L’ITALIA DEI COMUNI
N°40 Settembre/Ottobre 2020 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 15 SETTEMBRE 2020
CO A M TLA UN N I M TE ED DE IEV I AL I
MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
L’ ITALIA DEI
COMUNI
LA STORIA
€ 7,90 ●
I PROTAGONISTI ●
L’EREDITÀ
di Jean-Claude Maire Vigueur, Alessandro Barbero e Furio Cappelli
Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
EDIO VO M E
L’ITALIA DEI
COMUNI
La storia, i protagonisti, l’eredità testi di Jean-Claude
Maire Vigueur, Alessandro Barbero e Furio Cappelli
5. PRESENTAZIONE LA MILITIA 6. Tutto cominciò con i milites LA NOBILTÀ URBANA 20. Poteri di famiglia IL REGIME PODESTARILE 34. È arrivato il podestà I REGIMI POPOLARI 48. Cittadini alla riscossa LA LEGA LOMBARDA 64. Uniti contro l’impero ATLANTE DELL’ITALIA COMUNALE 86. Verona 92. I broletti della Pianura Padana 98. Perugia 104. Firenze e Siena 111. Pistoia, Volterra, Massa Marittima, Assisi, Bevagna e Gubbio 116. Venezia, Genova e Ancona 120. Bologna 126. San Gimignano, Ascoli Piceno e Tarquinia
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a lotta per l’autonomia contro il potere centrale è aspirazione ricorrente nelle società di ogni tempo, ma nel Medioevo italiano assunse forme particolarmente radicali. In quel contesto, dalla fine dell’XI al XIV secolo, in un’epoca di grandi trasformazioni economico-sociali, numerosi Comuni della Penisola sfidarono re e imperatori con il proposito di conquistare spazi sempre maggiori di autogoverno politico. Si delineava un fenomeno di portata rivoluzionaria, destinato a incidere profondamente nella storia della civiltà europea. Dida da scrivere, rinvenuto nel 1877 a Ma come nacque l’epopea comunale? Decima di Gossolengo, Fu solo la diretta conseguenza del declino dell’autorità imperiale? nei pressi della città La cultura romantica ne individuò la radice nel desiderio di indipendenza di alcune emiliana. Databile tra la seconda metà del II comunità cittadine dalle ingerenze esterne; per alcuni studiosi fu il risultato del e gli inizi del progressivo rafforzamento di prerogative feudali e di potenti famiglie; la tesi I sec.piú a.C., è un modello in bronzo del fegato di ricorrente, invece, ne associa la genesi all’ascesa di una dinamica classe mercantile, pecora sul quale il cui crescente volume di traffici richiedeva metodi di amministrazione localeuna adeguati sono definite caselle alle proprie esigenze. Piú che «laboratorio di democrazia e di libertà», la cittàrecanti medievale i nomi delle divinità si configurava come una comunione di interessi: «È essa stessa un individuo del pantheon etrusco. Simili modelli – scriveva Henri Pirenne –, un individuo collettivo, una persona giuridica». erano utilizzati dai che praticavano Un «piccolo Stato forte», composto da istituzioni efficienti, che produsse nonsacerdoti soltanto l’epatoscopia, cioè la un nuovo modello politico: i centri cittadini, infatti, divennero oggetto di radicali predizione del futuro interventi architettonici e urbanistici. Si progettarono ampie piazze dove collocare gli basata appunto sull’osservazione edifici di rappresentanza del potere civico, si disegnarono tracciati viari piú regolari e del fegato. di agevole percorrenza, crebbero le cinte murarie, mentre i ricchi mercanti scelsero per le proprie abitazioni uno sviluppo in altezza, cosí da esibire il prestigio acquisito. «Il senso della bellezza, della pulizia e dell’ordine» – scriveva Jacques Le Goff – si afferma come un vero e proprio valore: «Se la Chiesa contrappone un modello di città malvagia – Babilonia o Sodoma – a un modello di città santa – Gerusalemme – la maggioranza degli uomini e delle donne del Medioevo vede nella città un luogo di bellezza e di prosperità». Il nuovo Dossier di «Medioevo», dedicato ai Comuni italiani, si propone perciò un duplice intento: offrire uno sguardo sulle dinamiche del loro sviluppo politico-economico e, nello stesso tempo, tracciare un lungo itinerario attraverso località simbolo di quell’epopea. Un viaggio tra splendide identità urbanistiche che sfoggiano ancora, miracolosamente intatti, i segni della propria, antica, aspirazione…
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Padova, basilica di S. Antonio, cappella di S. Giacomo. Particolare del Consiglio della Corona, affresco di Altichiero. 1376-1379. I personaggi indossano abiti tipici del tempo, che possiamo immaginare simili a quelli dell’età comunale.
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Tutto cominciò con i milites
di Jean-Claude Maire Vigueur
Sulla nascita del Comune è ancora oggi vivace il dibattito storiografico. Un dato, tuttavia, vede concordi gli studiosi: determinante fu il ruolo giocato da quanti avevano scelto di garantirsi l’esistenza affidandosi al mestiere delle armi
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hi ha mai sentito parlare del notaio Giovanni Codagnello? I medievisti di professione senza dubbio, perlomeno quelli che studiano il periodo comunale, poi coloro che si interessano di storiografia comunale e infine, dalle parti di Piacenza, qualche erudito ferrato in storia locale. Codagnello è infatti un Piacentino, vissuto a cavallo del 1200, autore di una breve cronaca, scritta in latino – com’era d’uso a quel tempo – e conosciuta sotto il nome di Annales Placentini Guelfi. Codagnello possedeva sicuramente tutti i crismi del buon notaio, poiché tale era la sua professione, ma come scrittore non vale un granché, e del resto la sua cronaca non ha alcuna pretesa letteraria: si accontenta di registrare, anno dopo anno, le principali operazioni militari alle quali ha preso parte il Comune di Piacenza, in un periodo di tempo che corrisponde probabilmente alla vita dell’autore e va quindi dagli ultimi decenni del XII secolo al 1231. Talvolta vengono indicati i motivi del conflitto, altre volte no, ma non ci vuole molto per capire che, al di là delle ragioni avanzate per giustificare le campagne militari di Piacenza – si tratti di rispondere all’aggressione di città tradizionalmente nemiche, come Pavia, Cremona o Parma, o di allargare la dominazione del Comune ai margini del suo contado –, la guerra è al 90% affare esclusivo di una parte ben precisa della popolazione, che la conduce a proprio vantaggio e secondo regole che fanno parte del suo stile di vita e del suo sistema di valori. Chi
Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa inferiore. Due cavalieri raffigurati nell’affresco della Crocifissione, dal ciclo delle Storie della Passione di Cristo di Pietro Lorenzetti. 1310-1319.
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CIVILTÀ COMUNALE Sulle due pagine il palazzo del Comune di Piacenza, città d’origine del notaio Giovanni Codagnello, autore di una interessante cronaca sulle operazioni militari del Comune emiliano, gli Annales Placentini Guelfi.
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sono dunque questi abitanti della città che ogni anno, durante la bella stagione, partecipano a cinque, dieci e talvolta fino a quindici operazioni militari, che durano da pochi giorni a tre o quattro settimane? Codagnello, ed è qui che la sua ossessione tutta notarile della precisione si rivela preziosa per lo storico, lo dice molto chiaramente: è la militia, o perlomeno parte dei milites della città che spesso, senza neppure consultare i responsabili politici del Comune,
organizzano spedizioni o cavalcate (nel latino della cronaca si parla di expeditio) il cui vero obiettivo, lo si capisce ben presto, è riportare un ricco bottino e belle prede, sotto forma di cavalli presi al nemico e di prigionieri che verranno poi riscattati a caro prezzo. Vedremo piú avanti a quale ceto appartengono questi cavalieri o milites che, all’infuori delle rare occasioni nelle quali il Comune sente il bisogno di mobilitare la totalità delle sue forze militari,
A destra rilievo con il ritorno dei Milanesi dopo la cacciata del Barbarossa. XII sec. Milano, Castello Sforzesco. In basso Ancona, Loggia dei Mercanti. Particolare della decorazione raffigurante un cavaliere.
I NUMERI DELLA MILITIA Nelle fonti del periodo comunale, e in particolare nelle cronache, la parola Dida scrivere, militia può designare sia la da cavalleria rinvenuto nel 1877 a comunale, nel senso tecnico e militare Decima di Gossolengo, della parola, sia la classe sociale che a nei pressi città essa fornisce i suoi effettivi. E ladella quantità emiliana. Databile di cavalieri che un determinato Comunetra è la in grado di allineare sulseconda campometà di del II battaglia fornisce un buon e gli indizio inizi del sul numero di famiglie cheI sec. compongono la a.C., è un modello militia nel senso sociale Nondi in della bronzoparola. del fegato è però l’unico indizio utilizzabile per una pecora sul quale procedere a una valutazione quantitativa sono definite caselle della militia. In alcuni casi, infatti, recanti i nomi delle disponiamo di elenchi di milites divinità delcompilati pantheon nel quadro dei conflitti etrusco. politici Simili che modelli oppongono, all’inizio del XIII utilizzati secolo, la erano dai militia, o perlomeno buona parte di essa, sacerdoti che praticavano al Popolo. Da questi due tipi di l’epatoscopia, cioè la testimonianze possiamo dedurre che la predizione del futuro militia rappresentava dal 10 al 15% della basata appunto popolazione cittadina e dunque, nelle sull’osservazione del quindici o venti città piú popolate fegato. dell’Italia comunale, contava varie centinaia di famiglie.
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La militia ossia di convocare quello che le fonti chiamano l’exercitus e che comprende l’insieme dei fanti e dei cavalieri di una città, detengono il monopolio pressoché assoluto delle attività militari.
Un mestiere che non conosce crisi
CAVALIERI E CONTADINI La militia non è una creazione del regime comunale. Esisteva, infatti, prima della comparsa dei consoli e le sue origini risalgono al periodo carolingio, quando il sovrano esigeva da tutti gli uomini liberi la prestazione del servizio militare: a piedi per i piú poveri, a cavallo per quelli che disponevano di risorse sufficienti per mantenere una cavalcatura da guerra e munirsi dell’equipaggiamento necessario al combattimento montato. Nella realtà, i primi erano in genere chiamati a fornire prestazioni di lavoro al posto del servizio militare, mentre i secondi erano gli unici a partecipare veramente alle campagne dell’imperatore: è questa la ragione per cui, nei testi normativi dell’epoca, venivano designati come exercitales (=membri dell’esercito). L’uso di questo termine è venuto meno con la fine dell’impero carolingio, ma gli abitanti piú abbienti delle
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Occorre prima soffermarsi brevemente sugli aspetti economici di tali attività: ci avvarremo per questo di altre testimonianze piacentine, di poco posteriori alla cronaca di Codagnello. Si tratta di atti notarili datati dagli anni 1237-44 e rogati da un altro notaio di Piacenza, Rufino di Rizzardo, per conto di una «società dei Lupi». Un nome che, già di per sé, è tutto un programma! I Lupi, infatti, non sono altro che un manipolo di cavalieri piacentini accomunati dalla volontà di combattere insieme e soprattutto di mettere in comune le perdite e i guadagni ricavati dalla loro attività militare. Per conto di chi combattevano, non lo sappiamo, ma di sicuro non avranno avuto difficoltà, in un periodo contraddistinto dal divampare del grande conflitto tra l’imperatore Federico II e il papato, a trovare anche fuori del proprio Comune città o enti disposti a pagare i loro servizi armati. Ma non è detto che il soldo fosse la loro principale fonte di guadagno: tutti i documenti in nostro possesso riguardano prigionieri catturati dai Lupi e iniziative prese dai capi della società per ottenerne un buon riscatto. Non c’è dubbio, quindi, che ci troviamo di fronte a un vero business che mette in gioco somme ingenti e richiede ai membri della società, oltre a specifiche attitudini militari sul campo di battaglia, una logistica complessa, necessaria non solo per garantire la custodia dei prigionieri ma anche per portare a termine le trattative con i loro familiari. E di fatto i Lucittà non hanno mai smesso di combattere a cavallo e di coltivare le tradizioni militari dei loro antenati. Altrettanto hanno fatto, nelle campagne, i contadini piú agiati, che hanno saputo resistere all’invadenza delle nuove forme di dominazione signorile. Le fonti dell’XI e XII secolo usano talvolta il termine «arimanni» per designare questi contadini, che spesso vivono raggruppati in comunità dotate di ampi beni comuni. Ne troviamo esempi nella Saccisica, ossia nella piccola regione che, a sud-ovest di Padova, fa capo all’attuale Piove di Sacco: lí, fino all’inizio del XIII secolo, prosperavano comunità di contadini specializzati nella coltura del lino, un prodotto che veniva poi venduto a Venezia e dal quale i Saccensi ricavano redditi sufficienti, appunto, a mantenere uno stile di vita del tutto simile a quello dei milites padovani.
In alto Siena, Palazzo Pubblico. Cavalieri raffigurati nell’Allegoria del Buon Governo, affresco di Ambrogio Lorenzetti. 1338-1339. Nella pagina accanto Padova, basilica di S. Antonio, oratorio di S. Giorgio. Cavalieri in un particolare della Crocifissione affrescata da Altichiero. 1384.
pi di Piacenza, perlomeno quelli che riusciamo a rintracciare nelle fonti dell’epoca, ci appaiono in possesso di un discreto e talvolta anche di un cospicuo patrimonio fondiario, attenti alla gestione delle loro terre e anche capaci di dedicarsi ad attività economiche di vario genere. Uomini di guerra ma anche proprietari accorti e dinamici uomini d’affari, i membri della società dei Lupi hanno dunque ben poco a che vedere con il cliché del guerriero valoroso ma un po’ tonto, che una certa visione hollywoodiana del Medioevo ha spesso veicolato. Le fonti ci rivelano la presenza a Piacenza, nella prima metà del XIII secolo, di almeno altre tre società simili a quella dei Lupi, ma, in realtà, dalla fine del XII secolo, ne incontriamo un po’ in tutte le città dell’Italia comunale. Tutte hanno
in comune di raggruppare dei milites, spesso giovani, non ancora sposati, che, oltre alla guerra, si dedicano all’organizzazione di feste, di giochi equestri e di altri divertimenti tipici della militia. Talvolta intervengono anche nella vita pubblica, fornendo alla classe dei milites, la cui leadership politica è allora rimessa in causa dai ceti emergenti riuniti sotto la bandiera del Popolo, squadroni capaci, in determinate circostanze, di commettere atti di violenza pur di incutere paura ai membri del partito popolare. Molto spesso le associazioni prendono nomi che evocano grandi opere della letteratura cavalleresca, come la società della Tavola Rotonda di Pisa, o i valori di forza e di coraggio rivendicati dai loro membri, come nel caso della socie(segue a p. 14) L’ITALIA DEI COMUNI
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Pistoia. Veduta del palazzo vescovile. XI-XII sec. Edifici del genere sorsero in molte città italiane per assecondare il desiderio dei vescovi di affermare il proprio prestigio almeno a livello esteriore, dopo aver visto ridimensionato il loro peso politico dall’affermazione dei governi comunali.
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tà dei Gagliardi di Milano. Raramente ognuna di queste compagnie riunisce piú di qualche decina di milites e pare di capire che, nella maggior parte dei casi, si tratta della parte piú estremista, piú irriducibile di una classe che ha già imboccato, in quel periodo, la strada di un declino irreversibile. Per osservare il vero volto della militia, bisogna quindi risalire al periodo precedente, quello del Comune consolare, quando i lignaggi di milites sono i veri padroni della città e si dividono l’esercizio del potere all’interno del Comune.
Ma un console non fa un Comune
Si può parlare di Comune quando, in una determinata città, è attestata l’esistenza di consoli. È quanto dicono i vecchi manuali di storia, ma anche studi recenti accolgono questa tesi, a patto di apportarvi due piccole precisazioni: la prima, abbastanza ovvia, per ricordare che la comparsa dei consoli può essere anteriore alla loro prima attestazione nelle fonti; la seconda, meno scontata, per avvertire che il consolato è probabilmente stato, all’inizio, un’istituzione a carattere intermittente, ed è diventata permanente solo dopo una prima fase di sperimentazione. Meglio, quindi, non dare troppo valore alla cronologia tradizionale, che attribuisce il primo posto a Pisa, dove i consoli sono attestati per la prima volta nel 1081-85, seguita da Asti (1095), Milano (1097), Arezzo (1098), Genova (1099), mentre in città non meno importanti, come Cremona, Lucca e Bologna, i consoli non compaiono che nel primo quarto del XII secolo, se non addirittura nel secondo quarto, come a Piacenza, Parma, Verona e Firenze. Piú controverso è il problema della formazione del Comune: chi ha preso l’iniziativa di creare dei consoli, ossia di dotare la città di quei magistrati che nel giro di un secolo sarebbero diventati gli unici detentori del potere al suo interno, arrogandosi progressivamente tutte le prerogative un tempo esercitate dal vescovo e talvolta anche dai discendenti di lontani ufficiali imperiali, conti e visconti in primo luogo? C’è chi, tra gli storici, mette l’accento sul ruolo svolto dall’entourage immediato del vescovo, ossia da quella ristretta élite di vassalli ecclesiastici che hanno ricevuto dal presule, dal capitolo della cattedrale o da qualche grande monastero cittadino beni e talvolta anche signorie site nel territorio della città. Tale élite, avvezza già dai primi dell’XI secolo ad assecondare il vescovo nell’esercizio delle sue prerogative pubbliche, si sarebbe a un certo momento emancipata dalla sua tutela, dando vita a una 14
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IL PALAZZO COME STATUS SYMBOL Nel corso del XII secolo, il vescovo dovette cedere alle giovani istituzioni comunali la maggior parte delle sue prerogative politiche, ma ciò non gli impedí di continuare a essere il personaggio piú potente e piú autorevole della città. La sua indiscussa supremazia all’interno della compagine cittadina si tradusse a lungo, nel paesaggio urbano, nella magnificenza del palazzo episcopale che, con l’eccezione delle poche città in cui l’imperatore aveva conservato una residenza, fu anche l’unico, sino alla fine del XII secolo, a essere qualificato come palatium. Quasi a compensare il declino del proprio potere politico con l’ostentazione della loro ricchezza, molti vescovi intrapresero, in quello stesso periodo, la ricostruzione ex novo della loro sede, dando vita, a Novara, Vercelli, Parma, Como, Pistoia, Orvieto, Anagni e in tante altre città, agli imponenti palazzi episcopali che possiamo ammirare ancora oggi.
magistratura in grado di rappresentare anche gli interessi di una piú larga frazione della popolazione cittadina. Altri preferiscono ricordare la presenza continua, nelle città dell’Italia centro-settentrionale, di una categoria di uomini liberi, dotati di un discreto patrimonio fondiario, abituati fin dall’epoca carolingia a combattere a cavallo e che, in varie occasioni nel corso del X e XI secolo, si sono dimostrati capaci di difendere con successo i loro interessi di fronte alle pretese eccessive di un vescovo o di un alto funzionario imperiale. Prima di dar vita al regime consolare, del resto, questi «cittadini», nel senso forte della parola (non a caso le fonti li chiamano cives), avevano già preso l’abitudine di riunirsi in assemblea (colloquium, conventus) e di prendere decisioni che ognuno si impegnava sotto giuramento a osservare. Alla stregua dei vassalli episcopali, anche i cives avevano dunque acquisito una certa esperienza del potere, esperienza che avrebbe poi portato alla creazione del consolato. Per riassumere: alcuni storici attribuiscono la formazione del Comune all’azione di una ristretta élite di vassalli episcopali, spesso titolari di signorie nel territorio, che avrebbe detenuto il monopolio del combattimento a cavallo, altri alla presenza in città di un piú vasto ceto di cives che sarebbero stati anche milites, nel senso che avevano la capacità di combattere a cavallo, pur senza esser mai entrati a far parte del vassallaggio del vescovo o di un grande monastero e senza detenere prerogative signorili su castelli del territorio. È chiaro che non c’è totale incompatibilità tra queste due tesi: di fatto, i sostenitori della prima non hanno difficoltà a riconoscere che la base sociale del regime comunale si è rapidamente allargata nel corso del XII secolo e che sono entrati a far parte della militia, e
Novara, piazza del Duomo. Scorcio del palazzo vescovile. XI-XII sec.
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La militia
In molte importanti città della Lombardia e del Piemonte, la militia fu a lungo dominata da una casta di potenti famiglie
quindi anche della classe dirigente del primo Comune, molti parvenus. Quanto ai fautori della seconda, sono disposti ad ammettere la presenza, nelle file della militia, di un numero piú o meno abbondante di vassalli ecclesiastici e di titolari di signorie territoriali. Ma non dappertutto e non con la stessa densità. Tutti gli storici sono infatti d’accordo nell’asserire che la fisionomia del ceto che dà vita al Comune, e di cui sarà la classe dirigente per tutto il periodo consolare, cambia a seconda delle città.
Signorie in cambio di protezione
Non c’è dubbio, per esempio, che a Milano o in altre città della Lombardia o del Piemonte, come Cremona e Novara, la militia sia stata a lungo dominata da una casta di potenti famiglie, i cui membri si fregiano del titolo di «capitani». E «capitani», da intendere qui nel senso di «capitani di parrocchia», i Visconti, della Torre, Mandello, Pusterla, Pirovano di Milano, i de Burgo e Dovara di Cremona lo erano infatti diventati quando i vescovi, pur di raccogliere le clientele armate di cui avevano bisogno per la propria di16
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fesa, non avevano esitato a conferire la signoria di intere parrocchie della loro diocesi a membri di ricche famiglie cittadine. Nella Marca di Treviso, a Verona, Vicenza e Treviso, come in Emilia, a Piacenza, Parma, Modena e Reggio, sono diverse le famiglie signorili del territorio che hanno deciso, nel corso del XII secolo e quindi dopo la formazione del Comune, di trasferirsi in città e di fondersi nella militia locale, a capo della quale saranno talvolta chiamate a svolgere un ruolo importante: cosí si spiega la fortuna politica, in piena età comunale, di famiglie come i Rossi e i Correggio a Parma, i Rangoni a Modena, i Manfredi a Reggio e via dicendo. Tuttavia, l’albero non deve nasconderci la foresta: questi sussiegosi capitani lombardi, queste potenti famiglie signorili delle città emiliane non costituiscono che la frangia superiore di una militia cittadina molto piú vasta e che comprende, qui come nel resto dell’Italia centrosettentrionale, varie centinaia di milites, per i quali il combattimento a cavallo rappresenta non solo un elemento essenziale della propria identità ma anche una fonte di reddito e soprat-
In alto, a sinistra la Madonna della Misericordia con i santi Pietro e Paolo, frontespizio della Matricola della Compagnia dei Lombardi. 1334. Bologna, Compagnia dei Lombardi.
A CIASCUNO LA SUA CAVALCATURA Quanto vale un cavallo da combattimento e di quanti cavalli ha bisogno il miles per andare in guerra? È una questione fondamentale perché, nelle battaglie medievali come oggi nelle corse automobilistiche, il cavallo e la macchina contano quanto e anche piú dell’uomo che li monta o li guida. Il destriero, che viene montato poco prima del combattimento, è di gran lunga la cavalcatura piú preziosa: non solo perché si tratta di un animale forte e possente, alto di garretto e rapido nella corsa, ma anche perché ha subito un addestramento lungo e intensivo, in modo da affrontare senza paura il fragore delle armi e la confusione della battaglia. Il suo prezzo può essere due volte superiore a quello del palafreno, cavallo da passo, ma anche da parata e da cerimonia, che, a sua volta, può costare il doppio del volgare ronzino utilizzato per trasportare l’equipaggiamento e la tenda o il padiglione del combattente. In totale, il capitale equino, se cosí si può dire, detenuto dal cavaliere ammonta a non meno di 100/150 lire e non vale quindi meno dell’intero patrimonio di un onesto artigiano o di un impiegato comunale del XIII secolo.
tutto la garanzia, grazie ai privilegi di cui godono, di conservare una posizione di superiorità all’interno della società cittadina. Forse sembrerà eccessivo parlare di privilegio a proposito del risarcimento delle perdite subite dai cavalieri nel corso dei combattimenti. L’indennizzo dei danni di guerra è oggi un diritto che tutti i Paesi del mondo riconoscono ai loro soldati e di cui ritroviamo tracce in civil-
Qui sopra particolare della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. 1438. Londra, National Gallery. Sulle due pagine biccherna raffigurante la resa di Colle Val d’Elsa. Siena, Archivio di Stato. 1479.
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La militia
BENI COMUNI CONTRO PROPRIETÀ PRIVATE: UN CONTRASTO ANTICO Laddove esistono, i beni comuni sono oggi considerati come vestigia di un’antica civiltà agraria e, di fatto, sono costituiti perlopiú da terre incolte, usate per il pascolo del bestiame e la raccolta della legna. In età comunale, invece, anche le città piú importanti erano spesso titolari di ingenti patrimoni fondiari, che venivano sfruttati in modo intensivo, tramite, per esempio, la produzione cerealicola sulle terre arative o l’allevamento ittico nelle zone lacustri. Si capisce allora che gli abitanti di Mantova abbiano sostenuto, nei secoli XI e XII, lotte epiche contro i grandi signori della regione pur di conservare l’uso esclusivo delle vaste superfici acquatiche che circondano la loro città, e da dove ricavavano una parte importante delle loro risorse. Fino alla fine del XIII secolo, il bilancio del Comune di Perugia era in gran parte alimentato dai redditi di due immense proprietà collettive: il Lago Trasimeno, oggetto di un intenso sfruttamento piscicolo, e le terre del Chiugi, un’area molto fertile di circa 120 kmq, situata nella parte meridionale della Valdichiana e interamente dedita alla coltura del grano.
A sinistra veduta a volo d’uccello dell’agro perugino nella quale è ben riconoscibile il Lago Trasimeno, affresco realizzato su cartone di Egnazio Danti. 1580-1585. Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche. In basso cartografia del territorio mantovano. Mantova, Archivio di Stato.
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zi dell’equipaggiamento difensivo del cavaliere: tutto ciò dietro semplice dichiarazione dell’interessato e senza che il Comune abbia mai la possibilità di verificare l’entità delle perdite subite. Che i milites ne abbiano approfittato per gonfiare le loro perdite, lo deduciamo da numerosi indizi che non lasciano dubbi sul fatto che la frode all’emendatio – termine che designa ogni forma di indennizzo delle perdite militari – fosse allora un malcostume diffuso tra la militia comunale. Se aggiungiamo a questo il fatto che i cavalieri si tenevano tutti i redditi ricavati dalla guerra, sotto forma di riscatti, di montature catturate, bestiame rubato nei territori nemici, bottini vari, ecc., si capisce facilmente che tale sistema, fondato sulla collettivizzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti, non poteva funzionare che a tutto vantaggio dei membri della militia.
Un diritto indiscusso
tà molto antiche. Nelle città italiane, però, almeno durante tutta la prima fase del periodo comunale, il risarcimento delle perdite militari si svolge in condizioni talmente favorevoli per i combattenti a cavallo che non si può non considerarlo come uno dei principali privilegi della militia, un privilegio che, non per niente, sarà uno dei primi a essere contestati dal Popolo appena sarà in grado di rimettere in causa la supremazia politica dei milites. Vero è che, in caso di cattura, il Comune non rende ai malcapitati l’ammontare del riscatto pagato per la loro liberazione, ma rimborsa tutte le altre perdite, a cominciare da quella del cavallo catturato, fuggito, ammazzato o ferito nel corso delle operazioni militari. Rimborsa inoltre la perdita dell’armatura e di tutti i pez-
Adorazione dei Magi (particolare), affresco di Pietro Perugino. 1504. Città della Pieve, oratorio di S. Maria dei Bianchi. Il dettaglio si riferisce all’ambiente campestre nel quale l’artista ha inserito la scena principale (qui non illustrata), che possiamo immaginare simile alle terre che, in età comunale, divennero oggetto di contesa fra signori e cittadini.
Oltre ai profitti ricavati dalla guerra, che perlomeno implicano una diretta partecipazione alle operazioni belliche, la militia nel suo insieme godeva di privilegi dei quali è difficile stabilire se fossero visti dai contemporanei come la giusta contropartita delle sue responsabilità militari oppure come una semplice ricaduta della sua superiorità politica, ma che comunque, fino all’inizio del XIII secolo, appaiono come un diritto indiscusso di tutti coloro che mantengono un cavallo di guerra e lo utilizzano per combattere al servizio del Comune. Molto variabili da una città all’altra, questi privilegi non sono sempre facili da identificare, in quanto di solito sono stati oggetto, a partire dalla metà del Duecento, di una damnatio memoriae che ne ha cancellato quasi per intero le tracce. Si può tuttavia affermare che ogni Comune riconosceva ai suoi milites un cocktail di vantaggi costituito da quattro ingredienti principali: diritti speciali nell’uso delle proprietà collettive, doni (talvolta di natura simbolica, come per esempio una certa quantità di pepe) e contributi a volte piuttosto sostanziosi, infine il godimento di alcune entrate fiscali al quale si aggiungeva quasi dappertutto l’esenzione della principale imposta diretta, la colletta. Tali privilegi non consentivano ovviamente ai singoli membri della militia di arricchirsi. Davano però ai milites meno abbienti, a quelli che avevano riportato una brutta ferita o, peggio ancora, erano stati catturati e riscattati, la garanzia di mantenere il loro rango nella società comunale. Ed erano anche uno dei segni piú tangibili della loro superiorità sul resto della popolazione cittadina. L’ITALIA DEI COMUNI
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Poteri di famiglia di Jean-Claude Maire Vigueur
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VIVERE DA SIGNORI
Le città comunali vedono l’emergere di grandi famiglie, pronte a imporre la propria supremazia anche con la violenza. E il cui potere si esprime attraverso la costruzione di palazzi e torri che ridisegnano il volto di interi quartieri
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ttraverso il cinema, la televisione, una certa letteratura di evasione, la gente si fa oggi del cavaliere medievale un’immagine che ha ben poco da vedere con la realtà del Medioevo. Il fenomeno del resto non è recente. Anzi è vecchio quanto il Medioevo se è vero che i primi a forgiare del cavaliere un’immagine mitica e idealizzata sono stati gli autori dei romanzi di cavalleria, a cominciare dal famoso Chrétien de Troyes (1140 circa-1190 circa), grande divulgatore in Occidente della «materia di Bretagna», ossia di quel complesso di leggende che ruotano intorno a personaggi come re Artú, il mago Merlino, Lancillotto e via di seguito. Se la distanza tra mito e realtà è già abissale trattandosi del cavaliere francese, che combatte per lo piú al soldo di signori rurali e vive quindi lontano dal mondo delle città, figuriamoci se non lo è nel caso dei milites italiani, ossia di quei cavalieri cittadini che dedicano gran parte della loro esistenza a organizzare lucrose spedizioni contro i nemici del Comune! Va anche detto che il sistema politico in vigore nelle città dell’Italia centro-settentrionale, almeno per tutta la prima fase della sua storia, obbedisce a regole formulate dalla militia e quindi ben lontane dai principi elaborati, in una fase posteriore, dai teorici del regime comunale. L’abbinamento militia/Comune non ha del resto niente di casuale: l’uno e l’altra sono, fino alla prima metà del XIII secolo, due facce di una stessa realtà, che è poi quella della società cittadina, e non possono essere dissociate se vogliamo capire qualcosa circa il funzionamento del sistema politico comunale e lo stile di vita della militia. Cominciamo con il dato piú evidente: l’abitazione del cavaliere cittadino, il suo radicamento fisico all’interno della città. Sappiamo tutti che ogni centro urbano, nel Medioevo, era cinto di mura e irto di torri. In Italia, dove la maggior parte delle città è di origine antica, la prima cinta risale generalmente al III o IV secolo ed è rimasta in uso fino ai decenni centrali del XII, quando la crescita demografica ha reso necessaria la costruzione di una seconda cerchia di
Nella pagina accanto Asti. Veduta della Torre dei Comentini. XIII sec.
mura, che sarà seguita, tra la fine del XIII e la metà del XIV secolo, da una terza cinta, abbastanza capiente per contenere fino a tutto il XIX secolo le successive variazioni della popolazione cittadina. Di torri, invece, non c’è traccia prima dell’XI secolo e anche nel loro periodo di maggiore fioritura, ossia nei secoli XII e XIII, quando in alcune città si arriva a contare fino a duecento e talvolta trecento torri, la maggior parte di esse appare collocata nel cuore del centro urbano, nella «città vecchia», come molto spesso veniva allora chiamata la parte compresa nel perimetro della prima cinta muraria. Ora, se è vero che ogni lignaggio di milites aspira a possedere una torre o perlomeno un moncone di torre, ciò vuol dire che la maggior parte dei cavalieri continua, in piena età comunale, a risiedere nelle zone piú centrali della città, laddove i loro antenati dei tempi carolingi o postcarolingi erano già insediati.
Cinque volte piú ricchi
Concentrazione delle torri è sinonimo di concentrazione delle ricchezze, almeno finché i beni immobili costituiscono la principale componente dei patrimoni cittadini. In una città come Perugia, che non brilla per l’intraprendenza dei suoi uomini d’affari, questo è ancora vero alla fine del XIII secolo: sulla base del catasto del 1285, è stato calcolato che gli abitanti della «terra vecchia», dove risiedeva la maggior parte delle famiglie di milites, erano cinque volte piú ricchi di quelli della «terra nuova», dove solo un piccolo numero di milites aveva scelto di trasferire la sua residenza. Perugia, Siena, Cortona, Todi e tante altre città toscane, umbre e marchigiane possiedono ancora oggi un impianto urbanistico che risale, salvo pochi interventi successivi, alla piena età comunale. Per di piú, una parte talvolta cospicua del loro patrimonio edilizio ha conservato caratteristiche chiaramente riferibili all’architettura degli ultimi secoli del Medioevo. Ma non illudiamoci: non è percorrendo e ripercorrendo le strade di Siena o di Perugia che riusciremo a farci un’idea della fisionomia e della morfologia L’ITALIA DEI COMUNI
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CIVILTÀ COMUNALE Disegno ricostruttivo del centro storico di San Gimignano, che evidenzia la notevole concentrazione di torri.
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I cavalieri cittadini tendevano perlopiú a risiedere nelle zone centrali, dove già s’erano insediati i loro antenati dei tempi carolingi o postcarolingi
delle abitazioni dei milites dei secoli XII o XIII. L’una e l’altra rispondevano infatti a esigenze che hanno portato alla formazione di complessi abitativi di cui solo alcune parti si sono conservate, per lo piú deturpate e avulse dalle altre strutture del complesso. Meglio dunque affidarsi alle fonti scritte e a ciò che rivelano circa le abitudini di vita dei milites. I documenti parlano in primo luogo di un costume particolarmente diffuso nelle file della militia urbana e che consiste, per il capofamiglia, nel sistemare tutti i figli maschi in case situate nell’immediata prossimità della propria abitazione. Non si tratta di un semplice gesto di L’ITALIA DEI COMUNI
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generosità nei confronti della prole, come può essere il caso nell’Italia di oggi, dove i prezzi stratosferici del mercato immobiliare costringono i figli a sollecitare l’aiuto dei genitori quando hanno bisogno di un alloggio per sposarsi. La preoccupazione del padre di famiglia, nell’Italia dei Comuni, era da una parte di mantenere il piú a lungo possibile la coesione del lignaggio, dall’altra di estendere il suo controllo in un’area sempre piú vasta del territorio urbano, in modo da ostentare la sua ricchezza e la sua forza. Da questa duplice esigenza nasce la complessa struttura di ciò che potremmo chiamare, riprendendo un termine usato nelle fonti latine dell’epoca, il «tenimento» familiare o, piú semplicemente, il blocco o quartiere familiare tipico dei lignaggi della nobiltà cittadina in età comunale: un groviglio piú o meno compatto di edifici vari, molti dei quali adibiti all’abitazione dei maschi sposati, e che comprende, a seconda della potenza del lignaggio, spazi e locali aperti non solo ai membri della casata, ma anche ai parenti piú lontani, agli amici, ai clienti, ai servi e cosí via: una piazza o un cortile interno, magazzini per le riserve di foraggio, di legna e di cibo, stal24
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le e scuderie, un pozzo e/o una cisterna, un forno, una stufa, talvolta una cappella o una chiesetta, ecc., oltre a una o piú torri e a varie attrezzature piú o meno amovibili e destinate a rafforzare, in caso di necessità, la difesa del complesso. Al capofamiglia era di solito riservata la casa piú grande e piú bella, dotata cioè di un’imponente sala di rappresentanza e di elementi di decorazione collocati perlopiú su porte e finestre, nei balconi, lungo le scale, negli spigoli, nel cornicione e, quando esisteva, nel camino. Il disegno delle facciate dell’edificio e la disposizione dei suoi volumi non obbediscono a quei criteri d’ordine e di regolarità che presiederanno, uno o due secoli dopo, alla costruzione dei palazzi rinascimentali, ma questo termine comincia a essere utilizzato, nel corso del XIII secolo, per qualificare l’abitazione del capofamiglia, e i contemporanei erano comunque ben consapevoli del valore particolare, in termini economici e simbolici, di questo tipo di edificio.
Beni ai maschi e dote alle femmine
Quante generazioni e quanti rami usciti dallo stesso ceppo potevano coesistere all’interno del «tenimento» familiare? La risposta non è semplice e dipende da numerosi fattori. Di regola, nelle città dell’Italia centro-settentrionale i figli non dispongono di alcuna autonomia patrimoniale finché il padre è in vita, ma, alla sua morte, l’eredità viene divisa in parti uguali tra tutti i figli maschi, con esclusione delle donne che si devono accontentare della dote. Nulla, però, impedisce ai figli, dopo la morte del padre, di gestire i loro beni in comune e di non procedere alla divisione effettiva di certi tipi di immobili. Ed è proprio quello che si verifica, molto spesso, per alcune strutture del tenimento, a cominciare dalle torri, la cui proprietà nominale si trova non di rado divisa in molteplici aventi diritto che si ripartiscono le spese di manutenzione e ne definiscono le condizioni di utilizzazione. D’altra parte può anche capitare che, dopo la morte del padre, i legami tra i membri della sua discendenza si rinsaldino in ragione di circostanze varie come, per esempio, la morte di uno dei fratelli i cui figli verranno affidati agli zii paterni. Si verifica l’esatto contrario quando i fratelli non vanno d’accordo o quando uno di loro decide, di fronte alla saturazione del tenimento, all’impossibilità obiettiva di ampliare la sua superficie, o per qualsiasi altro motivo, di abbandonare il complesso paterno e di spostarsi, con moglie e figli, in un’altra zona della città dove gli si offre la possibilità di
In alto particolare di un dipinto raffigurante la città di Pisa. XV sec. Pisa, Museo Nazionale di S. Matteo. Nella pagina accanto miniature da un’edizione delle Cronache di Norimberga: veduta della città di Mantova (in alto) e veduta della città di Firenze (in basso). 1493.
impiantare un nuovo complesso familiare, meglio adeguato alle sue necessità. La storiografia piú recente utilizza in genere il termine «lignaggio» per designare il gruppo di parenti che vivono all’interno del quartiere familiare appena descritto. La parola, di origine francese, non era sconosciuta ai membri della nobiltà e neppure, forse, al piú vasto pubblico delle città che si accalcava sulle piazze per ascoltare giullari e cantori che recitavano, spesso in un francese d’oïl imbastardito d’italiano, le gesta di Orlando e di Oliviero o le imprese militari di Carlo Magno. Troviamo nelle fonti dell’epoca una terminologia molto piú diversificata, che cambia a seconda della lingua, della regione, degli autori: Rolandino da Padova, che scrive in un latino classicheggiante, parla di domus, Salimbene preferisce il termine «casale», i cronisti fiorentini parlano di «schiatta» o «progenie», il veneziano Martin da Canale autore di una cronaca in lingua d’oïl usa naturalmente la parola francese lignage, stirps o «stirpe» sono L’ITALIA DEI COMUNI
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UNA FESTA FINITA MALE, ANZI MALISSIMO Tra milites di città e nobili del territorio, ma anche tra milites di città vicine, non sempre correva buon sangue, anzi spesso il sangue correva sul serio per il semplice fatto che i signori cercavano di difendere le loro terre dalle ingerenze cittadine e che ogni città aveva la tendenza a estendere il proprio contado ai danni della città vicina. Ciò non impediva a tutta quella bella gente di avere gli stessi gusti, di condividere la stessa cultura e di accorrere alle feste che regolarmente venivano organizzate dai grandi signori del territorio o da tutta la militia di una città. A cinquant’anni di distanza, il cronista Rolandino da Padova ricorda ancora con vibrante emozione le splendide feste organizzate, all’inizio del XIII secolo, nelle principali città della regione da podestà particolarmente amanti dei «giochi e sollazzi». Famosa tra tutte quella che si svolse a Treviso nel 1214 e per la quale fu costruito un «castello di amore», difeso da belle dame e fanciulle e «che avrebbe dovuto essere espugnato, e lo fu, con armi e strumenti siffatti: mele, datteri e noci moscate; tortelli, pere e cotogne; rose, gigli e viole; e ancora ampolle di balsamo, di affine e di acqua di rose; ambra, canfora, cardamomo; cinnamomo, chiodi di garofano, meleghetta; infine ogni specie di fiori e di spezie che odora o risplende» [cfr. Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano (Cronaca), a cura di Flavio Forese, Fondazione LorenzoValla Arnoldo Mondadori; Milano 2004, p. 71]. La festa questa volta finí con una zuffa tra Padovani e Veneziani, che degenerò poi in guerra aperta tra le due città.
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utilizzati un po’ ovunque e l’elenco non finisce certamente qui. Occorre poi precisare che gli stessi termini possono, in determinati contesti, rinviare non a un solo gruppo familiare ma all’insieme dei gruppi che, usciti da un lontano ceppo comune, conservano tra di loro un minimo di coesione anche quando i rispettivi tenimenti sono sparsi in diverse zone della città. Venezia è, a quanto mi risulta, l’unica città dove esiste un termine specifico per designare questa piú ampia struttura familiare: la «ca’», i cui vari rami o lignaggi sono radicati in diverse parrocchie della città pur mantenendo tra di loro alcune forme di solidarietà. L’«albergo» genovese o astigiano rinvia a qualcosa di un po’ diverso e riguarda un periodo piú tardo. Il termine «consorteria» è talvolta utilizzato in questo senso da alcuni storici moderni, ma possiede connotati giuridici troppo rigidi per poter designare una struttura parentale cosí fluida come la nebulosa di lignaggi di cui si tratta. Continueremo dunque a parlare di lignaggi, sapendo bene che abbiamo a che fare, a seconda dei casi, con uno o piú gruppi familiari
In alto Arezzo, Piazza Grande. Le case-torri che affacciano sulla piazza. Nella pagina accanto Treviso, piazza dei Signori. Veduta della piazza con il palazzo del Podestà (sulla sinistra) e il palazzo dei Trecento (sulla destra). A destra Vercelli. Il palazzo e la torre dei Tizzoni. Metà del XV sec.
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e che il loro numero all’interno della città varia di conseguenza da qualche decina a qualche centinaia. In un caso come nell’altro, sono questi lignaggi i principali, anzi per un lungo periodo gli unici protagonisti dei conflitti che segnano la vita di un centro urbano comunale.
A destra disegno ricostruttivo della casa-torre dove, nel 1240, nacque Arnolfo di Cambio a Colle Val d’Elsa (Siena).
Realtà storica e stereotipi
La storiografia dell’Ottocento, alla quale la letteratura divulgativa attinge ancora oggi gran parte della sua visione del Medioevo, ci ha lasciato in eredità due immagini fortemente contrastate delle capacità politiche del Comune: una radiosa che ne esalta i successi contro le forze retrograde della feudalità, dell’Impero e della Chiesa, un’altra molto piú cupa che mette l’accento sulle divisioni interne, le lotte di fazione, l’impotenza dei magistrati e cosí via. Nel migliore dei casi, l’immagine positiva viene riferita alla prima fase della storia comunale, che finisce, a seconda delle città, tra l’inizio e la metà del XIII secolo, quella negativa alla fase successiva, caratterizzata dall’esplosione delle passioni partigiane. Non dico che tutto sia falso in questi due stereotipi: è indubbiamente sotto la guida dei consoli, nel corso quindi del XII secolo, che il Comune si è imposto come l’unico detentore dell’autorità pubblica all’interno della città e di tutto il territorio circostante, che la città si è liberata della tutela del vescovo, ha costretto i signori del contado a fare atto di sottomissione, ha ottenuto dall’imperatore il riconoscimento della sua autonomia.
A sinistra san Gimignano da Modena che tiene la città di San Gimignano, particolare del paliotto con san Gimignano in trono, storie della sua vita e dei suoi miracoli, tempera e oro su tavola di Taddeo di Bartolo. 1401-1403. San Gimignano, Museo Civico.
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Disegno ricostruttivo di una torre urbana: erette per scopi militari, queste strutture ospitavano in basso un magazzino per viveri e armi, a cui si accedeva, attraverso passerelle o passaggi coperti, dagli edifici adiacenti; una scala interna conduceva al coronamento.
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LIGNAGGI E CONTRADE Ritrovare nel tessuto urbano di oggi la forma e le vestigia materiali dei tenimenti o quartieri familiari dei grandi lignaggi di età comunale è un’impresa che la diffusione, nella maggior parte delle città, di nuovi modelli abitativi durante il Rinascimento e l’età barocca rende quasi disperata. A Genova, dove le grandi famiglie hanno sovente abbandonato le loro vecchie «contrade» per trasferirsi, nel Cinquecento, negli splendidi palazzi costruiti lungo la Strada Nuova (l’attuale via Garibaldi), qualcosa delle vecchie strutture edilizie rimane tuttora visibile. È il caso, in particolare, della curia dei Doria, articolata intorno alla chiesa di S. Matteo, di cui la famiglia deteneva il patronato, nominandone il parroco. La piazza antistante la chiesa svolgeva la funzione di «curia», ossia di luogo di riunione per l’insieme delle persone, parenti ma anche clienti, che riconoscevano l’autorità del capo lignaggio e risiedevano nelle numerose case della contrada – nome che a Genova designa, specificamente, il tenimento familiare. Torri e porticati sono le strutture che hanno conservato maggiore visibilità, anche se spesso le prime sono state mozzate e i secondi murati. Non è rimasta traccia invece dei forni e delle stufe, che svolgevano un ruolo fondamentale soprattutto nella vita delle donne, che, non ammesse alle riunioni della «curia», vi s’incontravano e potevano discutere di questioni riguardanti la vita del lignaggio e adottare posizioni comuni che avrebbero poi cercato di suggerire agli uomini della famiglia. Forno, stufe, pozzi e cisterne costituivano in qualche modo la parte segreta o perlomeno nascosta del tenimento, un settore dai connotati nettamente femminili che riequilibrava l’aspetto esterno, aggressivo e maschilista.
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E non c’è dubbio che la militia sia stata, di ognuno di questi successi, la principale artefice, vuoi perché ha detenuto, in tutto quel periodo, un quasi monopolio del potere politico, vuoi perché i suoi membri hanno sempre svolto, in veste di cavalieri, un ruolo decisivo nelle battaglie vinte dal Comune. Ma la bella armonia ostentata di fronte ai nemici del Comune non impediva che si svolgesse nello stesso momento, e questa volta tra le mura della città, una durissima competizione tra i membri della militia, sempre pronti ad azzuffarsi per accaparrare tutto quanto poteva accrescere la ricchezza, la potenza e il prestigio del lignaggio: le cariche pubbliche ed ecclesiastiche, i beni comuni e gli introiti fiscali, i partiti piú appetibili sul mercato matrimoniale, le case o parcelle di terre messe in vendita nelle vicinanze del blocco familiare... Chi non ricorda come sarebbe nata, a Firenze, la divisione tra guelfi e ghibellini? Per motivi di alta politica tra fautori dell’Impero e sostenitori
In alto I funerali di Buondelmonte, olio su tela di Saverio Altamura. 1860. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. Sulle due pagine Siena, Palazzo Pubblico. Particolare dell’affresco Vittoria dei Senesi nella battaglia di Val di Chiana di Lippo Vanni, in cui, come teatro dello scontro fra le truppe di cavalieri, si può osservare un contado ricco di borghi. 1364 circa. Nella pagina accanto stampa raffigurante la chiesa di S. Matteo a Genova. XIX sec.
della Chiesa? Neppure per sogno: è una storia di donna che avrebbe scatenato l’odio tra due lignaggi della nobiltà cittadina, i Buondelmonti e gli Amadei, odio che si sarebbe poi esteso all’insieme della militia. Tale è la versione fornita dal cronista Villani sull’origine delle fazioni a Firenze. È una spiegazione che gli storici moderni si sono affrettati a criticare, e con buone ragioni, ma che possiede nondimeno il grosso merito di illustrare quale poteva essere, nelle città comunali, uno dei principali motivi dell’odio che spesso caratterizzava i rapporti tra due lignaggi: che si tratti, come nella storia di Buondelmonte dei Buondelmonti raccontata da Villani, di una promessa di matrimonio non mantenuta, oppure, come in tanti altri casi, di una ricca ereditiera contesa tra due famiglie, ci troviamo sempre in presenza di conflitti che nascono dalla volontà dei lignaggi di appropriarsi di nuove risorse, nella fattispecie quelle che derivano da un matrimonio ben combinato.
Una lunga scia di violenze
Odio, faida, inimicizia, guerra, vendetta, discordia: il lessico in vigore, nell’Italia dei Comuni, per designare il conflitto che oppone i lignaggi nemici e i loro alleati è ricchissimo, esattamente come lo è la gamma dei mezzi a disposizione dei due schieramenti per combattere l’avversario. L’uccisione, come avviene nell’episodio appena citato, nel quale Buondelmonte cade vittima dell’imboscata tesa dagli Amidei e dai loro amici, è un gesto di estrema gravità al quale non si ricorre che al termine di una lunga escalation L’ITALIA DEI COMUNI
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PIÚ DELLA SPADA POTÉ IL VITUPERIO Non sempre è necessario ricorrere alla violenza per combattere un lignaggio rivale. Esistono altri strumenti che spesso risultano non meno appropriati agli obiettivi che si intende raggiungere. L’azione legale, e quello che si chiamerebbe oggi l’accanimento giudiziario, è per esempio un’arma che i milites utilizzano con grande disinvoltura, anche perché molti di loro sono imbevuti di conoscenze giuridiche che rappresentano uno dei tratti piú caratteristici della cultura del loro ceto: gli avvocati, i giudici, gli uomini di legge in generale sono infatti tutti membri della militia, che dispone del monopolio del sapere giuridico, nell’Italia centro-settentrionale, almeno fino alla metà del XIII secolo. I milites si combattono dunque a colpi di processi non meno che a colpi di spada. Ma non è tutto. Anche il vituperio, la beffa, lo scherno sono armi che bastano da sole a infangare il nome di una famiglia, a rovinare la sua fama
o, al contrario, a incrementare il prestigio di chi le sa utilizzare contro gli avversari. Solo che trovare la parola che ferisce o inventare la canzone capace di gettare l’obbrobrio o il ridicolo sull’avversario non è alla portata del primo venuto, fosse membro dei piú grandi lignaggi. È una dote che di sicuro possedeva il fiorentino Corso Donati. Il «potente cavaliere», in cui il cronista Dino Compagni vedeva, a giusto titolo, un concentrato dei difetti e delle qualità della vecchia nobiltà cittadina, sapeva, per esempio, trovare il soprannome che avrebbe disonorato l’avversario («cavicchia» era quello riservato a Guido Cavalcanti, per alludere ai suoi gusti omosessuali), o la battuta che avrebbe fatto ridere ai suoi danni («ha ragghiato oggi l’asina di Porta?», faceva finta di chiedere a proposito del suo vecchio nemico Vieri Cerchi, di cui il bel parlare non era di certo la qualità maggiore).
Particolare di una miniatura dalla Cronica di Giovanni Villani, raffigurante l’episodio dell’assalto di Guido Cavalcanti a Corso Donati. 1348. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica.
Il potere politico si mostrò sostanzialmente tollerante nei confronti delle violenze scaturite dalla competizione fra lignaggi 32
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SPERONELLA E I SUOI SEI MARITI Non si insisterà mai abbastanza sull’oppressione di cui erano vittime le donne nel mondo ultramaschilista della nobiltà medievale! Oggetti di cupidigia per gli altri lignaggi, strumentalizzate dai padri e dai fratelli che le scambiavano contro vantaggi di varia natura, le donne erano sempre sacrificate sull’altare degli interessi familiari ed erano per di piú esposte alla violenza degli uomini che non esitavano, in determinati contesti, a rapire o a violentare la fanciulla che volevano sposare o disonorare. Poteva tuttavia accadere che il meccanismo che condannava la donna a essere la preda dei maschi s’inceppasse e che fosse lei a dettare le condizioni. Occorreva, però, il concorso di una serie di circostanze eccezionali: che la donna, per esempio, fosse l’unica erede di un grosso patrimonio e non avesse né zii, né parenti in grado di imporle un marito di loro convenienza. Oppure che fosse dotata di una forte personalità e di un fisico particolarmente attraente. A quanto pare, ci fu un personaggio in possesso di questi requisiti. Una donna famosa per aver avuto almeno sei mariti, e tutti, si direbbe, di suo gradimento, visto che fu lei a sciogliere i primi cinque matrimoni chiedendo il divorzio o fuggendo nelle braccia dell’uomo chiamato a sostituire il precedente marito: il suo nome è Speronella Dalesmanini, e la fortuna di cui fu erede all’inizio della seconda metà del XII secolo era la piú cospicua di tutta Padova. Era una donna molto attraente, se è vero che fu ancora capace, in età matura, di stregare un uomo molto piú giovane di lei quale fu il sesto e ultimo marito, Olderico da Fontana, che si dice rimanesse folgorato dalla visione di lei che si bagnava nuda nelle fonti termali dei Colli Euganei.
di violenze che rivestono forme il piú delle volte verbali o simboliche e raramente sfociano in azioni capaci di mettere in pericolo i beni o la vita dell’avversario. Le torri si prestano molto bene, per esempio, a un uso calibrato della violenza: munite di catapulte e di altri macchinari atti a lanciare proiettili contro le case degli avversari, sono in grado di provocare danni accuratamente calcolati, proporzionati alla gravità dell’offesa che si vuole vendicare o alle minacce che si vuole mandare ai nemici. Nei casi estremi, quando il conflitto raggiunge il suo apice e quando uno dei lignaggi tenta di attaccare di sorpresa il tenimento dell’altro, la torre offre a tutti i membri del lignaggio aggredito un rifugio sicuro fino all’arrivo dei soccorsi mandati dai parenti e dagli amici, oppure fino all’intervento delle autorità pubbliche. Perlomeno quando decidono di intervenire. Bisogna
In alto Padova, basilica di S. Antonio, cappella di S. Giacomo. Particolare del ciclo di affreschi di Altichiero e Jacopo Avanzi. 1376-1379.
infatti presumere che ci sia, da parte del potere politico, esercitato dalla magistratura collegiale dei consoli, una grande tolleranza nei confronti di una competizione concepita da tutti come inerente alla cultura della militia e quindi anche nei riguardi delle varie forme di violenza generate da questa competizione. I consoli impongono limiti alla vendetta, che va compiuta secondo regole ben precise, limitano l’altezza delle torri, in modo da evitare che provochino danni troppo gravi, intervengono manu militari quando un lignaggio rischia di essere annientato dal suo avversario, il suo tenimento totalmente distrutto, le donne e i bambini lasciati senza difesa. Soprattutto, sono molto attenti a reprimere ogni forma di intesa segreta finalizzata a consegnare tutte le cariche politiche a un unico gruppo di lignaggi, a una sola fazione: ogni membro della militia, ogni lignaggio, ogni gruppo di lignaggi deve infatti aver la possibilità di mandare un suo rappresentante all’interno del collegio consolare come prevede, del resto, l’alto numero e la veloce rotazione delle cariche. Ma per il resto lasciano «giocare», come si direbbe oggi, la concorrenza tra lignaggi e limitano i loro interventi allo stretto necessario. L’ITALIA DEI COMUNI
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È arrivato il
podestà!
di Jean-Claude Maire Vigueur
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VIVERE DA SIGNORI
Di fronte al moltiplicarsi delle lotte intestine, seppur con tempi e modalità differenti, i Comuni scelgono una soluzione drastica e sovvertono l’ordine costituito. Il potere viene sottratto alla gestione collegiale e passa nelle mani di un uomo solo, spesso forestiero: il podestà
I
l bello dell’Italia comunale è che ogni città possiede una storia diversa dalle altre. Ma ciò non vuol dire che lo storico non debba per prima cosa individuare ciò che accomuna una città a tutte le altre. Prendiamo il caso di Genova. Di primo acchito, essa presenta un profilo di assoluta originalità: un’impetuosa espansione marittima e commerciale che la porta, in meno di tre secoli, a contendere a Venezia la leadership degli scambi nel Mediterraneo ma, al contrario di Venezia, un tipo di sviluppo che esalta l’iniziativa individuale e rifiuta ogni intromissione del Comune nello svolgimento della vita economica; un senso dell’interesse collettivo che le consente di riunire, in caso di bisogno, la piú forte flotta da guerra del Mediterraneo, ma, a differenza di Pisa che farà nel 1284, con il disastro della Meloria, la crudele esperienza della sua superiorità navale, nes-
In alto Pistoia, Palazzo Pretorio. Stemma di capitano dipinto nell’atrio. Nella pagina accanto Siena, Palazzo Pubblico. Tarsia lignea raffigurante la Vergine che raccomanda Siena al podestà.
sun investimento di natura simbolica, nessun desiderio di erigere un monumento alla gloria della comunità cittadina. Con il risultato che Genova non avrà mai un palazzo comunale degno di questo nome e neppure un complesso monumentale in grado di competere con il Camposanto di Pisa. Si tratta sicuramente di comportamenti anomali all’interno del mondo comunale ma che nulla tolgono al fatto che lo storico possa cogliere a Genova meglio che altrove alcuni dei fenomeni piú tipici dell’esperienza comunale. È già di per sé non privo di valore il fatto che Genova sia stata una delle prime città italiane a dotarsi, nel 1099, di un collegio consolare. È anche l’unico Comune di cui possediamo l’elenco di tutti i consoli in carica da quella data fino alla prima apparizione, nel 1190, della magistratura che avrebbe, dopo un periodo di alternanza, definiL’ITALIA DEI COMUNI
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L’ITALIA DEI COMUNI
Il regime podestarile
Nella pagina accanto Faenza. Scorcio del Palazzo del Podestà.
tivamente sostituito l’organismo consolare, vale a dire il podestà. Il che si spiega con un’altra peculiarità della storia della Genova comunale, l’esistenza cioè di una cronaca che non solo fu la prima opera storica del Medioevo scritta da un laico, ma che assurse anche molto presto alla dignità di cronaca ufficiale del Comune: sono infatti gli Annali genovesi, compilati per gli anni 1099-1152 dal mercante Caffaro, a riportare anno dopo anno i nomi di tutti i consoli che si sono avvicendati al governo del Comune, come pure la continuazione della stessa cronaca, a opera questa volta dei notai incaricati di proseguire il testo di Caffaro, a trasmettere alla posterità le ragioni che spinsero i Genovesi, alla fine del XII secolo, a fare per la prima volta l’esperienza di un regime politico radicalmente diverso da quello consolare e caratterizzato dalla presenza, al vertice dell’apparato comunale, di un magistrato unico proveniente da un’altra città, il podestà forestiero.
Un cambio di regime
Leggiamo dunque cosa scrive il cronista Ottobono Scriba a proposito dell’anno 1190: «Sappiano tanto i nostri contemporanei quanto i posteri che a causa della rivalità di molti, che desideravano oltre misura avere l’ufficio del consolato del Comune, in città erano insorte piú volte discordie civili e odiose congiure e divisioni. Perciò accadde che i savi e i consiglieri della città si riunirono e di comune accordo stabilirono che per l’anno prossimo [il 1191] il consolato del Comune fosse abolito, e furono quasi tutti concordi di nominare un podestà. Al quale ufficio fu eletto messer Manigoldo da Tedozzo, bresciano» (traduzione dal latino di Alessandro Barbero e Chiara Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini, Laterza, Roma-Bari 1999; p. 249). Difficile essere piú chiari: sono le lotte e i conflitti interni alla città che portano alla creazione della nuova magistratura imponendo, come si direbbe oggi, un cambiamento di regime. E l’unico motivo di queste lotte sarebbe, secondo l’autore della cronaca, la gara per gli uffici, e in particolare la competizione per occupare le cariche di console. In realtà le cose erano un po’ piú complesse di quanto dica Ottobono. In primo luogo, la gara per gli uffici era riservata a una frazione ben precisa della società cittadina, costituita dalla sola militia che a Genova come in tutte le altre città di quel periodo detiene un monopolio quasi totale delle cariche consolari. I membri della militia, poi, competono tra di loro non solo per accedere al consolato ma anche per impossessarsi di tutte quelle
risorse che fanno la ricchezza, la potenza e la fama di un lignaggio: dalle cariche ecclesiastiche alle donne da impalmare, dai beni comuni agli immobili suscettibili di accrescere il tenimento familiare, dai mercati esteri agli appalti comunali e cosí via. Tale comportamento appare d’altronde cosí fortemente radicato nella mentalità della militia da costituire uno degli elementi piú stabili della sua identità di classe, non certo una novità apparsa alla fine del XII secolo. Bisogna dunque cercare altrove le ragioni profonde del passaggio al regime podestarile e mi propongo di farlo osservando, a Genova come nel resto dell’Italia comunale, alcune trasformazioni intervenute sia all’interno che all’esterno della militia nel corso degli ultimi decenni del XII secolo. Per dare un’idea dei cambiamenti occorsi all’interno della militia, partirò da un passo tra i piú conosciuti della Divina Commedia, i canti XV e XVI del Paradiso, dove Dante chiede al suo trisavolo Cacciaguida di evocare la Firenze del buon tempo antico e in particolare di fare il ritratto della vecchia nobiltà cittadina. Cacciaguida, lo sappiamo grazie alle indicazioni fornite da Dante stesso, sarebbe vissuto nella prima metà del XII secolo e la Firenze che descrive è quella della prima fase del regime consolare, durante la quale, come abbiamo visto, i conflitti tra lignaggi della nobiltà rimangono di proporzioni limitate e non intaccano mai la concordia di una città sempre pronta a ritrovare la sua compattezza di fronte ai nemici esterni. Quindi i conflitti esistono, Dante non lo nasconde, e sono anche legittimi, come è legittimo, per esempio, «lo giusto disdegno» degli Amidei per l’offesa subita da parte di Buondelmonte dei Buondelmonti e come è legittima la vendetta che ne è stata la conseguenza, dal momento che è stata decisa ed eseguita secondo tutte le regole del codice d’onore in vigore nella nobiltà. Ma sono conflitti che nulla hanno a che vedere con le divisioni che lacerano la società fiorentina piú di un secolo dopo e che hanno condotto, tra l’altro, alla condanna e all’esilio del poeta. Perché?
I facili guadagni guastano la società
Perché nel frattempo è cambiata in Occidente, per colpa della Chiesa, la natura dei rapporti tra i due poteri universali, il Papato e l’Impero e perché, a Firenze, il grande balzo in avanti dell’economia cittadina ha corrotto i costumi, ivi compresi quelli della vecchia nobiltà. Vero è che quando Dante attribuisce ai «súbiti guadagni» e all’afflusso massiccio in città di villani venuti dal L’ITALIA DEI COMUNI
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contado la principale causa della decadenza dei costumi, la sua spiegazione del fenomeno risente fortemente di pregiudizi personali e in particolare della sua avversione per la cultura mercantile. Mette invece l’accento su un cambiamento di dimensione epocale quando oppone la relativa omogeneità della vecchia militia cittadina, quella personificata da Cacciaguida, alle enormi disparità ravvisabili, piú di un secolo dopo, nelle file della nobiltà e di cui la straordinaria espansione economica della Firenze duecentesca è indubbiamente la principale responsabile. Ma, di sicuro, non è l’unica. Anche se lo spazio manca per parlare qui dei vari fattori endogeni – come la presenza in alcune città di una piccola élite di potenti capitani – ed esogeni – come l’arrivo in città di signori del contado – che hanno avuto come conseguenza, a lungo andare, la crescita di disuguaglianze all’interno della militia, non c’è dubbio che fosse la dinamica stessa della competizione tra lignaggi a favorire la formazione di sistemi di alleanza sempre piú vasti, capeggiati da poche famiglie che concentrano nelle loro mani una quantità sempre maggiore di risorse e sono circondate da un numero sempre piú alto di parenti, amici e clienti. Fino agli anni
Settanta-Ottanta del XII secolo, però, tale dinamica ha fatto regolarmente emergere vari lignaggi dalla massa dei milites, ma senza che nessuno di essi riuscisse a trasformare la sua provvisoria superiorità in egemonia di lunga durata. Le cose cambiano negli ultimi decenni del XII secolo. Dappertutto si assiste a una drastica riduzione del numero dei consoli e piú ancora del numero di famiglie suscettibili di entrare nei collegi consolari, sicché governare tende a diventare un privilegio riservato a pochi lignaggi nettamente staccati dal resto della militia. Le fonti inventano un nuovo lessico per descrivere le trasformazioni del paesaggio sociale e politico: negli Annali genovesi già citati, per esempio, si parla di magnates (magnati) per indicare i capi dei piú importanti lignaggi, si usano il termine pars (partito) e la locuzione illi de... (illi de Curia, illi de Volta: gli uomini e il partito dei Curia, dei Volta) per indicare la rete di alleanze e le clientele che gravitano intorno a loro. La violenza infine dilaga e assume forme finora sconosciute e del tutto contrarie al codice d’onore della nobiltà: si arriva a uccidere un console in carica, si mutilano i cadaveri delle vittime, interi quartieri sono incendiati pur di distruggere le case degli avversari. In alto Veduta di Genova nell’anno 1481 (particolare), tempera su tela di Cristofaro Grasso. XVI sec. Genova, Galata Museo del Mare. A sinistra miniatura da un’edizione delle Cronache di Norimberga, raffigurante una veduta della città di Genova. XV sec. Nella pagina accanto dipinto recante lo stemma di Genova. Genova, Palazzo San Giorgio.
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IL MULTIFORME INGEGNO DI CAFFARO Mercante, uomo di guerra e di governo, cronista, il genovese Caffaro (1080 o 1081-1166) visse almeno quattro vite in una ed ebbe uguale fortuna sia nell’azione che nella sua attività di cronista. Giovanissimo, partecipò alla prima crociata, che segnò per i Genovesi l’avvio della loro grande espansione economica e marittima. Poi, per una ventina di anni si dedicò al commercio e agli studi. La sua carriera politica iniziò nel 1121 quando fu mandato dalla sua città a trattare una delicata missione presso il pontefice Callisto II. Seguirono numerosi incarichi diplomatici e politici di cui, per almeno sei volte, quello di console del Comune. In questa veste assunse nel 1146 il comando della spedizione navale che sottrasse ai Saraceni l’isola di Minorca e fu l’artefice dell’alleanza con il re di Castiglia che portò l’anno successivo alla presa di Almeria e di Tortosa. Tutto ciò, pur continuando a fare il mercante e a mantenere rapporti commerciali con l’Oriente dove probabilmente soggiornò a lungo negli anni Trenta. Piú che i successi politici, militari e commerciali, sono i suoi Annali genovesi ad aver tramandato il nome di Caffaro ai posteri. Nel 1152, ne lesse alcuni passi davanti al consiglio e ai consoli del Comune, che diedero allora ordine a un pubblico scrivano di trascriverli e conservarli tra i documenti ufficiali. È cosí che il testo scritto da Caffaro diventò la cronaca ufficiale del Comune di Genova, che affidò la prosecuzione del libro a notai della cancelleria. Caffaro è anche l’autore di due altre brevi cronache, dedicate l’una alla conquista del castello di Margat, in Siria (1140), l’altra a quella di Almeria e Tortosa (1147-48).
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Il regime podestarile
Primo compito del podestà assunto da Genova sarà dunque porre un freno a queste violenze e ristabilire l’ordine e la pace. Anche se lui stesso proviene dalle file della militia di una città dove si verificano fenomeni del tutto analoghi a quelli di Genova, il bresciano Manigoldo da Tedozzo decide di colpire il lignaggio che piú degli altri si è distinto per eccessi di violenza e disprezzo delle regole tradizionali. E lo fa ordinando la distruzione completa di una casa «costosissima», ci dicono gli Annali genovesi, appartenente al capo di questo lignaggio, Fulco di Castello. È probabile che si trattasse della piú bella fra le dimore comprese nel vasto tenimento che i membri del lignaggio occupavano nel cuore della città e che il podestà avesse voluto, con la demolizione di un edificio di tale valore, inferire un duro colpo al prestigio di tutto il lignaggio e non solo recare un danno materiale al suo capo.
Un gesto fortemente simbolico
Il podestà del resto non manca di sottolineare la portata simbolica del suo gesto ricorrendo a un complesso cerimoniale di stampo sia politico che militare: riunisce un «parlamentum maximum», quindi un’assemblea generale di tutti gli abitanti della città provvisti dei diritti politici e, davanti a questa massa di gente, indossa la corazza e tutti i suoi «ornamenta militaria», espressione che designa probabilmente, oltre alle armi da cavaliere, anche le insegne della nuova carica, e infine si reca, in grande
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In alto miniatura raffigurante gli Amidei che uccidono Buondelmonte nel 1215, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In basso miniatura raffigurante Cacciaguida che parla di Firenze a Dante e Beatrice, da un’edizione della Divina Commedia. XV sec. Firenze, Biblioteca Laurenziana.
pompa e accompagnato da altri milites, nella piazzaforte del lignaggio colpevole dove dà ordine di iniziare i lavori di demolizione. Oggi i capi di Stato o altre personalità sono chiamati a presiedere alle cerimonie di posa della prima pietra; in età comunale era piuttosto con la demolizione delle case che l’uomo forte della città cercava di ostentare la sua autorità: altri tempi, altri costumi! I consoli di Genova disponevano in teoria di tutti i poteri necessari per prendere nei confronti di Fulco di Castello la decisione che è stata poi assunta dal podestà venuto da Brescia. Ma, immischiati come erano loro stessi nelle lotte di fazione, non ne avevano la volontà né forse il coraggio. La stessa situazione si ritrova in molte altre città, dove le cronache locali, quando vogliono fare l’elogio di un podestà, mettono quasi sempre l’accento sulla sua capacità di sedare i conflitti interni e incutere timore ai facinorosi, a quelli che oltrepassano i limiti della violenza consentita per recare danni all’insieme
della popolazione. Non è un caso, del resto, se in numerosi Comuni la decisione di far ricorso a un podestà forestiero viene presa sotto la pressione di categorie sociali che non partecipano in prima persona al governo consolare e non si riconoscono, perlomeno non totalmente, nel sistema di valori della militia. Ed è quanto accadde, per esempio, a Vicenza nel 1206. A quella data l’istituzione podestarile era tutt’altro che una novità per i Vicentini
LE ORIGINI DI UNA RIVALITÀ EPOCALE «Come si cominciò parte guelfa e ghibellina in Firenze»: cosí recita il titolo del paragrafo forse piú famoso di tutta la grande cronaca fiorentina di Giovanni Villani, quello che racconta il fatto di sangue avvenuto a Firenze nel 1216, da cui avrebbe avuto origine, secondo Villani e poi tutti gli storici, la formazione in città delle fazioni guelfa e ghibellina. Dell’episodio in questione si è già detto: è il classico esempio di una vendetta compiuta, da parte di un lignaggio offeso, nel pieno rispetto delle regole in vigore nella nobiltà cittadina, contro un intemperante cavaliere, nella fattispecie Buondelmonte dei Buondelmonti, colpevole non tanto di aver preferito un’altra donna alla sua promessa sposa quanto di non aver offerto un giusto compenso agli Amidei. Vero è che entrambi i lignaggi, Amidei e Buondelmonti, erano inseriti in un sistema di alleanze che comprendeva alcune delle piú potenti famiglie cittadine e l’episodio, quindi, non poteva passare inosservato ai contemporanei. Ma questi due sistemi erano ancora ben lontani, a quella data, dall’inglobare la totalità dei lignaggi della nobiltà: bisognerà aspettare lo scatenarsi del grande conflitto tra Papato e Impero, ossia la fine degli anni Trenta, perché si verifichi nella città del giglio una definitiva spaccatura all’interno della nobiltà, con la formazione di due fazioni che qualche anno dopo verranno chiamate guelfa e ghibellina.
Ancora una miniatura dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani raffigurante i guelfi che rifiutano ai ghibellini il rientro a Firenze. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
che, anzi, erano abituati ad avere due podestà in luogo di uno solo. Anomalia che si spiega con il fatto che qui, come in altre città della Marca di Treviso – come veniva allora chiamato il Veneto –, dalla fine del XII secolo esistevano soltanto due grandi sistemi di alleanza all’interno della nobiltà; volenti o nolenti, tutti i milites avevano finito per aderire all’una o all’altra di queste due fazioni, ognuna delle quali cercava, a seconda dei momenti, o di L’ITALIA DEI COMUNI
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Il regime podestarile LA SCELTA DEL POETA
In alto Firenze. Uno scorcio della via Por S. Maria, con, sulla sinistra, la torre degli Amidei. Nella pagina accanto Poppi (Arezzo). Una veduta del monumento a Dante con, sullo sfondo, il castello Guidi.
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escludere la rivale dal governo o di accordarsi con essa per spartirsi le cariche e le risorse comunali, nominando a tal fine due podestà, uno per ciascuna delle due fazioni. Di fatto, nel 1206 i due podestà di Vicenza erano esponenti delle due fazioni nemiche, il conte Guido da una parte e Corrado da Vivaro dall’altra.
Un Milanese di polso
I due capifazione, però, si rivelarono ben presto inadatti alla gestione collegiale del potere e già si stavano preparando, insieme ai loro seguaci, a una ripresa della lotta armata quando fece irruzione sulla scena politica un nuovo protagonista, nella persona dei populares, che invasero il palazzo comunale, imponendo la nomina di un podestà forestiero di grande prestigio: nientemeno che il milanese Guglielmo da Pusterla, che aveva già ricoperto otto volte tale carica nelle piú importanti città dell’Italia del Nord ed era famoso per saper imporre il rispetto delle leggi comunali, in particolare in campo giudiziario. Il Milanese si
Era o non era nobile? Sulla questione della nobiltà di Dante Alighieri, dantisti e altri eruditi hanno sprecato fiumi d’inchiostro quasi tutti viziati dal fatto che partivano da un’erronea concezione di ciò che poteva essere la nobiltà all’epoca di Dante. Chi vuole discutere di questo problema deve quindi cominciare con il precisare cosa si intende per essere nobile al tempo di Dante, cioè nell’Italia dei Comuni. Una cosa oggi è sicura: la nobiltà, come stato giuridico di una determinata categoria di individui che godono a questo titolo di determinati privilegi, non esiste nell’Italia comunale. Esistono invece varie categorie di famiglie considerate come piú o meno nobili perché godono da piú generazioni di una posizione di netta preminenza. È il caso in primo luogo delle casate che hanno ricevuto dall’imperatore, in tempi lontani, un ufficio di conte, di marchese, ecc., e che continuano, in epoca comunale, a fregiarsi di questo titolo anche se hanno dovuto rinunciare all’esercizio effettivo di quella carica pubblica. È anche il caso di tutti i «potenti», come dicono le fonti, che sono riusciti, in un modo o nell’altro, a diventare signori di uno o piú castelli. E infine, ed è sicuramente il caso piú frequente, tutte quelle famiglie di milites cittadini che da almeno due o tre generazioni mantengono un costoso cavallo da guerra e sono capaci di montarlo per combattere al servizio del Comune di residenza. Tale è, precisamente, il tipo di nobiltà che Dante rivendica per il suo trisavolo Cacciaguida e quindi per la propria famiglia. A torto o a ragione? Non ci sono, nelle fonti fiorentine, riscontri che consentono di dare una risposta, ma è significativo che Dante, che sapeva perfettamente distinguere tra le varie categorie di nobili, abbia scelto quella piú consona alle proprie tradizioni familiari.
mostrò una volta di piú all’altezza della situazione. Non solo riportò l’ordine all’interno della città ma dopo poco il Comune vicentino si sentí addirittura in grado di provare a riportare la pace tra le fazioni di Verona; il tentativo fallí, ma è comunque significativo della compattezza raggiunta dalla compagine comunale sotto il governo del suo podestà. Il caso di Vicenza non ha tuttavia niente di eccezionale. Anzi si può dire che anche laddove il passaggio dal vecchio regime consolare alla nuova forma di governo avvenne senza esplici-
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Il regime podestarile NEL SEGNO DEL BIPOLARISMO Anche se l’origine delle parole «guelfi» e «ghibellini» risale alle lotte che oppongono, a partire dal XII secolo, due lignaggi tedeschi per il possesso della corona imperiale, in Italia tali termini vengono usati solo a partire dalla fine degli anni Quaranta del XIII secolo per designare le due fazioni che, in numerosi Comuni, si contendono il controllo del potere con l’appoggio del Papato o dell’Impero. Del resto, la formazione stessa di due soli partiti all’interno di un determinato Comune non è anteriore a quella data. Unica eccezione: le città della Marca trevigiana e di alcune zone limitrofe, dove già nell’ultimo decennio del XII secolo l’intera nobiltà appare divisa in due fazioni ben organizzate e collegate tra loro. Il caso piú noto è ovviamente quello di Verona, dove la fazione «del conte» prende il nome dalla famiglia dei conti di San Bonifacio e quella dei Monticoli dalla famiglia omonima. Ma lo stesso fenomeno si verifica a Vicenza, a Ferrara, a Treviso, a Mantova e tra fazioni di città diverse si tessono legami che portano alla formazione, intorno al 1200, di due sistemi di alleanza di dimensione regionale capeggiati da una parte dai Monticoli di Verona, dai da Vivaro di Vicenza e dai Salinguerra di Ferrara, dall’altra dai San Bonifacio di Verona, dalla famiglia comitale di Vicenza e dagli Este di Ferrara. All’inizio, i da Romano, famiglia signorile radicata nel territorio di Bassano, occupano una posizione piuttosto defilata all’interno del primo dei due sistemi. L’influenza della casata crescerà con Ezzelino II († 1235) e piú ancora con Ezzelino III (1194-1259), che utilizzerà questa rete di alleanze come trampolino per realizzare, partendo da Verona, la prima grande Signoria sovracittadina dell’epoca.
te richieste dei ceti popolari, i podestà furono dappertutto messi di fronte alle esigenze di nuove categorie sociali impazienti di partecipare alla gestione degli affari pubblici. Direi ancora di piú: il successo del nuovo sistema di governo, che nel corso dei primi decenni del XIII secolo fu progressivamente adottato dalla totalità delle città di una certa importanza, fu dovuto in gran parte alla sua capacità di risolvere un simile problema, anche perché i Comuni scelsero di preferenza per questo incarico delle personalità che avevano dato prova della loro attitudine a negoziare compromessi accettabili dalle due parti, la nobiltà e il Popolo. Ovvero, piú in generale, ad assicurare il buon funzionamento di un sistema le cui regole erano molto diverse da quelle in vigore nel precedente regime consolare. Queste regole rimarranno in vigore piú o meno fino alla fine del regime comunale, ma ora soffermiamoci sulle rivendicazioni del Popolo e sull’azione dei podestà riformatori. Già negli ultimi anni del XII secolo, prima an44
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In alto una pagina miniata degli Statuti di Treviso. 1231-33. Treviso, Biblioteca comunale.
Prima dell’avvento del podestà, nei consigli del Comune non era raro trovare ricchi negozianti o cambiavalute e, talvolta, anche qualche notaio o artigiano
A destra frammento di affresco con scena di battaglia, forse pertinente alla decorazione della Loggia dei Cavalieri di Treviso. Treviso, Musei civici. Sulle due pagine Treviso. Scorcio del Palazzo del Podestà. XIII sec.
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Il regime podestarile
A destra Milano, Palazzo della Ragione. Una veduta del monumento equestre al podestà Oldrado da Tresseno. Marmo. 1233. In basso Perugia. Particolare del Portale Maggiore del Palazzo dei Priori. XIV sec.
cora dell’arrivo del podestà forestiero, non è raro ravvisare, tra i membri dei consigli del Comune, la presenza di qualche ricco negoziante o cambiavalute, talvolta anche di qualche notaio o artigiano. Sarebbe quindi eccessivo parlare di una totale chiusura del regime consolare nei confronti di quelle categorie socio-professionali che sono le principali artefici ma anche le grandi beneficiarie del fortissimo incremento delle attività commerciali, bancarie e artigianali che caratterizza, soprattutto nelle città del Centro-Nord, l’economia italiana di quel periodo. Tali categorie rimangono, però, totalmente escluse dalle piú alte cariche comunali, a cominciare da quelle consolari che proprio in quell’arco di tempo diventano appannaggio esclusivo di un ristrettissimo numero di potenti lignaggi militari. Alcuni di questi uomini nuovi giocano la carta dell’assimilazione alla nobiltà: comprano un cavallo da guerra, 46
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partecipano agli esercizi militari accanto ai membri delle vecchie famiglie, offrono le loro figlie provviste di ricche doti a giovani rampolli di casate squattrinate e riescono in questo modo a farsi ammettere nelle fila della militia anche se, a dire la verità, le loro chances di accedere al consolato sono, alla fine del XII secolo, quasi inesistenti. Ma non tutti i nuovi ricchi hanno voglia di seguire questa strada e d’altra parte la vecchia nobiltà si mostra sempre meno disposta, con il passare del tempo, a dividere i suoi privilegi tradizionali con un numero crescente di aventi diritto.
Un confronto sempre piú duro
Il risultato è che si assiste, un po’ dappertutto, alla formazione di un movimento popolare determinato a rimettere in causa tanto i vari vantaggi riconosciuti alla nobiltà quanto la sua supremazia politica all’interno del Comune. A seconda delle città, la stagione dei grandi scontri tra nobiltà e Popolo durerà piú o meno a lungo e darà luogo a conflitti piú o meno violenti. Attriti seri tra le due parti della popolazione sono già percettibili alla fine del XII secolo. A partire dal Duecento il confronto si fa molto piú duro. Si passa dagli alterchi e tafferugli a veri e propri combattimenti di strada, nei quali i milites, a dispetto della loro evidente superio-
UN SISTEMA DI SUCCESSO Regimen Latinorum, il sistema politico degli Italiani: cosí un frate francescano della prima metà del XIII secolo, Tommaso da Spalato (oggi Split, in Croazia), definisce il regime comunale dominato dalla figura del podestà. Ed è questo regime che consiglia ai suoi concittadini, ossia agli abitanti di Spalato, per porre fine all’anarchia che regna nella loro città. Siamo intorno al 1230, Tommaso è vescovo di Spalato e la città è dilaniata dai conflitti che oppongono i principali lignaggi. Una situazione, quindi, non molto diversa da quella che esisteva in tanti centri italiani alla fine del XII secolo e Tommaso, che ben conosce il regime politico in vigore nelle città comunali per aver soggiornato a Bologna, propone ai suoi concittadini di importare il sistema sperimentato in Italia. Gli abitanti di Spalato si lasciano convincere e decidono di chiamare un podestà forestiero. Detto fatto, due ambasciatori partono per Ancona e, dopo lunghe consultazioni, ritornano in patria accompagnati da un podestà che si dimostrerà effettivamente in grado di riportare l’ordine in città. A Spalato, l’innesto del regimen Latinorum ha funzionato.
rappresenta in realtà la prima grande vittoria del Popolo sulla nobiltà. Perugia non è certo l’unica città nella quale ci sia voluto l’intervento di un’autorità superiore, nella fattispecie il Papato, per raggiungere un compromesso tra le opposte esigenze delle due parti. Oltre il Papato, anche l’imperatore è stato tentato di intervenire nei conflitti tra Popolo e nobiltà e non se ne è astenuto, anche se con esiti non sempre soddisfacenti. In altri casi, potevano essere le parti stesse a sollecitare l’arbitraggio di una o piú persone esterne alla città, come per esempio il vescovo o il podestà di un Comune vicino. Ma che fosse ottenuto con o senza l’intervento di un’autorità superiore o esterna alla città, ogni compromesso era comunque immediatamente seguito dalla nomina di un podestà forestiero cui era affidata la responsabilità di garantire la sua
rità militare, non sempre hanno la meglio sui popolari, fortemente motivati e inquadrati in associazioni di quartiere che, nell’occasione, offrono la prova delle loro capacità organizzative. Può capitare che, sentendosi in situazione di inferiorità, i milites decidano di abbandonare la città e di ritirarsi nel contado soprattutto quando possiedono castelli in cui possono acquartierarsi senza timore di venire sloggiati. A una ventina di chilometri a sud di Brescia, Leno offre, per esempio, ai milites di quella città un rifugio potentemente fortificato e situato su un asse commerciale di primaria importanza.
Per tre anni in esilio
I cavalieri di Piacenza non avevano che l’imbarazzo della scelta: in un raggio di 10-20 chilometri a sud della città, disponevano di parecchi castelli, come Podenzano e Rivergaro, dai quali era facile organizzare spedizioni contro la città e controllare gran parte del territorio. Quando i milites fuoriusciti non possiedono castelli, possono sempre sollecitare l’ospitalità di città vicine, le quali però non di rado esigono contropartite in cambio dell’aiuto, come accade per esempio nel 1223 quando i milites di Perugia ottengono l’appoggio e l’ospitalità di Assisi e di Città di Castello: i trattati conclusi in quell’occasione prevedono che le due città ospitanti siano liberate dai loro obblighi verso Perugia non appena i milites esiliati avranno ripreso il potere al Popolo. L’esilio dei milites perugini durerà piú di tre anni e non avrà fine che dopo un diretto intervento del Papato, il quale, nella persona di Gregorio IX, imporrà alle due parti un compromesso che
Firenze. Uno scorcio del cortile del Palazzo del Bargello, costruito a partire dal 1255, per ospitare il podestà.
applicazione e il rispetto delle due parti. Compito di estrema delicatezza, era di solito riservato a pochi candidati che dovevano possedere la duplice caratteristica, non comune, di appartenere alle sfere piú alte della nobiltà cittadina pur avendo una spiccata attitudine al dialogo con le due parti. L’ITALIA DEI COMUNI
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Cittadini alla
riscossa
di Jean-Claude Maire Vigueur
Nella prima metà del Duecento, le classi subalterne, stanche dei privilegi degli aristocratici, si organizzano in associazioni professionali, dando luogo a un nuovo soggetto politico: il Popolo. Il cui peso cresce rapidamente e si fa determinante in seno agli organi assembleari del Comune
O
rvieto, 1° ottobre 1232, seduta plenaria del Maggior Consiglio riunito, come al solito, al suono della campana nella grande sala del Palazzo Comunale. Il momento è grave ed è piú che probabile che siano presenti tutti i trecento membri che fanno parte del massimo organo collegiale del Comune. Devono infatti dare una risposta a un legato pontificio, Gottifredo dei Prefetti, incaricato dal papa di riportare la pace tra Siena e Orvieto, impegnate da due anni in una guerra che coinvolge anche Firenze. La risposta viene data per bocca del podestà ma non corrisponde alle attese del legato pontificio, che tenta allora di scavalcare il magistrato e il consiglio del Comune. Siccome, dice Gottifredo, la lettera del papa – ossia il documento che espone le esigenze del pontefice nei confronti dei tre belligeranti – è indirizzata «al podestà, al consiglio e al popolo della città di Orvieto», lui pretende che tale missiva sia letta a tutto il popolo e che sia il popolo a comunicargli la sua risposta. Al che il podestà risponde, con una frase che riecheggia, ma con cinque secoli di anticipo, la celebre risposta di Mirabeau all’ufficiale inviato dal re per sciogliere la prima assemblea rivoluzionaria francese: «Non è necessario, perché il Consiglio qui riunito governa a nome di tutto il Popolo; comprende infatti sia il Piccolo che il Grande Consiglio; qui sono riuniti i capi delle Arti e i responsabili dei quartieri: è da loro che è governata
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Nella pagina accanto miniatura raffigurante il mercante di stoffe di piazza Ravegnana a Bologna, dalla Matricola della Società dei drappieri. XV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.
la città e tutto ciò che loro decidono ha valore di legge e tutto ciò che avete detto a noi, lo avete detto a tutto il Popolo e ciò che vi rispondiamo, lo rispondiamo a nome di tutto il Popolo». Splendida frase, che per il lettore di oggi risuona un po’ come un proclama rivoluzionario in favore della sovranità popolare! In realtà la situazione è piú complessa e ben rispecchia i cambiamenti intervenuti nel regime comunale nei primi decenni del Duecento. Tipico rappresentante della curia romana e della sua mentalità conservatrice, il legato pontificio attribuisce ancora al termine «populus» il senso che gli veniva dato presso i Comuni e le cancellerie imperiale e pontificia, nel corso del XII secolo: populus designava allora l’insieme della popolazione cittadina, o almeno quella parte dei cittadini che aderiva al sistema politico comunale. Di fatto, nelle fonti latine del XII secolo, il termine populus aveva un significato uguale a quello di commune o di civitas. Ma nel 1232 le cose sono cambiate e il podestà di Orvieto, un Abati di Firenze dotato di una buona esperienza politica, gioca abilmente sui due significati della parola: per soddisfare le pretese del legato, gli risponde che il Grande Consiglio rappresenta l’insieme della popolazione, quindi il popolo nel vecchio senso della parola, ma per tener conto dei rapporti di forza all’interno del Consiglio ci tiene a precisare che ormai sono i ceti popolari, il Popolo nel nuovo senso della
VIVERE DA SIGNORI
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parola, che detengono il potere e lo esercitano tramite i loro rappresentanti all’interno del Consiglio, ossia i capi delle Arti e dei Quartieri. Si è dunque verificata a Orvieto, tra la fine del XII secolo e i primi decenni del XIII, un’evoluzione analoga a quella della maggior parte delle città italiane: nuovi soggetti si sono affacciati alla vita politica e, intorno al 1230, sono già riusciti, almeno in un certo numero di città, a privare i milites della loro vecchia supremazia politica all’interno del Comune. Non occorre soffermarsi a lungo sull’identità di questi nuovi soggetti. Si tratta soprattutto di nuovi ricchi che non hanno alcuna voglia di fondersi nella militia e intendono portare avanti, senza perdere tempo con spedizioni e divertimenti tipici dello stile di vita militare, le attività commerciali, finanziarie e artigianali che li hanno arricchiti e grazie alle quali l’Italia dei Comuni si va affermando proprio allora come la prima potenza economica del mondo occidentale. Ma ne fanno parte anche persone di rango piú modesto, piccoli possidenti agricoli, semplici artigiani, gente del Popolo insomma che non sopporta piú l’arroganza dei milites e intende porre fine ai disordini causati dalle rivalità interne alla nobiltà. Tali aspirazioni sono all’origine degli scontri, talvolta molto duri, che in numerose città segnano i rapporti tra nobiltà e Popolo all’inizio del XIII secolo.
Una doppia rappresentanza
Di questi conflitti si è già parlato e non è il caso di aggiungere altro, anche perché ogni città presenta, da questo punto di vista, peculiarità troppo complesse da esaminare in questa sede. Rimane sospesa invece una questione di primaria importanza e sulla quale è meno azzardato avanzare considerazioni di portata generale: alludo alle forme di organizzazione del Popolo, alle sue strutture di inquadramento. La risposta del podestà d’Orvieto a Goffredo dei Prefetti contiene su questo punto un’indicazione densa di significato: il Popolo, inteso nel nuovo senso del termine e quindi come espressione politica dei ceti popolari, gode in seno al consiglio di una doppia rappresentanza o, meglio, di una doppia leadership: quella dei capi delle Arti (officialium artium) e quella dei responsabili dei quartieri (anteregiones). Non penso che la prima richieda molte spiegazioni. I manuali ci hanno infatti abituati a vedere nei mercanti e negli artigiani la principale componente del Popolo e nelle associazioni di mestiere il loro normale canale di partecipazione alla vita politica. E non c’è dubbio che le corpora50
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La gente del Popolo non sopportava piú l’arroganza dei milites e volle porre fine ai disordini causati dalle rivalità interne alla nobiltà
Orvieto. Veduta del Palazzo del Popolo. XIII-XIV sec.
CIVILTÀ COMUNALE
I regimi popolari
zioni rappresentino alla fine del XIII secolo il pilastro dei regimi popolari, laddove la borghesia d’affari e gli artigiani piú prosperi sono ancora saldamente aggrappati al potere. A Firenze prima di tutto, ma anche in molte altre città dell’Italia centrale e spesso anche nei Comuni dell’Italia padana, perlomeno in quelli non ancora passati sotto il nuovo regime della Signoria cittadina. Diversa però è la situazione nella prima metà del XIII secolo. È vero che sono spesso i capi dei mestieri economicamente piú dinamici, negozianti e cambiavalute in particolare, a entrare per primi nei consigli e quindi a far sentire la voce del Popolo all’interno degli organi del Comune. Ma sono rapidamente raggiunti da altri rappresentanti del Popolo che possono essere o eletti nel quadro dei quartieri, come pare essere il caso di Orvieto, o designati dalle numerose «società» popolari, la cui proliferazione costituisce uno dei fenomeni piú caratteristici della vita comunale nella prima metà del XIII secolo.
Quartieri e parrocchie
Attenzione però a non confondere le due cose, anche se non sempre le fonti a nostra disposizione consentono di fare le dovute distinzioni! Per quartiere bisogna intendere qui la piú piccola circoscrizione esistente all’interno della città. Il piú delle volte corrisponde al territorio di una parrocchia, anche se non mancano i Comuni che hanno tentato di sganciare la loro geografia amministrativa da quella della Chiesa. Che coincidano o meno con il territorio delle parrocchie, queste piccole realtà territoriali raggruppano comunque un numero limitato di cittadini, tutti vicini – da cui il termine di «vicinia» talvolta utilizzato dalle fonti –, e chiamati a riunirsi periodicamente per prendere decisioni che hanno a che vedere con gli interessi della piccola collettività: riguardano per esempio la gestione dei beni attribuiti dal Comune alla vicinia, i turni di guardia da fare sulle mura della città, la ripartizione delle tasse da versare all’erario comunale nonché l’esercizio di varie prerogative come appunto la nomina di uno o piú rappresentanti all’interno dei consigli comunali. Certo è che le grandi famiglie che risiedono sul territorio della vicinia hanno come le altre diritto alla parola e non mancano di far sentire la loro influenza per orientare le decisioni dell’assemblea. Non dimentichiamo però che intere zone della città, a cominciare dai sobborghi di piú recente urbanizzazione, non contano che un numero ridottissimo di grandi famiglie, alle cui pressioni i popolari dovevano essere in grado di resistere. 52
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In ogni caso sappiamo che queste piccole comunità di quartiere servirono da palestra ai popolari, costringendoli a organizzarsi pur di non subire le prevaricazioni della militia e offrendo loro l’occasione di sperimentare le forme piú elementari di democrazia. Con le società popolari, ci troviamo in presenza di una realtà molto diversa. Anch’esse possono
Firenze, Loggia del Bigallo. Particolare della Madonna della Misericordia, affresco della bottega di Bernardo Daddi, raffigurante la piú antica veduta di Firenze. 1352.
avere una base territoriale e quindi raggruppare gli abitanti di una determinata area del territorio cittadino. Ma la residenza non è mai una condizione vincolante, mentre tutti i membri della società s’impegnano sotto giuramento ad appoggiare le rivendicazioni del Popolo e a sostenere con ogni mezzo l’azione dei suoi rappresentanti all’interno del Comune.
A tali obblighi si aggiunge spesso quello di accorrere in armi all’appello dei capi della società, che funge quindi da milizia popolare di fronte ai cavalieri della nobiltà nei momenti piú caldi del conflitto tra Popolo e militia. Ma anche se in alcune città, come a Bologna, la vocazione militare delle società popolari finirà per prevalere (almeno nella visione di certi L’ITALIA DEI COMUNI
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I regimi popolari
storici!) sulle altre componenti della loro identità, esse si presentano sempre, almeno nella fase ascendente della loro esistenza, essenzialmente come organismi portatori di un programma politico, viene da dire come veri partiti politici, dotati di una piú o meno vasta base territoriale. Questa è la ragione, del resto, per la quale il loro numero varia molto da una città all’altra: ce ne sono alcune decine, per esempio, a Bologna a metà del XIII secolo, una sola nel 1210 a Cremona (dove la Societas Populi estende il suo raggio d’azione all’intera città nuova, collocata sulla riva destra del fiume che divide in due l’abitato, ma a un solo rione della città vecchia, dove dettano legge i milites), quattro ad Asti negli anni 1270, ossia due per i borghi e due per il centro città, mentre a Vercelli le due principali società, di Sant’Eusebio e di Santo Stefano, sono circondate da una costellazione di associazioni minori, di piú ristretta base locale, come la società dei Cani, la società dei Grifi, la società delle Aquile di San Lorenzo, la società di Santa Maria. Arti, vicinie e soprattutto società popolari, ecco dunque le principali strutture organizzative dei ceti popolari, gli strumenti grazie ai quali, con modalità molto diverse, il Popolo riesce a imporsi, verso la metà del XIII secolo, come la prima forza politica nelle principali assemblee del Comune. Occorre, tuttavia, tener presente che prima ancora di conquistare la maggioran54
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In alto, a sinistra Firenze, Palagio di parte guelfa. Particolare del soffitto della sala delle Udienze recante le insegne civiche, della Chiesa e dei Quartieri fiorentini. A destra particolare di una miniatura raffigurante un mercante. XIV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
In alto stemma in terracotta invetriata dell’Arte della Lana, attribuito a Luca della Robbia. XV sec. A destra Firenze. Scorcio del palazzo che, dal 1308, fu sede dell’Arte della Lana.
DALLA COESIONE INIZIALE ALLE RIVOLTE DI PIAZZA Dalle prime apparizioni sulla scena comunale, il Popolo si presenta come l’espressione politica di categorie sociali molto eterogenee. Riesce a mantenere la sua coesione, finché deve combattere contro l’egemonia della nobiltà, ma non potrà evitare, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, il moltiplicarsi degli screzi e dei conflitti tra le sue diverse componenti. Nella lunga durata la borghesia d’affari, cioè quella parte della popolazione che viene chiamata Popolo Grasso nelle fonti dell’epoca, riuscirà quasi sempre ad accaparrare il potere, grazie a meccanismi elettorali che riservano ai membri delle Arti Maggiori – a Firenze: Calimala, Por Santa Maria, Cambio, Lana, Merciai, Speziali e Pellicciai – l’accesso alle principali cariche comunali. Ciò non toglie che ci furono frequenti tentativi, talvolta violenti, da parte delle Arti Minori e del Popolo Minuto per strappare il potere dalle grinfie della grande borghesia. Il piú noto è senz’altro il Tumulto dei Ciompi, che grazie a una coalizione tra Arti Minori e lavoratori salariati dell’Arte della Lana, i Ciompi appunto, ottenne nel 1378 importanti riforme del sistema politico fiorentino. Tra tradimenti e dura reazione del Popolo Grasso, quella stagione rivoluzionaria non durò piú di tre mesi. Anche Perugia fu a piú riprese, nel corso degli anni Sessanta e Settanta del XIV secolo, il teatro di brutali esplosioni di violenza da parte dei lavoratori della Lana; quella piccola gente, tuttavia, stipata nel borgo popolare di Sant’Angelo, non fu mai capace di formulare specifiche rivendicazioni politiche e pare sia stata sempre manipolata dai nobili, ostili a un potere saldamente nelle mani del Popolo Grasso.
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za dei seggi all’interno di questi organismi consiliari, il Popolo ne ha cambiato il funzionamento, imponendo alla nobiltà il rispetto di regole che sono poi quelle che piú o meno caratterizzano la vita politica delle nostre moderne democrazie. I due schieramenti si confrontano ormai sulla base di un ordine del giorno ben preciso, fissato dal podestà in virtú di scadenze imposte dagli Statuti del Comune, devono difendere le loro rivendicazioni o prese di posizione con argomenti convincenti e suscettibili di ottenere la maggioranza dei votanti e non possono piú contare, per imporre il loro punto di vista, sulle forme di prevaricazione tollerate dal precedente regime consolare.
Un cambiamento radicale
Inutile dire che ci volle dappertutto un lungo periodo di rodaggio, segnato da non pochi urti e scontri, prima che il nuovo sistema prendesse a funzionare in modo soddisfacente per i due schieramenti. Possiamo però considerare che è cosa fatta alla metà del XIII secolo, data alla quale il Popolo compie un ulteriore passo in avanti, con la creazione di nuove istituzioni che segnano un cambiamento radicale nella natura del sistema politico comunale, finora dominato dalla figura del podestà. Diretto concorrente del podestà, il capitano del Popolo fa la sua apparizione in numerose città a partire dal 1250, anche se alcuni Comuni si erano già dotati in precedenza di un magistrato, come il balivo del Popolo a Viterbo, attestato dagli Statuti del 1237-38, che esercita prerogative analoghe a quelle dei futuri capitani. Sul modello del podestà, il capitano è un magistrato forestiero e presenta un profilo sociale non molto diverso da quello del podestà, anche se la maggior parte di loro proviene ormai
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dall’Emilia e dall’Italia centrale, ossia dalle due aree dove i regimi popolari hanno avuto gli sviluppi piú brillanti. La nuova magistratura non priva il podestà delle sue principali mansioni amministrative, ma esercita una puntigliosa tutela delle sue prerogative politiche e si erge a difensore non solo degli interessi del Popolo in generale ma anche dei diritti dei singoli popolari qualora si ritengano danneggiati, per esempio nel campo giudiziario, da qualche decisione del podestà o dei suoi tribunali. Al
In alto Cortona, il Palazzo Comunale. XII sec. In basso Siena. Veduta della Torre del Mangia e della loggia del Palazzo Pubblico, ripresa dalla Piazza del Mercato. XIII-XIV sec.
capitano del Popolo verranno poi ad affiancarsi, in funzione della piú o meno forte radicalizzazione del movimento popolare, altri magistrati, anch’essi forestieri, i cui titoli – giudice «esgravatore», giudice della giustizia, ecc. – alludono appunto alla natura prevalentemente giudiziaria dei loro compiti. Il Popolo tuttavia conserverà sempre una certa diffidenza nei confronti dei suoi magistrati forestieri, come se li sospettasse di voler allac-
ciare segrete connivenze con la nobiltà locale. D’altra parte anche se il Popolo dispone dalla metà del XIII secolo di propri organi deliberanti, sotto forma di uno o piú consigli, si avverte nondimeno il bisogno di un’istituzione in grado di assicurare un piú stretto legame tra il partito popolare e i suoi magistrati, di un organismo suscettibile di far passare nell’azione del governo la volontà politica espressa dagli organi deliberanti del Popolo.
Capolettera miniato dalla Mariegola dell’Arte della Lana raffigurante il momento della scelta del tessuto. XIV sec. Venezia, Biblioteca del Museo Correr.
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I regimi popolari
In questa pagina le insegne di tre sestieri di Firenze, scolpite sul loggiato del Palazzo del Podestà. Qui accanto, San Pancrazio; a destra, Oltrarno; in basso, Borgo Santi Apostoli. XIII sec. Nella pagina accanto Perugia. Veduta del Palazzo del Capitano del Popolo. 1473-1481.
LE FORME DI UN’IDEOLOGIA
A tale scopo Perugia si doterà tra il 1257 e il 1259 di un priore e di un collegio degli Anziani, mentre nel 1266 saranno i consoli dell’Arte piú potente, quella della Mercanzia, a svolgere lo stesso ruolo. La presenza dei capi delle Arti diventa regolare negli anni successivi, quando si costituisce un’istituzione collegiale composta di cinque membri: due provengono necessariamente dall’Arte dei Mercanti e dall’Arte del Cambio, e gli altri tre sono reclutati a turno tra le altre trenta e piú Arti. Con sfumature diverse, la maggior parte dei Comuni adotterà, nella seconda metà del XIII secolo, una soluzione analoga a quella di Perugia. Sotto nomi diversi – Priori, Consoli, Anziani, Governatori, Difensori e cosí via – e con un peso piú o meno marcato delle Arti piú potenti, la nuova istituzione assume un po’ dapper58
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Non ci sono monumenti che esaltino il prestigio e l’ideologia del nuovo regime meglio dei palazzi pubblici costruiti dai governi di Popolo a partire dalla metà del XIII secolo. Da un lato il nuovo regime intendeva marcare la sua differenza dalla precedente forma di governo, facendo costruire ex novo edifici chiamati a diventare la sede del capitano del Popolo, dall’altro i nuovi palazzi furono concepiti per esprimere – per dimensioni, disegno delle facciate, qualità dei materiali utilizzati, ricchezza della decorazione – l’eclatante superiorità del nuovo regime. Sono caratteristiche già percettibili, per esempio, a Firenze nel palazzo costruito nel 1255 – all’epoca del cosiddetto Primo Popolo – quale sede del capitano del Popolo e oggi noto come palazzo del Bargello. Ma si deve aspettare la fine del XIII secolo perché i governi popolari dispongano dei mezzi necessari alla realizzazione dei piú bei monumenti di questa stagione dell’architettura medievale: il Palazzo della Signoria (sede dei Priori) a Firenze, il Palazzo Pubblico a Siena, il Palazzo dei Priori a Perugia. Risorse economiche: sappiamo che la costruzione del Palazzo dei Priori ha impegnato per anni una cospicua parte delle risorse del Comune di Perugia. E, ancor di piú, risorse umane, poiché realizzare monumenti di tale complessità e raffinatezza richiedeva la partecipazione di numerosi specialisti di altissimo livello. Basterà dire che sui vari cantieri di Perugia si sono avvicendati o hanno lavorato in stretta collaborazione, nel giro di cinquant’anni, personalità del calibro di Arnolfo di Cambio, Nicola e Giovanni Pisano, Fra Bevignate, Ambrogio e Lorenzo Maitani.
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I regimi popolari tutto la fisionomia di un collegio ristretto di persone tutte appartenenti al mondo delle Arti, e nominate secondo meccanismi molto complicati, che mescolano l’elezione, il sorteggio e la designazione, per una durata generalmente non superiore ai due mesi. Salvo brevi periodi nei quali gli strati meno abbienti del Popolo, rappresentati dalle Arti Minori, riescono a imporre la loro supremazia, il sistema è congegnato in maniera da garantire alle Arti Maggiori, espressione della borghesia d’affari o Popolo Grasso, l’esercizio effettivo del potere. Tale caratteristica non farà del resto che accentuarsi nel corso del XIV secolo, perlomeno nelle città rimaste fedeli al regime comunale, come Firenze, Siena e Perugia, dove il potere diventerà sempre piú appannaggio esclusivo di un ristretto gruppo di ricchissime famiglie. Alla fine, il sistema in vigore in quelle città non avrà piú niente di popolare e, sotto le sembianze di un falso repubblicanesimo, funzionerà in realtà secondo le regole dei regimi oligarchici.
Abolire i privilegi
UN GRANDE CONOSCITORE DEI CLASSICI Gli abitanti dei Comuni italiani, o almeno la parte piú colta della popolazione cittadina, erano ben consapevoli dell’originalità del sistema politico vigente nelle loro città. E vi furono intellettuali che rifletterono sulla natura di questo sistema e sul migliore modo di farlo funzionare. Tale riflessione si concretizzò, a partire dagli anni Venti del XIII secolo, nella stesura di trattati che si sforzavano, tra l’altro, di teorizzare i requisiti necessari al buon funzionamento del regime podestarile e ai quali, per questo motivo, si è talvolta appiccicata l’etichetta di «letteratura podestarile». È una definizione assai restrittiva per l’ampiezza delle tematiche affrontate da un autore come Brunetto Latini, il notaio fiorentino protagonista di uno degli episodi piú interessanti dell’Inferno. Morto nel 1294 dopo aver passato quasi trent’anni al servizio del Comune di Firenze in veste di notaio-cancelliere, Brunetto Latini era uno dei piú grandi conoscitori della letteratura latina classica del suo tempo e attinse largamente alla riflessione degli autori antichi, a cominciare da Cicerone, per elaborare la propria visione del governo comunale, formulata all’interno di opere scritte in italiano, come la Retorica, o in francese, come il Trésor, vasta enciclopedia del sapere medievale il cui terzo libro è dedicato alla politica. Dante, che lo riconosce come suo maestro e gli manifesta rispetto e affetto, lo colloca tuttavia nel terzo girone del VII cerchio o a causa della sua immoralità (Brunetto aveva fama di sodomita), o forse a causa di piú complesse ragioni intellettuali.
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Il movimento popolare era nato in reazione allo strapotere e ai privilegi della nobiltà e le sue rivendicazioni, in un primo momento, mirarono a ottenere l’abolizione di questi privilegi e piú larghe possibilità di partecipare al governo del Comune. Intorno alla metà del XIII secolo, questa prima parte del programma è stata piú o meno realizzata e i popolari, ormai maggioritari negli organi del Comune, hanno la possibilità di attuare una politica conforme alle loro aspirazioni, alla loro visione della società e del mondo, verrebbe quasi da dire. È ovvio che tale visione non si esprime allora, come accade nella vita politica di oggi, attraverso la stesura di
programmi ampi e articolati, secondo i vari settori di intervento dell’autorità pubblica. Per quanto riguarda il funzionamento dell’apparato politico e amministrativo, ne troviamo una formulazione abbastanza precisa negli Statuti, alla cui redazione i regimi popolari danno un nuovo impulso, cercando di conferire ordine, coerenza e completezza alla miriade di norme in vigore. Sono ben lontani, tuttavia, dal coprire tutti i campi di azione dei poteri pubblici e comunque la maggior parte delle rubriche afferisce a una sfera, quella del diritto privato, sulla quale il nuovo regime incide relativamente poco. Sicché per avvicinarsi di piú al pensiero politico dei leaders popolari e ai principi sui quali intendevano fondare il loro sistema di governo, gli studiosi privilegiano oggi altre piste: per esempio le opere dei teorici del regime popolare, come il fiorentino Brunetto Latini, il maestro di Dante, oppure testi di forte carica ideologica, come il prologo del Liber Paradisus, un registro compilato a Bologna nel 1257, che contiene l’elenco nominativo di tutti i servi affrancati dal Comune. Ne viene fuori una concezione della politica che mette l’accento sull’educazione e la responsabilità individuale del cittadino, nonché un ideale di governo imperniato sulla ricerca del consenso e l’impiego sistematico della rappresentanza e della delega. Oltre al pensiero politico, però, ci sono i fatti o, se preferiamo, l’azione dei governi popolari, l’insieme dei provvedimenti che caratterizzano il loro operato in tutti i settori della vita pubblica e nei quali dovrebbe essere possibile cogliere perlomeno un certo riflesso degli obiettivi che intendevano raggiungere. È una strada che gli studiosi dell’età comunale, a cominciare dal grande Gaetano Salvemini – prima che l’impeIn alto miniatura raffigurante il mercato del grano. XV sec. Firenze, Biblioteca Laurenziana. Nella pagina accanto in alto miniatura raffigurante Dante a colloquio con Brunetto Latini. XIV-XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto in basso biccherna con la riscossione delle imposte. 1340. Siena, Archivio di Stato.
UN ESPERIMENTO POLITICO DI BREVE DURATA La grande stagione dei governi popolari non dura piú di cinquanta, massimo settant’anni. Tutte le città sono infatti destinate, nel corso della prima metà del XIV secolo, o a passare sotto il regime della Signoria cittadina, i cui primi esperimenti (Verona, Ferrara, Milano, Mantova, ecc.) risalgono alla seconda metà del XIII secolo, o a evolvere verso forme di governo sempre piú ristrette ed elitarie, di natura oligarchica quindi, che privano il Popolo di ogni reale possibilità di partecipare alla vita politica. Non è facile spiegare in poche righe i motivi del generale fallimento dei regimi di Popolo. Vi contribuiscono, certo, le lotte tra le fazioni guelfa e ghibellina, cui quasi tutti i governi popolari finiscono per aderire dopo aver tentato con ogni mezzo di ostacolare le manifestazioni del fenomeno fazioso. Ma la crisi di tale regime è anche conseguenza delle divisioni interne del Popolo, che non riesce, dopo i successi iniziali, a mantenere la sua coesione. Dopo vari tentativi di controllo del potere da parte del Popolo Minuto, le grandi famiglie del Popolo Grasso riusciranno, almeno nelle città rimaste fedeli alla forma repubblicana di governo, a monopolizzare le principali cariche comunali e a restringere sempre di piú la partecipazione delle classi popolari all’esercizio del potere.
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gno contro il fascismo lo allontanasse dagli studi sul mondo comunale –, non hanno mancato di imboccare ma quasi sempre nel quadro di ricerche monografiche, limitate cioè a una sola città, dalle quali è molto difficile ricavare conclusioni di carattere generale. D’altra parte bisogna anche riconoscere che in numerosi campi i governi popolari si sono trovati, a partire da una certa data, di fronte a problemi del tutto inaspettati e per i quali hanno dovuto improvvisare soluzioni di emergenza che hanno ben poco a che vedere con la loro linea po62
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litica. Ben lo si riscontra nel caso delle misure annonarie adottate da Comuni come Firenze e Perugia, dalla fine del XIII secolo in poi, per assicurare il fabbisogno cerealicolo delle loro popolazioni quando cattive raccolte portavano alle stelle il prezzo del grano. Lo stesso si può dire per i provvedimenti destinati a impedire o almeno a limitare l’arrivo in città di masse di contadini attirati, un po’ come gli extracomunitari di oggi, dalle condizioni di vita e di lavoro offerte dalla grande città, e la cui fuga dalle campagne provocava l’abbandono delle terre e
PER IL «BENE DI TUTTI» Salvo pochissime città, come Roma, che solo nell’epoca barocca assunse la fisionomia che tuttora caratterizza il suo paesaggio urbano, non c’è un solo periodo, nella storia delle città dell’Italia centro-settentrionale, che possa essere paragonato alla fase popolare dei regimi comunali per quanto riguarda l’importanza dei lavori pubblici e, piú in genere, il numero degli interventi volti a cambiare la fisionomia e le strutture materiali della città. Con tali operazioni, i governi di Popolo di certo intendevano incrementare il prestigio e la popolarità di un regime che ricavava dal consenso popolare la sua principale fonte di legittimità. In molti casi, però, erano anche sinceramente animati dalla volontà di rispondere a bisogni primari della popolazione o di offrire ai loro concittadini migliori condizioni di vita. Lo si vede bene nelle motivazioni con cui il Comune di Perugia giustifica, negli anni 1276-78, le varie operazioni che dovevano portare alla costruzione di un nuovo Palazzo Comunale – destinato a offrire una sede di prestigio alla magistratura popolare dei priori –, alla sistemazione della piazza del mercato e delle cinque grandi strade che dalle diverse zone del contado convergono su questa piazza, alla progettazione di un’imponente rete idrica che dal Montepaciano avrebbe fatto zampillare l’acqua nel cuore della città, grazie a una fontana monumentale decorata da due dei piú grandi artisti dell’epoca, Nicola e Giovanni Pisano. Agire per il «bene di tutti», perseguire la «pubblica utilità» sono del resto gli stessi motivi invocati dalle autorità di Orvieto, di Siena, di Spoleto, quando danno il via agli imponenti lavori grazie ai quali queste tre città verranno dotate, nel corso del Trecento, di reti di approvvigionamento e di distribuzione dell’acqua che rimarranno in servizio fino alla metà del XIX secolo.
Siena. La Fonte Branda, documentata dal 1081 e successivamente ricostruita nel 1246. La creazione di reti per la captazione e la distribuzione dell’acqua nel cuore delle città fu una preoccupazione prioritaria dei regimi comunali.
la crisi dell’agricoltura. Per non parlare poi della politica fiscale e militare, due settori cui il Popolo ha tentato, sí, di applicare riforme coerenti con i suoi interessi, ma nei quali si è trovato rapidamente sopraffatto dalla necessità di trovare a ogni costo nuove risorse – da cui la moltiplicazione delle tasse indirette – e nuove forze, da cui il ricorso a mercenari. Tutto nero allora il bilancio dei regimi popolari? Assolutamente no! Sono convinto che l’affermazione del Popolo abbia rappresentato, nella storia delle città italiane, una tappa fondamen-
tale della loro crescita in tutti campi, a cominciare da quello che ancora oggi è sotto gli occhi di tutti e costituisce la cornice della nostra vita quotidiana: le strade, le piazze, tanti complessi monumentali civici e religiosi, interi settori del patrimonio edilizio, opere d’arte di ogni genere, dalle fontane ai cicli di affreschi, dalle porte cittadine ai portici, all’arredo urbano e cosí via. Gran parte insomma di ciò che fa la bellezza delle città italiane, oltre alle tante infrastrutture oggi scomparse o cadute in disuso ma che hanno assicurato a questi centri, fino al pieno Ottocento, una qualità di vita impensabile nel resto dell’Europa: non solo le cinte murarie e altre opere di difesa ma anche acquedotti, pozzi e cisterne, le reti fognarie, il pavimento delle strade, i mercati, i lavatoi, gli ospedali, le attrezzature industriali di ogni tipo, i porti, l’arginatura dei fiumi, l’assestamento dei pendii e tante altre realizzazioni, tutte dovute all’intraprendenza di un sistema politico che giustifica ed esalta tutte le sue iniziative in questo campo con la volontà di ricercare il «bene commune» della popolazione. Al di là degli intenti propagandistici, non si può negare ai regimi di Popolo di avere in gran parte tenuto fede al loro programma. L’ITALIA DEI COMUNI
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Uniti
contro l’impero di Alessandro Barbero
La vicenda della Lega Lombarda e i profili dei suoi eroi hanno assunto, nel tempo, caratteri quasi leggendari. Ma quale fu la vera natura del fenomeno? E quali le sue origini? 64
L’ITALIA DEI COMUNI
La battaglia di Legnano, olio su tela di Amos Cassioli. 1860-1870. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti.
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La Lega Lombarda
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ell’autunno del 1154 il re di Germania, Federico Barbarossa, si affacciò per la prima volta al Brennero; invisibile in lontananza, oltre le rocce della Val d’Adige, si stendeva la pianura lombarda coperta di nebbia. Come tutti i suoi predecessori, il re doveva scendere in Italia per farsi incoronare sovrano di quel Regno, in quanto erede dei re longobardi, e poi affrontare il lungo viaggio fino a Roma, dove l’attendeva la cerimonia solenne dell’incoronazione imperiale. Solo allora, con la benedizione del papa, il suo vuoto titolo di re dei Romani si sarebbe trasformato in quello di imperatore, e in lui l’Europa cattolica avrebbe riconosciuto il legittimo successore di Augusto, di Costantino e di Carlo Magno. Il re Federico era giovane, allora; non poteva avere piú di trenta o trentuno anni, e sarebbe rimasto sul trono per altri quarantasei, prima di morire affogato in un fiume dell’Asia Minore, all’inizio della terza crociata. Era giovane, dunque, ma nient’affatto inesperto, e sapeva bene che quel viaggio in Italia era irto di difficoltà; e non solo perché la calura dell’estate, le vivande insolite, l’acqua cattiva e la malaria mietevano regolarmente molte vittime fra gli uomini del Nord, ogni volta che si avventuravano verso il Mezzogiorno. Il problema piú grave era politico; era la difficoltà di far accettare l’autorità imperiale a un popolo che al di là delle Alpi era considerato per tradizione infido e traditore, e che, per di piú, nell’ultimo mezzo secolo aveva conosciuto uno sviluppo profondamente diverso rispetto a quello delle terre tedesche. Lo zio del re, Ottone, vescovo di Frisinga, avrebbe piú tardi riassunto efficacemente i termini del problema, dettando a un segretario la cronaca delle imprese compiute dal nipote.
Una piana sterminata
La Lombardia, termine con il quale si designava allora tutta l’immensa pianura solcata dal Po, da Torino fino a Bologna, era una terra di città; ovunque, lungo le strade romane e i corsi d’acqua, il viaggiatore vedeva sorgere in lontananza le torri e i campanili dei centri urbani, qualcuno ancora rinserrato nella cerchia delle antiche mura romane, altri, ormai, di gran lunga troppo popolosi per non soffocarvi, e dunque ferventi di attività edilizia nei sobborghi fuori porta. E queste città non erano a molte 66
L’ITALIA DEI COMUNI
Federico Barbarossa sapeva bene che la discesa in Italia sarebbe stata irta di difficoltà giornate di marcia l’una dall’altra, separate da paludi e foreste impenetrabili, come avveniva in Germania, ma a poche ore appena di strada selciata, cosí come i Romani antichi le avevano edificate via via che colonizzavano l’Italia. Ma se si fosse trattato soltanto dell’onnipresen-
Sulle due pagine carta geografica della Pianura Padana disegnata da Giacomo Gastaldi. 1570. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. Nella pagina accanto acquerello di Albrecht Dürer raffigurante la corona del Sacro Romano Impero. XVI sec. In basso illustrazione ritraente l’imperatore Federico Barbarossa con il mantello e la corona imperiale.
da soli, a nominare giudici e magistrati, a riscuotere imposte e battere moneta; proclamando, beninteso, la propria illimitata devozione alla Corona imperiale, ma usurpandone, di fatto, tutte le prerogative.
Che siano autonome, purché fedeli
Usurpando, abbiamo detto; ma bisogna pur dire che per molti anni i predecessori del Barbarossa avevano chiuso un occhio. Assorbiti com’erano dalla fatica mai conclusa di tenere a bada i principi tedeschi, e di riaffermare il proprio ascendente universale sulla cristianità, contro le analoghe e concorrenti pretese dei papi, quegli imperatori avevano accettato di buon grado che le città lombarde si organizzassero come volevano. A loro, in fondo, bastava che quando scendevano in Italia per l’incoronazione romana le strade fossero sicure, i ponti riparati, i mercati pieni di vettovaglie; bastava che al loro passaggio le autorità
za delle città, pazienza; dopo tutto, un centro urbano voleva dire un vescovo, e i vescovi, di solito, rispettavano l’autorità dell’imperatore ed erano disposti a concedergli uomini e finanziamenti, quando ce n’era veramente bisogno. Il problema consisteva piuttosto nell’intraprendenza di quelle città e dei loro abitanti, che non erano soltanto mercanti e artigiani, pronti a inchinarsi davanti ai nobili, come avveniva in Germania, ma in parte erano nobili essi stessi, padroni di castelli e fortezze, muniti di armi e cavalli, e tuttavia, cosa inaudita nel resto d’Europa, avvezzi a risiedere in città piú volentieri che sulle loro terre. Le competenze militari e la capacità di comando dei nobili, unite al denaro e all’industriosità di mercanti e artigiani, facevano di questi cittadini, quando erano concordi, una forza poderosa. Tanto che, anziché obbedire tranquillamente ai loro vescovi e principi, come avveniva altrove, gli abitanti delle città lombarde ormai da molto tempo si erano abituati a governarsi L’ITALIA DEI COMUNI
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CIVILTÀ COMUNALE
La Lega Lombarda
In alto miniatura da un codice tolemaico raffigurante la pianta di Milano. XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica. In basso miniatura su pergamena raffigurante una carta militare della Lombardia XV sec. Parigi,Bibliothèque Nationale de France.
locali facessero atto di sottomissione e pagassero quelle imposte in natura: in fieno, pane, carne e vino, che servivano a mantenere il sovrano e la sua cavalleria. Se i cittadini, associandosi e dando vita a proprie magistrature, che chiamavano col nome di Comuni, erano in grado di garantire tutto ciò come e meglio dei vescovi, l’imperatore non aveva motivo di protestare; e infatti i predecessori del Barbarossa avevano rilasciato di buon grado diplomi in cui garantivano ai cittadini il rispetto delle buone usanze, come si amava dire, che essi avevano introdotto nel governo delle loro città. Ma il Barbarossa aveva ragione di credere che cinquant’anni d’indulgenza fossero stati troppi. Per quanto le notizie d’Italia arrivassero a fatica in Germania, l’imperatore sapeva che le associazioni giurate dei cittadini non si accontentavano di mantenere l’ordine pubblico, regolamentare i prezzi e riscuotere imposte all’interno delle mura, ma avevano ormai affermato la loro egemonia sulle campagne, costringendo i nobili rurali a sottomettersi, a diventare cittadini essi stessi, a mettere a disposizione i loro castelli per la guerra e a lasciar tassare i loro contadini. Ottone di Frisinga, anche in questo caso, seppe ben descrivere la situazione che si era creata in Lombardia, impensabile agli occhi di un magnate tedesco: «Laggiú – scrisse – il Paese è praticamente tutto diviso fra le città, e ciascuna ha costretto gli abitanti della diocesi a schierarsi dalla sua parte, tanto che a stento si trova in un’area cosí vasta un qualche personaggio importante che non segua gli ordini della sua città». Non erano queste le buone consuetudini e le pacifiche usanze che i predecessori del Barbarossa avevano riconosciuto ai Comuni.
Le ambizioni di Milano
La conquista del contado, come la chiamano gli storici, da parte delle città significava che a ogni momento erano violati con le minacce o con la forza i diritti di pacifici signori rurali o, ancor peggio, di conti e marchesi, diretti vassalli dell’imperatore; le loro lamentele erano echeggiate già piú di una volta in quelle riunioni, chiamate diete, in cui l’imperatore convocava i suoi vescovi e i suoi principi per discutere le necessità dell’impero. Come se non bastasse, poi, le città lombarde, padrone di ampi territori, arricchite dai traffici e ben munite di risorse militari, avevano addirittura cominciato a combattersi fra loro, e le piú grandi minacciavano di soffocare le piú piccole; una specialmente, Milano, suscitava ovunque proteste e preoccupazioni con le sue continue prepotenze. 68
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A sinistra rilievo raffigurante un guerriero a cavallo. XIII sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.
Proprio questa era la ragione immediata che aveva persuaso il sovrano ad affrettare il suo viaggio in Italia. Poco dopo la sua incoronazione a re di Germania, il Barbarossa aveva convocato una dieta a Costanza, e lí erano comparsi gli inviati di Lodi: appunto una di quelle piccole città, che vedevano i loro commerci e la loro stessa sopravvivenza minacciati dall’ascesa di Milano. Parlando in tedesco, quelli di Lodi avevano implorato il sovrano di difenderli, com’era suo dovere, da quelle violenze, e Federico, senza ancora valutare fino in fondo, forse, la gravità della situazione, aveva spedito a Milano un suo rappresentante, munito di credenziali con il sigillo imperiale, in cui si ingiungeva a tutti di prestargli obbedienza. Ma i Milanesi stracciarono le lettere dell’imperatore, e per poco non fecero la pelle all’inviato, costringendolo a ripassare in gran fretta le Alpi. Quando costui raccontò in quanta reverenza fosse tenuta laggiú l’autorità imperiale, riferisce un cronista, «il re e i principi furono mossi da grandissima ira e dolore. Come una scintilla di fuoco incendia l’intera casa, cosí le sue parole accesero il cuore del re e di tutti i principi; e subiro decisero di venire in Lombardia con un grande esercito». Ammettiamo pure che il cronista non fosse troppo imparziale (giacché era di Lodi); ma è certo che la necessità di regolare i conti con Milano figurò ai primi posti, a partire da allora, sull’agenda politica del sovrano. Era tempo di andare a dare un’occhiata di persona a quel che stava succedendo laggiú; e il Barbarossa decise che la prossima dieta non si sarebbe riunita in Germania, ma in Italia, a
A destra un ambrosino, moneta emessa dal Comune di Milano che circolò dal 1250 al 1310. Milano, Museo del Castello Sforzesco.
Roncaglia presso Piacenza, per la festa di San Michele dell’anno successivo, cioè il 29 settembre 1154. I preparativi del viaggio richiesero poi piú tempo del previsto; ma nell’ottobre di quell’anno, appena un po’ in ritardo, l’imperatore era al Brennero. Questa, dunque, è l’occasione che, come una scintilla, per raccogliere l’immagine del cronista lodigiano, accese un falò destinato a bruciare per oltre un secolo e mezzo, talvolta covando sotto la cenere, talvolta minacciando invece di ardere tutta l’Italia nelle sue fianune: la guerra, cioè, fra gli imperatori e le città italiane, riunite in quell’alleanza che conosciamo col nome di Lega Lombarda. L’ITALIA DEI COMUNI
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Nella pagina accanto Turingia, Germania. Particolare della decorazione del Kyffhäuserdenkmal raffigurante l’imperatore Federico Barbarossa. 1890-1896. In basso carta topografica riproducente la città di Milano al tempo dell’assedio di Federico Barbarossa nel 1158. XIX sec.
Ma l’azione del Barbarossa, e la sfida che egli pose ai Comuni insubordinati, debbono essere valutate e comprese in una prospettiva ben piú vasta: non solamente quella di un despota deciso a punire la sfacciataggine di sudditi ribelli, né quella di un reazionario intento a difendere, contro le nuove forze borghesi emergenti, un ordine feudale ormai sorpassato; e soprattutto non quella, cara alla nostra tradizione risorgimentale, di un re straniero deciso a soggiogare gli Italiani. Federico Barbarossa, che nelle pagine dei nostri vecchi storici appare il piú delle volte difficilmente distinguibile dal maresciallo Radetzky, era, in realtà, il portatore di un progetto politico fortemente innovativo, e soprattutto al passo con i tempi. Negli anni in cui il giovane imperatore saliva al trono, l’Europa stava uscendo da una lunga fase di anarchia o, se vogliamo essere piú pre-
cisi, di dissoluzione del potere. Da tempo immemorabile l’autorità era stata frantumata, usurpata, comprata e venduta, al punto che chiunque avesse i mezzi per fortificare rozzamente i propri possedimenti aveva finito per riscuotere imposte, giudicare liti e battere moneta. Da tempo immemorabile gli uomini si erano avvezzati a riconoscere come potere legittimo solo quello che potevano vedere e toccare ogni giorno, e a cui avevano giurato personalmente fedeltà, che si trattasse di un signore locale o di un Comune; mentre riservavano al re un’obbedienza puramente formale, e a volte nemmeno quella. Certo, il monarca era consacrato, e dunque dalla sua persona emanava una sorta di carica magica, che gli valeva il rispetto della gente comune; le persone colte, che non erano molte ed erano quasi tutte vescovi o monaci, sapeva-
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no che il re, piú dei principi o dei piccoli signori locali, incarnava il concetto di un’autorità che noi oggi definiremmo statale, e che essi chiamavano res publica. Ma tutto questo, per molto tempo, era rimasto sulla carta e nessun regnante, men che mai l’imperatore, aveva goduto nei fatti di un’autorità pari alle pretese.
I consigli dell’abate
Ora, però, i tempi erano cambiati. In Francia, re Luigi VII col consiglio dell’abate di Saint-Denis, Sugerio, aveva cominciato a reprimere l’insolenza dei magnati e ridare alla regalità capetingia un lustro che poteva anche ricordare, alla lontana, i bei tempi di Carlo Magno. In Inghilterra, proprio nei giorni in cui il Barbarossa piantava le sue tende a Roncaglia, si preparava l’incoronazione di un altro giovane re, Enrico II, a cui i magnati del Regno, dopo anni di ribellioni, avevano finalmente giurato obbedienza. Ma oltre alla fedeltà dei principi e dei vescovi,
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In basso incisione raffigurante l’imperatore Federico Barbarossa che entra a Milano con le sue truppe. XVIII sec. Qui sotto il sigillo di Federico Barbarossa su un documento. 1154.
che per secoli era stata l’unica risorsa dei regnanti, questi sovrani cominciavano a disporre anche di altri strumenti: grazie allo sviluppo dei traffici e alla prosperità dei mercanti cittadini, da cui riscuotevano imposte e pedaggi, i re avevano denaro e potevano usarlo per pagare giudici, scrivani, addirittura uomini d’arme, come non si era mai fatto a memoria d’uomo. Al tempo del Barbarossa, insomma, era cominciata quella riscossa dello Stato che, alla fin fine, non si sarebbe piú fermata fino a oggi: mai piú l’Europa avrebbe conosciuto un’epoca di frammentazione del potere e di impotenza dei governi centrali, come quella che aveva attraversato a cavallo dell’anno Mille. E se ciò accadeva nei Regni di Francia o d’ Inghilterra, non si vede perché non avrebbe dovuto accadere anche in quelli di Germania e d’Italia, riuniti sotto lo scettro imperiale; tanto piú che, rispetto a quei re, l’imperatore disponeva anche di un’altra risorsa di eccezionale importanza. Nella prospera Europa di quegli anni non cre-
scevano soltanto la popolazione, i raccolti agricoli e i traffici; cresceva anche il numero di quelli che sapevano leggere e scrivere, e disciplinare il proprio ragionamento nelle forme rigorose della lingua latina. Nelle città si moltiplicavano le scuole, e non solo per studiare teologia o medicina, ma anche diritto; il che voleva dire, soprattutto, riscoprire il diritto romano, nelle monumentali codificazioni di Teodosio e Giustiniano. Un numero crescente di persone si abituava pertanto a vedere il mondo attraverso il filtro del Codice giustinianeo, ed erano proprio quelli che poi servivano in qualità di giudici i potenti di questo mondo e che scrivevano trattati per insegnare agli incolti l’ordinamento ideale della società. Ma il diritto romano era quello della Roma imperiale, tagliato su misura per un governo centralizzato e dispotico, autorizzato da Dio a rivendicare un’autorità assoluta su tutti i cristiani, e cioè, in ultima analisi, sul mondo intero. Federico Barbarossa, re di Germania e d’Italia, anche dopo essere stato incoronato imperatore a Roma non avrebbe certo potuto avanzare, nella pratica, rivendicazioni cosí ampie; ma che fosse lui l’imperatore, il successore di Augusto e di Costantino, di Teodosio, di Giustiniano e di Carlo Magno, era un fatto, e la sua politica non poteva non trarne un immenso vantaggio in termini d’immagine. I Comuni italiani si vantavano di ispirarsi alla libertà di Roma repubblica-
In alto Cremona. Veduta della facciata del Palazzo Comunale. XIII sec. A destra Verona. Scorcio del Palazzo Comunale. XII-XIII sec.
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na, al punto che avevano dato il nome classico di «consoli» ai loro magistrati? L’imperatore avrebbe ribattuto che Roma era l’impero, e che chi non riconosceva l’autorità imperiale era un barbaro, oltre che un cattivo cristiano.
Lamentele sempre piú insistenti
Nel 1154, in occasione della sua prima venuta, la fretta di spingersi fino a Roma per l’incoronazione, e fors’anche un’errata valutazione della capacità di resistenza dei Comuni, impedirono a Federico di attuare fino in fondo il suo programma; l’imperatore tornò in Germania, accontentandosi delle promesse d’obbedienza di cui gli inviati delle città, nessuna esclusa, avevano largheggiato a Roncaglia. Ma, di lí a poco, ricominciarono ad apparire alla corte imperiale delegazioni di città italiane, che si lagnavano con sempre maggiore urgenza delle prepotenze dei Milanesi; e ben presto divenne evidente la necessità di una seconda spedizione. Mentre la preparava, il Barbarossa chiese ai giuristi bolognesi un parere dettagliato sui diritti che gli spettavano nel Regno italico; giacché, per un’ironia della storia, era proprio nelle città italiane, e in particolare a Bologna, che lo studio del diritto romano era ripreso con nuovo fervore. Nell’autunno del 1158 il parere dei maestri bolognesi era pronto, e l’imperatore era di nuovo a Roncaglia; attorno a lui c’erano i vescovi, i principi di Germania e d’Italia e gli ambasciatori di quattordici Comuni. A costoro i giuristi di Bologna, allievi del famo74
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A sinistra le città della Lega Lombarda e di quella Veronese. A destra Mantova. Il cortile del Broletto. 1227. In basso rilievo che raffigura il ritorno dei Milanesi in città, in origine collocato su Porta Romana. 1171. Milano, Castello Sforzesco.
so Imerio, sottoposero un elenco dettagliato di tutte le prerogative, o regalia, spettanti all’imperatore, e che egli intendeva recuperare. I magistrati cittadini, d’ora in poi, dovevano essere nominati dall’imperatore; ai suoi tribunali chiunque doveva potersi rivolgere in appello, contro le sentenze dei tribunali cittadini; e naturalmente si intendevano ripristinate tutte le imposte, anche se da lungo tempo cadute in disuso, spettanti al governo imperiale. E ancora, nelle città piú importanti doveva esse-
ICONOGRAFIE ED EROI
IMMAGINARI
La Lega Lombarda rappresenta forse il caso estremo di un evento del passato che sia stato trasmesso alla memoria collettiva di un intero popolo attraverso un’iconografia completamente immaginaria, inventata molti secoli dopo, e cioè nell’Ottocento romantico. Fino a non molti anni fa, tutti i libri di scuola delle elementari riproducevano il quadro di Amos Cassioli, La battaglia di Legnano, oggi alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze, con la sua mischia selvaggia di combattenti, in armature completamente anacronistiche, ai piedi del Carroccio; per non parlare degli innumerevoli Giuramenti di Pontida che infestano le nostre gallerie. Oggi quell’iconografia comincia a non essere piú cosí familiare alle nuove generazioni, ma il monumento al guerriero lombardo che svetta a Legnano ha guadagnato una nuova giovinezza da quando è stato scelto come simbolo elettorale della Lega. Se non altro l’opera, realizzata da Enrico Butti nel 1900, richiama piú da vicino quello che poteva essere l’armamento di un cavaliere del tempo, benché l’atteggiamento eroico sia quello imposto dalle convenzioni romantiche. Eppure un’iconografia originale dell’epoca esiste, e almeno per il gusto odierno risulta ben piú emozionante di quella ottocentesca; è il caso degli straordinari bassorilievi che nel 1171 ornarono la ricostruita Porta Romana, oggi conservati al Castello Sforzesco, in cui si vede il ritorno dei Milanesi
nella città ricostruita dopo la distruzione del Barbarossa, guidati dal loro clero con croci e stendardi. Piú dubbia è l’identificazione di altri due bassorilievi della stessa epoca, che rappresentano un uomo barbuto a gambe incrociate e una donna in atto di sollevarsi la veste per rasarsi l’inguine; la critica tende oggi a ritenere che si tratti di figure apotropaiche, erette sulle porte a difesa dai nemici, ma una tradizione popolare che risale almeno al Cinquecento vi riconosce invece i ritratti del Barbarossa e dell’imperatrice, raffigurati per scherno in atteggiamenti osceni.
Legnano. Il monumento al Guerriero di Legnano, statua in bronzo di Enrico Butti. 1897-1900.
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I TEDESCHI, GENTE DA EVITARE... Contrariamente a quel che ha creduto la storiografia risorgimentale, il sentimento nazionale italiano e l’avversione ai Tedeschi ebbero un ruolo secondario nelle guerre della Lega
Lombarda. Sul piano propagandistico, tuttavia, il motivo nazionale qualche volta affiora, e lo stesso Barbarossa ne dà testimonianza in una sua circolare del 1167 dove scrive: «La ribellione non è rivolta soltanto contro la nostra persona, perché rigettando il giogo della nostra dominazione, essi si propongono di respingere e annientare l’Impero dei Tedeschi (...) e dicono: “Non vogliamo che costui regni su di noi, e i Tedeschi non devono piú comandare qui da noi”». L’odio per i Tedeschi si rafforzò quando Enrico VI, figlio del Barbarossa, s’impadroní del Regno normanno dell’Italia meridionale, per la ferocia con cui l’imperatore e i suoi luogotenenti tedeschi trattarono i baroni ribelli. Allora, intorno al 1195, un trovatore provenzale o lombardo, Peire de la Caravana, in un sirventese, una canzone politica, cosí esorta i Lombardi alla difesa: «Di fare un sirventese è mia intenzione // che si possa cantare in breve e vivacemente // perché il nostro imperatore raduna gran gente. // Lombardi, ben vi guardate, // che poi non siate // peggio che venduti // se saldi non state! // Ricordatevi della Puglia, dei valenti baroni, // cui non è rimasto nulla, tranne le loro case; // guardate che non capiti la stessa cosa a voi! // La gente di Germania non vogliate amare, // in loro compagnia non vi piaccia giammai stare; // mi stringono il cuore col loro ciangottare. // Somigliano a ranocchie quando dicono Broder, guaz; // latrano quando si riuniscono, come cani // arrabbiati. // Non vogliate che vengano! Teneteli lontani!».
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re edificato un palazzo, come sede e simbolo dell’amministrazione imperiale; a imitazione di quei palazzi che i re franchi avevano posseduto in passato, e la cui demolizione, per esempio a Pavia nel 1024, aveva addirittura preceduto l’instaurazione dei governi comunali. In un primo momento, i rappresentanti delle città accondiscesero alle richieste imperiali; ma al loro ritorno, quasi ovunque divamparono le proteste e il loro giuramento venne sconfessato. Questa volta, però, l’imperatore era pronto a usare la forza pur di sottomettere i ribelli. Cosí, da quell’autunno del 1162, per quattro lunghi anni, la Lombardia conobbe la guerra: castelli assediati e dati alle fiamme; prigionieri massacrati a sangue freddo, impiccati a centinaia ai rami degli alberi, o mutilati di una mano o di un piede e poi rimandati a casa, a spaventoso ammonimento dei superstiti; e città conquistate e poi rase al suolo, in modo sistematico e premeditato, con le mura demolite da squadre di picconatori e il resto incendiato (in quelle città, molte case erano di legno, con i tetti di paglia, e bruciavano bene; e il fumo, nero e
Nella pagina accanto Bitonto, Cattedrale. Particolare di un rilievo dell’ambone raffigurante Federico Barbarossa (sulla sinistra) che riceve l’omaggio di suo figlio Enrico VI, di Federico Il e di Corradina. XIII sec. In alto Il giuramento di Pontida, olio su tela di Giuseppe Diotti. 1836. Milano, Museo dell’Ottocento di Villa Belgioioso.
denso, si vedeva da molto lontano nella pianura); e le strade ingombre di profughi, donne, vecchi e bambini cacciati dalle loro case nel cuore dell’inverno, con le poche masserizie ammassate su carri e carretti, senza un posto dove riparare. Non che questi orrori fossero una novità. La guerra, allora, si faceva cosí, e i Lombardi erano perfettamente capaci di trattarsi in quel modo l’un l’altro; ma mai, prima d’allora, la guerra era stata condotta su tale scala, e cosí a lungo, giacché i Milanesi, nonostante tutto, tenevano duro. Finché venne anche il loro turno, nell’aprile del 1162.
L’assedio e poi la distruzione
Dopo un anno d’assedio, toccò agli abitanti di Milano abbandonare le loro case, e l’imperatore manifestò otto giorni di tempo per organizzare l’esodo. I profughi trovarono rifugio nelle città vicine, ma la maggior parte si accampò fuori Milano, appena oltre il fossato, sperando che di lí a poco il Barbarossa, placato, avrebbe concesso loro di rientrare. Ma Federico intendeva liquidare il problema di Milano una volta per
tutte, e ordinò di demolire la città, finché non ne restasse una pietra sull’altra. A eseguire l’incarico si affrettarono, con gran soddisfazione, gli abitanti delle città lombarde ostili a Milano: i Lodigiani demolirono il quartiere di Porta Orientale, i Cremonesi Porta Romana, i Pavesi Porta Ticinese, i Novaresi Porta Vercellina, i Comaschi Porta Comacina, infine i contadini del Seprio e della Martesana rasero al suolo Porta Nuova. Per ultimo venne abbattuto il campanile del duomo, che si diceva fosse il piú alto d’Italia; e rovinando precipitò sul duomo stesso, che nessuno aveva ancora osato prendere di mira, distruggendone gran parte. Sembrava la fine, e non era che l’inizio. Umiliata Milano, gran parte della Lombardia era ai piedi dell’imperatore; ma nell’area piú orientale della grande pianura, là dove la Bassa comincia a lasciare il posto ai colli veneti, la guerra non era stata cosí devastante come nel Milanese; e proprio là, in quello che allora non si chiamava Veneto, ma Marca trevigiana, c’erano ancora risorse sufficienti per proseguire la lotta. Nell’aprile 1164 quattro città, e cioè Verona, Padova, L’ITALIA DEI COMUNI
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UN TRIONFO CONDIVISO (A PAROLE) Ai bollettini ufficiali e ai comunicati degli Stati Maggiori non bisogna mai credere in maniera indiscriminata. Ma è egualmente interessante presentare la lettera ufficiale con cui i Milanesi annunciarono ai loro alleati, i Bolognesi, la vittoria di Legnano; lettera che, per enfasi retorica, non è meno esemplare di un documento assai piú radicato nella memoria degli Italiani, il «Bollettino della Vittoria» firmato da Armando Diaz il 4 novembre 1918. Scrivono dunque i Milanesi, dopo la battaglia del 29 maggio 1176: «Sappiate che abbiamo riportato sui nemici un glorioso trionfo. Il numero degli uccisi, degli annegati, dei prigionieri è incalcolabile. Abbiamo lo scudo dell’imperatore, la bandiera, la croce e la lancia. Nelle sue casse abbiamo trovato molto oro e argento, e ci siamo impadroniti di un tale bottino che nessuno, crediamo, potrà mai calcolarne il valore. Tutte cose che non consideriamo nostre, ma vogliamo che appartengano in comune al signor Papa e agli Italiani. Sono stati catturati in battaglia il duca Bertoldo e il nipote dell’imperatrice e il fratello dell’arcivescovo di Colonia. E l’infinità degli altri prigionieri impedisce di contarli, e sono tutti detenuti a Milano». Documento esemplare, si diceva; ma anche per l’accortezza con cui, nel riferire di una vittoria che fu, come sappiamo, soprattutto milanese, bada ad assicurare che la gloria, e il bottino, saranno di tutti gli Italiani aderenti alla Lega e del papa, loro alleato e protettore, evitando diplomaticamente di far troppo pesare quell’egemonia milanese che di lí a poco si sarebbe imposta nei fatti con ben altra prepotenza.
Vicenza e Treviso, si riunirono in una lega, che prese il nome di Lega Veronese, nell’esplicito intento di resistere alle pretese imperiali. Non era la prima volta che in Italia si stringevano alleanze di questo genere: già nel 1092 Milano, Crema, Lodi e Piacenza si erano unite in una lega contro l’imperatore Enrico IV. È il segno che le città erano ben consapevoli, nonostante le loro mortali rivalità, della necessità di unirsi quando affrontavano un nemico cosí potente; non per nulla, il Barbarossa, a Roncaglia, aveva dichiarato fuorilegge qualsiasi alleanza fra città, dando per scontato che il suo scopo sarebbe sempre stato quello di opporsi all’impero. Non sembra che la Lega Veronese abbia compiuto imprese memorabili, ma la sua costituzione rappresentava di per sé una sfida all’autorità imperiale; tanto piú che alla nascita del sodalizio non era estraneo, in qualche modo, il grande impero rivale, quello di Bisanzio, ancora capace di esercitare un’influenza nell’entroterra veneto grazie ai suoi rapporti privilegiati con Venezia. L’impunità di cui godettero le città venete incoraggiò, dunque, altri Comuni a tentare esperimenti analoghi. Nella primavera del 1167 quattro città lombarde, Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova, si riunirono a loro volta in una lega, la Lega Cremonese, e intrapresero la ricostruzione di Milano; giacché anche se Mila78
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Il Carroccio (La battaglia di Legnano), olio su tela di Massimo Tapparelli d’Azeglio. 1831. Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea.
no, come città di pietra, formalmente non esisteva piú, i Milanesi c’erano ancora, e tutti coloro che intendevano far fronte al Barbarossa riconoscevano in loro l’unica forza intorno a cui fosse possibile coagularsi.
Nasce la Lega
Il 1° dicembre 1167, per iniziativa dell’arcivescovo milanese Galdino, Lega Cremonese e Lega Veronese si allearono con la rinata Milano, in quello che la tradizione risorgimentale ha poi
esaltato come il «Giuramento di Pontida». Nasceva cosí la Lega Lombarda, a cui si sarebbero aggiunte in seguito le città emiliane, Piacenza, Parma, Modena, Bologna e Ferrara, e, a forza di minacce, anche Lodi e Como, ormai rassegnate a una condizione di sudditanza rispetto all’egemonia milanese. La nuova alleanza, che i documenti dell’epoca chiamano di preferenza Societas Lombardie, non si contrapponeva formalmente all’impero in quanto tale. Nell’aderire alla Lega, ogni città giurava di esser fedele alle
altre, fatta salva però la fedeltà all’imperatore; secondo un formulario giuridico comune, allora, a ogni sorta di accordo, alleanza o sottomissione vassallatica. Sembrerebbe un paradosso, se il giuramento non avesse precisato che la fedeltà all’imperatore consisteva nel riconoscergli tutti i diritti che i suoi predecessori avevano pacificamente esercitato nei cent’anni precedenti alla morte di Corrado III, e dunque all’elezione del Barbarossa. Le città lombarde, in altre parole, non si propoL’ITALIA DEI COMUNI
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nevano di fuoruscire dall’impero, ciò che in termini giuridici, ideologici e anche religiosi sarebbe stato addirittura impensabile; volevano, piú pragmaticamente, ripristinare lo status quo ante, tornando ai bei tempi in cui la fedeltà all’imperatore non impegnava quasi a nulla, se non a occasionali pagamenti e a manifestazioni di fedeltà largamente formali. Sul piano organizzativo, la Lega non era una struttura pesante. Le città nominavano congiuntamente dei rettori, che si riunivano quando era necessario stabilire una linea d’azione comune, sul piano politico e soprattutto militare. I rettori, che restavano in carica un anno, erano scelti di solito fra i consoli cittadini, sicché la stessa persona si trovava investita di una doppia responsabilità, in ambito cittadino e in ambito federale. In caso di controversie fra una città e l’altra, i rettori della Lega erano incaricati di pronunciare un arbitrato e, almeno sulla carta, era consentito appellarsi loro contro le sentenze dei tribunali locali, ma, per il resto, ogni città manteneva una piena autonomia; d’altra parte, sarebbe stato ben strano che i Comuni, federandosi per difendere la propria libertà dalle pressioni imperiali, accettassero poi di ridimensionare i propri spazi d’azione a vantaggio di un organismo sovralocale. Sul piano politico, la carta principale della Lega In questa pagina Siena, Palazzo Pubblico. Particolari degli affreschi di Spinello Aretino, che celebrano papa Alessandro III, al secolo Rolando Bandinelli. In alto, la battaglia navale tra i Veneziani e il Barbarossa a Punta Salvore (Istria); al centro, l’incoronazione di papa Alessandro III; a destra, la fondazione della città di Alessandria. XV sec. de impero rivale, quello di Bisanzio, ancora capace di esercitare un’influenza nell’entroterra veneto grazie ai suoi rapporti privilegiati con Venezia. L’impunità di cui godettero le città venete incoraggiò, dunque, altri Comuni a tentare esperi menti analoghi. Nella primavera del 1167 quattro città lombarde, Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova, si riunirono a loro volta in
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Lombarda era l’appoggio del papa, Alessandro III, sul trono ormai da otto anni. La cristianità latina si era abituata già da molto tempo alla rivalità fra i due poteri che si consideravano universali, il papato e l’impero; anziché collaborare pacificamente, come avevano fatto sotto Carlo Magno o gli Ottoni, dal tempo di Enrico IV e Gregorio VII il papa di Roma e l’imperatore teutonico litigavano apertamente e non di rado si combattevano, ciascuno rivendicando il primato universale e la facoltà di sorvegliare e, se necessario, deporre l’altro. E ciò benché, sul piano pratico, i due poteri fossero spinti dalle circostanze, in modo quasi irresistibile, a cercare di volta in volta un compromesso; giacché l’imperatore non acquistava la pienezza dei suoi diritti se non grazie all’incoronazione romana e il papa, a sua volta, non poteva sentirsi sicuro a Roma, minacciato com’era dai Normanni e dalle stesse forze comunali romane, senza la protezione imperiale. La contraddizione insita nei rapporti fra papato e impero era esplosa nel 1159, quando i cardinali impegnati a Roma nell’elezione del pontefice si erano spaccati, e una maggioranza aveva eletto Rolando Bandinelli col nome
L’imperatore all’assedio di Alessandria, dipinto di Carlo Arienti. 1831. Torino, Palazzo Chiablese.
di Alessandro III, mentre la minoranza, col sostegno però di gran parte del clero e del popolo romano, nonché dei rappresentanti imperiali, aveva optato per il cardinale Monticelli col nome di Vittore IV. Si farebbe torto al Barbarossa attribuendogli la responsabilità di aver eletto un antipapa, giacché tutto dimostra che l’imperatore, costernato per l’accaduto, si sforzò dapprima di comporre il dissidio, convocando a Pavia un concilio per verificare e, se necessario, ripetere l’elezione; ma Alessandro III rifiutò di sottoporsi a quel giudizio, e, da allora, la cristianità latina si trovò spaccata dallo scisma, e divisa fra l’obbedienza a due pontefici. Inutile dire che in Italia, ovunque fosse viva la resistenza al Barbarossa, si parteggiò per Alessandro III, che è poi passato alla storia come il papa legittimo; ma si dovette attendere la battaglia di Legnano e la tregua fra l’imperatore e i Comuni, perché lo scisma fosse ricomposto.
Il Colosseo come rifugio
Alessandro III, dunque, divenne il punto di riferimento dei Comuni ostili all’imperatore e riuniti nella Lega Lombarda. E contro di lui si L’ITALIA DEI COMUNI
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La Lega Lombarda
mosse, nell’estate del 1167, il Barbarossa; dapprima con successo, poiché Roma fu presa, e il papa dovette rinchiudersi nel Colosseo attrezzato a fortezza, scampando poi a Benevento sotto la protezione dei Normanni, cosí come aveva fatto molto tempo prima Gregorio VII. Ma un’epidemia di dissenteria scoppiò nel campo dell’esercito tedesco, mietendo innumerevoli vittime, e l’imperatore dovette tornare verso la Lombardia, e poi, nella primavera del 1168, addirittura riparare in Germania, dopo essere stato assediato per mesi in Pavia dall’esercito della Lega. Alessandro III rientrò a Roma, e in suo onore i Lombardi, compiuta la riedificazione di Milano, intrapresero la fondazione d’una città nuova, che prese il nome di Alessandria; edificata a poca distanza da Tortona, che il Barbarossa aveva bruciato molti anni prima, e soprattutto da Pavia, a sfidare esplicitamente la supremazia, in quell’area, del piú forte Comune filoimperiale. Il piú forte, e uno dei pochi, ormai; perché bisogna pur dire che, rispetto alla prima venuta del Barbarossa, il numero delle città a lui fedeli era andato paurosamente riducendosi, tanto che anche Comuni fra i piú ostili a Milano, come Lodi e soprattutto Cremona, avevano finito per cambiare campo. Era il risultato di un comprensibile sgomento di fronte alla politica del Barbarossa; che non era, ripetiamolo, di restaurazione, quanto di rinnovamento e modernizzazione dell’autorità imperiale: ma proprio per questo spaventava. Modernizzare significava, per esempio, imporre un prelievo
Siena, Palazzo Pubblico. Ancora un particolare dagli affreschi di Spinello Aretino raffigurante Alessandro III che riceve un messo dal Barbarossa. XV sec.
fiscale a profitto del governo imperiale, e il Barbarossa lo fece con successo, tanto da trasformarsi, come è stato calcolato, in uno dei sovrani piú ricchi d’Europa; a noi, questa può apparire un’ovvia prerogativa dello Stato, ma si può ben capire che suscitasse opposizioni violente fra i nobili e i mercanti delle città italiane. Cosí pure, l’imposizione di funzionari nominati dal sovrano, col compito di mantenere l’ordine pubblico, rendere giustizia e ri-
AL SUONO DELLA MARTINELLA Comunemente associato alla resistenza dei Milanesi contro il Barbarossa, e ancor piú alla battaglia di Legnano, il Carroccio era in realtà un aspetto caratteristico del modo di combattere in uso nell’Italia delle città, già prima dell’espansione comunale, e non solo a Milano. La prima notizia certa relativa al suo impiego in battaglia risale a un cronista milanese dell’XI secolo, quando cioè la cittadinanza ambrosiana, già forte e sicura di sé sotto la guida dei suoi arcivescovi, non era però ancora organizzata in Comune; in seguito adottarono il Carroccio quasi tutte le città lombarde e toscane, e se ne conosce l’uso anche fuori d’Italia. Tecnicamente, il Carroccio era un carro a quattro ruote, trainato da buoi, di dimensioni maggiori di quelle d’un comune carro; su di esso si issavano gli stendardi della città, ma anche una croce e una campana (detta «martinella», il cui suono segnava l’inizio della battaglia), giacché l’identificazione dei cittadini col proprio Comune aveva una forte dimensione religiosa. Non a caso, il
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Carroccio era considerato un oggetto sacro e, in tempo di pace, era spesso conservato nella cattedrale, mentre prima e durante la battaglia il clero vi celebrava funzioni religiose. Su di esso prendevano posto i trombettieri, che davano il segnale per la marcia e le soste, e anche un certo numero di combattenti assegnati alla difesa del carro stesso. La funzione militare del Carroccio appare evidente se si pensa che gli eserciti cittadini, accanto alla cavalleria, comprendevano anche squadre di fanteria. Quest’ultima, che si spostava ovviamente a piedi, ed era armata di scudo e lunga lancia, sul campo di battaglia aveva una funzione soprattutto difensiva, e il Carroccio serviva ottimamente come punto di riferimento, e di resistenza, intorno a cui ammassare uomini. Il Carroccio rivelò tutta la sua utilità a Legnano, dove la fanteria milanese, raccolta intorno a esso, poté resistere alle cariche della cavalleria tedesca; mentre nel 1237, a Cortenuova, la disfatta della Lega per mano di Federico Il venne sancita proprio dalla cattura del Carroccio.
LA RITIRATA NON SI ADDICE A UN IMPERATORE La battaglia di Legnano segnò il definitivo trionfo dei Comuni appartenenti alla Lega Lombarda sull’imperatore Federico Barbarossa. Ma quale fu, al di là della leggenda, il reale andamento dello scontro? Nella primavera del 1176, il Barbarossa si trovava a Corno con circa duemilacinquecento cavalieri, per la maggior parte appena arrivati dalla Germania attraverso il San Gottardo, sotto la guida degli arcivescovi di Colonia e Magdeburgo. A Pavia erano concentrate le forze italiane fedeli all’imperatore; quando questi si mosse da Conto per raggiungerle, l’esercito della Lega, fortemente superiore
scuotere le imposte in ambito locale o regionale, rischiava di apparire ai contemporanei come la brutale imposizione di tiranni stranieri, verso cui nessuno si sentiva vincolato da legami personali di fedeltà.
La strada delle trattative
Nell’Italia centrale, dove l’aggressività dei Comuni era per il momento ancora minore, gli sforzi dell’imperatore, e soprattutto dei suoi luogotenenti Rainaldo di Dassel e Cristiano di Magonza, per insediare una rete di rappresentanti imperiali ebbero un certo successo; in Lombardia suscitarono ovunque denunce di soprusi e prepotenze, finendo per gettare nelle braccia della Lega la maggior parte delle città precedentemente indecise o anche ben disposte nei confronti dell’imperatore. Forse anche per questo Federico, ridisceso ancora una volta in Italia alla testa di un esercito, dopo l’inutile
di numero, marciò per intercettarlo. Presso Legnano la cavalleria lombarda, uscendo da un bosco in avanscoperta, si trovò di fronte all’improvviso l’avanguardia imperiale. La cavalleria tedesca ricacciò indietro il nemico constatando la forza complessiva dell’armata lombarda, e tornò a riferire all’imperatore quel che aveva scoperto. Tutti consigliarono a Federico di evitare la battaglia, ma il Barbarossa, giudicando la ritirata indegna della maestà imperiale, ordinò l’attacco. La cavalleria delle città lombarde si dimostrò inferiore a quella tedesca, e venne in gran parte dispersa; anziché inseguire i fuggiaschi, l’imperatore chiamò a raccolta i suoi uomini e li condusse all’assalto contro la fanteria milanese, radunata intorno al Carroccio. Allora, per la prima volta, una forza appiedata e armata di picca si dimostrò capace di resistere alle cariche della cavalleria; sapendo perfettamente che se il loro schieramento fosse stato rotto sarebbero stati tutti massacrati, i fanti tennero duro, presentando alla cavalleria nemica un muro di lance e scudi. Uomini e soprattutto cavalli caddero in gran numero trafitti dalle picche e, quando anche l’imperatore e il suo portabandiera vennero disarcionati e scomparvero nel tumulto, la carica si tramutò in una confusione generale. Proprio allora la cavalleria milanese, che era fuggita dal campo di battaglia, riuscí a riorganizzarsi e tornare indietro, caricando sul fianco la cavalleria tedesca e mettendola in rotta; i fuggiaschi vennero inseguiti fino al Ticino. Fu questa rovinosa sconfitta a costringere l’imperatore tedesco a scendere a patti, siglando – dopo il raggiungimento di un accordo con papa Alessandro III, da lui riconosciuto unico capo legittimo della Chiesa di Roma – una lunga tregua con i Comuni lombardi.
Alberto da Giussano ne La battaglia di Legnano di Amos Cassioli (vedi alle pp. 64-65).
assedio di Alessandria si decise, nel 1175, a intavolare colloqui di pace; che gli consentirono di riportare dalla sua parte piú di una città, ma non valsero a minare la determinazione dei Milanesi a resistere. Cosí si giunse, l’anno seguente, a quella battaglia di Legnano in cui l’esercito milanese, stretto intorno al Carroccio, sbaragliò l’esercito imperiale. Una vittoria la cui portata sul piano puramente militare è stata, forse, sopravvalutata dall’oleografia risorgimentale, ma che, sul piano politico, pose fine una volta per tutte a ogni speranza, per il Barbarossa, di imporre la pacificazione con la forza, e di dettare le proprie condizioni. L’imperatore fu pronto a riconoscere che i rapporti di forze, dopo la battaglia, erano mutati, benché dal suo tono sia chiaro che non si sentiva certo con le spalle al muro. Cercando di ricavare il massimo da una situazione fattasi improvvisamente sfavorevole, avL’ITALIA DEI COMUNI
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CIVILTÀ COMUNALE
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LA FERVIDA FANTASIA DI GALVANO FIAMMA «Vi sovvien, dice Alberto da Giussano...». Tutti gli Italiani, o almeno quelli che sono andati a scuola in anni non troppo recenti, ricordano questi versi della Canzone di Legnano di Giosuè Carducci. Ma chi era, poi, Alberto da Giussano? La storiografia municipale milanese, a partire dal cronista trecentesco Galvano Fiamma, e via via attraverso i piú tardi Corto e Ripamonti, ha tramandato sotto questo nome il ricordo di un eroico cavaliere, di forza e statura gigantesche, comandante di una compagnia di novecento volontari, fior fiore dell’esercito milanese. La «Compagnia della Morte», cosí chiamata perché tutti i suoi membri avevano giurato di vincere o morire, avrebbe salvato il Carroccio col suo eroismo. Nel famoso quadro del Cassioli, La battaglia di Legnano, è rappresentato appunto Alberto da Giussano, con tanto di capelli sciolti al vento, pizzetto garibaldino e teschio e tibie incrociate sul petto, che mulina lo spadone sugli atterriti Tedeschi. In verità pare proprio che queste siano tutte frottole e invenzioni del Fiamma, uno fra i cronisti meno affidabili che abbiano mai preso la penna in mano. La leggenda di Alberto da Giussano e della «Compagnia della Morte» non compare nei cronisti contemporanei alla battaglia di Legnano; il Fiamma, che scriveva centocinquant’anni dopo, è il primo a menzionarla. L’unico brandello di verità è l’esistenza di una persona chiamata Alberto da Giussano, citata in un documento privato del 1196; un po’ poco perché si possa ancora credere a una leggenda che pure ha riscaldato per secoli i cuori dei patrioti milanesi.
viò trattative non certo con la Lega, che egli stesso aveva dichiarato fuorilegge, ma con il papa; e non lo trovò maldisposto, giacché anche Alessandro III era stanco di uno scisma che minava la sua autorità agli occhi dei fedeli. Il 21 luglio 1177, a Venezia, Federico riconobbe la legittimità del pontefice, mettendo cosí fine a una frattura ventennale, e stipulò una tregua di sei anni con i Comuni ribelli. Questo temporaneo arresto delle ostilità, com’è ovvio, dispiacque a molti; ai Milanesi innanzitutto, che si sentivano traditi e abbandonati dal papa, ma anche all’antipapa allora regnante, Callisto III, e ai maggiori vassalli italiani dell’imperatore, come il marchese di Monferrato, che temevano di essere lasciati soli alla mercé dei Comuni vincitori; ma né da una parte, né dall’altra c’erano piú energie sufficienti per continuare la lotta. Nel corso dei sei anni di tregua morí Alessandro III, al quale successe Lucio III, meno compromesso nella guerra e assai meglio disposto nei confronti dell’imperatore; morí anche, nella lontana Bisanzio, il basileus Manuele Comneno, che aveva a lungo attizzato l’ostilità dei Lombardi contro il Barbarossa; in Germania, Federico approfittò dell’intervallo per regolare definitivamente i conti con i piú irrequieti fra i suoi vassalli. Allo scadere della tregua, nel 1183, era chiaro a 84
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In basso La sottomissione dell’imperatore Barbarossa a papa Alessandro III, dipinto di Federico Zuccari. 1582. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.
tutti che non c’era alternativa a un regolare trattato di pace; che venne infatti firmato, a Costanza, il 25 giugno, con la partecipazione da parte lombarda di diciassette città. La pace di Costanza rappresentava in sostanza un compromesso, e anzi poteva apparire addirittura come un parziale successo dell’imperatore; dal momento che le città conservavano sí quell’esercizio dei poteri pubblici per cui si erano cosí a lungo battute, ma solo a condizione di riconoscere questi poteri come concessi, feudalmente, dall’imperatore, che ne restava il detentore ultimo. Anche sul piano simbolico la dignità imperiale ne usciva salvaguardata, giacché l’accordo si configurava come graziosa concessione del sovrano ai sudditi ribelli; quasi che solo la propria magnanimità, e non la sconfitta di Legnano, avesse indotto il sovrano a elargire il perdono.
L’indulgenza dell’imperatore
L’imperatore si diceva disposto ad aprire ai Lombardi «i visceri della pietà, che in noi è innata» e a «perdonare loro con clemenza tutte le offese e le colpe con cui avevano provocato la nostra indignazione». L’indulgenza del sovrano è motivata con là «fedeltà e devozione dei Lombardi, che in qualche occasione avevano offeso noi e il nostro Impero» e con i «fedeli servizi della loro devozione, che siamo certissimi di ricevere da loro in futuro», quasi che venticinque anni di guerra rappresentassero una parentesi momentanea e subito dimenticata. In realtà, la sostanza era ben altra: l’imperatore riconosceva ai Comuni l’insieme delle prerogative pubbliche, o regalia, nel linguaggio dei giuristi d’allora, rinunciando a esercitarle per mezzo di funzionari imperiali. A ognuna delle città lombarde il Barba-
GLI ANNI DELLA LEGA LOMBARDA Federico Barbarossa viene eletto re di Germania e d’Italia. Alla dieta, convocata dall’imperatore a Costanza, inviati di Lodi chiedono protezione, lamentando la prepotenza di Milano. ● 1154 Prima discesa in Italia di Federico e sua incoronazione imperiale a Roma. ● 1158 Seconda discesa in Italia di Federico e dieta di Roncaglia; i Comuni sono costretti a riconoscere le prerogative imperiali (regalia). ● 1158-1162 Guerra dell’imperatore contro i Comuni ribelli della Lombardia. Nel 1160 viene distrutta Crema; nel 1162, dopo un lungo assedio, Milano è rasa al suolo. ● 1159 Elezione di papa Alessandro III, al quale una minoranza, sostenuta dai rappresentanti imperiali, oppone l’antipapa Vittore IV. ● 1164 Formazione della Lega Veronese (Verona, Padova, Vicenza e Treviso). ● 1167 Formazione della Lega Cremonese (Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova). Ricostruzione di Milano. ● 1° dicembre 1167 Giuramento di Pontida: nasce la Lega Lombarda. ● 1152
rossa concedeva di gestire in proprio la riscossione delle imposte, il controllo di strade, ponti e acque, la giurisdizione civile e criminale, oltre al pieno controllo delle fortificazioni; e tutto ciò non solo in città, ma anche fuori, nel territorio che ogni Comune si era conquistato. In cambio, l’imperatore rivendicava l’obbligo, per i consoli eletti dai cittadini, di rivolgersi a lui per ricevere l’investitura formale delle loro prerogative, e, piú concretamente, l’impegno di pagare un’imposta ogni volta che il sovrano fosse entrato in Lombardia, facendogli trovare strade e ponti in buone condizioni e mercati ben riforniti per i suoi uomini. Tutto ciò era concesso, però, con la condizione piuttosto umiliante «che non ci tratterremo troppo a lungo e inutilmente in nessuna città o diocesi, cosa che sarebbe dannosa per quella città». La volontà di chiudere per sempre la fase della ribellione era probabilmente reale da entrambe le parti, come dimostrano diversi avvenimenti emblematici. Alessandria, la città che piú di ogni altra incarnava, fin nel nome, la sfida all’autorità imperiale, venne, di comune accordo, simbolicamente distrutta e simbolicamente rifondata, col nuovo nome di «Cesarea», la città di Cesare. Egualmente significativa fu la scelta di celebrare a Milano, in S. Ambrogio, il matrimonio del figlio dell’imperatore, Enrico, con Costanza d’Altavilla, come pure la coniazione di una moneta d’argento che portava, insieme,
L’esercito imperiale, decimato da un’epidemia, è costretto a riparare in Germania. Fondazione della città di Alessandria. ● 1175 Assedio fallito di Alessandria da parte dell’imperatore. ● 1176 Battaglia di Legnano; vittoria di Milano sull’esercito imperiale. ● 1177 Pace di Venezia tra Federico Barbarossa e papa Alessandro lII, che l’imperatore riconosce come solo pontefice legittimo. ● 1183 Pace di Costanza tra l’imperatore e i Comuni. ● 1190 Morte di Federico Barbarossa, annegato in Cilicia durante la terza crociata. ● 1226 Ricostituzione della Lega Lombarda contro l’imperatore Federico Il. ● 1237 Battaglia di Cortenuova; vittoria di Federico Il sui Milanesi. ● 1248 Disfatta delle truppe di Federico Il sotto le mura di Parma. ● 1250 Morte dell’imperatore Federico Il. La Lega Lombarda non verrà piú rinnovata. ● 1168
Rilievo apotropaico dell’antica Porta Romana di Milano, in cui la tradizione vuole sia sbeffeggiato l’imperatore.
il nome di Federico e quello di Milano. La pace di Costanza non significò la fine della Lega, alla quale, anzi, l’imperatore dovette concedere un riconoscimento formale. Venuta meno l’emergenza militare, tuttavia, essa cessò in pratica ogni attività, anche perché l’egemonia milanese la rendeva superflua: sempre piú spesso i Comuni della Lega erano governati non da propri consoli, ma da podestà milanesi. Solo a partire dal 1226, quando l’imperatore Federico II volle nuovamente imporre la propria autorità in Lombardia, la Lega riacquistò per qualche tempo la sua funzione primaria, sotto la direzione milanese; era, di fatto, la resurrezione di un organismo defunto, tanto che risultò necessario rinnovare il giuramento di adesione. Questa, che gli storici chiamano la seconda Lega Lombarda, ebbe dapprima un esito meno brillante rispetto a cinquant’ anni prima, come testimonia la disfatta di Cortenuova, nel 1237, in cui il Carroccio cadde nelle mani degli imperiali; ma in seguito la guerra venne condotta con maggior successo, e quando Federico II morí, nel 1250, le ultime possibilità di una vittoria imperiale erano tramontate da tempo. Con la scomparsa di quell’ultimo poderoso avversario anche la funzione della Lega veniva meno, ed essa non fu piú rinnovata; si preparava, ormai, un’altra stagione, quella dell’egemonia non piú mascherata di Milano in Lombardia, sotto la signoria viscontea. L’ITALIA DEI COMUNI
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Atlante dell’Italia comunale L’avvento dei Comuni segna l’inizio di una stagione cruciale nel Medioevo del nostro Paese, con mutamenti politici e sociali che si riflettono anche sugli assetti urbanistici, ridisegnando il volto delle città. Ecco dunque, nella seconda parte di questo Dossier, una guida alla riscoperta dei casi piú significativi di Furio Cappelli
Nella pagina accanto l’assetto geopolitico dell’Italia nell’età comunale (fine dell’XI-XIV sec.). A destra Bologna. Le Torri Garisenda (o dei Garisendi; a sinistra) e degli Asinelli, simbolo della città. Sorsero entrambe nei primi due decenni del XII sec. L’ITALIA DEI COMUNI
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VERONA
Nella città dell’Arena L
a città veneta edificata sulle due sponde del fiume Adige era un illustre centro urbano già in età romana. Per evocare i fasti di quel periodo, è sufficiente richiamare l’immagine del monumento-simbolo di Verona, l’anfiteatro, assai ben conservato e tuttora utilizzato come luogo di spettacolo, meglio noto come Arena. Ma non si dovrebbero dimenticare l’arco trionfale dei Gavi, nei pressi di Castelvecchio, o l’imponente Porta dei Borsari,
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situata sull’asse viario che costeggiava il foro antico, e che ha continuato a svolgere il suo ruolo di importante direttrice urbana nell’assetto medievale della città. La predominanza dell’Arena e la solida cerchia muraria antica, fortificata da un fitto circuito di torri, sono i tratti piú efficaci della Iconografia di Verona, un’immagine a volo di uccello del paesaggio urbano che il vescovo locale Raterio condusse con sé, in ricordo della sua città, nel suo
forzato esilio d’Oltralpe (968). L’originale è andato perduto, ma si conserva fortunatamente una copia settecentesca assai preziosa, che tramanda cosí il piú antico memoriale iconografico di una città del Medioevo italiano. Si conserva poi un componimento poetico risalente agli anni 781-810 in onore della città. Rappresenta uno dei piú antichi esempi di laudes civitatum, e sembra un perfetto controcanto letterario della Iconografia di Raterio. L’essenza antica di Verona non emerge dal racconto storico, che prende quota, piuttosto, dalle vicende dei santi illustri dei primordi della cristianità, fino alla serie dei vescovi, tra cui spicca il patrono san Zeno (IV secolo). La Verona dei Cesari fa da palcoscenico attraverso le pietre delle sue persistenze monumentali, evocate in diversi modi. Dell’Arena si impone all’attenzione la sua immensa struttura labirintica, che suscita stupore e inquietudine nell’osservatore. D’altro canto, le solide e insormontabili mura, punteggiate da 48 torri, otto delle quali altissime, impreziosiscono e presidiano la città in modo mirabile, come se fosse una Gerusalemme celeste calata nel mondo terreno. Le fortificazioni della città pagana entrano cosí a pieno titolo nell’immagine urbana della città cristiana. Verona è stata sede regale all’epoca di Teodorico (493-526), e ritrovò questo ruolo sotto Berengario I (888-924), in uno dei periodi piú convulsi del Regno italico. Ma se si è persa traccia del palatium che dovette accogliere la corte del sovrano, presso l’antico castrum sulla riva sinistra dell’Adige, rimane ancora ben leggibile la ma-
glia dei santuari che fortificarono spiritualmente la città, e che le diedero una precisa identità nel corso della rinascita del pieno Medioevo. Un ruolo di primo piano fu giocato sin da subito dall’antica chiesa di S. Zeno Maggiore, fuori le mura, che accoglieva le spoglie del vescovo e santo patrono cittadino, oriundo dell’Africa come sant’Agostino: un personaggio colto e autorevole, che esprime con vigore lo spirito di grandezza e di distinzione della Verona medievale.
Forte come un baluardo
San Zeno è, per Verona, il corrispettivo di sant’Ambrogio per Milano. Lo si vede bene nell’assetto attuale della sua basilica, che risale ai primi decenni del XII secolo, nel pieno della rinascita cittadina. Lo scultore Niccolò, nel 1136, lo rappresentò sulla lunetta del portale principale, imponente nei suoi paludamenti vescovili. Ai suoi fianchi appaiono, a destra, otto cives (fanti) armati di spada mentre, sul lato opposto, si evidenziano quattro milites, con tanto di cavalli e di armatura pesante. L’iscrizione recita: «Il presule dà al popolo un’insegna che ha la stessa forza di un baluardo; Zeno concede il vessillo con animo sereno». Come è evidente, assistiamo a una trasparente rappresentazione della realtà civica del tempo, laddove il vescovo, impersonato dal patrono, è affiancato dai rappresentanti dei ceti piú rilevanti, distinti come di consueto dall’appartenenza o meno al rango cavalleresco. È chiaro, dunque, che il vescovo esercita un potere spirituale, esplicitamente richiamato dal
In alto Verona. S. Zeno. Veduta della lunetta policroma del portale in cui, ai lati del santo titolare della basilica, compaiono una schiera di fanti (cives) e una di cavalieri (milites). 1136. Nella pagina accanto veduta a volo d’uccello della città di Verona nel X sec. nota come Iconografia Rateriana, perché attribuita al vescovo Raterio, che, in realtà, ne fu solo il possessore.
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In alto Verona. Veduta dell’anfiteatro cittadino meglio noto come Arena. I sec. d.C. Nella pagina accanto Verona. Scorcio della torre realizzata nel 1172 dalla famiglia dei Lamberti e inglobata nel Palazzo della Ragione, già broletto della città.
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Verona
sacro vessillo piú potente di qualsiasi fortificazione, ma demanda agli organi del nascente Comune la difesa della città e tutte le altre mansioni di interesse generale. Merita inoltre d’essere rilevato il rapporto numerico non casuale tra i cives e i milites, nell’ordine di 2:1, per evidenziare la diversa consistenza dei due ceti (i fanti sono naturalmente piú numerosi dei cavalieri, ma hanno un «peso specifico» minore: ci vogliono due fanti per contrappesare un cavaliere). La distinzione di ruoli tra l’ambito religioso e l’ambito civile si riflette nell’ubicazione della sede comunale presso l’antico Foro, sede storica del mercato cittadino (l’odierna piazza delle Erbe), che non coincide con la sede del duomo e del palazzo vescovile. L’attuale broletto (il
Palazzo della Ragione) è attestato già nel 1196 ed è il piú antico di quelli superstiti. Sin dall’inizio è stato concepito a pianta quadrilatera, con quattro ali che definiscono un cortile porticato centrale (il Mercato Vecchio), alla stregua dei chiostri monastici. Sobrio e al tempo stesso elegante, il palazzo presenta pareti composte da filari di tufo color crema alternati a rossi strati di mattoni, secondo uno stile locale che si ravvisa nella stessa basilica di S. Zeno. Il piano superiore, che accoglieva le aule di riunione, ampiamente rimaneggiate, è illuminato da trifore che sottolineano la dignità «palaziale» dell’edificio, in allusione alla loggia (triforium) da cui si affacciava il sovrano negli antichi centri del potere.
VIVERE DA SIGNORI
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I BROLETTI DELLA PIANURA PADANA
Un modello duraturo e di grande successo SVIZZERA Bolzano S Sondrio Aosta
Como o Biella
Novara Torino
Trento
Lecco
Bergamo
Treviso
Brescia B Milano
Asti
Mantova
Verona
Alessandria Piacenza Parma Modena
Cuneo Savona
D
Genova
opo la pace di Costanza (1183) e nel giro di pochi anni, il palazzo comunale diviene un elemento cruciale nell’assetto urbanistico di tutte le città che erano state piú o meno coinvolte nella contesa con il Barbarossa. Si crea cosí una tipologia di edificio pubblico di lunga fortuna, il «broletto», ben presto estesa anche all’Italia centrale. Esistono le varianti legate alle tradizioni costruttive locali e alla composizione delle maestranze impegnate, ma il modello del palazzo porticato con le grandi aule o la sola grande aula di riunione al primo piano viene fedelmente riproposto in ogni situazione. Il portico del pianterreno, quando non è chiuso nel recinto del cortile, si presenta sempre con un aspetto «permeabile» nei riguardi dello spazio urbano, in corrispondenza di una piazza o di una via centrale: attraverso questo spazio aereo, spesso interamente percorribile da un lato all’altro dell’edificio, l’autorità pubblica si cala in modo tangibile nel vivo della realtà urbana, e, al di là degli effetti visivi, ricava an92
Belluno
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Bologna
In alto cartina che riporta l’ubicazione delle città padane in cui sorgono i broletti citati nell’articolo. Sulle due pagine Bergamo. La facciata del broletto che prospetta sulla piazza Vecchia, realizzata all’indomani della conquista veneziana. 1183-1198.
che dei benefici in moneta sonante, grazie alla locazione degli spazi coperti ai negozianti e agli artigiani. Nasce cosí quel concetto di spazio urbano elegante, confortevole, ricco di movimenti di persone, di denaro e di merci, che venne sempre piú finemente sviluppato nella progettazione delle piazze e delle vie di rappresentanza, fino a ispirare, ai giorni nostri, i centri commerciali introdotti oltreoceano, che sono, alla radice, un tentativo di ricreare su scala industriale gli ambienti maggiormente frequentati delle città d’arte d’Italia.
BERGAMO Già esistente nel 1198, il broletto di Bergamo fu probabilmente realizzato negli stessi anni in cui venne consacrato il nuovo altare della prospiciente basilica di S. Maria Maggiore (1184-85). Fa angolo con la cattedrale, e la facciata principale prospettava in origine sul sagrato della chiesa (l’odierna piazza Duomo). Alla metà del XV secolo, in seguito alla conquista veneziana, venne istituita sul fronte opposto una nuova facciata, secondo lo stile della Serenissima. Il portico fu rielaborato per favorire il dialogo tra lo spazio pubblico civico di nuova definizione (l’odierna, rinascimentale piazza Vecchia) e l’antico polo di piazza Duomo, che conservò la sua centralità nella vita religiosa cittadina.
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ATLANTE
I broletti della Pianura Padana
A destra Novara. Uno scorcio del cortile centrale del broletto. NOVARA Risalente agli anni 1208-10, il broletto di Novara spicca grazie alla preziosa decorazione pittorica che si sviluppava all’esterno, lungo il coronamento. Nei palazzi pubblici e nelle chiese, dovevano essere molti i complessi pittorici a carattere profano, ma di essi rimangono spesso solo alcuni frammenti, o una semplice attestazione documentaria. Il fregio di Novara è perciò assai prezioso, anche se ben leggibile solo nella fascia superiore, che doveva essere quella prettamente decorativa, marginale: le figure, prive di relazione narrativa, hanno la stessa funzione dei marginalia (figure di contorno) che compaiono nei capilettera dei codici miniati o lungo i bordi del cosiddetto Arazzo di Bayeux (1066-1077). Assistiamo cosí a combattimenti tra cavalieri, tra popolani, a lotte tra uomini e bestie feroci. Non mancano singole figure mostruose, come nei bestiari tipicamente medievali, o scene di corteggiamento. Como. Uno scorcio della piazza del Duomo, sulla quale prospetta, oltre alla chiesa cattedrale, il broletto della città.
Qui sopra Novara. Particolare del fregio dipinto che orna il broletto raffigurante una scena di combattimento fra uomini e belve. COMO Intorno al 1215, per volere del podestà Bonardo da Cadazzo, prendeva forma il broletto di Como, completamente rivestito da un paramento in marmo a fasce di colore alternato. È delimitato a nord dalla mole della torre civica, impostata su una solida struttura di conci lavorati a bugna (la torre attuale è in larga parte una ricostruzione del 1927), mentre a sud si impone 94
L’ITALIA DEI COMUNI
la ben piú ampia struttura del duomo, che ha finito per «scalfire» l’edificio civico. Durante gli ampliamenti rinascimentali, infatti, fu sacrificata una parte della campata sud del broletto, in origine corredata dallo scalone esterno di collegamento al primo piano. Il portico di pianterreno forma un ambiente unico, ma, in precedenza, i due lati erano separati da una parete, cosicché ogni facciata aveva il suo rispettivo portico. BRESCIA Il nuovo broletto di Brescia, realizzato in sostituzione di un prospiciente palazzo attestato nel 1187, si trova di fianco al Duomo Nuovo (S. Pietro de Dom). Risale agli anni 1223-54. I lavori furono condotti da Bonaventura Medico con l’apporto del «misuratore» Garefa di Portanova. L’ala maggiore (Palatium novum maius), aderente all’antica Torre del Popolo (in dialetto, la Tor del Pégol, ossia del mercante), presentava al piano superiore un grande salone affrescato, coperto da un soffitto ligneo e illuminato da ampie polifore. Era destinato alle riunioni del Consiglio maggiore. Resti cospicui della piú antica decorazione pittorica, eseguita a tempera su intonaco secco alla fine del XIII secolo, si osservano sulle pareti nord e sud. Si tratta di due lunghe teorie di cavalieri corrucciati (in origine un centinaio), legati l’un l’altro da catene. Sono con ogni probabilità fuoriusciti, o comunque rivoltosi di parte ghibellina messi fuori gioco in battaglia, e ancora piú umiliati dalla pubblica rappresentazione in questo raro esempio di pittura infamante. In tal modo, infatti, questi nemici della pace e del buon governo venivano additati alla cittadinanza, come monito esemplare, al chiaro scopo di scoraggiare chiunque avesse voluto imitarne le gesta. Nel palazzo bresciano, tuttavia, non mancano elementi di gusto raffinato, di un’eleganza che travalica la funzione didattica dei dipinti. Una delle quadrifore del cortile sfoggia sulle due colonne laterali in marmo rosso capitelli istoriati di notevole complessità, che concentrano in un coacervo di figure le personificazioni dei mesi e
In alto Brescia. Il broletto addossato alla Torre del Popolo (conosciuta popolarmente come Tor del Pégol, cioè «del Mercante»). XII sec.
i segni zodiacali. La Loggia delle Grida, ripristinata nel lato su piazza nel 1902 dopo essere stata abbattuta dai giacobini nel 1797, era destinata alla lettura pubblica delle disposizioni, e ripropone alla base le mensole originarie, con la figura centrale della Giustizia, affiancata da due presumibili magistrati e da quattro telamoni. MILANO Di tutt’altro genere e di ben diverso impatto è invece il ritratto scultoreo del podestà Oldrado da Tresseno, raffigurato mentre incede a cavallo, in una nicchia del nuovo broletto di A sinistra Brescia. Particolare di uno dei cavalieri ritratti sulle pareti del salone del broletto: si tratta di un raro esempio di pittura infamante, che verosimilmente ritrae alcuni fuoriusciti o rivoltosi. L’ITALIA DEI COMUNI
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ATLANTE
I Broletti della Pianura Padana nella convinzione che fosse il ritratto di Costantino, il primo imperatore cristiano. Ma la celebrazione scultorea dei fasti del Comune conobbe altri episodi memorabili nella decorazione delle predette porte urbiche (sono ancora in piedi Porta Ticinese e Porta Nuova). A Porta Romana, come mostrano i rilievi superstiti delle fasce su cui si impostavano gli archi, il pilastro centrale raccontava l’uscita degli esuli milanesi dalle città alleate (Cremona, Bergamo, Brescia), indicate da porte turrite, e il loro rientro in città sotto la guida di un sacerdote, tale frater Jacobus, che incede reggendo un vessillo in mano. Sul pilastro destro, come attesta l’unica scena rimasta, appariva sant’Ambrogio nell’atto di scacciare dalla città una lunga schiera di eretici. Il fregio, realizzato nel 1171 da Anselmo, che si definisce orgogliosamente come un Dedalo redivivo, e da Gerardo, che esalta dal canto suo l’eloquenza del proprio magistero, possiede l’efficacia e la brutalità della scultura tardo-antica. Ed è impressionante come tale ricerca sia al servizio di una narrazione che riguarda i fatti recentissimi della distruzione di Milano (1162) e della costituzione della Lega Lombarda (1167). Nella stessa, arbitraria evocazione di un Ambrogio intollerante, si può cogliere un’allusione alla furia con cui il patrono della città si accanisce contro i suoi nemici.
Milano, nella facciata che prospetta su piazza dei Mercanti. Realizzato negli anni 1228-33, il palazzo rientra nelle maglie di un vero e proprio piano regolatore approntato dal Comune dopo le devastazioni patite dalla città per mano del Barbarossa. In particolare, il broletto doveva costituire il fulcro di un nuovo assetto urbanistico radiocentrico: lí dovevano culminare le sei direttrici viarie principali, facenti capo alle altrettante nuove porte monumentali della cinta muraria. L’epigrafe di corredo del ritratto di Oldrado definisce «regali» i portici del palazzo e invita a ricordare il magistrato, oriundo di Lodi, come «difensore e spada della fede», come costruttore dell’edificio (fu lui a inaugurarlo) e come milite spietato dell’ortodossia, visto che allestí diversi roghi in cui perirono i seguaci dell’eresia catara. Sormontato dall’aquila, che allude sfrontatamente alla maestà dell’imperatore sconfitto, il podestà si propone con straordinario protagonismo, come se fosse un eroe dell’antichità. D’altronde, un ritratto del genere non poteva prescindere dalla notissima statua romana del Marco Aurelio, allora conservata sul Laterano, 96
L’ITALIA DEI COMUNI
In alto Milano. Una veduta del Broletto Nuovo. 1228-1233. A sinistra la scultura che originariamente decorava Porta Tosa a Milano, raffigurante una donna intenta a radersi il pube. XII sec. Milano, Castello Sforzesco.
Celebre è poi l’immagine che decorava la scomparsa Porta Tosa, che mostra una donna intenta a rasarsi il pube. La sfrontatezza del gesto trova un efficace contrappunto nell’eleganza e nell’accuratezza del rilievo, con un tocco di sensibilità antica nella tunica che scende dolcemente dietro le gambe della figura. D’altro canto, l’inquadramento a edicola, con un arco su due colonne, era lo stesso adottato per incorniciare le immagini dei profeti e dei dottori della Chiesa. La tradizione fornisce due spiegazioni del singolare soggetto. Si tratterebbe della moglie del Barbarossa, oppure di una prostituta che si accinse a compiere questo delicato esercizio di toletta di fronte alle truppe nemiche, per provocarle e deriderle. Il mistero permane, ma con un’immagine del genere è indubbia la volontà di colpire salacemente le velleità di chiunque si accosti a Milano con intenzioni bellicose. E in ogni caso, questa scultura e i rilievi di Porta Romana meritano già da soli una visita alle raccolte museali del Castello Sforzesco.
In alto incisione raffigurante il broletto di Piacenza. 1860. Piacenza, Biblioteca Comunale «PasseriniLandi».
PIACENZA Per concludere questa rassegna dell’edilizia civica padana, merita una menzione il broletto di Piacenza, meglio noto come «il Gotico», realizzato negli anni 1281-83 presso l’insediamento dei Francescani, in un’area ben distinta dall’antico polo della cattedrale. Il nuovo palazzo sostituí l’antica sede comunale attestata per la prima volta proprio nel 1183, l’anno della pace di Costanza. La tipologia dell’edificio pubblico di rappresentanza viene riproposta fedelmente, ma questo esemplare spicca per la particolare cura riposta nell’elaborazione decorativa delle facciate, con una profusione di intarsi e di fregi a stampo sul piano superiore, dove si insinuano echi di arte moresca. Lo stesso stile e la stessa tecnica si riflettono nella sala capitolare della vicina fondazione cistercense di Chiaravalle della Colomba, dove il complesso monastico fu ricostruito dopo la devastazione subita per mano di Federico II (1248), che lo saccheggiò e lo diede alle fiamme. L’ITALIA DEI COMUNI
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PERUGIA
La piú illustre del contado N
ell’aprile 1234 il popolo perugino consegue una vittoria epocale sull’aristocrazia cittadina. Viene infatti emanato un provvedimento che prevede l’equa riscossione delle tasse, in base alle proprietà dei contribuenti, da registrare rigorosamente in appositi catasti. A danno di coloro che detenevano case e terreni in abbondanza, veniva cosí fatto valere il principio che il contributo alle spese di interesse pubblico doveva essere proporzionato
A destra Veduta di Perugia (particolare), tempera su pergamena di Gaspar van Wittel. Inizi del XVIII sec. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. In basso gli originali delle statue in bronzo del leone e del grifone. Realizzate in origine per la tomba di sant’Ercolano, nel 1281 furono collocate sulla fontana di Arnolfo di Cambio. Perugia, Palazzo dei Priori.
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VIVERE DA SIGNORI
alle disponibilità economiche dei singoli cittadini, senza possibilità di esenzioni e di trattamenti di favore. La norma riportava in auge uno dei princípi del diritto romano e non fu un caso se l’epigrafe chiamata a celebrare questa vittoria del popolo fosse stata incisa su lastre di marmo già utilizzate in alcuni antichi monumenti della città. La Pietra della Giustizia, eloquente documento della piena affermazione del Comune perugino, fu apposta proprio nel cuore di Perugia, alla base dell’antico campanile dodecagonale del duomo. Una copia dell’epigrafe (l’originale è conservato nel prospiciente Palazzo dei Priori) si osserva tuttora all’esterno delle strutture superstiti della torre, oggi inglobate nel fianco sinistro della chiesa.
Un riferimento per tutta la comunità
A quell’epoca la piazza pubblica si limitava all’area oggi individuata dalla Fontana Maggiore (è l’attuale piazza IV Novembre). Lí prospettava la facciata romanica del duomo, di fianco alla torre, che aveva assunto un ruolo di riferimento civico ben oltre le sue funzioni strettamente religiose. Come in molte città italiane, infatti, la torre del duomo di Perugia identificava la città nel suo punto sommitale anche da una visione distanziata, e le sue campane, all’occorrenza, potevano suonare per le adunate pubbliche o in caso di pericolo. La sacralità civica di questo spazio
Perugia. Veduta di piazza IV Novembre con il Palazzo dei Priori, e, in primo piano, la Fontana Maggiore.
emerge bene dalla norma promulgata nel 1299, che afferma la nullità degli atti pubblici non emanati nella Piazza Grande. Su un altro lato si osserva tuttora il Palazzo arcivescovile, che congloba le strutture destinate a ospitare in una prima fase storica (fino a quasi tutto il Duecento) le magistrature civiche, che si trovavano cosí a «coabitare» nello stesso spazio detenuto dal vescovo e dai canonici del duomo. Proprio in quel complesso, per giunta, aveva risieduto in piú occasioni il papa con la sua corte al seguito. La «convivenza» tra l’episcopato e il Comune poteva conoscere momenti di rivalità e di tensione, ma la condivisione di uno stesso complesso edilizio rappresenta bene una contiguità di intenti tra potere religioso e civile. D’altronde, l’orientamento politico filopapale di Perugia, mantenuto anche nei momenti piú difficili della lotta tra il pontefice e l’imperatore, favoriva l’autonomia e l’intraprendenza della componente popolare, visto che gli interessi del ceto artigianale e mercantile erano meglio rappresentati da un Comune «guelfo», mentre i Comuni «ghibellini» tendevano a essere guidati dall’aristocrazia di vecchio stampo, con forti leve di potere signorile sul territorio. Perugia, dal canto suo, intende da subito giocare un ruolo preminente sul contado e riacquisire le sue antiche prerogative di città illustre e predominante, proprio in evidente conL’ITALIA DEI COMUNI
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ATLANTE
Perugia
trasto con gli interessi signorili, oltreché in lizza con altre città (Assisi, per esempio) per allargare i propri confini. La realizzazione di questi intenti sul piano urbanistico è sorprendente. Si compie, infatti, un lungo percorso di iniziative coordinate di ampio respiro, che mirano a riconfigurare il polo cittadino sul piano simbolico e funzionale, in ogni sua componente, coinvolgendo lo spazio destinato alle attività mercantili cosí come la sede delle magistrature civiche, nonché lo stesso duomo di S. Lorenzo. La città si amplia, le sue attività economiche si diversificano, si specializzano e si moltiplicano, e maturano quindi tutti i fattori che determinano la generale riconfigurazione del cuore della città. Si è giustamente parlato di un «piano regolatore» per rendere l’idea di come queste iniziative non fossero slegate e per evidenziare che tali e tanti cantieri richiedessero grandi capacità progettuali e organizzative. D’altronde, compare persino un protagonista di spicco che lega il proprio nome alla maggior parte di queste imprese: il benedettino fra’ Bevignate.
Quasi un «padre della patria»
Le competenze legate alla gestione e all’organizzazione dei cantieri ne fanno un grande impresario di fiducia del Comune, un «ingegnere» antesignano su cui Perugia confida molto. La città lo ricorda con un entusiasmo e un’ammirazione che sfociano nell’affetto filiale: l’epigrafe celebrativa che campeggia sulla Fontana Maggiore (1278) pone il suo nome in testa all’elenco degli artefici, prima quindi degli stessi scultori Nicola e Giovanni Pisano, raccomandando che all’ingegnoso monaco vengano riservati gli stessi onori che in una famiglia sono dovuti a un padre. Il sovrintendente ai lavori della fontana, là dove zampilla l’acqua del Monte Paciano – lí convogliata dopo un’impresa lunga e difficoltosa – può essere annoverato alla stregua di un «padre della patria». Lungo le strade «regali» che si irraggiano attraverso le cinque principali porte della cinta etrusca, si sviluppano nuovi borghi. Il processo di ampliamento si avvia nel XII secolo e trova il suo apice nei primi decenni del XIV secolo, prima che si abbatta la sciagura della Grande peste (1348). Proprio negli anni Trenta del Trecento viene ultimata la nuova cerchia muraria, che ingloba la città nella sua interezza, con uno sviluppo lineare di 6 km, pari a oltre il doppio dell’estensione antica (2,9 km). Intorno al 1285 la popolazione ammonta a 27 000 abitanti, quando Bologna ne ha 50 000 e Milano 100 000. 100
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In alto Perugia. La chiesa di S. Ercolano, costruita a ridosso delle mura etrusche. 1297-1326. Nella pagina accanto La sepoltura di sant’Ercolano, particolare di affresco dalle Storie di sant’Ercolano dipinte da Benedetto Bonfigli per la Cappella dei Priori. 1454-1480 circa. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.
Di pari passo all’aumento demografico e alla crescita economica della città, la piazza Grande si amplia e si rinnova. Tra il 1292 e il 1296 si realizza il primo nucleo dell’imponente Palazzo del Popolo (oggi dei Priori), la nuova sede delle magistrature civiche. Il nome attuale dell’edificio individua in particolare il collegio dei 10 rappresentanti delle corporazioni cittadine (Priori delle Arti), istituito nel 1303. Essi coabitavano con il podestà e con il capitano del popolo e ne sopravanzavano l’autorità, essendo di fatto, per un lungo periodo, i rappresentanti della città e i principali detentori del potere esecutivo. La parte originaria dell’edificio coincide con il vasto invaso della sala dei Notari, l’aula consiliare cosí chiamata perché ospitò sin dal 1592 il collegio omonimo.
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In alto L’assedio di Totila, affresco di Benedetto Bonfigli, dalle Storie di Sant’Ercolano. 1454-1480 circa. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. La composizione si ispira ai fatti del 548, quando la città fu presa dai Goti, dopo un lungo assedio. A destra Perugia. Un suggestivo scorcio del centro storico.
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Perugia
A essa corrisponde la parte della facciata su piazza in cui si apre il portale affiancato dalle effigi bronzee degli animali-simbolo della città, il leone e il grifo, di gusto anticheggiante. Trasferite all’interno del palazzo, le due opere sono oggi sostituite in situ da copie. Provengono dalla smembrata fontana monumentale che Arnolfo di Cambio allestí ai piedi della Piazza Grande (1281). Già realizzati nel 1274 per interessamento del Comune in onore del patrono sant’Ercolano, il leone e il grifo vegliavano in origine sul sepolcro del santo all’interno della cattedrale, per poi affiancarne la statua durante la processione che si teneva nel giorno della festa. Sia nel leone che nel grifo, si notano, infatti, gli alloggiamenti per i travetti di legno che ne permettevano il trasporto. Occorrevano trentadue persone per tenere innalzato il catafalco lungo il percorso, con la statua nel mezzo e le due fiere ai lati. Nell’occasione, entrambe le effigi erano ricoperte di tessuti pregiati, che poi venivano venduti a prezzo assai elevato, alla stregua di sante reliquie, visto che erano stati a contatto con i sacri custodi della statua e del sepolcro del patrono. In circostanze del genere, è davvero arduo stabilire il confine tra ambito religioso e ambito civile, tra sacro e profano: si tratta di una situazione tipica della «religiosità civica» che rappresenta uno dei punti di forza dei Comuni italiani. Oltre a esprimere forza e inviolabilità, i due bronzi avevano un valore araldico come simboli cittadini. Il leone, in particolare, rimandava all’autorità papale ed era simbolo della parte guelfa; il grifo, divenuto in seguito unico animale-simbolo di Perugia, ebbe a quanto pare fortuna come emblema immortale della città primigenia. Il Palazzo dei Priori conobbe poi una lunga vicenda di ampliamenti, fino al Quattrocento, quando si realizzò l’ala piú recente, scavalcando la via dei Priori con l’ausilio dell’Arco omonimo. Lo sviluppo del complesso segnava anche l’ampliamento progressivo della piazza, che venne cosí a estendersi lungo l’attuale corso Vannucci. Trovavano sede le potenti corporazioni del Cambio (ossia dei cambiavalute), dei Mercanti e dei Notai, e le attività commerciali e bancarie potevano usufruire dei locali di pianterreno messi a disposizione dallo stesso Palazzo dei Priori. La necessità di reperire ulteriori spazi spinse a realizzare un cospicuo terrazzamento al di sopra di un ripido pendio, di fianco alla cinta etrusca: avviato nel 1247, il Sopramuro permise la creazione dell’attuale piazza Matteotti, parallela al corso Vannucci. Nel contempo, sorgevano i conventi degli ordi-
La Madonna della Misericordia raffigurata nel gonfalone dipinto da Benedetto Bonfigli, originariamente custodito nella cappella Oddi della chiesa di S. Francesco al Prato. 1464. Perugia, Oratorio di S. Bernardino.
ni mendicanti e le stesse chiese parrocchiali assumevano una nuova veste, grazie anche al ruolo strategico delle associazioni di quartiere che le elevava a simboli e punti di ritrovo. Ben presto gli statuti contengono precise norme che disciplinano l’edilizia privata, mirando in particolare a evitare che le piazze e le strade principali vengano imbruttite da ballatoi, casupole e tettoie lignee. Non mancano norme sulla prostituzione, che può essere esercitata esclusivamente nel bordello pubblico in via «di Malcucina», a pochi passi dal Palazzo dei Priori. L’ITALIA DEI COMUNI
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FIRENZE E SIENA
Il Giglio e la Lupa
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irenze e Siena esistevano già in età romana, ma, in origine, erano ben poca cosa rispetto a quel che divennero al tempo della loro prodigiosa fioritura comunale. In ogni caso, la circostanza non impedí la reinvenzione in senso trionfale della nascita delle due città. Proiettandosi nel passato, e immaginando dunque di aver goduto della propria potenza e della propria floridezza sin da tempo immemorabile, Firenze si riteneva una sorta di «gemella» di Roma, tanto che, già nel XIV secolo, l’illustre battistero di S. Giovanni (11181150), prima compiuta emanazione della rinascita cittadina, veniva presentato come il tempio di Marte dell’antica Florentia, adattato al
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In alto replica ottocentesca della Veduta della Catena, realizzata da Francesco di Lorenzo Rosselli. 1472 circa. Firenze, Palazzo Vecchio. L’opera, il cui appellativo deriva dalla catena chiusa da un lucchetto che la circonda (non visibile in questo particolare), è un documento di straordinaria importanza per la conoscenza dell’assetto urbano di Firenze. Sulle due pagine Firenze, veduta della cattedrale di S. Maria del Fiore.
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Firenze e Siena
In alto e in basso due delle formelle che decoravano il Campanile di Giotto raffiguranti l’Arte della medicina (in alto) e l’Arte dell’architettura.
Qui sopra Firenze. Scorcio di Palazzo Vecchio (o della Signoria), già dei Priori, forse realizzato su progetto di Arnolfo di Cambio. 1299-1310.
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culto cristiano in tempi remoti. La riproposizione di tecniche e di modelli formali antichi, tesa persino a imitare l’impaginazione interna del Pantheon, finiva cosí per trasformare la chiesa battesimale dei Fiorentini in una prodigiosa reliquia del mondo romano. Dal canto suo, Siena si riteneva fondata da Aschio e Senio, figli fuggiaschi di Remo. Avendo rubato allo zio fratricida una statua marmorea della Lupa capitolina, i due mitici fondatori fecero dell’animale stesso un simbolo della città e della sua tradizione repubblicana. Anche l’espansione demografica e la cura nella pianificazione urbanistica connotano e accomunano le immagini delle due città toscane. Simile, infatti, è l’intensità con cui aumentano gli spazi
edificati intorno al nucleo storico principale, e simile è lo sviluppo organico e razionale attuato dalle autorità cittadine nei riguardi degli spazi pubblici e degli edifici di rappresentanza, comprese le rispettive cattedrali, nelle cui Opere – gli enti preposti alla loro amministrazione –, figurava un’ampia schiera di rappresentanti delle Arti. Quando realizza la cinta muraria tradizionalmente legata al nome di Arnolfo di Cambio – lo scultore-architetto oriundo del territorio senese che tanta parte ha avuto nel momento nodale dello sviluppo della città-stato –, Firenze ha quasi quadruplicato il numero degli abitanti rispetto all’epoca in cui il battistero era stato ultimato. La cinta innalzata tra il 1172 e il 1175 circoscriveva infatti un impianto di 80 ettari, a beneficio di una popolazione di 25 000 abitanti. La nuova cerchia, realizzata tra il 1284 e il 1333, racchiude 100 000 abitanti su una superficie di 430 ettari. Nella nuova realtà molti interventi rettificano, amplificano e abbelliscono lo scenario urbano.
Severo e ferrigno
Per quel che concerne l’assetto viario, basti ricordare che si moltiplicano i ponti sull’Arno (nel 1252 se ne contano quattro), quando per secoli era bastato il solo Ponte Vecchio. Dopo l’edificazione del Palazzo del Capitano del Popolo (il Bargello), si pone mano al Palazzo dei Priori (oggi Palazzo Vecchio o della Signoria) forse su progetto dello stesso Arnolfo. Eretto tra il 1299 e il 1310, esso si presenta con una mole compatta, come un fortilizio, esaltato dalle mura bugnate e dalla merlatura sommitale, in linea con una tipologia di palazzo civico di ampia fortuna in Italia centrale, e ben differenziata per questo aspetto severo e ferrigno rispetto ai broletti padani. L’ampio coronamento sporgente e la svettante torre asimmetrica, che danno movimento all’insieme, stemperano l’effetto militaresco, mentre la rigorosa impaginazione delle facciate fa dell’edificio un modello di riferimento per gli sviluppi dell’architettura locale, anche in pieno Rinascimento. Nel vicino ma ben distinto polo episcopale, in luogo della cattedrale romanica di S. Reparata, Arnolfo intraprende nel 1294, proprio su incarico del Comune, la grande S. Maria del Fiore. Il titolo della nuova cattedrale allude alla purezza della Vergine, tante volte espressa in pittura da un giglio che Maria tiene in mano al momento dell’annunciazione della nascita di Cristo. Ma quel giglio allude anche alla città stessa di Firenze, e ne è infatti il simbolo, come si osserva nei celebri fiorini d’oro, visto che
Firenze. Il Campanile di Giotto, la cui costruzione fu avviata nel 1334.
proprio da un fiore (flos) avrebbe tratto origine il nome della città (Florentia). Il campanile di Giotto, al quale il pittore mise mano nel 1334 e di cui diresse il cantiere fino alla morte, portando a compimento la fascia basamentale, fu poi affidato nel 1337 ad Andrea Pisano, e lo stesso orafo-scultore – che aveva realizzato la piú antica delle porte bronzee del battistero, insieme a suo figlio Nino e ad altri collaboratori – è l’artefice del vasto corredo scultoreo che impreziosiva la base della torre (oggi trasferito nel rinnovato Museo dell’Opera del Duomo e sostituito in situ da copie per ragioni di conservazione). L’ampio complesso di immagini, intrapreso quando Giotto era ancora in vita, rende efficacemente lo spirito e la cultura della Firenze «repubblicana» del suo pieno apogeo: le forL’ITALIA DEI COMUNI
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Firenze e Siena
melle istoriate del campanile compongono una compiuta celebrazione delle attività dell’uomo, in piena consonanza con l’orgoglio e con il protagonismo di tutti coloro che si impegnavano a perpetuare e a rafforzare la potenza della città, dal fabbro all’architetto. Le attività che danno vigore e ragion d’essere a tutta la rappresentazione sono concentrate nelle 21 formelle esagonali della fascia inferiore (escluse le 5 aggiunte da Luca della Robbia). Secondo la gerarchia consueta, lí si presentano, talvolta personificati dai rispettivi inventori mitici, i mestieri piú umili (la pastorizia, le arti «meccaniche», come la medicina, l’agricoltura, la lavorazione dalla lana), ma vi sono anche significative interferenze con gli ambiti piú elevati della Virtus (la legislazione e la giustizia) e delle arti liberali, cosí chiamate per essere distinte dalle servili (compaiono infatti la musica e l’astronomia, due delle arti speculative del Quadrivio). Il ciclo prende avvio dal racconto della Creazione e, sin dalle prime battute, inserisce quindi il lavoro in una rigorosa cornice biblica, ma lo fa in modo particolare. Adamo ed Eva vengono evocati mentre si dedicano alle loro fatiche, senza che emerga un senso di vergogna o di patimento. Non c’è una scena che rievochi la cacciata dal Paradiso terrestre e, di conseguenza, i due progenitori sono intenti al lavoro dei campi in tutta naturalezza. Non stanno scontando una pena, ma svolgono semplicemente un compito assegnato da Dio. Senza nulla togliere al dettato biblico, il lavoro perde cosí l’accezione del castigo e, come ha evidenziato Chiara Frugoni, si presenta come il mezzo piú idoneo per acquisire meriti agli occhi del Creatore. 108
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Siena, Palazzo Pubblico, Sala del Consiglio. Maestà, affresco di Simone Martini. 1317-1321.
Naturalmente, le attività piú umili devono essere sottoposte alla guida e all’insegnamento forniti dalle sette Virtú, dai sette Pianeti, dalle sette Arti liberali e dai sette Sacramenti, puntualmente evocati sulla seconda fascia del ciclo. E ogni espressione dell’uomo può essere cosí ricondotta nel dettato dei profeti e dei massimi sapienti dell’antichità: le loro 16 statue dovevano coronare l’opera nelle nicchie dell’ultima fascia (solo otto statue furono eseguite nel XIV secolo). Ma resta evidente che, nei limiti di un ciclo figurato in un contesto religioso, il concetto stesso della salvezza viene rivisto in chiave laica e profondamente radicato nella realtà palpitante della vita urbana. Lo stile stesso dei rilievi trasforma elegantemente figure e momenti della vita quotidiana, e li nobilita in onore di un dinamico e multiforme mondo cittadino, dove ogni mestiere, al di là di ogni visione gerarchica, ha la sua importanza e la sua funzione. Le arti liberali possono sovrintendere dall’alto, come le virtú, ma l’atto concreto del ben operare acquisisce un ruolo di primo piano, accomunando artisti, medici, fabbri, contadini e pastori (anch’essi protagonisti della vita urbana, come fornitori di viveri e di materie prime).
Come una conchiglia
Passando a Siena, i fenomeni e le atmosfere che abbiamo evidenziato a Firenze trovano puntuali riscontri, anche se di ordine e di «accento» diversi. C’è un boom demografico con conseguente espansione urbana, che porta la città a totalizzare 52 000 abitanti nei primi decenni del XIV secolo, quando cento anni prima se ne potevano contare all’incirca 10 000. Un grande piano urbanistico rivoluziona il fulcro simbolico e funzionale dell’agglomerato urbano. Nella seconda metà del Duecento inizia infatti a configurarsi la piazza del Campo, con la sua caratteristica forma a conchiglia e il suo andamento digradante. È lo scenario su cui campeggia il Palazzo Pubblico (iniziato nel 1298), affiancato dalla Torre del Mangia. È lo spazio deputato alle assemblee e ai riti della cittadinanza, come il celeberrimo Palio, disputato in onore della Vergine, eletta a patrona della città dopo la vittoria di Montaperti (1260). Il palazzo segna lo «steccato» che distingue la piazza di rappresentanza da quella retrostante del mercato e, nell’uso del laterizio sull’elevato, come nel ricorso alle arcate di pianterreno o nell’evidenza degli elementi decorativi, offre una variante piú aperta e piú «lieve» rispetto all’interpretazione fiorentina dell’edificio forti-
ficato. Sempre in tema di riscontri, è inevitabile ricordare il grande impegno profuso nella ricostruzione della cattedrale, a partire dal cantiere guidato da Giovanni Pisano, fino al fallito tentativo di trasformare il nuovo edificio nel transetto di una cattedrale ancora piú grande. Ma è bene tornare al Palazzo Pubblico, perché le sale del suo piano nobile custodiscono un corpus di affreschi medievali perfettamente connessi alle vicende e agli ideali della Siena del primo Trecento. Nella sala del consiglio, la Maestà di Simone Martini, realizzata nel 1317 e rielaborata
Disegno a volo d’uccello della piazza del Campo, uno dei luoghi simbolo della città di Siena, dominata dal Palazzo Pubblico e dalla Torre del Mangia.
nel 1321 dallo stesso pittore, fa da pendant all’altra famosa Maestà, su tavola, eseguita da Duccio per la cattedrale (1308-11) e concepita come stendardo trionfale in onore della Vergine, da sfoggiare nelle solenni processioni. Manifesto eloquente di religiosità civica, l’affresco di Simone allude già alla simbologia comunale con il suo soggetto centrale, la Madonna in trono col Bambino. La frangia del baldacchino è adorna dello stemma senese (la balzana) oltreché di leoni rampanti, emblema del Popolo. E l’epigrafe basamentale, con i L’ITALIA DEI COMUNI
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Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove. Particolare del ciclo di affreschi con Allegorie ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti, raffigurante le allegorie del buon governo. 1338-1339.
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Firenze e Siena
moniti rivolti ai funzionari, rende ancor piú eloquente la rappresentazione: vi troviamo espresse, infatti, la condanna di chi persegue interessi privati, recando cosí offesa alla stessa Vergine prima ancora che alla città, e l’ammonizione a proteggere i piú deboli contro la prevaricazione dei potenti.
Una Babilonia biblica
Occorre però accedere alla contigua Sala dei Nove, cosí chiamata in memoria dei magistrati che ressero il Comune popolare tra il 1287 e il 1355, per ammirare il ciclo affrescato (1338-39) che è il piú compiuto manifesto della Siena «repubblicana». Il suo artefice, Ambrogio Lorenzetti, offre in prima battuta lo scenario apocalittico di una Siena che, insieme al suo contado, si è trasformata in una Babilonia biblica, in cui tutto è desolazione, prevaricazione, miseria e terrore. Un essere infernale campeggia sul trono, ed è la Tirannide. Nella parete contigua, all’inizio del ciclo, le si contrappone una rappresentazione di tutt’altro tono, nella quale un gruppo di 24 cittadini (in allusione al piú antico collegio che guidava il Comune popolare, composto appunto da 24 membri), si tengono a una corda che proviene dalla Giustizia ed è tesa tra la Concordia (da cum chorda, secondo una falsa etimologia allora in voga) e il Ben comune. Quest’ultimo troneggia in forma di solenne vegliardo ed esibisce l’emblema del Comune con la Maestà della Vergine.
Nella parete opposta all’infernale evocazione della tirannide, si svolge poi la meticolosa e gioiosa evocazione di una Siena che, anche in questo caso con tutto il suo contado, è sotto il segno della pace. Pace e guerra, entrambe personificate di fianco ai rispettivi signori, sono appunto i temi del ciclo, e la stessa sala era in origine intitolata alla Pace. Secondo una consuetudine entrata nell’uso nel Settecento, i dipinti sono noti come Allegorie ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, e una tale intitolazione rende bene la forza didascalica delle immagini. Efficacissima, in particolare, è la contrapposizione tra uno Stato retto da una sola persona (il tiranno) e un regime popolare, fondato sulla collegialità. La tirannia determina la crudeltà, il «popolo» è invece nel segno della prosperità. Da un lato c’è l’angoscia, dall’altro l’armonia. Il ricorso all’utopia nella visione ridente di Siena non lascia però inespressa una verità incancellabile. Il Ben comune è affiancato da schiere di armigeri, la Sicurezza vola in cielo esibendo un impiccato, la Pace, mollemente adagiata, esibisce un ramo d’ulivo che evoca una tregua. Ai piedi del vegliardo, due nobili signori sono ritratti nell’atto di cedere un castello, e un gruppo di prigionieri legati da una corda fa da pendant ai 24 cittadini. Come dire che l’armonia, per essere conquistata e difesa, esige la violenza. L’operosità del contadino e l’abilità dell’artigiano non bastano.
PISTOIA, VOLTERRA, MASSA MARITTIMA, ASSISI, BEVAGNA E GUBBIO
Palazzi a
M
olte illustri città toscane si affiancano a Firenze e a Siena nelle scelte urbanistiche e architettoniche, ciascuna esprimendo un proprio carattere inconfondibile, e talvolta agendo in netto anticipo rispetto ai due capoluoghi piú celebri. La presenza di due edifici ben distinti rimarca spesso l’autonomia e l’intraprendenza della magistratura popolare. A Pistoia, le due residenze comunali si fronteggiano nella stessa piazza del Duomo. Il Palazzo Pretorio mostra il carattere fortificato tipico dei palazzi civici toscani, mentre il Palazzo degli Anziani (oggi del Comune), con il suo aspetto elegante e il suo portico di pianterreno, ingentilisce il modello piú «rude» diffuso in regione, accogliendo l’idea di base del broletto padano: un palazzo con fronte porticata e con il piano nobiliare aperto da finestre ampie e rifinite. A Volterra il Prato (cosí era definito in origine lo spazio della piazza dei Priori) si distingue, invece, dalla retrostante piazza del Duomo. Anche qui c’è una contrapposizione tra le due residenze civiche. Al blocco compatto del Palazzo del Podestà (oggi dei Priori), il piú antico palazzo civico della Toscana (concluso nel 1254), risponde l’ampia quinta del Palazzo del Capitano del Popolo (oggi Pretorio), che è il risultato di una
confronto
Volterra. Scorcio della facciata del Palazzo dei Priori. 1254.
lunga vicenda di accorpamenti di residenze nobiliari pregresse, secondo un modo di procedere ricorrente nella genesi dei palazzi delle magistrature comunali in Toscana, come nel ricordato Palazzo degli Anziani della stessa Pisa. Un robusto portico di pianterreno conferisce slancio e leggerezza all’insieme.
Stemmi a profusione
Nel caso di Massa Marittima, invece, entrambi i palazzi si trovano nella stessa piazza su cui campeggia la cattedrale di S. Cerbone. Risultato finale di una vicenda di accorpamenti e di fasi costruttive distinte, il Palazzo comunale trova la sua definizione complessiva nel 1344, presentandosi sotto l’aspetto di una struttura fortificata, rinserrata tra due torri e coronata da una merlatura (che è un’aggiunta arbitraria del XIX secolo). Proprio di fianco alla cattedrale, il Palazzo del Podestà (oggi Pretorio), forse in corso d’opera nel 1231, si mostra con un’impaginazione piú rigorosa e omogenea. Vi ritroviamo alcuni aspetti tipici dei palazzi civici toscani, come la grande profusione di stemmi o il severo paramento in pietra (travertino, in questo caso), punteggiato in modo ritmico dalle buche pontaie: gli spazi in cui la muratura si interrompe L’ITALIA DEI COMUNI
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ATLANTE
Pistoia, Volterra, Massa Marittima, Assisi, Bevagna e Gubbio A sinistra Massa Marittima. Una veduta della piazza principale, dominata dall’architettura fortificata del Palazzo comunale, completato nel 1344. In basso, a sinistra, Volterra. Particolare della facciata del Palazzo Pretorio (in origine Palazzo del Podestà ), punteggiata dalle finestre a bifora. In basso, sulle due pagine Volterra. Fotografia aerea del centro storico.
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L’ITALIA DEI COMUNI
Nella pagina accanto, a sinistra Firenze. Il Campanile di Giotto, la cui costruzione fu avviata dal pittore nel 1334.
In alto Gubbio. Veduta del Palazzo dei Consoli (sulla sinistra) e del Palazzo Pretorio (sulla destra), prospicienti la piazza Grande, che venne appositamente concepita come un terrazzo sopraelevato in funzione dei due edifici pubblici. XIV sec.
potevano essere utilizzati per alloggiare i travetti mobili delle impalcature di legno, in caso di lavori di restauro oppure in caso di feste o cerimonie, per poter allestire palchi comunicanti con le finestre, o per guarnire la facciata con drappi e festoni. Sembra che la facciata stessa presentasse in alto una merlatura ghibellina (a coda di rondine) e che la scalinata avesse in origine un’elegante conformazione semicircolare, in modo da stabilire un efficace dialogo con la solenne gradinata del duomo. Passando al versante umbro, un caso assai particolare è costituito da Assisi, caratterizzata dalla dialettica pressoché unica che lí si stabilisce tra la città murata (la città vera è propria, imperniata sulla piazza del comune e sul vicino duomo di S. Rufino) e la città-santuario, vale a dire il grande complesso della basilica e del Sacro convento di S. Francesco. Il polo extramuraneo del Poverello, cosí come, in altra misura, il polo intramuraneo della basilica di S. Chiara, sono corredati da piazze comodamente accessibili, in funzione dei folti gruppi di pellegrini che da secoli vengono a omaggiare le tombe dei due illustri assisiati. Il Comune era coinvolto in prima battuta negli interventi di creazione, manutenzione e potenziamento di questi spazi e dei relativi servizi di accoglienza. L’istituzione comunale, d’altronde, L’ITALIA DEI COMUNI
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ATLANTE
Pistoia, Volterra, Massa Marittima, Assisi, Bevagna e Gubbio Assisi (1212). E lí risiedette il comune finché, alla fine del Duecento, non venne realizzato l’apposito palazzo proprio di fianco al pronao (il portico) dell’edificio templare. Sul lato opposto della piazza, nel secolo successivo, si aggiunse poi il Palazzo dei Priori.
Una sintesi superba
Nello scenario raccolto e al tempo stesso vigoroso di Bevagna, la piazza si qualifica come una somma di effetti e di valori che compongono, nell’arco di ottant’anni circa, una sintesi superba. Le costruzioni si dispongono su un perimetro irregolare privilegiando i principali punti di vista, cosí da creare una quinta teatrale inconfondibile lungo la direttrice del corso principale, sull’asse dell’antica via Flaminia. Su uno dei varchi si colloca il convento dei Domenicani, mentre il Palazzo dei Consoli si confronta con due chiese di alto pregio. Proprio di fianco alla residenza si profila S. Silvestro e, sul lato opposto, campeggia la collegiata di S. Michele Arcangelo, con uno scenografico portale istoriato. Alcune preziose memorie epigrafiche ci tramandano il nome del maestro Binello, artefice di S. Silvestro (1195) e di seguito coimpresario della collegiata in collaboè chiaramente omaggiata nel ciclo francescano della Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco, dal momento che il primo riquadro delle Storie (ultimo tuttavia in ordine di esecuzione) ritrae proprio il Palazzo comunale con la torre civica di fianco al tempio di Minerva: è il fondale dell’Omaggio di un uomo semplice. Al pittore non interessava la resa puntuale, fotografica degli edifici che siamo abituati a pretendere da una narrazione di eventi contemporanei. Le strutture vengono cosí reinventate, come se fossero «microarchitetture» di grande eleganza e di effetto tattile: suppellettili (il tempio sembra quasi un tabernacolo) oppure oggetti di oreficeria (il palazzo è di una raffinatezza tale che le sue finestre sembrano incastonate in una lamina di materia preziosa). Lo stesso tempio, pertinente al Foro della città antica, è ben noto oggi come chiesa con la sua dedica quattrocentesca a S. Maria sopra Minerva, che fa da pendant all’omonima chiesa romana. Ma quel tempio rientra ancor piú nella storia del Comune assisiate, poiché lí esso trovò la prima sede. Infatti, dopo un primo periodo in cui era stato adibito a chiesa, l’antico edificio divenne un mercato coperto. In seguito, i monaci di S. Benedetto al Subasio che ne detenevano la giurisdizione, lo concessero ai consoli di 114
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razione con il maestro Rodolfo. Il palazzo comunale (1270) è sfornito di simili attestazioni, ma può essere agevolmente attribuito al maestro Prode. Questi, infatti, ha realizzato il palazzo in tutto simile che si osserva, ampiamente rimaneggiato, nella vicina città di Spello. Sopra a un robusto portico ad archi ogivali, si
In alto Bevagna (Perugia). Una veduta di piazza Silvestri con, al centro, il Palazzo omonimo, e, a destra, la chiesa di S. Silvestro. Nella pagina accanto, in alto Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Particolare della scena dell’Omaggio di un uomo semplice dal ciclo delle Storie di san Francesco di Giotto, raffigurante la Torre del Popolo, fra il Palazzo comunale e il tempio di Minerva. 1290-1295. Nella pagina accanto, in basso Assisi. L’aspetto odierno delle architetture riprodotte nell’affresco giottesco. A destra Bevagna. Il portale istoriato della chiesa di S. Michele Arcangelo.
sviluppa un doppio ordine di bifore che sfilano in perfetta simmetria. Impressionante è il largo impiego di risorse e di progetti coordinati nella rinascita di Perugia promossa dal Comune popolare, ma si può parlare di un ambizioso piano regolatore anche nel caso di Gubbio, sia pure in epoca piú tarda. Qui, infatti, a partire dal 1332, non solo si pone mano a due nuove residenze civiche in sequenza immediata, ma esse si inseriscono in un contesto espressamente realizzato, sulla base di un progetto approvato nel 1321. Per creare la piazza su cui i due edifici prospettano, detta Grande, si costruisce un ampio terrazzo sopraelevato. Sia la piazza che il Palazzo dei Consoli, completato nel 1349, sono sostenuti da un poderoso sistema di archi di sostruzione che marca il paesaggio urbano, asserendo il ruolo rinnovatore e preponderante del popolo. Perfettamente studiata risulta la relazione visiva con la piazza del Duomo (che era anche l’antica piazza del Comune, ultimata nel 1203), collocata piú in alto. Il Palazzo del Podestà (oggi Pretorio) viene intrapreso appena si conclude l’altra residenza civica, ma, nel 1350, i lavori vengono bruscamente interrotti, proprio in coincidenza con l’affermazione in città del potere signorile dei Gabrielli. L’ITALIA DEI COMUNI
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VENEZIA, GENOVA E ANCONA
Ammiraglie d’Italia
C
hiunque visiti Venezia, attraversa il Ponte di Rialto, per poi riversarsi nei mercati che si svolgono tuttora nella zona omonima, con le storiche infrastrutture commerciali e amministrative (tutte ricostruite o realizzate a partire dal Cinquecento). E proprio lungo la centrale ruga degli Orefici viene spesso ignorata la chiesa di S. Giacomo di Rialto (S. Giacometto), tutt’altro che imponente e schermata da un portico che, già nel XIV secolo, era destinato ai banchi dei mercanti. Caratterizzata da una struttura a croce greca iscritta con cupola, che si lega bene alle piú antiche tradizioni architettoniche locali, è l’unica sopravvivenza del primo tes116
L’ITALIA DEI COMUNI
suto urbanistico della zona. Sfoggia sulla parete esterna dell’abside un’eloquente iscrizione incisa su pietra, con il testo che si sviluppa su una croce centrale e su un lungo fascione di base: «La tua croce, o Cristo, sia vera salvezza per questo luogo. Attorno a questo tempio sia equo il diritto ai mercanti, non si pieghino i pesi né sia irregolare il contratto» (nella traduzione di Wladimiro Dorigo). Siamo all’epoca del doge Domenico Selvo (1071-1084), e ci si augura che tutte le attività economiche si svolgano rettamente, senza ricorrere ad artifici (le bilance non tarate) o a falsità. Pochi anni prima, all’epoca del doge Domenico Contarini (1043-1070), nel
Venezia. Chiesa di S. Giacomo di Rialto. Sulle due pagine, veduta della facciata, dotata di un portico per proteggere i banchi dei mercanti; nella pagina accanto, particolare dell’esterno dell’abside, con un’iscrizione relativa all’attività mercantile.
1063, si posa la prima pietra della nuova basilica di S. Marco – gigantesca «cappella» annessa al Palazzo Ducale –, ponendo le premesse del fulcro amministrativo e rappresentativo della città. Come sottolineò lo storico dell’arte Sergio Bettini (1905-1986), il complesso cosí costituito dal palazzo, dalla chiesa e dalla piazza faceva riemergere il concetto tardo-antico del centro del potere, laddove la residenza del sovrano si correla al santuario, al mausoleo di Stato e allo spazio di adunanza pubblica, come nel cuore della stessa Costantinopoli. Ma non si deve dimenticare che un altro importante fulcro già da tempo si era L’ITALIA DEI COMUNI
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ATLANTE
Venezia, Genova e Ancona formato al capo estremo del canale di S. Marco. Lí, in posizione isolata, sorge la cattedrale di S. Pietro di Castello (che ha mantenuto la sua funzione di chiesa vescovile fino al 1807), e, a breve distanza, si impone all’attenzione il complesso dell’Arsenale. La struttura era organizzata direttamente dallo Stato almeno sin dal XIII secolo: qui infatti, potenziando, mantenendo e ampliando la flotta, si creava la fortuna della Serenissima.
Un emblema civico perfetto
In alto Genova. La facciata della cattedrale di S. Lorenzo. XI-XII sec. A sinistra Ancona. Uno scorcio dell’ingresso del Duomo. X-XI sec. Nella pagina accanto, in alto Ancona. L’Arco di Traiano e la chiesa di S. Ciriaco. Nella pagina accanto, in basso Siena, Libreria Piccolomini. Particolare degli affreschi del Pinturicchio (al secolo, Bernardino Betti) raffigurante papa Pio II che giunge ad Ancona per benedire la partenza della Crociata, XV sec.
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L’ITALIA DEI COMUNI
Punto di forza di Genova è la cattedrale di S. Lorenzo, il cui fianco con l’alta torre campanaria spicca sull’asse viario che conduce al porto. Il Palazzo dei Capitani del Popolo, sorto nell’area retrostante alla fine del Duecento, e destinato a divenire la residenza dei dogi, costituisce una realtà tutto sommato tardiva e priva di un risalto comparabile. S. Lorenzo, invece, vera e propria «chiesa del Comune», è un emblema civico perfetto, anche sotto l’aspetto funzionale, visto che, per lungo tempo, il capoluogo ligure – cosa assai singolare – non ebbe una residenza civica. Le suggestioni dell’Oriente, cosí come i calibrati reimpieghi di sculture romane, rendono bene la volontà di competere con l’autorevolezza della cattedrale di Pisa. Non a caso, entrambe le chiese sono consacrate lo stesso anno, nel 1118. Era in atto una vera e propria gara tra le due potenti città marinare, che coinvolgeva inevitabilmente i cantieri degli edifici di massima rappresentanza. All’interno della cattedrale ligure, come rivelano ancora pochi brani superstiti, si potevano addirittura ammirare gli affreschi che celebravano le vittoriose campagne militari dei Genovesi contro i presidi islamici di Minorca, Almeria e Tortosa (1146-1148). È ben visibile, poi, la testa di Giano, che occhieggia dall’alto della navata centrale: l’antica divinità pagana era stata «recuperata» per magnificare con una falsa etimologia le origini della città. Volgendo lo sguardo al porto, l’attenzione non è tanto catturata dalla prima residenza comunale, il Palazzo di S. Giorgio (iniziato nel 1260), quanto dall’ampia «palazzata» della Ripa, che in origine si affacciava quasi direttamente sull’acqua: una formidabile teoria di residenze nobiliari, alcune delle quali ancora distinte da una struttura a torre, che formano al pianterreno un lunghissimo portico, in funzione delle attività commerciali. Nonostante distruzioni e rifacimenti, il complesso, definitosi tra il XII e il XIII secolo, segna ancora oggi il paesaggio urbano. Ancona ebbe rapporti sia con Venezia che con
Genova. Esempio illustre di città marinara «minore», il capoluogo marchigiano stabilí lunghe consuetudini con la Serenissima, alternando collaborazioni e dissidi, vista l’inevitabile concorrenza dei rispettivi mercanti sullo stesso «campo» del Mare Adriatico. Snodo d’obbligo tra l’Italia centrale, la costa dalmata e l’Oriente, Ancona era presente su molte importanti piazze commerciali: esportava vino, cereali, sapone (di produzione propria), carta di Fabriano, olio, lana, pelli. Dalle coste slave giungevano, tra l’altro, argento, piombo e rame. Sue colonie erano presenti a Costantinopoli e a Famagosta (Cipro). La realtà storica del porto si limita oggi alla presenza isolata dell’Arco di Traiano, ma il paesaggio urbano è ancora caratterizzato dal Colle Guasco, dominato dalla cattedrale di S. Ciriaco. Nella sua ultima importante fase costruttiva, essa ha assunto una pianta a croce greca e si è dotata di un soffitto ligneo a forma di carena di nave, come si conviene a un edificio che si affaccia autorevolmente sullo scenario adriatico. La ricchezza del nuovo portale (1230-40), d’altronde, evoca le molteplici archeggiature che, negli stessi anni, contornano i portali di S. Marco a Venezia. La tendenza a incastonare sculture di reimpiego che si osserva nel Duecento veneziano, trova poi un precedente nella deliziosa facciata di S. Maria della Piazza. Una Madonna orante a bassorilievo, di sicuro procurata a Costantinopoli (forse grazie ai saccheggi del 1204), è racchiusa in un’edicola che sormonta il portale, firmato dal maestro Filippo nel 1210. L’ITALIA DEI COMUNI
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BOLOGNA
Culla della sapienza
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L
a Piazza Maggiore individua il punto focale di Bologna, là dove si incrociavano le arterie principali della città romana: all’antico cardo maximus corrisponde l’attuale via Indipendenza, su cui prospetta la cattedrale di S. Pietro; al decumanus maximus, che faceva da percorso alla via Emilia, corrisponde via Rizzoli, in fondo alla quale, dopo molteplici trasformazioni urbanistiche, campeggiano isolate le due celebri Torri (dei Garisendi e degli Asinelli). Proprio in quel punto si situava un altro fulcro della città medievale, il carrobbio, vale a dire l’incrocio tra quattro strade di spicco, e lí si situava il mercato. L’estensione originaria del nucleo urbano, cosí come venne tramandata ai secoli del pieno Me-
Sulle due pagine disegni del centro storico di Bologna. A sinistra, veduta di Piazza Maggiore e Piazza del Nettuno; in alto, il Palazzo del Podestà.
dioevo, era assai ridotta rispetto a quella conseguita tra il 1240 e il 1327, con la realizzazione dell’ultima cinta muraria (la circla). Per la verità, la città altomedievale sembrava un piccolo tassello anche a confronto con la superficie racchiusa dalla cinta intermedia dei torresotti (cosí venivano chiamate le sue porte-torri), realizzata tra il 1177 e il 1205. Nell’assetto antico, l’isolato dell’attuale Piazza Maggiore e i suoi dintorni occupavano tutta la superficie disponibile. Basti pensare che proprio dove sorgono le due torri era presente, fino al XII secolo, una porta urbica, la Porta Ravegnana (rivolta cioè verso Ravenna). La città terminava in quel punto. Secondo una tradizione, per «fortificare» le quattro porte della cinta originaria, sant’Ambrogio in persona avrebbe innalzato altrettante croci in pietra. In ricordo di quelle originali, ancora in età napoleonica erano presenti quattro edicole a forma di ciborio, con un tetto piramidale su colonne, ciascuna delle quali racchiudeva una croce scolpita. L’esemplare di Porta Ravegnana, in pietra calcarea e tuttora conservato nella basilica di S. Petronio, sostituí una croce già attestata nel 1041. Scolpita su entrambi i lati, è un pregevole lavoro realizzato nel 1159 da Pietro di Alberico in collaborazione con il padre, come informa l’iscrizione di corredo. Risale a un momento di svolta nella storia cittadina, quando Bologna, grazie ai suoi esperti di
diritto, si apprestava ad assumere una posizione di alto prestigio. Tradizionalmente legata alla memoria di sant’Ambrogio, la croce di Porta Ravegnana è oggi custodita nel sito di una chiesa dedicata proprio all’illustre presule milanese. La basilica di S. Petronio occupa infatti l’area della curia sancti Ambroxii. Era la prima sede della magistratura comunale: lí, infatti, si riuniscono i consoli della città nel 1123, come risulta dalla piú antica testimonianza che li ricorda. La piazza era ancora di là da venire, ma era già ben chiara la volontà di appropriarsi di uno spazio alternativo all’area di pertinenza del vescovo. S. Ambrogio continuò a essere un fulcro di «religiosità civica» finché non venne sostituita in questa funzione proprio dalla basilica di S. Petronio, iniziata nel 1390 in onore del primo vescovo della città, un patrono prescelto dal popolo per essersi coraggiosamente contrapposto alle prepotenze del potere imperiale.
Lezioni fatte in casa
Frattanto, nel 1178 il Comune trasferí la propria sede nell’area dell’attuale Archiginnasio, a sud della piazza, utilizzando le case appartenute al giurista Bulgaro, uno dei quattro dottori intervenuti a Roncaglia vent’anni prima. Dato che le case dei docenti, in origine, erano anche il luogo dove essi impartivano le lezioni, il Comune bolognese occupò cosí un’antica L’ITALIA DEI COMUNI
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ATLANTE
Bologna
sede «protouniversitaria». Per assistere alla nascita del Palazzo Comunale e alle premesse della piazza occorre attendere l’anno 1200. La prima sede definitiva del Comune fu l’attuale Palazzo del Podestà, che nonostante le molteplici trasformazioni, conserva le componenti essenziali del primo assetto. Il portico su piazza, in origine ad archi acuti su colonne, fu immediatamente punteggiato dai banchi su cui i notai redigevano i loro atti. La piazza stessa fu ideata anche in funzione delle esigenze del mercato, che gli spazi del carrobbio – sia pure estesi a tutta la direttrice dell’attuale via Rizzoli (chiamata in precedenza via del Mercato Vecchio) – non riuscivano piú a contenere. Proprio nell’ambito del palazzo, nel 1208, alcuni spazi vengono dati in affitto per la vendita di generi alimentari. Nel mezzo della struttura, come si vede tutt’oggi, correva un passaggio voltato, lungo le cui pareti si snodavano i banchi dei commercianti e dei cambiatori. Il sottopasso consentiva il collegamento diretto della piazza con il mercato del carrobbio, passando sotto la Torre dell’Arengo, forse in origine coronata da una struttura lignea. La torre attuale, edificata nel 1252, racchiude il grande campanazzo in bronzo, piú volte rifuso, da ultimo ricollocato dall’illustre ingegnere comunale Aristotele Fioravanti (1453). Al primo piano, cui si giungeva in origine da due scale esterne ad aggetto sui lati corti dell’edificio, era presente la tipica grande sala «poli122
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funzionale» (65 x 15 m), con i banchi dei giudici alle pareti e gli spazi preposti alle adunanze dei consigli (generale e speciale). Un balcone sporgente a metà facciata era destinato agli oratori che intendevano rivolgersi al pubblico, riunito all’occorrenza nella piazza sottostante.
La torre al centro d’una croce
Con il passare degli anni, il moltiplicarsi degli uffici richiese un ampliamento dell’edificio. Nel 1245-46 risulta cosí terminato il palatium novum, che si compone degli edifici oggi noti come Palazzo di re Enzo (dove fu imprigionato il figlio di Federico II, dal 1249 al 1272) e Palazzo del Capitano del Popolo. Quest’ultimo, addossandosi alla Torre dell’Arengo, venne ad arricchire lo schema del passaggio voltato, che assunse cosí una conformazione a croce (a quattro bracci) con la torre stessa al centro. Nelle nuove sale trovarono sistemazione il Consiglio del Popolo, il Collegio degli Anziani e Consoli, i tribunali del Capitano del Popolo. Gli ambienti minori furono destinati, tra l’altro, alle residenze degli ufficiali forestieri e del loro seguito. Nel 1293-94 si realizza in piazza l’attuale Palazzo Comunale, chiamato in origine «delle Biade», perché lí venivano custodite le scorte pubbliche di grano, da immettere nel mercato «a prezzo politico» in caso di carestie o di speculazioni. L’edificio è oggi detto «d’Accursio», dal momento che lí sorgeva in origine la residenza degli Accursi. A questa famiglia appar-
A destra particolare della tomba di Rolandino dei Romanzi, appartenente al gruppo dei sepolcri dei Glossatori. 1284. Nella pagina accanto scorcio del cortile interno dell’Archiginnasio, che fu sede universitaria fino al 1803 e sorge sul luogo in cui erano ubicate le case del giurista Bulgaro, già adattate nel 1178 a sede del Comune. 1561-1563. In basso veduta esterna dell’abside della basilica di S. Francesco con, in primo piano, un’altra delle Tombe dei Glossatori, quella di Odofredo Denari. 1268. teneva il giurista Accursio (1182-1258), oriundo della campagna fiorentina, la cui Magna glossa, dedicata al Corpus giustinianeo, ebbe grande diffusione. Celebrato come autorità somma in materia, come pure bersaglio di critiche feroci da parte di taluni suoi colleghi, ebbe una reputazione solidissima, pur macchiata dall’onta di aver fatto ricorso all’usura e alla corruzione con i suoi studenti. Suo figlio Francesco, anch’egli giurista, eresse per sé e per il padre il solenne monumento funebre presso il convento locale di S. Francesco (1291-93). L’opera rientra in un gruppo di sepolture illustri di stile tipicamente bolognese, in forma di edicola o tempietto, con un tetto piramidale che sormonta l’arca ed è retto da una o due serie di colonnine. Era la forma prediletta proprio per eternare le figure dei doctores, tant’è che le arche oggi osservabili dietro l’abside di S. Francesco (dove c’era il cimitero conventuale, ora trasformato in una piazza), sono note come Tombe dei Glossatori. Il gruppo degli illustri defunti, di fianco ad Accursio e Francesco, annovera Odofredo (1268), giurista, e Rolandino dei Romanzi (1284), giureconsulto. La scelta di S. Francesco come sfondo per questo gruppo di mausolei era connessa all’importanza del luogo sotto ogni riguardo. In particolare, il convento dei Minori individuava a Bologna uno studium teologico di tutto rispetto e creava quindi un nesso naturale tra religiosità, orgoglio cittadino e cultura. La chiesa stessa era L’ITALIA DEI COMUNI
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stata finanziata dal Comune, e i Francescani collaboravano spesso con le autorità cittadine in veste di archivisti e tesorieri. La grandezza e la particolare eloquenza architettonica dell’edificio alludevano peraltro allo stile delle cattedrali dell’Île-de-France, prima fra tutte Notre-Dame di Parigi, in modo da ribadire l’autorità di Bologna come città universitaria per eccellenza.
Il canonista e il notaio
Nell’altro illustre cimitero conventuale, a S. Domenico, il canonista Egidio Foscarari (1285) optò per una forma piú semplice, ma volle impreziosire la propria tomba con una lastra di reimpiego, un arco di ciborio di età carolingia, secondo un gusto per l’antichità che suggeriva rimandi alle tombe illustri della Roma papale. Sempre nell’attuale piazza S. Domenico si segnala poi l’arca di Rolandino Passaggeri (1300), la piú grande del gruppo. Notaio e docente di arte notarile, rivestí un ruolo rimarchevole anche nella vita politica cittadina: in particolare, Rolandino rese possibile la tenuta di un accordo tra il popolo e la fazione filoguelfa dei nobili Geremei, consentendo la cacciata dei Lambertazzi (1274) e l’adozione di una severa politica antimagnatizia. Di fianco a un potente beccaio, Giovanni Somma, controllava peraltro una milizia, la Società della Croce, organizzata per fare muro contro le forze ghibelline dei fuoriusciti. Ma nel ricordo da affidare alla tomba, egli ritenne prioritario sottolineare la sua immagine di docente, ed è per questo che i rilievi del sarcofago lo ritraggono in vita solo e soltanto nel «semplice» atto di insegnare a un gruppo di allievi.
In queste pagine Bologna. Due immagini della tomba di Rolandino dei Passaggeri, in piazza San Domenico. 1300. Sulla lastra tombale (in alto) si distingue il rilievo con una scena di lezione universitaria.
Le sepolture trecentesche dei doctores, di cui si osserva una significativa serie nel Museo Civico Medievale, sviluppano proprio l’aspetto figurativo della memoria e si attengono essenzialmente a due schemi. Secondo una modalità che lo storico Giuliano Milani definisce «piú umile», il professore si rivolge direttamente alla schiera dei suoi allievi e, in tal caso, si trova a lato della scena ed è ritratto di profilo, come nel citato sarcofago del Passaggeri. Ma vi sono numerosi esempi di «grandigia» (ossia di ostentazione di autorità), nei quali il doctor si staglia al centro, seduto sullo scranno come se fosse un sovrano in trono, rivolto direttamente allo spettatore. Gli allievi si dispongono ai lati, e la convergenza delle linee dei banchi da sinistra e da destra accentua la centralità dell’impostazione. Ancora in tema di università e sempre restando nelle sale del Museo di Palazzo Ghislardi-Fava, un documento assai eloquente è la Pietra della Pace, realizzata nel 1322. Questa volta a occupare la posizione centrale è la tipica raffigurazione della Madonna in trono con il Bambino. Le fanno da ala due gruppi di studenti che si mostrano in ginocchio nell’atto di riverirla. Le iscrizioni individuano distintamente ogni personaggio: non si tratta, infatti, di studenti genericamente intesi, ma dei rappresentanti della categoria. Essi furono nell’occasione protagonisti di una dura contrapposizione con il Comune, per via di una condanna a morte eseguita a danno di un collega. La lastra istoriata celebra la cessazione di ogni ostilità grazie a un accordo di pace stabilito tra il Comune e gli studenti bolognesi. Mettendo in pericolo l’esistenza stessa dell’università, essi ottennero una memorabile vittoria. L’ITALIA DEI COMUNI
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SAN GIMIGNANO, ASCOLI PICENO E TARQUINIA
All’ombra delle torri
San Gimignano (Siena). Caratteristico panorama del centro storico costellato di torri.
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an Gimignano, nel cuore della Valdelsa, è celebre per il cospicuo numero di torri nobiliari ben conservate che tuttora ne caratterizza il profilo. Ne sono rimasti integri 14 esemplari, mentre all’apice del suo sviluppo, nei primi anni del XIV secolo, doveva annoverarne una settantina. La maggiore concentrazione si nota nel settore centrale dell’insediamento, che corrisponde alla civitas vetus, e dunque all’assetto piú antico. Lungo il percorso della via Francigena si incardinano la piazza del Duomo e la piazza della Cisterna, nei cui scenari spiccano un senso dell’ordine e un’estetica che rispecchiano bene l’orgoglio della comuni-
tà, già attenta nel XIII secolo a pianificare nuove imprese e a regolamentare l’edilizia privata. Nella prima piazza sorgono la collegiata e le residenze comunali, mentre l’elemento pubblico che risalta in piazza della Cisterna è il pozzo centrale. Tutt’intorno, si concentra la «selva» delle torri. Accorpata al Palazzo del Podestà, la torre Rognosa, con i suoi m 50,92 di altezza stabiliva il punto massimo raggiungibile dalle costruzioni private, in base a una norma statutaria emanata nel 1255. Il limite venne poi superato dalla torre Grossa, la cui costruzione fu avviata nel 1298 presso la nuova residenza comunale (il Palazzo del Popo-
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ATLANTE
San Gimignano, Ascoli Piceno e Tarquinia
Le regine di San Gimignano
1. Torri dei Salvucci Situate in piazza del Duomo, appartennero a una ricca famiglia di usurai e di mercanti che si schierò con i ghibellini. Sono torri gemelle, in tutto simili, entrambe dotate di strette aperture. 2. Torri degli Ardinghelli e dei Pellari Situate nella piazza della Cisterna, all’angolo della piazza del Duomo, furono costruite nel XIII secolo e si differenziano per dimensioni e per la grandezza delle finestre. 3. Torre Grossa Piú tarda rispetto alle storiche torri del potere politico e finanziario, è la piú alta di San Gimignano (54 m) e l’unica aperta alle visite del pubblico. Venne ultimata nel 1311 e si trova anch’essa nell’ampia piazza del Duomo, accanto al Palazzo del Popolo. 4. Torre Rognosa Fra le piú antiche, risale ai primi decenni del Duecento. Sfiora i 51 m di altezza e svetta tuttora sopra il Palazzo del Podestà, nella piazza del Duomo. Secondo la tradizione, l’appellativo «Rognosa» si riferisce al periodo in cui l’edificio, adibito a carcere, era abitato da persone gravate da diverse «rogne». 5. Torre dei Cugnanesi Apparteneva alla ricca famiglia dei Cugnanesi ed è una delle torri piú alte della città. Costruita nel Duecento è situata tra via San Giovanni e via del Quercecchio. 6. Torre del diavolo Secondo la leggenda medievale, deve la sua imponente altezza a un incantesimo del demonio.
Piazza della CIsterna 6 Piazza Duomo 4
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Duomo
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Palazzo Comunale 5
7. Torre dei Becci Si affaccia su piazza della Cisterna e su via San Giovanni ed evoca il nome di un’altra facoltosa famiglia di mercanti sangimignanesi.
lo), di fianco alla collegiata. In precedenza, la stessa torre Rognosa era appartenuta ai Gregorio, proprietari terrieri, e, nel 1243, prima di entrare a far parte del palazzo comunale, era stata venduta agli Oti. Gli Ardinghelli, a cui apparteneva la torre in piazza della Cisterna, erano mercanti che risultano attivi sia in Lombardia che negli scali orientali. Va in proposito ricordato che San Gimignano basava la propria economia proprio su una florida attività commerciale. In particolare, la città toscana si distingueva nel settore della produzione e dell’esportazione dello zafferano, e, grazie alla sua felice posizione su un asse viario assai frequentato, aveva una vasta attività di trasporto merci. I suoi vetturali lavoravano spesso al servizio di commercianti pisani, senesi e lucchesi. Di fianco alla proprietà Ardinghelli si presenta la torre Pellari, caratterizzata dalle ampie aperture ad arco ribassato che ingentiliscono la severità tipica di queste costruzioni. In
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origine, al pianterreno si trovava la bottega gestita dai primi proprietari, i Gimignalli, che poi vendettero torre e casa annessa nel 1251. Sulla piazza del Duomo prospetta un palazzo affiancato da due torri abbinate gemelle, intitolate ai Salvucci, usurai, mercanti e titolari di varie altre proprietà. Nel 1248 possiedono la torre piú vistosa tra quelle che svettano tra piazza del Duomo e la retrostante altura di Montestaffoli. Nel 1332 risultano risiedere all’estremo opposto della città, presso il convento di S. Domenico, ma possiedono ancora tre torri e un casolare nella zona centrale, in contrada Piazza.
Avamposto appenninico
Ascoli Piceno, nel Sud delle Marche, laddove correva il confine tra lo Stato della Chiesa e il Regno, segna sul versante adriatico dell’Appennino l’avamposto delle tipiche città comunali dell’Italia centrale e, non a caso, lega la propria immagine storica a una fitta presenza di torri.
A destra Tarquinia. Una delle torri medievali che tuttora punteggiano l’area del Palazzo comunale. In primo piano, si riconoscono le absidi della chiesa di S. Pancrazio (XIII sec.). Nella pagina accanto Ascoli Piceno. La torre degli Ercolani, annessa alla casa nota come Palazzetto Longobardo. XIII sec. In basso, sulle due pagine Tarquinia. Veduta panoramica con, al centro, la chiesa di S. Maria di Castello (1121-1207), costruita nell’area del castrum Corgnetum, già attestato nell’852.
Secondo la tradizione sarebbero state 150, o ancor di piú. Come spesso avviene, il dato non è del tutto attendibile, ma una ricognizione condotta sul tessuto urbano ha comunque riconosciuto la presenza di 70 unità. Solo 5 strutture sono state integralmente tramandate e, tra queste, spicca la duecentesca torre degli Ercolani. Si è perfettamente mantenuta insieme alla casa annessa, nota come Palazzetto Longobardo, per via del carattere «barbarico» che veniva attribuito alle sue decorazioni nell’Ottocento. E proprio l’aspetto decorativo, riscontrabile qui come in altri casi della città, attrae l’attenzione ed è motivo di interesse. Tre delle bifore che si aprono al primo piano sono ingentilite da bassorilievi che disegnano sul travertino decori e figure di vario genere, in un caso poste a comporre una probabile scena imperniata su un castello. Lungo il coronamento corre poi un esile motivo a treccia. Sembra quasi che gli scultori abbiano adottato gli stessi temi e gli stessi stili delle decorazioni che venivano realizzate con la tecnica della stampigliatura a secco su oggetti di prestigio come scrigni, custodie o cassette in cuoio. Molto singolare è poi la pusterla (piccola porta) su strada della torre annessa, con un massiccio apparato di blocchi romani di reimpiego, su cui spicca una piattabanda di pura valenza decorativa, con un triangolo modanato al centro. Si tratta di uno stile ripreso in modo lampante dalla porta su Piazza Arringo del battistero ascolano di S. Giovanni (1150-1180 circa), secondo una logica di «appropriazione» dei motivi dell’edilizia sacra. Tra le «città delle torri», Tarquinia (in provincia di Viterbo) è forse la meno nota, anche perché
il suo prezioso centro storico è messo in ombra dalla celebrità della necropoli etrusca. Eppure la presenza di ben 18 strutture integralmente tramandate merita da sola una menzione d’onore. Corneto (cosí era nota la città nel Medioevo) si giovava della navigabilità del fiume Marta e della vicinanza del Mar Tirreno. Era cosí divenuta una delle realtà commerciali piú vivaci della Tuscia, arrivando a stabilire rapporti con Pisa (1173) e con Genova (1177). Le sue chiese piú importanti, come S. Maria di Castello, ricca di apporti dei maestri cosmati (i famosi marmorari di Roma), S. Martino, con una decorazione di «marca» pisana basata sulla bicromia, o la SS. Annunziata, con un portale di schietta suggestione arabo-normanna, rendono bene la ricchezza di un paesaggio urbano in cui le torri si inseriscono con efficacia. Come di consueto, anche in questo scenario esse si trovano concentrate nell’area di maggiore importanza, nel fulcro della città antica. Il Palazzo dei Priori è tuttora caratterizzato da ben quattro torri private preesistenti che sono state inglobate nella nuova struttura.
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