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MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
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LA STORIA, I MONUMENTI, L’ARTE di Giuseppe M. Della Fina
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N°50 Maggio/Giugno 2022 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 17 MAGGIO 2022
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LA STORIA, I MONUMENTI, L’ARTE di
Giuseppe M. Della Fina
INTRODUZIONE 6. «Una delle piú belle vedute d’Europa» L’ETÀ ETRUSCA E ROMANA 18. Quella città chiamata Velzna L’ETÀ MEDIEVALE 46. La regina della rupe RESTAURI 72. Il trionfo del colore LEGGENDE E RELIQUIE 80. Il miracolo di Bolsena S. GIOVENALE 94. Un ideale luogo di raccoglimento SCOPERTE 106. A Orvieto il poeta portava la barba MIGRAZIONI MEDIEVALI 114. Forestieri in città LA COMUNITÀ EBRAICA 124. Pecunia non olet...
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Introduzione
«una delle piú belle vedute d’Europa»
Veduta a volo d’uccello della città di Orvieto. Nel cuore del centro storico, si staglia la mole inconfondibile del magnifico Duomo.
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i sono descrizioni di Orvieto che restano impresse nella memoria e, in una qualche misura, costituiscono una chiave di lettura. L’unità tra la natura e la storia e quindi tra la rupe e il costruito, il rapporto tra la campagna e la città, la segnalazione del fuori scala delle costruzioni (non solo della Cattedrale) rispetto allo spazio insediativo ne costituiscono il filo conduttore. Partiamo dalle affermazioni di una scrittrice britannica, Elizabeth Caroline Hamilton Gray, che ebbe modo di visitare la città nel 1839: «Proseguimmo il nostro cammino su una strada in buone condizioni e, attraversando una campagna coltivata e deliziosa, giungemmo alla vista di Orvieto, una delle piú belle vedute d’Europa». E ancora: «Ogni nuova curva della strada portava alla vista qualcosa che prima non avevamo notato, e che raccontava della laboriosità, della ricchezza e dell’agiatezza» (Tour to the Sepulchres of Etruria, London 1840). Un’impressione ribadita da George Dennis, un diplomatico-arche-
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Introduzione Uno scorcio delle mura di Orvieto che evidenzia la particolare natura dell’insediamento, sviluppatosi sulla sommità di una rupe tufacea, che fin dall’antichità costituí un’efficace difesa naturale.
Porta Maggiore, Orvieto, acquerello di Herbert Percy Horne. 1889.
ologo-scrittore inglese, in città negli anni Quaranta e poi Settanta dell’Ottocento: «Il cielo era coperto da nubi, l’atmosfera era densa di vapori e mancavano i colori brillanti del sole; tuttavia le grandi linee della scena erano visibili come in una stampa. Vi erano le pittoresche torri circondate da piccoli boschi sui pendii in primo piano – la lussureggiante vegetazione nella valle di sotto – il Paglia che vi serpeggiava, scavalcato da ponti – vi era l’ampia distesa della città, che spuntava dal suo trono di pietra, al centro della scena» (The Cities and Cemeteries of Etruria, Londra 1848 e poi 1878). Sospesa sul colle Ecco lo storico dell’arte e scrittore Cesare Brandi, che cosí si esprime a distanza di un secolo: «Ora, venendo dall’autostrada, Orvieto appare come un casalingo Walhalla, con una cortina non di fuoco, ma di luce al sodio all’interno. Sono i suoi fianchi, quasi di amba abissina, di città regina del Lazio, dopo Roma, a un tratto passata all’Umbria» (Tenera Umbria, in Epoca, 11 gennaio 1975; riproposto in Terre d’Italia, Roma 1991). Tornano alla memoria anche alcuni versi di Pier Paolo Pasolini: «Orvieto, stretto sul colle sospeso / tra campi arati da orefici, miniature / e il cielo» (L’Appennino, in Le ceneri di Gramsci, Milano 1957). Tutto questo osservando la rupe dall’esterno, avvicinandosi alla città, ma c’è anche la descrizione di un punto di osservazione diverso, opposto: dalla sommità della rupe verso l’esterno. Si deve allo scrittore Luigi Malerba, che ha soggiornato a lungo a Orvieto: «Sta arroccata sul suo masso di tufo con tanta aria e tanto cielo intorno da ogni lato. Anche il panorama, per chi si affaccia dalla rocca, è condizionato da una altitudine che falsa le distanze e le prospettive a causa del vuoto immediatamente sottostante» (Umbria medie(segue a p. 13) 8
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Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
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Introduzione
In alto la città di Orvieto rappresentata dal suo animale totemico, l’oca, particolare del pavimento a tarsie marmoree del Duomo di Siena. 1369. Sulle due pagine la facciata del Duomo. La prima pietra della grandiosa chiesa fu posata nel 1290, ma il completamento dei lavori si ebbe solo dopo la seconda metà del Cinquecento.
vale, in Città e dintorni, Milano 2001). Abbiamo inoltre numerose descrizioni delle vie e delle piazze della città: una delle piú note si deve a Gabriele D’Annunzio: «Orvieto? Non ci sei mai stata? Figurati, in cima a una roccia di tufo, sopra una valle malinconica, una città silenziosa tanto che pare disabitata: finestre chiuse, vicoli grigi dove cresce l’erba; un cappuccino che attraversa una piazza (…) una torre in un cielo bianco, piovigginoso; un orologio che suona le ore lentamente; d’un tratto, in fondo a una via, un miracolo: il Duomo» (Il trionfo della morte, 1894). Il Duomo rinvia, di nuovo, immediatamente a Cesare Brandi: «Quella facciata immensa e minuta, come una miniatura scolpita, come una pagina che non si può voltare, e la guardi senza fine e qualcosa ti si scioglie dentro, in silenzio come una comunione». Da Velzna a Urbs Vetus Nelle pagine che seguono la Cattedrale ha la sua centralità, ma si è cercato di narrarla inserendola nella linea della storia della città. Una storia lunga tre millenni, cominciata con gli uomini e le donne che scelsero, agli albori della civiltà etrusca, di salire sulla rupe e iniziare ad abitarla. Esordi difficili, non all’altezza dell’Etruria piú affluente. Un gap che iniziò a essere colmato con i decenni finali del VII secolo a.C. e annullato duranORVIETO
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Introduzione
Duomo, Cappella della Madonna di San Brizio. Particolare del ciclo avente per tema il Giudizio Universale, affrescato da Luca Signorelli. 1499-1502.
te il secolo successivo. Un secolo – soprattutto nella sua seconda metà – caratterizzato dall’affermazione di un’aristocrazia di nuova formazione e aperta a persone di origine etnica diversa. I decenni finali del secolo si avvantaggiarono della visione e dell’azione politica di Porsenna, che l’etruscologo Giovanni Colonna ha riconosciuto non solo come re di Chiusi, ma anche di Velzna (Orvieto). Grazie a lui, la città-stato fu in grado di giocare un ruolo di primo piano nelle vicende politiche e militari dell’Italia preromana, alla fine del VI secolo a.C., negli ambiziosi progetti costituiti dal tentativo di esercitare un’egemonia su Roma – dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo e l’affermazione di assetti istituzionali di tipo repubblicano in quella città – e di creare un corridoio terrestre che unisse i territori dell’Etruria propria (vale a dire l’area grosso modo coincidente con l’odierna Toscana e il Lazio settentrionale, n.d.r.) con quelli dell’Etruria campana. Un ruolo di primo piano svolto di nuovo, nei decenni a cavallo tra IV e III secolo a.C., quando – insieme a Perugia – tentò senza successo di fermare l’avanzata di Roma. Un impegno pagato con la distruzione della città nel 264 a.C. e il trasferimento forzoso degli abitanti superstiti verso la zona del lago di Bolsena. Qui i vincitori agevolarono la formazione e lo sviluppo di un nuovo centro con lo stesso nome, declinato in latino: Volsinii. Secoli piú tardi, dopo la fine dell’impero romano, i suoi abitanti vollero riallacciarsi a un passato, di cui evidentemente era restata memoria, spostandosi di nuovo e tornando in numero consistente ad abitare sulla rupe per sentirsi piú sicuri rispetto a un mondo divenuto pericoloso. Il nuovo insediamento prese significativamente il nome di Urbs Vetus, la «città vecchia». La scelta si rivelò giusta e, da allora, prese avvio una storia ancora diversa, che avrebbe condotto allo splendore della Orvieto medievale. A un libero Comune che seppe – in mezzo a contrasti sociali e politici fortissimi – erigere una delle Cattedrali piú significative d’Europa. La stessa attenzione di Dante Alighieri, nella Divina Commedia (Purgatorio, canto VI, vv. 106-108) per lo scontro tra le famiglie Monaldeschi e Filippeschi suggerisce la rilevanza della città nell’Italia centrale. Una città che, dilaniata dai contrasti interni e perduta l’indipendenza politica, entrò in una crisi profonda ben descritta nei suoi Commentarii da Enea Silvio Piccolomini – salito al pontificato con il nome di Pio II – che l’aveva raggiunta nella giornata del 27 settembre 1460: «Un monte roccioso sorge in mezzo alla valle, alto circa sei stadi. Sulla sommità c’è un pianoro che ha una circonferenza di tre miglia. Le rupi scoscese, la cui altezza non è inferiore a venti braccia, fanno le veci di mura. Quivi sorgevano splendide case di cittadini e ampi palazzi in bozze di pietra. Il tempo ne ha distrutti molti, piú ancora furono incendiati e devastati dalle lotte civili. Restano ora le torri semidistrutte e le chiese crollate». Le classi dirigenti locali – in un quadro quasi senza speranza – ebbero la forza e la lungimiranza di divenire i committenti di capolavori assoluti: ORVIETO
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Introduzione
Veduta di Orvieto, olio su tela di Joseph Mallord William Turner. 1828-1830. Londra, Tate Gallery.
si pensi, per limitarci al Duomo, alla realizzazione del ciclo di affreschi nella Cappella della Madonna di San Brizio affidata a Luca Signorelli nel 1499, dopo che vi aveva lavorato già il Beato Angelico. Nel 1527 fu un pontefice, Clemente VII, a voler dotare la città di un pozzo monumentale – destinato a divenire uno dei suoi simboli – affidandone la realizzazione ad Antonio da Sangallo il Giovane. Il pozzo è stato oggetto di restauro negli ultimi anni; presto un collegamento lo ricongiungerà con la vicina Fortezza Albornoz, alla quale era connesso. Una città che secoli dopo – quando la penisola italiana era stata finalmente riunificata a compimento del processo risorgimentale – fu in grado di fare i conti con la modernità attraverso la realizzazione di una funicolare ad acqua che collegava il centro storico con la stazione ferroviaria, quasi a prolungare la novità straordinaria del treno sino al di sopra della rupe. Le pagine che seguono sono anche il racconto delle principali novità (scavi, ricerche storiche, restauri, pubblicazioni innovative), che hanno interessato il patrimonio archeologico e storico-artistico della città durante gli ultimi venti anni e di 14
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Miniatura raffigurante un astronomo, da un trattato di astrologia del XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
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Introduzione
Mai piú distruzioni! Le sculture erano state allontanate, insieme ad altre opere del Cinquecento e del Seicento, alla fine dell’Ottocento, a conclusione di un profondo intervento teso a riportare la Cattedrale alla sua fase medievale, come se non fosse stata sempre un corpo vivo. Un intervento, su cui lo storico e archivista Luigi Fumi, che pure aveva avuto un ruolo significativo nella scelta, nel 1918, ebbe modo di scrivere: «Mai piú avverrà che il piccone ignobile, con tanta disinvoltura, porti la distruzione sulle opere dell’ingegno e della mano di buoni maestri del loro tempo, per cedere il posto alla scialba tinta degli imbianchini». E ancora: «Abbiamo abbattuto gli altari, abbiamo dato lo sfratto ai santi. È rimasta isolata, come in un deserto, la Maestà di Dio, in un grande vuoto». Tra gli interventi conservativi conclusi di recente vanno richiamati quelli dell’affresco presente sulla Torre del Maurizio, lungo Via Duomo, eseguito dalla Keorestauro di Giuseppe e Chiara Ammendola e del Reliquario del Santissimo Corporale, realizzato da Ugolino di Vieri e collaboratori, che rappresenta uno dei capolavori dell’oreficeria gotica. Quest’ultimo è stato condotto dalla restauratrice Mari Yanagishita. La storia sociale diviene protagonista nei capitoli conclusivi di questo Dossier con l’illustrazione della presenza di stranieri in città tra Duecento e Quattrocento e l’analisi del contributo dato dalla comunità ebraica locale: temi entrambi poco conosciuti e approfonditi solo negli ultimi anni. 16
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cui le riviste «Archeo» e «Medioevo» hanno puntualArezzo mente dato conto. Si può partire dalle campagne di scavo realizzate nell’area di Campo della Fiera che, dal 2000, sotto la direzione di Simonetta Stopponi, hanno Lago Perugia Tra s i me n o riportato alla luce i resti del Fanum Voltumnae, ovvero il santuario federale degli Etruschi. O dai restauri che UMBRIA hanno interessato i cicli di affreschi della chiesa di S. Giovenale già descritti dallo storico Pericle Perali nel Orvieto 1919 come il «vero e malversatissimo museo storico della pittura in Orvieto». Per questa chiesa, in anni Terni Lago di Bo l s e n a recentissimi, è stata valorizzata la presenza di un culto per san Savino, grazie agli studi di Raffaele Viterbo Davanzo e Giovanna Bandinu. Al primo si deve, in particolare, la segnalazione dell’esistenza di una chiesa affiancata e dedicata proprio al santo canosino. Quanto ai restauri, si possono ricordare quelli che hanno interes- Sferracavallo sato la decorazione a mosaico del timpano superiore della Cattedrale eseguiti nel 2015 sotto la direzione dell’allora Soprintendenza Rocca Ripesena Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria. Un intervento particolarmente significativo è stato il ricollocamento, nel 2019, all’interno del Duomo, di un ciclo scultoreo realizzato tra gli anni Cinquanta del Cinquecento e gli anni Venti del Settecento e costituito dalle statue dei dodici Apostoli e da una straordinaria Annunciazione scolpita da Francesco Mochi. La ricollocazione è stata resa possibile dalla volontà comune e dallo sforzo congiunto dell’Opera del Duomo di Orvieto, della Diocesi di Orvieto-Todi e delle strutture periferiche del Ministero della Cultura.
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Una città da scoprire 1. Porta Maggiore 2. Chiesa di S. Giovenale. 3. Complesso di S. Agostino. 4. Palazzo Caravajal. 5. Pozzo della Cava. 6. Area archeologica di via della Cava. 7. Palazzo e chiesa di S. Giovanni. 8. Auditorium del Carmine. 9. Porta Romana. 10. Palazzo Comunale. 11. Chiesa di S. Andrea.
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12. Chiesa degli Scalzi. 13. Chiesa dei Ss. Apostoli. 14. Chiesa di S. Lorenzo de’ Arari. 15. Chiesa di S. Francesco. 16. P alazzo Monaldeschi. 17. Palazzo Clementini. 18. Palazzo dei Sette e Torre del Moro. 19. Palazzo del Popolo. 20. Palazzo Gualterio. 21. C hiesa di S. Giuseppe. 22. Torre di Maurizio.
23. D uomo e Cappella di S. Brizio. 24. P alazzo Faina. 25. P alazzo dell’Opera del Duomo. 26. P alazzo dei Papi. 27. P alazzo Vescovile. 28. Orvieto Underground. 29. P alazzo Buzi. 30. C hiesa di S. Bernardino. 31. T eatro Comunale «Luigi Mancinelli». 32. C hiesa di S. Domenico. 33. C hiesa di S. Maria dei Servi.
34. Fortezza Albornoz. 35. Pozzo di San Patrizio. 36. Tempio etrusco del Belvedere. 37. Necropoli di Crocifisso del Tufo. 38. Abbazia dei Ss. Severo e Martino. 39. Chiesa di S. Lorenzo in Vineis e cimitero monumentale.
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L’ETÀ ETRUSCA E ROMANA
Quella città chiamata Velzna La prima occupazione della rupe di Orvieto è segnata dalla presenza degli Etruschi. Seppur in ritardo rispetto ad altri centri, la città acquisí una notevole rilevanza e di quella stagione sono testimonianza monumenti spettacolari e opere d’arte di grande pregio La necropoli etrusca di Crocifisso del Tufo, ai piedi della rupe di Orvieto. La costruzione delle tombe che ne fanno parte ebbe inizio nel VI sec. a.C.
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L’età etrusca e romana
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oco piú di mezzo secolo fa, l’archeologo Massimo Pallottino (1909-1995) – padre della moderna etruscologia – riconosceva che esisteva un’Etruria degli studiosi e un’Etruria dei letterati, che correvano (e corrono) per due vie divergenti. Non si limitava a constatare la situazione, ma ne proponeva un superamento. Il celebre studioso osservava infatti che «l’etruscologo non può ignorare del tutto la suggestione che l’oggetto dei suoi studi esercita cosí diffusamente sul mondo della cultura. Egli deve, anzi, rispondere a questo richiamo, accoglierne la sollecitazione emotiva e non temere il contagio dell’entusiasmo. In questo senso le vie divergenti si ricongiungono» (Scienza e poesia alla scoperta dell’Etruria, in Quaderni dell’Associazione Culturale Italiana, 24-1957). Nel riscoprire la fase etrusca di Orvieto proviamo a non temere il «contagio dell’entusiasmo» e rileggiamo, allora, le pagine di The Cities and cemeteries of Etruria di George Dennis (1814-1898). Il volume uscí in prima edizione a Londra nel 1848 e il passato di Orvieto risultava avvolto nel mistero, anche se, vent’anni prima, Karl Otfried Müller (1797-1840), nel suo Die Etrusker, aveva intuito che nella città andava riconosciuta l’antica Velzna (Volsinii in lingua latina). L’identificazione, tuttavia, fu dibattuta sino agli anni Sessanta del Novecento. Ma per quale motivo la querelle è durata cosí a lungo?
La rivolta delle classi servili
La risposta va cercata in un passo di Zonara, uno storico vissuto alla corte di Bisanzio come segretario dell’imperatore Alessio I Comneno, il quale si cimentò in una sintesi delle vicende storiche accadute sino al suo tempo. Egli narra che a Volsinii, dopo alcuni rovesci militari, vi fu una sollevazione delle classi servili, che presero il controllo del governo della città. L’aristocrazia locale chiese allora l’aiuto di Roma, che inviò un contingente militare: doveva trattarsi, nelle intenzioni, di un intervento di polizia, ma negli scontri iniziali trovò la morte un console romano e gli eventi precipitarono. La città fu assediata e conquistata, i vincitori uccisero i rivoltosi e insediarono in un altro luogo «i cittadini nativi di Volsinii e i servi che erano rimasti fedeli ai padroni». Dove andava cercata Velzna, la Volsinii etrusca, sulla rupe orvietana o sulle sponde del lago di Bolsena? La risposta è venuta solo dai risultati degli scavi dell’École Française de Rome a Bol20
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I resti del tempio di Belvedere, uno dei piú importanti luoghi di culto dell’antica Orvieto. Nella pagina accanto particolare della testa di un personaggio maschile in terracotta facente parte di un frontone del tempio di Belvedere. Fine V-inizi IV sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
sena e dal rinvenimento a Orvieto, in via della Cava, di un muro poderoso, ricordato dallo stesso Zonara. Oggi sappiamo quindi che la Volsinii etrusca va ricercata in Orvieto, mentre quella romana a Bolsena. Occorre dire che nei decenni durante i quali si discuteva intorno al riconoscimento di Velzna, l’archeologia aveva consentito di riportare alla luce sul pianoro orvietano e alle sue pendici testimonianze di notevole rilevanza, che facevano pensare, comunque, alla presenza di un centro etrusco di primaria importanza. Erano state scavate, infatti, le necropoli di Crocifisso del Tufo e di Cannicella e i templi di Belvedere e di via San Leonardo, per limitarsi alle tracce piú significative. Riconosciuta con sicurezza Velzna in Orvieto, negli ultimi decenni la ricerca ha compiuto notevoli passi in avanti. Si riesce ormai a seguire l’intero arco di vita della polis, che, sorta nel IX secolo a.C., fu protagonista di uno sviluppo notevolissimo durante il VI secolo a.C. e non risentí della crisi che colpí le aree piú affluenti
dell’Etruria nel secolo successivo. Nei decenni finali del IV secolo a.C., la città arrivò ad assumere la leadership dell’Etruria, guidandola negli scontri finali con Roma, avvenuti a Sentino nel 295 e presso il lago Vadimone nel 283 a.C.
L’avvento di Porsenna
All’interno del quadro storico delineato va osservato che la fase orientalizzante, il VII secolo a.C., è tuttora poco testimoniata: Velzna non appare assolutamente al livello delle altre poleis etrusche. Era stato ipotizzato che le tombe orientalizzanti fossero quasi sconosciute perché piú prossime alle pendici della rupe e ricoperte da un interro maggiore, ma le indagini archeologiche hanno smentito tale ipotesi, almeno nell’area della necropoli di Crocifisso del Tufo. Le ricerche piú recenti hanno gettato invece una luce nuova sui decenni finali del VI secolo a.C.: l’etruscologo Giovanni Colonna, sulla base di un passo della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (II, 140), ha messo in evidenza come Porsenna possa essere detto sia re di Chiusi che ORVIETO
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L’età etrusca e romana
Riproduzioni ottocentesche realizzate da Adolfo Cozza di pareti affrescate della tomba Golini I di Orvieto (le pitture originali risalgono alla seconda metà del IV sec a.C.). In alto, due servi preparano i vini da servire presso la kline dei banchettanti Ade e Persefone; in basso, le carni e la cacciagione destinati a un banchetto.
In alto, sulle due pagine un tratto dell’Anello della Rupe, il percorso di trekking urbano che corre intorno al massiccio roccioso su cui sorge la città di Orvieto. Nella pagina accanto, in basso testa di Gorgone (gorgoneion) in terracotta che ornava uno dei frontoni del tempio di Belvedere a Orvieto. V sec. a.C.
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di Velzna. Sulla base di un’analisi del nomen del re, ricostruibile come *Pursena o, meglio, *Purzena, lo studioso ha ipotizzato una sua probabile origine umbra e una etruscizzazione sua (o del padre) avvenuta proprio a Velzna. Sempre per quel che concerne lo sviluppo storico di Velzna, va tenuto presente che nuove ricerche hanno messo in dubbio che l’intervento romano del 264 a.C. abbia cancellato per intero l’insediamento. Il centro politico-amministrativo sarebbe stato trasferito sulle alture prospicienti il lago di Bolsena, portandosi dietro il nome latinizzato in Volsinii, ma sul pianoro orvietano, dopo un intervallo di tempo, la vita sarebbe ripresa, seppure su scala ridotta. L’intervento di Roma avrebbe quindi rotto un ORVIETO
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L’età etrusca e romana
equilibrio geopolitico durato per alcuni secoli, almeno dal VI a.C. (si ricordi in proposito che, per l’età villanoviana, l’area del lago di Bolsena sembra piú vitale e innovativa), ma non cancellato del tutto l’abitato al di sopra della rupe. Singolarmente, si è giunti a questa ipotesi ripercorrendo la storia degli studi: ci si è accorti, infatti, che l’eventualità di una fase romana, piú o meno rilevante, era generalmente ammessa sino alla fine dell’Ottocento, ovvero prima del periodo durante il quale si fece piú accesa la discussione sull’identificazione di Orvieto con Velzna. In quell’arco di tempo fu messa la sordina alla documentazione di epoca romana, temendo che essa potesse inficiare la convincente proposta interpretativa avanzata. Ma l’eventualità di una presenza romana non può annullare l’identificazione: se per Roma aveva un senso distruggere Velzna nel 264 a.C., solo alcuni decenni piú tardi, quando l’Urbe era divenuta una potenza mediterranea, consentire una qualche forma di ripresa di vita sulla rupe o alle sue pendici non creava per essa alcuna difficoltà di natura politica o militare.
A sinistra la «Venere di Cannicella», statua di fabbricazione grecoorientale rinvenuta nell’area sacra di Cannicella. 530-520 a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina». A destra, sulle due pagine bassorilievo del sarcofago di Torre San Severo, raffigurante l’uccisione dei prigionieri troiani. Seconda metà del IV sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».
Una deviazione sulla via Cassia
In proposito va ricordato che il territorio intorno alla rupe orvietana era stato fiorente in epoca romana: lo testimonia una rete di ville di produzione sulle quali è stata portata l’attenzione negli anni Settanta e Ottanta del Novecento. Una nuova analisi della documentazione archeologica sinora raccolta sembra suggerire, seppure in via preliminare e come ipotesi di lavoro, una ripresa di vita a partire dalla fine del III, o almeno dagli inizi del II secolo a.C. In proposito si deve ricordare che il percorso della via Cassia, realizzato tra il 171 e il 154 a.C., nel tratto tra Bolsena e Chiusi previde una deviazione per toccare l’Orvietano. Durante il Novecento e, soprattutto, nella sua seconda metà, il quadro storico che si è cercato di delineare per Orvieto è stato arricchito dall’ipotesi di localizzare sul pianoro o ai suoi piedi il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi presso il quale si riunivano i rappresentanti dei diversi populi dell’Etruria per celebrare feste e giochi e cercare di prendere decisioni politiche in comune. Negli ultimi anni hanno preso avvio campagne di scavo dirette da Simonetta Stopponi (Università degli Studi di Macerata) e Paolo Bruschetti (Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Um24
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bria) in località Campo della Fiera e Giardino della Regina, proprio alla ricerca della prestigiosa area sacra. Un altro scavo di particolare importanza è quello che ha interessato i resti del porto fluviale di epoca romana situato alla confluenza del Paglia nel Tevere. Quali musei e aree archeologiche deve dunque visitare chi voglia conoscere piú da vicino le antichità orvietane? I musei della città sono due e s’integrano a vicenda. Il Museo «Claudio Faina», situato proprio di fronte alla facciata del Duomo, nasce da una collezione privata riunita tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento dai conti Mauro ed Eugenio Faina. Il filo conduttore del percorso di visita è rappresentato dalla storia dell’archeologia e del collezionismo italiano dell’Ottocento. Accoglie alcuni capolavori assoluti, come tre anfore attribuite a Exekias. Al pianterreno di Palazzo Faina è collocata anche una sezione archeologica civica, al cui interno spiccano reperti come la «Venere» di Cannicella e il cippo a testa di guerriero dalla necropoli di Crocifisso del Tufo. Il Museo Archeologico Nazionale documenta, invece, le vicende storiche di Velzna
e del suo territorio. Accoglie, fra l’altro, gli affreschi di due tombe dipinte rinvenute nei dintorni della città e note con il nome dello scopritore Domenico Golini. La Golini I, in particolare, presenta scene di notevole originalità relative alla preparazione di un banchetto. Sempre sul pianoro, non lontano dal celebre Pozzo di San Patrizio, sono visibili i resti del Tempio di Belvedere, uno dei piú importanti di Velzna, interamente ridecorato negli anni a cavallo tra il V e il IV secolo a.C. All’interno dell’attuale Palazzo dei Congressi, in piazza del Popolo, si trovano i resti di un probabile altare monumentale. A richiesta, in via della Cava, è possibile visitare il possente muro che è stato interpretato come quello menzionato da Zonara. Appena fuori della città, lungo la strada che conduce a Orvieto Scalo, è visitabile la necropoli di Crocifisso del Tufo, interessante per il suo impianto urbanistico regolare.
Larth, guerriero valoroso Questo cippo a forma di guerriero, databile al 530-520 a.C. e conservato nel Museo «Claudio Faina», venne ricavato da un blocco di trachite e aveva la funzione di segnacolo funerario. Fu rinvenuto nel 1881 in occasione degli scavi realizzati in una necropoli etrusca situata alle pendici della rupe di Orvieto e nota con la denominazione di Crocifisso del Tufo. La conformazione a testa di guerriero, insolita per questo genere di reperti, reca incisa un’iscrizione in lingua etrusca, sul lato sinistro dell’elmo, che ricorda il personaggio raffigurato: Larth Cupures. La scultura potrebbe quindi ritrarre un valoroso guerriero le cui imprese lasciarono un segno profondo nella storia del territorio orvietano in epoca etrusca.
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L’età etrusca e romana
Il tempio di tutti gli Etruschi
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A destra e in basso scultura in terracotta raffigurante una divinità maschile, al momento della scoperta e dopo la ripulitura. Fine del V-inizi del IV sec. a.C. Sulle due pagine mosaico con Scilla e mostri marini (vedi anche alle pp. 30/31).
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a localizzazione del Fanum Voltumnae – l’area sacra dedicata a Voltumna, un appellativo di Tinia, la massima divinità del mondo etrusco (assimilabile al Giove dei Romani, n.d.r.) – il santuario federale degli Etruschi, è stata da tempo accertata. Al complesso cultuale e agli edifici che lo caratterizzavano sembrano infatti riferibili, senza piú alcun dubbio, le strutture riportate alla luce in un’area di oltre cinque ettari, situata alle pendici della rupe di Orvieto e denominata, nei documenti medievali, campus fori o campus nundinarum, con riferimento ai mercati che vi si dovevano svolgere a scadenza regolare. D’altronde, anche nella toponomastica moderna la zona è nota come Campo della Fiera. Prima di addentrarci nella descrizione delle scoperte che hanno portato a questa importante acquisizione, è utile richiamare la centralità del Fanum Voltumnae per il mondo etrusco. Presso il santuario – ricordato piú volte in testimonianze letterarie ed epigrafiche romane, ma senza fornirne con precisione l’ubicazione – i rappresentanti delle dodici città (la dodecapoli, n.d.r.) si riunivano per eleggere un sacerdos supremo, una sorta di primus inter pares, che doveva rappresentare l’intera Etruria, e per assumere decisioni politiche comuni. Ogni incontro aveva una spiccata valenza religiosa e si accompagnava a gare sportive e a spettacoli teatrali. Dallo storico latino Tito Livio – che ritorna piú volte sui concilia Etruriae tra gli anni 434 e 389 a.C. – apprendiamo che le tensioni tra le diverse città-stato etrusche erano numerose e si ORVIETO
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riflettevano sullo svolgimento degli incontri. In alcuni casi le diversità di vedute portarono al blocco delle decisioni, o a scelte destinate a rivelarsi errate. Allo stesso tempo, Tito Livio suggerisce che a Roma – consapevole della forza degli Etruschi nel loro insieme – si guardava con attenzione e, in qualche caso, con preoccupazione alle determinazioni che potevano essere assunte, o alla figura di volta in volta individuata come «guida». Il Fanum Voltumnae era quindi uno dei luoghi piú sacri dell’intera Etruria e la sede politica della lega etrusca, l’organismo istituito per cercare di superare la suddivisione in città-stato o, almeno, per fare fronte comune in politica estera. Ma per quale motivo gli archeologi si sono indirizzati verso Orvieto e, in particolare, hanno concentrato le proprie ricerche sull’area di Campo della Fiera? Come si è già affermato, le fonti antiche non forniscono l’ubicazione del
sito, al punto che esso è stato cercato in luoghi diversi dell’Etruria anche molto lontani tra loro. Tuttavia, piú di un indizio portava a Orvieto: la notizia, riportata da Festo, secondo la quale, nel tempio di Vertumno (vale a dire Voltumna) a Roma, era raffigurato Marco Fulvio Flacco, il console vincitore di Velzna, in veste di trionfatore; alcuni versi del poeta Properzio (IV, 2, 3-4), nei quali viene fatto dire a Vertumno che non rimpiangeva di aver abbandonato i focolari di Volsinii, con un chiaro riferimento al rito della evocatio (in ambito romano, il termine designava l’azione rituale con la quale, in prossimità della fine di un assedio, quando
Il dono di una liberta La base di Kanuta presenta un’iscrizione su due righe in cui si ricorda che la donna, liberta della gens Larecena e sposa di Aranth Pinie, fece un dono alle divinità ctonie Tluschva. Probabilmente si trattava di una statua di bronzo andata perduta e inserita in origine sulla sommità della base stessa. Nell’iscrizione – secondo la ricostruzione proposta dall’archeologa Simonetta Stopponi – sarebbe inciso anche il nome etrusco del santuario, Faliathere, «il luogo celeste».
In alto, a sinistra foto aerea dell’area di Campo della Fiera (evidenziata dal circolo di colore rosso), alle cui spalle, in secondo piano, è ben riconoscibile la rupe di Orvieto. In alto, a destra foto zenitale dell’area sud con i resti del tempio B, un edificio maestoso, costruito alla fine del VI sec. a.C. e distrutto nel III sec. a.C., verosimilmente in coincidenza dell’assedio e della fine di Velzna (265-264 a.C.).
l’esercito stava per conquistare una città nemica, se ne invitavano le divinità tutelari ad abbandonare la loro sede di culto, con la promessa di onori uguali o maggiori nell’ambito del culto romano, n.d.r.); il numero delle statue di bronzo, pari a duemila, portate via da Velzna sconfitta nella testimonianza di Metrodoro di Scepsi riportata da Plinio nella Naturalis Historia (XXXIV, 16, 34), che induce a ipotizzare la presenza di un santuario di notevole importanza nelle immediate vicinanze.
La prova in una preposizione
Infine, il Rescritto di Spello, con la decisione dell’imperatore Costantino, presa tra il 333 e il 337 d.C., di esonerare gli Umbri dall’obbligo di recarsi aput Volsinios per celebrare la loro festa religiosa, come facevano sulla base di un’antica tradizione che sembra riallacciarsi alle riunioni che si tenevano presso il Fanum Voltumnae, aperte anche a genti non etrusche. A quel tempo, Volsinii non si trovava piú sulla rupe di Orvieto, ma in prossimità del lago di Bolsena, dopo che i suoi abitanti, in conseguenza della rovinosa sconfitta del 264 a.C., vi erano stati deportati. Nel testo si dice infatti «presso» e non «in» Volsinii. Accolta l’ipotesi dell’ubicazione del santuario
federale etrusco nella zona di Orvieto, il toponimo stesso di Campo della Fiera, insieme al riesame di rinvenimenti effettuati in precedenza nella zona, hanno indotto a iniziare le ricerche in quell’area e i risultati non sono mancati. Gli archeologi hanno individuato una via Sacra, larga quasi 10 m, lungo la quale si trovavano una serie di edifici. Essa entrò in uso alla fine del VI secolo a.C., ma i basolati risalgono alla prima metà del IV secolo a.C. quando si volle monumentalizzarla ulteriormente. Dal suo limite verso nord si accedeva a un recinto sacralizzato, che ha restituito un altare, un donario, pozzi e depositi di materiali votivi. Tra i reperti piú antichi, si segnala una base in trachite che reca un’iscrizione in cui viene ricordata una donna di origine campana, Kanuta, accolta all’interno di una gens locale e sposata con Aranth Pinie, che scelse di dedicare una statua in bronzo (vedi foto alla pagina precedente). Nella stessa zona è stato scoperto un sacello tripartito eretto intorno alla metà del VI e abbandonato alla fine del V secolo a.C., quando venne edificato a poca distanza e con lo stesso orientamento un tempio piú grande denominato A, di cui restano il podio costruito con blocchi di tufo. Quest’ultimo venne ristrutturato nel corso del III secolo a.C. ORVIETO
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L’età etrusca e romana A sinistra una fornace per la cottura della ceramica, rinvenuta nell’Area Sud della zona indagata. Databile dalla fine del III sec. a.C., la struttura conserva il sostegno centrale, destinato a sorreggere il piano forato della camera di combustione. A destra il mosaico a soggetto marino riportato alla luce in uno degli ambienti termali. Si riconosce Scilla, con un remo in mano, circondata da mostri marini.
In asse con il tempio era posizionato un donario monumentale, dal profilo a clessidra e, accanto a esso, si trovava un altare in tufo. Sotto quest’ultimo, con il volto rivolto verso il basso, è stata scoperta l’effigie di una divinità maschile in terracotta, caratterizzata da una folta barba e da una capigliatura singolarissima (vedi foto a p. 27, in alto e in basso). La scultura è databile tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., in un momento d’oro per la coroplastica volsiniese: siamo infatti negli anni in cui venne rinnovata, per esempio, la decorazione architettonica del tempio di Belvedere. Va segnalato che in questo settore il culto continuò anche in età romana e, nella prima età augustea, il Tempio A venne ristrutturato, con la realizzazione di un nuovo pavimento.
Una devozione duratura
Lungo la via Sacra, proseguendo verso sud, si raggiungeva un altro edificio, denominato Tempio C dagli scavatori. Esso ha pianta rettangolare (12,60 x 8,60 m) e venne innalzato alla fine del VI secolo a.C.; il suo abbandono risale ai 30
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In basso testina in bronzo di divinità su base in trachite. 490-480 a.C.
decenni tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C., vale a dire in un tempo divenuto difficile per l’intera Etruria a seguito delle ripetute sconfitte e in prossimità della fine della sua indipendenza politica. Accanto al tempio sono state rinvenute alcune tombe infantili, databili poco tempo dopo l’abbandono: segno di una devozione che non si voleva perdere. La via Sacra conduceva quindi al Tempio B, caratterizzato da un podio maestoso (12,50 x 17,50 m), alto ben 4 m, che dominava la zona sottostante. Il grande edificio, circondato da portici, fontane e vasche, era stato costruito alla fine del VI secolo a.C. e venne distrutto nel III secolo a.C., forse proprio in coincidenza dell’assedio e della fine di Velzna (265-264 a.C.). L’area di Campo della Fiera era attraversata anche da un’altra via che costituiva un tratto della strada per il lago di Bolsena: la sua costruzione sembra risalire alla prima metà del III secolo a.C. e rimase in funzione molto a lungo. L’indagine archeologica ha inoltre permesso di individuare le tracce degli interventi successivi
In alto, a destra veduta zenitale dell’area in cui si conservano i resti del Tempio C, individuato lungo la Via Sacra. Qui accanto i resti del Tempio A. La struttura venne innalzata alla fine del V sec. a.C. e fu poi ristrutturata nel III sec. a.C. Se ne conserva il podio, in blocchi di tufo.
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A destra disegno ricostruttivo della chiesa di S. Pietro in Vetere, accanto alla quale venne innalzato l’edificio a due piani interpretato come refettorio/magazzino. In basso disegno ricostruttivo dell’ultima fase di vita del sito, con la chiesa di S. Pietro in Vetere e lo spazio adibito a mercato. Quest’ultimo utilizzo ha dato origine ai toponimi con i quali la zona era nota in epoca medievale, cioè campus fori oppure campus nundinarum, rispetto ai quali l’odierno Campo della Fiera è prova di una significativa continuità.
Gli scavi hanno provato la plurisecolare frequentazione del sito, compresa tra l’epoca etrusca e il Medioevo
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L’area nella quale sono stati individuati i resti della chiesa di S. Pietro in Vetere, la cui costruzione si colloca tra la fine del XII e gli inizi del XIII sec. In basso sono riconoscibili gli apprestamenti della zona adibita a mercato, dopo la demolizione del refettorio/magazzino annesso alla chiesa.
alle fasi etrusca ed etrusco-romana. Tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del successivo, molte nuove costruzioni trasformarono l’aspetto della zona. Nel settore nord-orientale venne edificata una domus, collegata a un impianto termale, a ridosso della parte di santuario rimasta in funzione. L’abitazione, impreziosita da mosaici, pavimenti marmorei e intonaci dipinti, toccò il suo massimo splendore tra il III e il IV secolo d.C. Tra il VI e il VII secolo un ampio vano della domus venne ripavimentato e probabilmente trasformato in chiesa.
Ambienti allineati
Le vicine terme si compongono di due impianti distinti: il primo, costruito agli inizi dell’età augustea, presenta i vani disposti in
senso lineare; il secondo, edificato durante il II secolo d.C. e separato dall’altro da uno stretto corridoio, mostra gli ambienti sviluppati in senso circolare. Le terme rimasero in funzione sino alla fine del IV secolo d.C., per poi essere riutilizzate a fini abitativi. Le campagne di scavo hanno documentato un ulteriore significativo intervento, vale a dire la costruzione, alla fine del XII o agli inizi del XIII secolo, della chiesa di S. Pietro in Vetere, affidata con le sue pertinenze, tra le quali un ampio edificio a due piani interpretato come un refettorio/magazzino, all’Ordine dei Servi di Maria nel 1260. Ancora piú tardi il refettorio/magazzino venne demolito cosí da ottenere uno spazio aperto per i mercati che vi si dovevano svolgere. ORVIETO
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LA FINE DELL’INDIPENDENZA Pur con limiti e contraddizioni, di un capitolo avvincente della storia plurisecolare di Orvieto conosciamo numerosi particolari, narrati soprattutto da Zonara, un erudito vissuto alla corte dell’imperatore Alessio I Comneno e quindi a molti secoli di distanza dagli avvenimenti, ma che aveva la possibilità di consultare fonti greche e latine poi perdute. Si tratta del racconto dell’ultima e disperata resistenza etrusca all’avanzata di Roma. Ne sono protagonisti gli abitanti della polis etrusca di Velzna (Orvieto) e quelli della città romana di Volsinii (Bolsena). Zonara ci informa che, dopo una serie di sconfitte patite dagli Etruschi – tra le quali quelle maturate nei campi di Sentino (295 a.C.) e presso il lago Vadimone (283 a.C.) –, Velzna fu scossa da una rivolta servile, o meglio – secondo la ricostruzione proposta dallo storico di epoca bizantina – l’orgogliosa aristocrazia locale, provata dai ripetuti insuccessi, lasciò spazio alle rivendicazioni dei servi. Essi progressivamente riuscirono a conseguire il diritto a guidare le spedizioni militari, a sposare le donne aristocratiche, a esercitare le magistrature fino ad assumere il potere e a usarlo con protervia prendendosi «la rivincita sugli oltraggi e i maltrattamenti che avevano un tempo subito». Le famiglie aristocratiche – «gli antichi cittadini» – decisero allora di chiedere l’aiuto di Roma, che ormai controllava l’Etruria. Loro rappresentanti si recarono nell’Urbe presso la domus di un personaggio di spicco – di cui non viene fornito il nome – per convincerlo a chiedere, in Senato, un intervento militare in loro soccorso. Zonara definisce l’incontro «segreto e notturno». Ma – sempre Zonara – ci informa che nascosto non rimase, dato che nella casa si trovava un altro ospite di origine sannita che vi si era trattenuto per via delle cattive condizioni di salute. L’uomo ebbe modo di ascoltare quello che si tramava contro i nuovi capi di Velzna e decise di avvertirli del pericolo che correvano. Lasciò Roma e, invece di tornare verso il Sannio, raggiunse la città, dando l’allarme. Cosí i componenti della delegazione che erano andati a chiedere l’intervento romano, al ritorno vennero individuati e arrestati. Sotto tortura confessarono e furono uccisi insieme agli altri congiurati. Il Senato di Roma decise comunque l’intervento militare e un corpo di spedizione, guidato dal console Quinto Fabio, si diresse verso Velzna. Un esercito etrusco gli andò incontro e, in un primo combattimento, ebbe la peggio. I superstiti si ritirarono all’interno della città, che si trovava su un pianoro facilmente difendibile, pronti a sostenere l’assedio. Durante un tentativo di assalto il console romano trovò la morte. Di nuovo fiduciosi, gli assediati tentarono una sortita, che non dette i risultati sperati. L’assedio durò quindi a lungo sino a quando gli abitanti di Velzna, ridotti alla fame, furono costretti ad arrendersi.
Con l’avallo del Senato
L’azione successiva – avallata sicuramente dal Senato – del console Fulvio Flacco, subentrato nel comando delle operazioni, fu di una durezza estrema: fece morire tra i tormenti i rivoltosi, saccheggiò e devastò la città e deportò in un altro luogo – sulle alture nei pressi del lago di Bolsena – «i cittadini nativi e i servi che erano rimasti fedeli ai padroni». Era il 264 a.C. Non si tratta di un episodio di storia locale, ma di un avvenimento inserito a pieno nelle dinamiche politiche e militari del tempo. Si deve ricordare, infatti, che nel 264 a.C. ebbe inizio la prima guerra punica e lo scontro tra Roma e Cartagine per il controllo del Mediterraneo. Come anche l’archeologia sembra avere ormai confermato, ai piedi della rupe orvietana si trovava il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi, e quindi le vicende di Velzna erano legate a quelle dell’intera Etruria. L’intervento romano, estremamente duro e che trova pochi confronti almeno nella penisola italiana, va spiegato con il desiderio di vendicare la morte del console Quinto Fabio, ma soprattutto con la volontà di terrorizzare le genti etrusche affinché non si rivoltassero mentre Roma era impegnata in un nuovo confronto decisivo per le sorti della sua politica espansionistica. 34
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In questa pagina teste in terracotta policroma di un Sileno (in alto) e di una Menade, provenienti entrambe dall’area sacra nei pressi della chiesa di S. Giovanni Evangelista. Nella pagina accanto particolare di una delle pitture parietali della Tomba Golini I, raffigurante un suonatore di doppio flauto e un inserviente che prepara pietanze per un banchetto. IV sec. a.C. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale.
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LA FINE DELL’INDIPENDENZA Collana con vaghi di pasta vitrea, da Orvieto. IV sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A sinistra fibula in bronzo recuperata nello scavo dell’insediamento di Poggio di Sermugnano.
I secoli precedenti a quei fatti videro la formazione e l’affermazione di una polis di prima grandezza nel panorama etrusco, e quelli successivi portarono al superamento della gravissima crisi politica, economica e sociale e alla nascita di una prospera città capace di conservare la memoria del suo passato, al punto che, quando – crollati gli equilibri assicurati dall’impero romano – gli uomini e le donne del posto decisero di tornare al di sopra della rupe orvietana per essere piú protetti, chiamarono l’insediamento Urbs Vetus, la «città vecchia». Il territorio volsiniese, dotato di spiccati caratteri unitari già dal VII-VI secolo a.C., dette un contribuito decisivo al benessere dei due centri, grazie alla sua feracità e alla sua centralità geopolitica. Peraltro, il distretto territoriale del lago si distinse per la sua vivacità economica e culturale già prima della fondazione della Volsinii romana, mentre, nelle zone piú prossime alla rupe, le ricerche archeologiche hanno attestato una significativa presenza riferibile all’età romana, con interventi significativi sia all’interno delle aree sacre, per esempio, in località Campo della Fiera, che nelle infrastrutture, e, in proposito, si può ricordare la costruzione di un porto alla confluenza del fiume Paglia nel Tevere.
Un osservatorio privilegiato Le indagini archeologiche condotte sul Poggio di Sermugnano, situato 8 km a sud-est di Orvieto, hanno dimostrato che sul sito fiorí un insediamento sviluppatosi senza interruzioni per un arco di tempo di almeno otto secoli (dall’età del Bronzo alla piena fase etrusca) e che manifesta un fortissimo legame con Orvieto. Della fase etrusca rimangono resti cospicui soprattutto nella necropoli arcaica costituita da tombe a camera – in un caso con architettura dipinta – databili entro l’ultimo quarto del VI secolo a.C., epoca in cui l’insediamento venne abbandonato, e nei sepolcri riferibili alla fase di rioccupazione del sito risalente all’età ellenistica (IV-II secolo a.C.). L’insediamento di Poggio di Sermugnano appare – anche per le eccezionali condizioni di conservazione – uno dei rarissimi centri abitati dell’Etruria interna in cui si presentano le condizioni per indagare il processo di trasformazione che, dalle culture protostoriche della fine del II-inizio del I millennio a.C., condusse alla civiltà etrusca d’età orientalizzante e arcaica. Enrico Pellegrini
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In basso ara con iscrizione etrusca, dal transetto del Duomo di Orvieto.
A destra Poggio di Sermugnano (Orvieto). Un settore dell’area in corso di scavo. Nel sito sono stati individuati i resti di un insediamento sviluppatosi, senza interruzione, dall’età del Bronzo all’epoca etrusca.
In alto il frammento di un’anfora con tracce di decorazione dipinta e, in basso, la ricostruzione grafica del vaso di cui doveva far parte. A destra Bolsena (Volsinii), area archeologica di Poggio Moscini. La «via tecta».
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I musei per «vedere» la storia L
a piazza del Duomo, a Orvieto, accoglie tre musei: il MODO-Museo dell’Opera del Duomo, il Museo «Claudio Faina» e il Museo Archeologico Nazionale. Essi fanno da corona a uno dei monumenti piú insigni dell’Italia. Tutti – seppure con storie diverse – hanno avuto origine nell’Ottocento. Il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto è sorto nel 1982, ma scaturisce dalla prima collezione archeologica pubblica della città: accoglie, infatti, gran parte dei reperti del Museo Civico Archeologico voluto soprattutto da Eugenio Faina. Nel 1877 il giovane conte, nomi-
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nato Ispettore Onorario ai Monumenti e Scavi del Circondario di Orvieto, iniziò infatti a impegnarsi per il suo allestimento a latere del «Museo medioevale», già posizionato all’interno del Palazzo dell’Opera del Duomo. Nel 1879 il museo venne inaugurato, ma nell’anno successivo fu necessario recuperare nuovi spazi per fare fronte al rapido accrescimento della collezione. Un ulteriore salto di qualità venne fatto nel biennio 1884-1885, quando furono musealizzati i reperti scoperti nella necropoli e nell’area sacra di Cannicella. L’allestimento era stato curato da Adolfo Cozza,
Sulle due pagine l’inconfondibile profilo di Orvieto visto da sud-ovest. La lunga vicenda storica della città è documentata dalle prestigiose raccolte museali allestite nel centro umbro.
A sinistra particolare di un acroterio in terracotta policroma raffigurante il matricidio di Oreste, dal santuario in località Cannicella. 500-480 a.C. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale.
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L’età etrusca e romana A sinistra statua in terracotta policroma raffigurante un personaggio maschile con clamide dal tempio di Belvedere. 400 a.C. circa. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale. A destra Palazzo Soliano, la piú vasta e imponente delle residenze pontificie orvietane, costruita su sollecitazione di papa Bonifacio VIII. Già sede storica del Museo dell’Opera del Duomo, ospita oggi il Museo «Emilio Greco» e spazi di servizio. Nella pagina accanto, in basso scorcio di una sala del Museo «Claudio Faina», con un sarcofago e il cippo a testa di guerriero.
che voleva farne «la grammatica dell’arte etrusca». Il museo non era stato istituito soltanto «a decoro della città», ma soprattutto come centro di documentazione della sua storia antica. Esso continuò ad accrescersi nella prima metà del Novecento con il deposito dei reperti che si andavano riscoprendo.
La divisione della raccolta
Negli anni Sessanta e Settanta dello stesso secolo la raccolta venne divisa in piú parti: nel 1982 – come si è ricordato sopra – da essa è sorto il Museo Archeologico Nazionale di Orvieto, poi arricchitosi con altri reperti di ritrovamento recente, come quelli scoperti – negli ultimi anni – in località Campo della Fiera dove sono stati riportati alla luce, come già narrato in precedenza, i resti del Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi. Un’altra sezione, particolarmente significativa 40
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per il livello delle opere esposte – come, per esempio, la «Venere» di Cannicella e il cippo a testa di guerriero dalla necropoli di Crocifisso del Tufo –, è visibile al pianterreno di Palazzo Faina. Altre opere, provenienti dallo stesso museo ottocentesco, sono collocate attualmente all’ingresso di Palazzo Soliano. Il Museo «Claudio Faina» è nato invece dalla passione collezionistica del conte Mauro Faina, il quale, nel 1864, iniziò a collezionare antichità etrusche, greche, romane e a condurre campagne di scavo nei territori di Chiusi, Perugia, Todi, Orvieto e Bolsena. Nel 1868, nell’anno della sua morte, la collezione era già ricca e contava piú di duemila reperti, senza considerare le monete. Essa passò sotto la gestione del giovane nipote Eugenio, che, negli ultimi mesi, aveva condiviso con lo zio la passione per l’antichità. (segue a p. 45) ORVIETO
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Due sale del Museo «Claudio Faina». L’istituzione vanta una ricca collezione di ceramiche figurate, sia di importazione – fra le quali spiccano tre anfore attiche attribuite a Exekias, uno dei piú insigni ceramisti e ceramografi ateniesi –, sia vasi di produzione etrusca, con pregevoli esemplari del «Gruppo Orvieto» e del «Gruppo di Vanth».
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Nella pagina accanto Madonna con Bambino e angeli (scomparto centrale di un polittico), tempera, oro e foglia d’argento su tavola di Simone Martini, dalla chiesa orvietana di S. Francesco. 1322-1324 circa. Orvieto, MODO-Museo dell’Opera del Duomo. La scelta fu fortunata: Eugenio si rivelò buon collezionista e persona di grande levatura intellettuale. Deputato e poi senatore del Regno, divenne un uomo politico di spicco nel liberalismo italiano dei decenni a cavallo fra Ottocento e Novecento, impegnato, in particolare, sui problemi dell’agricoltura e dell’alfabetizzazione. Amico di archeologi illustri, quali Gian Francesco Gamurrini e, soprattutto, Adolfo Cozza, continuò sino agli anni Ottanta ad arricchire la propria raccolta, ma acquisendo solo materiali orvietani nella consapevolezza dell’importanza di non estrapolarli dal loro contesto storico. Alla morte di Eugenio, avvenuta nel 1926, la collezione di famiglia passò al figlio Claudio jr che nel 1954 scelse di donarla al Comune di Orvieto, insieme a una serie di beni finalizzati alla sua conservazione e valorizzazione. Dette anche disposizioni affinché la gestione fosse autonoma e assicurata da una Fondazione, sul modello anglosassone: una scelta oggi largamente condivisa, ma insolita nel panorama italiano degli anni Cinquanta.
Testimonianze della vita artistica
Sulla piazza del Duomo si affaccia infine la sede di una raccolta di grande interesse e importanza, con un taglio non archeologico, ma storicoartistico: si tratta di una delle principali collezioni d’arte dell’Umbria, vale a dire il MODOMuseo dell’Opera del Duomo, che documenta le fasi di costruzione della Cattedrale, ma – attraverso di essa – la vita artistica della città. Nelle sue collezioni figurano opere provenienti anche da altre chiese e palazzi della città e del territorio, come pure importanti donazioni. Ospita capolavori assoluti: quali il gruppo scultoreo della Madonna con Bambino e angeli reggicortina, originariamente posto sulla lunetta della porta principale del Duomo; il magnifico reliquiario di Ugolino di Vieri; alcune sculture di Andrea e Nino Pisano e della loro scuola; pannelli di polittici di Simone Martini; un dipinto su tavola di Luca Signorelli; oli su tela di Cesare Nebbia e Girolamo Muziano; l’Annunciazione di Francesco Mochi. Denominato Museo Etrusco Medievale dopo la fusione con la sezione archeologica, era stato inaugurato nel giugno del 1882 nel Pa-
Madonna in trono con bambino, tempera su tavola attribuita tradizionalmente al fiorentino Coppo di Marcovaldo, dalla chiesa dei Servi di Maria. 1265 circa. Orvieto, MODO-Museo dell’Opera del Duomo.
lazzo dell’Opera del Duomo. Nel 1897, a seguito del suo incremento – dovuto anche al deposito delle sculture e delle tele del Cinquecento e del Seicento rimosse dalla Cattedrale –, il museo venne trasferito nella piú monumentale sede di Palazzo Soliano. In anni recenti, il MODO ha inglobato il Museo «Emilio Greco», che ne è divenuto la sezione contemporanea, i sotterranei del Duomo, la Libreria Alberi, che ora accoglie il già ricordato reliquiario di Ugolino da Vieri, uno dei massimi capolavori dell’oreficeria gotica. ORVIETO
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La regina della rupe
Nei secoli del Medioevo Orvieto vive una stagione particolarmente fiorente. Una vera e propria età dell’oro, testimoniata dalla realizzazione del Duomo e di altri insigni monumenti sorti nel cuore dell’abitato
Il centro storico di Orvieto, dominato dalla mole del Duomo e il cui assetto è in larga parte frutto delle imprese edilizie e delle scelte urbanistiche del Medioevo e del RInascimento.
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L’età medievale
l racconto della città di Orvieto nel periodo medievale può prendere avvio da alcune righe della Storia delle guerre redatta dallo storiografo bizantino Procopio di Cesarea († 562 o poco dopo il 565), in cui viene descritto lo scontro che oppose in Italia l’esercito dell’imperatore bizantino Giustiniano, guidato da Belisario, e i Goti: «Dal suolo si eleva solitario un colle spianato e unito nella parte superiore, a picco nell’inferiore. Delle rupi uguali formano come una cerchia intorno al colle, non del tutto prossime, ma distanti circa un tiro di pietra. Su quella collina gli antichi costruirono la città, senza cingerla di mura né fornirla di altra difesa ritenendo che quel luogo fosse per sua natura inespugnabile. Infatti al pianoro conduce una sola strada aperta nel tufo, la quale custodita che sia, gli abitanti non hanno da temere un assalto nemico». La descrizione risale al 538 ed è degna di fede, poiché l’autore ebbe modo di osservare la scena descritta muovendosi al seguito di Belisario,
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Orvieto nella veduta realizzata per l’opera Civitates orbis terrarum, una raccolta di mappe delle città del mondo curata dai geografi tedeschi Franz Hogenberg e Georg Braun e pubblicata tra il 1572 e il 1616. In basso Duomo, Cappella Nova (o di S. Brizio). Compianto sul Cristo morto, affresco di Luca Signorelli. 1499-1502. Il maestro ha inserito nella composizione anche i santi Faustino (a sinistra) e Pietro Parenzo.
quando il comandante bizantino riuscí, dopo un lungo assedio, a conquistare la rupe di Orvieto. Il testo è divenuto il riferimento letterario di molte descrizioni della città sino al Novecento, quando pure il paesaggio era mutato profondamente, ma non aveva perduto le sue caratteristiche peculiari. L’autore, inoltre, accenna a un passato della città che la lega al mondo romano e che oggi possiamo retrodatare sino all’epoca etrusca, sapendo anzi che la sua crisi piú profonda coincise proprio con la traumatica fase di passaggio tra Etruschi e Romani.
Trasferimento coatto
Questi ultimi, infatti, nel 265 a.C., per domare una rivolta sviluppatasi subito dopo la fine della sua indipendenza politica, assediarono per qualche mese l’etrusca Velzna (Volsinii, in lingua latina), la conquistarono, la distrussero e trasferirono forzatamente gli abitanti superstiti sulle sponde del lago di Bolsena, in una posizione meno difendibile. Si trattò di uno degli interventi piú violenti e punitivi compiuti dai Romani nella Penisola, motivato dalla morte di un console durante l’assedio e, soprattutto, dalla necessità di terrorizzare gli Etruschi nell’anno – il 264 a.C. – in cui ebbe inizio la prima guerra punica, con Roma intenzionata a contendere a Cartagine il primato sul Mar Tirreno. Le osservazioni di Procopio suggeriscono che, all’inizio del VI secolo d.C. (ma con ogni probabilità già da qualche tempo), la vita sulla rupe era ripresa a pieno e che uomini e donne erano tornati ad abitarla, ritenendo quel luogo, «per
sua natura inespugnabile», sufficientemente protetto in un mondo tornato insicuro dopo la destrutturazione del potere imperiale di Roma. Una testimonianza artistica all’incirca coeva è un pavimento in mosaico a elementi geometrici, realizzato con tessere bianche e nere e con poche altre di colore grigio, rinvenuto sotto l’attuale chiesa dei Ss. Andrea e Bartolomeo, nella centrale piazza della Repubblica. Il mosaico suggerisce la presenza di un edificio a tre navate, di cui la centrale piú ampia delle altre, dalle quali era divisa da colonne oggi non piú in situ. Dovrebbe trattarsi di una basilica avente il medesimo orientamento della chiesa superiore, ma divergente da quello delle strutture circostanti e piú antiche. In proposito si può ricordare che la tradizione erudita locale, sin dal Cinquecento, collocava nell’area il Foro della città e un tempio dedicato a Giunone. La scelta degli uomini e delle donne che avevano deciso di tornare a insediarsi sopra la rupe si rivelò giusta e l’abitato crebbe rapidamente, rioccupando gli stessi spazi frequentati dai suoi primi abitanti etruschi. La città venne chiamata Urbs Vetus, Città Vecchia, nella consapevolezza piena di riallacciarsi a quel passato, nonostante si fosse fatto nebuloso e lontano. Da Urbs Vetus, divenuto poi Orbivieto, deriva Orvieto, il nome attuale della città (il nome originario Velzna, Volsinii rimase legato a Bolsena). Una data importante nella storia di Orvieto medievale è il 1157 (o 1158, secondo recenti proposte interpretative): un documento redatto in quell’anno menziona infatti, per la prima ORVIETO
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Un’altra veduta del cuore di Orvieto, il cui assetto è imperniato sul Duomo e sugli edifici circostanti.
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volta, il Comune di Orvieto come entità politica. Si tratta di un accordo stipulato tra il pontefice Adriano IV, che aveva soggiornato in città nell’estate del 1155, il priore del Capitolo di S. Costanzo che svolgeva il ruolo di supplenza del vescovo, due consoli e due rappresentanti dei nobili. I consoli dichiararono di essere vassalli del papa e giurarono fedeltà a lui e ai suoi successori garantendo che il giuramento sarebbe stato osservato anche dal popolo di cui erano espressione. Essi, inoltre, assicurarono la disponibilità a rinnovare il patto, qualora fosse stato espressamente richiesto. In concreto, il Comune di Orvieto s’impegnava a fornire aiuto militare al pontefice in caso di necessità in un’area compresa tra Sutri e la Val d’Orcia e a garantire la sicurezza sua e della curia pontificia nei periodi di soggiorno in città e durante i viaggi di andata e ritorno per raggiungerla. Da parte sua, il papa s’impegnava a versare una
somma di 300 lire all’atto del giuramento e a dare un contributo per risolvere i problemi con la vicina Acquapendente.
Una politica aggressiva
Il testo dell’accordo prova che la città era cresciuta, si era data una veste istituzionale e politica ed era pronta a giocare un ruolo nelle vicende dell’Italia centrale e che tale voglia di potenza era stata compresa dal pontefice, intenzionato a indirizzarla e gestirla. Il desiderio di espansione del Comune orvietano è testimoniato, negli anni successivi, da una politica aggressiva, condotta inizialmente verso il contado e poi su un’area piú ampia, destinata a diventare il territorio di pertinenza della città medievale, seppure con confini sempre molto mobili. Nel 1168, a Orvieto si sottomise il conte Ranieri di Montorio, che controllava le terre a ovest del lago di Bolsena, e, nel 1171, il Comune acquisí il controllo di Città delle Pieve.
A destra una via del centro storico con la Torre del Moro sullo sfondo.
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L’età medievale Sulle due pagine l’esterno della chiesa di S. Giovenale, fondata, secondo la tradizione, nel 1004, probabilmente su un tempio preesistente. A sinistra Crocifissione, affresco eseguito sul primo pilastro della navata sinistra della chiesa di S. Giovenale. XIII sec.
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A destra affreschi della navata destra di S. Giovenale: Madonna in Trono del Maestro di San Lorenzo de’ Arari (XIV sec.; a sinistra) e Madonna con Bambino (1305).
La città era pronta per un ulteriore salto di qualità quando divenne la scena di un delitto con una risonanza ben piú ampia dell’ambito locale, per il contesto e le ripercussioni: nel mese di maggio del 1199 venne ucciso Pietro Parenzo, un giovane della nobiltà romana inviato dal pontefice sulla rupe per fronteggiare l’avanzata dell’eresia catara. Una cronaca dettagliata – an-
che se di parte – dell’episodio è esposta in un testo, intitolato Passio beati Petri Parentii martiris, scritto pochi anni piú tardi, nel 1205, da un certo Giovanni, il quale aveva potuto osservare da vicino il successo del proselitismo cataro e raccogliere informazioni di prima mano. Egli afferma che la presenza dei catari – detti anche patari – risaliva a una trentina di anni prima, quando, intorno al 1170, erano giunti Diotesalvi e il suo compagno Gottardo, provenienti da Firenze. Il vescovo del tempo, Rustico, aveva sottovalutato il pericolo e lasciato spazio alla predicazione dei due uomini, che iniziarono a fare proseliti. Il successore, Riccardo da Gaeta, comprese il rischio e fece allontanare i due predicatori. I catari non si dettero per vinti e inviarono a Orvieto due donne, Milita da Montemeato e Julitta da Firenze. Nascondendo inizialmente la loro fede, esse seppero conquistare ampi settori della città e, in particolare, numerose donne appartenenti ad
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ORVIETO La facciata del Duomo, scandita da quattro pilastri, le cui basi sono decorate da altrettanti rilievi. Il primo, da destra (vedi foto nella pagina accanto, in basso, a sinistra), ha per tema il Giudizio Universale. Come quello del pilastro di destra, il pannello è riconducibile all’avvento di Lorenzo Maitani, nel 1310.
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alcune delle famiglie piú importanti. Riuscirono anche a ottenere la fiducia del vescovo, il quale, solo in ritardo, si rese conto delle loro reali intenzioni. A quel punto Riccardo da Gaeta decise di reagire, stabilendo pene molto severe per chi aveva abbracciato il credo cataro, compresa la condanna a morte. La sua azione venne resa meno efficace da forti tensioni politiche sorte nel frattempo tra il Comune di Orvieto e lo Stato della Chiesa per il controllo su Acquapendente: papa Innocenzo III lanciò l’interdetto sulla città e richiamò il vescovo, che venne trattenuto per nove mesi a Roma. Lo spazio per la predicazione catara trovò di nuovo terreno favorevole e, inoltre, giunse in città un personaggio di grande carisma, Pietro Lombardo, capace d’inserirsi nelle complesse dinamiche della politica comunale, caratterizzate dallo scontro tra guelfi e ghibellini. Si arriIn alto l’esterno del lato sud-est del Duomo, con, in primo piano, il complesso dei Palazzi Papali, oggi sede del MODO (Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto).
In alto una veduta della navata centrale del Duomo. In primo piano, sulla sinistra, si riconosce il fonte battesimale realizzato tra il 1390 e il 1407 da Luca di Giovanni, Pietro di Giovanni da Friburgo e Sano di Matteo. ORVIETO
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L’età medievale Palazzo Soliano, la residenza pontificia di cui Bonifacio VIII promosse la costruzione. L’edificio accoglie spazi di servizio e parte delle collezioni del MODO.
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In alto iscrizione riferibile alle leggi statutarie del Comune di Orvieto. 1209. In basso affresco che ritrae Innocenzo III. XIII sec. Subiaco, monastero del Sacro Speco, Chiesa Inferiore. Il cardinale Lotario dei conti di Segni fu eletto papa nel 1198, alla morte di Celestino III.
vò a immaginare Orvieto come una sede privilegiata per i catari, come una loro fortezza. I progetti di Pietro Lombardo si fecero sempre piú ambiziosi, tanto da allarmare vari settori della comunità orvietana che, ritrovata una qualche forma di unità, inviarono una delegazione presso Innocenzo III, per chiedere l’intervento papale e l’invio di un «rettore». La presenza catara a Orvieto, d’altra parte, preoccupava lo stesso pontefice e, di conseguenza, la proposta venne recepita e Pietro Parenzo fu inviato come «rettore». L’uomo fu accolto inizialmente con favore, ma la sua decisione di proibire manifestazioni nel periodo di carnevale creò uno scontento notevole, che venne cavalcato dai catari. Si ebbero scontri di piazza e la situazione si fece molto tesa, fino a che, per fronteggiarla, si avviarono dure azioni di repressione contro gli eretici.
Il martirio di Pietro
Pietro Parenzo scelse di tornare a Roma in occasione delle festività pasquali per chiedere indicazioni sul comportamento da tenere e invocare un sostegno piú forte. Alle «calende di maggio» tornò a Orvieto e la situazione precipitò: nella notte del 20 maggio, con la complicità del servitore Radulfo, un gruppo di catari riuscí a entrare nella sua abitazione e a farlo prigioniero. Tra i rapitori non vi era unità d’intenti, e poiché il «rettore» non accettò di ritirare alcuni provvedimenti presi, la situazione prese subito una piega tragica: il giovane venne ucciso con un colpo di martello alla testa. Il ritrovamento del corpo, avvenuto all’alba, e gli eventi miracolosi che sarebbero accaduti nelle ore e nei giorni immediatamente successivi portarono alla durissima reazione della cittadinanza contro i catari, riconosciuti quali responsabili del rapimento e dell’assassinio. La rupe di Orvieto non si trasformò in una fortezza
catara e Pietro Parenzo divenne un martire e un santo, al quale sono attribuiti diversi miracoli. È ancora oggi uno dei patroni della città. Nel quadro cittadino dell’epoca una chiesa aveva un ruolo speciale: dedicata a san Giovenale, era posta sul bordo della rupe quasi a controllare la valle. Una tradizione la vuole fondata nel 1004, ma probabilmente si trattò di una rifondazione, poiché l’esistenza di un edificio sacro precedente sembra suggerita dalla presenza di reperti lapidei di spoglio con tipici motivi a treccia risalenti all’età carolingia. In ogni caso, la documentazione di archivio indica che la chiesa era definita parrocchiale nel 1028 e che, dalla fine del XII secolo, era sottoposta al patronato dell’Ordine di San Guglielmo. La facciata di S. Giovenale è del tipo a capanna ed è sormontata da una torre campanaria sviluppata intorno a una struttura precedente eretta con una funzione di controllo. L’interno si presenta suddiviso in tre navate separate da colonne di tufo con capitelli ad anello, su cui s’impostano archi a tutto sesto. Osservando le strutture, ci si può rendere conto che la chiesa venne ampliata nell’ultimo quarto del XIII secolo e l’intervento modificò sensibilmente la zona presbiteriale. Fasi diverse si colgono anche nella decorazione pittorica, verso la quale – visitando la chiesa – si viene attratti: non a caso, lo studioso Pericle Perali (1884-1949) la descrisse come il «vero malversatissimo museo storico della pittura in Orvieto nel secolo XIV». Il «malversatissimo» non era un aggettivo a effetto: gli affreschi della chiesa hanno subíto nei secoli ripetute aggressioni e addirittura una mano di calce bianca, stesa nel 1632 per ordine del priore, intenzionato a rimodernare la chiesa – ormai fatiscente nella descrizione che ne fece al suo vescovo – e a tenerla al passo con le nuove tendenze artistiche. In anni recenti (2010-2014), le pitture sono state ORVIETO
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A sinistra S. Domenico. Il monumento funebre per il cardinale Guglielmo de Braye, realizzato da Arnolfo di Cambio. 1283-1285. In basso la facciata della chiesa di S. Francesco, innalzata nel punto piú alto della rupe di Orvieto. Nella pagina accanto la chiesa di S. Domenico, la cui costruzione venne avviata nel 1242.
pittori che mostrano di avere assimilato il linguaggio figurativo di Simone Martini e Lippo Memmi, come, per esempio, nel San Ludovico di Tolosa; o di Pietro Lorenzetti in una Crocifissione che si può osservare in apertura della parete di sinistra. La quarta fase, databile tra la seconda metà del Trecento e i primi anni del Quattrocento, è dominata dalla figura di Ugolino di Prete Ilario: ai suoi collaboratori e continuatori possono essere ascritti il maggior numero degli affreschi tuttora presenti nella chiesa. In tale temperie particolarmente attivo risulta Piero di Puccio.
Le scelte di un canonico
Nel periodo successivo, riferibile alla prima metà del Quattrocento, vanno inseriti i dipinti assegnati di recente a Pietro di Nicola Baroni, come la Santa Caterina di Alessandria, che risulta l’unico dipinto conservatosi della decorazione dell’abside. Un intervento ulteriore, che interessò il registro superiore della navata centrale, venne portato avanti negli anni iniziali del Cinquecento per volontà del canonico Antonio Alberi, l’erudito che collaborò con Luca Signorelli nella scelta dei temi da dipingere nella Cappella Nova del Duomo di Orvieto e che dotò la Cattedrale di una libreria anch’essa restaurata di recente. Si è accennato alle chiese dei Ss. Andrea e Bartolomeo e di S. Giovenale e quindi a due zone diverse della città. Ma come si presentava l’area (segue a p. 62) interessate da un intervento di restauro, che ha portato una luce nuova sulle pareti affrescate. La prima fase decorativa della chiesa viene fatta risalire agli anni 1250-1275 e vide impegnati artisti rimasti anonimi: il Maestro della Maestà dei Servi, il Maestro dei Santi Severo e Martirio e altri pittori che risultano influenzati da loro due. La seconda fase è vicina cronologicamente ed è riferibile agli anni a cavallo tra il Duecento e il Trecento: diversi dipinti sono attribuibili a maestranze attive nella bottega del Maestro della Madonna di San Brizio, il cui stile risulta aggiornato rispetto alle novità artistiche maturate a Roma e Oltralpe. In questa temperie stilistica e cronologica s’inseriscono un raro Lignum Vitae, dipinto in controfacciata; un gigantesco San Cristoforo, raffigurato sulla parete sinistra; un San Guglielmo di Malavalle, il fondatore dell’Ordine dei Guglielmiti, posizionato a destra dell’abside; una Conversione di San Paolo, rappresentata sul pilastro proprio di fronte. Il terzo momento decorativo si colloca nella prima metà del Trecento, quando operarono ORVIETO
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In alto la Cappella del Corporale nel Duomo dell’Assunta. Al centro, in alto, si riconosce il tabernacolo in cui è custodita la reliquia legata al miracolo di Bolsena.
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Il Palazzo del Popolo, ultimato nei primi anni del Trecento. L’edificio si ispira al modello dei broletti, ma con materiali e decorazioni rielaborati secondo i canoni dell’architettura locale.
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Sulle due pagine affreschi facenti parte della decorazione della Cappella del Corporale, realizzati da Ugolino di Prete Ilario e aiuti, che li ultimarono nel 1364: a sinistra, il Miracolo del bambino ebreo; in alto, il Miracolo di Bolsena.
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dove, a partire dal 1290, venne eretto il Duomo? A oggi, non è possibile fornire una risposta certa, ma nuove ricerche nella ricca documentazione di archivio o prospezioni geofisiche e scavi archeologici mirati potrebbero offrire un quadro piú completo e attendibile. Sappiamo con certezza che nell’area si trovavano due chiese: S. Costanzo, dotata di un chiostro e con spazi e botteghe dei canonici, e S. Maria de episcopatu (denominata successivamente S. Maria Prisca) che fungeva da Cattedrale. Non lontano da quest’ultima si trovava il Palazzo Vescovile, ampliato all’incirca tra il 1225 e il 1230. Negli anni 1955-1956, durante i lavori per la ripavimentazione del Duomo, vennero ritrovati alcuni muri di fondazione. La scoperta non venne seguita da una campagna di scavo, ma
le strutture furono studiate da Renato Bonelli – uno dei maggiori storici italiani dell’architettura nel Novecento –, il quale, sulla base di quei resti, disegnò la pianta di un edificio con una lunghezza di 31,5 m e una larghezza di 15,20, compreso all’interno dell’attuale navata centrale del Duomo. L’edificio cosí ricostruito, con la fronte posta in coincidenza con quella attuale della Cattedrale, è stato interpretato in maniera diversa, ma tutti gli studiosi hanno ritenuto che si trattasse di una delle chiese ricordate nella documentazione archivistica: S. Costanzo per Enzo Carli, Renato Bonelli e Alberto Satolli e S. Maria Prisca per Lucio Riccetti, solo per menzionare coloro che piú si sono interessati all’architettura della Cattedrale e alle vicende del cantiere
del Duomo. In alcune ricostruzioni, inoltre, le due chiese sarebbero state parallele, in altre orientate diversamente.
Da chiesa a palazzo
In questo quadro, che appariva consolidato, si è inserito uno studio degli architetti Valentina e Alberto Satolli, incentrato sul vicino Palazzo di Bonifacio VIII che rientra nel complesso dei Palazzi Papali della città umbra. I due studiosi hanno ipotizzato che il palazzo costruito per il pontefice sia stato edificato al di sopra della chiesa di S. Maria Prisca e che anzi ne abbia utilizzato i muri laterali sino a una certa altezza. Ci troveremmo di fronte al reimpiego di un edificio accompagnato da un radicale cambiamento di uso: da chiesa a residenza papale. Va-
lentina Satolli, in particolare, ha notato che nel paramento murario dell’edificio i conci di tufo hanno un’altezza diversa: sino a 7,65 m, misurano 19 cm circa; al di sopra, sono invece alti 27,5 cm. La differenza sembra rinviare a interventi edilizi effettuati a distanza di tempo. Può apparire strano il «cambiamento d’uso» di una chiesa alla fine del Duecento all’interno di un centro urbano, ma va valutato che nella stessa area – dal novembre del 1290 – erano iniziati i lavori per erigere la nuova Cattedrale, sempre dedicata alla Vergine Maria. Sulla scelta potrebbe avere influito inoltre la necessità, a partire dalla primavera del 1297, di erigere in tutta fretta un palazzo per il papa. Oltre alla menzione nei documenti, esisterebbero altre testimonianze relative alla chiesa di ORVIETO
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S. Maria Prisca. Secondo Alberto Satolli, a essa andrebbero riferiti alcuni conci di tufo affrescati e ritrovati proprio durante i lavori di consolidamento (1989-1991) delle volte del palazzo costruito per Bonifacio VIII. Gli affreschi superstiti, ora restaurati, mostrano, tra l’altro, una Madonna in trono e una Santa Maria Egiziaca. Manca ancora uno studio storico-artistico che li inquadri compiutamente, ma potrebbero risalire agli anni Venti del Duecento,
Un itinerario fra arte e architettura Da piazza del Duomo, dopo averne ammirato la straordinaria facciata, si accede alla Cattedrale e, una volta entrati, si può raggiungere la Cappella Nova (o di S. Brizio), la cui decorazione ad affresco fu iniziata dal Beato Angelico, proseguita da Benozzo Gozzoli e ultimata da Luca Signorelli. Proprio all’intervento di quest’ultimo si deve la fama odierna del ciclo pittorico. Merita ugualmente una visita l’altra Cappella, detta del Corporale, con affreschi di Ugolino di Prete Ilario e di suoi aiuti, nella quale si conserva, all’interno di un tabernacolo in marmo, la testimonianza del miracolo di Bolsena a seguito del quale è stata istituita la festività del Corpus Domini. Uscendo, non si deve tralasciare il gruppo scultoreo della Pietà, scolpito da Ippolito Scalza (vedi box alle pp. 90-93) e, lungo la navata, il magnifico affresco della Madonna col Bambino, opera di Gentile da Fabriano. Nel Museo dell’Opera del Duomo sono custodite altre opere di straordinaria rilevanza: una Madonna con Bambino in marmo e sei angeli reggicortina in bronzo posti originariamente sulla lunetta del portale centrale del Duomo; alcuni pannelli di due polittici di Simone Martini; i resti del coro ligneo trecentesco; il reliquiario di Ugolino di Vieri, un capolavoro dell’oreficeria italiana; una tavola di Luca Signorelli e dei suoi allievi; alcune tele di Cesare Nebbia e Girolamo Muziano. Dalla chiesa di S. Agostino si può raggiungere agevolmente la vicina chiesa di S. Giovenale, di fatto un museo della pittura del Duecento e del Trecento (vedi il capitolo alle pp. 94-101). Altre tappe di sicuro interesse sono la chiesa di S. Domenico, con il monumento al cardinale de Braye realizzato da Arnolfo di Cambio; la chiesa di S. Andrea, di cui si possono visitare i sotterranei; la chiesa dei Servi di Maria; la Torre del Moro, da cui si può godere una vista di Orvieto dall’alto; il Teatro «Luigi Mancinelli»; il Pozzo della Cava; i cunicoli e le grotte della città sotterranea; la possibilità di una passeggiata ai piedi della rupe compresa all’interno del Parco Archeologico e Ambientale dell’Orvietano.
quando sappiamo che il vescovo Raniero fece affrescare la chiesa in occasione di un sinodo che si tenne al suo interno nel 1228. Satolli ritiene che si possa individuare anche l’architetto che seguí i lavori: Fra’ Bevignate, il quale – con Boninsegna da Venezia – aveva già realizzato l’acquedotto di Orvieto ed era stato nominato dapprima operarius (nel 1295) e poi «soprastante» (nel 1300), del cantiere del Duomo. Recentemente, la ricercatrice Sabina Bordino ha inoltre scoperto e valorizzato un documento nel quale si indica che la chiesa di S. Maria Episcopatus era in piedi e agibile ancora nel dicembre del 1292, e quindi dovrebbe essersi trovata al di fuori 64
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Nella pagina accanto San Michele Arcangelo, statua in bronzo realizzata dal maestro fonditore di campane Matteo di Ugolino da Bologna e in origine collocata nella facciata del Duomo (dove è stata sostituita da una replica). 1356. Orvieto, MODO.
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Pianta di Orvieto con l’indicazione dei monumenti civili e religiosi descritti nel testo. In basso la Tribuna del Duomo di Orvieto, per la quale il pittore e mosaicista orvietano Ugolino di Prete Ilario realizzò, avvalendosi di aiuti, un grandioso ciclo pittorico con Storie della Vergine. 1370-1384. In uno degli spicchi della volta a crociera campeggia l’Incoronazione di Maria (vedi foto alla pagina successiva).
dell’area individuata per il Duomo. Lo sviluppo vertiginoso di Orvieto durante il Duecento mutò in profondità il paesaggio urbano, non solo in quest’area. È sufficiente elencare anche soltanto le maggiori chiese allora edificate: S. Domenico nel 1242, S. Francesco nel 1244, S. Agostino nel 1253, S. Maria dei Servi nel 1291.
Una città trasformata in cantiere
Questa intensa attività edilizia si configura, di fatto, come un cantiere su scala urbana che interessò anche le strutture legate al potere politico laico, come il Palazzo del Popolo – il Palatium Populi –, attestato per la prima volta nei documenti nel 1281 e concepito inizialmente con una loggia porticata al pianterreno – che fu presto chiusa – e un grande salone per le adunanze al primo piano. In un secondo momento venne aggiunta la sala «caminata», la torre e, con ogni probabilità, fu posizionato diversamente lo scalone di accesso. Nel Palazzo aveva sede il Capitano del Popolo (una carica istituita a Orvieto, come a Firenze, nel 1250) e vi furono poi ospitati temporaneamente i podestà e i governatori. La costruzione dell’edificio si accompagnò alla demolizione di case e torri per creare la piazza antistante che doveva esaltarne la mole. Si possono ricordare anche la costruzione del Palazzo del Comune e la realizzazione dell’acquedotto. Lo stesso
patrimonio edilizio privato si ampliò e fu investito da un profondo rinnovamento. Dal 1290 divenne attivo, inoltre, il cantiere del Duomo che portò alla costruzione della nuova Cattedrale, destinata a divenire uno dei monumenti simbolo dell’architettura sacra italiana. I primi anni, vivacizzati dalla presenza di maestranze cosmopolite, furono di lavoro inORVIETO
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Incoronazione di Maria, affresco facente parte delle Storie della Vergine dipinte da Ugolino di Prete Ilario e aiuti nella Tribuna del Duomo di Orvieto. 1370-1384.
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tenso, al punto che, nel giro di un ventennio, si riuscirono a innalzare le navate e il transetto, seguendo il progetto ideato da un architetto di cui non conosciamo il nome (alcuni storici dell’architettura hanno pensato, comunque, ad Arnolfo di Cambio, o a Fra’ Bevignate) e noto convenzionalmente come il «Maestro del Duomo di Orvieto».
Da apprendista a direttore
Nel 1310 si ebbe un mutamento d’indirizzi, di cui fu protagonista il senese Lorenzo Maitani divenuto – dopo anni di apprendistato – universalis caputmagister della Fabbrica del Duomo. Egli apportò modifiche al progetto originario, risolvendo alcuni problemi statici e aggiornandolo secondo i nuovi dettami stilistici. Dette, inoltre, un contributo decisivo al superamento di una fase di crisi quando la città – lacerata dagli scontri politici – iniziò a dubitare di riuscire a portare a termine un’impresa tanto ambiziosa. Alla sua morte, l’impostazione definitiva era stata data e il cantiere proseguí secondo le sue indicazioni progettuali: tra il 1350 e il 1356 venne costruita la Cappella del Corporale, affrescata poi da Ugolino di Prete Ilario e altri nel 1357-1364, mentre, tra il 1408 e il 1444, fu eretta la Cappella Nova, in cui lavorarono il Beato Angelico e Benozzo Gozzoli (1447-1449) e poi Luca Signorelli (1499-1504). Nel 1532 venne terminato il frontespizio della facciata, mentre 66
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le ultime due guglie – quelle laterali, piú basse – vennero portate a termine rispettivamente nel 1590 (quella di destra) e nel 1605-1607. Il Duomo di Orvieto è legato a un miracolo avvenuto a Bolsena e alla base dell’istituzione della festa del Corpus Domini. Un prete «forestiero» – secondo la tradizione – dubitava che nell’ostia si trovasse il corpo di Cristo e, proprio per questo, si era messo in viaggio verso Roma. Sulla via del ritorno, accadde l’evento miracoloso: dall’ostia consacrata caddero alcune gocce di sangue mentre diceva messa nella chiesa di S. Cristina a Bolsena. Il corporale macchiato con il sangue di Cristo venne portato al papa, Urbano IV, che in quei giorni si trovava a Orvieto. Il tema della transustanziazione, ovvero della trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia, era molto dibattuto al tempo e costituiva uno dei punti di divisione con i catari. Urbano IV era molto sensibile all’argomento e già nel 1246 – in qualità di arciprete della Cattedrale di Liegi – aveva promosso, insieme al vescovo della città, l’inserimento della festa del Corpus Domini nel calendario liturgico. A Orvieto si trovò a gestire un miracolo che alla transustanziazione faceva riferimento e, con la bolla Transiturus de mundo, emanata nel 1264, estese la festività a tutta la cristianità. Al suo fianco nell’interpretazione e nella valorizzazione del miracolo ebbe il grande
filosofo e teologo Tommaso d’Aquino, che aveva voluto presso di sé e che risiedeva nel convento di S. Domenico.
Famiglie in lotta
Per quel che riguarda le vicende politiche del Comune di Orvieto che accompagnarono e condizionarono le scelte e le trasformazioni urbane fin qui riassunte, il centro della scena risulta occupato da due famiglie: i Monaldeschi e i Filippeschi e poi dal confronto, altrettanto duro, tra rami diversi della famiglia risultata vincitrice. Visioni ideologiche diverse e interessi divergenti opponevano i Monaldeschi e i Filippeschi: i primi, provenienti dal mondo dei mercanti, erano schierati a favore delle posizioni guelfe, mentre i secondi, di origine nobiliare (anche se studi recenti sembrano suggerirne la provenienza dal mondo della mercatura), sostenevano le tesi ghibelline. Inoltre, le proprietà terriere dei Monaldeschi si estendevano verso sud-est nella Val di Lago, mentre quelle dei Filippeschi in direzione nord, verso l’area d’interesse di Siena. Lo scontro fu vinto dai Monaldeschi, che seppero comprendere meglio gli assetti politici e istituzionali comunali. Essi, inoltre, riuscirono a sfruttare a proprio vantaggio la forte influenza che la Chiesa esercitava in città per la prossimità geografica con Roma e per i frequenti soggiorni del papa e della curia pontificia. È stato calcolato che, dal 1157 alla fine del Duecento, Orvieto dette ospitalità a una decina di papi e che, nell’ultimo quarantennio del Duecento, ospitò la curia pontificia per circa dieci anni. La vicinanza poi, in talune fasi, dei Filippeschi alle istanze dei catari, considerati potenziali alleati, complicò ulteriormente il quadro. I contrasti tra le due famiglie ebbero inizio nel 1241, ma la situazione precipitò nel 1272, quando il sentimento antiguelfo portò all’uccisione di quattro personaggi legati ai Monaldeschi. La vendetta fu immediata e un Filippeschi venne ucciso dal figlio di uno degli assassinati. La sua morte portò a una battaglia vera e propria tra le due famiglie e i loro alleati, che si concluse con l’allontanamento dei Filippeschi piú coinvolti dalla città. Un equilibrio tra le parti venne ritrovato nel 1280, con l’elezione di Ranieri Della Greca a Capitano del Popolo: Ranieri era un esponente del partito ghibellino, ma venne sostenuto anche da quello guelfo su un programma di rinnovamento e autonomia della città.
Particolare del gruppo scultoreo raffigurante la Madonna con il Bambino e due angeli, opera di Andrea e Nino Pisano, dal Duomo. 1346-1347. Orvieto, MODO.
Una nuova fortissima crisi si ebbe nel 1313: il partito ghibellino, rafforzato dal peso crescente del ghibellinismo in Umbria e dalla vicinanza dell’imperatore Enrico VII – che nel 1310 era disceso in Italia –, provò a prendere il potere. Dal 16 al 20 agosto, per cinque giorni, guelfi e ghibellini si scontrarono per le strade con estrema violenza e le sorti della battaglia furono incerte sino al termine. Alla fine, i guelfi ebbero la meglio e i Filippeschi e i loro alleati dovettero lasciare la città. Ermanno Monaldeschi, l’uomo forte del momento, chiese e ottenne che i Filippeschi fossero dichiarati ribelli e fuorilegge, che le loro case venissero abbattute e le altre proprietà confiscate. Solo nel 1315 i provvedimenti furono attenuati e alcuni ghibellini poterono fare ritorno in città.
L’impotenza del governo
Da lí a poco, le divisioni penetrarono tra gli stessi Monaldeschi, poiché non tutti i componenti della famiglia erano disposti a riconoscere la supremazia di Ermanno e questo provocò tensioni e scontri che il governo cittadino, indebolito dalle rivolte accese nel contado, non riuscí a frenare. Napoleone Monaldeschi si oppose apertamente a Ermanno: nel 1333, Ugolino Della Greca, un sostenitore di Ermanno, venne ucciso da un uomo vicino a Napoleone. Nel gennaio dell’anno successivo, Napoleone Monaldeschi venne assassinato da Corrado Monaldeschi, figlio di Ermanno. La drammatica situazione venutasi a creare fu gestita politicamente da Ermanno, che, nel maggio del 1334, si fece nominare Gonfaloniere del Popolo e della Giustizia a vita: lo storico Claudio Regni ha osservato che, con quell’atto, «il libero Comune di Orvieto aveva cessato di esistere e la città conosceva il suo primo Signore». Lo conobbe per poco, poiché Ermanno morí nel 1337. La sua morte venne seguita da un nuovo periodo di lotte che vide contrapposti i quattro rami in cui la famiglia Monaldeschi si era divisa: Cervo, Vipera, Cane e Aquila. Il risultato finale, anche in conseguenza della peste del 1348, fu che Orvieto, come ha scritto ancora Regni, divenne «facile preda nel 1352 prima dell’arcivescovo Visconti poi, nello stesso anno, del signore di Viterbo, il prefetto Giovanni di Vico. Da questo momento la città conoscerà solamente signorie esterne e non avrà piú alcun rilievo politico». E la grande stagione dell’Orvieto medievale poté dirsi conclusa. ORVIETO
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Le statue del Duomo
IL RITORNO DEGLI APOSTOLI
A sinistra: Orvieto. I resti del tempio del Belvedere. In alto e nella pagina accanto: una testa di Menade e una testa di Sileno, provenienti entrambe da Orvieto, dall’area sacra nei pressi della chiesa di S. Giovanni Evangelista.
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Il Duomo di Orvieto ha di recente salutato il ritorno del ciclo scultoreo realizzato tra gli anni Cinquanta del Cinquecento e gli anni Venti del Settecento. Ne era stato allontanato nel 1897, a conclusione di una serie di lavori, durati una ventina di anni, che tolsero la maggioranza delle testimonianze post-medievali dalla chiesa alla ricerca di un mitizzato Duomo delle origini. Su quella stagione diede un giudizio amaro lo storico e archivista Luigi Fumi, che ne era stato uno dei protagonisti principali; nella sua monografia Orvieto, pubblicata nel 1918 e quindi ad anni di distanza scriveva: «Mai piú avverrà che il piccone ignobile, con tanta disinvoltura, porti la distruzione sulle opere dell’ingegno e della mano di buoni maestri del loro tempo, per cedere il posto alla scialba tinta degli imbianchini. Abbiamo abbattuto gli altari, abbiamo dato lo sfratto ai Santi. È rimasta isolata, come in un deserto, la maestà di Dio, in un grande vuoto». Si era andati alla ricerca di un Medioevo supposto, enfatizzato, sempre piú «puro», quello compreso tra gli anni 1290- 1310 prima della svolta avvenuta con l’arrivo di Lorenzo Maitani, quale responsabile del cantiere. Non si era compreso che una Cattedrale è un corpo vivo, che muta insieme ai fedeli (e, in senso piú generale, alla società intera) e ne vive le aspirazioni, le contraddizioni, le conquiste, le difficoltà. Finalmente, l’Opera del Duomo di Orvieto, in piena collaborazione con la Diocesi di Orvieto-Todi, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro e l’ENEA, ha scelto di riportare l’intero ciclo scultoreo al suo posto. Vi figurano opere di Raffaello da Montelupo, Francesco Moschino, Ippolito Scalza, Francesco Mochi, Giambologna, Bernardino Cametti per limitarsi a qualche nome. La scelta è stata realizzata riallacciandosi a posizioni teoriche sostenute da Cesare Brandi, Federico Zeri, Vittorio Franchetti Pardo e Antonio Paolucci a partire dagli anni Ottanta del Novecento. In quegli anni si arrivò quasi a realizzare la ricollocazione: Brandi
In alto particolare del San Giacomo Maggiore, opera di Giacomo Caccini. 1589-1591. Sulle due pagine particolare della statua dell’Angelo facente parte del gruppo dell’Annunciazione di Francesco Mochi posto ai lati dell’altare del Duomo. 1603-1608. Nella pagina accanto, in alto una veduta della navata centrale del Duomo, con le statue degli Apostoli ricollocate a ridosso delle colonne.
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Le statue del Duomo
IL RITORNO DEGLI APOSTOLI Sulle due pagine particolare della statua della Madonna, facente parte anch’essa del gruppo dell’Annunciazione di Francesco Mochi. 1603-1608. Nella pagina accanto, in alto particolare del Sant’Andrea, opera di Fabiano Toti e Ippolito Scalza. 1589-1599. Nella pagina accanto, in basso, a destra particolare del San Taddeo, opera di Francesco Mochi. 1631-1644.
– convinto che l’operazione stesse per concretizzarsi – giunse nel 1986 ad annunciare il prossimo ritorno dell’Annunciazione di Francesco Mochi e delle statue degli Apostoli sulle pagine del Corriere della Sera. Il riposizionamento venne bloccato all’ultimo minuto con le motivazioni che la straordinaria Annunciazione di Mochi, ai lati dell’altare, avrebbe interferito con le cerimonie religiose e che le sculture degli Apostoli, dislocate – come erano in origine – nella navata e a ridosso delle colonne, avrebbero impedito (o, almeno, limitato) la lettura dello spazio architettonico. Nel frattempo, dopo diverse peregrinazioni, l’intero ciclo scultoreo giaceva, chiuso in casse, nei sotterranei del Duomo, dove lo vide Federico Zeri, che, nel 1996, denunciò la situazione con grande energia in un documentario televisivo intitolato significativamente Arte negata. Nel 2006, sempre per iniziativa dell’Opera del Duomo e in accordo con la Soprintendenza, le statue vennero liberate dalle casse (l’Annunciazione lo era stata già in precedenza) ed esposte nella chiesa di S. Agostino, una delle sedi del Museo dell’Opera. Nelle intenzioni doveva essere un passaggio breve prima di acquisire i progetti e le autorizzazioni necessarie per il loro rientro nella Cattedrale. Al termine delle operazioni, le statue sono tornate nel luogo esatto dove si trovavano, individuato grazie alla documentazione fotografica realizzata alla fine dell’Ottocento. Un attento e complesso lavoro di restauro ha portato anche alla ricomposizione dei basamenti originari. Ora le statue dei Santi sono tornate a riempire il «grande vuoto» della navata e possono dialogare con i fedeli e i visitatori.
Qui sopra l’altare del Duomo affiancato dall’Annunciazione di Francesco Mochi. 1603-1608. ORVIETO
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Orvieto, Duomo. Particolare del mosaico raffigurante l’Incoronazione di Maria, dopo il restauro. La versione dell’opera che oggi possiamo ammirare, collocata nel timpano superiore della facciata, è quella ultimata nel 1847, sulla base del cartone elaborato da Giovanni Bruni.
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Il trionfo del colore
Riportati di recente allo splendore originario, i mosaici del timpano superiore della chiesa cattedrale orvietana sono l’esito di una vicenda artistica lunga e travagliata
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rovandosi in Orvieto e osservando – in una giornata di sole invernale – la facciata del Duomo, appena restaurata in alcune sue parti, possono tornare alla mente le parole di Cesare Brandi (19061988), uno dei maggiori storici dell’arte del secolo da poco trascorso e scrittore notevole, in Terre d’Italia: «Orvieto, dove l’arte senese posò il Duomo piú bello d’Italia, quella facciata immensa e minuta, come una miniatura scolpita, come una pagina che non si può voltare, e la guardi senza fine e qualcosa ti si scioglie dentro, in silenzio come una comunione». Una «pagina» la cui composizione risulta ben chiara sin dagli anni iniziali della progettazione del monumento, cioè almeno dal 1310 quando la responsabilità nella conduzione del cantiere della Cattedrale venne assunta dall’architetto e scultore senese Lorenzo Maitani (1270 circa-1330) in qualità di universalis caput magister.
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Subentrato al progettista originario, egli apportò varie modifiche all’impianto iniziale, con l’innalzamento di una tribuna quadrangolare in luogo di un’abside e la costruzione di due grandi cappelle: una, detta «del Corporale», custodisce la reliquia del miracolo di Bolsena che consentí la proclamazione della festa del Corpus Domini da parte del pontefice Urbano IV (1264); l’altra, intitolata a san Brizio (detta anche Cappella Nova), venne successivamente affrescata dal Beato Angelico e da Luca Signorelli. Gli interventi proposti e realizzati da Lorenzo Maitani sono stati spiegati nel tempo come la risposta a sopravvenuti problemi statici della struttura, ma oggi si tende a leggerli come gli esiti di un mutamento profondo del gusto, di una sorta di svolta generazionale maturata
Sulle due pagine la parte superiore della facciata del Duomo con i mosaici oggetto del restauro. Nella pagina accanto alcuni momenti dell’intervento di restauro dei mosaici.
Una vita per il Duomo Documenti di archivio indicano in Consilio da Monteleone, originario di un paese vicino a Orvieto, il primo vetraio del Duomo. Egli iniziò a lavorare «lingue» d’oro e di vetro colorato nel 1321; in seguito venne assunto come magister vitri. Rimase legato all’Opera del Duomo, l’ente che sovraintese alla costruzione della Cattedrale, per piú di quarant’anni, realizzando tessere sia per i mosaici figurati, sia per le decorazioni degli elementi architettonici della facciata.
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Lo Sposalizio della Vergine, mosaico che occupa la cuspide sinistra piú alta della facciata. Il tema della composizione è tra quelli compresi nel progetto originario di Lorenzo Maitani, finalizzato a celebrare la figura di Maria.
nel volgere di un ventennio. Si ricordi, in proposito, che la prima pietra del Duomo era stata posta nel novembre del 1290. Tornando alla facciata, un disegno su pergamena, attribuito proprio all’architetto senese e tuttora conservato nell’Archivio dell’Opera del Duomo, ne mostra una molto simile a quella effettivamente realizzata e sembra prevedere la presenza di mosaici su buona parte del resto della superficie.
Gli incisores al lavoro
La documentazione di archivio superstite dell’attività del cantiere ricorda che, nel 1321, una squadra di uomini era impegnata nella costruzione di una fornace per la produzione del vetro necessario per le tessere e per le vetrate (vedi box a p. 79); nello stesso anno una squadra di tre o quattro persone – denominate incisores vitri – iniziò a tagliare le tessere e a disporle sugli elementi architettonici della facciata. Quando piú tar76
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di, verso il 1359, s’iniziarono a realizzare i mosaici narrativi il numero dei lavoranti impiegati aumentò. Il ricorso a mosaici su sfondo dorato rappresentava una scelta decorativa originale nell’arte italiana del Trecento, che probabilmente guardava – come è stato osservato – alla tradizione paleocristiana e tardo-antica di ambiente romano. La volontà era probabilmente quella d’impreziosire la facciata attraverso i mille riflessi dorati, proponendo un’immagine della forza della fede della comunità che aveva voluto la Cattedrale e, al contempo, della vitalità delle sue istituzioni politiche e della ricchezza cittadina. Una crisi profonda – motivata dalle discordie interne e dalla conseguente difficoltà a elaborare una politica comune – subentrò di lí a poco, ma nessuno sembrò avvedersene. Anzi, lo splendore della Cattedrale serví a nascondere le difficoltà incipienti, continuando a proiettare un’immagine di forza sia nel territorio circostante che verso le realtà politiche e istituzionali presenti nell’Italia centrale almeno sino a quando la crisi divenne palese. Basti ricordare alcuni versi di Dante Alighieri nella Divina Commedia: «Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, / Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: / color già tristi, e questi con sospetti!» (Purgatorio, canto VI, vv. 106-108). I Monaldi (Monaldeschi), guelfi, e i Filippeschi, ghibellini, erano le due famiglie che si contendevano il potere in Orvieto.
I temi delle composizioni
Altrettanto significativa appare la scelta dei temi da affrontare nella decorazione musiva che si orientò verso gli episodi piú significativi della vita di Maria: l’Annunciazione ad Anna, la Nascita della Vergine, la sua Presentazione al tempio, il Matrimonio con Giuseppe. A Maria, infatti, erano dedicate la Cattedrale e già prima la chiesa di S. Maria Prisca, che insisteva, insieme a quella di S. Costanzo, nell’area occupata poi dal Duomo. Un’eccezione venne fatta per il Battesimo di Cristo, posizionato sopra al portale di sinistra, da dove si accedeva all’area del fonte battesimale situato all’interno. La decorazione musiva del timpano superiore è stata al centro di un recente intervento di restauro: si tratta della porzione di facciata piú esposta alle intemperie, trovandosi fino a 60 m circa da terra e avendo una disposizione «a vela»; nel corso dei secoli ha
visto l’intervento di vari maestri, autori di soluzioni diverse tra loro, e lo sforzo continuo di generazioni di mosaicisti. La volontà di coprire con mosaici il timpano superiore era presente sin dagli inizi, ma, allo stesso tempo, erano chiare le difficoltà tecniche dell’impresa e i costi per la realizzazione e la successiva manutenzione. Tra il 1514 e il 1522 si ha notizia di un artista rimasto ignoto che fu ingaggiato per progettare tale decorazione (si tenga a mente che l’elevazione della facciata fu ultimata solo nel 1532). Lo studio elaborato non ebbe seguito e per qualche decennio l’impresa venne ritenuta troppo ardua e costosa. Solo con una delibera della Fabbrica della Cattedrale del 9 aprile 1584 si decise di procedere alla messa in opera del mosaico del «frontespizio». Al pittore Cesare Nebbia (1536 circa-1614 circa), orvietano, ma ben affermato negli ambienti
Un’impresa molto costosa Consultando i documenti contabili del cantiere del Duomo di Orvieto, Catherine D. Harding, professore di arte italiana del tardo Medioevo e del primo Rinascimento alla University of Victoria (Canada), ha calcolato che i mosaici della facciata venivano a costare il 418% in piú rispetto a una superficie equivalente decorata ad affresco. Tale dato suggerisce l’entità dello sforzo che la comunità orvietana si trovò ad affrontare per decorare a mosaico una parte notevole della superficie della facciata della sua Cattedrale.
Il mosaico dell’Incoronazione di Maria, prima (in alto) e dopo il restauro. Realizzata nel 1847 dai mosaicisti Raffaele Cocchi e Raffaele Castellini, la composizione si ispira a una pala d’altare del pittore senese Sano di Pietro.
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Restauri Il volto di uno degli Angeli che compaiono nell’Incoronazione di Maria, durante (in basso) e dopo il restauro. Nella pagina accanto, in alto il volto del Cristo che compare nell’Incoronazione di Maria durante (a sinistra) e dopo il restauro.
Un mestiere ben pagato I maestri mosaicisti godevano di una considerazione particolare nell’ambito del cantiere e – stando alla documentazione conservata nell’Archivio dell’Opera del Duomo – venivano retribuiti piú di ogni altro lavoratore. A differenza degli altri operai, potevano contrattare le condizioni di assunzione e l’entità del salario e si dimostrano capaci di farlo, riuscendo a ottenere contratti vantaggiosi.
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artistici della Roma di Gregorio XIII, fu dato l’incarico di realizzare un bozzetto dipinto a olio e un cartone a grandezza naturale di un mosaico raffigurante la Resurrezione di Cristo. Ai mosaicisti Paolo Rossetti, Alessandro e Paolo Scalza e Ferdinando Sermei venne invece affidata la messa in opera. Nella relazione che consegnarono alle autorità della Fabbrica, essi ricordarono l’esperienza maturata nel rifacimento della decorazione musiva con il Battesimo di Cristo in una zona piú raggiungibile della facciata. Prospettarono la possibilità di un abbattimento dei costi facendo ricorso ai materiali «avanzati assai» da quell’intervento e all’uso da parte loro di una «mestura da durare perpetuamente» già sperimentata. Segnalavano inoltre che si poteva fare pieno affidamento sulla loro «affetione» al progetto «per essere la magior parte della città». Il lavoro fu seguito a regola d’arte e venne usata sicuramente «la mestura da durare perpetuamente», tuttavia, agli inizi del Settecento, il mosaico versava in cattive condizioni di conservazione, al punto che si scelse di sostituirlo. Nell’occasione si decise anche di mutare la scena rappresentata: la Resurrezione di Cristo venne sostituita dall’Incoronazione di Maria, a rafforzare il legame tra la Cattedrale e Maria. L’incarico per un nuovo cartone e una riproduzione in scala ven-
ne affidato all’artista Ludovico Mazzanti, che s’ispirò a una tela del pittore Giovanni Lanfranco (1582-1647) realizzata nel 1615, come pala d’altare, per la cappella Marescotti nella chiesa orvietana del Carmine e oggi esposta nel Museo dell’Opera del Duomo. La sostituzione avvenne, ma il nuovo mosaico andò incontro agli stessi problemi del precedente e richiese da subito una manutenzione continua, sino a che si scelse d’intervenire di nuovo e drasticamente: nel 1842 venne smontato e sostituito.
Influenze senesi
L’incarico per un nuovo cartone, che doveva comunque sempre rappresentare l’Incoronazione di Maria, fu affidato al senese Giovanni Bruni, professore di disegno presso l’Istituto di Belle Arti di Siena. Il professore guardò vicino a sé e s’ispirò alla pala di un pittore del Quattrocento senese, Sano di Pietro, conservata presso il Palazzo Pubblico di Siena. La messa in opera venne affidata ai mosaicisti Raffaele Cocchi e Raffaele Castellini e ad altre maestranze di scuola romana. Il lavoro andò avanti con celerità e l’inaugurazione si ebbe nel 1847. Questo è il mosaico che si può ammirare ancora oggi anche se gli interventi conservativi dagli anni Quaranta dell’Ottocento sino a oggi sono stati diversi. In particolare si può segnalare l’intervento dello Studio Carlo Meloni e Cassio di Roma eseguito nel 1992. Il restauro comportò il completo distacco della superficie musiva dal supporto murario, il restauro in laboratorio e la ricollocazione nella cuspide centrale. L’intervento appena concluso ha previsto uno studio preliminare per individuare i metodi d’intervento piú efficaci e rispettosi del monu-
Tessere a chilometro zero Alcune fornaci per la produzione del vetro vennero costruite nell’area del cantiere: «Di fronte alla porta del palazzo vescovile», secondo lo storico Luigi Fumi, autore del volume Il Duomo di Orvieto e i suoi restauri (Roma 1891). L’Opera del Duomo incentivò anche la produzione delocalizzandola nel territorio della città e, in particolare, a Monteleone di Orvieto e a Piegaro.
Qui sopra tessere in vetro colorato appartenenti al mosaico originario, recuperate nel corso del restauro.
mento, il consolidamento degli strati preparatori e della superficie musiva, il trattamento biocida e la pulitura della superficie, il risarcimento di alcune lacune realizzato con tessere antiche conservate nei depositi dell’Opera del Duomo. Il recente restauro della decorazione a mosaico del timpano superiore del Duomo di Orvieto è stato eseguito sotto la direzione della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio dell’Umbria, nelle figure del Soprintendente Stefano Gizzi e del direttore dei lavori Maurizio Damiani, da giovani restauratrici (ditta Ma.Co.Rè) coordinate da Martina Pavan e Giulia Pompa, entrambe formatesi all’interno dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro. I lavori sono stati finanziati dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. ORVIETO
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LEGGENDE E RELIQUIE
Il miracolo di Bolsena
Nel XIII secolo, al tempo di papa Urbano IV, un sacerdote sta celebrando la messa a Bolsena, quando, improvvisamente, l’ostia comincia a stillare sangue... È il miracolo raccontato nella Cappella del Corporale del Duomo orvietano, dove si conserva la reliquia che di quell’episodio è considerata la prova
Orvieto, Duomo, Cappella del Corporale. L’affresco raffigurante il miracolo dell’ostia, che si sarebbe prodotto a Bolsena, nella chiesa di S. Cristina, e dal quale nacque la decisione di istituire la festa del Corpus Domini. Scuola umbra, XIV sec.
«N
oi pertanto a corroborazione e a esaltazione della fede cattolica, degnamente e a ragion veduta abbiamo ritenuto di stabilire che di cosí grande Sacramento, oltre alla quotidiana commemorazione che ne fa la Chiesa, si celebri ogni anno piú speciale e solenne memoria, designando e fissando a questo scopo un giorno preciso, cioè il giovedí che segue immediatamente l’ottava dopo Pentecoste». Questo pronunciamento è contenuto nella bolla Transiturus de hoc mundo, con la quale papa Urbano IV, l’11 agosto 1264, istituí da Orvieto, dove si trovava, la festa del Corpus Domini. Con quella decisione, il pontefice portava a compimento un lungo processo di riflessione sul tema, che aveva attraversato a lungo la Chiesa, e realizzava una speranza nata negli ambienti mistici di Liegi, animati soprattutto dalla beata Giuliana, una suora agostiniana attiva nel lebbrosario di Cornillon, situato alle porte della città. Urbano IV aveva conosciuto la suora diversi anni prima quando, tra il 1242 e il 1249, era stato arcidiacono di Liegi rimanendo colpito dalla sua profonda religiosità e dalla sua vocazione eucaristica.
L’ispiratrice della festa
Il papa rimase in contatto con quell’ambiente di grande impegno spirituale e sociale, come prova la lettera indirizzata l’8 settembre del 1264 a Eva di Saint-Martin, che era stata vicina a Giuliana e di cui aveva continuato l’opera dopo la sua morte, sopraggiunta nel 1258. Nella missiva, il pontefice le comunicava con gioia l’istituzione della festa del Corpus Domini per tutta la cristianità. Va ricordato, in proposito, che a Liegi la festività era celebrata già dal 1246 e che – ancora prima di Giuliana da Cornillon – un’altra religiosa si era adoperata affinché fosse istituita: Maria d’Oignes. Giuliana non va considerata solo l’ispiratrice, ma la coautrice – insieme al discepolo Giovanni – del primo Officium del Corpus Domini che il teologo belga Jean Cottiaux (1903-1995), nel 1964, definí «un capolavoro tanto sul piano del contenuto dottrinale quanto, tenuto conto dei gusti dell’epoca, sul piano artistico». Ma quali motivazioni spinsero Urbano IV a superare le resistenze e a proclamare la festa? Sicuramente il ricordo delle riflessioni maturate negli anni di Liegi, gli esiti del serrato dibattito portato avanti all’interno della curia anche in polemica con ambienti «eretici», la presenza al suo fianco del cardinale Hughues de SaintCher (un domenicano che aveva avuto l’opportunità di ascoltare Giuliana a Liegi e che, nel ORVIETO
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Leggende e reliquie A sinistra la Cappella del Corporale, nel Duomo di Orvieto. Voluta a perpetua memoria del miracolo di Bolsena (1263) per custodire la reliquia del sacro lino, fu realizzata a partire dal 1350. Completato intorno al 1356, il nuovo ambiente venne affrescato dal maestro orvietano Ugolino di Prete Ilario. Nella pagina accanto il reliquiario realizzato nel 1338 dall’orafo senese Ugolino da Vieri. Nei pannelli a smalto, oggi deteriorati e difficilmente leggibili, viene ricordato il miracolo di Bolsena ed è probabile che a essi si sia ispirato Ugolino di Prete Ilario per il suo ciclo pittorico dedicato allo stesso episodio.
1251, aveva esteso, con un proprio decreto, la festa del Corpus Domini ai territori della Germania); ma un miracolo eucaristico avvenuto a Bolsena alcuni mesi prima dell’agosto del 1263 deve averlo rafforzato nella sua decisione. La memoria piú antica dell’evento miracoloso è affidata a una sacra rappresentazione, scritta forse negli anni 1323-1330, ma elaborata probabilmente già negli anni Novanta del Due82
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cento, come ha suggerito lo studioso Lucio Riccetti (2007); a un reliquiario realizzato per la Cattedrale orvietana da Ugolino di Vieri nel 1338 per accogliere proprio la reliquia del miracolo; agli affreschi che Ugolino di Prete Ilario, con alcuni aiuti, realizzò, tra il 1357 e il 1364, sulla parete di destra della cappella chiamata «del Corporale». Fra queste testimonianze vi sono alcune di-
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Leggende e reliquie
Da Troyes al soglio di Pietro Jacques Pantaléon, il futuro Urbano IV, era nato a Troyes verso la fine del XII secolo, da una famiglia di umili origini. Dopo avere studiato a Parigi, divenne sacerdote iniziando la carriera ecclesiastica. Fu canonico a Laon, arcidiacono a Liegi, poi vescovo (1253) a Verdun e quindi patriarca di Gerusalemme (1255). Svolse un’intensa attività diplomatica ed era considerato un esperto dell’Oriente. Nel 1261, durante il conclave di Viterbo, venne eletto papa pur non essendo ancora cardinale: uno dei pochi casi nella storia della Chiesa.
scordanze, verosimilmente riconducibili al contesto storico e politico di cui sembrano risentire e alle diverse necessità narrative di uno spettacolo teatrale, di un reliquiario e di un ciclo di affreschi. Nel testo della sacra rappresentazione si ricorda che «un prete lontano dell’Alta Magna», «ch’era di lengua straniero», aveva dubbi sul fatto che nell’ostia consacrata fossero presenti il corpo e il sangue di Cristo. Per questo, su indicazione del proprio confessore, decise d’intraprendere un pellegrinaggio sino a Roma celebrando messa in ogni località toccata. Nel viaggio di ritorno sostò a Bolsena e celebrò messa nella chiesa di S. Cristina; durante la liturgia, al momento dell’eucarestia, l’ostia si trasformò in carne e alcune gocce di sangue caddero sul corporale e su altri paramenti sacri.
Le volte della Cappella del Corporale, affrescata da Ugolino di Prete Ilario tra il 1357 e il 1364. Nelle vele della prima campata (a sinistra nella foto) compaiono episodi delle vite dei santi Paolo, Tommaso, Giovanni e Agostino; nella seconda campata si susseguono scene ispirate all’Antico Testamento, scelte come introduzione al mistero dell’eucarestia.
I religiosi obbediscono (malvolentieri)
Il religioso straniero, sconvolto dall’evento, fuggí, mentre i sacerdoti locali raccolsero le reliquie e le custodirono «molto caramente». Un pellegrino che aveva assistito al miracolo si recò a Orvieto e riferí l’accaduto al vescovo, il quale informò subito il pontefice, che si trovava in città. Il papa gli affidò una lettera con la quale obbligava i sacerdoti della chiesa di S. Cristina a consegnargli le reliquie, e quelli – riluttanti – gliele affidarono. Nel ritorno a Orvieto il vescovo si fece precedere da un messo che dette la notizia: il pontefice, i maggiorenti della città e una folla di religiosi e di laici – in processione – andarono ad accoglierlo. L’incontro avvenne, fuori dalla città, sul ponte del torrente Rio Chiaro e il vescovo mostrò il corporale insanguinato: «Padre, al vostro piacere / mostrolu a vo’ e a tucta gente: / ciaschun ste credente / che quest’è carne e sangue di Die vero». Nel reliquiario, attraverso otto pannelli posizionati sul lato anteriore, muovendo dall’alto in basso e da sinistra a destra, si ricorda lo stesso evento miracoloso: la celebrazione della messa a Bolsena alla presenza di fedeli; la no84
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tizia portata al pontefice, raffigurato tra i prelati della curia; il papa che invita il vescovo a recarsi a Bolsena; il vescovo che preleva il Corporale; il suo ritorno a Orvieto; l’incontro con il pontefice; il papa che mostra ai fedeli, raccolti nel tempio, il Corporale; il pontefice assiso in cattedra che detta a un religioso la bolla che istituí la festa del Corpus Domini oppure il suo Officium. Rispetto alla sacra rappresentazione, nel reliquiario non si allude alle resistenze del clero di Bolsena ed è il pontefice a mostrare ai fedeli il Corporale e non il vescovo. In proposito va osservato che – in questo caso – il Corporale
viene mostrato dopo il suo ingresso in città e non in occasione dell’incontro avvenuto sul ponte del Rio Chiaro, e quindi ci si riferisce a due momenti diversi.
La successione degli eventi
Negli affreschi presenti, all’interno del Duomo, nella Cappella del Corporale, la sequenza degli avvenimenti è la seguente: la messa celebrata a Bolsena con l’evento miracoloso; la notizia di esso comunicata dal sacerdote al pontefice circondato dai cardinali; Urbano IV che incarica il vescovo di recarsi a Bolsena; il vescovo che preleva il Corporale direttamente
dall’altare della chiesa di S. Cristina; l’incontro tra il vescovo e il pontefice alla presenza di numerosi fedeli sul ponte di Rio Chiaro, con il primo che mostra il Corporale; il pontefice che espone in città il Corporale alla venerazione dei fedeli; Urbano IV che ordina a san Tommaso d’Aquino di comporre l’Officium della nuova festa istituita. Negli affreschi quindi – come nel reliquiario – non si evocano le resistenze da parte del clero bolsenese, anzi, il Corporale viene prelevato dal vescovo direttamente dall’altare; si fa riferimento a due esposizioni della reliquia: fuori e all’interno della città; si fornisce un’identità ORVIETO
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ORVIETO
Leggende e reliquie
Urbano IV detta a un religioso la bolla che istituí la festa del Corpus Domini oppure il suo Officium, affresco facente parte del ciclo realizzato da Ugolino di Prete Ilario nella Cappella del Corporale. 1357-1364.
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precisa e prestigiosa – san Tommaso d’Aquino – al religioso incaricato dal papa di comporre l’Officium della festa. Sui personaggi protagonisti della vicenda si può aggiungere che, nella sacra rappresentazione, il vescovo viene chiamato Francesco e non Giacomo come si sarebbe dovuto fare, considerato che questo era il nome del presule in carica negli anni 1263-1264. Il riferimento è – con ogni probabilità – a Francesco Monaldeschi che
fu vescovo di Orvieto solo a partire dal 1279/80 e lo rimase sino al 1295; a lui si deve l’idea di promuovere la costruzione del Duomo e, probabilmente, una venerazione notevole per il miracolo avvenuto alcuni anni prima dell’inizio del suo episcopato. Il sacerdote che assistette al miracolo inizia ad avere un nome solo piú tardi e viene indicato come «Pietro da Praga», per il quale è stata proposta da Jaroslav V. Polc l’identificazione con un
canonico e protonotaio di Ottocaro II, re di Boemia, al quale il papa Urbano IV aveva indirizzato da Orvieto una lettera datata 4 giugno 1264.
I segreti del tabernacolo
Tra le testimonianze piú antiche vanno annoverati anche tre minuscoli cartigli – due pergamenacei e uno cartaceo – con brevi iscrizioni che si riferiscono al miracolo, rinvenuti nel 1658, nel 1664 e – piú di recente – nel 1917,
all’interno di piccoli ripostigli segreti presenti nel tabernacolo marmoreo che tuttora custodisce il reliquiario del Corporale. I due cartigli pergamenacei sarebbero databili nel Duecento (all’interno dello stesso secolo, le datazioni proposte variano anche sensibilmente), mentre l’altro nel Trecento. Il ritorno di attenzione nel Trecento – ben testimoniato dalla commissione del reliquiario e del ciclo di affreschi realizzato nel Duomo di Orvie-
Ancora un particolare degli affreschi di Ugolino di Prete Ilario nella Cappella del Corporale di Orvieto raffigurante il miracolo dell’ostia che scaccia il demonio. 1357-1364.
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Leggende e reliquie
I sotterranei recuperati In occasione del Giubileo Eucaristico straordinario (gennaio 2013-novembre 2014) sono stati recuperati e aperti al pubblico gli ambienti che attraversano la cattedrale orvietana al di sotto del transetto, della Cappella Nova e della Cappella del Corporale. Lo spazio era stato interessato in precedenza da restauri diretti da Paolo Zampi tra il 1887 e il 1904. L’ampio vano che precede l’uscita verso settentrione era utilizzato originariamente come oratorio dedicato a san Martino e sede dell’omonima confraternita. Vi si conservano affreschi frammentari che sembrano databili alla fine del Trecento. Attualmente gli ambienti – in vista della sistemazione definitiva come museo del cantiere del Duomo – accolgono strumenti e utensili di lavoro di varie epoche (argani, trapani a corda, morse, carrucole, ecc.), sculture smontate dal Duomo in quanto danneggiate e quindi sostituite, tre grandi fossili da riconoscere probabilmente come ossa di cetaceo. Una curiosità: vi si possono osservare anche le antiche porte lignee della Cattedrale sostituite nel 1970 con quelle bronzee realizzate da Emilio Greco.
Una processione dalle origini antiche La città di Orvieto ricorda ogni anno il miracolo di Bolsena e l’istituzione della festa del Corpus Domini con la processione del Sacro Corporale, accompagnato dalla sfilata del corteo storico in costumi medievali. Le manifestazioni nascono con l’intento di rievocare quanto accadde nel 1338, quando il reliquiario del Corporale fatto realizzare da Beltramo Monaldeschi a Ugolino da Vieri fu portato per la prima volta in processione nel giorno del Corpus Domini. È questa la prima processione ufficiale di cui si ha notizia e che si snodò lungo le stesse vie attualmente percorse. Nel 1951, sulla base della documentata presenza di dodici
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uomini armati, con funzione di scorta alla reliquia, si decise di inserire l’elemento della processione religiosa in una cornice storica che riproponesse le antiche glorie civili e militari del Comune medievale. Nel corteo storico sono rappresentate tutte le magistrature dell’epoca comunale, gli stemmi e le armi delle famiglie gentilizie orvietane. Info tel. 0763 342477; e-mail: opsm@opsm.it; www.opsm.it; tel. 0763 340535; e-mail: corteostorico@comune.orvieto.tr.it; www.corteostoricoorvieto.it
Sulle due pagine gli ambienti sotterranei del Duomo di Orvieto. A destra un momento della processione che si svolge ogni anno nella città umbra in occasione dei festeggiamenti per il Corpus Domini. Nella foto è uno degli stendardi che riproducono gli affreschi della Cappella del Corporale raffigurante l’incontro tra il vescovo di Orvieto e papa Urbano IV al ponte sul Rio Chiaro.
to – trova spiegazione nella rinnovata valorizzazione della scelta operata da Urbano IV da parte dei pontefici Clemente V, che confermò la bolla Transiturus nel Concilio di Vienne (ottobre 1311-maggio 1312), e di Giovanni XXII e, localmente, dall’attività del domenicano Beltramo (Tramo) Monaldeschi, vescovo della città dal 1328 al 1344. Nel 1323, durante il capitolo generale domenicano di Barcellona, era stata attribuita ufficialmente la redazione dell’Officium della nuova festa a Tommaso d’Aquino che, nello stesso anno, venne santificato. Qualcosa di piú si può dire – seguendo una documentata ricostruzione offerta da Ezio Franceschini nel 1964 – sulle settimane decisive nella composizione della bolla Transiturus, che conosciamo in due redazioni: una inviata al patriarca di Gerusalemme, l’altra
estesa a tutto il mondo cristiano. Deciso a proclamare la solennità del Corpus Domini, Urbano IV aveva celebrato la festa a Orvieto nella giornata del 19 giugno 1264, secondo il rito seguito a Liegi e in Germania. In quel frangente dette probabilmente a Tommaso d’Aquino l’incarico di redigere un nuovo Officium, che allegò poi alla bolla inviata al Patriarca di Gerusalemme nella giornata dell’11 agosto 1264. L’8 settembre dello stesso anno scelse d’inviare la bolla all’intera cattolicità, senza allegarvi il nuovo Officium. L’indomani lasciò per sempre Orvieto, dove riteneva di non essere piú al sicuro dato che Manfredi si preparava ad attaccare la città (Urbano IV, nella sua politica antisveva, sosteneva Carlo d’Angiò), e si spostò a Todi, poi a Deruta e quindi a Perugia, dove morí il 2 ottobre, sempre del 1264. ORVIETO
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LONGOBARDI
L’arrivo in Italia
IPPOLITO SCALZA, UN TALENTO DA RISCOPRIRE Il centro storico di Orvieto è condizionato ancora oggi dalle intuizioni e dai progetti di un architetto e scultore finora rimasto, inspiegabilmente e immeritatamente, nell’ombra: Ippolito Scalza. La sua data di nascita non è documentata con precisione, ma si fa risalire, sulla base di alcune congetture, al 1532. Scalza si formò all’interno del cantiere della Fabbrica del Duomo dove iniziò a collaborare da giovane: la prima attestazione risale infatti al 1551. Nel 1554 abbiamo un documento che attesta un primo pagamento da parte dell’Opera in qualità di scalpellino. Progressivamente andò affiancando l’attività di Raffaello di Montelupo, del quale fu allievo. Alla morte del maestro, nel 1567, lo sostituí nell’incarico di capomastro, che ricoprí sino alla fine della sua vita, nel 1617. Al centro della sua attività fu soprattutto il Duomo, per il quale portò a termine la facciata, elaborò e seguí la realizzazione di un profondo progetto di riqualificazione degli spazi interni e realizzò alcune sculture, tra le quali una Pietà influenzata – come ha osservato Marietta Cambareri – dagli «ideali di Michelangelo», conosciuti e compresi a fondo attraverso la lezione di Raffaello da Montelupo. Numerosi furono anche i suoi interventi in città, con la progettazione di alcuni palazzi (Palazzo Clementini, Palazzo Saracinelli, ecc.) e il completamento o il rifacimento di altri (Palazzo Sforza Monaldeschi, Palazzo del Comune, Palazzo dei Sette, ecc.). Fuori Orvieto vanno ricordate almeno le realizzazioni di Palazzo Scotti a Narni, di Palazzo Ludovico Marsciano a Viterbo, di Palazzo Viscontini ad Acquapendente, della chiesa di S. Nicolò a Baschi. Di lui restano anche tre lettere indirizzate ai reggitori dell’Opera del Duomo – conservate nell’Archivio dell’Ente – risalenti rispettivamente al 13 febbraio 1567, al 16 giugno 1575 e all’11 gennaio 1580. Venni a conoscenza della loro esistenza diversi anni fa, durante una conferenza dello storico dell’architettura Renato Bonelli sulla fortuna dell’architetto orvietano. Il relatore lesse alcuni brani, che mi colpirono. Le lettere si rintracciano con facilità: sono riportate nel volume Il Duomo di Orvieto e i suoi restauri di Luigi Fumi, stampato a Roma nel 1891 e pubblicato di nuovo nel 2002. Esse parlano delle scelte e delle difficoltà che Scalza incontrò nell’affermare il valore del lavoro che stava portando avanti. Sono scritte nell’italiano del Cinquecento e difficili da leggere, ma in esse, in controluce, si legge il rapporto tra le autorità cittadine e un artista, tra i committenti
Sulle due pagine l’originale della Pietà (o Deposizione) e un’incisione che la raffigura. Il gruppo scultoreo fu ultimato da Ippolito Scalza nel 1579.
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Ippolito Scalza
IPPOLITO SCALZA, UN TALENTO DA RISCOPRIRE pubblici e un architetto: da una parte «I molto Magnifici Signori et Padroni miei», dall’altra chi doveva rivendicare le proprie capacità e conoscenze. Questo rapporto, questa tensione è spesso dietro i monumenti e le opere d’arte che vediamo camminando per le strade delle città italiane ed europee. Non basta: quando si deve tentare di spiegare la vitalità artistica della provincia italiana, credo che si possa ricordare una considerazione: «Non vi maravigliate se io cercho stare in questo luoco: chè tutto lo fo per stare in casa mia con la mia famiglia et nella patria mia», confessa un Ippolito Scalza poco piú che trentenne nella prima delle tre lettere. Dove – presentandosi – elenca quello che avrebbe potuto fare: «Et V.S. si potranno servire di me in piú cose che non se lavorano dal’altri; non dico per vantarmi, chè sta male a dirlo, ma acciò V.S. sappino il tutto, et prima, come ho detto, nella scultura, nell’architettura, nel’opra d’intaglio come fogliami e grotesche, nel lavoro di legname, che havendo a rifare l’organo, per l’ornamenti che ci vanno, non mi accaderà mandar per altri mastri fuora; nè anchora per acconciarlo et accordarlo, et questo è pure di grossa spesa alla Fabrica. Et anchora nel lavoro di stucco, nella geometria e matematica; chè a uno architetto gli conviene sapere queste due cose, chè bisognando pigliare con la bossola qualche pianta d’importantia di sito o di castello et tenuti loro, et misurarli; nel livellar aque et misurare vascelli o d’altra sorte appartenente a queste due cose; chè nella città alle volte è bisogno di tal cose». Non si vantava, perché si dimostrò in grado di svolgere le attività che aveva indicato. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Marietta Cambareri, Augusto Roca De Amicis, Ippolito Scalza (1532-1617), Quattroemme, Perugia 2002 AA.VV., Ippolito Scalza. IV centenario (1617-2017). Atti della Giornata di studi, in Bollettino dell’Istituto Storico Artistico Orvietano, LXXIV, 2018, Orvieto 2019 Alessandra Cannistrà, Pietà di Ippolito Scalza, in Giuseppe M. Della Fina (a cura di), Orvieto. Il museo della città. 50 opere della sua storia, Officina Libraria, Roma 2021
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A destra il San Tommaso (1587) scolpito da Ippolito Scalza in una incisione del 1791. Nella pagina accanto la Cappella della Madonna di San Martino nel Duomo di Montepulciano, edificato tra il 1592 e il 1630 su progetto di Ippolito Scalza. Ai lati dell’immagine della Vergine, una pittura parietale cinquecentesca qui trasferita nel 1617, le nicchie ospitano statue in gesso dei santi Francesco e Bernardo di Chiaravalle. 92
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La navata destra della chiesa di S. Giovenale. Nelle nicchie si succedono, da sinistra, affreschi del XIV sec., tra cui una Maestà (Madonna in trono con Bambino) datata 1305.
S. GIOVENALE
Un ideale luogo di raccoglimento
Fondata, secondo la tradizione, poco dopo l’anno Mille, la piccola chiesa di S. Giovenale vanta una decorazione pittorica di straordinario pregio. I suoi affreschi confermano l’eccezionale fioritura artistica di Orvieto fra Tre e Quattrocento
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«L’
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antica chiesa, che nel corso dei secoli è andata soggetta a deprecate espoliazioni artistiche, è una originale costruzione romanica, che si erge sul ciglio della rupe orvietana, la fronte rivolta a occidente. Dalla solitaria piazzetta antistante, cinta dal verde di orti e da vicoli silenziosi, si domina, come da un balcone, la cerchia delle colline sorgenti sull’angusta valle del Riochiaro». Cosí scriveva il sacerdote Carlo Pacetti in apertura della monografia dedicata a S. Giovenale e pubblicata per la prima volta nel 1937. Il fascino che affiora dalle sue parole è rimasto intatto e per chi, a Orvieto, cerchi un luogo di meditazione e preghiera, non potrebbe esserci scelta migliore. Le dimensioni contenute, l’essenzialità delle forme architettoniche, l’apparente ingenuità dei cicli pittorici che ornano la chiesa, il senso della profondità storica emanato dall’edificio sacro creano infatti un’atmosfera di raccoglimento particolare. A tutto ciò si aggiunge ora la possibilità di visitare il monumento dopo l’importante intervento di restauro che l’ha interessato e ha dato nuova luce alle sue pareti affrescate a partire dal terzo quarto del XIII secolo. Una tradizione – ben radicata nell’erudizione locale già dal Cinquecento – vuole che S. Giovenale sia stata fondata nel 1004, ma si trattò, probabilmente, di una rifondazione, poiché un edificio sacro precedente sembra attestato dalla presenza di reperti lapidei di spoglio che presentano motivi a treccia tipici dell’età carolingia. La sacralità del luogo si può comunque far risalire molto piú indietro nel tempo: resti
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archeologici rinvenuti nell’area segnalano infatti la presenza di un tempio già in epoca etrusca ed è stato anche ipotizzato che nella zona si trovasse un santuario di Giove, la cui esistenza potrebbe aver influenzato la scelta di dedicare la chiesa proprio a san Giovenale. Si tratta di una congettura forse semplicistica, ma resta la suggestione di una continuità di culto che si ripete altrove in città come, per esempio, nella chiesa di S. Andrea, nel cui sito gli scavi degli anni Venti e Sessanta del Novecento hanno portato alla luce resti di epoca etrusca, romana e altomedievale. In ogni caso la documentazione d’archivio attesta che la chiesa era definita parrocchiale nel 1028 e che, dalla fine del XII secolo, era sottoposta al patronato dell’Ordine di San Guglielmo, nel quale veniva osservata la regola agostiniana. Il culto del santo si era esteso nella diocesi di Orvieto tra il 1174 e il 1181, per impulso del vescovo Martino da Grosseto, molto legato alla sua figura e ai seguaci. Tali eventi influenzarono le trasformazioni architettoniche e artistiche della chiesa.
«Quivi sorgevano splendide case...»
Altrettanto peso hanno avuto le vicende storiche, economiche e sociali del Comune di Orvieto: dalla sua rapida e decisa ascesa – culminata nella scelta di costruire, nel 1290, una Cattedrale destinata a rivaleggiare con le maggiori del tempo – sino alla crisi profondissima dovuta alle insanabili divisioni prima tra i Guelfi (raccolti intorno alla famiglia Monaldeschi) e i Ghibellini (capitanati dai Filippeschi), e poi all’interno del-
A destra uno dei pilastri antistanti la navata destra della chiesa, sul quale è affrescata una Annunciazione del XIII sec.
Sulle due pagine veduta esterna della chiesa di S. Giovenale, che, secondo la tradizione, sorse nel 1004, probabilmente su un tempio preesistente.
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S. Giovenale
la famiglia guelfa. Il pontefice Pio II, in visita alla città nel settembre del 1460, annotò nei suoi Commentarii: «Quivi sorgevano splendide case di cittadini e ampi palazzi in bozze di pietra. Il tempo ne ha distrutti molti, piú ancora furono incendiati e devastati dalle lotte civili. Restano ora le torri semidistrutte e le chiese crollate». Ma passiamo a osservare la chiesa piú da vicino, proprio dalla solitaria piazzetta antistante, ricordata da Pacetti: la facciata è del tipo a capanna ed è sormontata, anzi in parte celata, da una torre campanaria, sviluppatasi intorno a una struttura piú antica, eretta a controllo della valle sottostante. L’interno si presenta suddiviso in tre navate, separate da colonne di tufo con capitelli ad anello su cui s’impostano archi a tutto sesto. Esaminando le strutture, ci si rende conto che la chiesa venne ampliata nell’ultimo quarto del XIII secolo e l’intervento modificò sensibilmente la zona presbiteriale. Fasi diverse si colgono anche nella decorazione pittorica, che costituisce il principale motivo di attrazione: non è un caso che lo studioso orvietano Pericle Perali (1884-1989) ebbe a descriverla come il «vero malversatissimo museo storico della pittura in Orvieto nel secolo XIV». Il «malversatissimo» non era un aggettivo a effetto: gli affreschi di S. Giovenale hanno
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subito nei secoli ripetute aggressioni: scalpellinature, umidità eccessiva, addirittura una mano di calce stesa nel 1632 per ordine del priore intenzionato cosí a rimodernare la chiesa – ormai fatiscente nella descrizione che ne fece al suo vescovo – e tenerla al passo con le nuove tendenze artistiche.
Maestri senza nome
La prima fase decorativa viene fatta risalire agli anni 1250-1275 e vide impegnati artisti rimasti anonimi e conosciuti solo attraverso definizioni di comodo: il Maestro della Maestà dei Servi e il Maestro dei Santi Severo e Martirio, ai quali si aggiunsero altri pittori che ne risultano influenzati. La seconda fase non è lontana cronologicamente ed è riferibile agli anni a cavallo tra il Duecento e il Trecento: diversi dipinti sono attribuibili a maestranze attive nella bottega del Maestro della Madonna di San Brizio, il cui stile risulta aggiornato rispetto alle novità artistiche maturate a Roma e Oltralpe. In questa temperie stilistica e cronologica s’inseriscono un raro Lignum Vitae, dipinto in controfacciata; un gigantesco San Cristoforo, raffigurato sulla parete sinistra; un San Guglielmo di Malavalle, il fondatore dell’Ordine dei Guglielmiti, posizionato a destra dell’abside; una Con-
Nella pagina accanto affresco della controparete della navata sinistra raffigurante san Giovenale, che fu vescovo di Narni e al quale la chiesa è intitolata. XIV sec. In basso l’interno della chiesa, suddiviso in tre navate e decorato da affreschi databili dal XIII ai primi anni del XVI sec.
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Non recetarae lu nome invano... Nel sottoarco della campata ogivale è raffigurato san Guglielmo di Malavalle vestito di un saio bianco. Proprio sotto la sua figura, in volgare del tardo Duecento, sono riportati i Dieci Comandamenti: Non adorare Dii haltrui Non recetarae lu nome sancto invano de Dio tuo Fae aricordamento de ariposare lu sabato Onora lu patre tuo e la matre tua Non occidarae Non farae peccato carnale Non farae furtu Non farae falsu testimoniu co lu parlare tuo Non desiderarae la mogliera de lu prosimu tuo Non desiderarae la robba de lu prosimu tuo.
In alto il Decalogo in volgare tardoduecentesco, affrescato nel sottarco della campata ogivale, in prossimità dell’altare maggiore. Nella pagina accanto la cappella in cui era conservato il prezioso reliquiario del cranio di san Savino, realizzato tra il 1340 e il 1345 da Ugolino di Vieri e Viva di Lando, oggi al Museo dell’Opera del Duomo.
versione di San Paolo, rappresentata sul pilastro proprio di fronte. Il terzo momento decorativo si colloca nella prima metà del Trecento quando operarono pittori che mostrano di avere assimilato il linguaggio figurativo di Simone Martini e Lippo Memmi – è il caso del San Ludovico di Tolosa – o di Pietro Lorenzetti, la cui lezione si può individuare nella Crocifissione che figura in apertura della parete di sinistra. La quarta fase, databile dalla seconda metà del Trecento ai primi anni del Quattrocento, è dominata dalla figura di Ugolino di Prete Ilario: ai suoi collaboratori e continuatori possono essere ascritti il maggior numero degli affreschi tuttora presenti nella chiesa. In tale temperie risulta particolarmente attivo Piero di Puccio. Nel periodo successivo, riferibile alla prima metà del Quattrocento, vanno inserite le opere assegnate di recente a Pietro di Nicola Baroni, come la Santa
Caterina di Alessandria, unico dipinto superstite della decorazione dell’abside.
Dipingere con l’anima
Un intervento ulteriore, che interessò il registro superiore della navata centrale, fu eseguito negli anni iniziali del Cinquecento (il lavoro deve essersi concluso entro il 1505) per volontà del canonico Antonio Alberi, che collaborò con Luca Signorelli nella scelta dei temi da dipingere nella Cappella Nova del Duomo di Orvieto e che dotò la Cattedrale di una libreria anch’essa restaurata di recente. E proprio maestranze legate al Signorelli devono avere eseguito i grandi tondi raffiguranti gli Evangelisti e i santi Guglielmo, Savino, Giovenale e Pietro. Altri lavori, d’impegno spazialmente piú limitato, vennero portati avanti durante il Cinquecento e il Seicento, come la Crocifissione tra i santi Savino e Marco, dipinta sulla parete di fondo della cappella di S. Savino. Al 1739, infine, appartengono le quattro croci di riconsacrazione. Siamo insomma di fronte a dipinti di epoche diverse e a maestri di capacità differente, ma, osservandoli, si può concordare con il poeta Tommaso Gnoli, quando diceva che: «Si dipingeva con l’anima nel piccolo San Giovenale». Il restauro della chiesa S. Giovenale, iniziato nel 2010, si deve alle Soprintendenze per i Beni Storici e Artistici e ai Beni Architettonici e Paesaggistici dell’Umbria ed è stato eseguito con fondi della Presidenza del Consiglio dei Ministri. ORVIETO
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Pozzo di San Patrizio
ACQUA A VOLONTÀ, ANCHE IN CASO D’EMERGENZA
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Due scorci del Pozzo di San Patrizio. La spettacolare opera idraulica fu realizzata per volere di papa Clemente VII, che ne affidò la realizzazione all’architetto Antonio da Sangallo il Giovane. La sua costruzione venne ultimata nel 1537.
Dopo il Duomo, il Pozzo di San Patrizio, rappresenta il monumento piú noto di Orvieto e quello che piú ha contribuito alla definizione dell’immagine della città. Quali possono esserne i motivi? Il principale va riconosciuto nella soluzione originale ideata dall’architetto Antonio da Sangallo il Giovane per agevolare la discesa e la risalita all’interno del pozzo: un sistema di due rampe elicoidali non comunicanti tra loro e inserite in una condivisa tromba verticale in grado di assicurare aria e luce. Il curioso accorgimento riesce a evitare l’incontro tra chi sale e chi scende: oggi il fatto si limita a sorprendere i numerosi turisti che lo visitano, ma nei secoli passati, quando il pozzo aveva una funzione prevalentemente utilitaria, rendeva piú semplice, rapido e sicuro l’attingimento dell’acqua. Un altro aspetto da tenere in considerazione è la strettissima relazione tra il monumento e la rupe: il pozzo è infatti scavato nel masso tufaceo e sembra voler segnalare la simbiosi esistente tra la città e il suo «trono di pietra», come ebbe a definirlo l’archeologo e scrittore di viaggi George Dennis poco prima della metà dell’Ottocento. Il pozzo orvietano riesce a parlare inoltre di come la «grande storia» influenzi la «storia locale»: la decisione di costruirlo venne presa infatti dal pontefice Clemente VII dopo il sacco di Roma del 1527 da parte dei Lanzichenecchi. Un episodio che, al tempo, ebbe un impatto notevolissimo e dimostrò che la capitale della cristianità poteva essere messa a ferro e fuoco. Come già altri suoi predecessori in momenti storici difficili, il ORVIETO
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Pozzo di San Patrizio
L’esterno del Pozzo di San Patrizio, con la monumentale vera in mattoni realizzata per volere di papa Paolo III.
pontefice pensò che – in caso di un nuovo pericolo – avrebbe potuto ritirarsi a Orvieto, in una città munita naturalmente e dove sarebbe stato possibile organizzare una difesa in modo piú agevole. Sopra il pianoro Orvieto non aveva la possibilità di approvvigionare scorte sufficienti di acqua nell’eventualità di un lungo assedio e pertanto Clemente VII pensò di dotarla di un pozzo che avrebbe consentito di superare tale limite. L’incarico di realizzarlo venne affidato a un architetto – Antonio da Sangallo il Giovane – che si era occupato già di fortificare la rupe e aveva svolto indagini per localizzare falde acquifere ai piedi del masso tufaceo. I lavori vennero portati avanti con celerità e si conclusero nel 1537 con la costruzione di una vera monumentale realizzata in mattoni e voluta dal nuovo papa Paolo III. Una curiosità: solo durante l’Ottocento il pozzo ha preso l’attuale denominazione «di San Patrizio», in precedenza era noto come Pozzo della Rocca per la sua vicinanza con la Fortezza Albornoz, eretta nel 1364 da Ugolino di Montemarte, nel quadro di un progetto piú ampio voluto dal cardinale Egidio Albornoz teso a garantire la presenza di un presidio militare in alcune importanti città sottomesse allo Stato Pontificio.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Davanzo, L’architettura, in Fabio • RM.affaele Del Sole (a cura di), Mirabilia. Il Pozzo di San Patrizio a Orvieto, Acquapendente 2015; pp. 98-119 Marco Sciarra, Claudio Lattanzi, Il pozzo di San Patrizio e della Cava, Orvieto 2021 Alberto Satolli, Pozzo detto di San Patrizio, in Giuseppe M. Della Fina (a cura di), Orvieto. Il museo della città. 50 opere della sua storia, Roma 2021; pp. 202-211.
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SCOPERTE
A Orvieto il poeta portava la barba Nel nostro immaginario, Dante Alighieri ha naso aquilino, sguardo corrucciato e severo, ma, soprattutto, guance lisce e glabre. Ma piú di una testimonianza propone una versione inedita e... barbuta dell’autore della Commedia
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ell’Ufficio del Sindaco di Orvieto fa bella mostra di sé un singolare ritratto di Dante Alighieri con la barba. Un’iconografia che non riuscí ad affermarsi, sebbene Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante, scritto nel 1355 circa, avesse cosí descritto l’illustre collega: «Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso». E di un Dante con la barba parlano, nelle loro opere, anche Filippo Villani, Giannozzo Manetti e Marcantonio Nicoletti. La tela conservata nel Palazzo Comunale orvietano presenta appunto tale caratteristica e il suo ignoto committente sembra avere letto il testo di Boccaccio – di certo la fonte di riferimento per gli altri autori appena ricordati – e aver suggerito al pittore di seguirne la descrizione, considerata evidentemente veritiera. Il dipinto è stato studiato in maniera approfondita per la prima volta solo di recente e, a giudizio dello storico dell’arte Michele Maccherini (Università degli Studi dell’Aquila), il pittore tenne presente il frontespizio del libro
A destra frontespizio dell’opera Dante con l’espositione di Christoforo Landino et di Alessandro Vellutello..., stampata a Venezia nel 1564. Il ritratto di Dante che compare nell’ovale avrebbe ispirato il dipinto che mostra il volto del poeta incorniciato dalla barba (vedi foto alla pagina accanto). Nella pagina accanto ritratto di Dante barbato, olio su tela di autore ignoto. Decenni finali del XVI sec. Orvieto, Palazzo Comunale.
Dante con l’espositione di Christoforo Landino et di Alessandro Vellutello. Sopra la sua Comedia dell’Inferno, del Purgatorio et del Paradiso. Con tavole, argomenti e allegorie, e riformato, riveduto e ridotto alla sua vera lettura, per Franc.Sansovino fiorentino, stampato a Venezia «Appresso Giovambattista, Marchionne Sessa et fratelli» nel 1564. Un testo che ebbe una fortuna notevole, tanto che, nel giro di una trentina di anni, ne furono date alle stampe altre due edizioni, nel 1578 e 1596. Se si escludono l’inclinazione della testa e l’assenza della barba, ha notato Maccherini, «si può verificare come tutti gli altri elementi ORVIETO
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Scoperte
A destra la Porta Maggiore di Orvieto. Nella nicchia che sovrasta l’arco è oggi collocata una replica della statua di Bonifacio VIII realizzata da Ramo di Paganello (vedi foto in basso) nel 1297.
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concordino, a iniziare dalla corona di alloro che si infittisce sulla fronte diminuendo la dimensione delle foglie, al largo risvolto della camicia, dalla veste ad ampie pieghe, fino alla corda del collo». L’ovale in cui è inserito il Dante barbato prova la sua derivazione da un frontespizio. La differenza principale è proprio la barba, ma, nello stesso volume, in una xilografia interna, posta in apertura del primo canto, il poeta viene cosí raffigurato. La data del dipinto dev’essere quindi successiva a una delle tre edizioni della Comedia di Francesco Sansovino e appare ragionevole ipotizzare che la tela abbia come ulteriore termine post quem la pubblicazione della Vita Nuoua di Dante Alighieri. Con 15. canzoni del medesimo. E la vita di esso Dante scritta da Giouanni Boccaccio, edita a Firenze nel 1576. Quanto al contesto storicoartistico, Maccherini ha ipotizzato che il pittore si muovesse nell’ambito dei fratelli Zuccari e sia autore anche di un ritratto di Francesco Petrarca – conservato anch’esso nell’Ufficio del primo cittadino di Orvieto – frutto di uno stesso progetto intellettuale.
Versi immortali e scolpiti nella pietra
Il rapporto tra Dante Alighieri e la città di Orvieto si basa essenzialmente su alcuni versi (106-108) del canto VI del Purgatorio della Divina Commedia, non a caso ricordati su una lapide affissa sulla centralissima Torre del Moro: Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti! È, peraltro, il medesimo canto che contiene la descrizione dello stato in cui versava l’Italia (versi 76-78): Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello! La citazione s’inserisce nel quadro della descrizione della crisi che la Penisola stava attraversando e la città di Orvieto sembra essere considerata un esempio significativo per tentare di comprenderla. La citazione rinvia alle due famiglie protagoniste della politica locale: la prima, i Monaldi (i Monaldeschi), schierati sul fronte guelfo, e i Filippeschi, tra i ghibellini. Confrontati con le due celebri famiglie dei Montecchi e Capuleti (Cappelletti), rispettivamente ghibellina e guelfa, il cui scontro caratterizzò la storia della Lombardia alla metà del Duecento.
È interessante analizzare il giudizio storico e contemporaneamente politico formulato da Dante: la parabola discendente dei Montecchi e dei Capuleti ha avuto inizio, mentre quella dei Monaldi (Monaldeschi) e dei Filippeschi sta per iniziare. Il che dimostra la sua conoscenza delle due realtà. Soffermiamoci allora su quella orvietana. Da dove può nascere la consapevolezza del caso emblematico rappresentato da Orvieto e del momento che stanno attraversando le due famiglie?
Uomo delle istituzioni
La conoscenza nasce con ogni probabilità dall’impegno politico del poeta, culminato con la nomina a priore nel 1300 e sul quale, in occasione del centenario della sua morte, si è tornati a indagare. Un impegno – sino, almeno, alla condanna all’esilio – significativo nella sua vita: è stato osservato che dei 42 atti giunti sino a noi con il nome di Dante Alighieri, 23 sono stati redatti entro il 1301 e quasi tutti riguardano l’attività politica. In particolare, in base ai documenti, è stato osservato che l’impegno nelle istituzioni si articola in due momenti: tra il 1295 e il 1296 segnato da quattro incarichi, e tra il 1300 e il 1301 caratterizzato da sei incarichi. Negli anni tra le due fasi ebbe forse un incarico nel 1297. La sua carriera avanzò con una progressione rapida e costante: iniziata all’interno dei consigli piú ampi e consultivi nel 1295, passò attraverso il consiglio dei Cento e il collegio dei Savi per l’elezione dei priori nel 1296 e culminò con il priorato nel 1300. Le sue posizioni politiche iniziali sono state avvicinate a quelle sostenute da Remigio de’ Girolami (1240 circa-1319), un domenicano, docente di studi biblici, priore di S. Maria Novella a Firenze e membro di una delle famiglie piú in vista delle Arti Maggiori. Egli si era formato a Parigi, dove era stato allievo di Tommaso d’Aquino nello studium del convento domenicano di Saint-Jacques. Sosteneva un programma moderato, in risposta alle proposte introdotte da Giano della Bella nella vita politica fiorentina, che avevano cercato di ridimensionare in profondità il peso dei magnati. Il rinnovato impegno politico di Dante Alighieri si accompagnò all’avvicinamento alla fazione guelfa dei «bianchi» guidata dalla famiglia dei Cerchi, mentre i «neri», capeggiati dai Donati, al cui interno aveva un peso notevole Corso Donati, divenivano i fedeli alleati di Bonifacio VIII. Dante venne eletto priore nel bimestre 15 giugno-15 agosto 1300. Decaduto dall’incarico, ORVIETO
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Nella pagina accanto il ritratto di Dante realizzato ad affresco da Luca Signorelli nella Cappella di S. Brizio (o Cappella Nova) del Duomo di Orvieto. 1499-1504.
restò vicino alla fazione in quel momento vincente; all’interno del consiglio dei Cento, dove fu cooptato per il semestre aprile-ottobre 1301, sappiamo che prese la parola in piú occasioni. Nella seduta del 19 giugno 1301 tentò di convincere il consiglio a non inviare truppe a sostegno di Bonifacio VIII durante la guerra in corso contro Margherita Aldobrandeschi. La decisione assunta fu contraria a quella sostenuta da Alighieri e la scelta segnala che, sotto la pressione esercitata dal pontefice, il clima politico a Firenze stava cambiando. Il suo successivo atto politico fu la probabile partecipazione a una missione diplomatica a Roma presso il pontefice, per cercare di dissuaderlo dal considerare Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo IV il Bello e chiamato in Italia dallo stesso Bonifacio VIII, come il pacificatore della Toscana: un incarico che gli avrebbe affidato un ruolo di primo piano negli equilibri politici di Firenze e avvicinato la Toscana allo Stato della Chiesa minando le mire espansionistiche fiorentine. La missione diplomatica non raggiunse lo scopo e, di lí a poco, la fazione avversa dei guelfi neri prese il sopravvento. Uno dei cavalieri arrivati con Carlo di Valois, Cante Gabrielli da Gubbio, venne nominato podestà a
Miniatura raffigurante Guido Cavalcanti che si lancia contro Corso Donati, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Firenze e, durante il suo mandato, si decise di aprire un’inchiesta sulle irregolarità commesse dai governi degli anni precedenti, a cui Dante Alighieri aveva preso parte. Si tratta dell’indagine che portò al suo bando nel gennaio del 1302. Va tenuto presente – a supporto dell’idea che la conoscenza del momento storico vissuto da Orvieto sia frutto dell’impegno politico del poeta – che le due città erano alleate sin dal 1221, quando il Comune orvietano aveva rotto i rapporti con Siena e si era avvicinato a Firenze. Un’alleanza ribadita piú tardi, dopo la scomparsa dell’imperatore Federico II (1250) e segnata dall’ingresso di Orvieto, accanto a Firenze, nella lega guelfa insieme a Perugia, Narni, Assisi e Spoleto. Una collaborazione politica e militare, che vide Orvieto al fianco di Firenze nella battaglia di Montaperti (settembre del 1260), che si concluse con una sconfitta pesante per entrambe le città.
Un riferimento per i guelfi
Va segnalato che, a partire dagli anni Sessanta del Duecento, per la posizione strategica e la difficoltà a essere espugnata, la città della rupe divenne una sede privilegiata dei pontefici e della curia pontificia. Ciò la rese un punto di ORVIETO
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riferimento per la parte guelfa. La vicinanza a Firenze venne ribadita ancora una volta, in occasione della discesa in Italia dell’imperatore Enrico VII nel 1310, quando la città toscana temeva il suo arrivo, mentre Dante Alighieri, in esilio, guardava con interesse e favore al ruolo che l’imperatore avrebbe potuto assumere. Vi sono, inoltre, almeno tre personaggi che fungono da anello di congiunzione tra Dante e Orvieto: il pontefice Bonifacio VIII è il piú celebre. Egli ebbe un peso considerevole – seppure indiretto – nella vita del poeta che lo inserí nell’Inferno, tra i simoniaci, e lo citò piú volte, sempre in negativo, nella Divina Commedia. I versi piú duri nei suoi confronti si trovano nel Paradiso, con la vibrante accusa fatta pronunciare a san Pietro (canto XXVII, versi 22-27): Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt’ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso che cadde di qua sú, la giú si placa Bonifacio VIII – come è noto – ebbe un’influenza considerevole nella vita politica di Orvieto: momenti di forte tensione si alternarono ad altri di distensione. In uno di questi – in vista di un suo arrivo – furono fatte scolpire due sue statue da collocare sulle porte principali di accesso alla città: Porta Maggiore e Porta Postierla. Vi sono altri due personaggi meno noti – ma al tempo influenti – in grado di segnalare i possibili legami tra l’Alighieri e Orvieto. Il primo è Corso Donati, a lungo una figura di spicco nella vita politica di Firenze e capo dei guelfi neri. Fu uno degli avversari politici principali di Dante Alighieri, che in gioventú era stato amico del fratello, Forese Donati. Va tenuto presente, inoltre, che la moglie del poeta era una Donati: Gemma, figlia di Manetto Donati, un lontano cugino di Corso. Vicino alle posizioni di Bonifacio VIII, in un passaggio complicato della sua vita politica – bandito da Firenze – il pontefice no-
Nella pagina accanto Dante e Virgilio nel Purgatorio, affresco di Luca Signorelli. 14991502. Orvieto, Duomo. In basso statua di Bonifacio VIII realizzata per la Porta Postierla da Rubeus, scultore attivo nella bottega di Ramo di Paganello. 1297.
minò proprio Corso Donati podestà di Orvieto nel 1299, città nella quale si trattenne per il secondo semestre di quell’anno. Siamo all’inizio del periodo in cui Alighieri esercitò un peso maggiore nella vita politica fiorentina culminato – come si è ricordato – nell’incarico di priore nel bimestre 15 giugno-15 agosto 1300. L’altro personaggio che si può ricordare è Francesco Monaldeschi, nato probabilmente intorno alla metà del Duecento a Bagnoregio. La sua appartenenza alla potente famiglia citata da Dante non è del tutto sicura, ma è certo che fu vescovo di Melfi (1278-1280) su nomina di papa Niccolò III, di Orvieto (12801295), su indicazione dello stesso pontefice e subito dopo, e sino alla morte, a Firenze (1295-1302) per decisione di Bonifacio VIII. A Firenze venne nominato il 13 settembre 1295 quale successore di Andrea de’ Mozzi, trasferito alla cattedra di Vicenza, e che Dante colloca all’Inferno (canto XV, verso 112-114).
Un prelato eminente
Fu un vescovo di particolare rilievo per entrambe le città, dato che promosse la costruzione sia del Duomo di Orvieto (1290) che della cattedrale di S. Maria del Fiore a Firenze (1298). Fu presente alla posa della prima pietra di entrambe le cattedrali, accanto a papa Niccolò IV, nel primo caso, e al cardinale Pietro Valeriano, legato pontificio, nel secondo. A Firenze, nel 1299, benedisse anche la prima pietra di una nuova cinta muraria – alla cui costruzione aveva contribuito vendendo alcune terre della mensa episcopale – e promosse l’edificazione del convento di S. Marco. Nelle dinamiche della vita politica fiorentina si mosse seguendo le indicazioni di Bonifacio VIII che, nell’aprile del 1300, aveva minacciato sanzioni per il processo avviato contro gli agenti del banco della famiglia Spini, attivi in Curia, e accusati di alto tradimento dai Fiorentini. Accompagnò, inoltre, l’azione del cardinale legato Matteo d’Acquasparta, che fu oggetto anche di un attentato, e fu presente alla cerimonia del 1° novembre 1301 con la quale Carlo di Valois ottenne la balía della città. Sono i mesi – come si è visto – del pieno impegno politico di Dante Alighieri e non appare solo una supposizione ipotizzare loro incontri diretti. ORVIETO
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Forestieri in città
Chi si fosse trovato a Orvieto fra Tre e Quattrocento, avrebbe sentito parlare molte lingue diverse: per fronteggiare le crisi demografiche causate da guerre ed epidemie, le autorità favorirono, infatti, l’arrivo e la permanenza di nuovi immigrati. E cosí la città si riempí di Perugini, Aretini e Pisani, ma anche «Lombardi», Albanesi, Polacchi e... Tedeschi
I bastioni d’ingresso della Fortezza Albornoz, edificata a partire dal 1359, ma oggetto di ripetute ristrutturazioni e trasformazioni nei secoli successivi.
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el discorso di chiusura di un Seminario Internazionale di Studi sul tema Forestieri e stranieri nelle città basso-medievali, tenutosi a Bagno a Ripoli (Firenze) nel giugno del 1984, lo storico del Medioevo Paolo Brezzi (1910-1998) affermava: «Noi coltiviamo lo studio della storia perché riteniamo che gli accadimenti umani sono situati lungo un per-
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corso senza fine, formano il tronco e i rami di un albero maestoso multisecolare e sempre vivo, costituiscono ciascuno la premessa di quelli che verranno; di conseguenza ogni avvenimento lascia una traccia e suggerisce un mònito per i singoli come per le istituzioni circa i loro modi di vivere e strutturarsi nel tempo che ancora deve venire».
Una veduta del centro di Orvieto, ancora oggi assai simile nell’aspetto a quello d’epoca medievale. In basso una tipica via del centro storico cittadino.
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Negli ultimi tempi tre studiosi – Laura Andreani, Dugald McLellan e Antonio Santilli –, in maniera indipendente, si sono messi alla ricerca di uno di quei «rami» dell’albero della storia, un ramo secondario, ma ricco di moniti per il nostro presente e per il «tempo che ancora deve venire»: la presenza di maestranze straniere a Orvieto tra Trecento e Quattrocento. Andreani ha esaminato il tema attraverso la lente del cantiere del Duomo; Santilli ha trattato la tematica nell’ambito di un suo studio complessivo sull’intero Quattrocento; McLellan è partito da una lettura attenta del Diario di Ser Tommaso di Silvestro, una testimonianza preziosa scritta da un personaggio coevo agli eventi e giunta sino a noi. Dai tre studi emerge l’immagine diversa di una città importante dell’Italia centrale durante il Trecento e il Quattrocento: una realtà decisamente piú aperta di quello che ci si sarebbe potuti attendere. Un dato per tutti: Dugald McLellan ha calcolato che, nel 1500, gli abitanti della città, compresi quelli residenti nell’immediato contado, erano 3460 (di cui 3160 al di sopra della rupe) e di essi 670 erano forestieri, il 19% circa, quindi, dell’intera popolazione. Va considerato che la città usciva da decenni molto duri, funestati da scontri tra fazioni avverse e da ricorrenti epidemie di peste. Una, nel 1497, aveva causato piú di 700 morti.
La legge sull’immigrazione
Alla crisi demografica, le classi dirigenti locali avevano tentato di fare fronte adottando, in piú occasioni, provvedimenti tali da favorire l’arrivo e la permanenza di forestieri in città. Proprio su queste norme si è soffermato Antonio Santilli, segnalando che esse culminarono in una legge sull’immigrazione approvata in data 7 maggio 1452 e i cui precedenti vanno ricercati subito dopo la peste nera del 1348, che aveva portato a un drammatico calo demografico. Nel 1354, il cardinale Egidio di Albornoz, una volta ripreso il controllo della città a nome del pontefice, aveva introdotto una legge che prevedeva l’esenzione o immunità quinquennale dagli oneri reali e personali (come il pagamento della libra, le esercitazioni militari e la custodia diurna e notturna) per i forestieri e gli stranieri che avessero deciso di trasferirsi a Orvieto. Il condottiero perugino Biordo Michelotti, signore della città dal 1395 al 1398, estese l’esenzione sino a otto anni, ma subito dopo Giovannello Tomacelli, fratello del papa Bonifacio IX, la riportò a cinque anni. Una scelta ribadita nel marzo del 1420, ma modificata di nuovo tre 118
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A destra progetto di modifica della facciata del Duomo. Prima metà del XV sec. Orvieto, Archivio dell’Opera del Duomo. Sulle due pagine il Palazzo del Capitano del Popolo.
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Nella scia dei pellegrini
MARE DEL NORD Stade Brema Celle
La consistente presenza di immigrati tedeschi a Orvieto si spiega anche con il fatto che la città si trovava lungo la via Teutonica, la strada che, dall’Europa centro-settentrionale e dall’area danubiana, conduceva i pellegrini di quelle regioni verso Roma. Insieme ai pellegrini, viaggiavano evidentemente anche le maestranze, attratte da luoghi con grandi cantieri aperti, o dove intravedevano possibilità di lavoro.
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A sinistra carta nella quale sono riportati gli itinerari che dal Nord Europa raggiungevano Roma, secondo gli Annales Stadenses, titolo attribuito alla cronaca universale, dalla Creazione al 1256, di cui fu autore il cronista tedesco e frate minore Alberto di Stade. Il percorso piú orientale coincide con la via Teutonica e aveva fra le sue tappe la città di Orvieto.
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Pusterdal-Pusteria Gran San Bernardo Lione Trento Aosta Treviso Vercelli Chambery Bassano Ivrea Pavia Padova Moncenisio Venezia Mortara Piacenza Po Susa Rovigo Torino Fidenza Cisa Bologna Ravenna Sarzana Luni Firenze Forlì Lucca Alpe di Serra Arezzo Poggibonsi Siena SanQuirico Orvieto MA Bolsena RA DR Viterbo IAT Corsica Sutri IC
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A sinistra pagina dello Statuto dell’Opera del Duomo del 1421. Orvieto, Archivio dell’Opera del Duomo. A destra l’orologio «de muricio», ossia del cantiere, conosciuto come «orologio di Maurizio», che dal 1349 scandiva il tempo del lavoro, e il cui automa in bronzo batte ancora oggi le ore.
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anni dopo (16 dicembre 1423) quando si stabilí che l’esenzione poteva variare dai cinque ai dieci anni, in base al numero dei componenti della famiglia richiedente. Si arrivò quindi alla legge del 1452, già ricordata, piú organica e duratura: era ritenuta vigente ancora nello statuto comunale del 1581. Fu proposta da tal Benedetto Monaldi al Consiglio generale, l’organo preposto ad approvarla, e previde l’esenzione di tutti gli oneri sino a quindici anni per coloro che decidevano di stabilirsi in città, o sino a dieci anni per quelli che preferivano stanziarsi nel contado.
Orvietani per sempre
Dopo questa legge, inoltre, divenne piú frequente la concessione della cittadinanza: l’immigrato diventava «perpetuum civem» godendo di tutti i diritti ed essendo sottoposto agli stessi oneri dei cittadini orvietani al termine degli anni di immunità. Piú tardi venne introdotta una nuova clausola, che previde l’obbligo per il forestiero di acquistare beni immobili in Orvieto o nel suo districtus (come già accadeva in altre città, per esempio a Viterbo), per accedere all’esenzione. Va tenuto presente che, al tempo, forestieri venivano considerati anche uomini e donne di città e regioni vicine, ma non mancano personaggi provenienti da realtà decisamente piú lontane, a testimonianza di una mobilità accentuata di persone con competenze e capacità differenti. Santilli ha calcolato che, tra il 7 maggio 1452 e l’agosto 1471, quindi nel ventennio successivo all’approvazione della norma, 17 degli immigrati giunti a Orvieto provenivano da Todi e il suo contado; 34 da Perugia e dintorni; 16 dall’area tedesca (in alcuni casi, nella documentazione, è indicata anche la città di provenienza: Colonia, 2; Magonza, 1; Francoforte, 1; Norimberga, 1); 9 da Siena, 9 da Firenze, 9 de Sclavonia (di cui 2 da Ragusa, 1 da Zara e 1 da Zagabria); 7 de Lombardia. Se si allarga l’arco cronologico, si possono citare 5 corsi, 3 ungheresi, 2 francesi, 2 spagnoli, 2 polacchi, 1 albanese, 1 greco. Per le aree piú prossime si possono ricordare 6 immigrati da Arezzo, 5 da Montepulciano, 2 rispettivamente da Cortona, Pisa e Prato; sporadica risulta la presenza di persone provenienti dall’Italia meridionale: 2 de Calabria, 1 da Napoli, 1 da Taranto, 1 da Sancto Maulo de Regno neapolitano, e 1 genericamente de Regno. Per quanto concerne i «lombardi» va segnalato che con il termine ci si riferiva a persone provenienti da un territorio piú ampio dell’odierna
Lombardia e che essi erano occupati prevalentemente nel settore edile essendo perlopiú muratori e scalpellini. Si possono per esempio ricordare i fratelli Orlando e Domenico da Como, ai quali venne commissionata la realizzazione di opere importanti, come il fossato intorno alla Rocca. Sempre a Orlando da Como, «magister Rolandus lombardus», fu affidata nel 1452 la risistemazione di un ponte sul fiume Paglia, danneggiato da una piena. Un altro artigiano lombardo, ricordato nei documenti, è Beltramo di Martino di Varese, il quale, tra il 1450 e il 1453, alternò la sua attività tra Orvieto e Roma. Un altro nucleo consistente di immigrati proveniva de Alamania, denominazione che, nel Basso Medioevo, indicava un’area piú vasta dell’at-
Miniatura raffigurante un uomo che fabbrica cordami, dal cosiddetto Libro della Casa dei Dodici Fratelli di Norimberga (un’istituzione caritatevole della città tedesca). 1425 circa. Norimberga. Stadtbibliothek.
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ORVIETO La chiesa di S. Giovanni, teatro di un divertente aneddoto riportato nel Diario di Ser Tommaso di Silvestro (vedi box in questa pagina).
Migrazioni medievali tuale Germania, comprendendo anche le Fiandre e il Brabante. Essi erano occupati soprattutto nella tessitura della lana e del lino. Nel 1439 sono ricordati 14 tessitori tedeschi di lana che chiesero la concessione dell’esenzione; un’altra richiesta simile è rammentata nel 1453, e in questo caso furono altri sette tessitori a chiederla. Tra essi si può ricordare tal Giovanni, Johannis Mactey, abitante nel rione di Sant’Angelo e che, nel 1448, si era sposato con una donna orvietana di nome Perna. Il padre, Valentino Angelutii, detto Valentino «da la Massaia», le aveva dato come dote 25 fiorini. Talvolta gli immigrati tedeschi creavano problemi: si ha infatti notizia di due risse, i cui protagonisti erano stati, nell’aprile del 1440, i tessitori Arrigo (Arrici) e Federico Johannis; e, nell’agosto del 1444, Riccio e Gherardo. Per altri motivi viene ricordato il tessitore Nicolò condam Armani de Alemania, che, il 16 febbraio 1452, ottenne un’esenzione perpetua per lui e la moglie in considerazione del fatto che dimorava a
Scherza coi fanti... Nel Diario di Ser Tommaso di Silvestro, incentrato sulle vicende comprese tra il 1482 e il 1514, si narra un episodio capitato al maestro Pietro lombardo. L’uomo stava lavorando nella chiesa di S. Giovanni a Orvieto, proprio al di sopra del Crocefisso, quando disse scherzando: «Ormai non se potrà dire che io non sia stato sopra ad domene Dio». Appena fatta l’affermazione, cadde rovinosamente a terra «et fecese un poco male». A commento dell’episodio, l’estensore del Diario, notaio e canonico del Duomo, ricorda il proverbio: «Scriza co’ fante et non scrizar colli sancti».
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Orvieto da trent’anni. Immigrati tedeschi trovarono occupazione anche in altri settori: si ricordano per esempio facchini, famigli e cuochi.
Un osservatorio privilegiato
Avviato nel 1290, il cantiere del Duomo costituisce un punto di osservazione privilegiato. La presenza di forestieri è notevole sin dai primi anni, e a tal proposito si può fare riferimento a uno studio di Lucio Riccetti del 1996: in alcune pergamene di archivio di reimpiego e riferite a pagamenti effettuati negli anni 1297-1300 sono ricordate le provenienze per 53 lavoranti su 255. Di questi, 32/34 sono forestieri e 6 provengono d’Oltralpe: Martinus de Schotia, Iohannes Anglicus, Lambertus Gallicus, Iannoctus Gallicus, Parisius Gallicus e Petrus Pollonus. Tra la metà del Trecento e la metà del Quattrocento, Laura Andreani, esaminando i documenti contabili dell’Opera del Duomo, ha osservato che essi registrano la presenza a Orvieto di 78 stranieri, 18 dei quali provenienti
probabilmente da Zara. Vi sono – solo per segnalare qualche nome – Simon de Alamania, Iohannes de Boemia, Stefanus Teutonicus, Caterina Slava. Quest’ultima viene ricordata per l’acquisto di un capo di biancheria e tre polli: un dato che riporta immediatamente allo svolgimento della vita quotidiana. Per alcuni di essi, Andreani fornisce una sorta di breve biografia ricomposta sulla base dei dati che ha potuto raccogliere: Rainaldino de Vascogna (Guascogna), maestro valentissimo nell’intaglio della pietra, che prese servizio per un salario di undici fiorini mensili; Giacomo di Rolandino, teutonico impegnato inizialmente nelle cave di Valle del Cero (al confine tra Orvieto e Bagnoregio) e di Botontoli (nei pressi di Porano) e poi chiamato a far fronte a necessità diverse quali la riparazione del tetto della cattedrale, la costruzione delle «camere» dei canonici, l’azionamento dei mantici dell’organo, la raccolta di offerte nel contado, sino a divenire il venditore del pane offerto davanti
all’altare della Maestà della Tavola e il custode della cera dell’altare maggiore. Giacomo di Rolandino lavorò alle dipendenze dell’Opera del Duomo sino alla morte, che lo colse nel mese di luglio del 1433. Andreani si è soffermata, infine, sulle modalità di arrivo delle maestranze e ha osservato che, in alcuni casi, gli arrivi erano in gruppo: è cosí per i 18 operai de Sara/Giara (probabilmente Zara), impiegati nell’estrazione del marmo nelle cave di Rocchetta e Castellana tra il 1429 e il 1432; oppure nel caso di 10 uomini provenienti dalla Corsica registrati sostanzialmente nello stesso periodo (1429-1438). Al termine della lettura dei tre contributi si ha consapevolezza di essersi avvicinati alla Orvieto del Trecento e del Quattrocento da un’angolazione insolita, ma che riesce a parlare di una comunità e di singoli uomini e donne che – immersi in un periodo turbolento e difficile – cercavano di costruire il loro futuro, che è divenuto il nostro passato.
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LA COMUNITÀ EBRAICA
Pecunia non olet...
Pienamente inseriti nel tessuto sociale, gli Ebrei erano presenti a Orvieto forse già dalla fine del Duecento. Operavano soprattutto nel prestito di danaro, un’attività che costituiva dunque una risorsa irrinunciabile per le casse comunali, obbligando le autorità a una tolleranza «indispensabile»
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a storia di una città medievale si può ricostruire su basi diverse, per esempio esaminando le maestranze impegnate nell’agricoltura o nell’artigianato, gli assetti istituzionali, la sfera religiosa, la produzione artistica o le dinamiche tra le componenti piú significative della società. E si può anche scegliere di prendere in esame singoli avvenimenti, tali da mutare di colpo il corso degli eventi, o di privilegiare l’analisi di assetti sociali, usi e costumi in grado di attraversare i secoli. Nel presentare le vicende medievali di Orvieto, una delle città piú importanti e vitali dell’Italia centrale nel Duecento, nel Trecento (soprattutto nella prima metà) e nel Quattrocento, seppure su una scala minore rispetto ai periodi precedenti, si è scelto di gettare uno sguardo invece sulle minoranze, tenendo in considerazione gli studi piú recenti. Nella consapevolezza che tale ottica può essere in grado di svelare i punti di forza e quelli di debolezza di una società, gli slanci coraggiosi in avanti e le chiusure, le speranze e le paure. Già nel capitolo precedente (vedi alle pp. 114124
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In alto miniatura raffigurante un rabbino con i rotoli della Torah, dalla raccolta di testi oggi nota come Rothschild Miscellany e probabilmente realizzata da un laboratorio di Ferrara. 1479. Gerusalemme, The Israel Museum. Nella pagina accanto miniature raffiguranti prestatori di denaro ebrei, da un’edizione delle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio. XIII sec. Madrid, Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial.
123), abbiamo posto l’attenzione sugli stranieri presenti in città e su quelli attivi nel grande cantiere della Cattedrale, mentre in queste pagine si prende in esame la presenza ebraica, che – come vedremo – rappresentò a lungo un elemento propulsivo nella vita sociale ed economica. I contributi piú recenti sul tema si devono a Paolo Pellegrini, che vi è tornato piú volte negli ultimi anni, a Cristina Trequattrini e ad Antonio Santilli, che hanno integrato quanto conosciuto già attraverso l’esame di dati d’archivio sinora inediti, o attraverso il riesame di altri già noti. Nella sua fondamentale Storia degli Ebrei in Italia (1963), Paolo Milano segnalava che Orvieto era una delle prime città in cui si erano trasferiti gli Ebrei provenienti da Roma, e che il loro insediamento sarebbe risalito al 1297. Va ricordato in proposito che, secondo lo storico Ariel Toaff, i trasferimenti sarebbero stati favoriti dalla Curia pontificia del tempo per condizionare e ingerirsi nella vita politica dei singoli centri. Per Pellegrini, l’arrivo di banchieri ebrei a Orvieto potrebbe essere anticipato di qualche anno: in un atto amministrativo, datato 4 aprile
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La comunità ebraica ricarono il Capitano del Popolo di comunicare agli interessati che la riscossione sarebbe potuta avvenire, ma dopo la Pasqua che, in quell’anno, cadeva nella giornata del 14 aprile. Nell’atto si accenna a patti preesistenti (pacta inita) e questo ha spinto lo studioso a immaginare un arrivo precedente a quell’anno. Le stesse fasi della vicenda sembrano spingere in quella direzione: i prestiti erano già stati erogati e non restituiti e quindi doveva essere trascorso del tempo. Qualche giorno dopo, il 18 aprile 1297, comunque, venne approvato un (nuovo?) capitolato con sei prestatori ebrei, di cui si menzionano i nomi: Mosè di Diodato col figlio Abramo e due fratelli, Manuele e Beniamino; Elia di Salomone e il figlio Salomone. I Sette Consoli e il Capitano del Popolo lo approvarono: «pro manifestate evidenti utilitate populi et comunis Urbevetani». L’accordo avrebbe avuto una validità di quattro anni e prevedeva alcuni diritti per gli Ebrei: l’immunità dalla giurisdizione ecclesiastica, la possibilità di girare armati, la stessa protezione giuridica assicurata ai cittadini orvietani. La sfera del culto rimaneva fuori dall’accordo, tranne per il diritto di non lavorare il sabato e nelle festività ebraiche.
Funzione e autorità pubbliche
Un medico di gran fama La personalità di maggior spicco nella comunità ebraica orvietana, durante la prima metà del Quattrocento, fu Gaio di Musetto. Era un medico e un chirurgo, che prestava la sua opera a favore di cittadini, di forestieri e di abitanti del contado e le sue capacità professionali gli avevano consentito di raggiungere un prestigio notevole in città. Un episodio lo può suggerire: quando venne imposto agli Ebrei di portare un distintivo, non attese le decisioni della comunità, ma scrisse subito (25 aprile 1408) al Consiglio Generale per denunciare l’accaduto. Anni dopo, in un atto del 24 agosto 1426, Gaio fu il solo Ebreo a essere escluso da un prestito forzoso di 30 fiorini d’oro richiesto dal Comune. L’esenzione venne votata, nel Consiglio Generale, a larga maggioranza (80 voti a 19). In seguito, il 13 settembre 1428 sottoscrisse, per conto della sua comunità, il nuovo patto tra le autorità cittadine e i banchieri ebrei.
1297, si ricorda che i Sette Consoli esaminarono la proposta avanzata dal Capitano del Popolo, dominus Iohannes Arçonis de Urbe, affinché si pronunciassero in merito alla richiesta relativa al saldo di prestiti concessi da prestatori ebrei al Comune e ad alcuni cittadini. I Sette Consoli, che da circa un lustro rappresentavano l’organo supremo di governo, riconobbero che la rivendicazione era giusta e inca126
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In alto miniatura raffigurante un dottore che applica ventose sulla schiena di un paziente, da un’edizione del Canone di Medicina di Avicenna. XIV sec. Bologna, Biblioteca Universitaria.
Le clausole dei prestiti erano dettagliate: non si poteva reclamare un bene lasciato in pegno sino al saldo del debito che garantiva; il pegno, se non riscattato, poteva essere messo in vendita dopo un anno, assicurando, comunque, il diritto di prelazione al debitore; i libri contabili dei banchieri facevano fede in caso di controversie. In proposito, Pellegrini ha di conseguenza osservato giustamente che: i «banchi ebraici in regime di convenzione avevano una funzione pubblica e godevano di autorità pubblica». Altri capitoli della convenzione prescrivevano che i banchieri non dovevano essere costretti a erogare prestiti nemmeno al Comune o a suoi ufficiali, che era impedito ad altri Ebrei di esercitare il credito in città per i quattro anni di durata della condotta, e che, infine, in caso di partenza da Orvieto, essi potevano chiedere la restituzione anticipata dei crediti concessi. D’altronde, lo stesso Comune ricorreva spesso ai loro prestiti: nel dicembre del 1300 ne chiese uno per pagare lo stipendio del podestà, ma, per ottenerlo, se ne dovette estinguere uno preso in precedenza. Poche settimane piú tardi, il 30 gennaio 1301, i Sette Consoli richiesero un prestito ulteriore per finanziare una spedizione militare nella provincia di Marittima nell’ambito di una guerra, combattuta a fianco di Siena,
1597 espulsione di 1000 Ebrei Milano
Centri intellettuali ebraici nel Medioevo
Mantova 1612
Cremona
Comunità ebraiche presenti al tempo dell'impero romano e ancora esistenti nell'anno Mille
Venezia 1515
Soncino
Torino
LA PRESENZA EBRAICA IN ITALIA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO (1000-1600)
1310 circa la conferenza degli Ebrei d’Italia si riunisce per discutere in che modo aiutare gli Ebrei di Germania a difendersi dalle persecuzioni
Centri d'affari ebraici
Pola
Ferrara 1624
Parma
Altre importanti comunità ebraiche
Genova
Ghetti creati sotto l'influenza del papato e data della loro creazione
Ravenna Lucca Firenze 1571 Pisa Livorno
1550 espulsione degli Ebrei
Area sulla quale vigeva la legislazione pontificia che limitava i diritti degli Ebrei
Fano na Ancona
MARE ADRIATICO
Foligno Orvieto
1297 Data del probabile insediamento della comunità ebraica
Roma 1555
MAR TIRRENO
R
E
G
N
Gaeta
1000 un Ebreo è incaricato della riscossione delle imposte e dirige la Zecca
SARDEGNA
O
D
I
N
A
P
1268 le persecuzioni determinano la scomparsa totale della comunità ebraica; le sinagoghe vengono trasformate in chiese
O
Trani L Lavello Bari Capua I Napoli Venosa Salerno Matera Oria Amalfi Taranto
1541 gli Ebrei vengono espulsi dai territori del regno di Napoli: alcuni si stabiliscono nell’Italia del Nord; altri nei territori dell’impero ottomano
887 per la prima volta nella storia delle comunità ebraiche d’Europa, viene fatto obbligo agli Ebrei di indossare un «marchio di infamia»; la decisione viene presa da Ibrahim, governatore musulmano della Sicilia
Brindisi
Otranto
MAR IONIO
Messina Palermo SICILIA
1391 e 1474 date dei massacri compiuti al tempo della dominazione aragonese; la successiva espulsione, nel 1492, causa la scomparsa di una comunità prosperosa, formata da 40 000 Ebrei
Catania Siracusa
Quell’obbligo umiliante... L’obbligo di portare un segno distintivo sugli abiti era stato imposto agli Ebrei di Orvieto da Marco Corrier, rettore generale del Patrimonio di San Pietro in Tuscia dal 1407. Essi si rifiutarono di portarlo e si rivolsero alle autorità cittadine per averne il sostegno. Il 18 marzo del 1408 i Conservatori della Pace scrissero
dunque a Corrier, nipote del pontefice Gregorio XII, sollevando una questione di competenza giurisdizionale: a loro avviso, non era compito del rettore generale intervenire sulla vicenda. L’obiezione venne giudicata valida, cosicché Corrier, con una lettera del 22 aprile 1408, revocò l’imposizione.
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La comunità ebraica
contro Margherita Aldobrandeschi e Guido di Santa Fiora. Già solo tali richieste suggeriscono lo stretto rapporto tra la politica locale e la finanza ebraica. Qualche mese dopo, prima della concessione di un ulteriore e piú consistente prestito, venne chiesto e ottenuto il rinnovo dei patti del 1297 e questa volta per otto anni. La richiesta fu approvata, ma i sottoscrittori in parte cambiarono: vi erano ancora Mosè di Diodato col figlio Abramo e i fratelli, Manuele e Beniamino, ma non Elia di Salomone e suo figlio, sostituiti da altri due figli di Mosè, Leone e Diodato, giunti in città nel frattempo o arrivati a un’età tale da poter seguire gli affari di famiglia. Nel 1312 si stipulò un capitolato con una novità rilevante: l’attribuzione ai banchieri ebrei dello status di cittadini e il godimento di tutti i diritti riconosciuti ai cives cristiani, ferma restando la differenza di religione.
Una presenza stabile
La presenza ebraica diventò stabile e, almeno dal 1375, è attestata nella toponomastica cittadina una platea iudeorum, forse da identificare – secondo Trequattrini – con l’attuale piazza Vivaria, in pieno centro anche nella Orvieto trecentesca. Va anche ricordato che alcuni Ebrei allontanati da Roma nel 1321 furono accolti dalla comunità ebraica orvietana, fra i quali il celebre poeta Immanuel Ben Shelomoh, noto anche come Manoello Giudeo (o Romano), che, nella sua raccolta piú nota – Mechabberot – ringraziò per l’aiuto ricevuto. Per l’anno 1334 abbiamo la notizia di abitazioni di Ebrei poste lungo una strada che conduceva «ad macellum platee comunis», la platee comunis era l’attuale piazza della Repubblica. Una nuova condotta, stipulata il 14 marzo 1396, va analizzata con attenzione, poiché segnala, tra l’altro, l’assenza dei discendenti del primo nucleo di prestatori, che avevano fondato la comunità ebraica orvietana. A sottoscriverla furono nuove persone provenienti da Viterbo, tra le quali spiccano Dattilo (o Dattolo) di Consiglio e Sabatuccio di Venturello, capostipiti di due famiglie destinate ad attestarsi in città per gran parte del Quattrocento. Alla metà del secolo, i loro figli raggiunsero un ruolo di primo piano, rappresentando la comunità nei rapporti con le autorità comunali. Le clausole erano piú favorevoli delle condotte precedenti, anche se, in controluce, si può iniziare a vedere una minore volontà d’integrare i nuovi venuti. Veniva prevista l’esenzione dagli oneri generali (imposte dirette, prestanze, gabelle) e personali (per esempio, il servizio di 128
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Miniature tratte da un pamphlet antisemita sull’usura, redatto a Norimberga nel 1484. Berlino, Deutsches Historisches Museum.
guardia cittadino, sia giornaliero che notturno). Condizioni simili erano previste per gli stranieri che decidevano d’insediarsi in città. Particolarmente alto – anche per i canoni dell’epoca – era il tasso d’interesse consentito, l’80% annuo. Un tasso che – secondo la testimonianza degli stessi banchieri – non venne mai applicato, ma che suggerisce da solo la penuria di denaro negli anni in questione. La situazione cominciò a farsi tesa e, nel 1408, gli Ebrei denunciarono il comportamento discriminatorio degli ufficiali cittadini nei loro confronti: l’imposizione di versamenti non dovuti, la richiesta del prestito forzoso di oggetti, la tendenza a trasformare le cause civili intentate contro di loro in cause criminali, l’obbligo di portare un segno distintivo sugli abiti contrariamente a quanto stabilito. La situazione denunciata venne discussa in un Consiglio Generale del 13 maggio 1408 e le richieste furono accolte integralmente. Fu stabilita anche una multa di 100 fiorini contro gli ufficiali che avessero perseverato nei comportamenti condannati. Il clima cambiò profondamente alcuni anni piú tardi, agli inizi del 1427, quando giunse in città Bernardino da Siena e iniziò la sua predicazione. Nei ripetuti sermoni, ammoní i cittadini orvietani a non bestemmiare, a non praticare i giochi proibiti, a non lavorare nei giorni del Corpus Domini e dell’Assunzione e a non avere piú rapporti con gli Ebrei. E invitò anche le autorità ad annullare le immunità concesse. La
sua predicazione trovò un seguito immediato e, riunito un Consiglio Generale allargato nella giornata del 16 febbraio 1427, si approvò quasi all’unanimità (114 voti contro 3), la revoca delle concessioni fatte agli Ebrei e la stessa possibilità di prestare denaro. La decisione ebbe un impatto negativo sull’economia cittadina e, poco piú di un anno dopo, in una nuova riunione del Consiglio Generale in data 27 giugno 1428, si decise a maggioranza (55 voti a favore e 27 contro) di fare marcia indietro e di consentire ai banchieri ebrei di tornare a prestare denaro in base a nuovi patti. Di conseguenza, il 13 settembre 1428, venne stipulato un nuovo accordo, valido per ventinove anni, con un tasso d’interesse annuo consentito al 24% e con alcune clausole restrittive, come il divieto di acquisto di un bene immobile senza un’espressa licenza del consiglio generale. Per la parte ebraica la condotta venne firmata, anche a nome degli altri Ebrei presenti in città, da Sumato (o Sumata) di Manuele e da Gaio di Musetto (vedi box a p. 126).
Un quadro a tinte fosche
Alla metà del Quattrocento la situazione era mutata ancora in peggio: i nuclei familiari ebrei presenti in città e individuati con sicurezza (alcuni potrebbero non esserlo stati, soprattutto quelli non inseriti nell’attività finanziaria) risultano dimezzati (da almeno otto a quattro), le personalità piú eminenti della comunità morti o
emigrati altrove. D’altronde, l’intera Orvieto viveva una fase difficile: il pontefice Pio II, che la visitò nella giornata del 27 settembre 1460, nei Commentarii, fornisce un quadro della situazione quasi senza speranze: «Quivi sorgevano splendide case di cittadini e ampi palazzi in bozze di pietra. Il tempo ne ha distrutti molti, piú ancora furono incendiati e devastati dalle lotte civili. Restano ora le torri semidistrutte e le chiese crollate. Ma si vede ancora in mezzo alla città il tempio dedicato a Santa Maria Vergine, non inferiore a nessun’altra chiesa d’Italia». Una nuova condotta con Ebrei provenienti da Viterbo – i fratelli Sabato, Angelo e Mele di Aleuccio – venne stipulata nel 1460, ma fu stracciata solo tre anni dopo, a seguito della predicazione di frate Bartolomeo da Colle Val d’Elsa e della nascita di un Monte di Pietà (il secondo in Italia, dopo quello di Perugia). Nel 1468 si fece di nuovo marcia indietro e, per fronteggiare una grave crisi di liquidità, vennero richiamati i banchieri allontanati, affinché terminassero i dieci anni di condotta, che era stata loro concessa. Ciononostante, atteggiamenti e prese di posizione antiebraiche continuarono e anzi s’intensificarono con la fine del secolo e gli inizi del Cinquecento. Il che non impedí, comunque, che Ebrei sefarditi, dopo la cacciata dalla Spagna nel 1492, arrivassero a Orvieto a partire almeno dal 1512. Tra i nuovi arrivati, spiccano le figure del noto medico Moïse de Blanis e del figlio Laudadio.
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VO MEDIO E Dossier n. 50 (maggio/giugno 2022) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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