Medioevo Dossier n. 49, Marzo/Aprile 2022

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N°49 Marzo/Aprile 2022 Rivista Bimestrale

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I LONGOBARDI IN ITALIA L’ALBA DEL MEDIOEVO di Tommaso Indelli

L’ARRIVO IN ITALIA 6. Venuti da lontano I SUCCESSORI DI ALBOINO 24. Il potere si consolida ROTARI 34. Una nuova era, nero su bianco LIUTPRANDO 52. L’apogeo e la caduta ITALIA LANGOBARDORUM 74. Le sette «capitali» della Langobardia UNA QUESTIONE MERIDIONALE 78. Mezzogiorno longobardo LA FINE DI UN’EPOPEA 106. Gli ultimi fuochi


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Venuti da lontano

Secondo la tradizione, la storia «italiana» dei Longobardi inizia nell’anno 568, quando il re Alboino guida i suoi guerrieri oltre le Alpi. Quella vicenda, però, aveva origini ben piú lontane, non solo nel tempo, ma anche nello spazio. Sebbene permanga ancora qualche zona d’ombra, gli studiosi oggi collocano la formazione di questo popolo fra il II e il I millennio a.C., in un’area compresa fra Germania e Scandinavia

I

l 2 aprile del 568 d.C., Lunedí di Pasqua, la tribú dei Longobardi, guidata dal re Alboino (560 circa-572), varcò le Alpi Giulie, penetrò nell’Italia settentrionale e occupò, manu militari, gran parte dei territori italici a nord del Po (vedi box alle pp. 8-9). Oggi, alcuni storici, considerano questa data – fornita dallo storico longobardo Paolo Diacono († 799 circa) – non piú come quella dell’inizio dell’occupazione della Penisola, bensí come la data della partenza dei conquistatori dalla Pannonia e, pertanto, il loro ingresso in Italia andrebbe posticipato al maggio del 569. In quell’anno, i Longobardi conquistarono Milano e, nel 572, dopo un lungo assedio, Pavia, dove, piú tardi, ritennero opportuno fissare la capitale del loro regno, destinato a sopravvivere fino alla conquista franca del 774. I territori a nord del Po furono sottratti al dominio bizantino che si era stabilmente insediato nella Penisola da circa un ventennio, dopo la fine delle lunghe guerre che l’imperatore, Giustiniano I (527-565), aveva condotto contro gli Ostrogoti, dal 535 al 553, riuscendo, alla fine, ad annientarne il regno. L’invasione longobarda d’Italia sconvolse le linee di difesa bizantine che si attestarono lungo una linea immaginaria che seguiva, all’incirca, il corso del Po, a nord, e dell’Adige, a est. Facevano eccezione alcuni nuclei di insediamento militare, ubicati a sud del Po, lungo la dorsale

appenninica, poiché, nello stesso tempo in cui Alboino invadeva l’Italia o, comunque, pochi anni piú tardi, altri nuclei guerrieri germanici si erano spinti piú a sud, dando vita ad altri importanti insediamenti: il primo, a Spoleto, il secondo, a Benevento, e il terzo, in Toscana, dove Lucca era caduta in mano longobarda, fin dal 569 (vedi box alle pp. 10-12). Ovviamente, non è da escludere – come sostengono alcuni studiosi – che, in realtà, la formazione dei ducati di Benevento e Spoleto non vada ricondotta a una conquista militare da parte di nuclei invasori, ma a una ribellione al potere bizantino, promossa da contingenti militari longobardi già stanziati nella Penisola, come truppe federate, nel Sannio e nell’Umbria, dal tempo della guerra gotica. La rivolta, quindi, sarebbe esplosa in concomitanza con l’arrivo dei Longobardi. La tradizione vuole che la fondazione dei due insediamenti sia stata opera di (segue a p. 12)

Nella pagina accanto L’ingresso di Alboino a Pavia, xilografia da un dipinto di Ludovico Pogliaghi del 1890. In basso corno potorio in vetro, dalla tomba 27 della necropoli di San Mauro (Cividale del Friuli). Ultimo terzo del VI sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.

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L’arrivo in Italia

Miniatura da un manoscritto latino raffigurante il monaco e storico longobardo Paolo Diacono (720/24 circa-799) autore dell’Historia Langobardorum, testo che narra le gesta del suo popolo. XI sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

IL POPOLO DELLE TRE LEGHE I Longobardi appartenevano, probabilmente. al gruppo etno-linguistico dei «Germani» occidentali. La loro origine scandinava – menzionata da Paolo Diacono – deve, forse, considerarsi leggendaria ed entrata nella saga longobarda per contaminazione con le antiche tradizioni dei Goti. I Longobardi erano migrati sulle rive dell’Elba intorno alla metà del I secolo a.C. e, fin dagli inizi del VI, si erano stanziati in Pannonia, provincia alle dipendenze dell’impero romano d’Oriente. Appartenevano, dunque, al novero delle tribú germaniche, stanziate nel vasto territorio detto Barbaricum o Germania, delimitato, a ovest e a sud, dal corso del Reno e del Danubio, a est, dal corso dell’Elba e della Vistola, a nord, dal Mare del Nord e dal Mar Baltico. L’identità etnico-culturale «germanica» – molto discussa – si era progressivamente formata tra il II e il I millennio a.C., quando l’area delle attuali Germania e Scandinavia era stata interessata da correnti migratorie – molto probabilmente provenienti dall’Asia centrale – di tribú indoeuropee, progressivamente sovrappostesi e amalgamatesi con i popoli paleoeuropei già insediati in quei territori.

Divisi per terre e per lingua

I Germani si distinguevano in «continentali» – le tribú stanziate tra Reno, Danubio e Vistola – e in Germani del Nord o «insulari» – meglio noti come Normanni o Vichinghi – che popolavano lo Jutland e la penisola scandinava, a torto ritenuta un’isola dagli etnografi greci e romani. Dal punto di vista linguistico – e sempre escludendo le comunità settentrionali – i Germani continentali erano ripartiti in due grandi raggruppamenti: Germani occidentali, stanziati tra il Reno, il Danubio e l’Elba, e Germani orientali, dimoranti tra l’Elba e la Vistola. Il territorio dell’antica Germania era

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Mare del Nord

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I sec. a.C.-IV sec. d.C.

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dunque molto piú vasto dell’attuale, comprendendo anche, a est dell’Elba, le terre poi occupate dalle tribú slave, nel VI-VII secolo d.C. Secondo gli etnografi romani, le tribú germaniche occidentali appartenevano a tre grandi raggruppamenti tribali o leghe, e cioè – da nord a sud – agli Ingevoni, agli Erminoni e agli Istevoni. Ogni lega traeva origine da capostipiti diversi, da tre «eroi eponimi»: Ingvio, Hermin e Istwo. Costoro, secondo lo scrittore romano Tacito († 120 d.C.), autore del De origine et situ Germanorum, erano figli di Manno – il primo essere umano – figlio di Tuisto, eroe androgino figlio di Nerthus – la dea Terra – capostipite di tutti i Germani. Alcuni storici aggiungevano alle tre leghe suddette altre «confederazioni» – Vandili, Peucini, Bastarni – diffuse tra i Germani orientali, lungo le rive dal Baltico. Le altre tribú – escluse dalle confederazioni suddette – non facevano parte di alcuna lega, ma vantavano ciascuna propri eroi eponimi. Il nome «Germani» non è autoctono, ma sembra che, pur essendo stato molto utilizzato dagli scrittori latini e greci, sarebbe di origine celtica e il suo etimo sconosciuto.

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L’etnonimo «Germani» sarebbe da ricollegare alla parola «fratello» – perché, ai Romani, sembravano tutti simili per fenotipo – oppure al celtico Garmanos, Carmanos, cioè gli «urlatori», i «rumorosi», con allusione, forse, ai canti di guerra delle tribú. Prima ancora dei Romani, i primi a utilizzare l’etnonimo furono i Celti, riferendosi alla tribú germanica dei Tungri, che viveva presso il Reno. In ogni caso, proprio l’origine non autoctona dell’etnonimo «Germani» sembra confermare l’ipotesi secondo cui essi non utilizzavano un nome specifico per designare se stessi e non possedevano una coscienza nazionale, cioè la consapevolezza di appartenere a un ethnos unico, al di là delle singole frammentazioni tribali. Anche in mancanza di elementi certi che consentano di sostenere l’esistenza di una coscienza collettiva del genere, propria delle moderne nazioni, non è possibile disconoscere il fatto che, al di là del particolarismo tribale, esisteva certamente un sostrato etnico-culturale e linguistico di fondo – di chiara matrice indoeuropea – che accomunava le singole tribú.

In alto cartina che illustra le direttrici della migrazione dei Longobardi, fino al loro arrivo nell’Italia settentrionale. A sinistra fibula a staffa alamanna, da Alcagnano (Vicenza). V-VI sec. Milano, Civico Museo Archeologico. Nella pagina accanto, in basso cofanetto reliquiario in osso. VI-VII sec. Susa, Museo Diocesano d’Arte Sacra. LONGOBARDI

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L’arrivo in Italia

Scoti

Britanni

Regno dei Suebi

Catabri

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In alto l’Heidentor (Porta dei Pagani), interpretata come parte di un monumento trionfale innalzato dall’imperatore Costanzo II fra il 354 e il 361 d.C. nella colonia di Carnuntum (oggi presso Petronell, vicino a Vienna). L’abitato era un importante centro della Pannonia Superiore, posto a difesa del limes danubiano. Sulle due pagine l’assetto geopolitico dell’Europa alla caduta dell’impero romano d’Occidente, nel 476.

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FRANCHI, ALAMANNI, VISIGOTI, ALANI, VANDALI...: TUTTI I PREDECESSORI DI ALBOINO I Longobardi furono gli ultimi «barbari», in ordine di tempo, a riversarsi nei territori un tempo appartenuti all’impero romano d’Occidente anche se, già nel V secolo, nel 406, altri gruppi di barbari si erano riversati al di qua del Reno, insediandosi in territorio romano, dove costituirono dei veri e propri regni, retti da capi che riconoscevano, formalmente, l’autorità dell’imperatore, ma, nei fatti, agivano in totale autonomia. Nel corso del V secolo, quindi, l’impero romano d’Occidente perse la completa sovranità sui territori occidentali – Gallia, Spagna, Britannia, Africa – dove si erano costituite le nuove compagini politiche germaniche. In Gallia, si erano stabilmente insediati Franchi, 10

LONGOBARDI

Alemanni, Visigoti, Alani, Vandali e Burgundi, sospinti dalla pressione unna. Gli Alani, però, non erano di stirpe germanica, ma «iranica»: provenivano, infatti, dalla Russia meridionale, dalla regione caucasica, e un piccolo nucleo di essi si stabilí presso la città di Orléans, nella valle della Loira. Altri trasmigrarono in Spagna dove, unitisi ai Vandali, passarono in Africa nel 429.

Una grande confederazione

Gli Alemanni erano una grande confederazione di singole tribú germaniche – Quadi, Marcomanni, Suebi, Semnoni – stanziati lungo l’alto corso del Reno e del Danubio. I Vandali provenivano dal bacino danubiano-

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pannonico dove si erano stanziati fin dal III secolo, provenienti dalla Scandinavia. Nel Nord della Gallia si stanziarono i Franchi, mentre il Sud era conteso tra Visigoti e Burgundi. Gran parte dei Franchi era già da tempo stanziata in Gallia, sulla riva sinistra del Reno, lungo il basso corso del fiume, in qualità di foederati imperiali. I Franchi erano divisi in due grandi raggruppamenti tribali a carattere confederale, i Franchi Sali e i Franchi Ripuari, nati dalla fusione di singole tribú – Sugambri, Catti, Catruari, Usipeti, Tencteri, Gambrivi – stanziate lungo il corso medio e inferiore del Reno. I Franchi occuparono inizialmente il territorio compreso tra il corso del Reno e quello della Somme,

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L’EUROPA DEL 476 D.C. Pitti Juti

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Impero romano al tempo di Diocleziano (284-305)

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Dominio di Odoacre Impero d’Oriente Regno dei Vandali

mentre i Visigoti – provenienti dall’attuale Svezia e insediati, per lungo tempo, sulle rive settentrionali del Mar Nero – si stabilirono nella Gallia sud-occidentale – Aquitania – e, profittando del crollo progressivo dell’autorità romana in Occidente, si impossessarono anche dell’Alvernia e della Provenza, annientando l’ultima presenza romana nel Sud del Paese e raggiungendo le Alpi occidentali. Anche parte della Spagna cadde sotto il loro dominio e la capitale del regno fu stabilita a Tolosa. Quando la potenza visigota in Gallia fu ridimensionata dai Franchi con la battaglia di Vouillé, nel 507, i Visigoti furono costretti a retrocedere al di là dei Pirenei e nacque, allora, il regno

visigoto di Spagna, con capitale Toledo, che sopravvisse fino al 711, cioè fino alla conquista araba. Nel 587, il re visigoto Recaredo (586-601) si convertí al cattolicesimo e, nel 589, impose il battesimo cattolico al suo popolo, favorendone la fusione con i sudditi romani.

Due capitali per un regno

Nel 443, i Burgundi, di origine scandinava e stanziati, dal III secolo, sul medio Danubio, dopo l’annientamento del loro primo regno a opera degli Unni, nel 436, furono insediati dai Romani nella Gallia sud-orientale, nell’odierna Borgogna e Savoia, tra il Giura, le Alpi e la Saona – attuale Saône – occupando anche

gran parte della Svizzera nordoccidentale. Le capitali del regno burgundo erano Lione e Ginevra. La Spagna fu divisa tra i Suebi – o Svevi – originari della zona dell’Elba, confinati nella parte nord-occidentale – l’odierna Galizia – e i Visigoti, finché, nel 585, il regno suebico fu debellato e annesso a quello visigoto. Nel 429, sotto la pressione dei Visigoti di Spagna, i Vandali trasmigrarono in Africa settentrionale, dove occuparono i territori compresi tra il Marocco e la Libia e, nel 455, saccheggiarono Roma, occupando, poco dopo, anche la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e le Baleari. La Britannia romana, agli inizi del V secolo, fu occupata da tribú (segue a p. 12) LONGOBARDI

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LONGOBARDI

L’arrivo in Italia

provenienti dalla Germania settentrionale – Frisoni e Sassoni – e dallo Jutland – Iuti e Angli –, che riuscirono a spazzare via ciò che restava della civiltà romana, costringendo buona parte della popolazione autoctona a emigrare in Gallia – Bretagna – o a trasferirsi nei territori piú occidentali della provincia, nel Galles, Devon e Somerset. In Britannia – e fino ai confini con la Scozia – i Germani diedero vita a una

serie di organismi politici – regna – che, intorno alla metà del VII secolo, si erano ormai ridotti a sette, la cosiddetta eptarchia anglosassone. Nel 476, dopo la deposizione di Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente, a opera del generale «barbaro» Odoacre, si era avuta, anche in Italia, l’instaurazione di un regno «romano-barbarico», destinato a durare fino all’invasione degli Ostrogoti, una tribú appartenente al

due valenti capi: Faroaldo (570 circa-590), a Spoleto, e Zottone (570 circa-590), a Benevento. Questi ducati erano i piú esposti agli attacchi bizantini, perché collocati ai confini meridionali del costituendo regno, e avevano entrambi un’importanza strategica non indifferente. Il ducato di Spoleto, per esempio, comprendeva parte delle attuali Umbria, Marche e Abruzzo e garantiva il controllo della via Flaminia, che da Roma, tagliando l’Appennino, giungeva fino a Rimini, consentendo la comunicazione tra il Lazio – in mano bizantina – e la riviera adriatica. Alla fine del VI secolo, stabilizzatesi a nord le conquiste longobarde, i residui possessi bizantini furono riorganizzati, da un punto di vista territoriale e amministrativo, nell’esarcato: una vasta provincia, suddivisa al suo interno in entità amministrative minori – ducati – al comando di duchi, e che prendeva il nome dall’esarca, il governatore generale nominato direttamente dall’imperatore, che risiedeva a Ravenna, già capitale dell’impero romano d’Occidente. Piú precisamente, l’esarcato comprendeva il ducato d’Emilia – attuali Emilia e Romagna – il ducato della Pentapoli marittima – che consisteva in una striscia territoriale costiera comprendente i centri di Senigallia, Rimini, Fano, Pesaro, Ancona –, il ducato della pentapoli urbana o annonaria – che tagliava trasversalmente la Penisola e comprendeva i centri di Iesi, Cagli, Fossombrone, Gubbio, Urbino – e il ducato di Perugia, ubicato a nord della pentapoli urbana. Anche il Mezzogiorno italiano, non occupato dai Longobardi di Benevento, dipendeva dall’esarca.

Dalla leggenda alla storia

Alboino era figlio di re Audoino e di Rodelinda, principessa turingia. Con Audoino, la storia dei Longobardi esce dalle nebbie della «leggenda» e assume connotati piú certi. I suoi 12

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gruppo dei Germani orientali. Nel 489, l’imperatore d’Oriente Zenone (474491) escogitò il modo per allontanarli dai Balcani, inviandoli in Italia, sotto la guida del loro re, Teoderico. Invasa la Penisola e ucciso Odoacre, nel 493, Teoderico costituí in Italia un regno solido, fondato sulla collaborazione con l’élite romana, ma sulla rigida separazione tra gli occupanti ostrogoti e i sudditi romani. Ai primi furono generalmente riservate le cariche e i

Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Particolare di uno dei mosaici raffigurante alcune navi a Classe. VI sec. Intorno al 582, Classe, porto di Ravenna e strategico possedimento bizantino, fu conquistata dai Longobardi guidati da Faroaldo «duca» di Spoleto, ma venne ripresa nel 585 da Droctulfo, altro «duca» longobardo al servizio dei Bizantini. predecessori, infatti, agirono in un tempo non propriamente storico, quanto «mitico», e, non a caso, nella stessa saga longobarda, appaiono come figure evanescenti, eroiche o semidei (vedi box alle pp. 18-19). Audoino, della stirpe dei Gausi, salí al potere intorno al 547-550, dopo aver deposto il suo predecessore, Valtari, di cui era tutore e reggente. Consolidò, poi, la propria posizione politica, stringendo accordi con l’imperatore Giustiniano, contro i vicini Gepidi, stirpe germanica affine ai Goti e stanziata, come federata, in Pannonia, ma in pessimi rapporti con i Longobardi. Ben prima di guidare l’invasione dell’Italia, Alboino aveva già acquisito una solida preparazione bellica, alla scuola del padre, quando, giovanissimo, aveva combattuto numerose guerre. Nel 550-555, aveva partecipato alla battaglia di Asfeld, località pannonica non meglio identificata, in cui il padre Audoino aveva affrontato il gepido Turisindo. Il giovane Alboino aveva ucciso, in quella occasione, Torrismondo, figlio di Turisindo, acquisendo, cosí, un grande onore presso il suo popolo. Piú tardi, intorno al 560, quando successe al padre, fu pronto a regolare definitivamente i conti con gli scomodi vicini Gepidi, che affrontò in Pannonia, presso Sirmio (l’odierna Sremska Mitrovica, in Serbia, n.d.r.), sconfiggendoli. Nel 567, Alboino uccise il loro re Cunimondo, ne sposò la figlia Rosmunda, e acquisí, cosí, la sovranità anche sui Gepidi superstiti, che lo seguirono, poi, nell’avventura italiana.Alla sconfitta definitiva dei Gepidi, alle-


poteri militari, ai secondi le mansioni «civili». Tra i piú fidati collaboratori di Teoderico si ricordino Severino Boezio († 525) e Cassiodoro († 580 circa). Boezio ricoprí la carica di magister officiorum – una sorta di primo ministro – durante il regno ostrogoto, ma fu rimosso e fatto uccidere da Teoderico, in seguito alla scoperta di un complotto ordito contro di lui e di cui Boezio probabilmente era al corrente, pur senza esserne partecipe.

Cassiodoro, invece, fu retore, storico e magister officiorum di Teoderico, dopo la morte di Boezio e, dal 533 praefectus praetorio Italiae, carica che conservò fino al 540, quando si ritirò nel monastero di Scolacium, l’odierna Squillace, in Calabria, dove morí alla fine del VI secolo. Il regno di Teoderico si protrasse fino alla sua morte, nel 526, quando gli successe il nipote, Atalarico. Alla morte di quest’ultimo, nel 534, la madre Amalasunta – figlia

di Teoderico – fu incoronata regina ma, nel 535, fu assassinata dal cugino, Teodato († 536), che si proclamò re. L’usurpazione di Teodato forní all’imperatore d’Oriente, Giustiniano I, il pretesto per invadere l’Italia che, dopo circa vent’anni di guerra (535-554), abbattuto il regno ostrogoto, fu trasformata in una provincia – esarcato – alle dipendenze dell’impero d’Oriente. Nel 568, irruppero nella Penisola i Longobardi.

LONGOBARDI

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LONGOBARDI

L’arrivo in Italia I RE LONGOBARDI

INIZIO REGNO

FINE REGNO

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NOTE

540

547

Waltari

Reggenza di Audoino

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560

Audoino

560

572

Alboino

572

574

574

584

Periodo dei duchi, detto dell’anarchia

584

590

Autari

dal 589 Teodolinda regina

591

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Agilulfo

Teodolinda regina dal 604 Adaloaldo associato al trono

616

625

Adaloaldo

reggenza di Teodolinda

626

636

Arioaldo

Gundeperga regina 636: interregno di Gundeperga (dieci mesi)

636

652

Rotari

Gundeperga regina

652

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Rodoaldo

653

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Ariperto I

661

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Pertarito e Godeperto

662

671

Grimoaldo

671

671

Garibaldo

671

688

Pertarito

dal 680 Cuniperto associato al trono

688

700

Cuniperto

Ermelinda regina 688-689: usurpazione di Alachis

700

701

Liutperto

reggenza di Ansprando

701

701

Ragimperto

Ariperto II associato al trono

701

702

Liutperto

702

712

Ariperto II

702: Rotarit antire

712

712

Ansprando

Liutprando associato al trono

712

744

Liutprando

dal 737 Ildebrando associato al trono

744

744

Ildebrando

744

749

Ratchis

749

756

Astolfo

756

757

Ratchis

trono conteso da Desiderio

756

774

Desiderio

Ansa regina; dal 759 Adelchi associato al trono

Clefi

ati dei Bizantini, contribuí l’abilità diplomatica del sovrano longobardo. Questi, infatti, si alleò con gli Avari, vasta confederazione di genti turco-mongole, a base clanico-tribale, in cui erano presenti anche molti elementi slavi. Gli Avari provenivano dal bacino del Volga e Alboino promise loro lo stanziamento in Pannonia, nei territori eventualmente sottratti ai Gepidi, oltre che l’assegnazione di una parte del bottino e del bestiame. L’apporto di questi cavalieri 14

LONGOBARDI

divisione del regno in due parti con capitali Pavia e Milano

Tassia regina

delle steppe che, molto probabilmente, già conoscevano l’uso della staffa ed erano abili arcieri e lancieri a cavallo, fu determinante per la vittoria sui Gepidi. L’Italia non doveva essere totalmente sconosciuta ai Longobardi, i quali l’avevano probabilmente già raggiunta e visitata, per ragioni di commercio e di affari, prima del 568-569. Tra l’altro, sotto Audoino, ben 5000 di loro avevano militato, come federati, al servizio del generale bizantino Narsete (†


Lastrina in bronzo dorato raffigurante un cavaliere, parte della decorazione di uno scudo da parata longobardo, da Stabio (Svizzera). VII sec. Berna, Museo Storico.

575), durante l’ultima fase delle guerre dei Bizantini contro i Goti, e molti di quei soldati erano ancora stanziati in Italia, quando Alboino si affacciò ai confini orientali. Non risulta, invece, credibile la storia che vuole proprio il generale bizantino responsabile dell’invasione barbarica della Penisola perché, caduto in disgrazia presso la corte imperiale, avrebbe invitato i Longobardi a invadere l’Italia, prospettando le ingenti ricchezze che essa avrebbe potuto offrire loro.

Le figure dei primi sovrani longobardi sono avvolte da un alone di mistero e molti di essi sono personaggi leggendari

Non conosciamo l’esatto tragitto percorso dagli invasori, ma, in via puramente ipotetica, essi dovettero attraversare il territorio croato e sloveno, percorrere le valli del fiume Natisone e del Vipacco, attraverso la strada romana che congiungeva Emona (l’attuale Lubiana), ad Aquileia. Si trattava di circa 120 000 persone, fra uomini atti alle armi, donne, vecchi e bambini, ai quali si erano uniti, sicuramente, individui di provenienza etnica diversa, tra cui Gepidi, LONGOBARDI

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LONGOBARDI

Alboino e Rosmunda, olio su tela di Peter Paul Rubens. 1615. Vienna, Kunsthistorisches Museum. L’artista immagina il momento in cui il sovrano longobardo ordina alla moglie di bere nella coppa ricavata dal teschio di suo padre, il re dei Gepidi Cunimondo, ucciso dallo stesso Alboino. 16

LONGOBARDI

L’arrivo in Italia

Rugi, Eruli, Sarmati e circa 20 000 Sassoni. Molto probabilmente, questo «popolo in marcia» era organizzato in «fare», al comando di duchi, esponenti dell’aristocrazia guerriera, capi militari e politici al tempo stesso, aventi autorità assoluta sui propri sottoposti. Le fare erano veri e propri «gruppi di combattimento», cementati da rapporti di sangue e composti da famiglie discendenti da un medesimo capostipite. Attraversate le Alpi Giulie, Alboino occupò Forum Iulii – Cividale – nell’attuale Friuli, a cui seguirono Aquileia, Verona, Vicenza, Treviso, dove il vescovo Felice, in cambio di una repen-

tina sottomissione, riuscí a ottenere la salvezza della popolazione e la garanzia di alcuni vecchi privilegi alla sua diocesi. Il patriarca di Aquileia, Paolino, fuggí a Grado, alle foci dell’Isonzo, e vi trasferí la sede del patriarcato ecclesiastico. A Cividale, Alboino stanziò, stabilmente, i primi nuclei longobardi al suo seguito, a cui diede come capo il nipote Gisulfo (568-580 circa), al quale fu concessa la facoltà di scegliere i guerrieri migliori, per dare vita a un nuovo insediamento: nasceva cosí il primo ducato longobardo della Penisola, quello del Friuli, che, nella futura storia del regno, assunse un ruolo di


conquiste ha, quindi, ragioni specifiche e non è da escludere che essi si siano serviti, per spostarsi piú celermente, della rete stradale romana, le cui condizioni generali non dovevano essere irrimediabilmente compromesse. Occorre inoltre considerare l’estrema debolezza politica dell’imperatore Giustino I (565-578), che, in quel momento, regnava a Costantinopoli. Nipote del grande Giustiniano, Giustino fu costretto, già agli inizi del suo regno, a fronteggiare due grossi pericoli: gli Slavi e gli Avari, a nord, nei Balcani, e i Persiani, a est, sull’Eufrate. Se a ciò si aggiunge che soffriva di seri squilibri mentali e che, già nel 573, era stato esonerato del tutto dal governo dell’impero, si ha un quadro preciso della situazione che certo non consentiva interventi efficaci in Italia.

Bevi, Rosmunda...

primaria importanza nella difesa dei confini orientali dalle incursioni degli Avari. L’occupazione longobarda dell’Italia fu certamente agevolata dalle disastrate condizioni economiche e sociali in cui si trovava la Penisola, dopo circa un ventennio di guerre giustinianee contro gli Ostrogoti, che sembra avessero determinato, oltre a pesanti conseguenze nel campo economico e produttivo, anche una sostanziale riduzione della popolazione, con pesanti ricadute sul serbatoio economico e demografico. Dal 541, poi, infuriava la peste. L’estrema velocità con cui i Longobardi portarono a termine le loro

Il regno di Alboino, però, non durò a lungo, e il sovrano non fu in grado di incidere nell’organizzazione politica dello Stato che stava sorgendo in Italia. Fu infatti ucciso a Verona nel 572, a seguito di un complotto, ordito dalla seconda moglie, la gepida Rosmunda, dal suo amante, lo scilpor Elmichi, scudiero reale, e da un Gepido, Peredeo, che serviva a corte. Il complotto fu, forse, motivato, come suggerisce anche lo storico longobardo Paolo Diacono, dall’odio di Rosmunda contro Alboino. Costui, infatti, l’aveva costretta a sposarlo, dopo aver ucciso suo padre, Cunimondo, re dei Gepidi, e avere, cosí, cinto anche la corona dei superstiti di quel popolo. Dalla testa di Cunimondo Alboino aveva ricavato una coppa, secondo un’usanza diffusa presso i Germani e le popolazioni asiatiche della steppa, e, nel corso di un banchetto, aveva offerto da bere, all’inconsapevole Rosmunda, proprio da quella coppa. Tuttavia, non è da escludere che il re fosse stato ucciso a seguito di un complotto, ordito su mandato di Bisanzio: in ogni caso i congiurati, dopo averlo ucciso, fuggirono in territorio bizantino, con il tesoro reale e Alpsuinda, figlia di primo letto di Alboino, e vennero accolti dal prefetto bizantino di Ravenna, Longino (568575). A seguito di dissidi, tra Elmichi e Rosmunda, i due si uccisero – o furono uccisi – e il prefetto ritenne opportuno inviare a Costantinopoli il tesoro regio, insieme con Peredeo e Alpsuinda, che lí trovarono la morte. Morto Alboino, l’aristocrazia longobarda, in mancanza di un successore, si diede un re nella persona di Clefi, della nobile stirpe dei Beleos. Clefi agí con spietatezza – come ricorda Paolo (segue a p. 21) LONGOBARDI

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LONGOBARDI

L’arrivo in Italia

DI BARBE, ALABARDE

2

Con l’ingresso in Italia, le informazioni sui Longobardi e sui loro re divengono certe, perdendo l’alone mitico che caratterizzava il passato piú lontano di questo popolo e i predecessori di Alboino, vissuti nel periodo delle migrazioni (vedi box alle pp. 8-9). Tuttavia, la tradizione storiografica longobarda ricorda i nomi dei re piú antichi. Escludendo due re, forse semplici condottieri – duces – Ibor e Aio – la cui stessa esistenza storica non è provata, gli altri furono: Agilmundo, Lamissione – della stirpe dei Gungingi – Leti, Ildeoc, Godeoc, Claffone, Tatone, Vacone, Valtari – della stirpe dei Letingi – e, infine, Audoino, della stirpe dei Gausi e padre di Alboino. Quando i Longobardi si insediarono in Pannonia, agli inizi del VI secolo, come federati dei Bizantini, essi erano giunti al termine di un periodo lunghissimo di migrazioni, iniziato intorno alla metà del I secolo a.C. Intorno a quell’epoca, erano giunti alla foce del fiume Elba, nella Germania settentrionale, sulle rive del Mare del Nord, provenendo dalla penisola scandinava, molto probabilmente dalla Svezia meridionale, dalla regione detta, nelle fonti, Scandza. Da qui trasmigrarono sull’Oder, sul Baltico, per raggiungere, infine, l’Elba.

La tradizione orale

Questi spostamenti non sono confermati da testimonianze archeologiche certe, ma sono patrimonio delle Wandersagen, cioè delle piú antiche tradizioni orali sulla migrazione della stirpe. I Romani consideravano i Longobardi una delle tribú piú feroci e meno «civilizzate» come ebbe modo di affermare lo storico latino Velleio Patercolo († 31 d.C.),

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LONGOBARDI

E ALTRE STORIE che li definí ‹‹gens etiam germana feritate ferocior››. Intorno alla metà del II secolo d.C., i Longobardi avevano risalito il corso dell’Elba, scontrandosi con altre tribú germaniche e 1 raggiungendo il medio corso del Danubio che attraversarono assieme alle tribú dei Quadi, dei Marcomanni, dei Taifali e degli Osii, nel 166-167 d.C., penetrando in Pannonia e in Italia orientale, nel corso delle incursioni barbariche dell’epoca di Marco Aurelio (161-180 d.C.), respinte dall’imperatore dopo lunghe guerre (167-180 d.C.). Ricacciati oltre il Danubio, i

Sulle due pagine il tipico equipaggiamento di un guerriero longobardo. 1. Elmo Riproduzione di un elmo costituito da lamelle assemblate, paraguance e nasale in metallo, e sormontato da un pennacchio, dalla necropoli di Niederstotzingen. VI sec. 2. Spatha Spada lunga a doppio taglio, generalmente portata sul lato sinistro, di epoca longobarda. Erba (Como), Museo Civico Archeologico.

Longobardi tornarono nelle proprie sedi nel Barbaricum, forse sull’Elba, ma riapparvero di nuovo sul medio corso danubiano alla fine del V secolo. Nel III secolo, ripresero le loro migrazioni verso sud, dopo essersi provvisoriamente stanziati nei territori della Moravia e della Boemia, combattendo contro altre tribú germaniche, i Rugi e gli Eruli, e alla fine ottennero dall’impero romano d’Oriente l’autorizzazione a insediarsi nella provincia pannonica, come federati, assieme ai Gepidi, impegnandosi a fornire contingenti di armati in cambio di terre. Molto probabilmente, prima dello stanziamento in Pannonia, i Longobardi erano stati 1 assoggettati dagli Unni di Attila, come gran parte delle tribú germaniche. L’insediamento in Pannonia avvenne sotto il re Vacone (510 circa-

2

3


540 d.C.). Alla sua morte, gli subentrò il figlio Valtari, sotto la reggenza di Audoino. Intorno al 547-550 Audoino spodestò Valtari e assunse il potere, che mantenne fino al 560, quando gli successe il figlio, Alboino. La tradizione storiografica ci ha trasmesso i nomi dei luoghi attraversati dai Longobardi nel corso delle loro secolari migrazioni, ma bisogna precisare che sia storicamente, che archeologicamente risulta ancora oggi difficile determinare, con esattezza, la loro collocazione geografica. Si tratta di Scoringa e Mauringa – tra la foce dell’Oder e quella dell’Elba – Golanda, Anthaib, Banthaib, Burgundaib – lungo l’alto corso dell’Elba – Rugilandia, Feld – località da collocarsi sulla riva sinistra del medio Danubio – e, infine, Pannonia, territorio corrispondente alle odierne Ungheria, Croazia e Slovenia. Fonti indispensabili, assieme a quelle archeologiche, per ricostruire la storia e la civiltà dei Longobardi, sono le Origines gentium. Le Origines sono «storie», in prosa o in versi – ma non riconducibili a un genere letterario unitario (cronache, agiografie, poemi) – relative al passato, all’origine e alle tradizioni delle singole tribú germaniche, composte da chierici o laici, dopo lo stanziamento definitivo nell’impero e dopo la conversione al cristianesimo, adottando lingua latina e moduli espressivi e interpretativi della letteratura etnografica e storica greco-romana. Le Origines non facevano altro che mettere per iscritto gran parte del materiale tratto dalle «saghe migratorie» – Wandersagen – delle singole tribú, inizialmente trasmesso in forma orale e rielaborato in forma scritta solo nel VI secolo. È difficile dire quanto di questo materiale sia costituito da un nucleo originale e non sia stato, invece, rielaborato o frutto di vere e proprie

falsificazioni, dettate da motivazioni letterarie o politiche. Basti pensare che in nessuna delle Origines le tribú germaniche erano considerate originarie della Germania propriamente detta, ma venivano fatte discendere dalla penisola scandinava ritenuta, a torto, un’isola. L’Origo piú antica – relativa ai Longobardi – fu opera del monaco trentino Secondo di Non, consigliere spirituale della regina Teodolinda (VII secolo). L’opera di Secondo – andata perduta – fu seguita dall’Origo gentis Langobardorum, testo anonimo composto nel VII secolo, che ripercorreva le vicende dei Longobardi dalle origini scandinave fino al 688.

La storia di un popolo

Nell’VIII secolo, l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, monaco cassinese di origini longobarde, nativo di Cividale del Friuli, offrí la sintesi piú efficace e valida della storia della stirpe longobarda, partendo dalle presunte origini scandinave, fino al 744. Paolo Diacono, nella sua opera, forní la spiegazione etimologica dell’etnonimo «Longobardi»: si sarebbero chiamati originariamente Winnili – «combattenti vittoriosi» – ma poi avrebbero assunto il nome ab intactae ferro barbae longitudine, dopo essere stati definiti longibarbati dal dio Wotan, che li aveva scambiati con le loro donne, le quali, seguendo il consiglio di Frea, moglie del dio, s’erano lasciate cadere sulla faccia, a guisa di barba, i capelli disciolti. L’etimologia del nome non è peregrina, soprattutto se

la si rapporta al culto di Wotan, fra i cui attributi vi era l’imponenza della barba. Alcuni studiosi, invece, hanno ritenuto che l’etnonimo derivasse dall’alabarda – Hallebarde –, la lunga lancia di cui la stirpe faceva uso, mentre altri da lange Börde, cioè la pianura litoranea che caratterizzerebbe la Germania settentrionale. Da menzionare è, infine, anche l’Historia Langobardorum Codicis Gothani, realizzata nella prima metà del IX secolo, dopo il crollo del regno longobardo, probabilmente da un ecclesiastico, e che, dalle origini dei Longobardi, si spingeva, all’incirca, fino all’810. Per la ricostruzione della storia dei Longobardi del Mezzogiorno, dopo la caduta del regno pavese, sono da menzionare le opere storiografiche di Erchemperto (IX secolo) e dell’Anonimo Salernitano (X secolo). Il primo, molto probabilmente nativo di Teano, fu monaco a Montecassino e a Capua, e autore della Ystoriola Langobardorum Beneventum degentium, che narra gli eventi compresi tra l’VIII e la fine del IX secolo. Il secondo, noto come l’«Anonimo», di probabili origini salernitane e monaco nel cenobio di S. Benedetto a Salerno, fu autore del Chronicon Salernitanum, opera storica che ripercorreva le vicende della Longobardia meridionale dalla metà dell’VIII secolo alla fine del X, proseguendo il racconto di Erchemperto.

3

3. Umbone Umbone di scudo, forse da parata, in bronzo dorato e decorato con una scena di battaglia, da Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo delle Civiltà, Museo dell’Alto Medioevo «Alessandra Vaccaro».

LONGOBARDI

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LONGOBARDI

L’arrivo in Italia

CONQUISTE E RICONQUISTE DEI LONGOBARDI Conquiste iniziali (568-590)

Aquileia

Milano

Territori contesi fra Longobardi e Bizantini

644

Brescia

Venezia

Pavia

Torino

Conquiste del VII secolo (con data) (Agilulfo 591-616; Rotari 636-652; Grimoaldo 662-671)

Conquiste al tempo di Liutprando (712-744)

502

603

Parma Genova

Bologna

643

Pisa

Conquiste al tempo di Astolfo (749-756)

Ravenna

Pe

nt

ap o

li

Firenze

Dominio bizantino nel 774

Rimini

Ducato di Spoleto

Confini attuali

Ancona Fermo 640 circa

Spoleto

605

650 circa

Roma

Ducato romano

662

Bari

Benevento Napoli Salerno

Ducato di Benevento

Potenza

645 circa

Cagliari

Cosenza

Palermo

Agrigento

20

LONGOBARDI

Reggio Calabria

Siracusa

Lecce


UN POTERE LUNGO DUE SECOLI 568-574

574-584

590-626

636-652 653-712

P rovenienti dai Balcani e guidati dal re Alboino, i Longobardi entrano in Italia e prendono Vicenza, Treviso, Milano, Verona, Pavia. Sotto il suo successore, Clefi, eliminano la classe dirigente senatoria e si impadroniscono di ampie ricchezze fondiarie. P er dieci anni senza re, i Longobardi vengono guidati dai duchi. Intanto, la conquista della Penisola fa progressi: si segnalano duchi longobardi a Spoleto e a Benevento. Vengono prese Padova, Monselice, Cremona e Mantova; i Bizantini riconoscono lo status quo. Con Agilulfo e sua moglie Teodolinda, la monarchia longobarda assume una fisionomia cattolica. Regno di Rotari e conquista della Liguria e del Veneto orientale (Oderzo).Editto di Rotari (643). Abolizione dell’arianesimo (653) e fine dello scisma dei «Tre Capitoli» (698): con i re della cosiddetta «dinastia bavara» la fisionomia cattolica della monarchia longobarda si consolida e la fusione con la popolazione romanica è pressoché completata. Con Grimoaldo, i ducati

Nella pagina accanto l’assetto geopolitico della penisola italiana nei duecento anni in cui venne quasi interamente controllata dai Longobardi, che riuscirono a conquistare anche la Pentapoli (la provincia comprendente le città di Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia e Ancona), strappandola ai Bizantini.

744-757

756-774

Diacono – soprattutto nei confronti dei sudditi romani, di cui favorí la completa sottomissione e che spogliò dei propri beni. Tuttavia, nonostante le violenze compiute ai danni dei Romani, va oggi respinta l’ipotesi – cara alla storiografia ottocentesca – della «riduzione in servitú» di tutta la popolazione italica che, salvo casi sporadici, fu lasciata libera di osservare il proprio diritto e di conservare le proprie istituzioni. Molto probabilmente, nel regolare i loro rapporti con la popolazione romana – soprattutto sotto il profilo fiscale – i Longobardi si servirono dell’istituto imperiale dell’hospitalitas già sperimentato in Pannonia, che imponeva al popolo «ospitante» la cessione ai «barbari» di uno o due terzi delle terre. Appare quindi probabile che le confische colpirono solo la grande proprietà terriera e non quella medio-piccola e, nella gran parte dei casi, in misura non superiore a un terzo, restando il resto in possesso dei Romani, che, quindi, conservarono buona parte delle loro ricchezze e, nelle città, costituivano il nerbo della struttura produttiva artigianale.

Un governo collegiale

Clefi non ebbe modo di regnare a lungo, perché fu assassinato nel 574, nel corso di un complotto. Suo figlio, Autari, sarebbe piú tardi diventato re, ma, nel frattempo, i duchi longobardi pensa-

di Spoleto e Benevento sono ricondotti sotto l’autorità del re. Con Ratchis e Astolfo, si apre il periodo «friulano» della monarchia longobarda: è conquistata Ravenna; Roma è sottoposta a tributo. Leggi di Astolfo (750) per la mobilitazione contro la minaccia franca. Vittoria dei Franchi guidati dal re Pipino (755 e 756); cessione delle ultime conquiste longobarde ai papi, alleati dei Franchi. L’ultimo re longobardo indipendente, Desiderio, cerca di riprendere una politica aggressiva, approfittando delle difficoltà interne dei Franchi. Ma, nonostante la sua alleanza con i Bavari e con lo stesso Carlo Magno, figlio di Pipino, quando Carlo, scomparso il fratello Carlomanno, rimane unico re dei Franchi e non esita a invadere il Regno longobardo, Desiderio viene sconfitto. Carlo Magno si impadronisce del regno, assumendo egli stesso il titolo di rex Langobardorum. Il Regno longobardo continuerà la sua storia all’interno della dominazione franca che di lí a poco diventerà un impero.

rono bene di non eleggere alcun capo e di governare da sé i vasti domini, che ciascuno di essi era riuscito a conquistarsi in Italia, prendendo in comune le decisioni di maggiore rilievo. Questa sorta di governo collegiale, se cosí può definirsi, conosciuto come «interregno ducale», durò per circa un decennio, dal 574 al 584, e fu caratterizzato da un estremo disordine politico e da un’intensa violenza, esercitata da parte dei circa trentasei duchi longobardi ai danni della popolazione romana, che, in parte, fu ridotta in condizione di vera e propria servitú, e, in parte, fu costretta a cedere parte dei propri beni fondiari ai conquistatori, contribuendo, in tal modo, a favorire un processo di piena sedentarizzazione dei «barbari» e la costruzione di un nuovo ordinamento sociale ed economico, fondato sulla grande proprietà fondiaria, stabilmente concentrata nelle mani dell’aristocrazia conquistatrice. Tra i duchi spiccava, per aggressività, Zaban, duca di Pavia, che fu la personalità piú rappresentativa di quel periodo e che promosse, con i suoi pari, una serie di incursioni in territorio franco, che raggiunsero, persino, la Provenza e la Borgogna (575 circa). I duchi furono gravemente sconfitti sull’Isère dal re franco, Gontrano (561-592), che si preoccupò, anche, di organizzare un’adeguata offensiva in Italia, e ciò fu LONGOBARDI

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LONGOBARDI

L’arrivo in Italia

l’inizio di una serie di continue incursioni dei Franchi in territorio italiano, che si protrassero fino al 616 circa e che portarono all’occupazione della Val d’Aosta e della Val di Susa.

Per la prima volta alle porte di Roma

Nel 575, i Bizantini sferrarono una controffensiva contro i Longobardi, inviando un grande esercito, al comando del magister militum Baduario († 578), ma l’impresa si rivelò un disastro e causò non poche perdite tra i Longobardi. Nell’isola Comacina, il magister militum Francione, con pochi uomini di presidio, riuscí a resistere ai Longobardi fino al 589, quando fuggí a Ravenna. Nel 579, i Longobardi assalirono Roma, per la prima volta, ma senza successo, e presero Classe, porto di Ravenna e capitale dell’esarcato, ma, poco dopo, dovettero cederla ai Bizantini, che riuscirono a riottenerla, grazie 22

LONGOBARDI

L’assassinio di Alboino, re dei Longobardi, olio su tela di Charles Landseer. 1856. Collezione privata. L’artista ritrae il sovrano mentre cerca inutilmente di difendersi con uno sgabello dai colpi di Elmichi.

al tradimento di un duca longobardo – ma, in realtà, di origine sveva o alemanna – Droctulfo († 598 circa), signore di Brescello, presso Reggio Emilia. Droctulfo tradí i Longobardi, e passò ai Bizantini, cosí da meritare, alcuni anni dopo, una sepoltura nella basilica di S. Vitale, a Ravenna, con tanto di epitaffio funebre. Nel 583, il nuovo imperatore bizantino, Maurizio (582-602), strinse un’alleanza con i Franchi, i quali, in cambio del versamento di un sostanzioso tributo, invasero la valle dell’Adige, attraverso i valichi alpini occidentali, ma, alla fine, furono sconfitti dal duca di Trento, Ewin, e costretti a rientrare in patria. Nel 585, il senato romano inviò una delegazione a Costantinopoli, con il compito di richiedere aiuti militari, ma l’imperatore, alle prese con Slavi e Persiani, la licenziò. L’Italia, quindi, non poteva contare su alcun aiuto per trarsi d’impaccio.



Il potere si consolida

Da Autari in poi, i successori di Alboino si fanno artefici del progressivo riassetto del regno longobardo. Viene cosí a definirsi un’entità piú stabile e articolata, che, tuttavia, sembra incapace di estirpare la mala pianta delle lotte intestine, delle congiure e degli scontri fratricidi

I

l governo ducale del regno longobardo fu caratterizzato da una profonda instabilità politica e militare, che spinse i duchi, dopo un decennio, a ripristinare l’ordinaria funzione monarchica. Il nuovo re fu Autari, figlio di Clefi, della stirpe dei Beleos, che regnò fino alla morte, avvenuta nel 590. Al fine di garantire un piú stabile e forte esercizio dell’autorità regale, i duchi cedettero al sovrano circa metà dei loro territori, che andarono cosí a costituire il nucleo originario di un vasto demanio regio. Attraverso le rendite prodotte da quei territori, il re era in grado di garantire un adeguato mantenimento a se stesso e alla sua corte, ma anche di disporre delle risorse necessarie ad arruolare un esercito e a istituire e mantenere un efficiente apparato burocratico. Il problema principale che Autari dovette affrontare fu di ricondurre i duchi longobardi, ancora riottosi, all’obbedienza, sedando, anche con la forza, eventuali ribellioni alla volontà regia. Con Autari, il regno longobardo cominciò ad acquisire una forma istituzionale piú stabile, che si consolidò definitivamente nel corso del VII secolo. Sotto il profilo istituzionale, delle forme e delle simbologie del potere, il regno di questo sovrano avviò l’inizio di un processo destinato a completarsi sotto il suo successore, 24

LONGOBARDI

A destra spada in ferro damaschinato, da Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo delle Civiltà, Museo dell’Alto Medioevo «Alessandra Vaccaro». Nella pagina accanto, in alto crocetta funeraria in oro con teste umane stilizzate. Fine del VI-inizi del VII sec. Pavia, Musei Civici.


In basso orecchino aureo «a tamburo» o «a disco» con decorazione cloisonné e pendente cruciforme. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Agilulfo (591-616): la progressiva assimilazione di buona parte del patrimonio culturale della romanità, da parte di uno dei piú feroci popoli «barbari» (vedi box alle pp. 26-27). Autari conseguí anche importanti successi nella politica estera e, intorno al 590, stipulò la pace con i Franchi, ponendo fine alle loro incursioni nella Pianura Padana. Nel 589, a Verona, il re sposò Teodolinda († 626 circa), principessa bavara, della nobilissima stirpe degli Agilolfingi, duchi di Baviera, figlia del duca Garibaldo († 591), ma dal matrimonio non nacquero figli e Autari morí l’anno successivo, forse avvelenato. Come suo successore fu scelto Agilulfo, duca di Torino, della stirpe degli Anawas, uomo energico e protagonista di primo piano nella storia del regno. Sembra che, nella scelta del nuovo re, abbia avuto un ruolo determinante proprio Teodolinda che prima lo avrebbe scelto come secondo marito e poi lo avrebbe fatto innalzare al rango regio dall’aristocrazia longobarda. Teodolinda esercitò un’influenza decisiva sulla politica di Agilulfo, soprattutto in ambito religioso, e poteva vantare un’autorità morale molto forte, che le derivava dal suo (segue a p. 29) LONGOBARDI

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LONGOBARDI

I successori di Alboino

LA COSTRUZIONE DEL REGNO Con Autari, il potere del re longobardo cominciò a darsi un assetto nuovo, di carattere territoriale, e non piú soltanto tribale e magico-sacrale, come era proprio del concetto e dell’istituto della regalità presso le tribú germaniche. Il regno longobardo si dotò anche di una capitale stabile, Monza, sebbene il sovrano amasse risiedere con la sua corte anche a Milano e a Brescia. Le tre città romane avevano sostituito Verona, la prima capitale del regno, scelta da Alboino e da Clefi. Verona, infatti, era stata gravemente danneggiata da un’inondazione dell’Adige, nel 589, e inoltre, era piú esposta alle incursioni avare e bavare, mentre le nuove capitali lombarde offrivano il pregio di un’ottima collocazione, per il controllo dei valichi alpini occidentali, indispensabili per contenere le continue incursioni dei Franchi e, inoltre, erano ricche di edifici di epoca romana e ostrogota, che

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LONGOBARDI

potevano essere impiegati come sede della corte e degli uffici regi. Nelle capitali il re risiedeva con la corte, spesso itinerante, con i suoi piú stretti collaboratori – familiares regis – cioè gli ufficiali dell’amministrazione centrale dello Stato, come il referendario, il marescalco, il conestabile, il senescalco.

Alla maniera degli imperatori

Autari assunse il prenome Flavius – fatto proprio anche dai suoi successori – evocativo della tradizione imperiale romana, anche per sottolineare una sorta di continuità tra i nuovi re germanici, conquistatori della Penisola, e gli antichi imperatori romani, tentando, cosí, di dare al proprio potere una legittimazione fondata non solo sulla forza bruta e sul diritto di conquista di un popolo invasore. Il prenome Flavius esprimeva altresí la vocazione territoriale della

regalità, l’aspirazione, da parte di Autari, a essere non solo il re dei sudditi longobardi, ma anche di quelli romani. La funzione regale, a imitazione di quella imperiale romana, assunse progressivamente carattere dinastico, perdendo la connotazione «elettiva» tipicamente germanica. A palazzo, inoltre, erano presenti funzionari e uomini di cultura romani, in possesso delle capacità e del bagaglio di conoscenze adatto allo svolgimento delle loro funzioni. A parte Secondo di Non, abate e storiografo regio sotto Agilulfo, sono da ricordare i notai regi Paolo e suo figlio, Pietro, Stabliciano, Aureo, Pompeo e Giocondo. Le decisioni piú importanti continuarono a essere deliberate dal re con l’assistenza dei duchi, cioè dell’aristocrazia del regno – a cui apparteneva anche il re – e spesso erano convocati presso il palatium, assieme ai dignitari di corte piú


importanti, per deliberare riuniti nel gairethinx, l’antica assemblea tribale non del tutto scomparsa. La progressiva trasformazione dell’antica regalità longobarda secondo parametri e valori tipicamente romani, è riscontrabile anche dall’iconografia regia, nella molteplicità delle sue manifestazioni e applicazioni. Si pensi alle sculture o alle raffigurazioni pittoriche, epigrafiche, numismatiche e alle miniature, spesso utilizzate per veicolare, da parte del potere pubblico, messaggi, idee, simboli, al fine di produrre consenso. Una testimonianza del mutamento storico in atto è la Lamina di Agilulfo o «di Val di Nievole» (vedi foto qui sotto), un manufatto in bronzo, ricoperto d’oro, che, probabilmente, costituiva l’elemento frontale di un elmo o la decorazione di uno scrigno. Come recita la legenda in latino, sulla lamina è ritratto il re Agilulfo, in trono, con acconciatura tipicamente barbarica – lunghi capelli e barba fluente – nel gesto dell’adlocutio. Il sovrano è

circondato, nell’ordine di prossimità, da due armigeri – con panoplia germanica – due raffigurazioni allegoriche della Victoria – recanti cornucopie e labari – due uomini genuflessi nell’atto di omaggiarlo e, infine, da due individui con, in mano, copricapi sormontati da (segue a p. 28)

La Croce di Agilulfo in oro, perle e pietre preziose, splendido esempio di oreficeria longobarda. Inizi del VII sec. Monza, Tesoro del Duomo.

La Lamina di Agilulfo, manufatto in bronzo dorato in cui si fondono elementi «barbarici» con elementi tipici della cultura romano-bizantina. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. Identificato da un’iscrizione come Agilulfo, il sovrano siede in trono, circondato da armati, da due Vittorie alate e da personaggi abbigliati in costume germanico, ma che recano tiare sormontate da croci e si inginocchiano di fronte a lui come se fosse l’imperatore.

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una croce, molto simili alle tiare del cerimoniale bizantino e, in seguito, ecclesiastico. Tutte le figure sono effigiate in una sorta di «processione», o «rituale» devozionale, che converge verso il sovrano, raffigurato frontalmente, al centro. Ai due estremi sono individuabili, appena accennati, alcuni edifici, probabilmente a simboleggiare il palazzo di Monza o Milano, sede ufficiale dei re longobardi. Nelle immagini della lamina coesiste una simbologia sia romana che barbarica, riflesso di una realtà storico-sociale compenetrata da elementi diversi, appartenenti a due distinte civiltà.

L’assetto territoriale

A livello periferico, il territorio del regno era ripartito in grandi circoscrizioni, che facevano perno, nella gran parte dei casi, sulle città di origine romana: i ducati e i gastaldati. Gli ufficiali preposti a tali distretti – duchi e gastaldi – erano detti anche iudices – giudici – e le relative circoscrizioni amministrative, iudiciariae, in riferimento alla loro funzione principale di amministrazione della giustizia, in nome e per conto del re. Tuttavia, i duchi, rispetto ai gastaldi, erano esponenti dell’aristocrazia terriera e militare longobarda, sorta di piccoli dinasti che, benché sottomessi al sovrano, e nonostante alcune sporadiche velleità di ribellione, svolgevano una funzione che si trasmetteva, salvo eccezioni, per via dinastica. I gastaldi, invece, per quanto condividessero alcune attribuzioni amministrative con i duchi, avevano origini sociali modeste ed erano designati dal re per sovrintendere alle proprietà del demanio e alla popolazione ivi stanziata. Non si dimentichi che, nel regno longobardo, come in qualsiasi regno altomedievale, il re doveva vivere del «suo», dato che, le distruzioni – seguite alla conquista – avevano quasi del tutto scompaginato il sistema imperiale di riscossione fiscale. Ogni gastaldato del regno si ripartiva in circoscrizioni amministrative minori, le centene e i decanati, con a capo funzionari di grado inferiore ai gastaldi, detti sculdasci e decani. Molto probabilmente, anche i ducati erano, al loro interno, ripartiti nelle medesime circoscrizioni, con un’unica

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differenza: la nomina degli ufficiali inferiori era di competenza dei duchi o era fatta dal re, in accordo con gli stessi. Le centene e i decanati, sia ducali che gastaldali, avevano non solo una funzione militare, contribuendo a fornire truppe attraverso l’inquadramento della popolazione longobarda, secondo raggruppamenti e ordinamenti decimali – centene, decine –, ma anche una funzione di carattere giurisdizionale e di polizia pubblica, oltre che fiscale. Gli sculdasci e i decani si occupavano, ciascuno nell’ambito della propria circoscrizione di competenza, di amministrare i beni del patrimonio regio e incamerarne le entrate, di amministrare la giustizia e di reprimere i reati. Se la residenza del duca e del gastaldo era, generalmente, la città capoluogo della iudiciaria, il centro di queste circoscrizioni amministrative minori doveva essere piú piccolo, anche un insediamento rurale, come un villaggio o un borgo.

I compagni del sovrano

Categoria distinta dai gastaldi e dagli altri ufficiali regi era quella dei gasindi – «compagni» del re –, fideles che componevano il comitatus regio, anche senza rivestire una specifica carica. Erano ammessi a palazzo e intrattenevano con il re rapporti di intima amicizia, costituendo il suo seguito piú stretto, sul modello dell’antica Gefolgschaft germanica, i guerrieri piú fedeli del capo germanico. Spesso i gasindi erano ricompensati con la concessione di una specifica carica amministrativa – per esempio, quella di gastaldo – o con la concessione di benefici economici, soprattutto terre demaniali. Erano addetti a ogni genere di incarico o mansione che il re riteneva utile affidargli, soprattutto in ambito diplomatico, fungendo anche da attendenti, segretari e addetti alla sicurezza del sovrano. Ovviamente, i gasindi dovevano essere uomini liberi – arimanni-exercitales – che godevano dei pieni diritti, ed è anche probabile che, all’interno della categoria sociale di appartenenza, fossero gerarchicamente ordinati, in base a specifici incarichi ricevuti dal sovrano e al rapporto di intimità e fiducia che li legava al re.

Illustrazione raffigurante le fortificazioni tardo-romane ricordate come Tractus Italiae circa Alpes nella Notitia Dignitatum Occidentis (testo latino del V sec.). XV sec. Oxford, Bodleian Library.


prestigioso lignaggio. Scorrevano nelle sue vene il nobile sangue paterno degli Agilolfingi, la dinastia ducale bavara, insediatasi al potere nel VI secolo, e quello materno dei Longobardi di stirpe regia: sua madre, infatti, era Valdrada, principessa longobarda, figlia del re Vacone (510-540 circa), della nobile stirpe dei Letingi.

Nozze... strategiche

Il matrimonio con Teodolinda fu, dunque, l’occasione per cementare un’importante alleanza politica con i Bavari, con cui, fino ad allora, i Longobardi non erano stati in buoni rapporti. I confini del ducato bavaro si estendevano ben oltre l’attuale Baviera, in Germania, ma, valicato il Danubio e le Alpi, comprendevano parte dell’odierna Austria occidentale e dell’Alto Adige, fino all’altezza di Bolzano, dove iniziava il ducato longobardo di Trento, allora retto dal duca Ewin che, tra l’altro, in occasione delle nozze di Autari, sposò una sorella di Teodolinda, di cui non si conosce il nome. Tra le persone del vasto seguito di corte che Teodolinda portò con sé in Italia, vi era anche il fratello Gundoaldo, che fu fatto subito duca di Asti, inaugurando, cosí, una nuova stirpe ducale all’interno del regno. Teodolinda, poi, come tutti i Bavari, era cattolica e non professava l’arianesimo, eresia cristologica molto diffusa tra tutte le stirpi germaniche, e questo suo tenace attaccamento alla fede ortodossa ebbe un’importanza determinante nei futuri sviluppi politici del regno longobardo (vedi box a p. 33). Benché Agilulfo restasse ariano, Teodolinda riuscí a far battezzare i due figli avuti da lui, Adaloaldo († 626 circa) e Gundiperga († 652 circa). Nato nel 603, Adaloaldo fu battezzato da Secondo di Non, confessore della regina e storiografo regio, e, l’anno successivo, fu incoronato re da Agilulfo, nel corso di una solenne cerimonia svoltasi alla presenza del popolo e dei massimi dignitari longobardi, nell’antico anfiteatro romano di Milano, in una superba cornice, politica e architettonica, che ricordava i fasti dell’impero romano. La romanizzazione del cerimoniale di corte andava di pari passo con la cattolicizzazione della stirpe longobarda, favorita anche dai rapporti amichevoli che la regina intratteneva con papa Gregorio I Magno (590604), pontefice noto anche per la campagna di evangelizzazione degli Anglosassoni. Oltre a papa Gregorio e a Secondo di Non, non si può dimenticare il ruolo importante svolto, nell’opera di «conversione» dei Longobardi al cattolicesimo, da san Colombano di Bobbio, monaco di provenienza irlandese, apLONGOBARDI

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Monza, Duomo, Cappella di Teodolinda (o degli Zavattari). Teodolinda e Autari arrivano a Verona dopo il loro matrimonio, celebrato nel 589 (qui accanto), e Autari conquista Reggio Calabria (sulle due pagine). Due particolari del ciclo di affreschi della Leggenda di Teodolinda, 45 scene che narrano la storia della regina dei Longobardi, ispirate agli scritti di Paolo Diacono, autore della Historia Langobardorum, e di Bonincontro Morigia, autore del Chronicon Modoetiense. Gli affreschi sono opera di vari membri della famiglia Zavattari (forse Francesco, Giovanni, Gregorio e Ambrogio), che li hanno eseguiti tra il 1441-44 e il 1444-46. prodato prima tra i Franchi e, poi, tra i Longobardi. Nel 612, dopo essere stato espulso dalla Francia, Colombano giunse in Italia, dove si giovò della protezione e dell’amicizia di Teodolinda, che persuase il marito a donare al monaco alcune terre del demanio regio, su cui fondare un cenobio a Bobbio, vicino a Piacenza, dove Colombano morí nel 615. Teodolinda patrocinò anche la costruzione, a Monza, dell’importante basilica di S. Giovanni, presso la quale era ubicato anche il palazzo reale, che ella fece ornare di splendidi affreschi, illustranti episodi significativi della storia longobarda, ammirati anche da Paolo Diacono.

L’Urbe sotto assedio

In politica interna, Agilulfo dovette affrontare la ribellione di alcuni duchi ostili alla sua ascesa al potere, guidati da Gaidulfo di Bergamo, ma, nel 594, ebbe ragione della rivolta, mandando a morte molti nobili a lui ostili. Nel frattempo, il re aveva ripreso le armi contro i Bizantini e, nel 593, aveva assalito la stessa Roma, con l’aiuto di Ariulfo, duca di Spoleto († 601), ma, nel 594, dovette abbandonare l’assedio della città, raggiungendo un accordo con papa Gregorio I, che

prevedeva il versamento ai Longobardi di un sostanzioso tributo in oro. Nel, 598, infine, fu siglata con l’esarca una tregua che, rotta poco tempo dopo, spinse Agilulfo a scatenare una serie di offensive contro i Bizantini che consentirono l’annessione di Padova, Este, Monselice, Cremona e Mantova. La pace vera e propria con i Bizantini fu siglata solo molti anni piú tardi, nel 680, quando i Longobardi e l’impero riconobbero l’impossibilità di ridurre l’avversario all’obbedienza e, quindi, constatarono l’irreversibile divisione della Penisola in due sfere d’influenza differenti, ma ugualmente sovrane. I Longobardi, senz’altro profittarono del fatto che, nella prima metà del VII secolo, l’impero d’Oriente attraversava un periodo di marasma politico e di gravi difficoltà militari. Nel 610, assassinato l’imperatore Foca, al potere dal 602, subentrò Eraclio (610-641), che fu costretto a combattere continue guerre in Oriente, prima contro i Persiani (623-629), e poi contro gli Arabi (634-641), che sottrassero all’impero il controllo di Siria, Palestina ed Egitto. Nel frattempo, l’esarcato d’Italia era in preda a continue ribellioni dell’esercito, in una delle quali perí l’esarca Eleuterio (615-619). LONGOBARDI

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QUELL’ERESIA CHE PIACEVA AI BARBARI La «conversione» al cattolicesimo dei Longobardi, avviata da Teodolinda, proseguí molto a rilento e poté definirsi completa solo alla fine del VII secolo. La nuova fede era avversata dalla gran parte dell’aristocrazia longobarda, non solo per ragioni «nazionalistiche», cioè la difesa delle proprie tradizioni, ma soprattutto per motivi politici. La «conversione» era vista come un pericolo per l’indipendenza del regno, a vantaggio di Bisanzio e della Chiesa romana, oltre che come una forma di «acculturazione» latina eccessiva, che poteva minare l’identità longobarda. L’arianesimo era un’eresia trinitaria, nata nel IV secolo, a opera di Ario († 336 d.C.), presbitero di Alessandria d’Egitto. Aveva una chiara impronta monarchiana e subordinazionistica: negava, cioè, la piena divinità del Verbo divino, la seconda persona della Trinità, definendola fattura del Padre, creata nel tempo, e contestandone la consustanzialità – omousía – con Dio, ovvero la sua eternità. Tale dottrina si diffuse presso le stirpi «barbare» a partire dal IV secolo, grazie al vescovo di origine gota, Ulfila († 383 d.C.), che predicò tra i Goti stanziati sul Mar Nero. Benché condannato, una prima volta, nel sinodo di Alessandria, nel 318, e poi, definitivamente, nei concili ecumenici di Nicea, in Bitinia, nel 325, e di Costantinopoli, nel 381, l’arianesimo conservò una lunga vitalità presso i Germani cristianizzati. La straordinaria diffusione delle credenze ariane tra i «barbari» dipese, molto probabilmente, da due fattori. Il primo fu la necessità, da parte dei «barbari» stanziati tra la popolazione romana, di conservare la propria identità, senza confondersi con i conquistati. Il secondo fu la maggiore comprensibilità della versione ariana del dogma trinitario, rispetto a quella cattolica, fondata sulla concezione consustanziale delle persone della Trinità.

Battesimo per aspersione e un ricco apparato salmodico

Poco sappiamo degli elementi cultuali dell’arianesimo, ma sicuramente ebbero la loro importanza nella diffusione di questa fede tra le stirpi germaniche. È noto che la liturgia ariana non praticava il battesimo – secondo il rito cattolico – per triplice immersione, ma per semplice aspersione, e si componeva di letture sacre, comprendenti passi delle Sacre Scritture e brani tratti dall’opera fondamentale di Ario, Thalia (Banchetto). Il tutto era corredato da un vasto apparato salmodico che esercitò il suo fascino sulle stirpi «barbare», che già possedevano una raccolta di canti commemorativi delle gesta degli avi. Sicuramente, gli ariani disponevano di una gerarchia ecclesiastica, modellata su quella cattolica, ma della sua organizzazione si sa poco. Quando si trattava di accogliere nella loro Chiesa neofiti, laici o ecclesiastici, che erano già stati cattolici, essi ripetevano i sacramenti impartiti loro dal clero cattolico. Le comunità ariane disponevano di propri luoghi di culto e di riti officiati dai loro sacerdoti come è confermato, anche per il regno longobardo, da Paolo Diacono. Lo storico, infatti, affermò che, in ogni città del regno, c’erano clero e luoghi di culto separati, per ariani e cattolici, e persino a Pavia, dove il vescovo ariano risiedeva presso la basilica di S. Eusebio. Re Autari, inoltre, tentò di arginare la conversione al cattolicesimo del suo popolo, promulgando un editto con cui puní, con la pena di morte, chi avesse accettato il battesimo.

Un’altra scena del ciclo affrescato nel Duomo di Monza, raffigurante Teodolinda che viene confermata regina dei Longobardi e ottiene di scegliere il secondo marito. Dopo la morte di Autari, avvenuta il 15 settembre del 590 forse per avvelenamento, alla regina fu permesso di scegliersi un nuovo marito, che sarebbe diventato re dei Longobardi. Nel 616, morto Agilulfo, gli successe il figlio, Adaloaldo, inizialmente sotto la reggenza della madre Teodolinda, ma il suo regno non brillò per particolare acume politico. Contro di lui andò infatti consolidandosi una vera e propria opposizione, guidata da elementi consistenti dell’aristocrazia longobarda ariana, ostile al cattolicesimo del re e all’opera di proselitismo cattolico che lo stesso Adaloaldo, sotto

l’influenza della madre, tentava di favorire. Nel 626, il re fu deposto e, probabilmente, ucciso in seguito a una congiura, ordita dal duca di Torino, Arioaldo, marito della sorella del re, Gundiperga, e Teodolinda morí poco tempo dopo la deposizione del figlio. La nobiltà longobarda di fede ariana acclamò, come re, lo stesso Arioaldo (626-636), della stirpe dei Caupu, ma anche questo sovrano non brillò per capacità politiche, e il suo autoritarismo scontentò molti nobili, che pure ne avevano appoggiato l’ascesa. Nel 625, fu scoperta una congiura contro il re, a cui non era estranea la moglie Gundiperga con alcuni esponenti dell’aristocrazia ducale: il complotto fu sventato e la stessa Gundiperga bandita dalla corte. Arioaldo, in ogni caso, morí nel 636. LONGOBARDI

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Una nuova era, nero su bianco Eletto re nel 636, Rotari, duca di Brescia, ha legato il suo nome all’Editto promulgato a Pavia nel 643. Un documento di eccezionale importanza, non soltanto per il suo valore giuridico, ma, soprattutto, perché testimonia i principi e le consuetudini che regolavano la società longobarda

M

orto Arioaldo, fu eletto re Rotari (636652), duca di Brescia, della stirpe degli Arodi. Artefici della sua salita al trono furono i duchi longobardi, con l’appoggio decisivo di Gundeperga, che ebbe un ruolo cruciale nel favorire la trasmissione del potere regale, molto simile a quello che, anni prima, aveva avuto la madre Teodolinda, sposando Agilulfo. Rotari fu abile amministratore e condottiero: ariano, perseguitò fanaticamente i cattolici e adottò una politica estera espansiva, ai danni dell’esarcato bizantino. Nel 643, in una celebre battaglia combattuta tra Bizantini e Longobardi presso il fiume Scultenna – l’antico Panaro, affluente del Po – i secondi riportarono una grande vittoria, che costò la vita all’esarca Isacio. Poco dopo, gli eserciti di Rotari occuparono la Liguria e quelle parti dell’Emilia che erano ancora in mano bizantina. Qualche tempo dopo, fu occupata anche Oderzo, ultimo lembo di terra bizantina nel Veneto. Il 22 novembre del 643, Rotari emanò a Pavia anche il famoso Editto, che raccoglieva tutto il complesso delle consuetudini giuridiche longobarde – cawarfidae – sistemate in maniera unitaria e razionale, oltre che scritta, al fine di garantire maggiore certezza giuridica, evitando che, con la dispersione della stirpe nel territorio italico, seguita all’invasione della Penisola, esso potesse andare smarrito. L’Editto fu solennemente approvato dal consiglio degli alti ufficiali del regno – primati iudices – e dal gairethinx (vedi box alle pp. 40-45).

Nella pagina accanto miniatura raffigurante il re longobardo Rotari che emana il suo editto (643), dal Codex legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni (SA), Biblioteca dell’Abbazia della SS. Trinità.

Rotari spirò nel 652, lasciando il potere al figlio, Radoaldo, morto dopo meno di un anno, e il trono passò, quindi, ad Ariperto I (653-661), duca di Asti, di stirpe bavara, in quanto figlio del duca d’Asti Gundoaldo, fratello di Teodolinda, morto intorno al 615. Ariperto – che fu cattolico e favorí la «conversione» di tutti i Longobardi al cattolicesimo – governò fino al 661. Alla sua morte, secondo le sue volontà, il regno fu diviso tra i due figli, Pertarito, che pose la capitale a Milano, e Godeperto, che invece scelse Pavia. La rivalità tra i due successori, appoggiati anche da fazioni ostili dell’aristocrazia ducale – sembra che Godeperto propendesse per l’arianesimo – determinò, nel 662, lo scoppio di una sanguinosa guerra civile. Godeperto chiamò in soccorso il duca di Benevento, Grimoaldo (646-671), inviando come suo messaggero il duca di Torino, Garibaldo.

Un’ascendenza illustre

Grimoaldo fu una delle personalità piú importanti nella serie dei re longobardi: duca di Benevento, della nobile schiatta dei duchi del Friuli, che vantavano le proprie origini da Gisulfo I, nipote di Alboino, era stato costretto a lasciare il Friuli per riparare a Benevento, assieme al fratello Radoaldo, per sfuggire a morte certa. Gli altri due fratelli di Grimoaldo, Taso e Caco, figli del duca friulano Gisulfo II (590610 circa), erano stati messi a morte dai Bizantini, in combutta con lo zio, Grasulfo II (625653 circa), che aveva usurpato il ducato e inLONGOBARDI

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Particolare di un pluteo marmoreo raffigurante l’Agnus Dei, forse proveniente dall’area del Seminario Vescovile di Pavia. VIII sec. Pavia, Musei Civici. tendeva eliminare ogni seria minaccia al suo potere, anche annientando i membri della sua stessa famiglia. Questa faida, interna alla stirpe dei duchi friulani, costrinse Grimoaldo, come detto, e il fratello Radoaldo a rifugiarsi a Benevento, presso il duca Arechi I (591-641), anch’egli di origine friulana, dal quale ottennero ospitalità e protezione. Alla morte del duca di Benevento, Aione (641-642), figlio di Arechi I, divenne duca Radoaldo, fratello di Grimoaldo, ma dopo la sua morte, nel 646647, fu proprio Grimoaldo a conquistare il potere ducale. Alla richiesta di aiuto di Godeperto, il duca di Benevento rispose prontamente e raggiunse Pavia, dove però, sobillato dallo stesso Garibaldo, assassinò il figlio di Ariperto e si fece nominare re. In seguito, attaccò il fratello di Godeperto, Pertarito, sconfiggendolo e costringendolo a fuggire presso gli Avari, prima, e presso i Franchi, poi. Mentre erano in corso queste campagne militari, Grimoaldo era riuscito ad assicurarsi anche il controllo del ducato spoletino, ponendovi a capo un altro suo fido, Transamundo, conte di Capua, al posto dell’infido predecessore.

In cerca di una legittimazione

Non potendo avere il pieno controllo degli affari beneventani e dovendo risiedere a Pavia, Grimoaldo delegò al governo del ducato il figlio Romualdo, a cui fece sposare Teoderada, figlia di Lupo, duca del Friuli, esponente di una delle piú importanti famiglie ducali dell’aristocrazia del regno. Al fine di legittimare la sua posizione politica, scaturita da un brutale atto di forza, Grimoaldo sposò invece Teodote, sorella di Godeperto, in modo da cooptarsi nella dinastia che aveva appena spodestato, ma fu presto coinvolto in una nuova guerra, poiché fu costretto a fronteggiare un’incursione dei Franchi, istigati dal fuggiasco Pertarito, che furono sbaragliati in Piemonte, a Refrancore. Poco piú tardi l’imperatore d’Oriente, Costante II (641-668), sbarcò a Taranto, con un grande esercito, deciso a stroncare la minaccia longobarda e a ripristinare il dominio bizantino nella Penisola. Prese Lucera e marciò quindi su Benevento, difesa da Romualdo, lasciato dal padre nel Mezzogiorno. Romualdo resistette valorosamente all’assedio, ma dovette infine chiamare in soccorso il padre, che, lasciato il governo del regno al fido Lupo, duca del Friuli, marciò

verso sud. Sul fiume Calore, affluente del Volturno, Grimoaldo sbaragliò l’esercito bizantino e marciò su Benevento, provocando l’immediata cessazione dell’assedio alla città. L’imperatore Costante ripiegò su Napoli e, armato un nuovo esercito, lo inviò nuovamente nel Sannio, ma, ancora una volta, la vittoria arrise ai Longobardi che sconfissero le truppe bizantine presso Forino. L’imperatore fu costretto a ritirarsi a Roma, dove fu accolto trionfalmente dalla popolazione e da papa Vitaliano (657-672), e, dopo aver saccheggiato qualche chiesa e spogliato il Pantheon, si ritirò a Siracusa, intenzionato a sbarcare in Africa per condurre una spedizione contro gli Arabi ma, nel 668, cadde vittima di un complotto.

Una stagione turbolenta

Gli ultimi anni di regno di Grimoaldo furono funestati dalle rivolte promosse dai duchi. La prima riguardò Lupo, duca del Friuli, che fu sconfitto grazie all’aiuto degli Avari, chiamati in soccorso dal re. Nel 666, morto Lupo, Grimoaldo affrontò anche la ribellione del figlio, Arnefrido, alleato degli Avari, che fu sconfitto e perí in battaglia, e il ducato del Friuli fu affidato al duca Vectari († 671). Grimoaldo, inoltre, continuò la politica di espansione militare dei suoi predecessori ai danni dell’esarcato, occupando Oderzo, nel 669, e devastando Forlimpopoli, nel 670. Nel 671, morto Grimoaldo, gli successe Garibaldo, il figlio avuto da Teodote, sorella di Godeperto, mentre Romualdo, figlio della prima moglie, Ita, acquisiva i pieni poteri ducali a Benevento, dove avrebbe governato fino al 687. Garibaldo non poté godere a lungo del potere, perché, poco dopo il suo insediamento sul trono, fu deposto e ucciso da Pertarito, figlio di Ariperto, tornato dall’esilio a cui era stato costretto da Grimoaldo. Pertarito (671-688) iniziò il suo regno confermando a Romualdo il possesso del ducato di Benevento, ma nel 678, dovette fronteggiare l’ennesima rivolta dell’aristocrazia longobarda, ostile alla sua politica di pacificazione con i Bizantini e, al contempo, di pacificazione religiosa interna, all’insegna della completa «conversione» al cattolicesimo di tutta la gens longobarda, ottenuta anche con mezzi persecutori contro i recalcitranti. A capo della rivolta si pose il duca di Trento, Alahis, che minacciò seriamente la permanenza al potere di Pertarito, ma, alla fine, il duca si acquietò, anche grazie alla concessione del ducato di Brescia. Nel 680, il re concluse una pace definitiva con i (segue a p. 45) LONGOBARDI

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I TESORI NASCOSTI DI PAVIA, CAPITALE DI GODEPERTO

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In alto Pavia, chiesa di S. Giovanni Domnarum. Uno scorcio della zona dell’altare maggiore della cripta, il cui soffitto e capitelli sono decorati con affreschi raffiguranti santi della tradizione locale come Teofilo (a sinistra) e Invenzio (a destra). VII sec. In alto, sulle due pagine Pavia, monastero di S. Maria alle Cacce. Una veduta della cripta. VIII sec. Il monastero fu abitato da una comunità di monache benedettine.

1 Cripta di S. Eusebio

6 Area di S. Maria alle Pertiche

Chiesa di S. Giovanni 2 Domnarum

7 Monastero di S. Salvatore

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Monastero di S. Maria Teodote

4 Chiesa di S. Maria alle Cacce 5 Monastero di S. Felice

8 Basilica di S. Michele 9

Area del monastero di S. Agata al Monte

10 Chiesa di S. Pietro in Ciel d'Oro 11 Area di S. Giovanni in Borgo 12 Palazzo Reale 13 Basilica di S. Stefano

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A destra Pavia, chiesa di S. Eusebio, cripta. Uno dei capitelli che ornano le colonne, in questo caso riconducibile alla tipologia «a fibula alveolata», verosimilmente orfano delle pietre e delle paste vitree che in origine dovevano riempirne gli alveoli. In basso, a destra Pavia, monastero di S. Felice. Una delle colonne con capitello dell’edificio originario. VIII sec. Nel Settecento il monastero venne soppresso e il complesso riconvertito in orfanotrofio. Oggi è utilizzato dalla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Pavia.

A

10

6

1

5

Piazza E. Filiberto

Piazza Castello

Piazza Dante

5 Via Roma

Corso Carlo Alberto

B

1

7

C

Piazza L. Da Vinci

Piazza Minerva

2

Piazza Ghislieri

12 Via Scopoli

4 3

Piazza Duomo

13

8

9 Viale Lungo Ticino Visconti

Fiume Ticino

11

Viale Lungo Ticino Sforza

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Castello Visconteo (sede Musei)

B

Università

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Stazione FS

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L’EDITTO DI ROTARI Con l’Editto, Rotari dava una base, giuridicamente certa, al regno longobardo nella Penisola, regolamentando, piú razionalmente, tanto il complesso dell’organizzazione pubblica del regno, quanto, soprattutto, l’insieme dei rapporti privati, familiari, personali, commerciali, e della materia penale. Ancora oggi, escludendo l’indispensabile supporto archeologico, l’Editto di Rotari è il mezzo piú importante per ricostruire non solo gli ordinamenti politici e sociali del regno dei Longobardi, ma anche gli aspetti piú vari attinenti al costume, all’economia e alla loro mentalità. L’Editto, per esempio, è uno strumento fondamentale per conoscere molti aspetti della vita sociale che, altrimenti, sarebbero poco noti. Si pensi alla struttura sociale della famiglia o al regime patrimoniale del matrimonio. Dalla lettura dell’Editto, per esempio, si apprende che la donna, secondo la legge longobarda, doveva essere sottoposta alla potestà – mundio – di un individuo maschio o, in mancanza, dello stesso re. Pertanto, le donne erano soggetti di limitata capacità giuridica, ma potevano godere di una condizione diversa a seconda dei casi. Una donna poteva essere wirdibora, libera, sposata e sottoposta al mundio del marito; selpmundia, non sottoposta al mundio di alcuno, fatto rarissimo e, in ogni caso, interveniva il re per porla sotto la sua potestà; in capillo, nubile, sottoposta al mundio del padre o di un altro componente maschio della famiglia in cui viveva. Non era consentito in alcun modo che una donna selpmundia – sprovvista di mundoaldo – continuasse a vivere in tale condizione, poiché, in tal caso, il re avrebbe provveduto a rivendicarne la potestà attraverso i suoi iudices. A partire dal VII secolo, anche alle donne fu riconosciuta una limitata soggettività e la possibilità di acquisire e di alienare diritti, soprattutto di natura patrimoniale, ma la donna continuò a essere ritenuta incapace di badare ai propri interessi e a essere considerata necessaria una forma di tutela vitalizia sulla stessa, esercitata dal padre o dal marito, fino alla morte.

I limiti all’autonomia delle donne

L’unico soggetto giuridico dotato di piena capacità, secondo l’Editto, era l’arimanno, ossia il maschio pubere, di condizione libera, avente il diritto-dovere di portare le armi, con esclusione di servi e aldi – individui non pienamente affrancati dalla servitú – che non erano propriamente soggetti giuridici. Quindi, per la validità degli atti giuridici compiuti dalle donne, era sempre necessario il consenso del mundoaldo, titolare del mundio, e quindi la capacità giuridica della donna longobarda era pur sempre limitata. Sempre dall’Editto, si sa che il matrimonio longobardo consisteva in solenni e vicendevoli promesse scritte o, piú spesso, orali, con la consegna di una caparra – wadia –, costituita da monete e preziosi, ma anche da altri oggetti di valore, da parte di uno dei fidanzati, generalmente l’uomo, con l’impegno ad adempiere la promessa entro due anni, salvo impedimenti dovuti a forza maggiore. Le

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Nella pagina accanto uno dei fogli del Codice che contiene l’Editto di Rotari, promulgato nel 643. San Gallo, Stiftsbibliothek. obbligazioni derivanti dagli sponsali andavano rispettate, altrimenti intervenivano sanzioni pecuniarie: se a violare la promessa era chi aveva consegnato la caparra, questa sarebbe andata perduta, a meno che non si adduceva, a discolpa, l’intervento di fatti imprevedibili, o che la fidanzata era divenuta folle, cieca o lebbrosa. In caso di inadempimento ingiustificato della promessa da parte dei parenti della sposa, la wadia, già consegnata dal fidanzato, andava restituita. A partire dall’VIII secolo, con il progredire del processo di acculturazione dei Longobardi in senso romano-cattolico, il vincolo matrimoniale si concretava nel compimento di alcuni seri e precisi atti che avevano anche il fine di dare pubblicità e, quindi, ampio riconoscimento sociale all’unione: gli sponsali; la traditio mulieris, la materiale consegna della sposa allo sposo, da parte del suo mundoaldo; la subarrhatio anuli, la consegna della fede nuziale dallo sposo alla sposa; l’osculum interveniens, lo scambio del bacio fra i nubendi; e la deductio in domum mariti, l’ingresso ufficiale della donna, come moglie, nella dimora maritale. Tutti questi atti erano compiuti, generalmente, davanti a testimoni adulti e maschi.

Tre istituti fondamentali

Il regime patrimoniale del matrimonio longobardo era fondato su tre istituti fondamentali: la meta, il faderfio e la morgengabe. La meta, o meffio – «compenso» – era una sorta di dote, costituita dallo sposo a favore del mundoaldo, come prezzo per l’acquisto del mundio sulla sposa, ma poi, dall’VIII secolo, fu attribuita in amministrazione alla sposa stessa, purché ne godesse e ne amministrasse i beni, sotto la vigilanza e il controllo del marito, che ne aveva una sorta di usufrutto legale. La meta longobarda costituiva, in origine, il pretium mulieris, il prezzo che il futuro marito doveva pagare alla famiglia della sposa per prenderla in moglie. Nei tempi piú antichi, pertanto, il matrimonio longobardo si configurava, molto probabilmente, come una sorta di compravendita. Piú tardi (VII secolo), la meta assunse il carattere di una vera e propria dote, seppure molto diversa dall’omonimo istituto giuridico romano. Infatti, la meta longobarda non consisteva in un’attribuzione patrimoniale fatta dal padre della donna al futuro sposo, come previsto nel diritto romano, per le necessità economiche della nuova famiglia, ma, al contrario, essa era corrisposta alla moglie stessa, che ne aveva l’amministrazione seppure sotto la costante vigilanza del marito. Il faderfio – «beni del padre» – invece, costituiva una sorta di corredo nuziale, e questo istituto giuridico longobardo, molto piú che la meta, sembrava richiamare, per struttura e finalità, la dote romana. Il faderfio era un piccolo patrimonio costituito a favore della sposa dal mundoaldo – generalmente il padre – per le sue necessità, ed era nella totale disponibilità della donna, proprio come la meta, quando gliene fu attribuita la titolarità, ma, per la validità (segue a p. 42)


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degli atti di disposizione dei cespiti, era sempre necessario il consenso del marito. Il faderfio sostituiva la legittima, cioè la quota del patrimonio paterno che sarebbe dovuta andare alla donna, e, acquisito il faderfio, la figlia non poteva piú vantare aspettative successorie sul patrimonio del padre, tranne se, sciolto il matrimonio, non avesse conferito l’ammontare del faderfio al patrimonio paterno.

Il dono del mattino

La morgengabe o morgincap – dono del mattino – detta anche pretium verginitatis, era una donazione fatta dal marito alla sposa, il giorno seguente la prima notte di nozze. La morgengabe, come il faderfio e la meta, non andava restituita in caso di scioglimento del matrimonio, ma erano necessarie le autorizzazioni maritali per ogni atto di disposizione dei beni oggetto della donazione. Al fine di non impoverire eccessivamente il patrimonio del marito, a causa delle elargizioni fatte alla consorte, il legislatore longobardo intervenne, sancendo un limite massimo che la meta e la morgengabe non potevano superare. L’ammontare della morgengabe non avrebbe potuto eccedere 1/4 del patrimonio maritale, mentre l’ammontare della meta fu graduato sulla base della dignità sociale del marito: la meta non poteva superare 300 o 400 solidi, a seconda che il marito, longobardo libero e di nobile condizione, fosse o meno uno iudex, cioè rivestisse, o meno, una funzione pubblica, al servizio del regno. Contrariamente a quanto attestato in altre legislazioni «barbariche», nel caso dell’Editto di

Rotari non è possibile imbattersi in una specifica disposizione giuridica che proibiva, espressamente, i matrimoni misti, e ciò favorí senza dubbio, col tempo, la fusione tra Longobardi e Romani. Probabilmente, seppur non legalmente proibite, unioni di questo tipo furono a lungo guardate con profonda diffidenza e sfavore sociale. Un indizio in tal senso è forse il cap. 127, frutto degli emendamenti che Liutprando aggiunse agli inizi dell’VIII secolo. Questa disposizione stabiliva che la donna longobarda sposata a un romano – e la sua prole – cessavano di appartenere alla stirpe longobarda e non andavano piú considerati soggetti al suo ordinamento giuridico, ma a quello romano. Liutprando si limitò a disciplinare unicamente il caso di una longobarda data in moglie a un romano e non l’inverso. Forse perché l’ipotesi opposta era legalmente proibita? Molto probabilmente no, se si considera che altrimenti il re – o i suoi predecessori – avrebbero legiferato in tal senso. Pertanto, nel caso in cui un longobardo avesse sposato una romana, i figli avrebbero acquisito la condizione giuridica del padre – se a prevalere era la condizione etnica soggettiva di quest’ultimo – oppure quella della madre, se a prevalere era la condizione etnica soggettiva di quest’ultima.

I segni dell’acculturazione

L’importanza dell’Editto di Rotari, però, risiede anche nel fatto che la sua emanazione costituí la testimonianza piú evidente che, ormai, dall’epoca dell’invasione della Penisola, i Longobardi avevano assimilato, in virtú di un processo di progressiva acculturazione, gli aspetti piú significativi della concezione romano-bizantina della statualità e della regalità. Non è un caso, infatti, che la normativa rotariana sia stata scritta in latino e sia compenetrata di elementi desunti dal diritto romano oltre che, sull’esempio degli editti imperiali, preceduta da un Prologo, accompagnato anche dall’indicazione nominativa dei regali (segue a p. 44)

A sinistra anello in oro di Gumetruda, il cui nome corre ai lati del ritratto femminile inciso nel monile, da Bergamo. Produzione longobarda od ostrogota, VI-VII sec. Londra, British Museum. Nella pagina accanto un altro foglio del Codice che reca l’Editto di Rotari. San Gallo, Stiftsbibliothek. Con l’Editto, il re aveva dato per la prima volta forma scritta alle consuetudini giuridiche del suo popolo. Nel testo, spicca la preminenza del mondo rurale: una prova della centralità dell’economia agropastorale nella vita dei Longobardi.

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predecessori di Rotari, fino ai mitici gemelli Ibor e Aio – primi condottieri-re dei longobardi – al fine di inserire le leggi nella continuità della storia della stirpe, cancellando ogni dubbio sulla loro aderenza al patrimonio consuetudinario della tribú. Nel Prologo, a guisa degli imperatori romani, Rotari definí se stesso vir excellentissimus, adoperando una titolatura onorifica desunta dalla burocrazia tardo-imperiale, e giustificò la sua opera legislativa con la necessità di garantire, nel regno, la giustizia e il bene comune, minacciati dalle angherie dei potenti. L’opera legislativa del re, in un contesto culturale ed etnico a forte preponderanza romana, svolse anche la funzione di ethnic marker, ossia di strumento di rafforzamento dell’identità della stirpe longobarda, in un teorico quadro di riferimento legislativo germanico, associato a caratteristiche complessive dell’Editto che, invece, erano fortemente romane. Molto probabilmente, Rotari legiferò per i soli Longobardi, cioè per il suo popolo, non intendendo applicare l’insieme delle norme e degli istituti che costituiva il patrimonio giuridico della stirpe longobarda anche alla popolazione romana insediata nella Penisola. Il re considerava il diritto longobardo un fatto di stirpe, cioè un elemento connesso, indissolubilmente, con la comunità etnico-culturale di cui era espressione e, pertanto, non estensibile, arbitrariamente, a individui di provenienza etnica differente. Rotari si attenne dunque al principio dell’esclusivismo «nazionale» del diritto, che comportava, come logica conseguenza, un’applicazione personale delle leggi. I sudditi romani, pertanto, continuarono a vivere in conformità alle proprie leggi e al proprio diritto, tranne quando si rapportavano ai Longobardi o recavano danni personali e patrimoniali agli stessi. Tuttavia, man mano che il processo di acculturazione e simbiosi, anche biologica, tra conquistati e conquistatori, divenne sempre piú intenso, l’applicazione dell’Editto fu estesa anche alla popolazione romana, salvo che le disposizioni normative prevedessero espressamente il contrario.

Gli interventi successivi

Il codice di Rotari fu emendato, con l’aggiunta di ulteriori norme, dai successori del re e, cioè, Grimoaldo, nel 668, Liutprando, tra il 713 e il 735, Ratchis, nel 745 e nel 746, e, infine, Astolfo, nel 750 e nel 755. Dal punto di vista strutturale, l’Editto conteneva discipline diverse riguardanti tanto il diritto sostanziale – privato e penale – che quello processuale e costituzionale-amministrativo e uno degli aspetti piú interessanti della legislazione rotariana fu, senza dubbio, l’abolizione, salvo casi determinati, della faida – «taglione» – come strumento di risoluzione delle liti tra soggetti giuridici e di repressione degli illeciti. La faida, la cui esecuzione era affidata alla Sippe – clan di appartenenza dell’offeso – fu, nella gran parte dei casi, sostituita con la corresponsione del guidrigildo-wergeld, cioè di un risarcimento pecuniario.

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Il wergeld – wer-geld, prezzo dell’uomo – costituiva, nel vero senso della parola, il prezzo dell’uomo e ogni singola composizione pecuniaria era graduata dall’Editto in base alla specificità del delitto o del bene leso e all’angargathungi, cioè al rango sociale dell’offeso, alla sua condizione sociale e giuridica: uomo o donna, servo o libero. Pertanto, quando l’Editto non indicava espressamente i criteri ai quali attenersi per valutare il wergeld di un individuo – come l’appartenenza dell’offeso alla curia regis o alla nobiltà – i giudici avrebbero dovuto fare riferimento proprio alla considerazione sociale di cui l’offeso godeva all’interno della comunità, cioè a un criterio di giudizio estremamente vago e difficilmente determinabile, ma senz’altro meno cruento del «taglione». All’interno del corpus edittale, la normativa era articolata in


Rievocazione di momenti della vita quotidiana di una comunità longobarda del VI-VII sec. Una delle due donne taglia degli ortaggi per metterli in un’olla, mentre l’altra si dedica alla filatura della lana. Bizantini, basata sul riconoscimento reciproco dello status quo, riguardo gli assetti delle conquiste realizzate in Italia dai Longobardi, a spese dell’impero, in un secolo e piú di permanenza nella Penisola. Pertarito morí nel 688 e fu sepolto nella chiesa di S. Salvatore fuori le Mura, fatta erigere a Pavia dal padre Ariperto. Pertarito e la moglie, la devota Rodelinda († 700 circa), erano stati promotori di importanti opere di edilizia religiosa, patrocinando, a Pavia, la costruzione di S. Maria alle Pertiche e di S. Agata al Monte.

Le rivolte e la minaccia avara

388 capitoli che si possono, grosso modo, riunire in gruppi, a seconda della normativa in essi contenuta. Molti capitoli erano preceduti da una breve rubrica in cui si specificava l’oggetto della relativa disciplina giuridica. La rubrica poteva riferirsi al singolo capitolo o a un gruppo di essi. Il primo gruppo di norme riguardava il diritto penale, gli illeciti contro le persone, le cose e l’autorità pubblica (1-152); il secondo gruppo il diritto successorio (153-177); il terzo il diritto matrimoniale (178-223); il quarto le manomissioni dei servi (224-226); il quinto il diritto patrimoniale (227-244); il sesto le obbligazioni (245-252); il settimo i reati minori e i danneggiamenti (253-358); l’ottavo la procedura civile e criminale (359-366); infine, gli ultimi capitoli hanno carattere eterogeneo (367-388).

Nel 688, il figlio di Pertarito, Cuniperto, divenne re, ma dovette affrontare una nuova rivolta del duca di Trento, Alahis – che occupò anche Pavia – ma, questa volta, fu sconfitto e ucciso nella battaglia di Cornate d’Adda (688-689). Sul luogo della battaglia, Cuniperto fece edificare un oratorio e un cenobio dedicati a san Giorgio, santo guerriero e sauroctono che, assieme a san Michele, fu uno dei piú amati dai Longobardi. Probabilmente, la lotta tra Cuniperto e Alahis ebbe anche una valenza «religiosa», che contrapponeva i Longobardi ariani, autonomisti e sostenitori di un governo forte, alla fazione dei Longobardi cattolici, centralizzatrice e tendente all’unificazione, che si riconosceva nella politica di Cuniperto e del padre, Pertarito. Sconfitto Alahis, Cuniperto scese in guerra contro gli Avari, che minacciavano, con le loro continue incursioni, i confini orientali, e li sconfisse ma, dopo circa un decennio dalla morte di Alahis, il re dovette affrontare una nuova rivolta della nobiltà, promossa dal duca del Friuli, Ansfrido, che fu ucciso e sostituito con Adone. Cuniperto fu re cattolicissimo e, sotto il suo regno, il processo di completa «conversione» dei Longobardi poté dirsi concluso, come dimostra la convocazione, nel 698, sotto l’auspicio di papa Sergio I (687-701) e del vescovo di Pavia, Damiano (681 circa-711), del sinodo di Pavia, con il quale fu definitivamente abiurato l’arianesimo e si pose fine a un gravissimo scisma (vedi box alle pp. 47-48). Come i suoi predecessori, Cuniperto promosse la fondazione di molti edifici sacri tra i quali è da ricordare la chiesa pavese, con annesso cenobio, di S. Maria di Teodote, in cui, secondo Paolo Diacono, avrebbe fatto rinchiudere una nobile romana, Teodote, della quale si era inva(segue a p. 49) LONGOBARDI

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LO SCISMA TRICAPITOLINO Lo Scisma Tricapitolino – che fu chiuso definitivamente con il sinodo del 698 – aveva origini antiche. Nel 553, l’imperatore Giustiniano I aveva convocato il V concilio ecumenico a Costantinopoli, con il compito di esaminare e di condannare alcuni passi – capitoli – contenuti in scritti teologici di tre noti «padri della Chiesa» di lingua greca vissuti nel V secolo. Si trattava degli scritti di Teodoreto di Ciro († 458), Teodoro di Mopsuestia († 428), e Iba di Edessa († 457), sospettati di eresia, e, precisamente, di nestorianesimo o duofisismo, cioè di sostenere la tesi che, in Cristo, unica persona, vi fossero due nature totalmente differenti e separate – la divina e l’umana – il che comprometteva l’unità della persona divina, il Verbo. Si badi che il nestorianesimo era già stato ufficialmente condannato dalla Chiesa nel terzo concilio ecumenico di Efeso del 431. Condannando i Tre Capitoli, come poi effettivamente avvenne, l’imperatore Giustiniano intendeva riavvicinare all’ortodossia altri eretici – i monofisiti – i quali, invece, sostenevano la presenza in

Cristo di un’unica natura, quella divina, compromettendone, cosí, l’umanità. Anche i monofisiti erano stati ufficialmente condannati a Calcedonia, nel 451, nel corso del IV concilio ecumenico ma, ciononostante, le loro Chiese, assieme a quelle nestoriane, continuavano a prosperare, minando l’uniformità religiosa dell’impero. Giustiniano cercava, quindi, con la condanna degli scritti incriminati, una sorta di compromesso. La condanna dei Tre Capitoli, pronunciata a Costantinopoli nel 553, invece, sortí effetti contrari a quelli sperati. In Italia, infatti, il patriarca di Aquileia, Paolino (557-569), e l’arcivescovo di Milano ruppero la comunione con il papato, accusato di aver sottoscritto e approvato la formula di condanna nel 553. La rottura della comunione con il papato comportò che, da quel momento, i due arcivescovi, eletti dai rispettivi suffraganei, non ebbero piú la consacrazione e il pallio dal romano pontefice, ma li acquisirono direttamente in sede, dalle mani dei propri suffraganei. Inoltre, da quel momento, i

Riproduzione di una miniatura raffigurante una disputa fra cristiani cattolici e nestoriani in occasione del concilio di Acri del 1148.

(segue a p. 48)

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titolari delle due sedi ecclesiastiche professarono dottrine condannate come nestoriane, e quindi eretiche, dall’imperatore e dalla Santa Sede. Con la discesa dei Longobardi in Italia, nel 568, la situazione creata dallo scisma peggiorò. Aquileia e Milano, infatti, furono entrambe conquistate dai «barbari» e i rispettivi metropoliti preferirono abbandonare le sedi e trasferirsi altrove. Il vescovo di Milano, Onorato (567-572), fuggí a Genova, ancora bizantina, mentre il patriarca di Aquileia, Paolino, fuggí sotto la protezione bizantina, a Grado, emporio commerciale di Aquileia, alle foci dell’Isonzo. Pochi anni dopo, Onorato morí e il suo successore, nel 573, ritornò all’obbedienza romana. Anche Severo (587-606), successore di Paolino, abiurò alle sue tesi e ritornò in comunione con Roma. Questa vicenda ebbe, ad Aquileia, pericolose conseguenze, perché Severo fu disconosciuto come patriarca legittimo dal clero e dal popolo aquileiese, sebbene, poco dopo l’abiura, avesse ritrattato. Nel 606, morto Severo, durante il regno di Agilulfo, i Longobardi appoggiarono l’elezione, sul seggio patriarcale di Aquileia, di un nuovo patriarca Tricapitolino, fedele al regno longobardo, il vescovo Giovanni (606619 circa), mentre, a Grado, fu eletto Candidiano (606-612 circa), fedele a Roma. Avvenne cosí, che dal 606 al 698, cioè fino al sinodo di Pavia e alla fine dello scisma, la metropoli ecclesiastica di Aquileia divenne bicefala, avendo al suo vertice ben due patriarchi: uno scismatico, con sede ad Aquileia, posto sotto la protezione longobarda, e un altro, ortodosso e in comunione con Roma, con sede a Grado, e posto sotto la protezione bizantina. Il sinodo del 698 voluto da re Cuniperto, sanò lo scisma, riportando Aquileia all’obbedienza romana, ma lasciò intatta la divisione della provincia ecclesiastica aquileiese in due distinte metropoli ecclesiastiche, ciascuna con le sue diocesi suffraganee. Cosí i patriarcati divennero due, Aquileia e Grado, ciascuno con le proprie diocesi suffraganee e ubicati in territori differenti, l’uno in territorio longobardo, l’altro in territorio bizantino. Mentre la sede di Grado fu abbandonata dal patriarca nel

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1451 e trasferita a Venezia, la sede di Aquileia fu presto sostituita con Cormons, nel 725, e poi con Cividale, nel 735. Nel 1358, il patriarcato si trasferí definitivamente a Udine, fino alla sua abolizione nel 1751.


Manoscritto in lingua siriaca contenente testi della dottrina nestoriana. V sec.

Lo scontro fra Cuniperto e Alahis fece emergere il dissidio sempre piú netto fra i Longobardi ariani e quelli cattolici

ghito. A partire dal regno di Cuniperto, inoltre, iniziò la coniazione di moneta aurea propriamente longobarda – tremissi e semissi (1/3 e 1/2 di solido) – e fu abbandonata la prassi di coniare moneta di «imitazione», modellata sui modelli bizantini. Le zecche del regno iniziarono a coniare moneta recante, sul verso, l’iniziale del re emittente, accompagnata dall’effige di san Michele; sul retto, invece, un busto stilizzato, con una legenda indecifrabile. La comparsa dell’iniziale del nome regio sulla monetazione ebbe un’importanza politica straordinaria, perché segnò l’avvenuta consapevolezza, da parte del re e, poi, dei suoi successori, della piena sovranità del potere regale longobardo sulla Penisola, a danno delle pretese del potere imperiale bizantino. Nel 700, alla morte di Cuniperto, salí al potere Liutperto, il figlio avuto con la principessa anglosassone Ermelinda, che fu posto sotto la reggenza del duca di Asti, Ansprando, le cui origini non sono note ma che, probabilmente, doveva essere imparentato con il giovane sovrano. La giovanissima età di Liutperto fu causa di una nuova congiura, volta a spodestare il sovrano e ad annientare il partito che lo sosteneva. Il capo dei ribelli era Ragimperto, duca di Torino e figlio di Godeperto, il re longobardo assassinato nel 662, da Grimoaldo. Ragimperto aveva un figlio, Ariperto, che portava lo stesso nome del nonno e aveva sangue nobilissimo nelle vene, discendendo da Gundoaldo il Bavaro, fratello della regina Teodolinda. Ragimperto aveva tutte le carte in regola per poter rivendicare il titolo regio. La guerra civile esplose, volgendo subito a favore di Ragimperto che sconfisse, a Novara, Liutperto e i suoi sostenitori, tra cui spiccavano il reggente, Ansprando, e Rotari, duca di Bergamo. Tuttavia, poco dopo, Ragimperto morí, lasciando il trono al figlio Ariperto II (701-712), che, nel 701-702, sconfisse a Pavia, per la seconda volta, Liutperto, lo fece catturare e uccidere, mentre buona parte dei sodali di quest’ultimo, tra cui Ansprando e suo figlio Liutprando, fuggivano dall’Italia, trovando rifugio presso i Bavari. Il LONGOBARDI

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In alto particolare dell’altare di Ratchis, fatto realizzare dall’omonimo duca (e poi re) per il padre Pemmone. 737-744. Cividale del Friuli, Museo Cristiano del Duomo. A sinistra tremissi in oro battuto al tempo di Liutprando. 712-744.

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duca di Bergamo, Rotari, si fece proclamare, a sua volta, re, a Pavia, ma, alla fine, fu sconfitto da Ariperto, presso Torino, catturato e messo a morte. I familiari di Ansprando, la moglie Teuderada e i due figli, Sigiprando e Aurona, furono catturati e messi sotto custodia, e sembra che Sigiprando morisse, poco dopo, per le torture subite. Ansprando e Liutprando furono accolti dal duca bavaro, Teutperto († 719), che offrí loro protezione e ospitalità, e Liutprando ne sposò anche la figlia, Guntrude. Nel frattempo, il regno di Ariperto II fu funestato da una grande rivolta della nobiltà longobarda, promossa dal duca del Friuli, Corvolo. Sconfitto Corvolo, nel 710, il ducato friulano fu affidato dal re al fedele Pemmone († 756). Ma il regno di Ariperto II volgeva al termine e, nel 712, Ansprando e Liutprando, con l’appoggio dei Bavari e un forte seguito, ritornarono in Italia e, presso Pavia, sconfissero Ariperto, che annegò nel Ticino. Ansprando fu consacrato re, ma morí poco dopo, lasciando il trono al figlio, Liutprando.



L’apogeo e la caduta

Con l’avvento di Liutprando, i Longobardi rinsaldano il proprio potere. Il nuovo re cerca di arrivare a controllare l’intera Penisola, ma il progetto espansionistico fallisce. E le ambizioni egemoniche vengono drasticamente ridimensionate dall’ingresso sulla scena dei Franchi

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iutprando (712-744) fu certamente uno dei re longobardi piú importanti ed energici, tanto da potere, a buon diritto, essere considerato il «secondo fondatore» del regnum Langobardorum, dopo Alboino. Nel corso del suo lungo regno, cercò di tradurre in pratica con ogni mezzo l’idea molto chiara dello Stato che intendeva edificare, un’idea autoritaria e centralistica, che non tollerava opposizioni di sorta. Si inserí pienamente nel complesso delle relazioni diplomatiche dell’epoca, instaurando ottimi rapporti con i Franchi e, precisamente, con il maggiordomo di palazzo Carlo Martello (714-741), della stirpe dei Pipinidi. Per ben due volte, nel 732 e nel 739, truppe longobar-


de intervennero in Francia, al fianco degli eserciti di Carlo, contro le incursioni musulmane provenienti dalla penisola iberica. Questi rapporti di collaborazione tra Franchi e Longobardi furono, alla fine, molto proficui. Carlo Martello, infatti, nel 739, inviò il figlio Pipino, destinato a gloria maggiore di quella paterna, presso la corte di Liutprando, affinché vi fosse adottato come figlio, cresciuto e istruito. La politica italiana di Liutprando fu aggressiva. Il re era intenzionato a espellere, definitivamente, la presenza bizantina dalla Penisola, ma gli equilibri politici e militari erano tali che non vi riuscí. D’altronde, da politico realista, seppe alternare la guerra con la di-

Il castello di Cormons (Gorizia). Il fortilizio si presenta oggi nelle forme assunte a seguito della ricostruzione promossa dai Veneziani nel Seicento, ma la sua fondazione è ben piú antica e una delle fasi di vita piú importanti della rocca è quella longobarda.

plomazia, al fine di confondere e dividere gli avversari che erano, principalmente, l’impero bizantino e il papato. Con il papato, Liutprando oscillò tra aggressività e condiscendenza, poiché il re, come tra l’altro il suo popolo, era ormai cattolico, e l’arianesimo delle origini era solo un ricordo. Nel 717 il re iniziò la controffensiva contro l’esarcato bizantino, profittando del fatto che, in quell’anno, gli Arabi stavano assediando Costantinopoli e che, in seguito a un colpo di Stato, si era appena insediato un nuovo imperatore, Leone III l’Isaurico (717-741). I Longobardi attaccarono in forze Ravenna e il suo porto, Classe, ma furono respinti; nello stesso tempo, non si sa se in virtú di un vero e proprio LONGOBARDI

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piano di attacco coordinato, i duchi di Spoleto e di Benevento attaccarono i possedimenti bizantini e si impossessarono, rispettivamente, di Narni e di Cuma (717 circa). Ma si trattò, anche in questo caso, di conquiste effimere, vanificate dalla pronta reazione bizantina.

La «Donazione di Sutri»

Nel 727, il re attaccò di nuovo i possedimenti bizantini, non solo l’Emilia, dove si impossessò delle piazzeforti di Busseto, Persiceto, Frignano, Bologna e Osimo, ma anche il ducato di Roma. 54

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Avanzò fino all’altezza di Viterbo e prese Sutri, tenne questa piazzaforte per alcuni mesi, dopo di che, nel 728, fu persuaso da papa Gregorio II (715-731) a restituirla, ma lo fece a favore della Santa Sede, e non a favore dell’imperatore bizantino, legittimo sovrano di quei territori. Si tratta della ben nota «Donazione di Sutri», in cui a lungo è stata ravvisata l’origine del potere temporale dei papi in Italia, preludio alla formazione dello Stato pontificio. La portata storica della famosa Donazione pare vada ridimensionata e l’origine del potere temporale è da


collocarsi qualche decennio piú tardi. Nel 732, mentre Liutprando era impegnato in una campagna militare nel Beneventano, il nipote Ildeprando, con l’aiuto del duca di Vicenza, Peredeo, attaccò Ravenna, capitale dell’esarcato, che conquistò, costringendo l’esarca alla fuga. Il colpo di mano militare non fu gradito al re, perché avvenuto senza il suo consenso e, in ogni caso, non rappresentò un successo durevole, poiché l’esarca, grazie all’aiuto fornito dai Veneziani e dal papa, riuscí a riprendere Ravenna e Bologna, uccise Peredeo e fece prigio-

niero Ildeprando, che, poco dopo, fu rilasciato. Nel 742, Liutprando scatenò una nuova offensiva contro l’esarcato, attaccando Ravenna e Classe, che furono occupate, e si impossessò di alcune importanti piazzeforti – Amelia, Orte, Bomarzo e Blera – che garantivano le comunicazioni tra l’esarcato e il ducato di Roma. Poco dopo, a seguito di un incontro con papa Zaccaria (741-752), avvenuto a Terni, il re si lasciò convincere a rilasciare le piazzeforti occupate. Nel 743, Liutprando attaccò, nuovamente, l’esarcato, occupando sia Ravenna che Classe,

Cividale del Friuli (Udine). Fondata da Giulio Cesare con il nome di Forum Iulii, da cui viene il nome Friuli, la città divenne sede, nel 568, del primo ducato longobardo in Italia e in seguito, per alcuni secoli, residenza dei patriarchi di Aquileia.

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Liutprando ma, ancora una volta, si lasciò persuadere dal papa a restituirle ai Bizantini. Maggior successo ebbe la politica di Liutprando verso l’aristocrazia del regno: essa fu particolarmente autoritaria e, pertanto, mal tollerata, e ciò spiega anche le continue rivolte che il re dovette affrontare. Nel 717, il re costrinse il duca di Spoleto, Faroaldo II (703-724 circa), che l’aveva occupata, a restituire Classe ai Bizantini, e, nel 737, mosse guerra al duca del Friuli, Pemmone, e lo depose, nominando al suo posto, Ratchis, il figlio, destinato, molti anni dopo, a diventare re. La rimozione di Pemmone fu dovuta alla controversia sorta tra il duca e il patriarca di Aquileia, Callisto († 756), raccontata da Paolo Diacono.

Scontro fra vescovi

In alto Aquileia, basilica di S. Maria Assunta. Particolare di uno dei mosaici che ornano l’Aula Sud o Teodoriana, dal nome del vescovo della comunità aquileiese Teodoro, che ne promosse la realizzazione intorno al 314. In basso uno scorcio del Foro romano di Aquileia, circondato da portici colonnati.

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Nello specifico, il patriarca Callisto aveva trasferito la sua sede da Cormons a Cividale, capitale del ducato, quando scoprí che il palazzo episcopale era stato occupato da Amatore, vescovo di Zuglio e suo suffraganeo, col consenso del duca. Tra i due vescovi sorse una lite che Pemmone pensò bene di risolvere imprigionando Callisto nel castello di Duino, dove rimase finché non fu liberato dall’intervento di Liutprando. Al di là di ogni procedura canonica o giudiziaria, il re intervenne direttamente nella controversia per evitare che il conflitto degenerasse sul piano politico-istituzionale – coinvolgendo il papato – dando ragione a Callisto e allontanando Amatore da Cividale. Pemmone tentò di resistere a Liutprando, ma, poco dopo, fu deposto e sostituito nel ducato da uno dei


Il Battistero di Callisto, originariamente posto dinnanzi nella chiesa battesimale dedicata a S. Giovanni costruita dal patriarca Callisto in luogo del primitivo battistero. 740-750 circa. Cividale del Friuli, Museo Cristiano.

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L’ICONOCLASTIA A partire dal 726, il papato era entrato in conflitto teologico e politico con l’imperatore di Bisanzio – Leone III Isaurico – e con il patriarca di Costantinopoli, per la questione del culto da attribuire alle immagini sacre, le icone. La vicenda è meglio conosciuta come «questione iconoclasta». L’iconoclastia era diventata, a partire dal 726, la dottrina ufficiale dell’impero. Questo conflitto, politico e teologico, oppose il pontefice all’imperatore fino al 787, cioè fino alla convocazione del VII concilio ecumenico di Costantinopoli che condannò ufficialmente l’iconoclastia, sancendo il ritorno alla prassi ortodossa precedente. Il VII concilio fu convocato dall’imperatrice Irene († 803) reggente, dal 780, del giovane imperatore Costantino VI (780-797), nell’ottica di un riavvicinamento alla Santa Sede, in una situazione particolarmente critica per l’impero, retto da un imperatore minorenne e costretto a fronteggiare l’espansione islamica nell’Egeo e in Asia minore. Il conflitto tra papa e impero sulla questione delle immagini sacre ebbe serie conseguenze anche sulla stabilità politica dell’esarcato ravennate, minato da continue rivolte contro il tentativo degli esarchi di imporre anche alla popolazione italiana la nuova dottrina religiosa, oltre che dall’eccessiva politica fiscale. La dottrina iconoclasta, sotto le suggestioni dell’ebraismo e dell’islamismo, rigettava come idolatrica la venerazione delle immagini sacre – icone –, non distinguendo tra la funzione simbolica dell’immagine rappresentata – il prototipo o archetipo – e il supporto materiale della stessa.

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Questa controversia teologica tra le due sedi patriarcali e tra il papa e l’imperatore ebbe anche importanti riflessi politici, perché, durante il regno dell’imperatore Leone III, le diocesi italiane comprese nei possessi bizantini italiani del Mezzogiorno – e quelle dell’Illirico – furono sottratte all’autorità giuridica e disciplinare del papa, trasferite, de iure, sotto quella del patriarca di Costantinopoli, e i relativi beni mobili e immobili confiscati. Solo il ritorno di Bisanzio all’ortodossia, nel 787, migliorò sensibilmente i rapporti tra i due mondi cristiani ma, a quella data, il regno longobardo aveva cessato da tempo d’esistere.

In alto tremisse aureo battuto al tempo di Leone III Isaurico dalla zecca di Costantinopoli. 721-740. Chicago, The Art Institute of Chicago. figli, Ratchis, futuro re dei Longobardi. Particolarmente ostili furono i rapporti del re con i ducati di Spoleto e Benevento, che, data anche la lontananza geografica da Pavia, rivendicavano condizioni particolari di autonomia, stringendo alleanze con il papato e con i Bizantini. Liutprando attaccò una prima volta Benevento, nel 732. Morto il duca Romualdo II, nel 731, i Beneventani acclamarono Audelais, non riconosciuto da Liutprando, che, nel 732, a seguito di una fulminea campagna militare nel Sud, lo depose, imponendo come duca il nipote Gre-


gorio. Nel 739, il re attaccò Spoleto, depose il duca Transamundo II (724-745 circa), accusato di intese con i Bizantini e il papa, e pose sul trono spoletino Ilderico, suo fedele. Transamundo fuggí a Roma e, grazie all’aiuto del pontefice Gregorio III, riuscí a reclutare una milizia e a riprendersi il ducato. Liutprando attese un po’ di tempo e prese nuovamente le armi, nel 742: si trattava di un’occasione propizia e, in quell’anno, il re intervenne oltre che a Spoleto, anche a Benevento, dove si era verificata un’usurpazione. Morto il duca Gregorio,

Uno scorcio dell’interno del Tempietto Longobardo di Cividale del Friuli. L’origine dell’edificio è tuttora dibattuta, ma appare verosimile ipotizzare che sia sorto al tempo di Ratchis e Astolfo, che ressero il regno longobardo tra il 744 e il 756.

nel 739, l’aristocrazia beneventana aveva eletto Godescalco, ma Liutprando lo considerò un usurpatore, gli mosse guerra, lo sconfisse e lo depose e, al suo posto, designò duca Gisulfo II, suo nipote. L’intervento nel Beneventano consentí al re di intervenire di nuovo a Spoleto, dove Transamundo II fu deposto e relegato in un monastero, mentre fu imposto, come nuovo duca, Agiprando (742-744), già duca di Chiusi e nipote del re. Tuttavia, alla morte di Liutprando, Transamundo riprese Spoleto. (segue a p. 63) LONGOBARDI

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ADRIANO I E LA RES PUBLICA SANCTI PETRI Papa Adriano I apparteneva a una delle piú importanti famiglie dell’aristocrazia romana. Aveva intrapreso la carriera ecclesiastica sotto Paolo I, diventando suddiacono, e, poi, durante il pontificato di Stefano III, cardinale diacono di S. Angelo in Pescheria. Nel 772, dopo la morte di Stefano III, era stato eletto pontefice. La prima preoccupazione del neoeletto papa fu quella di pacificare gli animi in una città a lungo lacerata dalla lotta tra le varie fazioni filolongobarde e filopapali e, perciò, emanò un’amnistia generale e si sbarazzò del cubicularius Paolo Afiarta, esponente di spicco della fazione filolongobarda. Adriano inviò Paolo a Pavia, in missione diplomatica, ma lungo il percorso, a Rimini, il cubicularius venne fatto arrestare, per ordine del papa, dall’arcivescovo di Ravenna, Leone (769-777), che lo mise subito a morte. La morte di Paolo Afiarta segnò il trionfo definitivo del partito filopapale, ma pregiudicò i rapporti tra la Santa Sede e i Longobardi, e quando Desiderio sferrò il primo attacco contro il ducato di Roma, nel 772, il papa non esitò a chiedere l’aiuto dei Franchi. Il papa invocò l’aiuto di Carlo, ricordando gli «antichi debiti» che la dinastia pipinide vantava nei confronti del papato romano, fin dall’epoca di papa Stefano II. Il pontefice richiamò Carlo anche ai doveri di protezione che su di lui, in quanto patricius Romanorum, incombevano nei confronti della Chiesa di Roma, contro tutti i suoi aggressori e non esitò a prospettare al re franco anche i vantaggi e le acquisizioni territoriali che ne sarebbero potuti derivare. In questa occasione, molto probabilmente, Adriano I addusse, a fondamento delle pretese pontificie sui territori italici, il «documento legale» poi rivelatosi (XV secolo) un falso della cancelleria pontificia redatto nell’VIII secolo: la Donazione di Costantino o Constitutum Constantini.

Miniatura raffigurante un emissario di papa Adriano I che chiede a Carlo Magno di difendere la Chiesa di Roma dai Longobardi di Desiderio, da un’edizione del romanzo noto come Ogier le Danois. Ante 1499. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria.

Carlo Magno a Roma

I Franchi invasero l’Italia e Pavia fu presa nel giugno del 774. Prima che la città cadesse, Carlo Magno si recò a Roma, in visita al pontefice, con cui trascorse la Pasqua. Il soggiorno a Roma consentí a Carlo di appianare ogni questione col pontefice circa la sorte dei territori italici conquistati dai Franchi. Adriano I ottenne, nel corso di una cerimonia celebrata in S. Pietro, il 6 aprile del 774, la cessione, confermata da un solenne giuramento – sacramentum terribile – di tutti i territori posti al di sotto di una linea immaginaria che andava da Luni, in Liguria, a Monselice, nel Veneto, passando sopra l’Appennino emiliano e lambendo, proprio a Monselice, i territori del ducato di Venezia, ancora in mano bizantina, mentre i territori ubicati a nord della linea immaginaria furono annessi alla compagine politica franca come Regnum Langobardorum, di cui re Carlo cinse la corona a Pavia, che continuò a essere sede della cancelleria e degli uffici dell’amministrazione centrale. Adriano, nel frattempo, aveva ottenuto anche la sottomissione del duca di Spoleto Ildeprando (773-789), da poco succeduto a Teodicio.

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Tuttavia, nel 779, cambiò idea e si sottomise direttamente al re Carlo che, nel 789, alla morte di Ildeprando, annesse il ducato di Spoleto, ponendovi a capo il franco Guinigi (789-823 circa). Tra il 780 e il 787, Adriano sollecitò l’intervento militare di Carlo Magno nel Mezzogiorno contro il principe di Benevento, Arechi II. Adriano lamentava le incursioni di Arechi ai danni di Terracina, Gaeta, Fondi e Formia, e affermava l’esistenza di pericolose alleanze del principe con l’imperatore bizantino, in funzione antipontificia e antifranca. Dalla lettura delle lettere inviate da Adriano a Carlo emerge l’uso di un lessico aggressivo, da parte della Santa Sede, verso Arechi e i Longobardi del Sud che sono sempre definiti con epiteti poco felici, quali pessimi, nefandissimi, horribiles. La «propaganda» pontificia riusciva a mascherare, sotto il manto della difesa della «cristianità» minacciata dai persecutori, i reali interessi politici, economici e militari che erano alla base della politica espansionistica di


Adriano I verso il Mezzogiorno. L’operazione ideologica, sottesa alla propaganda adrianea e alla costruzione del predetto lessico politico, è facilmente comprensibile se si considera che i Longobardi erano allora cristianizzati e ormai ossequienti all’obbedienza romana in materia di fede, oltre che ampiamente acculturati, in senso romanobizantino, dopo circa due secoli di permanenza in Italia.

Una rappresentazione falsata della realtà

Pertanto, dipingere i Beneventani e il loro principe, quasi si trattasse di un’orda germanica primitiva – come quelle che avevano determinato il tracollo dell’Impero romano in Occidente nel V secolo, o come i Longobardi all’epoca dell’invasione della Penisola (VI secolo) – non corrispondeva alla realtà storica dei tempi, significava «falsare» la realtà e piegare la stessa a esigenze di chiaro interesse politico. Alla fine, Carlo Magno venne a Roma per la Pasqua del 781. In questa occasione, il re franco

ottenne da Adriano l’incoronazione dei suoi figli: Ludovico (781-840), re dell’Aquitania, e Pipino (781-810), dell’Italia. Inoltre, il franco emise un altro documento ufficiale a favore del santo padre, dopo quello del 774. La nuova solemnis promissio determinava un sostanziale mutamento dell’assetto politico e territoriale italiano che, per quanto sgradito al pontefice, dati gli equilibri di forza, dovette essere necessariamente accettato. Le modifiche riguardarono, unicamente, i territori posti a sud di quella «fantomatica» linea Luni-Monselice, a cui si faceva riferimento già nella promessa del 774. I territori a nord di quella linea, infatti, continuarono a far parte integrante dei possessi franchi costituenti il Regnum Langobardorum, il cui titolo regio, tra l’altro, proprio in questa solenne occasione, era stato concesso da re Carlo al figlio Pipino. Salvo il possesso pieno del ducato di Roma, Adriano I otteneva l’Emilia, la Romagna e parte del (segue a p. 62)

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territorio marchigiano e umbro, non compreso nel ducato spoletino, che rientrò nella sfera d’influenza franca, ma privato della Sabina, del gastaldato di Rieti e dell’abbazia di Farfa donate al pontefice. Piú a sud, Carlo Magno fece dono al papa dei territori di Arce, Sora, Aquino, Capua e Teano – iustitiae Sancti Petri – che, tuttavia, facevano parte

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del principato di Benevento e che Arechi II si rifiutò di consegnare. Pertanto, dopo altre sollecitazioni del papa, Carlo discese in Italia nel 786, svernando a Firenze. Nella primavera del 787, mosse alla volta di Roma, ove trascorse la Pasqua con il pontefice e subito dopo marciò alla volta di Benevento. L’intervento franco fu rapido e si


Miniatura raffigurante Arechi II, duca e poi principe longobardo di Benevento, dal Codex Legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni, Abbazia della SS. Trinità. Genero di Desiderio, Arechi II riuscí a far sopravvivere il ducato alla conquista franca e successivamente a elevarlo a principato, anche se sotto la tutela di Carlo Magno. risolse senza dare battaglia. Le truppe franche, raggiunta Montecassino, marciarono alla volta del Sannio e occuparono Benevento, deviando poi su Capua, anch’essa facilmente occupata. Arechi II, fuggito a Salerno con la corte di fronte all’avanzata franca, inviò a Carlo ambasciatori per chiedere la pace e offrire la propria sottomissione. Il trattato di pace vero e proprio fu ratificato, piú tardi, a Salerno, alla presenza del principe, da una delegazione di ambasciatori franchi appositamente inviata da Carlo. Il principe riuscí a conservare il suo trono, impegnandosi a consegnare al pontefice le iustitiae, che però non restituí mai, e cosí Adriano, che tanto aveva sollecitato l’intervento dei Franchi nel Mezzogiorno, non ottenne né l’eliminazione del pericoloso avversario, né le concessioni territoriali agognate ai danni della Campania settentrionale e del principato di Benevento. L’unica concessione che riuscí a ottenere da Arechi fu la promessa di non aggredire i possedimenti pontifici laziali, di rispettare le tradizionali linee di confine e di non usurpare i diritti, le prerogative e i beni del patrimonio ecclesiastico nei suoi domini.

L’embrione del futuro Stato pontificio

Il bilancio politico e storico del pontificato di Adriano I fu, per la Santa Sede, decisamente positivo, escludendo l’insuccesso riportato dal papa nella sua politica verso il Mezzogiorno d’Italia, che continuò a gravitare, ancora per secoli, nell’orbita longobarda e bizantina. Adriano era infatti riuscito nel suo intento principale: abbattere la potenza longobarda in Italia con l’aiuto dei Franchi, scongiurando, cosí, una possibile unificazione politica della Penisola sotto la corona dei re di Pavia. Il pontefice, inoltre, aveva creato le premesse per la nascita di un saldo dominio – non solo spirituale, ma anche politico – del papato, su buona parte dell’Italia centro-settentrionale – Res publica Sancti Petri – nucleo originario del futuro Stato pontificio. Infatti, proprio durante il suo pontificato, Adriano acquisí il pieno controllo del ducato bizantino di Roma – già facente parte dell’esarcato – e cominciò a battere moneta propria, con relativa effigie pontificia e monogramma, mentre gli atti di governo, redatti dalla cancelleria pontificia, cessarono di essere datati secondo gli anni di regno dell’imperatore bizantino, ma con quelli di pontificato del papa in carica. Il dux bizantino, preposto al governo del territorio laziale, fu, molto probabilmente, destituito o, cosa piú certa, una volta cadute le ultime speranze di riacquisire il controllo politico e militare dell’Italia, con la conquista carolingia, fu «richiamato» a Costantinopoli. Attraverso l’alleanza con i Franchi, Adriano pose quindi le premesse indispensabili per ciò che si sarebbe realizzato appena cinque anni dopo la sua morte, ma a opera di un altro pontefice, Leone III (795-816): la restaurazione dell’autorità imperiale nell’Occidente europeo.

Liutprando riveste un’importanza fondamentale nella storia del regno longobardo anche sotto il profilo giuridico, perché emanò 153 capitoli integrativi dell’Editto di Rotari. Nel Prologo introduttivo della sua legislazione, il re si definí princeps christianus et catholicus, che, come il re d’Israele Salomone, agiva per volontà e ispirazione divina, e per il bene di tutti sudditi. Se si esamina la sua legislazione, ci si accorge subito dell’accoglienza, da parte del re, di valori e di principi nuovi, di origine decisamente cattolicoromana. A parte i continui riferimenti al re cristiano e cattolico, alla provvidenza divina ispiratrice delle leggi, molte norme e molti istituti, dal diritto familiare alle successioni, dalla schiavitú alla disciplina della condizione delle persone, appaiono decisamente ispirati a un sistema valoriale diverso da quello degli antichi Germani invasori. Si pensi, per esempio, alle norme che tutelavano donne, minori, che proibivano la vendita degli schiavi al di fuori del territorio del regno, che interdivano brutalità contro i debitori insolventi. Liutprando, inoltre, sottopose a revisione molte delle antiche consuetudini longobarde e le abrogò, perché apparivano contrarie allo spirito e alla lettera della legislazione scritta, molto piú al passo coi tempi. Tuttavia, in alcuni casi, il re dovette cedere alla prassi sociale che era cosí diffusa da impedire interventi legislativi troppo radicali, come nel caso del duello – nota ordalia – riguardo al quale Liutprando dichiarò di non poterlo abolire, sebbene lo ritenesse un istituto ingiusto e incompatibile con i principi cristiani.

Costruttore di chiese

Liutprando fu anche un munifico costruttore di chiese: a Pavia edificò la chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro, la cappella palatina di S. Salvatore, la chiesa di S. Adriano e, a Milano, la chiesa di S. Giorgio in Palazzo e quella di S. Maria di Aurona. La cappella palatina, dedicata a san Salvatore, inserita nel corpo di fabbrica del palazzo regio, ormai scomparsa, era destinata al personale religioso di corte e allo svolgimento delle funzioni liturgiche interne al palazzo. La splendida chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro, tuttora esistente, a cui fu annesso un cenobio, fu destinata anche a ospitare le reliquie di sant’Agostino, che Liutprando aveva voluto fossero traslate dalla Sardegna, intorno al 715, affinché non cadessero nelle mani dei Saraceni. Nel 744, morto Liutprando, gli successe il nipote, Ildeprando, che, sgradito all’aristocrazia longobarda, fu deposto dopo pochi mesi. Al suo posto, fu incoronato Ratchis, duca del Friuli e figlio di LONGOBARDI

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Pemmone, il duca ribelle che Liutprando aveva deposto, risparmiandogli però la vita, purché cedesse il potere al figlio. Divenuto re, Ratchis cedette il ducato al fratello Astolfo, ma il suo regno fu breve; nel 749, fu costretto a farsi monaco a Montecassino, a causa di una ribellione della nobiltà longobarda che non tollerava l’eccessiva arrendevolezza del re verso il papa e i Bizantini. La sua opera politica è condensata in due importanti fasi: l’integrazione dell’Editto di Rotari, attraverso l’emanazione di nuovi capitoli legislativi, e l’attacco all’esarcato, nel 749. Fu quest’ultima azione militare fallimentare a far perdere al re autorevolezza e, di conseguenza, il potere. Ratchis attaccò Ravenna, Classe e Perugia, penetrando a fondo nel territorio bizantino, ma, alla fine, poiché non riusciva a conseguire successi militari durevoli, si fece persuadere dal papa a evacuare i territori occupati, restituendoli ai Bizantini. Poco dopo abdicò, lasciò la corona al fratello Astolfo e si ritirò a Montecassino; la consorte, Tassia, di origine romana, e la figlia Rotrude, si fecero a loro volta monache e si ritirarono nell’abbazia di Plumbariola presso Cassino.

Attacco all’esarcato

Divenuto re, Astolfo cedette il governo del ducato friulano al cognato Anselmo († 803). Con piglio ben diverso da quello del fratello, Astolfo riprese una politica di aggressione ai domini bizantini; nel 751, sferrò un attacco contro l’esarcato e ne occupò tutto il territorio residuo, compresi la capitale, Ravenna, e il suo porto, Classe, mentre l’ultimo esarca, Eutichio (726751), fuggí a Bisanzio e il territorio dell’esarcato fu annesso al regno. Occupate l’Emilia, la Romagna, l’Umbria e le Marche, non restava che il Lazio: solo il ducato di Roma conservava la sua indipendenza. Da questo momento in avanti, il pontefice ritenne essere di sua esclusiva competenza la difesa dell’indipendenza politica del Lazio, perché ciò costituiva la condizione necessaria a garantire l’autonomia stessa del papato. Nel 753, Astolfo ingiunse al papa, Stefano II (752-757), di sottomettersi immediatamente e impose al popolo del ducato romano il pagamento di una capitazione di un solido aureo per abitante. Davanti a tanta ostilità e fallito ogni tentativo di ottenere, per vie diplomatiche, una restituzione dei territori sottratti, il papa decise di intraprendere un viaggio a Pavia, per perorare davanti al re la sua causa. Ma l’incontro con Astolfo non si verificò, il re si rifiutò di ricevere il pontefice e Stefano preferí recarsi in Francia, per chiedere l’aiuto del re dei Franchi, Pipino il Breve (741-768). 64

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Stefano II fu «costretto» a rivolgersi ai Franchi, anche perché nessun aiuto effettivo poteva sperare dall’impero d’Oriente con cui il papato, da circa cinquant’anni, era in pessimi rapporti per ragioni teologico-disciplinari (vedi box a p. 58). Il papa raggiunse Parigi nel gennaio del 754, rimanendovi, ospite del re dei Franchi, fino alla fine dell’estate. Nei mesi di permanen-


Incontro di Ratchis e di Papa Zaccaria, olio su tela di Francesco Solimena. 1701-1705 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. L’episodio ebbe luogo nel 749 a Perugia, quando il pontefice convinse il re longobardo a rinunciare alla spedizione avviata dopo avere rotto i precedenti accordi di pace. za alla corte di Pipino, il re dei Franchi e il pontefice posero le basi di quella duratura e ferrea alleanza, tra trono e altare, che avrebbe determinato il corso della politica italiana e il destino del regno longobardo. Con gli accordi di Ponthion, siglati tra Pipino e papa Stefano II, si crearono i presupposti di un primo intervento militare franco nella Penisola,

in funzione anti-longobarda, a pieno sostegno delle ragioni del papato. In previsione di una sconfitta di Astolfo, a Ponthion si stabilí che tutti i territori, un tempo appartenuti all’esarcato bizantino e conquistati dai Longobardi, posti a sud di una linea immaginaria che collegava Luni, in Liguria, a Monselice, nel Veneto, sarebbero spettati al pontefice, che, in cambio, LONGOBARDI

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avrebbe incoronato Pipino re dei Franchi, e avrebbe attribuito il titolo di «patrizio dei Romani» al re e ai suoi figli. L’incoronazione di Pipino e l’unzione dei figli avvennero a Saint-Denis, nel luglio del 754. Prima di proseguire, s’impone una precisazione: i Longobardi che i Franchi si apprestavano a combattere e a debellare nell’VIII secolo non erano piú i «barbari» del VI secolo, al di là di quel che sosteneva, a scopo propagandistico, il papato, al fine di sollecitare l’intervento franco nella Penisola. E ciò non solo per l’avvenuto completamento del processo di acculturazione in senso romano-cattolico della stirpe germanica, ma anche perché, attraverso matrimoni misti – ufficialmente non proibiti dall’Editto di Rotari – si era realizzata anche la completa fusione biologica con i Romani, per cui non era piú possibile distinguere una stirpe «longobarda» da una «romana». All’interno del regno, alle antiche contrapposizioni etniche se ne erano sostituite altre, di carattere sociale – tra possidenti terrieri e nullate-

nenti, agricoltori e commercianti – e, con il termine di «Romani», nelle fonti dell’epoca, si indicavano soltanto i sudditi dell’impero d’Oriente – eventualmente abitanti nei territori dell’esarcato o nel Mezzogiorno ancora bizantino – e gli ecclesiastici. Mentre erano in corso le trattative tra Pipino e il papa, Astolfo tentava di nuocere a entrambi. Il re inviò in Francia Carlomanno, fratello di Pipino, che nel 747 aveva abbandonato il potere e si era fatto monaco a Montecassino, al fine ufficiale di perorare la causa sua e dei Longobardi, ma, in realtà, per creare fastidi e incertezze. Pipino, invece, catturò il fratello e lo relegò nel monastero di Vienne, dove morí poco dopo. Il re dei Franchi, quindi, accettata la richiesta di aiuto del papa e ottenuta l’approvazione dell’aristocrazia alla spedizione italiana, nella primavera del 755 intervenne in Italia e sconfisse 66

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in Val di Susa Astolfo, che si rinchiuse a Pavia e si arrese poco dopo. Il sovrano longobardo accettò di adempiere agli accordi di Ponthion riguardo alla cessione dei territori dovuti al papa e Pipino non si curò minimamente delle pretese, pur legittime, che sugli stessi aveva l’impero bizantino.

L’ultimo re longobardo

Il re dei Franchi intervenne di nuovo in Italia nel 756, a causa del rifiuto del re longobardo di adempiere ai patti dell’anno precedente, ma Astolfo fu nuovamente sconfitto e dovette sottostare a condizioni di pace molto piú dure. Oltre a restituire al pontefice i territori dovuti, fu costretto a consegnare ai Franchi un terzo del tesoro regio e a pagare un tributo. Astolfo morí in quello stesso anno e la sua morte improvvisa rallentò ancora di piú la messa in atto dei trattati e la cessione al pontefice dei territori contesi. Al trono fu chiamato Desiderio (756-774), di origine bresciana, destinato a essere l’ultimo re dei Longobardi,

prima della conquista franca della Penisola. Dalla moglie Ansa, figlia del nobile Verissimo, ma probabilmente di origine longobarda e non romana, Desiderio ebbe molti figli: Adelchi, che egli associò subito al trono, nel 759, designandolo alla successione, Anselperga, Adelperga, Gerperga, Liutperga e un’altra di cui si ignora il nome, ma che la tradizione ricorda con quello di Desiderata o Ermengarda. Anselperga fu destinata dal padre a diventare la prima badessa del monastero di S. Salvatore edificato a Brescia, intorno al 753, su terreni di proprietà della famiglia. Il monastero fu dotato di molti beni, grazie ad alcune donazioni di Verissimo, padre di Ansa, e dei suoi fratelli, Arechi e Donnolo. Le altre figlie del re furono tutte sacrificate sul terreno dell’alta diplomazia paterna, destinate a sposare illustri protagonisti


della politica dell’epoca. Salito al potere, Desiderio fu costretto a combattere una breve guerra civile fomentata dal papato. Stefano II, infatti, assieme a una parte dell’aristocrazia longobarda ostile a Desiderio, riconobbe le pretese regali di Ratchis, il sovrano un tempo deposto, che viveva come monaco a Montecassino. Abbandonato il monastero, Ratchis raggiunse Pavia e si proclamò re, ma fu sconfitto nel 757 e costretto a tornare alla vita religiosa. Desiderio, da quel momento, agí con fermezza anche contro qualsiasi tentativo di ribellione dei suoi duchi. Nel 758, il re condusse due vittoriose spedizioni militari, a Spoleto e a Benevento. A Spoleto, depose Alboino, duca a lui sgradito e che gli Spoletini si erano dati dopo la morte di Astolfo.

Lo spoils system di Desiderio

Al posto di Alboino – dopo una breve reggenza del sovrano – fu imposto Teodicio († 773). A Benevento, Desiderio depose il duca Liutprando, in carica dal 751, perché sospet-

La croce astile (processionale) detta «di Desiderio», in legno rivestita da lamina d’oro con un’esuberante decorazione di pietre dure, paste vitree, cammei e medaglioni di epoca romana, longobarda e carolingia. Età carolingia (fine VIII-IX sec.), con integrazioni apportate tra il IX-X e il XVI sec. Brescia, Museo di Santa Giulia.

Nella pagina ad accanto l’assetto inadempienze contribuirono alimentare geopoliticoNel della penisola italiana le tensioni con il papato. 768, il re longonei duecento cui venne quasi bardo fu anche in gradoanni diincondizionare controllata dai Longobardi, l’elezione diinteramente un pontefice, intervenendo, che riuscirono a conquistare anche la d’autorità, in uno scisma papale. Pentapoli Nel 767, morto Paolo I, fu eletto pontefice un città laico, Costantino(laII,provincia fratellocomprendente del duca dile Nedi Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia pi, Totone, esponente dell’aristocrazia roma-e strappandola ai Bizantini. na. L’elezione fuAncona), irregolare e questo spinse parte del clero e della nobiltà romana a richiedere l’intervento del re longobardo, per consentire elezioni regolari. Le milizie del duca di Spoleto, Teodicio, guidate da un presbitero di origine longobarda, Valdiperto, occuparono Roma nel 768, deposero Costantino II e imposero, come papa, un oscuro monaco del monastero di S. Vito sull’Esquilino, Filippo, ma, poco dopo, fu anch’egli deposto e il duca di Spoleto costretto ad abbandonare Roma. Le elezioni canoniche portarono al trono di Pietro, Stefano III (768772). Sotto questo pontefice, i rapporti tra Desiderio e il papato conobbero una ulteriore degenerazione: il nuovo papa sollecitò, ancora una volta, la consegna dei territori esarcali che gli erano dovuti, ma Desiderio non gli diede ascolto.

L’Urbe in tumulto

tato di complottare ai suoi danni, d’intesa con i Bizantini. Liutprando fuggí a Otranto e morí poco dopo. Come duca di Benevento fu insediato Arechi II (758-787), genero del sovrano. Con queste due spedizioni militari, Desiderio si era assicurato la fedeltà di alcuni dei piú importanti duchi longobardi. Al di là di queste imprese coronate da successo, il re longobardo iniziò il suo regno avviando una politica di distensione con la Santa Sede e impegnandosi a restituire a essa i territori conquistati da Astolfo, in attuazione degli accordi di pace del 756, stipulati con Pipino. Nel 763, infatti, concluse un trattato con il papa Paolo I (757-767), con cui si impegnò a cedere i territori esarcali, ma, in realtà, la promessa non fu rispettata, se si escludono le restituzioni di Comacchio, Ferrara, Faenza e alcune località di Umbria e Marche di secondaria importanza. Queste

Intanto, anche la vita politica romana viveva un’esasperazione: a Roma, infatti, si erano costituite due potenti fazioni, una filofranca e l’altra filolongobarda, che non esitavano a sviluppare la contesa politica con metodi violenti. Il partito filofranco era guidato da Costantino e dal figlio Sergio, quello filolongobardo da Paolo Afiarta. Si trattava di esponenti dell’aristocrazia romana, che rivestivano cariche amministrative nella burocrazia pontificia. Costantino e Sergio erano, infatti, primicerio dei notai e arcario pontificio, mentre Paolo Afiarta era cubiculario. Nel 771, la conflittualità dei partiti raggiunse il culmine e, durante una visita di re Desiderio a Roma, per trattare con il papa la consegna dei territori dovuti, esplose la rivolta in città: gli opposti partiti si affrontarono per strada e Paolo Afiarta riuscí a far assassinare prima Costantino e poi Sergio, e gli accordi siglati tra il papa e Desiderio furono disattesi. Ma l’ambizione del sovrano continuava a suscitare problemi e inimicizie. Intorno al 770, Desiderio avviò una politica diploma(segue a p. 71) LONGOBARDI

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Liutprando

I FRANCHI E LA NASCITA DI UN IMPERO Piatto di legatura in avorio decorato con scene relative a san Remigio e al re Clodoveo. IX sec. Amiens, Museé de Picardie.

I Franchi si stanziarono definitivamente in territorio romano agli inizi del V secolo d.C., trasmigrando dalla riva destra del Reno a quella opposta, nella provincia della Gallia Belgica Secunda. Uno dei primi re, documentato con relativa certezza, fu Faramondo, morto intorno al 426, al quale successe il figlio, Clodione (426-448), padre di Meroveo (448-458), suo successore e fondatore dell’omonima dinastia, destinata a reggere le sorti di questo popolo fino all’VIII secolo, quando fu soppiantata da quella dei Pipinidi o Carolingi. Agli inizi del VI secolo, sotto la guida del re Clodoveo (481-511), i Franchi riuscirono a conquistare il territorio dell’intera Gallia, cacciandone – o sottomettendo – le altre stirpi «barbare» che l’avevano occupato. Nel 491, Clodoveo sconfisse i Turingi, costringendoli a ripiegare oltre il Reno e, nel 496, fece guerra agli Alemanni che batté a Tolbiacum (l’odierna Zülpich, in Germania). Poco prima – o qualche anno dopo – Clodoveo si convertí al cattolicesimo, si fece battezzare e ungere re nella cattedrale di Reims, dal vescovo Remigio († 533). Nel 507, a Vouillé, nella valle della Loira, Clodoveo sconfisse i Visigoti, costringendoli a ripiegare oltre i Pirenei. Alla sua morte, nel 511, il regno franco fu diviso tra i

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quattro figli che, sebbene in pessimi rapporti reciproci, continuarono la politica del padre di espansione verso la Germania transrenana. Nel corso del VI secolo, il regno franco ritrovò la sua unità solo con Clotario I (558-561), per poi ridividersi in compagini distinte – Neustria, Austrasia, Aquitania, Borgogna – perennemente in lotta tra loro. Agli inizi del VII secolo, sotto il regno di Clotario II (613-629) e del figlio, Dagoberto I (629-639), la dinastia merovingia espresse gli ultimi sovrani capaci di ripristinare l’unità del regno, ma, nella seconda metà del secolo, si rafforzò il regno di Austrasia – che si estendeva dalla Senna al Reno, con capitale Metz – grazie anche al ruolo preponderante assunto dal maggiordomo di palazzo, o «gran ciambellano», che ricopriva le funzioni di vero e proprio «primo ministro». Tale carica divenne patrimonio della stirpe franca dei Pipinidi, dal nome del suo capostipite, Pipino I di Landen († 645 circa) – il Vecchio – che disponeva di enormi possessi fondiari nell’attuale Belgio, presso le località di Landen ed Héristal, da cui la famiglia proveniva. Suo nipote, Pipino II di Héristal, maestro di palazzo di Austrasia, nel 687, a Tertry, in Piccardia, sbaragliò i Neustriani, riunificando i due regni – e la Borgogna – sotto la potestà del re di Neustria, Teoderico III (675-691). Il regno franco tornò allora unito, ma la figura dei re merovingi divenne puramente simbolica, privata di ogni potere dal maggiordomo di palazzo, ufficio che, ormai, era monopolio esclusivo dei Pipinidi. Nel 714, morto Pipino II, dopo circa un quinquennio di guerre civili, Carlo – detto «Martello», cioè «piccolo Marte» – figlio illegittimo di Pipino II e della concubina Alpaide († 718), riunificò definitivamente il regno, si nominò maestro di palazzo e impose come sovrano un esponente merovingio, Clotario IV. Nel 719, morto Clotario IV, gli subentrò Teoderico IV e alla sua morte, nel 737, Carlo Martello governò di fatto come re di Austrasia e Neustria, non designando un nuovo sovrano.

La vittoria di Poitiers

Nel frattempo, Carlo aveva consolidato le frontiere del regno, sottomettendo gli Aquitani e sconfiggendo gli Arabi a Poitiers, il 17 ottobre del 732. Al di là di improprie mitizzazioni, la vittoria interruppe, seppur momentaneamente, le incursioni dei musulmani dell’emirato di Cordova in Francia. Oltre il Reno, Carlo sottomise i Frisoni e impose un tributo anche ai Sassoni. Alla sua morte, nel 741, il regno fu diviso tra i figli Pipino – detto «il Breve» – e Carlomanno († 754) – nominati entrambi maestri di palazzo. Nel 743, Pipino nominò re il merovingio Childerico III, tentando di ripristinare un’apparente monarchia, ormai esautorata di ogni potere, e, nel 747, dopo il ritiro del fratello a Montecassino, divenne unico maestro di palazzo. Alle soglie del 750, Pipino appariva al culmine del suo potere: aveva sottomesso l’Aquitania, respinto ulteriori incursioni degli Arabi al di là dei Pirenei e consolidato la posizione del regno franco nei territori germanici. Sassoni e


Il regno dei Franchi nel 581 Colonia Tournai

Thérouanne

Liegi

Arras

Rouen Bayeux Coutances

Noyon

Beauvais Senlis

Evreux

Vannes Nantes

L’assetto geopolitico della Francia nel 581, divisa tra tre reami che prendono il nome dalle rispettive città capitali: d’Orléans (verde), di Reims (blu) e di Soissons (arancione). Il regno franco fu poi riunito con Clotario II (613-629), che pose la capitale a Parigi.

Reims

Toul

Bourges

Nevers

Autun

Basilea Besançon

Chalon

Poitiers

Mâcon

Bordeaux Bazas

Dax

Agen

Aire Eauze Béarn

Oloron

Comminges

Sion

Ginevra Belley

Lione

Clermont

Montieurs Velay

Périgeux

Strasburgo

Langres

Auxerre

Tours

Angoulême

Verdun

Sens

Orlèans

Limoges

Spira

Metz

Troyes

Le Mans Angers

Saintes

Treviri

Châlons

Chartres Rennes

Laon

Soissons

Parigi

Avranche Sées

Mayences Worms

Cambrai

Amiens

St-Jean-de-Maurienne

Vienna Grenoble Le Puy Die Gap Valence Javols Viviers Embrun St-Paul Sisteron Cahors Rodez Digne Orange Glandeves Albi Apt Riez Nizza Vence Tolosa Arles Fréjus Aix Marsiglia

Tolone

Couserans

Regno d’Orléans

Regno di Soissons

Metropoli provinciale

Regno di Reims

Diocesi

Provincia ecclesiastica

Frisoni, infatti, pagavano un tributo, mentre gli Alemanni – ribellatisi nel 746 – furono battuti. Nel 748, anche il ducato di Baviera rientrò nell’orbita franca, con l’ascesa al trono di Tassilone III (748-788). Pertanto, il maestro di palazzo ritenne giunto il momento per fare il «gran salto» e, nel 751, convocata un’assise a Soissons, alla presenza dell’aristocrazia del regno, si proclamò re e decretò la deposizione di Childerico, che fu internato in un monastero, dove poco dopo morí. Dopo secoli, terminava la dinastia merovingia, estromessa da ogni potere con un atto politicamente meditato e concordato con la massima istituzione morale e spirituale del tempo: il papato. Poco prima della deposizione

di Childerico, infatti, Pipino aveva inviato una delegazione a papa Zaccaria (741-752), guidata dai vescovi Fulrado di SaintDenis e Burcardo di Würzburg. Attraverso i suoi inviati, Pipino chiese al papa se il potere spettasse a chi realmente lo esercitava – come lui sosteneva – o a chi lo rappresentava in modo simbolico e fittizio. La risposta del papa fu favorevole a Pipino e cosí, secondo l’usanza vigente fin dall’epoca di Clodoveo, fu unto re e incoronato a Reims dal vescovo di Magonza, san Bonifacio († 754). Nel 754, il papa, Stefano II, lo consacrò re dei Franchi e patrizio dei Romani e l’alleanza tra Franchi e Santa Sede appariva, ormai, piú salda che mai. (segue a p. 71)

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Miniatura raffigurante il re franco Pipino il Breve, dal Codex legum Langobardorum. XI sec. Cava dei Tirreni (Salerno), Biblioteca dell’Abbazia della SS. Trinità.

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Liutprando


Pipino, con la sua politica, creò le premesse per il successo del figlio, Carlo, che, morto il fratello, nel 771, riuní nelle sue mani tutto il potere. Carlo avviò una politica di espansione su scala europea e, sottomessa l’Italia, dopo aver annientato il regno longobardo, puntò a est, alla Germania, deciso a piegare i Sassoni, che anche suo padre aveva combattuto. Ancora nell’VIII secolo, i Sassoni erano Germani che ignoravano l’organizzazione monarchica ed erano totalmente pagani. Costituivano una confederazione di quattro tribú – Vestfali, Engri, Ostfali e Nordalbingi – stanziate nella Germania settentrionale, ciascuna con proprie assemblee e magistrature e prive di re, con un capoluogo confederale a Marklo, sul fiume Weser. Solo in guerra, eleggevano un capo assoluto, con poteri limitati alla durata della guerra stessa. La prima spedizione contro i Sassoni, nel 772, non portò grandi frutti, pertanto Carlo ritenne opportuno attaccarli nuovamente nel 776 e, questa volta, con l’uso di una violenza spietata, impose il battesimo e la «conversione». Nel 778, il re franco decise di oltrepassare i Pirenei per tentare la fortuna in Spagna – sotto dominio musulmano dal 711 –, ma gli «infedeli» respinsero il suo esercito sotto le mura di Saragozza e la stessa retroguardia carolingia fu massacrata dai montanari baschi presso il passo di Roncisvalle, dove perí anche il prefetto della marca britannica, Rolando. Fallita l’occupazione della Catalogna, Carlo si rivolse a est, dove covavano fermenti di rivolta.

Rivolte e lotte intestine

Tra il 782 e il 785, Carlo combatté contro i Sassoni, che si erano ribellati sotto la guida di un capo locale, Vitichindo, dopo aver massacrato un intero esercito franco. La rivolta fu domata nel 785, ma il re dovette subito misurarsi con un nuovo problema, la ribellione del ducato di Turingia, che fu repressa nel 786. Carlo si occupò anche di un’altra importante questione concernente la presunta infedeltà del duca Tassilone III di Baviera, suo cugino e anche genero del deposto Desiderio, perché marito della figlia Liutperga. Tassilone fu accusato di intese segrete con gli Avari e persino con Adelchi, il figlio di Desiderio che soggiornava a Costantinopoli, e con l’altro cognato, Arechi II di Benevento. Papa Adriano I, sollecitato da Carlo, scomunicò il duca bavaro, legittimando, in tal modo, una vera e propria «guerra santa» contro di lui. Nel 788, vinto in battaglia, Tassilone fu definitivamente deposto durante la dieta di Ingelheim e deportato in un monastero in Francia, dove morí anni dopo. Carlo affidò la Baviera al franco Geroldo. Tra il 791 e il 796, il re annientò anche gli Avari, annettendone il territorio e trasformandolo in Ostmark, la «Marca orientale», corrispondente alle attuali Austria, Ungheria, Croazia e Slovenia. Ma la fame di conquiste del franco non era appagata, soprattutto dopo che il pontefice, Leone III (795-816), la notte di Natale dell’800 gli aveva concesso il titolo di imperator. E cosí, tra il 795 e l’801, Carlo occupò anche la Catalogna, che fu poi trasformata in una marca di confine, con capitale Barcellona, annessa alla contea di Tolosa e alla Settimania, attuale Linguadoca-Rossiglione. Alla morte dell’imperatore – il 28 gennaio dell’814 – i Franchi dominavano un territorio esteso circa un milione e mezzo di kmq e popolato da circa venti milioni di sudditi.

tica, a livello europeo, cercando di tessere, anche attraverso opportuni matrimoni, vaste alleanze politiche, tali da consentire al regno longobardo di evitare qualsiasi forma di isolamento internazionale, in vista di una guerra contro il papato. Una delle figlie di Desiderio, Adelperga († 808 circa), fu data in sposa al duca di Benevento, Arechi II, ma ne restavano altre tre che non avrebbero tardato a trovare un marito. Due delle figlie di Desiderio, Gerperga e Liutperga, furono date in sposa, rispettivamente, a Carlomanno, re dei Franchi (768771), figlio di Pipino, e a Tassilone III (748788), duca di Baviera. Un’altra figlia del re, di cui si ignora il nome, fu data in sposa a Carlo (768-814), re dei Franchi – poi detto «Magno» – e fratello di Carlomanno. Il matrimonio di Carlo e Carlomanno, figli di Pipino, fu fortemente voluto dalla loro madre, Bertrada († 783), ma recò danno ai rapporti, fino ad allora buoni, che i Pipinidi avevano avuto con il papato. La reazione del pontefice, infatti, non fu certo favorevole, in quanto la scelta di Desiderio di questi importanti consorti per le sue figlie, non era casuale, poiché questi matrimoni servivano a creare una rete di alleanze che, nei disegni del re longobardo, avrebbero dovuto, molto probabilmente, in caso di una guerra con la Santa Sede, neutralizzare interventi esterni nelle faccende politiche italiane, come quelli che si erano verificati all’epoca di re Astolfo e di re Pipino. Il gioco diplomatico intessuto da Desiderio non andò a buon fine, perché gli eventi giocarono a suo sfavore: Carlomanno morí nel 771 e la moglie Gerperga fu costretta, in un clima politico fattosi difficile in Francia, a fuggire in Italia dal padre, assieme ai suoi figli e ad alcuni sodali del marito.

La consorte ripudiata

Carlo, nel frattempo, assumeva i pieni poteri e il controllo anche di quella parte del regno franco che era appartenuta al fratello. La sposa di Carlo, invece, di cui non conosciamo il nome, fu ripudiata nel 772 – ufficialmente perché incapace di partorire un erede al sovrano – e rimandata in Italia. Il ripudio contribuí a deteriorare i già precari rapporti esistenti tra il re franco e quello longobardo, poiché i figli di Carlomanno, pericolosi pretendenti al trono franco, erano fuggiti in Italia, sotto la protezione di Desiderio, che si faceva garante delle loro pretese dinastiche. I rapporti tra la corte longobarda e quella franca non tardarono a dare i loro pessimi frutti e, nel 772, Desiderio colse un pretesto per attaccare il Lazio e i possedimenti pontifici. Il cubiculario LONGOBARDI

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Carlo Magno incoronato re d’Italia a Milano, 774, olio su tela di Claude Jacquand. 1837. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon. Nel 774, mentre era ancora in corso l’assedio di Pavia, il sovrano si recò a Roma, dove ribadí ad Adriano I le promesse sulle «restituzioni» territoriali fatte nel 754 dal padre Pipino. pontificio, Paolo Afiarta, capo del partito filolongobardo di Roma, fu ucciso in circostanze misteriose e il sovrano, probabilmente a ragione, ne ritenne responsabile il nuovo pontefice, Adriano I (772-795) che, di fronte alla minaccia dei Longobardi di invadere il ducato di Roma, non esitò a invocare l’aiuto di re Carlo, ricordando il debito di riconoscenza che la dinastia Pipinide aveva nei confronti del papato, fin dall’epoca di Stefano II (vedi box alle pp. 60-63).

Due eserciti scendono in Italia

Nel 773, Carlo invase l’Italia, dopo il rifiuto del re Desiderio di accogliere le sue proposte di pace, consistenti nella restituzione al papa dei possedimenti territoriali occupati – esarcato e pentapoli, marittima e urbana – e nell’accettazione, come risarcimento, di un compenso di quattordicimila denari. Ben due eserciti penetrarono in Italia: uno, al comando dello stesso Carlo, attraverso il passo del Gran San Bernardo, e un altro, comandato dallo zio del re, Bernardo, attraverso il passo del Moncenisio. Grazie all’azione di Bernardo, che travolse le difese longobarde e minacciò di accerchiare le truppe di Desiderio, che resistevano contro quelle di Carlo, presso le Chiuse, in Val di Susa, i Longobardi, colti alla sprovvista, ripiegarono su Pavia e su Verona. Desiderio si rinchiuse a Pavia e il figlio Adelchi a Verona, e, mentre venivano occupati i centri minori della Pianura Padana, il grosso dell’esercito franco pose l’assedio alla stessa capitale longobarda e, poco dopo, a Verona. Alla fine del 773, Verona capitolò e Adelchi, figlio di Desiderio, fuggí a Costantinopoli, con il tesoro regio, mentre Pavia cadde solo nel giugno dell’anno successivo. A Verona, Carlo catturò anche la vedova del fratello Carlomanno, Gerperga, i figli di costei e i fedeli del marito, che furono inviati in Francia. Nell’estate del 774, Pavia si arrese e Carlo fece prigioniero Desiderio che, con i suoi, fu molto probabilmente deportato in Francia, dove morí in un monastero, forse a Corbie. Carlo, quindi, assunse ufficialmente, e con il consenso papale, il titolo di rex Francorum et Langobardorum, ponendo formalmente fine al regno dei Longobardi in Italia (vedi box alle pp. 68-71). 72

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Italia Langobardorum

LE SETTE «CAPITALI» DELLA LANGOBARDIA I LUOGHI DEL SITO UNESCO si indicava la parte di proprietà La presenza dei Longobardi in Italia è Castelseprio riservata all’uso del signore. oggi testimoniata da numerosi Cividale del Friuli Torba L’età longobarda ha dunque monumenti e, nel tempo, ha trovato costituito un capitolo importante riscontro anche nelle altrettanto Brescia nella nostra storia nazionale e i numerose testimonianze LANGOBARDIA centri che maggiormente la archeologiche riportate alla luce in MAIOR rappresentano sono riuniti nel sito tutte le aree che furono teatro Campello sul Clitunno seriale «I Longobardi in Italia. del loro insediamento. Monte I luoghi del potere (568-774 d.C.)», A questo ricco patrimonio si deve Spoleto Sant’Angelo che, nel 2011, ha ottenuto il inoltre aggiungere il prezioso Benevento riconoscimento ufficiale da parte contributo offerto dalla dell’UNESCO. Gestito toponomastica: esistono infatti varie LANGOBARDIA dall’Associazione Italia categorie di nomi di città che sono MINOR Langobardorum, nata nel 2008, il indizio della presenza longobarda. sito seriale riunisce quelle che sono Uno dei casi piú comuni è quello considerate le piú importanti delle molte «fara» attestate nella testimonianze monumentali Penisola (Fara Sabina, Farra d’Isonzo, longobarde esistenti sul territorio solo per fare qualche esempio), il cui italiano, dal Nord al Sud della nome deriva dal vocabolo con cui si Penisola, laddove si estendevano i indicava la cellula di base del domini dei piú importanti ducati sistema sociale longobardo. Altri longobardi. Ecco quindi la lista di questi «maginifici sette»: esempi sono quelli dei nomi in cui compare la parola «sala» l’area della Gastaldaga con il Tempietto Longobardo e il e quelli che terminano con il suffisso «-engo». Complesso Episcopale a Cividale del Friuli (Udine); l’area È stato anche individuato il caso di singoli quartieri monumentale con il complesso monastico di S. all’interno di una città, che corrispondono alle zone Salvatore-S. Giulia a Brescia; il castrum con la Torre di occupate dai Longobardi: il Cordusio di Milano o la Cortalta Torba e la chiesa di S. Maria foris portas a Castelseprio di Verona sono entrambi derivati di «corte», il luogo in cui Torba (Varese); la basilica di S. Salvatore a Spoleto risiedeva il signore e attorno al quale si stabiliva la (Perugia); il Tempietto del Clitunno a Campello sul comunità. Un’altra fonte possono essere i nomi di Clitunno (Perugia); il complesso di S. Sofia a Benevento; il istituzioni o usanze legate all’organizzazione fondiaria: la santuario di S. Michele a Monte Sant’Angelo (Foggia). città di Sondrio trae il suo nome da sunder, termine con cui

CIVIDALE DEL FRIULI

Il Tempietto Longobardo è uno tra gli edifici piú complessi e originali della tarda età longobarda. Il ricco apparato decorativo che lo caratterizza ne fa una delle piú splendide e ambiziose commissioni dell’VIII secolo. Insieme alla chiesa palatina di S. Giovanni, il Tempietto era adiacente al polo paleocristiano di S. Maria, divenuta chiesa episcopale nella tarda età longobarda. Il Complesso Episcopale, rinnovato dal patriarca Callisto, era costituito da un insieme di edifici: la Basilica, il Battistero di S. Giovanni Battista e il Palazzo Patriarcale. Dal Battistero provengono due tra le piú importanti opere della produzione scultorea longobarda: il Tegurio di Callisto, un’edicola ottagonale che copriva il fonte battesimale, e l’Altare di Ratchis, unico manufatto di età longobarda sul quale sia raffigurato un tema narrativo di carattere biblico. 74

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Cividale del Friuli. Area della Gastaldaga


BRESCIA

Il complesso di S. Salvatore-S. Giulia, oggi sede del Museo della Città, è uno straordinario palinsesto architettonico che ingloba il monastero femminile edificato dal duca di Brescia Desiderio nel 753, prima di diventare re. La chiesa di S. Salvatore è tra le testimonianze piú importanti dell’architettura religiosa altomedievale conservata in alzato. L’apparato ornamentale con stucchi e affreschi integrati fra loro è, con quello di Cividale, uno dei piú ricchi e meglio conservati dell’Alto Medioevo. Il monastero, che disponeva di strutture di servizio per l’accoglienza dei pellegrini e per l’alloggio dei poveri, si estendeva verso occidente, con abitazioni, sepolture e impianti produttivi; tracce di questi sono ancora presenti nella vicina area archeologica. In questo spazio urbano si legge una sequenza ininterrotta di edifici di culto, con evidenze monumentali del I secolo a.C. (Santuario tardo-repubblicano) e dell’età imperiale

Brescia. S. Salvatore

(Capitolium, 73 d.C); dell’area archeologica fa parte il teatro di età romana con tracce di frequentazione altomedievale.

CASTELSEPRIO-TORBA

Il castrum Seprium inserito nel sistema fortificato d’altura di età tardo-romana, e riutilizzato dai Longobardi, venne distrutto dai Visconti nel tardo Duecento. Si conservano il circuito murario, il tessuto abitativo e il complesso cultuale di S. Giovanni Evangelista, completamente ristrutturato dai Longobardi nel VII secolo. Esempio significativo di architettura militare è la Torre di Torba, utilizzata nella tarda età longobarda come monastero femminile. La chiesa di S. Maria foris portas, ubicata fuori dalle mura nel luogo in cui si sviluppò il borgo altomedievale, venne eretta come edificio aristocratico privato con annessa area cimiteriale. Essa conserva uno dei piú alti cicli pittorici altomedievali dedicati alla storia dell’infanzia di Cristo.

Castelseprio. S. Maria foris portas

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Italia Langobardorum

SPOLETO

La basilica di S. Salvatore a Spoleto è un edificio eccezionale per il linguaggio romano classico con cui è stata concepita; oltre a frammenti di architetture antiche, sono utilizzati elementi decorativi scolpiti a emulazione di quelli classici. L’edificio ha impianto basilicale a tre navate, con presbiterio tripartito, coperto nella zona centrale da una struttura voltata a base ottagonale. L’interno ha perduto quasi completamente le decorazioni pittoriche e a stucco originarie; si conserva tuttavia la ricca trabeazione con fregio dorico, impostata su colonne doriche nella navata e corinzie nel presbiterio. Della facciata originaria rimangono le cornici delle finestre e i tre portali lavorati con elaborati motivi classici.

Campello sul Clitunno. Tempietto

BENEVENTO

Spoleto. S. Salvatore

CAMPELLO SUL CLITUNNO

Il Tempietto del Clitunno è un piccolo sacello in forma di tempio corinzio tetrastilo in antis con due portici laterali. La facciata è scandita da splendide colonne ricoperte di foglie e da un architrave che riporta, in scrittura capitale quadrata romana, l’iscrizione che invoca Dio; si tratta di uno dei rari esempi di epigrafia monumentale del primo Medioevo. La progettualità e la perizia nell’impiego degli spolia antichi accomunano il Tempietto al S. Salvatore di Spoleto. All’interno si conservano dipinti murali di notevole qualità, che sono stati messi in relazione con quelli del presbiterio di S. Maria Antiqua a Roma; gli affreschi inquadrano l’edicola marmorea dell’abside, caratterizzata dalla commistione di elementi architettonici di reimpiego e di decorazioni eseguite ex novo. 76

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La chiesa di S. Sofia venne costruita intorno al 760 da Arechi II, duca di Benevento, come cappella personale e santuario nazionale per la redenzione della propria anima e la salvezza del popolo longobardo. Lo spazio interno, a pianta centrale, è scandito da colonne e pilastri disposti in modo da formare un esagono e un decagono concentrici; le colonne impiegano capitelli di età classica, usati rovesciati per le basi. Nelle due absidi minori si conservano i brani piú importanti di un ciclo pittorico dedicato alle storie di Cristo

Benevento. S. Sofia


che doveva ricoprire l’intera superficie interna della chiesa. All’edificio religioso fu annesso un monastero, oggi sede del Museo del Sannio, con un chiostro ricostruito in età romanica, che reimpiega alcuni elementi originali longobardi.

MONTE SANT’ANGELO

Il ducato di Benevento assorbí dopo il 560 il Gargano. Qui dal V secolo si era imposto il culto dell’Arcangelo Michele, congeniale ai Longobardi che ravvisavano in lui le caratteristiche del pagano Wodan, dio della guerra, protettore di eroi e combattenti. Dal VII secolo il luogo divenne il santuario nazionale dei Longobardi. La devozione per san Michele si diffuse in tutto l’Occidente e Monte Sant’Angelo divenne il modello per tutti i santuari edificati in Europa, incluso quello normanno di Mont-Saint-Michel. Le principali dinastie longobarde diedero vita a opere di ristrutturazione del santuario per facilitare l’accesso alla grotta primitiva e il ricovero dei pellegrini, come confermato dalle iscrizioni rinvenute in loco.

INFO

Per maggiori informazioni, si può consultare il sito web www.longobardinitalia.it: molto ricco di notizie, offre anche la possibilità di scaricare gratuitamente pieghevoli turistici e fornisce indicazioni pratiche sulle modalità di visita dei monumenti descritti.

Monte Sant’Angelo. Santuario di S. Michele Arcangelo

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Mezzogiorno longobardo Nel Sud della Penisola la parabola del popolo germanico fu di piú lunga durata ed ebbe tra i suoi protagonisti principali il ducato di Benevento. Con risvolti significativi anche nel campo della produzione artistica e architettonica Il castello di Salerno, che prende il nome dal suo fondatore, Arechi II, duca e poi principe di Benevento, il quale lo fece erigere su una precedente fortificazione bizantina. La fortezza sorge sulla sommità del monte Bonadies, a 300 m circa sul livello del mare, e domina la città e il suo golfo.


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Una questione meridionale

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opo la presa di Pavia e il ritorno di Carlo in patria, il potere dei Franchi in Italia venne seriamente minacciato da un tentativo di insurrezione promosso dal duca longobardo del Friuli, Rotgaudo, assieme ad altri esponenti dell’aristocrazia longobarda, tra i quali il duca di Chiusi, Reginaldo, e Stabilino, duca di Treviso. Non è improbabile che la rivolta del 776 possa essere stata sobillata da agenti bizantini, cosí come non è escluso che in tale circostanza abbia potuto giocare un ruolo importante anche il principe longobardo Adelchi, figlio dell’ultimo re Desiderio, e che era fuggito a Costantinopoli. Sicuramente, la ribellione non fu determinata soltanto da motivazioni politiche, ma anche da gravi motivi di ordine economico e sociale. La guerra del 773-774, infatti, doveva aver prodotto pesanti conseguenze sul tessuto sociale dell’Italia longobarda, favorendo la miseria, l’impoverimento generale e generando, ovunque, un forte malcontento contro i nuovi dominatori. In ogni caso, i ribelli furono annientati dai Franchi in una

In questa pagina, in basso l’estensione del ducato di Benevento e, nel riquadro, la sua posizione nell’Italia del VII-VIII sec.

acerrima battaglia combattuta sul fiume Livenza. Crollato il regno longobardo, l’eredità politica e culturale dei Longobardi in Italia si radicò nel ducato di Benevento, l’unica organizzazione politica ancora autonoma dal potere franco e da quello papale. Il duca di Benevento, Arechi II, non sembra avesse avuto una parte rilevante negli avvenimenti che condussero alla caduta del regno, né che avesse inviato truppe in aiuto del suocero Desiderio, assediato a Pavia, o personalmente partecipato alla campagna militare, ma compí un gesto destinato a segnare, per secoli, il destino del Mezzogiorno della Penisola. Caduta la capitale lon-

Pavia Ravenna DUCATO DI SPOLETO Spoleto

DUCATO DI SPOLETO

Roma

Ortona

DUCATO Benevento DI Napoli BENEVENTO

MARE

DUCATO ROMANO Venafro

ADRIATICOPalermo

Larino

Siponto Lucera

Bojano

Capitale del regno longobardo

Canne

Alife Capua

Territori longobardi Territori bizantini

Bari

BENEVENTO Consa Potenza

Salerno

MARE TIRRENO

IL DUCATO DI BENEVENTO

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Velia

Buxentum

DUCATO DI CALABRIA

MARE IONIO

Reggio


gobarda (giugno 774) sotto le armi dei Franchi, si proclamò princeps Langobardorum, facendosi ungere dai vescovi con il sacro crisma – alla maniera dei re –, volendo sottolineare che la continuità dinastica, oltre che politica e civile, dello scomparso regno longobardo si radicava ora in Benevento e nella persona del suo sovrano. Ma andiamo con ordine. Il ducato di Benevento – che Arechi governava – si costituí nel 570-575, a opera di Zottone, condottiero longobardo di cui si conosce molto poco. L’occupazione del Mezzogiorno avvenne nello stesso periodo in cui il resto dei Longobardi, varcando le Alpi orientali, penetrava nell’Italia settentrionale e occupava i territori bizantini dell’esarcato. Il capoluogo del ducato fu fissato a Benevento, castrum collocato sul colle della Guardia, alla confluenza del Sabato nel Calore, nodo stradale importantissimo, poiché nella città convergevano, e ne partivano, importanti assi viari: la via Appia antica e la via Traiana o Appia nova. La scelta del sito non dovette essere casuale, dal momento che il castrum era situato in una valle protetta, circondata da fiumi e montagne e, dunque, ben difendibile.

Un ducato autonomo ma non troppo

Il ducato di Benevento fu una realtà sostanzialmente autonoma da Pavia e politicamente dinamica, che andò progressivamente espandendosi, a danno dei domini bizantini nel Mezzogiorno, fino alla fine del VII secolo. Tuttavia, questa autonomia, determinata soprattutto dalla distanza geografica, tollerava spesso alcune limitazioni, quando re particolarmente energici decidevano di ricondurre i duchi alla ragione o intervenivano militarmente nel Mezzogiorno per imporre duchi a loro graditi. Per esempio, come già ricordato in precedenza, il duca Arechi I (591-641) – di nobile origine friulana e, forse, precettore dei figli del duca del Friuli Gisulfo I – fu imposto a Benevento da re Agilulfo con la forza delle armi. Arechi I attuò una politica espansionistica e, nel 594, prese Capua – l’attuale Santa Maria Capua Vetere – e poi, tra il 635 e il 640, Salerno, assicurando al ducato il tanto agognato sbocco sul mare. Alcuni anni piú tardi, il duca Romualdo I (671687) – figlio del re Grimoaldo I –, conquistò tutto il Mezzogiorno, fino alla valle del Crati e

In alto brattea aurea raffigurante Cristo tra gli angeli. VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in alto anello in oro con un cammeo romano come castone, gioiello facente parte degli «Ori di Senise», rinvenuti nel 1916 in tombe longobarde a Senise (Potenza), in località Salsa. Inizi del VII sec. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A destra epigrafe funeraria di Magnus presbiter, da S. Vincenzo al Volturno. Prima metà del IX sec. Venafro, Museo Archeologico Nazionale.

al Salento, impose la conversione definitiva della sua stirpe al cattolicesimo, favorendo l’apostolato di san Barbato († 683 circa) – vescovo di Benevento – e favorí il culto di san Michele, ampliando, in chiave monumentale, il suo santuario rupestre ubicato a Monte Sant’Angelo, in Puglia (vedi box alle pp. 96-98). Con Romualdo il ducato raggiunse la massima estensione, rimasta invariata fino all’epoca di Arechi II, poiché si estendeva, a nord, fino al Garigliano, inglobando, a sud, le attuali Campania, Molise e parte dell’Abruzzo. Piú a sud, il confine politico del ducato era particolarmente labile, a causa della presenza bizantina, fonte di continui conflitti. Il duca, comunque, estendeva la sua sovranità sulla Lucania e su parte della Calabria settentrionale, fino al Crati e a Cosenza, oltre che su gran parte del territorio pugliese, esclusa Otranto e i territori limitrofi, che restavano in mano bizantina. Il confine meridionale del principato correva, sul versante calabro, pressappoco lungo una linea che, a ovest, andava da Amantea, sul Tirreno, a Rossano, sullo Ionio. Si badi che il Mezzogiorno d’Italia ancora in mano ai Bizantini fu riorganizzato – a partire dal VII secolo – in province denominate «temi», formalmente dipendenti da Costantinopoli e che, dalla metà del X secolo, furono riunite in una provincia piú vasta detta «cate-

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panato», dal nome del governatore – catapano – preposto al suo governo. Sfuggivano al controllo dei Longobardi anche i centri costieri di Gaeta, Napoli, Sorrento e Amalfi che tra l’VIII e il X secolo si costituirono in ducati, formalmente autonomi dall’impero bizantino e mai occupati dai Longobardi.

Guerrieri bulgari in Molise

Romualdo, inoltre, acconsentí allo stanziamento, in Molise, di alcuni gruppi di Bulgari, guidati dal loro capo, Alzeco. Questi nuclei guerrieri furono stanziati nelle località spopolate di Isernia, Boiano e Sepino, su demanio ducale, con un’importante funzione strategico-militare, andando a costituire una sorta di colonie militari. Lo stanziamento di nuclei di Bulgari, durante il ducato di Romualdo, è stato confermato da scavi archeologici effettuati presso la necropoli di Vicenne, a Campochiaro, in Molise, che hanno riportato alla luce fosse in cui i defunti erano sepolti assieme alle cavalcature, secondo la tipica usanza dei «popoli della steppa». Morto Romualdo I, gli successero, nell’ordine, i figli Grimoaldo II (687-689) e Gisulfo I (689-706) e, sotto il governo di quest’ultimo, intorno al 703, tre giovani nobili beneventani – Taso, Tato e Paldo – fondarono il cenobio di S. Vincenzo al Volturno, in Molise, destinato a diventare uno dei piú ricchi complessi monastici della Longobardia meridionale. Intorno al 702, Gisulfo espanse i confini del ducato verso il Lazio meridionale, occupando i castra di Sora, Aquino, Arpino e Arce, facenti parte del ducato bizantino di Roma. Morto Gisulfo, fu eletto duca il figlio, Romualdo II (706-731), che sposò la nipote di re Liutprando, Gumperga. Durante il suo ducato, nel 717, fu ricostruita l’abbazia di Montecassino che – fondata intorno alla metà del VI secolo, da san Benedetto da Norcia († 546) – era stata distrutta dai Longobardi, tra il 581 e il 588, nel corso dell’occupazione della Penisola. L’abbazia fu rifondata da san Petronace († 750 circa), monaco di origine bresciana, che ne fu anche abate, e, rientrando nei confini territoriali del ducato di Benevento, era sotto la «protezione» ducale. Come si è visto piú sopra, alla morte di Romualdo II, nel 731, il referendario Audelais, ufficiale di corte, usurpò il potere, facendosi eleggere duca da una parte dell’aristocrazia beneventana e ciò provocò la reazione del re Liutprando che, occupata Benevento, depose Audelais e impose 82

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Testa in marmo bianco, dalla Basilica Maggiore di S. Vincenzo al Volturno. VIII–IX sec. Venafro, Museo Archeologico Nazionale.

come duca il nipote, Gregorio, già duca di Chiusi, a cui diede in moglie Giselperga, nobildonna appartenente all’aristocrazia pavese, a rimarcare la sua fedeltà al potere regio. Gisulfo II – figlio di Romualdo e legittimo pretendente – invece, fu condotto dal re a Pavia, dove fu trattenuto fino al 742, quando ritornò a Benevento. Quella di Audelais fu la prima di due pericolose ribellioni al potere dei re longobardi che, in questo secolo, furono espressione delle tradizionali istanze autonomistiche di una parte consistente dell’aristocrazia beneventana, in gran parte di estrazione funzionariale, titolare, cioè, di uffici e potestà pubbliche, circoscrivibili all’interno dell’organizzazione amministrativa del ducato. Gregorio, forse perché «forestiero», non riuscí a costruire intorno a sé un gruppo consistente di fideles, né a predisporre un’adeguata successione. Infatti, al momento della morte, nel 739, non vi fu alcuna reazione lealista del popolo o di parte dell’aristocrazia in favore di un suo diretto successore, mentre la nobiltà beneventana si ribellò di nuovo, eleggendo un altro duca nella persona di Godescalco. Di questi, escludendo il nome della moglie, Anna, e la durata triennale del suo governo, non si conosce praticamente nulla. La sua ascesa non fu indolore e i conflitti tra le due fazioni – quella a lui fedele e quella fedele a Gilsulfo II – legittimo pretendente – continuarono a caratterizzare il breve periodo del suo governo. Godescalco confiscò molti beni a esponenti della fazione avversaria, distribuendoli tra i suoi fideles, tra i quali erano alcuni enti ecclesiastici.

La fuga mancata

Davanti all’usurpazione, Liutprando decise di tutelare le pretese dinastiche del nipote Gisulfo, ma evitò di intervenire a Benevento fino al 742, quando si persuase a guidare un forte esercito, in alleanza con il papa, Zaccaria, appena asceso al soglio petrino e disposto, molto piú del suo predecessore, Gregorio III (731741), ad attuare una politica di intesa con il regno longobardo, in funzione antibizantina. Il re occupò Benevento e Godescalco fu ucciso mentre cercava di sottrarsi alla cattura, fuggendo in direzione della Puglia, per imbarcarsi con la moglie, Anna, su una nave destinata a trasportarlo a Costantinopoli. La meta che l’usurpatore si proponeva di raggiungere, induce a pensare – pur in mancanza di notizie certe in proposito – a un coinvolgimento dell’impero d’Oriente nell’insurrezione del 742.


Capua. Capitello longobardo del IX sec., decorato con motivi geometrici e floreali, riutilizzato nel porticato del cortile del Palazzo Fieramosca.

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S. Vincenzo al Volturno (Isernia). Il monastero visto attraverso un arco del portico antistante, del XV sec. Fondato all’inizio dell’VIII sec., dopo la conquista franca continuò a far parte del ducato longobardo di Benevento, sebbene dal 787 fosse posto sotto la protezione diretta di Carlo Magno.

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Liutprando non poteva consentire che una parte importante del regno, come il ducato di Benevento – sorta di «presidio di confine», in direzione dei possedimenti bizantini nel Mezzogiorno – potesse acquistare un’eccessiva autonomia, eventualmente gravitando nella «sfera di influenza» dell’impero. Pertanto, deposto Godescalco, il re impose come duca il nipote, Gisulfo II. Anche questa volta, per consolidare il rapporto di dipendenza tra il duca e Pavia, Liutprando impose a Gisulfo di sposare la pavese Scauniperga. La lungimiranza del re, infatti, ebbe modo di manifestarsi appieno solo anni dopo quando, morto anche il duca Gisulfo II, nel 751, la duchessa assicurò la pacifica successione al figlio, Liutprando (751-758), che, non a caso, portava il nome del grande sovrano. Scauniperga evitò la ripetizione di ribellioni come quelle accadute tanti anni prima, nella delicata fase del passaggio di poteri da un duca a un altro. La duchessa assunse la reggenza per il piccolo Liutprando e la mantenne fino al 756, anno in cui il suo nome scompare dalle monete coniate nel ducato e dai documenti. Il giovane duca governò fino al 758, quando, proprio per la sua infedeltà – non aveva inviato un esercito a combattere contro i Franchi di Pipino – fu deposto dall’intervento militare di Desiderio, il nuovo re, e sostituito con un nuovo duca: Arechi II. Liutprando trovò scampo a Otranto, sotto la protezione dei Bizantini con cui, molto probabilmente, aveva concluso un’alleanza, ma di lui si persero le tracce (vedi box alle pp. 90-93).

Longobardia meridionale: la fine dell’unità

Morto Arechi II, nel 787, gli successe il figlio, Grimoaldo III (787-806), che, in quel momento si trovava in Francia, come ostaggio di Carlo Magno. Con il consenso del re franco – e dopo essersi impegnato a rispettare i patti siglati col padre –, Grimoaldo poté tornare in patria, dove la madre, Adelperga, aveva assunto la reggenza, in attesa del suo ritorno. Durante il suo principato, Grimoaldo si mantenne sostanzialmente fedele alla politica di alleanza con i Franchi. Infatti, nel 788 il principe affrontò in battaglia, presso Otranto, con l’ausilio di truppe franche, guidate dal duca di Spoleto Guinigi, il principe Adelchi, figlio di Desiderio, che era sbarcato in Puglia con truppe bizantine per rivendicare il trono. Adelchi fu sconfitto e costretto a ritornare a Costantinopoli, dove morí pochi anni piú tardi. Tuttavia, nel 792 circa, scoppiò una guerra con i Franchi, per ragioni non completamente chiare, poi conclusa, nel 796, con una pace. LONGOBARDI

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Una questione meridionale A sinistra Sant’Angelo in Formis (Caserta), basilica di S. Michele Arcangelo. L’abate Desiderio offre la chiesa a Cristo, particolare degli affreschi dell’abside. Seconda metà dell’XI sec. Fondato forse dai Longobardi nel VI sec., l’edificio sacro fu donato dal normanno Riccardo I Drengot a Montecassino e al suo abate Desiderio, membro della famiglia dei principi longobardi di Benevento, che lo rece ricostruire tra il 1072 e il 1087. A destra S. Vincenzo al Volturno, cripta di Epifanio. Un particolare degli affreschi, raffigurante Cristo benedicente. IX sec. Secondo il Chronicon Vulturnense, codice miniato redatto intorno al 1130, l’abbazia venne fondata dai tre nobili longobardi beneventani Paldo, Taso e Tato, monaci nell’abbazia di Farfa.

Nell’800, esplose un nuovo conflitto e il duca di Spoleto, Guinigi, invase le terre abruzzesi e molisane del principato beneventano, ma fu sconfitto e fatto prigioniero presso Lucera. Nell’805, fu liberato, in seguito alla stipula di una pace che confermava, tra i due contendenti, lo status quo, salvo la cessione, al ducato di Spoleto, del gastaldato di Chieti, in Abruzzo. Morto Grimoaldo III, gli successe Grimoaldo IV, detto stolesaiz (forse dalla funzione che svolgeva a corte e che, molto probabilmente, corrispondeva a quella di siniscalco, «maestro di palazzo», che sovraintendeva all’amministrazione generale del palatium principesco). Grimoaldo IV fu costretto a scendere nuovamente in guerra con i Franchi, per cause sconosciute, ma, nell’812, fu raggiunta di nuovo la pace, a prezzo del pagamento di un tributo di circa 5000 solidi. Quando, nell’817, anche Grimoaldo IV morí, al suo posto fu eletto principe 86

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Sicone, gastaldo di Acerenza, che avviò una lunga guerra contro il ducato bizantino di Napoli, compagine statale che occupava gran parte della costa campana e che dipendeva dall’impero romano d’Oriente. Alla morte del principe, nell’832, gli successe il figlio, Sicardo, che ereditò dal padre la politica tirannica e militarmente espansionista. In politica interna, Sicardo eliminò ogni antagonista, compreso il fratello Siconolfo, che fu esiliato a Taranto. L’abate di Montecassino – Deusdedit – e il vescovo di Benevento, Alfano, furono anch’essi banditi dal principato.

La massima espansione

Intanto, grazie alle campagne di conquista, il principato beneventano raggiunse la massima espansione territoriale, non solo in direzione della Puglia e della Calabria, ma anche della costa campana, dove il principe concentrò la


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maggior parte delle sue energie. Sconfisse ripetutamente i duchi bizantini di Napoli e, nell’836, prese Amalfi, deportando una parte degli abitanti a Salerno, dove andò a costituire un nucleo abitativo conosciuto con il nome di Vicus Amalphitanorum. La lunga guerra che oppose il principe ai duchi bizantini di Napoli fu essenzialmente motivata dalla volontà di annettere i fertili territori della Liburia – l’attuale Terra di Lavoro (la regione pianeggiante che si estende lungo il piede dell’Appennino Campano, tra i Monti Aurunci, a nord, e la parte settentrionale dei Campi Flegrei, a sud, n.d.r.) –, ma questo obiettivo non fu conseguito nella sua interezza. Nell’836, fu concluso un accordo – il Pactum Sicardi – che sanciva la spartizione del dominio sulle terre della Liburia e sui relativi coloni che possedevano un fondo in quel territorio, e non ne avevano acquisito la piena proprietà negli ultimi vent’anni.

Un accordo molto articolato

Il Pactum Sicardi introdusse anche nuove disposizioni riguardanti la disciplina dei rapporti commerciali tra Napoletani e Longobardi, prevedendo opportune garanzie giuridiche per quei sudditi, dell’uno e dell’altro Stato, che, per ragioni di affari, commercio o altro, si recavano nei territori appartenenti a uno Stato diverso da quello di appartenenza. Il Pactum contemplò le adeguate garanzie giurisdizionali, i guidrigildi e le pene, contro ogni attentato all’integrità delle persone o dei beni dei rispettivi sudditi. Il trattato, poi, contemplava clausole fiscali riguardanti i pedaggi e le imposte, cosí come le relative immunità, a cui erano soggetti i mercanti dell’una o dell’altra parte contraente, oltre i divieti che erano tenuti a rispettare. Tra questi divieti c’era quello di non acquistare o vendere schiavi di etnia longobarda all’interno e all’esterno del territorio del principato beneventano. I coloni di condizione libera o servile che vivevano sulle terre della Liburia – detti tertiatores – furono obbligati a versare un terzo della propria rendita fondiaria, a titolo di tributo, tanto ai Napoletani quanto ai Beneventani. Il restante terzo poteva essere trattenuto. Nell’838, Sicardo saccheggiò anche Lipari – possedimento bizantino – e si impossessò delle reliquie del patrono dell’isola, san Bartolomeo, che trasportò poi a Benevento. Alla morte di Sicardo (839), il principato beneventano aveva raggiunto il massimo della potenza militare e dell’espansione dei suoi confini, come dimostrano i trentatré gastaldati in cui era ripartito. Alla fine, come molti dei suoi 88

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predecessori, anche il principe fu assassinato in una congiura ordita da alti dignitari di palazzo, capeggiati dal tesoriere Radelchi, in cui furono coinvolti anche illustri esponenti della nobiltà beneventana e ufficiali dell’amministrazione principesca. La morte del principe aprí un decennio di guerre civili (839-849), che ebbero ricadute pesantissime sull’unità e sulla stabilità politica dell’indiviso principato di Benevento. Infatti, a seguito dell’uccisione di Sicardo, suo fratello, Siconolfo, già bandito da Benevento, fu richiamato in patria. I due pretendenti al trono, Radelchi e Siconolfo, guerreggiarono fino all’849, finché un formale trattato sancí la Divisio Ducatus, cioè l’avvenuta fondazione di due principati distinti: Benevento, su cui regnarono Radelchi I (849-851) e i suoi discendenti, e Salerno, su cui governarono Siconolfo (849-851) e i suoi discendenti. Le nuove entità statali si divisero confini e territori prima uniti: a Benevento andarono il Sannio, il (segue a p. 94)

San Vincenzo al Volturno, cripta di Epifanio. L’Arcangelo Gabriele, particolare dell’Annunciazione, facente parte del ciclo affrescato nel IX sec.



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I DUCHI DI BENEVENTO 571-590? 591-641 641-642 642-647 647-662 662/663-687 687-689 689-706 706-731 731-732 732 732-739 739-742 742-751 751-758 758-774

Zottone Arechi I Aione I Radoaldo Grimoaldo I Romualdo I Grimoaldo II Gisulfo I Romualdo II Gisulfo II Audelais Gregorio Godescalco Gisulfo II Liutprando Arechi II

Benevento, chiesa di S. Sofia. Zaccaria muto davanti al popolo, particolare dell’affresco facente parte del ciclo delle Storie di Cristo, opera di maestranze bizantine. VIII-IX sec. La chiesa venne fondata intorno al 758 (e ultimata nel 768) per volere di Arechi II, duca di Benevento.

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UN «FRIULANO» A BENEVENTO Arechi II è una delle figure piú importanti del Mezzogiorno longobardo. Non si hanno notizie della sua famiglia d’origine, e il nome del principe, di chiaro etimo germanico, significava presumibilmente «Signore dell’esercito», harja reiks. Anche la data di nascita è sconosciuta, ma dovrebbe collocarsi tra il 730 e il 740 e, al di là dell’indubbia importanza del personaggio, sono poche le notizie certe che lo riguardano. E le origini friulane – intorno alle quali tanto si discute – sono solo presunte, poiché non sono suffragate dalle fonti, sebbene il principe continui a essere considerato «friulano» nella memoria collettiva. Non si possono escludere né un’origine beneventana, potendo trattarsi di un ufficiale regio impiegato nella cancelleria del suo predecessore Liutprando, né un’ipotetica origine bresciana, proprio come Desiderio, suo suocero. Il mito dell’«origine friulana» di Arechi potrebbe essere frutto di un fraintendimento dovuto all’omonimia con un suo predecessore, il duca Arechi I, di certa origine friulana, ma non si può escludere del tutto, se si considerano i legami politici e dinastici tra le dinastie del ducato del Friuli e quello di Benevento, fin dall’inizio del regno longobardo.

Unto con il sacro crisma

Arechi fu imposto come duca, a Benevento, dal re Desiderio, nel 758, a seguito di una campagna militare che portò alla deposizione del predecessore Liutprando, sospettato di intese con i Bizantini. Al fine di consolidare i rapporti con il nuovo duca, Desiderio diede in moglie ad Arechi sua figlia, Adelperga. Nel 774, alla caduta di Pavia, Arechi II si proclamò princeps Langobardorum, facendosi ungere dai vescovi con il sacro crisma, alla maniera dei re, sottolineando, cosí, che la continuità dinastica e politica dello scomparso regno longobardo si radicava ora in Benevento e nella persona del suo sovrano. Nel ridisegnare la propria sovranità in senso principesco, Arechi II tenne senz’altro in conto gli stilemi politici elaborati in seno al mondo ecclesiastico. Non a caso, tra i suoi principali consiglieri politici, il principe aveva proprio due ecclesiastici, il vescovo di Benevento, Davide (circa 782796), e il vescovo di Salerno, Rodoperto (circa 772-788). Inoltre, poco dopo la sua incoronazione, Arechi iniziò la coniazione non solo di tremissi – coniati anche dai re pavesi – ma anche di solidi aurei, monete del peso di 4,55 grammi coniate solo nell’impero d’Oriente e raffiguranti, sul retto, il suo busto, mentre, sul verso, la legenda, princeps, e l’iniziale del suo nome, una «A» accompagnata da una croce. Attraverso le raffigurazioni e legende delle nuove monete erano efficacemente sintetizzati i pilastri del nuovo principato arechiano: la fede, attraverso l’immagine della croce, e la piena sovranità della guida del principe, attraverso l’immagine del busto e la legenda che lo accompagnava. Con la proclamazione a principe, Arechi II affermava la propria sovranità su una compagine statale territorialmente molto vasta. Nel 774, il principato di Benevento si estendeva, a nord, fino a una linea immaginaria che, tagliando orizzontalmente la Penisola, lambiva i fiumi Volturno e (segue a p. 92)

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Garigliano a ovest, e Pescara a est, inglobando le regioni attuali della Campania, del Molise, parte dell’Abruzzo e, le roccaforti laziali di Sora, Aquino, Arpino e Arce. Piú a sud, Arechi II estendeva la sua sovranità sulla Lucania e su parte della Calabria settentrionale, fino a Cosenza, e su gran parte del territorio pugliese, tranne Otranto e i territori limitrofi, che restavano in mano bizantina. Al momento della disfatta longobarda del 774, Arechi assunse il titolo di «Dominus Arichis piissimus atque excellentissimus princeps gentis Langobardorum». Arechi II si incoronò principe e non re dei Longobardi, non rivendicando, quindi, alcuna forma di regalità. Il perché di questa scelta è deducibile in via puramente ipotetica e fu, forse, determinata da una duplice ragione. La prima, prettamente politica, consisteva nel non urtare la suscettibilità del re Carlo, che aveva assunto, conquistata Pavia, la corona e il titolo di «re dei Longobardi»; la seconda motivazione era di carattere personale, poiché era, pur sempre, il genero di re Desiderio, a cui doveva il ducato beneventano, e non intendeva assumere un titolo che legalmente non gli spettava.

Benevento, chiesa di S. Sofia. Gli affreschi dell’abside destra con Storie della Vergine. Da sinistra si riconoscono l’Annunciazione, con l’angelo che si volge benedicente verso il trono della Vergine, e la Visitazione, con l’abbraccio fra Maria ed Elisabetta.

Un principato lungo, ma turbolento

È davvero difficile stabilire quanto abbiano inciso, nelle decisioni politiche di Arechi, scrupoli di carattere legale, ma ancor piú difficile è stabilire quanto abbia pesato nella decisione di assumere il titolo di principe, e non quello di re, la considerazione delle legittime pretese dinastiche del cognato, Adelchi, figlio di Desiderio che, sopravvissuto alla disfatta del suo popolo, si trovava in quel momento a Costantinopoli. In ogni caso, il principe non ebbe remore a integrare l’Editto di Rotari – applicato anche nel Mezzogiorno – con altri 17 capitoli legislativi, da lui emanati nel 782. Arechi II governò fino alla morte, nel 787, ma gli anni del suo principato non furono affatto tranquilli, dovendo fronteggiare l’aggressività militare dei Franchi e quella dei Bizantini di Napoli, che ostacolavano l’espansione del principato verso la costa. Pertanto, dal 763 al 766, Arechi combatté una prima guerra contro il ducato di Napoli, per assicurarsi il controllo della Liburia – l’attuale Terra di Lavoro – e, qualche anno piú tardi, nel 783, aggredí Amalfi, importante centro commerciale che faceva parte del ducato di Napoli, determinando una guerra con i Napoletani, che si protrasse fino al 786. Il principe beneventano aveva ereditato dai suoi predecessori l’aggressività dell’espansionismo longobardo, soprattutto in direzione della fertile costa campana. Tuttavia, proprio nel 786, Arechi siglò la pace, ratificando un patto di spartizione della Liburia. Il patto stabiliva la restituzione ai Napoletani di Cesario, figlio del duca di Napoli, catturato durante la guerra, e poi prevedeva una vera e propria ripartizione della sovranità e della giurisdizione sulle popolazioni insediate nella Terra di Lavoro, tra il principato di Benevento e il ducato di Napoli.

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Il trattato del 786 fu una delle massime realizzazioni politiche del principe, perché contribuí a porre fine a uno stato di conflitto militare incessante tra Longobardi e Napoletani, e risolse una condizione di profonda incertezza giuridica, relativa allo status delle popolazioni stanziate nella Liburia. Intanto, la minaccia franca si faceva piú pressante. Sollecitato continuamente da papa Adriano I, Carlo Magno mirava a inglobare il principato beneventano nell’impero che stava costituendo in Europa. D’altronde, tutto il Mezzogiorno italiano, almeno da un punto di vista formale, rientrava nella sfera di influenza pontificia, in base agli accordi di Ponthion, intercorsi tra papa Stefano II e Pipino. Sollecitato a intervenire contro il principe dal pontefice, alla fine, Carlo Magno scese in Italia e, nel 787, mosse alla volta di Benevento con il suo esercito. L’intervento militare fu rapido e si concluse con la capitolazione del principe e la firma di un trattato, in base al quale Arechi si impegnò a consegnare una parte del tesoro regio e a pagare un tributo annuo di 7000 solidi ai Franchi. Inoltre, a garanzia dell’adempimento del patto, il principe offrí in ostaggio a Carlo il figlio piú giovane, Grimoaldo, e la figlia Adalgisa, con altri dodici nobili giovani beneventani. Il trattato di pace prevedeva anche che


il principe di Benevento coniasse moneta con legenda ed effigie del re franco, al posto della propria. Oltre a questi specifici adempimenti, Arechi dovette impegnarsi anche a coniare un nuovo nominale d’argento: si trattava del denaro franco (1,7 grammi), cioè della nuova moneta di cui re Carlo aveva già imposto la coniazione nel regno italico, nel 781.

La «seconda capitale» come ultima dimora

Conclusa la pace, ad Arechi II restava poco da vivere. Morí il 26 agosto del 787, seguendo nella tomba il suo primogenito Romualdo, spirato il 21 luglio del 787. Fu sepolto nella cattedrale di Salerno la città di origine romana che aveva scelto come «seconda capitale» del suo principato e che abbellí con importanti interventi edilizi, quali la costruzione della cinta muraria, del palatium principesco con annessa cappella palatina – S. Pietro a Corte – e, forse, delle prime strutture portuali. Salerno era uno snodo stradale nevralgico per le comunicazioni tra l’Italia centrale e il resto del Mezzogiorno, poiché si trovava lungo il corso della via Popilia, che, partendo da Capua, lungo la costa campana, conduceva fino a Reggio, in Calabria. Anche Benevento, originaria capitale del principato, fu interessata da

imponenti lavori di fortificazione e, soprattutto, la chiesa di S. Sofia (758-768 circa), con annesso cenobio femminile, vero e proprio «santuario» della gens Langobardorum del Mezzogiorno, teatro delle solenni incoronazioni dei principi longobardi, nucleo identificativo dell’identità longobarda nel Sud, sullo stesso piano, per intendersi, del santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano. S. Sofia era un edificio di culto aperto al pubblico, pertanto non svolgeva funzioni di cappella palatina, proprie della cappella di S. Salvatore, ubicata all’interno del palazzo beneventano. S. Sofia ospitava reliquie che Arechi ritenne opportuno deporre nella stessa, come quelle dei santi Dodici Martiri, di sant’Eliano e di san Mercurio. Il possesso di questi preziosi resti rappresentava un fatto importante, poiché le reliquie – nella mentalità del tempo – avevano un valore «magico», oltre che un potere apotropaico contro calamità e sventure. Le reliquie assicuravano, con la loro forza «magica», la salvezza pubblica e privata: possederne un gran numero, soprattutto in un santuario nazionale com’era S. Sofia, significava proteggere il principato dalle insidie diaboliche dei nemici e munirlo di una sacra aura.

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Molise, parte dell’Abruzzo e la Puglia, mentre Salerno ereditò la Lucania, la Calabria settentrionale non bizantina e, a nord, i gastaldati di Capua, Arce, Aquino, Sora e Arpino, fino al Garigliano, al confine con il ducato bizantino di Roma. Ciascun principato aveva la medesima organizzazione politico-amministrativa, articolandosi in gastaldati, circoscrizioni amministrative ripartite in distretti minori di varia denominazione – decanie, sculdascie, centene – a fini fiscali, militari e giurisdizionali. Dopo la morte di Radelchi I e la breve parentesi sul trono del figlio, Radelgario (851-853), il principato andò all’altro figlio, Adelchi (853878), senz’altro uno dei piú importanti sovrani della Longobardia, in questo periodo. Il nuovo principe avviò una saggia politica di riforme amministrative e si fece promotore, tra l’altro, di una vasta opera legislativa di integrazione dell’Editto di Rotari, emanando, intorno all’866, 8 capitoli normativi. L’opera legislativa di Adelchi – a quanto è dato di sapere – fu l’ultima 94

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Uno scorcio della chiesa di S. Sofia a Benevento, le cui volte sono sorrette da colonne di spoglio e pilastri in blocchi di pietra calcarea bianca intercalati da strati di mattoni.

emendazione dell’Editto di Rotari a opera di un principe longobardo e riveste enorme importanza non solo sotto il profilo giuridico, ma anche politico-ideologico. I capitoli normativi, infatti, erano preceduti da un Prologo – assente nella legislazione arechiana – che è di enorme importanza per comprendere le motivazioni ispiratrici dell’opera legislativa di questo principe: si tratta di un vero e proprio manifesto di «propaganda politica», se non addirittura di «revanchismo» longobardo. Nel Prologo, Adelchi forniva una versione storica della conquista del regno longobardo a opera dei Franchi, di stampo totalmente diverso da quello offerto dalla propaganda ufficiale carolingia. Il re dei Franchi, Carlo Magno, veniva dipinto come spergiuro, empio traditore del suo stesso suocero, Desiderio, mentre era esaltata la figura di Arechi II – «catholicus et magnificus princeps» –, che seppe raccogliere, nobiliter et honorifice, il resto della sua gente, dando a essa rifugio e protezione nel nuovo principato di Benevento.



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Una questione meridionale

Quel Prologo svolse un’importantissima funzione di legittimazione ideologica del dominio longobardo nel Mezzogiorno che, all’indomani della «svolta» costituzionale del 774, non aveva altro strumento a disposizione che riallacciarsi alle tradizioni del regno pavese. Per Adelchi, quindi, l’esaltazione delle leggi longobarde e della giustizia, incarnata dai re pavesi, era l’elemento fondativo del potere dei principes Langobardorum, che si ponevano in rapporto di continuità ed emulazione dei primi. Nel Prologo emergeva una visione nuova della sovranità principesca, attraverso il richiamo a un concetto della sovranità di chiara matrice romana e, allo stesso tempo, veterotestamentaria. Il principe di Benevento era unto solennemente dai vescovi in S. Sofia – santuario della gente longobarda voluto da Arechi II – e ciò faceva di lui il prescelto da Dio – novello Davide o Salomone – e i suoi Longobardi un nuovo Israele, popolo eletto votato alla conquista e difesa della nuova terra promessa: il Mezzogiorno d’Italia. La sacra unzione non rendeva il principe un ecclesiastico, alla stregua di colui cui fosse stato impartito il sacramento dell’ordine. Il principe restava laico ma, grazie all’unzione, era prescelto – fra tutti gli uomini – per l’adempimento di una missione divina: guidare il gregge dei fedeli, con mano ferma e sicura, nel rispetto della giustizia, della chiesa e della «vera fede».

Ingerenze crescenti

Quanto alla politica estera, Adelchi fece largo uso dei mercenari saraceni – che allora infestavano il Mezzogiorno – per muovere guerra a Salerno, ma senza risultati significativi, e dovette contrastare le ingerenze sempre piú frequenti dell’impero franco e di quello bizantino, nelle vicende del Mezzogiorno italiano. Nell’871, il principe di Benevento si mise contro l’imperatore franco, Ludovico II (855-875), che era disceso nel Mezzogiorno – con ampio seguito di truppe – per condurre una spedizione contro i Musulmani. L’imperatore, in un primo tempo, ottenne la piena sottomissione dei principi longobardi del Sud – tra cui Adelchi – e la spedizione si concluse con successo nel febbraio dell’871, con l’annientamento della roccaforte saracena di Bari. In agosto, però, mentre l’imperatore soggiornava a Benevento, al ritorno dalla spedizione 96

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LA «CONVERSIONE» DEI LONGOBARDI DEL SUD

La «conversione» al cattolicesimo dei Longobardi beneventani avvenne in un contesto politico particolare – l’invasione del Mezzogiorno a opera dell’imperatore d’Oriente Costante II – ben descritto da Paolo Diacono, il quale, però, non fa riferimento alla conversione del duca e del suo popolo. Si deve perciò ricorrere a un’importante fonte agiografica, scritta tra il IX e il X secolo, cioé molto tempo dopo lo svolgimento dei fatti in essa narrati: la Vita Barbati Episcopi Beneventani. La fonte narra che, durante l’assedio bizantino di Benevento, nel 663, un sacerdote presente in città,

In questa pagina solido forato battuto a Costantinopoli. 659668. Al dritto, Costante II e Costantino IV; al rovescio, Eraclio e Tiberio ai lati di una croce. Nella pagina accanto incisione settecentesca raffigurante il vescovo di Benevento, Barbato, che abbatte l’albero sacro venerato dai Longobardi.


Barbato, avrebbe garantito la vittoria ai Longobardi, se il duca Romualdo, con il suo popolo, si fosse convertito al cristianesimo, abbandonando i culti pagani. Ottenuta la promessa di conversione, Barbato supplicò la Vergine di intervenire in difesa dei Longobardi, e cosí fu! La Vergine sarebbe miracolosamente apparsa ai Beneventani, dando loro la vittoria in battaglia. Barbato fu fatto vescovo di Benevento e iniziò a distruggere i simulacri degli antichi culti, di cui la Vita offre un’esaustiva descrizione. Il culto praticato dai Longobardi nel Beneventano nel VII secolo appare, ancora oggi, poco chiaro, e ciò ha dato luogo, in sede scientifica, a interessanti dibattiti.

L’albero e la vipera

Secondo il testo agiografico, si trattava di un culto doppio, praticato sia nel palazzo ducale, sia all’esterno della città, nei boschi. Il culto dell’albero sacro, a cui era appesa la pelle di un animale – probabilmente un caprino – si praticava fuori dal centro di Benevento e presentava caratteristiche a metà tra una giostra equestre e un vero e proprio culto dendrico, a cui era associato il culto della pelle dell’animale. Fuori la città si trovava un luogo boscoso, chiamato Votum, presso il quale i Longobardi veneravano il simulacro e compivano atti cultuali, giostre equestri, dal recondito significato sacrale, e levavano le proprie preghiere e i propri voti. Accanto al culto dell’albero sacro, ne esisteva un altro, praticato nel palazzo ducale, unicamente dal duca e dalla sua corte: era il culto della vipera, che consisteva in un manufatto aureo, a forma di vipera, custodito nel palatium. I due culti presentavano differenze di carattere sostanziale: la pelle di animale nel primo caso, la vipera nel secondo. Riguardo al primo, esso associava elementi come la corsa equestre, l’albero sacro e la pelle di animale, che non erano estranei al patrimonio culturale germanico. Non è, perciò, escluso che potesse effettivamente trattarsi della sopravvivenza di un antico culto tribale longobardo, e tutto lo lascerebbe supporre. La giostra equestre si accordava bene con i costumi guerrieri delle antiche stirpi germaniche, con il culto della forza e dell’abilità militare, patrimonio indissolubile delle loro tradizioni. Altrettanto può dirsi del culto dendrico, cioè dell’albero sacro. Gli alberi erano oggetto di grande venerazione presso i Germani, soprattutto i frassini e le querce, per la loro funzione simbolica di asse di

collegamento tra il fisico e il metafisico, il divino e l’umano. Il culto della vipera, invece, è meno conosciuto di quello dell’albero, perché era essenzialmente un culto privato, praticato all’interno del palazzo ducale.

Sopravvivenze inaspettate

Appare decisamente estraneo alle tradizioni cultuali germaniche, perché sembra avere un’origine ctonia, tellurica, e, in ogni caso, connessa al ciclo della fertilità, della morterinascita. È probabile, quindi, che non si trattasse di un culto cristiano, e neppure germanico, ma indigeno, collegato al sostrato cultuale pagano del posto e che non aveva niente a che fare con le tradizioni religiose dei Longobardi, che lo avrebbero appreso dagli abitanti del luogo. È singolare constatare come, in pieno VII secolo, quando i Longobardi d’Italia erano quasi del tutto cristianizzati sopravvivevano, nel Sannio, forme pagane di culto cosí sviluppate. Probabilmente, la spiegazione va ricercata nella specifica condizione in cui i (segue a p. 98)

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In questa pagina tremisse battuto al tempo di Liutprando. Al dritto, il busto diademato del re; al rovescio, san Michele Arcangelo. Longobardi del Mezzogiorno si trovarono a operare nel VII secolo, costretti ad affrontare l’espansione militare bizantina, ma anche l’ostilità di gran parte della popolazione indigena; la pratica di culti non cristiani, quindi, rappresentò l’unica speranza di conservare la propria identità, rinunciando a una sempre piú inevitabile assimilazione. In ogni caso, le ultime vestigia dell’antica fede dei conquistatori furono progressivamente cancellate dal ducato longobardo, e san Barbato poté abbattere la sacra arbor, ubicata fuori le mura di Benevento, sul cui suolo fece edificare S. Maria in Voto; inoltre, fece fondere il simulacro aureo della vipera e, col metallo ricavato dalla fusione, dispose che si fabbricasse un calice per servire messa. Fu ricompensato, per la salvezza di Benevento con la nomina a vescovo della città, e riuscí a estendere la sua potestà episcopale anche sul santuario di S. Michele Arcangelo sul Gargano – le cui origini rimontano al V secolo, cioè alle prime apparizioni del santo – che fino ad allora rientrava nelle competenze e nella tutela del vescovo di Siponto (presso l’odierna Manfredonia).

Affinità lampanti

Il culto dell’Arcangelo riscosse grande successo presso tutte le stirpi germaniche – non solo tra i Longobardi – soprattutto nella delicata fase del processo di acculturazione religiosa. Nel Mezzogiorno, quasi certamente, la diffusione del culto micaelico fu favorita dai contatti, non solo politici e militari, tra i Longobardi e il mondo bizantino, presso cui il culto dell’Arcangelo aveva un grande consenso, soprattutto in ambito militare, e dal fatto che questo culto presentava elementi comuni a quelli di alcune divinità germaniche. Le funzioni taumaturgiche e psicopompe, avvicinavano incredibilmente il culto di Michele a quello di Odhinn-Wotan, compagno della «buona morte», giudice dei defunti e «accompagnatore» delle anime nel regno dei morti. Anche Wotan, il signore dell’Olimpo germanico, aveva un cavallo come Michele – Sleipnir – e con esso affrontava nel combattimento cosmico, alla fine dei tempi, il serpente cosmico – Midgardsormr – la cui figura richiamava, indubitabilmente, quella del Dragone «apocalittico» e satanico. Nello stesso tempo, però, il culto di Michele presentava aspetti simili a quello di Týr – il Marte germanico – per il suo carattere militare e guerriero. L’Arcangelo, inoltre, era anche associato ai fenomeni atmosferici, alle tempeste e, perciò, il suo culto era comparabile a quello del germanico Thor.

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pugliese, fu fatto prigioniero con tutto il suo seguito e messo agli arresti, per decisione di Adelchi, timoroso, forse, dell’eccessiva influenza che Ludovico, reduce dagli ultimi successi militari, stava acquisendo nel Mezzogiorno d’Italia, influenza che rischiava di minacciare anche l’autonomia dei principati longobardi del Sud. Poco tempo dopo, Ludovico fu liberato, dietro promessa di ritirarsi e di non cercare vendetta per il torto subito. Intanto, anche l’impero bizantino iniziava una progressiva riconquista dei territori del sud, a spese dei Longobardi.


Per volontà dell’imperatore Basilio I il Macedone (867-886), iniziò una nuova fase di espansione militare che, nell’875, portò all’occupazione di Bari, e, nell’880, di Taranto. Tra l’880 e l’890, furono effettuate nuove conquiste in Puglia, Calabria e Lucania. Adelchi morí nell’878, assassinato dai suoi familiari, e gli successe il nipote, Gaideris (878-881). I successori di Gaideris governarono in modo piuttosto scialbo, tentando di contenere l’espansione militare bizantina in direzione del Sannio. Nell’891, i Bizantini occuparono la stessa Benevento, deponendo il principe Orso (890-

891). Tuttavia, nell’895, una rivolta cacciò gli imperiali dalla città e il principato riacquistò la sua indipendenza sotto Radelchi II finché, nel 900, anche Radelchi fu cacciato e Benevento fu occupata dai Longobardi di Capua.

Nascita di una città

Intanto, la situazione geopolitica del Mezzogiorno si complicava perché, intorno all’860, la contea di Capua – già gastaldato del principato di Salerno – si rese indipendente e andò a costituire un’entità statale autonoma. Si noti che Capua – capoluogo dell’omonima contea

Monte Sant’Angelo (Foggia). Particolare della facciata del santuario di S. Michele Arcangelo, costruito, tra la fine del V e l’inizio del VI sec., per iniziativa del vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano, sopra una grotta naturale, sul luogo delle apparizioni dell’arcangelo Michele.

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– non era l’antica colonia etrusca e poi municipio romano – attuale Santa Maria Capua Vetere –, ma una città nuova e interamente rifondata dai Longobardi sulle sponde del fiume Volturno, in Campania, sul sito della preesistente Casilinum, antico porto fluviale della Capua antica. Nell’841, infatti, l’antica Capua fu distrutta dai Saraceni, assoldati come mercenari da Radelchi I, principe di Benevento, che intendeva punire gli abitanti per essersi schierati con il suo avversario, Siconolfo (vedi box in queste pagine). Cosí, tra l’841 e l’856, Capua cessò di esistere – nel senso urbanistico-spaziale – ma mantenne una continuità culturale e simbolico-politica attraverso il suo ceto dirigente – laico ed ecclesiastico – e i suoi abitanti, che si trasferirono in un nuovo sito, Sicopoli, ubicato a nord del Volturno. Si verificò, nei fatti, una separazione tra urbs – nel senso topografico-urbanistico – e civitas, intesa come organizzazione politico-istituzionale e comunità sociale, scissione che durò fino all’856, quando la città campana venne ricostruita su un sito diverso dall’originario, cioè sull’antica Casilinum. Tra l’841 e l’856, gli abitanti della Capua romana, assieme al conte e al vescovo, avevano trovato rifugio sul colle Palombara-Triflisco, dove era stato fondato, qualche tempo prima, dal conte Landolfo I il Vecchio (815 circa-843), il castrum di Sicopoli, cosí chiamato in onore di Sicone, principe di Benevento. Finalmente, nell’856, la città fu ricostruita, per iniziativa del conte Landone I (843-860), figlio e successore del primo conte, Landolfo I, ma in posizione diversa rispetto alla Capua romana.

I conti di Capua

La stirpe dei conti di Capua – Atenolfidi o Atenolfi – avrebbe fatto parlare di sé in futuro e avrebbe rinverdito i fasti del principato arechiano. Infatti, dopo la morte del conte Landone II (860-861) – figlio di Landone I – la guida della contea passò a Landolfo II, conte e vescovo di Capua (863-879). Costui seppe contenere le brame espansionistiche dei nipoti – che si erano divisi la contea in appannaggi, quasi fosse un bene privato – ma, dopo la sua morte, il conflitto tra i pretendenti riesplose. Alla fine, nell’887, un esponente della stirpe comitale – Atenolfo I – sconfitti gli altri pretendenti, si impossessò di Capua e, mossa guerra ai Beneventani, nel 900, si impossessò anche di questa città, proclamandosi princeps di Capua e Benevento e ricostituendo, cosí, l’unità del principato longobardo. La compagine statale edifi(segue a p. 104) 100

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LA MINACCIA SARACENA La prima incursione musulmana nel Mezzogiorno italiano risale al 652, ai danni della Sicilia, provincia bizantina. I Saraceni – nuclei di razziatori arabi e berberi – provenivano dall’Africa settentrionale e, si badi, non si autodefinirono mai con questo nome che fu loro, invece, attribuito dai cristiani. Il nome «Saraceni» è di incerta etimologia e, in origine, potrebbe aver indicato una specifica tribú araba che dimorava nella penisola del Sinai, oppure i «figli di Sara», cioè i discendenti della moglie di Abramo, capostipite anche degli Ebrei. Ma accanto a questa presunta genealogia, ne era conosciuta anche un’altra, che è, forse, alla base dell’etimologia del nome Agareni – con cui pure i razziatori erano indicati – che voleva gli Arabi, e quindi tutti i Musulmani, discendenti di Agar, concubina egizia di Abramo, che generò Ismaele. Nel corso del IX secolo, i Saraceni misero saldamente piede nel Mezzogiorno peninsulare e occuparono stabilmente alcune città, costruendo avamposti fortificati – ribat – da cui depredavano, con continue scorrerie, i territori circostanti. Costituirono, inoltre, veri e propri emirati, compagini politico-territoriali soggette alla sovranità di un emiro, da cui sferrare attacchi e seminare distruzione ai danni di tutto il Mezzogiorno. Si trattava di Taranto (840 circa), Bari (847 circa), Amantea, Tropea e Santa Severina (metà del IX secolo), mentre la Sicilia, dopo circa un secolo di invasioni e di guerre (827-902), divenne anch’essa un emirato alle dipendenze della dinastia tunisina di confessione sunnita degli Aghlabiti. Gli emirati fondati nel Mezzogiorno peninsulare andarono incontro a una fine repentina già nella seconda metà del IX secolo, grazie alla politica di riconquista perseguita degli imperatori bizantini della dinastia macedone. Nell’871 fu annientato l’emirato di Bari e nell’880 quello di Taranto. Tra l’880 e l’885 anche i nuclei saraceni di Amantea, Tropea e Santa Severina furono distrutti. Nell’881 e nell’883, i Saraceni saccheggiarono le abbazie di S. Vincenzo al Volturno e di Montecassino. Nel 915, una vasta alleanza, sotto comando bizantino, e composta dal papa, dal ducato di Spoleto, dal ducato di Napoli, dal ducato di Gaeta e dai principati longobardi, annientò le forze saracene del ribat del Garigliano. La situazione della Sicilia, invece, fu piú complessa. Conquistata dagli Aghlabiti, l’isola, nel 949, si trasformò in un emirato indipendente retto dalla dinastia kalbita, che durò fino alla conquista normanna (1091).

Un concetto dalla valenza duplice

È difficile dire quanto, delle grandi conquiste e razzie saracene, fosse l’esito imprevisto di piccole azioni di razzia e non il frutto di un piano d’espansione voluto e giustificato, in parte, anche da motivazioni religiose. Il concetto coranico di jihad – letteralmente «sforzo sulla via di Allah» – assunse infatti, fin dai primordi dell’Islam (VII-VIII secolo), una duplice valenza, spirituale e politico-militare. Se, da un punto di vista spirituale, il jihad imponeva ai credenti la lotta contro il peccato e le tentazioni, dal


punto di vista politico-militare li esortava a combattere gli «infedeli» – mushrikun – per espandere il territorio islamico – Dar al Islam – a spese della casa della guerra – Dar al harb – cioè dei territori popolati dai non credenti. Le popolazioni conquistate – secondo il dettato coranico – dovevano essere sottoposte a un diverso trattamento, a seconda dei casi: i politeisti, in mancanza di conversione, erano votati allo sterminio, i cristiani e gli Ebrei, «Gente del libro» – Ahl al Kitab – potevano convertirsi o conservare la fede. Cristiani ed Ebrei acquistavano, allora, lo status di protetti – dhimmi – condizione di sudditanza politica, in cambio del pagamento di due imposte – kharag e jizya – l’una fondiaria e l’altra un testatico. Questa prassi trovò ampio seguito anche nel Mezzogiorno d’Italia.

Miniatura raffigurante uno scontro di armati davanti a una fortezza, da un’edizione manoscritta del De Universo di Rabano Mauro. XI sec. Montecassino, Archivio dell’Abbazia.

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CONQUISTE ARABE Territori unificati da Maometto (622-632) Unificazione dell’Arabia con Abu Bakr (632-634) Conquiste dei califfi «ortodossi» (632-661) e data

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Rivolta abbaside (terza guerra civile). Fine della dinastia degli Omayyadi e inizio del califfato abbaside (750) 830

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Nascita delle dinastie autonome del califfato abbaside e data Altre grandi battaglie del mondo arabo durante l’espansione e i conflitti interni Principali campi militari dell’esercito arabo-islamico Impero carolingio in sfacelo ai tempi di Carlo il Grosso (887) Impero bizantino

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Una questione meridionale

cata da Atenolfo appariva solida e cosí il principe, alla sua morte, nel 910, poté trasmettere la corona al figlio, Landolfo I (910-943), cresciuto ed educato a Costantinopoli. Nonostante le conquiste di Capua, Salerno conservò la sua indipendenza e, nell’861, la città cadde nelle mani di Guaiferio, un figlio di Dauferio il Balbo († 851 circa)– dell’illustre famiglia beneventana dei Dauferidi – da tempo in esilio a Capua. Nell’861, Guaiferio († 880), appoggiato dai Capuani e con un vasto seguito di fideles, si impossessò del potere, spodestando il princeps 104

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salernitano Ademario (853-861). Iniziava, cosí, una delle fasi piú importanti della storia salernitana, nel corso della quale la città subí anche un durissimo assedio da parte dei Saraceni (872), da cui uscí indenne, anche grazie all’intervento, al fianco del principe, dell’imperatore franco Ludovico II che, su sollecitazione di papa Adriano II (867-872), subito mosse verso il Mezzogiorno. Liberata la città dall’assedio, Ludovico ottenne la sottomissione del principe di Salerno, città che, sotto i successori di Guaiferio – Guaimario I (880-901) e Guaimario II (901-946) –

L’assetto geopolitico del Mezzogiorno d’Italia fra X e XI sec.


PANDOLFO, STUPOR MUNDI Pandolfo I Capo di Ferro apparteneva alla stirpe degli Atenolfidi e fu principe di Capua, Benevento e Salerno, riuscendo a unificare, sotto la sua autorità, tutte le compagini politiche longobarde del Mezzogiorno. Nel 961, successo nel principato di Capua e Benevento al padre, Landolfo II (943-961), nipote del grande Atenolfo I, Pandolfo divise il potere con il fratello, Landolfo III, fino al 969, dopodiché governò da solo. Della gioventú del principe non si sa molto, ma si presume che Pandolfo abbia ricevuto l’educazione tipica dei nobili longobardi: guerriera, ma anche umanistica, come i suoi predecessori, spesso inviati a Costantinopoli per completare la propria formazione. Grazie all’appoggio alla politica dell’imperatore e duca di Sassonia, Ottone I (936-973) – che rivendicava il dominio sul Mezzogiorno, in quanto erede politico dei Carolingi – Pandolfo riuscí a concentrare nelle sue mani un potere enorme: principe di Capua e Benevento, per successione dinastica, duca di Spoleto e marchese di Camerino, dal 967, per concessione di Ottone, dal 978 fu anche principe di Salerno. Infatti, il principe Gisulfo I (946-978), morto senza eredi, lo designò suo successore, in segno di gratitudine per l’aiuto prestato, tempo prima, per reprimere una congiura di nobili salernitani.

L’egemonia di Capua e Benevento

I domini di Pandolfo andavano dall’Italia centrale al Lazio meridionale, lambendo l’Adriatico, a oriente, fino a includere parte della Campania, della Puglia e della Lucania non bizantine. Nel 966 il principe di Capua, grazie all’appoggio di Ottone I, ottenne dal papa il rango di diocesi metropolitana per Capua, raggiungendo, cosí, uno degli obiettivi tradizionali della dinastia capuana: fare della città longobarda non solo la capitale politica della Longobardia meridionale, ma anche quella religiosa. Piú tardi anche Benevento fu innalzata al rango di arcidiocesi (969), a conferma del ruolo egemone

preservò la sua indipendenza contro l’espansionismo del principato di Capua-Benevento, finché, nel 978 – morto il principe Gisulfo I (946978) – fu annessa a Capua. L’annessione del principato salernitano alla compagine capuana fu opera di una delle menti politiche piú straordinarie che il Mezzogiorno longobardo abbia mai prodotto: Pandolfo I, detto Capo di Ferro (vedi box in questa pagina). Tuttavia, il sogno di un’unità dei Longobardi del sud, contro la minaccia bizantina e saracena, si infranse alla morte del Capo di Ferro, nel

delle due città nel Mezzogiorno, sotto un profilo non solo politico. Pandolfo fu sempre al fianco di Ottone nelle azioni militari dell’imperatore contro l’impero romano d’Oriente. Ottone condusse ben due campagne contro i Bizantini, nel 969 e nel 970. Nel 969, nel corso della prima, l’imperatore subí una grave disfatta a Bovino, in Puglia, e il suo alleato, Pandolfo, fu catturato e deportato a Costantinopoli, ma, nel 970 – durante la seconda spedizione – i Tedeschi sconfissero i Bizantini ad Ascoli Satriano, Pandolfo fu liberato e poté tornare in patria. Poco tempo dopo, l’imperatore d’Oriente, a seguito di una legazione inviata a Costantinopoli da Ottone I, accettò la proposta di rinsaldare i rapporti tra i due imperi attraverso un matrimonio dinastico, e cosí la principessa bizantina Teofano († 991), andò sposa a Ottone II († 983), figlio dell’imperatore. Nel 981, alla sua morte, la grande costruzione politica del Capo di Ferro andò in pezzi, e Capua, Benevento e Salerno tornarono ad avere storie distinte. A Pandolfo si deve anche l’edificazione della torre del Garigliano – distrutta durante la seconda guerra mondiale – al fine di commemorare la nota battaglia, combattuta lungo la riva del fiume nel 915, tra i Saraceni e una lega cristiana, promossa da papa Giovanni X (914-928), e di cui entrarono a far parte il ducato di Spoleto, l’impero bizantino, il ducato di Napoli, il ducato di Gaeta, il principato di Salerno e il principe di Capua, Landolfo I, nonno del Capo di Ferro. Obiettivo dell’alleanza – cui non partecipò Amalfi, che non intendeva pregiudicare i lucrosi rapporti commerciali con i Saraceni – era quello di annientare le forze saracene del ribat del Garigliano e, sebbene il comando dell’operazione fosse stato riservato ai Bizantini, guidati dello stratega Nicola Picingli, il contributo militare dei Capuani fu determinante per la vittoria, la sconfitta dei Saraceni e la distruzione del loro avamposto fortificato.

981, quando i principati da lui unificati riottennero l’indipendenza. A Capua, si insediarono i figli di Pandolfo, Landolfo IV (981-982) e, poi, Landenolfo II (982-993), a Benevento il nipote, Pandolfo II (981-1014 circa), mentre a Salerno, dopo la breve parentesi del duca amalfitano Mansone I (981-983), si insediò una nuova dinastia – «spoletina» – con a capo il «conte di palazzo» Giovanni II di Lamberto (983-999), già ufficiale e collaboratore del Capo di Ferro. Ma una nuova minaccia si profilava all’orizzonte: l’arrivo dei Normanni.

Una foto d’epoca della torre fatta costruire da Pandolfo Capo di Ferro alla foce del Garigliano e andata distrutta nel corso della seconda guerra mondiale.

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Gli ultimi fuochi All’indomani dell’anno Mille, nuove genti di origine nordica irrompono in Italia. Con l’avvento dei Normanni, i centri del potere longobardo nel Mezzogiorno d’Italia decadono e la gloria dei ducati si trasforma in un ricordo Il castello di Monte Sant’Angelo, sul Gargano. La cittadina ospita anche il celebre santuario di S. Michele Arcangelo, santo che, per la sua connotazione guerriera, fu molto venerato anche dai Longobardi.


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N

el corso dell’XI secolo, i principati longobardi si avviarono verso una fase di profonda decadenza politica e militare destinata a culminare, nella seconda metà del secolo, con la perdita della loro indipendenza politica e l’annessione a nuove compagini statali che nuclei di cavalieri di provenienza francese – noti nelle fonti col nome di «Normanni» – andavano costituendo nel Mezzogiorno. Oltre al pericolo rappresentato da questi temibili avventurieri, i principati andarono incontro anche a un processo di progressiva erosione della loro struttura istituzionale e burocratico-amministrativa, che – già iniziato nel secolo precedente – giunse a compimento proprio in questo periodo. Si verificò, cioè, un processo di progressiva disintegrazione dei poteri pubblici, accompagnata dalla lenta, ma efficace appropriazione degli stessi, da parte dell’aristocrazia fondiaria, già titolare, nella gran parte dei casi, di uffici pubblici e dei connessi poteri. Benché si tratti di un fenomeno molto dibattuto in sede storiografica, secondo l’interpretazione piú diffusa la progressiva affermazione di «signorie territoriali» – dette «contee» – nel Mezzogiorno longobardo, fu determinata, essenzialmente, dall’indebolimento del potere centrale delle dinastie principesche, causato da conflitti civili, dalle incursioni musulmane e dalle guerre continue che contrapponevano la Longobardia all’impero bizantino. La base per la costituzione del potere dei conti longobardi fu costituita dalle proprietà terriere dell’aristocrazia e dal possesso di uffici dell’amministrazione periferica dei principati. Le contee – le ampie circoscrizioni territoriali in cui era ripartito il territorio dei principati – furono, progressivamente, «privatizzate» e «dinastizzate» e altrettanto avvenne col titolo di conte e le connesse attribuzioni. L’insicurezza sociale, connessa ai conflitti tra i principati, favorí – tra IX e X secolo – anche il fenomeno dell’«incastellamento», cioè la proliferazione di roccaforti e di centri abitati fortificati a presidio dei territori e degli abitanti. L’aumento delle fortificazioni, edificate dai conti, divenne un ottimo strumento non solo di difesa, ma anche di controllo politico-amministrativo della popolazione. Pertanto, nel corso dell’XI secolo, i principi longobardi cessarono di esercitare, nella gran parte dei casi, ogni potere sui distretti territoriali finiti in mano ai conti e divennero figure semplicemente rappresentative di una fantomatica identità e unità longobarda del Mezzogiorno. Tuttavia, il principato di Salerno – rispetto a Capua e Bene-

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vento – riuscí a conservare, evitando eccessive frammentazioni, una maggiore compattezza e autorità, probabilmente grazie alla sua conformazione territoriale e al minor numero di città presenti entro i suoi confini. L’arrivo dei Normanni nel Mezzogiorno d’Italia è collocabile tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo. Questi cavalieri, discendenti degli antichi Vichinghi che avevano fatto tremare l’Europa, con le loro scorrerie, tra l’VIII e il X secolo,

Miniatura tratta dal manoscritto liturgico Exultet, raffigurante l’allegoria della terra. X sec. Bari, Archivio Capitolare.


GLI ANNI DEGLI ALTAVILLA 999 circa Un gruppo di cavalieri normanni sbarca a Salerno dalla Terra Santa. 1017-1018 Seconda rivolta di Melo, aristocratico barese, contro il potere bizantino. Al suo servizio ci sono alcuni cavalieri normanni. 1027 Guaimario IV diventa principe di Salerno. Fra il 1038 e il 1047 sarà anche principe di Capua e dal 1043 porterà il titolo di duca di Puglia. 1030 circa Fondazione di Aversa a opera di Rainulfo e altri cavalieri normanni. Nel 1038 Rainulfo fu investito della contea di Aversa dall’imperatore germanico Corrado II, dietro richiesta di Guaimario IV di Salerno. 1042 circa I maggiori capi normanni si dividono a Melfi le principali città della Puglia, quelle già conquistate, e quelle ancora da conquistare. 1047 circa Arrivo in Italia di Riccardo Quarrel e Roberto il Guiscardo. 1052 Guaimario IV, principe di Salerno, viene ucciso da una congiura di palazzo. Suo figlio, Gisulfo II, riesce poco dopo a riprendere il controllo della città, con l’aiuto determinante dei Normanni. 1053 I Normanni sconfiggono le truppe papali a Civitate, erano originari del ducato di Normandia, nella Francia nord-occidentale, dove avevano, già da tempo, subito un lungo processo di deculturazione. Avevano abbandonato la lingua norrena – in favore della lingua d’oïl –, gli antichi culti pagani e si erano convertiti al cristianesimo. Il ducato di Normandia era una vera e propria enclave, in terra franca, che i Vichinghi erano riusciti a costituire nel X secolo, grazie alla concessione, nel 911, di alcuni territori da parte del

nella Puglia settentrionale. 1058 Riccardo Quarrel conquista Capua e ne diventa principe. 1059 A Melfi il Guiscardo giura fedeltà al papa Niccolò II, assume il titolo di duca e viene investito dei territori di Puglia e Calabria (ancora in gran parte in mano ai Bizantini) e della Sicilia ancora araba. 1071-1072 Il Guiscardo conquista Bari, capoluogo dei domini bizantini nell’Italia meridionale (1071); Ruggero I conquista, con l’aiuto del Guiscardo, Palermo, capitale dell’emirato arabo di Sicilia (1072). 1073 L’ultimo principe beneventano, Landolfo VI, si sottomette al papa. Benevento si sottrae in tal modo alla conquista normanna; rimarrà per secoli sotto il dominio pontificio. 1077 Il Guiscardo conquista Salerno. 1081 Il Guiscardo inizia la sua impresa di conquista dei Balcani: sbarca a Valona, conquista Corfù e assedia Durazzo. 1085 Il Guiscardo si ammala e muore nei Balcani; il suo corpo viene poi riportato in Puglia e sepolto a Venosa, nell’abbazia della Ss. Trinità.

re di Francia, Carlo III il Semplice (898-923). I Normanni giunti nel Sud della Penisola erano, per lo piú, cavalieri di ritorno dai Luoghi Santi che, attratti dall’amenità dei luoghi e dalle risorse economiche di quelle terre, decisero di stabilirvisi alla ricerca di migliori condizioni di vita e, ben presto, furono seguiti da altri nuclei di combattenti, attratti anch’essi dalle stesse possibilità. Il numero, tuttavia, doveva essere esiguo, se confrontato con la popolazione resi-

In alto incisione raffigurante papa Leone IX fatto prigioniero dai Normanni dopo l’annientamento del suo esercito. Parigi, 1780 circa.

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DAI VICHINGHI AI NORMANNI L’immigrazione dei Normanni nel Mezzogiorno fu solo la fase finale di un lungo e complesso fenomeno, iniziato alla fine dell’VIII secolo. L’«età vichinga», il periodo in cui le genti del Nord – di stirpe germanica – si espansero militarmente in Occidente e nell’Oriente russo e ucraino è, convenzionalmente, compresa tra il 793 e il 1066, tra il primo saccheggio vichingo perpetrato ai danni dell’abbazia di Lindisfarne, sulle coste orientali della Northumbria anglosassone, e la battaglia di Hastings – 14 ottobre 1066 – in cui i Normanni sconfissero gli Anglosassoni e conquistarono il regno inglese. L’etimologia del nome «Vichinghi» è incerta e si suppone che derivi dal norreno vik – baia – oppure dal sassone wic – borgo, città – con chiari riferimenti, nel primo caso, all’attività predatoria di queste popolazioni e, nel secondo, a quella commerciale. Oltre che come Vichinghi, nelle fonti dell’epoca, le genti del Nord erano anche indicate con l’etnonimo di Northmanni, uomini del Nord, oppure di Vareghi, Rus (Varangoi, Rhos, in greco, Rus, in slavo, «Russi»), nomi derivanti, presumibilmente, da var, giuramento, o da rodhr, remo, con riferimento, nel primo caso, alle confraternite militari – vikingelag – che riunivano i guerrieri e, nel secondo, alle imbarcazioni – drakkar – con cui solcavano i mari. Le fonti arabe del periodo utilizzavano l’etnonimo al Majus – adoratori del fuoco – gentili, «pagani», con riferimento ai culti politeistici di queste genti, mentre in quelle irlandesi compaiono Lochlannach o Gaill, rispettivamente, «abitanti dei laghi» e «stranieri». Permangono dubbi sulle direttrici di marcia seguite dai Normanni per raggiungere il Mezzogiorno italiano. Molto probabilmente seguirono il tracciato della via Francigena, praticato da tutti i pellegrini diretti a Roma, oppure, abili navigatori, si servirono della navigazione di cabotaggio, lungo le coste franco-spagnole, fino a Gibilterra, per entrare nel Mediterraneo e raggiungere le coste italiane.

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Le cause che determinarono l’emigrazione furono di ordine economico, sociale e politico. L’espansione normanna va certamente collegata alla ripresa demografica, economica e produttiva che attraversò l’Europa occidentale, a partire dall’XI secolo. Molto probabilmente, il ducato di Normandia fu travolto dalla crescita demografica, a cui non si riuscí a provvedere con un adeguato sviluppo delle risorse produttive disponibili.

Un «fenomeno» europeo

Lo squilibrio tra demografia e risorse, aggiunto alla trasmissione in senso patrilineare dei beni feudali e allodiali, spinse molti esponenti cadetti dei lignaggi nobiliari normanni ad abbandonare il ducato, per trovare altrove migliori opportunità e condizioni di vita. Il «fenomeno normanno», quindi, coinvolse tutta l’Europa, e non solo il Mezzogiorno italiano. Come non ricordare figure come Roussel de Bailleul, abile cavaliere, che si pose al servizio dell’impero bizantino contro i Turchi Selgiuchidi, o Ruggero de Tosny, che si uní ai conquistatori di Barbastro, nel 1064, durante una delle piú importanti imprese militari della Reconquista? Altrettanto può dirsi per i Drengot e gli Altavilla. Ma accanto a cause di ordine economico e demografico, vi erano motivazioni ben piú gravi, di ordine politico. Tra il 1035 e il 1066, il ducato di Normandia fu travolto dalle guerre civili che opponevano il duca, Guglielmo il Bastardo (1035-1087), all’aristocrazia normanna, poiché il duca perseguiva un chiaro obiettivo di centralizzazione politica che urtava contro gli interessi delle famiglie piú potenti. Tra il 1047 e il 1060, il Bastardo combatté le sue prime e piú importanti battaglie – Val ès Dunes, Mortemer, Varaville – e questi conflitti civili alimentarono l’emigrazione dal ducato verso il Mezzogiorno d’Italia. I piú prestigiosi clan normanni giunti nel Mezzogiorno furono quello degli Altavilla e quello dei Drengot-Quarrel. Il primo – probabilmente originario di Hauteville-la-Guichard – era composto

da Tancredi e i suoi undici figli maschi. Da Muriella, la prima moglie, Tancredi aveva avuto: Guglielmo, Drogone, Umfredo, Serlone; da Fredesenda: Roberto, detto il Guiscardo, Maugerio, Ruggero, Guglielmo (II), Tancredi, Uberto, Alveredo. I Drengot-Quarrel erano guidati da Osmondo e Rainulfo che erano fuggiti dal loro borgo natio, in quanto ricercati per l’omicidio di un nobile del luogo, Guglielmo Repostel, di cui avevano violentato la figlia. Quarrel doveva essere un cognomen toponomasticum derivante dall’omonimo borgo, identificabile con l’attuale Les Carreaux, comune d’Avesnes-en-Bray, ubicato nel dipartimento di Seine-Maritime. Si conoscono i nomi soltanto di cinque fratelli Quarrel: Rainulfo, Rodolfo, Asclettino, Osmondo e Gilberto.


dente nel Mezzogiorno, e, pertanto, non si può parlare di «migrazione di massa», ma di un’occupazione progressiva di una minoranza guerriera, insediatasi a piccoli gruppi nel territorio come aristocrazia militare. Per questi cavalieri, la guerra rappresentava l’unico strumento utile ad accumulare onori e ricchezze e per costituire, attraverso l’insediamento nel Sud, signorie politico-territoriali a cui fu dato il nome di «contee», utilizzando una denominazione desunta dall’articolazione politico-istituzionale dei principati longobardi (vedi box in queste pagine).

Mercenari e avventurieri

Particolare di una miniatura, raffigurante un contingente di soldati normanni durante l’attraversamento della Manica, da un’edizione de La Vie de Saint Aubin d’Angers. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

In origine – come si è detto – si trattava, probabilmente, di pellegrini-guerrieri, in visita al santuario garganico di S. Michele che, di ritorno dal pellegrinaggio, giunti a Salerno, assediata dai Saraceni – tra il 999 e il 1016 – fornirono un valido aiuto militare per respingere l’assalto islamico, e vennero ricompensati dal principe, Guaimario III (999-1027), con armi, terre e vettovagliamento. Alcuni di essi, dopo un breve rientro in Normandia, tornarono a Salerno, con altri conterranei, e si misero al servizio, come mercenari, di Guaimario; altri, invece, andarono a cercare fortuna piú a sud, in Puglia, dove divampavano alcune rivolte contro gli occupanti bizantini. Tra i raggruppamenti di questi avventurieri se ne distinsero subito due: il primo comandato dai fratelli d’Altavilla, figli di Tancredi († 1041 circa); il secondo capeggiato dal clan dei Drengot-Quarrel, guidato dai fratelli Osmondo e Rainulfo. Entrambi riuscirono a crearsi una solida base di potere militare, territoriale e politico, attraverso la razzia, il saccheggio e la forza, oltre a un’abile capacità di mettersi al servizio dei potentati piú diversi. A partire dall’XI secolo, come accennato, la Puglia era attraversata da fermenti di rivolta antibizantina, fomentati da Melo di Bari – un notabile barese di origine longobarda – ribellatosi al governo. Melo era sostenuto, nei suoi propositi rivoluzionari, dall’imperatore tedesco, Enrico II (1002-1024), duca di Baviera e successore della dinastia degli Ottoni, duchi di Sassonia, e che aspirava ad ampliare i confini dell’impero in direzione del Mezzogiorno italiano. Pertanto, l’imperatore aveva investito Melo del titolo di «duca di Puglia», auspicando la formazione, nel Sud, di una compagine politico-territoriale che avrebbe dovuto gravitare nella sfera d’influenza dell’impero tedesco. Con l’aiuto delle truppe normanne, Melo mosse guerra all’impero d’Oriente e riportò alcune vittorie, ma venne infine sconfitto dal catapano bizantino, Basilio Bojoannes, nella

battaglia di Canne (1018) e fu costretto a fuggire in Germania, dove morí, nel 1020, a Bamberga. Nel frattempo, Enrico II organizzò una spedizione nel Sud Italia. Su richiesta di papa Benedetto VIII (1012-1024), l’imperatore scese nel Mezzogiorno per riaffermare la sua autorità, combattere i Bizantini e, al contempo, sconfiggere i Normanni, che ambiva ad arruolare al servizio dell’impero. L’impresa fu preparata con cura e coinvolse circa 60 000 soldati, ma si rivelò un disastro, poiché l’imperatore fu sconfitto dai Bizantini a Troia, in Puglia, e dovette riparare a nord, dirigendosi a Capua, dove, in un’assise solenne, ottenne la sottomissione e il giuramento di fedeltà dei principi longobardi di Capua, Benevento e Salerno. Guaimario III fu costretto a piegarsi e, in quell’occasione, Enrico II ebbe modo di ricevere ostaggi, tra cui il giovane Pandolfo IV (1016-1049), diventato, pochi anni prima, principe di Capua. Questo personaggio avrebbe continuato a far parlare di sé, negli anni a venire. Partito Enrico per la Germania, Guaimario III violò il giuramento di fedeltà fatto all’imperatore e, profittando dell’assenza di Pandolfo IV, prigioniero in Germania, tentò di impadronirsi di Capua, con l’aiuto di alcuni Normanni e con le milizie del conte dei Marsi, ma il suo tentativo andò incontro a un totale insuccesso. Nel 1027, Guaimario III morí, senza avere raggiunto alcun risultato significativo in politica estera, dove aveva seguito la linea già tracciata dai suoi predecessori, cioè quella della piú assoluta ambiguità diplomatica, oscillando tra l’alleanza formale all’impero d’Oriente, la salvaguardia della propria indipendenza politica e la sottomissione – altrettanto formale – all’impero germanico.

Un cenobio prestigioso e potente

Maggiore importanza riveste, durante il suo principato, la fondazione dell’abbazia benedettina della SS. Trinità, presso Cava de’ Tirreni, a nord di Salerno. Artefice della nascita del cenobio, destinato ad avere un ruolo importante nella storia – non solo religiosa – del Mezzogiorno, fu sant’Alferio († 1050 circa), esponente di una nobile famiglia longobarda di Salerno, probabilmente imparentata con i principi. Agli inizi dell’XI secolo, Alferio aveva abbandonato la vita laica per darsi all’eremitaggio nei pressi di Cava de’Tirreni, località che, già all’epoca, per i suoi luoghi selvaggi, aveva favorito la formazione di alcuni insediamenti di eremiti. Nel marzo del 1025, Guaimario III emise un diploma, con cui donò il territorio, e una chiesa annessa, al monaco, gli conferí l’immunità e creò LONGOBARDI

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In alto Veduta di Melfi, acquaforte tratta da Il Regno di Napoli in prospettiva di Giovanni Battista Pacichelli, edito da Domenico Antonio Parrino e Michele Luigi Mutio. Napoli, 1703. A sinistra Coutances (Francia), Cattedrale. Particolare della statua raffigurante Roberto il Guiscardo. La scultura, posta sull’esterno, è una copia ottocentesca dell’originale gotico, distrutto durante la rivoluzione francese.

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cosí i presupposti per lo sviluppo di uno dei piú grandi potentati monastici del Mezzogiorno. Il diploma riconosceva all’abbazia il privilegio della libertas ecclesiae, l’esenzione del cenobio da ogni ingerenza del potere principesco, a cui, per concessione papale, alcuni anni dopo, si aggiunse l’esenzione ecclesiastica, ovvero l’esenzione del monastero, e delle sue terre, dalla giurisdizione del presule salernitano. Alla morte di Guamario III, gli successe il figlio, già associato al trono, Guaimario IV (10271052). Nei primi mesi del suo principato, Guaimario IV governò con la madre, Gaitelgrima, che fu, probabilmente, associata al governo per disposizione del marito, in funzione di reggente, come è dimostrato dalla documentazione relativa al periodo aprile-giugno 1027. La reggenza fu brevissima e, alla fine di giugno del 1027, Gaitelgrima cessò di svolgere a corte un ruolo di rilievo, perché morí poco dopo quella data, o fu destituita da Guaimario che iniziò a governare da solo. La presenza di una donna ai vertici dello Stato non deve meravigliare, se si considera che i Longobardi, eredi delle antiche consuetudini germaniche, attribuivano spesso alle donne funzioni pubbliche, soprattutto nella fase di transizione da un sovrano a un altro. Senza scomodare Teodolinda, regina del VI secolo e fautrice del decisivo passaggio di poteri dal re Autari al suo successore Agilulfo, da lei scelto come marito – secondo quanto afferma Paolo Diacono – il Mezzogiorno è ricco di queste figure. Si pensi ad Adelperga. Pur non potendo essere investite del potere sovrano nella sua pienezza, alle madri e, talvolta, alle sorelle era consentito svolgere importanti funzioni, come reggenti, nella fase piú delicata della vita di una dinastia, sia in caso di reggenza mono-



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I NORMANNI, DA TANCREDI ALLO STUPOR MUNDI TANCREDI (980/990-1040?)

Matilde (1062-1094)

Serlone I (1010 circa-?) rimane in Normandia Guglielmo Braccio di Ferro (1010 circa-1046), 1° conte di Puglia (1042)

= (1) Muriella

Drogone (1015 circa-1051), 2° conte di Puglia (1046) = Gaitelgrima di Salerno (Altrude) Umfredo (1020 circa-1057), 3° conte di Puglia (1051)

Riccardo d’Altavilla (1045 circa 1110 circa)

Goffredo (1020 circa-1071), conte di Capitanata = (2) Fredesenda

Roberto il Guiscardo (1025 circa-1085), conte di Puglia e di Calabria (1057), poi duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia (1059) Malgerio (1025 circa-1064), conte di Capitanata (1057) Guglielmo (1030 circa-1080 circa), conte del Principato di Salerno (1056) Alveredo o Alfredo, rimasto in Normandia Tancredi, venuto in Italia e scomparso Beatrice (1030 circa-?) Emma (1030 circa-?) Fredesenda (1030-1097) Ruggero I (1031 circa-1101), conte di Sicilia (1061) =

cratica che collegiale, ovvero nel caso in cui la donna era coadiuvata, nelle sue funzioni, da un consiglio. Si consideri, inoltre, che Gaitelgrima era la sorella di Pandolfo IV, principe di Capua. E proprio lo zio del principe di Salerno, Pandolfo di Capua, fu il primo avversario con cui Guaimario dovette misurarsi nella corsa all’affermazione dell’egemonia sulla Campania.

Il ritorno di Pandolfo

Infatti, morto l’imperatore Enrico II, Pandolfo era tornato dall’esilio germanico e aveva ripreso possesso di Capua, iniziando subito una politica di espansione nel territorio campano e basso-laziale con l’ausilio dei Normanni. Impossessatosi di Napoli, Pandolfo costrinse il duca Sergio IV (1005-1038) a fuggire e a trovare aiuto presso il clan normanno dei Drengot-Quarrel. Grazie all’aiuto dei Drengot, il duca di Napoli tornò in possesso del ducato e, nel 1030, ricompensò i suoi alleati con la concessione, in feudo, 114

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(1) 1061 Giuditta di Evreux (1050-1076)

Adelicia Emma Malgerio, conte di Troina (1080 circa-1100 circa)

(2) 1077 Eremburga di Mortain (†1087)

Busilla (Felicia) (1080 circa-1102) Costanza (1080 circa-?) Violante (Iolanda) Giuditta

(3) 1087 Adelaide del Vasto (1074-1118)

Simone di Sicilia (1093-1105) Matilde (1090 cica-1119) Ruggero II (1095-1154), conte (1105) poi re di Sicilia (1130) =


Ruggero (1175-1193)

Ruggero (1118-1148), duca di Puglia e Calabria = Bianca di Lecce Tancredi (1120 circa-1138), principe di Bari

(1) 1116 Elvira Alfonso di Castiglia (1097-1135) (2) 1149 Sibilla di Borgogna (1126-1150) (3) (N) Simone di Taranto (4) 1151 Beatrice di Rethel (1135 circa1185)

Nella pagina accanto Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, in un olio su tela di scuola lombarda. Prima metà del XVII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

Alfonso (1122 circa-1144), duca di Napoli Guglielmo I il Malo (1131-1166), re di Sicilia (1154-1166) = Margherita di Navarra Adelicia (1130 circa-?)

Costanza (1154-1198) = Enrico VI, imperatore (1165-1197)

Tancredi (1138-1194), conte di Lecce, re di Sicilia (1189-1194) = Sibilla di Medania Ruggero (1150-1161), duca di Puglia

Costanza Valdrada Maria Albina (1175 circa-1234), contessa di Lecce Guglielmo III (1185-1198), re di Sicilia (1194)

Palermo, Palazzo dei Normanni, Cappella Palatina. Particolare del mosaico del Trono Reale raffigurante lo stemma del Regno di Sicilia con le insegne della Casa d’Aragona e le aquile imperiali sveve. XII sec.

Guglielmo II il Buono (1153-1189), re di Sicilia (1166-1189) Enrico (1158-1172), principe di Capua Matina

FEDERICO II (1194-1250), imperatore

del castrum di Aversa, ubicato nell’ attuale Terra di Lavoro. La contea di Aversa, affidata al governo di Rainulfo I Drengot († 1045), capo del clan Quarrel, fu posta alle dipendenze del duca di Napoli, fin quando il normanno cambiò idea e passò dalla parte di Pandolfo. Preoccupato dall’espansionismo capuano, Guaimario, assieme al papa e all’abate cassinese, richiese l’aiuto del nuovo imperatore tedesco, Corrado II (1024-1039), duca di Franconia, perché intervenisse nel Mezzogiorno. Nel 1038, l’imperatore guidò una spedizione nel Sud Italia, tesa a piegare Pandolfo e a vendicare l’onta della sconfitta patita a Troia nel 1022. La permanenza dell’imperatore nel Mezzogiorno non superò i tre mesi e l’obiettivo primo del suo esercito fu dunque la città di Troia, in Puglia, che venne messa sotto assedio, ma non fu presa. Successivamente, in maggio, Corrado tenne a Capua un’assise solenne, nel corso della quale depose Pandolfo IV, che fu

bandito e fuggí a Costantinopoli, affidò il principato di Capua e il ducato di Gaeta, precedentemente annesso da Pandolfo, a Guaimario di Salerno, e investí, con lancia e vessillo, il conte normanno Rainulfo Drengot, che passò alle dipendenze dell’impero.

I vantaggi di un’adozione

Conquistata la fiducia di Corrado, Guaimario fu anche adottato come figlio. Si trattava di un atto di diritto privato, che, come tale, non cambiava di molto la posizione del principe nei confronti dell’imperatore, tuttavia anche quell’onorificenza ebbe la sua importanza nel consolidare i rapporti tra il principe e l’impero tedesco, e la creazione di quel rapporto artificiale di parentela con la dinastia imperiale salica innalzava Guaimario al di sopra di ogni vassallo dell’impero nel Mezzogiorno, collocandolo in una posizione speciale, superiore a quella di (segue a p. 118) LONGOBARDI

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Miniatura raffigurante papa Niccolò II che incorona Roberto il Guiscardo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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La fine di un’epopea A sinistra veduta panoramica a volo d’uccello della città di Aversa. 1650.

In basso uno scorcio del castello di Melfi, la città lucana che il principe Guaimario IV di Salerno elesse a propria «capitale». chiunque altro. Ampliati i confini del principato di Salerno in direzione della costa laziale, Guaimario concentrò la sua attenzione verso la costa campana ed i confini meridionali del suo principato. Dopo il ritorno di Corrado in Germania e forte della protezione imperiale, nel 1039 occupò il ducato di Sorrento, il cui governo fu affidato a Guido, conte di Conza e fratello del principe. Nello stesso anno, Guaimario occupò anche Amalfi, sconvolta da una sanguinosa guerra civile tra i fratelli Giovanni III e Mansone II, che si contendevano il ducato. Guaimario allontanò da Amalfi tutti i suoi avversari e assunse direttamente il potere, delegando poi il governo a Mansone (vedi box a p. 120). Eccetto il ducato di Napoli e il principato di Benevento – che aveva ormai un ruolo totalmente marginale rispetto ai grandi avvenimenti politici del Mezzogiorno –, gran parte del territorio campano era sotto la sovranità di Guaimario, che, nel frattempo, andava estendendo il suo potere anche piú a nord. Nel 1043, infatti, si impossessò anche della contea normanna di Aversa. Non si conoscono bene le dinamiche degli eventi, ma è certo che, a partire dal marzo 1043, gli atti di governo redatti dalla cancelleria aversana non erano datati in capo al conte normanno in carica, Rainulfo Drengot, ma ascritti al governo del principe Guaimario, diventato, ormai, dominus di Rainulfo. Dopo aver delegato il governo di Gaeta a Rainulfo Drengot, conte di Aversa, Guamario attaccò la 118

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Puglia bizantina, dove, morto Melo di Bari, i Normanni avevano trovato nuovi protettori e si erano dati nuovi capi, prima nella persona di Arduino – un milanese, forse vassallo della diocesi ambrosiana – e poi, morto Arduino, in Atenolfo, nobile longobardo imparentato con i principi di Benevento. Morto anche Atenolfo, i Normanni elessero come duce uno di loro, Guglielmo d’Altavilla, detto «Braccio di Ferro».



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LE «REPUBBLICHE DEL MEZZOGIORNO» Gaeta, Sorrento e Amalfi avevano fatto parte dell’indiviso ducato di Napoli fino al IX secolo. Il ducato si estendeva lungo la costa campana e basso-laziale, da Gaeta, a nord, fino ad Amalfi, a sud, e rappresentava il residuo della presenza bizantina nel Mezzogiorno, dopo la caduta dell’esarcato, nel 751. Dopo le conquiste longobarde del VI-VII secolo, Napoli continuò a svolgere una funzione di contenimento dell’espansione longobarda in direzione della costa, formalmente alle dipendenze dell’impero bizantino. Progressivamente, a partire dal X secolo, i principali centri urbani dell’indiviso ducato napoletano diedero vita a ducati autonomi che, agli inizi dell’XI secolo – e alla vigilia della conquista normanna del Mezzogiorno – erano, in ordine di prossimità territoriale e procedendo da nord verso sud: il ducato di Gaeta, il ducato di Napoli, il ducato di Sorrento e il ducato di Amalfi. Nell’VIII secolo, il ducato di Napoli si era, a quanto sembra, già reso totalmente indipendente dall’impero bizantino, sotto la guida di Stefano II, che fu, al contempo, duca (755-799) e vescovo della città (768-799). Gaeta, Sorrento e Amalfi non costituivano – come si è detto – ducati indipendenti, ma erano semplici castra, retti da un magister militum, o un tribunus, alle dipendenze del duca napoletano. Erano, quindi, borghi fortificati, compresi nei confini del ducato napoletano. Gaeta si staccò definitivamente da Napoli nel corso del X secolo, ma le premesse della sua autonomia risalgono al IX secolo,

quando l’ipato Docibile I (872 circa-906) fondò la sua dinastia. Originariamente, il titolo dei sovrani di Gaeta era quello bizantino di ipati – cioè «consoli» – non duchi, nome che assunsero solo nel corso del X secolo. L’ultimo esponente della stirpe ducale venne deposto da Pandolfo IV di Capua nel 1032. Sorrento divenne indipendente nell’870 circa, sotto il governo del suo primo praefecturius, Pietro I (870-898 circa). A Sorrento, il titolo di praefecturius fu abbandonato per quello di duca solo nell’XI secolo, quando il ducato fu annesso al principato di Salerno e, infine, occupato definitivamente dai Normanni nel 1137. Amalfi fu il primo dei ducati a rendersi autonomo da Napoli e, agli inizi del IX secolo, dopo la morte del principe di Benevento Sicardo – che aveva occupato la città – Amalfi elesse, per la prima volta, un supremo magistrato alla guida della «repubblica», il comes Pietro. La città divenne pienamente autonoma nel X secolo, quando il praefecturius Mansone (898-914) fondò la sua dinastia, destinata a durare fino al 958, e un suo discendente, Mastalo II (953-958), si autoproclamò, per primo, duca vitalizio della repubblica. Amalfi fu occupata definitivamente dai Normanni nel 1073. Nella storia del Mezzogiorno peninsulare, i ducati ebbero un’importanza strategica fondamentale, perché sorvegliavano la costa da incursioni saracene, fornivano flotte e rappresentavano enclave di cultura romana in un contesto politico e territoriale longobardo.

A sinistra rappresentazione di una battaglia navale al largo di Napoli, particolare di una delle mappe affrescate sulle pareti della Galleria delle Carte Geografiche, in Vaticano. Le pitture furono eseguite fra il 1580 e il 1585 sulla base di cartoni di Ignazio Danti, famoso geografo del tempo. Nella pagina accanto Ruggero I, conte di Sicilia (particolare), olio su tela di Merry Joseph Blondel. 1843. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

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Nel 1041, dopo il fallimento della campagna militare che l’impero d’Oriente aveva condotto in Sicilia contro i Musulmani, 500 Normanni ormai congedati – tra cui un contingente fornito dallo stesso Guaimario – ritornarono in Puglia e, ribellatisi ai Bizantini, occuparono gran parte del territorio pugliese e lucano e lo divisero tra di loro. In questo vuoto di potere, intervenne il principe di Salerno che avviò una politica di avvicinamento ai conti e, in particolar modo, al clan Altavilla che andava emergendo su tutti. Guaimario legò a sé in maniera piú stretta degli altri, il normanno Guglielmo Braccio di Ferro, dandogli in sposa la nipote, e pretese un giuramento di fedeltà da tutti i conti, probabilmente secondo gli usi franchi importati dai Normanni nel Mezzogiorno. Sotto la supervisione di Guaimario, i conti si spartirono il vasto territorio che avevano conquistato tra Basilicata e Puglia, a cui diedero il nome di contea, scegliendo come «capitale» Melfi, borgo alle falde del Vulture, a qualche chilometro da Venosa, dove sorgeva l’abbazia della SS. Trinità, voluta dagli Altavilla e destinata alla loro sepoltura. Ottenuto l’omaggio dei conti, nel 1043 Guaimario si proclamò «duca di Puglia e Calabria» e investí ufficialmente Guglielmo d’Altavilla del governo della contea di Puglia o di Melfi, come iniziò a essere denominato l’insieme dei possedimenti normanni.

Un uomo solo al comando

La politica espansionistica di Guaimario non trovava altra legittimazione che i reali rapporti di forza in quel momento esistenti nel Mezzogiorno, nell’assenza di un potere superiore in grado di farsi rispettare. Il principe di Salerno si serviva, con astuzia, dei rapporti vassallatici di fedeltà personale per ordinare, intorno alla sua persona, in un sistema organico e gerarchico di alleanze, il frammentato e disarticolato universo politico della Longobardia e dell’intero Mezzogiorno. Nell’ottica di Guaimario, i rapporti di fedeltà personale, di stampo feudale, avevano una funzione «disciplinatrice», perché consentivano ai poteri pubblici diffusi sul territorio sotto il suo controllo di trovare, nella sua persona, quella reductio ad ordinem indispensabile per contenere la minaccia dell’espansionismo bizantino. E tuttavia, il titolo di duca di Puglia e Calabria assunto da Guaimario aveva un valore simbolico piú che reale, poiché le conquiste normanne non avevano sottomesso l’intero Mezzogiorno alla sovranità del principe di Salerno e i Bizantini erano ancora padroni di gran parte di quei territori. LONGOBARDI

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SICHELGAITA, DONNA GUERRIERA Nata intorno al 1040, Sichelgaita fu data in sposa dal fratello, Gisulfo II, a Roberto il Guiscardo, dopo l’annullamento delle prime nozze con la prima moglie, Alberada, zia del normanno Gerardo, conte di Buonalbergo, presso Benevento. Le nozze furono celebrate a Melfi, nel 1058. Sichelgaita era la primogenita di Guaimario IV e della seconda moglie Gemma. Il primogenito del Guiscardo, Ruggero, venne alla luce intorno al 1060, mentre cinque anni piú tardi nacquero altri figli, Guido e Roberto. Sono attestate anche figlie, tra cui Olimpia e Matilde, spose, rispettivamente, di Costantino († 1096 circa), figlio dell’imperatore d’Oriente, Michele VII Ducas (1071-1078), e di Raimondo Berengario III (1096-1131), conte di Barcellona. Un’altra figlia, di cui non si conosce il nome, andò sposa a Ugo († 1131 circa), marchese d’Este. Sichelgaita svolse una funzione decisiva ai fini dell’integrazione etnico-culturale e politica della stirpe normanna nel Mezzogiorno. Donna energica, fu al fianco del Guiscardo anche nei momenti piú difficili, come durante l’assedio di Durazzo, nel corso della guerra contro l’impero d’Oriente, (1081-1085), galvanizzando le truppe e venendo persino ferita da una freccia nemica. Durante l’assedio di Salerno, continuò a esperire tentativi di riappacificazione tra il marito e il fratello, facendo la spola tra la rocca cittadina e il campo degli assedianti. Nel 1085, alla morte del Guiscardo, riuscí a ottenere che il primogenito, Ruggero, succedesse al marito nel ducato di Puglia. Morí intorno al 1090 e fu sepolta a Montecassino. Secondo lo storico normanno Orderico Vitale († 1142 circa), Sichelgaita fu responsabile di un tentativo di avvelenamento ai danni del primogenito del Guiscardo, Boemondo, figlio di Alberada, ma alla fine lo salvò, somministrandogli l’antidoto, per sfuggire alla condanna a morte.

In basso pedina di scacchi raffigurante una regina, realizzata in denti d’avorio e tricheco, dal Sud Italia. XII-XV secolo. Berlino, Bode Museum. A partire dal 1045, il principe di Salerno ebbe modo di intervenire anche nella sanguinosa guerra civile che sconvolse la contea di Aversa. Morto il suo fondatore, Rainulfo Drengot, vari pretendenti si scontrarono per ottenere l’investitura del titolo di conte, e, alla fine, fu proprio il candidato di Guaimario a prevalere. Sconfitti i diversi pretendenti, fu il normanno Rainulfo Trincanotte II (1045–1048), appartenente alla famiglia Drengot, a ottenere la contea e l’investitura da Guaimario. Risale a questo periodo e a questa guerra la prima menzione certa del celebre castello di Salerno – Turris Maior – ubicato sul monte Bonadies e che domina la città. Nel 1046, morí anche Gugliemo d’Altavilla e Guaimario fu costretto a intervenire in Puglia, favorendo la successione nella contea di Melfi del fratello di Guglielmo, Drogone, a cui diede in sposa la figlia, Gaitelgrima. Quando anche Drogone morí, nel 1051, Guaimario intervenne di nuovo, favorendo il fratello di Drogone, Umfredo, che, diventato conte, governò fino alla morte, nel 1057.

Chi troppo in alto sale...

L’attivismo militare di Guaimario, alla lunga, creò le premesse anche per la sua fine. Nell’estate del 1047, infatti, il nuovo imperatore germanico, Enrico III di Franconia (1039-1056) scese nel Mezzogiorno per ripristinare la sovranità imperiale. A Capua, l’imperatore tenne un’assise solenne, nel corso della quale spogliò Guaimario di alcuni suoi domini e del titolo di duca di Puglia e Calabria, che deteneva dal 1043 per auto-investitura. Quel titolo fu assunto dallo stesso imperatore, col risultato che anche i Normanni di Puglia e Aversa divennero vassalli diretti dell’impero, a cui dovettero giurare fedeltà. Per disposizione di Enrico, Guaimario conservò soltanto Salerno, Amalfi e Sorrento e dovette rinunciare a tutti gli altri possessi, compresa Capua, che fu restituita a Pandolfo IV, nel frattempo tornato dall’esilio e che però morí nel 1049. Privato dei suoi possessi e vista ridimensionata la sua influenza politica nel Mezzogiorno, alla fine anche Guaimario rimase vittima di un complotto, ordito dai suoi stessi congiunti – tra cui figuravano alcuni nipoti e fratelli della moglie, Gemma – in accordo con gli Amalfitani, intenzionati a liberarsi del dominio salernitano. Gli Amalfitani deposero il duca Mansone – che 122

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Guaimario aveva loro imposto anni prima – e richiamarono da Costantinopoli il fratello, Giovanni, che fu fatto nuovo duca della città. Poi, in accordo con i congiurati salernitani, il 3 giugno 1052, una flotta amalfitana apparve nelle acque di Salerno: mentre Guaimario era accorso sul lido per organizzare la difesa della città dall’assalto, uno dei suoi cognati – Atenolfo – lo trafisse con la spada, uccidendolo e ponendo fine, tragicamente, al suo principato. Morto Guaimario, gli successe il figlio, Gisulfo II (1052-1077), che si trovò a gestire una situazione difficilissima. La morte del principe longobardo aveva mandato in pezzi il suo impero, e i territori occupati riacquistarono l’indipendenza. I Normanni, inoltre, non si ritennero piú vincolati al giuramento fatto a Guaimario e iniziarono ad assalire e a saccheggiare i principati longobardi. Nel 1057, morto Umfredo d’Altavilla, la contea di Puglia passò al fratellastro Roberto, detto il Guiscardo – dal francese dell’epoca Guischart, «l’Astuto» – che estromise dalla successione i figli di Umfredo, Ermanno e Abelardo. Roberto aveva avuto già modo di distinguersi in battaglia, comandando l’ala sinistra dell’esercito normanno che, nel 1053, nella battaglia di Civitate aveva inferto una durissima sconfitta ai Bizantini e agli eserciti papali, opportunisticamente alleati, grazie al lavoro diplomatico di papa Leone IX (1049-1054). La disfatta di Civitate, d’altro canto, aumentò il prestigio degli Altavilla che, negli anni successivi, collezionarono altre vittorie ai danni dei Bizantini e, precisamente, a Matera (1054), Oria (1055), Taranto (1056). L’avvento di Roberto alla guida della contea di Puglia coincise con un ulteriore impulso all’espansione militare in direzione della Puglia, della Calabria e della Campania. Gisulfo II, allora, non poté che accettare un’alleanza col Guiscardo, cui diede in sposa la sorella, Sichelgaita, intorno al 1058 (vedi box alla pagina precedente).

Una questione di tempo

Ma la fine dell’indipendenza della Longobardia meridionale era, ormai, questione di tempo. Il primo dei principati longobardi a cadere in mano normanna fu quello di Capua. Assediata dal 1058, dal conte di Aversa, Riccardo I Drengot (1049-1078), la città era governata dal giovane Landolfo VI – nipote di Pandolfo IV – e che era successo da poco al padre, Pandolfo V (10491057). Capua capitolò il 21 maggio del 1062 e Landolfo prese la via dell’esilio. Drengot si proclamò principe di Capua, dove fissò la capitale dei suoi domini, ma Riccardo godeva di

Miniatura raffigurante l’abate Desiderio di Montecassino che offre codici e possedimenti a san Benedetto, dal Codice Vaticano Latino 1202. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

quel titolo, per concessione papale, e già prima della resa della città. Infatti, nell’agosto del 1059, papa Niccolò II (1059-1061) – vista l’impossibilità di contrastare i Normanni con le armi – aveva convocato a Melfi un importante sinodo. Il nuovo papa, nel corso del sinodo, investí Roberto il Guiscardo del ducato di Puglia e Calabria, conferendogli anche la sovranità sulla Sicilia, in caso di vittoria sui Saraceni. L’investitura avvenne secondo la consuetudine feudale, con lancia e vessillo, e prevedeva, come corrispettivo, l’assunzione di un obbligo di fedeltà assoluta verso il papa. Il normanno si impegnò, con giuramento, a fornire al pontefice truppe vettovagliate ed equipaggiate, se necessario, a difendere la fede cattolica da ogni nemico della Chiesa, a garantire, con ogni mezzo, il libero svolgimento delle elezioni pontificie a (segue a p. 126) LONGOBARDI

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LONGOBARDI L’ingresso della cattedrale di Salerno, costruita per volere di Roberto il Guiscardo, dopo che questi aveva strappato la città al dominio longobardo.

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Venosa. I resti dell’abbazia della SS. Trinità, fatta costruire dagli Altavilla, che intendevano farne il loro sacrario.

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opera del collegio cardinalizio e a corrispondere un censo annuale di 12 denari pavesi, per ogni iugero di terra ecclesiastica dei suoi domini (1 iugero= 0,252 ha). La stessa politica il papa seguí verso i Drengot di Aversa, il cui capo, Riccardo, stava assediando Capua. Il papa ridisegnò cosí la geografia politica del Mezzogiorno, arrogandosi una sovranità che, in realtà, non possedeva, a meno che, come è probabile, non facesse riferimento giuridico alla Donazione di Costantino – il falso dell’VIII secolo confezionato nella cancelleria pontificia – che attribuiva al papa la

sovranità su tutti i territori dell’Occidente europeo, già appartenuti all’impero romano. Con l’investitura a duca, il Guiscardo affermava la sua supremazia su tutti gli altri clan normanni del Mezzogiorno e ciò diede ulteriore impulso alle sue conquiste. Nel 1059 prese Reggio di Calabria e, nel 1061, raggiunse un accordo col fratello, Ruggero I d’Altavilla († 1105), riguardo la conquista della Sicilia. Roberto investí il fratello del titolo di conte di Sicilia, attribuendogli anche la sovranità di parte del territorio calabro a sud del Sinni, ma legandolo a sé con un giu-


legavano al principe. Sichelgaita cercò di mediare tra il marito e il fratello, ma fu tutto inutile. Nel 1077, abbandonato anche dal vescovo, Alfano (1058-1085) – che fuggí nel campo del Guiscardo – anche la rocca della città fu presa e Gisulfo II si esiliò a Roma, ospite del nuovo pontefice, Gregorio VII (1073-1085).

Ambasciatore pontificio

ramento. La conquista della Sicilia poté dirsi conclusa solo nel 1091, con la caduta della piazzaforte di Noto in mano normanna. Intanto il Guiscardo portava a termine l’occupazione del Mezzogiorno bizantino, occupando, nel 1071, Bari, sede del governatore imperiale. Nel 1073, occupò quindi Amalfi, il cui duca, Sergio IV (1069-1073), vista la città continuamente minacciata dai Longobardi di Gisulfo II, preferí consegnarla ai Normanni. Infine, nel 1076, il duca di Puglia pose l’assedio a Salerno, incurante dei rapporti di parentela che lo

Di Gisulfo ignoriamo il luogo e la data della morte, ma è molto probabile che sia collocabile intorno al 1090, all’incirca nello stesso periodo in cui morí Sichelgaita. È anche probabile che sia stato sepolto a Roma, dato che entrò, ben presto, al servizio della cancelleria pontificia, in qualità di legato di alcune ambascerie. Per esempio, intorno al 1077-1078, fu in Francia, per conto del papa, col cardinale Pietro di Albano, per riscuotere alcuni censi dovuti al pontefice dalle città di Le-Puy-en-Velay e Saint-Gilles. Nel 1082, invece fu a Napoli e – a quanto pare – quando Gregorio VII trovò rifugio a Salerno, ospite del Guiscardo, nel 1085, per sfuggire alla cattura, da parte dell’imperatore Enrico IV (1056-1106), Gisulfo, come membro del seguito papale, ebbe modo di tornare, da privato cittadino, nella sua città. Nel 1087-1088, è attestata una sua breve permanenza ad Amalfi, come dux Amalphitanorum, una presenza, ancora oggi, avvolta dal mistero. Forse, da Amalfi, il principe intendeva muovere su Salerno, dove era in corso la guerra civile tra i fratellastri Ruggero Borsa († 1111), e Boemondo di Taranto († 1111), figli del Guiscardo, per riprendersi la sua città. La conquista di Salerno – dove fu trasferita la capitale del ducato di Puglia e Calabria – pose fine al secolare principato longobardo. Rimaneva indipendente Benevento, con il suo contado, che era quanto residuava dell’antico principato, ormai totalmente occupato dai Normanni. Nel 1077, alla morte del principe Landolfo VI (1055-1077), il pontefice occupò la città che, dal 1051, era sotto la sua protezione, ma il Guiscardo tentò, comunque, di porre l’assedio e, cosí, fu scomunicato. Il 29 giugno 1080, con gli accordi di Ceprano, siglati col pontefice, il duca normanno riconobbe la piena sovranità del papa sul beneventano, in cambio della revoca della scomunica e del riconoscimento di tutte le acquisizioni territoriali fatte nel Mezzogiorno. L’indipendenza della Longobardia meridionale era decisamente finita, ma Benevento fu l’unica delle antiche capitali longobarde a non essere mai inglobata nei possedimenti normanni. La città entrò a far parte dei possedimenti pontifici e tale rimase fino al 1860. LONGOBARDI

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VO MEDIO E Dossier n. 49 (marzo/aprile 2022) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

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In copertina: spada in ferro damaschinato, da Nocera Umbra. VI sec. Roma, Museo delle Civiltà, Museo dell’Alto Medioevo «Alessandra Vaccaro». In secondo piano, fibule a staffa alamanne, da Alcagnano (Vicenza). V-VI sec. Milano, Civico Museo Archeologico.

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