IL MILLENNIO DEGLI ANIMALI
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N°43 Maggio/Giugno 2021 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 18 MAGGIO 2021
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Dossier
IL MILLENNIO DEGLI
ANIMALI STORIE DI UOMINI, FIERE E LUPI MANNARI
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EDIO VO M E
IL MILLENNIO DEGLI
ANIMALI
STORIE DI UOMINI, FIERE E LUPI MANNARI testi di
Duccio Balestracci, Hippolyte Courty, Claudio Corvino, Enrico Faini, Paolo Galloni, Lorenzo Lorenzi, Alessandro Savorelli e Domenico Sebastiani
PRESENTAZIONE 6. Un rapporto molto speciale
ANIMALI SELVATICI ED ESOTICI 66. Liberi per natura
NOI E GLI ANIMALI 8. Insieme da sempre
LA SCIMMIA 76. Quel «parente» poco amato
IL CANE 20. Compagni di caccia
IL LEONE 86. Sia lode al re!
L’ORSO 28. Cosí bestiale, cosí umano!
ANIMALI FANTASTICI 98. Prodigi viventi
LA LEPRE 48. O la fuga o la vita
I LUPI MANNARI 108. Stregati dalla luna
IL CAVALLO 56. Una storia al galoppo
LA FENICE 120. La magnifica illusione
GLI UOMINI E I VALORI DI UN GRANDE PASSATO
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MAGIA
Presentazione
Un rapporto molto speciale Miniatura raffigurante un segugio che, tenuto da un valletto, segue una pista, da un’edizione del Livre de la chasse di Gaston Fébus illustrata sotto la direzione del Maestro dell’Épître d’Othéa. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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rovavano affetto per gli animali gli uomini del Medioevo? Erano sensibili ai loro bisogni e alle loro sofferenze? Se lo chiede Chiara Frugoni, in apertura di un suo libro dedicato alla storia di un rapporto molto speciale (Uomini e animali nel Medioevo. Storie fantastiche e feroci, il Mulino, Bologna 2018).
Il Medioevo, come i lettori potranno scoprire sfogliando le pagine di questo Dossier, è stato anche «il millennio degli animali». Nessun’altra epoca, infatti, ci ha trasmesso una tale profusione di immagini – scolpite, dipinte, miniate e narrate – di animali reali e quotidiani, ma anche fantastici e spaventosamente ibridi. Attingendo – e non potrebbe essere altrimenti – al grande patrimonio «animalistico» del mondo antico, con l’aggiunta, però, di una propria, inconfondibile cifra. Perché, come sottolinea Enrico Faini nel capitolo introduttivo di questo Dossier, il Medioevo «è, per molti, il periodo del dominio della natura sull’uomo, delle foreste brulicanti di lupi famelici, della peste, del freddo e del buio». È l’età della paura, e a pagarne lo scotto sono, su molteplici piani, proprio gli animali. Addomesticati e sfruttati, temuti e raramente amati, impersonano – esorcizzandolo – l’altro da sé, l’ignoto, il pericolo. Eppure all’uomo medievale quegli animali, infinite volte immaginati e raffigurati, erano essenziali quanto gli esemplari in carne e ossa... Torniamo, però, alla domanda iniziale: esisteva, nelle donne e negli uomini di quel millennio, una qualche consapevolezza «animalista»? Per Chiara Frugoni la risposta è, perlopiú, negativa, con un’unica, vistosa eccezione, naturalmente: quella di Francesco, il santo che agli animali aveva estorto, con religiosa gentilezza, un privilegio altrimenti irraggiungibile: quello di poter parlare con loro. Chiara Frugoni ci ricorda un argomento su cui è necessario continuare a riflettere. Lo dobbiamo a quei nostri, meravigliosi, «fratelli minori»...
Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI di Enrico Faini
Insieme da sempre Sin dalle sue origini, l’umanità vive con gli animali. Scegliendo di stabilire, con alcune specie, rapporti particolarmente stretti e… reciproci. E facendo nascere, cosí, «amicizie» solide e millenarie, ma anche diffidenze e tenaci paure
Particolare di una miniatura raffigurante l’Arca di Noè, dall’edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liebana nota come Rylands Beatus. Produzione spagnola, fine del XII-inizi del XIII sec. Manchester, The John Rylands Library. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI
Storia di un rapporto antico
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a che mondo è mondo, cosí si dice, il gatto mangia il topo e il cane morde il gatto. Come per le maschere della Commedia dell’Arte, possiamo prevedere le fughe, gli inseguimenti, le zuffe e, qualche volta, ne ridiamo divertiti. Cartoonists astuti non hanno fatto altro che usare lo stesso trito canovaccio per i vari Gatto Silvestro, Speedy Gonzales, Tom e Jerry. L’inimicizia tra queste specie è proverbiale, eppure si ostinano a convivere sotto lo stesso tetto: la casa dell’uomo. Non è sempre andata cosí. Intendiamoci: non troveremo un’epoca passata nella quale cane e gatto passeggiavano insieme amabilmente, accompagnati dagli squittii di topolini festanti; tuttavia, prima che l’uomo diventasse il maggior accumulatore di grano (surclassando qualsiasi topo) e prima che si affermasse agli occhi dei cani come il miglior cacciatore esistente sulla faccia della terra, le tre specie non avevano cosí tante occasioni di incontro. Seimila anni fa, Gatto Silvestro e Speedy Gonzales non avrebbero fatto ridere nessuno. Gli animali hanno una storia, dunque: spesso un riflesso di quella umana, delle modificazioni imposte agli ambienti naturali dalle attività dell’uomo. Una storia non scritta sulle tavolette d’argilla o sulle pergamene, ma nel DNA delle specie che gli uomini, piú o meno volontariamente, hanno contribuito a selezionare.
Una nuova rivoluzione agricola
Il Medioevo, per molti, è il periodo del dominio della natura sull’uomo: delle foreste brulicanti di lupi famelici, rifugio di briganti non sempre pronti a rubare ai ricchi per dare ai poveri. È anche l’età della peste, del freddo, del buio. C’è del vero in questa immagine stereotipata, almeno per i secoli V-IX. Il tracollo demografico seguito alla fine dell’impero romano si tradusse nell’abbandono di ampie zone coltivate, nell’impaludamento di molte pianure, nello spopolamento delle città. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che i secoli XI, XII e XIII furono quelli della rivoluzione agricola, dello sviluppo urbano, della nascita di una rete di commerci che andava dalle Colonne d’Ercole alla Cina. Simili modificazioni dell’ecosistema non potevano avvenire senza incidere profondamente sulla storia degli animali. Come è esistito un Medioevo per gli uomini, ce ne è stato uno anche per le bestie. Accanto agli uomini gli animali dissodarono i campi, ingrassarono in tempo di abbondanza, patirono la fame in tempo di carestia, viaggiarono e in qualche caso salirono sul rogo. Ai margini delle 10
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
DOMESTICI, MA NON TROPPO In secoli di esperienza gli uomini sono riusciti ad allevare le api, ma non possiamo dire che le abbiano domesticate. Sono riusciti ad ammaestrare qualche orso, perfino ad ammansire qualche lupo, ma non a domesticare completamente i gatti. Allevare, ammansire, domesticare: occorre fare un po’ di chiarezza su queste parole. La domesticazione è un processo che coinvolge tutta una specie, non qualche individuo soltanto (in quel caso si parla di animale ammansito). Per poter considerare domestica una specie sono necessari almeno tre elementi: la riproduzione e la nutrizione devono essere sotto il controllo dell’uomo, inoltre deve esistere una certa familiarità tra gli uomini e gli individui della specie in questione. L’allevamento non implica di per sé un controllo diretto dell’uomo sulla riproduzione, né richiede alcun genere di familiarità. Cosí, per esempio, le api, allevate con tanta cura almeno dai tempi degli antichi Greci, non riconoscono il proprio padrone; inoltre, ogni sforzo per selezionare artificialmente razze migliori ha dato risultati deludenti. Perfino le renne, che da secoli i Lapponi seguono nei loro spostamenti, non sono realmente domestiche. Si possono dare anche casi di familiarità senza domesticazione. Ci sono specie che nutrono per l’uomo, istintivamente, una certa propensione (pensiamo ai delfini): questo fenomeno si chiama antropofilia degli animali. Non è necessario andare molto lontano per osservare un animale apparentemente domesticato, ma in realtà rimasto intimamente selvatico. Il nostro gatto è in grado di tornare alla vita libera in ogni momento; anzi, ognuno di noi sa che, nella vita di ogni gatto, c’è un momento in cui preferisce restare solo. Non resta che abituarci a queste sue alzate di testa e rimanere in casa in trepidante attesa del suo ritorno.
foreste, altri animali contesero all’uomo la selvaggina e i pascoli alle creature domestiche. Il Medioevo, inoltre, rappresenta una tappa intermedia in quel processo di domesticazione che ha portato oggi molte specie a essere quasi incapaci di vivere senza l’uomo. In Europa erano ancora diffusi i gatti selvatici, le linci, gli uri (i tori selvatici). I conigli non venivano ancora allevati nelle stie, ma in ampi recinti dove continuavano la loro vita selvatica e, per catturarli, occorreva organizzare cacce in piena regola. Per altri animali, come i cervi, era cominciato il processo di domesticazione; tuttavia l’impresa, nell’arco dello stesso Medioevo, sarebbe stata abbandonata, e oggi i cervi sono quasi il simbolo della natura selvaggia.
Pannello in vetro policromo raffigurante Tobia e Sara a letto, nella loro prima notte di nozze, ai cui piedi dorme un cane che, secondo il Libro di Tobia, accompagnò l’uomo nel viaggio che l’aveva portato a conoscere la moglie. Produzione tedesca, 1250 circa. Londra, Victoria and Albert Museum.
Allegoria del mese di Gennaio, particolare del ciclo affrescato da Niccolò Miretto nel Palazzo della Ragione di Padova. 1420-1425.
La scena mostra un momento di intimità familiare domestica, alla quale partecipano un gatto e un cane. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI
Storia di un rapporto antico
Gli Egiziani addomesticarono il gatto, incrociando quello guantato della Nubia con le piccole linci delle paludi 12
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Particolare di una miniatura raffigurante un gatto che cattura un topo, da un Libro d’Ore. XV sec. Clermont-Ferrand, Bibliothèque Municipale.
assai comune – e il ritorno delle loro navi cariche di merci (e di ratti), la diffusione di questo animale conobbe un sensibile aumento.
Una migrazione di massa
La peste è un ingrediente immancabile di ogni rappresentazione del Medioevo e, occorre riconoscerlo, ci sono buone ragioni perché sia cosí. Nell’antichità la peste era una malattia quasi sconosciuta in Occidente. La prima devastante comparsa del morbo si colloca proprio all’inizio dell’età di Mezzo, in quel VI secolo che vedeva l’Europa contesa tra regni barbarici e imperatori romani che parlavano greco. Proprio in quegli anni, secondo alcuni studiosi, fece la sua comparsa in Occidente il ratto nero (Rattus rattus), le cui pulci, passando all’uomo, potevano trasmettere il bacillo della peste bubbonica. Gli autori antichi conoscevano soltanto il topo (Mus musculus): il sospetto che l’untore fosse proprio il nuovo arrivato, il ratto, è forte. Ci furono senza dubbio fasi di espansione e di contrazione della popolazione di ratti neri, tuttavia, dopo i massicci contatti dei crociati con il Medio Oriente – dove la peste era endemica e il ratto
A destra, in alto miniatura raffigurante un gruppo di streghe che ascolta il diavolo in forma di gatto, da un’edizione de Le Champion des Dames del poeta Martin Le Franc. XV sec. Grenoble, Bibliothèque Municipale. Qui sopra Cacciatore di Topi, stampa di Jacopo Ruffoni, artista di probabili origini trentine, attivo tra Venezia, Padova, Vicenza e Verona. XVIII sec.
Dopo la peste del 1348, il periodico e frequente riproporsi del flagello ridusse grandemente, alla fine del Medioevo, la popolazione dell’Europa; né l’avvento dell’età moderna segnò la fine delle pandemie. Solo nel XVIII secolo la peste smise davvero di essere un incubo per gli Europei. Perché? Anche questa volta ci sarebbe lo zampino del ratto; la tesi è controversa, ma vale la pena di riportarla. Nel 1727 avvenne un fatto straordinario, quasi un prodigio biblico: milioni di ratti grigi (Rattus norvegicus) attraversarono il Volga e, dalle zone che tradizionalmente occupavano in Asia, si spinsero a colonizzare l’Europa. Forse fu la fame, o un orologio biologico che fece suonare per tutti l’ora della migrazione. Di fatto, questo animale – che sarebbe diventato la nostra pantegana, o surmolotto – occupando le fogne, i piani bassi e umidi delle case, avrebbe conteso al ratto nero parte del suo habitat, spingendolo ai piani alti o addirittura via dalle città, in tal modo allontanando lui e il suo pestifero parassita dall’uomo. Quando il ratto nero fece la sua comparsa in Occidente, gli uomini avevano imparato ormai da secoli ad avvalersi dei servigi del gatto contro i molesti inquilini dei granai. Non a caso i primi ad addomesticare i gatti furono anche i primi grandi accumulatori di grano della storia, gli Egiziani, circa 5000 anni fa. Il loro gatto domestico derivava dal gatto guantato della Nubia (Felis maniculata), che, forse, venne incrociato con le piccole linci (in realtà gatti) delle paludi (Felis chaus). Di certo, gli antenati dei nostri gattini di casa non abitarono le foreste del Vecchio Continente. Il gatto selvatico europeo non può essere ammansito, ma non solo: è molto difficile GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI
Storia di un rapporto antico
incrociarlo con quello domestico. In Occidente, nel Medioevo, esistevano quindi due tipi di gatto, molto diversi tra loro, sia per l’aspetto fisico sia per il carattere: il grande e aggressivo gatto selvatico e il gatto domestico, piú mansueto, anche se non proprio uno stinco di santo. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se attorno alla figura del gatto siano sorte leggende di segno opposto. Da una parte, il mite gattino bianco, simbolo della buona sorte; dall’altra, il gatto nero, erede della tradizione pagana dei popoli germanici (che conoscevano bene il gatto selvatico delle foreste), ambiguamente legato all’universo della sessualità e quindi guardato con sospetto nel Medioevo cristiano. Dalla fine del XII secolo gli ecclesiastici cominciarono a identificare Satana con il gatto nero. Alano da Lilla giunse a proporre un’etimologia chiarificatrice: i Catari – gli eretici per eccellenza – avrebbero tratto il proprio nome dal latino cattus (gatto). La strada per il rogo era spianata. L’etologo austricao Konrad Lorenz (1903-1989) ci ha insegnato che, nel profondo del cane domestico (Canis familiaris), sonnecchiano, in gradi diversi a seconda delle razze, due caratteri, due «personalità», verrebbe da dire: quella
del lupo (Canis lupus) e quella dello sciacallo (genere Thos), suoi antenati. Dal lupo i cani avrebbero ereditato l’audacia e un certo spirito di indipendenza, dallo sciacallo la mansuetudine nei confronti dell’uomo. Non è chiaro quando sia iniziato il processo di domesticazione del cane. Di certo 12 000 anni fa, piú o meno, i cani risultano, da analisi archeologiche svolte in diverse parti del mondo, fedeli compagni dell’uomo. È probabile che, all’inizio, branchi di cani stazionassero ai margini dei villaggi o degli accampamenti: qui, in cambio degli avanzi dei pasti umani, svolgevano la preziosa funzione di sentinelle, avvertendo con i loro latrati del sopraggiungere di un pericolo. Non solo, i cani rappresentavano anche la prima difesa dei villaggi, soprattutto quando gli uomini armati erano lontani per qualche motivo (caccia o guerra). Questa forma di simbiosi, forse non ancora una vera e propria domesticazione, dev’essere durata a lungo accanto a popolazioni rimaste nomadi ancora in epoca storica. È quanto si intravede dietro l’episodio capitato ai soldati del generale romano Gaio Mario, lo sterminatore dei Cimbri e dei Teutoni. Dopo aver annientato l’esercito dei Cimbri, nel
Figure umane messe a confronto con quella di un lupo, tavola realizzata per l’opera di Gaspard Lavater L’art de connaître les hommes par la physionomie, pubblicata in sei volumi tra il 1806 e il 1809.
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
101 a.C., presso Vercelli, la soldataglia di Mario, che voleva abbandonarsi al saccheggio dell’accampamento ormai non piú difeso dagli uomini, dovette ingaggiare una nuova battaglia contro i cani che lo circondavano.
Guerrieri-lupo e teste di cane
Nella lotta contro i lupi, loro cugini/antenati, i cani furono probabilmente il piú valido aiuto dell’uomo. Non solo offrirono ai bipedi parlanti tutti i vantaggi del proprio fiuto, cosí da sbaragliare la concorrenza dei lupi nella competizione per le prede, ma diventarono anche i potenti custodi di quella selvaggina che gli uomini avevano imparato a procacciarsi con l’allevamento. Anche nei periodici regolamenti di conti tra uomo e lupo, per i quali si organizzavano imponenti battute di caccia al predatore
Caccia al bisonte, olio su tela di Kanuty Rusiecki (1800-1860). Vilnius, Museo Nazionale d’arte della Lituania.
selvatico, i cani erano in prima linea. Certo, la nobiltà, la forza e la libertà del lupo affascinarono i nostri avi piú spesso della fedeltà, un po’ vile, del cane: le saghe nordiche ci raccontano di guerrieri-lupo (úlfhedhinn), probabilmente vestiti con pelli di questo animale, del quale desideravano acquisire le virtú in battaglia. Anche i cani, però, sapevano essere combattenti forti e spietati. Ben lo sapevano i Longobardi. Paolo Diacono, storico di questo popolo germanico spostatosi in Italia nel VI secolo, ricorda una leggenda oscura. Per intimorire una popolazione, gli Assipitti, della quale i Longobardi volevano occupare il territorio, questi non trovarono di meglio che spargere la voce che tra le loro schiere c’erano uomini dalla testa di cane assetati di sangue umano. I lupi mannari avevano trovato degni rivali. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI
Storia di un rapporto antico
Miniatura raffigurante due donne che cacciano con il furetto: quella a destra fa entrare il piccolo carnivoro nella tana di un coniglio, che, per sfuggirgli, finisce nella gabbia che l’altra ha sistemato all’uscita del cunicolo, dal Queen Mary Psalter. 1310-1320 circa. Londra, British Library.
La rivoluzione agricola e i grandi dissodamenti che, soprattutto dopo il Mille, interessarono l’Europa, furono, in gran parte, il frutto della fatica dei buoi. I buoi sono propriamente maschi castrati del sottogenere bos, le vacche (quelle da latte dette mucche) sono le femmine, il toro è il maschio intero. I giganti mansueti che, messi sotto il giogo, si rivelavano tanto preziosi nel lavoro dei campi, avevano un alter ego nelle foreste dell’Europa medievale, una bestia egualmente potente, ma tutt’altro che docile, anzi il simbolo stesso della ferinità: l’uro (Bos primigenius), l’antenato dei bovini domestici europei. La caccia all’uro rappresentava la forma piú nobile di competizione con gli animali. L’avversario era forte, alto fino a un metro e ottanta e lungo oltre tre metri: se la bestia si lanciava alla carica a corna basse, il cacciatore, anche a cavallo, rischiava la vita. Si trattava di una rudimentale «corrida». Notkero il Balbuziente, nelle Gesta Karoli Magni, ci dà conto di una caccia memorabile. Gli emissari di Harun al Rashid, califfo di Baghdad, avevano recato in dono a Carlo Magno un elefante. Non si trattava solo di un gesto amichevole e generoso, era anche propaganda politica. Il messaggio era chiaro: il mio potere è tale che riesco a dominare questo gi16
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
UN SEGRETO GELOSAMENTE CUSTODITO Questa è una storia di antico spionaggio industriale. Gli ingredienti ci sono tutti: la classica competizione tra Europei e Orientali, il furto del «segreto», l’impianto di un’«industria» capace di produrre la stessa cosa a un prezzo inferiore. Solo che le parti sono assegnate un po’ diversamente da come ci si potrebbe aspettare: sono i Cinesi ad avere il «brevetto» e gli Europei a fare carte false pur di impossessarsene. In mezzo, oggetto del contendere, un animale dai gusti difficili: il baco da seta (Bombyx mori). Nel momento in cui appare nella storia il baco da seta è già un essere privilegiato. A curarlo, a selezionare i bozzoli migliori, erano le mani delle imperatrici cinesi: siamo nel 2700 a.C., anno piú, anno meno. Forse a quel tempo i bachi sapevano ancora nutrirsi da soli sugli alberi di gelso, un’abilità che oggi hanno perduto, diventando completamente dipendenti dall’uomo. I bachi rimasero per secoli una prerogativa del palazzo imperiale e, anche quando si cominciò a esportare la seta in Occidente, poco prima della nascita di Cristo, i sovrani cinesi vietarono l’esportazione dei preziosi animaletti. A poco sarebbero valsi questi divieti e le terribili pene minacciate ai trasgressori, se lo stesso baco da seta non avesse, a suo modo, boicottato l’Occidente: aveva bisogno di un ambiente con un livello di temperatura e umidità preciso e costante. Inoltre, c’era un solo momento della sua esistenza nel quale poteva affrontare un viaggio tanto lungo quanto quello dalla Cina all’Occidente senza bisogno di cure: quando si trovava nell’uovo, prima della schiusa. Procopio di Cesarea racconta che furono due monaci persiani a
gante. Carlo, il barbaro franco che passava le ore d’ozio cavalcando, nuotando e cacciando, rispose a suo modo: organizzò una grande caccia all’uro, uno sfoggio di coraggio e forza fisica che doveva impressionare gli ambasciatori. Lo scopo, racconta Notkero, fu pienamente raggiunto. Gli aristocratici europei continuarono a lungo a cimentarsi nello scontro con il possente animale, ma la lotta, a un certo punto, smise d’essere combattuta ad armi pari. Il toro selvatico non sopravvisse di molto all’avvento delle armi da fuoco e l’ultimo uro cadde verso il 1627.
Nel Paese dei conigli
importare le uova alla corte di Giustiniano nel 552 o 553, nascondendole in due bastoni cavi. L’arrivo del baco da seta decretò anche il successo del gelso, detto anche moro, la cui fortuna sarebbe stata da allora in poi indissolubilmente legata a quella del Bombyx: fu cosí che il Peloponneso cominciò a chiamarsi Morea. Passato il segreto da un impero a un altro, occorsero ancora alcuni secoli e altri mediatori, gli Arabi, prima che anche l’Europa occidentale fosse in grado di produrre la propria seta. Solo a partire dal XIII secolo possiamo parlare di industria serica europea.
La Terra dei Conigli: cosí i Fenici chiamavano la Spagna quasi mille anni prima di Cristo, tanto quel Paese ne era pieno. Il coniglio (Oryctolagus cuniculus), forse, era diffuso in buona parte dell’Europa prima dell’ultima glaciazione, ma l’irrigidimento del clima, rendendo piú duro il terreno dove l’animale scavava la sua tana, ne aveva ridotto l’habitat alla sola zona costiera mediterranea. Dopo la fine del grande freddo il coniglio aveva tardato a diffondersi di nuovo: infatti, sebbene sia molto prolifico, è anche saldamente stanziale. Se trova cibo a sufficienza, una colonia di conigli, una volta scavate le gallerie sotterranee che ne costituiscono il rifugio, non se ne allontana per piú di 500 m. Questi animali avevano una carne prelibata e la pelliccia di alcuni esemplari (quelli neri) era considerata di pregio. Non stupisce che siano stati soprattutto i ceti superiori a determinarne la diffusione in Europa. I contadini, invece, vedevano le proprie colture minacciate da questa
Particolare di un dipinto su seta raffigurante due donne nomadi, opera di un artista anonimo attivo in Cina all’epoca delle Cinque Dinastie. 907-960. Pechino, Museo del Palazzo Imperiale.
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI
In alto miniatura raffigurante un lupo che, per avvicinarsi silenziosamente a un gregge di pecore, morde la sua stessa zampa per non fare rumore, da un bestiario compreso in un’edizione dell’Aviarium del canonico Ugo di Fouilloy. 1240 circa. Chalonsur-Saône, Bibliothèque municipale.
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Storia di un rapporto antico
In basso Annuncio ai pastori, dipinto su tavola di Sano di Pietro. 1440-1480. Siena, Pinacoteca Nazionale. Gli uomini vedono apparire l’angelo mentre sono intenti a controllare il gregge, chiuso nel recinto, con l’aiuto del proprio cane.
locusta a sangue caldo e cercavano in ogni modo di limitarne la diffusione. Ma c’è un altro motivo per cui i conigli erano particolarmente apprezzati dalla nobiltà. Contrariamente a quanto si può pensare, la domesticazione completa del coniglio è un fatto recentissimo: risale al XIX secolo. In precedenza questi animali venivano allevati in riserve piú o meno vaste (le garenne), dove, opportunamente riforniti di cibo e sorvegliati, rimanevano in uno stato di sostanziale libertà. La cattura era organizzata attraverso periodiche cacce. La preda non era troppo difficile: una volta stanati dai cunicoli attraverso l’uso di furetti addestrati, i conigli erano bersaglio delle frecce, o cadevano, a decine, in trappole predisposte o, ancora, erano preda di rapaci ammaestrati. Data la loro natura sedentaria, i conigli hanno viaggiato soprattutto assieme all’uomo e per mezzo dell’uomo. In Australia, per esempio, non sarebbero mai potuti giungere naturalmente, vista la mancanza di un ponte terrestre tra quell’ampio territorio e l’Eurasia. Ma non occorre andare tanto lontano: anche per attraversare la Manica i conigli ebbero bisogno dell’uomo. Alla metà del XIII secolo le fonti inglesi ne citano centinaia, eppure, fino a cinquant’anni prima, erano sconosciuti sull’Isola. Furono i gusti raffinati dei nobili inglesi a imporre il coniglio in tavola, una moda che, come ogni moda che si rispetti, veniva dalla Francia.
Quella critica in forma di paradosso
Tommaso Moro (1478-1535) scriveva: «Le pecore mangiano gli uomini». Si trattava, naturalmente, di un paradosso. L’uomo, intellettuale e politico alla corte dei monarchi inglesi, intendeva stigmatizzare con quella frase il comportamento dei grandi proprietari terrieri suoi concittadini. Visto che l’allevamento degli ovini si era rivelato assai piú redditizio dell’agricoltura, i ricchi proprietari avevano pensato bene di convertire al pascolo una grande quantità di terra. Un solo pastore basta per sorvegliare un gran numero di capi, i quali, a propria volta, necessitano di ampi spazi per potersi nutrire. In pratica, se la terra poteva essere riconvertita senza soverchie difficoltà, altrettanto non si poteva fare con gli uomini: la pastorizia, semplicemente, impiegava un minor numero di braccia rispetto all’agricoltura. Nell’Inghilterra del primo Cinquecento, dunque, molte persone si trovarono senza lavoro e senza nutrimento per colpa delle pecore, molto produttive e poco dispendiose. La pecora domestica (Ovis aries) era stata, dal 7000 a.C. circa e fino ai tempi di Tommaso
Miniatura raffigurante Giasone che s’impossessa del vello d’oro, da un’edizione delle Metamorfosi di Ovidio. 1385. Lione, Bibliothèque municipale.
Moro, un’utilissima compagna della vita dei contadini: pronta a fornire lana, latte e carne senza necessariamente gravare sulla terra da mettere a coltura. Piccole greggi domestiche potevano tranquillamente pascolare in prati d’altura, o su campi tenuti a riposo (contribuendo, anzi, alla loro concimazione), e anche le grandi greggi transumanti sfruttavano spesso ampie regioni (montane e di pianura) non coltivate. Alla fine del Medioevo, però, il mercato della lana in Europa era divenuto tanto esigente da imporre uno sfruttamento meno equilibrato degli spazi. In Spagna, nel 1525, la grande transumanza, che imponeva agli animali uno spostamento di ben 850 km, arrivò a interessare tre milioni e mezzo di capi. Non era soltanto il mercato a essere cambiato, anche la lana delle pecore era diventata, tramite la sapiente selezione degli animali, via via piú soffice e abbondante. Nel XII secolo i monaci cistercensi, grandi sperimentatori e innovatori delle tecniche agricole medievali, avevano selezionato un tipo di pecora dalla lana pregiata. Furono i Cistercensi inglesi che giunsero a produrre gli esemplari migliori, garantendo alla lana dell’Isola il primato per tutto il Medioevo. Anche ai tempi di Tommaso Moro, comunque, le pecore offrirono alla povera gente una via di salvezza. Le stesse persone che erano state cacciate dalle campagne per colpa della diffusione dei pascoli, ritrovarono lavoro in città: impiegate a produrre panni di lana. Che poi negli opifici e nelle fabbriche gli uomini fossero trattati molto peggio delle pecore sui pascoli è un’altra storia, e questa, davvero, non riguarda gli animali. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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IL CANE di Paolo Galloni
Compagni di caccia Dall’omerico Argo al cinematografico Lassie, il legame tra l’uomo e il suo «migliore amico» ha attraversato i millenni. E, in particolare nel Medioevo, un’arte venatoria senza la presenza del fido animale era inimmaginabile...
D
a millenni il cane accompagna il cacciatore – lo testimoniano numerose pitture rupestri preistoriche. In epoche in cui la caccia aveva un peso culturale ed economico ben maggiore di oggi, anche i cani costituivano una presenza costante ed erano spesso compagni di lavoro piú che «amici». Non bisogna dunque commettere l’errore di proiettare verso il passato la percezione del presente. Quella medievale era una cultura venatoria avanzata e articolata che, quando possibile, utilizzava i cani in modo straordinariamente mirato. La caccia si indirizzava spesso ad animali che oggi non sono piú né prede né minacce, ma specie protette. Il lupo, per esempio, era considerato il principale rivale dell’uomo e, di conseguenza, perseguitato fino all’ossessione. Non stupirà, quindi, che esistessero cani addestrati a lottare contro i lupi, fatto lontanissimo dall’orizzonte odierno. Questo tipo di cane non era comunque il piú prezioso. Le leggi dei Frisoni e dei Bavari, per esempio, stabilivano che il «cane che sa uccidere il lupo» valeva un soldo in meno di bracchi e mastini impiegati nell’inseguimento di cinghiali od orsi e del «cane che accompagna l’astore». Quest’ultimo, per il quale le fonti non usano un termine latino, ma il germanico Hapuhunt, era probabilmente un levriero specializzato nella caccia a gru e aironi. Il valore del cane
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Miniatura raffigurante una muta di cani che si avventa sul cinghiale abbattuto dai cacciatori, scena scelta come allegoria del mese di Dicembre per il manoscritto Les Très Riches Heures du duc de Berry. XV sec. Chantilly, Musée Condé. pastore incaricato di custodire le greggi era inferiore, segno che la caccia godeva di un prestigio maggiore rispetto ad altre attività produttive già in epoca precoce.
Razze specializzate
In generale, le varie raccolte di leggi germaniche altomedievali prendono in considerazione diversi casi di infrazioni concernenti i cani. Vi sono menzionati cani specializzati nella caccia all’orso, al cervo, all’uro (il grande bovino selvatico estintosi nel XVII secolo), ai volatili e perfino nello stanare lontre e castori – due prede da secoli uscite dall’orizzonte dei cacciatori, ma all’epoca, quando la frequentazione con le foreste e i fiumi che le traversavano era affare quotidiano, suscitavano ancora un certo interesse. Questa tendenza alla specializzazione è andata affinandosi con il passare dei secoli. Gli addestramenti erano differenziati non solo in base alla razza canina, ma anche alla preda. Cosí i bracchi ricevevano uno specifico dressage a seconda che fossero destinati ad accompagnare il cacciatore negli sfiancanti inseguimenti dei
NOI E GLI ANIMALI
Il cane
PAZZIE CANINE Nella discussione sulle malattie dei cani il conte di Foix, Gaston Fébus, autore di un celeberrimo trattato venatorio, il Livre de la chasse, si sofferma su vari tipi di «pazzia canina»: la rage courante, ovvero la follia che obbliga a lanciarsi nella corsa e spinge il cane ad aggredire i propri simili; la rage mue, la pazzia muta; la rage cheante, la pazzia «caduca», che rende i cani incapaci di procedere diritti; la rage efflanchée, che fa dimagrire tanto che i fianchi sembrano toccarsi; la rage endormie, la follia che fa dormire e causa inappetenza; la rage de teste, che fa gonfiare la testa e gli occhi.
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Tra i rimedi urgenti indicati nel caso di morso da parte di un cane arrabbiato ce n’era uno davvero curioso, che consisteva in due fasi. Prima si prelevava una piuma vicino all’ano di un vecchio gallo e si faceva vento alla ferita, poi si carezzavano il collo e le spalle del gallo. In tal modo, si credeva, il veleno sarebbe stato succhiato via dall’uomo e trasferito all’animale.
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
cervi, nell’uccellagione o nella caccia con l’arco ad appostamento. Lo stesso avveniva per i levrieri, indispensabili nella caccia alla lepre, ma utilizzati anche per cervi e volatili.
Addestramenti congiunti
Nel Basso Medioevo, il crescente prestigio acquisito dalla falconeria comportò una cura speciale nell’addestramento congiunto di cani e falchi, che dovevano imparare a conoscersi e a collaborare. Era questa l’ultima, e la piú complicata, fase del programma di «educazione» del rapace. Non era semplice, infatti, abituare animali tanto diversi alla reciproca vicinanza. Occorreva insegnare al falco a non temere il cane e ai cani a bloccare le prede sulle quali il falco si era abbattuto, limitandosi a tenerle ferme senza portarle via per mangiarsele. Federico II sottolinea che il cane soccorritore «non deve avere l’abitudine di cacciare altre be-
Miniatura raffigurante una scena di caccia al castoro, dall’edizione del Tractatus de Herbis di Dioscoride già nella collezione di Tommaso Obizzi del Cataio. 1458. Modena, Biblioteca Estense Universitaria. Nella pagina accanto illustrazione raffigurante Gaston Fébus insieme a un gruppo di cacciatori, da un’edizione del Livre de chasse dello stesso Fébus. 1445-1450. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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NOI E GLI ANIMALI
Il cane
Miniatura raffigurante Gaston Fébus attorniato da cacciatori, scelta come immagine d’apertura di un’altra edizione del Livre de chasse, 24
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
illustrata dal Maestro degli Adelfi. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
REGOLE FERREE Il voto dei Templari e degli altri Ordini combattenti li poneva in una condizione intermedia tra quella di cavaliere e quella di monaco. Del cavaliere c’era la scelta guerriera e il conseguente addestramento; del monaco, la sobrietà dello stile di vita. Coerentemente, un regime eccezionale vigeva anche in ambito venatorio. Era loro vietato ogni tipo di caccia tranne quella al leone, che ancora era presente in Medio Oriente, vale a dire una caccia dai contenuti squisitamente guerrieri e assimilabile all’esercitazione militare. Ai Cavalieri Teutonici, attivi invece in Europa settentrionale, era consentito cacciare solo lupi e orsi, ma senza cani. Si osserva in entrambi i casi la depurazione dell’esperienza venatoria da ogni componente ludica e da ogni fronzolo aristocratico, per salvare solo l’autentico allenamento alla guerra.
stie, perché se fosse abituato a queste, essendo piú naturale al cane cacciare bestie che uccelli, non sarebbe cosí avido di uccelli, e se correndo dietro il falco casualmente vedesse qualche bestia dietro la quale fosse solito correre, smetterebbe di seguire il falco e andrebbe dietro quelle». Il cane doveva essere presente ai pasti del falco al fine di rendersi conto che il falco era come lui caro al cacciatore. Nella medesima circostanza, l’addestratore aveva cura di porgere una porzione di cibo al cane tenendo al braccio il falco, dando al cane l’impressione di ricevere «da mangiare, come se lo ricevesse dai piedi del falco». Il cane, infine, era costretto ad annusare spesso il falco per imparare a distinguerlo dagli altri uccelli.
A sinistra cavalieri templari in un particolare dell’Incontro fra Filippo Augusto ed Enrico II a Gisors, 21 gennaio 1188, olio su tela di Gillot Saint-Evre. 1839. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. In basso raffigurazione di un cane da caccia, da una raccolta di notizie e aneddoti relativi al mondo animale scritta da Manule Phyles (Filete) attorno al 1310, basandosi sul De animalium natura di Eliano, e poi trascritta dal copista Angelo Vergezio. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. mazza, capocaccia di papa Leone X a metà del Cinquecento, consigliava pane bagnato in brodo di testa di montone. Secondo Michelangelo Biondo (1500-1565), autore del De canibus et venatione, un trattato ricco di consigli veterinari (vedi anche il box alla pagina precedente), per tenere un cane in forma occorreva dargli «di tanto in tanto un brodo di edera cotta; e se gliela si darà per almeno sette giorni, si riuscirà a mantenerlo in buona salute». Alla fine del Medioevo, insomma, nelle corti la cura dei cani era quella riservata a un bene di lusso. Alla componente affettiva si aggiungevano quei tocchi di raffinatezza, che trasformavano l’animale da semplice amico dell’uomo, e della donna, in status symbol. Quando Caterina Pico si sposò con il signore di Carpi, Leonello Pio, il
Senza badare a spese
Il prestigio dell’attività venatoria, intimamente connessa all’ostentazione dello stile di vita nobiliare, finí per trasformare anche i cani in indicatori di nobiltà. Il piacere di circondarsi di molti cani ben addestrati, il cui numero andò aumentando a dismisura, fu per secoli la regola presso le aristocrazie europee. Le spese per il mantenimento dei cani erano talvolta altissime. Il nutrimento era a base di pane e latte in estate con un po’ di carne essiccata. In autunno e inverno, il BoccaGLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI
Il cane
UN SOLO RIMEDIO PER IL MALOCCHIO: L’ISOLAMENTO Il trattato di Michelangelo Biondo, De canibus et venatione, considera l’eventualità, assai difficile da gestire, di un cane vittima di un maleficio. «Anche il cane, come il bambino – scrive il Biondo – spesso è vittima del malocchio, tanto da diventare estremamente magro. Gli occhi di certi uomini, infatti, ammaliano talmente che non lasciano piú libero l’essere che hanno affascinato e alla fine questi non è piú padrone della propria volontà (…). Ragion per cui si deve badare bene che un cucciolo non sia guardato dai malevoli fino a quando non sia cresciuto, poiché questo è il modo migliore per preservare la salute del cane, dato che esso può conservarsi sanissimo quando sia tenuto lontano da chi lo potrebbe fare ammalare. Alcuni invece sono soliti porgli un monile gemmato di corallo; altri, ancora, lo coprono di erbe magiche e gli cingono la fronte di valeriana. L’uso di questi mezzi è comunque meno proficuo. Ma in realtà solo l’isolamento è valido rimedio contro il malocchio». A quanto pare, gli individui adulti, cani o umani, forse grazie alla loro piú forte costituzione, correvano meno rischi di essere attaccati dai malefici dello sguardo.
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
suo ricchissimo corredo nuziale includeva cinque collari d’oro e seta e due raffinati guinzagli per i suoi cani. Tante attenzioni erano motivate solo dal traboccante prestigio della caccia. Possedere buoni cani rappresentava una tale fonte di compiacimento per il padrone, che quando non si riusciva ad allevarli in casa si ricorreva al l’importazione da Paesi lontani.
Da ogni parte del mondo
La corrispondenza dei Gonzaga, per esempio, abbonda di riferimenti a questo tipo di commercio o di doni a lunga distanza. Si menzionano levrieri turchi, ma anche cani fatti giungere appositamente dalla Bretagna, dalla Dalmazia, dall’Inghilterra. Gli allevamenti italiani erano ugualmente quotati ed erano rinomati soprattutto per i bracchi, dei quali si distinguevano varie categorie: da acqua, addestrati alla cattura della preda nei fiumi e nei ruscelli; da
In alto i cani del marchese Ludovico III Gonzaga: particolari degli affreschi realizzati da Andrea Mantegna, verosimilmente tra il 1465 e il 1474, per la Camera degli Sposi. Mantova, Palazzo Ducale, Castello di San Giorgio. Nella pagina accanto la caccia col falcone in una miniatura tratta dal capitolo del Breviario di Ercole d’Este dedicato al mese di Maggio. 1502-1504. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
ferma, che restavano immobili all’avvistamento della preda; da leva, che facevano alzare in volo gli uccelli a beneficio dei falconi; da punta, o da presa, che individuata la preda prima si arrestavano e poi si lanciavano all’inseguimento; da sangue, specialisti nel seguire le tracce di una bestia ferita. Come avviene oggi, la frequentazione quotidiana contribuiva a stabilire un rapporto di affetto tra il padrone e i suoi cani. Secondo un cronista, quando morí la sua cagnetta favorita, Aura, la marchesa Isabella Gonzaga pianse come se «la fosse morta sua madre». Tra le manifestazioni piú straordinarie, e forse eccessive, di questo profondo legame merita una segnalazione l’iniziativa di un altro Gonzaga, Federico, che commissionò le tombe dei propri cani a un grande artista come Giulio Romano, che già aveva dipinto sulle pareti di Palazzo Te, a Mantova, i cavalli preferiti del marchese. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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L’ORSO di Claudio Corvino
Cosí bestiale, cosí umano!
È l’unico animale a combattere in posizione eretta, proprio come l’uomo. Un’ambivalenza che, però, non finisce qui: sebbene temuto per la sua forza bruta, all’orso furono riconosciuti, a piú riprese, tratti tutt’altro che ferini
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el momento in cui King Kong cade dall’Empire State Building crivellato dai colpi delle mitragliere aeree, nella versione cinematografica del 1933, un poliziotto, soddisfatto, dice al protagonista Carl Denham: «Gli aerei hanno avuto ragione di lui!». «No – replica lui mesto – non sono stati gli aerei. È stata la bella a uccidere la bestia». Dal 1933 al 2005 è stata girata una decina di pellicole (tra rifacimenti e sequel) aventi come leitmotiv il tema del gigantesco scimmione che si innamora della bella. «È il mito piú poderoso che il cinema abbia trasmesso al ventesimo secolo», sentenziava qualche anno fa l’Enciclopedia del Cinema De Agostini e certamente è cosí. Come pure è indubitabile la vicinanza della trama al mito della Bella e la Bestia (altra pellicola famosa di Jean Cocteau, del 1946), che GabrielleSuzanne Barbot trasformò nel racconto l’Histoire de la bête, apparso nel 1740 nel romanzo La jeune Américaine et les contes marines. Eppure entrambi i film, entrambe le trame, sembrano avere un prototipo comune, diremmo quasi un archetipo, il cui tetto cronologico è antichissimo, quasi impossibile da datare. Di un’unione tra la «bella» e la «bestia», in questo caso un orso, parla Olaus Magnus, nome latinizzato dello svedese Olof Maansson, nato a Linköping nel 1490, e poi vescovo di Uppsala. Nel libro XVIII (capitolo XXV: Della rapina d’una fanciulla, e come fu generato Ulfone, huomo astu-
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Stampa da una miniatura raffigurante un gruppo di orsi, da un’edizione del Livre de la chasse di Gaston Fébus illustrata dal Maestro di Egerton. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France. tissimo, e gagliardissimo) della sua Storia delle genti settentrionali (Roma 1555), racconta: «Essendo in Svetia, uscita fuori scherzando alla campagnia, con alcune sue serve, una fanciulla di molta bellezza, figliola d’una persona onorata, un Orso d’estrema grandezza, spaventate tutte le compagne, l’abbracciò, e rapilla, e presala piacevolmente con l’unghie, la portò alla sua solita cava, nascosta nel bosco, e assalendo con nuova spetie di cupidità, le sue belle membra, poneva piú cura, e piú mostrava di volerla carnalmente abbracciare, che divorare, e convertí in uso di nefaria libidine quella, che aveva predata per smembrare, e mangiare, et in un subito di rubatore divenuto amante, risolvè la fame in libidine, e compensò l’ingordigia della gola, con la sazietà della lussuria. E per nutrir la sua amica piú delicatamente, con piú spesse correrie del usato travagliava gl’armenti vicini (…) e la bellezza di quella cattiva spezzò per si fatta maniera la crudeltà efferata di quel rubatore, che dove prima lo teneva come ingordo del suo sangue, a l’hora lo trovava tutto infiammato d’amore…». Tornano alla mente le scene della prima versione di King Kong, quando la «bestia», la bella sul palmo della zampa, le tirava via i vestiti come fossero petali di un fiore. Ma il nostro orso-
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L’orso A sinistra xilografia raffigurante l’unione tra un orso e una donna realizzata per il XXX capitolo (Della rapina d’una fanciulla, e come fu generato Ulfone, huomo astutissimo, e gagliardissimo) del Libro XVIII della Storia delle genti settentrionali di Olaus Magnus, pubblicata per la prima volta a Roma nel 1555. In basso, sulle due pagine incisione russa raffigurante l’accoppiamento fra un orso e una donna. XIX sec.
amante non ebbe il pudore dello scimmione newyorkese e, una volta che la fanciulla venne liberata da alcuni cacciatori, continua Olaus, «partorí secondo l’usanza un mostro, e mandò fuori del suo ventre il sangue selvaggio, cò i lineamenti ch’è solito avere, il corpo fatto di sangue umano, e a quel figliuolo ch’ella fece, fu da i suoi parenti posto il nome paterno, il quale alla fine conosciuta la verità della sua discendenza, fece crudelissima vendetta contro a coloro che gl’ammazzorno il padre…». Ovviamente, da un padre cosí potente non poteva che nascere Tregello Sprachaleg, padre di Ulfone, padre di Svenone, fondatori dell’eroica stirpe dei re danesi.
Un’equivalenza insolita
In realtà, quando gli uomini del Medioevo parlano di animali, parlano di se stessi, raccontano delle loro paure e delle loro aspirazioni, ci informano di idee e credenze che altrimenti rimarrebbero estranee, sconosciute o dimenticate: sta alla sensibilità dello storico saperle decodificare, spesso con l’aiuto di altre discipline. Quando, per esempio, nella Vita Genovefae virginis Parisiensis, del VI secolo, la Santa ci parla dell’orso come di un’«immagine della febbre», gli strumenti dell’etnologia possono chiarirci meglio questa insolita equivalenza. In molte culture di livello etnologico, gli animali costituiscono un complesso «sistema classificatorio», che permette di ordinare il reale secondo schemi culturali condivisi dal gruppo. Per esempio, l’orso, o, meglio i suoi pesanti 30
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
passi, diventano tra gli Ainu dell’isola giapponese di Hokkaido (vedi box a p. 41) la raffigurazione simbolica della cefalea, mentre il galoppo leggero del cervo muschiato diviene metafora di una piú lieve emicrania. Santa Genoveffa e l’estensore quasi suo contemporaneo della Vita, furono consapevoli di ciò? Forse, ma non sempre lo furono gli agiografi. Cosí parlare dell’orso, del sentimento di ammirazione o di paura che l’uomo medievale ha provato nei suoi confronti, significa, in realtà, parlare delle sue strutture mentali, economiche, agricole… Perché quei sentimenti, pur appartenendo a una sfera psichica, nascono e si sviluppano in precisi contesti che sono storici, e che, a loro volta, producono storia. Di là dalle specie zoologiche, ogni gruppo umano ha conosciuto un suo particolare orso: da quello, divinizzato, che probabilmente adoravano gli uomini del Paleolitico e certamente gli abitanti di gran parte della zona siberiana, a quello, ridotto ad automa, che vediamo ancora oggi in alcuni circhi: fantasmi di potenti esseri viventi degradati a balocchi. Il Medioevo non fece eccezione, anche se, dai documenti a disposizione, potremmo dire che nel nostro Occidente sembrano esistere principalmente due tipi di orsi: uno del Nord Europa, temuto e rispettato, che abitava, oltre alle foreste mitteleuropee, principalmente l’epica, l’onomastica, l’araldica. È la fiera la cui caccia era maggiormente apprezzata, difficile e quindi piú appagante, lo scontro finale, un vero e proprio
duello, visto che è l’unico animale che combatte in posizione eretta, proprio come l’uomo. Oppure è il berserkr (ber, orso; serkr, camicia), che incontriamo nelle saghe nordiche. Il suo stato di eccitazione estatica verrà considerato un crimine. L’altro orso, del Sud, era decisamente meno nobile e positivo, dagli autori cristiani visto generalmente come simbolo di collera divina o di rabbia, soprattutto di libidine. È presentato come una creatura dotata di grande forza bruta, ma di scarsa intelligenza. Ovviamente, una divisione cosí netta è di comodo e semplificante: tra le due vi furono prestiti e scambi reciproci, ma è indubitabile la differente percezione che abbiamo dell’orso «celtico» o germanico e di quello «mediterraneo». Li osserveremo entrambi attraverso i testi che il Medioevo ci ha lasciato: i bestiari, le enciclopedie, l’araldica, i trattati e qualche processo. Li osserveremo, infine, attraverso le fonti agiografiche, convinti che, come scriveva lo storico Pierre Boglioni (1937-2011), «il mondo animale
appare legato al discorso agiografico non solo mediante qualche episodio d’eccezione, ma attraverso una fitta trama di raccordi che vanno dalla vita quotidiana alle esperienze mistiche, dal simbolo all’azione taumaturgica…».
Alla maniera degli uomini
L’orso «del Sud», quello che scopriamo nei testi, non nelle foreste, è principalmente un’eredità del mondo romano: una visione dell’orso mediata principalmente, a livello colto, da Plinio e dalla sua Storia naturale. Qui egli riporta alcune notizie che avranno larga fama e diffusione. La principale riguarda strettamente anche lo scimmione che abbiamo visto all’inizio: «L’accoppiamento di questi ultimi [gli orsi] non avviene nel modo consueto di tutti i quadrupedi, ma i due animali stanno sdraiati e abbracciati» (Storia naturale, VIII, 126). Lo fanno, cioè, more hominum. È, questo, il fondamento testuale su cui poggeranno le successive affermazioni sulla libidine smodata del nostro plantigrado.
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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NOI E GLI ANIMALI
L’orso
Non sappiamo da dove provenga la lapidaria affermazione di Plinio. Come ha scritto Michel Pastoureau: «Forse da un autore greco il cui testo non ci è pervenuto; a meno che non abbia seguito alcune tradizioni orali che, da tempo immemorabile, attribuivano all’orso atteggiamenti umani; o ancora, piú probabilmente, abbia letto male Aristotele». Però, a ben vedere, un mito di fondazione (o perlomeno molto antico) della sessualità «umana» dell’orso lo abbiamo nel mondo greco, anzi in Tracia, e riguarda Polifonte, una delle compagne di Artemide. Cosí lo narra Antonino Liberale: «Afrodite, di cui Polifonte aveva disprezzato le opere, le ispirò una passione per un orso e la rese folle. E Polifonte presa, per volontà divina, da passione furiosa, si uní all’orso» (Metamorfosi, XXI). L’unione sarà anche feconda, visto che la giovane mise al mondo due bambini: Agrios e Oreios, neanche 32
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
a dirlo, due giganti, dotati di una forza prodigiosa. Aveva questo mito nella mente il nostro Olaus (meno probabilmente lo sceneggiatore americano di Kong) quando scriveva della schiatta dei re danesi? Di certo l’unione tra donna e orso occuperà molte pagine di annalisti, cronisti e storici medievali. Ovviamente, anche l’orsa sarà libidinosissima. Riprendendo un altro passo di Plinio dello stesso libro, molti enciclopedisti medievali scriveranno che i cuccioli nascono informi perché prematuri. Perché tanta fretta da parte della madre? Ce lo spiega Oppiano nel suo trattato di cinegetica, Della caccia (III secolo): «Le orse sono possedute dalla passione amorosa alla quale si abbandonano senza ritegno (…) e rifiutano di interrompere i loro affari una volta che li abbiano cominciati». Un essere cosí libidinoso, assicurano gli enciclopedisti, non vede l’ora di partorire per
Due uomini si difendono dall’assalto di un orso, particolare degli affreschi realizzati nel Casino di caccia di Villa Borromeo a Oreno di Vimercate (Monza Biranza). Prima metà del XV sec.
A destra, in alto miniatura raffigurante orsi che divorano il miele contenuto negli alveari, da una traduzione in francese del Fiore di virtú curata da François de Rohan. 1530. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
poter ricominciare a congiungersi al maschio. Anche se qualche benevolo commentatore, come sant’Ambrogio, aggiunge (nell’Hexameron, IV secolo) che in seguito l’animale mostra segni di pentimento, leccando i cuccioli e riportandoli cosí alla vita, che era stata impedita loro dal peccato carnale della madre. Questa simbolica e reale riparturizione orale viene fondata da Isidoro di Siviglia (Etymologiae, VII secolo) anche etimologicamente: «Ursus fertur dictus quod ore suo formet fetus, quasi orsus» («L’orso è cosí chiamato, si dice, perché forma i suoi cuccioli con la bocca»). Una tale omofonia etimologica sarà poi riportata in tutti i bestiari, almeno fino al Rinascimento. Se Rabano Mauro, abate di Fulda nel IX secolo, nel suo De universo, si limiterà a copiare Isidoro, aggiungendo però che l’animale, allegoricamente, designa il diavolo che insidia il gregge di Dio (ma anche colui che punisce i tiranni), Ildegarda di Bingen, nell’opera De animalibus (XII secolo), insiste con la libidine, che porterebbe gli orsi a unirsi con gli esseri umani: orse con uomini e orsi con donne. La carne
stessa dell’animale, secondo Ildegarda, provoca al coito gli uomini. Credenza, questa, non universalmente riconosciuta, se nel secolo precedente il monaco Ekkard di San Gallo cita l’orso, insieme ai castori, alle marmotte e ai bisonti, tra le carni di cui era permesso alimentarsi nel suo monastero.
Giochi proibiti
Un’appassionata propensione al sesso, e anche all’osceno, viene fuori anche in giochi giullareschi di alta antichità: in un capitolare dell’852, l’arcivescovo di Reims Incmaro tuona contro alcuni turpia joca cum urso, raccomandando ai propri vescovi di non permetterli in alcun caso, soprattutto quando vi partecipasse il clero. Qualche anno dopo si lamenta di giochi e mascherate in cui uomini si travestono da orsi o ballano con loro anche Adalberone, il vescovo di Laon. I due alti ecclesiastici non ci dicono esattamente in cosa consistessero tali joca, ma certamente avevano a che fare con il mondo dei giullari o del Carnevale. Per i giullari, abbiamo una testimonianza del X GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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L’orso unirsi a lei. Il piú delle volte, come nel Carnevale sardo di Fonni (Nuoro), l’azione rituale è limitata a sporcare il viso delle ragazze con della fuliggine, forma attenuata di un vero e proprio accoppiamento. Rimanendo in campo etnologico, scopriamo che l’unione tra orsi e donne non è una peculiarità occidentale, essendo uno dei miti piú diffusi tra le popolazioni tunguse asiatiche. Qui si narra di una donna (la piú grande di due sorelle), che cade durante una tempesta nella tana di un orso, dove passa l’inverno succhiando la sua zampa per nutrirsi. In primavera torna a casa dei suoi genitori, dove mette al mondo due figli: un orsetto e un neonato. I due fratelli cresceranno, ma l’umano per errore ucciderà quello ursino. Agonizzante, quest’ultimo insegna al fratello come svolgere la festa dell’orso, una delle cerimonie piú diffuse tra le tribú nomadi della zona siberiana. Molto prima di King Kong, di Olaus Magnus e dei nomadi tungusi (dei quali però, a dire il vero, conosciamo male la storia), nell’Europa medievale circolava un romanzo, Valentin et Orson: Bellissante, sorella del re di Francia Pipino, ha due figli gemelli, i protagonisti. Uno dei due viene rapito e allattato da un’orsa, mentre l’altro è adottato da Pipino, che ne fa un prode cavalie-
secolo riportata da Jean-Claude Schmitt, nella quale Fromond rivolgeva ai novizi di Tegernsee un poemetto in cui si identificava in un giullare che attacca code d’animale alla cintura, «gesticola con le mani» e finge di essere un lupo, un orso o una volpe. Inoltre evoca gli spiriti (larvas) con mani biforcute. Testimonianze che collegano il nostro animale con il calendario rituale le abbiamo anche in altri documenti, di genere diverso tra loro: una diretta, l’altra deduttiva. La prima è una cerimonia descritta in un manoscritto del 1140, il Liber Censuum, nel quale si parla del ludo carnelevarii, presieduto dal papa in persona, che a cavallo dal Laterano si reca al Testaccio per sovrintendere al sacrificio di un orso, tentatore della nostra carne (diabolus id est temptator nostre carnis), un toro e un gallo.
Protagonista del Carnevale
L’altra prova ci viene dall’etnografia. In Europa sono ancora oggi testimoniate (e diffuse) molte maschere carnevalesche raffiguranti l’orso, che mimano nella maggior parte dei casi la stessa storia, o mito di fondazione: tentano di rapire, o lo fanno, una giovane donna, a volte portandola nella loro «tana», e fingendo di 34
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In alto capolettera miniato raffigurante un giullare con il suo orso, da un manoscritto francese del XII sec. Tours, Bibliothèque municipale. In basso incisione seicentesca
raffigurante l’orsa del romanzo Valentin et Orson che allatta i suoi cuccioli e uno dei figli di Bellissante, Orson, appunto, che diventerà poi compagno d’armi di Valentin.
L’uomo selvaggio o La Mascherata di Orson e Valentin, xilografia di autore anonimo, da un originale di Pieter Brueghel il Vecchio. 1566. New York, The Metropolitan Museum of Art.
re. Valentino va nella foresta e cattura Orson, lo addomestica e ne fa il proprio compagno d’armi. Il testo venne pubblicato a Lione nel 1489, ma versioni e frammenti svedesi e neerlandesi risalgono alla seconda metà del Trecento. Siamo dunque di fronte allo stesso mito di accoppiamento, attenuato però nella forma dell’allattamento, mitema che ha precedenti famosi nella nota lupa di Romolo e Remo. Infine, una fiaba, «una delle piú popolari del mondo», come l’ha definita il grande studioso Stith Thompson (1865-1975): Giovanni l’orso. È la storia di un ragazzo forte come… un orso (e di lui figlio), che rivela ben presto le sue doti sovrumane spezzando gli attrezzi che riceve o addirittura uccidendo i suoi compagni di gioco. Un giorno, insieme ad altri esseri straordinari, arriva a una casa nel bosco. Dopo varie peripezie, grazie a una corda Giovanni l’orso scende sottoterra, dove trova una spada meravigliosa, vince vari mostri e libera tre principesse impri-
gionate, che affida alla corda tirata su dagli amici. Questi però prendono le donne e le portano via, abbandonando Gianni l’orso, il quale riesce a liberarsi grazie a un’aquila. Alla fine, sposerà la piú bella delle tre principesse. Tradendo la sua origine «latina», l’orso del Sud è dunque un grande Don Giovanni…
Un’esclusiva dell’aristocrazia
L’orso mitteleuropeo, che abbiamo definito per comodità «del Nord», aveva tratti piú feroci e combattivi, ma anche piú nobili. Non tanto nei modi, che probabilmente erano simili a quelli degli altri orsi, ma per il fatto che l’aristocrazia amava moltissimo ricercarlo, inseguirlo, braccarlo. Soprattutto, amava lo scontro finale, all’impiedi, come in un duello. Simbolo stesso della forza fisica, furono tanti i diplomi che, a partire dal X secolo, riservavano all’aristocrazia laica ed ecclesiastica la possibilità di cacciarli. Anche in Italia la sua caccia era praticata, come GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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L’orso
STORIE DI UN MONDO SCOMPARSO Nella chiesa sconsacrata di S. Rocco, nel borgo medievale di Compiano, in provincia di Parma, venne fondato un museo nel quale si vollero accomunare ed esporre speranze e sofferenze di quegli uomini e quegli animali che fino alla prima guerra mondiale giravano il mondo a dare spettacolo di se stessi: il Museo “Gli Orsanti”. Alcuni anni piú tardi, la singolare istituzione è stata trasferita nel borgo di Vigoleno, in provincia di Piacenza, dove ha tuttora sede. Gli Orsanti erano girovaghi, artisti di strada, erravano con i loro animali (orsi, ma anche scimmie, pappagalli o cammelli) a dare spettacoli di piazza. Giunti in un luogo sufficientemente esposto al transito di persone, allestivano il palco per lo spettacolo. Attrattiva principale era l’orso, che veniva fatto ballare, girare, saltellare, ma il numero piú atteso era la lotta fra il domatore e la fiera. La lotta era ovviamente una studiata pantomima, anche perché, una zampata del plantigrado sarebbe stata sufficiente a spezzare il collo del domatore. Il museo espone gli strumenti del mestiere degli Orsanti: dal grande carro sul quale vivevano e viaggiavano gli artisti, i piú fortunati riuniti in «compagnie», alle gabbie per gli animali, i costumi di scena e gli strumenti musicali con cui incantavano il pubblico delle piazze. Organetti e fisarmoniche, gironde e copricapo sonori ci rimandano con la mente a timbri e melodie ormai scomparsi, un tempo segnali di un divertimento forse un po’ esotico, certo un po’ amaro, che accomunava uomini e animali in uno stesso destino di emigrazione. Per informazioni: www.museogliorsanti.it
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si può vedere nel ciclo dei Mesi affrescato in Torre Aquila, al Castello del Buonconsiglio, a Trento, ma anche regolata, come mostra un documento del 13 novembre 1200 nel quale il vescovo di Brescia si riserva il diritto di «cazia ursorum vel aprorum vel cirvorum» nella zona di Vobarno, nell’Alta Valle del Chiese. Bruno Andre-
olli ipotizza una caccia di tipo difensivo, legata cioè a pratiche di emergenza, piú che abituali. Basandosi soprattutto sugli studi di Giovanni Cherubini (1936-2021), ciò sarebbe confermato, secondo lo storico, dal fatto «che le attestazioni della caccia all’orso in Italia si diffondono soprattutto a partire dal pieno Medioevo, in un periodo quindi caratterizzato da un notevole
avanzamento delle colture, da una considerevole accelerazione dei disboscamenti e da un deciso sviluppo della transumanza appenninica». Nell’Europa del Nord, invece, la pratica sembra essere quotidiana, ma soprattutto ricca di valenze simboliche che rimandano alla forza, al coraggio, alla nobiltà: «Cacciar cinghiali orsi e bisonti: che v’era di piú audace?», si domanda il poeta dei Nibelunghi (strofa 916). Ma piú che nella pratica venatoria, è nella pratica simbolica, nell’immaginario quale si evince dai testi, che ricercheremo i valori attribuiti al nostro plantigrado nordeuropeo. Che l’orso fosse un animale buono da mangiare, ma soprattutto «da pensare», lo dimostra san Bonifacio che, in una lettera del 742 all’amico vescovo di Winchester Daniele, elenca, tra i «rituali esecrabili dei pagani», l’usanza di travestirsi da orsi e bere sangue dell’animale prima di partire per la guerra. Qualche anno piú tardi, si lamentano le stesse usanze in una lista delle superstizioni pagane stilate da alcuni prelati.
Combattere in stato di trance
Nelle saghe e nei miti nordici cogliamo «dal vivo» il simbolismo ursino: qui l’orso raffigura il guerriero o, meglio, sono i guerrieri che tentano di somigliargli. Soprattutto i soldati di Odino, il dio magico per eccellenza, che prevede il destino degli uomini, gli avvenimenti futuri e invia loro la malattia e la morte. Secondo un’etimologia di Adamo di Brema († 1081/86; Gesta Hammaburgensis) il suo stesso nome è connesso con il furore: «Wodan id est furor». I suoi «soldati» gli dedicavano la vita e, in caso di morte per malattia nelle proprie case, si facevano ferire a morte con la cosiddetta «ferita di Odino», per evitare di essere esclusi, non essendo morti in battaglia, dal suo seguito nel Valhalla, «la sala di coloro che sono caduti» (in battaglia). Secondo Alfonso M. di Nola (19261997), «formavano una vera e propria casta, i cui membri erano chiamati berserkr, dispregiatori della vita sociale, viventi in forzata ospitalità presso famiglie germaniche». Nel combattimento erano dominati da una condizione di trance sciamanica, si davano a mordere gli scudi, si sentivano mutati in orsi e lupi (onde i loro nomi berserkr, ulfhedhin, «che ha una pelle d’orso», «che ha una pelle di lupo»), forse si vestivano di pelli animali, e, soprattutto, per il raggiunto stato di esaltazione sensoria, non avvertivano il dolore e le ferite». Quando vengono presi da furor bersercicus, cosí li descrive Snorri Sturluson (1225 circa), in quello che è considerato il gioiello delle saghe
In questa pagina l’uomo travestito da orso (S’urthu), che secondo la tradizione lascia la tana alla vigilia della Candelora, viene trascinato per le vie di Fonni (Nuoro) durante il Carnevale. Nella pagina accanto, in alto l’arrivo in città di una compagnia di Orsanti. Vigoleno (Piacenza), Museo gli Orsanti, Archivio Maria Teresa Alpi. L’animale veniva fatto ballare, girare, saltellare, ma il numero piú atteso era la lotta fra il domatore e la fiera, che, naturalmente, era una studiata pantomima, anche perché una zampata del plantigrado avrebbe facilmente spezzato il collo del domatore. Nella pagina accanto, in basso un’altra immagine di una compagnia di Orsanti. Vigoleno (Piacenza), Museo gli Orsanti, Archivio Maria Teresa Alpi.
storiche, la Heimskringla: «Vanno nudi in com battimento, senza armatura o corazza, anabbiati come le belve, mordendo i loro scudi e uccidendo tutto ciò che incontrano, massacrando uomini e bestie. Né il ferro né il fuoco possono niente contro di loro, sono invincibili». Oltre la saga di Snorri, la loro esistenza è testimoniata da vari testi, dal IX al XIII secolo, e ne conosciamo almeno una raffigurazione: in una scacchiera in avorio del XII secolo, ritrovata tra le sabbie dell’isola di Lewis, a ovest della Scozia, vediamo tre pedoni, vestiti di una lunga tunica pelosa e in GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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L’orso
uno stato di furor bersercicus, testimoniato dal fatto che mordono i propri scudi. Da anni gli studiosi discutono sul presunto sciamanesimo di tali figure guerriere, invocando parallelismi con i popoli asiatici o americani, che vedrebbero negli animali, soprattutto l’orso, il loro antenato comune o uno spirito guida. Enigmatico è soprattutto il fatto che tali guerrieri indossassero la pelle dell’animale, come fa talvolta quel particolare operatore magico-religioso che è lo sciamano, e che come lui entrassero in uno stato alterato di coscienza e si distaccassero completamente dalla sensibilità normalmente avvertita e vissuta. Senza entrare nel merito della discussione e senza l’intenzione di fare comparativismi inutili quanto lontani nello spazio e nel tempo, sarà istruttivo riflettere sull’uso rituale delle pelli di animali tra i Desana, del gruppo linguistico tucano, stanziati a nord dell’Amazzonia, studiati dall’antropologo Gerardo Reichel Dolmatoff (1912-1994). Per i Desana, «la pelle del giaguaro non è solo una pelle, ma un’essenza, uno stato mentale che fa sí che una persona agisca come un giaguaro». Gli informatori dell’antropologo, infatti, sottolineavano spesso che il termine surirò (vestito, coprimento) non indicava solo qualcosa di materiale, ma anche un fatto psicologico. Concetto, questo, che ritroviamo anche in storici come il già citato Bruno Andreolli, quando scrive che «l’accostamento eroe-orso assume tavolta sfumature non solo fisiche, ma anche psicologiche». Spesso gli antropologi hanno prestato concetti agli storici, e viceversa: nel caso dei berserkr, sarebbe assolutamente indispensabile continuare su questa strada.
I «regali pelosi» del re di Norvegia
Come nel mondo romano, anche nel Medioevo possedere un orso era soprattutto simbolo di potenza. Con maggior precisione, se l’animale veniva comunemente considerato potente e valoroso, allora il regalarlo, nel ciclo fortemente piramidale del mondo altomedievale, diventava un ulteriore segno di sottomissione: è la forza che si umilia di fronte al vincitore o a colui che vuole essere considerato piú potente in forza, prestigio o autorità. Non a caso, all’inizio della Chanson de Roland, si narra del re Marsilio che, per arrestare l’invasione di Carlo Magno del territorio spagnolo, gli offre orsi, leoni e altri animali. Lo stesso simbolismo era esteso anche ai cuccioli: due di loro, catturati nell’880 al largo dell’Islanda, furono l’omaggio di Ingimundr il Vecchio a re Aroldo 38
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Pedone degli scacchi di Lewis, dall’omonima isola scozzese, raffigurato come un berserkr che, preso da furor bersercicus, morde il proprio scudo. Manifattura normanna, fine del XII sec. Londra, British Museum.
Haaerager («Bellachioma»). Grazie ancora a un candido orso polare, Einar Sokkason ottenne, nel 1123, da re Sigurd I Jorsalfar («Pellegrino a Gerusalemme») di Norvegia la creazione di un vescovato in Groenlandia. Anche Federico II riceveva, di tanto in tanto, «regali pelosi» dal re Haakon IV, sempre di Norvegia. Oltre a essere regalati, gli orsi erano anche curati, alimentati, coccolati. Molti signori li mostravano fieri nei loro giardini zoologici. Certamente ne possedeva uno Enrico III d’Inghilterra: l’affetto che nutriva per lui possiamo scorgerlo nei mandati reali che provvedevano a fornire «lo sceriffo di Londra di sei pence al giorno per mantenere il nostro Orso Bianco nella Torre di Londra; e procurare una museruola e una catena di ferro quando è fuori dall’acqua e una lunga e robusta corda quando pesca nel Tamigi». Al di fuori dei giardini aristocratici, si potevano incontrare orsi anche per le strade di città o di campagna, tenuti al guinzaglio dagli antenati dei nostri «domatori di orsi» o « Ursarii». Quelle figure circensi o di piazza che, con famigliola al seguito o unite in vere e proprie «compagnie», giravano l’Europa fino al XX secolo guadagnandosi da vivere con l’esibizione di scimmie, cani e altri animali ammaestrati, soprattutto orsi, il loro pezzo forte.
QUANDO BRUN PERSE IL PELO... Anche in araldica, come abbiamo visto negli studi di Michel Pastoureau, l’orso, che abbiamo definito «del Nord», sembra creare un’opposizione. Non con un suo cospecifico, bensí con un felino, il leone. Già familiare nel mondo dell’onomastica con i vari Leonardus, Löwenstein, Riccardo Cuor di Leone o Lionel, il cugino di Lancillotto, il leone la fa da padrone nelle arme medievali: piú del 15% ne sono caricate, mentre la notissima aquila non raggiunge il 3%. Per non parlare poi dei dipinti o delle sculture: romanica o gotica, la chiesa sembra una vera giungla. Leoni all’ingresso, nel coro, sul pavimento, sui muri... L’orso «nordico», alle soglie del Mille, sembra essere ancora troppo potente: onorato, vezzeggiato, a volte divinizzato, si hanno inoltre troppe occasioni per incontrarlo ai margini dei villaggi. Meglio il leone, ormai scomparso in territorio europeo e quindi piú facile da plasmare, almeno con l’immaginazione e con il simbolismo. Cosí il felino, re degli animali nelle tradizioni orientali e meridionali, lo diviene anche in tutta Europa. Alla fine di questa impari battaglia, l’immaginazione vince sulla realtà: nel XlI secolo, come mostra il Roman de Renart, Noble, il leone, non ha rivali. Brun, l’orso, non è che uno dei suoi baroni, il piú lento e pesante, spesso ridicolizzato dalla volpe. Come quella volta che, messi il muso e le zampe in una cavità di albero abbattuto per prenderne il miele, la volpe Renart leva i cunei che la tenevano aperta, intrappolando il compagno. Il povero Brun, allora, non fu solo ridicolizzato, ma perse anche i peli e la pelle della testa, continuando il viaggio con una sorta di buffo «cappuccio rosso»
Spettacoli cruenti
Ancora una volta, data la laconicità delle fonti, dobbiamo inferire il loro utilizzo «domestico» dai documenti: nelle leggi degli Alemanni, è prescritta una multa di sei solidos per chi uccida un orso. In un diploma del monastero di Montier-au-Der si proibisce ai funzionari pubblici di esigere «pastum equorum, vel canum aut ursorum». Il fatto che i plantigradi siano citati insieme a cani e cavalli, lascia pensare a un loro utilizzo diverso da quello venatorio o alimentare. Lo stesso termine utilizzato per definire gli ursari contemporanei, era conosciuto anche nel latino medio e indicava, secondo il lessicografo e storico Charles Dufresne Du Cange (1610-1688), non solo gli addetti al controllo degli orsi, ma anche colui che «ursos ad spectaculum instruendi cura commissa est». Uno di tali spettacoli, molto cruento, fu famoso e richiesto in Inghilterra per molti secoli: il bearbaiting. Si svolgeva solitamente la domeniIl poeta noto come Herr Hawart duella con un orso, nella pagina miniata a lui dedicata del Codice Manesse, una collezione di ballate e componimenti poetici redatta a Zurigo tra il 1300 e il 1340. Heidelberg, Biblioteca dell’Università. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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L’orso
ca, in apposite arene popolarmente chiamate «giardini dell’orso», e vi assistevano anche le classi aristocratiche, compresa la regina Elisabetta I, che nel 1575 volle farvi tormentare, per il suo piacere, ben tredici orsi. Secondo un contemporaneo, Robert Laneham, era uno spettacolo «molto piacevole a vedersi». Il bearbaiting venne proibito solo da un atto del Parlamento del 1835, che lo giudicò fuorilegge, ma fino ad allora il sangue d’orso continuò a macchiare il selciato delle piazze domenicali. Ufficialmente, ai puritani un tale «sport» non piaceva, anche se in segreto l’adoravano, come candidamente confessava lo stupido Abrahm Slender di Shakespeare: «Mi piace assai la giostra degli orsi; ma protesterò contro di essa con non meno ardore di chiunque in Inghilterra» (Le allegre comari di Windsor). 40
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
In questa pagina copie ottocentesche di dipinti su rotolo raffiguranti la cerimonia degli Ainu che prevede l’uccisione dell’orso, dall’opera di Hata Awagimaro Ezoshima kikan (Immagini insolite dell’isola di Ezo [Hokkaido]). 1799. Nella pagina accanto, in alto una battuta di caccia all’orso nell’allegoria del mese di Novembre facente parte del ciclo dei Mesi in Torre Aquila, nel Castello del Buonconsiglio, a Trento. Opera attribuita al Maestro Venceslao. 1400 circa. Nella pagina accanto, in basso un momento dello lyomante, la cerimonia praticata dagli Ainu, gruppo etnico dell’isola giapponese di Hokkaido, che prevede l’uccisione di un cucciolo d’orso.
IL DIO CHE LASCIA GRANDI ORME
Tra gli Ainu, gruppo etnico stanziato nell’isola giapponese di Hokkaido, si celebrava, fino alla seconda metà del Novecento, una cerimonia chiamata lyomante: l’uccisione rituale di un cucciolo d’orso allevato per uno o due anni dalle donne. Venuta la sua ora, ci si avvicinava all’animale avvisandolo del suo prossimo «viaggio»: «Ora sei cresciuto. È giunto il momento che torni da tuo padre e tua madre...». Quindi l’officiante invitava gli altri membri del villaggio: «Sto per sacrificare il piccolo essere divino che abita tra le montagne (...) saremo uniti nella grande gioia di mandare via il dio (kamui). Venite». Fra canti rituali, venivano preparati cibi che sarebbero stati offerti anche all’hepere, l’orso, e delle frecce rituali senza punta, hepere-ai, considerate ulteriori regali all’animale. L’officiante, nella cui casa aveva vissuto il cucciolo, gli si avvicinava, rivolgendogli una preghiera: «O tu divino, tu sei stato mandato nel mondo perché noi ti dessimo la caccia. (...). Ora che sei grande, stiamo per mandarti da tuo padre e tua madre. Quando giungerai da loro, ti prego, parla bene di noi... Ti prego di tornare da noi per essere (nuovamente) sacrificato». Legato, si conduceva l’animale alla «passeggiata d’addio» per il villaggio, mentre gli uomini gli lanciavano contro le hepere-ai, «frecce di fiore», che però non lo ferivano, come invece faceva, a morte, la freccia scoccata dal suo proprietario. Dopo averne bevuto il sangue, si procedeva all’iri, lo scuoiamento. Portato in casa il cadavere, gli veniva offerto da mangiare e da bere. La parte finale del rito era il keyomante («spedire via il kamui»): «Se tu tornerai nuovamente l’anno prossimo, io mi prenderò cura di te. Per ora lasciaci, gentilmente». Quindi il cranio veniva orientato verso est e una freccia veniva scoccata in cielo, nella stessa direzione: è il kamui che parte dal mondo degli uomini, al quale però tornerà, si spera, sempre sotto forma di orso. Da oltre cinquant’anni gli Ainu non ricevono piú visite del Sanruweporo kamui, il «dio che lascia grandi orme».
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L’orso
STEMMI E GIOCHI DI PAROLE Anche se diffuso tra i nomi di città (Berna, Berlino...), abbazie (Ourschamp, Sainte-Ursanne...) e nell’antroponimica (Bernardo, Orso, Ursula...), l’orso è raro nelle arme medievali. Il suo indice di frequenza non supera il 5% (mentre per il leone, ricordiamolo, è del 15%), ed è soprattutto una figura parlante, cioè il suo nome forma un gioco di parole con quello del possessore dell’arme. Il piú antico esempio lo vediamo raffigurato in una miniatura inglese, prodotta nella zona di Canterbury, tra il 1190 e il 1200: rappresenta l’assassinio dell’arcivescovo Thomas Becket, il 29 dicembre del 1170. Fra i quattro cavalieri mandati da re Enrico Il (al grido di: «Chi mi libererà da questo prete turbolento?»), nella miniatura notiamo Reginald Fitz-Urse, riconoscibile dallo scudo ornato da un orso con museruola. In un contesto a noi piú prossimo, il plantigrado compare negli scudi degli Orsini, nome di famiglia derivato dall’espressione «figli di Orso» e scelto dal potente ramo distaccatosi negli ultimi decenni del XlI secolo dal casato romano dei Boboni. Anche l’araldica conserva in qualche modo l’antico aspetto dell’orso «nordico» e guerriero, che talvolta appare sul cimiero, forse relitto degli antichi «caschi con orso» dell’Alto Medioevo germanico e scandinavo. L’animale compare soprattutto nelle arme svedesi, danesi e tedesche del XII e XIII secolo, ancora in forma parlante ed evocante l’idea di re: Konisberg, Konnigut, Konneche... Sono le ultime «voci» di una tradizione orale che ormai va scomparendo dall’Europa.
In basso particolare della versione acquarellata del Ballo dell’orso in Roma, incisione di Bartolomeo Pinelli del 1840. Roma, Museo di Roma.
In alto miniatura raffigurante il martirio di Thomas Becket, da un salterio di produzione inglese. 1220 circa. Londra, British Library. Il manipolo degli assassini è guidato dal cavaliere Reginald Fitz-Urse, riconoscibile dallo scudo ornato da un orso con museruola.
Di un’antica forma di bearbaiting parla Gilberto di Nogent (1053-1130 circa) nel De vita sua. Siamo verso il 1080, e Guglielmo il Conquistatore, re d’Inghilterra e duca di Normandia, regala un orso al suo protetto Arnoul d’Ardres. Tornato a casa, questi non ebbe tempo per mettere l’animale nel suo giardino, cosí gli abi42
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La piazza antistante la chiesa romana di S. Maria della Scala è teatro di un ballo dell’orso, momento culminante di una festa di pastori abruzzesi, disegno acquarellato di Achille Pinelli. Prima metà del XIX sec. Roma, Museo di Roma.
tanti di Ardres, incuriositi e accompagnati dai loro cani, vennero a vedere la belva enorme. Non appena la videro, per giunta incatenata e quindi poco offensiva, i cani le si lanciarono contro «in piú di quaranta»: in breve l’uccisero, senza che Arnoul avesse il tempo di impedirlo. Ma lo spettacolo piacque cosí tanto che questi
si procurò un altro orso per farlo combattere contro i cani, piú volte l’anno, nella piazza della fiera. Il monaco Gilberto ci informa anche che l’orso uscí vittorioso dai combattimenti e che gli abitanti, presumibilmente entusiasti, accettarono di pagare una nuova tassa destinata al mantenimento del plantigrado. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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L’orso
Di miracoli, prodigi e altre storie La scarsa considerazione che il mondo romano (inizialmente) ebbe per la caccia, officium servile, sembra riflettersi nella mentalità cristiana della Penisola. La Chiesa la condannava: da san Girolamo (IV secolo), che dimostrava il nesso cacciapeccato dall’assenza nelle Scritture di santi cacciatori (Esaú lo fu, ma era un peccatore), a sant’Ambrogio, il quale affermava saggiamente che tra i cacciatori non aveva mai incontrato un uomo giusto. Una tesi confermata da papa Nicola I (IX secolo), il quale osservava che nella storia sacra solo i cattivi erano dediti alla caccia. Nella letteratura agiografica, inoltre, vedremo spesso animali, nel nostro caso orsi, soggiogati, ammansiti, convertiti, talvolta uccisi (abbiamo appena visto il ludum carnevalarium). Non c’è, in tutto questo, qualcosa che ricorda quella sorta di messa in scena politica che furono le venationes romane? Se combattere ferae (dentatae, Libycae, Africanae...) nell’anfiteatro fu l’affermazione simbolica, ma visibile al populus del dominio dell’Urbe sulle province sottomesse, anche sottomettere un orso, segno di ferocia, coraggio e «paganesimo», da parte di un povero santo, non può significare la vincitrice potenza cristiana, che con facilità, e senza violenza, ha la meglio su ciò che a stento e con difficoltà riescono a fare mute di cani e di aristocratici cacciatori? Non rientra nel piú ampio concetto di pax cristiana universale su uomini e animali, prevista dall’ordinamento divino? Soprattutto, non è una vittoria del santo, non solo su di un singolo animale o una singola specie, bensí sulla credenza folclorica che gli è sottesa e che esso rappresenta? L’orso nella letteratura agiografica, dicevamo all’inizio, riflette anche i cambiamenti di mentalità (e di strutture) delle varie fasi del Medioevo (come hanno ben mostrato gli studi di Massimo Montanari, Elisa Anti, Pierre Boglioni, František Graus). STRUMENTO DELLA PERSECUZIONE Nel mondo romano il saltus, il bosco, era marginale: il ciclo produttivo si svolgeva quasi esclusivamente all’interno della villa e quindi l’incontro con l’animale selvatico, con l’orso, era fortuito, occasionale, quasi un omen sfavorevole. «È nota – sostiene Montanari – la marginalità, la sostanziale estraneità del saltus (...) rispetto al sistema produttivo e alle coordinate culturali della romanità». Non a caso, nei testi delle Passiones, o nei miracoli legati al contesto tardo-antico delle persecuzioni contro i cristiani, l’orso viene chiamato in causa soprattutto come instrumentum persecutionis, e conserva il carattere estraneo che rivestiva nelle venationes romane. Lo si incontra, quindi, ancora al fianco delle ferae africanae, animali esotici per eccellenza. In genere, il miracolo consiste nell’addomesticamento della belva da parte del santo, equiparato cosí a quelle figure di mansuetudinarii che tanta parte avevano nei giochi circensi romani e nella vita di piazza medievale. Cosí vediamo nella Passio Faustini et Jovitae, contro i quali l’imperatore Adriano lancia orsi vehementiores, ma questi, giunti davanti ai santi legati, anziché ucciderli, li liberarono e si stesero davanti a loro, allontanandosi poi cum 44
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Santa Colomba salvata da un orso, scomparto facente parte delle Storie di Santa Colomba, tempera su tavola di Giovanni Baronzio. 1345-1350. Milano, Pinacoteca di Brera. Protagonista del ciclo è santa Colomba di Sens che, nella scena qui riprodotta, ammansisce un’orsa mandata per ucciderla, che ora, simile a un orsacchiotto, aggredisce il sicario. magna humilitate. Sono animali nemici dell’uomo, come dimostra la loro aggettivazione al grado assoluto. Gli ursi ferocissimi della persecuzione di Primio e Feliciano ai tempi di Diocleziano; il violentissimus ursus di Paride di Teano; l’inmanissimus ursus di Cerbonio, vescovo di Populonia: «Allora il vescovo fu portato nel mezzo dell’arena e, per metterlo a morte, venne cercato un inmanissimus ursus (...) liberato l’orso dalla sua gabbia. Accensus et concitatus, si lanciò sul vescovo, ma immediatamente, dimenticando la sua ferocia, curvò la schiena, abbassò la testa umilmente e si mise a leccargli i piedi... ». A partire dal IV-V secolo, le cose nel paesaggio agrario ed economico italiano cominciarono a cambiare: l’acquisizione di parte del latifondo romano da parte delle genti germaniche, abituate a uno sfruttamento del territorio profondamente diverso, determinò l’avvicinamento dell’economia domestica alle terre incolte. A differenza della romanità, l’Alto Medioevo sviluppò nei confronti del saltus un’attenzione preferenziale: caccia, pesca, allevamento brado del bestiame – soprattutto suino –, raccolta dei prodotti del bosco – legna compresa – divennero forme essenziali di sussistenza. «Indubbiamente – evidenzia ancora Montanari –, oltre alla necessità di approvvigionamento di viveri imposto dalla generale degradazione del paesaggio, entrano in gioco anche cambiamenti di mentalità e atteggiamenti verso l’incolto importati dalle civiltà germaniche». L’orso che apparirà nelle storie dei santi, in questo periodo, non è piú un elemento esotico, ma endotico: non compare piú circondato dalle africanae, ma da piú nostrani lupi e cinghiali. Non solo. Anche l’orso sembra diventare una parte integrante del vivere quotidiano e il suo incontro non sembra essere piú drammatico, come se si instaurasse una certa convivialità, al limite una pacifica competizione, tra santo e animale. Come nel caso di san Colombano, il quale, alla ricerca di un eremo, entra in una grotta di difficile accesso, scoprendovi dentro alcuni orsi. Ordina agli animali di andare via, cosa che fanno immediatamente con una mitezza inaspettata (perlomeno fino a qualche secolo prima). Ma ora siamo nel VII secolo, l’epoca in cui è piú stretto il rapporto dell’uomo con la natura selvatica. Sembra ora scomparire quella ferocia che informava l’animale delle Passiones, ma anche dell’orso che abbiamo definito «nordico». Anzi, con i santi si instaura una convivenza, quando non una sorta di amicizia: l’eremita Fiorenzo, trovandosi nella solitudine delle campagne umbre, chiede al Signore di mandargli una compagnia: «Non appena ebbe finito la preghiera, uscendo dall’oratorio, trovò davanti alla porta un orso che abbassò la testa, non mostrando alcuna
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L’orso ferocia nei suoi gesti. Evidentemente voleva far comprendere che veniva a offrire i suoi servigi all’uomo di Dio» (Gregorio Magno, Dialoghi, III, 15,3). Sorprendente è la richiesta del santo all’animale: «L’uomo del Signore, avendo capito tutto, visto che nel recinto erano rinchiuse quattro o cinque pecore, prive di pastore e guardiano, diede all’orso la seguente consegna: “Va’ a pascolare queste pecore, e a mezzogiorno ritorna”». Esemplare è anche il caso di un altro eremita, come ci viene narrato sempre da Gregorio Magno: «Recentemente, nella provincia del Sannio, un uomo venerabile chiamato Menas conduceva una vita solitaria (...) Spesso, dalla vicina foresta, venivano degli orsi che tentavano di mangiare le api (il miele). Li colse sul fatto e, con la ferula che aveva sempre tra le mani, li colpí. Sotto i suoi colpi, belve cosí feroci rugliarono e fuggirono». A sottolineare la superiorità di un uomo santo su ogni aristocratico cacciatore, Gregorio commenta: «Loro (gli orsi), che delle spade potevano a stento intimidire, temevano un colpo di ferula dato con le sue mani» (Dialoghi, III, 26, l e 3). UNA SIMBIOSI PERFETTA A volte, come nel caso della Vita Severini (VI secolo ), un gruppo di fedeli viene guidato per duecento miglia tra la neve da un orso fino all’eremo del santo. Nella realtà agiografica, non ha importanza il dato etologico che l’animale avrebbe dovuto essere in letargo, perché qui siamo in presenza di un orso che, narra il testo, fece ciò «qua potuti humanilate», con tutta l’umanità di cui fu capace. L’animale ha un senso solo quando riesce a somigliare all’uomo e, soprattutto, in quanto riesce a mostrare un concetto: la potenza del divino sul mondo. «Come pastore o come guida – scrive Montanari –, o
QUANDO VEDI L’ORSO, SCAPPA! In alcuni contesti agricolo-pastorali abruzzesi, l’orso è tuttora un animale dai contorni fortemente mitici, ricchi di antiche credenze e superstizioni. E non è insolito, come è accaduto a chi scrive durante una ricerca sul campo, ascoltare storie fantastiche e lontane da ogni etologia legata all’orso. Cosí Nestore, un pastore, racconta convinto che, mentre il lupo può succhiare il sangue a 50 pecore in una sola notte, l’orso ne prende una sola e la porta lontano dal gregge per poterla consumare in santa pace. A differenza di quanto sostiene la zoologia ufficiale, Nestore chiarisce che esistono due tipi di orsi: quelli carnivori, o «porcini», e quelli «erbaioli», che mangiano solo i «taratufoli», «una specie di patate», scavandoli intorno ai campi. Nei suoi racconti, si parla di una famiglia chiamata degli «Orsari», da un capostipite che un giorno ebbe la sventura di incontrare un orso. Colto dalla paura, si finse morto, ma l’animale, forse preso da pietà, gli avrebbe scavato una buca in cui l’avrebbe seppellito, coprendolo con la terra scavata con i suoi stessi unghioni. Si dice «quando vedi l’orso scappa, quando vedi il lupo arrampicati!», perché il secondo non riesce a scalare gli alberi, mentre il primo sí. Anche in un modo un po’ particolare: in una storia che ha molte varianti, si racconta che una volta un orso rimase intrappolato in un recinto (la storia è ambientata a Opi, in provincia dell’Aquila) e, non riuscendo a uscire, uccise molte pecore (alcuni dicono 57), le ammucchiò l’una sopra l’altra e le usò come scala per oltrepassare la staccionata. Un altro pastore, Giuseppe, ha raccontato la stessa storia, aggiungendo però che secondo lui le pecore erano morte per soffocamento perché, spaventate dalla belva, si erano ammassate tutte in un angolo. Ma l’orso, nel contesto abruzzese, resta un animale temibile e pericoloso, i cui stessi unghioni sono velenosi: Antonio, in località La Prata (Villetta Barrea), sostiene che un graffio dell’animale porta alla morte, non per la sua potenza, bensí per il fatto che le unghie contengono un veleno mortale. Ne è prova, sostengono molti pastori, che le pecore uccise dall’orso, se scuoiate, mostrano le carni viola.
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Particolare di una pala d’altare raffigurante san Romedio con l’orso. XVII sec. Predaia (Trento), Santuario di S. Romedio.
piú semplicemente come compagno, l’orso imita l’uomo. È uomo fra uomini, cosí come, in un certo senso, l’uomo è animale fra gli animali. La simbiosi è perfetta». Il nuovo impulso dato all’agricoltura e l’importanza della domesticazione degli animali, tra il VII e il X secolo, filtrano anche nella letteratura agiografica, dove, ancora una volta, vediamo il plantigrado cambiare di segno: sembra nuovamente essere elemento estraneo o marginale, come la stessa foresta che l’accoglie. L’incontro tra uomo e animale diviene spesso cruento: l’orso uccide gli animali domestici del santo, ma poi, miracolosamente, ne prende il posto. Leggiamo cosí nella Vita di san Marino (IX-XI secolo), il protettore dell’omonima Repubblica, eremita sul monte Titano, presso Rimini, dove un orso gli sbrana l’asinello e a lui si sostituisce per i lavori nell’orto; oppure come nella Vita di San Vincenziano, quando un orso, dopo aver mangiato un bue che trasporta il feretro del santo, viene messo al suo posto; o ancora come nella leggenda di san Romedio, fondatore del bel santuario a lui dedicato a Sanzeno (Trento). Secondo la leggenda, un orso sbrana la cavalcatura del santo, ma questi, senza scomporsi, ordina al suo confratello Davide di prendere ugualmente briglie e sella e metterle alla belva. Romedio riesce ad andare comunque a Trento, a cavallo dell’orso e fra lo stupore dei Nonesi. Ultimo incontro che vogliamo qui riportare, è quello fra un orso e san Gallo, avvenuto nei pressi del lago di Costanza: l’animale, nel racconto che ne fa Wettino nel IX secolo, discende dalle montagne per cibarsi dei resti lasciati dal santo, il quale subito gli ordina di tenere acceso il fuoco. L’obbedire dell’animale viene ricompensato con una pagnotta. Infine, san Gallo cosí si rivolge all’orso: «Nel nome di Nostro Signore Gesú Cristo, allontanati da questa valle. Tieni per te le montagne e le colline qui intorno, ma non far del male né agli uomini né alle [loro] bestie». Come ha fatto osservare Jacques Voisenet, «se l’uomo di Dio impone la sua legge all’orso “germanico”, gli manifesta tuttavia deferenza, istituendo una divisione dello spazio: all’uomo e dunque al cristiano la valle, alla bestia selvatica e “pagana” le montagne coperte di alberi». Nei dintorni del Mille, quando si ricomincia a privilegiare l’agricoltura allo sfruttamento del bosco, della foresta, della palude, il rapporto uomini/animali muta nuovamente. Vedendosi restringere il loro spazio vitale, questi ultimi sono costretti a ingaggiare una feroce lotta per la sopravvivenza, a volte intaccando gli spazi riservati agli uomini: nasce cosí quella «mitologia del terrore» degli animali selvatici, di cui farà le spese il lupo, in quest’epoca trasformato nell’ambiguo e
pericoloso mangiatore di uomini, e perciò degno di morte. L’agiografia registra tali cambiamenti, come possiamo vedere nella Vita (XI secolo) di Giovanni Gualberto, fondatore del cenobio di Vallombrosa. Quando viene informato del fatto che un orso faceva strage di bestiame, questi non batte ciglio: «Va’ e ammnazzalo», sentenzia. L’animale viene eliminato con un sangue freddo che lascia perplessi. Con lui è devastato l’albero, nel quale si nascondeva. Solo qualche secolo prima, un episodio del genere sarebbe stato a dir poco inconcepibile. La strada della demonizzazione dell’orso, iniziata con i naturalisti, proseguita con gli enciclopedisti e i bestiari,
Miniatura raffigurante sant’Amando, vescovo di Maastricht, che obbliga un orso a trasportare i bagagli con cui stava recandosi in pellegrinaggio a Roma insieme a sant’Umberto e a un terzo personaggio, dopo che il plantigrado aveva sbranato il mulo originariamente addetto a quel compito, da un’edizione della Vita di Sant’Amando. 1160-1170. Valenciennes, Bibliothèque municipale. rafforzata dai Santi, sembra ormai aperta. Inoltre, come ha ben dimostrato Michel Pastoureau, bisogna dire che la Chiesa, tra l’VIII e il XII secolo, «favorisce ovunque la promozione del leone, animale esotico e non indigeno, portato dalla cultura scritta e non delle tradizioni orali, animale per ciò stesso dominabile e non imprevedibile. Ovunque essa “gioca” il leone contro l’orso; ovunque si accanisce contro quest’ultimo». Ecco perché oggi il re degli animali è il leone e non il possente, coraggioso, affascinante e rispettato orso. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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LA LEPRE di Lorenzo Lorenzi
O la fuga o la vita 48
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Piccola e veloce, la lepre aveva nella corsa la sua «arma segreta». Tuttavia, al di là delle sue caratteristiche di natura etologica, l’orecchiuto erbivoro fu elevato a simbolo di concetti filosofici e dogmi religiosi
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el Medioevo un uomo debole era considerato «pauroso come la lepre» secondo la definizione aristotelica e dei peripatetici posteriori, perché la diffusione della Physiognomica dello Pseudo-Aristotele veicolava una salda conoscenza sui tratti emotivi insiti nel volto, indizio dei moti dell’anima. Riflessioni e approfondimenti di Michele Scoto (1175-1235 circa) nel Liber phisionomiae hanno strutturato l’equivalenza uomo-animale fondata sui segni emotivi, effetto dei vizi e delle virtú morali. In età moderna, Giovan Battista Della Porta pubblicava, nel 1586, il De humana physiognomonia, pervenendo alle medesime considerazioni, mentre Cesare Lombroso, nell’Ottocento, applicava tali risultanze alla criminologia forense sui tipi violenti.
Venere, Marte e Amore, olio su tavola di Piero di Cosimo. 1485-1490. Berlino, Gemäldegalerie. Si noti la lepre bianca che fa capolino accanto alla dea dell’amore e a suo figlio.
In tutti i trattati vi è sempre un riferimento a questo animale a connotare terrore e pavidità. Piú di altri, la lepre ha goduto di una raffigurazione multiforme ed espressiva: uno sguardo attonito, un sorriso beffardo o una fuga improvvisa ne riflettevano il tratto psichico (come, per esempio, nel Giovane leprotto di Dürer; vedi foto a p. 51). Leonardo, fondatore della fisiognomica moderna, scrive «figurerai (…) le gambe dirietro de la lepre, le quali son molte muscolose e di muscoli spediti perché non sono impedite da grossezza» (Corpus di studi anatomici... f.R.L.12631 r, K/P 89r). L’arte figurativa ne ha evidenziato maggiormente il carattere introspettivo e fugace in situazioni di pericolo e a differenza della furbizia della volpe, della forza del leone o della violenza (a protezione della prole) tipica GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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La lepre A sinistra particolare di una miniatura raffigurante una lepre inseguita da un cane da caccia, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
QUASI COME UN GIOCO Nel IV secolo a.C., Senofonte parla della caccia alla lepre definendola estremamente fascinosa e in virtú della quale «anche un innamorato [nel vederla] si scorderebbe dell’oggetto della sua passione». Per la sua cattura, i cacciatori dell’antichità, in corrispondenza del covo, tendevano le reti, poi liberavano i cani che la mettevano in fuga spingendola nella trappola. I Romani catturavano quest’animale esclusivamente per la bontà e la sapidità delle sue carni, cacciarlo era ritenuta piuttosto semplice, pertanto poco emozionante poiché non metteva in adeguato risalto le doti del cacciatore. Nel Medioevo la caccia era un elemento indispensabile per la plebe che si impegnava con trappole e stratagemmi per l’approvvigionamento di cibo, mentre costituiva uno svago e un’attrattiva per la classe aristocratica, che con tale pratica sconfiggeva l’ozio, dando prova delle sue abilità a cavallo: a farne le spese erano animali dalla carne pregiata, come cervi e caprioli. Si praticavano due tipi di caccia: una rumorosa, chiamata venatio clamorosa, con levrieri e corni, l’altra piú rilassata, detta venatio placita, utilizzando falconi e reti. Nella dimensione cortese, la selvaggina di piccola taglia, come lepri e conigli, era abbattuta usando arco e balestra, e l’inseguimento della lepre risultava piacevole in relazione all’imprevedibilità dell’esito, quasi fosse un gioco; l’animale era ritenuto comunque indegno, in quanto malinconico e pauroso. La caccia alle lepri veniva preferita perché meno cruenta e l’atmosfera, nonostante la concitazione creata dai cani, appariva rilassata e gioiosa.
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In basso altorilievo raffigurante tre lepri che si rincorrono in cerchio, formando un triangolo equilatero con le loro orecchie, posto al culmine di una finestra della Cattedrale di Paderborn (Germania). XII sec.
dell’orso, alla lepre è assegnato il compito di rappresentare l’uomo previdente e timoroso, in fuga dal male. Scappando dai predatori per rintanarsi negli anfratti del bosco, comunica sí la sua debolezza, ma anche la volontà di liberarsi dalla tentazione e dall’oscuro presagio, in cui il terrore verso l’ignoto è inteso nella prospettiva di un futuro indicibile. Una lucerna di epoca paleocristiana rinvenuta nei pressi della cappella di San Pietro Mandurino (Taranto) ritrae una lepre in fuga dalla tentazione, iconografia che appare allinearsi con le indicazioni contenute nel Fisiologo, in cui si narra come l’animale possa salvarsi dai predatori a patto di percorrere sentieri che conducono verso l’alto, su vette che toccano il cielo. Nell’antica araldica medievale, è impiegata nei blasoni dei cavalieri al fine di esprimere bontà, mansuetudine e prolificità, altra sua importante caratteristica. Un rapace che cattura una lepre impaurita fu l’emblema scelto da Federico II come manifestazione della somma autorità imperiale, tanto che nelle lunette di alcune finestre del castello di Barletta (luogo in cui il sovrano celebrò la dieta
del 1228) osserviamo l’immagine dell’aquila che aggancia con i suoi artigli una lepre e la strazia L’iconografia delle tre lepri disposte a triangolo iscritto in un cerchio giunge in Europa dal Medio e dall’Estremo Oriente con un significato che verte sulla vittoria delle forze celesti contro quelle terrene. In diverse chiese inglesi, francesi e tedesche, la triade fa la sua comparsa sulla nervatura centrale del tetto del coro o sulle navate centrali: questi gioiosi animaletti alludono alla Trinità in virtú della loro disposizione a formare un triangolo con la punta rivolta al cielo (vedi foto a p. 50, in basso). Le piastrelle della cattedrale di Chester, il soffitto della chiesa di Scarborough nello Yorkshire presentano lepri dalle orecchie ben dritte che si rincorrono a formare un nucleo indistinto, probabile riferimento all’eternità e invito all’attesa della nuova visione del Cristo nella dimensione sovrasensibile. Questa trinità trova in ambito agreste un riferimento precipuo alla fasi della luna (crescente, piena e calante) e James Frazer, nel Ramo d’oro (opera pubblicata per la prima volta nel 1890), menziona la lepre padrona dei campi di grano, fuggitiva alla presenza dei falciatori, istituendo un collegamento con Cerere, dea delle messi, che correva mascherata per i campi protetta da alte spighe.
LEPRE IN FABULA La lepre è protagonista di importanti favole, fiabe e narrazioni fantastiche; due in particolare sono esemplificative del suo carattere identitario, la favola di Esopo (620-564 a.C.), La lepre e la tartaruga, e a quella moderna di Lewis Carroll (1832-1898), Alice nel paese delle meraviglie (1865). Nella prima si narra di come un giorno una lepre si vantasse con gli altri animali per la sua velocità nel correre, sfidando chiunque volesse competere con lei; la tartaruga accettò e al via la lepre, partita come un razzo, si fermò e si mise supina appisolandosi; al suo risveglio vide la tartaruga al traguardo che sorridendo esclamò: «Non serve correre, bisogna partire in tempo». Nell’opera di Carroll, il coniglio bianco distoglie l’attenzione di Alice dalla lettura e le sue parole «È tardi, è tardi...» (guardando l’orologio da taschino) incuriosiscono la bambina che segue il coniglio sin dentro una tana oltre la quale si schiude un mondo fantastico. Per tutta la narrazione, Alice rincorrerà il coniglio senza mai raggiungerlo e avere con lui un rapporto veramente strutturato; in un episodio addirittura finirà per tirare sassi alla bambina che si trasformeranno in pasticcini. L’animale rappresenta lo scorrere del tempo e il rapporto conflittuale dell’essere umano con esso. Pertanto, il tempo che fugge, l’impossibilità di fermare l’attimo, il divenire come scorrimento dell’essere costituiscono i nuclei significativi e fondativi della narrazione e dell’esistenza umana in generale.
Fra mito e natura
Lepri sono parte di decorazioni di alcune chiese di campagna e, a tal proposito, citiamo l’antica chiesetta di S. Sebastiano (XI-XII secolo), nel Comune di San Pietro Infine (Caserta), che mostra un bassorilievo adorno di due lepri (o conigli) che si affrontano entro un ghirigoro floreale ed esprimono non solo il simbolo lunare del tempo rinnovato dalla buona sorte, ma anche una felice crasi fra mito e natura. In area tedesca, a partire dall’inizio del VII secolo d.C., è diffuso il culto celtico di Eostre, divinità agreste primaverile collegata al divenire e alla rinascita. Chiamata dai popoli germanici Eostur-Monath, è accompagnata dalla lepre attributo della fugacità e dell’alternarsi delle stagioni. Si narra che la dea trovò nel bosco un uccello ferito e, mossa a pietà, decise di trasformarlo in una lepre, affinché potesse nell’inverno trovare rifugio in luoghi sicuri; in segno di gratitudine per il suo nuovo aspetto, omaggiò la dea di fresche uova. Beda il Venerabile (673-735) cita l’animale, nel De Junger Feldhase (Giovane lepre), disegno, acquerello e guazzo di Albrecht Dürer. 1502. Vienna, Graphische Sammlung Albertina. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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La lepre
Temporum Ratione, come esempio di fertilità e di rinascita, perché gravida di uova, segno di annuncio del nuovo anno primaverile e il momento della schiusa assurge ad allegoria della natura al suo massimo grado. Sant’Ambrogio ne fa un simbolo salvifico di redenzione, poiché il suo destino è quello di essere catturata e dilaniata nel corpo. Egli fu il primo a istituire un legame fra la tradizione del coniglio covante e la Pasqua cristiana, sostenendo che l’uovo che si rompe rappresenta la Resurrezione di Gesú, il cui corpo venne squarciato dal martirio; la lepre per il dotto teologo, piú di altri animali, rappresenta Cristo in quanto il dolore provato nel deporre le uova (essendo un lagomorfo che si comporta 52
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come un volatile) appare in sintonia con la sofferenza della Flagellazione e della Crocifissione. Come simbolo pasquale, la lepre è citata anche nel libro del medico Georg Franck Von Franckenau De Ovis paschalis (1682), a dimostrazione del consolidamento, anche in età moderna, di questa antichissima tradizione, a cui l’autore aggiunge un aspetto meno noto, ovvero il dono della parola (un animale parlante e raziocinante), ma anche della magnanimità poiché soleva regalare uova ai bambini ubbidienti. Nella chiesa di S. Ambrogio a Milano (XII secolo), l’altorilievo di un capitello dell’atrio mostra la metafora dell’anima che sceglie fra salvezza e perdizione: una donna è tentata da un centauro
Madonna con Bambino con Santa Caterina d’Alessandria e un pastore, detta anche Madonna del Coniglio, olio su tela di Tiziano Vecellio. 1530 circa. Parigi, Museo del Louvre.
Baldung Grien, osserviamo ai piedi di Maria ed Elisabetta quattro conigli dallo sguardo beffardo e sereno, uno di colore marrone appena nato fa capolino timidamente dalla sua tana. L’interpretazione dovrebbe collegarsi alla figura della Madre piena di grazia di Gesú e immagine della donna che porta in grembo la vita. La mansuetudine degli animaletti, simbolo di fertilità, rende la scena decisamente idilliaca, domestica e femminina, centrata sull’annuncio al mondo della gravidanza delle due sante; la relazione coniglio-nascita è rafforzata dal fatto che in primo piano e di profilo è ritratta una coniglia apparentemente gravida.
Espressione dell’amore ideale
che suona un corno e di seguito una lepre in fuga – immagine del fedele – viene affrontata dal demonio che le tende l’agguato. In ambito popolare, nei secoli XIII-XV, vi era la convinzione che la lepre-uccello fosse ermafrodita e potesse riprodursi senza perdere la verginità, per questo motivo la sua presenza in importanti edifici di culto troverebbe spiegazione in relazione alla figura di Maria Vergine. In questa direzione potrebbero leggersi i conigli bianchi mansueti che brucano l’erba nell’incisione della Sacra Famiglia di Dürer (vedi foto in questa pagina); anche nella scena della Visitazione, parte della grande pala dell’altare della cattedrale di Friburgo (1512), realizzata da Hans
Sacra Famiglia con tre lepri, xilografia di Albrecht Dürer. 1497-1498. New York, The Metropolitan Museum of Art.
Giovanni Bellini dipinge nel 1505 la tavola del San Gerolamo leggente (Londra, National Gallery) all’interno di un paesaggio roccioso; nella scena, il concetto dell’amore di Dio sul peccato è formalizzato dalla presenza di tre animali: lo scoiattolo (sentinella divina), la salamandra (immagine stessa di Cristo) e una coppia di conigli in affettuoso corteggiamento, espressione di amore ideale. La dimensione del male, che gli uomini dovrebbero fuggire (cosí come fanno i conigli rincorsi dai cani mordaci), è mostrata nell’opera di Pisanello La visione di Sant’Eustachio (1436-37), nella quale è rappresentato l’episodio del cavaliere romano che si convertí al cristianesimo dopo aver assistito, durante una battuta di caccia, alla visione del Cristo tra le corna di un cervo. La Vergine, il Bambino e Santa Caterina d’Alessandria di Tiziano presenta un’ambientazione campestre, colta nell’ora crepuscolare con pastore sullo sfondo (vedi foto alla pagina precedente); Caterina porge il Bambino a Maria seduta, intenta ad accarezzare con dolcezza un piccolo coniglio bianco. Che l’atmosfera richiami l’idillio è data dalla varietà di fiori selvatici, allusione al locus amoenus, mentre la presenza di un canestro contenente mele e uva potrebbe riferirsi agli episodi del peccato originale e del vino eucaristico. Il coniglio, qui attributo della Vergine, risulta una chiara espressione della nascita divina: ella infatti accarezza, in armoniosa simmetria, il Bambino con la mano destra e, con l’altra, l’animale, che, per le sue ridotte dimensioni, dovrebbe avere pochi mesi di vita; pertanto, delle quattro figure in primo piano, due sono infanti bisognosi di cure. È possibile che il coniglio non sia un simbolo semplicemente mariano, ma comprenda anche la sfera cristologica richiamando, in virtú del suo biancore e mansuetudine, il silente martirio dell’agnello mistico, che toglie i GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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La lepre
peccati del mondo. In effetti, il candore della sua pelliccia fa il paio con l’eburneo lenzuolino di Gesú (espressione di purezza) e col latte che sgorgò dalle vene di santa Caterina quando fu martirizzata dall’imperatore pagano. Nella sfera laica, conigli e lepri possono assurgere a simbolo erotico nemico dell’amore spirituale; nella Casa del Podesta di Lonato è presente una cassapanca del Quattrocento con il lato frontale dipinto da una fine decorazione a tapisserie, che riferisce una teoria di uccelli dal candido piumaggio che agganciano lepri impaurite; il senso della scena vuol essere un monito agli sposi a fuggire gli eccessi del peccato della carne mirando in alto (gli uccelli bianchi), scacciando pertanto torbidi desideri che come le lepri sono frenetici e lascivi. Venere, Marte e Amore è un dipinto di Piero di Cosimo, databile al 1485-90 (vedi foto in apertura, alle pp. 48-49), contrassegnato da atmosfere neoplatoniche, in cui si presenta fra cespugli di mirto il dio Marte assopito dopo l’accoppiamento sessuale, mentre Venere, meditante e serena, si gode la sua vittoria d’amore sugli istinti belluini. Ritratta seminuda, gioca col figlio Amore, ed è circondata da animali simbolici, quali un leprotto bianco e una farfalla; alle spalle di Marte amoreggiano due colombi, che simboleggiano il legame coniugale, mentre un gruppo di putti gioca con le sue armi. L’idillio creato riferisce come possa essere dolce e gradevole il naufragio dell’amore sensuale, contrappunto dello spirito. Il coniglio, espressione dell’eros, si integra perfettamente con i due colombi,
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante un corteo funebre officiato da conigli, dal Salterio Macclesfield. Produzione inglese, 1330-1340. Cambridge, The Fitzwilliam Museum. In basso particolare di una miniatura raffigurante un coniglio che decapita un uomo, dagli Smithfield Decretals, una raccolta di decretali papali curata da Raymond of Peñafort su incarico di Gregorio IX. Fine del XIII-inizi del XIV sec. Londra, British Library.
mentre la farfalla, simbolo dell’anima, li eleva alla dimensione soprasensibile. Un tono sessuofobico pervade invece il disegno dell’allegoria della Lussuria di Pisanello (vedi foto alla pagina accanto), di cui è protagonista una donna languidamente sdraiata e contrassegnata da un corpo sgraziato e magro, mentre la stazza del coniglio ai suoi piedi appare opulenta e famelica nell’espressione. La capigliatura arruffata e contrassegnata da voluminosi ricci, simbolo di ribellione, denota negativamente la figura in relazione all’appetito sessuale; l’animale sembra invece ammonire lo spettatore dal lasciarsi andare agli appetiti corporali, rei di un abbrutimento irreversibile. Questa interpretazione è ravvisabile anche nella tavola della Madonna del cancelliere Rolin (1435; Parigi, Museo del Louvre) del fiammingo Jan van Eyck, in cui microscopici conigli schiacciati dal peso delle colonne sullo fondo richiamano il concetto dell’amore spirituale vincitore su quello carnale.
Una violenza inaspettata
Le opere sin qui esaminate presentano un’immagine dell’animale complessa e ambivalente ovvero di un essere a cavallo di due mondi, quello spirituale e quello concupiscibile, quello della dimensione celeste e quello del divenire, valenza comune a molti animali-simbolo nella cultura medievale. La particolarità piuttosto inquietante che riguarda il lagomorfo attiene all’iconografia del coniglio violento e assassino. Una serie di miniature infatti lo mostrano aggressivo e armato, dedito ad aggredire la specie umana. Nel Breviario di Renaud de Bar (1302-
Sant’Ambrogio arrivò a vedere nella lepre un’immagine del Cristo
1304) è presente una complessa drôlerie, in cui svetta l’immagine di un animale fantastico, avente testa di lupo, coda e lungo collo, sulla cui groppa sosta un coniglio che brandisce un bastone nodoso; la postura è sprezzante e il gesto è violento, l’interpretazione potrebbe inserirsi nel contesto bizzarro del mondo alla rovescia, dal quale anche un coniglio mansueto e pavido può trasformarsi in orribile despota. Nel trecentesco libro di miniature di Lancelot du Lac, alcune scene nei marginalia mostrano lepri che cacciano gli uomini (al fine di realizzare un buon pasto) e suonano il corno per impaurirli e stanarli dalle loro tane. Un’atmosfera carnevalesca caratterizza la schiera di conigli in processione nel Salterio Gorleston (XIV secolo): ritratti in fila indiana, alcuni sostengono un cero, altri ingombranti campanelli e una croce astile processionale; su
Lussuria, disegno a penna e inchiostro del Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano). 1420-1430. Vienna, Graphische Sammlung Albertina.
una lettiga mobile trainata da lupi è seduto un coniglio che suona un lungo strumento a fiato con apertura a campana nella parte finale. Qui i riferimenti alla sfera erotica e in particolare fallica sono molti, per quanto mal celati da una sobria atmosfera religiosa; il lungo cero e il lungo strumento a fiato alludono ai richiami dell’eros, in totale dissacrazione con il corteo processionale. Pertanto non sarebbe fuorviante ipotizzare un riferimento all’omosessualità o alla pederastia negli ecclesiastici, i quali dietro l’immagine di uomini del Signore, retti e santi, celano torbidi desideri e commettono peccati della carne; interessante in tal senso è la lettera apocrifa dello Pseudo Barnaba (IV-V secolo), in cui si afferma: «Non mangerai la lepre. Non diventare un pederasta e non farti simile a questi animali, perché alla lepre cresce ogni anno un ano e ha tanti orifizi quanti anni di vita». GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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IL CAVALLO di Hippolyte Courty
Una storia al galoppo È impossibile immaginare un Medioevo senza cavalli: dai purosangue di milites e principi agli animali aggiogati agli aratri dei contadini, la loro era una presenza diffusa e indispensabile Miniatura raffigurante la regina Isabella di Gerusalemme a cavallo, dalle Chroniques de Jerusalem Abrégées. 1455 circa. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
B
ucefalo di Alessandro Magno, Baiardo del paladino Orlando – veri e propri eroi equini tra i tanti con cui cavalieri di ieri e di oggi hanno identificato le loro cavalcature – testimoniano al meglio come il nome e la personalità di un cavallo possano giungere attraverso i secoli fino ai giorni nostri. La tendenza a dare un nome a un cavallo, riconoscendogli dunque una personalità individuale, è già attestata alla fine del Medioevo e in età rinascimentale. «Re degli animali», che «ritien dopo l’huomo il primo grado (…) et per essere in molte qualità di sentimenti et di affetti somigliante et conforme a l’huomo istesso» secondo Pasquale Caracciolo (La gloria del cavallo, Venezia 1567), il cavallo rappresenta a quell’epoca una passione condivisa da molti. Leonardo traccia con frenesia lo schizzo del «Siciliano», il suo modello equino preferito, mentre Borso d’Este compare a piú riprese in groppa a «Dame», la sua bella giumenta. Tale intimità fra l’uomo e il cavallo fa sí che quest’ultimo sia considerato nel tardo Medioevo «ben piú di un semplice animale», per usare le parole di Michel Pastoureau. E proprio questa singolare posizione del cavallo, a metà fra il mondo animale e quello umano, vorremmo qui GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Il cavallo
UN GESTO INCONCEPIBILE E... SOVVERSIVO La questione dell’ippofagia ha da sempre incuriosito gli storici. In teoria, nell’Alto Medioevo la Chiesa aveva proibito di mangiare carne di cavallo, collegando tale usanza alle pratiche pagane e in particolare a quelle dei Germani, che venivano sepolti con i loro cavalli. Tuttavia gli storici dell’alimentazione, come Massimo Montanari, sembrano concordi nell’affermare che alla fine del Medioevo non avessero piú valore i tabú alimentari di origine religiosa delle età precedenti. Un miles del XIV secolo, dunque, avrebbe potuto mangiare la sua cavalcatura, pur restando un buon cristiano. Ora, al contrario, gli archeologi hanno sottolineato l’assenza di resti equini nelle fosse alimentari sia urbane sia rurali, mentre i cavalli non compaiono mai nelle liste di conti dei beccai, né nei ricettari o nei manuali di dietetica, come il noto De honesta voluptate et valetudine del Platina (Roma 1473). Come spiegare dunque questa persistente esclusione del cavallo dalle pratiche alimentari umane? Non sembra una questione di costi, poiché gli alimenti sono segni di distinzione sociale e mangiare pietanze prelibate e costose è privilegio dei signori, nella misura in cui queste sono inaccessibili ai ceti piú umili. Inoltre, mentre gli archeologi hanno dimostrato che i bovini macellati nelle campagne erano animali feriti o troppo vecchi per l’aratura e perciò inutili, non abbiamo traccia del fatto che ciò avvenisse, come sarebbe logico pensare, anche per il cavallo, animale ben piú costoso e fragile dei bovini. La risposta al nostro quesito sembra dunque porsi sul piano culturale. Alcune fonti di ambito religioso, come i penitenziali, precisano semplicemente che mangiare carne di cavallo «non è costume». Infatti, l’uomo non mangia né gli animali di famiglia, come il cane né quelli «estranei», come il ragno, ma gli animali domestici e selvatici. Il cavallo, certo, è allevato come gli animali domestici, ma riceve dall’uomo cosí tanto affetto da essere considerato di fatto un animale di famiglia. Ma, soprattutto, in età medievale il possesso di un cavallo è l’elemento costitutivo della superiorità sociale: miles è chi ha i mezzi per mantenere una o piú cavalcature adatte al combattimento. Per un miles, mangiare il proprio cavallo significherebbe allora far scomparire l’espressione della sua superiorità sociale, insomma desacralizzare il simbolo medesimo del suo potere ovvero contestare violentemente e intrinsecamente l’intero ordine sociale. Infatti, gli unici casi d’ippofagia noti si sono verificati in momenti di grande disordine e crisi come le carestie.
Miniatura raffigurante la marchiatura di un cavallo, da un manoscritto turco. XIII sec. Istanbul, Biblioteca del Topkapi.
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mettere in luce, per restituire un’immagine a tutto tondo di questo grande protagonista del Medioevo. A tal fine, mettiamoci in viaggio in compagnia di un cavaliere immaginario lungo le strade della Penisola italiana alla fine dell’età di Mezzo; un viaggiatore instancabile e un po’ particolare il nostro che, pur percorrendo principalmente l’Italia centro-settentrionale, ci parla anche della realtà di tutto l’Occidente medievale fra XII e XV secolo.
A ciascuno la sua cavalcatura
Prima di mettersi in cammino, il nostro uomo sceglie la propria cavalcatura a seconda dell’attività che svolge e della sua posizione sociale. Cosí, se è un miles, abituato quindi a combattere a cavallo, avrà spesso con sé tre esemplari, uno da sella, uno da basto e infine un altro da combattimento; se, invece, è un agiato mercante, si servirà di un cavallo da sella solido, seppur poco aggraziato; se poi si tratta di un pellegrino, allora sceglierà di certo un asino o un mulo, come facevano i chierici che potevano peraltro montare anche le haquenées, giumente la cui andatura d’ambio era particolarmente confortevole e quindi prediletta dalle dame. I viaggiatori, quindi, si mettevano in cammino con vari tipi di cavalcature ed era raro che il cavallo accompagnasse da solo il suo padrone, anche se soltanto lui fra tutti gli animali da sella sapeva suscitare nell’uomo appiedato quell’ammirazione mista a timore che per lo storico Franco Cardini risale alla notte dei tempi: solo il cavallo, insomma, era simbolo di potere e di potenza. Una volta scelti i cavalli, il nostro viaggiatore si reca dal maniscalco del luogo oppure alla fiera locale, dove si riuniscono i maniscalchi della regione, per far controllare lo stato degli zoccoli delle cavalcature, farli pulire, tagliare e ferrare. L’uso di ferrare i cavalli, indispensabile per far percorrere all’animale lunghe distanze, affrontare terreni accidentati e, soprattutto, equilibrare l’andatura del quadrupede, è comparso presto in Occidente. In occasione di fiere, come quella di Perugia nel XIII secolo, venivano messi a disposizione dei cavalieri ampi spazi nei quali costoro potessero controllare la bontà del lavoro effettuato dal maniscalco, cosí da prevenire ogni sorta di zoppia dell’animale, dovuta a una cattiva ferratura. Preparare un cavallo è dunque un mestiere che richiede, oltre all’abilità del fabbro, anche una profonda conoscenza dell’animale, e i migliori maniscalchi erano veri e propri veterinari. che Comuni e signori ingaggiavano a peso d’oro. Le loro conoscenze ci sono giunte grazie a vari
periodo di ciascun segno corrisponde a una fase di maggior sensibilità della parte che gli è associata e che trova allora il momento piú adatto per essere curata. Ancora, Guillaume de Villiers, nel XV secolo, consiglia, contro il farcino, di porre sulle narici del cavallo due ciuffi d’erba in croce recitando: «Vattene per Dio e per Sant’Eligio (il santo protettore dei cavalli)!». E talvolta si giunge addirittura a raccomandare alla cavalcatura malata un pellegrinaggio in piena regola, a meno che non sia prescritto di attaccarle al collo cartigli recanti formule magiche. È evidente, dunque, come il cavallo monopolizzi, prima di tutti gli altri animali, l’attenzione dei dotti dell’epoca, perché venga curato alla stregua dell’uomo. trattati di ippiatria, il cui capostipite è rappresentato dal testo commissionato da Federico II al responsabile delle sue scuderie, Giordano Ruffo, e redatto nel 1256. Il cavallo diventa cosí il primo animale protagonista di trattati scientifici, ancor prima del falcone e del cane. La lettura dei testi di ippiatria rivela un sapere empirico assai vasto, che spazia dalla medicina all’addestramento, passando per lo studio dei comportamenti e delle abitudini del cavallo. Questa letteratura specialistica conobbe un notevole successo di pubblico, tanto che la si ritrova nelle biblioteche di quasi tutti i potenti dell’epoca. Al centro delle preoccupazioni degli autori è, di regola, l’apparato locomotore dell’animale, vero tallone d’Achille del cavallo. Distorsioni e infiammazioni alle zampe sono, infatti, incidenti assai frequenti che impongono il riposo totale della bestia, se non addirittura il suo abbattimento. Grande attenzione viene prestata, inoltre, alle diverse infezioni che possono colpire il cavallo, come il farcino cutaneo, nasale od oftalmico, e alle ferite dovute ai finimenti come, per esempio, il pourmon, piaga purulenta provocata dalla compressione della carne del dorso contro la colonna vertebrale a causa del basto o della sella. Se però questi libri dimostrano una reale capacità di affrontare le patologie piú comuni di un animale che resta ancor oggi assai delicato, nondimeno l’assenza di talune malattie, quali per esempio le patologie contagiose, non manca di stupire il lettore moderno. D’altronde, i rimedi proposti sono i piú svariati, facendo appello tanto alla scienza quanto all’astrologia, alla magia e alla Provvidenza divina. Cosí, numerosi autori, come il portoghese Diaz de Catalayud (1456), mettono in relazione le parti del corpo dell’animale ai segni zodiacali: il
Le botteghe del fabbro (in alto) e del maniscalco dalla Matricola della Società dei Fabbri. 1366. Roma, Biblioteca del Senato della Repubblica.
Ma riprendiamo il nostro viaggio: una volta ferrato e curato, il cavallo può mettersi in cammino e al nostro viaggiatore non resta altro che saltare in sella. Lungo il tragitto, gli capiterà certamente di imbattersi in qualche gregge o mandria sorvegliati da un pastore anch’egli a cavallo. Nel Medioevo, greggi e mandrie sono per lo piú misti, con una netta predominanza di ovini e caprini, ma può capitare di trovarvi anche i cavalli. Nelle campagne lombarde si potranno incontrare i possenti destrieri da battaglia che tanto piacciono ai Francesi nel XIII secolo oppure, nei dintorni di Ferrara e Mantova, cavalli da parata e da corsa che gli Este e i Gonzaga avevano cominciato ad allevare nel corso del XV secolo, acquistando a peso d’oro corsieri, palafreni e destrieri spagnoli, ungheresi, africani o turchi; infine, spostandosi nella Calabria del XIII secolo, ci si potrà imbattere in mandrie di pregiate mule. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Il cavallo
I cavalli, infatti, se allo stato selvaggio, prediligono la foresta e le lande ai pascoli; se addomesticati, partecipano insieme agli altri animali domestici alla transumanza, sviluppatasi proprio in questi secoli. In tal caso, però, percorrono raramente lunghe distanze, a meno che non servano da cavalcature per i pastori o come animali da trasporto per le masserizie; in genere si sceglie, come avviene a Cremona, di trasferirli d’estate sulle alture circostanti le verdi vallate dove hanno trascorso l’inverno.
Molteplici vantaggi
Il nostro cavaliere prosegue intanto il suo cammino, attardandosi ad ammirare i cavalli che nei campi vicini arano, erpicano e trebbiano. Il collare a spalla, comparso nel Nord Europa nell’XI secolo, e il tiro in linea hanno infatti moltiplicato la forza di trazione del cavallo, che fino ad allora rimaneva soffocato durante lo sforzo dalle cinghie e dal collare alla gola che lo legavano al traino. Nei lavori dei campi i vantaggi offerti dal cavallo rispetto al bue sono numerosi: la potenza e la resistenza sono maggiori, la sua agilità consente di accelerare le lavorazioni del terreno, mentre la relativa In basso miniatura raffigurante una scena di aratura: quattro buoi aggiogati tirano l’aratro, guidato da un contadino, mentre un altro frusta gli animali, dal Salterio Luttrell. 1325-1335. Londra, British Library.
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In alto Il ritorno della mandria (particolare), allegoria dell’Autunno facente parte della serie dei Mesi, olio su tavola di Pieter Brueghel il Vecchio. 1565. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
leggerezza lo rende particolarmente adatto all’erpicatura. L’impiego del cavallo, dunque, almeno in linea teorica accresce notevolmente la produttività agricola. Tuttavia, nonostante queste potenzialità, non lo vediamo affatto imporsi su tutti i terreni agricoli dell’Occidente medievale, e anche nelle regioni dell’Europa settentrionale, come l’Inghilterra, che hanno progressivamente adottato il cavallo da tiro, i bovini non vengono mai sostituiti completa-
mente e i contadini in genere preferiscono servirsi di tiri misti con i cavalli in testa. In realtà, la diffusione del tiro equino conosce alterne fortune a seconda dei luoghi e dei tempi. Per gli elevati costi di acquisto e di mantenimento e la salute assai fragile, il cavallo risulta controproducente nelle zone a scarsa produzione cerealicola. Nutrirlo costituisce, infatti, una spesa notevole: proprio per questo nel Cremonese del XIII secolo il diritto di alloggio, che
LE VANTERIE DI SER CAVALLO Intorno al 1465, Henri Baude (1430-1490), cortigiano di Luigi XI, compone una discussione fantastica fra un bue e un cavallo, nella quale caratterizza perfettamente le rappresentazioni medievali delle due bestie. Il cavallo appare cosí in tutto e per tutto superiore al bue. Dal punto di vista fisico, è insieme elegante – «Ben pulito mi tengono» – e forte, al confronto con un bue giudicato «bestia sporca e pesante». È pure coraggioso e resistente – «Il mio servizio molto piú del tuo dura» –, giacché un cavallo può in effetti arare ogni giorno due ore in piú di una coppia di buoi. Inoltre, appartiene al mondo dell’eccellenza: il bovino, infatti, lo chiama «Ser cavallo», poiché serve «Re e signori, e chi governa». Infine, possiede l’inestimabile qualità della polivalenza – «Tanto in battaglia quanto in agricoltura / tutto quel che faccio è eccellente» – e perciò si fa amare da tutti: «Ognuno è entusiasta di me e contento». Il bue, allora, come del resto tutti gli altri animali, non è degno di frequentare nemmeno gli stessi pascoli del cavallo: «Dove vai, bove (…)? / Chi ti ha fatto venire qui a cercare pascolo? / Non si adatta affatto alla tua natura grossolana stare con noi, troppo son io un animale raffinato». Insomma, bue e cavallo non appartengono neppure, per cosí dire, allo stesso mondo. Tuttavia, il bue si difende facendo valere a sua volta le proprie qualità. Lui lavora per tutti gli uomini e non solo per quanti «vivono di rendita». Si considera inoltre piú completo del cavallo: la sua andatura regolare è apprezzata per l’aratura, la sua carne soddisfa gli uomini – «Della mia carne vive e si alimenta ogni uomo» –, il suo cuoio e il suo pelo sono utili a tutti, persino al cavallo: «E con il mio cuoio fanno buone calzature; / il mio pelo serve a fare l’imbottitura / delle tue selle (…)». E soprattutto, all’opposto del pretenzioso cavallo, appare assai umile – «di niente io mi vanto» – e ricorda appropriatamente al «Ser cavallo» che, nonostante il disprezzo di quest’ultimo per la condizione bovina, sottoposta al bastone e al giogo dell’uomo, entrambi vivono nella stessa condizione, solo che «Tu [il cavallo] soffri anche la puntura /dello sperone che ti tormenta». Infine, con una considerazione moralizzante che invita a «giudicare quale dei due diversi animali abbia ragione», l’autore svela il suo reale intento e riecheggia la morale cristiana ricordando come l’opposizione esistente fra questi due animali sia in realtà quella tra l’orgoglio, peccato capitale di cui il cavallo è allegoria corrente, e l’umiltà, virtú cristiana simbolizzata dal bue della Natività.
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Il cavallo
prevedeva la fornitura del fieno per la cavalcatura del signore da parte del fittavolo, si limitava a una sola notte. L’alto costo del cavallo, in generale, e il suo elevato consumo di cereali, in particolare, spiegano la grande varietà di tiri in uso sul territorio della Penisola italiana: mule nei campi aperti della Sicilia, cavalli e buoi nei terreni argillosi del Nord e bufali in alcune aree dell’Italia Centrale. E non si pensi comunque che l’impiego dei cavalli rimanga limitato alle regioni di pianura, giacché le razze di piccola taglia si dimostrano particolarmente adatte al lavoro nelle zone di montagna. La diffusione del cavallo quale strumento di lavoro agricolo avviene dunque in maniera incompleta e assai diversificata senza che allo storico sia possibile rintracciarne tutte le ragioni. Resta solo da constatare che gli studiosi di storia agraria hanno ravvisato uno stretto legame tra l’aumento del numero dei cavalli in Occidente e quell’estensione delle superfici seminate a cereali che costituisce una delle principali trasformazioni del paesaggio agrario alla fine del Medioevo.
Uno solo non basta
Le strade medievali sono spesso battute da cavalieri che si recano alla guerra: sul suo cammino il nostro viaggiatore ne ha incontrati parecchi. Possono essere milites, membri dell’aristocrazia cittadina che, nel XIII secolo, si apprestano a compiere razzie nel contado vicino o che, tra XIII e XIV secolo, vanno a offrire i propri servigi militari a un Comune in guerra. E ancora, se siamo nel XV secolo, potrebbe trattarsi di mercenari di varia provenienza ed estrazione sociale; tutti loro, però, hanno in comune la caratteristica di portare con sé piú tipi di cavalcature. Anzitutto il destriero, il cavallo da battaglia per eccellenza, animale grande e possente che deve rispondere alle esigenze specifiche del combattimento: sopportare il peso crescente di un equipaggiamento militare, che aumenta e si complica con il passare dei secoli, e sostenere l’urto terribile della lancia, divenuta dai primi del XII secolo un’arma da impatto e non piú da getto; essere poi cosí ben addestrato da mantenere i ranghi al momento della carica e rispondere ai comandi del padrone nel bel mezzo della mischia; infine, avere un coraggio tale da non spaventarsi davanti alle lame dei fanti nemici che lo assalgono. Poiché la carica richiede velocità, potenza, resistenza e audacia, il destriero è impiegato solo sul campo di battaglia. Per recarsi in guerra, i cavalieri montano altri 62
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cavalli da sella, come i palafreni, e per il trasporto delle masserizie si servono di ronzini o di muli. Il cavallo, dunque, è indispensabile a tutte le fasi dell’attività bellica e una buona cavalcatura fa spesso la differenza fra un guerriero e l’altro, il che spiega sia le grandi somme che si è disposti a spendere per l’acquisto di un buon destriero, sia l’importanza accordata agli scudieri, veri e propri «allenatori» delle cavalcature. Nondimeno, un buon cavallo montato da un cattivo cavaliere serve a poco. È necessaria, infatti, una grande intesa fra l’animale e l’uomo, affinché i milites si sentano sui loro cavalli «al sicuro come se fossero dentro le mura di una fortezza», per dirla con le parole di un cronista padovano. Inoltre, come ha illustrato Jean-Claude Maire Vigueur, il cavallo, protagonista della guerra, rappresenta anche una delle sue principali poste in gioco. Innanzitutto, perché costituisce una parte fondamentale del bottino: il capitale equino di un miles del XIII secolo, infatti, supera in media le 100 lire, ossia l’equivalente del patrimonio fondiario di un contadino medio, mentre la cattura di cavalli durante una battaglia o una semplice razzia permette di chiederne il riscatto e diventa dunque un mez-
zo di arricchimento. Infine, perché il rimborso per i cavalli perduti in battaglia da parte delle istituzioni che reclutano i cavalieri (detto restaur in Francia ed emendatio in Italia) costituisce uno dei principali capitoli di spesa per le finanze pubbliche e un’importante fonte di guadagno per i cavalieri, che non esitano perciò a gonfiare il reale valore delle loro cavalcature. Per il combattente che fa parte della militia comunale, il cavallo costituisce allora un doppio capitale: uno fisso, rappresentato dal valore dell’animale e rimborsato in caso di perdita, e uno dinamico, che gli permette di arricchirsi grazie alla guerra. Cosicché il cavallo, in quanto attore principale della guerra, diventa uno degli attori fondamentali della società medievale.
Il magnifico corteo del duca
Dopo essersi lasciato alle spalle tutti questi guerrieri, ecco che il nostro compagno di viaggio scorge da lontano un convoglio interminabile di animali e uomini. Stupito del loro numero chiede informazioni a un passante. Costui, un pellegrino di modeste condizioni e perciò privo di cavalcatura, gli spiega entusiasta che è un evento eccezionale a riunire in un medesimo luogo un tal numero di cavalli, destrieri, corsieri, giumente quale egli non ha mai visto prima, neppure nei piú prestigiosi palii della Toscana:
si tratta del corteggio di Borso d’Este che sosta a Rignano, un borgo nei pressi di Roma, in attesa di fare il proprio ingresso trionfale nell’Urbe il mattino seguente. Siamo nel 1471 e un testimone oculare racconta nella sua cronaca che in questa occasione furono riuniti piú di 700 cavalli, mentre 138 muli, le cui lussuose bardature recavano lo stemma del signore, aprivano il corteo, seguiti da musici e poi «seguitavagli circa trenta palaphreni tuti guarniti di broccato d’argento, cum pazziti in sello pur de broccado d’argento, vestiti cum spettaculo giocundissimo vederli tanto fioritamente in puncto strenzere quei cosieri e galoparli». Infine, avanzava il principe, su un magnifico destriero fulvo, bardato di porpora e oro. Non è difficile immaginare l’impressione che un simile spettacolo doveva suscitare negli astanti riuniti in una città parata a festa per l’occasione. Manifestazioni del genere, seppur eccezionali per il lusso, non sono tuttavia cosí rare, poiché battesimi, matrimoni, funerali, insomma ogni avvenimento della vita dei signori finisce spesso col dare luogo a simili cerimonie, in cui il cavallo svolge un ruolo fondamentale nel sottolineare la magnificenza dei potenti. Questo animale è comunque assai presente anche nella vita quotidiana della città medievale. L’Allegoria del Buon Governo affrescata da
In alto Battaglia di San Romano, tempera su tavola di Paolo Uccello. 1435-1440. Firenze, Galleria degli Uffizi. La tavola faceva parte di un ciclo di tre dipinti che celebrava la vittoria dei Fiorentini, al comando di Niccolò da Tolentino, sulle truppe senesi e sull’alleanza guidata dal duca di Milano nella battaglia combattuta a San Romano (Pisa) nel 1432. Nella pagina accanto Niccolò Mauruzi da Tolentino alla battaglia di San Romano (particolare), tempera e olio su tavola di Paolo Uccello. 1438-1440. Londra, National Gallery.
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Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. Particolare della fascia inferiore degli affreschi dedicata alla celebrazione delle gesta e del buon governo del committente dell’opera, 64
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il marchese Borso d’Este, che qui appare mentre partecipa a una battuta di caccia. Le pitture sono opera del pittore emiliano Francesco del Cossa. 1468-1470.
LA PUREZZA E LA MORTE «Di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?». Questa la domanda che i bambini fanno di regola ai loro compagni per metterne alla prova l’attenzione. Gli storici, da parte loro, vi vedono innanzitutto una suggestiva associazione simbolica, capace di attraversare i secoli: quella del principe e del cavallo bianco. In effetti, a partire dalle raffigurazioni di san Giorgio o dal celebre Trionfo di Federico da Montefeltro di Piero della Francesca, fino alla bella, risvegliata dal bacio del suo affascinante principe, passando per Marengo, il cavallo davvero bianco di Napoleone, il cavallo dal manto bianco bardato di porpora rappresenta un simbolo immutabile di purezza e di magnificenza. Francesco Petrarca, descrivendo, nel Triumphus Cupidinis, Amore trionfante su di una quadriga condotta da «quattro destrier, vie piu che neve bianchi», definisce con precisione la natura profondamente positiva di questo simbolismo: la pace, la giustizia, la purezza, l’eternità e la speranza. Non stupisce, dunque, ritrovare i cavalli bianchi nelle cerimonie piú fastose, principalmente le nozze; cosí Beatrice d’Este, in occasione del suo viaggio nuziale alla volta di Milano nel 1491, monta un «cavallo biancho», mostrando in tal modo la sua purezza e la sua speranza di pace. Una delle fonti piú certe di questa simbologia è l’Apocalisse di san Giovanni: dei quattro cavalieri che vi compaiono, tre, il rosso, il verde e il nero, sono portatori di morte, il bianco invece è quello del Verbo: «Ecco un cavallo bianco, colui che lo monta si chiama Fedele e Vero» (Ap. 19, 11). Il cavallo bianco avrebbe perciò qualcosa di divino. E non è un caso che l’animale, bandito dagli uomini di Chiesa come simbolo del potere e
Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena (1338-40) ci mostra una città brulicante di vita, animata dal via vai continuo dei mercanti e dei milites in armi, dall’arrivo dei corrieri e insomma da tutte quelle attività umane rese possibili proprio dai cavalli, la cui presenza entro le mura cittadine è perciò del tutto abituale. E le strutture urbane loro destinate sono già a quel tempo numerose, a partire dagli abbeveratoi disseminati lungo le vie e nelle piazze, fino alle monumentali scuderie dei signori, capaci di accogliere centinaia di cavalli ed edificate dai maggiori architetti del tempo, come quelle di Palazzo Schifanoia a Ferrara, costruite da Biagio Rossetti alla fine del XV secolo. Il cavallo del nostro viaggiatore, invece, al termine della sua giornata di fatica deve accontentarsi di un alloggio piú modesto per trascorrere la notte, come la scuderia di un albergo o di un
dell’orgoglio, ritrova tutta la sua grazia ai loro occhi allorché è bianco. Anche il papa sembra montare esclusivamente cavalli bianchi, come Silvestro I nell’affresco della chiesa dei Ss. Quattro Coronati a Roma (1246). Tuttavia, osservando le raffigurazioni pittoriche e letterarie, si scopre una realtà ben diversa. Il cavallo bianco, infatti, viene regolarmente associato alla morte, come per esempio nell’affresco della navata centrale di S. Caterina, a Galatina, in Puglia, dove la Morte è rappresentata nell’atto di falciare le vite umane in sella a un cavallo immacolato. Ma, soprattutto, i principi preferiscono spesso destrieri dal manto di altro colore: fulvi, grigi o pomellati, ma in particolare bai, simbolo del potere, del coraggio, della forza e della liberalità, che ricordano piú Marte che Cupido. A ben vedere, il colore sembra perfino un fattore secondario nella scelta di una cavalcatura. Agli occhi di chi la guarda, contano forse di piú la sua grazia, la sua taglia, la ricchezza della bardatura e il prestigio del cavaliere.
monastero in campagna, o forse, piú semplicemente, del prato lungo la strada. L’animale viene comunque liberato della sella, coperto per asciugare il sudore ed evitargli qualche infreddatura, pulito dal fango, talvolta spazzolato, nutrito e infine legato con pastoie alle zampe se passa la notte all’aperto. Quanto al nostro cavaliere, può abbandonarsi di notte a contemplare la volta celeste, cercandovi i segni della propria sorte o del tempo che si annuncia per l’indomani, rintracciando in questa specie di libro astrale stelle e costellazioni, come il Sagittario, Pegaso e Marte, cavalli e cavalieri cosmici che popolano il suo immaginario nutrito da tante raffigurazioni scolpite sulle facciate o sui pavimenti delle chiese. Già, di nuovo il cavallo, presente dappertutto, la notte e il giorno, in cielo come in terra. Un essere che permea di sé e in sé riassume tutta l’età medievale.
In alto particolare dei Trionfi allegorici dipinti sul retro del dittico di Piero della Francesca che ritrae i duchi di Urbino. 14731475 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi. Federico da Montefeltro siede su un carro trainato da due cavalli bianchi, mentre una Vittoria alata gli cinge il capo con una corona d’alloro.
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ANIMALI SELVATICI ED ESOTICI di Duccio Balestracci
Liberi per natura Là dove l’uomo non abita o non pratica le sue attività, gli animali regnano incontrastati. E destano curiosità, terrore, ma anche stupore: come quando Marco Polo incontrò l’«unicorno»
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egli anni Quaranta del Duecento, nelle campagne emiliane c’è la guerra: quella contro Federico II. Come secoli prima, i coltivi e i pascoli abbandonati sono di nuovo diventati il regno incontrastato degli animali selvatici: lepri, caprioli, cervi, cinghiali, volpi... Hanno tutti rioccupato gli spazi che gli uomini avevano loro conteso con i dissodamenti. Ma la guerra ha fatto anche altro: sparite le pecore, spariti i buoi, sparito il bestiame domestico, è sparita anche una maglia fondamentale della catena alimentare degli animali da preda. E cosí branchi di lupi si presentano sotto i fossati delle città ululando il loro agghiacciante canto di fame. Di notte, alcuni di essi riescono a penetrare dentro l’abitato e, se trovano qualcuno addormentato sotto i portici o sul pianale di un carro, per lui è la fine. Cosí come lo è per quelle persone che sono meno pronte a scappare: le donne e i bambini prima di tutto. E nemmeno basta, perché qualche volta i lupi si intrufolano dentro le abitazioni, e allora per i bambini sorpresi nella culla non c’è scampo. «Non lo si crederebbe se uno non lo avesse visto con i propri occhi come è successo a me», commenta il cronista Salimbene de Adam che racconta questi anni da incubo. Quello con il lupo non è il solo «incontro ravvicinato» che l’uomo medievale può avere con gli animali selvatici (fa parte della quotidianità il rapporto con gli animali da cacciare; è usuale 66
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Miniatura raffigurante una battuta di caccia al lupo, da un’edizione del Livre de la chasse di Gaston Fébus illustrata sotto la direzione del Maestro del duca di Bedford. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France. quello con la volpe, della quale si devono temere solo i danni economici, non le aggressioni agli umani), ma è sicuramente il piú traumatico e il piú paventato: che nell’immaginario collettivo religioso si sia assimilata al lupo la figura dell’eretico la dice tutta sulla sovrapposizione di due nemici antropologici dell’umanità.
Da conviventi a concorrenti
Eppure, non è sempre stato cosí. L’antichità classica ha attribuito, sí, al lupo uno statuto di negatività, ma lo ha circoscritto alla sfera del rapporto con gli animali domestici, quasi mai a quello con l’uomo. L’assalto agli esseri umani era considerato un fatto eccezionale, tutt’al piú un segno infausto, ma anche, altrettanto, una possibilità remota. Le cose sono cambiate quando è cambiato il clima, quando il ruolo della pastorizia, dell’allevamento, della caccia hanno reso uomini e lupi concorrenti sullo stesso territorio; quando il bosco è diventato una risorsa da sfruttare e da amministrare al meglio e quando i dissodamenti hanno ridotto, anche se parzialmente, l’ambiente vitale dei carnivori. La leggenda di san Sola di Eichstatt (eremita,
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ANIMALI SELVATICI ED ESOTICI Guarigione di un bambino malato assalito da un lupo, particolare della pala d’altare dedicata al Beato Agostino Novello, dipinto su tavola di Simone Martini. 1339. Siena, Pinacoteca Nazionale.
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morto alla fine dell’VIII secolo), che ordina al proprio asino di uccidere il lupo che minaccia il gregge è la miglior metafora di questo conflitto «economico» fra l’uomo e la bestia feroce e, al tempo stesso, dell’alleanza con l’animale domestico contro il comune nemico. La toponomastica, del resto, dà la misura della quotidiana contiguità fra uomini e lupi: nessun animale ha lasciato tanta traccia sui nomi del territorio quanto il lupo. Monlué (presso Milano) è in origine Monte Lupario, nel Cosentino c’è Lupia e nel territorio di Bolzano Lupicino; Lovaria è nell’Udinese e Lupazzano nel Parmense; presso Siena c’è Lupompesi (lupo ap-
peso= impiccato); i Montelupo sono piú d’uno, i Montelupone una schiera, e l’elenco potrebbe continuare per pagine. Il mito della lupa nutrice di eroi mitopoietici – di cui si era alimentata l’identità di Roma, ma che non è affatto esclusivo patrimonio dell’orbis romanus, dato che si ritrova anche in India e in Cina – ormai è stato dimenticato. Quando il folclore occidentale ne riscopre traccia, è solo per sfruttare in funzione moralistica il paragone fra la società degli uomini (corrotta) e quella dei lupi che hanno accolto e nutrito il bambino indifeso (incontaminata dal peccato), come si registra per un caso, probabilmente inventato, nella Cronaca dell’Abbazia di Erfurt sotto l’anno 1304. E quando non c’è dietro questo spirito 68
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pedagogico, fatti del genere sono presentati come una curiosità, ma niente di piú che questo, come nell’episodio analogo descritto nella stessa cronaca quarant’anni piú tardi.
Una fama sinistra
La memoria che il lupo lascia nella storia degli uomini medievali è, pressoché di regola, antropofaga: non piú solo il patrimonio è a rischio, ma la vita stessa. E la frequenza con la quale si ritrova – oltre alla varietà delle fonti che la tramandano – è indice di una fama sinistra, probabilmente amplificata, ma di certo non inventata. Alla metà del IX secolo, branchi di lupi – a volte della consistenza di centinaia di capi – terrorizzano l’Aquitania e la Francia meridionale, seminando la morte nei villaggi; nel 1116, diciotto abitanti di Carmarthen, nel Galles, muoiono attaccati dai lupi e, tre anni piú tardi, episodi analoghi sono registrati in Germania. Di oltre trenta vittime è il bilancio degli attacchi delle belve in Franconia nel 1271, destinato a crescere ulteriormente l’anno dopo nei dintorni di Basilea, quando tale sorte è riservata a quaranta bambini. Nel 1422, branchi di lupi affamati entrano in Parigi nottetempo, dissotterrano i cadaveri nei cimiteri e attaccano la gente; quelli di essi che vengono finalmente catturati sono esibiti per le strade, appesi per le zampe. Le aree della città destinate a cimiteri e a depositi di immondizie sono le prime a essere attaccate: succede a Milano nel 1484, quando i lupi entrano nel cimitero dell’ospedale di S. Ambrogio e «caveno per forza il terreno in modo che trovino li corpi morti et li mangieno et stragieno». E succede, nello stesso periodo, a Chartres dove le incursioni notturne si registrano in prevalenza nel quartiere dell’immondezzaio, dove vengono gettati quotidianamente gli scarti delle macellerie. Una battaglia, per parte sua, può rivelarsi un formidabile richiamo per queste bestie: è quanto succede presso Somma Lombardo, nei primi anni del Cinquecento, e intorno a Pavia, nel 1527, all’indomani di scontri armati che hanno lasciato sul terreno molti cadaveri insepolti. Del resto, in Bretagna, alla fine del Cinquecento, non accadrà niente di diverso: i morti per la peste, uniti a quelli del brigantaggio di strada, diventano riserve di cibo per le fiere, che si muovono in branco e assalgono anche gli uomini. Anzi, il loro modo di aggredire è cosí simile alla tattica di attacco di una compagnia militare che fra la gente comune si diffonde la convinzione che non siano lupi, ma, in realtà, soldati morti e resuscitati mandati da Dio a punire gli uomini.
Per far fronte all’emergenza-lupi, le comunità si organizzano in vario modo: scavando trappole – le fosse luparie, attestate prima del Mille e che danno il nome a località come Lovere, in Lombardia –; proteggendo i cani da pastore (nelle leggi bavare, alemanne e frisoni essi danno diritto a un indennizzo maggiore rispetto agli altri cani in caso di uccisione); costruendo ospizi lungo le strade per ospitare i viandanti sorpresi dalla notte e che perciò sarebbero facile preda delle bestie (come nel caso dell’ospizio costruito nella prima metà del X secolo a Flixton nello Yorkshire); bonificando le strade principali (come quando, nella seconda metà del X secolo, Berengario II ordina di fare della strada che attraversa la Valtellina e porta a Pavia un’area «delupizzata»); rafforzando le mura di difesa della comunità (come si esplicita a chiare lettere negli statuti bassomedievali vicentini), ma, soprattutto, organizzando battute di caccia al lupo, alle quali a volte partecipano intere comunità. È quanto accade, per esempio, nel 1463, quando in Lombardia le comunità di Zeze, Fino, Ogiate e Castellanza del Baradello organizzano una colossale caccia grossa collettiva con balestre e altre armi da guerra per «haver et occidere lo lupo rapace qual non vivendo secondo sua natura devora li cristiani». Chi riesce a catturarne qualcuno diventa poco meno che un eroe e ha diritto a riconoscimenti tangibili. A Milano, nel 1402, i proventi del dazio su alcune attività (fra le quali il postribolo pubblico) sono destinati alla manutenzione delle difese contro le bestie feroci e alla ricompensa per chi cattura volpi e lupi. Nella stessa città, nel 1462, Francesco Sforza raddoppia la taglia prevista per chi cattura i lupi che infestano la Martesana, e chi riesce a prendere una bestia che abbia assalito qualcuno ha diritto a un compenso addirittura quadruplicato. A Salò, nel 1475, Domenico Baruzi di Sabbio Chiese si guadagna l’esenzione perpetua dalle tasse, conseguenza monetizzabile del conclamato riconoscimento, per lui, di prode cacciatore «interfector lupi homicidae».
Interventi miracolosi
Quando armi e palizzate non sono sufficienti, non resta che cercare aiuto da un santo a cui votarsi. E per avere protezione dai lupi la scelta è ampia. Ben lungi dall’esaurirsi nella sola figura archetipica – per questa particolare grazia – di Francesco d’Assisi, la cristianità dispone di una buona legione di santi «antilupo», da santa Radegonda di Poitiers, regina dei Franchi nel VI secolo, al beato Torello da Poppi, venerato nel Casentino dal XIII secolo; da san Defendente
(un nome, un programma), il cui culto è diffuso in Italia Settentrionale dal XIV secolo, a san Giulio (a cui viene dedicato, alla metà del Quattrocento, un oratorio a Biella con questo scopo), a santa Zita da Lucca che, nel Duecento, salva miracolosamente due donne sorprese dai lupi in mezzo al campo, a molti altri ancora. Nel IX secolo, in area bavarese, si suole invocare la protezione di Dio e di san Martino sui cani, perché non vengano attaccati dai lupi. La serie degli interventi di santi che miracolosamente salvano i cristiani assaliti dalle fiere alimenta, non di rado, l’iconografia: nell’XI secolo, l’abate Poppone resuscita un pastore sbranato dai lupi e la sua impresa resta immortalata nello stemma della città di Stavelot, presso Liegi; santa Chiara che ordina al lupo di riportare sano e salvo il bambino rapito alla madre è il soggetto
Tavoletta di biccherna raffigurante la lupa che allatta i gemelli. Prima metà del XVI sec. Siena, Archivio di Stato. La scena è inquadrata da una struttura architettonica ad archi e in alto è dipinto lo stemma della Repubblica, del Comune e del Popolo di Siena, sorretto da due putti alati. In basso, figura un altro stemma, relativo alla famiglia Bandinelli.
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Liberi per natura nel XV secolo di una predella di Giovanni di Paolo; il beato Agostino Novello († 1309 a Siena) è dipinto da Simone Martini nell’atto di salvare un bimbo dalle fauci del lupo (vedi foto a p. 68), e san Biagio che ingiunge alla fiera predatrice di riportare il porcellino, unico sostentamento della povera vedova, compare in un dipinto di Sano di Pietro (vedi foto alla pagina accanto).
«Nemico dell’uomo»
IL LUPO, NEMICO NUMERO UNO La caccia al lupo assume gli aspetti di una battaglia feroce già all’epoca di Carlo Magno. Il Capitulare de Villis prevede infatti che l’imperatore sia informato periodicamente del numero di lupi catturato, ma, per evitare statistiche gonfiate, è indispensabile che siano prodotte, come testimonianza, le pelli delle bestie uccise. Frotario, vescovo di Toul, può pertanto inviare una compiaciuta lettera al suo sovrano per informarlo che, ben prima della data prevista per la rendicontazione, lui ha già fatto catturare duecentoquaranta lupi, sotto la sua personale guida. Ogni responsabile di circoscrizione dovrà avere sotto il suo comando due «luparios» incaricati di stanare e catturare le fiere e, a ogni maggio, di procedere a una battuta per sterminare i lupacchiotti, usando, per questo, cani, esche avvelenate o trappole. Il «lupario» è presente anche in Inghilterra, dove, nel 1135, è pagato venti denari al giorno, una somma con la quale però deve anche provvedere al pagamento dei cavalli, dei cani e degli aiutanti. Sempre in questo regno, il condannato all’esilio o addirittura a morte può chiedere di commutare la pena con l’impegno a uccidere un certo numero di belve. E a Santiago di Compostella, negli anni Dieci del XII secolo, il sabato, per chierici, cavalieri, contadini, adunata obbligatoria e, tutti insieme, fuori a caccia di lupi. Le città comunali italiane, per parte loro, impongono vere e proprie taglie sui lupi: dieci soldi per il maschio, cinque per la femmina e tre per il cucciolo, si stabilisce a Siena nel 1262; tre lire se è preso vivo e una lira e mezzo se è morto, a Mantova nel 1303; dieci soldi l’adulto vivo e cinque quello morto o il lupacchiotto, decretano le comunità della Valsesia nel Trecento, e l’elenco potrebbe continuare a lungo, perché disposizioni simili sono legioni, fra il Medioevo e l’età moderna. Per i lupi, a quei tempi, era davvero una vita da cani.
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Come il lupo, anche l’orso subisce, nel Medioevo, un processo di criminalizzazione. Il primo cristianesimo lo identifica come strumento del martirio dei cristiani, e questo lo fa assimilare, all’epoca, alle tigri e ai leoni (suoi compagni nei sanguinosi spettacoli circensi), prima che l’età di Mezzo lo accomuni invece – altrettanto significativamente – ai cinghiali e ai lupi. Tuttavia, nel caso dell’orso il percorso di «nemico dell’uomo» è solo apparentemente simile a quello del lupo, perché in realtà presenta difformità sostanziali dovute soprattutto alla constatazione di alcuni dati di fatto difficilmente controvertibili: non si muove in branchi perché è un animale solitario; di regola, non attacca deliberatamente l’uomo se non è provocato; l’orso non è di per sé antropofago. È, ancora una volta, la sua natura di predatore a metterlo in conflitto «economico» con l’uomo, nel momento in cui anche per l’orso si riduce lo spazio di sfruttamento del bosco, e a fargli attribuire una patente di ferocia solo in parte giustificata. La scansione cronologica di questa mutazione è percepibile nel modo in cui viene raccontato il rapporto fra l’uomo e l’orso nelle vite degli eremiti della tarda antichità: ben lungi dall’essere conflittuale, è di convivenza quando pure non di collaborazione e affetto (l’eremita Fiorenzo che maledice a morte chi gli ha ammazzato l’amato orso), ma, con l’aumentato sfruttamento delle risorse naturali, chiunque si frapponga fra l’uomo e la natura da usare è un nemico. E allora ecco che nella Vita di san Giovanni Gualberto fondatore di Vallombrosa, riferita alla seconda metà dell’XI secolo, al colono che si lamenta perché l’orso gli fa strage di bestiame, il santo non risponde altro se non un drastico «va’ e ammazzalo». A ulteriore svantaggio dell’orso, nell’ascesa della scala di nemico dell’uomo, gioca anche un altro fatto: a differenza di quella del lupo, la carne dell’orso è commestibile. Sarà anche indigesta, come annota il Platina, e moralmente pericolosa perché induce la libidine, come deplora Ildegarda di Bingen, ma è un fatto che essa compare sulle mense dei signori e su quella degli ecclesia-
stici e che, nel Trecento, viene venduta nei mercati cittadini. Anzi, è considerata talmente pregiata da far parte delle regalie che gli uomini devono ai loro signori: nel Duecento, la gente di Roviano, nel Lazio, deve portare al vescovo il capo, una coscia e le zampe di ogni orso abbattuto, e il vescovo di Pistoia può reclamare il capo del primo orso ucciso a Sambuca Pistoiese (se è una femmina, la spalla); alla metà del Quattrocento, un orso fa parte dei tributi che, a ogni Natale, vengono presentati agli Estensi.
Animali totemici
A un rapporto cosí visceralmente conflittuale fra l’uomo e gli animali selvaggi fa, tuttavia, da contrappunto l’elaborazione di una serie di leggende che presentano l’animale in chiave positiva. La storia del lupo che riconduce in patria il nonno di Paolo Diacono altro non è se non la sopravvivenza del rapporto dell’antica religione longobarda con gli animali totemici. Per i Longobardi (che a lungo venereranno il cinghiale e
San Biagio ordina al lupo di restituire il maiale alla povera vedova, particolare della predella del Polittico di Scrofiano con Storie della vita di San Biagio, tempera su tavola di Sano di Pietro. 1449 Siena, Pinacoteca Nazionale. Nella pagina accanto un’altra miniatura dal Livre de la chasse di Gaston Fébus raffigurante una battuta di caccia al lupo. 1408-1410. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
la vipera), proprio il lupo subentra infatti all’orso quale animale totemico di questa etnia, con una «conversione» che inserisce gli antichi Vinnili nel contesto delle divinità-animali indoeuropee con le quali si identificano i popoli guerrieri. Ma anche l’agiografia cristiana sembra risentire di questa struttura mitica: sono i lupi a guidare, con episodio strutturalmente identico a quello narrato da Paolo Diacono, l’asceta Triviero che ha perduto la strada nella foresta. Nella Vita dell’eremita Severino (VI secolo), un gruppo di persone sfida le montagne innevate per rendere omaggio al pio uomo e, quando i viaggiatori si perdono e sono in pericolo di vita, compare un orso, miracolosamente risvegliatosi dal letargo, che li guida alla dimora di Severino e poi scompare. Direttamente erede della tradizione degli àuguri classici è invece l’aquila che appare in visione alla madre incinta del futuro santo (come nella Vita di sant’Eligio di Noyon). Il rapporto fra l’animale e il santo, tuttavia, risponde a un’altra e ben precisa esigenza metaGLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Liberi per natura ESOTICO, MA NON TROPPO Che pessima estate, per Liutprando vescovo di Cremona, quella passata a Costantinopoli nel 968. Ottone I l’ha inviato come ambasciatore alla corte imperiale d’Oriente per ricucire i rapporti, e il presule deve sopportare una vera odissea. All’arrivo, lo fanno aspettare ore sotto la pioggia; poi lo alloggiano in una casa scomodissima e priva d’acqua; il vino resinato non riesce a mandarlo giú; a tavola gli servono il garum (la salsa di interiora di pesce) e lui si trattiene a stento dal vomitarlo; l’imperatore Niceforo – bassissimo e con un gran testone, il pancione smisurato su un paio di gambette corte e torte, senza natiche e nero di pelle – lo umilia in tutti i modi. Un giorno lo portano a vedere una rarità esotica che – irride l’imperatore – di certo Ottone non conosce: il favoloso onagro, l’asino selvatico. E questa sarebbe una rarità? Strabilia Liutprando. E che cos’ha di esotico? Gli onagri hanno lo stesso colore degli asini nostrani, la stessa corporatura, le stesse orecchie e ragliano in modo identico. Di animali «esotici» come questi, a Cremona, se ne trovano a bizzeffe. Con la differenza che in Occidente servono, almeno, a portare la soma e non a far bella mostra di se stessi. Ai primi di ottobre Liutprando riprende la strada di casa senza aver combinato nulla di costruttivo, e verosimilmente pensando che non si può ricavare niente di buono da gente governata da uno gnomo deforme, che mangia porcherie e che va in visibilio per un ciuco.
Miniature dal Livre des Merveilles, raccolta che comprende una traduzione in francese del Milione di Marco Polo. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Dall’alto: un attendente di Qubilai Khan con i leopardi utilizzati per la caccia; un campo di pastori con montoni, buoi e cammelli nello Xinjiang.
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forica: quella della natura (l’animale) soggiogata e domesticata dalla cultura (il santo). In questo contesto si inseriscono le storie della prodigiosa volpe addomesticata di santa Brigida (VI secolo), dell’aquila che pesca il pesce per san Desiderio, dei lupi che procurano il cibo a piú di un santo affamato, dell’orso che porta quotidianamente al pascolo le pecore dell’eremita Fiorenzo e di quello che cede volentieri il proprio riparo a san Colombano, ripartendo equamente con lui la raccolta delle bacche. Si può leggere in questa chiave metaforica anche il topos, ripetuto con piú varianti (di circostanza, di santo e di animale coinvolto) della bestia feroce che, dopo aver ucciso l’asino o il bue che tira un carro, viene costretto dal santo a sostituirsi all’animale da tiro: san Giulio, san Pietro da Vercelli, sant’Eustorgio e i lupi; san Romedio, san Naum di Macedonia, sant’Amand e gli orsi, e cosí via.
Cosí come rientrano in questo topos miracolistico gli animali selvatici che si rifiutano di uccidere il «giusto» e il santo (con riferimento archetipico alla pagina biblica di Daniele e dei leoni) o che sono strumento della vendetta di Dio contro gli empi (i lupi che puniscono il sacrilegio dei falsi amici di san Galgano o che difendono le spoglie mortali dei martiri o dei re cristiani).
Dall’immagine al reale
Ma non ci sono solo gli animali selvatici «quotidiani» nell’immaginario degli uomini medievali. Le figure che ciascuno di essi incontra quando entra in chiesa, quei leoni, quei serpenti, quelle pantere e quegli animali fantastici e mostruosi che spiccano sui capitelli da qualche parte del mondo esistono davvero. Almeno quelli che sono frutto della natura e non della fantasia. L’antichità classica aveva fatto familia-
rizzare la gente con gli animali protagonisti delle kehrmessen circensi: leoni, tigri, elefanti facevano parte di uno zoo familiare, le cui immagini, nel tempo, erano però state relegate, al massimo, alla decorazione. È Marco Polo ad accogliere nel suo Milione un repertorio esotico fatto in parte di animali dimenticati e in parte ancora sconosciuti alla cristianità. Il viaggiatore lascia poco spazio all’invenzione e alla congettura: magari non sa come chiamarli e si deve affidare a nomi dell’impoverito universo semantico-animale occidentale, ma il suo catalogo è ricco. Chiama «gatto mammone» il babbuino e «leone nero» la pantera; definisce «uomini con la coda» gli oranghi e descrive i «buoi grandi e bianchi come neve [che] fra le ispalle hanno un gobbo» e che sono gli zebú. Si sofferma sull’aspetto mostruoso del «colubre e ‘l gran serpente [che] hanno due cambe dinanzi
Un’altra miniatura dal Livre des Merveilles raffigurante animali che furono descritti come tipici della Birmania: un liocorno, un orso, un elefante e un asino selvatico. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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In alto miniatura raffigurante i leoni fiorentini allevati presso Palazzo Vecchio, da un corale miniato da Monte di Giovanni di Miniato, detto anche del Fora. Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. In basso il leone, simbolo della guelfa Firenze, qui nella versione del Marzocco scolpito da Donatello. 1420. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. presso al capo, e gli loro piedi sono d’una unghia fatta come di lione; e il ceffo è molto grande, e lo viso è maggiore ch’un gran pane; la bocca è tale, che bene inghiottirebbe un uomo [e] hae denti grandissimi»: un ritratto nel quale è facile riconoscere il coccodrillo. Nelle Andamane si imbatte negli uomini-cane con la faccia di mastino, la descrizione dei quali induce a chiederci se non abbia avuto in realtà un incontro con la tribú degli Jarawa, vissuti per secoli isolati, che hanno tuttora i tratti afri, caratterizzati dal volto camuso e dalla forte dentatura. Ha visto l’unicorno a Giava e in Birmania, e non è affatto l’elegante cavallo con il magico corno in fronte, caro alla tradizione cavalleresca, ma un animale che ha invece «lo capo [...] come il cinghiaro», che sta volentieri nel fango, che «è molto laida bestia a vedere» e che è, come si capisce, il rinoceronte. E poi, Marco Polo ha visto giraffe, struzzi, le pecore con la sacca di grasso sotto la coda, e, soprattutto, il mitico onagro. Si emoziona, il Veneziano, per gli elefanti da caccia del Gran Khan, per i suoi leoni vergati, neri, vermigli e bianchi (lonze e leopardi: di certo non leoni) e per quel «leopardo» (verosimilmente un ghepardo) che il Gran Khan ha ammaestrato e che porta sempre con sé in groppa al cavallo per lanciarlo contro le prede. Alcuni di questi animali l’Occidente li conosce, ma altri dovrà aspettare secoli per «scoprirli»: nel 1750 sui muri di Milano compare un manifesto che ri-
trae il rinoceronte, un animale che fino a quel momento nessuno aveva visto e che era ritenuto favoloso. E i Milanesi accorrono in massa in piazza dei Mercanti ad ammirarne un esemplare che sta facendo il giro d’Europa. I potenti della terra posseggono in proprio alcune di queste fiere e le allevano nei propri serragli esotici (leoni possiede Bonifacio di Toscana e leoni, cammelli e struzzi allietano la vista di Ottone I; ampio è lo zoo personale del Gran Khan, del quale fa parte anche il leone addomesticato che nella cerimonia del Capodanno, a febbraio, si inchina davanti al sovrano); li considerano un segno di ostentazione del proprio potere e se ne fanno omaggio l’un l’altro. Leone IX offre un pappagallo parlante al re di Danimarca e Harun-al Rashid spedisce Aboulabas, un elefante indiano, al suo buon amico personale Carlo Magno, facendo arrivare il pachiderma per nave fino a Porto Pisano, da dove l’animale deve farsela a piedi fino ad Aquisgrana; san Luigi IX di Francia dona un elefante a Enrico III d’Inghilterra nel 1255 e si
reputa che questo sia il primo pachiderma mai visto nell’isola britannica. Federico II (a cui i sultani regalano giraffe, cammelli ed elefanti) trae dal suo smisurato zoo personale tre leopardi (simbolo araldico dei Plantageneti) e ne fa, a sua volta, dono allo stesso sovrano inglese che è anche suo cognato. Dal suo serraglio, del re-
In alto figure di ghepardi, dal taccuino di disegni di Giovannino de’ Grassi e bottega (detto anche Taccuino di Bergamo). Ultimo quarto del XIV sec. Bergamo, Biblioteca Civica «Angelo Mai». Nella pagina accanto, a destra miniatura raffigurante l’utilizzo di un elefante a scopo bellico: sul dorso del pachiderma è montata una torre in legno, nella quale sono asserragliati soldati che imbracciano archi e altre armi e rintuzzano l’attacco dei nemici che avanzano contro di loro, da un bestiario di produzione inglese. Londra, British Library.
sto, Federico non si separa quasi mai e quando compare nei solenni cortei è sempre accompagnato da elefanti, dromedari, cammelli, pantere, leoni, linci, orsi, leopardi, girifalchi e altro ancora. Quando attraversa l’Italia per andare in Germania, fra il 1234 e il 1235, li porta tutti con sé e altrettanto fa nel 1245, quando gli sgomenti monaci di S. Zeno di Verona si vedono arrivare e chiedere ospitalità non solo il sovrano e la sua corte, ma anche il suo circo viaggiante, fatto, nell’occasione, di cinque ghepardi, ventiquattro cammelli e un elefante.
Un evento eccezionale
«A dí 25 di luglio [1331]. Il dí di Santo Iacopo, nacquono in Firenze due leoncini del leone e leonessa del Comune, che stavano in istía incontro a San Pietro Scheraggio; e vivettono, e fecionsi grandi poi (...) Dissesi per molti ch’era segno di buona fortuna e prospera per lo Comune di Firenze». Il fatto, che Giovanni Villani cronista fiorentino ritiene degno di essere tramandato ai posteri, è eccezionale solo perché non è frequente che leoni in cattività figlino e che i cuccioli sopravvivano. Non è affatto inconsueto, invece, che le città medievali nutrano animali vivi che hanno un riferimento con l’araldica civica e che si configurano, pertanto, come ultimi rappresentanti degli animali totemici della collettività. Firenze nutre due leoni vivi (poiché il «marzocco», il leone seduto, è uno degli emblemi della città) e altrettanto fa Venezia in onore del leone marciano che campisce nella sua bandiera. Nel 1316,
quando da due leoni donati da Federico II d’Aragona alla città nascono tre cuccioli, in città si fa grande festa. Anche in questo caso il parto è considerato segno di buon augurio e i maggiori poeti veneziani si cimentano in componimenti che cantano la vicenda. Siena, per parte sua, esibisce una lupa viva; Pisa un’aquila e cosí via. Animali selvatici e, soprattutto, animali aggressivi, in omaggio a una regola non scritta dell’araldica – sia civica sia privata – che privilegia animali selvaggi e, se domestici, sessualmente ben connotati al maschile. I problemi sorgono quando le cose vanno storte. In quel caso gli animali totemici sono i primi a fare le spese di una disgrazia o di una sconfitta. Metaforicamente e, in qualche caso, fisicamente. All’indomani della bruciante sconfitta patita dai Fiorentini a Montaperti, Guittone d’Arezzo elabora un componimento sarcastico nel quale il «marzocco» finisce per assumere l’aspetto di un bestione depotenziato e umiliato: «Non ardite ora di tenere leone, che voi già non pertene, e se ‘l tenete, scorciate over cavate lui coda e oreglie e denti, e unghi’ e ‘l depelate tutto, e in tal guiza potrà figurare voi». All’aquila pisana va anche peggio: i Pisani l’hanno portata in campo di battaglia perché protegga le schiere cittadine guidate da un quasi esordiente Giovanni Acuto nella giornata di Cascina, il 29 luglio 1364. Alla sera, quando i Fiorentini, vittoriosi su tutta la linea, conducono in città i prigionieri, fra le prede di guerra c’è anche lo scalognato volatile, fatto sfilare e irriso quasi fosse un gallinaccio qualsiasi. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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LA SCIMMIA di Lorenzo Lorenzi
Quel «parente» poco amato 76
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Pur essendo l’animale piú simile alla nostra specie, la scimmia ha avuto un destino singolare nel Medioevo, che ne ha sottolineato la natura bestiale, se non addirittura diabolica
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ell’età medievale, la rappresentazione dell’animale occupa un posto privilegiato nell’arte e nella letteratura, in tutte le sue sfaccettature, siano esse simboliche e allegoriche: tali dimensioni riflettono uno sconfinato universo fantastico nel quale fa la sua comparsa, come presenza inattesa e inquietante, la scimmia effigiata in miniature, tavole, bassorilievi, citata nei piú importanti bestiari dei secoli XII-XIV alla stregua dei rapaci, dei pennuti notturni e dei rettili mostruosi. Tradizionalmente rappresenta la degenerazione dell’essere umano, poiché imita goffamente l’uomo – creatura razionale e sociale –, senza però averne le capacità intellettive. Sua caratteristica principale è l’esibizione provocatoria della parte corporea nell’insensatezza dei gesti, a cui si accompagnano l’immoralità del comportamento e la conseguente lontananza da Dio. Il pensiero medievale la vede come un umanoide senza coscienza, avendo coda e lungo pelo, dall’anima prava, perché ingorda e subdola: Satana stesso è additato dagli apostoli quale scimmia dell’uomo-icona rappresentata da Cristo, come riferisce il Vangelo di Giovanni (12.31), che afferma come la simia dei (Lucifero) ami corrompere quanto già creato dall’Onnipotente, animata com’è dalla smania di appropriazione e distruzione di ogni bontà divina. Nel suo Bestiario (XIII secolo), il monaco e poeta francese Filippo di Thaon la descrive come uno strumento diabolico, capace di sedurre in virtú della sua frivolezza e slealtà, incline all’imitazione come alla contraffazione, quasi una specie di mutante.
Venditore di animali esotici, olio su tela di Joachim Beuckelaer. 1566. Napoli, Museo di Capodimonte. Tra le bestie, si notano due scimmie, animali esotici particolarmente apprezzati dalle corti europee. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Adorazione dei Magi (particolare), polittico di Gentile da Fabriano. 1423. Firenze, Galleria degli Uffizi. In primo piano, sulla destra, compaiono due scimmie, la cui presenza sottintende la provenienza dei tre re dal lontano Oriente.
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La scimmia
Come il serpente tentatore, incarna il vizio della carne in connessione con la follia o con l’istinto omicida, sebbene l’arte e la letteratura propongano altre chiavi di lettura, in cui la scimmia compare come socievole figura domestica, aggressivo umanoide fantastico, semplice animale selvatico da addomesticare. Quest’ultimo aspetto si osserva, già alla fine del XII secolo, in alcuni bestiari che ne esaltano sia il lato irriverente, consistente nell’esporre all’osservatore le grandi natiche rossastre, sia quello sentimentale e, in questo senso, sono importanti le notizie contenute nel Fisiologo latino e nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (santo, vescovo, dottore della Chiesa, teologo e storico spagnolo, 560-636). L’uomo e la scimmia costituiscono l’emblema dicotomico fra sostanza e apparenza, eterna lotta fra buona ragione e turpe sentimento. Sulla scorta di un’antica tradizione allegoricomoraleggiante, a cui si unisce un solido retaggio classico di matrice latina, la scimmia ha sempre
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goduto dell’infame marchio di bestia del malaugurio: lo dimostra l’antica leggenda ebraica che narra come Yahweh avesse punito uno dei tre uomini responsabili della torre di Babele trasformandolo in scimmia. Plinio ne sottolinea l’indole malvagia, poiché ama soffocare i suoi piccoli in un involontario e mortale abbraccio amoroso; nel bestiario di Gervaise (1200 circa) se ne cita l’orribile fisionomia paragonata al demonio, connotato con tratti scimmieschi: l’esatto contrario di Cristo, simboleggiato dall’agnello sacrificale, docile, innocente e mansueto. Per l’autore, la scimmia «sembra piú diavolo che bestia (…) non ha di che coprirsi le terga». Citazioni relative al contesto silvano esaltano furbizia e aggressività nel procurarsi cibo o nel divincolarsi dalla morsa del cacciatore. Nel bestiario intitolato Libro della natura degli animali, scritto in volgare toscano alla fine del Duecento, si fa riferimento alla sua andatura spedita, ma anche alla sua capacità di correre tanto veloce
da scomparire dalla vista del predatore, portando con sé i suoi piccoli: il meno amato caricato sul dorso, il prediletto stretto fra le braccia con tale forza da finire soffocato.
L’esercito di Notre-Dame
Nelle corti, la scimmia è una presenza costante e per niente inquietante. Appare come un’entità giocosa (come fu in parte per l’orso; vedi box a p. 82), capace di stimolare il riso, divertire grandi e piccini, allietare feste e banchetti del signore, assieme a nani e giocolieri: stuolo di anime reiette facenti parte di compagnie di attori girovaghi e cantastorie. Se in un sermone attribuito a Ugo di San Vittore (XII secolo) si afferma che essa è l’animale piú vile, sporco e detestabile, al tempo stesso si menziona come, paradossalmente, i chierici amino tenerle in casa e farle sporgere dalle finestre in modo da impressionare la gente che passa con la gloria dei loro beni; nel XIII secolo, documenti riferi-
scono che un esercito scimmie popolava il chiostro della cattedrale di Notre-Dame a Parigi distraendo i monaci dalla preghiera. Pier Damiani (santo e dottore della Chiesa, 1007-1072) racconta la storia del conte ligure Guglielmo, che possedeva una scimmia di nome Maimo («capo dei diavoli», in arabo), tanto amata da sua moglie da renderlo geloso e fargli sospettare che la donna avesse rapporti intimi con la bestia. E, nel 1228, nel palazzo del duca di Borgogna, una scimmia domestica, presa da un attacco d’ira, distrusse importanti documenti del secolo precedente e per questo motivo fu incatenata e sorvegliata a vista. La moda di tenere primati addomesticati al guinzaglio in palazzi e castelli (una sorte simile sfiorò nella raffigurazione pittorica anche il cervo; vedi box a p. 82) indusse molti signori a costruire leziose gabbie decorate con tralci floreali e fogliacei o a tenerle legate a catene fissate al muro. Nei resoconti di Jean de Berry, si afferma
Particolare dell’affresco della Flagellazione di Pietro Lorenzetti in cui una scimmia, tenuta al guinzaglio da un bambino, s’avventura sul cornicione del palazzo. 1320 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore.
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La scimmia
Due scimmie incatenate, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1562. Berlino, Gemäldegalerie. L’immagine ben sintetizza l’abitudine dei ricchi signori di possedere animali esotici in cattività.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante una scimmia tenuta al guinzaglio da un valletto armato di frusta, da un codice di scuola fiamminga. Seconda metà del XV sec. Londra, British Library.
come nel 1376 l’artista Jehan d’Estampes fosse stato incaricato di realizzare una ciotola rotonda in legno dotata di catena di ferro cui legare la scimmia del duca di Borgogna, stessa sorte ebbe la scimmia della regina Isabella di Baviera: indicazioni queste di una consuetudine persistente nelle corti europee piú raffinate.
Una duplice valenza
Manoscritti miniati presentano deliziose scimmie a guinzaglio oppure legate a tralci floreali, quasi fossero catene, alla stregua dei piú comuni animali domestici, con espressione assorta, talvolta malinconica e svagata; tale iconografia è tipica del tardo Medioevo con risvolti inusuali nel Rinascimento: Michelangelo ritrae ai piedi dei Prigioni l’effigie appena abbozzata di una scimmia, trattenuta a forza dalla grezza materia. In questo caso, come nei racconti precedenti, l’animale impossibilitato a muoversi rappresenterebbe sia l’anima umana privata della libertà, sia la natura animale mancante
del vinculum corporeo autosufficiente. In una miniatura fiamminga della seconda metà del XV secolo (vedi foto alla pagina precedente), osserviamo una scimmia tenuta a guinzaglio da un valletto che stringe nell’altra mano una frusta. Essa digrigna i denti e agita una picca, indicazione della sua aggressività belluina; poiché dirimpetto sta assiso un alano bianco seduto, l’ipotesi piú probabile è che i due esseri rappresentino la fedeltà e il tradimento, ma anche la razionalità e la follia, poli imprescindibili dell’universo psichico. Completa la scena un giullare con scettro, a significare il contesto farsesco e ludico, stante i desideri del signore che ama possedere animali esotici in cattività. In un Libro d’Ore all’uso di Roma della fine del XV secolo (oggi alla Bibliothèque Mazarine di Parigi) una scimmia fa il bucato: l’animale appare tanto integrato nel tessuto domestico da svolgere mansioni adatte a un essere umano. Sebbene sia una tipica rappresentazione (segue a p. 85) GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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La scimmia
L’ambivalenza e la forza buona ORSO
ome la scimmia, l’orso era percepito in duplice modo: essere C potente e aggressivo, capace di uccidere e decapitare con una sola zampata, oppure simpatico mammifero dai sentimenti umani, il piú comune dei quali è l’irresistibile richiamo del miele. Aristotele e Plinio sostenevano che i piccoli dell’orso appena nati non abbiano ancora una forma definitiva e che sarà la madre stessa a provvedere a ciò leccandoli accuratamente. Nel Bestiario moralizzato di Gubbio, l’orsa che plasma i figli con la bocca diviene il simbolo della Chiesa che forma il cristiano per mezzo del battesimo. Nel Medioevo, gli orsi come i primati, godevano di uno status privilegiato: sono ritenuti non umani, ma nemmeno interamente animali; entrambi assumono una postura eretta, usano le zampe anteriori per cibarsi, anche il loro intenso sguardo ha qualcosa a che vedere con la fisionomia umana. E questa ambivalenza impressiona l’immaginario popolare dando loro lo status di quasi umano. Gaston Fébus, nel suo Livre de la chasse (XIV secolo), scrive che gli orsi si accoppiano come gli umani e come loro vivono in grotte e amano i frutti. Come le scimmie, possono essere ammansiti e addomesticati. I Dialogi di Gregorio Magno raccontano dell’eremita Fiorenzo che pregò Dio di mandargli compagnia; fu accontentato con un orso socievole e intelligente, capace di aiutarlo nella cura del gregge e di difenderlo dagli aggressori.
CERVO Il cervo è considerato come uno dei tanti simboli della rinascita
per il rinnovarsi periodico delle sue corna (simili ai rami degli alberi), inteso come un’allegoria dello sviluppo e dell’unione tra forze superiori e inferiori. Nella leggenda greca di Ciparisso, il cipresso richiama l’immortalità e l’eternità, è il simbolo del dolore provato dal giovinetto amato da Apollo che per errore uccise la cerva da lui stesso allevata: per poter mettere fine a un dolore straziante, Apollo lo trasformò in pianta. Contrapposto al toro, elemento della forza cieca, il cervo rappresenta la forza buona, e per questo viene invocato contro il morso dei cani e la rabbia: a lui sono legate molte leggende, la piú importante delle quali riguarda la vita di sant’Uberto, ispirata alla leggenda di sant’Eustachio. Vi si narra di come un Venerdí Santo, a conclusione di una battuta di caccia, Uberto ebbe la visione di un crocifisso parlante, inquadrato fra le corna di un cervo, che lo invitava ad abbandonare la vita dissoluta e a convertirsi. Vi è poi il caso di sant’Egidio abate, la cui esistenza, trascorsa da eremita in una foresta presso Nîmes, è contrassegnata dalla serena presenza di una cerva che lo nutrí con il suo latte accudendolo amorevolmente, come si vede, per esempio, in un dipinto del Maestro di Saint-Gilles (vedi foto alla pagina accanto).
A sinistra miniatura raffigurante un orso che s’arrampica su un albero, dal Libro d’Ore di Simon de Varie, ufficiale delle finanze di Carlo VII di Francia. 1455-1460. L’Aia, Biblioteca Reale. Nella pagina accanto Sant’Egidio e la cerva, olio su tela del Maestro di Saint-Gilles. 1500. Londra, National Gallery. L’artista rappresenta la bestia che, inseguita dai cacciatori del re, trova rifugio, similmente a un animale domestico, tra le braccia del santo. 82
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La scimmia
A destra miniatura raffigurante una scimmia che lavora alla zangolatura del burro, da un Libro d’Ore all’uso di Roma. Fine del XV sec. Parigi, Bibliothèque Mazarine. Nella pagina accanto Madonna della Scimmia, incisione di Albrecht Dürer. 1498 circa. Berlino, Staatliche Museen. In basso Il concerto nell’uovo, olio su tela di Hieronymus Bosch. Seconda metà del XVI sec. Lilla, Palais des Beaux-Arts.
fantastica di drôlerie, la scena richiama una realtà molto particolare, a tratti inquietante e relativa agli animali sfruttati se non schiavizzati, costretti a subire punizioni corporali in caso di ribellione (alcune miniature della fine del Trecento presentano scimmie punite con frecce conficcate nelle terga).
La scimmia lavoratrice non è un’eccezione presente solo nel codice di cui sopra. Sono molti, infatti, quelli coevi in cui le scimmie lavorano senza sosta: è il caso della scimmia intenta alla zangolatura del burro, mansione delicata e di fatica, testimone un gatto che si abbevera in una ciotola colma di latte (vedi foto in alto). Senza contare le scimmie suonatrici di strumenti a fiato o a percussione: particolarmente interessante è il Concerto nell’uovo di Bosch, in cui scorgiamo una scimmia che suona un cornetto nero e curvo, immagine della dissipazione della coscienza, l’opposto della meditazione e della preghiera (foto qui a sinistra). Per ciò che concerne l’iconografia sacra, è di fondamentale importanza l’incisione di Albrecht Dürer nota come Madonna della Scimmia (foto nella pagina accanto). Sullo sfondo di un paesaggio lacustre, vediamo l’animale assiso ai piedi da Maria. L’indole malvagia e rissosa sembra essersi trasformata in serafica calma; questo si deve al potere dell’Immacolata Concezione che ne controlla gli impulsi e cosí facendo viene mitigato il tratto subdolo e menzognero. La fede e la preghiera impediscono dunque il ritorno dell’uomo al peccato originale, cioè a uno stato di ferinità, impurità perenne e falsità infinita, proprio perché la venuta nel mondo del Dio fatto uomo esplicita la rinnovata conciliazione fra creato e creatore. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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IL LEONE di Domenico Sebastiani
Sia lode al re!
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Al leone è sempre stata riconosciuta una supremazia indiscussa. Rafforzata dalla ricorrente associazione con gli dèi pagani e, in seguito, con le principali figure della religione cristiana
«L
a volpe scherniva la leonessa, rinfacciandole di non saper mai mettere al mondo piú di un figlio alla volta. “Sí – rispose quella – uno solo, ma un leone”». Cosí raccontava Esopo, intorno al VI secolo a.C., in una delle sue favole. Gli faceva da contraltare Fedro, attivo a Roma intorno al I secolo: «Mucca, pecora e capra si allearono nella foresta con il leone. Quando catturarono un cervo di grande stazza, il leone ne fece le parti e disse cosí: io mi prendo la prima perché il mio nome è re, la seconda me la dovete concedere in quanto vostro socio, la terza mi spetta perché sono piú forte, e chi tocca la quarta, guai a lui!». Già nel genere favolistico classico la figura del leone appare condensare le caratteristiche del capo, ma anche vizi e virtú propri dell’uomo. Come ha evidenziato la studiosa Maria Pia Ciccarese, al leone viene da millenni attribuita la palma di primo tra gli animali, e la sua regalità è giunta sino a noi come un archetipo mentale indiscusso. Nel leone si identificavano le doti richieste al sovrano ideale: prestanza fisica, forza e coraggio, ma anche giustizia e clemenza. La lotta contro il leone, d’altra parte, ha sempre assunto un valore che va al di là di una prova di coraggio, acquisendo invece il significato di uno scontro primordiale tra sfere contrapposte, mondo umano e ferino, spirituale e materiale, bene e male. Allo
Daniele nella fossa dei leoni, olio su rame di Jan Bruegel il Vecchio (1568-1625). 1610. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Daniele, capo consigliere del sovrano persiano Dario, viene rinchiuso nella fossa per la gelosia dei satrapi del regno; ma, miracolosamente, le belve lo risparmiano per la sua fede in Dio. Il leone compare spesso negli scritti biblici, assumendo sia un ruolo positivo, simbolo di forza, che negativo, assimilato al diavolo che divora le anime. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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ANIMALI SELVATICI ED ESOTICI stesso modo la caccia al leone era privilegio riservato ai re, e la vittoria sull’animale segno di volontà divina. Non vi è eroe storico o mitologico che non abbia infatti annoverato tra le sue gesta quella di aver ucciso un leone e di essersi fregiato della sua pelle come trofeo.
Prima era l’orso...
Ma il leone, in realtà, è sempre stato il «re degli animali»? Oppure può essere accertato un momento, come sostiene lo storico Michel Pastoureau, in cui si è assistito a una incoronazione definitiva del leone, che da semplice rex omnium bestiarum è divenuto rex animalium? Michel Pastoureau asserisce che, tra l’VIII e il XII secolo, la Chiesa portò una guerra campale contro l’orso, animale che fino ad allora aveva occupato il posto di re in Occidente. La sua bestialità e regalità spaventavano il clero: era animale dalla forza prodigiosa e nello stesso tempo dal carattere antropomorfo, villoso e virile, aveva la capacità di stare in piedi e si
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Il leone
narrava che si unisse alle donne o che si accoppiasse more hominum. Divenne presto la bestia malvagia, da demonizzare, domare e infine ridicolizzare. Il suo trono, però, doveva passare a un altro animale. La scelta cadde su un’altra belva, invincibile come l’orso e ugualmente oggetto di ammirazione e rispetto, ma assente nelle foreste d’Europa: il leone. Risultati tangibili si ebbero tra il 1150 e il 1200, ma il percorso fu lungo, in quanto nella simbologia animale il leone aveva un ruolo ambivalente, vi era un leone buono ma anche uno cattivo. Per incoronarlo fu dunque necessario smussarne gli aspetti negativi. Il leone era largamente presente nella cultura biblica, dal momento che visse in Oriente per diversi millenni, per scomparire quasi del tutto all’epoca delle crociate. La Bibbia ne sottolinea la potenza e tutti i re ed eroi dotati di grande forza erano paragonati a leoni. Il suo ruolo, peraltro, è ambiguo: Dio si paragona a un leone che ruggisce a caccia di preda quando inter-
Nella pagina accanto particolare di una statua in diorite della dea egizia Sekhmet, con corpo femminile e testa di leonessa, coronata da disco solare e ureo, dal tempio di Mut a Karnak. XVIII dinastia, regno di Amenofi III, 1388-1351 a.C. Torino, Museo Egizio. Nel tempio di Karnak, eretto da Amenofi III, alla dea Mut, assimilata a Sekhmet, furono dedicate circa 400 statue della leonessa. In basso statua in marmo bianco di leone. Età copta. Torino, Museo Egizio.
UN MITO SENZA TEMPO E SENZA CONFINI Il leone è presente nella mitologia come attributo di varie divinità o come protagonista di diversi racconti. È animale simbolo del sole e del fuoco. Nell’Antico Egitto i leoni erano spesso raffigurati a coppie, schiena contro schiena. Rappresentavano i due orizzonti e il corso del sole da un’estremità all’altra della terra, sorvegliavano il trascorrere del giorno, si ergevano a indicatori del continuo rinnovamento, dell’alternanza del giorno e della notte, dello sforzo e del riposo. Allo stesso tempo, la leonessa è simbolo della luna e si ricollega, nel bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente, a molte divinità femminili che incarnano la Grande Madre: la dea dei leoni che ci è giunta tramite statuette cretesi di età minoica; la dea greca Cibele, il cui carro è trainato da leoni; la dea mesopotamica Ishtar, raffigurata in piedi su un leone o affiancata da due leoni. In Egitto, invece, la leonessa è tratto caratteristico della dea Sekhmet, cosí come testa di leonessa possiede spesso la dea Bastet. Quanto al pantheon maschile, il leone è l’animale prediletto di Apollo, Dioniso ed Eros. Il dio solare dei Sumeri, Marduk, è associato al leone, cosí come Nergal, dio della guerra caldeo, Ra, dio solare egizio, e Mitra, accanto al quale simboleggia il fuoco. LA PRIMA FATICA DI ERCOLE Con riferimento ai racconti mitologici, non si può non ricordare la prima fatica di Eracle, che consiste nella cattura del mostruoso leone Nemeo: secondo Pindaro, la pelle leonina che caratterizza l’eroe è proprio quella dell’animale sconfitto. Il leone è presente in molti altri miti, come quelli di Piramo e Tisbe, della ninfa Cirene o dei due amanti Atalanta e Ippomene tramutati in leoni. Nell’Odissea, Omero narra come la maga Circe fosse capace, con i suoi sortilegi, di rendere docili lupi e leoni. Passando a racconti leggendari, si possono ricordare gli episodi di Androclo e Alessandro Magno. Il primo, schiavo che aveva soccorso un leone ferito, fu a sua volta da questo salvato nell’arena: la bestia, invece di sbranarlo, iniziò a leccarlo affettuosamente sulle mani, tanto che il pubblico si commosse e graziò Androclo. Una relazione costante con il leone caratterizza le vicende di Alessandro Magno: in una battuta di caccia affrontò un leone di enormi proporzioni e lo uccise con un solo colpo. Prima della sua nascita un indovino predisse che avrebbe avuto un coraggio straordinario e un carattere leonino: leonina è la sua chioma nell’iconografia piú diffusa e il combattimento con il leone è raffigurato sul suo sarcofago. Non si può dimenticare nell’antichità la presenza di animali piú o meno mostruosi che presentano le fattezze del leone, mischiate a caratteristiche di altre creature. Un esempio per tutti è la Sfinge egiziana con testa umana innestata su corpo leonino, oppure la Sfinge greca, che nel mito aveva il corpo di leonessa alata, la testa e il petto di donna. Essa risiedeva presso Tebe e uccideva tutti coloro che non fossero capaci di rispondere al suo enigmatico indovinello; solo Edipo riuscí nell’impresa, e in conseguenza di ciò la Sfinge si gettò da una rupe.
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Il leone
UN MASCHIO E UNA FEMMINA DI OGNI SPECIE... Un interessante percorso relativo al valore assunto nel tempo dal leone, dall’epoca paleocristiana fino a quella feudale, viene dall’iconografia e, in particolare, dalla rappresentazione dell’arca di Noè. Tale scena presenta un bestiario ben selezionato, anche se, in realtà, il testo della Genesi non conteneva indicazioni precise, ma solo il comando rivolto da Dio a Noè di far entrare nell’arca una coppia di ogni specie. Nell’individuare gli animali, il testo biblico lasciava quindi agli artisti una grande libertà di scelta, che diveniva il riflesso di valori, modi di pensare e classificazioni zoologiche varianti a seconda di epoche e contesti. Pastoureau ha analizzato circa 300 miniature rappresentanti l’arca, tratte da manoscritti presenti in Occidente tra il VII e il XIV secolo. Lo studio dimostra che il bestiario si è modificato, ma il leone è l’unico animale rimasto sempre presente. All’interno dell’Arca il leone appare sempre in compagnia di altri quadrupedi come l’orso, il cervo e il cinghiale. Gli animali domestici vengono da ultimi, mentre rari sono gli uccelli (tranne il corvo e la colomba), e ancor piú rari roditori e serpenti. Piú interessante è il «corteo d’ingresso» degli animali, che consente di studiare le gerarchie all’interno del regno animale. Nell’iconografia dell’Alto Medioevo, infatti, i «capi» risultano due: l’orso, re degli animali presso le civiltà germaniche e celtiche, e il leone, primo nella cultura biblica e greco-romana. In epoca feudale, invece, a capo del corteo risulta sempre il leone, oramai indiscusso re degli animali. L’orso arretra di un posto (o di diversi) nella scena. Durante il XIII secolo, il bestiario dell’arca diventa piú esotico: vi entrano l’elefante, il cammello, il coccodrillo, il liocorno e il drago, e, per la prima volta, il cavallo, che per la sensibilità dell’epoca feudale era sempre stato considerato, piú che un animale, quasi come un essere umano.
Mosaico raffigurante Noè mentre libera gli animali dall’arca. XIII sec. Venezia, basilica di S. Marco, decorazione del nartece. Tra gli animali che affollano l’arca biblica la coppia di leoni è spesso posta in primo piano, e comunque sempre presente nelle raffigurazioni dell’episodio.
viene contro gli empi, ma leoni sono anche i suoi nemici, a cui Dio spezzerà i denti per difendere chi gli è fedele. Il salmista implora: «Salvami dalla bocca del leone» (Sal. 21), cosí come nel Nuovo Testamento si legge: «State in guardia, il diavolo, vostro avversario, si aggira come leone ruggente in cerca di chi divorare» (I Pt 5.8-9). Però esiste anche il leone positivo, l’animale piú coraggioso che non indietreggia di fronte a nessuno, emblema della tribú di Giuda, la piú forte di Israele (Gen. 49.9), leone che perciò viene associato a Davide, ai suoi discendenti e a Cristo. Anche nel mondo classico il leone è alquanto conosciuto: in Europa tali felini scomparvero allo stato selvatico forse molto prima di Cristo, i Romani perciò li facevano arrivare per i giochi del circo prevalentemente dall’Africa o dall’Asia Minore e ne avevano familiarità. Anche se il leone era degno di grande ammirazione, Plinio sembra preferirgli nella Naturalis Historia l’elefante; solo cinque secoli piú tardi il cristiano Isidoro di Siviglia, nelle sue Etimologie, lo definisce per la prima volta «principe di tutti gli animali selvaggi». GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Il leone
A sinistra miniatura francese raffigurante Sansone che vince il leone, da un’edizione della Bibbia proveniente dall’abbazia di Saint-Amand. XIV sec. Valenciennes, Bibliothèque municipale. La miniatura illustra l’episodio della lotta di Sansone con la belva che lo attacca presso le vigne di Timna. Con la vittoria sul leone si sottolinea la forza prodigiosa di Sansone, che uccide l’animale a mani nude.
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rio, le cui fauci erano paragonate all’abisso infernale. Allo stesso modo lottare e sconfiggere un leone, come avevano fatto Davide e Sansone, era come vincere il Maligno. Diverso, invece, era il punto di vista di autori quali Ambrogio, Origene e Rabano Mauro i quali, traendo spunto dal Nuovo Testamento, cominciarono a definire il leone dominus bestiarum, cioè «signore delle bestie selvagge», e a conferirgli connotazioni cristologiche.
Tre nature, come il Cristo
Nel mondo celto-germanico occorre invece distinguere: presso i Celti, fino alla cristianizzazione, il leone è un animale praticamente sconosciuto. Il primato spetta all’orso, assieme al cervo, al cinghiale, al corvo e al salmone. Nella mitologia germano-scandinava il leone è totalmente assente; bisogna però sottolineare che, molto prima della cristianizzazione, i Variaghi avevano contatti commerciali con le popolazioni dell’Asia Centrale, per cui importavano manufatti con incise o ricamate figure del leone e del grifone. La criniera leonina era molto apprezzata e compatibile con la tradizione locale, in quanto presso i Germani la capigliatura lunga e folta era segno di forza e potere. Perciò, quando i missionari cristiani arrivarono in Germania, il grande felino era un animale già piuttosto familiare. La simbologia ambivalente del leone si ritrova nell’Alto Medioevo: Agostino (354-430) e gli altri Padri della Chiesa lo vedevano per lo piú come un animale diabolico, feroce e sanguina-
Leone di San Marco, tempera su tela di Vittore Carpaccio. 1516. Venezia, Palazzo Ducale. L’animale è simbolo dell’Evangelista Marco, raffigurato solitamente in forma di leone alato con l’aureola, un libro aperto e una spada tra le zampe.
Questa linea di pensiero fu fortemente influenzata dai bestiari latini derivati dal Physiologus greco, scritto ad Alessandria intorno al II secolo. Tale testo enumerava le tre nature del leone, con un evidente paragone con la figura del Salvatore: «La sua prima natura è questa: quando va in giro sulla montagna e gli giunge l’odore dei cacciatori, cancella con la coda le sue orme, perché i cacciatori non ne trovino la tana, seguendo le sue orme, e lo catturino. Cosí anche il nostro Cristo, leone spirituale, inviato dal Padre invisibile, ha nascosto le sue orme spirituali, cioè la sua natura divina (...) Seconda natura del leone: quando il leone dorme nella tana, vegliano i suoi occhi: infatti stanno aperti (...) Cosí anche il corpo del mio Signore dorme sulla croce, ma la sua natura divina veglia alla destra di Dio Padre, ”infatti non sonnecchierà né dormirà colui che custodisce Israele” (...) Terza natura del leone: quando la leonessa genera il cucciolo, lo genera morto e custodisce il figlio fino a quando il padre, giunto il terzo giorno, gli soffierà in faccia e lo sveglierà. Cosí anche il nostro Dio, l’onnipotente (...) il terzo giorno ha risvegliato dai morti il suo Figlio primogenito, che era prima di ogni creatura, il Signore nostro Gesú Cristo». Il leone del Physiologus, peraltro, non era definito ancora «re di tutti gli animali»: questo avvenne solo con le Enciclopedie di Tommaso di Cantimprè, Bartolomeo Anglico e Vincenzo di Beauvais, scritte tra il 1240 e il 1260. In queste opere si sottolineano la forza, il coraggio, la generosità e la magnanimità dell’animale, doti proprie di un sovrano; non a caso, sono le stesse qualità che caratterizzano il re Noble, cioè il leone, nel Roman de Renart (1175-1180). Acquisito da un lato l’appellativo di rex animalium, entrato dall’altro a titolo definitivo nel bestiario di Cristo, cosa fare del «cattivo leone» che esisteva una volta nella Bibbia e nel primo Medioevo? La cosa non era di poco conto e affaticò, secondo Pastoureau, gli intellettuali dell’epoca. Lo spinoso problema fu risolto creando ex novo un animale su cui riversare le caratteristiche GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Il leone San Marco raffigurato con le sembianze di un leone, particolare di un ciclo affrescato con la Vita di Cristo. XIV sec. Como, chiesa di S. Abbondio. Nella simbologia cristiana, l’immagine della fiera allude anche alla forza della parola dell’Evangelista. negative dell’antico leone. Nacque cosí la figura del leopardo, non un vero leopardo, ma una figura immaginaria, frutto dell’accoppiamento colpevole della leonessa con il pardus, animale alquanto misterioso. Simile nell’aspetto al leone, salvo che per la mancanza della criniera, il leopardo era dotato di natura particolarmente malvagia, da cui ormai il leone era esente. Il leopardo divenne l’animale negativo per eccellenza, alleato del drago, simbolo di tutti coloro che incarnavano le forze del male. A questo punto non vi era piú spazio per un leone buono e uno cattivo, come un tempo: c’era solo il leone giusto e generoso, a cui si contrapponeva il leopardo infido e crudele.
Una presenza ricorrente
Nel Medioevo la figura del leone si ritrova ovunque, soprattutto nelle opere d’arte, dove risulta dipinto, scolpito, ricamato o inciso. Si può pensare alle immagini di leoni nelle chiese, sia romaniche che gotiche, le quali esibiscono il felino nel coro, sui pavimenti, muri, soffitti, porte e finestre. Nella decorazione delle chiese il leone è la star tra gli animali, piú scolpito che dipinto, in quanto la maggior parte delle immagini sono andate perdute. Tale sua predominanza nel bestiario figurativo si ritrova anche nel mondo degli emblemi e dei codici sociali: si può pensare, per esempio, ai nomi di battesimo o nomi di famiglia che contengono la radice leo- o che incorporano la parola «leone» (Leonardo, Leopoldus, Lionnard, Löwenstein, Leonelli), ovvero a nomi o soprannomi dati a personaggi famosi o eroi letterari (Riccardo Cuor di Leone, Lionel cugino di Lancillotto). È soprattutto l’araldica, però, che offre gli elementi piú interessanti: dal XII secolo in poi nasce l’adagio «chi non ha un blasone ha un leone», e il leone risulta la figura piú diffusa nell’arme medievale, con una presenza del 15%, seguita dalla fascia (banda orizzontale) con il 6% e dall’aquila, che raggiunge appena il 3%. Ciò si riscontra in tutta Europa, sia quella Settentrionale che Meridionale, con una maggiore concentrazione nelle Fiandre e nei Paesi Bassi e una minore nelle zone montagnose e alpine. D’altra parte, a eccezione dell’imperatore e del re di Francia, tutte le dinastie dell’Occidente cristiano hanno adottato, in un mo94
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NELLO STUDIO DI GEROLAMO Nell’agiografia cristiana la figura del leone è attributo di vari santi, come l’Evangelista Marco, Eufemia e Tecla. Celebre è l’accostamento dell’animale a san Gerolamo (347-420), Padre e Dottore della Chiesa: secondo la Legenda Aurea, il santo estrasse dalla zampa di un leone ferito una spina, guarendolo. La fiera, da quel momento, non lo abbandonò piú, venendo a rappresentare la ferocia e la forza bruta vinte dalla pietà. Molti pittori ritrassero il santo in compagnia del leone. Tra questi il Perugino (1450-1523) e il fiammingo Albrecht Bouts (1452 circa-1549), nei cui dipinti Gerolamo è inginocchiato e si percuote il petto con una pietra davanti a un crocifisso; nei suoi pressi l’animale, in ricordo dell’episodio leggendario. Famose sono anche le rappresentazioni di Jan van Eyck (1430-1431), di Zanetto Bugatto (1452) e di Vittore Carpaccio (San Gerolamo porta il leone nel convento), del 1502. Nel primo dipinto il santo, erroneamente vestito in abito rosso cardinalizio, è nel suo studio; nel secondo, sullo sfondo di un paesaggio roccioso, è intento all’estrazione della spina dalla zampa del leone. Carpaccio affresca con spirito quasi umoristico l’ingresso del leone in convento: l’animale appare mansueto e tranquillo e accompagna fedelmente il santo, l’anziano Gerolamo tenta di rassicurare i fraticelli che invece fuggono terrorizzati alla vista della belva. La scena è situata in un paesaggio al quale palme e abiti di alcuni personaggi conferiscono una connotazione esotica e orientaleggiante, in quanto l’episodio dovrebbe svolgersi in Palestina. Carpaccio, però, attualizza la scena con la struttura del complesso conventuale dai tratti che alludono all’architettura tardo-gotica veneta, dal momento che il leone risulta anche simbolo della Repubblica di Venezia.
mento della loro storia, l’emblema del leone. In un periodo di poco antecedente, a cavallo tra l’XI e il XII secolo, fanno la loro comparsa i cosiddetti «cavalieri dal leone», ossia cavalieri forniti di uno scudo o di un’insegna ornata di un leone, motivi proto-araldici forse derivanti dalle immagini presenti in oggetti d’arte importati dal Medio Oriente. Nella seconda metà del XII secolo, lo scudo fregiato con l’immagine del leone diviene, in tutte le opere letterarie, lo stereotipo del cavaliere cristiano, in contrapposizione allo scudo con il drago che è proprio del guerriero pagano. Solo nelle regioni dell’Europa Settentrionale resiste per un certo periodo l’emblema tradizionale del cinghiale: significativo è il fatto che in
Germania e Scandinavia, attorno al 1230, Tristano abbandoni il suo scudo con il cinghiale per adottarne uno con il leone, cosa già avvenuta tempo prima in Francia e in Inghilterra. Da un punto di vista iconografico, il «cattivo leopardo» viene raffigurato nell’araldica come un leone, differenziandosene per la posizione, con la testa frontale e il corpo di profilo, mentre il «buon leone» avrà sempre sia testa sia corpo di profilo. Nell’iconografia zoomorfa medievale, quindi, è la frontalità della testa a cambiare il significato e a conferire all’animale una connotazione perlopiú peggiorativa. Oltre all’araldica, altri campi indicano un’ascesa ineluttabile del leone. I «serragli», per esempio: oltre a quelli piccoli e itineranti, nell’Europa
San Gerolamo, particolare di una pala d’altare di scuola svizzera. Fine del XV sec. Digione, Musée des Beaux-Arts. Il santo è raffigurato nel suo studio, intento alla scrittura. Il leone dipinto ai suoi piedi – uno tra i tradizionali attributi di Gerolamo – tiene alta la zampa ferita dalla spina che il santo curò, come descritto nella Legenda Aurea.
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ANIMALI SELVATICI ED ESOTICI medievale esistevano serragli di maggiori dimensioni e stabili (ménageries), che solo re, principi e alcune abbazie potevano permettersi. Segno comunque distintivo e di potere, i serragli annoveravano diversi tipi di animali in stato di cattività, da esibire agli ospiti e, talvolta, aperti anche alla visione del popolo. In età carolingia i serragli dovevano contenere al piú orsi, e il piú bel regalo che un re potesse ricevere era un esemplare di questi plantigradi, notevole per dimensione, pelliccia e origini. Alla metà del Duecento la situazione era mutata: donare un orso bruno era divenuta cosa banale, resistevano, solo per prestigio, gli orsi bianchi, catturati sulle banchise del grande Nord e che il re di Norvegia inviava ai re cristiani. Si ricorda un orso bianco donato dal re Haakon IV nel 1235 all’imperatore Federico II, e un altro ricevuto dal re d’Inghilterra Enrico III.
Nel serraglio di Federico II
L’animale piú bello e prezioso che un serraglio principesco potesse ospitare era ormai il leone, soprattutto quello africano, piú grande e raro rispetto a quello mediorientale, quindi di maggior pregio. Accanto ai leoni, questi «zoo in miniatura» vedevano pure pantere, leopardi e «tigri», anche se forse non erano quelle che intendiamo oggi. Il serraglio piú ricco di leoni sembra Automa raffigurante la Morte che cavaca un leone e in origine facente parte di un orologio, opera dell’intagliatore Thomas Teichmann, dalla chiesa abbaziale di Heilsbronn. 1513. Monaco, Bayerisches Nationalmuseum.
Il leone fosse quello di Federico II, a Palermo, il quale serviva anche come centro di redistribuzione per altri serragli regali, visti i rapporti che l’imperatore intratteneva con il sultano d’Egitto. Anche Venezia e Bisanzio erano mercati ben forniti di felini e altri animali selvatici importati dall’Africa o dall’Asia. L’ascesa del leone è confermata anche da testi letterari. Quale prova della sua forza e del suo coraggio, il giovane cavaliere non affronta piú un orso, ma un leone o, al limite, un drago. Si può pensare a Lancillotto, Tristano, Galvano e agli altri Cavalieri della Tavola Rotonda. Nel contempo, un leone diventa sempre piú spesso compagno dell’eroe e suo attributo, come nel caso di Ivano nel Chevalier au Lion, scritto tra il 1177 e il 1181. Percorso simile si avverte nell’agiografia: i leoni compa-
Leone portabandiera, particolare dell’Apoteosi di san Zanobi e ciclo di uomini illustri, affresco realizzato da Domenico Ghirlandaio nella Sala dei Gigli del Palazzo Vecchio di Firenze. 1482-1484. Nella repubblica fiorentina, il leone era considerato il simbolo della forza del popolo. In molte sculture l’animale è rappresentato come reggistemma, il Marzocco, con lo scudo gigliato della città. Celebre il Marzocco di Donatello, oggi nel Museo Nazionale del Bargello di Firenze (vedi foto a p. 86). iono sempre piú nei racconti dei santi, ed essere risparmiati dal leone conferisce alla santità un rilievo particolare. La consacrazione del leone fu un processo di lunga durata, che sembra avere avuto il suo momento cruciale verso la fine del XII secolo, per poi affermarsi all’inizio di quello successivo. Michel Pastoureau cita però riflessioni teologiche che inducono a pensare che il «momento di svolta» sia accaduto prima, a cavallo tra l’XI e il XII secolo.
Dispute teologiche
È il caso dell’Elucidarium, opera scritta tra il 1100 e il 1105 da Onorio Augustodunensis, teologo e monaco probabilmente di origini britanniche ma vissuto nei pressi di Ratisbona. Onorio disserta circa la resurrezione dei corpi. Tale tema era già stato affrontato in passato dai Padri della Chiesa altomedievali, come Tertulliano, Origene, Metodio, Gregorio di Nissa e Gerolamo, a proposito del martirio: cosa ne sarebbe stato dei corpi dei martiri straziati dall’ascia dei carnefici e dalle belve, o ridotti in cenere dalle fiamme? Avrebbero riacquistato la loro integrità fisica prima di passare alla vita eterna? La controversia tornò alla ribalta attorno al 1100 e fu ripresa da Onorio a proposito dei corpi sbranati da una belva. In questi, che potrebbero essere definiti dei «casi di scuola», Onorio cita tre animali: il lupo, l’orso e il leone. Il teologo si domanda cosa ne sarà delle carni umane dopo la resurrezione, una volta che saranno sbranate dalla fiera e andranno a mischiarsi inevitabilmente con quelle dell’animale. Al di là del quesito, che rimane insoluto, Onorio si lancia in una casistica esponenziale: cosa succederà se un uomo verrà divorato da un lupo, il lupo da un orso, e l’orso da un leone? Il quesito, da un punto di vista culturale, è di grande importanza: nessun autore antico o del Medioevo fino all’anno Mille avrebbe scritto qualcosa di simile. Onorio è probabilmente il primo a dichiarare in modo chiaro la superiorità del leone: il felino è
piú forte del lupo e può addirittura fare a pezzi l’orso. Cosa impensabile in passato, sia perché orso e leone erano da sempre considerati invincibili, sia perché i due animali vivevano in luoghi diversi della geografia e dell’immaginario, pertanto non avrebbero mai potuto scontrarsi. La teologia la pensava ormai diversamente: aveva già individuato il futuro re degli animali, al quale assegnò di lí a poco il trono, dopo averlo depurato dei suoi residui aspetti negativi. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Miniatura raffigurante un caradrio (un uccello non bene identificato, dal piumaggio candido e puro) al capezzale di un re malato, da un bestiario inglese. Prima metà del XIII sec. Londra, British Library. La vignetta correda un testo in cui si dice che l’animale aveva il potere di predire la sorte di un malato: se gli avesse voltato le spalle, il poveretto sarebbe morto; se invece gli si fosse rivolto frontalmente, sarebbe sopravvissuto.
Alla folta schiera delle creature esotiche ma reali, il Medioevo affianca un bestiario fantastico non meno popoloso. Che recupera la tradizione classica, ma la arricchisce di nuovi e strabilianti protagonisti
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ll’inizio della creazione, gli animali convivevano con Adamo e mangiavano «l’erba verde», il che significa che non si uccidevano l’un l’altro. Ma dopo la cacciata dall’Eden subentra un periodo di corruzione e di violenza, al punto che Dio decide di annientare il creato col diluvio: «Sterminerò l’uomo, uomini e animali, perché mi pento di averli fatti». Quando l’Arca di Noè riemerge dai flutti, Dio stabilisce un nuovo patto, in base al quale il potere dell’uomo sugli animali comprende l’autorizzaGLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Prodigi viventi Miniatura raffigurante le bestie dell’Inferno che emergono dall’abisso, dall’edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liébana nota come Beato dell’Escorial. 950-955. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
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zione a cibarsene (con l’obbligo però di toglierne il sangue e di astenersi dalle carni «impure»), e anche all’animale è dato di mangiare carne. Tuttavia, non solo all’uomo verrà «chiesto conto» del sangue dei propri simili, bensí «a ogni animale»: il carnivoro o impuro resta marchiato da questa sua natura feroce, come da una sorta di peccato originale («Su, mangia molta carne!», si grida alla Bestia del sogno di Daniele). Questo luogo della Genesi contrasta col comune modo di sentire, che vuole l’animale «innocente». La Bibbia tramanda all’uomo medievale una rottura dell’equilibrio tra uomo e natura vigente nei miti del mondo classico, nel bel gioco della metamorfosi di animali, dèi ed eroi. Per il cristianesimo l’animale porta con sé il ricordo del «vitello d’oro», dei culti pagani, dei riti sacrificali, delle bestie del circo che torturano i martiri, delle superstizioni magiche. Dalle crude immagini bibliche il Medioevo eredita un atteggiamento sospettoso nei confronti dell’animale, che ricorda all’uomo la sua caducità, il suo stare in bilico tra ferinità/istintualità e spiritualità, tra peccato e salvezza (Jacques Voisenet). L’animale è l’«altro dall’uomo» e, insieme, lo specchio delle debolezze della carne: il suo «lato oscuro». È fonte di paura, è l’abitatore del deserto, dell’immensa selva che circonda il mondo degli uomini, degli abissi marini: ai limiti del cosmo è infine qualcosa di indefinibile, il «mostro»: la progenie di cinocefali, sirene, draghi, grifoni, balene che popola i confini della terra e che è l’erede dei Leviathan e dei Behemoth, sprofondati da Dio nella tenebra a testimonio della sua infinita potenza. C’è naturalmente un «altro» animale, quello domestico, mansueto, fonte di metafore positive, e innanzitutto l’«agnello», protagonista e vincitore dell’Apocalisse: riemerge sempre la dicotomia originaria tra erbivori/carnivori, animali puri/impuri, domestici/selvaggi.
Simbolo della creazione
Il Medioevo cristiano non ha imboccato, come l’ebraismo e l’Islam, una via iconoclasta. Come ha osservato Michel Pastoureau, questa epoca segna, sorprendentemente, un assoluto primato rispetto a ogni altra cultura, nella raffigurazione ossessiva e costante dell’animale. Traducendo le metafore bibliche in immagini, il Medioevo ha disincarnato l’animale della sua real-
Miniatura raffigurante l’apparizione dell’agnello sul Monte Sion, da un’altra edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liebana. 1086. Burgo-de-Osma (Soria), Capitolo della Cattedrale.
tà, ma l’ha insieme elevato a simbolo in cui si riassume l’intera vicenda del creato: «Onnipresente ma inesistente», ha riassunto Voisenet! Meglio di ogni altra creatura o elemento naturale o artificiale, l’animale si è prestato all’interpretazione allegorica del reale, fornendo una compatta gerarchia di «segni» divini: la cifra della creazione e del destino dell’uomo. L’animale non parla, «non produce linguaggio», eppure esprime qualcosa di piú della limitata parola umana: parla un «lessico simbolico» (Costantino Marmo): il mondo fisico è exemplum di quello spirituale. Della natura, avvertiva Rabano Mauro, c’è una spiegazione «mistica»; ogni creatura, soggiunge Pier Damiani, è stata fatta per l’uomo, perché «possa sapere ciò che deve imitare e ciò di cui deve aver paura». «Il mondo sensibile», scrive nel XII secolo Ugo da San Vittore «è come un libro scritto dalle mani di Dio, cioè creato dalla potenza divina, e le singole creature sono come figure, non inventate dall’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà di Dio per manifestare e indicare la sua invisibile sapienza». Sollecitata dalle Scritture, la natura mostra ovunque il Digitus Dei. Dell’animale simbolico nel Medioevo si potrebbe dire ciò che Claude Lévi-Strauss scrisse del totemismo contro le tesi funzionaliste: «L’animale non serve per «mangiare»: serve per «pensare» il mondo». Un immenso zoo di idee, fatte colore e pietra, ha invaso cosí i secoli centrali del Medioevo, dai mosaici, agli avori e rilievi carolingi, alle miniature, all’esplosione zoomorfica romanico-gotica, contro la quale l’austero san Bernardo, in un ultimo sussulto iconoclasta, mise vanamente in guardia. Il fedele ha per secoli ascoltato le prediche e gli scritti sacri innalzando con un brivido gli occhi ai mostri dei capitelli delle navate, alle belve stilofore che all’ingresso della chiesa divorano uomini e prede. L’intera pericolosa via della perdizione/redenzione gli è stata additata attraverso un bestiario mistico, oggi per noi non sempre decifrabile, ma ben chiaro ai contemporanei. La forza e la capacità evocativa di questo bestiario simbolico stanno nel suo essersi alimentato a una pluralità di fonti. La Bibbia è il substrato e la griglia attraverso cui le altre fonti sono state rilette: la Genesi, i Salmi, l’Apocalisse, Daniele, Giobbe, le visioni dei Profeti – Isaia, EzeGLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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chiele – forniscono il canone della simbologia animale piú antica, spartita tra «bene» e «male». Ma su questo palinsesto generico di metafore letterarie si sono innestate presto tradizioni diverse. In primo luogo l’iconografia antica (ancora molto presente nei mosaici bizantini) e la letteratura classica, dalla scienza delle scuole aristoteliche e alessandrine, alla Historia naturalis di Plinio, alle Metamorfosi di Ovidio, che hanno dato origine al gusto dei mirabilia e dei mostri: creature a metà tra il mito e il «sentito dire» di auctoritates e viaggiatori, che hanno vasta accoglienza nell’immaginario medievale; quindi – da non sottovalutare – l’iconografia barbarica, erede di culti totemici dei popoli delle steppe, e il fastoso apparato decorativo orienta102
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I simboli degli Evangelisti – un angelo, un leone, un’aquila e un toro – in uno dei rilievi della facciata del Duomo di Milano. 1386.
le, trasmesso da stoffe e oggetti preziosi, dei quali l’Occidente «povero» era avido consumatore: si parla di un autentico travaso dalla zoologia «araldica» mesopotamica alle cattedrali romaniche (Francis Klingender, 1907-1955).
Una fonte comune
Il crogiuolo dove tutto questo materiale è stato fuso sono le enciclopedie altomedievali (Isidoro di Siviglia, Beda, Rabano) e infine i bestiari veri e propri, il cui prototipo è il Fisiologo, compilazione greca del II-III secolo, che costituisce nei suoi numerosi adattamenti e traduzioni la fonte della fioritura bassomedievale del genere. I bestiari sono, accanto alla Bibbia, veri e propri manuali per gli artisti e i decoratori medievali.
A destra uno dei due leoni stilofori posti ai lati del Portale Maggiore del Duomo di Modena. Si tratta, con ogni probabilità, di sculture provenienti da un sepolcro di età romana.
Gli animali compresi nel Fisiologo sono una trentina, ma in seguito se ne aggiunsero altri. Essi sono descritti con poco riguardo alla realtà, e interpretati invece sulla base di «comportamenti» (veri o presunti: alcuni bizzarramente fantastici, altri antropomorfizzati), come modello di una allegoria teologica o morale: sono il riflesso di un ordine etico e cosmico. Attraverso le specie del bestiario, l’artista o il predicatore hanno potuto rappresentare quasi tutti i personaggi delle Scritture e le situazioni della morale cristiana. Se si eccettuano Dio Padre e gli Angeli, la simbologia cristiana non ha esitato, col rischio (dal punto di vista delle altre religioni monoteistiche) di una pericolosa deriva idolatrica, ad attribuire un simbolo ani-
male a tutti: dallo Spirito Santo (come «colomba») a Gesú, alla Vergine, agli Evangelisti, ai Santi, cosí come alle virtú e ai vizi, ai dogmi, alla Chiesa e cosí via. A Gesú (ma anche agli Apostoli e al Battista) è assimilato innanzitutto l’agnello, presente in innumerevoli luoghi biblici. Quindi il leone, come animale «reale», la pantera (per la convinzione che il suo alito soave attraesse a sé tutte le creature), il pellicano (che si squarcerebbe il petto per nutrire i suoi figli), l’unicorno (che può essere catturato solo da una vergine), il caradrio (uccello non bene identificato, dal piumaggio candido e puro), il cammello (che si carica dei pesi del mondo) e cosí via. Maria è identificata con la tortora o piú spesso con una GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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SERRAGLI DI PIETRA La simbologia zoomorfa del Medioevo è un mare senza fondo, solo in minima parte inventariato: non è sempre agevole decifrarne il senso e le fonti, o separarne ciò che è puro elemento decorativo. Tra le opere d’arte in cui compaiono i bestiari simbolici, citiamo quattro esempi da manuale. L’ambone del vescovo Agnello a Ravenna (VI secolo) ostenta un bestiario cristologico (agnello, pavone, cervo, colomba, pellicano, pesce). Nel mosaico della cattedrale di Otranto, l’intera storia della redenzione è interpretata come una storia di animali: vi compaiono gli elefanti (simbolo di Adamo ed Eva nel Fisiologo), un caos di belve feroci, mostri e giganti in lotta tra loro (allusione al periodo anteriore al diluvio), l’Arca di Noè, lo Zodiaco, un bestiario moralizzato e i miti di Giona e Sansone (allusioni alla Resurrezione). Sulla facciata di S. Michele a Lucca, sotto San Michele e il drago, si snoda una fantasmagorica serie di tarsie con scene di caccia e lotte di animali, veri e fantastici. A Parma, infine, un fregio o «zooforo» del Battistero riassume tutte le principali creature del bestiario.
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conchiglia perlifera (in allusione alla sua miracolosa concezione). Gli Evangelisti sono da sempre associati al «tetramorfo» della visione di Ezechiele: un bue per Luca, un angelo per Matteo, un leone per Marco, un’aquila per Giovanni. Il pavone e la fenice sono simboli dell’immortalità, il cervo che si abbevera alla fonte, della fede («come cerva alla fonte l’anima mia ha sete di Dio», Salmo 41). Piú sottili e talora argute le invenzioni relative ai vizi e alle virtú, dove la fantasia analogica medievale si è scatenata: la lumaca e la tartaruga rappresentano cosí l’accidia, il gallo la vigilanza sul peccato (talora è raffigurato in atto di beccare una tartaruga), e una serie di animali considerati particolarmente lascivi o immondi (l’ibis, la iena, il porco), i vizi della lussuria e della gola. Infine gli Ebrei sono rappresentati dall’asino, dalla civetta o dallo struzzo (che nasconde la testa nella
sabbia per non vedere la verità), i musulmani e gli stessi Ebrei dallo scorpione, ecc. I vizi, il peccato, la superstizione, l’eresia sono riassunti dall’esuberante bestiario diabolico. Satana è innanzitutto raffigurato – come è ovvio – dal drago o dal serpente tentatore, o dai mostri biblici (balena, coccodrillo), sul cui aspetto l’arte romanica si è sbizzarrita creando forme inconsuete. Una folla poi di creature ritenute «malvage», ripugnanti o subdole allude ai camuffamenti e allettamenti del Nemico: l’onagro, la pernice, la volpe (ingannatrice per definizione), la scimmia (ritenuta una squallida imitazione dell’uomo), il lupo, il caprone, la rana, il rospo. Quanto a quest’ultimo, si ricorderà che l’araldica immaginaria l’attribuisce ai re pagani Merovingi, prima del battesimo. Ma l’inventario è assai piú lungo, perché comprende quasi tutte le creature ibride e mostruose concepite dalla fantasia degli artisti e anche versioni al femminile recuperate dalla mitologia classica, come la «centauressa» e la sirena, che rappresentano la «meretrice di Babilonia» dell’Apocalisse.
Duplicità di significati
Particolare dell’architrave che sormonta il portale centrale della chiesa di S. Michele in Foro, a Lucca. Nel rilievo compaiono creature reali e fantastiche (come la sirena dalla coda bifida e il centauro), fra le quali sta san Giorgio che uccide il drago.
Aspetto dominante del bestiario medievale è l’«ambivalenza» di significati. Sia nei bestiari che nelle arti figurative non è raro scorgere lo stesso animale sotto aspetti contrastanti (qualitates oppositae) e dunque simbolo, a volta a volta, del bene o del male, il che in qualche caso ne rende complessa l’interpretazione. Se si escludono poche idee fisse (agnello, serpente...), quasi tutti gli animali si prestano a funzioni allegoriche contrarie. Lo stesso leone è simbolo di Cristo, come re, ma anche del demonio e del male («salvami dalle fauci del leone», «calpesterai draghi e leoni», recitano i Salmi). Il grifo è ancor piú ambiguo: Dante lo raffigura nel Paradiso come simbolo di Cristo, per via della sua doppia natura (di aquila e di leone) che allude alla divinità/umanità del Redentore. Ma un mostro alato assimilabile al grifo compare anche tra le quattro bestie dell’Apocalisse, ed è in generale concepito come il prototipo delle creature demoniache, scolpito o dipinto come divoratore di uomini. L’eterna guerra tra il bene e il male è talora adombrata da selvagge scene di caccia. Satana, cacciatore (venator diabolicus), insegue le anime in una «psicomachia» in cui l’uomo è rappresentato da animali da preda (il cervo, la lepre); ora invece un guerriero combatte con animali feroci, come il cinghiale, simboleggiando la lotta della virtú contro il peccato. In questa lotta
l’uomo è come dilaniato e in balia di forze piú grandi di lui: solo la fede in Cristo che calpesta il drago gli segna la meta. Ma a suo conforto intervengono anche quei mediatori che sono i santi. Santi «sauroctoni», in primo luogo, combattenti della fede (san Giorgio, santa Elisabetta, san Michele, santa Marta che uccide la «Tarasca», il drago della Provenza). Ma anche «persuasori»: il santo è l’unico che resiste alla tentazione (il prototipo è il paziente sant’Antonio, immortalato dalla poesia popolare, assalito vanamente da una folla di animali del deserto, personificazioni del demonio) e opera il miracolo di cambiare la natura dell’animale. Francesco che predica agli uccelli e al lupo, ha una famiglia di consorti: san Gerolamo scrive in compagnia di un leone, come fosse un cagnolino; san Corbiniano e san Gallo ammansiscono un orso e lo usano come animale da soma; san Tommaso Becket è nutrito dai corvi; i corvi scortano il corpo incorrotto di san Vincenzo e tanti altri; i Domenicani con un singolare rebus (domini canes, cani di Dio) amano autoraffigurarsi in forma di levrieri, a caccia di eretici. San Giuliano, sant’Uberto, sant’Eustachio rappresentano infine il sospetto con cui la Chiesa ha sempre guardato al mondo feudale e ai suoi costumi barbari, sfrenati e sanguinari. Questi cavalieri/cacciatori vengono convertiti dall’apparizione di un cervo miracoloso, o di Cristo stesso tra le sue corna, che li fa desistere dalla loro crudele rapacità. Una teofania in forma animale – come accadeva nelle metamorfosi del mito classico (a san Giuliano, novello Edipo, il cervo parlante predice anche l’omicidio dei genitori) – ammonisce l’uomo e gli addita la via. Dal momento della sua massima fortuna nell’arte, nel XII secolo, il fascino del bestiario teologico comincia a regredire: lentamente, tuttavia, perché ancora alle soglie dell’età moderna l’animale resterà in bilico tra considerazione scientifica e mentalità sapienziale. Col rinnovamento filosofico del XII secolo – come nel vivace naturalismo della «scuola di Chartres» –, la penetrazione della tradizione aristotelica attraverso il mondo arabo, la natura comincia a esser vista con un interesse diverso e meno «esemplaristico», pur se i simboli zoomorfi reggeranno ancora a lungo come «specchio del mondo». Il definitivo assetto della società feudale e lo sviluppo delle città fanno sí che il bestiario teologico-mistico subisca una torsione profana e prenda altre vie, presso nuovi ceti e nuovi bisogni: da palinsesto della predicazione, diventa materia di curiosità mondana. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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Prodigi viventi
UN «MOSTRO» PER EMBLEMA Si dice che gli animali araldici sono quelli dei bestiari, ma non è del tutto esatto. Alcuni animali sono comuni (leone, aquila, cervo, cane, capra, drago, liocorno, pantera), ma l’araldica gentilizia concede poco spazio ad animali «teologici» tra i piú diffusi, come agnello, balena, cammello, cicogna, coccodrillo, colomba, fenice. Viceversa, animali molto usati negli stemmi della cavalleria, sono quasi assenti dai bestiari (anatrella, cavallo, cigno, corvo, leopardo, montone, oca, toro, vacca…). Anche tra araldica gentilizia e araldica delle città ci sono differenze: non tanto per le specie animali raffigurate (sostanzialmente le stesse), ma nelle percentuali. Negli stemmi civici, se si escludono quelli desunti dalle insegne di un signore o di un sovrano, la percentuale di animali è inferiore al 15%, mentre negli stemmi gentilizi è al 30%. Anche la frequenza è diversa: il leone compare nel 50% degli stemmi con animali dell’araldica dei nobili, ma solo nel 25% nell’araldica delle città, che privilegia una gamma di animali piú ampia, soprattutto quadrupedi e «mostri».
maglie del gioco amoroso. I viaggi in Oriente introducono poi la passione esotica per l’insolito, ma inducono anche al realismo, sí che la mappa dei mirabilia ridisegna di continuo il confine tra realtà e mito: per Brunetto Latini, per esempio, a nord della Russia è certo che «vivono i grifoni», ma già Marco Polo precisa che essi «non sono fatti come si dice, cioè mezzo uccello e mezzo lione, ma sono come aquile» (sono in grado però di sollevare un elefante...). Il fenomeno piú vistoso di un nuovo simbolismo animale, sganciato dalla tradizione religiosa, è certamente la nascita dell’araldica. Tra il secondo quarto del XII secolo e la fine del Duecento questo linguaggio visivo, che riflette la gerarchia feudale, la sua struttura politico-militare e i rituali della cavalleria al suo apogeo, si diffonde in tutta Europa: il codice araldico fissa colori e figure che rimarranno pressoché stabili nello stile fino ai nostri giorni. Tra le figure primeggiano da subito gli animali, che si trovano in origine in un terzo degli stemmi. Sono simboli generici e universali – il leone, l’aquila – da sempre legati alla regalità e al potere, o connessi al nome del possessore (per via della diffusa onomastica «animalesca» – Lionello, Orso, Lupo, ecc.), o in parte residuo di un totemismo dei gruppi tribali barbarici (si sa, per esempio, che i clan magiari erano contraddistinti da figure di animali selvaggi). Il loro valore simbolico è indubbiamente funzionale in primo luogo a un sistema di identificazione personale, ma ciò non toglie che agli animali araldici siano associati i valori predominanti nella società cavalleresca: la forza, il coraggio, l’orgoglio, la potenza, l’onore.
Il primato è delle fiere
Disegni di emblemi araldici nei quali sono inseriti animali fantastici, come un cervo alato (in alto) o il drago in forma di biscione (in basso, a destra).
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La svolta si avverte contemporaneamente su piani diversi: le enciclopedie scolastiche si sforzano di distinguere tra realtà naturale e mito; i bestiari evolvono dallo schema teologico a un piú bonario tono moralistico, recuperando Esopo e Fedro, e diventano persino occasione di gioco letterario e cortese; nasce il «romanzo di animali». L’esempio piú significativo della nuova sensibilità è il bestiario di Richart de Fornival, dove gli animali non adombrano piú virtú e vizi, ma – spesso con metafore ardite – le scher-
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Una buona metà della trentina di animali che formano il bestiario araldico delle origini (solo nei secoli successivi le specie aumenteranno) sono animali feroci, aggressivi: gli abitatori della foresta, come il cinghiale e l’orso, che a lungo – dal fondo della cultura celtica e germanica – hanno conteso all’esotico leone il primato di «re»; le fiere d’Oriente: pantera, leopardo, leone, elefante. Altri – i cani, i cervi, il falco, il cavallo – sono connessi allo sport della caccia; altri ancora non nascondono l’allusione al vigore sessuale (gallo, montone, stambecco, toro, liocorno) o alla passione erotica (pavone, cigno); altri, infine, sono mostri usati da sempre (come, per esempio, nell’arazzo di Bayeux) per incutere timore al nemico: il drago, il serpente, il grifo. Su tutti domina l’aquila, insegna regale e imperiale passata senza mediazioni da Roma
ai nuovi imperi. Sui cimieri, poi, sorta di mascheroni tribali e guerreschi che coronano l’elmo, la fauna si moltiplica dando origine a creature grottesche, miscuglio di specie diverse. È facile vedere che la scala di valori è sostanzialmente «rovesciata» rispetto al bestiario mistico, anche dove c’è identità formale. Le città ereditarono l’araldica dalla cavalleria: molte assunsero come insegna un animale in assonanza col proprio nome (L’Aquila, Berna, Oxford, Torino, ecc.) o per semplice imitazione della simbologia feudale: nell’insieme, in Europa, sono centinaia. A differenza però dall’araldica cavalleresca, la città assimilò anche i grandi simboli religiosi: si pensi all’«agnello pasquale» (Rouen, Tolosa, Visby, Perth...), all’aquila di san Giovanni (Oels, Agen), al leone di san Marco (Venezia), ai draghi che alludono a san Michele e a san Giorgio in numerosi centri, e a tanti altri animali sacri a un patrono locale, alla città di Inverness, in Scozia, che sostituí al Crocefisso un cammello. Ma il bestiario cittadino, a metà strada tra religioso e profano, era assai piú vasto: comprendeva le insegne delle locande, dei tribunali (a Padova ogni sezione del tribunale era distinta da un diverso animale), delle fazioni politiche (l’aquila ghibellina, il leone guelfo; ma a Firenze e Volterra un’aquila guelfa o un grifo ghermisco-
no il drago ghibellino), delle corporazioni (quasi ovunque in Europa lo stemma dei lanaioli era l’agnello e quello dei beccai il montone o il bue), delle contrade (il caso di Siena, ovviamente, è il piú celebre), dei rioni e delle società d’armi (il 50% circa di queste istituzioni ha insegne con animali: a Mantova, Bologna, Firenze, Lucca, Pisa, Pistoia, Prato, Perugia, Roma). Dai grandi temi teologici, la cultura cittadina ridusse l’animale a simbolo civile, depotenziandone il messaggio morale e religioso e facendone un elemento di lotta politica e propaganda. Sul pavimento del duomo di Siena c’è un mosaico composto dai totem delle città toscane. Molti erano insegne vere e proprie (il Marzocco – leone – di Firenze, la Lupa di Siena, il Grifo di Perugia, la Pantera di Lucca, il Cavallo di Arezzo), altri erano solo blasoni letterari, sui quali giocavano i poeti. Il fiorentino Antonio Pucci, alludendo agli alleati di Firenze (Volterra, Pistoia, Arezzo) e alle sue tradizionali rivali (Pisa, Lucca, Siena, Perugia), poté cosí disegnare una specie di mappa geopolitica della Toscana del Trecento, senza nominare le città, ma col semplice ausilio delle metafore animalesche: «Il veltro e l’orsa e ‘l cavallo sfrenato / han fatto parentado col lione / la volpe, il toro, la lupa e ‘l grifone, / quale n’è alquanto e qual molto turbato».
Figure di animali che simboleggiano altrettante città, particolare del pavimento a tarsie marmoree del Duomo di Siena. 1369.
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I LUPI MANNARI di Domenico Sebastiani
Stregati dalla luna
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Un incubo collettivo, popolato da creature sinistre: feroci come animali e malvage come l’uomo, i lupi mannari attraversano le notti dell’età di Mezzo…
L
a licantropia (dal greco lukos, lupo, e anthropos, uomo) pone innanzitutto un problema di tipo antropologico in quanto essa si presenta, cosí come il fenomeno del vampirismo, nel filone mitologico della trasformazione dell’uomo in animale e, comunque, in un’entità diversa e inquietante. Se il vampirismo è legato soprattutto all’area slava e centroeuropea, la licantropia è diffusa ovunque in Europa e ci interroga sul perché tali credenze si siano originate. D’altra parte, il tema della trasformazione dell’uomo in bestia è fortemente influenzato dal contesto geografico: in aree diverse dall’Europa le tradizioni vedono dèi e uomini mutarsi nelle specie piú diverse (orso, leone, tigre, volpe, uccelli e cosí via), non sempre con connotazioni negative, anzi spesso con valenza benefica. Il caso del lupo è diverso: nella tradizione dei popoli del ceppo indogermanico, il lupo si pone come l’esempio di animale feroce, predatore e portatore di morte, minaccia continua per l’uomo, greggi e mandrie. È quindi naturale che il lupo sia diventato il protagonista delle mitologie relative a trasformazioni malefiche, eversive e repellenti, presenti in tutta la favolistica popolare occidentale. Tale sua caratterizzazione si è accentuata nel Medioevo, quando il carnivoro predatore fu identificato, sulla scorta di quanto espresso nei Vangeli («lupi sono i falsi profeti», Mt. 7: 15; «lupi sono i nemici del gregge del buon pastore», Gv. 10:12), con gli eretici. Basti pensare che sant’Eucherio, vescovo di Lione nel V secolo, declamava che «lupus, diabolus, vel haereticus». Miniatura raffigurante un gruppo di uomini dalla testa di lupo nelle isole Andamane, dal Livre des Merveilles. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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I lupi mannari
La condanna definitiva del mannarismo fu poi decretata dalla demonologia, e, nel tardo Medioevo, in piena epoca di caccia alle streghe, l’aspetto di lupo venne ritenuta una tipica sembianza assunta da quegli uomini e donne che, voltate le spalle a Dio, abbracciavano il Maligno e si recavano al sabba infernale. Se già presso gli Egiziani il dio Anubi, che sovraintendeva ai riti di trapasso nel mondo dei morti, assumeva le sembianze di uomo con testa di canide, la mitologia greca ci fornisce i primi spunti in tema di mannarismo. Zeus aveva tra le sue facoltà quella di tramutarsi in animali, tra cui appunto il lupo. Apollo era venerato nella sua forma di Apollo-Licio, sul monte Liceo in Arcadia (l’appellativo «licio» è bivalente, in quanto connesso sia a «lupo» che a «luce»).
Quello «che cambia pelle»
Nella tradizione latina il licantropo era detto versipellis (da qui vertit pellem, «che cambia pelle»), in quanto si riteneva che in lui il pelo crescesse all’interno del corpo: una prima citazione si ritrova nell’Amphitruo di Plauto (255-184 a.C.), in cui Giove si serve della mutazione per sedurre Alcmena e generare Ercole. Nell’Eneide di Virgilio (70-19 a.C.) la maga Circe è descritta come maestra nell’operare trasformazioni zooantropiche; in Apuleio (125-170) compare il tema della trasformazione in animale tramite un unguento; e in alcuni episodi della cultura latina demoni malvagi si aggirano con sembianze di lupo. Famoso è poi l’episodio narrato da Petronio (14-66) nel suo Satyricon, basato su un’esperienza realmente vissuta. Ne è protagonista Nicerote, il quale vede con i suoi stessi occhi la trasformazione di un lupo mannaro in un cimitero, durante un plenilunio. Circostanza e scenario, questi, che diventeranno temi prediletti nel campo della licantropia. Un rito magico, risalente a origini antichissime, era quello praticato a Roma durante i Lupercalia, il 15 febbraio. La cerimonia, per mezzo della quale originariamente le comunità pastorali difendevano forse le greggi dai lupi, assicurando fertilità al gruppo uma110
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Maschera in legno dipinto e stuccato raffigurante un canide e forse identificabile con l’immagine del dio Anubi. Nuovo Regno, epoca ramesside, 1120-920 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nell’antico Egitto, la divinità, rappresentata come un uomo dalla testa di cane, presiedeva al culto funerario.
no e animale, prevedeva l’intervento di appositi sacerdoti, i Luperci. Questi, sacrificate alcune capre, si coprivano delle loro pelli e, in preda a eccitazione, procedevano a percuotere con stringhe tutti coloro che incontrassero, soprattutto donne, alle quali si riteneva donassero la fecondità. Rituali simili, caratterizzati dal travestimento animale di giovani, adornati con corna e code, si ritrovavano in cerimonie delle antiche popolazioni germaniche durante lo Jul, la festa di mezzo inverno (Mittwinterfest). Nella mitologia germanica la figura del lupo è ampiamente presente: secondo l’Edda di Snorri Sturluson (1178-1241), durante il Ragnarök finale, il mostruoso lupo Fenrir, figlio del malvagio
Nella pagina accanto Circe trasforma in bestie i compagni di Ulisse, in un frammento di urna etrusca in alabastro. Volterra, Museo Etrusco Guarnacci. L’antico mito della metamorfosi da uomo ad animale è presente anche nella letteratura latina: nell’Eneide di Virgilio, la stessa maga era esperta nel compiere simili trasformazioni.
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I lupi mannari
C’ERA UNA VOLTA UN BARONE DI BRETAGNA... Come ha sottolineato Erberto Petoia, nel Lai di Bisclavret di Maria di Francia il tema dell’uomo lupo simboleggia non tanto la duplice condizione ferina e umana, quanto un’immagine favolistica e realistica insieme. Il Lai narra la storia di un barone bretone, lupo mannaro, molto apprezzato dal re e felicemente sposato con una bella dama. Ogni settimana il barone scompariva per tre giorni: tale comportamento cominciò a destare preoccupazione nella donna, che ne chiese con insistenza le ragioni. Dopo qualche resistenza, il barone le confidò che egli era un bisclavret e, come tale, era condannato durante le trasformazioni a vagare per la foresta completamente nudo, nutrendosi di radici, insieme agli altri animali selvaggi. La moglie gli chiese dove nascondesse i vestiti, ma il barone si rifiutò di dirglielo dato che, se qualcuno lo avesse scoperto e glieli avesse sottratti, egli sarebbe stato condannato a restare lupo mannaro fino a quando non li avesse recuperati. La donna insistette, per cui il barone, come prova d’amore, le rivelò il nascondiglio dove riponeva gli indumenti durante le trasformazioni. Nel frattempo, però, la moglie cominciò ad avere repulsione dell’uomo e ordí un complotto nei suoi confronti: chiamò un cavaliere che era stato un tempo suo amante e gli ordinò di portar via i vestiti del marito. In questo modo il barone fu costretto a rimanere nella sua condizione di lupo mannaro nella foresta, mentre la dama nel frattempo sposò il cavaliere. Un giorno il re era a caccia nel bosco nei pressi del castello del barone e avvistò un lupo (si trattava in realtà
Miniatura raffigurante Maria di Francia mentre compila la sua raccolta di favole, da un’edizione manoscritta dell’opera della poetessa. 1285-1292. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
del barone bisclavret stesso), i cani stavano per raggiungerlo quando questi, con fare umano, giunse le zampe in segno di supplica. Il sovrano ne rimase commosso e lo portò a corte: da quel momento il lupo divenne il piú fedele e mansueto compagno del re, dormiva nella sua camera e tutti gli volevano bene. Un giorno il re invitò a corte tutta la nobiltà, compresa la moglie del barone e il cavaliere. All’improvviso, il lupo fu preso da un attacco di inspiegabile ferocia e aggredí prima il cavaliere, mordendolo al collo, poi la dama, sfregiandola al volto. Il re rimase molto sorpreso dal comportamento dell’animale e lo avrebbe fatto abbattere a malincuore se un consigliere non lo avesse esortato a interrogare la donna. Questa, messa alle strette, confessò quanto accaduto in passato e dichiarò che quel lupo probabilmente era il suo vecchio marito, il barone trasformato in bisclavret. Il sovrano, allora, ordinò che fossero recuperati i vestiti dell’uomo e portati al cospetto del lupo: dopo un tentativo andato a vuoto (l’animale infatti provava vergogna), il lupo fu lasciato solo chiuso in una stanza con gli indumenti a sua disposizione. Poco dopo i consiglieri del re entrarono e trovarono sul letto, addormentato, il barone che aveva riacquistato le sue sembianze umane. Svegliatosi, egli raccontò alla corte le sue vicende come lupo mannaro: il re gli restituí tutto ciò di cui era stato spogliato, aggiunse altri regali e bandí per sempre dal regno il cavaliere e la malvagia moglie del barone bisclavret.
Loki, inghiottirà Odino, mentre altri due lupi saranno la causa della fuga del Sole e della Luna, con il successivo generarsi di un inverno spaventoso. Secondo altri autori, l’assunzione da parte di Odino di sembianze ferine, in particolare del lupo, animale a lui sacro, potrebbe essere alla base del fenomeno della licantropia. Occorre ricordare, a tale proposito, l’esistenza presso i popoli nordici dei «guerrieri di Odino», combattenti che usavano andare in battaglia coprendosi delle pelli degli animali che essi stessi avevano ucciso. Sprezzanti della vita sociale, si ritenevano mutati in orso e lupo, dai quali derivavano i nomi: berserker, «che ha una pelle d’orso» e, appunto, ulfhedinn, «che ha una pelle di lupo». Questi guerrieri-belva erano caratterizzati dal fatto di combattere in preda a una trance sciamanica, in uno stato di esaltazione che li rendeva invulnerabili al dolore, tanto da lanciarsi nella mischia senza corazze ed elmi. Erano altresí connotati da inaudita ferocia e violenza. Già Tacito (55-117), nella Germania, ce ne fornisce notizia, ma le tracce piú importanti ci derivano dalle saghe, come nel caso dell’Aigla saga e nelle Historiae Danicae di Saxo Grammaticus (1150-1220). L’avvento del cristianesimo, insieme ad altri fattori, contribuí a trasformare quella che era una casta di eletti, temuti e rispettati guerrieri, in una categoria di «posseduti», relegati ai margini della società, fino alla loro progressiva scomparsa.
La curiosità punita
La Saga dei Volsunghi, composta in Islanda nel XIII secolo, ci propone diversi episodi di mannarismo associati alla figura di simili guerrieri. Tipica è l’avventura di Sigmund e di suo nipote Sinfjötli, in cui è presente l’elemento magico: mentre essi vagano nella foresta, si imbattono nella casa di due principi, i quali dormono in un letto sopra il quale sono appese pelli di lupo. Gli uomini di nobile stirpe sono stati condannati a un incantesimo: costretti a indossare le casacche, si trasformano in lupi e solo dopo sei giorni possono riacquistare l’aspetto umano. Sigmund e Sinfjötli, incuriositi, si impossessano delle pelli animali e vengono a loro volta colpiti dal sortilegio. Tramutati in fiere, fanno strage di uomini nel bosco, in cui eccede soprat-
Un lupo mannaro in un’incisione da un’edizione del Liber Chronicarum di Hartmann Schedel (1440-1514). 1493. In Francia, dove la tradizione del lupo mannaro era molto diffusa, queste creature, legate ai defunti, apparivano in determinati periodi dell’anno, come il giorno di Ognissanti.
tutto il piú giovane, causando l’ira dello zio: i protagonisti, alla fine, giunto il giorno in cui è dato loro di lasciare le pelli, prendono le stesse e le bruciano nel fuoco, in modo tale che non possano piú recare danno ad alcuno. In Gran Bretagna la tradizione del licantropismo, a differenza di quella del vampirismo, non fu molto diffusa, probabilmente perché sotto i re anglosassoni i lupi furono uccisi in gran numero e cessarono di incutere terrore tra le popolazioni. Ciononostante essa persistette nell’immaginario collettivo, tanto che se ne trovano testimonianze scritte innanzitutto nella Topographia Hibernica di Giraldus Cambrensis (1147-1216 circa), arcivescovo di Brecknock, ove si narra un episodio di licantropia legato alla figura di san Natale. Egli lanciò una maledizione contro la stirpe degli Ossory, resisi colpevoli di gravi peccati e vizi contro Dio, con il conseguente loro periodico mutamento in lupi mannari. Una delle leggende anglosassoni piú famose in tema di lupi mannari è quella di Arthur e Gorlagon, una cui versione si trova in un manoscritto latino della Bodleian Library di Oxford, redatto nel XIV secolo, anche se la trama del racconto fu elaborata con tutta probabilità qualche secolo prima in lingua gallese. Come in altre storie diffuse nel resto d’Europa, la leggenda ricalca lo schema tipico della moglie malvagia e infedele che trasforma con un incantesimo il marito in lupo, per essere alla fine duramente punita. A differenza dell’Inghilterra, in terra francese si verificò il fenomeno inverso: la tradizione del vampirismo è infatti scarsa, mentre risulta largamente presente quella del lupo mannaro, che in queste zone prende il nome di loup-garou, tautologia derivante da loup garwolf (werwolf), con il significato di «lupo-uomo-lupo». Una delle prime attestazioni si ritrova nei Lais di Maria di Francia (scritti in dialetto francese attorno al 1160 in dedica probabilmente di Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra ma anche signore di Normandia) in particolare nel cosiddetto Lai di Bisclavret (vedi box alla pagina precedente). In Francia il fenomeno della licantroGLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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I lupi mannari scondendola con la massima cura. Un noto racconto, quello del Lupo mannaro dell’Auvergne, narra di come, nel 1588, un cacciatore si fosse imbattuto in un grosso lupo e, attaccato, fosse riuscito a recidere una zampa della bestia. Chiesto riparo nell’abitazione di un amico, raccontò la vicenda, ma, nel mostrare l’arto, con grande meraviglia, questo si era nel frattempo trasformato nella mano di una donna, con al dito un anello che il gentiluomo riconobbe essere quello della sua sposa. Interrogata, la donna tentò invano di nascondere il braccio, per poi mostrarlo amputato e confessare di essere un licantropo: il marito, adirato, la consegnò alla giustizia e la donna fu arsa sul rogo. Sempre in Francia, fin dal Medioevo, si diffuse la figura del meneur des loups, ossia il «capo dei lupi», una sorta di stregone che ha il potere di farsi accompagnare dalle fiere, le quali obbediscono a tutti i suoi comandi. Talvolta egli stesso, figura diabolica, assume le sembianze di bestia, e diventa lupo mannaro a tutti gli effetti.
Nella terra dei vampiri
Il lupo mannaro (o Il Cannibale) xilografia di Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553). New York, The Metropolitan Museum of Art.
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pia condensa i temi tipici della trasformazione zooantropica, come i motivi stregoneschi e della maledizione, nonché la mutazione dei defunti in lupi. Secondo il folclore, i lupi mannari compaiono piú spesso in particolari periodi dell’anno, come alla vigilia del Venerdí Santo, il Primo Maggio, il giorno di San Giovanni e di Ognissanti e nelle notti comprese tra Natale e la Candelora. Nella bassa Bretagna le creature prendono invece il nome di den-vliez (singolare) e tud-vliez (plurale). In esse la mutazione è strettamente collegata alla vestizione della pelle del lupo: indossandola la notte, gli uomini assumono la natura della bestia e compiono le loro scorrerie, all’alba se la tolgono e rientrano in casa, na-
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La Romania è, per antonomasia, terra di vampiri. Le infestazioni vampiriche raggiunsero l’apice durante il XII secolo, se è vero che le autorità in questo periodo dovettero emanare numerose ordinanze per porre fine alla profanazione delle tombe. E un fenomeno simile si ritrova in Ungheria. Molto legata al vampirismo è, in ogni caso, la tradizione della licantropia: il lupo mannaro in Romania si chiama varcolac o pricolici, è una sorta di vampiro, ma allo stesso tempo, ricorda la figura del lupo Fenrir scandinavo, in quanto inghiotte il sole e la luna, causando le eclissi. Cosí come in altre zone d’Europa, spesso l’essere colpiti dalla maledizione di diventare lupi mannari è legato all’aver concepito i bambini durante i periodi delle maggiori festività cristiane: Pasqua e Natale. La violazione delle regole e delle restrizioni in materia sessuale imposte dalla Chiesa in tali occasioni avrà delle ricadute nefaste: il bimbo presenterà deformità o caratteristiche animali e natura malvagia. In Serbia vampiro e lupo mannaro vengono spesso posti sullo stesso piano; in Russia, invece, durante il XV secolo (secondo quanto riportava lo studioso Ralston sul finire dell’Ottocento), si riteneva che i vampiri fossero persone che in vita erano stati maghi, streghe o lupi mannari. Un altro caso è la nascita del vampiro determinata dall’unione di una strega con un lupo mannaro o un diavolo. Nelle terre slave la figura del lupo mannaro
LA NOTTE SI ADDICE AL LICANTROPO I lupi mannari, come altre creature malvage, sono stati sempre considerati entità soprannaturali della notte e, conseguentemente, governati dagli influssi della luna. Secondo il folclore, la luna poteva rendere pazzi (da cui le espressioni «lunatico» e «stregato dalla luna»): nel XVI secolo Paracelso affermava che la luna aveva «il potere di strappar via la ragione dalla mente di un uomo, privandolo dello spirito e delle doti cerebrali». La Chiesa contestò il fatto che la luna potesse avere questi effetti, sostenendo che la vera causa della pazzia era il Diavolo. Durante l’epoca dell’Inquisizione, nel tardo Medioevo e nel Rinascimento, gli inquisitori ammisero che i pianeti potessero influenzare i diavoli, i quali a loro volta tormentavano gli esseri umani. Nel Malleus Maleficarum (1486) si legge: «Le stelle possono influenzare gli stessi demoni. A prova di questo certi uomini definiti lunatici vengono molestati dai diavoli in un momento piú che in un altro; e i diavoli invece li molesterebbero per tutto il tempo, se non fossero loro stessi profondamente soggetti a certe fasi della Luna». Nel Seicento Sir William Hale, primo presidente della Corte Suprema d’Inghilterra, scrisse che «la luna ha grande influenza in tutti i mali del cervello, specialmente sulla follia; queste persone normalmente con la
luna piena e con il nuovo ciclo, specialmente in corrispondenza degli equinozi e del solstizio d’estate, sono solitamente al culmine della loro malattia». Fin dai tempi piú antichi si è cercato di sostenere anche un collegamento tra fasi lunari e attacchi di epilessia, nonché suicidi e commissione di crimini, senza alcuna reale prova scientifica. In buona parte del folclore europeo, il lupo mannaro subisce le sue trasformazioni ferine con la luna piena: in maniera simile, nella tradizione il vukodlak slavo e il varcolac rumeno (vampiri che spesso assumono le sembianze di lupi o cani) raggiungono il massimo dei loro poteri durante la luna piena, mentre risultano deboli con la luna nuova. Sempre nell’Europa dell’Est, i vampiri si presentano piú vulnerabili di giorno, mentre escono dalle tombe e sono forti la notte, in quanto soggetti all’influenza lunare.
Illustrazione raffigurante il lupo Fenrir che divora la mano destra del dio Týr, da un’edizione della Sæmundar og Snorra Edda. XVIII sec. Copenaghen, Biblioteca Reale. Secondo la mitologia norrena, durante la battaglia finale tra la luce e le tenebre, il mostruoso animale divorerà Odino, principale divinità nordica. Secondo altri autori, sarebbe, invece, lo stesso Odino, che assumeva spesso sembianze da lupo, alla base del fenomeno della licantropia. denota una etimologia comune: è denominato infatti vlkodlak nella tradizione boema, vovkulak in quella russo-lituana, vukodlak in quella serbo-croata e vlukolak in quella bulgara. In ogni caso, la caratterizzazione del lupo mannaro slavo è fortemente demoniaca: chi può trasformarsi in lupo ha poteri diabolici ovvero è stato colpito dal sortilegio di qualche strega. Famosi sono anche i lupi mannari di Prussia, Livonia e Lituania, cosí come li descrive Olaus Magnus, arcivescovo di Uppsala, nella sua opera Historia de Gentibus Septentrionalibus (1555). Cosí come riportato nella traduzione di Remigio Fiorentino nel 1561, Olaus racconta di come la notte di Natale si radunino in alcuni luoghi moltitudini di uomini mutati in lupi, «li quali la notte medesima, con meravigliosa ferocità incrude-
liscono, e contro la generazione umana, e contro gli altri animali, che non son di feroce natura, che gli habitatori di quelle regioni patiscono molto di piú danno da costoro, che da quei che naturali lupi sono, non fanno. Perciocché, come s’è trovato impugnato con meravigliosa ferocità a le case de gli GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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ANIMALI FANTASTICI
I lupi mannari
huomini, che stanno nelle selve, e sforzansi di rompere le porte, per poter consumare gli huomini e le bestie che vi son dentro». Olaus sottolinea poi la particolarità di questi licantropi, che risultano molto ghiotti di birra: infatti si introducono nelle cantine e «quivi bevono molte botti di birra e d’altre bevande, e poi lasciano le botti vote, l’una sopra l’altra, in mezzo alla cantina. E in questa parte sono disformi dai naturali, e veri lupi». Il fenomeno dei lupi mannari, ossia la possibilità da parte di uomini di trasformarsi in entità animali, nato nel mondo del mito o della credenza popolare, acquisí una rilevanza drammatica nel momento in cui, nell’Occidente medievale, fu attratto nell’ambito della caccia scatenata agli eretici e alle streghe. La fase iniziale si ebbe con l’istituzione dell’Inquisizione nel 1231 da parte di Gregorio IX, nata per combattere l’eresia, ma poi divenuta tristemente famosa durante il XV secolo, periodo caratterizzato dai processi e dai conseguenti roghi.
Un atteggiamento mutevole
Nella storia della stregoneria il culmine, in negativo, si raggiunse con la bolla Summis desiderantes affectibus (1484) di papa Innocenzo VIII, documento con il quale si dava il piú ampio mandato agli inquisitori di «procedere alla correzione, all’imprigionamento e alla punizione di qualsiasi persona per le dette abominazioni e malvagità, senza ostacoli e impedimenti». In questo contesto generale, l’atteggiamento nei confronti della licantropia non fu uniforme. La Chiesa infatti, davanti a tali fenomeni ereditati dal paganesimo, fu alquanto ambigua: all’inizio condannò le credenze nei «fictos lupos»,
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A destra e in basso incisioni che corredano la biografia illustrata di Peter Stubbe, pubblicata nel 1590. Londra, British Library. Stubbe venne accusato d’essere un licantropo e di avere ucciso tredici persone. Dopo essere stato torturato, venne giustiziato il 28 ottobre 1589 a Badburg, presso Colonia. Le vignette raffigurano la cattura dell’uomo, il processo e l’esecuzione della condanna, con la vittima messa al rogo.
affermando che stolti erano coloro i quali erano convinti dell’esistenza dei «finti lupi». In un momento successivo, però, la sua posizione divenne progressivamente intransigente. Le autorità ecclesiastiche stesse cominciarono a proclamare l’esistenza reale dei licantropi, a processarli e a condannarli a morte. La blanda posizione iniziale è testimoniata dal sermone De abrenuntiatione in baptismate di Bonifacio, arcivescovo di Magonza (VII secolo), in cui, tra le varie cose alle quali il fedele rinunciava con il battesimo, vi era anche la credenza nei finti lupi. Nei Decreta di Burcardo di Worms (XI secolo) veniva prevista la mite pena di dieci
PETER, LUPO MANNARO E SERIAL KILLER Nel 1590 fu pubblicata a Londra la biografia anonima di un certo Peter Stubbe, licantropo giustiziato l’anno precedente a Badburg, nei pressi di Colonia, a causa dei numerosi crimini commessi. Il riassunto illustrato del processo e della macabra esecuzione è conservato a Londra. Secondo l’agghiacciante confessione dell’uomo, egli avrebbe praticato le arti stregonesche fin dall’età di dodici anni, ricevendo in dono dal Diavolo una cintura magica, che lo rendeva capace di assumere le sembianze di un lupo tremendo e sanguinario. Togliendosela, riacquistava sembianze umane. Per circa venticinque anni seminò morte e terrore nelle zone di Badburg, Collin e Cperadt. Durante il giorno andava a spasso con l’aspetto di uomo elegante, inappuntabile e al di sopra di ogni sospetto, adocchiando le future vittime. Trasformatosi poi in lupo, attaccava in primo luogo fanciulle, che uccideva dopo averle violentate, ma anche bambini, uomini, pecore, capre e agnelli. In pochi anni uccise selvaggiamente tredici ragazzi e due donne incinte, strappandone i feti e divorandone i cuori come
«bocconi veramente prelibati». Dai suoi racconti, Stubbe era anche preda di un insaziabile appetito sessuale, arrivando ad avere un rapporto incestuoso con la figlia Bell, da cui nacque un figlio, e intrattenendo una relazione con una tal Katherine Trompin; quando non era pago delle sue voglie, il Maligno gli inviava un succubo sotto l’aspetto di donna bellissima. Gli efferati crimini di persone e stragi di animali venivano dalla gente attribuiti a qualche lupo della zona. Stubbe fu casualmente scoperto quando alcuni cacciatori lo avvistarono e inseguirono sotto le sembianze di animale; all’improvviso perse la cintura e riacquistò l’aspetto umano. Catturato, l’uomo fece immediata confessione dei crimini commessi per timore della tortura, e accusò di complicità le due amanti. Per decreto dei magistrati della città, tutti e tre furono condannati alla pena capitale. Il corpo dello stregone licantropo fu sottoposto a una orrenda fine, che ricorda la «colonna infame» di manzoniana memoria: legato a una ruota, fu fatto a pezzi e issato sulla sommità di un palo acuminato, con in cima un’immagine di legno assomigliante a un lupo e tanti pezzi di legno quante erano state le sue vittime. La testa fu infine conficcata al palo. Gli stessi magistrati ordinarono che tutto ciò rimanesse in ricordo perpetuo dei misfatti compiuti da Stubbe.
Il fenomeno della licantropia acquisí una rilevanza drammatica quando fu attratto nell’ambito della caccia scatenata contro gli eretici e le streghe GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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ANIMALI FANTASTICI
I lupi mannari
UN’AFFINITÀ INASPETTATA E SPIAZZANTE Nel saggio Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Torino 2008), Carlo Ginzburg riporta la storia di un lupo mannaro anomalo. Nel 1692, in Livonia, un vecchio di ottant’anni di nome Thiess confessò ai giudici che lo interrogavano di essere un lupo mannaro: tre volte l’anno (nelle notti di Santa Lucia, San Giovanni e della Pentecoste) insieme ad altri licantropi si recava all’inferno per combattere con fruste di ferro contro il Diavolo e gli stregoni, a loro volta muniti di manici di scopa avvolti in code di cavallo. La posta in gioco era la fertilità dei campi: gli stregoni rubavano i germogli di grano, se non si riusciva a recuperarli sarebbe sopraggiunta la carestia. I giudici cercarono inutilmente di far confessare al vecchio di aver stretto un patto con il demonio: egli continuò a ripetere che i peggiori nemici del Diavolo e degli stregoni erano i lupi mannari come lui, che sarebbero andati in paradiso dopo la morte. Fu condannato pertanto a dieci colpi di frusta. Il caso «Thiess» ha scompaginato lo stereotipo aggressivo e sanguinario del lupo mannaro normalmente accettato, sconcertando non poco gli studiosi. Ginzburg individua notevoli punti di contatto tra questa figura di lupo mannaro e i cosiddetti «benandanti». Con questo termine venivano designati in Friuli tra Cinque e Seicento gruppi di donne che dichiaravano di assistere alle processioni dei morti, ma anche uomini che affermavano di combattere periodicamente in estasi, armati di mazze di finocchio, contro streghe e stregoni provvisti di canne di sorgo. Anche in questo caso gli scontri avvenivano per assicurare la fertilità dei campi. Lo spirito dei (o delle) benandanti lasciava per qualche tempo i corpi, talvolta in forma di farfalla o topo, talvolta in groppa a lepri, gatti o altri animali, per dirigersi verso i luoghi ove avvenivano le processioni dei morti o le battaglie contro streghe e stregoni.
Miniatura raffigurante la trebbiatura, scelta come allegoria del mese di Luglio nelle Heures de Charles d’Angoulême. 1482-1485. Parigi, Bibliothèque natonale de France.
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GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
giorni a pane e acqua per coloro che credessero alla trasformazione dell’uomo in animale. La dottrina teologica ortodossa non riteneva possibile che il demonio fosse capace di operare delle trasformazioni reali in bestie: già sant’Agostino aveva dichiarato che «i demoni non creano affatto la natura, ma mutano solo in apparenza le cose, che sono create dal vero Dio, affinché sembrino apparire ciò che in realtà non sono». È quindi il Diavolo che inculca in alcune persone la perniciosa fantasia di tramutarsi in lupi o in altre specie di animali. Questa linea di pensiero fu ripresa pure dai due frati domenicani Institor e Sprenger, autori del Malleus maleficarum (Il martello delle streghe), pubblicato per la prima volta a Strasburgo nel 1486 e destinato a divenire la linea di pensiero per tutte le trattazioni in materia di stregoneria e codice di comportamento da seguire nei processi inquisitoriali. Anche in seguito, nel 1508, personalità come Johan Geiler Keisesberg, predicatore di Strasburgo, nel suo famoso «Sermone sui licantropi» contenuto nell’opera Die Emeis, cercava di spiegare razionalmente come i licantropi fossero in realtà solo semplici lupi che divoravano le carni umane per cause assolutamente naturali. Nell’ultima parte però, influenzato dal clima inquisitoriale, ammetteva che in alcuni casi era il Diavolo ad assumere vesti di lupo, altre volte tali animali erano inviati da Dio per punire gli uomini delle loro colpe. In relazione ai lupi mannari, la posizione dei teologi si divise sostanzialmente in due filoni: da un lato coloro secondo i quali le trasforma-
zioni avvenivano realmente, dall’altra coloro che sostenevano si trattasse solo di un inganno del demonio. In ogni caso la stragrande maggioranza dei giudici, sia laici che ecclesiastici, erano d’accordo sulla necessità di adottare un comportamento drastico nei confronti dei lupi mannari: condannarli e distruggerli, come per i vampiri, ossia mandarli al rogo, anche nel caso in cui le trasformazioni non fossero appurate come reali. Una delle poche voci fuori dal coro fu rappresentata da Johan Wier (1515-1588), il quale, infatti, fu tacciato di essere il «difensore degli stregoni»: in relazione al meccanismo che faceva credere alle streghe e agli uomini di recarsi al sabba in volo o di trasformarsi in lupo, addusse ogni prova possibile per dimostrare che si trattasse di crimini immaginari. Costoro erano solo malati di mente, diceva, che non dovevano essere giudicati da preti e giudici, né torturati o mandati al rogo, ma affidati alla cura dei medici. Tale posizione fu duramente avversata da Jean Bodin (1530-1596), uno dei piú famigerati esponenti in tema di lotta contro la stregoneria il quale, nell’opera Demonomania, riportò la sua esperienza personale di giudice nei processi, ove egli stesso aveva torturato donne, vecchi e bambini.
Processi e condanne
In ogni caso, durante il XVI secolo, molte persone vennero accusate di essere stregoni e lupi mannari, per poi essere catturate, giudicate sotto tortura e quasi sempre condannate a morte. Diversi sono gli atti dei processi a noi giunti. Famoso è il caso dei licantropi di Poligny, in Francia, a carico di Pierre Bourgot e Michel Verdung. Il processo fu presieduto nel 1521 dal frate domenicano Joan Boin, e si concluse con la confessione dei rei e il conseguente rogo. Identica sorte toccò nel 1572 a Gilles Garnier, nei pressi di Dole: egli era una sorta di eremita che viveva nei boschi, accusato di essersi venduto al Diavolo e di trasformarsi mediante un unguento in lupo. Perciò, in base agli atti, si rese colpevole di stregoneria e il rogo sembrò una condanna piú che adeguata. Un altro caso avvenne in Borgogna, a Saint Claude, dove, durante una caccia alle streghe iniziata nel 1584, il giudice Boguet aveva scoperto ben quattro licantropi tra le fila dei sospettati: ottenuta la confessione, tutti furono uccisi. Per passare alla Germania, eclatante è la
Lon Chaney Junior interpreta l’uomo lupo nel film The Wolf Man, diretto dal regista George Waggner, nel 1941.
vicenda di Peter Stubbe, probabilmente un vero serial killer, giudicato come licantropo e orrendamente giustiziato nel 1589 nei pressi di Colonia (vedi box a p. 117). Sono rimasti noti, peraltro, processi in cui gli accusati riuscirono a evitare la pena capitale. Se ne possono citare due. Il primo fu quello del licantropo di Angers, del 1598, intentato nei confronti del barbone Jacques Roulet, il quale fu riconosciuto affetto da debolezza di mente ed epilessia, pertanto risparmiato. Celebre fu la storia di Jean Grenier, il «ragazzo licantropo»: condannato in un primo tempo a morte, la pena gli fu poi commutata nel 1603 dal parlamento di Bordeaux nella reclusione a vita in monastero. Il giovane, trovato peraltro in condizioni disumane dal giudice De Lancre che si recò a fargli visita, si spense di lí a poco, all’età di vent’anni. In un suo saggio (Streghe, spettri, lupi mannari. L’«arte maledetta» in Europa tra Cinquecento e Seicento, Torino 2008), Paolo Lombardi ha sottolineato che, se nel XVI secolo l’esistenza reale della licantropia trovava ancora qualche fautore, come Caspar Peucer, Bodin e Pomponazzi, «all’inizio del Seicento, nessun Europeo colto accettava la possibilità della licantropia. Da questo punto di vista, i licantropi avevano già compiuto l’ultima corsa nei boschi selvaggi». Ma se l’antico terrore degli uomini trasformati in bestie abbandonava l’Europa, al suo posto nascevano nuove paure, come la fusione di specie diverse. Circa la trasfusione del sangue, il medico Pierre Martin de la Martinière, nel 1668, metteva in guardia sui pericoli della pratica: unire il sangue di due esseri viventi poteva comportare il pericolo di mescolarne le anime. Iniettare sangue animale nelle vene dell’uomo avrebbe rischiato di infondere in lui la brutalità ferina e di cancellarne la ragione. «Se i boschi si vuotavano dei licantropi, le campagne e perfino i laboratori dei medici infusori si popolavano di esseri mezzo uomini e mezzo bestia, la cui mostruosità era il segno di uno sconvolgimento dell’ordinamento del mondo». Di questa antica angoscia rimane probabilmente una traccia anche nell’epoca attuale, conclude l’autore. Essa è diventata piú sofisticata. Non si tratta della fusione con l’animale: l’uomo, oggi, è atterrito dalla fusione con l’artificiale. Il mito del cyborg, essere per metà umano e per metà macchina, prende il posto «dell’antico e tutto sommato modesto licantropo». GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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LA FENICE di Domenico Sebastiani
La magnifica illusione Uccello meraviglioso, da molte civiltà associato al sole, la fenice si è consolidata, nel tempo, come un mito potente e dalle significative riletture in chiave religiosa, ispirate dalla sua capacità di rinascere
«È
la fede degli amanti come l’Araba Fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa»: con questi celebri versi, contenuti nel Demetrio (1731), il poeta e drammaturgo italiano Pietro Metastasio, in pieno Settecento, fece della fenice l’essere che non esiste per antonomasia, ovvero un ideale irrealizzabile, paragonandola alla fedeltà degli amanti. Fu però Giacomo Leopardi, poco piú che adolescente, che nel dotto e ironico Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815) pose fine in maniera quasi emblematica alla storia millenaria di un mito, aprendo forse quella di un nuovo mito fatto di «assenza e illusione», come ha osservato acutamente Francesco Zambon, specialista della letteratura allegorica e simbolica del Medioevo romanzo. La leggenda di questo uccello fantastico, che si autorigenera periodicamente, è stata caratterizzata a sua volta da successive «risorgenze». Pur mantenendo costanti nel tempo i suoi elementi fondamentali, come il concetto di morte e resurrezione, il legame con l’astro solare e l’«unicità», il mito dell’unica avis è andato adattandosi ai vari periodi storici e culturali, incarnando di volta in volta diverse tematiche religiose, filosofiche e letterarie. 120
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
La maggior parte degli autori ritiene che il mito della fenice rappresenti una rielaborazione, da parte del mondo greco-romano, di nozioni cosmologiche e religiose dell’antico Egitto, riferite alla figura di un uccello «solare» di nome benu, da identificarsi probabilmente con l’airone grigio o purpureo. Le prime notizie su tale animale fantastico provengono dalle Storie di Erodoto (484-425 a.C.) il quale, con perplessità in proposito, narra di come in Egitto esistesse un uccello sacro di nome fenice, simile a un’aquila e con le piume rosse e dorate. Esso faceva la sua comparsa ogni cinquecento anni, alla morte del padre: a questo punto, muovendo dall’Arabia, portava il genitore nel santuario di Helios nella città di Eliopoli (la città del sole), modellando un uovo di mirra cavo, all’interno del quale ne collocava il corpo, e, con altra mirra, ricopriva la parte dell’uovo in cui aveva praticato la cavità per introdurvelo. I riferimenti del racconto Mosaico policromo con l’immagine di una fenice. XIII sec. Roma, Museo di Roma.
ANIMALI FANTASTCI
La fenice
inducono a collegare la fenice erodotea alla tradizione faraonica del benu, figura elaborata nella fase piú antica della religione egizia, all’interno del mito della creazione definito a On-Heliopolis, e considerata come una delle forme assunte da Atum, poi identificato con il dio del sole Ra e successivamente con Osiride, il dio che muore e rinasce. Altro carattere di rilievo della figura è l’associazione con l’idea di una palingenesi periodica della natura (le feste di Sed), durante le quali il re rinnovava il suo ufficio regale e sacerdotale, nonché con il primo giorno del nuovo anno scandito dalle benefiche inondazioni del Nilo, come riferito da Orapollo nei suoi Geroglifici (V secolo). Nonostante i diversi punti di contatto tra il benu egiziano e la futura fenice (il fatto di essere uccelli in qualche modo legati al sole e alla città di Eliopoli, la presenza dell’elemento della morte e della resurrezione, il legame con cicli cosmici o di rinnovamento), molto diverso è invece l’aspetto fisico, cosí come del tutto assente è l’elemento della morte nelle fiamme e la successiva rinascita secondo precise scansioni temporali.
Aromi ignei per il nido
Nel mondo classico, la fenice ha la connotazione di uccello solare: definita infatti sacrum Soli da Manilio, citato da Plinio il Vecchio (2379) nella sua Naturalis Historia, da Tacito (55117), da Orapollo, questo attributo si ritrova anche nell’Apocalisse greca del profeta detto Pseudo Baruch (II secolo d.C.). A riprova di ciò, la fenice viene descritta tradizionalmente con le ali miste di oro e porpora, e con il capo incoronato da una raggiera di penne, a simboleggiare il sole. Tale carattere solare si trova in correlazione con gli aromi di natura ignea (di solito cinnamomo, mirra e incenso) con i quali l’uccello costruisce il nido sul quale trova la morte. La vita della fenice copre un lungo ciclo di anni, sulla cui durata, però, le fonti divergono: si va dai tradizionali 500 per arrivare a 1000 o addirittura, come nel caso di Manilio, a 26 000, corrispondenti all’anno platonico. Per Tacito, invece, gli anni sarebbero 1461, pari al cosiddetto periodo sothiaco, cioè la cadenza con la quale il sole sorge contemporaneamente alla stella piú luminosa del cielo, Sothis o Sirio. Nonostante 122
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
la discordanza delle cifre indicate, è chiaro il riferimento al Grande Anno e alla connotazione cosmologica della fenice, nonché alla connessione simbolica (riferita al suo periodico morire e poi rinascere) con l’apokatástasis, vale a dire il periodico rinnovamento dell’universo che segue alla sua distruzione. Circa le modalità della «risorgenza» dell’uccello si affermarono due versioni principali: la prima, che prese lo spunto dal racconto di Erodoto, prevedeva la nascita della nuova fenice come verme formatosi dai resti della decomposizione del corpo del proprio «padre». La seconda, affermatasi come tipica del mito, vede invece la fenice arrivare a una estrema vecchiaia, prepararsi un nido pieno di essenze e aromi preziosi, adagiarvisi e incendiarsi, a causa del calore solare o degli aromi stessi. Dalle ceneri nasce quindi una nuova fenice, anche se spesso si assiste a fasi intermedie che prevedono la nascita di un verme, di un uovo o di un piccolo uccello. Oscillante è anche il luogo di provenienza del volatile, individuato di volta in volta in India, Arabia, Etiopia, Libano o genericamente Oriente, nonché sul luogo della morte, collocato in India, oppure nella mitica Pancaia, ma soprattutto in Egitto. Sintesi eccelsa del mito classico feniceo, nella quale si assiste a una
Vignetta raffigurante una defunta che presenta il proprio cuore a un serpente alato, dietro al quale sta una fenice, da un Libro dei Morti egiziano. XXI dinastia, 1070-945 a.C. Torino, Museo Egizio. Nella pagina accanto miniatura con l’immagine di una fenice, da un bestiario compilato in Inghilterra, forse a Salisbury. 1230-1240. Londra, British Library.
fusione dei vari elementi tradizionali sullo sfondo di un ricco substrato simbolico, è quella che si legge nel carme De ave phoenice, attribuito allo scrittore e apologeta Lattanzio (III secolo): «Destino e morte fortunati quelli di questo uccello, cui Dio ha concesso di nascere da se stesso! Maschio o femmina o né l’uno né l’altro, felice creatura, che non conosce i vincoli di Venere! La sua Venere è la morte; la morte, il suo solo amore: per poter nascere, desidera morire. È il proprio figlio, padre, erede; è insieme la nutrice e la nutrita. È lei e non lei, la stessa e non la stessa, conquistando con la morte una vita eterna». Con questi versi, il mito classico della fenice sembra aprirsi a una visione cristiana, quale emblema di Cristo per eccellenza o allegoria della resurrezione della carne. In verità, il piú antico testo a utilizzare il mito feniceo in tal senso è l’apocrifa Lettera ai Corinzi di papa Clemente Romano (95-98), nella
quale l’uccello viene additato quale prova a favore della resurrezione dalla morte. Il tema fu poi sviluppato nelle Catechesi da Cirillo di Gerusalemme (315-387), ma, soprattutto, nel De resurrectione mortuorum (212 circa), da Tertulliano, il quale, dopo aver indicato la natura che ciclicamente distrugge per poi rinnovarsi (giorno e notte, stagioni, vegetazione), cita quale elemento ancor piú convincente quello della fenice, uccello famoso perché «si rinnova, con una morte che è la sua nascita morendo e succedendo a se stesso» aggiungendo che anche Dio nella scrittura afferma: «E fiorirai come una fenice» (Sal 92, 13). Sulla stessa scia si situano Commodiano, vescovo dell’Africa settentrionale nel III secolo, e sant’Ambrogio (334-397) ne I sei giorni della creazione. Se in questi scritti la fenice assume la figura del cristiano destinato alla vita eterna dopo la morte, il favoloso uccello appare invece come GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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ANIMALI FANTASTCI
La fenice
Solo una volta l’anno La fenice, in Oriente, riunisce in sé le caratteristiche di molti uccelli presenti in natura, ne rappresenta la sintesi e l’emblema. È probabile che le varie tradizioni orientali si siano influenzate a vicenda, per cui la «fenice» di un Paese ha finito per fondersi con quella di un altro e per collegarsi con il simbolo che l’Europa classica e cristiana ha conosciuto come fenice. Nel giudaismo s’incontrano tre uccelli con caratteristiche simili alla fenice, i cui nomi ebraici sono Ziz, Malham e Hol. Lo Ziz (Libro dei Salmi, III secolo a.C.) è un uccello talmente grande da oscurare il sole con la sua apertura alare. Secondo la tradizione sarebbe stato creato da Dio insieme a Behemot e Leviathan, ciascuno a capo del regno animale dell’aria, della terra e dell’acqua. L’animale vive con la sua compagna per lunghissimo tempo (anche settemila anni), alla fine del quale la coppia depone sulla cima della Montagna cosmica due uova, dalle quali nasceranno altri due uccelli che rinnoveranno il ciclo. L’immortalità dello Ziz verrà meno quando, con la fine dei tempi, Behemot sarà macellato, Leviathan sarà squartato da Ziz e quest’ultimo sarà a sua volta ucciso da Mosè. La carne dei tre animali sarà servita nel banchetto del Messia e quella prelibata dello Ziz sarà data ai giusti, per ricompensarli di essersi astenuti dal mangiare volatili impuri. Visto il divieto per l’idolatria delle immagini, le rappresentazioni iconografiche di Ziz, Malham e Hol sono molto rare: un caso si ritrova in una miniatura eseguita a Ulm, in Germania, nel 1238, rappresentante lo Ziz durante il banchetto messianico. SULL’ALBERO COSMICO Nell’Islam il simbolo della fenice ha un’eredità molto antica. L’uccello è denominato Simurgh, oppure ‘Anka’ o Saena, e viene citato innanzitutto nei testi sacri dell’Avesta (VI-IV secolo a.C.), nei quali si narra che il suo nido si trovi sopra l’Albero cosmico che sorge nel mezzo del mare primordiale. Ci appare per lo piú come un cane-pesce alato, alcune volte con un volto umano, al fine di indicare il suo potere su terra, mare e aria. In Occidente il Simurgh divenne popolare con l’opera Il verbo degli uccelli del sufi persiano Farid ad-din ‘Attar (1150-1220), in cui si narra di come gli uccelli siano alla ricerca di un loro sovrano, superiore a tutti per perfezione e bellezza. 124
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
Su indicazione di un’upupa, lo stormo di uccelli parte alla ricerca del Simurgh, e solo trenta uccelli hanno la fortuna di giungere al cospetto della fenice, nella quale finiscono per identificarsi e annullarsi. In un altro capitolo, La morte della fenice, l’autore descrive lungamente la fenice indiana, soffermandosi soprattutto sul particolare del canto struggente di incomparabile bellezza e malinconia che l’animale emetterebbe prima di ardere nel fuoco, tema questo ripreso anche da Sohravardi (maestro sufi del XII secolo), nella lirica L’incantesimo di Simurgh. UOVA GRANDI COME CUPOLE La piú antica fenice dell’area islamica è però un altro uccello chiamato ‘Anka’, descritto come una specie di airone che poi venne assimilato al Simurgh iranico, tanto da essere spesso denominato Simurgh-‘Anka’. Troviamo inoltre un altro volatile, il Roc (Rukh), che si presenta come un «uccello gigante». Esso rapisce gli uomini, ghermisce piccoli elefanti, getta rocce sulle navi e depone uova grandi come cupole. Il Roc compare in molti scritti, come per esempio
Vaso in porcellana shu-fu sul quale è dipinta una fenice, da Liang-Hsiang, presso Pechino. Dinastia Yüan, 1280-1368.
nell’opera geografica di al-Qazwini (1203-1283) le Meraviglie delle cose create e aspetti meravigliosi delle cose esistenti, ne I viaggi dello storico arabo Ibn Battuta (XIV secolo) e anche nelle Mille e una notte (X secolo circa), negli episodi che vedono protagonista Sindbad il marinaio. Marco Polo (1254-1324) lo cita nel suo Milione, spiegando che compare una volta l’anno, che non va scambiato per un grifone, che le sue proporzioni sono gigantesche e che gli abitanti del luogo lo chiamano ruc. Il mitico Roc viene citato anche dal frate domenicano Jourdain Catalani nel suo Mirabilia descripta (1329) e compare in una dicitura del Mappamondo di fra’ Mauro (1460), presso l’isola di Diab. Nella cultura induista, l’equivalente della fenice ha il nome di Garuda. Generalmente ha caratteristiche antropomorfe, come una sorta di uomo-aquila: la Paramésvara Samhita lo presenta come enorme e aggressivo, dal colore dorato, con la testa d’aquila, il becco rosso e le ali piumate, ma fornito anche di due braccia umane. È acerrimo nemico dei serpenti (simbolo dell’eterna lotta tra il bene e il male) e funge da cavalcatura al dio Visnu, perciò le sue mani devono essere da supporto ai piedi del dio. UN SIMBOLO DI PACE Anche le radici della fenice cinese sono remote. Nelle prime testimonianze è presente il feng, un uccello fantastico a metà strada tra un pavone e un fagiano piú che una vera fenice. In seguito, al feng si affianca la sua simmetrica controparte femminile, huang, per essere fusi nel termine coniugale di fenghuang: la fenice cinese, infatti, a differenza di quella occidentale, non è animale unico, ma si presenta quasi sempre in coppia, espressione della «dualità cosmica» dell’estremo Oriente che si esprime nel binomio yin-yang. La fenice compare, come simbolo benaugurante, sul tetto degli edifici, per indicare che in quella casa regna la pace, ovvero sopra le tegole, a protezione degli incendi. Anche dal punto di vista politico, la fenice cinese è considerata simbolo di pace e di buon governo: come l’unicorno, il fenghuang rappresenta perciò l’animale piú bello e piú buono, e compare solo quando il paese è ben governato o ci vive un santo. Il fenghuang è generalmente raffigurato come un essere composito: con la testa piccola, il lungo collo, la coda con tre o cinque piume, il becco aperto o che stringe una perla, le zampe simili a quelle di una gru, ma con gli speroni e gli artigli di un rapace.
simbolo della figura di Gesú nel Physiologus greco (redatto tra il II e il III secolo d.C. ad Alessandria d’Egitto), considerato l’archetipo di tutti i successivi bestiari medievali. L’anonimo redattore del Physiologus, riprendendo le versioni piú ricorrenti del mito, introduce la novità della scansione dei tre giorni necessari per la rinascita (verme, uccellino, nuova fenice), chiara allusione ai tre giorni trascorsi dalla morte alla resurrezione di Cristo. Egli conclude: «Se dunque quest’uccello ha il potere di uccidersi e di rinascere, come possono gli insensati Giudei indignarsi contro le parole del Signore: “Ho il potere di deporre la mia anima, e il potere di riprenderla (Giov 10, 18)?” La fenice è un’immagine del Salvatore nostro: Egli è sceso infatti dai cieli, ha steso le sue due ali, e le ha portate cariche di soave odore, cioè delle virtuose parole celesti, affinché anche noi spieghiamo le mani in preghiera, e facciamo salire un profumo spirituale mediante buoni comportamenti».
Un tema con molte declinazioni
Miniatura raffigurante l’Angelo di Dio che distrugge Sodoma e l’apparizione della fenice, dallo Zubdat al-Tawarikh (Crema di storie) di Sayyid Loqman Asuri. 1583. Istanbul, Museo d’Arte Turca e Islamica.
Appare quindi netta l’identificazione tra la fenice e Cristo, mentre gli aromi con cui l’uccello si cosparge le ali vengono interpretati come simbolo degli insegnamenti spirituali del figlio di Dio. La fortuna di questi contenuti ebbe una ricaduta di enorme portata in tutta la letteratura e l’arte medievale: si può pensare al tema che fu ripreso nel Bestiaire in antico francese di Gervaise (XII secolo), in quello di Guillaume de Normandie (XII secolo), nel Libro della Natura degli animali (fine XIII secolo), nel Bestiario di Oxford e nel Bestiario di Cambridge, cosí come nelle trattazioni di Onorio d’Autun (10801154), di Vincent de Beauvais (1190-1264) e di Philippe de Thaün (XII secolo). Nei vari scritti si evidenzia un’altra similitudine tra la fenice e Cristo: cosí come l’uccello nasce e rinasce senza sottostare alle ordinarie leggi della riproduzione, allo stesso modo Gesú è venuto al mondo senza una vera paternità terrestre, come un caso unico tra gli uomini, tale da porsi come fenice dell’umanità. Accanto all’interpretazione cristiana del mito feniceo quale simbolo di morte e resurrezione, si sviluppò una versione «profana» tra le fila dei poeti romanzi, prima provenzali, successivamente francesi e italiani. In questo contesto fu elaborata una similitudine tra la fenice e l’amante che si consuma nella fiamma dell’amore. Sembra che il primo a parlarne sia stato Rigaut de Berbezilh, trovatore attivo a cavallo tra il XII e il XIII secolo, nella canzone Atressi con l’orifanz, seguito poi dai contemporanei GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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La fenice In questa pagina miniature tratte dal Livre des Merveilles, raccolta che comprende varie opere, fra cui una traduzione in francese del Milione di Marco Polo. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In alto, una fenice assisa su un altare; a sinistra, il mitico uccello Roc che sorveglia la fossa degli elefanti del Madagascar.
Raimbaut d’Aurenga, Peire Vidal e Thibaut de Champagne. Altrettanto accadde in Italia, tra poeti siciliani e toscani seguaci del Dolce Stil Novo, quali Giacomo da Lentini, Guittone d’Arezzo, Chiaro Davanzati e Dino Frescobaldi. Tratto comune a tutti questi poeti è quello di sfruttare il tema del «martire d’amore», assoggettato alla sua condizione continua di vita e di morte. Il mito della fenice viene utilizzato nei suoi elementi fondamentali: unicità dell’esemplare, presenza del fuoco come fiamma della passione, morte e resurrezione dell’amante che si strugge nella ricerca della sua amata, immagini che divennero progressivamente stereotipi del linguaggio lirico medievale, perdendo l’originaria forza espressiva.
La figlia dell’imperatore
Piú articolata è l’utilizzazione del mito all’interno del Cligès, opera di Chrétien de Troyes (11351190). Il nome della protagonista, Fénice, evoca l’immagine del magnifico volatile e si tratta del primo caso in cui, nella letteratura romanza, la fenice viene associata a una donna, caratteristica che fu poi sviluppata da Cecco d’Ascoli e dal Petrarca. Fénice, figlia dell’imperatore di Germania, viene mandata in sposa all’usurpatore Alis, zio di Cligès, omonimo protagonista del racconto e legittimo aspirante al trono di Costantinopoli. I due giovani, Cligès e Fénice, non appena incontratisi, si innamorano perdutamente. La ragazza inventa uno stratagemma per mantenersi casta per il suo amato e studia, 126
GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
con la complicità di una maga, un piano per ricongiungersi a Cligès. Assume una pozione che la pone in uno stato simile a quello di morte e, dopo essere stata sottoposta a torture da parte di alcuni scettici medici di Salerno, viene sepolta in una tomba, per essere poi trasportata in una torre in cui si risveglia miracolosamente all’interno di un meraviglioso verziere e può trascorrere un intero anno insieme all’amato. Al di là del nome Fénice della protagonista, una serie di messaggi celati all’interno della trama la
UN SUCCESSO SENZA TEMPO Il mito letterario della Fenice non è mai tramontato, anche dopo il Rinascimento. Si ritrova infatti in molte liriche, sia in Italia che all’estero, tra il Cinquecento e il Seicento, come nell’Adone di Giovan Battista Marino (1569-1625) e nelle Rime di Torquato Tasso (1544-1595), il quale dedicò al mito una sezione all’interno della sua opera il Mondo creato, per evocare l’unica avis anche nella Gerusalemme Liberata e nella Conquistata. L’immagine fenicea fu utilizzata anche da scrittori anglosassoni, basti pensare al poeta e religioso inglese John Donne (1572-1631) e al poemetto The Phoenix and the Turtle di William Shakespeare (1564- 1616). Oggetto in età manieristica e barocca di un’inesauribile miniera di paradossi, enigmi e antitesi per scrittori italiani, spagnoli e inglesi, fino ad arrivare a caricature e parodie (come nella «Dama Tribolata» del Don Chisciotte di Cervantes), particolare fortuna la fenice incontrò in Spagna, dove fu oggetto di lunghi poemi, come la Fabula de la fénix (1616) del Conde de Villamediana. Quest’ultima fu poi inclusa all’interno di una sorta di erudita enciclopedia sul favoloso uccello, El Fenix y su historia natural. Nei secoli XVI e XVII la figura della fenice fu adottata come marca tipografica da numerosi stampatori, a Roma, Venezia e Padova mentre, quale simbolo di immortalità, il motivo della fenice si diffuse nell’araldica, negli stemmi di diversi casati; lo stesso si ritrova anche nelle insegne di alcuni Comuni italiani, come in quello di Suzzara (Mantova), con una fenice ardente inquadrata in uno scudo celeste e oro in campo nero. Il simbolo feniceo assunse rilievo anche nella sua adozione come nome da parte del teatro La Fenice di Venezia: nel 1787 la «Nobile Società», proprietaria del teatro di San Benedetto, perse una causa contro la famiglia proprietaria del fondo in cui sorgeva l’edificio, pertanto decise di costruirne uno ex novo, al quale fu dato il nome del favoloso uccello. Inaugurato nel 1792, adottò lo stemma di una fenice con aspetto di aquila che brucia sopra una catasta di legna. Nel XX secolo il mito feniceo fu rivalutato all’interno dell’arte simbolista, o da autori come Gabriele d’Annunzio nel suo Notturno (1921), nel quale la fenice rappresenta l’immagine dell’Io immerso nel buio della cecità ma fiammeggiante di eroismo e
In alto la ballerina russa Tamara Karsavina ne L’uccello di fuoco di Igor Stravinskij, olio su tela di Jacques-Emile Blanche. 1910, Parigi, Bibliothèque-Musée de l’Opéra national de Paris-Garnier. A destra Fenice attempata (Greiser Phoenix, particolare), acquaforte di Paul Klee, facente parte della serie Inventionen. 1905. Berna, Collezione privata.
destinato alla rinascita. La fenice costituí la figura centrale del balletto di Igor Stravinskij, L’Uccello di fuoco (1910), ispirato al folclore russo. Degne di rilevanza sono infine due opere: la prima è l’enigmatico sonetto in – yx di Stéphane Mallarmé (1842–1898); la seconda è La setta della Fenice (1956), di Jorge Luis Borges, in cui è narrata la storia di una strana setta, nata a Eliopoli in Egitto, diffusasi in tutti i Paesi e in tutte le epoche, che probabilmente allude al linguaggio e alla letteratura, capaci di accomunare gli uomini di tutta la terra.
ANIMALI FANTASTCI
La fenice
FILOSOFIA, ALCHIMIA, MASSONERIA: LE MOLTE APPROPRIAZIONI DI UN MITO Il mito della fenice venne fatto proprio, in epoca rinascimentale e barocca, da diverse correnti filosofiche e di pensiero, che lo adattarono alle loro esigenze simboliche ed espressive. Rivestí un ruolo primario nella simbologia e iconografia ermetica e alchemica: praticamente assente nei trattati alchemici medievali, la presenza della fenice divenne una costante in molte opere tra il XVI e il XVII secolo. Il simbolismo alchemico dell’unica avis viene ricondotto essenzialmente a due filoni: da un lato essa rappresenta la Natura perfetta scaturita da Dio, dall’altro diventa l’allegoria della realizzazione dello stadio finale a cui tende il processo alchemico, ossia la Pietra Filosofale o Elisir, l’Opera al rosso che segue quelle al nero e al bianco. Tra i primi a sviluppare queste tematiche vi fu Paracelso (1493-1541), nel Thesaurus thesaurorum alchimistarum, seguito poi da Jacques Gohory, Antonio Ricciardi, Michele Sendivogius e Andreas Libavius. Chi sviluppò nel modo piú ampio la figura della fenice alchemica fu Michael Maier: il favoloso uccello è il protagonista già nell’opera Jocus severus (1617), per riapparire in Symbola aureae mensae (1617) e Tractatus de volucri aurea (1619), in cui viene espresso il valore dell’uccello quale «tintura» che tramuta in oro le cose con cui viene in contatto, nonché nel suo scritto piú importante, le Cantilenae intellectuales de Phoenice redivivo (1622). La simbologia alchemica della fenice è strettamente correlata a quella sviluppata dal
contemporaneo movimento dei Rosa-Croce, che trova il suo testo fondatore ne le Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1616) di Johann Valentin Andreae, romanzo in cui il protagonista deve passare una serie di prove mistiche scandite in sette giorni. In tale opera, dai caratteri fortemente visionari, il sesto giorno è dedicato alla descrizione della fenice, che si sviluppa da un uovo, cresce e, una volta formata, deve ingaggiare una lotta con un serpente bianco, di cui è costretta a bere il sangue. Viene infine decapitata e ridotta in cenere. Dalle ceneri della fenice si formano le statuette di due sposi, il re e la regina, i quali tornano in vita dopo aver bevuto il sangue della fenice e celebrano quindi, il settimo giorno, le nozze, allegorica realizzazione degli opposti. Tramite la tradizione rosacrociana, la figura della fenice entrò nella simbologia massonica, come nell’immagine che la vede ardere sulla croce, simbolo del XVIII grado del Rito scozzese antico e accettato. La figura della fenice si intreccia con quelle del pellicano e dell’aquila; sotto la sua ala è presente l’iscrizione «I.N.R.I.» legata al nome di Cristo, inteso non come Messia, ma come ricerca della perfezione. Anche nella simbologia massonica la fenice è associata a un ciclo di morte e rinascita spirituale: il percorso iniziatico, che passa attraverso la discesa nelle profondità dell’Io e la sua dissoluzione, porta infine alla sua rinascita come Sé immortale.
accostano al mito feniceo: il suo «morire» a una falsa esperienza amorosa, il suo risorgere al «vero amore» per l’amato Cligès. C’è chi, come Francesco Zambon, ha evidenziato possibili valenze religiose nella figura della protagonista: il suo corpo, deposto nella bara, viene definito un «santissimo oggetto», medesima espressione usata da Chrétien per indicare il Graal durante la processione che si svolge al castello del Re Pescatore, scena descritta nel suo incompiuto Perceval ou le Conte du Graal. Analogamente, le torture subite da Fénice per opera dei perfidi medici evocano la passione di Cristo, figura strettamente correlata al mito della fenice, o comunque il martirio di una santa.
La versione di Cecco
In area italiana, il creatore del mito della donnafenice fu Cecco d’Ascoli (1269-1327), poeta, medico e astrologo, autore dell’Acerba, trattato filosofico-scientifico in volgare che avrebbe dovuto contrapporsi alla Divina Commedia, ma che rimase incompiuto per la condanna a morte di Cecco «per errori contro la fede». In tale opera l’autore parla di una misteriosa donna beatificante e celeste, da identificarsi con la sapienza o 128
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intelligenza divina, che riesce con la sua luce a rischiarare l’intelletto attivo (ossia la parte superiore della mente umana), staccando gli uomini dalle cose materiali per innalzarli verso la contemplazione delle realtà eterne. Questa donna preesiste a tutte le cose, è di natura puramente spirituale e chi la contempla si annulla in lei in una vera e propria unione mistica. Nell’ambito di questa trattazione Cecco d’Ascoli si rifà al mito della fenice seguendo, nella parte descrittiva, gli elementi presenti nel De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico (1230 circa): in quello che può essere definito un bestiario della sapienza divina, per poi trasformarsi in un piú comune bestiario «moralizzato», questa donna-fenice «morendo nasce». Alla descrizione della morte e rinascita dell’immaginifico uccello segue un’originale interpretazione allegorica: la morte della fenice rappresenta la condizione di umiliazione e persecuzione in cui si trova la divina sapienza nel mondo, abitato da «gente obscura e ciecha», ossia ottusa e priva di occhi spirituali in grado di contemplare le entità celesti. Pertanto muore per poi rinascere in una dimensione superiore e ridiscendere, guidata da Dio, a illuminare le ani-
morte della donna. Tale argomento assunse un ruolo centrale in Dante Alighieri (1265-1321) e in Francesco Petrarca (1304-1374). Dante incentrò la Vita nova sulla morte della sua Beatrice, quale donna per mezzo della quale ci si può distaccare dai limiti umani ed elevarsi alla contemplazione di Dio. In verità Dante, anche se il senso di Beatrice non differisce molto dalla donna-fenice di Cecco, non accostò mai la figura femminile a quella del mitico uccello.
Volare verso la fine
me disposte ad accogliere la sua luce. Alla visione della donna-fenice di Cecco d’Ascoli è estraneo ogni riferimento amoroso o erotico vagheggiato da altri autori: il «dolce fuocho» al quale il poeta si riferisce, non è fiamma di amore carnale ma il desiderio mistico che squarcia le tenebre dell’ignoranza. Cecco introduce anche il tema del canto in punto di morte, simbolo dell’amorosa dottrina che la Sapienza trasmette ardendo, cioè morendo al mondo, elemento che si ritrova in un successivo sonetto, in cui la fenice non è piú identificata con la donna, ma con il poeta stesso che canta in punto di morte. Secondo Zambon, alla fine si verifica quasi una immedesimazione tra amante e sapienza divina, e il canto finale della fenice e del poeta potrebbe essere interpretato anche come l’anima che, illuminata dall’Intelligenza, proclama la vera dottrina. Una sorta di oscuro presagio, in quanto Cecco d’Ascoli finí i suoi giorni arso sul rogo per non aver voluto rinunciare alle proprie idee considerate eretiche. Il mito feniceo elaborato da Cecco d’Ascoli trova una stretta correlazione con un tema della poesia amorosa italiana del Medioevo, ossia la
Tavola raffigurante una fornace per pratiche alchemiche e gli animali legati al mondo dell’alchimia, tra cui la fenice, incisione di Theodore de Bry per il trattato Tripus aureus, hoc est, tres tractatus chymici selectissimi di Michael Meier, pubblicato nel 1677.
Nel Canzoniere del Petrarca, invece, viene pienamente sviluppato il mito della fenice quale emblema poetico di Laura. Tale valore simbolico è presente sia nelle Rime in Vita, sia in quelle in Morte. Nelle prime, il mitico uccello rappresenta la condizione di amante del poeta, che si consuma nel suo amore per Laura: cosí come la fenice viene tratteggiata mentre vola per incendiarsi al sole, allo stesso modo il poeta continuamente rinasce per tornare ad ardere nel suo sole, identificato nella Donna amata. Tale modello simbolico si evolve nei sonetti successivi, quando la fenice viene a rappresentare la figura di Laura, di cui vengono evidenziati i caratteri della bellezza, evocata dagli splendidi colori delle piume, dalla sua origine orientale, dalla sua unicità. Successivamente si intravede il destino funereo della donna amata: se la prima parte è dedicata alla descrizione dello splendore di Laura ancora viva, nella seconda parte il poeta ci dice che «ogni cosa al fin vola», per cui il simbolismo della fenice è un volare verso la fine, ossia verso la morte di Laura e di tutte le cose terrene. A un primo approccio, la visione petrarchesca può sembrare profondamente pessimistica, dato che non si rinviene traccia di resurrezioni, ma, nella seconda parte del Canzoniere, Laura risorge come donna angelo e guida spirituale del poeta. La vera «risorgenza» non si riferisce perciò a Laura, ma al Petrarca stesso: amante e amata sono accomunati da un unico emblema di morte e rinascita, e molti termini sono riferiti a entrambi, come l’unicità, il volo verso l’alto, la morte volontaria. Mentre però a Laura spettano in aggiunta la luce e la cenere, sono riservati solo al Petrarca il fuoco e la rinascita, intesi come dolorosa resurrezione, sia come amante che come poeta. In definitiva, nel mito della Laura-fenice del Canzoniere la donna amata si dilegua come essere reale e fisico e rinasce in forma piú alta come mito interiore, che grazie alla poesia può raggiungere l’eternità, la perfezione e la bellezza assoluta. GLI ANIMALI NEL MEDIOEVO
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