FRANCESCO D’ASSISI
L’identità svelata
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FRANCESCO D’ASSISI
IN EDICOLA IL 20 OTTOBRE 2017 My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
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MEDIOEVO DOSSIER
Dossier
EDIO VO M E
N°23 Novembre 2017 Rivista Bimestrale
FRANCESCO D’ASSISI L’identità svelata di Chiara Mercuri
6 Presentazione Un santo di successo 8 L’identità Alla ricerca della vera identità 24 Agiografi e biografie La scelta di Tommaso 44 Il rapporto con la città Nella sua Assisi 66 Chiara e le sorelle L’arrivo delle sorelle 88 Missione in Egitto Un «sant’uomo» al cospetto del sultano 102 La Regola Nel segno del rigore 114 La morte Nessuno tocchi Francesco
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TITOLO
Un santo di successo F
rancesco d’Assisi è il personaggio dell’epoca medievale per noi piú conoscibile e di fatto piú conosciuto. Questo perché ci restano di lui circa una trentina di scritti e perché ha suscitato presso i suoi contemporanei uno straordinario desiderio di tramandarne la memoria, attraverso cronache, ricordi, riflessioni, leggende e biografie. Ognuno di noi – almeno una volta – si è chiesto, però, se il Francesco che conosciamo sia frutto di una costruzione degli agiografi o di una verità storicamente attestata. Ognuno di noi si è chiesto se Francesco, cosí come ci è stato tramandato, sia davvero esistito o se sia il frutto di inevitabili cliché. Gli agiografi – lo sappiamo – fanno il loro mestiere, scrivono «biografie» che non hanno come scopo il raccontare i semplici fatti di vita di un individuo, ma di magnificarne l’eccezionalità. L’agiografia è del resto «un discorso» pronunciato «in morte», che come tale – come già avveniva presso i Romani con l’encomio funebre – deve esaltare i meriti e sottacere le eventuali debolezze. L’agiografia medievale, per giunta, non è – come il panegirico d’età classica – una semplice celebrazione del singolo, ma ha soprattutto una funzione moralizzatrice e pedagogica. Funzione che si espleta durante i riti, allora seguiti in massa e con regolarità in tutta l’Europa cristiana. L’agiografia si propone allora come manifesto, come programma di lavoro, da illustrare in occasione delle grandi celebrazioni liturgiche, domenica dopo domenica, festa liturgica dopo festa liturgica, in ogni remoto angolo della cristianità e nella lingua allora comune, il latino. Nel Medioevo, il libro liturgico per eccellenza – quello che riscuote maggiore attrattiva presso l’uditorio – è infatti il santorale, un libro per noi oggi dimenticato e quasi sconosciuto. Nel santorale erano raccolte le vite dei santi di cui la Chiesa di Roma celebrava la festa. Da esso si leggeva la vita dell’uomo o della donna, di cui ricorreva l’anniversario di morte, non solo con l’intento di ricordare la sua vicenda, ma anche con quello di presentare un modello, un esempio che fungesse – tanto per i laici quanto per i religiosi – come monito a ben operare. Oggi quel libro non è piú in uso presso di noi e ricordare qualcosa della vicenda del santo o dei santi, di cui ricorre l’anniversario, è cosa ardua e lasciata alla libera iniziativa dei sacerdoti. Conosciamo, cosí, sempre meno delle vicende di quei santi, le cui feste, nel Medioevo, scandivano il ritmo della vita quotidiana, tanto da venire usate come riferimenti nei documenti notarili, nelle epistole e nelle cronache: i prestiti scadevano a san Giovanni, le locazioni ai santi Gervaso e Protasio, le nozze erano fissate per san Michele, la riscossione dei tributi ordinari a san Martino e il pagamento delle decime a san Patrizio. Le fonti agiografiche – per le finalità con le quali nascevano – risultano di difficile utilizzo se vi si intende recuperare – in via esclusiva – il profilo reale della vita di un santo. Francesco, però, lo abbiamo detto, ha avuto un destino eccezionale tra i santi dell’epoca, perché nelle persone che lo conobbero – dai suoi primi compagni al cardinale protettore del suo ordine, dai molti cronisti che ebbero il privilegio di udirlo a quelli che non lo incontrarono, ma ne ebbero comunque notizia da testimoni oculari – ha suscitato un profondo, quanto insolito, desiderio di tramandarne la memoria. Un desiderio che ha tracimato la tendenza di un’epoca, il Medioevo, durante la quale ancora non si era sviluppato il culto per le personalità illustri, né l’abitudine di scrivere le vicende del singolo, che si riteneva comunque e sempre «strumento» e «tessera» di una storia piú grande, animata da un disegno piú alto e provvidenzialistico. L’affetto, l’ammirazione e l’attaccamento personale degli uomini che conobbero Francesco mutarono questa tendenza, perché essi furono spinti a farsi testimoni della sua vicenda.
Nella pagina accanto Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa inferiore, cappella di S. Martino. Ritratto di san Francesco, particolare di uno degli affreschi eseguiti da Simone Martini fra il 1312 e il 1320.
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Alla ricerca della vera identitĂ
Il profilo biografico di Francesco è stato definito innanzitutto sulla base della Leggenda Maggiore di Bonaventura da Bagnoregio. Tuttavia, già per le circostanze della sua genesi, l’opera non può dirsi del tutto attendibile. E la ricostruzione della vita del santo deve avvalersi anche di altre fonti, alcune delle quali scoperte in anni recenti
Montefalco (Perugia), chiesa di S. Francesco. Nascita di Francesco e Profezia del mendicante, primo riquadro delle Storie di San Francesco, affrescate da Benozzo Gozzoli nell’abside del tempio. 1450-1452. La scena introduce il tema di «Franciscus Alter Christus» («Francesco altro Cristo»), attraverso la rappresentazione della nascita del santo tra il bue e l’asinello. SAN FRANCESCO
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L’identità
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l Francesco che tutti noi conosciamo è, purtroppo, quello che ci viene tramandato dalla Leggenda Maggiore di Bonaventura da Bagnoregio. Questi divenne generale dell’Ordine quando erano ormai trascorsi trent’anni dalla morte dell’Assisiate. Non lo aveva conosciuto personalmente, ma volle tuttavia scriverne una nuova biografia, che impose poi attraverso un provvedimento sconcertante, che non ha eguali nella storia degli Ordini religiosi. Bonaventura, infatti, diede mandato di distruggere tutte le precedenti biografie di Francesco e raccomandò ai frati non solo di rimuoverle dai breviari, dai santorali, dai taccuini privati della famiglia francescana, ma anche nelle altre famiglie religiose, convincendo Benedettini, Cistercensi, Domenicani a stralciarle dai propri libri liturgici. Anche quando ci lasciamo convincere dagli storici a diffidarne, la Leggenda di Bonaventura continua perciò a influenzarci. Un’influenza a cui contribuisce il fatto che, per oltre cinque secoli, essa ha ispirato la produzione letteraria e artistica. Il Francesco di Giotto, per esempio, quello che ci parla dalla Chiesa Superiore della basilica di Assisi è quello di Bonaventura. Cosí come il Francesco di Caravaggio, di El Greco, di Zurbaràn, di Tiepolo. Un Francesco-eremita, ritirato in solitudine in una grotta remota, che ascende in estasi tra braccia di angeli, un asceta in estasi, un contemplativo che tiene lo sguardo fisso sulla croce o sul teschio, monito di una vita altra, di là da venire.
In mezzo alla gente
Per oltre cinquecento anni, non si è tramandato nulla dell’uomo in carne e ossa nato ad Assisi, di quell’umbro che, in rottura con la tradizione monastica precedente, era andato incontro alla vita terrena, senza fuggirla, ma immergendosi nelle sue pieghe, nelle città, in mezzo alla gente, stazionando tra mendicanti e lebbrosi ai margini del centro abitato, guadagnandosi un palco improvvisato nelle piazze e nelle periferie di quanti piú borghi possibili per incontrare e parlare a quelle donne e a quegli uomini che intendeva strappare alla disperazione, alla miseria, all’odio, all’indifferenza. Per oltre cinquecento anni è scomparso il Francesco circondato dalle donne, l’amico di Chiara, il Francesco che in punto di morte fa chiamare Jacopa dei Settesoli per un ultimo saluto. Allo stesso modo, l’incontro e il dialogo con il sultano (vedi il capitolo alle pp. 88-99) sono stati tramandati sotto forma di disputa, come un’ordalia, una sfida alla fede musulmana, nel tentativo di screditarla. Per oltre cinquecento anni spari10
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I FIORETTI: NASCITA DI UNA LEGGENDA Oltre a essere il secolo della sistemazione e dello studio delle fonti storiche su Francesco, il Novecento ha anche segnato, purtroppo, il ritorno in auge – come già era accaduto nel Trecento – dei Fioretti. Seguendo una prospettiva diversa rispetto a quella della storiografia ufficiale, preoccupata di suggerire un messaggio teologico, i Fioretti deformano l’immagine di Francesco, anche se, appunto, con una lente diversa. In questo caso, il punto di vista non è quello delle dotte gerarchie ecclesiastiche – preoccupate di fare catechesi attraverso la vita di Francesco –, ma quello, piú popolare, di una tradizione orale e aneddotica, fiorita nel sottobosco della memoria francescana, gravando di improbabili racconti favolistici e miracoli stupefacenti la vicenda di un uomo che aveva voluto essere umile ed essenziale. Si deve ai Fioretti, per esempio, l’addomesticamento del lupo di Gubbio, presente solo in nuce in alcuni sermoni della fine del Duecento. Come spesso accade, la leggenda si mescola a dati reali. È infatti ben attestata dalle biografie antiche la richiesta mossa a Francesco dalle comunità appenniniche, presso le quali si recava a predicare, di salvarli dalla minaccia dei lupi. Lupi famelici, che da sempre infestano l’Appennino, pronti a uscire dal bosco ogni qualvolta nelle città e nei villaggi le difese dell’uomo si fanno fragili, come pure ha dimostrato l’arrivo di alcuni esemplari a Norcia, dopo il terremoto del 30 ottobre 2016. Ma vediamo, a questo punto, da dove prendono origine i Fioretti. Fra il 1327 e il 1337, un frate marchigiano, Ugolino Boniscambi da Montegiorgio, compone in latino gli Atti di san Francesco e dei suoi compagni, basati, oltre che sulle biografie ufficiali, anche sui ricordi orali tramandati – secondo la testimonianza dell’autore – dai compagni piú stretti dell’Assisiate. La raccolta si presenta come un insieme di frammenti, senza ordine cronologico e senza sfondo storico, in cui il racconto è anche condizionato da un approccio polemico nei confronti della dirigenza dell’Ordine, tipico dell’ala francescana radicale, di ambiente marchigiano. Inizialmente l’opera circola solo nei conventi dei frati ed è forse destinata a non valicarne le mura, sennonché un quarantennio piú tardi – tra il 1370 e il 1390 –, un anonimo frate toscano la traduce in volgare permettendole cosí di divenire patrimonio delle grandi masse cittadine e contadine digiune di latino. L’autore-traduttore – forse sempre nell’intento di renderla piú fruibile – ne riduce anche il numero dei capitoli, che da 76 passano a 53, v’inserisce cinque considerazioni sulle stimmate e ne accentua l’approccio miracolistico e leggendario. Sono nati i Fioretti di san Francesco, il testo sull’Assisiate piú diffuso e conosciuto, un’opera che, nel XIV secolo, raggiunse una fama enorme, soppiantando la precedente tradizione ufficiale e contribuendo non poco a quella definizione folclorica e popolaresca dell’immagine di Francesco. Seppure ricchi di episodi unici, certamente recuperati e salvati da una tradizione orale autentica, destinata a scomparire nel tempo, i Fioretti sedimentano – senza che questo fosse il loro scopo – lo stereotipo di un Francesco semplice e ignorante, simile a quello «costruito» da Bonaventura.
San Francesco d’Assisi e il lupo di Gubbio, scomparto del polittico dipinto dal Sassetta (al secolo Stefano di Giovanni) per la chiesa di S. Francesco di Borgo San Sepolcro. 1437-1444. Londra, National Gallery.
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L’identità
Predica agli uccelli e Benedizione di Montefalco, settimo riquadro delle Storie di San Francesco, affrescate da Benozzo Gozzoli nell’abside della chiesa di S. Francesco a Montefalco (Peugia). 1450-1452. La composizione fonde due episodi: quello, celeberrimo della predica agli uccelli, e la benedizione alla città di Montefalco. Quest’ultima, non presente nelle fonti, appare un omaggio reso all’orgoglio cittadino dei committenti, come pure l’inserzione di personaggi reali, riconoscibili all’epoca della rappresentazione.
sce il Francesco che rammenda le toppe della sua tonaca, che chiede l’elemosina, che abbraccia i lebbrosi, che si stringe ai suoi confratelli, che tuona contro quanti tra i suoi non vogliano farsi ultimi, disprezzati e inermi. Nella pittura e nella tradizione di età moderna trionfa, invece, un Francesco asceta, che fustiga la carne, che si autoimpone ogni divieto, che si mortifica in astensioni punitive. Svanisce cosí, come dietro un velo, il Francesco che ama le feste e l’abbondanza, che invita in tali occasioni a nutrire «perfino i muri delle case», perché l’essenziale non è rinunciare, ma condividere. Per oltre cinquecento anni, in migliaia di sottoimmagini che la rafforzano, viene dunque tramandata e ripetuta l’icona falsa di un santo estatico, angelico, enfatico, addirittura fanatico della propria fede. Possiamo dunque stupirci del fatto che i protestanti prima, e gli illuministi dopo, disprezzassero Francesco? Possiamo davvero rimanere attoniti se quello che per noi contemporanei è il santo piú umile e attento al prossimo della storia cristiana, sia stato condannato da Voltaire come un religioso fanatico, che sfidò l’Islam per umiliarne la fede? No, non può stupirci, perché solo alla fine del Settecento hanno luogo i primi ritrovamenti del materiale, che Bonaventura, con decreto capitolare, aveva dato ordine di distruggere nel 1266 (vedi box a p. 22).
Le prime pubblicazioni
Le prime edizioni a stampa della Vita Prima di Tommaso da Celano e della Leggenda dei tre compagni – pubblicate nel secondo volume degli Acta Sanctorum – risalgono al 1768. Si dovette poi attendere il 1806 per la pubblicazione della seconda delle Vitae scritte da Tommaso da Celano, quella che aveva inglobato le testimonianze dei compagni di Francesco ed è quindi la piú preziosa. Il suo Trattato dei miracoli fu scoperto piú tardi ancora, solo nel 1899: ne era sopravvissuto un unico manoscritto. Tuttavia, nonostante le edizioni di nuove fonti, l’immagine di Francesco continuò a restare a lungo negletta, in quanto ormai irrimediabilmente cristallizzata in un cliché di perfezione cristiana non dissimile da quello di tanti altri santi. Un’immagine stereotipata e vuota che per giunta continuava a imporsi e a parlare dalle pareti delle chiese, suggerendo un profilo dell’Assisiate stravolto rispetto a quello reale. Anche l’età moderna fu un periodo di oblio della figura di Francesco e della vicenda di Assisi. Significativa, a questo proposito, è la testimonianza di Goethe, il quale, in viaggio nella cittadina umbra intorno al 1786, parla solo della SAN FRANCESCO
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basilica di Minerva, senza fare accenno alcuno a quella – per noi ben piú importante – costruita per ospitare il corpo di Francesco. Il merito del cambiamento di rotta di una tendenza che sembrava destinata a sommergere per sempre la vera immagine del santo fu del pastore calvinista Paul Sabatier (1858-1928), il quale – per primo – iniziò a interrogarsi sul Francesco storico, quello al netto del nero di fumo della censura e della retorica agiografica. Allievo del filologo Ernest Renan, Sabatier, alla fine dell’Ottocento, si mise alla ricerca di nuove fonti sulla vita dell’Assisiate che potessero essere scampate all’ordine di censura di Bonaventura da Bagnoregio, come pure era accaduto alle due Vite del Celano. In particolare, allertato dalle segnalazioni di alcuni eruditi ecclesiastici, egli inseguiva gli scritti di frate Leone, confessore e amico di Francesco. La prova che quest’ultimo – che piú di ogni altro fu vicino al santo negli ultimi anni della sua vita – avesse lasciato testimonianze scritte si trovava, del resto, nella famosa lettera di Greccio. Una lettera giunta fino a noi, che i compagni Angelo, Rufino e Leone avevano indirizzato al ministro generale dell’Ordine. Questi, nel 1244, aveva ordinato una nuova raccolta di ricordi, appunti, episodi di vita, testimonianze di miracoli che riguardassero l’Assisiate.
Una conferma decisiva
Anche alcuni scrittori francescani del Trecento facevano riferimento ai «rotoli di frate Leone». Rotoli divenuti clandestini dopo il funesto ordine di Bonaventura, ma che, secondo le sporadiche segnalazioni di alcuni eruditi ecclesiastici, erano sopravvissuti. Sabatier ne ritrovò traccia nella Biblioteca Mazarine di Parigi, in un codice contenente l’opera di un anonimo frate francescano: lo Specchio di perfezione. I filologi dimostrarono in seguito che quella trovata da Sabatier non era propriamente l’opera di frate Leone, ma una copia rimaneggiata agli inizi del Trecento, che confermava comunque la giustezza di fondo della sua ipotesi: il vero Francesco viveva nella testimonianza dei suoi compagni. Non appena lo Specchio di perfezione e la fonte a cui esso era ispirato, ovvero la Compilazione di Assisi – ritrovata qualche decennio piú tardi – riemersero dal fondo della storia nel quale Bonaventura li aveva relegati, di colpo, la fama e l’immagine di Francesco ricominciarono a fiorire, fino a riaccendere presso gli uomini del XX e XXI secolo quell’ammirazione e quel desiderio di conoscerne il reale profilo storico, ormai ritenuto raggiungibile. 14
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Troppo basso per essere vero Come i pregiudizi, anche i luoghi comuni s’insinuano nella nostra mente in maniera spesso inconsapevole. Il pericolo maggiore di uno stereotipo è che, per scalzarlo, se ne adotta talvolta uno di segno opposto, ma altrettanto inconsistente e arbitrario, e il fenomeno della compensazione inconscia colpisce a volte gli storici stessi. Questo è accaduto anche con i santi: per smontare lo stereotipo iconografico che – tra Otto e Novecento – li rappresentava biondi, alti e dagli occhi azzurri, oggi preferiamo immaginarli piú realisticamente e umanamente normali, perfino non gradevoli nell’aspetto. È accaduto anche con Francesco. Per combattere il canone di un personaggio che, a detta di alcuni, ci era stato consegnato esageratamente armonioso nei tratti somatici dalla tradizione iconografica – dal Maestro di San Gregorio a Giotto a Benozzo Gozzoli –, oggi se ne sta maldestramente affermando uno contrario: di un Francesco brutto, basso, addirittura «scimmiesco» può capitare di leggere in pubblicazioni scientifico-accademiche. In alcuni casi si chiama in campo anche l’analisi antropometrica compiuta sullo scheletro del santo, che però offre solo un range approssimativo entro il quale collocarne la statura: tra il metro e cinquantanove e il metro e sessantacinque. Ciò vuol dire non alto, ma perfettamente nella media per un individuo dell’Appennino degli inizi del XIII secolo. Cerchiamo di vedere cosa dicono le fonti scritte. Francesco parla di sé nei suoi scritti, definendosi «parvulus et ydiota», «piccolo e ignorante». Definizione che ha alimentato due dei cliché piú dannosi sul suo conto: che fosse un uomo semplice e che fosse incredibilmente basso. È evidente, però, che quando Francesco si auto-rappresenta, intende ripetere i capisaldi del suo programma di vita, che consisteva nel restare un disprezzato, un ultimo, un vile, un reietto. Non possiamo dunque scambiare «un manifesto» con la declinazione delle proprie generalità fisiche, né possiamo immaginare di tradurre quel «parvulus» con «basso». Il tono solenne, urgente, sollecito delle sue lettere non ammette che se ne possa tradurre l’incipit con l’espressione «Io frate Francesco, basso e ignorante». In questo caso, infatti, Francesco sta facendo un discorso di tipo morale e intende dire: «Io frate Francesco che sono niente (che sono poco, «parvulus» appunto, cioè piccolo, infimo)». Stesso discorso per quel termine «ydiota», che non vuol dire «sono ignorante e semplice», ma va inteso nel senso molto piú articolato di «vi dico queste cose anche se io non so niente e non conosco niente, ma esse vengono da Dio che tutto sa e che me le ha suggerite tramite il Vangelo». Altrettanto vale per la Leggenda dei Tre Compagni: in un passo Francesco viene definito «piccolo e di aspetto meschino», mentre in un altro lo si paragona a «una chioccia nera», non nel senso che fosse brutto, ma nel senso che si presentasse volutamente derelitto nell’abito e nei modi. I compagni, infatti, nel descriverlo «meschino e derelitto» intendono metterne in luce una virtú e non un difetto. C’è poi la domanda stupita di frate Masseo, riportata dai Fioretti: «Perché a te tutto il mondo viene dietro, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del (segue a p. 17)
San Francesco d’Assisi (particolare), tempera e oro su tavola, aureola raggiata in rilievo, attribuito a Cimabue. 1290 circa. Assisi, Museo della Porziuncola. Secondo la tradizione, il ritratto sarebbe stato realizzato sul coperchio del primitivo feretro che custodí il corpo del santo d’Assisi. L’immagine è assai fedele alla descrizione di Francesco presente nelle fonti francescane.
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corpo tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?». Ma, anche in questo caso, si tratta di una domanda con ogni evidenza retorica, che intende dire l’esatto contrario di quanto sembra affermare «tu non se’ bello uomo», usato per far risaltare il «tutto il mondo ti viene dietro e ogni persona pare che desideri di vederti e di ubbidirti». In ultimo, ma dovremmo dire in primis – visto che è la prima – c’è la descrizione di Tommaso da Celano, questa sí, davvero riferentesi al suo aspetto fisico, nella quale non si ravvisa, però, alcun dato che possa far pensare a un uomo di aspetto brutto o poco gradevole come a volte si è interpretato. Di seguito, il passo dell’opera in questione, nella sua stesura originale: «Statura mediocris parvitati vicinior, caput mediocre ac rotundum, facies utcumque oblonga et protensa, frons plana et parva, mediocres oculi, nigri et simplices, fusci capilli, supercilia recta, nasus aequalis, subtilis et rectus, aures erectae sed parvae, tempora plana, lingua placabilis, ignea et acuta, vox vehemens, dulcis, clara atque sonora, dentes coniuncti, aequales et albi, modica labia atque subtilia, barba nigra, pilis non plene respersa, collum subtile, humeri recti, brevia brachia, tenues manus, digiti longi, ungues producti, crura subtilia, parvuli pedes, tenuis cutis, caro paucissima, aspera vestis, somnus brevissimus, manus largissima». Molti sconsigliano di prendere alla lettera Tommaso, il quale si lascia influenzare non poco dai topoi dell’agiografia classica. Tuttavia, anche volendo prenderlo alla lettera, egli non delinea l’immagine di un uomo sgradevole, ma, al contrario, piacevole e proporzionato nell’aspetto. Il solo dato – da molti ritenuto negativo – della «statura mediocris» non va tradotto con l’espressione «Francesco era bassissimo di statura», ma va compreso nel suo senso latino «di grandezza media», come appunto indica l’aggettivo «mediocris». Tutto il brano, dunque, andrebbe letto cosí: «Di statura media, piú vicina al piccolo, testa media e rotonda, viso ovale e proteso, fronte piana e piccola, occhi normali, neri e regolari, capelli marrone scuro, sopracciglia dritte, naso proporzionato, sottile e dritto, orecchie dritte e piccole, tempie piane, voce pacata, di fuoco e penetrante, tono infiammato, dolce, chiaro e sonoro, denti ben allineati, regolari e bianchi, labbra regolari e sottili, barba nera e rada, collo sottile, spalle dritte, braccia deboli, mani scarne, dita lunghe, unghie allungate, gambe esili, piedi piccoli, pelle delicata, magrissimo, veste rozza, sonno brevissimo, mano generosissima» (Tommaso da Celano, Vita Prima, cap. 29). Se, infine, ci affidassimo – come ritengo si dovrebbe – alla Compilazione di Assisi, ovvero alle testimonianze dei compagni piú stretti di Francesco, dovremmo addirittura sentirci autorizzati a immaginarlo bello, nel senso complesso in cui va concepita la bellezza, come somma di piú componenti. I compagni di Francesco, che alla bellezza fisica si mostrano piuttosto disinteressati, si lasciano, infatti, sfuggire, davanti al suo corpo senza vita: «Dopo morto, era ancora piú bello di prima».
A sinistra, sulle due pagine La predica agli uccelli, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore di Assisi. 1290-1295 circa.
In alto monastero di S. Benedetto-Sacro Speco di Subiaco (Roma). Il ritratto di Francesco d’Assisi, forse dipinto quando il santo era ancora in vita e prima del 1224, poiché l’Assisiate ancora non ha le stimmate. SAN FRANCESCO
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La tradizione iconografica La raffigurazione di Francesco tradizionalmente ritenuta piú antica è quella di Subiaco. È un Francesco, quello di Subiaco (vedi alla pagina precedente), che somiglia molto ai Benedettini che avevano in custodia il luogo. Cosí è rappresentato, adattando solo l’abito con l’aggiunta di un un cordone francescano. Vi è stato ritratto privo delle stimmate e senza aureola, il che ne farebbe – in assoluto – la piú antica rappresentazione del santo; essa fu commissionata da un ammiratore del luogo, il quale, dopo la visita, lo avrebbe fatto ritrarre per esprimere la sua devozione e per mantenere vivo il ricordo dell’evento collocabile tra il 1223 e il 1224. Si è discusso a proposito del fatto che, per alcuni, questo ritratto non collimi con la descrizione fatta da Tommaso da Celano, in particolare in merito al colore degli occhi (che in Tommaso è nero mentre al sacro Speco è marrone) e per i capelli (scuri per Tommaso, castani nell’affresco laziale). Un’analoga dissonanza si osserva per la statura, suggerita come slanciata, anche in contrapposizione a quella del committente, delineato piccolo piccolo ai piedi del santo. Si è finito, allora, col preferire il Francesco di Cimabue della Chiesa Inferiore di Assisi a quello del Sacro Speco. Cimabue ci mostra un uomo scuro di occhi e di capelli. Ma, a voler spaccare il capello in quattro, dovremmo rilevare che anche Cimabue si discosta dal Celano, perché quest’ultimo aveva parlato di un Francesco dalle orecchie piccole e dritte, mentre in Cimabue diventano grandi e sproporzionate. Cimabue, inoltre, opera tra il 1278 e il 1280, cioè oltre un sessantennio dopo la morte di Francesco, quando ormai mancano testimoni oculari che possano smentirne il ritratto. Molto credito si attribuisce anche alle tavole istoriate, tavole di legno nelle quali Francesco è rappresentato al centro, contornato da riquadri che ne illustrano la vita. Il testimone piú antico di questo genere iconografico è la tavola di Pescia, datata al 1235 e sottoscritta dallo stesso autore, Bonaventura Berlinghieri. Destinata alla chiesa del convento di S. Francesco a Pescia, essa si mostra in stretta relazione con le biografie redatte da Tommaso da Celano, di cui l’artista segue il racconto e riproduce, in particolare, la predica agli uccelli e la stigmatizzazione sulla Verna, ancora non pienamente accettata dalla Chiesa. Solo nella tavola di un maestro toscano della prima metà del XIII secolo – dipinta per la chiesa francescana di S. Croce a Firenze – iniziano a emergere particolari desunti dalle fonti non ufficiali, che molto insistono sulla povertà e la vicinanza di Francesco ai lebbrosi e agli ammalati. Alla diffusione di «icone» dell’Assisiate contribuí non poco il noto pittore Margaritone d’Arezzo, attivo nella seconda metà del Duecento e anche lui fedele alla descrizione fattane da Tommaso da Celano. Il Francesco che piú popola il nostro immaginario resta, però, senza dubbio quello di Giotto ad Assisi, che, bisogna riconoscerlo, somiglia molto di piú al ritratto del Sacro Speco piuttosto che a quello di Cimabue, che pure Giotto dovette vedere in quell’ultimo decennio del XIII secolo, quando entrambi lavorarono nella basilica di Assisi. Di certo, Giotto non si basa piú su Tommaso da Celano, ma su Bonaventura da Bagnoregio, come mostrano le didascalie collocate al di (segue a p. 20) 18
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In alto il San Francesco Bardi, dipinto su tavola del Maestro omonimo, oggi identificato con Coppo di Marcovaldo. 1250-1260. Firenze, basilica di S. Croce, Cappella Bardi. Il santo, in atteggiamento benedicente, è attorniato da una sequenza di 20 scene, che riproducono altrettanti episodi dei quali è protagonista insieme ai compagni. Questa impostazione «collettiva» è verosimilmente dettata dal desiderio di celebrare l’intero Ordine francescano e non soltanto il suo fondatore. Nella pagina accanto San Francesco e sei episodi della sua vita, dossale d’altare su tavola lignea di Bonaventura Berlinghieri. 1235. Pescia, chiesa di S. Francesco. Si tratta forse della prima raffigurazione di questo soggetto, che mostra il santo in piedi, al centro, ritratto per l’intera lunghezza della tavola, in una posa rigidamente ieratica e frontale; intorno a lui si dispongono alcuni episodi agiografici salienti.
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sotto dei singoli riquadri. La Leggenda Maggiore di Bonaventura era ormai divenuta normativa per tutti, come pure, oltre un secolo piú tardi, dimostrerà Benozzo Gozzoli nella vicina Montefalco. In ogni caso, a partire dal XIV secolo, il repertorio iconografico relativo a Francesco si ampliò anche a seguito della composizione e circolazione dei Fioretti, fonte d’ispirazione certa, per esempio, per il maestro senese del coro della chiesa di
S. Francesco a Pienza. Egli ci propone, in linea con la sua fonte, un Francesco assai piú umano e vicino rispetto a quello bonaventuriano di Giotto. Agli inizi dell’età moderna, con l’affermarsi dell’austerità controriformistica prima, e dell’enfasi barocca dopo, trionfò definitivamente l’immagine severa e ascetica che ne aveva dato Bonaventura. Essa si prestò piú delle altre a fungere da modello per le nuove correnti devozionali dell’epoca.
San Francesco, dipinto su tavola di Margaritone d’Arezzo. XIII sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
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A sinistra il saio di san Francesco. Assisi, basilica di S. Francesco, Cappella delle Reliquie. Il santo decise di rinunciare all’eredità paterna e di smettere le sue ricche vesti nel 1206. In basso mantello appartenuto a santa Chiara. Assisi, basilica di S. Chiara.
VESTI UMILI E RATTOPPATE Vedere una delle tonache di Francesco è come vedere «una foto» d’epoca. Da sempre, infatti, quelle tonache costituiscono un documento-monumento di quella storia. Che alla morte di Francesco, i frati si fossero impegnati a conservare quanti piú oggetti a lui appartenuti è una certezza, come dimostra la caparbia e gelosa conservazione da parte di frate Leone di due tra le «lettere» inviategli da Francesco. Tra le diverse tonache conservate ad Assisi, a Cortona, alla Verna e a Firenze, vengono considerate certamente autentiche quelle della Verna e della basilica di S. Francesco ad Assisi. Quest’ultima ha la stessa forma di quella della Verna, anche se caratterizzata dalla presenza di un numero maggiore di toppe, alcune delle quali dello stesso tessuto del mantello di santa Chiara. Un dato, quest’ultimo, che ha fatto supporre quanto già emergeva dalle fonti scritte: le sorelle s’incaricavano di riparare le tonache di Francesco. Il tessuto è di lana marrone, scuro e beige, striato da alcuni fili biancastri. Il risultato è quello di un colore indefinito, marrone-grigio, che nel Medioevo veniva definito «bigello», un colore non-colore, proprio dei tessuti non tinti, e dunque umili, poveri, disprezzabili. Anche i molti tagli presenti sulla tonaca confermano quanto riportato dai ricordi dei compagni: molte volte Francesco tagliava un pezzo della sua tonaca per donarla in elemosina a chi gliela domandava, e spesso si trattava di una richiesta fittizia, non dettata dal bisogno, ma dal desiderio di trattenere una reliquia del futuro santo.
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CRONOLOGIA DELLE FONTI ANTICHE (XIII SECOLO)
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L’identità
Nel 1228 Gregorio IX affida a un frate minore, l’abruzzese Tommaso da Celano, la redazione di una leggenda agiografica, che questi porta a termine nel periodo compreso fra la cerimonia di canonizzazione del luglio 1228 e gli inizi del 1229. Tale Leggenda – che in latino significa «da leggersi» – viene comunemente chiamata Vita prima ed è la prima biografia composta su Francesco. Da essa dipende la Leggenda a uso del coro, che lo stesso Tommaso redige intorno al 1230, per la messa cantata. Fra il 1232 e il 1235, un altro Minore, il tedesco Giuliano da Spira, compone un ufficio in versi – sulla base delle notizie della Vita Prima di Tommaso da Celano – e altri materiali da utilizzare per la recita del breviario, il libro di preghiere dei frati. Nel 1234, il letterato Enrico d’Avranches termina di comporre una vita di Francesco, anch’essa in versi e tratta dalla Leggenda di Tommaso da Celano. Nel 1244, durante il capitolo generale di Genova, il ministro generale, Crescenzio da Jesi, apre una nuova inchiesta su Francesco, sollecitando l’invio di materiale relativo alla vita e ai miracoli dell’Assisiate. Nel 1246, i compagni piú stretti di Francesco, Leone, Rufino e Angelo inviano a Crescenzio una lettera che ancora ci resta – datata 11 agosto 1246 – e che accompagna il materiale richiesto dal ministro. Si tratta di un perduto florilegio, tramandatoci in parte dalla Compilazione di Assisi e dalla leggenda denominata Leggenda dei Tre Compagni. La Compilazione di Assisi, opera probabilmente del solo frate Leone, è nota anche come Leggenda perusina dal nome dell’unico manoscritto che la tramanda, il 1046 della Biblioteca Augusta di Perugia. La Leggenda dei Tre compagni si deve probabilmente al solo frate Rufino, il cugino di Chiara, che con Francesco aveva condiviso lo stile di vita giovanile che cosí bene descrive nelle pagine della sua opera. 1240-1250 circa. Un anonimo compone il Sacro commercio di Francesco con madonna povertà, un’allegoria in chiave cortese del sodalizio tra Francesco e la povertà. Il testo è datato inverosimilmente in alcuni manoscritti al 1227, ma assegnabile invece ai decenni centrali del XIII secolo. Nel 1246-47, Tommaso da Celano viene incaricato dal ministro generale, Crescenzo da Jesi, di scrivere una nuova leggenda sulla base del materiale inviato nel corso della nuova inchiesta. La nuova opera viene da lui intitolata Memoriale delle gesta e delle parole di san Francesco, ma è conosciuta con il nome di Vita secunda per distinguerla dalla prima. 1253-54. Tommaso da Celano termina una raccolta dedicata ai miracoli di Francesco, nota col nome di Trattato dei miracoli. 1263. Bonaventura da Bagnoregio, divenuto ministro generale dell’Ordine nel 1257, presenta al capitolo generale di Pisa la biografia da lui scritta: la Leggenda Maggiore. 1266, capitolo generale di Parigi: Bonaventura da Bagnoregio dà mandato di distruggere ogni precedente materiale bio-agiografico su Francesco. 1276, capitolo generale di Padova: un nuovo ministro – probabilmente con l’intento di riparare al danno operato dal capitolo del 1266 – fa richiesta ai frati di inviare al ministro nuovo materiale biografico su Francesco. 1276. A seguito della richiesta del capitolo di Padova, viene composta a Perugia l’opera Sugli inizi dell’Ordine dei frati Minori, che riechegga la Leggenda dei Tre Compagni. L’autore, frate Giovanni, fu amico e seguace di Egidio, uno dei primi compagni di Francesco. Il testo è conosciuto anche come Anonimo perugino, perché cosí tramandato dall’unico manoscritto superstite, conservato nel capoluogo umbro.
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In alto San Francesco riceve le stimmate, olio su tela di Antonio Pirri (al secolo Antonio di Manfredo da Bologna). 1525-1530. Madrid, Museo Nazionale Thyssen-Bornemisza. Nella pagina accanto, in basso il manoscritto contenente una Vita di san Francesco rinvenuto dal medievista francese Jacques Dalarun nel 2015. 1232-1239. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
LA VITA RITROVATA Nel 2015, il medievista francese Jacques Dalarun ha ritrovato e acquistato, per conto della Sezione Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Parigi, un manoscritto tascabile, di piccole dimensioni (12 x 18 cm), e di fattura modesta, senza decorazione alcuna, «francescano» appunto, andato all’asta negli Stati Uniti d’America. Il manoscritto contiene una Vita di Francesco abbreviata, scritta da Tommaso da Celano e dedicata all’allora ministro generale dell’Ordine, frate Elia. Non privo di passi originali, il compendio fu dunque vergato tra il 1232 e il 1239, anni, appunto, del generalato di Elia. Il manoscritto ritrovato ci presenta una Vita «intermedia» fra la Prima e la Seconda, scritte da Tommaso da Celano ed è particolarmente prezioso in quanto mostra come – già in epoca molto antica – fosse abitudine dei frati tenere piccoli taccuini privati, codicetti come questo appunto, sui quali ogni religioso copiava – a seconda dei casi – testimonianze, vitae, stralci della Regola, annotazioni personali, bolle pontificie. Il tutto a creare piccoli compendi personali, riuniti secondo il proprio discernimento. Anche contro tale anarchico proliferare di testi, Bonaventura volle portare «ordine» e imporre a tutto l’Ordine una biografia unica, la sua.
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La scelta di Tommaso Quando papa Gregorio IX, che ne aveva fortemente voluto la canonizzazione, dispone che venga scritta la biografia di Francesco, decide di affidarsi a Tommaso da Celano. Un gesto che sembra estraneo alla logica e al buon senso, dal momento che il frate abruzzese aveva avuto solo una fugace e superficiale consuetudine con il santo. Ma, allora, quali ragioni indussero il pontefice ad agire in questo modo?
Firenze, basilica di S. Croce, antico Refettorio (o Cenacolo) del convento. Il grande affresco della parete di fondo, opera di Taddeo Gaddi: in basso, è raffigurata l’Ultima Cena; al centro, compare l’Albero della Croce, per il quale l’artista si ispira al Lignum vitae di Bonaventura da Bagnoregio (esemplificazione della summa teologica dei Francescani); ai lati, infine, quattro storie (dall’alto, a sinistra, in senso orario): Stimmate di san Francesco, Miracolo della mensa pasquale, La Maddalena lava i piedi a Cristo in casa del fariseo e San Ludovico serve a mensa i poveri di Firenze. 1355 circa. 24
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ll’indomani della canonizzazione di Francesco, avvenuta appena due anni dopo la morte, nel 1228, papa Gregorio IX – che lo aveva protetto e amato – affidò la stesura della sua biografia ufficiale a frate Tommaso da Celano. Questi aveva conosciuto Francesco solo in occasione dei capitoli generali, ovvero quelle riunioni che si tenevano ad Assisi circa una o due volte l’anno. Certo Tommaso era un frate, ma non era originario di Assisi, né faceva parte del gruppo dei primi compagni; non aveva dunque avuto, neppure dopo l’entrata nell’Ordine, familiarità di vita con Francesco, né scambi degni di nota. Designarlo come biografo costituiva dunque una scelta innaturale, dal momento che, come vedremo, alla Porziuncola molti erano i frati che avevano avuto lunga consuetudine con Francesco, che avevano vissuto al suo fianco fino alla sua morte, che erano stati suoi compagni d’infanzia. La prassi non prevedeva criteri prestabiliti per la scelta dell’agiografo. In genere, ad assumerne l’iniziativa era il postulatore della causa di beatificazione; egli era mosso dall’intento di spingere la commissione a dare parere favorevole all’apertura del processo e quindi si preoccupava di far redigere una biografia che esaltasse al massimo grado i meriti e le virtú dell’uomo o della donna che si volevano vedere promossi alla gloria degli altari. Nel caso di Francesco, però, i tempi strettissimi che avevano preceduto la sua canonizzazione avevano impedito di arrivarvi con una biografia già pronta, perché era stato il pontefice stesso a voler fare dell’Assisiate un santo canonizzato della Chiesa cattolica. Gregorio non si era rivolto ad alcuno dei frati della Porziuncola, ma a questo religioso abruzzese, il quale, accolto nell’Ordine da Francesco stesso nel 1215, si era poi incamminato in missione verso la Germania, da dove non era potuto rientrare neppure per assistere al suo trapasso.
Nascondere le tensioni
Proprio tale apparente falla nel suo curriculum – l’aver trascorso tanti anni lontano da Francesco – ne fece però il candidato ideale. Dalla Germania, infatti, gli echi delle tensioni nate in seno all’Ordine gli erano dovuti giungere attutiti; né aveva potuto assistere alla marginalizzazione di cui Francesco e i suoi compagni erano stati fatti oggetto dalle nuove reclute dell’istituzione francescana. L’intento del pontefice dovette essere quello di sottacere le tensioni che – ancora vivo Francesco – avevano rischiato di spaccare l’Ordine. 26
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In alto mosaico con il ritratto di papa Gregorio IX, dalla basilica di S. Pietro. XIII sec. Roma, Museo di Roma. Nella pagina accanto Preghiera in San Damiano, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore di Assisi. 1290-1295 circa.
Ricevuto l’incarico, Tommaso si mette all’opera; rilegge e studia con scrupolo le agiografie dei grandi santi, da Agostino a Martino di Tours, e lascia che le loro imprese risuonino nelle pagine della sua compilazione, fornendo piú che un ritratto, un modello di perfezione cristiana: il Francesco che si spoglia davanti al padre è il novizio delle Istituzioni monastiche di Giovanni Cassiano; il bacio tra Francesco e il lebbroso è una trasposizione di quello di Martino di Tours raccontato da Sulpicio Severo; la sua giovinezza depravata è quella di sant’Agostino; lo stile riecheggia Cicerone e il tono moraleggiante è quello di Seneca, che in Tommaso però si fa pedante. La delusione dello stesso committente rende chiaro a Tommaso di non essere stato scelto per la qualità del suo stile e per l’ampiezza delle sue conoscenze. Gregorio desiderava vedere rappresentato un santo adornato di (segue a p. 30)
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Veduta di Assisi. Spiccano le sagome della cattedrale di S. Rufino (a sinistra) e della basilica di S. Francesco. Il santo nacque nella cittadina umbra intorno al 1182, da Pietro di Bernardone, commerciante, e madonna Pica.
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MISOGINIA E FIGLI ILLEGITTIMI I biografi ufficiali di Francesco, Tommaso da Celano e Bonaventura da Bagnoregio, in contrasto con le fonti non ufficiali, ci presentano un Francesco misogino. Non è casuale che – al di là del pensiero dei due agiografi – le fonti destinate a una lettura pubblica nel corso della messa, avessero come scopo precipuo quello di indottrinare l’uditorio e i sacerdoti stessi. Insistere, domenica dopo domenica, anno dopo anno, sulla necessità per i laici, ma – soprattutto per i religiosi – di evitare la frequentazione con le donne oggi ci appare solo come un pregiudizio odioso. Un pregiudizio volto a stigmatizzare una presunta natura peccaminosa delle donne e a insistere – in maniera fobica – sulla morale sessuale. Del resto, col passare dei secoli, tale pregiudizio andò assumendo questa precisa connotazione. In origine, però, esso serví piuttosto a contenere un fenomeno gravissimo ed endemico che esponeva donne e bambini a una vita derelitta. Le relazioni clandestine dei chierici, i rapporti extraconiugali o prematrimoniali avevano infatti popolato l’Europa medievale di madri sole e di figli illegittimi, destinati a crescere senza alcuna tutela morale e materiale. In una società in cui le donne con grande difficoltà lavoravano al di fuori dei circuiti familiari, nessuno si faceva carico del sostentamento di figli non riconosciuti. La messa domenicale dunque era l’occasione per parlare ai chierici, ai monaci, ai frati – e solo in ultimo ai laici – ed educarli alla continenza. Durante la messa si usava ancora leggere le vite dei santi, che dovevano divenire un esempio e un modello per tutti. Vite, dunque, che non avevano valore di testimonianza in sé, sul singolo uomo o sulla singola donna di cui si intendeva celebrare i meriti nel giorno della sua festa, ma avevano valore come paradigma morale da offrire a masse sterminate di persone, che, nel giorno anniversario della morte di Francesco, dalle estreme lande della Scandinavia alla punta della Penisola iberica, avrebbero sentito risuonare l’esempio della sua purezza e della continenza.
In alto San Francesco d’Assisi secondo la visione di papa Niccolò V, olio su tela di Francisco de Zurbarán. 1640 circa. Barcellona, Museu Nacional d’Arte de Catalunya. Nella pagina accanto Il miracolo della sorgente, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore di Assisi. 1290-1295 circa.
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molti miracoli, la parte invece, meno accurata e originale della sua opera. I miracoli avrebbero messo a tacere i detrattori di quella canonizzazione, coloro che da tempo accusavano il papa di mostrare una predilezione spiccata per il penitente di Assisi. Piú d’uno, in Curia, gli rimproverava i tempi troppo rapidi di quella canonizzazione, tempi che potevano far apparire la sua valutazione non sufficientemente lucida e ponderata. Tuttavia, cinque mesi dopo la morte di quel frate che egli aveva sinceramente amato, Gregorio era venuto a trovarsi nella situazione propizia di essere eletto papa, e di poter, quindi, inscrivere Francesco nel catalogo dei santi, facendone un vessillo della Chiesa e rendendo il suo Ordine inattaccabile. Un’occasione insperata, che il pontefice non intese lasciarsi sfuggire. Oltre al committente, anche gli Assisati si mostrarono delusi da quella biografia, che li pre-
senta come gente gretta e avida, in mezzo alla quale, solo per caso, Francesco era riuscito a distinguersi. A conferma dei loro pregiudizi verso questo frate venuto da fuori, Tommaso non seppe cogliere quel rapporto di comunione profonda esistente tra Francesco e la natia contrada umbra, della quale egli parla, al contrario, come di un legame giovanile e futile, che si esaurisce immediatamente dopo la conversione. Per meglio delineare l’estraneità tra Francesco e la sua città, ne descrive i giovani come depravati che passano il loro tempo a «insudiciarla», con occupazioni contrarie allo spirito; gli stessi genitori di Francesco sono accomunati in uno stile di vita degradato e corrotto. Nelle iperboli di Tommaso, non c’è spazio, per esempio, per la dolcezza della madre di Francesco, di cui si minimizza l’opposizione al marito per difendere e sostenere il figlio. La sua figura, assai positiva, perde la sua identità, confonden-
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LA CLERICALIZZAZIONE DELL’ORDINE Francesco aveva voluto restare fino alla morte un laico. Egli era sí un religioso sottoposto all’autorità del vescovo e vincolato dai tre voti di povertà, castità e obbedienza, ma non era mai divenuto sacerdote. La sua ostinata volontà nel rimanere «minore», cioé umile, ultimo, lo portò a non tentare mai la strada del sacerdozio; i sacerdoti, in quanto amministratori del sacro, erano degni della massima reverenza, indipendentemente dalle loro qualità morali, e Francesco ne raccomandò sempre il rispetto e l’obbedienza. Forse per non divenire esso stesso beneficiario di una tale reverenza non volle mai ricevere l’unzione sacerdotale. Sotto il generalato di Bonaventura da Bagnoregio, però, si giunse a proibire l’ingresso nell’Ordine a quanti non fossero stati ordinati sacerdoti. Da un Ordine di laici, com’era in preponderanza la primitiva fraternità di Assisi, si passò cosí a un Ordine di sacerdoti.
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Un ritratto poco veritiero
Mancano nella biografia di Tommaso i molti sacerdoti – come quelli di S. Damiano o S. Rufino – che dapprima lo avevano aiutato, poi lo avevano ospitato, infine avevano cambiato vita insieme a lui. E le madri, le sorelle, i fratelli, i cugini e le cugine che avevano abbandonato le loro case calde e sicure, per aggiungersi gli uni agli altri nei poveri ricoveri organizzati da Francesco. Tommaso descrive un singolo che diventa santo contro la sua città, mentre nella realtà dei fatti, ben nota ad Assisi, erano state un’intera comunità e un’intera generazione che, passo dopo passo, si erano rinnovate dietro a Francesco. 32
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Carta dei principali movimenti eretici e Ordini mendicanti che si diffusero in Europa tra l’XI e il XIV sec.
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dosi con quella di Pietro di Bernardone, disegnato per giunta come un mercante mondano e gaudente piú che come il padre-padrone descritto dai compagni. Da forestiero, Tommaso non tiene neppure in conto che quella biografia dovrà essere letta anche ad Assisi, in cattedrale o nella piccola chiesa di S. Giorgio, nel giorno anniversario della morte di Francesco, quando, cantando la grandezza del figlio, si sarebbero celebrate anche le miserie spirituali dei genitori e la grettezza dei suoi concittadini. L’orizzonte cupo, dunque, all’interno del quale Tommaso schiaccia la giovinezza di Francesco per meglio far risaltare la sua conversione, avvilisce ingiustamente un’intera comunità. Tommaso dimentica le nobili donne di Assisi, che, come Chiara, avevano vegliato, fin dall’inizio, su quei giovani che lavoravano incessantemente a S. Damiano, inviando loro panni e cibo; e quanti avevano dato una pietra per i cantieri aperti da Francesco e le elemosine per i ricoveri dei lebbrosi.
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LE ERESIE IN EUROPA E I TENTATIVI Zone di origine dei vari dissensi religiosi Aree di diffusione dell’eresia valdese Aree di diffusione dell’eresia catara/albigese III e IV Concilio Lateranense (1179 e 1215) Istituzione del tribunale dell’Inquisizione Crociata contro gli Albigesi (1208-1213)
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Territori cattolici romani
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DI REPRESSIONE Distribuzione dei monasteri degli Ordini mendicanti
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Località con presenza di conventi francescani Località con presenza di conventi domenicani Località con presenza di conventi di entrambi gli ordini
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Firenze, Palazzo Vecchio, Cappella di Eleonora. San Francesco e frate Leone in un affresco del Bronzino. 1540-1545. Compagno del santo fin dalla prima ora, Leone avrebbe potuto esserne l’agiografo «naturale». La retorica di Tommaso, inoltre, finisce con l’appiattire anche gli stessi episodi che aveva diligentemente raccolto dalla viva voce dei compagni per conferire maggiore veridicità al suo racconto. Episodi che, però, egli piega alla sua penna, alla sua prospettiva, rendendoli irriconoscibili alle orecchie dei loro stessi relatori. In particolare, il Francesco che nella testimonianza dei compagni, aveva riconosciuto alle donne – Chiara e le compagne in primis – il diritto a compiere la sua stessa scelta di libertà, diventa in Tommaso un asceta misogino e timoroso della loro frequentazione, ritenuta pericolosa e fuorviante anche per gli spiriti piú forti. Tommaso ci consegna cosí un Francesco tanto sgomento, quanto sprezzante di quel mondo femminile che – invece – era stato cosí presente nel primitivo movimento francescano, rappresentandone la novità e la ricchezza. Un’immagine quella delineata dal frate abruzzese, in cui i compagni non potevano riconoscersi, né riconoscere il loro amico e maestro.
Gli scritti dei compagni
Francesco dà vita a un Ordine religioso nuovo, un Ordine mendicante, che può cioè provvedere al suo sostentamento anche tramite la mendicità, spostandosi di città in città, di convento in convento, di paese in paese. La creazione di Ordini del genere è la grande novità del XIII secolo, introdotta appunto da Francesco e dal suo contemporaneo Domenico di Caleruega, fondatore dell’Ordine che da lui prende nome. A partire da questo momento, dunque, il panorama religioso si amplia. Non piú solo il clero, ovvero la schiera variegata dei sacerdoti – dal semplice prete di campagna fino al sommo pontefice – non piú solo monaci – religiosi regolari votati alla vita ritirata in abbazie impervie e dislocate –, ma frati. Frati itineranti, e dunque immersi nella vita delle rinate città. A imitazione dei loro precursori orientali, i monaci avevano l’obbligo di risiedere nelle abbazie per condurre la vita di lavoro e di preghiera, ordinata loro dal capostipite del monachesimo occidentale, Benedetto da Norcia. I frati, invece, si spostavano di città in città, trovando albergo dove capitava, facendosi apostoli e missionari delle masse cittadine. Divenire frate rappresentò dunque un’alternativa per quanti volevano condurre vita comune, SAN FRANCESCO
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Compagno e confessore Come già ricordato, per i santi provenienti dal mondo monastico si era sempre scelto un biografo interno al cenobio, uno che, avendo vissuto per anni gomito a gomito con l’uomo che si intendeva canonizzare, potesse vantarne una conoscenza se non intima, approfondita. Nel convento della Porziuncola, dove Francesco aveva risieduto per la maggior parte della sua vita, ce n’era sicuramente uno che avrebbe potuto assolvere assai bene a questo compito: frate Leone. Originario di Assisi, Leone si era unito al gruppo di Francesco prima del 1215, cioè prima dell’anno di svolta, che portò la primitiva spontanea fraternitas ad assumere i contorni definiti dell’Ordine religioso. Vi si era unito intorno al 1209, subito dopo l’approvazione orale da parte del pontefice del proposito di vita dei penitenti di Assisi. Egli era anche uno dei pochi frati sacerdoti della primitiva comunità francescana; ordinato sacerdote poco prima o comunque poco dopo il suo ingresso in fraternità. Il fatto di essere ministro del culto lo qualificava come buon conoscitore del latino, lingua nella quale era tenuto a celebrare la messa e che del resto usava anche per comunicare con lo stesso Francesco, che pure rispondeva sempre in latino alle sue lettere. Due di queste epistole sono ancora conservate e, in quanto unici autografi di Francesco, ce lo indicano come uno dei suoi compagni piú amati. Oltre a essere un compagno della prima ora, Leone lo fu, soprattutto, dell’ultima; di quella fase, cioè, solitaria e dolorosa dell’esistenza dell’Assisiate, alla cui condivisione furono ammessi solo pochi tra i suoi. Leone fu anche il confessore personale di Francesco, e tale elemento, in occasione di altri processi di canonizzazione, fu ritenuto titolo preferenziale per la scelta dell’agiografo. Il confessore conosce infatti gli stati d’animo e i meccanismi psicologici piú nascosti delle anime che gli si sono confidate. Vi è, infine, un ultimo dato, che lo caratterizza come agiografo naturale di Francesco: egli fu per anni l’amanuense della confraternita, quello a cui Francesco si rivolse per mettere nero su bianco le sue riflessioni, le sue ammonizioni, le sue volontà finali. Fu lui a redigere, sotto dettatura, il Cantico di frate Sole e le ultime ammonizioni a Chiara, quando Francesco era ormai divenuto cieco. La tradizione orale tramandò l’immagine inequivocabile di Leone che scrive, sotto dettatura, le parole di Francesco. Nel passo dei Fioretti sulla vera e perfetta letizia, Francesco intercala il racconto con l’esortazione: «Scrivi frate Leone!». Sebbene scartato dalla committenza papale e dalle gerarchie dell’Ordine francescano come biografo ufficiale del Santo, Leone scrisse e tramandò i propri ricordi su Francesco. Nel Trecento alcuni scrittori francescani vi facevano ancora riferimento, denominandoli «i rotoli di Frate Leone», che, secondo la loro testimonianza, erano ancora conservati «in un armadio» del Sacro Convento di Assisi. Rotoli che ai tempi della grande censura ordinata da Bonaventura sarebbero stati affidati alle sorelle di S. Damiano per essere custoditi in segreto, ma che sarebbero poi confluiti nella biblioteca del convento. Oggi gli storici 36
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sono pressoché concordi nel ritenere che sulla base di quei rotoli – scomparsi – siano state redatte la Compilazione di Assisi e lo Specchio di Perfezione, giunti invece fino a noi. Chi volesse, dunque, udire la voce del piú stretto compagno di Francesco a queste due opere dovrà rivolgersi. Leone visse la maggior parte della sua vita alla Porziuncola, dove morí presumibilmente intorno al 1271. La sua tomba si trova oggi accanto a quella di Francesco, nella cripta della Chiesa Inferiore di Assisi.
San Francesco riceve le stimmate, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore di Assisi. 1290-1295 circa.
riva un monaco divenuto illustre per meriti, si affidava la scrittura della sua biografia a uno dei suoi confratelli piú stretti. A un monaco dello stesso cenobio o che, comunque, almeno per un certo periodo avesse vissuto gomito a gomito con lui, che lo avesse conosciuto nell’intimo dei suoi pensieri al fine di tramandarne meglio la memoria. Solo per citare due esempi celebri, la vita del monaco Bonifacio, apostolo della Germania, vissuto nell’VIII secolo, fu scritta, dal confratello e amico Willibaldo, e quella di Bernardo di Chiaravalle, dal suo maestro, Guglielmo di Saint-Thierry. Nel caso di Francesco, a sorpresa, tutto ciò non accade. Si scelse di ignorare questa prassi e si esclusero, invece, proprio i suoi confratelli piú stretti dalla scrittura della sua biografia. Si scartò persino Leone, il frate sacerdote che era stato confessore di Francesco e aveva redatto, sotto dettatura, molti dei suoi scritti, Cantico compreso.
La buona penna di Tommaso
sottoposta a una Regola, senza rinunciare all’itineranza e all’apostolato. Pur con le differenze fin qui delineate, i frati dunque s’inserivano nella cosiddetta «vita regolare», soggetta cioé a una Regola. Se si vuole fare un confronto con il passato, bisogna dunque guardare al monachesimo, in quanto anche i monaci erano soggetti alla vita comunitaria e regolare. E nel mondo monastico, quando mo-
Purtroppo, noi contemporanei abbiamo a tal punto introiettato l’idea di una primitiva comunità francescana, come comunità di uomini semplici e senza cultura, da aver creduto a quella falsità – corsa di penna in penna – che attribuiva l’esclusione di Leone alla sua imperizia nella scrittura. Spesso si è sostenuto che Tommaso da Celano fosse stato scelto come biografo per il suo stile, per la sua buona penna latina. E in tanti, nei secoli, hanno ritenuto «alto» il suo stile fiorito, e apprezzabile la fitta presenza di citazioni scritturistiche nel suo testo e l’uso – ma direi l’abuso – della retorica. In molti, poi, guardando agli scritti dei compagni, caratterizzati da uno stile scarno, essenziale, senza enfasi, hanno ritenuto di trovare conferma a quella vulgata: Tommaso era il buon conoscitore del latino, il bravo scrittore, l’abile retore, mentre i compagni – al massimo – mettevano insieme qualche ricordo, senza riuscire a dar loro una forma coerente e compiuta, degna di una lettura solenne e corale. Solo l’evolversi del nostro gusto stilistico e l’essere passati attraverso l’ermetismo e il simbolismo del Novecento ci hanno, infine, permesso di capire che la situazione era ben diversa e cioè che per i compagni – cosí come per i poeti del XX secolo – si trattò di una scelta consapevole. Una scelta dettata dall’urgenza di restare fedeli alla Regola, quella dettata da Francesco che esigeva minorità, povertà, essenzialità. Una scelta, dunque, mossa dalla volontà di ripulire la parola da ogni sovrastruttura, da ogni retorica, facendola tornare a essere nuda e, nella sua nudiSAN FRANCESCO
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Agiografi e biografi
tà, pietra parlante. Solo ora, dunque, ci è possibile tornare agli scritti dei compagni per leggere, nella loro essenzialità, non l’imperizia, ma la volontà di adottare una parola, capace di essere manifesto della loro proposta di vita.
Convinzioni dure a morire
Per secoli – fuorviati dal gusto per la retorica di scrittori come Bonaventura – abbiamo commesso l’errore di credere che quello stile scarno ed essenziale fosse il riflesso di una cultura bassa, mentre esso era il frutto di una scelta consapevole. Abbiamo creduto che Francesco avesse composto il Cantico in volgare perché poco esperto nella scrittura in latino, nonostante si tratti dell’unico testo, fra la trentina che Francesco ha lasciato, che in quella lingua non è scritto. Abbiamo accettato lo stereotipo secondo il quale sarebbero stati alcuni compagni a scrivere per lui, quando i suoi autografi ci mostrano che egli scrivesse di suo pugno e sempre in latino. A far scartare i compagni, dunque, non furono l’imperizia nella lingua latina, né la mancata familiarità con la scrittura, ma una semplice questio38
SAN FRANCESCO
In alto miniatura tratta da un’edizione della Leggenda Maggiore di Bonaventura da Bagnoregio. XIV sec. Roma, Biblioteca Nazionale Centrale. Nella pagina accanto San Bonaventura, scomparto laterale di un polittico (smembrato) dipinto da Bernardo Zenale. Fine del XV sec. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
ne di gusto. Un gusto letterario a cui si veniva formati, con dosi massicce di retorica, di enfasi e ampollosità lessicale. Nel 1244, però, un provvedimento dell’allora ministro generale dell’Ordine, Crescenzo da Jesi, forní per nostra fortuna occasione ai compagni di Francesco di iniziare a scrivere. Ai frati venne infatti chiesto di setacciare ogni angolo della loro memoria affinché nulla di Francesco andasse perduto: ricordi personali, appunti, documenti, miracoli, lettere private, tutto ciò che fosse degno di interesse testimoniale doveva essere inviato a Crescenzio. La sua disposizione deve forse essere letta alla luce della considerazione che il gruppo storico dei compagni cominciava ad assottigliarsi, come aveva dimostrato la morte, solo qualche anno addietro, di Bernardo di Quintavalle, primo compagno di Francesco. Con la loro scomparsa, sarebbero venute meno tante preziose testimonianze che dovevano già circolare nel circuito dei conventi, senza però valicarne le mura. Era necessario, allora, mettere nero su bianco la testimonianza diretta di quanti erano stati con lui, di quanti erano a conoscenza di
fatti e detti inediti, sconosciuti fuori dal circondario di Assisi, e portarli all’attenzione di tutti, attraverso una nuova biografia ufficiale. Ancora una volta lo stile dei ricordi inviati dai compagni e, senza dubbio, anche la critica che essi esprimevano nei confronti dei cambiamenti in atto, spinse Crescenzio a riaffidare a Tommaso da Celano il compito della loro rielaborazione in una forma definitiva. Questa volta, al frate abruzzese, non si chiedeva di comportarsi come un autore, ma come un semplice compilatore: egli si sarebbe dovuto limitare a tradurre in un’opera coerente il materiale disomogeneo raccolto dai frati. Il suo lavoro, dunque, doveva rimanere subordinato a quell’inchiesta, che si era appena aperta e che mirava a salvare dall’oblio ogni traccia del fondatore.
La lettera a Crescenzio
Il materiale inviato era preceduto da una lettera, datata «Greccio, 11 agosto, 1246», e firmata da tre dei compagni piú stretti di Francesco, Leone, Rufino e Angelo. Il primo dei tre dimostrò in questa occasione di essere l’agiografo naturale di Francesco, scartato, invece, all’indomani della sua canonizzazione. Il secondo, Rufino, era il cugino di Chiara, che fu amico d’infanzia di Francesco. Il terzo, Angelo Tancredi, era un nobile cavaliere, originario del Reatino, e conobbe Francesco poco dopo la sua conversione, nell’area che – dopo la Porziuncola – divenne il secondo quartier generale dei frati. È utile notare che tutti e tre i firmatari erano legati a Chiara da rapporti assai stretti; Rufino le era cugino, mentre gli altri due ci sono segnalati al suo capezzale di morte e incaricati di raccogliere le testimonianze necessarie per l’apertura del suo processo di canonizzazione. Non è quindi escluso che Chiara stessa abbia partecipato alla stesura di quegli scritti, che, del resto, al tempo della grande censura ordinata da Bonaventura, furono segretamente affidati – lei morta – proprio alle sue seguaci. Ora, da sempre, ci si interroga su quale fosse l’opera (o le opere) che la lettera di Greccio accompagnava. Nei manoscritti giunti fino a noi, la lettera fa da introduzione a un testo intitolato Leggenda dei tre compagni, un’opera ordinata e coerente che segue un preciso sviluppo cronologico, delineando la giovinezza di Francesco, ben indagata sia in relazione all’ambiente di provenienza sia in relazione ai fatti storici accaduti ad Assisi in quel torno di anni. Il contenuto, però, non si adatta a quanto annunciato nella lettera, la quale dice di far da introduzione a un florilegio, in cui sono stati annotati alla rinfusa, SAN FRANCESCO
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Agiografi e biografi
senza ordine preciso, i ricordi dei compagni, «raccolti come fiori in un prato». Una definizione, «fiori in un prato», che ben si adatterebbe, invece, a un’altra opera giunta fino a noi e scritta dai compagni, la Compilazione di Assisi, che è infatti denominata anche Florilegio, a indicarne, appunto, la frammentarietà. Si potrebbe dunque ipotizzare che la lettera accompagnasse entrambi gli scritti, la Leggenda dei Tre Compagni e la Compilazione di Assisi. Anche perché la prima non può essere verosimilmente attribuita a Leone e Angelo, i quali non trascorsero con Francesco il periodo precedente alla sua conversione, che l’opera descrive cosí bene. Essa deve piuttosto attribuirsi al solo Rufino, il quale condivise con Francesco proprio lo stile di vita, che caratterizzava le famiglie ricche o nobili che si muovevano in quella parte alta della città, dove pure era cresciuto Francesco. Probabilmente, allora, a seguito della lettera di Greccio, doveva esserci anche la Compilazione di Assisi (o Legenda perusina), un’opera che resta per noi perduta nella sua forma originale, ma di cui ci resta un rimaneggiamento trecentesco confluito nel manoscritto 1046 della Biblioteca Augusta di Perugia (da cui la denominazione). È certamente questa l’opera giunta fino a noi che, piú di ogni altra, riflette il programma di essenzialità e verità che la fraternitas di Francesco si proponeva. Uno scritto caratterizzato da una forma volutamente essenziale, tesa a registrare poche, ma precise azioni del suo protagonista. Uno scritto che rifiuta nella maniera piú assoluta il ricorso a formule discorsive, ad artifici retorici, avvertiti probabilmente come palesi attentati a quella ricerca di verità che era il suo obiettivo. In questo sforzo di essenzialità e di verità vi è l’innegabile prospettiva storica della primitiva fraternità, espressa sia nella Leggenda dei tre compagni, sia nella Compilazione di Assisi, le quali insieme tratteggiano quell’immagine di Francesco che è per noi la piú autentica.
Bonaventura e la Leggenda
Bonaventura nacque intorno al 1217 a Civita di Bagnoregio, nell’Alto Lazio, e, dopo aver vestito il saio e compiuto in patria i primi studi, si recò a Parigi, dove si specializzò in teologia, madre di tutte le scienze e summa di tutto il sapere dell’epoca. Nella capitale francese, la situazione dell’Ordine francescano si era fatta difficile. Ancora vivo Francesco, erano nate all’interno dell’Ordine due correnti (anche se in verità erano di piú): una piú rigorista, che intendeva seguire alla lettera la Regola lasciata 40
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da Francesco e raccomandata nel suo Testamento, e una che, invece, spingeva per il cambiamento e per attenuare molti dei divieti che nella Regola erano contenuti. Divieti che contrastavano con la clericalizzazione dell’Ordine in atto, nonché con la progressione dei frati negli studi e nell’accettazione di alte cariche. Una parte dell’Ordine, poi, denominata «spirituale», era stata conquistata dalle idee del monaco calabrese Gioacchino da Fiore, deceduto nel 1202, e quindi molti anni prima della fondazione dell’Ordine francescano. Gioacchino aveva immaginato che la fine dei tempi sarebbe stata preannunciata dall’arrivo di un un nuovo Ordine di monaci, riconoscibili per la loro purezza. In questi nuovi monaci preparatori dell’Età dello Spirito, gli spirituali credettero di riconoscere se stessi. Il francescano Gerardo da Borgo San Donnino, lettore presso lo Studium parigino, pubblicò nel 1254 un’opera in cui parlò dei Francescani come preparatori dei tempi ultimi e di Francesco come alter Christus. Era la prova che i laici e i dottori afferenti agli altri Ordini religiosi – concorrenti dei Francescani – attendevano, perché da tempo accusavano i Francescani di essersi fatti il proprio Dio personale, quel Francesco che sembravano amare piú di Cristo stesso e che, non a caso, suggerivano essere un «Alter Christus» o adirittura «un nuovo Cristo». Papa Alessandro IV si vide allora costretto a formare una commissione d’urgenza col compito di passare al vaglio le tesi di Gerardo, denunciate infine come eterodosse. Le ripercussioni peggiori dell’azione di Gerardo si ebbero, però, all’interno dell’Ordine. L’allarme procurato dal suo scritto diede il via a una vera e propria epurazione interna e al vaglio strettissimo dell’ortodossia di ogni frate da parte dell’autorità francescana. Nel pieno di tale crisi, venne eletto generale dell’Ordine Bonaventura da Bagnoregio. Nel 1258, egli richiamò dalla Sicilia Gerardo da Borgo San Donnino, lí confinato e gli intentò un processo per eresia, attraverso l’azione di una commissione da lui stesso presieduta. Gerardo venne condannato al carcere perpetuo, fino alla morte, avvenuta nel 1276, e gli fu negata la sepoltura in terra consacrata. Nei mesi successivi, Bonaventura, in occasione dell’ordinaria visita generalizia ai conventi, compí una minuziosa indagine, tesa a verificare il grado di diffusione e adesione alle idee spirituali. La sua visita lo rafforzò nella convinzione che ogni convento differiva sensibilmente nel modo di interpretare la figura e l’eredità morale
Pagine di un’edizione manoscritta del Cantico di frate Sole (o delle Creature) di Francesco d’Assisi. XIV sec. Assisi, Biblioteca Comunale.
di Francesco e si fece strada in lui l’idea di porre fine a quel caos dottrinario, affermando un’immagine univoca dell’uomo di Assisi attraverso la stesura di una nuova biografia, che fosse in grado di far cessare anche le polemiche tra conventuali (l’ala moderata dell’Ordine) e rigoristi (l’ala piú intransigente) sul modo di interpretare la Regola. Quarant’anni dopo la morte dell’Assisiate, nel 1263, Bonaventura che non aveva conosciuto Francesco, decise di comporne una nuova biografia, tramandata col nome di Leggenda Maggiore, un titolo sicuramente usato per distinguerla dalla Minore, una forma abbreviata per il coro, ma anche per suggerirne la preminenza. Bonaventura non si limitò a confezionare una nuova biografia di Francesco, ma volle assicurarsi di imporre la nuova immagine da lui coniata, attraverso un provvedimento – che ancora oggi suscita il nostro sgomento – di distruggere tutte le precedenti biografie sul santo di Assisi.
IL CANTICO DI FRATE SOLE Il Cantico di frate Sole è il primo testo della letteratura italiana, che, al pari della Divina Commedia di Dante, è scritto in volgare per divenire accessibile a tutti. E, come la Commedia, è stato scritto da un uomo che parlava e scriveva correntemente sia in latino e che in volgare. Un uomo, Francesco, che fece ricorso al volgare per rivoluzionare una tradizione linguistica che attendeva, ormai, solo di trovare il suo canale alto nella scrittura. Infine, al pari della Commedia, il Cantico scaturisce dalla profonda cultura di un uomo che seppe intercettare e farsi seguace di una poesia nuova, la poesia cortese, che dal Nord della Francia si stava espandendo in tutta Europa, portando con sé le sue incontestabili novità, non solo tecnico-linguistiche, ma anche contenutistiche. Una poesia, quella cortese, che si concentra sulla tematica dell’amore. Un amore nuovo, che solo gli animi nobili possono provare, quegli animi che si sono autodisciplinati a riceverlo, accettandolo per quello che è nella sua essenza: una consegna, uno sforzo da compiersi a servizio degli altri, dell’amata, ma anche dei deboli e degli oppressi.
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Agiografi e biografi
Nel capitolo di Parigi del 1266, ordinò cosí – ci resta il testo normativo della sua decisione – di distruggere tutte le biografie precedenti. Il perché di tale decisione è una delle croci della «questione francescana», che vede da tempo i filologi impegnati a ristabilire i rapporti di dipendenza tra le testimonianze superstiti e a rimediare ai danni prodotti dal tragico provvedimento.
Il santo di Bonaventura
Le biografie ufficiali, quelle scritte da Tommaso da Celano, non potevano essere il vero bersaglio della decisione di Bonaventura, che se ne era ampiamente servito per la composizione della sua. Il Francesco che Bonaventura voleva cancellare era piú probabilmente quello uscito dalla penna dei compagni: un Francesco contornato dalle donne, che dà vita a un movimento maschile e femminile; un Francesco che rifiuta lo studio e l’avanzamento nelle cariche; che scoraggia il possesso dei libri, che vieta conventi stabili e in muratura; un Francesco che va Oltremare solo per predicare; un Francesco fortemente contestato ed emarginato negli ultimi anni di vita da una parte consistente dell’Ordine, dai frati sacerdoti e dai frati dottori, che premono per i cambiamenti di cui Bonaventura è massimo interprete. Il Francesco affermato da Bonaventura è, al contrario, un Francesco misogino, che guarda alle donne come a un pericolo, a una tentazione; che non si occupa né di studio, né di libri, non perché abbia una posizione al riguardo, ma perché troppo semplice e ignorante; che va in Egitto per sfidare il sultano in un’ordalia; che appare costantemente in estasi, rivolto assai piú verso il Cielo che verso la Terra. Molti dei tratti di Francesco affermati o sottaciuti, servono a Bonaventura per rafforzare le riforme che intende attuare sotto il suo generalato. La prima consiste nello staccare il ramo femminile – comunemente detto delle Clarisse – da quello maschile; le donne dell’Ordine non staranno piú sotto l’autorità francescana, ma sotto il controllo del vescovo. È dunque urgente per Bonaventura cancellare la familiarità e la frequentazione di Francesco con le donne – persino con Chiara e Jacopa – e suggerire lo stereotipo contrario di un Francesco misogino. Il Francesco di Bonaventura non ha piú alcuna umanità, è un santo estatico, ascetico, senza una personalità precisa, con lo sguardo rivolto costantemente vero Dio. In tal modo, si cercava di togliere valore alla preoccupazione dell’Assisiate – fortissima nel suo ulti42
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mo decennio di vita – che il suo progetto di vita non fosse snaturato, che la sua Regola non venisse ammorbidita, che la povertà non venisse scavalcata. Una volta entrati nell’Ordine, si doveva – secondo Francesco – rinunciare a qualunque possesso anche in comune. Non si poteva donare neppure la propria dote o eredità all’Ordine. Era anche necessario rinunciare a progredire negli studi, perché la vocazione dei frati doveva essere quella di vivere e lavorare in mezzo agli ultimi. È evidente che rinunciare agli studi, significava anche rinunciare ad avere un peso come Ordine religioso, farsi da parte nelle grandi scelte della Chiesa. Tale rinuncia venne rivendicata e ribadita da Francesco e doveva essere tenuta ferma anche attraverso il rifiuto di alti incarichi, di privilegi, di onori. Egli aveva piena consapevolezza del fatto che, cosí facendo, avrebbe rinunciato a orientare le scelte della Chiesa, lasciando tale prerogativa nelle mani di altri Ordini religiosi. Ma fu quello che impose e chiese ai suoi, pur sapendo che molti – anche da lui stimati, come Antonio da Padova, per esempio – ritenevano che sarebbe stato, al contrario, piú opportuno partecipare, auitando i tentativi di riforma e di cambiamento in atto nella Chiesa.
Ministri del sacro
Il suo monito fu però quello di restare «minori», i piú piccoli, i disprezzati della Terra, rinunciando a qualunque privilegio, anche se motivato da scopi d’impegno e servizio a favore della Chiesa. In ogni frate, ciascuno doveva riconoscere l’immagine di un ultimo, di un povero, di un inerme. Per Bonaventura – che aveva compiuto i suoi studi fino al massimo grado, tanto da diventare titolare di una prestigiosa cattedra di teologia all’Università di Parigi – la prospettiva era invece totalmente diversa. Egli auspicava un avanzamento dei Minori negli studi, proprio al fine di farli entrare tra le gerarchie ecclesiastiche, conquistando la possibilità d’incidere sulle grandi questioni del suo tempo. Sotto il suo generalato, i frati furono cosí sollecitati a proseguire negli studi, ad accettare avanzamenti e a divenire ministri del sacro, cioè sacerdoti. In questa nuova prospettiva, Francesco – che aveva invece voluto restare un diacono, sottoposto ai soli voti di castità, povertà e obbedienza, senza divenire mai sacerdote – iniziò a essere percepito da un Ordine ormai completamente clericalizzato, come un frate semplice e incolto, quasi che, per semplicità e inadeguatezza, avesse compiuto quella scelta difficilissi-
Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Particolare di un affresco di Pietro Lorenzetti raffigurante san Francesco con il tipico saio francescano. 1310. ma di restare per sempre un diacono, un ultimo, un povero di Assisi. L’insistenza sulla «semplicità» di Francesco, che torna e ritorna nelle pagine della Leggenda Maggiore, ha scavato un solco talmente profondo nel nostro immaginario che assai difficile risulta oggi rimediare ai danni procurati da oltre cinquecento anni di falsa tradizione. Chi – infatti – può dirsi davvero immune da stereotipi quali «il poverello d’Assisi», «il fraticello», «l’uomo serafico»? E chi non ha pensato almeno una volta al Cantico di frate Sole come a un componimento semplice e istintivo, scritto da un uomo puro, ma ignorante? Chi non ha preso alla lettera almeno una volta, quella formula di auto-rivendicata umiltà «io Francesco, che sono semplice e ignorante»?
Con lui nacque la letteratura italiana
Chi di noi, infine, non ha nutrito, almeno sui banchi di scuola, il sospetto che Francesco sapesse scrivere solo in volgare? E non ha pensato, almeno una volta, che il Cantico di frate Sole sia una preghiera un po’ ingenua? Un testo che per la sua bellezza è divenuto presto simbolo e icona dei primi frati di Assisi, ma anche sigillo della loro presunta semplicità. Del resto, quando il Cantico di frate Sole venne composto, si riteneva – con qualche rara, ma significativa eccezione – che solo il latino potesse essere la lingua della scrittura. E poiché in pochi erano in grado di usarlo, si riteneva anche che in pochi sapessero scrivere, perché scrivere – appunto – voleva dire scrivere in latino. Cosí divenne vero anche il suo contrario, scrivere in volgare voleva dire non saper scrivere, essere ignorante. Eppure, come già ricordato, Francesco ha lasciato una trentina di scritti, di cui solo il Cantico è in volgare, e forse (si discute ancora se sia da ritenersi autentico) l’Audite poverelle, una laude indirizzata a Chiara e le sorelle. Cosí come i compagni dimostrarono di conoscere bene il latino, lasciandoci essi stessi le loro testimonianze in quella lingua. Solo oggi siamo in grado di valutare a pieno il carattere innovativo, dirompente, temerario del Cantico, tanto che nei manuali scolastici lo presentiamo come primo testo della letteratura italiana, un testo che – si badi bene – è cinquanta-sessant’anni in anticipo rispetto allo stil novo e alle liriche volgari di Dante Alighieri. SAN FRANCESCO
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Nella sua Assisi Nato in una ricca famiglia borghese, nei primi anni della sua gioventú, Francesco è fra gli animatori della vita sociale della città e, quando se ne presenta la necessità, non si sottrae ai suoi doveri di soldato. Poco piú tardi, però, matura la svolta che lo porta a scegliere un’esistenza radicalmente diversa, che ha nella povertà uno dei suoi tratti distintivi. Ma anche in questa nuova fase, il rapporto con Assisi rimane strettissimo
L’omaggio dell’uomo semplice, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. La scena, ambientata nella stessa Assisi, della quale sono ben riconoscibili la Torre del Popolo e il tempio di Minerva, riprende la testimonianza riportata da Bonaventura da Bagnoregio nella Leggenda Maggiore: «Un uomo di Assisi, molto semplice, certo per ispirazione divina, ogni volta che incontrava Francesco per le strade della città, si toglieva il mantello e lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco era degno di ogni venerazione, perché di lì a poco avrebbe compiuto grandi cose, per cui sarebbe stato onorato e glorificato da tutti i cristiani». 44
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Il rapporto con la città
rancesco apparteneva alla borghesia mercantile di Assisi, che era riuscita ad arricchirsi grazie alla rinascita – dopo il Mille – dei centri urbani. Il padre, Pietro di Bernardone, aveva una bottega di stoffe, diversi beni immobiliari, e relazioni commerciali che lo portavano spesso in Francia. La famiglia di Francesco era, dunque, tra quelle che ad Assisi avevano maggiore disponibilità di danaro e il fatto che il futuro santo potesse attingere alla fortuna del padre, fatta del denaro contante dei
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Veduta di Assisi. La città è dominata dalla Rocca Maggiore, di cui si hanno notizie a partire dal 1174, cioè da quando venne ricostruita in seguito alla conquista di Assisi da parte delle truppe imperiali guidate da Cristiano di Magonza.
borghesi e non della ricchezza fondiaria dei nobili, lo rendeva un giovane le cui frequentazioni travalicano quelle del ceto di appartenenza. Nei centri urbani del Duecento, del resto, la classe borghese, proprio grazie alle disponibilità monetarie, era divenuta molto attraente per i nobili, ancora quasi esclusivamente legati al possesso della terra, che garantiva loro una vita agiata, ma non quella riserva di danaro liquido in grado di moltiplicare la ricchezza. In questo come in altri momenti storici, la no-
biltà di Assisi arrancava dunque dietro alla borghesia, che, non gravata dal fardello della terra, poteva sperimentare investimenti vantaggiosi, sfruttando anche la libertà loro concessa dall’essere dei nuovi ricchi; i borghesi potevano azzardare, per esempio, attività alle quali i nobili non osavano dedicarsi per timore d’intaccare la propria immagine, come quella, assai redditizia, del prestito. Proprio a motivo di un rapporto piú disinvolto con il danaro, il borghese sentiva il bisogno di
riscattare la propria immagine, di nobilitarla, anche e soprattutto in vista di un’ascesa politica che ormai rivendicava. Questo lo spingeva a cercare amicizie al di sopra del proprio ceto sociale: egli desiderava frequentare i nobili, emularli nel loro stile di vita, al fine di apparire da loro indistinguibile e in modo da raggiungerne diritti e privilegi. Il primo privilegio che la borghesia intendeva ora sottrarre alla nobiltà era la liberalità, l’arte di essere munifici, di spendere il proprio danaro a favore della
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collettività. Una virtú, la liberalità, appartenuta per secoli solo al nobile, perché solo i signori avevano potuto permettersi di promuovere eventi mondani in quanto unici a possedere. A partire dalla fine del XII secolo, i borghesi iniziarono invece a far loro concorrenza. Il borghese si fece mecenate e finanziatore di attività sociali, dunque, non per sdebitarsi della propria buona sorte, ma perché nel donare faceva mostra della propria ricchezza. Per tale ragione iniziò a divenire – al posto del nobile – patrono delle feste cittadine. In tale contesto, nascondere i propri guadagni, affidarli per intero a una banca, avrebbe significato limitare la possibilità d’espansione del proprio capitale e restare «poveri» nella percezione comune. In particolare, avrebbe significato precludersi l’opportunità di stringere nuove vantaggiose amicizie. E questo è un dato che occorre tener presente per comprendere la ragione per la quale, in un primo momento, Pietro di Bernardone non ostacola la spiccata generosità del figlio, che si manifesta – in modi diversi – già in giovane età.
Sulle due pagine la Rocca Maggiore di Assisi, sopra le cui mura spicca il Maschio. In basso, al centro la cattedrale di S. Rufino, la cui prima fondazione risale all’VIII sec. Nella pagina accanto, in basso la lunetta del portale centrale della cattedrale di S. Rufino: Cristo Giudice, seduto in trono, rivolge la mano verso la Madonna allattante; dalla parte opposta, la figura di san Rufino.
Tra le famiglie piú in vista
Nella piccola cittadina umbra, le famiglie che davvero contavano, per antichi titoli o per nuove ricchezze, erano al massimo una trentina, e tra queste vi era quella di Francesco. Dobbiamo supporre, a questo punto, che queste famiglie si frequentassero. Si frequentavano perché nel Duecento la vita era davvero stanziale e perché la nascente macchina del potere comunale portava i due partiti dei nobili, i maiores, e dei borghesi e del popolo grasso, i populares, a incontrarsi nel corso delle assemblee e delle votazioni comunali e in occasione delle feste cittadine, veri palcoscenici dello sfarzo cittadino. Si incontravano anche perché l’Assisi medievale era piú limitata rispetto all’attuale. L’imponente complesso monumentale della basilica di S. Francesco non esisteva e, al suo posto, c’era una collina spoglia e brulla. Anche la Rocca non aveva l’ampiezza e l’importanza attuale. I luoghi d’incontro si limitavano a tre piazze principali: la piazza del Comune, cuore dell’urbe dai tempi in cui i Romani vi avevano edificato il foro e il tempio in onore di Minerva; la piazza di San Rufino, dove sorgeva l’antica cattedrale, sede del vescovo; la piazza di San Giorgio, oggi piazza Santa Chiara. Tre piazze a pochi metri di distanza l’una dalle altre, tutte gravitanti nella città alta, dove pure avevano sede i palazzi nobiliari e quelli delle famiglie piú facoltose. In quest’area sorgevano 48
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la casa e la bottega di Francesco e le case di molti dei giovani e delle giovani che a lui si unirono dopo la conversione.
La rottura col padre
Per Pietro di Bernardone le qualità del figlio sono capacità neutre, se non vengono messe a servizio di un’ascesa sociale che non solo egli auspica, ma pretende. Due sono le strade percorribili da Francesco per soddisfare l’ambizione del padre: quella della guerra, che gli offrirebbe la possibilità di ascendere al primo gradino della nobiltà, conquistando il titolo di cavaliere, e quella della politica, che gli aprirebbe la strada degli organi del governo comunale, i quali cominciano ad attingere linfa vitale dalle classi in ascesa. Per ciò che attiene alla prima, si tratta essenzialmente d’individuare la circostanza per mettersi in mostra, perché Francesco è stato già addestrato al mestiere delle armi e fornito dal padre di un cavallo e di un’armatura, necessari all’arruolamento. La seconda, la carriera politica, è la (segue a p. 53)
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Il rapporto con la città
1181 Francesco nasce ad Assisi e viene battezzato
con il nome di Giovanni di Pietro di Bernardone, ma il padre vuole che sia chiamato Francesco. 1198 Lotario dei conti di Segni viene eletto papa e assume il nome di Innocenzo III. 1202, Guerra tra Perugia e Assisi. novembre L’esercito di Assisi è sconfitto a Collestrada. Francesco è tra i prigionieri e rimane a Perugia, in carcere, per un anno. 1204 Francesco decide di recarsi in Puglia (o 1205) per combattere con Gualtiero di Brienne. Ma, a Spoleto, ha una visione che capovolge i suoi progetti, invitandolo a tornare ad Assisi.
COMINCIA IL PROCESSO DI CONVERSIONE
LA VITA DEL SANTO
1206 Viene convocato in giudizio davanti al vescovo
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di Assisi e rinuncia all’eredità paterna. Indossa un abito da eremita e ripara le chiese di S. Damiano, di S. Pietro e la Porziuncola. 1208 Decide di smettere la veste da eremita, indossa una povera tonaca e comincia ad annunciare la penitenza. Prime missioni nel Centro Italia. 1209 Francesco scrive una breve Regola e (o 1210) si presenta a Innocenzo III, che l’approva e lo incarica della predicazione penitenziale. Francesco e i suoi compagni si stabiliscono alla Porziuncola, che diverrà la chiesa madre dell’Ordine. 1209-1210 Probabile inizio del Terzo Ordine. 1212 Nella notte della Domenica delle (o 1211) Palme, Francesco accoglie a S. Maria degli Angeli Chiara degli Offreduccio, la riveste dell’abito religioso e ne fissa la dimora a S. Damiano. 1213-1214 Francesco parte per la Spagna, deciso a raggiungere il Marocco per predicare agli infedeli; ma una malattia lo costringe a far ritorno alla Porziuncola, dove accoglie nell’Ordine un folto gruppo di uomini nobili e letterati, tra cui Tommaso da Celano. 1215 Francesco si reca a Roma e assiste al IV Concilio Lateranense.
PROBABILE INCONTRO CON SAN DOMENICO 1216 Muore Innocenzo III. Gli succede il cardinale
Cencio Savelli, col nome di Onorio III. 1217 Prime missioni Oltralpe e Oltremare. 1218 Onorio III pubblica la bolla Cum dilecti per
assicurare i vescovi della piena cattolicità dei Frati Minori. 1219 Si decidono nuove missioni per la Germania, la Francia, I’Ungheria, la Spagna e il Marocco. Francesco raggiunge Acri e poi Damietta, dove i crociati sono schierati contro l’esercito musulmano. Si reca dal sultano al-Malikal-Kamil per predicare la buona novella, ma non vedendo frutti di conversione si fa riaccompagnare al campo crociato. Damietta è
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conquistata dai crociati. Francesco, disgustato per gli eccessi delle truppe, torna in Siria. 1220 Cinque frati inviati in Marocco vengono uccisi dai musulmani: sono i Protomartiri francescani. Francesco torna in Italia, allarmato per la situazione dell’Ordine. Si reca dal papa e ottiene il cardinale Ugolino come «protettore» dell’Ordine. Rinuncia al governo dell’Ordine e nomina come vicario Pietro Cattani. Onorio III con la bolla Cum secundum impone il noviziato. 1221 Muore Pietro Cattani. Capitolo generale detto «delle stuoie». Si approva il testo della Regola (non bollata) e si decide una nuova missione in Germania. Onorio III approva il Memoriale propositi, considerato come la prima Regola delI’Ordine dei Penitenti di San Francesco. 1221-1222 Francesco compie un giro di predicazione nell’Italia centro-meridionale.
Gubbio. Scultura raffigurante san Francesco «a colloquio» con un lupo. La tradizione attribuiva al santo assisiate numerose predicazioni indirizzate agli animali.
L’ingresso della casa tradizionalmente identificata con quella di Pietro di Bernardone, padre di Francesco, oggi inglobata nelle strutture della Chiesa Nuova.
1223 Francesco si ritira a Fontecolombo per redigere
la nuova Regola, piú breve, discussa al capitolo generale e poi sottoposta a papa Onorio III, che la approva con la bolla Solet annuere. Nella notte di Natale, a Greccio, Francesco prepara il presepio vivente. 1224 Missione in Inghilterra. Durante la Quaresima di San Michele, probabilmente il 14 o il 15 settembre, Francesco riceve le stimmate della Passione. 1225 Francesco visita Santa Chiara a S. Damiano. Peggiorando la sua malattia agli occhi, rimane a S. Damiano per qualche tempo, dove si sottopone a visita e cura medica, ma senza risultato. Prostrato dalle sofferenze, detta il Cantico delle Creature. 1226 Va a Siena per ulteriori cure. Detta un breve testamento: Piccolo Testamento di Siena.
Poi, sentendo che la sua fine è vicina, si fa portare alla Porziuncola. 1226, Dopo aver benedetto i frati, Francesco muore 3 ottobre sulla nuda terra, la sera di sabato 3 ottobre. Molti accorrono per vedere le stimmate. Il giorno successivo la salma viene trasportata dalla Porziuncola in Assisi, sostando a S. Damiano, ed è tumulata nella chiesa di S. Giorgio. 1227 Il cardinale Ugolino viene eletto papa, col nome di Gregorio IX, in luogo di Onorio III, morto il giorno precedente. 1228 Con la bolla Recolentes, Gregorio IX chiede aiuti a tutta la cristianità per la costruzione di una basilica in onore di Francesco. 1228, Gregorio IX, ad Assisi, celebra la canonizzazione 16 luglio di san Francesco. Tre giorni dopo rende pubblica la bolla Mira circa nos riguardante l’iscrizione di Francesco nell’Albo dei Santi e la celebrazione della sua festa in tutta la Chiesa il 4 di ottobre. 1230, Traslazione delle spoglie del santo nella 25 maggio basilica costruita in suo onore.
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Il rapporto con la città
La letteratura francese: un amore a prima vista Francesco dedica diversi anni della sua vita di adulto all’attività di mercante, nella bottega di famiglia, che abbandona solo all’età di 25 anni. Quando è poco piú che un adolescente, il padre Pietro spera che possa compiere un balzo in avanti nella scala dell’ascesa sociale. Inizialmente, infatti, non si oppone alla liberalità del figlio che si fa mecenate di feste e banchetti, sperando che si possa attribuire quella prodigalità al desiderio di conquistare l’amicizia di giovani facoltosi del borgo umbro con i quali, come abbiamo visto, condivide spazi fisici e ludici. Durante i viaggi d’affari in compagnia del figlio, ha avuto modo di notare che Francesco suscita ammirazione. E questo non accade solo ad Assisi: anche quando si spostano per lunghi viaggi in Francia, il figlio riesce a sorprenderlo, sa mettersi in luce, colpisce le persone con le quali entra in relazione, lascia su di loro un segno profondo. Il padre si convince presto del fatto che Francesco ha buone inclinazioni e sa metterle a frutto. In Francia impara velocemente la lingua, non nella forma rudimentale che serve a Pietro per le sue compravendite, ma a un livello alto, che gli permette di apprezzarne e comprenderne a fondo la cultura. Le fonti piú antiche su Francesco concordano su un tratto, definito peculiare della sua personalità: il giovane conosce benissimo il francese e lo usa correntemente, intercambiandolo col latino o con il volgare. Un altro tratto, testimoniato con forza, è la passione per la letteratura d’Oltralpe. Una letteratura che, grazie al poeta Chrétien de Troyes, dalla regione della Champagne, si sta diffondendo in
tutta Europa (vedi box a p. 56). Si tratta del famoso ciclo bretone, una letteratura dai contenuti fortemente simbolici, i cui protagonisti, a differenza di quelli dell’epica classica o carolingia – perennemente rivolti vero la guerra e le alte imprese – sono eroi taciturni, dalla psicologia complessa, tormentati e perennemente innamorati. Le fonti attestano la passione di Francesco per i poeti girovaghi, che in lingua d’oil diffondono le storie del ciclo bretone per le corti e per le piazze di Francia. Egli, come loro, ama andare per le strade della sua città a cantare le prove che affronta l’animo nobile vinto da Amore. Di quella letteratura egli riutilizzerà molte immagini anche negli anni successivi, quando dovrà tradurre in parole la sua conversione, che descriverà come l’innamoramento per una donna bellissima, Madonna Povertà. E quando dovrà spiegare in cosa consista la sua fraternitas, userà la metafora del cenacolo dei cavalieri della Tavola Rotonda. L’insistenza nelle fonti primitive sull’amore di Francesco per la lingua e la letteratura francese ha persino fatto pensare a un’origine francese della madre. Un’interpretazione erronea, che si dimostra, però, molto eloquente su quello che è un tratto peculiare della personalità di Francesco. Un tratto talmente profondo da resistere ai cliché, agli stereotipi, al desiderio di raccontare i santi come emuli seriali della perfezione biblica; in altre parole, un tratto che ha resistito ai filtri agiografici. Nel caso di Francesco, dobbiamo ricordare, che simili filtri – insopportabilmente destoricizzanti – non nascondono mai del tutto la sua personalità, che riesce sempre a riemergere con forza.
Rilievo in avorio con immagini di vita cortese. Scuola italiana, seconda metà del XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.
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nuova via d’avanzamento della classe mercantile del nascente comune assisano, che sta progressivamente democratizzando le sue strutture. Come nel resto del Centro e del Nord Italia, il lignaggio non è piú condizione necessaria per essere eletti nell’arengo, il parlamento cittadino, costituito in numero sempre crescente da persone che contano per censo e non per stirpe.
In armi contro i Perugini
Quelli dell’adolescenza di Francesco, inoltre, sono gli anni in cui, ad Assisi, il ceto mercantile – rappresentato dal partito dei populares – combatte per strappare ai nobili la guida della macchina comunale. Francesco potrebbe allora inserirsi facilmente tra le maglie ormai allargate del ceto dirigente urbano. Per due volte Francesco darà al padre l’illusione di volere e potere compiere quel salto; o forse, per due volte il padre riuscirà a convincere il figlio a tentare quell’avanzamento di classe a lungo accarezzato. Il primo tentativo va collocato intorno al 1202, anno d’inizio della guerra tra Perugia e Assisi. Una guerra in cui le forze piú retrive e conservatrici del piccolo borgo umbro, unite nel partito dei maiores, alleate ai ceti magnatizi perugini, si scontrarono in campo aperto con i populares di Assisi. Ma facciamo un passo indietro. Qualche anno prima, i populares erano insorti contro lo strapotere dei maiores, decisi a proseguire a oltranza la propria politica di ostruzionismo all’avanzamento del popolo grasso; ciò si-
gnificava far rimanere in minoranza l’intero schieramento progressista. Per protesta, i populares avevano appiccato il fuoco ai simboli del potere nobiliare cittadino: i castelli fortificati extraurbani. La distruzione delle loro roccaforti, aveva convinto i nobili ad abbandonare Assisi e a cercare rifugio presso la città del Grifo, nemica storica del Comune assisano. Qui, con l’appoggio delle famiglie magnatizie locali, si erano riorganizzati fino a giungere alla controffensiva sanguinosa, sfidando gli Assisani sulla piana di Collestrada, a pochi chilometri da Perugia. Anche Francesco partecipò con i giovani della sua parte a quella battaglia e sul campo aperto deve aver avuto schierato contro almeno quel Rufino, che, di lí a pochi anni, sarebbe divenuto uno dei suoi piú stretti compagni. Rufino era cugino di Chiara, e apparteneva, quindi, a una famiglia la cui presenza nel gruppo in esilio a Perugia è ben attestata. Francesco combattè, forse uccise, infine fu fatto prigioniero. Fu questa la prima grande umiliazione inflitta a Pietro di Bernardone per il tramite del figlio. Non solo Francesco subí insieme ai suoi una sconfitta cocente, ma Pietro dovette pagare un considerevole riscatto ai Perugini per ottenerne il rilascio, dopo piú di un anno di esasperante attesa. Tuttavia, ottenuto il rientro del figlio ad Assisi, tornò a sperare nella grande svolta. Si trattava, questa volta, di appoggiare l’impresa di un nobile di Assisi in partenza per la Puglia, dove si stavano affrontando le forze imperiali e quelle
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papali. Francesco gli si pose al seguito, forse con la speranza o forse con la promessa, di essere nominato cavaliere a conclusione della guerra. Può darsi che Pietro stesso l’abbia spinto verso l’impresa, oppure che Francesco desiderasse – un paio d’anni dopo il suo rilascio – cancellare l’umiliazione di Collestrada. Se cosí fu, dobbiamo rilevare che egli non doveva essere del tutto convinto della decisione presa, se a pochi chilometri dall’uscita trionfale da Assisi, giunto a Spoleto, tornò indietro. Una febbre improvvisa lo avrebbe aiutato a dar corso a una decisione probabilmente già maturata: abbandonare l’impresa prima ancora di iniziarla. Ad Assisi riprese solo apparentemente i suoi ritmi consueti, dedicandosi sempre piú a quella che sembrava essere divenuta per lui la sola attività urgente: trovare beni da distribuire agli indigenti della città. Approfittò delle frequenti assenze del padre per investire il denaro di famiglia e farlo fruttare nell’attività caritativa. Con la complicità della madre, vendette, acquistò, accaparrò beni da donare in elemosina.
Pietro chiude i cordoni della borsa
In questa fase Francesco non sembra ancora deciso ad abbandonare la sua vita di prima, ma solo a orientarla diversamente. Deve, però, rendersi presto conto che una barriera gli si è alzata intorno. Finché ha vissuto la vita che il padre aveva voluto per lui, egli aveva attinto senza limiti al patrimonio familiare, ma quando il padre si accorge che Francesco non è piú il re delle feste cittadine, gli nega ogni accesso ai beni di famiglia. La Leggenda dei tre compagni lo dice con chiarezza: finché Francesco sperpera e scialacqua il danaro del padre per offrire ai ricchi della città, Pietro è disposto a sopportare i suoi eccessi, ma quando i suoi beni iniziano a prendere la direzione opposta – non piú il centro, ma la periferia di Assisi – la sua reazione è feroce. Francesco allora inizia a risiedere stabilmente presso S. Damiano (una chiesa situata poco fuori Assisi), dove si pone in aiuto di un sacerdote impegnato nel servizio ai poveri e agli ammalati. A un certo punto, però, si allontana, dice di sentirsi troppo a suo agio presso questo prete, che lo accudisce e gli dedica attenzioni, al punto da farlo sentire di nuovo al sicuro, come se avesse trovato una nuova quiete, una nuova casa, un nuovo padre (si ricordi che questo sacerdote entrerà poi nella fraternità di Francesco). Allontanatosi, ricomincia a fare vita a sé stante. Lavora e si nutre del frutto del suo lavoro, accettando solo quanto gli serve per nutrirsi e non di piú, e mai in denaro. Quando non trova qualcu54
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Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore. Matrimonio mistico di san Francesco d’Assisi con madonna Povertà, affresco attribuito a Giotto e alla sua bottega. 1334 circa. no a cui offrire il suo lavoro, mendica. Per il sentiero risale verso il borgo, dove la gente ha in abbondanza e può fargli la carità, anche se piú spesso lo accoglie a sassate, insulti e risa. Ma lui insiste, percorre e ripercorre quelle stesse vie che l’hanno visto prima bambino, poi ragazzo. Non sente l’orgoglio, non prova vergogna nel tornarvi, ora, come un mendicante, al cospetto di quelli che lo conoscono bene. Altri, che, come lui, hanno voluto farsi poveri e seguire il Vangelo, hanno quasi sempre scelto di abbandonare i luoghi natii, i lacci che a essi li legano, gli impacci di essere in quei luoghi noti e di casa; lui non abbandona mai Assisi, vi resta, deciso piuttosto a conquistarla che a lasciarsene esiliare, quasi un grillo parlante per la sua città, una spina nel fianco per il padre. Di ritorno da un viaggio di affari – venuto a conoscenza che Francesco viveva ormai stabilmente tra i miserabili di S. Damiano e una grotta del Subasio –, Pietro va a riprenderselo con la forza. È una violenza fisica, oltre che morale, quella che il padre si sente in diritto di esercitare sul figlio. Lo riporta a casa malmenandolo, lo chiude a chiave in un fondo dell’edificio e dà ordine ai familiari di non farlo uscire. La sorte sembra essersi presa gioco di Pietro di Brernardone, illudendolo con le meraviglie del giovane Francesco prima, solo per poterlo colpire piú a fondo poi col suo inspiegabile e improvviso cambiamento di rotta. Con l’aiuto della madre, Francesco lascia, infine, la prigione paterna. È ormai deciso a una svolta radicale e stavolta, e con molta durezza, fa comprendere al padre di non essere una sua proprietà. Per recidere i lacci che ancora lo tengono sotto la sua influenza, rinuncia all’eredità, ponendosi definitivamente sotto la tutela della Chiesa, in qualità di penitente. La rottura diviene a questo punto irrimediabile. Pietro lo priva anche del saluto, incontrandolo per via.
Un atteggiamento mutato
Non è difficile immaginare che, quando Francesco iniziò a tenersi in disparte dalla famiglia e dalla comunità, i suoi amici dovettero vivere questo allontanamento come un abbandono. Dovette essere difficile per loro riuscire a leggere appieno il suo mutato atteggiamento, il suo farsi sempre piú silente e solitario. Il Francesco del dopo Spoleto, infatti, mostra evidenti segni di
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IL POETA DELL’AMORE «CORTESE» Chrétien de Troyes nasce nella Champagne nella prima metà del XII secolo, nella Francia nord-occidentale. Si guadagna da vivere essenzialmente come poeta di corte, da cui l’appellativo «cortese» dato ai suoi romanzi e in seguito anche agli ideali – appunto «cortesi» – che la sua poesia veicola. I suoi romanzi furono diffusi in Europa dai clerici vagantes, studenti che avevano ricevuto gli ordini minori – da cui lo status di «chierici» –, per beneficiare dei privilegi ecclesiastici, soprattutto in materia di diritto. I clerici vagantes si spostavano per motivi di studio per tutto il continente, motivati a seguire i corsi dei piú noti maestri universitari. Divennero cosí anche il vettore di nuovi stili e nuove mode letterarie. Accompagnavano spesso la lettura o la recita dei poemi con la musica. Essi permisero alle opere di Chrétien di ottenere un’enorme fortuna già nei primi decenni dalla loro diffusione. Chrétien aveva rielaborato i temi della letteratura bretone, quella piú comunemente conosciuta con il nome di ciclo arturiano – il complesso ciclo imperniato sulla figura di re Artú e dei cavalieri della Tavola Rotonda – e ne aveva fatto una cosa nuova, di estrema rottura con il passato. La sua letteratura, infatti, non è semplice intreccio narrativo, né esaltazione delle gesta degli eroi o celebrazione di stirpi e di popoli, ma introspezione psicologica, dramma individuale, elevazione morale, ricerca di salvezza interiore. Erec e Enide, Ciligès, Yvain o il cavaliere del Leone, Lancillotto o il cavaliere della carretta sono tra i maggiori titoli dei suoi romanzi, che hanno come protagonisti eroi coraggiosi e altruisti. Nella Chanson de Roland – o ciclo carolingio –, gli ideali delle imprese erano rimasti sostanzialmente quelli dell’epica classica greco-romana: la religione, la patria, l’onore; nel romanzo di Chrétien, il motore della vicenda diventa l’amore. Un amore nuovo, che non è possesso, non è gelosia, ma è
politica matrimoniale, ma abnegazione, rinuncia,
elevazione morale, inizio di una ricerca interiore che porta a esiti imprevisti. Gli eroi delineati da Chrétien finiscono, infatti, la loro vita di cavalieri quasi sempre come penitenti, e sempre al servizio dei poveri, dei deboli, delle donne, dei bambini, degli indifesi. Una lezione, quella della poesia cortese, che Francesco dimostrò di aver appreso assai bene.
stanchezza rispetto alla vita che da ragazzi, insieme, avevano condotto. Non è neppure escluso che, di fronte al suo allontanarsi, essi, in un primo momento, si fossero uniti al coro di quanti lo schernivano. Forse, in questa fase, essi speravano ancora di farlo tornare in sé, di farlo reagire, speravano ancora che la sua crisi fosse solo momentanea. Era, del resto, difficile lasciarsi con reciproca benedizione, perché il cambiamento di rotta di Francesco poteva trasformarsi in un muro contro il quale tutti rischiavano d’infrangersi. E quando, infine, apparve loro evidente che l’andar mendico di Francesco non poteva essere ascritto a una bizzarria passeggera, non poteva essere interpretato come una delle sue eccentricità, quando le sue esortazioni iniziarono a divenire un monito ineludibile anche per loro, preferirono 56
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cambiare vita essi stessi, piuttosto che continuare la loro esistenza di prima senza di lui. La «sciagura» che si era abbattuta sulla famiglia di Pietro di Bernardone iniziò quindi a colpire, una dopo l’altra, numerose famiglie di Assisi, trasformandosi in un’onda di piena, che finí con il condizionare un’intera generazione, cambiando il volto alla città, che da allora fu contrassegnata da una costante e crescente presenza di frati e di suore.
Nobili, borghesi e un contadino
Per seguire Francesco, uno a uno, maschi e femmine, si staccarono dai loro circuiti familiari, abbandonando i propri mestieri, le proprie abitazioni, i propri legami affettivi. Chi erano, viene da chiedersi, questi giovani che alla spicciolata si unirono a Francesco? Erano uomini i
cui nomi ne provano l’appartenenza a famiglie abbienti della città: erano nobili Bernardo di Quintavalle, Giovanni della Cappella e Rufino di Scipione; era cavaliere Masseo da Marignano; dall’alta borghesia provenivano Morico, Giovanni di San Costanzo e Bernardo di Vigilante; dalle fila del clero Pietro Cattanei e Silvestro e dal popolo grasso Sabbatino, Egidio e Ginepro. Un solo contadino si uní – all’epoca – al gruppo, Giovanni da Nottiano, un’eccezione che conferma come, di norma, si trattasse di giovani facoltosi della città, i quali, come pure attesta la Leggenda dei tre compagni, dopo la conversione, faticavano a ottenere l’elemosina a motivo della loro elevata origine sociale. Anche le donne, che si unirono al gruppo di Francesco, risultano provenire dalle fila della nobiltà cittadina. Delle prime dodici compagne di Chiara, discendente della nobile famiglia di Favarone di Offreduccio, la metà erano sue parenti e l’altra metà sue amiche d’infanzia, vale a dire donne di alto lignaggio. Ora, appare evidente che questi giovani – per i quali in molti casi sono anche attestati legami di parentela – si conoscessero, o, meglio, fossero uniti da vincoli di amicizia, precedenti alla loro scelta di vivere in comunità. Sarebbe del resto
Miniatura raffigurante Percival che si separa dall’Orgoglioso della Landa, da un’edizione del Percival o il racconto del Graal di Chrétien de Troyes. 1330 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
piú difficile immaginare che, pur provenendo dallo stesso gruppo sociale, essi fossero i soli giovani del piccolo borgo addossato sul fianco dell’Appennino a non avere intrattenuto con Francesco rapporti di familiarità e amicizia. D’altronde, come scriverà nel suo Testamento, Francesco non aveva mai pensato, fino al momento del loro arrivo, di fondare una comunità. Come avrebbe potuto accoglierli, allora, se non si fosse trattato di persone di cui aveva piena fiducia e familiarità?
Una rigida selezione
Qualche anno piú tardi, nella Regola, raccomandò ai suoi frati di non accettare nessuno nell’Ordine, se non dopo attento esame e dopo un congruo periodo di prova. I suoi primi compagni, invece, li accoglie senza alcun vaglio preventivo, e, anzi, per permettere loro di unirsi a lui, accetta di mutare la sua libera adesione al Vangelo con un progetto di vita strutturato e comunitario. Nell’adesione di questi giovani abbienti al modo di vita di Francesco non può non leggersi anche il segno di una stanchezza nei confronti di un clima cittadino, che ci è descritto dalle fonti come avvelenato dalla lotta tra fazioni. Si (segue a p. 62) SAN FRANCESCO
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Feste cittadine e rancori di parte Nel Medioevo l’inverno era una stagione particolarmente dura a causa della mancanza di prodotti agricoli, della rarità della selvaggina e della scarsità di ambienti ben riscaldati; tutto ciò riduceva sensibilmente la possibilità di condurre una vita di relazioni. Il veloce calare della notte e la conseguente necessità di sfruttare al massimo le ore diurne per le attività lavorative relegava la possibilità d’incontro alla sola taverna, dove però confluiva una parte minima della società. L’arrivo della primavera era perciò salutato con estrema esultanza e caratterizzato dalla ripresa delle feste e delle manifestazioni che avevano lo scopo di celebrare il ciclo della natura, ma anche di riportare la gente per le strade e per le piazze. L’ingresso della nuova stagione segnava anche la ripresa dei pellegrinaggi verso santuari vicini e lontani, che potevano essere raggiunti per terra e per mare. Il mare, ormai sedato dalle burrasche invernali, tornava a essere percorso dalle navi e le strade d’Europa ricominciavano a essere battute da carri pieni di merci, e da viaggiatori che non avevano osato affrontare i rigori dell’inverno lontano da casa. Le avversità climatiche dei mesi invernali, del resto, non permettevano alle locande private, né alle strutture caritative della Chiesa di ovviare alle necessità di un numero elevato di viaggiatori. Con l’arrivo della bella stagione, invece, ostelli e locande tornavano a riempirsi di avventori, i quali si spostavano per concludere un buon affare, per partecipare a una fiera interregionale, per recarsi a pregare presso la tomba di un santo. Tra le feste di Primavera, una delle piú diffuse in Italia era quella di Calendimaggio, dal termine latino «calendae» con cui si definiva il primo giorno del mese. Diverse tradizioni contribuirono a sviluppare le feste che si tenevano nel cosiddetto «ciclo di maggio». Una delle piú importanti era di ascendenza nordico-pagana, e consisteva nel piantare un albero rivestito di ghirlande al fine di salutare la conclusione dell’inverno e con lui la penuria di cibo ormai alle spalle, grazie agli imminenti raccolti di giugno e alla ripresa della caccia. Un’altra tradizione confluita nella festa del Calendimaggio era invece schiettamente medievale: consisteva nel proclamare alcuni giorni d’itineranza, durante i quali gruppi di giovani, in brigata con teatranti e menestrelli, girovagavano per le piazze delle città (ormai rinate dopo il Mille e divenute sedi di scuole e università) intonando canzoni, ballando e recitando. In questo periodo si era soliti offrire alle fanciulle che si desiderava conquistare un ramo fiorito. Anche ad Assisi, a partire dal XII secolo, si diffuse la 58
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A destra San Gimignano, Palazzo Comunale. Particolare del ciclo di affreschi con tornei di cavalieri e scene di caccia attribuito al pittore fiorentino Azzo di Masetto. 1290 circa. In basso coperchio in avorio di un cofanetto decorato con una scena di torneo. XIV sec. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge.
consuetudine per i tripudiantes di percorrere le strade della città, fermandosi di casa in casa per recitare «le canzoni di maggio», che secondo l’influsso provenzale, esaltavano l’ideale cavalleresco e l’amor cortese. La leggenda dei tre compagni sembra alludere proprio a questa consuetudine, quando ci parla del giovane Francesco che girovaga con i compagni per la città, intonando canzoni «in lingua franciosa». Il centro dei festeggiamenti delle feste di primavera, ruotava però attorno allo scontro tra campioni. Tali giochi rappresentavano anche una forma di addestramento finalizzato a preparare le imminenti manovre militari, perché la primavera segnava anche la ripresa di quella che è stata definita dallo storico Franco Cardini come la piú crudele tra tutte le «feste»: la guerra. Nel corso del Medioevo, tali giochi assunsero anche la forma del torneo, dal francese «tourner», «girare» (legato alle manovre dei cavalli), da cui è nato il termine rinascimentale di «giostra». I medievali lo chiamavano di preferenza «hastiludium», ovvero «ludus» (gioco) con l’asta, da combattersi a piedi o a cavallo e fu inaugurato dal cavaliere angioino Geoffrey de Preuilly, alla metà dell’XI secolo, con lo scopo d’inscenare una tecnica particolare, quella dell’attacco frontale a lancia in resta. Durante il torneo, il cavaliere aveva occasione di misurare l’abilità raggiunta attraverso le molte ore di addestramento
e, soprattutto, l’efficacia delle sue doti strategiche. Dalla metà del XII secolo, i romanzi cavallereschi del ciclo carolingio e arturiano ci descrivono diverse scene di torneo, durante le quali i cavalieri si sfidavano in gruppo o a coppia. A partire dal Duecento, il torneo iniziò a ispirarsi a «un tema», trasformandosi nella rievocazione di un fatto d’armi (anche attraverso l’ausilio di parti recitate o narrate). In questo senso, esso fu paragonato al teatro, in quanto permetteva allo spettatore di seguire lo svolgimento di una vicenda narrativa coerente. Nacquero, infatti, tornei ispirati ai cicli cavallereschi, in particolare a quelli del ciclo arturiano, con la rievocazione dei suoi protagonisti, Artú, Lancillotto, Ginevra e Merlino. Accanto alle forme ludiche e di spettacolo, prese anche piede, però, la pratica di usare i giochi di maggio come «regolamento di conti» personali. Quando s’intendeva sanare vecchi dissidi, s’iscriveva il proprio figlio, o parente, al torneo, serbando in segreto il reale motivo della partecipazione alla gara. In altri termini, in età bassomedievale, il torneo assunse anche un carattere giudiziario, da intendersi come privato regolamento di torti inflitti o subiti. Tale componente si accentuò quando nelle comunità cittadine si diffuse la convinzione che l’esito delle gare coincidesse con la manifestazione del giudizio di Dio. Si iniziò allora a praticare il torneo come forma di «ordalia», che aveva il compito di rivelare il torto e la ragione dei contendenti o di mostrare il favore divino verso una o l’altra componente del potere cittadino. La Chiesa osteggiò ferocemente tale pericolosa credenza, tanto da giungere a negare la sepoltura in terra consacrata a quanti cadevano nel corso delle competizioni. L’ostilità nei confronti di tali giochi era dovuta anche al fatto
che essi coincidevano – come tutti i momenti di festa – con una sorta di sospensione del tempo ordinario, con giorni di euforia collettiva, considerati dalla Chiesa come fattori di destabilizzazione dei vincoli sociali, a cominciare dall’istituzione matrimoniale. A partire dall’XI secolo, gli ecclesiastici si erano impegnati per una restrittiva definizione del vincolo matrimoniale a favore delle componenti piú fragili della società: le donne e i bambini. Stringendo le maglie del matrimonio, la Chiesa intendeva risolvere la piaga sociale dei frequenti ripudi che colpivano le donne, le quali rimanevano sole ed esposte a ogni tipo di difficoltà. Si trattava di un fenomeno trasversale, che interessava tutte le classi sociali e che portava all’endemica moltiplicazione dei figli illegittimi, anch’essi esposti a ogni sorta di disagio. Il torneo, in quanto ispirato, come si è detto, all’etica cavalleresca, si caricava di significati erotico-amorosi, che non sempre tenevano in conto gli obblighi matrimoniali. Per consuetudine, all’inizio dei giochi, i cavalieri erano tenuti a indossare i colori di una dama che non doveva, necessariamente, essere nubile o a loro promessa. In onore della dama, scelta nella piena libertà che il pretesto del gioco forniva, il cavaliere affrontava tutte le prove fino a dedicarle l’eventuale vittoria finale. In molti casi, ciò favorí il nascere di amori clandestini, l’accendersi di legittime gelosie, il perpetrarsi di violenze e vendette. E a nulla valsero gli ammonimenti degli uomini di Chiesa, i quali, al momento di benedire i vessilli delle reciproche parti in gara, non mancavano di ribadire come tali comportamenti dovevano essere evitati e che il gioco amoroso doveva essere intrecciato solo con dame legate ai cavalieri da reciproca promessa. Il predicatore Giacomo di Vitry, allievo all’università di Parigi, vissuto nel XIII secolo, ci ha lasciato in un exemplum indirizzato a due nobili cavalieri dell’epoca, la sua esplicita e inappellabile condanna di tali giochi, sostenendo che nel corso dei tornei, il cavaliere era spinto a compiere tutti e sette i peccati capitali. Le feste di primavera rappresentavano anche il luogo privilegiato di ostentazione della ricchezza e del prestigio sociale delle famiglie piú in vista della città. Nel Basso Medioevo, si arrivò cosí a spendere cifre enormi e persino a indebitarsi per sostenere gli oneri a esse connessi. Vessilli, abiti sfarzosi, palchi addobbati, armi sfavillanti, sontuosi banchetti, offerti prima e dopo i giochi, divennero uno dei modi migliori per rivendicare la propria preminenza in seno alla comunità cittadina. Queste feste furono perciò sostenute e patrocinate soprattutto dalle famiglie di estrazione mercantile, che intendevano – anche per tale via – stringere alleanze vantaggiose con il patriziato cittadino e compiere la propria ascesa sociale. A partire dal XV secolo, il fenomeno divenne dominante; andò progressivamente scemando il carattere aggressivo delle competizioni e crebbe invece quello ludico, segnato dalla trasformazione delle giostre in palii. Nella giostra, gli sfidanti si affrontavano in coppia in due spazi di campo non comunicanti tra loro e frapposti da una barriera, il che impediva, rispetto al passato, la morte frequente di uno dei duellanti. Nel palio, i rioni di una città si sfidavano in gare di vario genere (spesso con i cavalli o altri animali), SAN FRANCESCO
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Miniatura raffigurante un combattimento fra cavalieri, miniatura dal Codice Manesse. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.
a conclusione delle quali il vincitore otteneva un «pallium», un drappo di stoffa o stendardo. Ad Assisi la festa prese piede in età bassomedievale, quando il ceto mercantile locale arrivò al suo massimo apogeo grazie all’affermazione crescente del suo giro d’affari e agli investimenti delle sue ricchezze. Tale ceto, che aveva ormai raggiunto la piena autonomia in campo finanziario e anzi spesso appoggiava le attività del ceto nobiliare, sostenendo l’edilizia civile cittadina e pagando restauri e ampliamenti di monumenti e infrastrutture, sfruttava l’occasione della festa del Calendimaggio per offrire un saggio della propria munificenza. Le divisioni interne che quasi sempre corrispondevano alle divisioni sociali, venivano rappresentate nei giochi. Qui i rancori e le frustrazioni esistenti tra le fazioni cittadine trovavano il loro sfogo attraverso l’esperienza catartica delle competizioni sportive che sfociavano nella vittoria dell’una o dell’altra parte, una vittoria capace di produrre i suoi riflessi anche nella sfera politica e sociale della comunità. Col tempo, gli scontri assunsero un carattere sempre piú aggressivo e, in luogo di placare gli animi attraverso il palliativo della vittoria ludica, ebbero piuttosto il ruolo di miccia incendiaria, capace di 60
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dare la stura a odi covati nei mesi invernali. Fu cosí che nel 1376, la Parte de Sotto – che raccoglieva le classi borghesi in ascesa – attaccò nottetempo la Parte de Sopra – rappresentante del ceto magnatizio –, cogliendola di sorpresa e seminando morti e violenze; la notte di sangue lasciò un lungo strascico di risentimento, sfruttato in seguito da due potenti famiglie perugine che sotto il pretesto di sostenerne i contendenti colsero l’occasione di stendere la loro longa manus sul Comune assisano: i Baglioni alleati con la Parte de Sopra e gli Oddi fautori della Parte de Sotto. Anche per tale ragione le violenze si riaccesero periodicamente fino a quando si arrivò a incendiare la basilica di S. Francesco. A seguito di tale episodio furono vietati tutti i festeggiamenti pubblici, non solo laici, ma anche quelli legati alle solennità del calendario liturgico, come la Pasqua e il Natale; si stabilirono basiliche diverse dove le due parti potevano seguire i riti religiosi separatamente. Ai cittadini della Parte de Sopra e della Parte de Sotto fu comminato anche il divieto d’incontro – in comune accordo tra autorità politiche e religiose – negli spazi pubblici della città, in occasione delle festività civiche o religiose; la festa di Calendimaggio fu sospesa.
La rinuncia agli averi, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. Secondo il racconto di Bonaventura da Bagnoregio, Francesco, «giunto alla presenza del vescovo, non sopporta indugi o esitazioni; non aspetta né fa parole; ma, immediatamente, depone tutti i vestiti e li restituisce al padre». SAN FRANCESCO
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può immaginare che per i giovani di Assisi, educati all’odio di casta, prigionieri degli steccati innalzati dai loro padri, raggiungere Francesco rappresentasse anche una via d’uscita da un sistema opprimente di valori. Una via d’uscita che non poteva coincidere con quella, già esistente, del monachesimo, in quanto essa riproponeva al suo interno le distinzione tra classi, vigente nella società. Essi, al contrario, volevano dare avvio a una fraternità di uguali, di religiosi posti sullo stesso piano, uomini e donne, vecchi e nuovi ricchi, laici e chierici, letterati e illetterati. Essi intendevano rifiutare, in primo luogo, la presunta sacralità del sangue, difesa gelosamente dai genitori, e usata come pretesto per ignorare quelli che da quel vincolo parentale erano esclusi. Essi aspirava62
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A sinistra Assisi, S. Damiano. Particolare degli affreschi con scene della vita di santa Chiara. XIII sec. A destra la chiesina della Porziuncola, oggi inglobata nella basilica di S. Maria degli Angeli. Sulla facciata della semplice cappella, vi è un affresco ottocentesco del pittore tedesco Friedrich Overbeck raffigurante Francesco che chiede a Gesú e a Maria la concessione dell’indulgenza plenaria.
Nella pagina accanto, in basso il chiostro del santuario di S. Damiano, dove san Francesco scelse di andare ad abitare dopo avere rinunciato ai beni di famiglia.
no, in primo luogo, a spezzare quel confine di nascita, che pretendeva di stagliarsi al di sopra di ogni altro legame, e abbracciare, invece, quelli che dai loro genitori erano ritenuti cittadini di diversa umanità.
La nascita dell’Ordine
Accogliere presso di lui i compagni – l’abbiamo detto – significò per Francesco rinunciare all’esistenza che aveva scelto; una vita ai margini della città, senza una forma precisa, una regola o un progetto strutturato, con le sole povertà e marginalità a fargli da guida. L’arrivo dei compagni spinse, invece, a trasformare la sua libera sequela del Vangelo in una fraternità sempre piú organizzata, che sfociò ben presto in un Ordine religioso vero e proprio. Dovette
iniziare col chiedere al papa un’approvazione ufficiale per il suo gruppo, che, facendosi di giorno in giorno piú numeroso, fuori di Assisi, iniziava già a destare dubbi, come sempre venivano guardati con sospetto i gruppi raccogliticci e improvvisati di mendicanti, in mezzo ai quali, all’insaputa dei piú, si nascondevano ladri, assassini ed eretici. Se Francesco non aveva mai temuto di essere accomunato a scismatici e malfattori, per i suoi non intendeva correre un uguale rischio. Questo non significa, però, che egli visse la loro presa in carico come un peso, anzi, essi rappresentarono l’antidoto a tante amarezze e a quella solitudine, che lo aveva accompagnato quando per le vie di Assisi aveva cominciato a mendicare tra le beffe e le ingiurie della comunità SAN FRANCESCO
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Il rapporto con la città
cittadina. Quello dei primi anni dalla conversione è, infatti, un Francesco estremamente solo. La sua scelta è in controtendenza rispetto a forme già sperimentate e riconosciute di vita cristiana. Non è un monaco, non è un diacono, non è un sacerdote, non è un eremita, né un mendicante in senso stretto.
Una presenza preziosa
L’arrivo dei primi compagni a S. Damiano segna, però, la fine di questa fase. Esso fu per Francesco un privilegio. Un privilegio concesso a pochi, quello di poter contare sull’abbraccio premuroso di un gruppo di amici che lo amarono incondizionatamente fino alla fine. Per noi ha significato conoscerlo, grazie al loro caparbio sforzo di tramandarcene la memoria, secondo quanto essi stessi videro e udirono. Quando i compagni iniziarono a crescere di numero, Francesco cercò un luogo per fissare la loro dimora. Il luogo che cercava doveva avere una chiesa annessa al convento per la recita delle ore liturgiche e uno spazio per la semina dell’orto. Ne fece richiesta al vescovo, ai canonici di S. Rufino e all’abate benedettino del
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Monte Subasio. Solo quest’ultimo gli cedette una chiesa, la piú piccola in suo possesso, ma con un fazzoletto di terra annessa. Si trovava nella valle, e contigue vi erano le strutture abitative, che un tempo erano servite da dormitorio per i monaci, quando ancora scendevano nella piana, due o tre volte l’anno, per lavorare i campi. I frati la ricevettero in affitto e ogni anno, per onorare quel contratto di locazione, Francesco faceva portare ai monaci un cesto di pesci, a testimonianza che quel luogo non era né suo né dei compagni, come nulla era suo e nulla era dei compagni. La chiesa – intitolata a santa Maria degli Angeli, ma conosciuta col nome di Porziuncola, per via delle sue piccole dimensioni – Francesco l’aveva restaurata come già alcuni mesi prima aveva fatto con S. Damiano. Grazie al lavoro dei compagni, in poco tempo, fu rimessa in sesto: le crepe riempite di malta, i pavimenti spazzati, i paramenti ecclesiastici recuperati e l’olio per tenere accese le fiaccole mendicato a turno in città. Chiese abbandonate, fatiscenti, in cui le pietre irregolari tirate su incerte rischiavano di rovinare, avevano da
In alto Assisi. La basilica di S. Francesco. La costruzione della chiesa ebbe inizio nel 1228, all’indomani dell’esortazione rivolta da papa Gregorio IX a tutta la cristianità, con la bolla Recolentes, perché da ogni parte si concorresse all’erezione del tempio. Il 25 maggio 1230, la Chiesa Inferiore era ultimata e poterono esservi traslate le spoglie del santo. Nella pagina accanto Assisi in una incisione dell’olandese Jan Blaeu, comparsa per la prima volta nel Theatrum Civitatum et admirandorum Italiae, pubblicato ad Amsterdam nel 1663.
sempre attirato la sua attenzione, e mendicare per il loro restauro fu una delle principali occupazioni di Francesco.
Le sedie non servono
Giorno dopo giorno, grazie al lavoro dei frati, il villaggio abbandonato dai monaci riprese vita. Francesco e i compagni erano un gruppo di uomini giovani, nel fiore dell’età, mossi da grande slancio: ogni luogo nelle loro mani rifiorí, strappato all’abbandono e alla rovina. Le vecchie casupole furono restaurate con paglia, fango e legno; al centro di ognuna fu creato lo sfiatatoio per il fuoco. Su ogni giaciglio fu posto un sacco riempito di paglia o di foglie e, sopra, a servire da coperta, una pelle d’animale. Le sedie non furono necessarie, i frati sedevano in terra, su pavimenti fatti di tavole di legno sopraelevate per isolarli dall’umidità di risalita del terreno. Ciotole di legno, cucchiai rudimentali furono ammonticchiati nella cucina. Un locale – la vecchia infermeria dei monaci – fu sistemato come alloggio per i frati infermi, che venivano curati durante l’allettamento, con avvicendamento costante dei compagni. Anche il piccolo bosco, posto sul limitare del convento, fu ripulito e liberato dai rovi, e trasformato in uno spazio destinato alla meditazione. L’orto fu dissodato zolla a zolla, e per ordine di Francesco una parte fu lasciata libera per la
crescita delle erbe spontanee e dei fiori profumati di campo. I frati lavoravano e coltivavano per sopperire alle loro necessità alimentari, ma quello che l’orto non produceva, se lo procuravano nel mare di selve e foreste che si apriva alle spalle del convento. I frati lavoravano anche come braccianti presso i contadini della zona, accettando come paga solo qualche pane d’orzo, dei cavoli, delle carote, una dozzina di rape, una coppia di uova, un po’ di carne, una giara d’olio, un vaso di miele, secondo quanto il contadino aveva loro da offrire, secondo la stagione e secondo la disponibilità, comunque mai del denaro. Il denaro i frati non lo potevano in nessun caso ricevere, toccare o maneggiare e, quando la paga in natura del lavoro compiuto – unita alle rese dell’orto e al bottino della raccolta spontanea – non si dimostrava comunque sufficiente a sfamare la giornata dei frati, essi potevano risalire a monte e cercare carità su in città, confidando che quello che non fosse giunto loro dal lavoro, sarebbe arrivato per grazia di Dio. Col crescere della fraternità e della loro fama, l’elemosina iniziò anche a raggiungerli spontaneamente. Ad Assisi o nelle zone limitrofe – dove spesso i frati stazionavano in cerca di nuovi eremi e di nuove piazze per la predicazione – uomini e donne facoltose iniziarono a inviare loro panieri ricolmi di cibi crudi e cotti. SAN FRANCESCO
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L’arrivo delle sorelle Con una scelta non meno «rivoluzionaria» di quella compiuta da Francesco, Chiara decide di unirsi a lui e al suo gruppo. Sulla sua scia, altre donne abbracciano questa nuova vita e pongono cosí le basi per la nascita della versione femminile dell’Ordine francescano, quello delle Clarisse, destinato ad avere un ruolo altrettanto incisivo nella diffusione del messaggio propugnato dall’Assisiate
Particolare del Saluto di santa Chiara e delle sue compagne a san Francesco, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa (vedi l’intero quadro alle pagine che seguono). Francesco morí il 3 ottobre del 1226, dopo il tramonto, e, come scrive Bonaventura da Bagnoregio nella Leggenda Maggiore: «Venuto il mattino, le folle, con rami d’albero e gran numero di fiaccole, tra inni e cantici scortarono il sacro corpo nella città di Assisi. Passarono anche dalla chiesa di San Damiano, ove allora dimorava con le sue vergini quella nobile Chiara, che ora è gloriosa nei cieli. Là sostarono un poco con il sacro corpo e lo porsero a quelle sacre vergini, perché lo potessero vedere insignito delle perle celesti e baciarlo». SAN FRANCESCO
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C
Chiara e le sorelle
hiara fu la prima donna a unirsi a Francesco e ai suoi compagni, quando ancora non si poteva prevedere che altre lo avrebbero fatto. Di nobile estrazione, apparteneva a una famiglia conservatrice, che afferiva al partito dei maiores, avverso a quello piú progressista dei populares, a cui apparteneva Francesco. Chiara aveva undici o dodici anni meno del figlio di Pietro di Bernardone e ciò vuol dire che quando scelse di seguirlo, aveva circa diciotto anni. Doveva conoscere il futuro santo già prima delle loro rispettive conversioni. Le loro abitazioni erano infatti poste a pochi isolati di distanza l’una dall’altra, in quella parte della città dove, come abbiamo già visto, risiedevano le famiglie nobili e abbienti di Assisi. Chiara conosceva Francesco anche perché lo aveva dovuto, quantomeno, incontrare per via, in cattedrale, presso la bottega del padre, o nella piazza del Comune, in occasione delle molte feste civiche e religiose che scandivano il trascorrere del tempo della piccola comunità di provincia. Dal 1208, inoltre, suo cugino Rufino aveva abbandonato la casa paterna proprio per unirsi al gruppo di Francesco e doveva esserne amico già prima di quella data. Cosí stando le cose, è dunque verosimile che Chiara conoscesse Francesco fin dall’infanzia, appunto per via della sua frequentazione con il cugino. Doveva, in ogni caso, conoscerlo per fama, attraverso i pettegolezzi che, giorno dopo giorno, si facevano in Assisi sul conto del figlio di Pietro di Bernardone. In un primo tempo Chiara dovette sentir parlare di quel giovane mite, ma eccentrico; estroverso, ma riservato; esuberante, ma sensibile. Chiara doveva averlo visto imitare teatranti e cantastorie, giú nella piazza, dove stazionava a lungo, e dove – a detta di tutti quelli che lo avevano conosciuto – si mostrava come un ragazzo curioso degli altri, a suo agio con chiunque, desideroso di entrare in relazione, di fermare la gente per via, di intrattenerla, di eleggerla continuamente a suo pubblico, di coinvolgerla nei suoi numeri da imbonitore: la città gli apparteneva, era la sua culla, la sua corte, il suo palcoscenico e ogni porta, ogni storia, ogni volto erano per lui volti noti e familiari. Le domestiche di Chiara dovevano averne riso, ragionando con lei di quel ragazzo che declamava versi in francese, che buffoneggiava facendo il mimo, che intonava canzoni composte da lui; che vestiva in maniera stravagante e ridicola, accostando stoffe preziose a panni vili, che era sempre sopra le righe, che spendeva in maniera smodata, che era il re di ogni festa. 68
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Come gli altri suoi concittadini, Chiara non poté non essere colpita dalla fama che si era creata attorno a quel figlio estroverso di Pietro di Bernardone, un ragazzo raro in un ambiente di provincia chiuso e diffidente. Dopo aver ascoltato le dicerie divertite sul giovane Francesco, Chiara dovette ascoltare, però, anche quelle dolenti sul Francesco combattente a Collestrada e prigioniero a Perugia. In casa sua, quelle chiacchiere dovevano aver assunto un tono aspro, sprezzante, risentito, perché, per colpa dei populares, la famiglia di Chiara era stata spinta all’esilio. Francesco, allora, non era piú nei loro discorsi il giovane brillante ed eccentrico di un tempo, ma il soldato amaro e crudele del partito avverso. Era stato loro nemico sul campo di battaglia, probabilmente insieme a quelli della sua parte aveva partecipato agli assalti e alle distruzione dei castelli extraurbani, simbolo del loro prestigio e della loro nobiltà. Se ora, quindi, era in prigione a Perugia, l’aveva meritato. A questo la abituano i maschi della famiglia, in particolare lo zio Monaldo, capo riconosciuto del clan: a leggere come segno della giustizia divina la punizione dei nemici del casato. Forse le donne di casa sono piú pietose, e magari s’interrogano sulla sorte del figlio di Pietro di Bernardone, nutrendo in segreto un velato sentimento di colpa per aver determinato, attraverso l’alleanza con i Perugini, la sconfitta e la cattura di molti giovani concittadini.
Una città divisa
Ad Assisi, dove nel frattempo sono rientrati i nobili fuoriusciti, ai quali i populares hanno dovuto ricostruire o risarcire le proprietà assaltate, quello della prigionia dei giovani assisani è un anno di forti tensioni. È un anno di saluti negati, di porte sbattute, di strade e botteghe interdette a quei nobili, che si sono macchiati dell’amicizia con la città del Grifo: i populares li accusano di aver fatto finire in carcere i loro figli, i maiores di aver fatto crescere in esilio le loro figlie. Poi, finalmente, i figli dei populares – quelli per i quali i padri hanno potuto pagare il riscatto – rientrano, e allora, magari in segreto, i maiores tirano un sospiro di sollievo, perché non vogliono averli sulla coscienza. Lentamente la situazione si ricompone e dobbiamo supporre che il Comune si sia impegnato per riavvicinare le due fazioni, ristabilire un clima di distensione e promuovere la convivenza civile tra le parti. Anche Chiara dovette ritrovare una certa serenità, ma non la fiducia. In quegli anni appare chiusa al mondo esterno, non le piace uscire
Saluto di santa Chiara e delle sue compagne a san Francesco, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
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Assisi. L’oratorio di S. Francesco Piccolino. Secondo la leggenda, si tratterebbe di una stalla nella quale la madre del santo avrebbe trovato rifugio per dare alla luce il figlio. Coperta da una volta a sezione ogivale, la struttura, che si trova nei pressi della Chiesa Nuova, conserva tracce di affreschi del XIV sec.
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neppure per ciò che le sta piú a cuore, consegnare il cibo e i panni dell’elemosina, di cui incarica altri della famiglia al posto suo. I testimoni al processo di canonizzazione attestano che in casa ami il silenzio e si sforzi sempre di riportare la conversazione delle domestiche e delle sorelle piú piccole su temi edificanti; forse si è fatta piú insofferente a quel clima di chiacchiere e maldicenze che in provincia è piú pesante che in città; forse rimpiange gli anni a Perugia, in una realtà piú grande, dove non si è obbligati a inciampare nella vita degli altri, ogni volta che si varca la soglia di casa. All’ultima grande voce corsa in città, però,
sembra infine prestare interesse. Si tratta ancora del figlio di Pietro di Bernardone, che sembra questa volta avere perso il senno; sembra che il padre lo consideri ormai perduto, e che lui abbia smesso di girovagare, di fare il re delle feste, e che si veda sempre piú di rado in città, ma s’intrattenga invece con gli indigenti e i lebbrosi nella periferia di Assisi. Sparisce poi anche da quella, per ricomparire come un fantasma; veste male, sempre peggio e smagrisce a vista d’occhio; non dà notizie di sé neppure ai genitori. Qualcuno dice di averlo visto chiedere l’elemosina, vestito con abiti da mendicante, in qualche città limitrofa; dicono
A destra, in alto Perugia, la Fontana Maggiore. Qui accanto il monumento ai genitori di san Francesco, Pietro di Bernardone e Madonna Pica, realizzato dallo scultore senese Roberto Joppolo e inaugurato ad Assisi, in piazza della Chiesa Nuova, nel 1984.
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Miniatura raffigurante Francesco che consegna il saio a Chiara. XIV sec. Assisi, Biblioteca del Sacro Convento di S. Francesco.
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che si vergogni di fare altrettanto ad Assisi, dove tutti lo conoscono, ma che di lui, ormai, del mercante brillante e cortese di un tempo, non resti piú alcuna traccia. In città, alcuni – pochi in verità – sostengono che il cambiamento di Francesco abbia a che fare con ciò che lui stesso va dichiarando, e cioè che abbia trovato Dio. Ai piú, però, non pare plausibile che a sentire una chiamata cosí radicale sia proprio lui, quello meno incline a incamminarsi sulla strada della penitenza e della privazione. Considerazioni simili dovevano farsi strada anche nella mente e nell’anima di una
ragazza poco incline al pettegolezzo e alla curiosità morbosa come doveva essere Chiara, secondo come ce la descrivono i testimoni al processo di canonizzazione.
Un altro uomo
Giorno dopo giorno, le voci continuarono ad attestare che Francesco persisteva su quella via e, giorno dopo giorno, dovette infine apparire chiaro a tutti che non si trattava di un vezzo, di un espediente, di un’ispirazione momentanea: il ragazzo esuberante che Chiara aveva conosciuto era diventato davvero un altro. Trascorsi
due anni, vederlo riparare le chiese diroccate alla periferia di Assisi, udirlo esortare i passanti ad abbracciare il prossimo e cambiare vita, scorgerlo mendicare per le strade della città, non faceva piú notizia. E invece, all’improvviso, un nuovo terremoto: uno dopo l’altro, molti giovani di Assisi – ricchi e privilegiati come lo era stato lui – abbandonarono le loro dimore agiate e sicure per seguirlo. Alcuni tra loro dovevano essere gli stessi che all’inizio lo avevano deriso e che ora, invece, mostravano di comprendere appieno il suo nuovo progetto di vita. Da allora, da quando furono visti affiancare Francesco
nella questua, nella predicazione, nel servizio agli ammalati, apparvero come un gruppo armonico, compatto, deciso, quasi avessero davvero avuto consapevolezza di dove stessero andando. Almeno cosí dovevano apparire a Chiara, se giorno dopo giorno anche lei, nei tre anni successivi al loro aggregarsi, iniziò a coltivare l’idea temeraria di unirsi a loro. Dapprima cominciò con l’inviare elemosine per sostenerli nel loro progetto, poi a seguire le prediche che tenevano sul sagrato delle chiese. Non erano sacerdoti i confratelli di Francesco, ma semplici laici, e dunque la loro predicazione
Qui sopra particolare di un capolettera miniato con le immagini di santa Chiara e san Francesco, da un laudario francescano. XV sec. Spoleto, Pinacoteca Comunale.
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non poteva toccare temi dottrinali o affrontare questioni dogmatiche; essa doveva limitarsi all’esortazione, che era del resto ciò che a Francesco stava piú a cuore: esortare a cambiare vita, a uscire dalle logiche del mondo, a rinunciare alle sue trame, a dimenticare i torti e le faide, a deporre le armi.
Un problema spinoso
In un primo tempo è dunque lei a mandare a cercare Francesco – forse per il tramite del cugino – per fargli sapere che vuole incontrarlo, che ha necessità di parlargli in privato. Qualche anno prima, lo stesso Bernardo – il primo compagno di Francesco – aveva iniziato cosí, col mandarlo a cercare, col chiedergli di poterlo incontrare in privato. Nell’uno e nell’atro caso, la sollecitudine d’incontrarlo in segreto doveva preludere a un passo importante, decisivo, che Francesco dovette ben intuire, prima ancora dei rispettivi incontri. Se nel caso di Bernardo, però, si trattava solo di decidere se aprire o meno ad altri il suo progetto di vita, nel caso di Chiara bisognava porsi il problema – ben piú spinoso – della nascita di una comunità mista, maschile e femminile, e questo dovette spaventarlo. Viene naturale pensare, allora, che Francesco tergiversasse, cercasse di rimandare quell’incontro, di scoraggiarlo fino a rifiutarlo. 74
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Invece disse di sí, disse che l’avrebbe incontrata, che avrebbe vagliato la sua richiesta, preso in considerazione quella possibilità. È difficile stabilire se, nel dire di sí a Chiara, Francesco dicesse di sí al Vangelo o se ad accordarle l’incontro segreto lo spingesse una familiarità, già maturata; familiarità – lo ribadiamo – scontata in un piccolo borgo, dove tutti crescono e invecchiano insieme. In ogni caso – che ad agire su di lui fosse l’esempio di Gesú che nel Vangelo si porta dietro, indistintamente, uomini e donne, o che ritenesse innaturale negare udienza alla figlia del nobile Favarone di Offreduccio –, il loro dialogo ebbe inizio e non s’interruppe fino a quando entrambi non maturarono la decisione che anche lei entrasse nel gruppo. Ci volle del tempo e piú di un incontro prima che si giungesse a quella risoluzione, perché la forza che Chiara aveva mostrato nell’aprire a Francesco il suo proposito – una forza che doveva essere cresciuta in misura proporzionale al dissenso che si attendeva d’incontrare – sembrò affievolirsi d’improvviso quando non trovò alcun muro a farle da argine. A quel punto lei ebbe paura, iniziò a indugiare, a rimandare l’ora del distacco dalla casa natale: a quel punto i ruoli si capovolsero, e fu Francesco ad avanzare e Chiara ad arretrare. L’arretrare di Chiara, a questo punto della vi-
In alto la chiesa di S. Damiano, presso Assisi. Nella pagina accanto santa Chiara con la croce in mano, attorniata da scene della sua vita. Tavola attribuita a Benvenuto Benveni detto Benveni da Foligno. 1283. Assisi, basilica di S. Chiara. I riquadri raffigurano, dal basso, a sinistra: il vescovo Guido porge a Chiara un ramoscello di ulivo; Chiara accolta alla Porziuncola; la vestizione; il padre vuole indurre la figlia a non prendere i voti; la sorella Agnese trattenuta dal seguire Chiara; il miracolo del segno della croce comparso sul pane davanti al papa; Chiara sul letto di morte; i funerali della santa in presenza del papa, Innocenzo IV.
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cenda, ci appare del tutto comprensibile: partire significava non poter piú fare ritorno. Lasciare la custodia della casa paterna voleva dire gettare una volta e per sempre l’ombra del sospetto sulla propria onestà; l’onestà, una credenziale necessaria per un eventuale matrimonio o per un ritorno nella famiglia d’origine. Chiara conosceva la vita dalla quale voleva staccarsi, ma non poteva ancora prevedere quale sarebbe stata la sua reazione di fronte a quella che aveva in animo di abbracciare. Lo aveva visto con i compagni: partire voleva dire rinunciare per sempre a ogni agio, a ogni conforto, a ogni protezione e iniziare, da quel momento e per sempre, una vita di privazioni, di abnegazione e di lavoro duro. Che la paura, quindi, aumentasse di pari passo al concretizzarsi del suo proposito non stupisce affatto. Stupisce, semmai, la fermezza con la quale Francesco divenne a quel punto risoluto. Una determinazione che fa presupporre che esistesse già tra loro un rapporto di familiarità e fiducia, necessari a rendere possibile quel passo difficilissimo. La notte in cui, sola, lasciò la casa paterna per unirsi al gruppo dei frati che vivevano alla Porziuncola, fu una notte di rottura totale con la sua comunità e con i codici di comportamento dell’epoca. Un atto dirompente, reso possibile, bisogna rilevarlo, solo dagli uomini; da quegli uomini che vivevano, ormai da alcuni anni, alla Porziuncola, e che, dimostrarono di valutare appieno il diritto di una donna a una scelta di libertà, che era stata anche la loro.
Il crocifisso di S. Damiano, l’icona in forma di croce davanti alla quale Francesco stava pregando quando ricevette dal Signore l’ordine di riparare la sua casa. XII sec. Assisi, basilica di S. Chiara.
Alla luce della luna
Nell’ultimo dei loro convegni, forse presso la Rocca Maggiore, da dove tutto si può vedere, ma da dove non si può essere visti, o forse presso la Rocca Minore, decentrata rispetto al centro abitato, essi stabilirono che la notte dell’entrata di Chiara nella fraternità avrebbe coinciso con quella della Domenica delle Palme. Chiara doveva far sí che l’uscio di casa non venisse del tutto chiuso, in modo da poterlo riaprire una volta sceso il silenzio. Allora si sarebbero ritrovati alla porta Ovest della città, e i frati – Francesco in testa – l’avrebbero scortata fino alla Porziuncola, alla luce delle fiaccole. Forse Francesco scelse quella notte perché era una notte di luna piena e la luce argentea e lattiginosa avrebbe illuminato quasi a giorno i campi e gli uliveti attigui alla strada che co76
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Nella pagina accanto l’interno della chiesa del convento di S. Damiano, nella quale si conserva una replica del crocifisso omonimo, ora conservato nella basilica di S. Chiara.
steggiava l’antico ospedale, disturbando il passaggio degli animali notturni; sarebbe stato cosí piú facile procedere fino al villaggio dei frati. O invece, piú che affidarsi a una notte luminosa, egli scelse l’ora piú propizia al suo piano: il passaggio dalle tenebre notturne alla luminosità dell’aurora, che avrebbe lasciato intravedere il profilo delle valli e dei sentieri da percorrere, segnando il rientro di lupi e cinghiali nelle rispettive tane. Quando il momento arrivò, l’ostacolo piú difficile fu eludere la sorveglianza presso le porte della città e – presa in consegna Chiara – allontanarsi senza essere visti. Passato l’ospedale, invece, fu come navigare in mare aperto; i frati, costeggiando la strada che si allontanava dall’abitato, iniziarono a respirare l’aria sconfinata
della piana che fece loro apparire semplice e breve il cammino ancora da percorrere.
Quasi un gineceo
Forse, negli ultimi anni, il controllo maschile sulle donne della famiglia di Chiara si era allentato. Il fatto che una delle domestiche affermò, durante il processo di canonizzazione, di non aver conosciuto Favarone – sebbene avesse vissuto in casa sua quando ancora Chiara vi dimorava – farebbe pensare che il padre fosse già morto quando la figlia aveva scelto di andarsene. Anche i pellegrinaggi compiuti dalla madre a S. Michele al Gargano e in Terra Santa, senza la presenza del marito, ci suggeriscono il profilo di una donna di condizione vedovile. Se dunque Favarone di Offreduccio venne a mancare SAN FRANCESCO
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Il Trittico della Crocifissione, attribuito al cosiddetto Maestro espressionista di Santa Chiara, artista attivo in Umbria tra la fine del XIII e gli inizi del XIV sec. Assisi, basilica di S. Chiara, Cappella del Sacramento.
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prematuramente, dobbiamo concludere che l’assenza di fratelli maschi trasformò la casa di Chiara in una sorta di gineceo, dove la libertà di movimento e di pensiero e la solidarietà tra donne non dovettero essere quelle consuete per l’epoca. Il fatto poi, che una dopo l’altra, le restanti donne della famiglia di Favarone si fossero unite alla fraternitas di Francesco sembra confermare che vi fosse in casa una diminuita pressione maschile. Restava, certamente – ed è menzionato piú volte dai testimoni al processo – lo zio Monaldo, il quale si adoperò per ristabilire la propria autorità sulle nipoti, difendendo l’onore della casata, che rischiava di essere compromesso dalla loro decisione di entrare in un gruppo religioso dai contorni ancora vaghi e non pienamente riconosciuti.
La furia di Monaldo
La mattina seguente, quando la notizia della fuga di Chiara era ormai sulla bocca di tutti, egli radunò i suoi armati e andò a riprendersela alla Porziuncola. Francesco, che aveva certamente previsto la sua reazione, poté rispondere, senza mentire, che Chiara non si trovava lí, ma era stata condotta dai frati a Bastia, nel monastero delle monache benedettine. Sempre piú contrariato, Monaldo risalí in sella e, dopo circa quattro chilometri, giunse al monastero di S. Paolo delle Abbadesse, alla cui porta dovette prima bussare, poi inveire, infine minacciare. La sua furia – a detta dei testimoni – si placò solo di fronte alla tonsura della ragazza, che non lasciava piú alcuna speranza sul fatto che ormai fosse passata allo stato di religiosa, che la poneva fuori delle giurisdizione ordinaria, e soggetta solo al vescovo. Forse perché Chiara aveva già dato segni d’insubordinazione, forse perché la sua ferma resistenza lo aveva convinto che sarebbe stato vano insistere nel proposito di maritarla o forse perché l’inviolabilità di quel luogo lo indusse infine a soggezione, Monaldo decise di lasciarla là dov’era, rientrando con i suoi ad Assisi. Qualche giorno piú tardi, però, di fronte alla fuga della seconda delle nipoti, Agnese, i maschi della famiglia compresero che il caso di Chiara non era destinato a restare isolato, ma che sarebbe divenuto il preludio di una vera e propria emorragia. Questa volta la loro violenza non si arrestò davanti alla tonsura della ragazza, che venne trascinata a forza fuori dal monastero, i capelli strappati e le vesti lacere. Dai campi e dalle vigne, i contadini intervennero, solleciti, in soccorso dei rapitori per punire la fuggitiva (segue a p. 83) SAN FRANCESCO
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NOTIZIE SU SANTA CHIARA E SAN FRANCESCO 1194 Nascita di Chiara. 1203-1205 La famiglia di Chiara con le altre famiglie nobili di
Assisi va in esilio a Perugia. 1206 Conversione di Francesco. Preghiera davanti al
VITE PARALLELE
crocifisso di S. Damiano. Egli ripara la chiesa e profetizza la venuta delle «Povere Dame». 1209 Francesco riceve i primi compagni. Il Papa approva la sua Regola. 1210 Francesco predica in Assisi. Chiara assiste alle prediche di Francesco. 1212 Chiara fugge da casa verso la Porziuncola. Francesco l’accoglie e le taglia i capelli. Breve periodo presso le Benedettine e, in seguito, a S. Angelo in Panzo. Successiva sistemazione definitiva a S. Damiano. 1219-1220 Francesco in Terra Santa. 1221 Il Capitolo dei Frati approva la Regola non Bollata (di Francesco). 1223 Papa Onorio III approva la Regola di Francesco (Regola Bollata). 1226, 3 ottobre Muore Francesco. 1227 Il papa conferma alle Sorelle di S. Damiano l’assistenza dei Frati. 1228 Francesco è proclamato santo da papa Gregorio IX, che, nello stesso anno, concede a Chiara il «privilegio di povertà». 1240 I Saraceni assalgono S. Damiano: Chiara intercede per la sua comunità. 1241, 22 giugno Per la preghiera delle Sorelle, la città di Assisi è liberata dall’assedio delle armate imperiali. 1247 Papa Innocenzo IV scrive una Regola per le Damianite associandole all’Ordine Francescano. 1253 Chiara scrive una Forma di vita che papa Innocenzo IV approva il 9 agosto. Due giorni dopo, l’11 agosto, Chiara muore, rendendo grazie a Dio con queste parole: «Tu, Signore che mi hai creato, sii benedetto». 1255 Chiara è proclamata santa da papa Alessandro IV.
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A destra Madonna con Bambino in trono tra San Francesco d’Assisi, Santa Chiara e angeli, affresco attribuito al Maestro di Figline (forse Giovanni di Bonino). 1300-1349 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore, sagrestia. Nella pagina accanto Santa Chiara ascolta la voce di Cristo; alle sue spalle è raffigurato san Francesco che mostra le stimmate. Pala d’altare di scuola tedesca. 1360-1370 circa. Norimberga, Museo Nazionale Germanico.
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FATTI POLITICI 1174 Federico Barbarossa conquista Assisi. 1187 Saladino conquista Gerusalemme. 1189 III Crociata. 1190 Morte di Federico Barbarossa. 1194 Discesa in Italia di Enrico VI, figlio di 1198 1199 1202 1212 1216 1217 1220 1227 1250
Barbarossa. Nascita del Comune di Assisi. Morte di Riccardo Cuor di Leone. IV Crociata. Federico II incoronato re di Germania. Morte di Innocenzo III. V Crociata. Federico II incoronato imperatore da Onorio III. Morte di papa Onorio III. Morte di Federico II.
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Chiara e le sorelle
Santa Chiara riceve da papa Innocenzo IV la Regola delle Clarisse, tavola di scuola tedesca da Norimberga o da Bamberga (Baviera). XIV sec. Norimberga, Museo Nazionale Germanico.
con calci e percosse che fungessero da monito per le altre donne, che, magari in segreto, accarezzavano un simile progetto di fuga. Alla fine, però, anche Agnese venne lasciata sul campo. Difficile capire perché Monaldo rinunciasse a riprendersela: forse perché una donna che aveva dato prova di una tale ribellione non era – come la sorella – piú maritabile; forse perché il non esserle padre diminuiva la sua determinazione nel riportarla a casa; forse – semplicemente – perché i frati, allertati, accorsero per ricordare a Monaldo quali fossero le pene previste per chi avesse sottratto una monaca da un luogo consacrato. Le violenze subite da Agnese fecero – in ogni caso – comprendere ai frati che la cautela nel far alloggiare lei e la sorella in luoghi per sole donne era stata vana. È a questo punto allora, crediamo, che Francesco maturò il proposito di albergarle presso S. Damiano, il primo luogo in cui lui stesso aveva abitato, uno tra quelli concessi dal vescovo ai frati. Un luogo che gli archeologi ipotizzano essere stato un ospizio per lebbrosi o comunque per ammalati. Nell’arco di una decina di giorni, una delle strutture adiacenti alla chiesetta di S. Damiano fu sgombrata per far posto a Chiara e alle sorelle, senza che questo significasse l’allontanamento dei frati, che mantennero qui alcune celle separate, sia per garantire il servizio giornaliero agli ammalati, sia per vigilare sulle sorelle, affinché non potesse piú accadere quello che era successo a S. Paolo delle Abbadesse e a S. Angelo in Panzo (monastero fondato ad Assisi nel X secolo, n.d.r.).
Trattamento paritario
Colpisce questo Francesco, che non esita ad assumersi la responsabilità di donne che, per seguirlo, si espongono a ritorsioni piú che prevedibili: Francesco sa che Chiara e Agnese seguendolo non imboccheranno una strada canonica, ma un sentiero non ancora battuto, una forma di religiosità del tutto nuova, ancora da costruire, da conquistare e da difendere. Seguendo Francesco, esse non diventeranno monache, entreranno in una comunità non ancora riconosciuta: l’Assisiate ha ottenuto dal papa l’approvazione a condurre una vita comunitaria esclusivamente maschile. Una vita non soggetta all’obbligo di residenza in un monastero, come era quella dei monaci, ma esposta all’itineranza. Nell’accoglierle, egli è dunque consapevole del fatto che esse non vivranno rinchiuse, ma lavoreranno, andranno alla questua, rimarranno in dialogo con la comunità locale proprio come i fratelli. SAN FRANCESCO
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Chiara e le sorelle
Santa Chiara all’assedio di Assisi, olio su tavola attribuito a Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino. Prima metà del XVII sec. San Pietroburgo, Museo di Stato dell’Ermitage. Nella scena si vede la santa che esce dalle porte della città, assediata dagli imperiali di Federico II, e, mostrando un ostensorio, li mette in fuga.
UN GRANDE PERICOLO Per quanto migliorato, il quadro generale dell’Europa bassomedievale non era esente da una certa anarchia militare, provocata dai continui microconflitti tra parti perennemente in guerra. Anche Chiara, nel 1241, corse un grande pericolo, in occasione del passaggio di un gruppo di arcieri arabi, reclutati nei reparti dell’esercito siciliano di Federico II, che attaccarono la città di Assisi per strapparla al papato. Essi penetrarono nel chiostro di S. Damiano, e attesero, sperando di trovare il modo di assaltare le sorelle che vi erano rinchiuse. Piú di un testimone al processo di canonizzazione fece riferimento all’episodio, come a un fatto profondamente inciso nella memoria dei contemporanei. Essi attestarono che – solo per miracolo – il giorno seguente la soldataglia lasciò, infine, la città senza toccare le sorelle; si suppone che a sventare l’assalto al monastero fosse intervenuto frate Elia, amico e protettore di Chiara, il quale dovette usare tutta l’influenza che aveva su Federico II per far richiamare d’urgenza le sue truppe sbandate. Il pericolo scampato dalle sorelle in regime di clausura, fa comprendere quali e quanti maggiori pericoli, avrebbero corso in libertà, in una società in cui i maschi erano abituati a considerare le donne, sempre e comunque, come proprietà di un uomo, fosse esso il padre, il fratello o il marito.
Vi sono gruppuscoli che a vario titolo hanno già sperimentato qualcosa di simile, ma si tratta perlopiú di gruppi dissidenti rispetto all’ortodossia cattolica, come i Catari o i Valdesi. Gli stessi cenacoli di penitenti nati nel Nord Europa – qualcuno nel Nord Italia – erano sorvegliati a vista e la loro libertà di movimento continuamente scoraggiata e combattuta. Tra gli eremiti c’era stato chi aveva raccolto attorno a sé gruppi misti di uomini e di donne, ma presto era stato obbligato dalla Chiesa a convogliare le donne in una struttura di clausura. Aver accolto Chiara in una comunità non soggetta a clausura fu perciò un passo ardito, e se Chiara mostra un coraggio non comune nel compierlo, Francesco non appare meno temerario nel lasciarsi guadagnare al suo proposito. Forse non vuole rinunciare a strapparla a quell’Assisi egoista e rapace di cui è espressione. Chiara proviene infatti da quella classe che – come abbiamo visto nella guerra tra Assisi e Perugia – si è fatta piú aggressiva da quando ha iniziato a perdere terreno; un terreno che le è stato sottratto dal ceto mercantile, da poco ammesso all’esercizio delle armi. Questo stato di cose ha fatto aumentare le faide e le contrapposizioni tra classi o gruppi di potere, determinando una situazione non dissimile da quella letterariamente descritta da William Shakespeare per la Verona del Trecento. Oppure Francesco vuole affrancare Chiara e le sorelle dalla suddi-
tanza ai maschi del clan, a cui sono condannate dalle famiglie e dalla società. Con Chiara, in ogni caso, si chiude il cerchio di quei giovani facoltosi che rigettano la violenza come mezzo di gestione del potere, la separazione rigida tra classi, la prevaricazione sulle componenti piú deboli e indifese della società, proprie della generazione dei loro padri.
La vita delle sorelle
Nei primi tempi in cui Chiara, Agnese e, poco dopo, Beatrice, terza tra le figlie di Favarone di Offreduccio, entrarono nella fraternità di Francesco, esse condivisero l’itineranza dei frati. Chiara aveva già sperimentato la clausura – come abbiamo visto – dopo la fuga dalla casa paterna, ma non intendeva proseguire su quella strada. Ciò avrebbe voluto dire rinunciare alla parte che piú le stava a cuore del progetto francescano: il servizio ai poveri, agli ammalati, il dialogo costante con la comunità cittadina. Inoltre, come Francesco, essa intendeva rifiutare ogni forma di prestigio sociale e di differenziazione nelle mansioni, entrambe mantenute in vita nel mondo monastico attraverso la consuetudine di corrispondere una dote al momento dell’entrata in monastero. Per le sorelle del movimento francescano valeva, invece, l’obbligo contrario di disfarsi di ogni proprietà e mai in favore dell’Ordine. Come i frati, le sorelle erano tenute alla recita SAN FRANCESCO
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giornaliera dell’ufficio, che scandiva il trascorrere delle ore, che assegnavano alla preghiera un ruolo preminente. Di giorno si dedicavano con i frati all’attività caritativa, recandosi presso gli ospizi dei lebbrosi e degli ammalati e, come loro, lavoravano nell’orto del convento o nei campi del contado di Assisi; dentro al monastero erano impegnate nei lavori di filato e di cucito, che divennero l’unica attività a cui Chiara poté indirizzarsi negli ultimi anni della sua vita, quando fu costretta a letto da una malattia invalidante. Soprattutto, Francesco e Chiara desideravano vivere immersi nella comunità cittadina, tentando di ricucire pazientemente i numerosi strappi che la laceravano. Una comunità che conoscevano bene e che forse, proprio per questo, non vollero abbandonare mai. Una comunità di cui riuscirono col tempo a riguadagnarsi la stima, non piú in quanto rampolli di famiglie in vista, ma in quanto uomini disinteressati e realmente solleciti verso i bisogni altrui. Nei primi otto anni di vita a S. Damiano, Chiara e le 86
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compagne, dunque, condussero la stessa vita dei frati, eccettuato l’impegno di recarsi in missione Oltralpe e Oltremare.
Una scelta forzata
Se in età tardo-antica era ancora frequente il costituirsi di cenacoli di donne che conducevano vita religiosa non strutturata accanto a parroci e vescovi, impegnati nel servizio ai poveri e agli ammalati, nell’Alto Medioevo questa possibilità venne a mancare. Le continue incursioni stravolsero la vita delle donne cosí come travolsero le strutture dell’impero romano d’Occidente. Non deve dunque stupire che, in tale mutato e peggiorato contesto sociale, la vita consacrata delle donne si traducesse nella stretta clausura. Per le donne si rese altresí necessario far sorgere le strutture claustrali all’interno di ciò che restava dei centri abitati, che seppur diminuiti di numero, restavano comunque piú popolati rispetto alle campagne. All’inizio dell’età bassomedievale, del ritorno a
A sinistra Assisi. La facciata occidentale della basilica di S. Chiara. A destra La morte di Santa Chiara, particolare dello sportello centrale del Trittico di Santa Chiara, tempera su tavola attribuita a Paolo Veneziano. 1328-1330 circa. Trieste, Museo Civico Sartorio. Chiara morí nel convento di S. Damiano, l’11 agosto del 1253, e due anni dopo, nel 1255, fu proclamata santa da papa Alessandro IV.
condizioni di vita migliori si giovarono anche Francescani e Domenicani che, approfittando della mutata situazione, abbandonarono la stabilità monastica e abbracciarono l’itineranza; le donne, tuttavia, non poterono fare altrettanto, perché la società non era pronta ad accettare un’analoga libertà di movimento. Tale premessa è necessaria per meglio valutare la svolta – dolorosissima per tutto l’Ordine – del 1219, quando Gregorio IX impose la clausura alle sorelle di S. Damiano. Da quel momento esse non poterono piú mendicare il pane per la loro mensa, né portare la cura ai lebbrosi e ai mendicanti; altri dovettero elemosinare al posto loro, mendicare per loro il pane: i frati. Gli stessi frati, però, si sarebbero dovuti attenere a disposizioni assai piú restrittive circa l’accesso a S. Damiano. Dalle piazze di Assisi – d’ora in avanti – le suore non furono piú viste in mezzo alla folla ad ascoltare le prediche dei frati; questi ultimi – ma solo quelli che avevano ottenuto licenza speciale dal pontefice – predicarono per loro, recando cura
spirituale, al monastero stesso. Un’imposizione odiosa, di cui non si può non accusare Gregorio IX, che ne fu responsabile. Ma se è vero che la Chiesa bassomedievale si arroccò su posizioni di tutela stretta delle donne, essa non fece che adeguarsi all’idea che la società dell’epoca aveva di loro, accettando uno stato di cose già esistente. Chiara morí nel 1253 dopo una lunghissima malattia durata vent’anni. Al suo capezzale, oltre alle compagne e alle sorelle, vi erano loro, i compagni di Francesco, Angelo e Leone, che vegliarono su di lei come un tempo avevano vegliato Francesco. Negli anni della malattia, quasi sempre costretta a letto, Chiara combatté in difesa di quella povertà, che era il lascito morale e spirituale dell’Assisiate. Aveva ceduto di fronte all’imposizione della clausura, ma non arretrò di un passo di fronte al tentativo di farle adottare una Regola piú mitigata, una Regola che l’avrebbe portata lontana da quella povertà e precarietà assoluta che Francesco le aveva raccomandato. SAN FRANCESCO
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Un «sant’uomo» al
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cospetto del sultano Nel settembre del 1219 infuria la quinta crociata e le truppe cristiane si trovano in Egitto, nel tentativo di espugnare Damietta. Dopo un lungo stallo, i musulmani respingono l’assedio e Francesco si reca dal vincitore, al-Malik al-Kamil, nel tentativo di convertire le sue genti... Prova del fuoco (o San Francesco davanti al sultano), nel ciclo delle Storie di San Francesco affrescato da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti della chiesa di S. Trinita a Firenze. 1482-1485. La scena si riferisce all’episodio dell’incontro tra Francesco e il sultano al-Malik al-Kamil, nel corso del quale l’Assisiate si disse disposto a entrare in una pira fiammeggiante chiedendo in cambio, se ne fosse uscito illeso, la conversione dei musulmani al cristianesimo. SAN FRANCESCO
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La veemenza di Pietro l’Eremita
Erano passati piú di cento anni da quando Pietro l’Eremita aveva infiammato le piazze con la sua rozza predicazione, incitando i cavalieri cristiani a prendere le armi e a rivolgerle contro «gli infedeli» che «impudentemente» detenevano il controllo della città, santa per i cristiani. Sarebbe stato impensabile, in quei primi anni di predicazione dell’impresa ultramarina, quando nella propaganda europea si stigmatizzava lo scontro totale tra cristianità e Islam, prospettare ai pellegrini armati, investiti nell’impresa, una meta diversa da Gerusalemme. Agli inizi del XIII secolo, però, l’afflato dei primi appelli si era ormai attenuato, e quella che appariva un tempo come un’impresa dai contorni nobili e mitizzati aveva assunto sempre piú la crudezza e l’odore di una guerra come tutte le altre. Da quando poi, nel 1187, i musulmani avevano ripreso ai crociati la città di Gerusalemme, spingendoli nei territori limitrofi, la guerra si era dovuta fare giocoforza piú tattica. Damietta, dunque, era il nuovo obiettivo dei cristiani e il vero cruccio del sultano, che in essa vedeva 90
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GLI ANNI DELLE GUERRE «PER CONTO DI DIO»
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el settembre del 1219, sul Delta del Nilo, i crociati attendevano di attaccare la città di Damietta. Da anni, ormai, avevano rinunciato a puntare direttamente su Gerusalemme, obiettivo troppo difficile da riconquistare e miravano, invece, a impadronirsi di alcune roccaforti commerciali, sperando di poter poi giocare la carta dello scambio. Una volta presa Damietta – chiave del Nilo, strategico porto musulmano – si sarebbero potute aprire le trattative con il sultano per ottenere in cambio la Palestina, che restava la vera meta dei «soldati di Cristo». Una simile strategia sarebbe stata impensabile nei primi anni di predicazione della crociata, quando il solo nome di Gerusalemme era capace di suscitare il reclutamento massiccio di mezzi e di uomini. Inizialmente, quando era stata bandita, essa aveva avuto il senso di «riconquistare» Gerusalemme, intendendo col termine «riconquistare» che essa fosse cristiana, in quanto ex colonia dell’impero romano. Una colonia strappata all’impero d’Oriente, nel VII secolo, dagli Arabi, percepiti, quindi, come usurpatori e illegittimi occupanti. Se questo, però, era stato il pilastro ideologico su cui si era basata la propaganda della fine dell’XI secolo, bisogna rilevare che agli inizi del XIII, dopo oltre cento anni, su tale pilastro si erano innestati altri interessi, frustrazioni personali, disperazioni e amare rivalità.
1096-1099 I crociata in Siria-Palestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, conducono i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale. 1098, giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. 1099, 10 luglio El Cid Campeador muore a Valencia. 1099, 15 luglio I crociati conquistano Gerusalemme. 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del regno «franco» di Gerusalemme. 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. 1128 Concilio di Troyes: la Fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici trasformata in militia (Ordine religioso-cavalleresco). 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia che regoli il movimento crociato. 1147, ottobre I crociati prendono Almeria e poi Lisbona. 1148-1152 II crociata in Siria-Palestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. 1177, 25 novembre Le truppe cristiane guidate da Baldovino IV di Gerusalemme sconfiggono l’armata di Saladino nella battaglia di Montgisard. 1187 Vittoria saracena a Hattin; Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. 1187-1192 III crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco
Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. 1195, 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. 1202-1204 IV crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli e la fondazione dell’impero latino. 1209 Innocenzo III bandisce la crociata contro gli eretici catari detti «Albigesi». 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. 1212 «Crociata dei fanciulli» (o «degli innocenti»). 1212, 17 luglio Le truppe cristiane franco-ispano-portoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. 1217-1221 V crociata, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. 1228-1229 VI crociata (di Federico II); Gerusalemme è recuperata grazie a un accordo con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. 1248-1254 VII crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. 1270 VIII crociata (seconda crociata di Luigi IX, che muore durante l’assedio di Tunisi). 1291 Caduta di Acri. 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII.
Miniatura raffigurante la battaglia di Damietta, combattuta nel 1218, nell’ambito della quinta crociata, da un’edizione dell’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro. 1337. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
minacciato uno dei centri nevralgici del suo sistema mercantile, dove facevano scalo metà delle merci che approvvigionano il suo regno. Sull’altra sponda del Mediterraneo, del resto, nessuno guardava piú all’impresa oltremare con gli occhi di un tempo. Dal primo appello di Urbano II, troppe degenerazioni avevano screditato l’immagine della crociata: dagli attacchi alle comunità ebraiche, alle deviazioni su obiettivi economici, alle crociate rivolte all’interno della cristianità stessa, come il tragico dirottamento della quarta crociata sulla cristiana Costantinopoli. Il ricordo dei saccheggi e delle violenze dei crociati per le strade della città aveva gettato una luce sinistra sulla natura dell’impresa, come pure ne svilí il richiamo la crociata organizzata da Innocenzo III contro gli Albigesi. Nel settembre del 1219, dunque, quando Francesco d’Assisi arrivò sul Delta del Nilo, dove erano accampati i crociati, quell’impresa appariva in tutta la sua disumana barbarie.
Truppe stanche e sfiduciate
Eppure, alcuni anni prima, nel 1215, Innocenzo III si era prodigato per riportare l’esercito crociato oltremare, anche al fine di cancellare la vergogna della presa di Costantinopoli. A tale scopo era stata proclamata una tregua momentanea, per permettere ai due eserciti di riorganizzarsi. Nel 1218, allo spirare della tregua, l’esercito cristiano era stato trasferito sul Delta del Nilo e solo un anno dopo, al momento del suo arrivo, Francesco vi trovò i soldati fiaccati dalla dissenteria e dalle epidemie, che impazzavano sotto il feroce sole egiziano. A incupire l’umore delle truppe era poi l’esasperante attesa di un segnale d’attacco che tardava ad arrivare a motivo delle divisioni interne dell’esercito cristiano e delle pressioni del legato pontificio, il cardinal Pelagio, in perenne disaccordo con i cavalieri crociati. Quando, infine, il segnale arrivò, Francesco si mise all’opera: cercò di dissuadere i suoi, i cristiani, dal portare l’attacco; cercò di far leva sul lato in cui li sentiva piú deboli, la paura della sconfitta. Una sconfitta che preannuncia loro, dicendo di averla sognata, di averla preavvertita, di averla presagita. I soldati, però, all’ordine convenuto attaccarono, combatterono, persero e, infine, rientrarono all’accampamento sconfitti: Francesco aveva ragione, ma il suo intervento non era servito a fermare la macelleria. Di sorpresa poi, dopo circa un mese dalla dolorosa disfatta cristiana, Francesco attraversò le linee dell’accampamento crociato e si recò nel campo avversario, a colloquio con il sultano (segue a p. 97) SAN FRANCESCO
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Francesco in Terra Santa: testimonianze a confronto Il primo a parlare della missione oltremare di Francesco è Giacomo da Vitry, vescovo di San Giovanni d’Acri. In una lettera del febbraio del 1220, Giacomo attesta che l’incontro tra Francesco e il sultano «non avesse ottenuto granché», riferendosi forse a una tregua, o forse a una conversione, o forse a una trattativa. Tra il 1223 e il 1225, Giacomo torna a parlarne nella sua Historia Occidentalis, precisando che «i Saraceni ascoltavano volentieri i frati minori quando predicavano la fede in Gesú Cristo e l’insegnamento del Vangelo». La seconda fonte sull’episodio è una cronaca anonima databile agli anni 27-29 del XIII secolo. L’autore è un sostenitore di Giovanni di Brienne, il re di Gerusalemme sempre in lotta col delegato papale in Terra Santa, Pelagio. La cronaca intende mettere in buona luce al-Malik al-Kamil contro l’ottusità del cardinal Pelagio e, anche per questo, ci mostra un sultano illuminato, che ascolta di buon grado le parole di due chierici cristiani in udienza presso di lui. Si ritiene da sempre che tale fonte intenda riferirsi all’incontro tra Francesco e al-Kamil. Le fonti successive sull’incontro sono le biografie del frate Tommaso da Celano, che ci presenta un Francesco in Oriente, animato dalla sete del martirio. Nel poema
del letterato Enrico d’Avranches, si introduce la novità di una disputa teologica sostenuta da frate Francesco con i sufi del sultano. I compagni di Francesco, che scrivono intorno al 1244, ci dicono solo che Francesco andò per predicare al sultano e che in quell’occasione contrasse una grave malattia agli occhi a motivo della grande fatica e calura sostenuta durante il viaggio. Un elogio funebre in onore di Ibn al-Zayyat, consigliere spirituale di al-Malik al-Kamil, attesta l’episodio anche da parte araba. Vi si dice Ibn al-Zayyat ebbe l’avventura eccezionale d’incontrare un monaco cristiano, da sempre identificato con Francesco. Bonaventura da Bagnoregio, per parte sua, descrive un Francesco animato dal desiderio di martirio, che sfida la fede del sultano in un’ordalia. Nel Trecento altri due autori francescani tornarono a parlare dell’episodio; il primo, Angelo Clareno, parla della partenza di Francesco come momento di sventura interno all’Ordine, piú precisamente come l’occasione che in molti attendevano per stravolgere la Regola primitiva, approfittando della sua assenza. Infine, Ugolino da Montegiorgio, l’autore dei Fioretti, amplifica l’aspetto leggendario e miracoloso della vicenda. Parla di una inverosimile conversione del sultano, il quale, in punto di morte, avrebbe chiesto il battesimo, toccato dall’incontro con Francesco. Nei Fioretti, inoltre, il letto di brace, apprestato per l’ordalia davanti al sultano, diviene un letto in senso letterale, sul quale Francesco avrebbe invitato a congiungersi con lui una prostituta inviatagli dal sultano. Un richiamo evidente alle biografie dei padri del deserto, i quali, durante le ore di veglia nelle desolate lande della Tebaide, venivano tentati dal Demonio attraverso allucinazioni in forma di donna. Anche nelle vite dei martiri cristiani è presente il topos della prostituta tentatrice, inviata, in questo caso, dall’autorità romana per piegare la fede dei detenuti cristiani, favorendone l’abiura.
A sinistra mappa di uno dei bracci del Delta del Nilo, da un’edizione del Kitab-i bahriyye (Libro sulla navigazione, 1521) del navigatore e cartografo turco Piri Re’is. Fine del XVII-inizi del XVIII sec. Baltimora, Walters Art Museum. A destra miniatura raffigurante l’ingresso dei crociati a Damietta, da Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé. 92
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Missione in Egitto
Sulla falsa ordalia con il sultano Uno degli episodi piú mistificati della storia di Francesco è la presunta ordalia con il sultano. Si tratta di un episodio che è però difficile cancellare dalla nostra mente, perché lo troviamo rappresentato a piú riprese, e sappiamo che le immagini s’imprimono meglio e in maniera piú indelebile rispetto alle parole. Dobbiamo alla Leggenda Maggiore di Bonaventura da Bagnoregio il racconto della falsa ordalia. Giotto, che su Bonaventura si è basato, ha ritratto ad Assisi un Francesco che sfida il sultano. Se, da Assisi, ci incamminiamo verso la vicina Montefalco, di nuovo, Francesco ci si presenta in una veste che ci lascia attoniti. Nella Regola non bullata, infatti, Francesco aveva ammonito i suoi frati che si fossero recati Oltremare, a non fare liti, dispute o contese: «I fratelli che vanno tra essi [i non cristiani] in due modi possono spiritualmente comportarsi. Un modo è che non facciano liti, né questioni, ma siano sottomessi a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando sembri piacere a Dio, annunzino la parola di Dio, affinché credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e spirito Santo». Nessuna disputa dunque era permessa ai frati dalla Regola, nessuna ordalia, nessun atteggiamento che potesse apparire come una sfida, piuttosto che come un annuncio gioioso. L’Ordine domenicano, nato negli stessi anni, aveva avuto l’obiettivo di istruire i frati, affinché attraverso il Libro Sacro potessero affrontare gli avversari in dispute teologiche. Nella vita di Domenico si parla delle contese sostenute dal santo di Caleregua davanti al fuoco ordalico. La giustapposizione, però, non è imputabile ai due artisti toscani, ma alla fonte da cui essi hanno attinto, la Leggenda Maggiore di Bonaventura. È quest’ultimo a capovolgere l’immagine di Francesco, consegnandoci un Francesco falso, che sfida in una disputa il suo interlocutore al fine di smascherarne la presunta falsa scienza ed erronea fede. Francesco, al contrario, aveva proibito ai suoi di tenere un’uguale condotta, dissuadendoli in ogni modo anche dallo studio. I suoi compagni attestano che fosse solito ribadire che «la scienza gonfia», laddove solo «la carità edifica». Gli affreschi di Giotto e di Benozzo Gozzoli rappresentano Francesco, avendo presente non lui, ma piuttosto i Francescani loro contemporanei, i quali – allontanatisi dall’osservanza stretta della Regola – avevano iniziato, come i colleghi domenicani, a sostenere dispute e ad avanzare nello studio. Quando Giovanni Paolo II, nel 1986, inaugurò ad Assisi la giornata mondiale di preghiera interreligiosa (cattolici, ortodossi, musulmani, buddisti ed ebrei riuniti insieme) pensava certamente alla Regola di Francesco e non certo alla Leggenda di Bonaventura, cristallizzata dal pennello di Giotto nella parete ovest della basilica umbra. Lo stesso Joesph Ratzinger (salito al soglio pontificio come Benedetto XVI), quando ribadí la necessità di continuare «il cammino verso la pace» inaugurato da Francesco, guardò alla Regola e non certo a Giotto o a Bonaventura. Che Francesco sia stato assunto a simbolo del dialogo interreligioso non può stupire. Le sue posizioni – bene espresse nei suoi scritti, nella Regola e nelle testimonianze dei suoi compagni – mostrano un’incredibile modernità e apertura. Un’apertura che si fa ancor piú evidente se confrontiamo le sue parole con quelle fastidiosamente denigratorie di molti suoi contemporanei, quali il papa Gregorio IX e il re di Francia, Luigi IX. Un’altra immagine, assai dannosa e fuorviante, suggerita da Bonaventura – certo già presente nella prima biografia ufficiale, scritta da Tommaso da Celano – è quella del martirio. Uno stereotipo – quello della «sete di martiro» – che ha avuto la «sventura» di trovare in Dante un’eccezionale cassa di risonanza. Il francescano Giordano da Giano, però, nella sua Cronaca, scritta una quarantina d’anni dopo la morte 94
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San Francesco davanti al Sultano (o Prova del fuoco), nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
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dell’Assisiate, registra tutto il fastidio di Francesco all’idea di cercare il martirio in terra musulmana. Egli riporta un episodio assai eloquente, in cui Francesco, informato dell’uccisione in Marocco di cinque dei suoi frati, si spazientisce di fronte all’ammirazione dei suoi confratelli, interrompendo bruscamente la lettura del loro martirio e stroncando cosí ogni proposito di emulazione. Lo stesso pontefice, Onorio III, cinque anni piú tardi, sembra interpretare l’atteggiamento di Francesco verso «il martirio» alla luce di questa sua reazione, raccomandando ai Francescani – che devono recarsi in Egitto – grande discrezione e massima prudenza; essi – scrive – non devono cercare il martirio, ma occuparsi dei prigionieri, delle condizioni di vita dell’esercito e di quelle dei commercianti cristiani che lí lavorano e risiedono. Tra le immagini suggerite dalle fonti e dall’iconografia, nel XV e XVI secolo – periodo di recrudescenza dello scontro tra Islam turco e cristianità –, non poteva non trionfare ed essere tramandata, però, l’immagine di Francesco che sfida il sultano. Immagine che suggerí a Voltaire l’idea di un Francesco integralista e fanatico, davanti a un al-Kamil colto e tollerante. La conoscenza del santo attraverso il solo testo della Leggenda Maggiore aveva ormai cancellato il suo autentico messaggio.
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In basso un’altra versione dell’incontro tra Francesco e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil, dipinta ancora una volta da Giotto, nella Cappella Bardi della basilica fiorentina di S. Croce. 1325 circa.
In questa pagina Francesco predica davanti a papa Onorio III (a sinistra) e Martirio dei Francescani a Ceuta, due delle formelle dell’armadio della sacrestia di S. Croce dipinte da Taddeo Gaddi. 1335–1340. Firenze, Galleria dell’Accademia.
d’Egitto, al-Malik al-Kamil. Secondo le cronache della crociata, al-Kamil aveva proposto piú volte un accordo ai cristiani per evitare l’inutile spargimento di sangue; era dunque un sovrano illuminato che cercava la pace. Che questo fosse il suo intendimento, lo dimostrò quando, nel 1228, trovandosi di fronte Federico II – un sovrano altrettanto aperto e ricolmo di doti politiche – si affrettò a concluderci un accordo che sanciva la concessione decennale dei Luoghi Santi ai cristiani. Francesco entrò e uscí illeso dal quartier generale del sultano, anche se dovette poi lasciare l’Egitto con un nulla di fatto nelle mani, e un senso di profonda sconfitta di cui le fonti tramandano l’eco. Una sconfitta morale, quella di Francesco, di cui dovette probabilmente lamentarsi piú volte con i compagni, al momento del suo rientro ad Assisi.
L’arrivo dei frati dottori
Mentre Francesco è ancora in Egitto viene informato dai suoi compagni piú stretti, probabilmente da Elia che è ministro provinciale in Terra Santa, che i suoi frati, quelli afferenti all’area padana e a quella nordeuropea, sono sempre piú spesso investiti dalla Curia di alti incarichi; sempre piú stanno entrando nell’Ordine frati istruiti, dottori, docenti in teologia e sempre piú i Francescani sono equiparati ai loro omologhi, i Domenicani, impegnati nello sforzo di riformare la Chiesa e di proteggerla dalle molte eresie dilaganti. Al coinvolgimento nella politica papale, Francesco e il gruppo dei frati umbri resta, però, estraneo. Francesco insiste sulla necessità di restare «ultimi», minori in tutti i sensi. Insiste nel proibire lo studio e la progressione di carriera ai suoi. Molti hanno però SAN FRANCESCO
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Missione in Egitto
Nella pagina accanto miniatura raffigurante i martiri francescani per la conversione del mondo, da un’edizione del Libro dell’Ordine francescano detto la Franceschina. XVI sec. Perugia, Biblioteca Capitolare.
iniziato ad attaccare il pilastro della sua dottrina, la povertà, giudicata d’intralcio allo studio, che solo nutre la predicazione. Gli contestano che astenersi dall’influire nelle grandi scelte del suo tempo è un’occasione mancata e una caparbietà dannosa. Altri si ribellano al lavoro manuale – imposto a tutti i frati dalla Regola – un fardello che si inizia a giudicare di ostacolo alla piú urgente attività di predicazione. Per molti l’obbligo di disfarsi dei libri – compresi quelli liturgici – è solo un vezzo, come pure il divieto di costruire conventi in muratura: in alcuni paesi – si obietta – il legno costa piú della calce e delle pietre.
Le critiche a Francesco
A mano a mano che le accuse montano, si puntualizzano anche le critiche verso Francesco e la sua leadership. Grazie alle missioni, l’Ordine conta ormai alcune migliaia di adepti in quasi ogni regione d’Europa. Con l’aumentare del
In alto Francesco appare al Capitolo di Arles, formella dell’armadio della sacrestia di S. Croce dipinta da Taddeo Gaddi. 1335-1340. Firenze, Galleria dell’Accademia.
numero e delle province geografiche, l’ascendente di Francesco viene meno e si rivela sempre piú complicato incanalare, controllare, disciplinare la moltitudine delle nuove reclute. Molti hanno conosciuto Francesco solo di sfuggita, in occasione dei capitoli generali, le assemblee plenarie dei frati che continuano ad avere luogo ogni anno ad Assisi. Nel corso di queste riunioni, Francesco inizia a vivere il paradosso di frati sconosciuti che lo considerano già santo, che gli si gettano ai piedi, baciandogli la tonaca, mentre altri lo fanno oggetto delle accuse piú vergognose. L’attacco non è diretto solo a lui, ma a tutto il gruppo umbro del movimento. Un gruppo che per molti ha esaurito la sua funzione storica e deve quindi farsi da parte, lasciando il passo al nuovo che avanza. Francesco non è ancora morto, eppure molti si comportano come se già lo fosse, mostrando di avvertirlo come un peso, inutile al suo movimento. SAN FRANCESCO
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L’invenzione del presepe
Quella magica notte di Natale Il presepe di Greccio
Passando per i sentieri che dal Subasio portano al Velino, costeggiando il lago di Piediluco, Francesco e i suoi compagni giunsero a Greccio, un borgo del Reatino posto a 705 m d’altitudine sulle pendici del Monte Lacerone. I compagni di Francesco, che attestano una predilizione assoluta di Francesco per questo luogo non parlano, tuttavia, della rappresentazione a Greccio del presepe, impressa a fuoco nel nostro immaginario, e tramandata dalla biografia ufficiale di Tommaso da Celano: «C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava piú la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco gli disse: “Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”» (Tommaso da Celano, Vita Prima, cap. XXX).
A destra Greccio, santuario del Presepe. La cappella realizzata nel luogo in cui Francesco allestí la Natività: il masso utilizzato come mangiatoia è divenuto il supporto di un piccolo altare. Nella pagina accanto Il presepe di Greccio, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
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In alto Greccio (Rieti), il santuario del Presepe. Qui, nella notte del Natale del 1223, san Francesco avrebbe messo in scena la Natività con personaggi viventi. Il nucleo primitivo del complesso risale agli anni in cui vi dimorò l’Assisiate.
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Nel segno del rigore Francesco codifica la sua concezione dell’attività religiosa dettando la Regola alla quale i suoi compagni sono chiamati ad adeguarsi. La vita dei frati dev’essere improntata alla povertà piú assoluta, rinunciando ai beni materiali e al danaro. Principi che furono a piú riprese messi in discussione, anche all’interno dell’Ordine stesso, ma ai quali il santo non volle mai venire meno. Anche nell’ora del suo commiato dall’esistenza terrena
Innocenzo III conferma la Regola francescana, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. Come scrive Bonaventura da Bagnoregio nella Leggenda Maggiore, dopo l’incontro con Francesco, il pontefice «sentendo per il servo di Cristo una straordinaria devozione, si mostrò incline ad accogliere in tutto e per tutto le sue richieste e lo amò poi sempre con affetto speciale. Concedette, dunque, le cose richieste e promise che ne avrebbe concesse ancora di piú. Approvò la Regola: conferí il mandato di predicare la penitenza e a tutti i frati laici, che erano venuti con il servo di Dio, fece fare delle piccole chieriche [corone], perché potessero predicare liberamente la Parola di Dio». 102
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ei primi tempi della fraternitas, Francesco e i compagni non avevano sentito la necessità di una Regola, in quanto vivevano come semplici penitenti. Quando, davanti al Palazzo dei Priori a Perugia o nella piazza del Comune a Foligno, vedendoli esortare alla misericordia, vestiti di panno grezzo, cinti in vita dal cordone, i passanti domandavano loro chi fossero, essi rispondevano semplicemente di essere «uomini di penitenza oriundi di Assisi». Inizialmente, fu lo stesso vescovo di Assisi a proteggerli, concedendo loro alcuni luoghi – primo fra tutti S. Damiano – nei quali fare penitenza, ma, col passare del tempo, con l’accrescersi della famiglia, apparve evidente che non si poteva continuare senza una Regola. Una Regola che li avrebbe messi al riparo da accuse e attacchi, perché il modo di vivere della fraternità – egualitario, privo di distinzioni tra i sessi, mancante di una vera gerarchia – poteva essere avvertito come una critica, un’accusa, una minaccia. Per scongiurare un simile pericolo, il vescovo di Assisi convinse allora Francesco, nel lontano 1208, a farsi approvare a Roma una primitiva Regola non scritta. Un decennio piú tardi, essa si mostrava inadeguata a regolamentare, però, un movimento che era incredibilmente cresciuto. E, tra il 1221 e il 1223, proprio la necessità di giungere a un testo normativo – questa volta scritto – nuovo e definitivo, innescò aspre polemiche tra i frati. Il capitolo del 30 maggio del 1221, detto «delle stuoie», venne dedicato proprio alla discussione della nuova Regola, che si doveva sottoporre all’approvazione della Curia romana. In quell’occasione, i frati dottori tornarono ad attaccare Francesco, ritenuto troppo severo nel dettarne le prescrizioni, non esitando a rimostrare presso il vescovo, affinché lo convincesse ad arrivare a un testo piú attenuato. Francesco compí allora un gesto che neppure i suoi piú stretti compagni si attendevano: a sorpresa rimise le sue dimissioni dalla guida dell’Ordine e abbandonò ogni incarico istituzionale.
Il ritiro sull’Appennino
Nel 1224, Francesco decise di trascorrere la quaresima di San Michele – i quaranta giorni che precedono il 29 di settembre, festa dell’Arcangelo – alla Verna, nei pressi di Arezzo. Quello che si mette in cammino verso la montagna aretina è un uomo sconvolto. Un uomo che ormai misura solo l’ostilità che gli si è creata intorno, che percepisce soltanto la compattezza del muro che lo circonda, che valuta solo la 104
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consistenza della propria sconfitta. È un uomo che non rinuncia a scrutare in segreto le ragioni di quell’opposizione, a tratti incomprensibile, perché quelli che gli si rivoltano contro sono uomini che volontariamente hanno scelto di farsi suoi frati, che hanno abbracciato consapevolmente la povertà e che lucidamente hanno compreso a cosa essa conduca. Sono uomini che ancora potrebbero scegliere di abbandonare l’Ordine, come lui stesso piú volte ha consigliato loro; sono liberi di disconoscerne gli ideali, se questi non li convincono piú, liberi di abbandonare un sentiero sul quale non vogliono piú camminare; ma, al contrario, essi vogliono restare e convincere lui a cambiare, a disconoscere ciò per cui ha lottato, a rifiutare ciò per cui, un tempo, ha abbandonato le gioie del mondo. I suoi oppositori lo giudicano caparbio e fanatico, orgoglioso e vanaglorioso in quel suo persistere sulla strada della povertà assoluta; tuttavia, senza la povertà, il suo cammino gli apparirebbe inutile, privato del sale e del lievito: un sentiero cieco, che non conduce in alcun luogo. Rinunciare alla povertà equivarrebbe per Francesco a rinunciare all’essenziale del suo progetto, tornare a percorrere strade che non sono le sue, incontrare ostacoli che non sta a lui superare, scrutare paesaggi che non gli corrispondono interiormente. Basterebbe un gesto, un gesto di correzione, di dominio, di punizione, di vendetta verso quelli che gli hanno dichiarato guerra per riprendere il controllo della sua creatura, ma questo è proprio ciò che Francesco non intende fare. Nei giorni che passa alla Verna, sperduto tra le rocce e gli abeti dell’Appennino, non vuole la presenza di nessuno, neppure di frate Leone, che pure è con lui, ma che ha ricevuto istruzione di tenersi a distanza, perché Francesco vuole restare da solo con Dio. È Lui che deve dargli un segno, una prova del fatto che tutto ciò che è stato, non è stato invano, che quell’intorbidamento momentaneo delle acque non azzererà tutta la grazia trascorsa. Su ciò che Francesco vide e fece in quei quaranta giorni trascorsi tra le rocce e le leccete dell’Aretino sono corsi fiumi d’inchiostro, perché in quei giorni Dio – secondo quanto ne scriverà lo stesso frate Elia – gli avrebbe concesso il segno delle sue stimmate. Gli altri compagni, a questo proposito, riferiscono solo dell’apparizione di un Serafino, un sogno, una visione che l’avrebbe consolato delle sue amarezze, lasciandolo in uno stato di grazia che non lo avrebbe mai piú abbandonato fino al giorno della sua morte.
San Francesco riceve le stimmate, nel ciclo delle Storie di San Francesco affrescato da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti della chiesa di S. Trinita a Firenze. 1482-1485.
Una cosa è certa, il Francesco che sale alla Verna è un uomo turbato e sconfitto, che ha subito attacchi vergognosi e violenti, bersaglio di critiche astiose, germogliate dalla sua stessa pianta, mentre il Francesco che scende dalla Verna è un uomo cui il mondo torna a parlare.
L’addio a Chiara
Qualche mese dopo il soggiorno alla Verna, rientrato ad Assisi, Francesco decise di alloggiare presso S. Damiano. Siamo nel marzo del 1225 e, quindi, a un anno dalla sua morte. S. Damiano era stato il suo primo ricovero, subito dopo la conversione, ed era ora la casa delle sorelle. In una celletta di frasche, a ridosso del mona-
stero, la notte lo tormenta un gruppo nutrito di topi; animali che tollera a malapena, e che non smettono d’invadere il suo letto e la sua mensa. Nonostante il disagio, resiste e, giorno dopo giorno, inizia a respirare i ricordi dei suoi inizi che ancora lí abitano: li setaccia con la mente, li passa nell’anima, li ripercorre, li misura e probabilmente, vi ritrova l’unità profonda del suo gruppo primitivo – di uomini e di donne – che a S. Damiano hanno mosso i loro primi passi. Quel luogo è carico di una forza positiva, è carico della loro storia ed è mantenuto fertile dalla presenza delle sorelle che, nel silenzio del loro monastero – ormai chiuso al mondo –, non smettono di amare Francesco, SAN FRANCESCO
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Il santuario della Verna, sull’Appennino Toscano, presso Arezzo. Nell’estate del 1224 san Francesco si ritirò qui e, durante la permanenza, il Signore gli apparve sotto forma di Serafino crocifisso, lasciandogli in dono i sigilli della sua passione, vale a dire le stimmate.
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non smettono di sostenerlo, non smettono d’invocare su di lui la protezione celeste.
«Laudato sia, mio Signore...»
I compagni – che mantengono un rapporto assiduo con le sorelle – non mancano d’informarle che lo stato di salute di Francesco peggiora irrimediabilmente. Di fronte a notizie cosí dolorose, le sorelle reagiscono come possono, come solo è concesso loro: vegliando e pregando, nella speranza che Francesco non immagini di essere solo, ma si senta invece parte di una famiglia che gli si sta stringendo attorno. E que-
sto, infine, Francesco avverte, se al risveglio da una notte insonne, sente affiorare un canto di vita che detta a frate Leone: «Laudato sia, mio Signore, per sora luna et per le stelle, in celo l’ài formate clarite pretiose et belle». In quegli stessi giorni a S. Damiano, sempre in quello stato d’animo, ispirato e commosso, scrive anche una lettera a Chiara. Mentre il destino dell’Ordine gli appare ormai oscuro e sfuggente, chiede alle sorelle di vigilare affinché, per il «consiglio» di qualcuno, non si allontanino mai da quella povertà che hanno promesso a lui e a Dio. Francesco sembra avverti-
In alto, a destra uno scorcio della foresta di faggi e abeti che copre il monte della Verna.
re che una minaccia incomba sulle sorelle, le quali, presto, saranno private della sua protezione e forse anche di quella dei frati. Francesco prevede con lucidità che l’attacco arriverà proprio lí, dove l’Ordine è piú debole, nella sua componente femminile. Il tono è confidenziale e riflette la stima che egli nutre per Chiara, ritenuta capace di farsi baluardo contro gli stravolgimenti in atto. È il tono fiducioso di chi sa che la propria interlocutrice comprenderà quel monito oscuro a diffidare «della dottrina e del consiglio di alcuno»; qualcuno che vorrebbe strapparla alla povertà, che vorrebbe strapparla alla comunità dei frati per farne altra cosa. Contro questa minaccia, ritenuta reale e concreta, Francesco chiama le sorelle a resistere: «Mai in nessun modo vi allontaniate da essa». Si tratta di un’ultima volontà, che Francesco affida a Chiara, certo che saprà esserle fedele fino alla consegna. Dopo la lunga permanenza a S. Damiano, i compagni lo portano su una cavalcatura all’eremo di Fonte Colombo, quando le sue condizioni di salute precipitano rovinosamente. Ad aggredire il corpo già debilitato, gracile fin dai tempi della giovinezza, si aggiungono varie malattie: allo stomaco e alle gambe, oltre al tracoma che peggiora di giorno in giorno, rendendogli ormai insopportabile la luce diurna del sole e quella notturna del fuoco. I frati fa-
ticano ormai ad alleviare i dolori prodotti dalle sue molte piaghe; fanno quel che possono, lo assistono, lo curano, lo rassicurano, cambiano in continuazione le bende di lino che gli avvolgono mani e piedi, tagliano e cuciono nuovi cappucci, escogitando teli e visiere che possano tenergli lontano il riverbero della luce che cosí tanto lo fa soffrire. Lo vegliano di notte e di giorno affinché non sia mai solo, stringono le sue mani, lo confortano, leggono per lui, pregano con lui, ridono con lui nel tentativo di tenergli nascoste le lacrime che in silenzio versano, certi che lui non possa piú vederle. Elia, infine, il piú concreto tra loro, il piú dotato di forza d’animo, tenta un’ultima manovra, gli impone una cauterizzazione, che Francesco – dopo qualche riluttanza – si lascia fare dal medico di Rieti. Un intervento doloroso, che non migliora lo stato irreversibile e avanzato del suo glaucoma, che lo rende ormai quasi cieco.
Il rientro ad Assisi, sotto scorta
Dopo un breve soggiorno a Siena e a Cortona, i frati lo portano a dorso di cavallo fino a Bagnara, vicino a Nocera Umbra, dove hanno stabilito un nuovo convento. A tutti è ormai evidente che la morte siede in groppa al suo stesso cavallo, che Francesco peggiora di ora in ora, che potrebbe non passare la notte. Mentre SAN FRANCESCO
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LA LETTERA A UN MINISTRO Per comprendere appieno la personalità di Francesco, depurata dalle incrostazioni che i secoli hanno sedimentato attraverso l’accumulo di stereotipi, immagini artefatte, agiografie, oleografie, è necessario tornare a uno dei suoi scritti piú significativi, la Lettera a un ministro, forse indirizzata a frate Elia. Bastano le parole di questo scritto a spazzare via tanti dubbi e perplessità, fomentati da pagine di altisonante retorica, di fraintendimenti, di polemiche erudite, di croci interpretative mai risolte. Di seguito ne offriamo uno stralcio al lettore: «Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono d’impedimento nell’amare il Signore Dio, e tutti coloro che ti saranno d’ostacolo, sia fratelli sia altri, anche se ti picchiassero, tutto questo devi ritenere come una grazia (...) E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore e me servo suo e tuo, se tu farai cosí, ovvero che non vi sia alcun fratello al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che dopo aver visto i tuoi occhi, mai se ne vada senza la tua misericordia, qualora abbia chiesto misericordia. E se mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo piú di me per questo, affinché tu lo tragga al Signore; e abbi sempre misericordia per tali fratelli. E dillo ai guardiani, quando potrai, che tu sei deciso a fare cosí».
il suo cavallo giunge a Bagnara, la notizia del suo peggioramento torna ad Assisi, dove le autorità cittadine, messe in allarme, si affrettano a inviargli una guarnigione di uomini per riportarlo a casa. Rientrato ad Assisi, Francesco viene alloggiato, per ordine del vescovo, nel suo palazzo. Qui, seppur dolorante, esplode in una felicità insolita, euforica, quasi eccessiva e quindi disarmante; forse è la felicità di uno che è certo che i suoi tormenti finiranno presto, di chi è consapevole di giungere infine alla meta, di chi è sicuro di poter riposare a breve la fatica a lungo durata. I compagni scrivono che si fa spesso recitare le Lodi con l’accompagnamento di una cetra. Annotano che il palazzo del vescovo risuona di una musica continua e che questo finisce col mettere in imbarazzo frate Elia, il quale chiede a Francesco di tenere un comportamento piú
In alto Sposalizio mistico di san Francesco, tempera su tavola del Sassetta (al secolo, Stefano di Giovanni). 1450 circa. Chantilly, Musée Condé. Nella pagina accanto San Francesco in estasi, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
consono alla disperazione che avvolge la città a causa del suo gravissimo stato di salute. Nell’ultimo atto della sua vita, Francesco deve affrontare anche questioni meno amene delle preoccupazioni di frate Elia: gli attacchi alla sua Regola non si placano e tornano ora, in punto di morte, ad assillarlo. Per molti rivoli continua a giungergli richiesta di ammorbidirla, di espungerne i divieti piú duri, di alleggerirne il carico per i frati, di elargire concessioni. Le rivendicazioni sono sempre le stesse: i frati chiedono che sia concesso loro il possesso dei libri, di non essere obbligati al lavoro manuale, di poter accettare elemosine in danaro, di costruire conventi in muratura, di progredire nelle cariche e nella carriera ecclesiastica. Tutto ciò continua a suonare per Francesco come un attacco alla povertà, che resta per lui il fondamento della sua proposta di vita. Solo la poSAN FRANCESCO
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vertà può garantire la minorità, che è la sola chiave con cui i frati devono leggere e interpretare il progetto che ha definito per loro. I suoi allora lo incitano, lo spronano, lo pregano, lo supplicano di dare un segnale, di compiere un gesto, di punire i ribelli, di agire contro gli abusi, di correggere le deviazioni, di riprendere il controllo dell’Ordine prima che sia troppo tardi. Francesco rifiuta. Solo con l’esempio e l’esortazione – ricorda ai suoi – è loro concesso di procedere, mai con la coercizione e la punizione, come fanno i potenti della Terra.
Le ultime ore dell’Assisiate
Dopo averlo trattenuto, per alcune settimane, tra le mura di pietra della sua dimora, il vescovo decide, infine, di lasciarlo andare: Francesco vuole tornare alla Porziuncola, vuole morire nel piccolo villaggio rurale, dove ha iniziato a fare vita comune con i suoi primi compagni. Su quel fazzoletto di terra, posto sulla piana umbra ai piedi della città, sorge la sua chiesa amata, quella donatagli dall’abate del Monte Subasio vent’anni prima. Ora che la fine è prossima, Francesco vuole tornare in quel luogo prediletto, e il vescovo non intende piú negargli ciò che continua a chiedere. Dà cosí disposizione che, su una lettiga, venga scortato alla Porziuncola. Anche le autorità comunali accettano infine che egli si allontani dalla loro sorveglianza. L’essenziale è che Francesco resti all’interno della giurisdizione cittadina, in modo che, dopo il decesso, sia riportato presso la cinta muraria, dove sarà possibile garantirgli una vigilanza serrata. Quel corpo appartiene alla città, e nel volerlo assicurare alla protezione delle sue mura, le autorità laiche e religiose sono concordi. Francesco sa che i suoi compagni hanno iniziato a fare reliquie con gli oggetti che gli sono appartenuti. Sa che Leone – forse il piú amato tra i suoi – da tempo porta cucite addosso le sue lettere. Sa pure che molti dei suoi custodiscono gelosamente frammenti della sua tonaca, pezzetti del suo cordone, ma non giudica quell’ostinazione nel volerlo trattenere, come una contravvenzione alla sua Regola. Fino ad allora ha trattato con molta durezza i frati che hanno preteso di mitigare la sua interdizione assoluta a ogni forma di possesso. Fino ad allora ha smontato, uno a uno, tutti gli alibi che alcuni hanno avanzato per attenuarne i divieti. Ora, però, sebbene abbia piú volte ricordato ai suoi frati che l’essenziale è rimanere uniti nello spirito, di fronte a quel tentativo di trattenere un pezzetto di lui, come fosse un frammento 110
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del suo affetto, non appare piú cosí rigido. Francesco sa quanto giova loro essere riconfortati dalla sua presenza; sa che tante volte la semplice vista del suo volto, il contatto con le sue mani o col panno ruvido della sua tonaca hanno avuto il potere di risollevare i loro animi fiaccati dalla tempesta, e lui stesso – anche quando non lo riteneva del tutto necessario – ha concesso loro quel beneficio. Lui stesso, del resto, ha sperimentato piú volte la forza consolatrice della loro vicinanza. Piú di una volta, nelle tribolazioni, la loro presenza ha avuto il potere di calmarlo, di fargli riprendere coraggio, di restituirgli le energie consumate.
Tutti i compagni al capezzale
Questa è infine l’ora della verità, quella in cui ogni frate in cuor suo deve misurare fino in fondo il suo reale grado di vicinanza a Francesco e a quella Regola che lui ha scritto per loro. Anche i frati che l’hanno duramente contestato, che l’hanno combattuto per quella sua monolitica ostinazione sulla strada della povertà, in questa notte fatale, quando il suo trapasso è ormai prossimo, devono fare i conti con la sua figura. Una cosa, infine, è certa: ognuno, in questo epilogo, vorrebbe stringersi attorno a Francesco, vantare meriti particolari presso di lui, assicurarsi il conforto della sua
Sulle due pagine una veduta dell’esterno (qui sopra) e la Cappella della Maddalena del santuario di Fonte Colombo, presso Rieti. Qui, nel 1221, Francesco dettò la Regola dell’Ordine bollata da Onorio III e confermata dalla visione di Cristo.
fraterna benedizione, ma solo ai suoi è concesso di udire le sue ultime parole e di adempiere alle sue ultime volontà. I suoi compagni attestano che, sentendo la morte vicina, Francesco dà ordine a uno dei suoi di mandare a chiamare Jacopa de’ Settesoli (vedi box a p. 112), affinché venga a vederlo un’ultima volta prima che sia troppo tardi, e affinché porti i panni e i ceri necessari per la veglia funebre. Prima che il frate incaricato dell’ambasceria lasci il convento, la nobildonna romana si presenta davanti all’uscio della Porziuncola, come una madre in cerca del figlio. Forse la notizia della morte ormai prossima di Francesco ha raggiunto Roma, o forse sono stati la sollecitudine e l’affetto di Jacopa a
metterla in allerta, a spingerla a percorrere i tornanti dell’Appennino fino a giungere alla casa di Francesco.
Sulla nuda terra
Appena il tempo di udire ancora una volta la sua voce e di fargli ascoltare di nuovo la sua, poi i compagni lo portano a braccia fuori dal convento. È giunta l’ora di dare corso alle sue ultime volontà: Francesco vuole essere steso sulla terra nuda. E, nonostante siano abituati a piegarsi alle sue scelte piú radicali, è straziante, adesso, acconsentire a quell’ultima richiesta di essere adagiato sul suolo freddo e scuro. Ora che, minuto dopo minuto, le sue membra si fanno deboli e che, come mai, i compagni vorSAN FRANCESCO
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La Regola
Donna Jacopa e il dolce che piaceva a Francesco Jacopa de’ Settesoli fu una nobildonna romana, sposata con Graziano Frangipane del ramo dei Settesoli, una delle piú potenti famiglie della città. I figli, Giovanni e Giacomo, ricoprirono importanti cariche politiche per il Comune di Roma. Si suppone che Francesco l’avesse conosciuta in occasione dei numerosi soggiorni romani a cui nelle fonti si fa chiaro riferimento. Molte nobili romane si dedicavano all’assistenza dei poveri e probabilmente Jacopa dovette dare ospitalità a Francesco. Iniziò cosí quel rapporto di amicizia che dovette poi portare piú volte Jacopa ad Assisi, fino a risiedervi stabilmente negli ultimi anni di vita. «Frate Jacopa», la chiamava Francesco, a indicare probabilmente che anch’essa facesse la vita dei frati, dedicandosi alla carità e alla cura dei malati. Morí intorno al 1239 e fu sepolta accanto all’altare maggiore della Chiesa Inferiore di Assisi. Ancora oggi è possibile vedere la sua tomba, situata davanti a quella di Francesco, nella cripta della basilica, risistemata tra il XIX e il XX secolo. Vi proponiamo qui di seguito uno stralcio della testimonianza dei compagni. contenuta nella Compilazione di Assisi: «Un
MOSTACCIOLI DI SAN FRANCESCO
✓ INGREDIENTI 250 g di mandorle; 125 g di miele; due albumi; una presa di pepe; una presa di cannella; 150 g di farina. ✓ PREPARAZIONE mettere a bagno le mandorle in poca acqua bollente, spegnere il fuoco e coprire con un coperchio. Dopo qualche minuto, scolare le mandorle un po’ alla volta e spellarle. Pestare le mandorle insieme a miele, albumi, pepe e cannella. Ottenuta una pasta omogenea, versarla sulla spianatoia e aggiungere la farina fino a ottenere una pasta piuttosto consistente. Stendere la pasta e farne listerelle di circa 4 centimetri. Adagiare i biscotti sulla teglia leggermente unta e infarinata (rimuovere la farina in eccesso) e cuocere a forno leggero per circa 20 minuti, lasciare raffreddare i biscotti prima di toglierli dalla teglia.
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giorno Francesco fece chiamare i suoi compagni e disse: “Voi sapete come donna Jacopa dei Settesogli fu ed è molto fedele e attaccata a me e alla nostra fraternità. Io credo che, se la informate sul mio stato di salute, ne trarrà grande consolazione e giovamento. Fatele sapere, in particolare, che per confezionare una tonaca, vi mandi del panno grezzo color cenere, del tipo di quello tessuto dai monaci cistercensi nei paesi d’oltremare. E mandi pure un po’ di quel dolce che mi preparava quando soggiornavo a Roma”. Si tratta del dolce che i romani chiamano mostacciolo, ed è fatto con mandorle, zucchero o miele e altri ingredienti. Jacopa era una donna spirituale, vedova, devota a Dio, una delle piú nobili e ricche signore di Roma (...). Scritta che fu la lettera, secondo le indicazioni del padre santo, un frate stava cercando qualcuno per recapitarla, quando si udí bussare alla porta. Il frate che corse ad aprire si trovò davanti Jacopa, venuta da Roma in gran fretta per visitare Francesco. Senza por tempo in mezzo, il frate tutto felice andò da Francesco ad annunziargli l’arrivo della signora e di suo figlio e di numerose altre persone. E gli domandò: “Padre, che facciamo? Dobbiamo lasciarla entrare e accostarsi a te?”. In effetti, per volontà di Francesco, era stato stabilito, e ciò fin dai primi tempi, che in quel convento nessuna donna potesse entrare per salvaguardare l’onestà e il raccoglimento di quella dimora religiosa. Rispose Francesco: “Il divieto non vale per questa signora, che una tale fede e devozione ha fatto accorrere da cosí lontano”. Jacopa entrò dunque da Francesco, ma quando lo vide si mise a piangere. Tutti si stupirono che essa avesse recato con sé il drappo funebre color cenere per confezionare la tonaca, e tutte le altre cose che le erano state richieste nella lettera. La straordinaria coincidenza lasciò attoniti i frati, che vi scorsero un segno della santità di Francesco. Donna Jacopa si rivolse loro e spiegò: “Fratelli, mentre stavo pregando, mi fu detto in spirito: – Va’ e visita il tuo padre Francesco. Affrettati, non indugiare, poiché se tu tardi non lo troverai vivo. Gli porterai quel tale panno per la tonaca, e il necessario per preparargli un dolce. Prendi con te anche gran quantità di cera per fare dei lumi e altresí dell’incenso – (...)”. Donna Jacopa preparò poi il dolce che piaceva a Francesco. Ma egli lo assaggiò appena, poiché per la malattia era molto grave e le sue forze venivano meno e si avvicinava alla morte».
In alto San Francesco addita uno scheletro, affresco del ciclo con storie dei miracoli postumi dell’Assisiate realizzato nella Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco di Assisi e attribuito a Giotto e alla sua bottega. 1310 circa. Nella pagina accanto, in alto la tomba di Jacopa de’ Settesoli nella Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco di Assisi.
rebbero tenerlo al caldo, avvolgerlo in panni morbidi, proteggerlo dal vento gelido che già, in quei primi giorni d’ottobre, soffia maligno dal Subasio, è duro cedere alla sua ostinazione di tornare nudo alla terra nuda. È l’ora in cui il giorno cede il passo alla notte, il vento si placa e un volo d’allodole si leva in cerchio sul tetto del convento: i frati si stringono attorno al compagno ormai morto. SAN FRANCESCO
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Nessuno tocchi Francesco Stanco e malato, l’Assisiate sente che la sua vicenda terrena sta per chiudersi e si fa portare per un’ultima volta alla Porziuncola. Steso sulla nuda terra e circondato dai compagni, chiude gli occhi per sempre. Al dolore e allo sgomento di quanti l’avevano seguito e amato si unisce allora la determinazione a impedire che la devozione nei suoi confronti possa trasformarsi in idolatria
Esequie di San Francesco, nel ciclo delle Storie di San Francesco affrescato da Domenico Ghirlandaio nella Cappella Sassetti della chiesa di S. Trinita a Firenze. 1482-1485. SAN FRANCESCO
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a mattina del 4 ottobre, un corteo di uomini armati, sempre gli stessi, guidati dalle autorità cittadine e da quelle religiose, scende insieme alla popolazione a riprendere Francesco per riportarlo a monte. All’altezza dell’ospedale, la processione devia sulla destra per raggiungere il convento di S. Damiano, affinché si compia la volontà espressa dal futuro santo di permettere alle sorelle di rivederlo. Davanti al sagrato del convento, Chiara può riabbracciare quel corpo tanto amato. Passato S. Damiano, il corteo guadagna, attraverso la porta sud della città, la chiesa di S. Giorgio, una delle piú piccole di Assisi, ma che è stata parrocchia di
Francesco. Sorge proprio a ridosso delle mura, da dove una sentinella, dall’alto del torrione, potrà vegliare la salma durante le ore notturne. Francesco viene portato nella navata centrale. La cassa di legno viene riposta dentro un sarcofago di pietra, un sarcofago semplice, di travertino, senza alcuna decorazione, ma rivestito ai lati di alcune sbarre di ferro, chiuse da sigilli che non permetteranno, neppure agli stessi frati, di aprire l’arca senza previa autorizzazione papale. Nessun frate si sente offeso da quelle misure, prese in primo luogo contro di loro. Molte volte in passato è stato fatto orrendo mercato intorno ai corpi; nella memoria collettiva è ancora vivo
A sinistra Morte di san Francesco, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
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il ricordo della quarta crociata, quando a Costantinopoli torme impazzite di soldataglia avevano fatto strage di molte reliquie, mostrando di non avere alcun rispetto per i resti dei martiri, smembrati, dispersi o messi all’asta.
Una miriade di reliquie
Ma il rito macabro di mutilare gli arti dei corpi santi non era prerogativa esclusiva di mercenari e trafficanti; esso si era diffuso anche presso il clero, nonostante i ripetuti interdetti espressi da pontefici autorevoli come Gregorio Magno, che aveva negato la testa di Paolo alla stessa imperatrice Costantina. Duecento anni piú tardi, pe-
rò, sotto Pasquale I, al tempo delle grandi traslazioni dalle catacombe romane, una miriade di reliquie aveva preso la via delle chiese europee di nuova fondazione. Che questo fosse accaduto ai martiri, morti a migliaia negli anfiteatri romani, sepolti in maniera non sempre identificabile, vissuti in tempi talmente lontani da non potersene conservare – in qualche caso – alcuna memoria, non poteva turbare piú di tanto gli animi. Ma che questo accadesse a Francesco, morto da poco e vivo ancora in mezzo a loro, non era neppure immaginabile. I frati della Porziuncola e i cittadini di Assisi su questo punto formavano un fronte compatto:
Girolamo esamina le Stimmate, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
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Nella pagina accanto La canonizzazione di san Francesco, nel ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
neppure la piú piccola parte del suo corpo sarebbe stata toccata, e mai, in nessun reliquiario, in nessun altare, in nessuna cripta, si sarebbe trovata l’indicazione «Francesco de Ascesio». Dopo la deposizione definitiva, il suo corpo non sarebbe piú stato portato in processione alla luce intensa e surreale delle fiaccole, al canto commosso e corale dei fedeli, esposto al rischio di possibili intemperanze della folla. I fedeli non si sarebbero mai stipati nel deambulatorio di una cripta sotterranea per impetrare la sua protezione celeste. Le pietre della sua tomba non sarebbero mai state rese incandescenti dal brulicare di centinaia di lumicini accesi, né le pareti del suo sacello sarebbero state tappezzate da file sterminate di ex voto, come accadeva nei grandi santuari del mondo antico e della cristianità. Al corpo di Francesco non sarebbe stato chiesto d’illuminare con la sua vicinanza la sepoltura privilegiata di laici facoltosi o di prelati influenti, a lui non ci si sarebbe rivolti per ottenere grazia, ma per cambiare vita.
La canonizzazione
Appena due anni dopo la morte, Francesco viene proclamato santo. Piú d’uno ha rilevato come, nel caso dell’Assisiate, l’inquisitio abbia rispettato solo formalmente la procedura, perché Gregorio IX aveva di fatto già deciso di proclamarlo santo. Di norma, erano i postulatores a recarsi dal papa per impetrare l’apertura del processo: un laico, un vescovo, un abate, una comunità di fedeli, chiunque poteva presentare istanza presso la Curia pontificia. Molte erano le richieste, lunghissimi i tempi d’attesa, pochissime le risposte favorevoli. Nel caso di Francesco, però, il procedimento era andato in senso inverso, la richiesta non era partita dal basso per raggiungere i vertici della Chiesa, ma a ordinare l’apertura del processo era stato appunto il pontefice, Gregorio IX, il quale aveva conosciuto personalmente Francesco e non nutriva il minimo dubbio in merito alla sua eccezionalità. Tuttavia, l’iter procedurale imponeva alcune cautele, come, per esempio, l’attestazione dei miracoli. Senza miracolo, nessuna santità era possibile. Lo aveva lasciato scritto Innocenzo III, predecessore di Gregorio: «I meriti senza miracoli o i miracoli senza meriti sono insufficienti ad attestare la santità, dal momento che anche i maghi del Faraone erano in grado di compiere prodigi». Per questo, nella bolla di canonizzazione, Gregorio IX precisa di aver indagato non solo i «tratti singolari della sua vita», ma anche lo «splendore dei suoi miracoli».
Il 16 luglio del 1228, infine, una processione di cardinali e vescovi, vestiti di bianco come i ventiquattro vegliardi dell’Apocalisse, seguiti da una schiera compatta di sacerdoti, abati e frati avanzò solenne per le vie di Assisi, facendo da sacro corteggio al vicario di Cristo, rifulgente nell’oro dei suoi alti paramenti liturgici e, al canto del Te Deum laudamus, s’arrestò infine sul luogo apparecchiato per la cerimonia di canonizzazione. Alcuni mesi prima, Gregorio IX aveva dato incarico ai frati di Assisi di comprare un terreno per conto della Curia. Su quel terreno doveva sorgere una basilica grandiosa, destinata a divenire la nuova tomba di Francesco. Era già aumentato il numero di quelli che volevano vederlo, di quelli che volevano sostare accanto alle sue ossa per respirare la sua presenza, che, per quanto intrappolata in un carcere di pietra, era lí e non altrove. Frate Elia, al quale Francesco, negli ultimi anni di vita, aveva affidato la cura dell’Ordine, individuò il sito per la nuova costruzione sul declivio nord della città, una zona denominata «colle infero», ossia inferiore, ma anche «inferno» in memoria delle esecuzioni capitali che un tempo vi si tenevano. Aspro, boscoso, marginale, questo luogo sembrava rispondere appieno all’inquietudine segreta di frate Elia, cui pure era affidato l’incarico di raccogliere i fondi necessari per l’avvio dei lavori. Gregorio lo sostenne con una bolla che accordava un’indulgenza speciale a quanti avrebbero finanziato l’opera. Alcuni – pochi in realtà – furono spinti dalla promessa di Gregorio di ottenere in cambio dell’obolo una cancellazione di pena, altri – molti di piú – nell’offrire la loro pietra, pensarono con orgoglio a quanti, risalendo il colle, negli anni a venire, avrebbero rivolto loro parole di gratitudine per aver permesso la realizzazione di quella straordinaria costruzione. Ma quale immagine di Francesco e dell’Ordine stava costruendo Elia con quella mastodontica basilica? Non aveva forse detto Francesco che per sé e per i suoi non voleva case in muratura? Come spiegare allora quel passaggio dalla terra nuda al monumentale cantiere del colle Inferno? Elia era cosciente di questa contraddizione? Perugia, scavalcando i frati, aveva chiesto al pontefice di accogliere i resti di Francesco entro le sua mura, per garantire loro una vigilanza piú adeguata. Da piú parti si vociferava che la modesta Assisi non fosse in grado di gestire l’aumentare progressivo del flusso dei pellegrini e non disponesse neppure di uno spazio adeguato ad accoglierli. Si sussurrava che un santo (segue a p. 122) SAN FRANCESCO
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Papa Niccolò V visita la tomba di san Francesco, olio su tela di Gerard Douffet. 1627. Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen. 120
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UNA TOMBA SPOGLIA Assisi, basilica di S. Francesco, Cripta. Due immagini dell’interno: uno scorcio della navata unica della chiesa (a sinistra), che termina con l’altare maggiore, addossato al sacello in pietra che circonda il sarcofago del santo (in basso).
La cosa che piú colpisce chi si rechi ad Assisi per la prima volta è che il santo di fama mondiale che lí vi è sepolto non sia venerato in un santuario brulicante di candele accese, tappezzato di ex voto, cosparso da letterine e foto di richiedenti grazia. Al contrario, la tomba è mantenuta sobria e spoglia e il sarcofago – a vista – è senza abbellimento alcuno. Si definisce «santuario» quello spazio sacro in cui un corpo, una reliquia, un’icona, un’immagine, custoditi al suo interno, siano ritenuti capaci di compiere miracoli. I frati di Assisi non hanno mai permesso che il sepolcro di Francesco venisse trasformato in santuario. La sua tomba, in perfetta coerenza con il suo messaggio, si presenta, come già sottolineato, sobria ed essenziale. Frate Elia, che per primo si occupò della costruzione della basilica, volle, come abbiamo visto, sottrarre Francesco alla venerazione idolatrica, tanto da murare ogni possibile accesso al sacello sotterraneo. Il fatto che la sua tomba fosse stata resa inaccessibile fece nascere nei decenni e nei secoli successivi leggende fantasiose circa i motivi che l’avevano voluta irraggiungibile. Nel 1818, infine, fu scavato un tunnel che permise di raggiungere il sarcofago, di cui dal XV secolo si erano perse le tracce. Fu scoperto là dove tuttora si trova, sotto l’altare maggiore della Chiesa Inferiore. Nel 1823, attorno al ritrovato sacello, fu ricavata una piccola cripta in stile neoclassico. Tra il 1925 e il 1936 – fortunatamente – venne commissionata una nuova risistemazione della cripta, affidata all’archietetto fiorentino Ugo Tarchi. Questi aveva studiato a lungo nel capoluogo umbro, dove aveva potuto immergersi e comprendere appieno la bellezza delle sue strutture medievali, che tornarono a influenzarlo al momento dell’incarico ad Assisi. La volontà di eseguire un restauro «filologico» lo portò a realizzare una cripta in dialogo con la basilica che le viveva premuta addosso. A lui dobbiamo l’aspetto sobrio e austero dell’attuale cripta, un aspetto assai diverso da quello vistosamente artefatto della cripta precedente e di quella – poco distante – realizzata negli stessi anni – da altra mano – nella basilica di S. Chiara.
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Gli autografi del santo Stupisce non poco che, a fronte della vulgata che fa di Francesco un santo ingenuo e ignorante, egli ci abbia lasciato una trentina di scritti. Il dato è ancor piú interessante se confrontato a quanto avvenne per san Domenico, il frate dotto per eccellenza, che invece non ci ha lasciato alcunché di scritto. Sorprendente è anche il fatto che di Francesco si conservino due autografi, mentre non possediamo neppure una riga di Dante, per esempio. I due autografi pervenuti fino a noi sono la Chartula di frate Leone (conservata nella
Chiesa Inferiore della basilica di S. Francesco ad Assisi, nella Cappella delle Reliquie) e la Lettera a Leone, custodita nella cattedrale di Spoleto (Cappella delle Reliquie). Da notare che entrambe le lettere sono scritte in latino, lingua nella quale, quindi, Francesco scriveva correntemente. La prima, la Chartula, contiene sul verso della pergamena le Lodi di Dio Altissimo, mentre sul recto una benedizione per frate Leone, corredata da un tau disegnato, che termina in una testa d’uomo. Si direbbe che Francesco abbia, per prima cosa, disegnato il tau, simbolo di salvezza per quanti facessero penitenza. Le righe scritte da Francesco sono corredate da alcune annotazioni vergate in inchiostro rosso, da altra mano, quella di frate Leone, che spiegano le circostanze nelle quali egli ricevette quella carta «post visionem et allocutionem seraphym et impressionem stigmatum Christi in corpore suo» («dopo la visione e il dialogo col Serafino e l’impressione delle stimmate sul suo corpo»). È stato ipotizzato che Leone abbia aggiunto questa nota nel momento in cui decise di separarsi dalla reliquia per farne un oggetto di venerazione pubblica. Una nota simile – datata tra il 1257 e il 1260 – compare, infatti, anche sul foglio di guardia del cosiddetto Breviario di san Francesco (basilica di S. Chiara, Cappella del Crocifisso), nel quale Leone attesta che il manoscritto era di proprietà di Francesco e dei compagni Angelo e Leone e supplica Benedetta, badessa del monastero di S. Chiara, di custodirlo e tramandarlo alle generazioni future. Il secondo autografo è la Lettera a frate Leone, scritta probabilmente prima del 1218, data a partire dalla quale Leone rimase quasi sempre insieme a Francesco e non avrebbe avuto, quindi, bisogno di comunicare con lui attraverso lettera. Il testo consta di 19 righe, le ultime 4 delle quali – secondo i filologi – sarebbero state aggiunte in un secondo momento; a ciò farebbe pensare il cambio di penna e di modulo. In un primo momento, Francesco dovette scrivere all’amico che non sarebbe stato necessario tornare da lui, ma poi, intuendone la delusione, aggiunse: «Ma se proprio vuoi venire da me per un’ulteriore consolazione, vieni pure». Dobbiamo la conservazione dei due autografi al fatto che Leone li custodí come preziose reliquie e ricordi del suo amico e compagno.
troppo grande fosse nato in un borgo troppo angusto per contenere gli effetti visibili della sua fama crescente. Disinnescare «le premure» dei Perugini e di quanti intendevano farsi avanti con la pretesa di gestire il culto di Francesco dovette essere l’assillo segreto di frate Elia: far nascere in fretta ad Assisi una chiesa all’altezza delle grandi basiliche cristiane. Nel maggio del 1230 la costruzione della Chiesa Inferiore era infine sufficientemente avanzata da consentire la traslazione del corpo di Francesco al suo interno. Mancavano ancora le 122
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Sulle due pagine alcune immagini delle due pergamene autografe di san Francesco. Nella pagina accanto, recto della Lettera a Leone (Spoleto, Duomo); a sinistra, e, in alto, verso e recto della Chartula di frate Leone (Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore).
cappelle laterali e l’altare, ma quel che premeva a Elia era pronto: un sacello nascosto, scavato nella roccia, tre metri sotto il presbiterio. La processione, che da S. Giorgio si mosse compatta al seguito del feretro, venne bruscamente fermata davanti alle porte della basilica e l’interramento si chiuse alla sola presenza di Elia e di pochi uomini di sua fiducia. La milizia cittadina sbarrò l’accesso alla folla scomposta degli Assisani e agli oltre duemila frati convenuti da tutta Europa per assistere alla deposizione di Francesco nella nuova tomba. I con-
venuti, allora, vedendosi impedita l’entrata, reagirono con ferocia, provocando feriti e malori nel tentativo di forzare lo sbarramento delle guardie. Altre volte, in occasione di traslazioni simili, era accaduto che qualcuno avesse forzato il feretro per stornare un pezzo di veste, un capello, un’unghia. Elia, allora, d’accordo con le autorità comunali, aveva disposto quelle misure d’urgenza. Misure che dovevano allontanare Francesco da una venerazione idolatrica e dalle mire di quanti sul suo corpo volevano fare un basso commercio. SAN FRANCESCO
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Francesco è qui!
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La basilica del santo ad Assisi
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Assisi. Il complesso della basilica di S. Francesco, comprendente due luoghi di culto sovrapposti (Chiesa Superiore e Chiesa Inferiore), nonché il Sacro Convento. La costruzione della basilica ebbe inizio nel 1228, all’indomani della canonizzazione dell’Assisiate e gli altari vennero solennemente consacrati da papa Innocenzo IV nel 1258.
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A sinistra l’altare maggiore della Chiesa Inferiore, sormontato dalla volta a crociera sulla quale alcuni allievi di Giotto affrescarono le Allegorie francescane. 1315 circa.
Sulle due pagine spaccato assonometrico della basilica di S. Francesco. Appare evidente l’articolazione del complesso, costituito dalla Chiesa Superiore e da quella Inferiore. In piú, al di sotto della seconda, si sviluppa la Cripta, al cui interno è collocata la tomba di san Francesco. A destra schema della paternità dei cicli affrescati che si possono ammirare nella Chiesa Superiore.
Cimabue e aiuti Jacopo Torriti e i Romani Maestri di cantiere Maestro della Cattura Maestro dell’Andata al Calvario Maestro di Isacco (Giotto ?) Maestri di cantiere/Giotto e altri (?) Giotto e bottega Maestro del Crocifisso di Montefalco (?) perduto
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A sinistra e in basso, a sinistra due vedute della navata della Chiesa Superiore. Agli affreschi lavorarono piú artisti, che, a loro volta, si avvalsero di varie squadre di aiutanti. I cicli presentano episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, e, nella fascia inferiore, le Storie francescane. Qui sotto e nella pagina accanto particolari di due riquadri ai lati di una delle vetrate della Chiesa Superiore, attribuiti al Maestro di Isacco: la Benedizione di Isacco a Giacobbe (qui sotto) e Esaú respinto da Isacco. 1290 circa.
1226, 2-3 ottobre Morte di san Francesco. 1228, 29 marzo Viene donato un primo appezzamento di terreno da destinare alla costruzione. 1228, 16 luglio Papa Gregorio IX procede alla canonizzazione di san Francesco. 1228, 17 luglio Lo stesso papa presiede la posa della prima pietra della basilica. 1230, 25 maggio Cerimonia di traslazione del corpo di san Francesco dalla chiesa di S. Giorgio alla basilica. 1253, 25 maggio Papa Innocenzo IV procede alla solenne consacrazione degli altari.
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VO MEDIO E Dossier n. 23 (novembre 2017) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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100 (basso), 113, 114/115, 116; Electa/Antonio Quattrone: pp. 16/17, 101, 102/103; Electa: pp. 18, 75; Electa/Sergio Anelli: pp. 22/23, 42/43; Electa/Arnaldo Vescovo: pp. 51, 54/55, 63, 77; AGE: pp. 110-111 – Doc. red.: pp. 20, 21 (alto), 23, 50, 64, 69, 80-83, 87, 92/93, 112, 122-129 – Shutterstock: pp. 24/25, 28/29, 46-49, 62, 64/65, 70-71, 100 (alto), 106-107 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée de Cluny-Musée national du Moyen-Âge)/René-Gabriel Ojéda: p. 58; su concessione MiBACT/Finsiel: p. 97; Blauel/Gnamm/Artothek: p. 120; Franco Cosimo Panini Editore ©/su licenza Alinari: p. 121 – Marka: Alain Schroeder: p. 74 – Bridgeman Images: pp. 90/91, 92 – Patrizia Ferrandes: cartina alle pp. 32/33. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: San Francesco d’Assisi (particolare), tempera e oro su tavola, aureola raggiata in rilievo, attribuito a Cimabue. 1290 circa. Assisi, Museo della Porziuncola.
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