rappresentati nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore: la rinuncia di Francesco ai beni terreni e il sogno di Innocenzo III. 1290-1295 circa.
In basso la navata della Chiesa Superiore. Alla realizzazione degli affreschi lavorarono piú artisti, che, a loro volta, dovettero avvalersi dell’operato di varie squadre di aiutanti.
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Come narra Boccaccio, in un giorno d’estate, il pittore cavalca in compagnia dell’eminente giurista Forese da Rabatta fra le terre del Mugello, dove è nato (a Vespignano, per la precisione) e dove ha alcuni possedimenti. Forese è «di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato [come una cagna]». Quanto a Giotto, «Quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d’aspetto in niuna cosa piú bello che fosse messer Forese». Finiti nel mezzo di un improvviso acquazzone, si rifugiano presso un amico che presta loro «due mantelletti vecchi di romagnuolo [panno grosso di lana non tinta, n.d.r.] e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza». I due si rimettono in cammino con questi indumenti di fortuna. «E messer Forese cavalcando e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa cosí disorrevole e cosí disparuto [disonorevole e di brutta apparenza, n.d.r.], senza avere a sé niuna considerazione cominciò a ridere; e disse: – Giotto, a che ora [quando mai, n.d.r.] venendo di qua allo ‘ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t’avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintore del mondo, come tu se’? – A cui Giotto prestamente rispose: – Messere, credo che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l’a bi ci!». Se è difficile credere alla maestria di Giotto, vedendolo conciato in quel modo, dal canto suo il giurista non sta messo meglio. Al massimo si può credere che conosca l’alfabeto. L’accostamento tra i due personaggi è strepitoso, anche perché Forese fu effettivamente una figura di primo piano nella vita politica fiorentina, ed era davvero un grande amico dell’artista.
Una battuta fulminante
La contrapposizione tra il genio e l’apparenza torna in un aneddoto raccontato da Benvenuto da Imola (1330 circa-1387/88) nel suo commento al Purgatorio dantesco. Giotto riceve la visita dell’Alighieri in persona mentre sta dipingendo una cappella a Padova (alla basilica del Santo, si può intendere, non alla Cappella degli Scrovegni, altrimenti l’incontro sarebbe stato inimmaginabile). Dante osserva il lavoro di Giotto, ed è colpito dal contrasto tra la bellezza delle figure e la bruttezza di alcuni figli dell’artista, che si trovano lí a fare compagnia al padre. Tanto che chiede: «Donde viene che le altrui figure fate sí belle e le vostre sí brutte?». E Giotto non batte ciglio: «Gli è che le une fo di giorno, e le altre di notte». Franco Sacchetti (1332 circa-1400), nel suo Tre66
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IL CROCIFISSO DI SAN DAMIANO «Era già del tutto mutato nel cuore e prossimo a divenirlo anche nel corpo, quando, un giorno, passò accanto alla chiesa di San Damiano, quasi in rovina e abbandonata da tutti. Condotto dallo Spirito, entra a pregare, si prostra supplice e devoto davanti al Crocifisso e, toccato in modo straordinario dalla grazia divina, si ritrova totalmente cambiato. Mentre egli è cosí profondamente commosso, all’improvviso – cosa da sempre inaudita! – l’immagine di Cristo crocifisso del dipinto gli parla, muovendo le labbra. – Francesco, – gli dice chiamandolo per nome – va’, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina. – Francesco è tremante e pieno di stupore, e quasi perde i sensi a queste parole». (Tommaso da Celano, Vita seconda di san Francesco d’Assisi, c. VI, edizione italiana a cura di Giorgio Petrocchi)
Nella pagina accanto La preghiera dinanzi al Crocifisso di san Damiano, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
In questa pagina Croce detta «di San Ranierino», dipinto su tavola di Giunta Pisano, che qui propone il modello del Christus patiens (Cristo che soffre). Metà del XIII sec. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.
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PITTURA DEL MEDIOEVO centonovelle (1392 circa), coinvolge piú volte l’artista, e in un racconto (LXXV) esalta la sua capacità di guardare con disincanto e con ironia la stessa pratica del proprio mestiere. Giotto si trova in una comitiva di amici a visitare alcune chiese di Firenze. Di fronte all’immagine di una Natività, viene provocato riguardo al fatto che san Giuseppe, in questo e in altri dipinti, non partecipa con gioia all’evento. Se ne sta da una parte con un’espressione assai poco felice. «Deh, dimmi Giotto, perché è dipinto Jòsef cosí sempre malinconoso?». Giotto risponde: «Non ha egli ragione, che vede pregna la moglie, e non sa di cui?». La risposta salace, e quasi blasfema, ha un chiaro intento didattico. In tal modo, Giotto redarguisce «quelli che guardano piú con la bocca aperta, che con gli occhi corporei, o mentali». L’artista, cioè, si scaglia contro coloro che si soffermano sui dettagli senza comprendere il contesto, e senza avere una minima «infarinatura» sugli argomenti trattati. Per capire l’atteggiamento tipico di san Giuseppe, infatti, occorre sapere che egli era di guardia alla grotta. Avvinto dal sonno o appena destatosi, realizzava che il Bambino era in pericolo. Un angelo apparso in sogno gli aveva infatti predetto che Erode era sulle sue tracce, e occorreva quindi mettersi in fuga verso l’E-
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L’arte bizantina Sulle due pagine affreschi realizzati da Cimabue nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1277-1280 circa. A destra, particolare della Volta degli Evangelisti con san Marco, accanto al cui volto compare il nome YTALIA a corredo dell’immagine di Roma; in basso, Cristo e la Vergine in gloria.
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gitto. A un livello piú approfondito di lettura, san Giuseppe era poi «a parte», proprio perché non aveva avuto un ruolo diretto nella manifestazione del divino. La risposta provocatoria di Giotto nasconde quindi una raffinata conoscenza dei temi teologici, come pure un approccio diretto ai personaggi, nello stile di quei Vangeli apocrifi senz’altro a lui noti. Nello Pseudo-Matteo (X, 2), risalente all’VIII-IX secolo, san Giuseppe non si dà pace dopo aver trovato la moglie incinta: «Perché mi lusingate per farmi credere che un angelo del Signore l’ha 70
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ingravidata?». La forza dell’artista, come lo si vede nel Trecentonovelle, non sta nella pretesa capacità di ricreare la natura alla stregua di un mago, ma risiede in un misto di sapienza intellettuale e di lucida immediatezza. Un altro testimone dell’epoca illumina ancor piú sull’essenza della novità giottesca. È il poeta-astrologo Francesco Stabili, meglio noto come Cecco d’Ascoli, processato per eresia e condannato al rogo nel 1327 proprio davanti alla francescana S. Croce di Firenze, dove l’artista aveva lungamente lavorato, su com-
Madonna col Bambino tra san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista, affresco attribuito a Pietro Cavallini. 1290 circa. Roma, S. Maria in Aracoeli, Cappella di S. Pasquale Baylon.
missione delle ricche famiglie mercantili dei Peruzzi e dei Bardi. Per giunta Cecco era alla corte di Carlo di Calabria, l’illustre esponente della casata angioina che detenne la signoria su Firenze (1326-28), e che favorí la presenza del pittore a Napoli. Cecco, in ogni caso, ebbe probabilmente modo di conoscere Giotto di persona, e di sicuro ammirava i suoi dipinti. Ebbene, nel poema didattico-scientifico L’Acerba (IV, 3, vv. 98-102), affronta un tema astrologico molto raffinato, e coinvolge l’opera del pittore come esempio efficace. Si tratta del destino che si palesa in modi diversi tra due realtà molto simili. Il fatto che esse siano state prodotte in momenti distinti, sotto differenti influssi astrali, spiegherebbe come la loro fortuna non abbia agito con lo stesso metro. «Son due figure d’un beato e santo, / d’equal bellezza, presso al viso nostro, / facte per Giotto, dico, in diverse ore: / l’una s’adora e lauda con gran canto, / e l’altra presso a questa [al confronto, n.d.r.] non à honore». Come ha sottolineato lo storico dell’arte statunitense Eddy Gilbert Creighton (1924-2011), in questi versi si assiste a un cambiamento epocale nella visione e nella percezione dell’opera d’arte. Le figure non vengono infatti evidenziate dal soggetto rappresentato (può essere un beato e santo qualsiasi). Non c’è traccia di un significato storico-devozionale che i dipinti assumono nel loro contesto, né questi si ricollegano in modo consequenziale a una tradizione. Essi hanno come requisito la bellezza, ossia l’emanazione di un alto livello di perfezione formale. E questa qualità, puramente estetica, non si assorbe all’interno di una maniera o di una scuola, ma si definisce attraverso il semplice nome dell’esecutore. Ne deriva quindi l’idea di uno stile personale che contraddistingue l’opera d’arte, a prescindere da ogni altro elemento intrinseco o contestuale. L’approccio scientifico di Cecco è interessante, anche perché scaturisce al di fuori di ogni schema narrativo e laudativo. A differenza dei suoi contemporanei, il poeta non è infatti interessato a celebrare l’artista fiorentino come nuovo astro della pittura. Vuole invece analizzare un fenomeno che si presenta davanti ai suoi occhi (presso al viso nostro). Anche se la spiegazione astrologica sulla differente fortuna dei dipinti ha fatto il suo tempo, è comunque un modo di vedere l’opera d’arte nella sua essenza di prodotto dell’ingegno. A prescindere dai suoi valori estetici, essa può avere una fortuna che la porta a un grado elevato di visibilità o che, al contrario, la relega nell’ombra.
In questo modo, il dipinto vive di una vita propria e ha un suo destino. Cecco evidenzia inoltre un ulteriore cambiamento: lo stile personale consente di riconoscere le opere di un rispettivo autore, ma toglie a esse la patina dell’eccezionalità. Quand’anche siano realizzati in modo strepitoso, cioè, i dipinti di Giotto rientrano comunque all’interno di un insieme ben definito, secondo una strategia di lavoro che lascia spazio alla riproposizione di schemi e di tecniche. L’equal bellezza è anche il prodotto di una bottega sapientemente organizzata, che lavora a grandi ritmi sostenendo un alto standard di qualità. La stessa bellezza diventa cosí il «marchio di fabbrica» dell’artista fiorentino.
Genesi di un’epoca
La basilica di S. Francesco ad Assisi è il «laboratorio» in cui si forgia l’immagine definitiva del santo e fra le sue pareti si compie lo snodo fondamentale della pittura italiana, negli ultimi decenni del Duecento. In quella basilica, infatti, si giunge a sperimentare un nuovo modo di rappresentare e di narrare. Sin dalle prime battute vengono coinvolti artisti di chiara fama, che intervengono di propria mano ma fanno anche ricorso a squadre di aiutanti, assolutamente necessarie per condurre a termine in tempi ragionevoli un immenso corpus di affreschi. In entrambe le chiese che compongono la basilica, ossia la Chiesa Inferiore e la Chiesa Superiore, ogni superficie disponibile, infatti, è rivestita dalla decorazione pittorica. Il primo artista coinvolto di cui si abbia notizia è Giunta Pisano, che ha legato il suo nome a un gruppo di crocifissi su tavola di cospicue dimensioni, con il Cristo ritratto a grandezza naturale che mostra con la posa del corpo e con l’espressione del viso tutto il dolore causato dal supplizio. È il Christus patiens, il Cristo che soffre, secondo una tipologia destinata sempre piú a soppiantare il Christus triumphans, ossia il Cristo trionfante sulla croce, che «fulmina» lo sguardo dello spettatore con la sua posa rigidamente frontale e i suoi occhi aperti, fissi, quasi sgranati. Ed era naturale che un’interpretazione viva, palpitante dei tormenti di Cristo venisse accolta con piena evidenza nella basilica consacrata a colui che, ricevendo le stimmate, aveva rivissuto l’esperienza del Messia, segnando il preludio a un’epoca di profondo rinnovamento. D’altronde, come ricorda uno dei riquadri delle Storie francescane di Giotto, proprio da un crocifisso in legno dipinto, nella chiesetta di S. Damiano, era partita la straordinaria esperienza PITTURA MEDIEVALE
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Sulle due pagine Roma, Sancta Sanctorum. particolari dal ciclo di affreschi dovuto a una squadra di artisti di alta scuola «neoellenica». 1278-1280. In alto, Cristo in trono, fra due angeli; nella pagina accanto, Papa Niccolò III offre al Cristo il modellino della Cappella del Sancta Sanctorum.
del santo. Quel Cristo reso ancora alla maniera «trionfante», con gli occhi aperti, aveva parlato a Francesco. L’opera d’arte si era fatta da tramite diretto con il divino. E Giotto, nel rievocare l’episodio, trasfigura l’antico dipinto (oggi conservato nella basilica assisiate di S. Chiara) in un crocifisso patiens di moderna intonazione, in tutto simile a quelli che egli stesso dipingerà. Collocato nel mezzo di un diaframma ligneo che divideva la navata dal presbiterio nella basilica superiore, il crocifisso di Giunta (1236) è oggi perduto, ma sulla scia dell’artista toscano si mosse l’anonimo pittore (il Maestro di San Francesco) che realizzò un duplice ciclo narrativo sulle pareti dell’aula della Chiesa Inferiore (1250-60). Da un lato si assiste alla storia della Passione di Cristo, mentre dall’altro si svolgono le Storie francescane, nella loro prima elaborazione di grande formato, sulla scorta della piú antica biografia ufficiale del santo, opera di Tommaso da Celano (che ne elaborò diverse versioni, l’ultima delle quali nel 1254). Ma già a partire dalla fine del Duecento, l’idea
di aprire due teorie di cappelle funerarie proprio lungo le pareti nell’aula portò progressivamente alla frammentazione dell’opera. Gli archi di accesso alle nuove cappelle hanno infatti cancellato o amputato numerosi riquadri. Nel contempo, le spoglie pareti della chiesa sovrastante avevano iniziato a rivestirsi di affreschi, secondo un piano ben piú articolato e ambizioso di quello messo in atto dal Maestro di San Francesco.
Cimabue ad Assisi
Subentrato all’epoca di papa Niccolò III Orsini (1277-80) a una prima squadra di pittori oltremontani, Cimabue pose mano alla decorazione del transetto e dell’abside. In questa che è la parte della chiesa riservata al pontefice, ai frati del Sacro Convento e agli officianti culmina cosí un discorso centrato sul significato ultimo dell’esperienza francescana, riletta dal «definitivo» biografo ufficiale, san Bonaventura da Bagnoregio, nel 1263, in una chiave salvifica di grande impatto emotivo e dottrinale. Il culmine PITTURA MEDIEVALE
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ideale di tutta questa complessa trama di messaggi è nel riquadro con il Cristo e la Vergine in gloria, sull’abside, di fianco alla cattedra papale. Un ampio gruppo di Francescani si trova al loro cospetto, a segnare il ruolo-guida dei Minori nel destino dell’umanità, alla fine dei tempi. Sin dalle prime fasi, il programma decorativo doveva senz’altro prevedere uno svolgimento iniziale sulle pareti dell’aula. Si doveva infatti «rimediare» alla perdita del ciclo piú antico della basilica sottostante, e lo stesso impianto allegorico e narrativo messo in opera da Cimabue richiedeva un prologo lento, dettagliato, articolato, con un’evidenza e una capacità comunicativa tali da surclassare i modi già superati del Maestro di San Francesco. D’altronde, come ben ricorda Dante, anche i tempi di Cimabue erano presto tramontati. Lavorare con forza e con inventiva nell’alveo di una gloriosa tradizione non bastava piú. Ecco allora che si pongono tutte le premesse per una grande e rivoluzionaria sperimentazione.
Il mitico nome della Penisola
La chiave del cambiamento è riposta a Roma. Lo stesso Cimabue, nella volta degli Evangelisti, sul coro della Chiesa Superiore, aveva evocato il nome di YTALIA a corredo dell’immagine dell’Urbe, di fianco al ritratto di san Marco (vedi foto a p. 69). Molto si è detto sull’adozione del nome «mitico» della Penisola, e talvolta si è stati tentati dal riconoscervi un primo germoglio di moderna coscienza nazionale. In A sinistra Assisi, basilica di S. Francesco. Un particolare della parete destra della Chiesa Superiore. Nei riquadri ai lati della vetrata vi sono altrettante scene attribuite al Maestro di Isacco: la Benedizione di Isacco a Giacobbe (vedi particolare in alto con il volto di Giacobbe) ed Esaú respinto da Isacco (foto alla pagina accanto). 1290 circa.
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PITTURA DEL MEDIOEVO realtà, il concetto di Italia, saldamente basato sull’immagine della Roma papale, serve a esprimere l’universalità della Chiesa, con l’autorità che ne consegue anche su un piano prettamente politico. Ebbene, il predetto papa Niccolò III (Giangaetano Orsini), uomo di grande tempra e di smisurata ambizione, tra le molte opere promosse si distinse nella ricostruzione della cappella del Sancta Sanctorum, dove i restauri del 1992-94 hanno riportato in luce un ciclo affrescato di enorme importanza. Con uno stacco evidente nei riguardi di Cimabue e della Toscana «neobizantina», i dipinti recuperano in modo inedito una poderosa «classicità» paleocristiana, con un dominio dei mezzi formali del tutto competitivo con i capolavori della Bisanzio paleologa. Si crea cosí uno stile sulle cui linee si muove l’ingegno di Pietro Cavallini, e si pongono le premesse dell’ultima fase decorativa della Chiesa Superiore di Assisi. Gli affreschi tardo-duecenteschi di recente riemersi nella chiesa francescana di S. Maria in Aracoeli, suggeriscono che ulteriori episodi romani abbiano fatto da traitd’union tra l’Urbe e la basilica assisiate. D’altronde, sia Cimabue che Giotto erano ben a contatto con l’ambiente romano. Papa Niccolò IV (al secolo Girolamo d’Ascoli, 1288-92), primo Francescano sul soglio di Pietro, è con tutta probabilità il promotore della grande impresa. Il piano della nuova decorazione recupera il parallelismo tra la Bibbia e la biografia dell’Assisiate già attuato nella Chiesa Inferiore, ma lo fa in modo assai piú vasto. Vie-
L’arte bizantina ne ora incluso anche l’Antico Testamento, cosicché sulle fasce alte delle pareti, articolate su due registri, si possono contrapporre le due sezioni del Libro, perfettamente in linea con la tradizione iconografica delle basiliche costantiniane di Roma. Per giunta, il principale artefice del ciclo biblico di Assisi è Jacopo Torriti, artista prediletto di papa Niccolò IV, forse egli stesso francescano, autore dei mosaici absidali di S. Giovanni in Laterano e di S. Maria Maggiore. Infine, alle Storie francescane si dedica l’alto «zoccolo» delle tre pareti disponibili, in rapporto diretto e immediato con gli astanti. All’Antico Testamento corrispondono le prime fasi dell’esperienza francescana, cosí circonfuse di luce profetica. Al Nuovo Testamento corrispondono le vicende culminanti di Francesco, imperniate sul dono delle stimmate e sulla sua raggiunta immedesimazione con Cristo.
Nella pagina accanto il Presepe di Greccio, una delle ventotto scene del ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore, della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
Movimento ed espressione
L’interesse diretto del papa e l’apporto della cultura pittorica romana sono fondamentali nel segnare la svolta rispetto alla potente «maniera greca» di Cimabue. I cicli paleocristiani, studiati dal vivo e restaurati, hanno portato infatti al recupero di una spazialità efficace e tangibile. I paesaggi «entrano» nella scena con una fisionomia precisa, gli arredi e gli edifici sono sempre piú attentamente definiti. Le figure non sono vincolate a uno sfondo neutro e stereotipato, e acquisiscono di conseguenza movimento ed espressione. Una tradizione decorativa ininterrotta emerge poi nel gioco delle inqua-
TRA ROMA E PADOVA Seguendo le esperienze e le relazioni romane di Giotto, il quadro storico mette in luce significative concordanze, evidenziate dallo storico dell’arte Michael Viktor Schwartz. Il cardinale Jacopo Caetani Stefaneschi (1270 circa-1341) commissiona a Giotto il ricomposto mosaico della Navicella a S. Pietro in Vaticano, già nel quadriportico d’ingresso, con Pietro che viene sorretto da Gesú mentre cammina sulle acque del Mar di Galilea, nel corso di una tempesta che fa sobbalzare la nave con gli altri undici Apostoli a bordo (1309-1313). La composizione esalta il ruolo apostolico della Chiesa papale, con il sostegno di Cristo in persona. Dell’assetto originale rimangono due tondi della cornice con figure angeliche, rispettivamente conservati nelle Grotte Vaticane e nella chiesa di S. Pietro Ispano a Boville Ernica (Frosinone). Il cardinale commissiona poi a Giotto il polittico della basilica di S. Pietro, destinato all’altare della Vergine presso il coro dei canonici, oggi alla Pinacoteca Vaticana (1320).
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Il cardinale Stefaneschi era fra gli intimi di papa Benedetto XI (1303-1304), alla cui corte aveva accesso anche il mercante e banchiere Enrico Scrovegni, l’ambizioso committente di Padova, in qualità di suo protetto (familiaris). Scrovegni, per giunta, sposò in seconde nozze la marchesa Jacobina d’Este, figlia di Orsina Orsini, pronipote di papa Niccolò III. Secondo il cronista padovano Giovanni da Nono (1275 circa-1346), l’ingaggio di Giotto sarebbe stato favorito proprio dal legame familiare con gli Estensi. Il cardinale Matteo Rosso Orsini (1230 circa-1305), vicario papale ad Assisi, era d’altronde nipote di Niccolò III e zio dello Stefaneschi. Forse proprio il cardinale Orsini è stato addetto ai pagamenti di Giotto per i lavori eseguiti nella Chiesa Superiore di S. Francesco. Gli Orsini, comunque, erano i titolari della cappella di S. Nicola nella Chiesa Inferiore, decorata dagli artisti della bottega di Giotto negli anni 1300-1305.
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L’arte bizantina
Nella pagina accanto Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, Cappella di S. Martino. Particolare dell’affresco di Simone Martini raffigurante il cardinale Gentile da Partino che si inginocchia davanti a san Martino di Tours. 1312 circa.
drature architettoniche, con un effetto generale che rimanda consapevolmente all’antichità. Come ormai acquisito dalla critica, uno snodo fondamentale è rappresentato dai due riquadri dedicati alle Storie di Isacco (vedi foto alle pp. 74 e 75) Come ha evidenziato Chiara Frugoni, le due scene hanno una funzione nodale anche da un punto di vista iconografico, poiché l’inganno messo in atto dal figlio minore Giacobbe (ottiene la benedizione del padre, il cieco Isacco, spacciandosi per suo fratello Esaú, il prediletto figlio maggiore) prelude alla figura stessa del minore Francesco e al suo ruolo salvifico. Proprio il ritratto di Giacobbe, nella scena dell’inganno, è annoverabile non a caso tra le figure piú intense e coinvolgenti dell’intero ciclo biblico, per senso di nobiltà e verità di espressione (si indovina la tensione di chi sta attuando un piano, come pure la determinazione di chi, con fierezza, sa di poter riuscire nei propri intenti). Ma entrambe le scene sono altrettanti capolavori nella loro interezza, per il modo in cui rendono gli stati d’animo dei personaggi, per come questi si muovono e per come sono inquadrati in uno spazio «teatrale», che giunge quasi a suggerire una sensazione tattile nel minuzioso traforo dello schienale in primo piano. L’autore dei dipinti, noto come Maestro di Isacco, è stato spesso identificato con Giotto, riconosciuto già da Ghiberti come artefice di tutto il ciclo francescano sottostante, intrapreso dopo la conclusione del ciclo biblico. È ormai accertato che l’idea di un solo maestro all’opera non è sostenibile, ma è ragionevole ricondurre a Giotto lo snodo delle Storie di Isacco, come pure la responsabilità, quanto meno direttiva, su larga parte del ciclo francescano. Pochi anni piú tardi, nel 1303-05, proprio Giotto realizzò con la Cappella degli Scrovegni di Padova, un’opera di grande maestria, che sviluppa in pieno il senso dello spazio delle Storie di Isacco, e rimane lui il «candidato» ideale come fautore della grande svolta di Assisi.
Un’armonia perfetta
Tutti i pezzi di bravura che si distinguono nelle Storie francescane rimandano alla sua genialità compositiva e narrativa. Basti ricordare la fedele evocazione della facciata duecentesca di S. Giovanni in Laterano nel Sogno di Innocenzo III, dove Francesco sostiene energicamente l’edificio (trasparente metafora della Chiesa papale), o la meticolosa resa prospettica del Presepe di Greccio, ambientato nel coro di una chiesa ricca di preziosi arredi, che esprimono il moderno
IL PRESEPE DI GRECCIO «Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, chiamò a sé [il nobile Giovanni, n.d.r.] e gli disse: – Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesú, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno fra il bue e l’asinello». (Tommaso da Celano, Vita prima di san Francesco d’Assisi, c. XXX, edizione italiana a cura di Giorgio Petrocchi)
linguaggio formale di Arnolfo di Cambio e dei maestri cosmateschi. Attraverso questa verità scenica, il santo di Assisi viene inserito nella dimensione stessa della basilica, in perfetta armonia con l’ottica trionfante che lo elegge a nuovo apostolo, a eroe della Chiesa e a profeta di una nuova età. Giotto tornò sicuramente ad Assisi prima del 1309 per partecipare ai lavori di decorazione della Chiesa Inferiore. La bottega dell’artista fiorentino lasciò poi il testimone ai pittori della scuola senese, come Simone Martini o Pietro Lorenzetti, che svilupparono in modo originale il nuovo corso della pittura italiana, senza mai perdere di vista la lezione del maestro fiorentino. Simone Martini sa calare il senso del reale in uno stile elegante, decorativo e trasfigurante. Si può ricordare, per esempio, l’omaggio del cardinale Gentile da Partino al dedicatario di una cappella, san Martino di Tours (1312 circa). È una scena ambientata in una dimensione paradisiaca, ed è imperniata su un tabernacolo di gusto arnolfiano. Il santo vescovo è ritratto con l’eleganza e la compostezza richieste dalla parte. Il prelato, in ginocchio, si offre in tutta la sua umanità. È una persona anziana colta in atteggiamento di autentica reverenza, e che esprime nel proprio volto segnato la testimonianza toccante di un personaggio ritratto dal vero. Dal canto suo, Pietro Lorenzetti si profila con la Crocifissione (1319-1322 circa), un’opera in cui la meticolosa costruzione spaziale contrappone con grande potenza drammatica l’accalcarsi della folla all’angosciosa solitudine del supplizio, con le croci di Cristo e dei ladroni che si stagliano sul blu cupo del cielo. PITTURA MEDIEVALE
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I materiali e le tecniche
PER DARE FORMA ALLE IDEE Fin dalla tarda antichità, le tecniche pittoriche si moltiplicarono attingendo alle soluzioni dell’età classica e sperimentando, al contempo, metodi innovativi e di grande efficacia. Un repertorio, quello pittorico, reso ancora piú articolato dall’applicazione dei suoi principi alla realizzazione di miniature, mosaici e vetrate istoriate Il volto della Vergine nell’affresco raffigurante l’apparizione della Madonna alla storpia Remingarda. XII sec. Ausonia (Frosinone), santuario di S. Maria del Piano.
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La pittura murale
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ella storia della pittura cristiana, quella murale è la piú antica tecnica attestata ed è quella che ha goduto di una fortuna ininterrotta in tutto il Medioevo, sebbene nelle cattedrali gotiche oltralpine la funzione illustrativa e decorativa dei cicli parietali sia stata trasferita alle vetrate. A fare da supporto ai dipinti è l’intonaco, cioè la pellicola protettiva (la «pelle») del muro, realizzato con l’uso di una malta composta solitamente da calce e da una o piú «cariche». La calce «viva» si ottiene con la cottura di rocce calcaree, e viene «spenta» (ossia macerata) in acqua, il piú delle volte con l’aggiunta delle predette cariche, che possono essere inorganiche (sabbia di fiume, polvere di marmo, terracotta) oppure organiche (paglia).
I materiali e le tecniche IL SEGNO DEI PROFETI La chiesa di S. Angelo Magno (S. Michele Arcangelo) di Ascoli Piceno è legata all’origine a un monastero benedettino femminile. Tra le componenti rimaste dell’assetto romanico, spiccano i resti di una decorazione ad affresco che interessava la campata d’ingresso della chiesa originaria (1150-1180), osservabili esclusivamente tramite i percorsi che corrono al di sopra delle volte del soffitto attuale. Oltre al presumibile resto di un Giudizio Universale, la decorazione presenta una schiera di Profeti. Sono solenni figure di vegliardi, vestiti di tunica e manto al modo dei sapienti dell’antichità. Ogni volto manifesta i medesimi tratti, facendo emergere con chiarezza il carattere «disincarnato» della rappresentazione. L’evidenza degli occhi, la barba e il fluire dei capelli esprimono potenza, autorevolezza e forza rivelatrice. La fissità dello sguardo, associata alle movenze dei corpi, esprime al meglio lo sbalordimento e l’invasamento di fronte alla rivelazione divina. Una suggestione tattile è suggerita dall’apparato decorativo di finti marmi, perle e castoni, che traspone nella pittura il senso della materia e del colore di un oggetto di arte orafa. Per la parte sommitale è stata adottata una decorazione «a doppia pelta» tempestata di stelle, caratterizzata da bianchi filamenti ondulati le cui anse si contrappongono e si incrociano, formando alterne fasce cromatiche rosse e azzurre. Il motivo discende dai mosaici dell’età paleocristiana, e deve il suo nome alla particolare forma di uno scudo antico a mezzaluna (la pelta appunto). In questo contesto, allude al cielo, al sangue di Cristo e ai fiumi del paradiso. L’ampia cultura pittorica del Maestro dei Profeti di Sant’Angelo risente, tra l’altro, dei cicli oggi perduti delle chiese paleocristiane di Roma, come quello della basilica di S. Pietro in Vaticano (V secolo), che sfoggiava una solenne teoria di Apostoli e di Profeti, alternati a monofore (finestre con luce unica, n.d.r.) e contrapposti sull’alto della navata centrale.
A sinistra Ascoli Piceno, chiesa di S. Angelo Magno (S. Michele Arcangelo). Una delle solenni figure che compongono la schiera di Profeti affrescata nella campata d’ingresso della chiesa originaria. 1150-1180. Nella pagina accanto il volto del Creatore in una sinopia (disegno preparatorio eseguito con terra rossa) di Jacopo Torriti. Ultimo quarto del XIII sec. Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco.
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Quando il dipinto rientra propriamente nella definizione di affresco, l’intonaco viene steso in due strati. Lo strato di base, dalla superficie rugosa, è l’arriccio. Lo strato superficiale, ben lisciato, è il tonachino (o intonachino). Il pittore può eseguire un tracciato geometrico e un disegno di preparazione sull’arriccio, e si ha in tal caso la sinopia. Il dipinto prende invece corpo sul tonachino appena steso (fresco). I pigmenti utilizzati per disegnare e colorare aderiscono al velo di calce spenta e, grazie all’esposizione all’aria, con l’azione dell’anidride carbonica, la superficie si essicca dando luogo alla carbonatazione della calce. Per effetto di questo processo chimico, il dipinto viene letteralmente «assorbito» dall’intonaco facendo corpo con esso, e non può piú essere modificato. 84
PITTURA MEDIEVALE
I materiali e le tecniche
Resta tuttavia la possibilità di apportare aggiunte e rafforzamenti grazie all’utilizzo piú o meno esteso di strati di pittura a secco. In tal caso, i pigmenti possono essere utilizzati, a seconda del tipo, insieme alla calce o a un legante organico (uovo, colla, caseina, gomme). Nel primo caso si parla di pittura a calce, nel secondo di pittura a tempera. Si dà inoltre la possibilità di dipingere su muro direttamente a secco, sin dalla fase iniziale. In un’ampia fascia del Medioevo gli affreschi furono eseguiti a tappe secondo la disposizione delle impalcature che venivano progressivamente allestite e si parla in tal caso della tecnica «a pontate». La «rivoluzione» della pittura tra Roma e Assisi, alla fine del Duecento, comporta invece l’adozione di un altro cri-
Sulle due pagine Siena, cripta del Duomo. Particolari degli affreschi venuti alla luce nel 1999, in occasione di lavori condotti nel duomo. 1280 circa. In alto, la Deposizione; nella pagina accanto, la Crocifissione.
SOTTO IL DUOMO DI SIENA Un interessante complesso pittorico è emerso, in anni recenti, a Siena, dai restauri di una sorta di «chiesa inferiore», ribattezzata «cripta», della grande cattedrale toscana, situata sotto l’area presbiteriale. Si trattava di un atrio monumentale dal quale si imboccava una gradinata di accesso alla chiesa soprastante, prima della costruzione del nuovo battistero. Sono venute alla luce scene di storia sacra e icone murali di alta qualità, che si riallacciano
perfettamente allo scenario della scuola senese, prima che emergesse il talento di Duccio di Buoninsegna. I dipinti si datano infatti intorno al 1280. Rimangono particolarmente impressi, per vigore drammatico e intensità cromatica, i grandi riquadri della Crocifissione e della Deposizione. Con il loro bizantinismo di alto tenore, preludono alle interpretazioni di quei temi che Duccio stesso proporrà nella sua famosa pala del duomo (1308-11).
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La pittura su tavola
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l tema del dipinto su tavola si basa in partenza sull’effigie di piccolo formato o a grandezza naturale già incontrata sotto il nome di icona (dal greco eikon, «immagine»). A questa si affianca poi il crocifisso monumentale su due assi, ma solo in una fase avanzata il Cristo in croce «esce» dal quadro e assume questa tipologia di grande impatto scenico, come arredo presbiteriale, tra il X e l’XI secolo. In particolare, la piú antica croce dipinta superstite è quella firmata dal maestro Guglielmo presso il duomo di Sarzana (La Spezia), datata 1138. Nello stesso periodo, l’arredo d’altare si arricchisce, adottando il paliotto dipinto o antependium. L’icona, inoltre, può trasformarsi nella «tavola agiografica» esposta sulla mensa, con una sequenza di storie narrate a corredo dell’immagine del santo. Un esempio illustre è la pala di S. Francesco di Pescia (Pistoia) con San Francesco e storie della sua vita (1235). Nasce poi, alla fine del XIII secolo, una nuova tipologia di dipinto su tavola: si tratta della «macchina 86
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I materiali e le tecniche d’altare» nota come trittico o polittico (se gli scomparti sono piú di tre), ossia un insieme di dipinti collocati entro gli archi o le edicole di un’architettura lignea. Va inoltre sottolineato che, in alternativa all’altare, crocifissi dipinti e tavole istoriate potevano essere montati su tramezzi (in legno o in marmo), travi e pontili (tramezzi murari con una tribuna sopraelevata). Si tratta di supporti che sono stati generalmente aboliti in epoca moderna, sicché le collocazioni sospese dei crocifissi in corrispondenza di una volta o dell’arco trionfale, non fanno testo. Due tra le Storie francescane di Giotto ad Assisi – la Preghiera a S. Damiano e il Presepe di Greccio –, ambientate entrambe all’interno di una chiesa, sono a tal riguardo un prezioso documento. Nella prima il crocifisso è posizionato sull’altare, mentre nella seconda è impostato sul coronamento di un tramezzo marmoreo che separa il presbiterio dallo spazio riservato ai fedeli.
Il mosaico
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l mosaico medievale si compone di cubetti (tessere) che possono essere di vario materiale: pietra, marmo, vetro colorato, terracotta. Nelle lavorazioni di particolare pregio si utilizzavano tessere dorate «a cartellina», cosí denominate perché la foglia d’oro era collocata tra due parti vitree. La composizione si forma su un letto di malta fresca sul quale viene spesso eseguito un disegno preparatorio (sinopia). L’opera richiede in ogni caso un bozzetto, che viene predisposto da un disegnatore, non necessariamente addetto alle fasi realizzative. Già nel IV secolo si distingueva infatti tra il pictor imaginarius e il magister musearius. Si tratta della stessa distinzione che doveva competere a Jacopo Torriti e a fra’ Jacopo da Camerino, rispettivamente raffigurati come progettista e come musivaro nel mosaico absidale della basilica romana di S. Giovanni in Laterano (1290). Poiché vengono impegnati diversi musivari su superfici molto ampie, l’organizzazione del cantiere si è presto basata sul metodo delle «giornate». Le aree via via allestite, prima che la malta si essiccasse, venivano delimitate e assicurate da tavole lignee, a formare il cosiddetto «cassone». La strategia di lavoro a giornate, riproposta con evidenza a Roma nei grandi mosaici absidali del tardo Duecento, può aver ispirato i pittori romani o di esperien-
Nella pagina accanto Sarzana (La Spezia), Duomo. La piú antica croce dipinta superstite a oggi nota, realizzata dal maestro Guglielmo. 1138.
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L’ICONA DI COSSITO Tra le opere d’arte salvate a seguito del terremoto che nel 2016 ha colpito il Centro Italia, spicca la tavola d’altare nota come icona di Cossito (Amatrice, nel Reatino). Era in origine corredata da due ante laterali mobili che raffiguravano scene della vita della Vergine, ridipinte in epoca piú tarda. La sua datazione può essere avanzata solo sulla base dell’analisi stilistica. I pareri in merito oscillano tra il 1230 e il 1280. Punta su una datazione alta chi vi vede un’opera di elevato magistero. Propende invece per il 1280 chi vi riconosce l’impronta di correnti locali, che reinterpretano gli indirizzi di stile già affermati nei decenni precedenti. A ogni modo, basta uno sguardo su questo dipinto per essere avvinti dalla fissità severa delle figure e dalla corposa stesura dei colori. Tonalità marroni finemente graduate si contrappongono a verdi cupi e a rossi squillanti, che quasi trasfondono la pittura in materia preziosa, con lo stesso effetto visivo dello smalto traslucido in un’opera di oreficeria. La Vergine rientra nel «tipo» della Madonna Nikopeia («Colei che mostra la vittoria»), proprio perché esibisce trionfalmente il Figlio. Medaglioni dorati affiancano, come insegne di labari, l’aureola della Vergine, con la scritta rosso sangue che recita «Madre di Dio», per metà in latino, per metà in greco. Il Bambino benedicente si staglia sulla Madre come un sovrano in trono, con il globo del potere universale in mano. Sembra parodiare in modo plateale le effigi imperiali dei sigilli di Federico II (1220-1250). Si tratta senza dubbio dell’opera di un artista colto e originale, aperto con ingegno a molte suggestioni. L’iconografia di base è già attestata a Roma nell’Alto Medioevo, e ritrova un «revival» intorno alla metà del Duecento, quando si realizza la Madonna della Catena di S. Silvestro
za romana che erano all’opera nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, a partire dal Maestro di Isacco. Insieme ai mosaici parietali vanno ricordati i mosaici pavimentali, che peraltro costituiscono, in assoluto, il primo ambito di applicazione di questa tecnica. L’esempio figurato piú ampio e meglio conservato si osserva nella cattedrale di Otranto (Lecce), dove è ricordato il maestro progettista, ossia il prete Pantaleone (1163-65). In generale i pavimenti si distinguono in opus sectile, se realizzati in solo marmo, e in opus tessellatum, nel caso in cui si utilizzino anche tessere in pietra o in altro materiale. 88
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al Quirinale, assai simile a questa anche dal punto di vista formale, tanto che si è persino ipotizzata una provenienza romana del dipinto stesso. La conduzione del colore e la resa dei dettagli risentono dell’opera dei musivari bizantini attivi in Italia tra la seconda metà del XII e i primi decenni del XIII secolo. Risulta a questo proposito rivelatore il confronto con la Vergine che compare nell’abside della cattedrale di Monreale (1172-1189). Il senso di «presenza» quasi tattile delle figure sembra poi trasfondere nella pittura gli effetti di quei gruppi lignei della Vergine col Bambino che iniziano a diffondersi nello stesso periodo, come la statua eseguita per Borgo Sansepolcro dal prete Martino (1199), oggi al Bode-Museum di Berlino. Un simile ventaglio di aspetti dava man forte anche a un pittore come Margarito d’Arezzo, la cui Madonna di Montelungo (1250), oggi esposta al Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della città toscana, è ben confrontabile con la Madonna di Cossito, anche se animata da una intonazione piú dolce e «realistica». In seguito, si svilupperanno i talenti della scuola fiorentina, a partire da Coppo di Marcovaldo (1225 circa–1280 circa) e da Cimabue. A ben vedere, quindi, la tavola di Amatrice si colloca in modo «strategico» tra Roma, il Regno e la Toscana, in un momento cruciale nella storia della pittura italiana, e forse di quel momento costituisce un prezioso tassello finora ignorato.
A destra Madonna di Montelungo, dipinto su tavola di Margarito d’Arezzo. 1250. Arezzo, Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna. Nella pagina accanto Madonna in trono con Bambino, anta centrale di tabernacolo, da S. Maria a Cossito. XIII sec. Cittaducale, Scuola Forestale dei Carabinieri.
La miniatura
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el 1136, un miniatore boemo, il laico Ildeberto, lasciò un’eloquente testimonianza grafica della sua esperienza di vita. Mentre era intento a realizzare un codice del De civitate Dei di sant’Agostino, in compagnia del discepolo Everwinus, veniva spesso disturbato da un topo famelico che visitava la sua mensa, all’ora di pranzo, facendo magari piazza pulita di tutto ciò che trovava nel piatto. Ildeberto pranzava nel suo stesso laboratorio, talmente preso dalla sua opera da accorgersi troppo tardi che l’ospite indesiderato era balzato sulla tavola. PITTURA MEDIEVALE
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Proprio all’inizio del codice, a ricordo di questi fatti, realizza cosí un disegno a penna che lo ritrae sul suo scrittoio mentre è intento a scacciare il topo, scagliandogli contro una spugna. Everwinus, nel frattempo, è impegnato a miniare una elaborata lettera iniziale sulla pagina di un codice. L’immagine è accompagnata da un’invettiva: «O perfido topo, piú volte mi hai fatto arrabbiare, che Dio ti annienti». È il caso piú vistoso, ma non certo l’unico, di attestazioni dal vivo che lasciano trasparire le difficili condizioni in cui si trovava l’addetto alla copia e all’illustrazione di un codice pergamenaceo. Gli scriptoria, vale a dire i laboratori in cui i codici venivano prodotti, all’interno dei monasteri, erano locali spesso malamente abitabili. In particolare, gli amanuensi, cioè gli addetti alla copiatura, erano costretti a impegni costanti di lunghissima durata, che 90
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I materiali e le tecniche
In alto Roma. Il mosaico absidale della basilica dei Ss. Cosma e Damiano, patrocinato da papa Felice IV. 526-530. Nella pagina accanto croce lignea dipinta del tipo del Christus triumphans, realizzata da Alberto Sozio, dalla chiesa spoletina dei Ss. Giovanni e Paolo. 1187. Spoleto, Cattedrale.
IL CRISTO TRIONFANTE DI SPOLETO Il Christus triumphans si rivolge al fedele con gli occhi spalancati, in un’espressione pressoché spettrale. Talvolta il volto è reclino, ma il Cristo può presentarsi piú facilmente in una rigida posizione frontale, per esprimere al meglio il suo trionfo sulla morte, e il senso della sua regalità divina. Si tratta di una interpretazione che per lungo tempo ha eclissato l’immagine del Cristo sofferente (patiens), già attestata in area bizantina nell’VIII secolo. Un esempio significativo di croce lignea dipinta di questo tipo, con il volto reclino di Cristo, si osserva presso la cattedrale di Spoleto (Perugia). Proviene dalla chiesa locale dei Ss. Giovanni e Paolo ed è datata 1187. La discussa epigrafe di
corredo tramanda il nome di un Albertus, completato in origine dall’appellativo Sotius, dal che si è ricavata l’identità dell’artefice, Alberto Sozio. La croce è corredata dalla scena sommitale dell’Ascensione di Cristo, dalla presenza laterali dei Dolenti (la Madonna e san Giovanni Evangelista), e dal teschio di Adamo (sepolto nel Golgota, il luogo della crocifissione), dove si concentrano i rivoli del sangue purificatore del Messia. I toni squillanti del rosso e del blu, la fine costruzione grafica e la qualità delle iscrizioni rimandano ai modi della pittura miniaturistica centro-italica, ma è innegabile un riverbero precoce delle esperienze dei musivari siciliani, che proprio in quel periodo chiudevano il cantiere di Monreale.
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I materiali e le tecniche
TUTTE LE TESSERE PORTANO A ROMA La piú completa e significativa selezione di mosaici in edifici religiosi tra tarda antichità e Basso Medioevo si registra senz’altro nell’Urbe. La decorazione della basilica di S. Maria Maggiore è sotto questo punto di vista sorprendente, perché i mosaici della navata, risalenti all’epoca di papa Sisto III (432-440), si «completano» con la nuova composizione che prende corpo nell’abside, con l’Incoronazione della Vergine e le sottostanti Storie di Jacopo Torriti, disposta da papa Niccolò IV (1288-1292) e portata a termine dalla potente famiglia Colonna (1296). Prima di essere messi al bando da papa Bonifacio VIII (1297), gli stessi Colonna hanno direttamente patrocinato i mosaici della facciata, opera di Filippo Rusuti. Da un lato, nei mosaici paleocristiani, si assiste all’«esordio» della mandorla o aureola luminosa intorno a un personaggio calato dal cielo. È ancora un velo trasparente, che non copre del tutto i dettagli delle figure retrostanti, come si vede nell’Apparizione divina ad Abramo. Dall’altro, nei mosaici duecenteschi, accanto alle novità nella resa dello spazio e delle figure, si assiste al persistere delle antiche convenzioni, come la stessa mandorla che inquadra il Cristo del Rusuti. E si vede anche un aggancio ai riti dell’Urbe imperniati sulle sacre immagini. L’idea dell’Incoronazione di Torriti nasce dall’«incontro» in S. Maria Maggiore tra l’icona in processione del Cristo del Sancta Sanctorum e la Madonna nota come Salus Populi Romani conservata nella basilica, al culmine delle celebrazioni dell’Assunta, nel giorno di Ferragosto. Si direbbe che, per l’idea di preziosità e di durevolezza che trasmetteva, proprio il mosaico era il supporto ideale per trasmettere e rinnovare sul lungo periodo i contenuti di un’esperienza inossidabile. Sono, d’altronde, concetti ben espressi nell’iscrizione che correda il mosaico absidale dei Ss. Cosma e Damiano, patrocinato da papa Felice IV (526-530): «La corte magnifica risplende d’oro, qui brilla la piú preziosa luce della fede».
mettevano a dura prova la loro vista e le loro condizioni generali di salute. Poteva darsi, per giunta, che il monaco a capo dello scriptorium fosse particolarmente integerrimo, mostrando scarsa misericordia quando si procedeva con un ritmo a suo giudizio troppo blando. E dunque non è difficile trovare, a margine dei codici, commenti che illuminano su queste particolari situazioni, soprattutto nell’Alto Medioevo. Un copista irlandese risponde proprio a un «capo» che lo ha rimproverato: «Questa pagina non è stata copiata lentamente». Un altro, a Laon (Alta Francia), si lamenta sull’illuminazione: «Questo lume dà cattiva luce». Un altro ancora dice: «Oggi non mi sento bene». È anche possibile leggere commenti articolati, che offrono vivaci testimonianze sul mestiere del copista. Un esempio: «Benché la penna sia tenuta da tre dita soltanto, tutto il corpo lavora». E infine: «L’approdo non è piú gradito al marinaio di quanto non sia l’ultima riga del manoscritto allo stanco amanuense».
Roma, basilica di S. Maria Maggiore. Particolare del mosaico absidale raffigurante l’Incoronazione della Vergine da parte di Cristo e realizzato da 92
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Le vetrate
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a vetrata policroma istoriata è associata all’idea stessa della cattedrale gotica, ma la sua diffusione è già accertata in età carolingia e ottoniana. Frammenti di un disco vitreo con il busto di Cristo sono stati recuperati presso la basilica di S. Vitale a Ravenna. Ritenuti addirittura pertinenti alla costruzione dell’edificio (VI secolo), sono in realtà da attribuire al IX o al X secolo. Piú recente è il recupero, negli scavi di S. Vincenzo al Volturno (Molise), dei resti di una vetrata con la figura stante di Cristo, forse pertinente alla cripta dell’abate Epifanio (824-842). La studiosa Francesca Dell’Acqua ha ricollegato i nuovi reperti alla scoperta di un’altra vetrata con un presumibile Cristo presso il monastero britannico di S. Paolo a Wearmouth (Northumbria), risalente agli inizi dell’VIII secolo. In tutti questi casi è evidente il riferimento al Salvatore come lux mundi (Giovanni, 8, 12). Prima della fioritura del gotico, un insieme di elementi ben conservati si segnala (segue a p. 96)
Jacopo Torriti. 1296. Ai piedi dei personaggi principali sono il Sole e la Luna e, intorno, cori di angeli adoranti.
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I materiali e le tecniche
NEL MONDO DEGLI ILLUMINATORES Sia l’espressione illuminatura o alluminatura coniata nell’Alto Medioevo per definire la pittura libraria, sia il concetto stesso di «miniatori» (illuminatores), derivano probabilmente dall’uso dell’allume di rocca (allumen), che faceva da base ad alcune colorazioni. Oppure dal verbo miniare, visto l’uso di una particolare tonalità di rosso (minium) nelle lettere iniziali. Ma c’è anche un ulteriore aggancio linguistico, anche se forse non è quello originario. La parola francese che designa questa tecnica, enluminure, deriva piuttosto da illuminare («dar luce»), ed esprime al meglio il senso di un’attività che fa «risplendere» i testi con l’uso dei colori intensi e dei barbagli della materia preziosa. L’attività dei laboratori in ogni parte della cristianità, e senza sostanziali interruzioni sin dall’epoca tardo-antica, ha fatto sí che attraverso la decorazione dei codici (gli antichi libri pergamenacei) si potesse leggere in tutta la sua complessità la storia della figura e dell’ornamentazione. I codici miniati raggiungono vertici estetici cosí elevati da supplire alle perdite subíte dall’arte monumentale nel corso dei secoli. Alcune pagine (è il caso di dirlo) d’arte bizantina, come quelle del periodo della rinascenza macedone (IX-X secolo), sono vive ai nostri occhi grazie a opere illustrate come il Salterio greco 139 di Parigi (inizi X secolo) o il rotulo di Giosuè della Biblioteca Apostolica Vaticana (X secolo). Inoltre, l’arte miniaturistica documenta bene l’introduzione di uno stile astratto che, a partire dall’Alto Medioevo, fu uno degli elementi portanti della cultura figurativa occidentale. Giocò un ruolo forte, in tal senso, il gusto maturato dalle popolazioni del Nord Europa a contatto con l’arte delle steppe e con l’arte dei Celti. L’intreccio lineare, che dà luogo a lettere iniziali elaboratissime, si estende presto alla figura, dove l’estetica bizantina dell’Intelleggibile si «pietrifica» nella corposità dei colori e si dissolve nel senso geometrico della linea. Lo si vede bene nelle opere dei miniatori di scuola irlandese, come i Vangeli di Kells (fine dell’VIII secolo). Da questa corrente linearistica e immaginifica, e dall’eredità antica, si sviluppano miriadi di indirizzi, che possono anche optare per una «via di mezzo», come si vede nell’eclettismo di certe scuole carolinge, specie quelle del gruppo franco-sassone.
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E in generale, come proprio le testimonianze dell’arte libraria insegnano, i due orientamenti erano destinati a convivere e a svilupparsi costantemente. In età romanica tenne banco la lezione bizantina, nella sua definizione piú stilizzata e rituale, salvo lasciare spazio a una inventiva grafica portentosa, là dove la lezione greca non arrivava, ossia nella figurazione di fantasia e nell’ambito della pura narrativa. Al culmine del Medioevo, si recupera in pieno l’eredità degli antichi nella sua forma piú elegante e rigorosa, come nel Codice di Virgilio di Simone Martini (1336-40), ma non si arresta quel fluire incessante di soluzioni che si era sempre visto nelle lettere iniziali, nei bordi e
nelle raffigurazioni fantastiche. Da questo continuo dialogo tra realtà e fantasia derivò poi il tardo-gotico, e persino il Rinascimento ebbe un suo filone sospeso tra i due mondi.
In alto il monogramma di Cristo (Chi-Rho) miniato sulla pagina d’apertura del racconto della Natività nel Vangelo di Matteo, dai Vangeli di Kells. Fine dell’VIII sec. Dublino, Trinity College. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Davide che combatte contro Golia, dal Salterio di Parigi. Inizi del X sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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I materiali e le tecniche
Chartres, Cattedrale. Particolare delle vetrate istoriate del rosone nord raffigurante la Vergine con il Bambino. 1235-1240.
poi nella cattedrale tedesca di Augusta (Baviera), dove si possono ammirare cinque vetrate con le figure stanti di altrettanti Profeti (fine dell’XIinizi del XII secolo). Nel XII secolo, d’altronde, il monaco germanico Teofilo, nel suo trattato De diversis artibus, illustra in dettaglio il processo di realizzazione della pittura su vetro. La prima grande realizzazione della stagione gotica si compie nella basilica di Saint-Denis presso Parigi, intorno al 1145. L’abate Sugerio (1081-1151) dispose sette coppie di finestre per il nuovo coro dell’illustre edificio, secondo una sua appassionata visione estetica della luce e della materia preziosa. Ogni finestra richiedeva un progetto che veniva realizzato in dimensioni 96
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reali su tavole lignee («cartoni») rivestite di gesso bianco. Il pittore vi eseguiva il disegno della composizione, con il tracciato da seguire per la piombatura e con l’indicazione in dettaglio dei colori di ogni vetro. Si procedeva poi al taglio dei vetri colorati con il ferro divisorio, in base ai profili disegnati. Seguiva la pittura, per la quale si usava, sino alla fine del XIII secolo, la grisaglia, costituita da polvere di vetro mista a limatura di ferro o di rame (colorante), a sua volta stesa con un impasto in diversi strati. Con la cottura nel forno gli strati di grisaglia si saldavano stabilmente al supporto vitreo. Era infine la volta della messa in piombo, dopodiché la finestra poteva essere montata.
LE MERAVIGLIE DI CHARTRES Le origini della cattedrale di Chartres, intitolata a Maria Vergine, si riallacciano a una remota antichità. Qui, infatti, sarebbe stato vivo un culto precristiano in onore di una «Vergine che avrebbe dato alla luce un figlio» (Virgo paritura). Secondo la tradizione, il re Carlo il Calvo (843-877) avrebbe poi condotto nel santuario una preziosa reliquia di Maria, un frammento della tunica che ella indossava al momento dell’Annunciazione o durante la Natività di Cristo. Le vetrate iniziano a prendere spazio quando viene ricostruita la parte frontale della chiesa, con una facciata a due torri impreziosita dallo sfarzo scultoreo del Portale reale (1140-1155). Sia nel ricorso alla scultura monumentale, sia nel ruolo inedito delle vetrate istoriate, Chartres rivaleggiava con l’abbaziale di Saint-Denis, allora in corso di rinnovamento grazie all’abate Sugerio. Dall’illustre chiesa reale discendeva anche l’idea di coinvolgere in modo festoso l’intera popolazione nelle attività del cantiere, con l’arrivo in determinate fasi di miriadi di carri, che giungevano da ogni parte («culto dei carri»). Nel 1194, quando un incendio distrugge le antiche strutture della chiesa, lasciando indenne il nuovo blocco frontale, si avvia una vasta ricostruzione, con l’ampliamento del corpus vetrario, che si estende ora alle pareti delle navate, al transetto e al deambulatorio finale. L’opera dei maestri vetrai si conclude tra il 1235 e il 1240 e nel 1260 ha luogo la solenne consacrazione, alla presenza di Luigi IX il Santo (1226-1270). Ogni composizione rapisce l’attenzione, e si assiste a un confluire strepitoso di temi e di stili. Sono particolarmente preziose le vetrate della prima fase, con l’Albero di Jesse (molto restaurato) e le Storie dell’Infanzia e della Passione di Cristo, cosí scarne, espressive e lineari. Si rimane sbalorditi di fronte alle «rose» sui bracci del
transetto, con il loro sfolgorio di luce e di colore: quella nord, dedicata alla Vergine, donata dalla regina Bianca di Castiglia (1200-1252), madre di Luigi IX; quella sud, dedicata all’Apocalisse, disposta invece dal duca di Bretagna Pierre de Dreux. Ma le stesse vetrate documentano anche l’apporto delle corporazioni artigianali, come si vede in quella di St. Cheron, con una schiera di lapicidi, muratori e scultori ritratti all’opera. Pierre de Roissy, cancelliere dell’archivio capitolare della chiesa (inizi del XIII secolo), ebbe buon gioco nell’affermare: «Le finestre dipinte sono scritture divine perché versano la luce del vero sole (...) all’interno della chiesa, nei cuori dei fedeli, illuminandoli» (traduzione di Enrico Castelnuovo).
Chartres, Cattedrale. Particolare delle vetrate istoriate della facciata ovest raffigurante l’Annunciazione. 1145-1150.
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I materiali e le tecniche
AFFRESCHI FATTI CON AGO E FILO La Tapisserie de Bayeux (letteralmente, Arazzo di Bayeux), conservata nell’apposito museo annesso alla cattedrale di quella città, in Normandia, è nota appunto come «arazzo», ma, sebbene sia un grande apparato narrativo di forma tessile (come le arazzerie), è in realtà una lunghissima (70 m) banda di lino ricamata. Si tratta di un «affresco mobile», che veniva allestito in chiesa durante la festa della consacrazione, come è stato accertato anche dalle piú recenti indagini condotte sul manufatto. Una fonte, infatti, ricorda che veniva «sospesa di pilastro in pilastro intorno alla navata». Il racconto culmina nella famosa battaglia di Hastings (14 ottobre 1066), che vide il trionfo di Guglielmo il Conquistatore in Oltremanica, nella terra degli Angli. L’aspetto epico, come si conviene a un’opera esposta in chiesa, è però inquadrato in una prospettiva provvidenziale, perché l’ampio prologo rivela un grave atto di spergiuro commesso dall’avversario Harold. Salendo sul trono d’Inghilterra alla morte di Edoardo il Confessore, aveva infatti tradito un giuramento di fedeltà con Guglielmo, formulato con tutti i crismi davanti a un altare. Questa sorta di Colonna Traiana riavvolgibile fu realizzata in perfetta sincronia con la ricostruzione della cattedrale, consacrata nel 1077 alla presenza di Guglielmo. Il vescovo che seguiva i lavori, e che commissionò con ogni probabilità la manifattura, era Odon (Oddone) de Chanteville, fratellastro del re. Il lavoro di tessitura dovette essere già concluso nel 1082. Alle origini dell’impresa si pone forse quell’arte tessile che era nata nell’Alto Medioevo in area anglosassone. Figure di questo tipo adornavano le vele delle barche e descrivevano lunghi fregi nelle sale in cui i signori si riunivano a banchetto con i loro vassalli. D’altronde, lo stesso Guglielmo e la consorte Matilde, alle loro nozze, sfoggiarono vesti ornate di ricami «de or traict à ymages» («con immagini trapunte in oro»).
Tondo raffigurante la Crocifissione, particolare del piviale donato da papa Niccolò IV alla cattedrale di Ascoli Piceno. Manifattura inglese, 1265-1288. Ascoli Piceno, Pinacoteca Civica.
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A destra particolare del telo ricamato di Bayeux (comunemente detto «arazzo») raffigurante il re d’Inghilterra Aroldo II a banchetto. 1066-1077. Bayeux, Musée de la Tapisserie de Bayeux.
I tessuti figurati
L
a pittura svolge anche una funzione ancillare negli ambiti distinti di alcune arti minori. La necessità di predisporre un bozzetto per talune composizioni istoriate, crea cosí un legame con l’oreficeria, l’intaglio, la lavorazione degli smalti e l’arte tessile. Il settore dei tessuti figurati ha una particolare importanza sotto questo aspetto, proprio perché le composizioni di tipo simbolico o di tipo narrativo, di tono celebrativo o prettamente araldicodecorativo, assumono un ruolo continuato e diffuso in ogni ambito, sia nelle chiese che negli spazi cerimoniali. Proprio l’accoglienza di simili manufatti negli spazi sacri, fin dentro le sepolture dei santi, ha fatto sí che temi prettamente profani – come i combattimenti tra cavalieri o tra un cavaliere e una belva feroce – venissero accolti in diretto contatto con gli apparati prettamente religiosi. Questo aspetto era talmente diffuso che i pittori realizzavano finti drappi istoriati alla base dei loro affreschi, come si vede, per esempio, nella cripta del duomo di Aquileia, dove le scene di combattimento in
monocromo fanno da contrappunto al dramma della sacra rappresentazione. Quando però il manufatto aveva una precisa funzione liturgica, sia come arredo presbiteriale (cortine, tovaglie d’altare) che come paramento sacerdotale (piviali, mitrie vescovili, tiare papali), l’aspetto decorativo era rigorosamente vagliato ed elaborato, con la stessa cura dedicata a una tavola d’altare o a un ciclo affrescato. Nel caso di ricami di alta scuola (opus anglicanum) si parla anche di pittura ad aghi. Esistono numerose testimonianze tessili sopravvissute semplicemente perché furono utilizzate per impreziosire le sepolture dei santi. Una bella pagina di arte tessile profana, accolta in un contesto religioso, è data dalle sete di Bahram. Esse raccontano una storia molto popolare in Persia, il cui protagonista è un personaggio realmente esistito, uno shah della dinastia sasanide, Bahram V (421-439 d. C.). Prima di salire al trono, il nobile compí una prodezza da grande cacciatore. Con un solo colpo di freccia riuscí ad abbattere un leone e un onagro (asino selvatico) che il felino aveva precedentemente azzannato. Secondo la leggenda, la scena fu immortalata in prima battuta nella residenza dello sceicco che ospitava il futuro sovrano. L’interpretazione piú raffinata del soggetto, realizzata probabilmente in Siria all’epoca di Carlo Magno (VIII-IX secolo), si può riscontrare nelle fodere interne degli sportelli dell’Altare d’oro di S. Ambrogio a Milano, e nell’ampio drappo che copriva la cassa lignea del sepolcro di sant’Emidio, in Ascoli Piceno. A un capolavoro dell’arte tessile ha legato il proprio nome papa Niccolò IV (1288-1292), già richiamato per il ruolo che giocò ad Assisi. Si tratta del grande piviale da cerimonia in seta policroma con ricami in oro che egli ebbe modo di donare nel 1288 alla cattedrale della sua città di origine, Ascoli Piceno. È una manifattura che rientra nel genere noto come opus anglicanum (= inglese), proprio perché nasce e si sviluppa nei laboratori tessili dell’Oltremanica. La sgargiante architettura dell’insieme sembra raccogliere svariate suggestioni, che rimandano alla miniatura, all’oreficeria o ai grandi complessi eseguiti ad affresco o a mosaico. Disposti su tre ordini, i clipei figurati compongono un’articolata rappresentazione della Chiesa, dalle origini all’epoca contemporanea (vi compare, per ultimo, papa Clemente IV, 1265-68). Sull’asse centrale, in alto, campeggia il volto del Cristo giudice, come si vede nelle chiese piú importanti, al centro dell’abside o al culmine della cupola. PITTURA MEDIEVALE
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GRANDI MAESTRI E ARTISTI SENZA NOME Dove possiamo ammirare i monumenti piú significativi della pittura medievale? E quali stili, ideologie e modelli ispirarono le opere universalmente riconosciute come le piú significative e rilevanti di quell’arte? Ecco un viaggio alla scoperta di capolavori celeberrimi, ma anche di meravigliosi tesori nascosti... Ravenna, battistero Neoniano o degli Ortodossi. Il mosaico che orna la cupola del monumento, con il corteo degli Apostoli e, nel tondo centrale, la scena del Battesimo di Gesú. 451-475. 100
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Gli ambienti e i contesti
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PITTURA DEL MEDIOEVO NAPOLI E RAVENNA
Due battisteri
N
el complesso episcopale di Napoli, il battistero di S. Giovanni in Fonte, annesso alla basilica paleocristiana di S. Reparata, si deve alla volontà del vescovo Severo (364-410). La sua decorazione musiva si ricollega alla presenza dell’acqua lustrale, secondo una norma iconografica già delineata in modo essenziale nel battistero di Dura Europos (Siria), alle origini stesse dell’arte cristiana. Al culmine della cupola, spicca il monogramma di Cristo (chrismon) su uno sfondo di stelle, e da questo si irradia una intelaiatura decorativa dall’evidente significato paradisiaco. Accanto a scene di tipo celebrativo, come la Traditio Legis con il Cristo sopra al globo universale, si leggono ancora oggi episodi evangelici come le Nozze di Cana (con la trasmutazione dell’acqua) o San
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Gli ambienti e i contesti Napoli, battistero di S. Giovanni in Fonte. Il mosaico al culmine della cupola con il monogramma di Cristo (chrismon) su uno sfondo di stelle. Annesso alla basilica paleocristiana di S. Reparata, il monumento fu voluto dal vescovo Severo (364-410).
Pietro che cammina sulle acque. Nel tamburo un’elegante sequenza di «classici» uomini togati con corone auree in mano rappresenta un corteo di Apostoli, inframezzato da quattro evocazioni del Buon Pastore. Sulle quattro cuffie compaiono poi i simboli degli Evangelisti, tra cui spicca il vivacissimo leone di san Marco, che sembra balzare da una scena di caccia. Alcuni elementi, qui ancora in fase di sperimentazione, vengono riproposti nel battistero degli Ortodossi (o Neoniano) a Ravenna, disposto dal vescovo Neone (451-475). Con un altro effetto, e con una norma iconografica avanzata, ritroviamo le figure paludate degli Apostoli che fanno corteo intorno alla cupola. Viene anche sviluppato il motivo del tendaggio che corre lungo il medaglione centrale, ma al posto del monogramma c’è la scena del Battesimo nel Giordano. Un tripudio di candelabre e festoni, oltre a una fascia aniconica con una sequenza continua di nicchie ed esedre, sviluppa dal canto suo l’immagine del Paradiso.
MATERA
Cripta del Peccato Originale
A destra Matera, cripta del Peccato Originale. Particolare della Creazione della Luce e delle Tenebre raffigurante la personificazione della Luce stessa. Metà del IX sec.
S
iamo nella gravina di Picciano, lungo la via Appia, in località Pietrapenta (Matera). Una cavità di origine naturale, presso un piccolo abitato scomparso, è stata dapprima adibita a uso funerario, poi è stata trasformata in una chiesa, oggi nota come Cripta del Peccato Originale. Nessuna fonte permette di identificarla. La sua funzione è documentata solo dagli affreschi che la decorano, databili intorno alla metà del IX secolo. La parete orientale accoglie tre absidi. Al centro si vede la Vergine affiancata da due sante: una anonima e una denominata Santa Lucenzia (potrebbe essere un «calco» della greca santa Fotina). Nell’abside sinistra, San Pietro è affiancato dagli apostoli Andrea e Giovanni Evangelista. Alla base c’è persino una decorazione a finte lastre di marmo. A destra, San Michele Arcangelo spicca tra Gabriele e Raffaele. La parete sud, che ha ispirato il nome convenzionale della «cripta», presenta una narrazione
ispirata alla Genesi. Nella Creazione della Luce e delle Tenebre c’è un’idea formidabile. La Luce è raffigurata da una donna esultante, con le braccia slanciate da cui pendono, con ampie volute, le maniche della veste, mentre l’oscurità ha le fattezze di un uomo corrucciato, con le braccia conserte. Seguono la Creazione di Adamo ed Eva, Eva tentata dal serpente e L’offerta del frutto proibito. Le scene sono legate da un tappeto di piante fiorite e sono interpunte da una palma e dall’albero dell’Eden. Eva, con un certo effetto cinematico, è presente in tre situazioni assai ravvicinate, mentre esce dal fianco di Adamo, mentre si rivolge al serpente e mentre offre la mela ad Adamo. Lo stile lineare delle figure si aggancia bene ai modi della pittura beneventana, e alla realtà longobarda rimanda pure l’abside dedicata a san Michele. C’è comunque un tono aulico, unito a una grande inventiva, che manifesta la presenza di artefici ben qualificati. PITTURA MEDIEVALE
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Gli ambienti e i contesti
Matera, cripta del Peccato Originale. Sulla sinistra, la nicchia con le raffigurazioni degli arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele; sulla destra, la purificazione di un vescovo, che si lava le mani con l’acqua che gli viene versata da un diacono. Metà del IX sec.
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AOSTA
Cattedrale di S. Maria Assunta e collegiata dei Ss. Pietro e Orso
A
d Aosta, nella cattedrale di S. Maria Assunta e nella collegiata extramuranea dei Ss. Pietro e Orso, le pareti dell’aula sono state controsoffittate nel XV secolo, e nell’intercapedine tra le volte e le travature del tetto si è cosí creata un’area di rispetto, che ha permesso la sopravvivenza di larga parte della fascia sommitale dei dipinti. Nel caso del duomo, si ha l’unico caso superstite di una decorazione pittorica in una cattedrale dell’XI secolo. Gli affreschi si datano agli anni 1040-50. Dovevano presentare tre registri per lato, dei quali sopravvive quello conclusivo, intervallato dalle finestre che illuminavano in origine la 106
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Gli ambienti e i contesti
navata. Sul coronamento corre un’elegante greca, che propone, a sinistra, una galleria di antenati di Cristo che culmina con Maria, mentre a destra si osserva una serie di ritratti di eminenti religiosi contemporanei. Tra un ritratto e un altro, si interpone talvolta un oggetto o un animale di forte carica simbolica, mentre la severa galleria dei personaggi biblici lascia spazio al racconto della volpe che si finge morta per fare strage di galline. Il complesso narrativo sottostante, congegnato sul modello illustre dei perduti cicli pittorici delle basiliche paleocristiane di Roma, si componeva in totale di 40/60 riquadri. Ne sono stati recuperati 16 (8 per lato), nella misura in cui lo consentono le profilature delle volte. Sulla parete destra, a partire da est, si svolge una narrazione basata su temi biblici. Si tratta di episodi tratti perlopiú dall’Antico Testamento. Dopo una prima scena non identificabile con certezza, si racconta l’incontro di Aronne con il faraone. Il fratello di Mosè tenta di convincere il sovrano egizio a liberare il popolo ebraico ridotto in schiavitú, e, per dare prova del potere divino di cui è latore, getta per terra il proprio bastone e questo si trasforma in un serpente. I maghi del faraone, in tutta risposta, compiono un incantesimo con i loro bastoni, ma i loro serpenti vengono abbattuti dal serpente di Aronne (Esodo, 7). Nel frammento visibile, il faraone, sbigottito o in preda alla collera, è assiso nella sua reggia con due guardie impassibili alle spalle, e addita un rettile che descrive ampie ed eleganti Sulle due pagine particolari degli affreschi della cattedrale di S. Maria Assunta. 1040-1050. Da sinistra, in senso orario: pannello che mostra, nel registro superiore, una teoria di antenati di Cristo e, in basso, l’imperatore Traiano seduto sotto una tenda da campo, al quale fa subito seguito l’imperatore Adriano, seduto in trono, nella sua corte, che accoglie Eustachio tra le fila dei suoi generali piú fidati; i maghi del faraone; un nugolo di mosche circonda il faraone; una rana piove nella ciotola del sovrano egiziano.
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Gli ambienti e i contesti
Sulle due pagine altri particolari degli affreschi della cattedrale di S. Maria Assunta. 1040-1050. Qui accanto, un servo del ricco Epulone; nella pagina accanto, particolare del romanzo agiografico di Eustachio raffigurante il santo che si dispera quando scopre che i suoi figli sono stati rapiti dalle belve.
spire. Si tratta forse del serpente di Aronne, intento a colpire uno dei serpenti dei maghi. Seguono le piaghe d’Egitto. Si riconoscono la trasformazione in sangue delle acque del Nilo, l’invasione delle rane e la piaga delle mosche. E sono efficaci proprio le evocazioni degli animali molesti (in particolare le mosche che si stagliano in gran numero sul bianco dello sfondo), cosí come la caratterizzazione dei maghi, intenti a emulare con scrupolo i terribili prodigi divini con un bastone immerso nelle acque del fiume. Il faraone, dal canto suo, si vede planare una rana nel mezzo della ciotola da cui sta bevendo, ed è letteralmente subissato da un nugolo di mosche. Si registra poi uno stacco sorprendente che ci porta a un tema desunto dal Nuovo Testamento: la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone (Luca 16, 19-31). Di quest’ultimo si nota quanto resta di una scena di banchetto, con la bella figura di un servo all’opera. Del povero vediamo l’anima condotta in cielo da un angelo. Osservando la parete di controfacciata, notiamo invece due grandi angeli che sembrano adagiarsi sulla volta. L’effetto è del tutto casuale, 108
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poiché dobbiamo immaginarli al culmine di un arco trionfale, nell’atto di rendere omaggio a una figura che doveva campeggiare sul catino dell’abside occidentale, un Cristo in maestà o una Vergine col Bambino. Sulla parete sinistra, ripartendo da ovest, si scorrono gli episodi dell’articolato romanzo agiografico di sant’Eustachio, qui nella sua prima trasposizione figurativa superstite. Un maestoso cavallo con il manto pomato (a macchie tonde) segnala la scena in cui il protagonista, nel mezzo di una caccia (sfoggia infatti un corno da richiamo appeso a tracolla) assiste all’apparizione del Signore. Un delizioso personaggio caratterizzato da lunghissimi baffi, raffigurato a bordo di una nave, è il turpe capitano che pretende le grazie di Teospite, la bella moglie di Eustachio, come pagamento di una traversata. Ed è efficacissima la scena di dolore che ritrae il santo nell’atto di tirarsi i capelli con rabbia, quando si avvede che i suoi figli sono stati rapiti dalle belve. Al culmine della storia, si nota poi un accorgimento di grande forza cinematica. Da un lato, rivolto verso sinistra, si nota l’imperatore Traiano seduto sotto una tenda da campo
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GLI APOSTOLI COME NOCCHIERI Collegiata dei Ss. Pietro e Orso. Particolari degli affreschi raffiguranti scene ambientate sul lago di Genezaret (o di Tiberiade). 1015-1020. Sant’Andrea rappresentato come rematore della barca che trasporta il gruppo degli Apostoli.
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Il santo infonde sicurezza ai compagni, governando il naviglio, nonostante soffino venti impetuosi (raffigurati come gustose facce alate) che agitano le acque. Nella greca si susseguono figure di pesci e di uccelli.
che accoglie Eustachio tra le fila dei suoi generali piú fidati e, subito dopo, il terribile Adriano, rivolto verso destra con uno sguardo attento e deciso, che condanna lo stesso Eustachio al martirio, all’interno della sua corte.
Uno stile inconfondibile
I dipinti di S. Orso furono eseguiti nel 1015-20, pochi decenni prima che venisse decorato il duomo, dove agí in prima battuta la stessa squadra di pittori già impegnata in S. Orso. Vi ritroviamo la greca sommitale, qui «abitata» esclusivamente da pesci e da uccelli, come pure uno stile inconfondibile, concreto e immaginoso al tempo stesso. Sulla parete destra, a partire da est, si susseguono scene ispirate a personaggi del Nuovo Testamento, con una particolare attenzione alle figure degli Apostoli. È memorabile il gesto imperioso del proconsole Egeas al momento di ordinare il martirio di sant’Andrea. San Giovanni Evangelista si staglia con posa severa da profeta di fianco a un paesaggio urbano che rievoca l’antica Efeso. Ha invece una intonazione quasi teatrale la scena in cui san Giacomo Maggiore viene condotto al martirio dal suo accusatore, lo scriba Josias, con una corda stretta al collo. Lo sfondo articolato degli edifici di Gerusalemme
ha un forte effetto scenico, e accentua il senso «realistico» della rappresentazione. Due scene ambientate sul lago di Genezaret (o di Tiberiade) si susseguono in una sorta di geniale dittico, con sant’Andrea e san Pietro che si ripetono con pose lievemente diverse, come in due fotogrammi di una stessa ripresa. Essi spiccano come rematori sul gruppo degli Apostoli che appaiono assiepati nella barca, dapprima in preda all’agitazione e poi rasserenati. I venti (raffigurati come gustose facce alate) soffiano impetuosi e increspano pericolosamente le acque, ma poi la tempesta viene sedata. La figura di san Pietro, nei panni del rematore sereno e impassibile, allude al suo ruolo di guida della Chiesa, e si ricollega alla dedicazione originaria della chiesa aostana. La sua calma è naturalmente determinata dalla fede in Cristo, che nel primo episodio camminava sulle acque (Giovanni 6, 16-21) e nel secondo, come si vede ancora oggi, è intento a dormire, disteso sul fondo della barca (Luca 8, 22-25). Unificati dall’ambientazione ma distinti, i due episodi sono stati fusi con grande ingegno visivo. Simili virtuosismi rendono affascinante e sorprendente l’universo della pittura romanica specie se, come nel caso di Aosta, le sopravvivenze sono ampie e di cosí alta qualità.
Collegiata dei Ss. Pietro e Orso. Particolare dell’affresco che raffigura san Pietro, ritratto anch’egli come nocchiero. 1015-1020. PITTURA MEDIEVALE
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Collegiata Reale di S. Isidoro
L
a città spagnola di León, sul cammino di Santiago di Compostela, ereditò il ruolo di capitale dell’Asturia quando la corte lasciò Oviedo. Ferdinando I il Grande, re di Castiglia dal 1035, assunse la corona d’Asturia nel 1037, e volle realizzare un santuario per celebrare la propria memoria, in base anche alla volontà della consorte Sancha. Su concessione del principe Almotadid, nel 1063 fece venire dalla Siviglia musulmana le spoglie di Isidoro, illustre dottore della Chiesa visigota, e ideò un atrio frontale della chiesa con la funzione di necropoli reale: prese cosí forma il complesso oggi noto come Collegiata Reale di S. Isidoro. Nel 1067 doveva esservi già eseguita una prima decorazione aniconica in nero e in rosso. L’attuale complesso di affreschi fu invece realizzato sotto il regno di Ferdinando II (1157-1188). Grazie alla presenza della probabile effigie della sua prima moglie, Urraca del Portogallo, l’opera si colloca tra il 1164 e il 1175. Il complesso dei dipinti è unificato da un luminoso fondale bianco, sul quale spiccano vivaci le figure. Mentre tutti i volti sono improntati a un’evidente stereotipia di tratti e di espressioni, la disposizione scenica garantisce in piú punti effetti ragguardevoli. La splendida Maiestas Domini ha un effetto trasfigurante grazie al singolare motivo di contorno, che dà l’idea di un immenso cerchio di fiamme. L’Ultima Cena non è impaginata in modo altrettanto efficace, mentre un episodio evangelico secondario come l’Annuncio ai pastori assume un rilievo inconsueto, dando vita alla composizione piú felice di tutto l’insieme. Piante, animali, personaggi compongono una pagina di naturalismo surreale, dove quasi tutte le figure fluttuano nell’aria.
A destra León, Collegiata Reale di S. Isidoro. Particolare degli affreschi raffigurante la Maiestas Domini. 1164-1175. Nella pagina accanto S. Angelo in Formis. Particolare dell’affresco della calotta absidale, con il Cristo in Maestà, attorniato dai simboli degli Evangelisti (in questo dettaglio sono visibili quelli di Matteo, l’angelo, e di Luca, il bove). 1072-1086. 112
PITTURA MEDIEVALE
Gli ambienti e i contesti
CAPUA
S. Angelo in Formis
L’
abate Desiderio di Montecassino rifondò la chiesa del suo monastero nella forma di una solenne basilica colma di tarsie marmoree, mosaici e affreschi, con un ampio impiego di maestranze bizantine. Consacrata nel 1071, la chiesa fu distrutta da un terremoto nel 1349. Rimane però davanti ai nostri occhi S. Angelo in Formis (presso Capua), che è, in sostanza, una fondazione di Desiderio e un riflesso prezioso della sua principale impresa. L’abate infatti, dopo la donazione effettuata dal principe normanno Riccardo I Drengot (1072), ricostruí questa chiesa e ne ampliò il cenobio, rendendolo adatto a una comunità di 40 monaci. Attuò in questo modo una sorta di replica «in scala» della fastosa realtà di Montecassino. Il complesso pittorico che impreziosisce S. Angelo sfoggia un eloquente ritratto del nostro abate in veste di committente. Si trova nell’abside, alla base dell’emiciclo, sul riquadro situato all’estremità sinistra. Al posto dell’aureola ha un nimbo quadrato, perché all’epoca del dipinto, tra il 1072 e il 1086, Desiderio era ancora in vita. Sorregge un enorme «plastico» della chiesa, e balza subito agli occhi che la torre campanaria appare situata a sinistra, anziché a destra come è in realtà. Come suggeri-
sce la studiosa Maria Andaloro, è probabile che al momento di eseguire il ritratto il pittore si sia adeguato a una scena di offerta già adottata a Montecassino, dove la torre campanaria era effettivamente situata a sinistra. Proseguendo lungo la fascia basale dell’abside, al centro campeggiano gli arcangeli Raffaele, Michele (dedicatario della chiesa) e Gabriele, e all’estremità destra compare un San Benedetto ridipinto nel Trecento. Il santo di Norcia fa da pendant a Desiderio ed è dunque a lui che la chiesa viene offerta, pur non essendone il dedicatario. Anche in questo caso è probabile un allaccio a soluzioni iconografiche già sperimentate nella chiesa madre, ed è evidente il riscontro con la scena di dedica del Lezionario cassinese n. 1202 conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, dove Desiderio, anche in quel caso con il nimbo quadrato, offre il codice a san Benedetto nell’ambito di una scena unitaria, corredata da evocazioni di edifici e di ambienti naturali. Nella didascalia è l’abate stesso a parlare: «Padre, insieme agli edifici prendi questo ampio e splendido libro. Ti procuro [anche] campi coltivati e laghi. Tu [in compenso] mi donerai il Cielo». Gli stessi concetti si riflettono nell’epigrafe che si legge a S. PITTURA MEDIEVALE
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PITTURA DEL MEDIOEVO
Gli ambienti e i contesti
Angelo in Formis, sulla porta d’ingresso, in un ideale colloquio con chi sta per entrare: «Salirai al Cielo se avrai conosciuto te stesso, come Desiderio, che, pervaso dallo Spirito Santo, compiendo il volere di Dio fondò [questa chiesa] in onore del Signore, per godere della felicità eterna».
L’immagine dell’Eterno
Sulla calotta dell’abside campeggia il Cristo in maestà tra i quattro simboli degli Evangelisti, a segnare l’inizio e la fine dei tempi. La «tenda» policroma, tesa come un ventaglio in cima alla composizione, evoca l’arco o la sfera celeste, ossia il grado piú alto della realtà ultraterrena, ed è un elemento che si riscontra in vari mosaici dell’Urbe. L’immagine dell’Eterno si ripete e 114
PITTURA MEDIEVALE
si riflette (ma ridipinta posteriormente) sulla parete opposta, in controfacciata, dove si sviluppa lo sgargiante apparato del Giudizio Universale. In termini di immagine celebrativa (fuori cioè da un contesto narrativo), Gesú viene riproposto anche nelle absidi laterali, nel clipeo centrale dell’abside sinistra e nella Madonna in trono col Bambino dell’abside destra. Lungo le pareti della navata centrale, su tre registri, si sviluppa l’evocazione del Nuovo Testamento. Il complesso risulta frammentario sulla parete destra, dove è andato perduto il registro superiore, mentre quello intermedio è ridotto ai lacerti delle parti inferiori. Esattamente come si osservava nelle basiliche paleocristiane di Roma, il racconto partiva dal registro superiore
recita: «La vita è data alla morte, ma la morte dal Morente è uccisa». I predetti Profeti sfoggiano cartigli con citazioni bibliche, e attraverso i loro articolati panneggi, a dispetto della fissità dei volti, rivelano posture vivaci, che suggeriscono, nell’insieme, una sorta di danza sacra. La «coreografia» dei vegliardi lascia spazio alla Sibilla Eritrea sulla parete sinistra, all’angolo con il Giudizio Universale. Abbigliata con un fazzoletto annodato sulla testa, come nell’iconografia classica, è situata lí proprio in quanto profetessa della fine dei tempi. Come i Profeti suggeriscono, s’intendeva dimostrare la concordanza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, e a questo fine la piú antica narrazione biblica interessava entrambe le navate laterali, dove però si è conservata in minima parte.
Bisanzio: affinità e divergenze
S. Angelo in Formis. Il ritratto dell’arcangelo Michele nell’affresco absidale. 1072-1086.
della parete destra, all’angolo con la parete absidale, e passava al registro corrispondente della parete opposta, per poi proseguire sul registro intermedio della parete destra, ripartendo dalla zona absidale, e cosí via. Il tutto culminava nella scena dell’Ascensione, che occupa lo spazio di due registri al termine della parete sinistra. Un altro riquadro che rompe la continuità dell’intelaiatura è la Crocifissione della stessa parete, che si sviluppa anche sull’area dei pennacchi, tra un arco e l’altro, determinando una cesura sul corteo dei Profeti. La stessa impaginazione «esorbitante» della scena era presente in S. Pietro a Roma. Cristo appare trionfante, con gli occhi ben aperti e senza esprimere alcun dolore, tanto che l’epigrafe alla base della croce
La profusione dei colori e l’articolazione dei panneggi delle vesti mostrano una pronta adesione alle raffinatezze di Costantinopoli. Di sicuro, infatti, qui furono all’opera maestri locali che avevano ricevuto una formazione all’ombra dei maestri di Bisanzio. D’altronde, alcuni particolari vezzi della maniera greca furono reinterpretati in modo anche bizzarro. I pomelli delle guance, sottolineati in Oriente da dischi rosacei, divennero incisioni di profilo tondeggiante, che «scavano» gli zigomi in modo innaturale. E numerosi sono gli elementi tipicamente occidentali: la presenza degli episodi del Vecchio Testamento, estranei alle consuetudini di Bisanzio, dove i cicli narrativi si concentravano sul Nuovo, per dare pieno rilievo all’età della Grazia e al ciclo liturgico delle feste; l’impaginazione del Giudizio Universale in controfacciata (a Bisanzio era previsto nel nartece); la presenza del Cristo in maestà nell’abside (quando a Bisanzio lí si colloca di consueto la Madonna in trono col Bambino); il gusto tipicamente romanico degli sfondi composti da bande cromatiche sovrapposte, e cosí via. Ed è una pittura che rivela accenti originali grazie a scene concitate di alto virtuosismo compositivo, come nel Bacio di Giuda. Ci sono anche momenti di insolita penetrazione psicologica (lo sguardo quasi atterrito e le movenze tese dell’Adultera di fronte a Cristo) e persino qualche tocco di humour (quando il risorto Lazzaro esce dalla tomba, dopo quattro giorni di sepoltura, due personaggi si turano il naso…). Si fa strada cosí una particolare sensibilità narrativa, che riemergerà con ben altri esiti nella grande svolta dell’arte duecentesca. PITTURA MEDIEVALE
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PITTURA DEL MEDIOEVO VENEZIA
Basilica di S. Marco
L
a piú antica decorazione musiva della basilica di S. Marco, a Venezia, eseguita nell’ultimo quarto dell’XI secolo, interessò due soli punti eminenti: l’abside e l’esedra in cui si apre l’ingresso principale, sulla facciata interna. Nella calotta dell’abside prese forma il Cristo in trono, oggi perduto (la raffigurazione attuale è un rifacimento del 1506), mentre nella fascia sottostante, tra una finestra e l’altra, si ammirano tuttora le enormi raffigurazioni dei santi patroni: Nicola (protettore della flotta cittadina) è in posa frontale da «icona», mentre Pietro è intento a consegnare le Scritture a Marco, che le «gira» a sua volta a Ermagora (primo vescovo di Aquileia). Qui, come sottolinea Antonio Iacobini, si realizza il «manifesto» storico-ideologico della chiesa, grazie a una maestranza greca che introduce con piglio monumentale il raffinato stile bizantino dell’epoca dei primi imperatori della dinastia comnena. Mentre nel duomo della vicina isola di Torcello un’altra squadra di musivari greci, intorno al 1050, aveva posto al culmine dell’abside la Madonna col Bambino, secondo la tradizione bizantina, a S. Marco (come si vedrà in seguito nella Sicilia normanna) l’abside è riservata al Cristo Pantocratore, di norma previsto all’apice di una cupola. In tal modo, quando iniziò la vasta campagna decorativa di S. Marco, intorno al 1150, la figura stessa del Cristo fece da culmine al programma iconografico, sviluppato lungo tutto l’asse longitudinale della basilica, secondo una sensibilità spaziale tipica dell’Occidente. L’impresa partí dalla cupola del presbiterio e si sviluppò verso l’entrata principale nell’arco di un lungo periodo, fino al Duecento inoltrato, impegnando svariate squadre di musivari, di provenienza greca, ma anche di formazione locale, spesso in collaborazione tra loro, e sempre sulla scia del lessico decorativo delle chiese bizantine. Nonostante i vari apporti succedutisi nel tempo considerevole richiesto dall’esecuzione, tutto il complesso appare compatto, coeso, unitario. L’effetto è favorito da uno spazio architettonico che si espande in modo fluido, con superfici lievemente articolate. Gli stessi mosaici si sviluppano a macchia d’olio senza l’ausilio di alcuna riquadratura, su un compatto fondo aureo che li unifica mirabilmente. Il discorso figurativo principale si articola con una sensibilità prettamente storica, consentendo al fedele di passare in rassegna tutte le fasi 116
PITTURA MEDIEVALE
Gli ambienti e i contesti
L’interno della basilica di S. Marco. I mosaici che la impreziosiscono sono stati realizzati in varie campagne, fra l’XI e il XIV sec.
A sinistra particolare del mosaico dell’Orazione dell’orto nella navata destra, con Cristo che si rivolge a san Pietro appena destatosi dal sonno. Ante 1218
della Rivelazione, a partire dal Cristo in trono dell’abside, che segna l’inizio e la fine dei tempi: un percorso lineare e circolare al tempo stesso, quindi, poiché ogni passo verso l’Eterno si deve fondare sull’autorevolezza del passato.
Una scelta inaudita
La cupola dell’Emanuele, sopra il presbiterio, decorata da artisti veneziani (forse già nei primi decenni del XII secolo), mette in scena Cristo nel clipeo stellato con i Profeti attorno, e allude cosí alla speranza nell’avvento dell’Atteso. Nella cupola centrale dell’Ascensione, una maestranza greca di altissima levatura porta al culmine, intorno al 1170, i preziosismi della pittura comnena. Qui irrompe il passato, il momento in cui si afferma la Chiesa militante. Intorno all’Asceso si profila il corteo della Madonna e degli Apostoli, e, cosa inaudita in un soggetto cosí tipicamente «bizantino», si inserisce anche una schiera con le personificazioni danzanti delle Virtú e delle Beatitudini, mutuate dal repertorio della scultura e della pittura «latina». La stessa maestranza realizza nuove storie nell’arcone ovest (detto «della Passione»). Le figure acquisiscono vigore monumentale, le scene si stagliano con forza sul fondo aureo, e non si rinuncia a un forte piglio narrativo. Il Tradimento di Giuda e la Sentenza di Pilato si susseguono senza cesure. Oltre alle consuete didascalie che riassumono i passi biblici, si leggono anche le battute del dramma, riportate su rotoli di pergamena esibiti dagli stessi personaggi «parlanti». La cupola occidentale della Pentecoste è invece dedicata al presente, ossia al ritorno del Cristo che è la premessa alla Chiesa trionfante. Vi opera una presumibile maestranza locale, in una cruciale fase di passaggio, tra la fine del XII secolo e gli inizi del Duecento. Al culmine si osser-
va l’Etimasia («preparazione del trono»), dove la colomba dello Spirito santo plana sul trono vuoto, destinato al Messia alla fine dei tempi. L’immagine sommitale si congiunge al corteo degli Apostoli (già incontrati nella cupola adiacente) grazie a una raggiera di lingue di fuoco. Per effetto della discesa dello Spirito Santo sugli araldi della Rivelazione, tutti i popoli della terra, raffigurati tra una finestra e l’altra (un altro inserto tipicamente «occidentale»), vengono a conoscenza del messaggio di Cristo. Una maestranza veneziana ormai autonoma e assai agguerrita, richiesta nella stessa Roma, realizza poi la stupenda Orazione nell’orto della navata destra, eseguita prima del 1218. All’interno dello stesso riquadro il racconto si articola in sei sequenze, con il Monte degli Ulivi che si ripete sullo sfondo per tre volte. Una nuova campagna decorativa, che si prolunga fin oltre la metà del Trecento, riveste di mosaici l’intero circuito dell’atrio, un tratto del quale, sul fianco destro, viene trasformato in battistero nei primi decenni del XIV secolo. I maestri veneziani, in particolare nelle storie di Noè (1220-30) e di Mosè (1250-70), sviluppano una vena narrativa e un vivace senso dell’ambientazione che era già nelle loro corde. Al tempo stesso, grazie anche al diretto intervento di maestri greci, si mantiene ben solida una fertile vicinanza alla grande tradizione bizantina, in tutte le sue accezioni, sia nei suoi severi risvolti monumentali che nel gusto del racconto. Sull’onda di queste esperienze, in una vivace dialettica tra la cultura adriatica e la «rivoluzione» giottesca, si forma in pieno Trecento un artista locale come Paolo Veneziano, che nella solenne «coperta» destinata a occultare la Pala d’oro nei giorni feriali (1345), oggi al Museo Marciano, lascia un forte segno di sé nel cuore della basilica. PITTURA MEDIEVALE
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PITTURA MEDIEVALE
Gli ambienti e i contesti
PALERMO
Cappella Palatina
N
el 1072 i Normanni conquistarono Palermo ed elessero a centro del potere il luogo della piú antica residenza dell’emiro, già sede del governo cittadino sotto la dominazione bizantina. La residenza prese poi le fattezze del Palazzo Reale (o dei Normanni). L’incoronazione di Ruggero II (1130), figlio del Gran conte Ruggero I, segnò la promozione dell’edificio a reggia, e trasformò la città nella capitale di uno Stato che dall’isola si estendeva sino a gran parte del Mezzogiorno peninsulare. La Cappella Palatina, che della reggia doveva essere l’elemento piú fastoso e significativo, fu iniziata da Ruggero proprio intorno al 1130. Fu consacrata con la dedica a san Pietro il 20 aprile 1140, ma i lavori di decorazione richiesero ancora tempo, poiché l’iscrizione voluta dal re alla base della cupola si data al 1143. Un importante intervento di rielaborazione fu messo in atto dal figlio di Ruggero, il re Guglielmo I (11541166). Egli dispose infatti l’ampliamento della decorazione delle pareti a mosaico istoriato, che nella prima fase era limitata solo al blocco presbiteriale. Probabilmente a Guglielmo II (11661189) si deve invece l’assetto attuale della tribuna riservata al sovrano, in controfacciata. Quando si arriva sull’asse dell’edificio, di fronte alla tribuna regia, avendo di fronte il Cristo Pantocratore (giudice) che campeggia nell’abside centrale, si ha la nettissima sensazione di essere in un ambiente trasfigurato, dove tutto è domi-
nato dai riverberi della luce sulle tessere musive e sulle superfici marmoree. Sin dall’origine, l’opera fu determinata dall’idea di un rispecchiamento tra corte terrena e corte celeste, e dall’esigenza di una sintesi unitaria e «imperialistica» di tutte le identità culturali del mondo mediterraneo, creando un sincretismo tra mondo greco, mondo latino e Islam. Di stretta aderenza bizantina (e con l’apporto diretto di maestri greci, almeno nella fase iniziale) è la decorazione musiva del presbiterio. Il Cristo pantocratore spicca al culmine della cupola, contornato da una schiera di quattro angeli e di quattro arcangeli, ma poi, come si è visto, viene «replicato» sulla calotta dell’abside centrale, secondo una modalità tipicamente siculonormanna. Le dediche delle cappelle laterali a san Pietro (dedicatario per giunta dell’intera chiesa) e a san Paolo (di quest’ultimo permane l’effigie a mosaico) alludono poi a Roma e all’autorità papale. La stessa decisione di raccontare Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento sulle pareti dell’aula può essere letta come un omaggio alla tradizione dell’Urbe, visto che proprio un ciclo di storie bibliche adornava la basilica costantiniana di S. Pietro. Lo straordinario soffitto ligneo dipinto sfoggia sulla navata centrale un’esotica struttura a muqarnas, con alveoli a forma di cupola in sequenza, a dare la sensazione di un tappeto variopinto di stalattiti. Qui emerge il contributo dell’arte palaziale islamica, sia a livello costruttivo che figurativo. Le immagini rappresentano in chiave strettamente laica un fastoso ambiente di corte, con musici e danzatori.
Sulle due pagine particolari della ricca decorazione della Cappella Palatina. Nella pagina accanto, l’abside centrale, con il Cristo Pantocratore e, sotto, la Vergine affiancata dai santi Pietro, Maria Maddalena, Giovanni Battista e Giacomo (1130-1143, con rifacimenti); a destra i mosaici del lato sud, con storie del Vecchio Testamento nella navata centrale e storie evangeliche nella navata destra (1154-1166).
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PITTURA DEL MEDIOEVO
Gli ambienti e i contesti
SIENA
La Sala dei Nove del Palazzo Pubblico
I
l Palazzo Pubblico di Siena custodisce un ampio corpus di affreschi medievali perfettamente connessi alle vicende e agli ideali della città toscana del primo Trecento. Nella Sala del Consiglio, la Maestà di Simone Martini, realizzata nel 1317 e rielaborata nel 1321 dallo stesso pittore, fa da pendant all’altra famosa Maestà, su tavola, eseguita da Duccio di Buoninsegna per la cattedrale (1308-11): stendardo trionfale in onore della Vergine, da sfoggiare nelle solenni processioni, l’opera di Duccio; manifesto eloquente di religiosità civica, l’affresco di Simone allude già alla simbologia comunale con il suo soggetto centrale, la Madonna in trono col Bambino effigiata nei sigilli apposti sulla documentazione pubblica. La frangia del baldacchino è adorna dello stemma senese (la balzana), oltre che di leoni rampanti, che sono l’emblema del Popolo. Ed è l’epigrafe basamentale, con i suoi ammonimenti rivolti ai funzionari, a rendere ancor piú eloquente la rappresentazione. Vi troviamo espresse, infatti, la condanna di chi persegue interessi privati, recando cosí offesa alla stessa Vergine prima ancora che alla città, e l’ammoni-
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Sulle due pagine Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Consiglio. A destra, Maestà, affresco di Simone Martini, realizzato nel 1317 e rielaborato dallo stesso pittore quattro anni piú tardi; in basso, Madonna in trono col Bambino (1315-1320), altarolo portatile (oggi al Metropolitan Museum of Art di New York), attribuito al Maestro di Monte Oliveto, un pittore anonimo assai influenzato dallo stile della Maestà di Duccio.
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PITTURA DEL MEDIOEVO zione a proteggere i soggetti piú deboli contro la prevaricazione dei potenti. Ma si deve accedere alla contigua Sala dei Nove, cosí chiamata in memoria dei magistrati che ressero il Comune popolare tra il 1287 e il 1355, per trovare il ciclo affrescato (1338-39) che è il piú compiuto manifesto della Siena «repubblicana». Il suo artefice, Ambrogio Lorenzetti, pone di fronte all’osservatore, appena entrato, lo scenario apocalittico di una Siena che, insieme al suo contado, si è trasformata in una Babilonia biblica, in cui tutto è desolazione, prevaricazione, miseria e terrore. Un essere infernale campeggia sul trono, ed è la Tirannide. Nella parete contigua, all’inizio del ciclo, le si contrappone un’ampia rappresentazione di tutt’altro tono, dove 24 cittadini (in allusione al piú antico collegio che era a capo del comune popolare, composto appunto da 24 membri) si tengono a una corda che proviene dalla Giustizia e che è tesa tra la Concordia (da cum chorda, secondo una falsa etimologia allora in voga) e il Ben comune. Quest’ultimo troneggia in forma di solenne vegliando esibendo l’emblema del Comune con la Maestà della Vergine. Nella parete opposta all’infernale evocazione della tirannide, si svolge poi la meticolosa e gioiosa evocazione di una Siena che, con tutto il suo contado, è sotto il segno della pace. Pace e guerra, entrambe personificate di fianco ai rispettivi signori, sono appunto i temi del ciclo, e la stessa sala era in origine intitolata alla Pace. Secondo una consuetudine entrata nell’uso nel Settecento, i dipinti sono invece noti come Allegorie ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo. Efficacissima, in particolare, è la contrapposizione tra uno Stato retto da una sola persona (il tiranno) e un regime popolare, fondato sulla collegialità. La tirannia determina la crudeltà, il «popolo» è invece nel segno della prosperità. Da un lato c’è l’angoscia, dall’altro c’è l’armonia. Il ricorso all’utopia nella visione ridente di Siena non lascia però inespressa una incancellabile verità. Il Ben comune è affiancato da schiere di armigeri, la Sicurezza vola in cielo esibendo un impiccato, la Pace, mollemente adagiata, mostra un ramo d’ulivo che allude alla celebrazione di una tregua. Ai piedi del vegliardo, due nobili signori sono ritratti nell’atto di cedere un castello, e un gruppo di prigionieri legati da una corda fa da pendant ai 24 cittadini. Come dire che l’armonia, per essere conquistata e difesa, esige il ricorso alla violenza. L’operosità del contadino e l’abilità dell’artigiano non bastano.
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Gli ambienti e i contesti Allegoria ed Effetti del Buon Governo, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Particolare raffigurante il vecchio Reggente, vestito con i colori di Siena (bianco e nero), ai cui lati siedono la Fortezza, la Prudenza, la Magnanimità e la Temperanza.
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Cappella di S. Giorgio
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Padova, nello spazio antistante la basilica di S. Antonio, il nobile Raimondino Lupi di Soragna volle realizzare una cappella funebre, iniziata nel 1377. Alla sua morte, il 30 novembre 1379, i lavori furono presi in carico dal nipote Bonifazio. Due documenti del 30 maggio 1384,
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PITTURA MEDIEVALE
Gli ambienti e i contesti infine, attestano che Altichiero da Zevio (not. 1369-1384), già coinvolto da Raimondino, aveva ultimato l’apparato pittorico con piena soddisfazione del committente. L’estrema linearità dell’edificio, noto come Cappella di S. Giorgio, sembra proprio in funzione dell’opera di Altichiero, che appare come protagonista unico dell’insieme. Il mausoleo di Raimondino, d’altronde, è stato distrutto nel 1797, lasciando di sé pochi elementi scultorei.
Sulle due pagine particolari della Crocifissione, affresco di Altichiero da Zevio, che portò a termine la decorazione della cappella di S. Giorgio entro il 1384.
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Gli ambienti e i contesti
Particolari delle Storie di Santa Lucia (nella pagina accanto) e delle Storie di San Giorgio (a sinistra), cicli realizzati da Altichiero da Zevio entro il 1384. Le Storie di San Giorgio si sviluppano sulla parete sinistra, mentre a destra compaiono le Storie di Santa Caterina (in alto) e di Santa Lucia (in basso). Nella parete di fondo campeggia la Crocifissione, sormontata dall’Incoronazione della Vergine. La parete della controfacciata è invece dedicata a scene evangeliche.
Toni quasi «veristici»
L’artista raggiunge in questa cappella la sua piú ampia e avvincente espressione, mostrando chiaramente come l’eredità giottesca potesse essere sviluppata con grande ingegno, passati ormai ottant’anni dalla Cappella degli Scrovegni, che sorge nella stessa Padova. La Crocifissione, per esempio, ricorda nello schema generale l’interpretazione di Pietro Lorenzetti ad Assisi, ma Altichiero riesce a calare il soggetto in una verità palpitante. La scena, infatti, esprime una coinvolgente drammaticità nella Vergine che ha perso i sensi ai piedi della croce, e il fluire variopinto delle persone che calcano la scena tutt’intorno dà un tono narrativo al tempo stesso energico e fiabesco. Le figure non creano gruppi compatti, e assumono un ampio ventaglio di posture e atteggiamenti. Di fianco alla Vergine compaiono tre figure, di cui una a cavallo, che volgono ingegnosamente le spalle allo spettatore, proprio perché sono anch’esse intente ad assistere al supplizio. Le fisionomie risentono ancora di un senso ampio e vigoroso della figura, esaltato dai panneggi all’antica, ma nella scena di Santa Lucia trascinata dai buoi, per esempio, si assiste chiaramente a uno studio originale di caratteri e di situazioni, basato su un’attenta osservazione della realtà quotidiana. D’altro canto, nel fastoso scenario di gusto veneziano nel San Giorgio che beve il veleno, i nobili personaggi che si affacciano dalla loggia sembrano occupare gli scomparti di un polittico. I paesaggi hanno sempre una loro caratterizzazione, e il rapporto tra i gruppi di figure e gli spazi della scena, rivela in maniera uniforme una costruzione attenta ad apparire credibile e organica. L’unità di stile di tutto l’insieme, poi, dà un senso generale di armonia e compattezza. La cultura umanistica già ben viva nella Padova dei Carraresi emerge in tutti quei volti che hanno la pienezza e l’intensa verità del ritratto. Cosí, con Altichiero, giunge a compimento l’intera stagione della pittura veneta del Trecento e si apre un’epoca nuova. PITTURA MEDIEVALE
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STORIA 200 circa 232-33 ● 244-45 ● 250 circa ● 284-305 Diocleziano imperatore ● 293 Istituzione della tetrarchia ● 300 circa ● 303-304 Ultima persecuzione dei cristiani ● ●
nell’impero romano Episcopato di Teodoro ad Aquileia Costantino Magno augusto Editto di Milano Vittoria di Costantino su Licinio ● 324-337 Costantino Magno imperatore ● 325 Concilio di Nicea ● 320 Dedicazione di Costantinopoli ● 364-410 Episcopato di Severo a Napoli ● 379-395 Teodosio I imperatore ● 380 Editto di Teodosio I che fa del cristianesimo una religione di Stato ● 394 ● 402-17 Pontificato di Innocenzo I ● 404 Ravenna capitale dell’Impero Romano d’Occidente ● 410 Alarico saccheggia Roma ● 410-50 ● 432-40 Pontificato di Sisto III ● 440-61 Pontificato di Leone Magno ● 451-75 Episcopato di Neone a Ravenna ● 526-30 Pontificato di Felice IV ● 527-65 Giustiniano imperatore ● 532-38 ● 547 ● 548-65 ● 590 circa-604 Pontificato di Gregorio Magno ● 610-41 Eraclio imperatore ● 632 Morte di Maometto ● 638 Gerusalemme è inclusa nell’Islam ● 685-95 Giustiniano II imperatore (primo periodo) ● 685-705 Califfato di ‘Abd al-Malik ● 691-92 ● 705-11 Giustiniano II imperatore (secondo periodo) ● 705-15 Califfato di al-Walid ● 711 Inizia la conquista islamica della Spagna ● 715 circa ● 717-41 Leone III l’Isaurico imperatore ● 717-18 Secondo assedio islamico di Costantinopoli ● 720-24 Califfato di Yazid II ● 730 post ● 740 Terremoto di Costantinopoli ● 741-775 Costantino V Copronimo imperatore ● 751 Caduta dell’esarcato di Ravenna ● 754 Prima discesa in Italia del re franco Pipino III il Breve ● 755-60 ● 768-69 ● 774 Sottomissione dei Longobardi in Italia ● 780-90 Reggenza dell’imperatrice Irene a Costantinopoli ● 787
PITTURA Prime pitture delle catacombe Pitture del battistero di Dura Europos Pitture della sinagoga di Dura Europos Mosaico del Mausoleo dei Giulii nelle Grotte Vaticane
Sinodo di Elvira (Spagna)
304-315 ● 306-324 ● 313 ● 324
CRONOLOGIA
●
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PITTURA MEDIEVALE
Mosaici della chiesa «doppia» di Teodoro
Mosaico dell’arco trionfale di S. Pietro in Vaticano (distrutto)
Mosaici di S. Giovanni in Fonte
Lettera del vescovo Epifanio di Salamina a Teodosio I Mosaico di S. Pudenziana
Mosaici di S. Aquilino in S. Lorenzo a Milano Mosaici di S. Maria Maggiore Affreschi di S. Pietro in Vaticano (distrutti) Mosaici del battistero degli Ortodossi Mosaico di Ss. Cosma e Damiano Prima fase della nuova S. Sofia di Costantinopoli Conclusione dei lavori di S. Vitale a Ravenna Mosaico di S. Caterina sul Monte Sinai Lettere di papa Gregorio a Sereno vescovo di Marsiglia
Mosaici della Cupola della Roccia Concilio Quinisesto Mosaici della Grande moschea di Damasco Inizio dell’«iconofobia» in Giordania
Lettera dell’ex patriarca Germano di Costantinopoli al vescovo Tommaso di Claudiopoli
Concilio iconoclasta di Hiereia Costantinopoli. Mosaici «aniconici» di S. Irene Costantinopoli. Restauri «anticonici» in S. Sofia Mosaici «aniconici» di S. Sofia a Salonicco Concilio iconofilo di Nicea
STORIA 797-802 Irene imperatrice bizantina 799 circa-806 ● 800-814 Carlo Magno sovrano del Sacro romano impero ● 812-42 ● 813-20 Leone V l’Armeno imperatore bizantino ● 815 ● 817-24 Pontificato di Pasquale I ● 829-42 Teofilo l’Iconoclasta imperatore bizantino ● 842-56 Reggenza dell’imperatrice Teodora a Costantinopoli ● 843 ● 867-86 Basilio I imperatore bizantino ● 962-73 Ottone I sovrano del Sacro romano impero ● 963-69 Niceforo Foca imperatore bizantino ● 1000 circa ● 1015-20 ● 1040-50 ● 1042-56 Costantino IX Monomaco imperatore bizantino;
PITTURA
● ●
Mosaico di Germigny-des-Prés Affreschi di Santullano a Oviedo (Spagna) Concilio iconoclasta di S. Sofia a Costantinopoli Mosaici di S. Prassede e di S. Maria in Domnica
Sinodo delle Blacherne e fine dell’«iconomachia»
Mosaici del Katholicon di Hosios Lukàs (Grecia) Pitture di Ss. Pietro e Orso in Aosta Pitture del duomo di Aosta Mosaici del Katholicon della Nea Moní (Grecia)
Teodora imperatrice (1055-56)
1066-77 circa ● 1071 ●
● 1072-86 ● 1130-54 Ruggero II re di Sicilia ● 1130-43 ● 1137-80 Luigi VII re di Francia ● 1138 ● 1140-55 ● 1145 circa ● 1150 circa ● 1164-75 ● 1187 ● 1204 Presa di Costantinopoli da parte dei crociati «latini» ● 1220-30 ● 1226 Morte di san Francesco ● 1226-70 Luigi IX il Santo re di Francia ● 1236 ● 1243-54 Pontificato di Innocenzo IV ● 1260 ● 1261 Fine del dominio latino su Costantinopoli ● 1277-80 Pontificato di Niccolò III Orsini ● 1282-1328 Andronico II Paleologo imperatore bizantino ● 1288-92 Pontificato di Niccolò IV ● 1291 ● 1294-1303 Pontificato di Bonifacio VIII ● 1296 ● 1300 Primo Giubileo ● 1303-05 ● 1308-11 ● 1317; 1321 ● 1338-39 ● 1348-50 Peste nera ● 1384
Tapisserie de Bayeux Consacrazione della nuova chiesa abbaziale di Montecassino Affreschi di S. Angelo in Formis Mosaici della prima fase della Cappella Palatina di Palermo Crocifisso di Guglielmo a Sarzana Ricostruzione del fronte della cattedrale di Chartres Vetrate del deambulatorio di Saint-Denis Inizio della seconda fase dei mosaici di S. Marco a Venezia Affreschi della Collegiata Reale di Léon (Spagna) Crocifisso di Alberto Sozio a Spoleto Mosaici delle Storie di Noè a S. Marco di Venezia
Crocifisso di Giunta Pisano ad Assisi (perduto) Affreschi della cappella di S. Silvestro ai Ss. Quattro Coronati di Roma Consacrazione della cattedrale di Chartres Affreschi del Sancta Sanctorum a Roma Affreschi di Cimabue ad Assisi Avvio degli affreschi della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi Mosaico di S. Giovanni in Laterano Ultimazione del mosaico absidale di S. Maria Maggiore Cappella degli Scrovegni Pala di Duccio a Siena Maestà di Simone Martini al Palazzo Pubblico di Siena Affreschi di Ambrogio Lorenzetti alla Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena Altichiero risulta aver completato i lavori alla cappella di S. Giorgio a Padova.
PITTURA MEDIEVALE
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VO MEDIO E Dossier n. 38 (maggio/giugno 2020) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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