Medioevo Dossier n. 53, Novembre/Dicembre 2022

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ISTANBUL DALLE ORIGINI AGLI SPLENDORI

DELL’

IMPERO OTTOMANO di Marco Di Branco

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ISTANBUL

N°53 Novembre/Dicembre 2022 Rivista Bimestrale

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ISTANBUL

DALLE ORIGINI AGLI SPLENDORI DELL’ IMPERO OTTOMANO di

Marco Di Branco

INTRODUZIONE 10. Le tre vite di una capitale del mondo

1204 74. La quarta crociata

LE ORIGINI 12. La forza di un nome

DAL BASILEUS AL SULTANO 82. Cambio di scena

BISANZIO 16. Uno splendido paradosso

ISTANBUL 88. Il nuovo inizio

COSTANTINO 20. L’imperatore rivoluzionario

MAOMETTO II 94. Il sultano fanciullo

TEMPO DI RESTAURAZIONE 28. Il legislatore e il salvatore

LUOGHI CELEBRI 104. Il bazar delle meraviglie 108. Il palazzo del Topkapi

SANTA SOFIA 32. L’apogeo dell’architettura bizantina

SOLIMANO IL MAGNIFICO 116. L’età d’oro di Istanbul

YEREBATAN SARAYI 40. La cisterna delle meraviglie

SINAN 122. Architetto «imperiale»

COSTANTINOPOLI 46. La regina delle città

CRONOLOGIA 126. Da colonia a cuore dell’impero

BISANZIO E I TURCHI 52. La conquista selgiuchide

I MUSEI DI ISTANBUL 128. Un racconto lungo 1500 anni


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di Federico Canaccini

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stanbul è una città estesa – caso unico al mondo – su due continenti e popolata da circa 15,5 milioni di abitanti (in una vecchia guida della Turchia viene citato un censimento del 1985, che riporta la cifra di 5,5 milioni). È visitata ogni anno da oltre 14 milioni di turisti provenienti da tutto il mondo. La voce di Wikipedia Italia definisce la megalopoli sul Bosforo «una città globale». Potremmo interrogarci sul significato di quell’aggettivo e chiederci, al contempo, se la città possa ancora essere, proiettata com’è verso il futuro, quella raccontata da Ma-

rio Levi, istanbuliota di origini ebraiche, nel suo Istanbul era la mia favola. Prima di rispondere, sfogliamo insieme le pagine di questo Dossier. Ci renderemo conto che, per importanza storica, soltanto Roma può reggere il confronto con questo incredibile palinsesto di accadimenti, biografie, creazioni architettoniche e artistiche. Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio: una «seconda Roma», fondata non a caso in un luogo privilegiato dalla topografia, un luogo quasi obbligato, nel punto di passaggio piú sensibile tra Oriente e Oc-


cidente. Ed è, probabilmente, questa sua posizione, così logicamente «funzionale», a determinare l’inarrestabile evoluzione della città, dalle sue origini, appunto, alla grande «metropoli globale» di oggi. Di quell’evoluzione Istanbul conserva per noi la millenaria memoria: i suoi numerosi monumenti, dalle antiche mura bizantine agli splendidi edifici a cupola delle moschee ottomane, contrassegnate dallo slancio dei tanti minareti, rappresentano pagine di storia aperte. Sono il racconto, vivo, di una città tra Europa e Orien-

te, tra Cristianesimo e Islam, tra passato e futuro. A questo «universo Istanbul» abbiamo tentato di accennare nelle pagine che seguono. Il nostro augurio è che possano costituire una prima guida alla visita. E – perché no? – rievocarne la dimensione, mai abbandonata, di «città da favola». Andreas M. Steiner Una suggestiva veduta di Istanbul al tramonto, con l’inconfondibile skyline delle cupole e dei minareti delle moschee che si specchiano nelle acque del canale del Bosforo.



Istanbul

Carta della città di Istanbul, con l’indicazione dei quartieri e dei luoghi e monumenti di maggior interesse.


BISANZIO, COSTANTINOPOLI, ISTANBUL

LE TRE VITE DI UNA CAPITALE DEL MONDO


B

isanzio, Costantinopoli, Istanbul. I tre nomi con cui la perla del Bosforo è stata chiamata nel corso dei secoli sono il portato di precisi orientamenti politici, culturali e religiosi, ma anche di esperienze artistiche sedimentate, che sono divenute parte integrante dell’immagine complessiva della città. Bisanzio è il nome della colonia greca e della città romana, che si svilupparono su un promontorio che occupava, e occupa, una posizione unica dal punto di vista strategico e commerciale. Costantinopoli è il nome della capitale imperiale voluta da Costantino, la piú grande metropoli del Mediterraneo, l’erede di Roma e di tutta la cultura ellenistico-romana, la città dove si celebrerà l’unione tra l’impero e il cristianesimo, che diventerà il centro dell’ortodossia, la «retta fede» dei cristiani d’Oriente e che costituirà il nuovo modello urbanistico e architettonico della romanità

orientale. Pitture, mosaici, affreschi e architetture di quell’epoca straordinaria si offrono ancora oggi all’occhio del visitatore e dello studioso. La splendida Santa Sofia, voluta da Giustiniano, è anche il monumento ponte, che collega la città cristiana e quella ottomana. Essa, infatti, dopo la conquista a opera degli Ottomani diviene moschea e lo rimane fino al 1935. Dopo essere divenuta Museo, nel 2020 torna a essere la Grande Moschea di Santa Sofia, edificio cardine di Istanbul. Il cui nome, forse derivato dall’espressione greca «eis tén polin» («verso la città»), è un perfetto esempio di sincretismo: ingloba il passato, guardando al futuro. Veduta di Istanbul, con in primo piano la moschea di Solimano il Magnifico, edificata tra il 1550 e il 1557, su progetto del celebre architetto Sinan, sul Corno d’Oro.


LE ORIGINI

LA FORZA DI UN NOME

A chi si deve la fondazione del primo insediamento sul Corno d’Oro? E perché la splendida città che nel tempo si sviluppò sulle sponde del Bosforo venne battezzata Bisanzio?

L’

aggettivo «bizantino», riferito all’impero romano d’Oriente, deriva da Byzantion, l’antico nome della città poi ribattezzata con il suo nome da Costantino (Costantinopoli, la polis, cioè la città, di Costantino). Prima della capitale bizantina, infatti, esisteva la colonia greca di Byzantion, fondata intorno al 660 a.C., quasi mille anni prima della rifondazione costantiniana. Secondo il geografo Strabone, che scrive in età augustea, un gruppo di coloni greci sarebbe approdato nell’area dell’attuale Corno d’Oro, per far sorgere un nuovo centro abitato. A fornirci lumi sull’identità di tali coloni è un altro geografo, contemporaneo a Strabone, il cosiddetto Pseudo-Scimno, che sostiene si trattasse di uomini provenienti dalla città di Megara. Come madrepatria della colonia, altri autori fanno invece riferimento a Mileto, Corinto e Sparta. Il grande imperatore-storico Costantino VII Porfirogenito (912-959) affermava che Byzantion sarebbe stata fondata da Megaresi, Spartani e Beoti, «i piú antichi dei Greci» (De thematibus, 46). Gli storici contemporanei, al contrario, ritengono plausibile una connessione con la vicina Tracia. L’etimologia stessa di Byzantion potrebbe essere connessa con una radice tracia, lingua indoeuropea affine all’illirico, con il senso di «riva»: in effetti, sia in Tracia sia in Illiria sono diffusi nomi e toponimi simili, quali per esempio Beuza, Busa, Busia, Busio, Bizante, Bizye. E tuttavia, la tradizione maggioritaria (da Diodoro Siculo a Giovanni Malala a Stefano di Bisanzio) metteva in relazione il nome di Byzantion con il mitico eroe Byzas. La storia della fondazione di Byzantion ci viene

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ISTANBUL

raccontata con dovizia di dettagli da un autore della prima età imperiale, Dionisio di Bisanzio, che compose un opuscolo dal titolo Anaplous Bospori (La Risalita del Bosforo), definito dal grande bizantinista francese Gilbert Dagron (1932-2015) come una «passeggiata mitologica» nell’area che si estende tra il Mar Nero e il Mare di Marmara. Nell’opera, Dionisio si sofferma sullo sbarco dei coloni presso il promontorio Bosporio (dove sorgerà la città). Quando la flotta greca si avvicinò alla costa, i naviganti si resero conto che tutti i possibili approdi erano presidiati da genti tracie: tentare di scendere a terra era dunque impossibile. I coloni decisero allora di risalire il Bosforo fino a un luogo riparato e di gettarvi l’ancora. Sbarcando, gli equipaggi avevano costruito un focolare per ciascuna delle sette principali famiglie megaresi. Dopo aver consumato insieme un pasto caldo, i Greci, incalzati dai barbari, si imbarcarono nuovamente e riuscirono a raggiungere il promontorio Bosporio, prima che i nemici potessero tornare indietro a contrastarli. Una volta sbarcati, respinsero gli assalitori e li dispersero. La via per la fondazione della colonia era cosí aperta.

Byzas: l’eroe eponimo

Su Byzas, il mitico comandante megarese eponimo della colonia, le informazioni fornite dalle fonti sono molto scarse. Alcuni autori lo ricollegavano a Byzas figlio di Poseidone e nipote di Zeus. In epoca relativamente tardiva (I-II secolo d.C.), compaiono alcune emissioni monetali recanti il ritratto di un uomo barbato con un elmo e la legenda «Byzas». In questo stesso periodo, il retore Marco di Bisanzio si


Testa colossale di Medusa, proveniente da uno dei due archi trionfali dell’Augusteo, il foro che Costantino fece realizzare nella capitale da lui voluta sul Bosforo. Nella pagina accanto tetradramma battuto nella greca Byzantion. 150-100 a.C. Al dritto, testa di Alessandro Magno divinizzato; al rovescio, Atena Nikephoros («portatrice di vittoria») seduta.


BISANZIO

Il «paradosso» bizantino Vaso attico a figure rosse con Io trasformata in vacca e Zeus, da Cerveteri. Inizi del V sec a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

IL «PASSAGGIO DELLA VACCA» Il nome del «Bosforo», il canale naturale che collega il Mare di Marmara al Mar Nero, deriva dalle parole greche «bous» («vacca») e «poros» («passaggio»). Secondo il mito, infatti, Io, figlia del re di Argo Inaco, trasformata in vacca da Zeus per tentare di nascondere a Era il suo tradimento con la giovane, fu punita dalla dea con l’invio di un implacabile tafano. Tentando di sfuggire al suo pungiglione, Io giunse all’estremità della Tracia: di qui, passò a nuoto in Asia, dando cosí il nome al promontorio Bosporio e allo stesso Bosforo.

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ISTANBUL


BISANZIO IMMAGINARIA: GLI SCRIPTORES ORIGINUM COSTANTINOPOLITANARUM Il sito in cui sorse Costantinopoli, un promontorio a forma di triangolo fra il Mare di Marmara e il Corno d’Oro, è collocato in una posizione che ne ha fatto da sempre un caposaldo fondamentale sia dal punto di vista commerciale sia dal punto di vista strategico. L’area della futura città fu occupata sin dalla fine del III millennio. Prima del VII secolo a.C., vi si installò un emporio fenicio al quale, nel 660 a.C., si affiancò una colonia di mercanti megaresi, che, dal nome del suo mitico fondatore, Byzas, prese il nome di Byzantion. La raccolta che va sotto il nome di Scriptores originum Costantinopolitanarum (Scrittori delle origini costantinopolitane) edita dal filologo Theodor Preger nel 1901, costituisce una chiave di accesso privilegiata ai miti e alle leggende riguardanti «Bisanzio prima di Bisanzio». I testi che la compongono prendono infatti in esame la storia delle origini della città e forniscono una vera e propria guida dei suoi antichi monumenti e delle sue vetuste tradizioni, contribuendo a chiarire l’atteggiamento dei Bizantini verso il loro passato ancestrale.

Cinta di Costantino

CORNO D’ORO

Cinta di Teodosio II

BOSFORO Foro Cinta di Teodosio di Settimio Severo Foro di Sant’Irene Foro Costantino di Arcadio Porto

Ippodromo

Cinta muraria sul mare Porta Aurea

Obelisco di Teodosio

MAR DI MARMARA

vantava di discendere «dall’antico Byzas» (Filostrato, Vite dei sofisti, I 24, 1), mostrando che le élites cittadine si richiamavano al mitico fondatore per rivendicare la loro nobiltà.

La città romana

Santa Sofia

Tra III e IV secolo d.C. Bisanzio, distrutta dall’imperatore Settimio Severo dopo un assedio, viene ricostruita due volte: la prima volta dallo stesso Settimio Severo e la seconda da Costantino. Sulla ricostruzione severiana, l’archeologia ha fornito risposte ambigue, ma sembra certo che in tale occasione siano stati edificati alcuni grandi edifici pubblici e luoghi di

In alto cartina del Corno d’Oro in epoca bizantina. A destra testa in bronzo dell’imperatore Settimio Severo, dall’Asia Minore. 195-211 d.C. circa. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.

spettacolo. Cronisti e panegiristi parlano di una rifondazione radicale: stando ad alcune fonti, anche il nome della città sarebbe stato cambiato in «Antonia», o forse in «Colonia Antoniniana». Secondo lo storico Erodiano (Regnum post Marcum, IV 3, 4-9), Caracalla, figlio di Settimio Severo, avrebbe voluto dividere l’impero, cedendo al fratello Geta la sua parte occidentale e tenendo per sé l’Oriente. In base a questo piano, Bisanzio sarebbe dovuta diventare la residenza di Caracalla e Calcedonia, dalla parte opposta del Bosforo, quella di Geta. Come scrive il filologo Tommaso Braccini, sembra probabile che la figura di Settimio Severo abbia finito per fungere da «bacino collettore per una serie di interventi edilizi e avvenimenti autentici o leggendari, che interessarono Bisanzio per tutto il corso del III secolo, e in particolare sotto la dinastia da lui fondata. La sua presunta rifondazione, verosimilmente sopravvalutata rispetto alla realtà storica, fu dipinta come una prefigurazione o una “prova generale” di quella costantiniana, e con uno scopo ben preciso, quello di creare una sorta di “cuscinetto” tra l’antica città greca e la Nuova Roma cristiana».

DA LEGGERE

· ·

Gilbert Dagron, Constantinople imaginaire. Étude sur le recueil des «Patria», Presses Universitaires de France, Parigi 1984 Tommaso Braccini, Bisanzio prima di Bisanzio. Miti e fondazioni della Nuova Roma, Salerno Editrice, Roma 2019

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BISANZIO

UNO SPLENDIDO PARADOSSO L’espressione «impero bizantino» è una sorta di creazione moderna. Da sempre, infatti, i suoi protagonisti preferivano richiamarsi ai fasti dell’antica Roma


I

n un suo splendido libro di sintesi sulla civiltà bizantina, Cyril Mango, uno dei maggiori bizantinisti viventi, enuncia quello che potrebbe definirsi «il paradosso di Bisanzio»: «Nel mondo reale non è certamente mai esistita alcuna entità detta “impero bizantino”» (La Civiltà bizantina, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 5). In effetti, ciò che esisteva era uno Stato romano che aveva il suo centro a Costantinopoli. I suoi abitanti si definivano «Romani» (Rhomaioi) o semplicemente «cristiani», e chiamavano Rhomania il proprio Paese. Byzantios, cioè «Bizantino», era soltanto chi era nato a Costantinopoli,

e ciò costituiva un ulteriore paradosso, poiché il sostantivo Byzantion, da cui derivava appunto l’aggettivo Byzantios, non era altro che l’antico nome greco della città, obliterata anche fisicamente dalla nuova capitale di Costantino. Uno dei primi studiosi ad avere utilizzato il termine «Bizantini» per definire i «Romanid’Oriente» è stato Charles Du-Fresne Du Cange (1610-1668). Egli studiò sistematicamente la storia di Bisanzio e dell’Oriente latino e redasse una fondamentale Storia di Costantinopoli sotto gli imperatori francesi (1657). Curò inoltre l’edizione di numerose fonti storiche importanti, tra

Particolare di un mosaico pavimentale del Grande Palazzo (Magnum Palatium) di Costantinopoli raffigurante una caccia alla tigre. VI sec. Istanbul, Museo del Mosaico. Costruito a partire dal 330, il complesso fu la principale residenza degli imperatori bizantini fino al 1081.


BISANZIO

Il «paradosso» bizantino

I TEMPI DELLA STORIA BIZANTINA «Stando alle definizioni della maggioranza degli storici, l’impero bizantino sarebbe nato con la fondazione della città di Costantinopoli o Nuova Roma nel 324 d.C. e sarebbe finito con la resa della medesima città ai Turchi Ottomani nel 1453. Nel corso di questi undici secoli l’impero bizantino conobbe profonde trasformazioni; di qui, l’uso di dividere la storia bizantina in almeno tre unità principali – il primo periodo bizantino cui succedono il medio e il tardo periodo. Può rientrare nella prima unità l’epoca che giunge sino alla metà del settimo secolo e cioè sino all’insorgenza dell’Islam e alla definitiva installazione degli Arabi lungo le coste orientali e meridionali del Mediterraneo; il medio periodo può giungere sino all’occupazione turca dell’Asia Minore (intorno al 1070) oppure – con minor fondamento – sino alla presa di Costantinopoli da parte dei Crociati (1204); il tardo periodo, da una qualunque di queste date sino al 1453. Per quanto arbitraria possa apparire, ci sono buone ragioni per mantenere tale definizione» (Cyril Mango, La civiltà bizantina, 1991).

le quali la Storia di san Luigi, di Jean de Joinville e l’Epitome storica (o Sinossi storica) del «bizantino» Zonara. La sua fama resta tuttavia legata soprattutto al Glossarium mediae et infimae latinitatis (1678), e al Glossarium mediae et infimae graecitatis (1688), straordinari dizionari imperniati sul latino e sul greco medievale, ancora oggi di estrema utilità. Du Cange e i suoi contemporanei non potevano accettare che i «Bizantini» fossero «Greci» o «Romani», visto che, sotteso ai termini «Greci» e «Romani», c’era il glorioso periodo «classico» terminato con la caduta di Roma. A ciò si sovrappose il pregiudizio religioso: la cattolica Francia guardava alle Chiese ortodosse d’Oriente come a quelle maggiormente scismatiche ed eretiche. Già Carlo Magno negava esplicitamente il nome di «Romani» ai sudditi dell’impero d’Oriente, definendoli piuttosto con il termine di «Greci». Il cambiamento di denominazione era teso a dimostrare che non esisteva alcuna parentela tra i Romani d’Occidente (di lingua latina) e quelli orientali (di lingua greca). Da ciò derivava che i primi erano obbligati a soggiacere all’autorità politica franca. Inoltre chiamare «Greci» i Romani d’Oriente significava non considerarli neppure cristiani, visto che, al tempo, il termine «Greco» era sinonimo di «pagano». Al contrario, all’epoca di Du Cange, il termine «greco» non aveva piú un valore negativo. Ecco allora che, non potendo piú definire i cristiani orientali «Greci» e ancor meno «Romani», in mancanza di alternative si applicò ai Romani d’Oriente il termine erudito «Bizantini», utilizzato ancora oggi.

Un simbolo di dispotismo

All’epoca moderna si deve anche un’ulteriore accezione del termine «bizantino» (o «bizantinismo»): esso infatti definisce non di rado il perdersi in questioni e in sottigliezze eccessive (con riferimento alle controversie teologiche 18

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frequenti nel mondo bizantino); ed è anche talvolta impiegato a proposito di vane complicazioni burocratiche o (con allusione ai costumi di corte dell’impero bizantino) di un cerimoniale «esagerato». Alla radice di un tale uso v’è certamente una connotazione negativa dello Stato bizantino e della sua cultura che è ben riassunta in un famoso giudizio di Edward Gibbon (1737-1794). Secondo lo storico inglese, infatti, la millenaria vicenda di Bisanzio non sarebbe altro che «una tediosa e uniforme storia di debolezza e miseria». Per Gibbon, dal tempo di Eraclio i confini dell’impero – definiti dalle leggi di Giustiniano e dalle armi di Belisario – recedono su tutti i fronti; il nome romano è ridotto a un ristretto angolo dell’Europa, ai solitari sobborghi di Costantinopoli; e il fato dell’impero greco è stato comparato a quello del Reno, che si perde nelle sabbie, prima che le sue acque possano mescolarsi con l’oceano. E la perdita di splendore esterno non è compensata dalle qualità piú nobili della virtú e del genio. I sudditi dell’impero bizantino, che assumono e disonorano i nomi sia dei Greci che dei Romani, presentano una uniformità di vizi abietti, che non vengono nemmeno ammorbiditi dalla debolezza dell’umanità, o animati dal vigore di crimini memorabili. «Gli uomini liberi dell’antichità – sostiene ancora l’autore del celebre trattato sulla decadenza e caduta dell’impero romano (The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 17761789) – potrebbero ripetere con generoso entusiasmo la frase di Omero, per cui “nel primo giorno di servitú, il prigioniero è privato di metà della sua virtú di uomo”. Ma il poeta aveva solo visto gli effetti della schiavitú civile o domestica, e non poteva predire che la seconda metà dell’umanità sarebbe stata annichilita dal dispotismo spirituale che limita non solo le azioni, ma anche i pensieri, del fedele».

Particolare di un mosaico pavimentale del Grande Palazzo (Magnum Palatium) di Costantinopoli raffigurante un’aquila che lotta con un serpente. VI sec. Istanbul, Museo del Mosaico.


La visione estremamente pessimistica del volterriano Gibbon, che vede il mondo bizantino come il luogo in cui il totalitarismo politico si salda con l’oppressione religiosa, venne a lungo condivisa anche dalla cultura cattolica, per la quale l’ortodossa Bisanzio resta pur sempre un simbolo di dissenso. Il melting pot etnico e linguistico che caratterizza la società bizantina per tutto il corso della

storia dell’impero d’Oriente, unito all’esotismo dei costumi e alla complessità del cerimoniale della corte di Costantinopoli, sembra oggi esercitare un indubbio fascino sul mondo accademico internazionale, nel quale si assiste a un proliferare di cattedre e di centri di ricerca dedicati allo studio della civiltà bizantina, considerata come una sorta di anticipazione della società multietnica contemporanea.

DA LEGGERE

·

Cyril Mango, La civiltà bizantina, Laterza, Roma-Bari, 1991

ISTANBUL

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COSTANTINO

L’IMPERATORE RIVOLUZIONARIO Passato alla storia per aver autorizzato la pratica della religione cristiana, il fondatore della Nuova Roma fu, in realtà, artefice di mutamenti ben piú radicali, capaci di sconvolgere assetti politici e modi di vita plurisecolari

La mano e il volto appartenenti alla statua colossale di Costantino, in origine situata nell’abside della basilica di Massenzio nel Foro Romano. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, cortile del Palazzo dei Conservatori.

C

ostantino, il fondatore della futura capitale bizantina, è il piú violento rivoluzionario della storia romana: egli infatti ha rotto radicalmente con i vecchi schemi, accettando senza compromessi il portato dei grandi cambiamenti economico-sociali compiutisi nell’impero romano nel corso della crisi del III secolo. La sua rivoluzione religiosa è parallela alla sua rivoluzione sociale. Come ha scritto il grande storico Santo Mazzarino (1916-1987), «all’opposto di Diocleziano, Costantino non si è affannato a spegnere l’incendio che divorava il vecchio mondo, ma viceversa ha



COSTANTINO

Quasi una rivoluzione

costruito il nuovo stato con gli elementi fornitigli da un processo storico conseguente». Nel 305, tenendo fede agli impegni presi all momento dell’investitura, Diocleziano e Massimiano Erculio rinunciarono alla dignità imperiale di Augusti, in favore dei successori designati, i Cesari Costanzo Cloro e Galerio. La «riforma tetrarchica» dioclezianea entrava cosí nella sua fase piú delicata. E in effetti, quello che doveva essere un passaggio pacifico dei poteri si trasformò subito in una terribile crisi militare, che culmina nello scontro fra Massenzio, figlio di Massimiano, e Costantino, figlio di Costanzo: il 28 ottobre del 312, presso il Ponte Milvio, alle porte di Roma si combatté la battaglia decisiva. Secondo la tradizione, a Costantino apparve in sogno una visione in cui egli riconobbe un incoraggiamento del dio dei cristiani, che lo avrebbe esortato a porre le iniziali del nome di Cristo (il cosiddetto monogramma) sugli scudi dei suoi soldati, con una promessa di vittoria: in hoc signo vinces, «in questo segno vincerai». Cosí fu. Massenzio annegò nel Tevere e il suo esercito andò incontro a una terribile sconfitta. Costantino entrò trionfalmente in Roma e si impadroní del potere, cancellando dalla città quasi ogni traccia della presenza del suo avversario: la grande basilica che Massenzio stava costruendo nei pressi del Foro prese cosí il nome di Basilica di Costantino.

L’editto che cambiò la storia

Al contrario del suo predecessore, il nuovo imperatore guardava ovviamente con simpatia al cristianesimo: il testo epigrafico dell’arco di trionfo dedicato al sovrano dal senato dopo la sua vittoria fa riferimento a una non meglio precisata «ispirazione della divinità» (instinctu divinitatis) che avrebbe guidato Costantino nella battaglia: non è improbabile che, con una formula volutamente ambigua, per non offendere la sensibilità delle componenti piú tradizionaliste della società romana del tempo, si volesse qui anche alludere discretamente all’aiuto che l’imperatore avrebbe ricevuto dal dio cristiano. Non a caso qualche mese piú tardi, nel febbraio del 313, Costantino, insieme al suo collega Licinio, promulgò a Milano il celebre editto di tolleranza, e negli anni successivi portò avanti un importante programma di cristianizzazione dello spazio urbano di Roma pur limitato alle zone periferiche della città. Furono allora costruite la grande basilica cristiana di S. Giovanni in Laterano, con annesso il celebre battistero, la basilica 22

ISTANBUL

di S. Croce in Gerusalemme, costruita per ospitare le reliquie della Vera Croce rinvenute da Elena, madre di Costantino, e la basilica di S. Pietro in Vaticano, destinata ad accogliere le preziose reliquie del Principe degli Apostoli.

Dispute religiose

Dopo essersi sbarazzato di Licinio ed essere cosí divenuto signore assoluto dell’impero, Costantino prese parte, in qualità di «sovrintendente dei laici», al primo Concilio universale («ecumenico») della storia della Chiesa, che si tenne a Nicea, nei pressi di Costantinopoli, nel maggio-giugno del 325. Nel Concilio di Nicea si affrontò soprattutto il problema cristologico, cioè la questione relativa alla Passione e Resurrezione di Cristo e ai rapporti di quest’ultimo con l’unico Dio. In tale dibattito emersero essenzialmente due schieramenti: da un lato chi, come il prete alessandrino Ario, negava che Cristo avesse un’anima umana e poneva in lui, al posto dell’anima, lo Spirito Santo; dall’altro, i sostenitori della dottrina trinitaria, che invece consideravano lo Spirito Santo come «incarnato e fatto uomo», affermando che Cristo era «della stessa sostanza del Padre». Dopo un aspro dibattito, il Concilio condannò le dottrine di Ario e proclamò il dogma trinitario. Esso inoltre deliberò sulla definitiva organizzazione episcopale della Chiesa, affidando rispettivamente alle sedi patriarcali di Roma, Alessandria e Antiochia la giurisdizione sui fedeli d’Occidente, dell’Egitto e dell’Oriente. Figlio di un generale, cresciuto nei campi militari a contatto con il mondo rude dei soldati di confine, Costantino non amava Roma. Per questo, dopo aver governato quasi sempre dai grandi centri urbani delle province settentrionali, decise di spostare definitivamente la capitale imperiale in Asia Minore. Lo spinsero a questa impresa la necessità di avvicinare la sede dell’impero ai confini delle ricche regioni dell’Oriente, il desiderio di creare ex novo un grande spazio urbano cristiano, non piú condizionato dalle antiche ma sempre vive vestigia del paganesimo, e la volontà di legare il

In basso testa colossale in bronzo di Costantino. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto, in alto statua in marmo di matrona, identificata con Elena, madre di Costantino. Età costantiniana. Roma, Musei Capitolini.


L’IRRESISTIBILE ASCESA DEL FIGLIO DI UN’OSTESSA 280-85 circa

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Costantino nasce a Naisso (Niš), in Illiria, dal generale Fl. Costanzo Cloro e dalla sua concubina Elena, un’ex ostessa.

I l padre di Costantino, che aveva sposato la figliastra dell’imperatore Massimiano, viene adottato da quest’ultimo, ed eletto Cesare.

Abdicazione di Diocleziano e Massimiano. Il padre di Costantino diventa imperatore della pars occidentalis.

Morte di Costanzo Morte di Massimiano, Cloro presso Eboracum dopo un duro conflitto (York), in Britannia. Le con il figlio. truppe acclamano imperatore Costantino. A Roma, viene eletto imperatore Massenzio, figlio di Massimiano.

28 ottobre 312

313

324

11 maggio 330

22 maggio 337

Costantino e Massenzio si scontrano presso Ponte Milvio. Massenzio, sconfitto, annega nel Tevere.

Alleanza fra Costantino (Augusto per l’Occidente) e Licinio (Augusto per l’Oriente). Eliminazione di Massimino Daia, l’altro imperatore d’Oriente eletto da Galerio. A Milano, Costantino e Licinio emanano il celeberrimo «editto di tolleranza».

Costantino sconfigge Licinio a Crisopoli (18 settembre 324) e assume su di sé tutto il potere.

Inaugurazione di Costantinopoli.

Battesimo in articulo mortis e morte di Costantino presso Nicomedia.

LA DINASTIA Elena

Costanzo Cloro (305-306)

Costantino I

Minervina

Fausta

(306-337)

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Costantino II

Graziano

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Costanzo II

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(367-383)

Costante

(337-361)

Costanza

A destra, in basso ritratto di Fausta Massima Flavia, moglie di Costantino dal 307 al 310. Parigi, Museo del Louvre.

Elena

Giuliano

(360-363)

ISTANBUL

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COSTANTINO

Quasi una rivoluzione

L’EDITTO DI MILANO Il cosiddetto «editto di tolleranza» venne promulgato nel 313 a Milano dall’imperatore Costantino (306-337) e dal suo collega Licinio (308-324). Il provvedimento metteva ufficialmente fine alle persecuzioni dei cristiani e riconosceva la loro religione anche dal punto di vista legale. L’editto ha un’importanza storica enorme, pari soltanto al successivo editto di Teodosio (380), con cui quest’ultimo prescriveva che tutti i sudditi dell’impero si convertissero al cristianesimo, minacciando i pagani di gravi castighi.

DA LEGGERE

· · · · proprio nome, come già avevano fatto Alessandro Magno, Traiano e Adriano, alla fondazione di una splendida megalopoli. Dopo un attento esame, la scelta cadde su Bisanzio, antica colonia greca posta sulla riva settentrionale del Bosforo, costruita in un sito ben difeso e servita dalla via Egnatia, una delle piú importanti arterie di comunicazione fra Oriente e Occidente. Contrariamente a quanto comunemente si pensa, Costantino non fondò la sua nuova città in competizione con Roma, e certo non considerava Costantinopoli come una capitale alternativa a quella romana: dal punto di vista giuridico, Costantinopoli non era altro che un’ulteriore sede imperiale, come Treviri, Milano, Tessalonica o Antiochia. Tuttavia, l’impresa fu condotta sin da principio con particolare enfasi e i progetti urbanistici furono caratterizzati da magnificenza e sontuosità davvero insolite. Inoltre, non si può negare che Costantino abbia creato nella città istituzioni parallele a quelle romane, come il Senato, pur rinunciando a instaurarvi autorità municipali sul modello romano antico. Mentre gli inizi della colonia greca di Bisanzio sono avvolti dalla leggenda (vedi supra, alle pp. 12-15), quelli di Costantinopoli sono ben illuminati dalla luce della storia. 24

ISTANBUL

ichard Krautheimer, Tre capitali cristiane. Topografia e R politica, Einaudi, Torino 1987 Augusto Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Roma-Bari 2004 Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, B.U.R., Milano 2009 Manfred Clauss, Costantino e il suo tempo, il Mulino, Bologna 2013

In alto Costantino in trono, rilievo da Salona. IV sec. d.C. Spalato, Museo Archeologico. Sulle due pagine i cavalli di S. Marco. Provenienti dall’ippodromo di Costantinopoli, i bronzi furono trasportati nella città lagunare dal doge Enrico Dandolo alla fine della IV crociata, e collocati sulla facciata della basilica marciana, dove sono rimasti fino al 1977. Oggi sostituiti da una copia, gli originali sono custoditi nel Museo di S. Marco a Venezia.


La decisione di fondare la città risale al periodo immediatamente successivo alla vittoria riportata su Licinio, nel novembre del 324. I lavori di costruzione ebbero inizio già nel 325 e consistettero in primo luogo nell’ampliamento della superficie dell’antica città greca, che venne sestuplicata fino a raggiungere i 6 Km² e nella costruzione di un muro di cinta, di cui oggi restano però scarsissime tracce. Costantino fece edificare soprattutto edifici imperiali e statali a

scopo di rappresentanza: l’Augusteo, cioè un foro rettangolare fiancheggiato da uno dei due edifici riservati al Senato e da una porta che segnava l’ingresso al Palazzo imperiale; il Pretorio, cioè il tribunale; il Campidoglio; l’ippodromo. L’11 maggio del 330 la città fu solennemente inaugurata. Questa «data di nascita», che naturalmente si ispirava al mitico natale di Roma del 21 aprile 753 a.C., fu celebrata come festa nazionale per tutti i secoli successivi. Alla morte di Costantino, solo una parte del progetto urbanistico era stata realizzata. Durante il lungo regno di suo figlio Costanzo II (337-361) fu costruita la prima S. Sofia, che le fonti definiscono come Grande Chiesa. Nel 356 fu anche consacrata la chiesa dei Ss. Apostoli, destinata a contenere le spoglie del fondatore della città.

ISTANBUL

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COSTANTINO

Quasi una rivoluzione L’ippodromo aveva a Costantinopoli la stessa funzione del circo a Roma: vi si svolsero infatti giochi gladiatori e venationes (combattimenti tra bestie o di uomini con bestie) fino al XII sec.

Costruito da Costantino il Grande sull’antica pista da corsa voluta da Settimio Severo nel 203, l’ippodromo di Costantinopoli fu inaugurato nel 330. Misurava circa 430 m di lunghezza per 117-125 m di larghezza e si calcola che potesse accogliere dai 30 000 ai 50 000 spettatori.

Sul lato orientale si trovava la loggia imperiale o kathisma, comunicante con il Palazzo. Da qui l’imperatore e la sua famiglia, insieme ai membri del Senato e agli alti dignitari di corte, seguivano le corse e i giochi. 26

ISTANBUL


L’IPPODROMO DI COSTANTINOPOLI

Gli spettatori prendevano posto su tribune, inizialmente in legno, dal X sec. in marmo.

Sulla sommità di una torre nell’area della partenza era collocata la quadriga in bronzo dorato i cui cavalli furono portati a Venezia nel 1204.

Le gare vedevano correre sia cavalli montati che bighe, anche se lo spettacolo piú apprezzato era la corsa delle quadrighe. I partecipanti dovevano in genere compiere sette giri della pista, e la gara si ripeteva quattro volte al mattino e quattro al pomeriggio.

Al segnale convenuto, venivano aperti i cancelli dei carceres, le gabbie di partenza.


GIUSTINIANO ED ERACLIO

IL LEGISLATORE E IL SALVATORE A distanza di poco meno di un secolo salgono al trono di Bisanzio due personaggi di straordinario spessore. Il primo, Giustiniano, è artefice di importanti interventi in campo culturale e giuridico. Il secondo , Eraclio, risolleva le sorti di un impero minacciato su piú fronti e, in particolare, dai Persiani


Istanbul, S. Sofia. Mosaico raffigurante la Vergine con il Bambino, affiancata da Giustiniano I (a sinistra) e Costantino che offrono, rispettivamente, un modellino della chiesa stessa e della città di Costantinopoli. La cattedrale fu ricostruita da Giustiniano su un preesistente edificio di culto tra il 532 e il 537; il mosaico si data tra la fine del X e gli inizi dell’XI sec.


TEMPO DI RESTAURAZIONE

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a fondazione di Costantinopoli apre la strada a una divisione di fatto dell’impero in due parti. I Bizantini – che chiamano se stessi Romani – si considerano eredi di Augusto e legittimi continuatori del potere imperiale romano; l’uso della lingua greca e l’influsso delle antiche tradizioni slave e asiatiche, specialmente di Siria e di Palestina, allontanano sempre piú la cultura di Costantinopoli da quella della civiltà romano-latina. Nel 395, con la morte di Teodosio, la divisione diventa ufficiale: egli aveva infatti assegnato la parte orientale al figlio primogenito Arcadio, quella occidentale al cadetto Onorio, al quale sarebbe poi succeduta la sorella Galla Placidia in qualità di reggente per il figlio Valentiniano. E mentre l’Occidente si avvia alla dissoluzione, l’Oriente si consolida economicamente e politicamente fino a tentare un secolo dopo con la guerra greco-gotica, sotto Giustiniano (527565), la riconquista dell’Italia e degli altri territori occupati dai barbari. La crisi che, nel 476 d.C., aveva portato alla caduta della metà occidentale dell’impero romano fu superata dall’organismo piú sano della sua parte orientale, economicamente forte e densamente popolata. Tuttavia, nonostante la separazione, l’idea dell’unità imperiale era rimasta ben viva, cosí come conservava forza il

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del Regno dei Vandali (533-534) di gran parte del Regno degli Ostrogoti (535-554) di porzione del Regno iberico dei Visigoti (533) di altri territori Impero alla morte di Giustiniano (novembre 565)

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Impero all’avvento di Giustiniano (agosto 527)

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L’IMPERO ROMANO D’ORIENTE all’epoca di Giustiniano (527-565)

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All’inizio degli anni Trenta, un feroce conflitto era scoppiato tra il potere centrale e le organizzazioni cittadine costituitesi intorno alle fazioni dell’ippodromo (i cosiddetti «demi»). Giustiniano, che in un primo tempo aveva infatti fa-

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Nella pagina accanto, a sinistra valva di dittico in avorio nota come Avorio (o Dittico) Barberini, raffigurante l’imperatore d’Oriente Anastasio I o, piú probabilmente, Giustiniano I trionfante. Prima metà del VI sec. Parigi, Museo del Louvre. In basso cartina della regione mediterranea con l’impero romano d’Oriente e i territori riconquistati da Giustiniano.

Azzurri e verdi contro l’imperatore

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mito dell’universalità del dominio romano. Era un «diritto naturale» dell’imperatore romano riconquistare l’eredità di Roma e liberare l’Occidente dai barbari e dagli eretici per riportare ai suoi antichi confini l’unico impero romano e cristiano ortodosso. Giustiniano I (527-565), figlio di un contadino proveniente da una provincia balcanica, pose la sua azione politica al servizio di questa missione, organizzando un’imponente campagna militare finalizzata a liberare la Spagna, l’Africa e l’Italia dalle popolazioni barbariche che le avevano occupate. Dopo vent’anni di guerra, l’obbiettivo fu raggiunto, ma al prezzo di enormi sacrifici in termini di uomini e di mezzi. Inoltre, le guerre in Occidente sguarnirono la frontiera sul Danubio e allentarono le difese dell’Impero contro i Persiani. Nel 532 Giustiniano stipulò un trattato di «pace eterna» con il sovrano sasanide Cosroe I Anushirvan (531-579), assicurandosi libertà di movimento in Occidente a prezzo del pagamento di un oneroso tributo.

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Il legislatore e il salvatore


vorito la fazione degli azzurri contro i verdi, protetti a loro volta dall’imperatore Anastasio (491-518), decise presto di liberarsi dell’influenza di tali ambiti e prese misure radicali contro di essi, colpendo indiscriminatamente tutte le fazioni, che dunque si unirono in una lotta comune contro l’imperatore. Nell’ippodromo gli azzurri e i verdi fecero risuonare un grido di guerra che alludeva chiaramente all’alleanza stabilita contro Giustiniano: «Molti anni ai misericordiosi verdi e azzurri!». La rivolta ebbe inizio l’11 gennaio 532; al grido di «Nika, Nika», («Vinci! Vinci!»), con cui il popolo era solito incitare i propri campioni nelle corse di carri. Essa assunse quasi subito proporzioni del tutto inaspettate e la città fu messa a ferro e fuoco. Un nipote di Anastasio venne proclamato imperatore e acclamato nell’ippodromo. Giustiniano pensando che tutto fosse ormai perduto, decise di fuggire, ma fu trattenuto da sua moglie Teodora. Allora, entrarono in azione i due futuri generali delle guerre gotiche, Belisario e Narsete. Quest’ultimo ruppe il fronte dei rivoltosi, intavolando una trattativa con gli azzurri; il primo, invece, irruppe nell’ippodromo con truppe scelte fedeli all’imperatore

A destra Ravenna, S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante Giustiniano in età avanzata. VI sec.

e fece massacrare gli insorti, presi alla sprovvista. L’autocrazia imperiale usciva cosí vincitrice dallo scontro con le fazioni cittadine, e la vittoria fu celebrata con la ricostruzione della chiesa di S. Sofia, che era stata distrutta dall’incendio appiccato nel corso della rivolta.

Dal tracollo alla rinascita

La catastrofe che Giustiniano aveva cercato in tutti i modi di rinviare si abbatté sull’impero all’inizio del VII secolo, quando Bisanzio dovette affrontare guerre sia nei Balcani che in Asia. Le lotte interne che avevano dilaniato l’impero nei decenni precedenti lo avevano fortemente indebolito e le sue capacità di difesa e di reazione diminuivano di anno in anno. Nel 605 un’armata persiana varcò la frontiera mesopotamica e prese la fortezza di Dara; di qui, irruppe in Anatolia, occupando Cesarea e giungendo addirittura fino a Calcedonia, nelle immediate vicinanze di Costantinopoli. Nello stesso tempo, sui Balcani si riversava la marea delle invasioni di Slavi e Avari. L’impero era sull’orlo del baratro. A salvarlo fu un’azione partita dalla periferia: (segue a p. 36) ISTANBUL

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TEMPO DI RESTAURAZIONE

Il legislatore e il salvatore

SANTA SOFIA

L’APOGEO DELL’ARCHITETTURA BIZANTINA Nelle intenzioni del suo fondatore, Costantinopoli doveva possedere una cattedrale in tutto degna della nuova capitale di un impero universale e cristiano. La primitiva cattedrale, dedicata da Costantino alla santa Pace (Irene), era una chiesa di dimensioni abbastanza modeste, troppo piccola per il suo ruolo di guida della Chiesa d’Oriente. Occorreva invece un edificio che potesse rivaleggiare con la splendida basilica di S. Giovanni in Laterano che lo stesso Costantino aveva appena offerto al pontefice di Roma. Verso il 340 vengono dunque gettate le fondamenta di un’immensa chiesa a pianta centrale dedicata alla santa Sapienza (Sofia), la piú grande costruita fino a quel momento, probabilmente a cinque navate con copertura a capriate lignee. Dopo due decenni di lavoro, nel 360 l’edificio viene consacrato, ma ben presto è gravemente danneggiato da un incendio (404) che ne impone la parziale ricostruzione e la riconsacrazione (415). Durante la rivolta di Nika (532) la chiesa viene distrutta sino alle

Istanbul, S. Sofia. Ricostruito in epoca giustinianea, l’edificio sostituí la basilica consacrata nel IV sec. dall’imperatore Costanzo Il, devastata da due incendi. Dopo la conquista ottomana, S. Sofia fu trasformata in moschea e vi furono aggiunti i quattro minareti.

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ISTANBUL

fondamenta dalle fiamme appiccate al quartiere, assieme a S. Irene, alle Terme di Zeuxippo e a buona parte del Palazzo imperiale. Questa seconda distruzione, che cancella quasi ogni traccia delle prime due fasi, fornisce a Giustiniano l’occasione per il terzo, definitivo rifacimento che, nonostante alcuni successivi rimaneggiamenti, ha vinto la sua battaglia contro il tempo e la violenza degli uomini.

Un edificio difficile da classificare La costruzione della cattedrale giustinianea si svolge fra il 532 e il 537, sotto la direzione di due architetti, Antemio di Tralle e Isidoro di Mileto. Dalle loro mani è uscito un edificio di difficile classificazione, che «ai contemporanei parve forse un capolavoro stravagante, ma per le generazioni successive divenne un’opera leggendaria e un simbolo», come ha scritto Cyril Mango, ed è per noi il vertice indiscusso dell’architettura bizantina. S. Sofia ha una pianta rettangolare, con una


piccola abside di forma poligonale opposta all’ingresso, come se le due metà di una chiesa di forma ottagonale (come, nella stessa Costantinopoli, la chiesa dei Ss. Sergio e Bacco, del 527-536) fossero state separate per introdurre nel mezzo lo spazio coperto dalla cupola. L’ingresso è preceduto da un vasto nartece a doppio portale con copertura a crociere, davanti al quale si apre un cortile circondato da portici a colonne. L’interno è diviso in tre navate, di cui la centrale, amplissima, è sormontata dalla cupola rotonda di ben 31 m di diametro, attraversata da fitte nervature e poggiante su quattro archi sorretti da giganteschi piloni angolari sagomati. All’esterno, in corrispondenza dei piloni, si innalzano quattro grandi contrafforti che raggiungono quasi la base della cupola, per ovviare ai problemi di

stabilità manifestatisi probabilmente già in fase di costruzione. Gli spazi compresi fra i piloni e le zone dell’abside e dell’ingresso sono coperti da mezze cupole sorrette a loro volta da esedre a colonne. A distinguere le navate laterali, prive di absidi, da quella centrale è un ordine di cinque arcate su colonne alte e ravvicinate, sopra le quali è un secondo ordine di sette arcate piú basse che ospita il matroneo, cioè la galleria sopraelevata che le rigide prescrizioni della liturgia antica riservavano alle donne (alle quali non era permesso unirsi al resto dell’assemblea durante le cerimonie).

Corona di fasci di luce La muratura sotto gli archi d’imposta della volta è traforata da due file sovrapposte di finestroni ad arco, con dimensioni crescenti dai lati al centro in quelli della fila superiore. Altre finestre si aprono nella muratura dell’abside e delle navate laterali, ma soprattutto alla base della cupola, dove formano una corona luminosa, come se i fasci di luce, simbolo dell’onnipotenza divina, la sostenessero miracolosamente. I contemporanei ammiravano con stupore quello spettacolo: secondo lo storico Procopio di Cesarea, la chiesa «è incredibilmente ricca di splendida luce solare» e «si può dire anzi che lo spazio non sia illuminato dall’esterno, ma che la sua luminosità sia generata dall’interno». Come sottolinea ancora Procopio, S. Sofia è un edificio senza confronti. Nessuna chiesa

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TEMPO DI RESTAURAZIONE

Il legislatore e il salvatore A sinistra mosaico che ritrae san Giovanni Battista.

minareto in mattoni

mausoleo di mehmet iii

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battistero

dischi calligrafici realizzati da kazasker mustafa izzet efendi

fontana per abluzioni

A sinistra mosaico nel quale compare la Vergine con il Bambino, affiancata da Giovanni II Comneno e dall’imperatrice Irene. 34

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L’interno di S. Sofia. Il vasto spazio vuoto sovrastato dalla cupola fu ricavato cimentandosi con soluzioni mai prima d’allora sperimentate e la cupola stessa fu per oltre mille anni la piú grande mai realizzata, prima che si mettesse mano alla costruzione della nuova basilica vaticana di S. Pietro.

bizantina raggiunge la metà delle sue dimensioni, né mai era stata tentata in precedenza la costruzione di una cupola cosí grande e ardita, che per di piú non poggiava su murature piene, ma solo su quattro sostegni. Per realizzare lo spettacolare effetto dell’enorme spazio vuoto sotto la cupola, che il visitatore può godere dal centro della navata principale, i progettisti si sono avventurati in un territorio ignoto, affrontando problemi di statica quasi insormontabili per l’epoca, dato che nessun architetto era in grado di calcolare con esattezza le spinte di una struttura di tali dimensioni.

Il crollo della cupola In effetti, la cupola cominciò a deformarsi già durante la costruzione; e a piú riprese si verificarono cedimenti che ne compromisero la stabilità, tanto che a soli vent’anni dalla fine dei lavori, nel 558, essa crolla. Poiché Isidoro e Antemio sono già morti, la cupola viene ricostruita da Isidoro il Giovane, figlio dell’omonimo architetto giustinianeo, che ebbe l’accortezza di aumentarne l’altezza e ampliare gli archi di imposta cosí da ridurre il diametro della base, generando minori difficoltà di sostegno. È questa sostanzialmente la cupola giunta fino a noi, uno dei capolavori dell’architettura di tutti i tempi, degna di reggere il paragone con la cupola michelangiolesca di S. Pietro a Roma. Non è facile farsi un’idea esatta

dell’interno di S. Sofia in età bizantina, ora che la trasformazione in moschea ha cancellato gli arredi e gli apparati liturgici del tempio cristiano. È ancora possibile, però, cogliere l’atmosfera che Isidoro e Antemio hanno voluto creare dissimulando le enormi dimensioni della struttura con un’articolata distribuzione degli spazi. All’interno i volumi si moltiplicano e si confondono, impedendo allo spettatore di cogliere l’edificio con un unico sguardo oppure di osservarne con chiarezza i limiti celati dietro le ombre dei colonnati. Poiché l’edificio si sottrae alla conoscenza piena, ne risulta un senso di mistero, che nei momenti di piú intensa illuminazione evoca la visione e il sogno, tanto forte è il contrasto fra luce e ombra. Un tempo l’illuminazione era forse anche piú intensa, grazie al rivestimento in mosaico aureo della cupola. L’incrociarsi dei fasci luminosi provenienti da direzioni diverse, lo splendore dei materiali (soprattutto delle colonne di porfido rosso nell’abside e di verde antico nella navata), il gioco degli intagli marmorei sparsi ovunque non hanno uguali nel mondo bizantino né in quello occidentale. All’indomani della conquista ottomana, nel 1453, la basilica viene convertita in moschea e mantiene questa funzione fino al 1935. Viene quindi trasformata in museo e, dal 2020, ha assunto lo status di Grande Moschea di Santa Sofia. ISTANBUL

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TEMPO DI RESTAURAZIONE

nel 608, l’esarca di Cartagine Eraclio si ribellò contro il debole e tirannico imperatore Foca, ottenendo l’appoggio dell’élite bizantina che governava l’Egitto. Una grande spedizione navale partí alla volta della capitale imperiale: alla sua guida c’era il figlio dell’esarca, anch’egli di nome Eraclio. Sbarcato a Costantinopoli nel 610, quest’ultimo catturò e fece giustiziare Foca, facendosi subito dopo proclamare imperatore dal patriarca. Come ha scritto il grande storico Georg Ostrogorsky (1902-1976), «cosí finisce il periodo tardo-romano o primo periodo bizantino. Dalla crisi, uscí un’altra Bisanzio, liberata ormai dall’eredità del decadente stato tardo-romano, e alimentata da nuove forze. A questo punto ha inizio la storia bizantina propriamente detta, cioè la storia dell’impero greco-medievale» (Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1968, p. 73).

La lotta per l’esistenza

Il VII secolo si era aperto con una poderosa offensiva persiana ai danni dell’impero bizantino, e la salita al potere di Eraclio non sembrò mutare significativamente il corso degli eventi: nel 614 i Persiani presero Damasco e Gerusalemme, mentre quasi tutta l’Asia Minore era ormai sotto il loro dominio. Nel 619 ebbe inizio una grande campagna contro l’Egitto, e ben presto esso venne tolto al dominio di Bisanzio, causando gravi problemi all’approvvi36

ISTANBUL

Il legislatore e il salvatore

L’uccisione di Cosroe II da parte di Eraclio, particolare di una placca smaltata, appartenente alla decorazione di una croce. Manifattura francese, 1160-1170. Parigi, Museo del Louvre. Nel 602, il sovrano sasanide aprí le ostilità contro i Bizantini; le sue truppe penetrarono in Asia Minore e in Siria, conquistarono Damasco, Gerusalemme e Alessandria e assediarono Costantinopoli. Pochi anni dopo, Eraclio, successore di Foca, gli tolse tutte le conquiste.

gionamento di Costantinopoli. Ma a questo punto ebbe inizio la reazione bizantina: Eraclio, dopo una notevole opera di riorganizzazione della struttura amministrativa e militare imperiale, intraprese una vigorosa controffensiva e, nel 628, sconfisse e distrusse l’armata persiana presso Ninive; l’avanzata vittoriosa dei Bizantini continuò, e, in breve tempo, tutti i territori un tempo appartenuti all’impero – Egitto compreso – furono loro restituiti.

L’avvento dei «melchiti»

Riconquistato l’Egitto, Eraclio tentò di risolvere anche la questione religiosa, imponendo con la forza un compromesso fra ortodossi e monofisiti – la cosiddetta ékthesis («esposizione») – che tuttavia non ebbe alcun successo. In Egitto, l’esecutore materiale dei progetti centralizzatori di Eraclio in campo religioso fu il governatore e patriarca Kyros, inviato dall’imperatore ad Alessandria nel 631 per ristabilirvi l’ordine; costui insediò prelati calcedonesi – definiti anche «melchiti» (dalla radice semitica mlk, che indica il «sovrano») in quanto seguaci della dottrina religiosa ortodossa approvata dall’imperatore – su quasi tutti i seggi episcopali egiziani, e in tal modo si inimicò la maggioranza della popolazione. L’anno che segna l’inizio della riscossa bizantina contro l’impero sasanide (622) è lo stesso dell’egira: mentre Eraclio colpiva duramente



TEMPO DI RESTAURAZIONE

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ISTANBUL

Il legislatore e il salvatore


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Cartina nella quale sono riportate le conquiste islamiche dall’anno dell’egira (622) alla morte di Maometto (632). Nella pagina accanto miniatura di scuola ottomana raffigurante l’arcangelo Gabriele che appare a Maometto (ritratto con il volto velato), ritiratosi sul Monte Hira, e gli rivela la parola di Dio. XV sec. Istanbul, Palazzo Topkapi.

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Impero sassanide Regno dei Franchi Regno dei Longobardi l’impero persiano, Maometto poneva le basi dell’unità religiosa, politica e militare degli Arabi. Pochi anni dopo la morte del Profeta (632) ebbero inizio le grandi invasioni che condussero alla fondazione di un grande Stato arabo progressivamente dilatatosi su buona parte del mondo antico. Appena ultimata la conquista della Siria (636-638), gli Arabi si misero sulla via dell’Egitto, agli ordini del grande generale ‘Amr ibn al-As. La conquista iniziò con effettivi numerici che potrebbero apparire irrisori (‘Amr si sarebbe presentato in Egitto con un corpo d’armata di appena 4000 cavalieri, solo in seguito rafforzato di altri 5000 uomini), e tuttavia essa fu rapida, completa e relativamente indolore.

Conquistatori... benvoluti

La spiegazione di questo dato di fatto è in buona parte da ricercarsi nelle condizioni interne egiziane: come si è visto, dopo la cacciata dei Persiani, il legame dell’Egitto con Costantinopoli, lungi dal rafforzarsi, si era deteriorato a causa dei contrasti religiosi e dell’oppressiva politica fiscale bizantina; in particolare, l’opera di Kyros, l’inviato di Eraclio, persecutoria nella sfera religiosa e vessatoria in quella fiscale, contribuí largamente a creare fra gli Egiziani un’atmosfera di simpatia nei confronti dei conquistatori.

O ce a n o Ind i ano o

L’unico scontro terrestre di una certa entità nel quale i Bizantini contrastarono gli Arabi si svolse nel luglio 640 presso la fortezza di Babylon, all’apice del Delta, non lontano dall’odierna Cairo: ‘Amr conseguí una vittoria indiscutibile e Kyros fu costretto a trattare con gli invasori, tentando di ottenere per sé le migliori garanzie. Presentatosi a Costantinopoli per rendere conto del suo operato, Kyros fu sconfessato e bandito da Eraclio, ma poco dopo l’imperatore morí (641) e venne meno ogni prospettiva di un intervento diretto dell’esercito imperiale a sostegno dell’Egitto. Pochi mesi dopo la morte di Eraclio, Babylon capitolò e ‘Amr mosse alla volta di Alessandria, che si arrese il 29 settembre del 642. Secondo alcune fonti, in tale occasione — su ordine del califfo ‘Umar — sarebbe stata distrutta la celeberrima biblioteca alessandrina; ad ‘Amr ibn al-As, propenso a risparmiare la biblioteca, il califfo avrebbe obiettato: «se gli scritti dei Greci sono in accordo con il libro di Dio, sono inutili e non è necessario preservarli; se invece sono in disaccordo, sono perniciosi e vanno distrutti». In realtà, è (segue a p. 42)

In basso solido in oro con Eraclio I e il figlio Eraclio Costantino (il futuro imperatore Costantino III), raffigurati affiancati, frontalmente e con corone sormontate da una croce. 616-625 circa. Cleveland, Cleveland Museum of Art.

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YEREBATAN SARAYI LA CISTERNA DELLE MERAVIGLIE

Uno dei piú splendidi edifici bizantini di Istanbul è la cosiddetta «Cisterna Basilica», situata a sud-ovest di S. Sofia. Costruito sotto Giustiniano, questo grande serbatoio d’acqua sotterraneo è lungo 140 m e largo 70 m e copre un’area totale di 9800 mq, con una capacità stimata di stoccaggio dell’acqua di 100 000 tonnellate. Accessibile attraverso una scala di 52 gradini, la cisterna ospita 336 colonne di reimpiego, ognuna delle quali è alta 9 m. Erette a intervalli di 4,80 m l’una dall’altra, esse formano 12 file di 28 colonne ciascuna. Sotto due colonne dell’estremità nord-ovest dell’edificio, utilizzati come basamento, sono collocati due grandi bassorilievi che rappresentano teste di Medusa, provenienti da un edificio di epoca romana. La cisterna ha muri di mattoni alti 4,80 m, e il pavimento, anch’esso coperto da laterizi, è intonacato con uno spesso strato di malta idraulica. In epoca bizantina, la cisterna soddisfaceva le esigenze idriche del Grande Palazzo imperiale. Dopo la conquista di Costantinopoli, essa fu utilizzata per fornire acqua al complesso del Topkapı, dove risiedevano i sultani. Tuttavia, gli Ottomani preferivano l’acqua corrente all’acqua ferma e presto costruirono nuovi impianti idrici. Per la cisterna, iniziò dunque un lungo periodo di abbandono ed essa fu quasi completamente dimenticata. Tuttavia, nel 1544, Pierre Giles, un viaggiatore francese venuto a Istanbul per compiere ricerche di topografia bizantina, nel corso di un’esplorazione dei cunicoli intorno a S. Sofia, riuscí ad entrare all’interno della cisterna al lume di una torcia. La sua scoperta venne presto divulgata e la fama di questo straordinario monumento si diffuse in tutto l’Occidente, attirando visitatori da ogni dove. Nel corso dei secoli, la «Cisterna Basilica» è stata ristrutturata piú volte. In epoca ottomana, un importante restauro fu curato dall’architetto Kayserili Mehmet Aga durante il regno del sultano Ahmad III († 1723). Dopo la realizzazione di un nuovo e sofisticato impianto di illuminazione, la cisterna è nuovamente visitabile, in tutta la sua bellezza e la sua suggestione.

Il monumentale serbatoio d’acqua noto come «Cisterna Basilica». Edificata al tempo di Giustiniano, la struttura colpisce per l’eccezionale numero di colonne, ben 336, utilizzate per la sua costruzione, spogliate da monumenti piú antichi. 40

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TEMPO DI RESTAURAZIONE

molto probabile che questo racconto non sia altro che una tarda leggenda.

Una svolta su piú fronti

L’età di Eraclio rappresenta nella storia bizantina una svolta non solo nella vita politicomilitare, ma anche in quella culturale. Con lui, si chiude la vicenda dell’impero romano d’Oriente e si apre quella dell’impero bizantino, nel vero senso del termine. Un impero caratterizzato dalla completa grecizzazione e dalla 42

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Il legislatore e il salvatore

forte clericalizzazione di tutta la vita pubblica. Se, infatti, nel primo periodo bizantino, la lingua ufficiale della corte, dell’amministrazione e dell’esercito era ancora quella latina, con un vero e proprio bilinguismo fra popolo ed élite, al tempo di Eraclio questa situazione ebbe fine, e la lingua greca, la lingua del popolo e della Chiesa, divenne anche la lingua dello Stato. Ciò produsse tra l’altro importanti cambiamenti nei titoli imperiali: Eraclio stesso riunciò a utilizzare la complessa titola-

Particolare di una miniatura raffigurante il secondo concilio di Nicea (riunito nel 787), dal Menologio di Basilio II. Fine del X sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.


tura latina e si fece chiamare semplicemente basiléus («re»), denominazione che sostituí, appunto, il latino Imperator Caesar Augustus.

Una nuova dinastia

Dopo la caduta della dinastia fondata da Eraclio, che governò su Bisanzio per circa un secolo, l’impero attraversò un periodo di profonda crisi, che ebbe riflessi sul piano economico, sociale, militare e religioso, che terminò alla metà del IX secolo. La svolta fu costituita dalla salita al potere di Basilio I (867-886), il fondatore della dinastia macedone, uomo di umili origini ma di straordinario acume militare e politico. Ripresero anche le conquiste militari: nell’estate del 960 il generale Niceforo Foca, alla testa di una grande flotta, si diresse verso Creta. Dopo un lungo e duro assedio, che durò tutto l’inverno, nel marzo del 961 le sue truppe espugnarono Candia (l’attuale Iraklion), capitale dell’isola, che tornò in mani bizantine dopo quasi un secolo e mezzo di dominio arabo. Erano secoli che a Bisanzio non si ricordava una vittoria cosí importante. Ma Niceforo non si fermò: nel 962 invase la Siria e conquistò Aleppo, eliminando la testa di ponte araba piú pericolosa per l’impero bizantino. Il premio di queste conquiste fu il trono: Niceforo fu proclamato infatti imperatore a Cesarea nel 963 e il 16 agosto dello stesso anno ricevette la corona imperiale a Costantinopoli. L’opera di Niceforo Foca fu continuata da Giovanni Tzimisce (969-976), che assoggettò la Bulgaria e portò a termine una grande spedizione in Siria contro i Fatimidi, che nel 971 avevano attaccato Antiochia. Tzimisce li respinse riconquistando anche Emesa, Baalbek, Damasco,

IL «GRANDE SCISMA» Circa un quarto di secolo dopo la morte di Basilio II, nel 1054, si verificò ufficialmente quella separazione fra la Chiesa romana di lingua e rito latino e il Patriarcato di Costantinopoli, con tutte le diocesi a esso sottoposte o collegate, le cui basi politico-dottrinali erano già state poste all’epoca del patriarca Fozio. Il casus belli fu offerto dai contrasti fra il papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, a proposito della questione della processione dello Spirito Santo (la cosiddetta controversia del filioque). La scomunica, da parte del papa, lanciata solennemente a Michele Cerulario in S. Sofia da tre legati pontifici il 15 luglio 1054, sembrò ai contemporanei un episodio di scarso rilievo e non irreparabile, come poi in realtà si rivelò. Esso va comunque collocato nel piú ampio quadro del conflitto fra la Chiesa latina e la Chiesa greca che ha la sua origine nel progressivo declino dell’importanza politica di Roma dopo le invasioni barbariche, di fronte a Bisanzio, sede dell’impero e ben cosciente della sua superiorità politica, culturale ed economica di «nuova» o «seconda Roma».

In alto Michele I Cerulario, patriarca di Costantinopoli, con alcuni ecclesiastici, miniature tratte dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

Tiberiade, Nazareth e Cesarea. Ma davanti a Gerusalemme dovette fermarsi. Alla morte di Tzimisce, salí al trono quello che può considerarsi uno dei piú importanti imperatori della storia bizantina: Basilio II (976-1025). Dopo aver domato una serie di ribellioni in Macedonia e nei Balcani, Basilio dovette affrontare una grande rivolta dei magnati bizantini, per domare la quale egli fece appello al principe russo Vladimiro, offrendogli in moglie sua sorella Anna e invitandolo alla conversione al Cristianesimo. La cristianizzazione dello Stato di Kiev fu uno straordinario successo per Bisanzio e pose le basi allo sviluppo culturale e religioso della Russia. Nel 1001, Basilio II apparve di nuovo nei ISTANBUL

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TEMPO DI RESTAURAZIONE

Il legislatore e il salvatore Balcani, dove portò a termine una lunga campagna militare contro Slavi e Bulgari, riportando tutta la regione sotto il controllo bizantino e guadagnandosi l’appellativo di «Bulgaroctono» («Uccisore di Bulgari»). Il 15 dicembre 1025 morí lasciando ai suoi successori un impero che si estendeva dalle montagne dell’Armenia fino all’Adriatico e dall’Eufrate fino al Danubio. Con la sua morte si chiude l’età eroica di Bisanzio inaugurata da Eraclio quattro secoli prima.

DA LEGGERE

· · · · · · In alto rilievo raffigurante san Demetrio. 1000-1050. A destra Eraclio riporta la Vera Croce a Gerusalemme, particolare di una placca smaltata, appartenente alla decorazione di una croce. Manifattura francese, 1160-1170. Nantes, Musée Dobrée.

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George Tate, Giustiniano, Salerno Editrice, Roma, 2006 Hugh Kennedy, Le grandi conquiste arabe, Newton Compton, Roma 2008 Walter E. Kaegi, Heraclius: Emperor of Byzantium, Cambridge University Press, Cambridge, 2003 Leslie Brubaker, Inventing Byzantine Iconoclasm, Bristol Classical Press, Bristol 2012 Digenis Akritas: poema anonimo bizantino, a cura di Paolo Odorico, Giunti, Firenze 1995 Warren Treadgold, The Byzantine Revival, Stanford University Press, Stanford 1988



COSTANTINOPOLI

LA REGINA DELLE CITTÀ L’imperatore «cristiano» volle che la sua capitale rifulgesse di splendidi monumenti. Ancora oggi, molti di essi adornano il cuore della moderna Istanbul


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opo la conquista longobarda dell’Italia (568), Costantinopoli restò l’unica capitale dell’impero romano, ormai limitato alla parte orientale. Se Giustiniano aveva dotato la città di un gran numero di monumenti, i suoi successori, a lungo impegnati nelle guerre contro Persiani e Arabi, si limitarono a restaurare mura e fortificazioni. La politica edilizia degli imperatori bizantini riprese solo dalla metà del IX secolo, in corrispondenza con la fioritura economica e finanziaria dovuta alle grandi conquiste dei sovrani medio-bizantini. Basilio I (867-886) fece restaurare venticinque edifici sacri e ne costruí altri otto. L’imperatore Romano III Argirio (1028-1034) fece erigere uno splendido santuario dedicato alla Vergine Maria su una collina che sovrastava il Mare di Marmara: il suo nome, Peribleptos, alludeva al

Un tratto delle mura che cingevano Costantinopoli, innalzate in epoca teodosiana.


COSTANTINOPOLI

Regina delle città Miniatura raffigurante l’Ascensione, da una raccolta di omelie di Giacomo di Kokkinobaphos. 1100-1150 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. fatto che esso era visibile da ogni punto della città. Nel 1136, Giovanni II Comneno promosse invece la costruzione di un complesso tripartito consacrato a Cristo Pantokrator (Onnipotente), la cui mole domina tuttora la cosiddetta «quarta collina» di Costantinopoli.

Una nuova residenza imperiale

All’inizio della dinastia dei Comneni (10811185) risale un’importantissima modifica urbanistica, gravida di conseguenze per il futuro assetto della città: l’imperatore Alessio I fece infatti costruire nel quartiere delle Blacherne, cioè nella zona nord-occidentale di Costantinopoli, nei pressi delle grandi fortificazioni volute nel VII secolo da Eraclio, una grande sala da ricevimenti, a cui ben presto se ne aggiunse una seconda eretta da Manuele I. Ben presto, i sovrani bizantini trasferirono la loro residenza in quest’area, abbandonando il Grande Palazzo che doveva essere molto degradato e che non era piú sicuro. Nel XIII secolo, tutta la corte bizantina si installò nella nuova sede, nota come «Palazzo delle Blacherne» (oggi, Tekfur Sarayı). Una delle principali preoccupazioni degli imperatori bizantini era quella di rifornire la città

FORME AUREE E MERAVIGLIE SCINTILLANTI Costantino Rodio, poeta bizantino del X secolo, è autore di una celebre descrizione della chiesa dei Ss. Apostoli di Costantinopoli in 981 trimetri giambici, che, oltre a fornire importanti elementi per l’architettura della basilica, colma una lacuna nella storia dell’arte con la descrizione dei mosaici che la decoravano. Costantino scrisse anche questo inno alla capitale dell’impero, nel quale egli esalta con entusiasmo la bellezza e la gloria della regina delle città. Eccone il testo: «Qual è, infatti lo straniero che giungendo in questo mare e vedendo profilarsi all’orizzonte tutto questo, e poi avvicinandosi alla Città da tutti celebrata, non è subito colto da stupore alla sua vista e non rimane attonito davanti alla sua sublimità, e pieno di meraviglia non loda la sua eccelsa potenza rendendo gloria a Dio, quando scorge tanti e tali monumenti, di cui trabocca con straordinaria ricchezza? O, percorrendo spedito la terra, qual è il viandante, l’esperto pedone,

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il quale, reduce da un cammino lungo e faticoso, quando da lontano posa lo sguardo su tutto questo, sulle torri che svettano nel cielo e soprattutto sulle altissime colonne simili a giganti che avanzano possenti, e sui palazzi e sui templi superbi che innalzano al cielo le enormi cupole, qual è il viandante che non appare subito lieto ed appagato e non placa l’ardore della sua anima, e subito non si rallegra scorgendo la bella città dalle auree forme ingioiellata che dà il benvenuto agli stranieri, prima ancora che arrivino a lei, con lo scintillio delle sue meraviglie? E chi è che, spintosi alle mura e avvicinatosi alle porte, subito non la saluta e chinato il collo non si prostra giú a terra, sul nobile suolo, e dicendo, “Salve, gloria dell’universo” non entra in città pieno di gioia?”». (da: Silvia Ronchey e Tommaso Braccini, Il romanzo di Costantinopoli, Einaudi, Torino, 2010, pp. 7-8)


A sinistra l’obelisco di Teodosio, nell’area un tempo occupata dall’ippodromo di Costantinopoli e, in alto, una delle facce del basamento del monolite. Qui sopra il circo e l’ippodromo di Costantinopoli, incisione tratta dall’Imperium Orientale di Anselmo Banduri. 1711.

di generi alimentari, e in particolare di cereali. Il Libro del Prefetto elenca tra i generi alimentari venduti nei mercati pane, olio, formaggio, legumi, vino, burro, carne, pesce. È noto che i prodotti facilmente deperibili erano coltivati in città, nell’area tra le mura di Costantino e quelle di Teodosio II, che garantiva forniture ortofrutticole bastanti per 300 000 persone. La frutta veniva soprattutto dalla costa asiatica del Mare di Marmara. Una tale abbondanza di prodotti faceva sí che la vita, a Costantinopoli, fosse certo piú facile che altrove. In città vivevano comunque molti senzatetto, e altri poveISTANBUL

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COSTANTINOPOLI

Regina delle città

UNA TESTIMONIANZA PREZIOSA L’imperatore Leone VI fissò in una serie di ordinanze, nei piú minuti particolari, tanto le funzioni dei vari uffici della corte e dell’amministrazione, quanto l’ordine, le attribuzioni e i doveri delle corporazioni artigianali e mercantili bizantine. Particolare interesse presenta la sua ordinanza conosciuta col nome di Libro del Prefetto, poiché ci fa conoscere l’ordinamento corporativo di Costantinopoli nel X secolo e ci fornisce informazioni straordinariamente utili sulla vita economica e sociale della città.

ippodromo

chiesa di s. stefano

maneggio

sala aurea

palazzo di giustiniano faro

ri venivano alloggiati in ospizi. Numerosissime erano le osterie che ristoravano la gente comune, ma che, in alcuni casi, erano anche luogo di risse, violenze e litigi, al punto che la loro attività era rigidamente regolamentata dallo Stato. Non mancava neppure la prostituzione: un celebre postribolo era situato nel quartiere piú importante della città, nei pressi della Mese, la strada che collegava S. Sofia con la zona nord. 50

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A causa dei numerosi viaggiatori e della densità della sua popolazione, la città era particolarmente soggetta a epidemie, che ebbero per conseguenza una notevole diminuzione della cittadinanza. La famosa «peste nera» che colpí l’Europa occidentale nel XIV secolo non la risparmiò. Fra le malattie piú comuni degli abitanti di Costantinopoli erano i reumatismi e l’artrosi, dovuti alle condizioni climatiche e al


pietra militare d’oro (milion) santa sofia

colonna di giustiniano terme di zeuxippo curia del senato

quartieri della guardia di palazzo

concistoro palazzo della magnaura

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(chiesa nuova)

stadio del polo

freddo e all’umidità delle abitazioni. La città era dotata di alcuni centri di cura, spesso donati dagli imperatori, ma non è chiaro chi potesse accedervi: si suppone che fossero riservati ai membri della corte e alle piú alte cariche ecclesiastiche. A vari monasteri erano comunque annessi anche orfanotrofi e ospizi per anziani, che certo non risolvevano i problemi di una città estremamente sovrappopolata.

Disegno ricostruttivo del Grande Palazzo di Costantinopoli, residenza degli imperatori bizantini dal 330 all’XI sec.

DA LEGGERE

· ·

ilvia Ronchey, Tommaso Braccini, Il romanzo S di Costantinopoli. Guida letteraria alla Roma d’Oriente, Einaudi, Torino, 2010. Peter Schreiner, Costantinopoli, Salerno Editrice, Roma, 2009

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BISANZIO E I TURCHI

La conquista selgiuchide

BISANZIO E I TURCHI

LA CONQUISTA SELGIUCHIDE

L’avvento di Saljuq e dei suoi discendenti si rivela ben presto traumatico per Bisanzio. L’assetto geopolitico dell’intera Asia Minore muta radicalmente, con significativi risvolti anche sul piano ideologico e culturale

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a storia dei Selgiuchidi, i nemici piú acerrimi di Bisanzio fino all’avvento degli Ottomani, comincia con un uccello sacro, un grande fiume e un eroe leggendario. L’uccello è il falco, protettore della tribú dei Kınık, appartenente al potente clan turco degli Oghuz; il grande fiume è il Syr-Darya (l’antico Iaxarte), uno dei corsi d’acqua piú importanti dell’Asia centrale, sulla cui riva destra i Kınık – guidati appunto dal loro uccello totemico – vennero a stabilirsi intorno al 950; l’eroe è Saljuq, «Piccola Zattera» o «Piccolo Torrente»: le sue gesta sono narrate in un Malik-nameh, «Libro dei re», opera anonima dell’XI secolo, oggi perduta ma molto citata dagli autori piú tardi. Saljuq era il capo dei Kınık, dapprima al servizio del principe oghuzo, poi – abbandonati il culto dei totem e i riti sciamanici e abbracciato l’Islam – suo acerrimo rivale. Nei loro nuovi possedimenti sul Syr-Darya, i Kınık – che d’ora in avanti assumeranno il nome di Selgiuchidi in onore del loro sovrano-capostipite – si rafforza-

Ani (provincia di Kars, Turchia). La moschea di Minuchir.

rono e cominciarono a espandersi, grazie soprattutto alla straordinaria attività bellica e diplomatica dei figli e dei nipoti di Saljuq, i veri fondatori della nuova dinastia.

Un’espansione inarrestabile

Protagonisti indiscussi dell’ascesa dei Selgiuchidi nel mondo islamico orientale furono Toghrïl Beg e Chaghrï Beg, figli di Arslan Mikail, secondogenito di Saljuq (i primi tre nomi, che significano rispettivamente «Falcone», «Sparviero» e «Leone» – a cui si unisce l’appellativo turco di «Beg», «Signore» – evidenziano la profonda adesione al totemismo delle origini, appena scalfito da un’islamizzazione ancora superficiale). Costoro, dopo aver servito per un periodo il sovrano di Bukhara e Samarcanda e altri dinasti della Transoxiana, seppero accrescere la loro forza sfruttando abilmente il potenziale anarcoide delle masse nomadi turcomanne non integrate nella civiltà urbana iranica, finendo per impensierire seriamente i Ghaznavi-

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BISANZIO E I TURCHI

La conquista selgiuchide

di – la vera grande potenza dell’area. Questi ultimi, fallito il tentativo di ingraziarsi i capi selgiuchidi con un’alleanza matrimoniale, non riuscirono a fermarli neppure sul campo di battaglia: il grande esercito ghaznavide, celebre per i suoi temibili elefanti e le straordinarie macchine belliche, dovette infatti soccombere davanti alle truppe dei nipoti di Saljuq, inferiori di numero ma molto piú agili. Nel 1038 alcune importanti città del Khurasan aprirono le porte ai Selgiuchidi e nello stesso anno Toghrïl Beg si impadroní della gloriosa e ricca città di Nishapur, dando inizio a un cambiamento davvero epocale nella storia della regione. A Nishapur Toghrïl Beg assunse il titolo di «asSultan al-Mua‘zzam» («Sovrano sommo») e si preparò ad affrontare la reazione dei Ghaznavidi, che non si fece attendere; essi infatti gli in54

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viarono contro una grande armata, con tanto di elefanti e macchine da guerra; lo scontro avvenne il 22 maggio 1040 a Dandaqan, presso Marw, dove i cavalieri nomadi di Toghrïl annientarono il poderoso esercito nemico: i Ghaznavidi fuggirono in India e tutto il Khurasan fu abbandonato ai Selgiuchidi.

Alla conquista dell’Iran

La parte occidentale dell’impero ghaznavide cessò di esistere e fu sostituita da un sultanato, governato da Toghrïl e da suo fratello Chaghrï. Se quest’ultimo si dedicò alla definitiva sottomissione del Khurasan e delle regioni circostanti, Toghrïl partí invece alla conquista dell’Iran, in quel tempo frammentato in un nugolo di piccoli regni locali: fra il 1040 e il 1044 furono occupate Ray, Tabriz e Hamadan e la campagna

Ani (Turchia). La cattedrale intitolata alla Vergine Maria. La sua costruzione fu portata a termine nel 1001 e, settant’anni piú tardi, dopo la conquista selgiuchide, il tempio fu trasformato in moschea. Nella pagina accanto, in basso cartina dell’impero selgiuchide alla fine dell’XI sec., nel momento della sua massima espansione.


si concluse nel 1059 con la presa di Isfahan, che divenne una delle capitali dell’impero selgiuchide in formazione. Cinque anni prima, nel 1055, si era inoltre verificato un ulteriore evento epocale: le truppe di Toghrïl provenienti dai territori iraniani si erano infatti impadronite di Baghdad, dove il califfo languiva sotto il giogo della dinastia buyide, che

In alto rilievo selgiuchide raffigurante lo scontro tra due guerrieri. XIII sec. Istanbul, Museo di Arte Turca e Islamica.

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BISANZIO E I TURCHI

La conquista selgiuchide LA BATTAGLIA DI MANZIKERT

La grande battaglia di Manzikert, il primo vero scontro fra l’esercito bizantino e le truppe regolari selgiuchidi, lasciò un segno profondo anche nelle fonti. Secondo gli storici musulmani l’armata di Romano IV sarebbe stata composta da circa 300 000 effettivi, fra i quali numerosi mercenari (Franchi, Russi, Peceneghi, Uzi e Caucasici), mentre il contingente di Alp Arslan non avrebbe raggiunto le 20 000 unità. Questi numeri non sono ovviamente accettati dagli autori bizantini, e oggi si ritiene che Romano non avesse ai suoi ordini piú di 60 000 uomini. In ogni caso, l’imperatore non valutò adeguatamente la forza del nemico: egli infatti divise le sue truppe e lasciò che una parte di esse non partecipassero al combattimento. Nella prima fase della battaglia ci fu l’attacco della cavalleria bizantina: i Turchi dapprima si ritirarono, poi, improvvisamente, si volsero contro il nemico e gli inflissero gravi perdite; ma poco dopo il nucleo

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principale dell’esercito bizantino attaccò i Selgiuchidi e li costrinse a ripiegare. Il giorno successivo, Alp Arslan propose una tregua, ma Romano richiese condizioni inaccettabili: dunque, lo scontro riprese. Mentre l’armata dei Bizantini era sul punto di sfondare al centro dello schieramento rivale, fra loro si diffuse la voce (suscitata ad arte dai rivali politici dell’imperatore) che Romano era stato colpito, e ciò provocò una ritirata generale sotto una vera e propria pioggia di frecce, lanciate dagli abilissimi arcieri turchi a cavallo. Il sovrano fu circondato e, dopo una fuga disperata, fatto prigioniero. Tuttavia, dal punto di vista militare, la battaglia di Manzikert non ebbe per i Bizantini quegli esiti catastrofici che si tende ad attribuirle. La vera tragedia furono infatti gli eventi successivi, e in particolare il lungo periodo di instabilità politica all’interno dell’impero che permise ai Selgiuchidi di occupare rapidamente gran parte dell’Asia Minore.


Miniatura raffigurante i Selgiuchidi che, nella battaglia di Manzikert (1071), sconfiggono i Bizantini e catturano l’imperatore Romano, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skyllitzes. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

aveva lasciato agli Abbasidi un potere esclusivamente nominale. Riconoscente per la cacciata dei Buyidi, il califfo conferí a Toghrïl il titolo di sultano e di «Re d’Oriente e d’Occidente», assegnandogli il compito di riportare all’obbedienza tutto il mondo islamico: il sovrano selgiuchide prese molto sul serio l’incarico affidatogli e lo trasmise idealmente ai suoi successori, che si eressero sempre a protettori del califfato e del sunnismo contro qualsiasi deviazione dall’ortodossia musulmana. Quando – nel 1063 – Toghrïl morí nella città di Ray, l’impero che lasciava in eredità ai suoi successori confinava a occidente con le terre dominate dai cristiani e a oriente si estendeva a perdita d’occhio per le immense pianure dell’Asia centrale. Nello stesso anno – non senza contrasti – fu eletto il nuovo sultano. La scelta cadde su Alp

Arslan («Leone-Eroe»), figlio di Chaghrï Beg e nipote di Toghrïl: un grande guerriero, che seppe tuttavia affidare le chiavi del suo regno a un uomo di pace, il «Gran vizir» Abu Ali alHasan, meglio noto come Nizam al-Mulk («l’Ordinamento del regno»). Grazie al suo aiuto, Alp Arslan divenne presto il sovrano di un regno prospero e unito. La chiave di volta del successo del nuovo capo dei Selgiuchidi fu la sua capacità di incanalare la turbolenza delle truppe turcomanne in un’impresa ambiziosa. Nel 1064 venne conquistata Ani, la capitale dell’Armenia, e sulla sua splendida cattedrale fu eretta una mezzaluna, simbolo destinato a divenire l’emblema dell’impero ottomano e di tutto il mondo islamico. Poi, Alp Arslan si volse verso la Cilicia e infine, dopo aver preso Cesarea, fece irruzione sugli

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BISANZIO E I TURCHI

La conquista selgiuchide

DAL PAGANESIMO ALL’ISLAM La persistenza di elementi pagani nella società selgiuchide, islamizzata – almeno inizialmente – per motivi squisitamente politici (ma non mancano esempi di conversioni sincere e di interessanti correnti mistiche popolari, al limite dell’ortodossia islamica), si rivela assai bene nella saga di Dede Korkut, un’opera molto importante per la massa di informazioni storiche, antropologiche e sociologiche che fornisce. Quasi ogni pagina di questo libro fa emergere i segni dell’antico paganesimo turco: preghiere a una triade divina formata dalla montagna, dall’acqua e dall’albero; allusioni alle attività di dèi e spiriti-guida; cenni al culto dei morti e delle tombe, ecc. Comunque, dalla fine dell’XI secolo, l’influenza delle antiche tradizioni religiose pagane si fece via via meno forte, per divenire, dopo una breve reviviscenza nell’epoca delle invasioni mongole, del tutto marginale. E tuttavia le indagini etnografiche dimostrano che, dopo dieci secoli di islamizzazione, le popolazioni rurali dell’Anatolia conservano ancora numerose credenze connesse al paganesimo delle origini.

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Stele funerarie nel cimitero selgiuchide di Ahlat, nella provincia di Bitlis (Turchia), una vasta necropoli databile tra il XII e il XV sec. In basso iscrizione in caratteri cufici risalente all’età selgiuchide. XI-XII sec. Istanbul, Museo di Arte Turca e Islamica. Nei primi secoli le varie tribú stanziate in Turchia fecero uso di numerosi alfabeti diversi.

altipiani dell’Anatolia. A difesa delle sue terre accorse, alla testa di un grande esercito composto soprattutto da mercenari, lo stesso imperatore bizantino Romano IV Diogene: il 19 (o il 26) agosto 1071, presso la città armena di Manzikert, non lontano dal lago Van, le truppe selgiuchidi annientarono i Bizantini (vedi box a p. 56). Romano IV venne fatto prigioniero e concluse con Alp Arslan un trattato nel quale, in cambio della libertà, si impegnava a pagare una cauzione e un tributo annuo ai suoi avversari. Ma il trattato venne sconfessato dall’élite al potere a Costantinopoli, che scatenò contro l’imperatore di ritorno dalla prigionia turca una vera e propria guerra civile. Fu la catastrofe. Nel 1072 Romano morí, il trattato perse ogni validità e i Selgiuchidi si sentirono autorizzati a una lotta senza quartiere contro i Bizantini, che per giunta commisero l’errore di sottovalutare il nemico. L’imperatore Alessio Comneno, salito al trono nel 1081, credette di risolvere il problema selgiuchide invitando un numeroso contingente turco guidato da Sulayman, un capo militare ostile al sultano, a stabilirsi nei territori

LINGUE E IMPERI Le tribú turche che a partire dal VI secolo d.C. apparvero prepotentemente sulla scena della storia parlavano una molteplicità di dialetti riconducibili a un unico ceppo, denominato «altaico», da cui deriva anche la lingua moderna dell’odierna Turchia. Per scrivere, si utilizzavano numerosi alfabeti, tra i quali il «runico», l’«uighuro» e il «sogdiano»: intorno al IX secolo quest’ultimo si impose come una sorta di «alfabeto nazionale» della quasi totalità delle genti turche, ma in seguito l’avvento dell’Islam ebbe fra i suoi effetti l’affermazione definitiva dell’alfabeto arabo, che divenne l’alfabeto ufficiale dell’impero ottomano (la Repubblica di Turchia, ha invece scelto di utilizzare, con opportune modifiche, l’alfabeto latino). Tuttavia, nei territori dominati dai Turchi, almeno fino al XV secolo, la lingua ufficiale della cultura e dell’amministrazione fu il persiano, perché il turco era considerato inadatto a esprimere concetti elevati: gli stessi Ottomani – sebbene turcofoni – utilizzavano una struttura linguistica e un vocabolario ampiamente condizionati dall’arabo e, appunto, dal persiano.

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Miniatura raffigurante il sultano selgiuchide Alp Arslan seduto in trono con la sua corte, da un’edizione del Jami’ al-Tawarikh di Rashid al-Din. 1307 circa. Edimburgo, Biblioteca Universitaria.

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bizantini, offrendogli come capitale la città di Nicea (in turco Ëznik). Dopo aver conquistato la città di Iconium (Konya), la Cilicia e la Siria del nord, nel 1084 Sulayman prese Antiochia e trasformò la sua cattedrale in moschea, suscitando un’immensa emozione nel mondo cristiano; poi il ribelle marciò su Aleppo, ma qui fu sconfitto e ucciso dalle truppe del sultano, chiamate dalla popolazione.

Il «Re imperatore»

Il successore di Alp Arslan sul trono dei «Grandi Selgiuchidi» (il ramo piú importante della dinastia fondata da Saljuq) assunse il nome di Malikshah – il re («malik») in arabo, l’imperatore («shah»), in persiano – e confermò Nizam al-Mulk nel ruolo di vizir. Il nuovo sultano concentrò gli sforzi sulle regioni orientali del suo impero: penetrò molto a fondo in Asia centrale; ottenne dal califfo la tutela delle città sante d’Arabia, Mecca e Medina; in alta Mesopotamia si impadroní di Amida (Diyarbakır), una delle piú importanti piazzeforti di tutto l’Oriente; infine, intervenne in Siria, ponendo sotto il suo controllo Damasco, Aleppo e Antiochia. L’impero selgiuchide sembrava aver raggiunto il suo 60

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apogeo, ma alla morte di Malikshah, avvenuta nel 1092, le rivalità fra i suoi quattro figli provocarono la parcellizzazione della ragguardevole eredità territoriale lasciata dal sultano. A peggiorare la situazione, si aggiunse la fioritura della celebre setta sciita degli Ismailiti (meglio noti come «Assassini»), che finí per costituire una sorta di «contropotere» fortemente ostile al sultanato turco. Organizzati secondo un rigido schema gerarchico, gli Ismailiti operavano da tempo in territorio persiano e siriano, ed erano riusciti a penetrare all’interno delle istituzioni, facendo opera di proselitismo e lavorando per la distruzione dell’impero di Malikshah e dei suoi successori; dall’alto delle loro imprendibili cittadelle fortificate, i loro leaders seppero elaborare una strategia che univa audaci imprese militari – i famigerati e spettacolari assassinii degli avversari politici – ad abili trattative diplomatiche, e che condusse la setta ad affermarsi come un vero e proprio Stato nello Stato selgiuchide. La situazione politica e militare e gli interessi e i progetti di Malikshah lo condussero a trascurare completamente l’Anatolia. Qui, il ramo selgiuchide guidato dai successori di Sulayman,


dovette fare i conti con i crociati (che prima di dirigersi in Terra Santa tolsero Nicea ai Selgiuchidi, riconsegnandola all’imperatore bizantino, e conquistarono Antiochia ed Edessa) e poi con i Danishmendidi, un’altra tribú turcomanna che aveva fatto irruzione nella regione alla fine dell’XI secolo e aveva eletto come sua capitale Sebaste (Sivas), nel cuore dell’altipiano anatolico. I rapporti fra le due dinastie turche furono inizialmente buoni (per un certo perio-

Miniatura raffigurante Hasan-i Sabah che fa bere vino drogato ad alcuni discepoli nella rocca di Alamut, da un’edizione francese del Milione. 1410 o 1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso la rocca di Alamut, nel Nord della Persia, che fu sede della setta degli Assassini e potrebbe essere la fortezza governata dagli Ismailiti che Marco Polo descrive nel Milione.

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L’ARTE DEL BUON GOVERNO «Nessun re o sovrano può sottrarsi alla necessità di possedere e conoscere questo libro (...), perché piú lo si leggerà piú sarà illuminata la condotta delle faccende civili e religiose nel mondo; piú ampia si aprirà la capacità di conoscere amici e nemici». Cosí affermava con orgoglio Nizam al-Mulk – potentissimo primo ministro di ben due sultani selgiuchidi – a proposito del trattato da lui composto, Il libro della politica, scritto in splendida prosa persiana e dedicato all’arte del buon governo. Ma chi era Nizam? Nato intorno al 1017 in un villaggio presso Tus, nella parte orientale dell’Iran, Abu Ali al-Hasan (questo il nome del futuro uomo di Stato) all’età di vent’anni entrò al servizio di Alp Arslan, e al suo fianco – e a quello del successore Malikshah – giunse a ricoprire le piú importanti cariche politiche dello Stato selgiuchide, dedicandosi a consolidarne le basi con una rigorosa riforma religiosa in senso fortemente sunnita (fu lui che promosse l’istituto della «madrasa», letteralmente «scuola», ma in realtà vera e propria università teologica e filosofica) e attraverso la creazione di una potente classe di funzionari e burocrati di lingua persiana (che restò sempre la lingua ufficiale dell’amministrazione e della cultura). Il suo carisma e la sua autorità furono enormi, anche perché egli seppe abilmente collocare gli amici e i numerosi figli in tutti i posti-chiave dell’amministrazione; ciò finí per suscitare l’invidia e il risentimento degli altri notabili selgiuchidi, che lo accusarono di favoritismi e di nepotismo e presero a tramare contro di lui. La partita si risolse nel 1092 con l’assassinio di Nizam al-Mulk per mano di un ismailita e con l’avvelenamento del sultano Malikshah durante una battuta di caccia.

Isfahan (Iran). La tomba di Nizam al-Mulk, il potente primo ministro che scrisse Il Libro della politica.

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do Danishmendidi e Selgiuchidi combatterono insieme contro i crociati), ma in seguito esse si scontrarono duramente: i Danishmendidi si allearono addirittura con i Bizantini, ma dopo circa un settantennnio di conflitti furono completamente annientati dalle truppe del selgiuchide Qïlïch Arslan II («Leone-Sciabola»), che a sua volta si era accordato niente di meno che con i sovrani crociati di Antiochia e di Edessa e con Federico Barbarossa.

Una pesante sconfitta

Solo a questo punto l’imperatore bizantino Manuele I Comneno – dopo aver tentato inutilmente di raggiungere un accordo anche con Qïlïch Arslan – decise di rompere gli indugi e avanzò con un grande esercito contro Iconium (Konya), la nuova capitale della casa selgiuchide d’Anatolia: ma il 17 settembre 1176, sui passi della Frigia, nella stretta gola di Myriokephalon, l’armata bizantina venne accerchiata e massacrata dai Turchi. Lo stesso Manuele paragonò questa sconfitta a quella subíta centocinque anni prima presso Manzikert. Essa segnò la rinuncia definitiva dei Bizantini a riappropriarsi

In alto il grandioso ponte selgiuchide di Cobandede, che supera il fiume Aras nei pressi di Erzurum (Turchia orientale). A destra scultura in stucco policromo raffigurante un funzionario di corte. Età selgiuchide, 1150-1250. Detroit, Detroit Institute of Arts.

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dei territori anatolici e nello stesso tempo sancí la trasformazione dei «piccoli Selgiuchidi» d’Anatolia in una grande realtà politico-militare, il cosiddetto Sultanato di «Rum». A capo della struttura politica selgiuchide troviamo il «sultano», parola del linguaggio colloquiale indicante un capo militare, che successivamente assunse il significato ufficiale di «sovrano». Nella figura del sultano vengono a confluire il concetto di regalità iranico e quello piú squisitamente islamico, che insiste sull’altissima missione della quale è investito il monarca al cospetto di Dio. Come scrive il «Gran vizir» Nizam al-Mulk, «in ogni epoca l’Altissimo sceglie un uomo tra gli uomini e, fattogli dono delle arti regali, lo rende illustre affidando a lui gli affari del mondo e la tranquillità dei suoi servi; a lui il compito di sedare disordini, discordie e ribellioni. E tanto è il timore e il rispetto per lui negli occhi e nel cuore degli uomini, che essi vivono la loro vita sotto il suo giusto governo mantenendosi tranquilli e augurandogli ancora un lungo regno». In quest’epoca la figura del sultano ha ormai completamente oscurato quella del califfo, le cui prerogative restano unicamente limitate alla sfera religiosa, senza alcuna reale autonomia.

I GIOVANI E LA CITTÀ: LA FUTWWA L’ambiguità tipica della condizione giovanile, il suo carattere marginale e anarchico, costituiva anche nel mondo islamico medievale un elemento di forte turbativa della vita urbana; le autorità cittadine selgiuchidi tentarono di «istituzionalizzare» i giovani, attribuendo loro prerogative precisamente delimitate dall’età e dal diritto: tale processo si concretizzò nella formalizzazione del paradigma della «futwwa» («cavalleria spirituale»), la piú celebre delle associazioni giovanili islamiche. Non a caso, questa istituzione si afferma quando il potere selgiuchide viene a occupare il vuoto politico, militare e amministrativo lasciato dal califfato abbaside in decadenza. Se, infatti, sul piano spirituale la futwwa costituisce una sorta di sublimazione della gioventú, in virtú della quale il giovane cavaliere si impegna nella «guerra santa» contro le passioni che egli stesso porta dentro di sé, sul piano politico essa ha lo scopo di regolamentare le associazioni giovanili e di porre un freno allo strapotere dei giovani all’interno dei contesti urbani: una simile opera di controllo sociale poteva essere intrapresa solo da un’autorità forte e ben radicata come quella selgiuchide.

Un’epoca prospera

Secondo gli storici bizantini e occidentali le invasioni turche dell’XI secolo avrebbero completamente devastato l’Asia Minore, ma ciò non collima con il dato della straordinaria prosperità della regione all’inizio del XIII secolo. È evidente che la «distruttività» dei Selgiuchidi va radicalmente ridimensionata, ed è anzi assai probabile che essi rispettarono in larga misura le strutture economiche esistenti: come ha scritto lo storico francese JeanPaul Roux (1925-2009), «la densità della popolazione non cambiò; molti di coloro che eran fuggiti, fecero ritorno; molti di piú di quanti non si creda restarono; i cristiani di tutte le nazionalità preferivano le tasse turche alle imposte bizantine, la forza un po’ brutale dei sultani alla debolezza del basileus, l’ordine all’anarchia; nelle campagne la terra era coltivata; nelle città le botteghe artigianali erano attive; la produzione soddisfaceva tutti i bisogni e lasciava una notevole eccedenza che una rete commerciale perfettamente funzionante permetteva di esportare». In effetti i Selgiuchidi misero a punto uno straordinario sistema di caravanserragli (in turco «khan») su tutti gli assi carovanieri dell’Anato64

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Coppa in ceramica di Raqqa decorata con figure di cavalieri. Produzione siriana, età selgiuchide. Durham, Durham University, Oriental Museum.


Miniatura che propone una veduta della città turca di Eskisehir, che i Selgiuchidi sottrassero al controllo dei Bizantini nel 1176, dalla Descrizione delle fasi della campagna del Sultano Solimano nei due Irak dello scrittore, miniatore e calligrafo turco Matrakgi Nasuh 1537 circa. Istanbul, Biblioteca Universitaria.

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Particolare della ricca e raffinata decorazione del portale principale della grande Moschea di Divrigi (Turchia). 1228-1229. lia, favorirono gli scambi con l’Europa accordandosi con Venezia, Pisa e Genova, e cominciarono a battere moneta, imitando i tipi bizantini. Per quanto riguarda l’agricoltura, i Turchi, da buoni nomadi delle steppe, ebbero sempre una certa diffidenza nei confronti della proprietà privata della terra, considerandola come appannaggio esclusivo e indiviso dello Stato o del sovrano: eccezioni a tale consuetudine erano rappresentate da appezzamenti (detti iqta‘) assegnati a singoli, sui quali tuttavia lo Stato manteneva uno strettissimo controllo amministrativo, e dai latifondi di origine preselgiuchide, laddove i proprietari erano riusciti a conservarli integri. In ogni caso, il sistema mostrò una notevole funzionalità, e l’epoca selgiuchide si caratterizzò per l’abbondanza e la varietà della produzione agricola, anche grazie a nuovi ritrovati tecnici quali i mulini a vento e le norie. Un’intensa attività estrattiva (soprattutto di allume, ferro, argento e lapislazzuli) e un artigianato estremamente sviluppato completano il quadro dell’eccezionale vivacità economica e commerciale selgiuchide.

Il declino di Baghdad

Precedentemente all’avvento dei Selgiuchidi, il primato su tutte le città della Mesopotamia era mantenuto da Baghdad, anche se all’epoca del dominio dei Buyidi avevano cominciato ad affermarsi anche altre realtà urbane; questa sorta di decentramento proseguí, e anzi si accentuò, con l’occupazione turca, durante la quale l’importanza politica di Baghdad si affievolí alquan-

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BISANZIO E I TURCHI Konya (Turchia). L’inconfondibile cupola rivestita in faïence verde del convento (tekke) dei dervisci. L’edificio è parte del complesso del Mevlana, oggi trasformato in museo, che comprende, tra gli altri, la tomba di Jalal ad-Din Rumi.

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NELLA CITTÀ DEI DERVISCI ROTANTI Konya, l’antica Iconium, al centro dell’Anatolia, fu per due secoli la capitale del sultanato selgiuchide di Rum e occupa tuttora un posto assai importante nel patrimonio culturale turco e musulmano. Konya è stata da sempre il cuore della storia religiosa e mistica della regione, e vide fiorire, sin dalla piú alta antichità, il culto della Grande Madre, religioni misteriche e sètte gnostiche di ogni tipo, prima di divenire un santuario delle religioni monoteistiche cristiana e islamica. La città venne evangelizzata da san Paolo e fu sede dell’insegnamento del grande mistico Ibn Arabi, ma, soprattutto, da qui si diffuse il messaggio universalista di Jalal ad-Din Rumi, il fondatore della celebre confraternita dei «dervisci rotanti». Il monumento piú importante di Konya, con la sua splendida cupola rivestita di faïence verde, è il celebre «convento» («tekke») dei dervisci, organizzato intorno alla tomba del fondatore dell’ordine. Il complesso fu fondato nel 1231, ma numerosi ampliamenti e restauri risalgono all’epoca ottomana.


to. I sultani solo raramente abitarono a Baghdad: Alp Arslan non la visitò neppure, e il solo che se ne occupò seriamente e vi fece grandi costruzioni fu Malikshah.

Pacifica convivenza

Per ciò che concerne l’Anatolia, a dispetto dell’innegabile cesura rappresentata dall’invasione selgiuchide, negli insediamenti urbani si evidenzia una notevole continuità: le città selgiuchidi sono infatti le stesse città bizantine, alle quali si dà un nome turco che non di rado si limita a «traslitterare» il nome precedente (cosí per esempio Cesarea diventa Kayseri; Melitene Malatya; Sebasteia Sivas e Ancyra Ankara). Nei centri urbani conquistati continuano a vivere le une accanto alle altre – come avveniva in passato – popolazioni di origini e religioni diverse: Greci, Ebrei, Turchi, Armeni, ecc. Per i Selgiuchidi, la città era il luogo príncipe dell’amministrazione e della cultura: qui risiedeva il governatore con la sua guarnigione; qui si trovava la moschea; qui avevano la loro sede il «qadi» («giudice»), che amministrava la giustizia, e il «muhtasib» («ispettore»), che si occupava dell’organizzazione dei commerci e delle comunità non musulmane. L’«aria della città» aveva spesso l’effetto di attenuare il tendenziale egualitarismo turcomanno, producendo differenziazioni e gerarchie. Un breve passo attribuito al grande mistico Jalal ad-Din Rumi rende perfettamente l’idea della stratificazione sociale presente in un grande centro urbano selgiuchide: «A Konya i generali, i dignitari e i notabili hanno migliaia di case, castelli e palazzi. Le case dei mercanti e dell’aristocrazia urbana sono piú elevate di quelle degli artigiani; i palazzi degli emiri sono piú elevati di quelli dei mercanti; le cupole e i palazzi dei sultani sono ancora piú alti di tutti gli altri». Il grande Sultanato di «Rum», che prese il nome dal fatto di occupare le terre un tempo appartenute ai Rhomaioi («Romani»), cioè ai Bizantini, conobbe il suo apogeo sotto i sultani Kay Kawus e Kay Qubad, che regnarono tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo e portarono a termine una lunga serie di conquiste territoriali, finalizzate al controllo delle coste e del traffico marino e al possesso di importanti miniere d’argento in Cappadocia; Antalya fu sottratta ai Veneziani, Sinope ai Bizantini, ampie zone della Cilicia agli Armeni, mentre la presa di Erzincan e di Erzurum aprivano ai Selgiuchidi di Rum le vie commerciali verso l’Iran e l’estremo Oriente. Kay Qubad si spinse fino in

Mesopotamia, catturando l’antica Carrae (Harran), Edessa e Raqqa: alla sua morte, avvenuta nel 1237, il Sultanato di Rum era all’apogeo della propria potenza, controllando un impero che si estendeva dall’Eufrate all’Egeo.

Miniatura di scuola ottomana raffigurante la danza rotante dei dervisci. XVII sec. Collezione privata.

Alle radici del sufismo turco

Se i Selgiuchidi vollero sempre caratterizzarsi quali strenui difensori dell’ortodossia sunnita, durante il loro dominio maturarono e giunsero a imporsi anche forti correnti spirituali, che confluirono nell’alveo del misticismo islamico – meglio noto come «sufismo» – alla continua ricerca dell’estasi e dell’illuminazione divina. Fra l’XI e il XIV secolo le tendenze fondamentali del sufismo turco furono incarnate da tre grandi personalità: Al-Ghazzali, Hagi Bektash e Jalal ad-Din Rumi. Abu Hamid al-Ghazzali, soprannominato «La prova dell’Islam» e considerato il piú grande teologo musulmano, visse nell’epoca di Alp Arslan e di Malikshah e divenne un protetto del «Gran vizir» Nizam al-Mulk, che nel 1091 lo fece nominare, ad appena trentadue anni, professore di diritto nella madrasa di Baghdad; ma nel 1096 al-Ghazzali, in preda a una grave crisi nervosa, si allontanò dalla capitale, recandosi a ISTANBUL

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ARTISTI GRECI E CINESI La differenza fra teologi e mistici viene vivacememente descritta da Jalal al-Din Rumi in uno dei suoi aneddoti. «Se desiderate una parabola sulla conoscenza segreta, raccontate la storia dei Greci e dei Cinesi. “Noi siamo gli artisti migliori”, dichiararono i Cinesi. “Noi vi superiamo”, ribatterono i Greci. “Vi metterò alla prova”, disse il sultano. “Allora vedremo chi di voi ha ragione”. “Assegna a noi una certa stanza, e ai Greci un’altra”, dissero i Cinesi. Le due stanze erano l’una di fronte all’altra: i Cinesi ne presero una e i Greci l’altra. I Cinesi chiesero al sovrano un certo numero di colori, e l’illustre monarca aprí il suo tesoro e ogni mattina i Cinesi ricevevano dalla generosità dei suoi forzieri la loro razione di colori. “Nessuna tonalità o colore si addice al nostro lavoro”, dissero i Greci. “Tutto ciò che ci serve è liberarci dalla ruggine”. Cosí dicendo, essi chiusero la loro porta e si misero al lavoro pulendo; lucidi e immacolati come il cielo essi diventarono. C’è una via dal multicolore all’assenza di colore; il colore è come le nubi, l’assenza di colore è una luna. Per quanta brillantezza e splendore vi siano nelle nubi, siate certi che proviene dalle stelle, dalla luna e dal sole. Quando i Cinesi ebbero completato la loro opera, essi presero a tamburellare dalla gioia. Entrò il re e qui vide le pitture; nel momento in cui i suoi occhi vi si posarono, egli rimase sconvolto. Quindi, avanzò dalla parte dei Greci che, subito, rimossero la tenda, cosicché il riflesso del capolavoro cinese colpí le pareti che essi avevano strofinato liberandole dalla polvere. Ciò che il re aveva visto nella stanza cinese appariva qui ancora piú bello, tanto che egli strabuzzò gli occhi. I Greci, padre mio, sono i sufi: senza ripetizione e libri e apprendimento, essi hanno strofinato i loro petti ripulendoli da avidità e cupidigia, da avarizia e da malizia. La purezza dello specchio è senza dubbio il cuore, che riceve molteplici immagini. Il riflesso di ogni immagine, che abbia un numero o meno, brilla per sempre soltanto dal cuore, e sempre, ogni nuova immagine che penetra nel cuore si mostra in sé libera da ogni imperfezione. Coloro che han lustrato i loro cuori sono fuggiti da profumo e colore; in ogni istante, subito, essi vedono la Bellezza». (Jalal al-Din Rumi, Il canto dello spirito. Aneddoti del Mathnawi, a cura di Anna Maria Martelli, Mimesis, Milano 2000, p. 70 s.).

Buca (Izmir). Particolare di un monumento moderno dedicato a Jalal ad-Din Rumi, meglio noto con l’appellativo onorifico di Mevlana («Nostro Signore»), ritratto mentre pratica il rito sufi.

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Damasco, poi alla Mecca in pellegrinaggio, e infine a Gerusalemme: in questo periodo elaborò la sua opera piú importante, La rinascita delle scienze religiose. Nel 1106 al-Ghazzali riprese l’insegnamento a Nishapur, ma solo due anni dopo, in seguito ad accuse e virulente polemiche riguardanti le sue dottrine, lo lasciò definitivamente, ritirandosi a Tus, la sua città natale, dove morí nel 1111. L’importanza di al-Ghazzali nella storia della mistica islamica sta nel fatto che egli cercò di conciliare sufismo e ortodossia, attenuando e riportando nell’alveo della sunna tutti quei fenomeni entusiastici e panteistici tipici dello spiritualismo sufi, e propugnando un misticismo moderato e «razionale». Hagi Bektash Veli, la cui figura resta peraltro avvolta in un alone di mistero e di leggenda, esprime invece le tendenze piú estreme del sufismo. Secondo la tradizione, Hagi – originario del Khurasan – sarebbe giunto in Anatolia al seguito dei Selgiuchidi, stabilendosi in un villaggio cappadoce che oggi porta il suo nome (Hagibektash); qui egli avrebbe promosso la costruzione di un monastero («tekke») nel quale educare giovani dervisci destinati a predicare in tutto il Paese quel coacervo di dottrine sciite e gnostiche che formavano il mistico credo della setta: una forma di Islam caratterizzato da elementi propri del misticismo popolare, dall’adozione di pratiche e simboli cristiani e da un’assoluta negligenza dei riti dell’islamismo «ortodosso». I Bektashi adoravano una sorta di trinità co-


Miniatura raffigurante Nasreddin Hoggia, un personaggio leggendario, intorno al quale si sviluppò un ricco ciclo di aneddoti, tramandatosi fino ai nostri giorni. Collezione privata. stituita da Dio, Maometto e Ali, confidavano nella trasmigrazione delle anime ed erano organizzati in un sistema rigidamente gerarchico L’amministrazione dell’ordine era affidata al Celebi (carica divenuta ereditaria a partire dal XVIII secolo) che risiedeva nel convento principale costruito nel villaggio di Hagibektash, sulla tomba del fondatore, ancora oggi meta di un continuo pellegrinaggio di devoti. In epoca ottomana la setta assunse anche una notevole importanza politica a causa del suo strettto rapporto con il corpo dei giannizzeri, ma soprattutto si impose sul piano religioso: partendo dalle impervie montagne di Cappadocia, le mistiche dottrine della Bektashyya raggiunsero e conquistarono le piú lontane terre del grande impero ottomano, e ancora oggi esercitano un’influenza durevole sulla religiosità del popolo turco. Fu peraltro un discepolo di Hagi Bektash, Yunus

L’EROE DELLA GENTE COMUNE: NASREDDIN HOGGIA CONTRO TAMERLANO Al tramonto del mondo selgiuchide appartiene una figura straordinaria, a metà strada fra il saggio sufi e il contadino, fra l’imam e il buffone: Nasreddin Hoggia. Intorno a questo personaggio astuto e triviale, pieno di buon senso ma anche di un acutissimo senso dell’umorismo, si sviluppò un vero e proprio ciclo di aneddoti, tramandatosi fino ai nostri giorni per il divertimento dei Turchi e dei loro vicini (le sue storie si raccontano in tutta l’Asia centrale, nel mondo arabo, nei Balcani, in Grecia e persino in Sicilia, dove assume il nome di Giufà). Come tutti gli eroi, Nasreddin – che visse in realtà nel XIII secolo – non è vincolato dal trascorrere del tempo: nel breve racconto che segue lo troviamo infatti – piú di un secolo dopo la sua morte – addirittura a tu per tu con il grande Tamerlano.

L’ultimatum Tamerlano aveva occupato parte dell’Anatolia e si era accampato nei pressi di Akeshir, gettando nel panico gli abitanti della città, che ben conoscevano le nefandezze degli eserciti mongoli. Mentre l’invasore faceva rizzare le tende, una delegazione di cittadini si recò da Nasreddin affinché egli, con la sua saggezza e la sua fama, li salvasse. «Datemi un volontario coraggioso» – rispose Nasreddin. Nella città pervasa dal terrore fu scelto un giovane di nome Hasan, e a lui Nasreddin ordinò: «Prendi il cavallo piú veloce e recati all’accampamento di Tamerlano. Dopo avergli presentato i

miei saluti gli proclamerai il mio ultimatum, dicendo che se non farà levare le sue tende e non si allontanerà da questa regione saprò ben io cosa fare». Hasan raggiunse l’accampamento nemico a spron battuto e dopo essere stato respinto piú e piú volte dalle guardie, alla fine, grazie alla sua testardaggine, fu introdotto alla presenza di Tamerlano. Il sovrano guardò corrucciato quel giovane e gli disse: «Se sei un messaggero, che nuova mi porti?». Rispose Hasan: «Innanzi tutto, ti porto i saluti del nostro grande concittadino, Nasreddin Hoggia, il quale ti manda a dire che se non ti allontanerai immediatamente da questi luoghi egli saprà bene cosa fare». Tamerlano, sempre piú corrucciato, ordinò: «Conducetemi qui questo Nasreddin, che voglio interrogarlo di persona». Un drappello di cavalieri si precipitò in città, afferrò Nasreddin e lo condusse all’accampamento. Giunto nella tenda davanti a Tamerlano, egli si inchinò e lo salutò; Tamerlano rispose al saluto e aggiunse «Sei tu l’impavido che ha inviato a me, il piú potente sovrano del mondo, il suo ultimatum? Se io, come accadrà, non mi ritirerò da queste terre, tu cos’è che farai?». Nasreddin si calcò bene in testa il turbante e con aria di sfida disse: «Prenderò la mia bisaccia e, in men che non si dica, fuggirò da un altra parte, o Potente!». Tamerlano rise a lungo e accolse Nasreddin nella cerchia dei suoi amici. (Nasreddin Khogia, Astuzie e facezie. Il sorriso di un maestro, a cura di Anna Masala, Semar Publisher, Roma 2002).

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DA LEGGERE

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laude Cahen, La Turquie Pré-Ottomane, C IFEA, Istanbul-Paris 1988 Henri Stierlin, Turchia. Dai Selgiuchidi agli Ottomani, Taschen, Köln-LondonMadrid-Paris-New York-Tokyo 1999 Nizam al-Mulk, L’arte della politica, a cura di Maurizio Pistoso, Luni, Milano 1999 Jalal al-Din Rumi, Il canto dello spirito. Aneddoti del Mathnawi, a cura di Anna Maria Martelli, Mimesis, Milano 2000 Jean-Paul Roux, Histoire des Turcs, Fayard, Paris 2002 Nasreddin Khogia, Astuzie e facezie. Il sorriso di un maestro, a cura di Anna Masala, Semar Publisher, Roma 2002 Michele Bernardini, Storia del mondo islamico (VII-XVI secolo). II. Il mondo iranico e turco, Einaudi, Torino 2003

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Emre, grande poeta mistico, a dare inizio, nel XIV secolo, alla letteratura turca d’Anatolia. Il personaggio piú rappresentativo e piú celebre del misticismo di epoca selgiuchide è però Jalal ad-Din Rumi, meglio noto con l’appellativo onorifico di «Mevlana» («Nostro Signore»). Anch’egli originario del Khurasan (era nato a Balkh nel 1207), fu costretto a fuggire a Konya con la famiglia in seguito all’invasione dei Mongoli; dopo alcuni viaggi di istruzione ad Aleppo e a Damasco, la sua vita venne sconvolta dall’incontro con un misterioso maestro sufi noto come Shams di Tabriz, del quale divenne discepolo affezionato; quando Shams scomparve senza lasciare traccia, Rumi, disperato, gli dedicò una splendida racolta poetica (Diwan); in seguito, istituí a Konya un oratorio spirituale che aveva al centro la danza rotante, caratteristica della sua confraternita.

Ventiseimila versi per un commento

Si trattava di una vera e propria liturgia, che implica un complesso simbolismo basato sulla corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo, tra il moto celeste dei pianeti attorno al sole e la ricerca del Sé supremo da parte delle anime. Ma il grande lascito spirituale di Rumi (che tra l’altro fu uno dei maggiori poeti di lingua persiana) è il suo celebre poema di circa ventiseimila versi, il Mathnawi – amplissimo commentario mistico al Corano – letto e meditato da secoli in tutto il mondo per i suoi contenuti dottrinali e per la sua straordinaria intensità poetica. Nei primi decenni del XII secolo nuovi protagonisti fecero la loro comparsa in Asia centrale: i Mongoli. Alla fine degli anni Trenta, la stirpe turco-mongola dei Qara Khitay irruppe nei territori dei «Grandi Selgiuchidi», e il 9 settembre 1141, nella steppa di Qatwan, vicino a Samarcanda, inflisse al sultano Sanjar una terribile sconfitta militare (30 000 Turchi caddero in battaglia e i sopravvisuti si diedero a una precipitosa fuga), che aprí alle nuove orde le porte della Transoxiana. La disfatta dei «Grandi Selgiuchidi» suscitò una vivissima impressione e fu in effetti un colpo terribile per il sultanato orientale, che da quel momento in poi conobbe un rapido e inarrestabile declino; nel 1194, cinquant’anni dopo il disastro di Qatwan, una tribú rivale dei Selgiuchidi – i Kwarazmshah – sconfisse nei pressi di Ray l’ultimo «Grande Selgiuchide», Toghrïl III, ponendo fine al suo dominio sull’Iran: la stessa dinastia scomparve per sempre. Restava il Sultanato di Rum, che però, intorno al 1240, dovette affrontare una gravissima crisi

Nella pagina accanto Shakhrisabz (Uzbekistan). Una veduta dei resti dell’Aq Saray (Palazzo di Tamerlano o Palazzo Bianco). 1399-1405.

sociale. Come si è visto, la compagine statale dei Selgiuchidi d’Anatolia aveva conosciuto uno splendido periodo di fioritura, dovuta in larga parte a una solida armatura amministrativa e culturale d’influenza iranica, che si appoggiava alla popolazione musulmana sunnita dei grandi centri urbani. Ciò provocò, alla lunga, una forte marginalizzazione dei Turcomanni delle campagne – fedeli alle antiche tradizioni turche e compenetrati di dottrine eterodosse – che si trovarono di fatto esclusi dalle leve del potere e dal benessere suscitato dal nuovo ordine sociale. A questo ceto emarginato si rivolse un «Baba» («predicatore popolare») di nome Ishaq, forse di origini persiane, autoproclamatosi «profeta di Dio» («rasul Allah»). Poco si sa dei caratteri del movimento di Baba Ishaq, ma è certo che la sua ideologia faceva leva su dottrine sciite aberranti assai diffuse negli ambienti popolari turco-iranici e si opponeva radicalmente al sufismo aristocratico di Jalal ad-Din Rumi. Le rivolte suscitate dalla predicazione del nuovo «profeta» crearono notevoli problemi agli eserciti del sultano, ma alla fine furono represse nel sangue. Tuttavia, lo Stato selgiuchide uscí estremamente indebolito da questa crisi (tanto piú che numerosi seguaci del Baba operarono ancora a lungo in Anatolia), e ciò mentre i Mongoli erano ormai alle porte

Il crollo

Alla fine del 1242 un esercito mongolo penetrò nell’altipiano anatolico e annientò le truppe turche, occupando Sivas e Kayseri: il peggio venne evitato con accordi di pace che prevedevano per i Selgiuchidi il riconoscimento della sovranità mongola e il pagamento di un pesante tributo in oro e bestiame. Ma il patto ebbe breve durata: il sultano Kay Kaws II stipulò un’alleanza con i Bizantini e il 15 ottobre 1256 una grande armata turco-bizantina affrontò nuovamente l’esercito mongolo presso Aksaray, subendo una rovinosa sconfitta. Konya fu a stento risparmiata dal saccheggio, il Sultanato di Rum fu diviso in due parti e divenne di fatto vassallo dell’ilkhan mongolo Hülegü. Per un travagliato cinquantennio la casa selgiuchide mantenne ancora un’ombra di potere sulle regioni anatoliche: l’ultimo sultano morí senza eredi nel 1303. Con lui si estinse la dinastia. Mentre i Selgiuchidi scomparivano dalla storia, nel Paese che essi avevano dominato per piú di duecento anni muoveva i primi passi una piccola tribú: i suoi membri, dal nome del capostipite – Osman – si facevano chiamare Ottomani. ISTANBUL

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La quarta crociata

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LA QUARTA CROCIATA Le crociate iniziarono nel 1095, quando papa Urbano II, nel Concilio di Clermont, chiamò i fedeli a liberare il Santo Sepolcro di Cristo, allora in mano musulmana. I Bizantini guardarono sempre con sospetto al fenomeno, che consideravano pericoloso per l’assetto dell’impero e già nel corso della prima crociata si ebbero numerose occasioni di scontro. Tuttavia, il culmine dell’ostilità si raggiunse con la quarta crociata, che si svolse tra il 1202 e il 1204. Infatti, lungi dal perseguire l’obiettivo della liberazione della Terra Santa, essa portò la guerra nel cuore dell’impero bizantino e produsse, appunto, la caduta della piú grande capitale cristiana del tempo: Costantinopoli. Tutto iniziò nel 1198, con l’elezione di un giovane papa, brillante e deciso, Innocenzo III, che, subito dopo la salita al soglio pontificio, lanciò un appello per una nuova spedizione che, nei suoi disegni, avrebbe dovuto riscattare il sostanziale fallimento della terza crociata (1189-1192) e, soprattutto, riportare in mani cristiane Gerusalemme, che nel 1187, dopo la battaglia di Hattin, era stata riconquistata da Saladino. Innocenzo rese pubblici i suoi intendimenti in un’enciclica del 15 agosto del 1198, e nominò due legati pontifici che furono inviati in Francia, in Inghilterra e a Venezia, per organizzare la campagna militare, sia dal punto di vista diplomatico, sia da quello logistico. Come ha giustamente sostenuto lo storico Thomas F. Madden, la decisione di prendere contatto con Venezia nella fase preparatoria dell’impresa prova che il ruolo assunto dalla Repubblica nella IV crociata era stato largamente previsto e auspicato dallo stesso

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La caduta di Costantinopoli, dipinto del Tintoretto (al secolo Jacopo Robusti; 1518-1594). 1580 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio. In basso la lapide della tomba di Enrico Dandolo in S. Sofia (che è, in realtà, un falso ottocentesco). Innocenzo, il quale, per assicurarsi la partecipazione della flotta repubblicana, concesse ai Veneziani la dispensa per vendere un gran numero di derrate nei porti egiziani, permettendo cosí alla Serenissima di derogare all’obbligo di non commerciare con gli infedeli.

L’appalto per la flotta All’inizio dell’anno 1200, i nobili Baldovino di Fiandra, Tebaldo di Champagne e Luigi di Blois si riunirono a Soissons per discutere i tempi e gli obiettivi della nuova crociata e decisero di procedere via mare, come aveva già fatto a suo tempo Riccardo I Cuor di Leone. Ma, a differenza di quest’ultimo, Baldovino, Tebaldo e Luigi non disponevano di una flotta e dunque conclusero di appaltarne la costruzione a una città portuale, costituendo un comitato che avrebbe dovuto scegliere la città in questione e stipulare con essa un contratto ad hoc. Come racconta il maresciallo di Champagne Goffredo di Villehardouin, nella sua famosissima cronaca – che costituisce una delle fonti essenziali sulle crociate – il comitato, del quale egli stesso faceva parte, non ebbe dubbi: il candidato ideale era, sotto tutti i punti di vista, Venezia. Cosí, nel febbraio del 1201, la commissione scelta dai nobili crociati si trasferí in laguna e, dopo estenuanti trattative, sulle quali Goffredo di Villehardouin si sofferma ampiamente, il popolo


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IL MERCANTE CHE DI VENEZIA FECE UN IMPERO Nipote di un patriarca e figlio di un giudice della corte ducale, entrambi valorosi crociati, Enrico Dandolo (Venezia, 1107 circa-Costantinopoli, 21 giugno 1205) fu senz’altro il doge piú famoso della storia di Venezia. A lungo, esercitò il mestiere di mercante, spaziando tra Costantinopoli e Alessandria d’Egitto; la sua carriera politica cominciò solo a piú di sessant’anni, nel 1170, quando Enrico fu nominato bailo a Costantinopoli e, l’anno successivo, si trovò a dover negoziare la pace con l’imperatore bizantino Manuele Comneno, che si era reso responsabile dell’arresto e della confisca dei beni di tutti i cittadini veneziani residenti nei territori dell’impero, ai quali provvedimenti Venezia aveva reagito con la guerra. Stando a quanto riferito dalle cronache, in questo frangente, Enrico avrebbe perso parzialmente o totalmente la vista: in occasione della fuga da Bisanzio o nel corso di un’accesa discussione con l’imperatore, sarebbe rimasto

cieco da un occhio o forse da entrambi. Tornato in patria, riprese a viaggiare per affari in Oriente, ma nel 1183 fu nuovamente inviato a Costantinopoli per riallacciare i rapporti diplomatici con i Bizantini. Poi, il 21 giugno del 1192 alla veneranda età di ottantacinque anni, fu eletto quarantunesimo doge della Repubblica. La quarta crociata, dal punto di vista degli interessi veneziani, fu il suo capolavoro politico: essa infatti mise le basi alla creazione dell’impero marittimo di Venezia. Dopo la conquista di Costantinopoli, Enrico Dandolo non tornò piú in patria: morí il 21 giugno 1205 e fu sepolto nella parte meridionale della galleria del matroneo della basilica di S. Sofia. Si dice che dopo la conquista della città da parte dei Turchi, nel 1453, la sua tomba fu aperta e le ossa furono gettate in pasto ai cani. La lapide recante la scritta «Henricus Dandolo» che ancora oggi può vedersi nella basilica è un falso ottocentesco.

Il doge Enrico Dandolo nonagenario e i capitani dei Crociati giurano in S. Marco i patti, olio su tela al quale lavorarono Carlo Saraceni e Jean Le Clerc, ma portato a termine dal solo artista francese per la morte del collega italiano. 1621 circa. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

veneziano, riunito in S. Marco, acconsentí a prendere parte alla spedizione. Non si trattava di una scelta individuale, come avveniva nel resto d’Europa. La Repubblica aderiva all’iniziativa in modo collettivo, e ciò era soprattutto il frutto dell’abile opera di propaganda messa in atto dall’uomo che piú di ogni altro, nel bene e nel male, legò il suo nome alla quarta crociata: il doge di Venezia Enrico Dandolo. Fu lui, infatti, che riuscí a ottenere l’appoggio dei cittadini piú eminenti al progetto, essenziale per far 76

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approvare la partecipazione alla crociata dal complicatissimo sistema di assemblee che caratterizzava il governo veneziano. Tuttavia, sin dall’inizio, si manifestarono alcune ambiguità di fondo: il trattato stipulato fra la Repubblica e il comitato (di cui restano due copie, entrambe sottoscritte a nome del doge) non menzionava la destinazione della crociata, anche se Baldovino Tebaldo e Luigi avevano già stabilito che essa avrebbe dovuto raggiungere la Terra Santa dall’Egitto, portando dunque la guerra nel cuore del sultanato ayyubide fondato da Saladino e governato a quel tempo da suo fratello al-‘Adil I. Venezia, inoltre, si trovava a fronteggiare da tempo la ribellione della città dalmata di Zara, postasi sotto la tutela del re d’Ungheria, ed era assurdo pensare di inviare la flotta in Oriente senza prima aver debellato un nemico cosí vicino e cosí pericoloso; per giunta, il papa, che pure aveva approvato il trattato con entusiasmo, non vedeva affatto di buon occhio un intervento della Repubblica contro la monarchia ungherese, che egli proteggeva.

Un enorme sforzo produttivo In ogni caso, i Veneziani si misero all’opera, e tra il maggio 1201 e il giugno 1202, con un enorme sforzo produttivo, allestirono una flotta di 50 galee da guerra e 150 galere da trasporto, rispettando gli impegni presi. Non altrettanto poteva dirsi dei nobili postisi a capo della crociata. Nel maggio del 1201 Tebaldo di Champagne era morto, e la leadership dell’impresa era passata a Bonifacio di


UN UOMO INSIDIOSO

Monferrato. Il passaggio di consegne si rivelò arduo e a ciò si aggiunsero gravi problemi finanziari, che impedirono il pagamento a Venezia delle rate concordate nel contratto. Quando, nel giugno del 1202, cominciarono ad affluire in città i primi crociati, la flotta era pronta a salpare, ma i Veneziani non avevano ricevuto alcunché, salvo un piccolo anticipo iniziale. Si giunse cosí alla fine di luglio: la situazione era drammatica, perché la Repubblica ospitava un esercito divenuto ormai molto grande e in preda al nervosismo. D’altra parte, anche i Veneziani erano alquanto irritati con i Franchi, palesemente venuti meno agli accordi. Entrambe le parti volevano qualcosa l’una dall’altra, e solo l’abilità di Enrico Dandolo riuscí a far superare lo stallo. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, il doge organizzò un incontro con i capi crociati, facendo loro presente che Venezia attendeva il pagamento delle rate scadute, ma essi furono in grado di raccogliere meno della metà di quanto dovuto. Dandolo, allora, prospettò un nuovo accordo: i crociati avrebbero saldato il debito con la loro parte di bottino, ma, soprattutto, scendendo lungo l’Adriatico, avrebbero aiutato i Veneziani a riconquistare Zara, la temibile città ribelle che

La richiesta d’aiuto di Alessio Comneno, giunto a Zara, al doge Enrico Dandolo, in un dipinto di Andrea Vicentino. 1578. Venezia, Palazzo Ducale.

Molti studiosi hanno erroneamente sostenuto che Enrico Dandolo sia stato il piú acceso sostenitore della proposta di attacco a Costantinopoli. Al contrario, come si è visto, il progetto fu ideato dai Tedeschi, e immediatamente fatto proprio da Bonifacio da Monferrato e dai nobili Francesi e Dandolo vi aderí solo piú tardi e con molte riserve. Furono soprattutto gli autori bizantini ad accentuare le responsabilità del doge, per il loro odio nei confronti di Venezia, al prezzo di stravolgere la realtà dei fatti. Si legga per esempio quanto scrive in proposito uno dei piú celebri storici bizantini, Niceta Coniata: «Una gran iattura fu senza dubbio Enrico Dandolo, a quel tempo doge dei veneziani: un cieco, vecchio decrepito; un individuo insidioso e ostile ai romani (cioè ai Bizantini, n.d.a.), pieno di rancore e invidia nei loro confronti; un fior di impostore, che si proclamava il piú savio tra i savi, ed era avido di gloria come nessun altro. Tutte le volte che egli si soffermava a riflettere, e considerava quante offese avessero dovuto sopportare i veneziani durante il regno dei fratelli Angeli e al tempo in cui prima di loro Andronico (Andronico I Comneno, 11831185) e, ancor prima, Manuele (Manuele I Comneno, 1143-1180) governarono l’impero romano (cioè l’impero bizantino, n.d.a.), riconosceva di meritare la morte, per non aver ancora punito i romani dell’oltraggioso comportamento verso la sua gente. Tuttavia, consapevole com’era che avrebbe unicamente nuociuto a se stesso, se avesse tentato di vendicarsi dei romani con l’aiuto dei suoi soli concittadini, considerò l’opportunità di procurarsi altri alleati, e di informare dei suoi segreti progetti coloro che, a quanto sapeva, nutrivano un implacabile odio contro i romani, alla cui prosperità guardavano con occhi insidiosi e avidi. Presentatasi inaspettatamente l’occasione favorevole di alcuni nobili signori che avevano progettato di compiere una spedizione in Palestina, prese gli opportuni accordi con essi e li indusse a unirsi a lui nella guerra contro l’impero romano». (Niceta Coniata, Cronaca, ed. Van Dieten, p. 537 s., da: Bisanzio nella sua letteratura, a cura di Umberto Albini ed Enrico V. Maltese, Garzanti, Milano, 2004, p. 649).

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La quarta crociata Frammenti del mosaico pavimentale della basilica ravennate di S. Giovanni Evangelista (rimosso dalla sede originaria e ora inserito nelle murature della chiesa). 1213 circa. A sinistra, la presa di Costantinopoli durante la quarta crociata; in basso, i Veneziani guidati dal doge Enrico Dandolo assaltano le mura di Zara, nel novembre del 1202.

ormai da molti anni costituiva per la Repubblica una ferita aperta. Era una proposta che non si poteva rifiutare, e anche il legato pontificio non ebbe il coraggio di opporsi. Inoltre, con una grande mossa a effetto, Enrico chiese ufficialmente di prendere parte alla crociata in prima persona e S. Marco si riempí delle grida dei Veneziani che accoglievano la sua richiesta e correvano ad arruolarsi. Ora il doge poteva condurli dove desiderava.

Salpano le navi La flotta crociata, costituita da 50 navi per il trasporto dei soldati, 100 galere per il trasporto dei cavalli e 60 galee da guerra, oltre a numerose imbarcazioni ausiliarie, salpò nei primi giorni di ottobre del 1202. L’armata fece scalo in alcuni porti della costa dalmata per caricare provviste e compiere gli ultimi arruolamenti; infine, fra il 10 e l’11 novembre, i crociati giunsero a Zara. Questa splendida e antica città era entrata nell’orbita veneziana sin dall’anno 1000, ma già dal 1114 era oggetto delle mire dei re d’Ungheria, che, essendosi annessi la Croazia, vantavano gli antichi diritti dei sovrani croati sulla Dalmazia veneziana. Nel 1183 Zara si era consegnata agli Ungheresi, che le avevano concesso ampia autonomia, e da allora seppe resistere ai numerosi tentativi veneziani di riportarla sotto il controllo della Repubblica. A Enrico Dandolo si presentava dunque la grande occasione di punire e riconquistare la città ribelle. Dopo aver vinto le 78

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ultime resistenze di alcuni nobili, i quali non intendevano contravvenire al divieto papale – che, nonostante tutto, non era mai stato ritirato –, il doge ottenne che la città fosse messa sotto assedio. E, dopo soli cinque giorni, Zara fu presa e saccheggiata. Era il 24 novembre del 1202. Qualche settimana dopo la conquista, mentre ancora infuriavano le polemiche sulla liceità dell’assedio, giunsero nella città dalmata Bonifacio di Monferrato, il comandante ufficiale della crociata, e alcuni messaggeri di Filippo di Svevia, uno dei due aspiranti alla carica di sovrano del Sacro Romano Impero. Questi ultimi raccontarono una storia di violenze, soprusi e intrighi che, oltre a mutare completamente il corso della quarta crociata, cambiò per sempre i rapporti tra Venezia e Bisanzio: l’imperatore di Bisanzio, Isacco II Angelo, era stato deposto e accecato dal fratello maggiore, che salí al trono con il nome di Alessio III (1195-1203).

Un appello accorato Il figlio di Isacco, anch’egli di nome Alessio, era riuscito a fuggire dal carcere nel quale era stato rinchiuso con suo padre e aveva cercato aiuto in Occidente, giungendo infine alla corte di Filippo, che ne aveva sposato la sorella, la principessa Irene. Parlando a nome di Filippo, i suoi inviati rivolsero ai crociati un accorato appello alla «guerra umanitaria»: non era possibile ignorare le sofferenze del giovane Alessio, che pure, essendo nato prima che suo padre diventasse imperatore, non aveva alcun diritto al trono. I crociati avrebbero dovuto sostenere con ogni mezzo la causa di Isacco II e del suo figlio sfortunato. Come sempre, dietro la retorica delle motivazioni «umanitarie» e l’apparenza di una lotta per il ristabilimento della giustizia, si celavano interessi concreti: in questo caso, i disegni egemonici di Filippo, il quale, presentandosi come vendicatore di Isacco e protettore della famiglia imperiale legittima, avanzava pretese ben precise sul trono di Bisanzio. Se Bonifacio da Monferrato aveva abbracciato la causa del figlio di Isacco sin dal dicembre del 1201, Enrico Dandolo fu, almeno inizialmente, molto piú cauto: temeva, infatti, che, se il piano di Filippo fosse fallito, Venezia avrebbe compromesso definitivamente i suoi già difficili


rapporti con l’impero bizantino, rapporti a cui la Repubblica, per molti motivi, teneva grandemente. Ma alla fine, il doge si risolse ad accettare il rischio. Il 20 aprile 1202 la flotta crociata salpò alla volta di Corfú, e il 25 aprile fu raggiunta da Alessio il Giovane, che promise gigantesche somme di denaro e fece intravedere la possibilità di mettere fine allo scisma fra la Chiesa bizantina e quella occidentale. La meta dell’armata non era piú l’Egitto, né il Santo Sepolcro, ma la nuova Roma, la gemma del Bosforo, la regina di tutte le città: Costantinopoli.

Una crisi senza vie d’uscita A questo punto, dobbiamo per un momento posare lo sguardo sulle condizioni dell’impero bizantino sullo scorcio iniziale del XIII secolo. E non è un bello spettacolo. Da quasi un secolo e mezzo Bisanzio si dibatteva in una crisi senza speranza di soluzione. Nel 1071, presso la città armena di Manzikert, le truppe turche selgiuchidi avevano annientato i Bizantini: ma la vera tragedia furono gli eventi successivi, e, in particolare, il lungo periodo di instabilità politica in seno all’impero, che permise ai Selgiuchidi di occupare rapidamente gran parte dell’Asia Minore. Nello stesso anno, Bisanzio aveva perso i suoi ultimi possedimenti italiani, essendosi completata, con la presa di Bari, la conquista normanna dell’Italia meridionale bizantina. Anche l’autorità imperiale sulla Penisola balcanica risultava fortemente indebolita. L’impero, come affermavano gli stessi Bizantini, era ormai ridotto a una grande «testa senza corpo», dove per «testa» si intendeva la capitale imperiale, Costantinopoli. Gli encomiabili sforzi della dinastia comnena (1081-1185) favorirono una ripresa momentanea, ma l’impero era minato alla radice da una crisi interna, provocata dalla disgregazione del sistema economicosociale del periodo medio-bizantino. L’esercito assorbiva tutte le forze dell’impero; la popolazione era ridotta in miseria da tributi sempre piú pesanti e insopportabili; perfino nelle città, molti vendevano la loro libertà per passare al servizio dei magnati, che, al contrario, vedevano aumentare costantemente le loro ricchezze; lo Stato non aveva piú la forza di reagire allo strapotere dei grandi latifondisti. Per di piú, i Comneni concessero ai Veneziani eccezionali privilegi commerciali, e quando si accorsero che ciò significava inevitabilmente cedere a Venezia il ruolo di potenza marittima in passato esercitato da Bisanzio, era troppo tardi. In queste condizioni disperate Costantinopoli si trovò dunque a fronteggiare la nuova minaccia

che si profilava all’orizzonte. Una minaccia che non veniva dai grandi rivali dell’impero, i Turchi musulmani, ma da un pugno di cavalieri cristiani e dagli ex alleati Veneziani. Il 24 maggio del 1203 la flotta crociata spiegò nuovamente le vele e lasciò Corfú, doppiando Capo Malea e dirigendosi verso Costantinopoli lungo la rotta consueta, che prevedeva l’attraversamento dell’Egeo, dello Stretto dei Dardanelli e del Mare di Marmara. Circa un mese dopo, i crociati erano davanti alla capitale bizantina, difesa da una guarnigione tre volte piú grande dell’esercito crociato: centinaia di Greci si assieparono sulle mura per vedere l’armata nemica. La flotta approdò a Calcedonia, una città che si affacciava sul Bosforo proprio di fronte a Costantinopoli. Il giovane Alessio continuava a sostenere che la sua semplice presenza avrebbe scatenato la rivolta nella capitale, ma i giorni passavano e nulla accadeva. I crociati provarono a trattare con i Bizantini, inviando loro messaggeri per spiegare i motivi e i contenuti della loro missione «umanitaria», ma furono comprensibilmente ricevuti con scariche

Un altro frammento dei mosaici della basilica ravennate di S. Giovanni Evangelista. 1213 circa. Un marinaio suona un corno dalla coffa di una nave, in segno di allarme. Potrebbe trattarsi di un episodio accaduto il 1° gennaio 1204, quando Alessio V Ducas «Murzuflo», alla rada del Corno d’Oro, tentò di dar fuoco alla flotta nemica con navi incendiarie che i Veneziani riuscirono a neutralizzare, grazie alla vigilanza dei propri uomini, rimorchiandole al largo del Bosforo.

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Miniatura raffigurante l’arrivo di Alessio (figlio del deposto imperatore) e dei crociati a Costantinopoli, e l’accampamento dell’usurpatore Alessio III. 1473 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

di proiettili. Fu addirittura organizzata una sorta di spettacolo politico-militare di fronte alle mura marittime della città: le 60 galee veneziane si schierarono e tutti i crociati indicarono ai Bizantini Alessio, invitandoli a riconoscere il loro legittimo imperatore ed elencando a uno a uno tutti i crimini commessi da Alessio III: la risposta del popolo fu ancora una volta un lancio di proiettili, a cui si aggiunsero sanguinosi insulti. Se volevano ottenere qualcosa, i crociati dovevano prepararsi alla guerra.

La catena spezzata L’attacco avvenne la mattina del 5 luglio e colpí per primo il quartiere di Galata, chiave di accesso al Corno d’Oro, l’insenatura del Bosforo dove si trovava il porto di Costantinopoli. Galata fu conquistata il giorno seguente e subito venne infranta la grande catena galleggiante che sbarrava l’ingresso nel canale: le navi dei crociati potevano fare il loro ingresso nel porto. 80

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Cominciava l’assedio delle mura della città dalla terraferma. Il 17 luglio 1203 la capitale dell’impero bizantino cadde nelle mani dei crociati. Enrico Dandolo, sfidando i proiettili degli eroici difensori, era stato il primo a lanciarsi verso la spiaggia di Costantinopoli, sulla quale i suoi marinai piantarono lo stendardo con il leone alato di San Marco, guidando i suoi concittadini alla battaglia. Splendidi dipinti, nella Sala del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale di Venezia, hanno immortalato il celebre episodio. A tarda notte, Alessio III fuggí dalla città, portando con sé oro e pietre preziose di cui intendeva servirsi per organizzare la resistenza. Subito, gli aristocratici bizantini restituirono la corona a Isacco II e il 1° agosto 1203 suo figlio, il giovane protetto dei crociati, salí al trono come co-imperatore con il nome di Alessio IV. Ma la situazione volse presto al peggio. Il giovane imperatore, infatti, non era in grado di mantenere le promesse fatte a Corfú e ora si


trovava tra due fuochi: da un lato i crociati e i Veneziani, che esigevano il pagamento immediato delle somme pattuite e respingevano con sdegno le richieste di proroga; dall’altro la popolazione bizantina, che vedeva come il fumo negli occhi il sovrano che aveva chiamato i crociati sul suolo dell’impero e aveva ridotto se stesso alla condizione di servo dei Latini. Alla fine di gennaio del 1204, a Costantinopoli scoppiò una rivolta e Alessio IV perse la corona e la vita, e anche suo padre morí poco dopo in prigione. Al trono salí un ministro di Alessio IV, Alessio Ducas, detto «Murzuflo» («dalle folte sopracciglia»), di tendenza politica fortemente anti-latina, che prese il nome di Alessio V. Era solo il preludio dell’imminente tragedia.

La divisione dell’impero Al colpo di Stato di Alessio V, i crociati reagirono duramente, dichiarando Murzuflo un assassino e i suoi sudditi complici dei suoi delitti: l’indulgenza plenaria che spettava ai partecipanti a una crociata era ora estesa a chiunque avesse mosso guerra al tiranno spinto da propositi di giustizia. Non era piú necessario recarsi in Terra Santa, perché il lavoro da fare per conto di Dio era a Costantinopoli. In marzo, sotto le mura della capitale, i crociati e i Veneziani conclusero un trattato che prevedeva la divisione dell’impero bizantino e la creazione di un «impero latino» a Costantinopoli. L’attacco tanto atteso avvenne il 9 di aprile, ma i crociati non riuscirono a far breccia nelle difese della città e dovettero ritirarsi. Dopo un lungo e vivace dibattito, si decise di attaccare nuovamente le mura del porto il 12 aprile, e questa volta i Veneziani ricorsero a uno stratagemma: posero alcune piattaforme sulle cime degli alberi delle navi, inclinando le imbarcazioni fino a che le piattaforme andassero a toccare le mura, permettendo ai soldati di irrompere su di esse. Un anonimo milite veneziano fu il primo a saltare sulle mura di una torre nemica, ma venne subito ucciso. Fu seguito da un francese, Andra D’Ureboise, che riuscí a resistere all’attacco dei difensori, permettendo ad altri Veneziani e crociati di occupare le mura. Poco tempo dopo le porte della città vennero aperte dagli attaccanti penetrati all’interno, e per Costantinopoli non ci fu piú scampo. «Cosí – scrive il grande bizantinista Georg Ostrogorsky – la città che dai tempi di Costantino il Grande era sempre rimasta inespugnata, che aveva resistito ai poderosi assalti dei Persiani e degli Arabi, degli Avari e dei Bulgari, era diventata la preda dei

crociati e dei Veneziani. Per tre giorni il saccheggio e la strage regnarono in Costantinopoli. I tesori piú preziosi del piú grande centro di cultura del mondo di allora vennero distribuiti tra i conquistatori e in parte barbaramente distrutti». «Dalla creazione del mondo non è mai stato fatto un tale bottino in una città», dice lo storico dei crociati Villehardouin. «Perfino i musulmani sono umani e benevoli in confronto a questa gente che porta la croce di Cristo sulle spalle», annota il cronista bizantino Niceta Coniata. Conquistata la città, fu dato il via alla spartizione del patrimonio di Bisanzio. Nasceva l’impero latino di Costantinopoli, e come imperatore fu scelto il conte Baldovino di Fiandra, una figura minore: tuttavia, a esercitare il potere reale erano i veri protagonisti della crociata, Enrico Dandolo e Bonifacio di Monferrato. A trarre il maggiore profitto dall’impresa furono comunque i Veneziani, e fu probabilmente questo dato di fatto a far ritenere agli storici che la Repubblica avesse lavorato sin da principio a un simile esito. In realtà, Venezia e il suo doge ebbero soprattutto il merito di adattarsi nel modo migliore alle mutevoli circostanze che avevano caratterizzato lo svolgersi dell’impresa.

Una spaccatura profonda L’impero latino, durante i suoi sessant’anni di vita, restò in ogni caso una realtà estremamente precaria. La popolazione bizantina era fortemente ostile ai crociati e il loro dominio non fece che accentuare la separazione, già in atto dal Grande Scisma del 1054, fra la Chiesa d’Oriente e quella di Occidente. Da tale punto di vista, si può dire che la conquista serví solo a rinvigorire nei Bizantini la coscienza della particolarità culturale e religiosa della loro compagine statale. Se alcuni aristocratici di Costantinopoli si erano lasciati incorporare nel nuovo sistema di governo, la maggior parte di essi lasciò i territori occupati e fuggí nella città di Nicea, dove si organizzò la resistenza e si dette vita all’impero bizantino in esilio, che nel 1261 fu in grado di cacciare i Latini, abolire il loro impero e riprendersi la capitale. Di tutta questa singolare vicenda, gli unici elementi destinati a durare furono da un lato la potenza marinara di Venezia, ormai senza rivali, dall’altro l’odio dei Bizantini contro i Latini, mirabilmente sintetizzato da una celebre sentenza del mégas doux Luca Notarás, pronunciata poco prima della conquista turca di Costantinopoli del 1453: «Vedrei piú volentieri nella città il turbante turco che la tiara di Roma».

Ancora un frammento di mosaico nella basilica ravennate di S. Giovanni Evangelista raffigurante papa Innocenzo III che incontra il giovane Alessio, figlio del deposto Isacco II e futuro imperatore Alessio IV. 1213 circa.

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Alla fine di maggio del 1453, il sultano ottomano Maometto II conclude vittoriosamente l’assedio di Costantinopoli. Finiva cosí un’era, cominciata, per una curiosa coincidenza, sempre nel mese di maggio. Ma mille anni prima Una veduta di Mistrà, presso Sparta, in Grecia. Fondata nel 1248 (o 1249) da Guglielmo di Villehardouin, principe latino di Acaia, la città venne successivamente conquistata da Michele VIII Paleologo, divenendo capitale del despotato del Peloponneso (o di Morea) e una delle principali città dell’impero bizantino.

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a potenza ottomana emerge all’alba del XIV secolo in seguito al disfacimento del sultanato selgiuchide provocato dai Mongoli. Proprio per sfuggire alle devastazioni mongole, alcune popolazioni di stirpe turca si trasferirono infatti all’estremità nordoccidentale della penisola anatolica, a stretto contatto con ciò che restava dell’impero bizantino. Il fondatore della casata ottomana fu Uthman I. A suo figlio, Orkhan, si deve la prima grande conquista della nuova dinastia:egli, infatti, il 6 aprile 1326, si impadroní di Prusa (anche nota come Brussa e detta poi Bursa) e ne fece la propria capitale. La città, in cui venne sepolto Uthman, divenne per gli Ottomani una vera e propria città santa, e nello stesso tempo, la base per ulteriori scorrerie in Asia Minore a spese di Bisanzio. A partire dalla metà del Trecento, i Turchi intrapresero anche una serie di campagne militari nei Balcani, che li condussero, nel breve volgere di qualche decennio, a impadronirsi di quasi tutta la penisola balcanica. Nel 1359 Costantinopoli vide per la prima volta le schiere ottomane sotto le proprie mura. Ma la capitale era ancora ben difesa, e seppe resistere. Tuttavia, il resto della Tracia, con le famose città di Didimoteico e Adrianopoli, cadde nelle mani del nemico. Il primo imperatore a rendersi conto della gravità della situazione fu Giovanni V Paleologo (1341-1391), che tentò di assicurarsi l’appoggio dell’Occidente attraverso una politica di unione ecclesiastica inaugurata già da Michele VIII (1259-1282), il fondatore della dinastia paleologa. Il 15 dicembre 1355, inviò ad Avignone una lettera in cui chiedeva a papa Innocenzo VI l’invio di navi e soldati per la difesa di Bisanzio; in compenso, l’imperatore prometteva di portare il suo popolo alla fede cattolica apostolica romana entro sei mesi, offrendo come «ostaggio» il proprio secondogenito.

Il papa sottovaluta il pericolo

Tuttavia, il papa non prese molto sul serio le proposte di Giovanni V, limitandosi a lodare le sue intenzioni e a inviare a Costantinopoli un ambasciatore, senza offrire nulla di ciò che era stato richiesto. Di conseguenza, le trattative 84

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Cartina nella quale sono indicati i residui possedimenti bizantini di Costantinopoli e Mistrà alla data del 1402.

Mar N er o

Costantinopoli Mar Io o Ioni

Mistrà

Mar arr a Egeo Eg E geo

Ma r Me M dit err a ne eo

Medaglia commemorativa in bronzo raffigurante l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, incisa dal Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano). 1438. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

per l’unione si interruppero, riprendendo solo nove anni dopo, quando effettivamente venne bandita una crociata, che tuttavia si diresse contro l’Egitto, deludendo profondamente le aspettative imperiali. Giovanni V, allora, si recò personalmente in Ungheria per cercare il sostegno del re Luigi il Grande. Era la prima volta che un imperatore bizantino si recava all’estero alla ricerca di aiuto. Nel 1369 Giovanni giunse a Roma e si convertí al cattolicesimo, suscitando un enorme sdegno tra le gerarchie della chiesa ortodossa di Costantinopoli. Peraltro, il suo rimase un atto individuale: non ci fu unione delle chiese e l’imperatore non ottenne il sostegno sperato. Nel 1370 il sovrano si recò a Venezia, ma ancora una volta non ricevette alcun appoggio concreto. Un anno dopo, gli Ottomani ottennero una schiacciante vittoria sulla Marizza, e Giovanni V dovette riconoscere la sovranità turca: l’imperatore bizantino diventava vassallo del sultano. Nel 1391 salí al trono Manuele II. Nato a Costantinopoli il 25 luglio 1350, Manuele era il secondo figlio dell’imperatore Giovanni V Paleologo e di Elena Cantacuzena e fu associato al trono dal padre nel 1373, dopo la rivolta fomentata da suo fratello maggiore, Andronico IV. Quando quest’ultimo si ribellò nuovamente, ponendo sotto assedio la capi-


tendo contro le truppe di Giovanni V: cosí, alla morte del padre, avvenuta all’inizio del 1391, Manuele divenne finalmente imperatore. La sua politica fu dettata dalla necessità di combattere i Turchi e nello stesso tempo dall’impossibilità di farlo: per questo egli alternò campagne militari e iniziative diplomatiche, non cessando mai di sperare in un aiuto da parte dei Paesi occidentali. A questo fine, fra il 1399 e il 1403, intraprese anche un viaggio in Europa (ma senza ottenere alcun risultato concreto) e, a partire dal 1414, dette inizio a una serie di trattative con il papa, mostrandosi pronto a farsi promotore dell’unione delle Chiese a fronte di un intervento dell’Occidente a sostegno di Bisanzio. Com’è noto, a salvare momentaneamente l’impero furono invece le vittorie riportate contro gli Ottomani dai Mongoli di Tamerlano, delle quali, tuttavia, la diplomazia bizantina non seppe approfittare. L’ultima impresa di Manuele fu, nel 1415, la costruzione presso l’Istmo di Corinto – sul tracciato di un antico muro difensivo destinato da tempi remoti a proteggere il Peloponneso da eventuali attacchi provenienti dal continente greco – della grande linea fortificata dell’Hexamilion, nell’ingenua e utopica convinzione che essa avrebbe potuto fermare l’avanzata dei Turchi. Morí a Costantinopoli il 21 luglio del 1425, lasciando come suo legittimo erede il figlio Giovanni VIII, colui il quale, propugnando l’unione delle Chiese al Concilio di Ferrara-Firenze e chiedendo in cambio l’aiuto occidentale contro il pericolo ottomano, tenterà fino all’ultimo – sulle orme del padre – di contrastare un destino forse non del tutto scritto.

All’altezza del suo ruolo

tale imperiale, suo padre dovette riconoscerlo a forza quale legittimo erede, concedendogli inoltre il governo di Selimbria, Rodosto, Eraclea e Panido. Manuele lasciò allora Costantinopoli, stabilendosi a Salonicco, dove difese la città contro gli assalti degli Ottomani, ma nel 1387, dovette capitolare. Nel giugno 1390 Andronico IV, insoddisfatto di quanto aveva ottenuto, scatenò un nuovo conflitto allo scopo di estendere il proprio territorio verso la Propontide, ma morí combat-

Il probabile ritratto del filosofo bizantino Giorgio Gemisto Pletone (al centro, con la lunga barba), particolare della Cavalcata dei Magi affrescata da Benozzo Gozzoli nella Cappella del Palazzo Medici Riccardi a Firenze. 1459.

È consuetudine ritrarre Manuele come un personaggio di grande tragicità, vissuto in tempi altrettanto foschi. Il suo costante impegno a difendere la dignità della funzione affidatagli e a sostenere l’impero che governava gli valse, se non risultati politici tangibili, almeno il riconoscimento da parte dei suoi contemporanei, di essere all’altezza del suo ruolo. Lo stesso sultano ottomano Bayazid avrebbe ammesso che il solo aspetto di Manuele bastava a farlo riconoscere come un grande imperatore. Ma Manuele era anche e soprattutto un intellettuale, amante dei libri e delle lettere: studiò grammatica e sintassi, si interessò di retorica, mitologia e filosofia, compose trattati politici e teologici ed epistole di notevole spessore letterario. Al tempo stesso, però, l’imperatore si mostrò sempre perfettamente consapevole degli obbliISTANBUL

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E MAOMETTO II ASCESE AL QUARTO CIELO... Uno dei primi atti compiuti dal sultano subito dopo la conquista fu la visita di S. Sofia, rievocata con commozione in uno splendido passo del grande storico ottomano Tursun Bey: «Il Sovrano dell’Universo, dopo aver goduto dello spettacolo delle meravigliose e strabilianti opere d’arte presenti sulla superficie concava della cupola, salí alla sua superficie convessa: la scalò come Gesú, l’alito di Dio, ascese fino al Quarto Cielo. Dopo aver ammirato il pavimento simile a mare ondoso dalle gallerie che sono fra i suoi piani, uscí all’esterno della cupola. Allorché vide la degradazione e la rovina degli edifici annessi e delle appendici di questa possente costruzione, pensò all’instabilità e alla volubilità del mondo. Considerò che la sua fine è la rovina e malinconicamente, dalla sua favella che diffonde zucchero, scaturí questo distico che giunse fino all’orecchio di questo povero autore e finí iscritto sulla tavoletta del mio cuore: Il ragno tira le tende alla finestra di Cosroe Il gufo suona la fanfara nel palazzo di Efrasyab. Quando il Sovrano del Mondo ebbe piena cognizione dell’essenza di questo edificio, senza badare troppo agli altri particolari, affermò: “Il piú importante!” e diresse il destriero vittorioso verso il campo imperiale». (Tursun Bey, La conquista di Costantinopoli, traduzione italiana di Luca Berardi, Milano, Mondadori, 2007)

ghi del suo ruolo, che gli imponevano di tralasciare gli amati studi. «Una prova delle mie eccessive occupazioni» – scrive Manuele al dòtto bizantino Demetrio Crisolora – «è il fatto che abbia dovuto trascurare del tutto i libri e lo studio, e mi ritrovi privo di tali piaceri, tanto profittevoli per l’anima. Mi affliggo per questa privazione, ma non posso porvi rimedio, perché i doveri del mio rango mi procurano impegni improrogabili». Questo suo strenuo senso del dovere, unito al profondo attaccamento alle tradizioni della Chiesa ortodossa, fece sí che egli fosse ritenuto dai suoi contemporanei come il modello perfetto del buon imperatore: non a caso, nella sua Cronaca, lo storico Giorgio Sfranze, uomo molto vicino agli ultimi Paleologhi, definisce Manuele come haghios, «santo», mentre non fa lo stesso per il suo successore, Giovanni VIII, e neppure per l’ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino Dragazes, che pure era il suo signore.

Alla ricerca di un accordo

L’ultimo, disperato tentativo di salvare Bisanzio fu messo in atto da Giovanni VIII Paleologo (1425-1448). Sotto la pressante minaccia turca, questo imperatore tentò nuovamente la via della trattativa con Roma, per procurarsi l’appoggio dell’Occidente al prezzo della sottomis-

Nella pagina accanto L’entrata del sultano Maometto II a Costantinopoli il 29 maggio 1453, olio su tela di Benjamin Constant. 1876. Tolosa, Musée des Augustins. La presa della città, avvenuta al termine dell’eroica resistenza dei suoi difensori, durante la quale morí anche l’imperatore Costantino XI, decretò la fine dell’impero bizantino e la successiva conquista turca della penisola balcanica.

sione religiosa. Il 24 novembre 1437, Giovanni VIII lasciò Costantinopoli alla volta dell’Italia. Nella primavera del 1438, giunse a Ferrara, dove il 9 aprile venne aperto un concilio, che presto si trasferí a Firenze: lo scopo era quello di trattare la resa della Chiesa bizantina. Il dibattito durò a lungo, ma alla fine, il 6 luglio del 1439, nella cattedrale di Firenze, il cardinale Giuliano Cesarini e l’arcivescovo di Nicea Bessarione proclamarono l’unione. Tuttavia, i Bizantini non ne ricavarono alcun vantaggio politico, e tantomeno militare: le divisioni interne alle potenze occidentali escludevano a priori un efficace sostegno all’impero d’Oriente. Di conseguenza, l’unione seminò odio e inimicizia tra la popolazione e privò l’impero di quel poco prestigio che gli restava. Peraltro, le decisioni del concilio non vennero mai realmente attuate, anche per la fortissima opposizione della Chiesa ortodossa.

La fine di un impero

La fine del «Millennio bizantino» giunse di maggio, in quello stesso mese che, piú di mille anni prima, aveva visto la fondazione di Costantinopoli. Il 29 maggio 1453, Maometto II, il grande sultano ottomano che conquistò la capitale, e che perciò divenne noto con l’appellativo di «Maometto il Conquistatore» (Fatih), dopo aver assediato per circa due mesi la città, decise di sferrare l’attacco generale. La battaglia decisiva ebbe inizio alle prime luci dell’alba e vide i difensori resistere eroicamente. L’imperatore Costantino XI combatté fino all’ultimo, trovando la morte sul campo. La maggior parte dei cronisti afferma che l’imperatore fu ucciso nei pressi della Porta di San Romano: dopo aver lasciato le insegne imperiali, egli si sarebbe gettato nella mischia con i suoi ultimi compagni ancora in vita, scomparendo per sempre dopo aver ucciso l’iperbolica cifra di seicento Ottomani. Il corpo sarebbe stato riconosciuto grazie agli stivali che indossava: color porpora, il colore degli imperatori di Bisanzio. Il sacco di Costantinopoli durò tre giorni e tre notti. Poi, Maometto II fece il suo ingresso nella città conquistata. L’impero bizantino aveva finito di esistere.

DA LEGGERE

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onald M. Nicol, The Last Centuries of Byzantium. 1261-1453, Cambridge D University Press, Cambridge 19932. Ivan Djuric, Il crepuscolo di Bisanzio, 1392-1448, Donzelli, Roma 1995 Steven Runciman, La caduta di Costantinopoli, Piemme, Casale Monferrato 2001 ISTANBUL

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IL NUOVO INIZIO

Con la conquista da parte degli Ottomani, Costantinopoli «nasce» per la terza volta. E la città diviene il cuore di un impero destinato a scrivere un lungo – e fondamentale – capitolo di storia

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el primo specchio dei principi della letteratura ottomana, l’Iskendername di Ahmedi, il sultano Beyazid, sconfitto ad Ankara da Tamerlano è additato come un esempio negativo e la sconfitta di Ankara rappresenta anche la sconfitta di un modello politico. Beyazid è infatti accusato di aver abbandonato l’ethos della ghaza – la guerra in nome della fede – avendo adottato ambizioni imperiali sul modello bizantino e selgiuchide e avendo osato combattere gli altri emirati anatolici di fede islamica con l’aiuto di truppe cristiane. (segue a p. 93)

La moschea di Solimano il Magnifico (Süleymaniye), che per la sua realizzazione si affidò al celebre architetto Sinan. 1550-1557. Il monumentale luogo di culto nacque come parte di un complesso vasto e articolato, che comprende, fra gli altri, una madrasa, una biblioteca, un ospedale e un hammam.

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Il nuovo inizio A sinistra miniatura raffigurante Maometto II davanti alla colonna dei serpenti, facente parte in origine di un tripode bronzeo di Delfi, trasferita a Costantinopoli da Costantino e collocata nell’ippodromo, dallo Hünername, una raccolta manoscritta che contiene le storie della vita dei sultani ottomani. 1584-1588. Istanbul, Palazzo del Topkapi. A destra diorama che ricostruisce la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453. Istanbul, Museo Militare.

UN SOVRANO TRA DUE MONDI Kayser-i Rum è l’epiteto generalmente adottato dalle fonti arabe per indicare gli imperatori bizantini e sarà utilizzato nelle titolature dei sultani ottomani fino alla fine dell’impero. Lo storico greco Critobulo di Imbro, nell’epistola dedicatoria della sua opera storica che copre il regno di Maometto II, cosí si rivolge al sultano: «grandissimo imperatore, re dei re Maometto, fortunato, vincitore, portatore di trofei, trionfatore, invincibile, signore della terra e del mare per volere divino». Si osservi la compresenza di una formula di ascendenza persiana, e cioè «re dei re» e di titoli imperiali romani di età costantiniana, equivalenti degli epiteti felix, victor, triumphator, invictus, che manifestano le ambizioni ecumeniche del neonato impero. Pur segnando una discontinuità dal punto di vista religioso rispetto all’impero romano cristiano d’Oriente, l’impero ottomano vi si richiama rispetto alla «romanità», considerandosene legittimo erede politico. Michele Critobulo legittima la translatio imperii operata dal sultano sostenendola con motivazioni ulteriori. Maometto è basileus per diritto di conquista e per la superiorità dimostrata sui Bizantini in termini di organizzazione militare e politica. Per Critobulo inoltre, la stirpe ottomana è naturale erede dell’impero bizantino: richiamandosi alla tradizionale equivalenza tra Turchi e Persiani, comune nelle fonti bizantine, fa discendere i primi dagli Achemenidi, il cui capostipite fu il greco Perseo. I Turchi sarebbero quindi di origine greca, degni eredi della grecità classica e bizantina; Maometto in particolare è da Critobulo spesso accostato ad Alessandro Magno, massimo modello di regalità nella tradizione letteraria turco-persiana.

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In alto scudo di produzione turca o mamelucca. Fine del XV sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra uno scorcio dell’interno della chiesa di S. Salvatore in Chora, ornata da splendidi mosaici.

Il modello propugnato da Beyazid viene ripreso cinquant’anni dopo da Maometto II, che considera la conquista di Costantinopoli un passaggio essenziale per l’affermazione del progetto imperiale ottomano. L’ideologia politica bizantina si era sempre retta sul primato indiscusso di Costantinopoli, centro politico e spirituale di un impero universale ed eterno, esso stesso percepito come centro del mondo. Maometto si rifà al modello imperiale bizantino – ma senza che ciò risulti in un’ideologia ufficialmente codificata – eleggendo Costantinopoli makarr-ı saltanat («sede del sultanato») dopo Bursa e Edirne, la città dei «signori della frontiera», i ghazi. Un preciso segno di continuità si osserva nel fatto che la capitale conserva l’antico nome: nei documenti ottomani ufficiali piú antichi incontriamo sempre Kostantiniyye, affiancato da Istanbul, termine greco anch’esso.

Il nuovo cuore dell’impero

Secondo una tradizione riportata da Abraham di Ankara, Maometto avrebbe deformato il nome della città in Islambol («abbondante di Islam»), utilizzando l’assonanza con l’espressione eis tin polin. Come per Costantino, anche (segue a p. 102) ISTANBUL

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MAOMETTO II

IL SULTANO FANCIULLO Quando Maometto (Mehmet) II salí al trono, in seguito all’abdicazione di suo padre Murat II (1444), aveva solo dodici anni e mezzo: il piú giovane sovrano della Casa di Osman fino a quel momento. I vizir erano molto preoccupati, perché ritenevano che Maometto fosse troppo giovane e inesperto per affrontare le minacce che lo Stato ottomano doveva affrontare, in particolare la crociata che papa Eugenio IV aveva indetto per l’anno precedente. Tre settimane dopo l’assunzione al trono da parte di Maometto, l’esercito crociato attraversò il Danubio e iniziò a marciare verso est lungo la riva destra del fiume attraverso il territorio ottomano. Le forze crociate comprendevano anche contingenti navali provenienti dalla Borgogna, da Venezia e dal papato, le cui navi pattugliavano il Danubio, il Mar Nero e gli stretti tra Europa e Asia. L’esercito ottomano affrontò i crociati il 10 novembre del 1444 nei pressi di Varna, sul Mar Nero. Durante la prima fase della battaglia i crociati indebolirono entrambe le ali dell’esercito ottomano, ma il contrattacco dei giannizzeri cambiò le sorti della battaglia e, il giorno seguente, i crociati si arresero ai Turchi. Nel frattempo, anche i Veneziani pensarono di approfittare della giovinezza di Maometto negoziando un trattato di pace con lui: esso fu firmato a Edirne il 23 febbraio 1446. Una copia del trattato è ancora conservata nell’Archivio di Stato veneziano, l’unico documento esistente della prima fase del regno di Maometto. Trame oscure Nel frattempo, il Gran Vizir Halil Pashà aveva inviato una serie di messaggi a Murat, implorandolo di riprendere il suo governo come sultano. Sosteneva che Maometto fosse troppo giovane e immaturo per governare, citando in particolare l’audace piano di attaccare Costantinopoli ideato dal figlio di Murat II e dal quale era stato dissuaso dal vizir. Un’altra questione riguardava i giannizzeri, che nell’aprile del 1446 avevano chiesto un aumento della paga. La loro rivendicazione venne ignorata ed essi si rivoltarono e incendiarono il mercato coperto di Edirne. A quel punto Maometto cedette alle loro richieste, stabilendo un pericoloso precedente che avrebbe turbato il sultanato ottomano per i secoli a venire. All’indomani di quest’ultimo incidente, Halil Pashà persuase Maometto a rinunciare al trono e richiamare suo padre. Questi accettò con riluttanza di tornare, e all’inizio di settembre 1446 raggiunse Edirne e riprese il suo governo come sultano, mentre Maometto si ritirò a Manisa. Nel frattempo, le forze cristiane avevano guadagnato terreno nel Sud della Grecia e in Albania, e non appena Murat riprese il suo regno lanciò contrattacchi in entrambe le regioni. Il suo avversario nella Grecia meridionale era il despota della Morea (Peloponneso), Costantino Dragases, fratello minore dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo. Durante l’inverno del 1446-7 Murat riconquistò il territorio 94

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che Costantino gli aveva sottratto. L’anno seguente, lanciò una campagna contro Skanderbeg (forma italianizzata di Iskender Beg, nome dato dai Turchi al leader albanese Giorgio Castriota, n.d.r.), che fu costretto ad abbandonare le terre ottomane che aveva riconquistato per fuggire sulle montagne, dove per i successivi due decenni continuò a combattere contro i Turchi. Intanto, il 6 marzo 1447, fu eletto al soglio pontificio papa Niccolò V, succedendo a Eugenio IV, e l’8 marzo dell’anno successivo, spronato dal condottiero ungherese Giovanni Hunyadi, indisse un’altra crociata contro i Turchi. Hunyadi, con le sue truppe di Valacchi e alcuni Tedeschi e Cechi come alleati, attraversò il Danubio nel settembre 1448 in Serbia, mentre Murat partí da Sofia per fermarlo con un esercito molto piú grande. I due eserciti si incontrarono a Kosovo Polje, il «Campo dei Merli», dove i Serbi avevano combattuto contro i Turchi nella celeberrima battaglia del 1389. L’esito della seconda battaglia del Kosovo, combattuta dal 17 al 20 ottobre 1448, fu lo stesso della prima, con gli Ottomani che sconfissero i cristiani. Maometto vi ebbe il suo «battesimo del fuoco», comandando l’ala destra dell’esercito di suo padre. La battaglia terminò quando Hunyadi abbandonò le sue truppe sconfitte e fuggí dal campo. L’ultimo imperatore di Bisanzio A Costantinopoli, il 31 ottobre 1448 morí Giovanni VIII Paleologo e si aprí la lotta per la successione, che vide vincitore suo figlio Costantino Dragases. Il 6 gennaio 1449, egli fu incoronato nella chiesa di S. Demetrio a Mistrà come Costantino XI, destinato a essere l’ultimo imperatore di Bisanzio. Dopo la sua incoronazione, Costantino divise il Despotato di Morea tra i suoi due fratelli, con Demetrio che avrebbe dovuto governare a Mistrà e Tommaso in Acaia, nel Peloponneso occidentale. Costantino lasciò quindi Mistrà per Costantinopoli, dove arrivò il 12 marzo 1449. Poco dopo inviò un corriere al sultano Murat per trasmettere i suoi saluti e chiedere un accordo di pace. Nel settembre del 1449, morí la madre di Maometto, Hüma Hatun, e fu sepolta nel giardino della moschea Muradiye a Bursa. L’iscrizione dedicatoria sulla sua tomba riferisce che fu costruita da Maometto «per la sua defunta madre, regina tra le donne – possa la terra della sua tomba essere profumata». Nel frattempo, Maometto era diventato padre per la prima volta nel gennaio 1448, quando la sua concubina Gülbahar diede alla luce un figlio, il futuro Beyazit II. Poco si sa delle origini di Gülbahar, ma probabilmente ella era greca. Le concubine nell’harem imperiale erano quasi sempre cristiane, anche se le donne musulmane di alto rango venivano talvolta accolte come mogli dei principi o sultani nei matrimoni dinastici. Murat stesso aveva fatto due di questi matrimoni, il primo con la principessa Mara, figlia di George


Ritratto di Maometto II, olio su tela di Gentile Bellini. 1480. Londra, Victoria and Albert Museum. Il dipinto fu realizzato dopo che il sultano, nel 1479, aveva richiesto alla Serenissima un buon

ritrattista: la scelta era dunque caduta sul veneziano Bellini, che, recatosi a Istanbul, vi si trattenne per circa un anno e mezzo, portando a termine una missione diplomatica oltre che artistica. ISTANBUL

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Il nuovo inizio Ritratto di Maometto II con un giovane dignitario di corte, da alcuni identificato con il figlio Cem Sultan, olio su tavola attribuito alla bottega di Gentile Bellini. Istanbul, Municipalità Metropolitana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’arrivo del principe Cem a Rodi, dove era stato costretto a rifugiarsi in seguito alla lotta fratricida con Bayazid, da un’edizione dell’Histoire du siège de Rhodes di Guillaume Caoursin. XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Brancovic, il despota di Serbia, e il secondo con Halima Hatun, figlia dell’emiro Ibrahim II, sovrano di una tribú turkmena dell’Anatolia centrale, cercando cosí di stabilire relazioni cordiali sia con le potenze europee sia con quelle asiatiche. Nel 1468, un’altra concubina di Maometto, Gülsah, diede alla luce il suo secondo figlio, Mustafa, che sarebbe sempre stato il suo preferito. Nello stesso anno la moglie di Murat II, Halima Hatun, diede alla luce un figlio, Ahmet, soprannominato Küçük («Piccolo») per distinguerlo dal defunto principe Ahmet, il primo figlio del sultano. Cosí Maometto aveva ora un fratellastro, piú giovane dei suoi figli, che avrebbe potuto essere un loro rivale per il trono. La resistenza di Skanderbeg Nel frattempo, Murat aveva esteso i suoi domini nella Grecia occidentale, dove nel 1449 conquistò Arta. Poi, accompagnato da Maometto, guidò una spedizione vittoriosa contro il comandante albanese Skanderbeg, che fu costretto a cedere la maggior parte dei suoi domini al sultano. Skanderbeg riuscí a mantenere la città fortificata di Kruje, che Murat, ancora una volta accompagnato da Maometto, attaccò a metà maggio del 1450. Ma Skanderbeg organizzò una difesa cosí tenace che Murat fu costretto a togliere l’assedio alla fine di ottobre e ritirare le sue forze a Edirne. Questo fece di Skanderbeg un eroe in tutta Europa; ambasciatori furono inviati a Kruje dal papa, dal re Alfonso d’Aragona e Napoli, dal reggente Giovanni Hunyadi di Ungheria e dal duca Filippo il Buono di Borgogna. Skanderbeg aveva dato ai cristiani la speranza di potersi difendere dal «pericolo turco». Murat II morí l’8 febbraio 1451, colpito da apoplessia dopo un banchetto. Aveva quarantasette anni e aveva governato 96

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LA STRAORDINARIA STORIA DI CEM SULTAN Una straordinaria storia di potere ed esilio, che riporta vividamente alla memoria una delle figure piú singolari e colorate della storia medievale, è quella di Cem Sultan, recentemente rievocata in un bel libro da John Freely (Jem Sultan: The Adventures of a Captive Turkish Prince in Renaissance Europe, London-New York-Toronto & Sidney, Harper Perennial, 2004). Cem Sultan, figlio di Maometto II, nato nel dicembre del 1459, fu uno dei personaggi piú eminenti del mondo ottomano del tempo. La sua storia di principe e poeta turco tenuto prigioniero in Europa lo rese infatti una figura romantica e misteriosa, la cui fama si diffuse in tutto l’Occidente. La cultura europea contemporanea l’ha pressoché dimenticato, ma in Turchia Cem resta un personaggio leggendario e venerato, e la sua tomba è ancora oggi un luogo di pellegrinaggio. Quando Maometto morí nel 1481, Cem e suo fratello Bayazid combatterono una guerra lunga un anno per la successione. Cem fu sconfitto e fuggí a Rodi. Fu detenuto per sette anni in vari castelli in Francia, poi imprigionato in Vaticano. Morí nel 1495, probabilmente avvelenato dal famigerato papa Borgia, Alessandro VI. Il suo corpo fu infine restituito ai Turchi nel 1499. John Freely, che ha avuto accesso a documenti originali in inglese, turco, francese e italiano, racconta la straordinaria storia di Cem Sultan dalla sua infanzia e giovinezza nei palazzi dell’impero ottomano fino allo scontro con il fratello e i suoi lunghi anni di esilio europeo.


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INDAGINE SULLO STATO DEL REGNO Come riferiscono fonti greche e ottomane, dopo la sua accessione al trono, Maometto si diede a un esame di tutto il suo regno. Ciò lo portò a deporre alcuni dei governatori e a sostituirne altri, che riteneva superiori ai primi in strategia e giustizia. Esaminò i registri e l’ordine di battaglia delle truppe, della cavalleria e della fanteria, che erano pagate dal tesoro reale, aumentando la paga delle sue truppe, in particolare quella dei giannizzeri. Oltre a ciò, raccolse una scorta di armi e frecce e altre cose necessarie e utili in preparazione della guerra. Infine, esaminò il tesoro della sua famiglia, obbligando a rendere conto i funzionari responsabili delle imposte annuali.

per tre decenni, la maggior parte dei quali trascorsa in guerra. La morte del sultano fu tenuta segreta dal Gran Vizir in modo che Maometto potesse essere convocato da Manisa, dove stava servendo come governatore provinciale. 98

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La segretezza potrebbe essere stata causata dall’impopolarità di Maometto sia presso l’esercito che presso la popolazione di Edirne, che avrebbe potuto ribellarsi per impedire la sua accessione al trono. Ma tutto andò bene, e dopo che Maometto ebbe attraversato i Dardanelli fino a Gallipoli, fu accolto dalla corte ottomana e dagli abitanti della zona circostante, che lo accompagnarono al palazzo di Edirne piangendo la morte del sultano Murat. Coma narra lo storico bizantino Doukas, dopo aver proceduto per circa mezzo miglio in un silenzio tombale, si fermarono e alzarono le loro voci in forti lamenti, versando lacrime per tutto il tempo. Poi Maometto e i suoi subordinati smontarono da cavallo e seguirono l’esempio popolare, squarciando l’aria con altissimi lamenti. Di nuovo sul trono Il giorno seguente (18 febbraio 1451), Maometto fu acclamato sultano, un mese prima del suo diciannovesimo compleanno. Il sultano fu cinto della spada del suo antenato Osman Gazi – l’equivalente ottomano dell’incoronazione – alla presenza dei vizir e di altri ufficiali della sua corte. Dopo la cerimonia Maometto, che pure detestava il vecchio


A destra e nella pagina accanto la tomba di Maometto II nella moschea di Fatih (Fatih Cami), fatta costruire dallo stesso Maometto sul sito di una preesistente chiesa dei Ss. Apostoli. Distrutto da un terremoto, il grandioso complesso fu ricostruito nel 1766 nelle forme che si possono oggi ammirare. consigliere di suo padre, nominò Halil Pashà Gran Vizir. Maometto sapeva che Halil aveva boicottato il suo primo tentativo di governare come sultano, e lo sospettava di corruzione. Tuttavia, permise ad Halil di continuare a svolgere temporaneamente il suo ruolo, aspettando, il momento giusto per eliminarlo. Il nuovo sultano mantenne in carica anche un altro dei vecchi vizir di suo padre, Ishak Pashà, che nominò «Beylerbey», cioè governatore, dell’Anatolia. Ordinò quindi a Ishak di condurre i resti di Murat a Bursa per la sepoltura nella Muradiye, il complesso della moschea che suo padre aveva eretto all’inizio del suo regno. Lí Murat fu sepolto nel türbe («mausoleo»), che aveva eretto per se stesso accanto alla moschea: egli fu l’ultimo sultano a essere sepolto nella prima capitale ottomana. Subito dopo la sua incoronazione, Maometto si recò all’harem del palazzo di Edirne, dove ricevette le congratulazioni di tutte le donne presenti, che gli diedero anche le loro condoglianze per la morte di suo padre. La piú nobile delle mogli del sultano defunto al momento della sua morte era Halima Hatun, che quindici mesi prima aveva dato alla luce l’ultimo figlio di Murat, Küçük Ahmet. La successione era stata spesso oggetto di contese nella dinastia ottomana e aveva portato a due guerre civili. Cosí Maometto decise che in questo caso avrebbe risolto immediatamente la questione ordinando l’esecuzione di Küçük Ahmet. Maometto giustificò l’omicidio del fratellastro come conforme al codice ottomano di fratricidio, che in diverse occasioni era stato praticato dai suoi antenati per prevenire guerre di successione. Un’intensa attività diplomatica In seguito, Maometto fece promulgare il codice in un editto: «E a chiunque dei miei figli passerà il Sultanato, è appropriato che per l’ordine del mondo uccida i suoi fratelli. La maggior parte dei giurisperiti lo permette. Quindi lasciamo che agiscano su questo». Poi il sovrano diede in moglie Halima Hatun a Ishak Pasha, il nuovo Beylerbey dell’Anatolia. Un’altra delle mogli di alto rango di Murat, Mara, figlia di Giorgio Brankovic, fu rimandata in Serbia con ricchi doni, e in seguito mantenne rapporti cordiali con Maometto. Maometto ne approfittò per rinnovare un trattato di pace con Brankovic. Il trattato con la Serbia fu uno dei numerosi accordi diplomatici che Maometto stipulò alla fine dell’estate del 1451, quando la notizia della sua accessione al trono si diffuse in tutta Europa e spinse le potenze cristiane a inviare ambasciate a Edirne per incontrare il giovane sultano. Il primo ad arrivare fu un ambasciatore dell’imperatore Costantino XI, che negoziò un trattato di pace con Maometto. Uno dei termini di questo trattato riguardava il cugino di Maometto, Orhan, un nipote di Beyazit I. Orhan era ostaggio a

MAOMETTO II SULLA CUPOLA DI S. SOFIA Uno dei primi atti compiuti dal sultano subito dopo la conquista fu la visita di S. Sofia, rievocata con commozione in uno splendido passo del grande storico ottomano Tursun Bey: «Il Sovrano dell’Universo, dopo aver goduto dello spettacolo delle meravigliose e strabilianti opere d’arte presenti sulla superficie concava della cupola, salí alla sua superficie convessa: la scalò come Gesú, l’alito di Dio, ascese fino al Quarto Cielo. Dopo aver ammirato il pavimento simile a mare ondoso dalle gallerie che sono fra i suoi piani, uscí all’esterno della cupola. Allorché vide la degradazione e la rovina degli edifici annessi e delle appendici di questa possente costruzione, pensò all’instabilità e alla volubilità del mondo. Considerò che la sua fine è la rovina e malinconicamente, dalla sua favella che diffonde zucchero, scaturí questo distico che giunse fino all’orecchio di questo povero autore e finí iscritto sulla tavoletta del mio cuore: Il ragno tira le tende alla finestra di Cosroe Il gufo suona la fanfara nel palazzo di Efrasyab. Quando il Sovrano del Mondo ebbe piena cognizione dell’essenza di questo edificio, senza badare troppo agli altri particolari, affermò: «Il piú importante!» e diresse il destriero vittorioso verso il campo imperiale». (Tursun Bey, La conquista di Costantinopoli, traduzione di Luca Berardi, Milano, Mondadori, 2007)

Costantinopoli, utilizzato dai Bizantini come possibile pretendente per destabilizzare il regime ottomano. Maometto accettò di pagare per il mantenimento di suo cugino, offrendo all’imperatore le entrate dei villaggi nella valle di Struma in Grecia. Maometto scambiò anche emissari con Giovanni IV Comneno, l’imperatore bizantino di Trebisonda. Il 10 settembre Maometto ricevette un’ambasciata da Venezia e rinnovò un trattato di pace con ISTANBUL

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Il nuovo inizio La fortezza di Rumelihisarı, fatta costruire da Maometto II a controllo del canale del Bosforo e oggi divenuta una delle piú battute mete turistiche della città di Istanbul.

la Serenissima che suo padre aveva firmato cinque anni prima. Dieci giorni dopo arrivarono i rappresentanti di Hunyadi e Maometto firmò un accordo per una tregua di tre anni con l’Ungheria. La successiva ambasciata giunse dalla città stato di Ragusa, che si offrí di aumentare il tributo pagato al sultano. Seguirono le missioni del Gran Maestro dei Cavalieri di San Giovanni a Rodi, del Principe di Valacchia e dei signori genovesi di Chio e Lesbo, che recarono ricchi doni per il sultano, ricevendo da lui espressioni di buona volontà. Nuove spedizioni, nuove trattative I trattati firmati da Maometto assicurarono i suoi confini in Europa. Questo lo lasciò libero di guidare una spedizione in Anatolia, dove un suo vassallo, l’emiro Karamanide Ibrahim, si era ribellato e si era impadronito di tre fortezze ottomane: Aksehir, Beysehir e Seydisehir. Secondo il cronista turco contemporaneo Tursun Beg, nella primavera del 1451 Dayı Karaca Pasha, il beylerbey di Rumelia, la parte europea del regno ottomano, fu lasciato con le sue truppe a Sofia per 100

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RUMELI, UNA BASE PER LA CONQUISTA La fortezza di Rumelihisarı («Fortezza nella terra dei Romani»), che copre un’area di circa 30 acri, fu fatta costruire da Maometto II, in soli quattro mesi, un anno prima della conquista di Costantinopoli, al fine di controllare il passaggio delle navi nel Bosforo e prevenire attacchi dalla regione a nord del canale. Essa veniva cosí ad affiancare la fortezza di Anadolu, costruita

proteggersi dalla possibilità di un attacco dall’Ungheria, mentre Maometto stesso partí contro Ibrahim con le sue truppe anatoliche. Quando l’esercito ottomano raggiunse l’Anatolia centrale, Ibrahim fuggí e inviò il suo vizir Mewlan Weli a negoziare i termini della pace. Ibrahim accettò di rinunciare ad Aksehir, Beysehir e Seydisehir, compresi i territori circostanti. Inoltre, accettò di inviare ogni anno un certo numero di soldati a servire nell’esercito ottomano. Nello stesso periodo l’imperatore Costantino inviò ambasciatori per rinegoziare un punto del trattato di pace che aveva firmato con Maometto, quello riguardante il mantenimento del pretendente turco Orhan. Quando l’ambasciata raggiunse Maometto, probabilmente a Bursa, delegò Halil Pashà a trattare con loro. Gli inviati dissero che il pagamento per il mantenimento di Orhan non era sufficiente, e sottintendeva che, se non fosse stato aumentato, Costantino avrebbe permesso al pretendente di rivendicare il trono ottomano. Halil era su tutte le furie: disse agli inviati, chiamandoli «stupidi e sciocchi Romani», che


dal sultano Bayazid I sul lato opposto del canale nel 1394. Secondo le fonti, in questo periodo di tempo cosí ristretto, lavorarono alla costruzione della fortezza 300 capomastri, 800 lavoratori e piú di trecento tra battellieri e trasportatori. Il progetto e l’esecuzione del complesso si devono a Muslihiddin Aga, l’architetto capo di Maometto II. Al comando della struttura fu posto Firuz Bey, a cui fu affidata una piccola guarnigione. Il suo compito era la sorveglianza

stavano commettendo un errore fatale nel minacciare Maometto, perché era un nemico molto piú pericoloso di suo padre, che era stato «un amico sincero» dei Bizantini. Maometto informò gli inviati che avrebbe affrontato la questione quando sarebbe tornato a Edirne.

Il trattato ripudiato Si preparò quindi a riportare il suo esercito in Europa attraverso i Dardanelli. Ma quando venne a sapere che le navi da guerra italiane erano di pattuglia nell’area, cambiò rotta e fece traghettare le sue truppe attraverso il Bosforo, imbarcandosi da Anadolu Hisarı, la fortezza che Beyazit I aveva costruito nel 1394 sulla costa. Non appena Maometto tornò a Edirne, ripudiò il trattato con Costantino. La sua rabbia per la minaccia di sostenere il pretendente Orhan era tale che iniziò immediatamente i preparativi per un assedio di Costantinopoli, cosa che gli era stata impedita di fare quando era salito al trono per la prima volta. La fine del «Millennio bizantino» giunse di maggio, quello

del Bosforo ma anche la riscossione delle tasse doganali e il cannoneggiamento dei battelli che rifiutavano di pagare il dazio richiesto. Dopo la conquista di Costantinopoli, la fortezza di Rumeli perse la sua importanza strategica e divenne prigione imperiale e posto di controllo doganale. Attualmente, il museo di Rumelihisarı, con le sue alte torri a picco sul Bosforo, è uno dei luoghi piú suggestivi di Istanbul e merita senz’altro una visita.

stesso mese che, piú di mille anni prima, aveva visto la fondazione di Costantinopoli. Il 29 maggio 1453, Maometto II, dopo aver assediato per circa due mesi la città, decise di sferrare l’attacco generale. La battaglia decisiva ebbe inizio alle prime luci dell’alba e vide i difensori resistere eroicamente. L’imperatore Costantino XI combatté fino all’ultimo, trovando la morte sul campo. La maggior parte dei cronisti afferma che l’imperatore fu ucciso nei pressi della Porta di San Romano: dopo aver lasciato le insegne imperiali, egli si sarebbe gettato nella mischia con i suoi ultimi compagni ancora in vita, scomparendo per sempre dopo aver ucciso l’iperbolica cifra di seicento Ottomani. Il corpo sarebbe stato riconosciuto grazie agli stivali che indossava: color porpora, il colore degli imperatori di Bisanzio. Il sacco di Costantinopoli durò tre giorni e tre notti. Poi, Maometto II fece il suo ingresso nella città conquistata. L’Impero bizantino aveva finito di esistere e il sultano divenne noto nel mondo con l’appellativo di «Maometto il Conquistatore» (Fatih). ISTANBUL

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IL BAILATO DI COSTANTINOPOLI Nel periodo che va dalla conquista turca di Costantinopoli fino allo scoppio della Seconda Guerra Ottomano-Veneziana nel 1499, la direzione della comunità veneziana, con il consenso del potere ottomano, fu affidata a un bailo (parola veneziana che deriva dal latino baiulus («portatore»). Inizialmente, il bailato si insediò nel centro di Galata, ma poi fu trasferito nell’area di Pera, in un grande complesso circondato da mura (Vigne di Pera). La zona privata della residenza ospitava il bailo, i suoi dipendenti, alcuni giannizzeri e il personale di segreteria. La zona pubblica, che comprendeva una magnifica sala per banchetti, veniva invece utilizzata per accogliere dignitari e ambasciatori.

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per Maometto la translatio imperii coincide con lo spostamento del centro dell’impero e con la rifondazione di Costantinopoli, rifondata in quanto eletta nuova capitale dell’impero. E come per l’imperatore romano anche per il sultano la rifondazione della Polis coincide con una conversione, dal paganesimo al cristianesimo per il primo, e dal cristianesimo all’Islam per il secondo. Infine, come per Costantino, la conversione è seguita da un provvedimento che assicura la libertà di culto ai cristiani di Galata e poi dal ristabilimento del patriarcato ortodosso sotto la guida di Giorgio Gennadio Scolario. In tale contesto, è molto significativo l’utilizzo di titoli bizantini nei documenti sultaniali redatti nella cancelleria imperiale, che per tutto il regno di Maometto utilizza


Due immagini della Torre di Galata, innalzata dai Genovesi tra il 1348 e il 1349 sul lato settentrionale del Corno d’Oro.

IL CENSIMENTO DEL 1478 In venticinque anni, la popolazione di Istanbul raddoppiò, e questa volta l’incremento riguarda soprattutto la popolazione turco-musulmana. Un censimento del 1478 individua 9517 famiglie musulmane e 6807 famiglie di infedeli a Istanbul e Galata, fra cui 1647 famiglie ebraiche, cioè un totale di 16 324 nuclei familiari, che quindi equivalgono, complessivamente, a un numero di abitanti compreso fra le 65 000 e le 80 000 unità.

LA TORRE DI GALATA La Torre di Galata, a lungo utilizzata come torre di avvistamento contro gli incendi, costituisce certamente uno degli elementi piú caratteristici del paesaggio di Istanbul. Essa si trova nel punto piú settentrionale e piú elevato della cittadella di Galata e fu costruita dai Genovesi tra il 1348 e il 1349, non lontano dal luogo in cui sorgeva un’importante fortificazione bizantina, la cosiddetta Megas Pyrgos («Grande torre»). Collocata sul lato nord del Corno d’Oro, quest’ultima rappresentava uno dei sostegni della grande catena tesa sul canale al fine di impedire alle navi nemiche di entrare nel porto e conteneva un meccanismo per sollevare e abbassare la catena stessa. Quando, intorno al 1300, i Genovesi si stabilirono a Galata, si dette inizio a un’opera di restauro delle mura e dei bastioni che proteggevano l’area. Fu appunto in tale occasione che venne fondata la torre attuale, situata in cima alle mura. La torre, chiamata «Torre di Cristo» dalla croce che la coronava, divenne gradualmente il simbolo della comunità latina di Costantinopoli. Dopo la conquista turca, fu consegnata a Maometto II. Danneggiato da incuria e terremoti, il monumento fu ristrutturato nel XVI secolo dall’architetto ottomano Murad bin Hayreddin. Nel corso di un successivo restauro, al piano superiore della struttura fu aggiunto un bovindo. Durante il regno di Mahmud II (1808-1839), la torre subí un altro incendio e nei lavori di riparazione che seguirono si costruirono due ulteriori piani: in questa stessa occasione, la struttura fu coronata dal celebre tetto a forma di cono che oggi rappresenta una vera e propria icona della città.

il greco nella corrispondenza diplomatica con le potenze occidentali e nei rapporti con le comunità latine e ortodosse dell’impero. Quella di usare il greco negli scambi con ortodossi e latini è una pratica in uso da tempo anche in altre cancellerie islamiche, ma solo con Maometto essa si attesta con regolarità ed è sostenuta da un preciso richiamo all’eredità bizantina nelle titolature. Se infatti fino a Maometto II l’unico titolo di origine greca in uso è authentes, signore (da cui il turco efendi), a partire dal 1453 il sultano si definisce anche basileus e autokrator. Nei documenti ottomani il titulus di Maometto è sultan al-barrayn wa-al-bahrayn, («sultano dei due continenti e dei due mari», rispettivamente Rumelia e Anatolia, cioè Europa e Asia, e Mar Nero e Mar Bianco, cioè il Mediterraneo); Sahib-i Kıran («Signore della fortunata congiunzione»), titolo di origine timuride utilizzato per esprimere la sovranità universale e l’invincibilità in battaglia; hunkar, ovvero imperatore; infine, kayser-i Rum, letteralmente «Cesare dei Romei», titolo che Maometto non riconosce all’ultimo imperatore di Bisanzio, Costantino XI Paleologo, e rivendica per se stesso. (segue a p. 106) ISTANBUL

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IL BAZAR DELLE MERAVIGLIE Una delle grandi preoccupazioni degli Ottomani era quella di favorire e controllare le attività commerciali. A tale scopo, nel 1456, Maometto II ordinò la costruzione di un edificio riservato alle merci di valore che fosse anche un luogo di transazioni finanziarie e un deposito protetto. Si tratta del cosiddetto Büyük Bedesten (Grande mercato). Al centro si trovano l’Iç bedesten, anche noto come Cevahir bedesten (Bazar dei Gioielli) e il Kapali Ciarsi (il bazar interno o mercato coperto). Piú tardi verrà aggiunto un altro edificio, il Sandal bedesteni, riservato al commercio delle stoffe di lusso come la seta. In origine esso comprendeva 126 botteghe (sanduk), ognuna delle quali era munita di retrobottega e di una cassaforte. Dal bedesten partivano diverse vie, lungo le quali si trovavano le officine degli artigiani e le botteghe dei commercianti, raggruppate secondo il tipo di attività. Il bedesten era collegato al quartiere del porto da un’ampia via bordata da quattro caravanserragli (khan).

Sulle due pagine vedute esterne e interne del grande bazar di Istanbul. La costruzione di un primo complesso destinato ad attività finanziarie e commerciali fu promossa da Maometto II nel 1456.

In alto pianta dei bazar di Istanbul, con l’indicazione delle diverse attività commerciali svolte nei vari settori del complesso, da Life on the Bosphorus. Doings in the city of the Sultan. Turkey, past and present... di William James Joseph Spry. 1895. Londra, British Library. 104

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Dopo la conquista di Costantinopoli, la città, che contava circa 60 000 abitanti, vede la sua popolazione dimezzata. Maometto II si trovò dunque a dover prendere misure necessarie per riordinare e ripopolare quella che egli vuole far assurgere al rango di capitale imperiale (fino al 1458 la capitale ottomana restò comunque Adrianopoli/Edirne). Inizialmente, il sultano prese in considerazione la possibilità di ricorrere al notabilato bizantino, ma andò incontro all’opposizione dei suoi, timorosi del tradimento dei Greci. In ogni caso, un proclama permise agli abitanti della città fuggiti dopo il saccheggio, di ritornare liberamente al loro domicilio o, se occupato, in qualsiasi altra dimora disponibile. A Costantinopoli rimasero solo 1500 giannizzeri, il po106

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tente corpo d’élite ottomano, reclutato nei territori cristiani conquistati dai Turchi.

La tolleranza verso i Greci

La popolazione rimase a lungo prevalentemente greca, e questo spiega perché, in un primo tempo, poche chiese furono trasformate in moschee. La sede del patriarcato bizantino fu dapprima trasferita nella chiesa dei Ss. Apostoli, poi, quando Maometto decise di far costruire, al posto della chiesa, la moschea che ancora oggi porta il suo nome, al patriarca fu assegnata la chiesa della Vergine Pammakaristos (oggi Fethiye Cami). Ai Greci fu accordato il diritto di praticare la propria religione e di mantenere i tribunali per risolvere liti e problemi della loro comuni(segue a p. 111)


In alto uno scorcio del nucleo piú antico del bazar di Istanbul, e, a destra, una veduta del suo interno.

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YENI SARAY

IL PALAZZO DEL TOPKAPI Il palazzo imperiale del Topkapı (cosí chiamato a partire dal XIX secolo) fu fondato da Maometto II subito dopo la conquista di Costantinopoli sulle pendici del colle piú alto della città, che sovrasta il Mare di Marmara. Il sovrano ne fece la sua residenza fino alla morte, sopraggiunta nel 1481. I sultani successivi vissero in questo luogo fino al XIX, secolo, quando si trasferirono nei palazzi in stile europeo edificati sulle rive del Bosforo. Il complesso palaziale copre un’area di 700 000 mq ed è circondato da una cinta muraria lunga 5 km nella quale si aprono sette grandi porte. La sua costruzione ebbe inizio tra il 1465 e il 1470, ma esso assunse la sua forma attuale solo alla metà del XIX secolo. Oggi, il Topkapı è costituito da un gruppo di edifici di diversa epoca, privi di un’autentica unità stilistica: in tali ambienti sono ospitati la sede del Diwan, la residenza del sultano e l’harem. In generale, il complesso comprende due parti distinte: la parte esterna e la parte interna. La parte esterna è costituita da due vasti cortili circondati da edifici. Il primo cortile è un deposito per l’artiglieria, nel secondo, si trovano le sedi di tutti i servizi che assicurano le relazioni del sultano con il mondo

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esterno, le cucine e gli alloggi del personale di servizio (medici, architetti, religiosi, giardinieri, sarti, falegnami, armaioli, calzolai, tintori, gioiellieri, musicisti, calligrafi, incisori, poeti, miniaturisti, cuochi, maniscalchi, ecc.), ivi compresa la sede del governo. Alla parte interna si accede attraverso la Porta della Felicità. Con il terzo cortile, inizia infatti la residenza privata del sultano: l’ultima parte accessibile agli estranei è un padiglione in cui egli riceveva i visitatori in udienza, sorvegliato dagli eunuchi bianchi. Piú oltre, si trova il celebre harem, il mondo delle mogli, delle schiave, delle favorite e dei loro guardiani, gli eunuchi neri, dove il sultano è l’unico uomo «integro» a poter accedere. I servizi del sultano e dell’harem comprendevano da 8000 a 14 500 persone. Come scrive un visitatore seicentesco, il palazzo (noto in Occidente come «Serraglio», traslitterazione del turco Saray, «palazzo») «è come una repubblica, separata dal resto della città, con le sue leggi e i suoi costumi particolari: è facile mantenervi l’ordine, poiché coloro che vivono qui conoscono solo ciò che qui hanno appreso e non sanno cosa sia la libertà» (da: Robert Mantran, Istanbul, Salerno Editrice, Roma 1998, p. 173).


Pianta a volo d’uccello del Topkapi e, nella pagina accanto, veduta aerea del magnifico complesso. grande chiosco chiosco di iftar quarto cortile

galleria delle miniature

tesoro

padiglione del sacro mantello

terzo cortile torre della giustizia sala del trono

collezione delle armi

porta della felicità

cucine

secondo cortile divan

porta imperiale (o del saluto) primo cortile

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Nella pagina accanto uno scorcio della sala imperiale del Palazzo del Topkapi, che fungeva da sala di ricevimento ufficiale del sultano e da luogo di intrattenimento per l’harem. tà. Conformemente al diritto islamico, fu loro richiesto il versamento della giziye, una tassa prelevata su ogni Greco adulto, capofamiglia o celibe, allo scopo di ottenere la «protezione» (dhimma) delle autorità ottomane. Maometto si affrettò poi a rassicurare le colonie occidentali. Consapevole dell’interesse economico rappresentato dalla presenza genovese nel quartiere di Galata, inviò il gran visir Zaganos Pasha a negoziare le condizioni della permanenza dei Genovesi. A costoro si concesse di conservare i loro beni, i magazzini, le navi, le chiese, in cambio del riconoscimento della sovranità ottomana e del pagamento della giziye, e tutte le convenzioni firmate con i Bizantini furono confermate. Venne perfino vietato ai Turchi di stabilirsi all’interno della zona di Galata. Anche i Veneziani furono trattati con mansuetudine: i prigionieri catturati nel corso dell’assedio vennero liberati e a dirigere la colonia veneziana fu preposto un bailo (vedi box a p. 102) scelto dalla Repubblica. Ai Veneziani si garantí libertà di circolazione e di commercio nei territori ottomani, dietro pagamento di una tassa del 2% sulle transazioni.

Una casa per tutti

Per favorire il ripopolamento della città, il sultano nominò un governatore, Karishdiran Suleyman Bey, che promulgò un editto con il quale si offriva un’abitazione a chiunque venisse spontaneamente a stabilirsi in città. Poiché la misura in questione non ebbe grande successo, furono infine decise deportazioni di massa dalle province dell’impero, con particolare attenzione per commercianti e artigiani, di cui si aveva estremo bisogno: lo Stato ottomano si impegnò infatti ad assumersi le spese necessarie per l’installazione della loro attività. Si formarono cosí nuovi quartieri il cui nome ricordava quello del Paese d’origine dei nuovi abitanti; i prigionieri bizantini furono quasi tutti liberati e si stabilirono nel quartiere del Fanar (dove successivamente si stabilí anche il Patriarcato greco-ortodosso), mentre gli Ebrei rimasero nel loro quartiere di Balat. Prima di lasciare Costantinopoli per tornare ad Adrianopoli, Maometto inaugurò il cantiere di un palazzo e ordinò la conversione in moschea di varie chiese: tra queste, il Pantokrator, che diventa la Molla Zeyrek Cami (e ora porta il

IL PONTE DI ISTANBUL: UN PROGETTO INCOMPIUTO DI LEONARDO DA VINCI Un libro recente di Gabriella Airaldi (Il ponte di Istanbul. Un progetto incompiuto di Leonardo da Vinci, Marietti, Bologna 2019), specialista di storia mediterranea e di storia delle relazioni internazionali, fa luce su una vicenda che ha dell’incredibile. Cinque secoli fa, una lettera di Leonardo da Vinci parte da Genova per Costantinopoli. È forse la risposta alla richiesta di progettare un ponte. In quell’epoca, le due città sono al vertice delle relazioni tra Oriente e Occidente, come spesso è accaduto nella storia, e sulle onde del Mediterraneo scorre il confronto tra Turchi e Genovesi, una realtà di lunga durata in cui si possono cogliere le molte, sottili sfumature di un costante e caleidoscopico panorama di incontri. In questa prospettiva, il geniale ponte progettato (e mai realizzato) da Leonardo da Vinci per il sultano Bayezid II (figlio di Maometto II) e il centro di Galata – prima genovese e poi turca – diventano il simbolo di un rapporto mai interrotto tra due mondi.

In alto il progetto di Leonardo da Vinci per un ponte da realizzare a Costantinopoli, sul Corno d’Oro, per collegare i quartieri di Karaköy ed Eminönü. Parigi, Institut de France. Al centro modello in scala del ponte, alla cui costruzione non fu mai messa mano.

nome di Kilise Cami) e, soprattutto, S. Sofia, che prende il nome di Aya Sofya e assume il ruolo di moschea congregazionale della città. Dal punto di vista amministrativo, Costantinopoli viene a costituire un kaza, cioè una circoscrizione giuridico-religiosa posta sotto l’autorità di un giudice (kadi). Intorno a piccole moschee di nuova fondazione si costituiscono quartieri (mahalle), che spesso portano il nome del fondatore della moschea locale. Tra i frutti principali dell’islamizzazione degli spazi urbani costantinopolitani va annoverata la costruzione della tomba di Eyub, a nord della città. Si raccontava che, pochi giorni dopo la conquista, uno sceicco intimo di MaoISTANBUL

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metto II avesse avuto una rivelazione concernente il luogo di sepoltura dei resti di uno dei compagni del Profeta Maometto, Abu Ayyub Ansari, morto sotto le mura di Costantinopoli nel corso dell’assedio della città da parte degli Arabi nel 670/72. Il sultano avrebbe fatto eseguire ricerche, che portarono alla scoperta di alcune ossa e di una fonte. Maometto ordinò dunque che fossero costruite una tomba e una moschea, che presto divennero mete di pellegrinaggio. Istanbul assume in tal modo lo statuto di città santa dell’Islam. Ne fa fede uno dei nomi che in questo periodo viene utilizzato per definirla nei documenti ufficiali ottomani: Islambol, «la città ricolma di Islam».

Nasce il bazar

La pace ritrovata dopo la conquista provoca il risveglio dei principali centri dell’attività economica cittadina. Il primo tra questi è la zona portuale situata lungo il Corno d’Oro, dove venivano sbracate le merci, poi trasportate in battello nel quartiere di Galata. Maometto II vi fa costruire magazzini, mercati e caravanserragli. Gli scambi e la distribuzione delle principali derrate sono posti sotto stretto controllo dell’autorità statale, grazie alla creazione di un ufficio doganale che si va ad affiancare a quello situato presso la Porta di Adrianopoli, che sorvegliava le merci che giungevano via terra. L’altro grande centro economico viene edificato nel cuore di Istanbul: si tratta del Büyük Bedesten (l’odierno Gran Bazar). Quando la costruzione del suo primo palazzo terminò, nell’inverno del 1458, Maometto II lasciò Adrianopoli e si stabilí nella città conquistata. A partire da questa data, Istanbul diventa la capitale dell’impero ottomano. Secondo lo storico Critobulo, il sultano ordinò a ciascun membro dell’amministrazione di scegliersi un luogo della città e di costruirvi una moschea, un ospizio (imaret) e una residenza. Per se stesso, scelse l’acropoli, dove, a partire dal 1462, viene eretto il nuovo palazzo, che prenderà il nome di Topkapı Saray («Palazzo della Porta del Cannone; vedi box a p. 108). Sul sito della chiesa costantiniana dei Ss. Apostoli, che racchiudeva la tomba di Costantino, Maometto decise poi di costruire un grande complesso religioso: i lavori durarono dal 1463 al 1471: oltre alla moschea, furono innalzati diversi edifici atti a ospitare istituti di carità, otto scuole coraniche (medrese), un ospizio, un ospedale, un asilo per i poveri, una biblioteca, un caravanserraglio, abitazioni per gli insegnanti, un bagno e un mercato (Sultan Pazari). 112

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Ritratto del sultano Solimano il Magnifico, olio su tela di autore anonimo. XVII sec. Madrid, Palacio del Senado. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Solimano il Magnifico che incontra Shah Isma’il (il sovrano

persiano che diede inizio alla dinastia safavide) durante una battuta di caccia alla quaglia prima di affrontarlo nella battaglia di Chaldoran (1514), vinta dagli Ottomani, da un manoscritto sulla vita dello stesso Shah. 1650 circa. Londra, British Library.


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Nella pagina accanto miniatura raffigurante Solimano il Magnifico che legifera, dal Süleymannâme. 1561. Istanbul, Palazzo del Topkapi. Nel 1475, i sellai che lavoravano nei dintorni del Bedesten trovarono ospitalità in un nuovo fabbricato, al quale furono associati il mercato dei cavalli, le scuderie, laboratori e nuovi dormitori per i giannizzeri. Il complesso, che prese il nome dal sultano, mostra chiaramente la volontà di Maometto di affermare sul piano urbanistico e architettonico la presenza trionfante dell’Islam nella sua nuova capitale. Tutte le costruzioni del Conquistatore a Istanbul beneficiano di finanziamenti da parte di opere pie (vakıf) che assicuravano la manutenzione degli edifici e la retribuzione del personale addetto. La conquista di Costantinopoli segna la fine dell’impero bizantino (a eccezione del Peloponneso e dello Stato di Trebisonda, che cadranno nelle mani dei Turchi rispettivamente nel 1460 e nel 1461) e l’inizio dell’impero ottomano. Sulla sponda europea Maometto II prosegue la sua opera di espansione militare: in pochi anni, annette o sottomette al tributo la Serbia, l’Albania, la Bosnia e la Valacchia. Vengono conquistate Caffa, Chio e altre isole del Mar Egeo, indebolendo cosí la presenza genovese nella regione. Resistono solo gli Ungheresi, i Cavalieri di San Giovanni e i Veneziani. Ormai gli Ottomani sono i signori indiscussi dei Balcani e dell’Asia Minore. Maometto pensa di attaccare anche l’Italia, ma la sua morte, sopraggiunta nel 1481, pone termine alla spedizione. Oltre a combattere, Maometto II si occupò anche di porre le basi dell’impero da lui fondato. Regnò appoggiandosi al diwan, il consiglio del governo, a capo del quale era il Gran vizir, a una ramificata burocrazia provinciale e al piú potente esercito del tempo, sulla base costituita dalla legge islamica temperata dalle consuetudini del diritto locale delle regioni

conquistate. Alla sua corte, egli riuní artisti e intellettuali di varia origine e provenienza e fu il primo sultano a chiamare presso di sé artisti italiani. La dimensione assunta da Istanbul sotto Maometto II è ormai totalmente imparagonabile con quella del passato, pur manifestando in molti campi elementi di continuità con la capitale bizantina. Alla sua morte, il sultano lasciò al figlio Bayazid II (1481-1512) un organo statale in pieno sviluppo ed egli seppe approfittare della situazione dando particolare impulso alla creazione di una potente flotta, destinata a divenire uno dei principali strumenti dell’egemonia ottomana sul bacino mediterraneo.

La conquista dell’Egitto

Elmo di probabile fattura turca, di foggia tipica dei Mamelucchi e degli Ottomani. 1500-1525. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Il figlio di Bayazid II, Selim I, inaugurò una nuova fase della storia ottomana, divenendo l’artefice di una straordinaria espansione nel Medioriente. Durante il suo regno (15121520) furono infatti conquistati l’Azerbaigian (1514), la Siria e l’Egitto (1517), mentre lo sceriffo di Mecca riconobbe il sultano quale «protettore e servitore delle città sante». Anche il corsaro Khaireddin Barbarossa, che dal 1519 controllava Algeri, domandò protezione a Selim, riconoscendolo quale suo sovrano. Dopo la presa del Cairo, il califfo abbaside, che i Mamelucchi avevano mantenuto nella loro corte, fu trasferito a Istanbul. Nell’epoca di Solimano il Magnifico, lo sviluppo di Istanbul procede lungo le linee tracciate da Maometto II. Alcuni quartieri cittadini si distinguono per la specializzazione delle attività che in essi si svolgono: quelli lungo il Corno d’Oro, dove arrivava via mare la gran parte delle derrate alimentari, si specializzano nel commercio; al di là dei quartieri di Eminönü e di Odun Kapı, dove aveva sede la colonia veneziana, un gran numero di magazzini controllati dall’amministrazione cittadina permettevano di assicurare la distribuzione dei beni di prima necessità. (segue a p. 123) ISTANBUL

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SOLIMANO «IL MAGNIFICO» L’ETÀ D’ORO DI ISTANBUL Il figlio di Bayazid II, Selim I, inaugurò una nuova fase della storia ottomana, divenendo l’artefice di una straordinaria espansione nel Medioriente. Durante il suo regno (15121520) furono infatti conquistati l’Azerbaigian (1514), la Siria e l’Egitto (1517), mentre lo sceriffo di Mecca riconobbe il sultano quale «protettore e servitore delle città sante». Anche il corsaro Khaireddin Barbarossa, che dal 1519 controllava Algeri, domandò protezione a Selim, riconoscendolo quale suo sovrano. Dopo la presa del Cairo, il califfo abbaside, che i Mamelucchi avevano mantenuto nella loro corte, fu trasferito a Istanbul. Il figlio e successore di Selim I, Solimano (Suleyman) I (1520-1566) fu incontestabilmente il piú grande sultano ottomano. Sarà durante il suo regno che l’impero raggiungerà la sua massima espansione: ai territori ereditati dal padre, egli infatti aggiungerà la Dalmazia, la Croazia, la Slovenia, Rodi, l’Armenia, l’Iraq, lo Yemen, Aden, la Tripolitania, l’Algeria e quasi tutta la Tunisia. In Europa centrale, l’esercito ottomano giunse a minacciare Austria, Polonia e Venezia. Solimano «il Magnifico» è un soprannome usato in Occidente. I Turchi lo chiamavano Qanuni, che significa «il Legislatore». Un nuovo Salomone Come ha scritto Alessandro Barbero, «vale la pena di riflettere su questa parola che è molto indicativa; sembra un vocabolo straniero ma in realtà deriva da una parola che conosciamo benissimo, “canone”. È una parola latina, che designa fra l’altro il diritto della Chiesa cattolica, il diritto canonico, appunto. Anche per i Turchi indica il diritto, tanto per ricordare ancora una volta quanto queste due civiltà che sembrano l’una contro l’altra armata in realtà fossero in continuo collegamento. L’idea stessa di codificazione giuridica gli Ottomani l’hanno assorbita dalla tradizione dell’Occidente e di Roma. Solimano, che è il nuovo Salomone, dunque imperatore giusto quanto altri mai, che come dicono gli ambasciatori veneziani si fa un punto d’onore di mantenere sempre la parola data, vuole essere anche il nuovo Giustiniano, imitare cioè l’imperatore d’Oriente che a suo tempo aveva codificato il diritto romano. Solimano avvia dunque una grandiosa opera di codificazione giuridica che sarà poi per secoli la base del diritto ottomano» (Il divano di Istanbul, Sellerio, Palermo 2015, pp. 70-71). In tale azione, il sultano, assistito da una squadra di giuristi, si trova a dover integrare la legge islamica con la tradizione giurisprudenziale romano-bizantina, giungendo a esiti di straordinaria originalità che avranno un riflesso importante anche nel mondo islamico contemporaneo. Il 18 luglio 1520, il sultano Selim lasciò la capitale per raggiungere l’esercito ottomano a Edirne e iniziare una 116

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grande campagna militare contro l’Ungheria. Mentre si trovava a metà strada, il 21 settembre, morí, a quanto sembra, per un foruncolo infetto: l’Ungheria, cosí, fu risparmiata, e iniziarono le procedure per la successione. Anche in questo caso, il Gran Vizir tenne nascosta alle truppe la notizia della morte del sultano, mentre il servizio di comunicazioni ottomano allertava l’unico figlio di Selim, Solimano, che in quel momento svolgeva l’incarico di governatore di Manisa. Solimano, allora ventiseienne, raggiunse Costantinopoli il 30 settembre e fu scortato sulla

UN RITRATTO DEL MAGNIFICO Un notevole ritratto di Solimano il Magnifico è conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze. L’idea di una galleria universale costituita da ritratti di uomini illustri si deve a Cosimo I de’ Medici. Nel 1552, infatti, il duca di Toscana inviò a Como il pittore Cristofano dell’Altissimo affinché copiasse la collezione di ritratti di uomini illustri che il dotto vescovo Paolo Giovio, morto da poco in Firenze, aveva raccolto nella sua villa sul lago a partire dal 1521. Si trattava di una collezione assai rara, la piú importante del genere, sia per la presenza di numerosi splendidi originali, che per il gran numero di soggetti. Gli invii delle copie da Como si susseguirono a gruppi dal 1552 fino al 1587/89 tanto che il Vasari, nella seconda edizione delle «Vite» (1568), elenca, come presenti a Firenze, già 280 ritratti. Nel frattempo lo stesso Vasari aveva allestito per Cosimo, in Palazzo Vecchio, una sala annessa ai locali della Guardaroba, la cosiddetta sala del Mappamondo o delle Carte geografiche, destinata ad accogliere in una cornice particolarmente degna anche la collezione di ritratti di uomini illustri che man mano si andava costituendo. Il programma tanto amato da Cosimo I non fruttificò presso il nuovo granduca Francesco, mentre riprese immediatamente e in pieno con l’avvento al trono di Ferdinando I. Fra il 1587, anno iniziale del suo governo, e il 1591 egli provvide a far trasferire la collezione di ritratti nel corridoio degli Uffizi; nel 1597 il viaggiatore diplomatico e scrittore vicentino Filippo Pigafetta riordinò la raccolta secondo le «dignità et professioni» e ne mise in luce le lacune piú gravi per far poi completare e aggiornare tutta la serie. La collezione gioviana fu proseguita fino al 1840, conta oggi ben 492 pezzi ed è straordinariamente importante dal punto di vista storico-iconografico. Il ritratto in questione, citato nell’elenco vasariano del 1568, raffigura appunto Solimano. Un recente restauro ha riportato in luce l’iscrizione originale in lettere d’oro.


Ritratto di Solimano il Magnifico, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. Metà del XVI sec. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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Un nuovo inizio

In alto la battaglia combattuta a Szigeth nel 1566, che costò la vita a Solimano il Magnifico, in un olio su tela di Johann Peter Krafft. 1825. Budapest, Galleria Nazionale. A destra stampa raffigurante Solimano che sfila nell’area in cui sorgeva l’ippodromo di Costantinopoli, da un originale di Pieter Coecke van Aelst. 1553. New York, The Metropolitan Museum of Art. tomba di Eyub, sulle propaggini meridionali del Corno d’Oro, fuori dalle mura della città. Il luogo dove Eyup Ensari, amico del Profeta e portatore del suo stendardo, era stato sepolto nel corso del primo assedio arabo di Costantinopoli (674-678). All’alba del giorno successivo, lunedí primo ottobre 1520, Solimano ricevette l’omaggio degli alti ufficiali nel Palazzo del Topkapı; nel pomeriggio, andò incontro al corteo funebre del padre alla Porta di Edirne e ne scortò il cadavere fino al luogo di sepoltura: il suo primo atto amministrativo fu quello di erigere per lui un complesso funebre. Due giorni dopo, elargí una notevole somma di denaro ai giannizzeri e fece altri regali alle sue truppe personali e ai funzionari di palazzo. Come ha scritto Jason Goodwin, «Solimano regnò tanto a lungo da diventare una sorta di equivalente ottomano della regina Vittoria, l’incarnazione stessa dello stato. Di una stupefacente impassibilità fu per esempio la sua reazione alla notizia di una grande vittoria navale sull’imperatore del sacro Romano Impero Carlo V, che Solimano chiamava 118

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semplicemente “re di Spagna” (…). Era magnifico anche in amore, e con grande stupore del mondo intero non solo sposò la schiava Rosselana, ma le fu anche fedele. Di rado indossava piú di una volta lo stesso abito. Ebbe la prodigalità di dotare la sua corte di un inusuale numero di buffoni, nani, muti, astrologi e silenziosi giannizzeri; la nobiltà di arruolarsi in un reggimento di giannizzeri e di riscuotere la paga insieme a loro; e una tale ricchezza che una volta un bailo avvisò la Serenissima che a corte non contava piú il valore dei doni, ma solo il loro volume, perché nessuno si prendeva la briga di darvi un’occhiata» (Jason Goodwin, I signori degli orizzonti, Torino, Einaudi, 2002, p. 92). Guerra e pace La prima mossa di Solimano nel 1521 fu l’offerta di sospendere le incursioni turche contro l’Ungheria in cambio di un tributo. Gli Ungheresi tagliarono le orecchie e il naso del suo messo e glielo rimandarono indietro, chiedendo al Sacro Romano Impero di intervenire a loro difesa. Per tutta risposta, Solimano prese Belgrado, minando alle fondamenta la linea difensiva meridionale ungherese. Poi, il sultano attaccò Rodi. Da duecento anni, i Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni attaccavano le navi musulmane e davano rifugio ai pirati cristiani, mettendo in pericolo il passaggio delle derrate alimentari dirette a Istanbul dall’Egitto e le traversate dei pellegrini diretti a Mecca. La loro fortezza di Rodi era considerata inespugnabile. Quando ottenne la resa dell’isola, Solimano lodò il Gran Maestro dei Cavalieri per la sua intrepida difesa. I Cavalieri se ne andarono il giorno di Capodanno del 1523, e dieci anni dopo si stabilirono a Malta,

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lasciando il Mediterraneo orientale in mani ottomane. Compiuta l’impresa, il sultano si concentrò nuovamente sugli Ungheresi, che furono rovinosamente sconfitti nel 1526. A Solimano le chiavi di Buda furono consegnate da esponenti del popolo, perché i loro condottieri erano tutti caduti in battaglia. La città fu rasa al suolo e la grande biblioteca del celebre re d’Ungheria Mattia Corvino fu spedita a Istanbul insieme a due grandi cannoni abbandonati da Maometto II

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durante l’assedio di Belgrado del 1456. Nel novembre del 1526, il sultano tornò in trionfo nella sua capitale. Nel 1529 tentò anche di impadronirsi di Vienna, che assediò inutilmente per quasi un mese. Guidò personalmente altre spedizioni, in Asia (Mesopotamia, Anatolia orientale) e in Africa (Tripoli, 1551). Morí il 5 settembre del 1566, durante l’assedio di Szigeth in Ungheria. L’anno prima un suo esercito era stato sconfitto nell’assedio di Malta.


La moschea Sokollu, costruita su progetto del grande architetto Sinan.

LA MOSCHEA SOKOLLU, UN GIOIELLO DI SINAN Per il Gran vizir Sokollu Maometto Pasha e sua moglie Esmahan Sultan, figlia di Selim II, Sinan costruí una delle piú belle moschee ottomane, introducendo una cupola poggiante su baldacchino esagonale: la soluzione planimetrica piú adatta a risolvere il conflitto tra sala rettangolare e cupola centrale, poiché l’esagono si iscrive in un rettangolo anziché in un quadrato. Il luminoso spazio interno raggiunge qui una straordinaria compattezza: sono completamente eliminate le navate laterali e i leggeri matronei sono come elementi di arredo, che non partecipano del dispositivo costruttivo dell’aula. La qualità della decorazione e delle maioliche che ricoprono anche i pennacchi della cupola è eccezionale. Sopra il portale d’ingresso restano tracce della pittura originale. Costruita sul ripido pendio che scende verso il Kadrga Limani, nella zona del porto bizantino di Galea, la moschea poggia su una terrazza artificiale prospettante il Mare di Marmara, con un cimitero che si stende sul fianco della collina. Di grandissima raffinatezza è la soluzione dell’ingresso alla corte dal piano inferiore della piazza: un arco in pietra dà accesso allo scalone che conduce direttamente all’interno del quadrilatero che ospita la scuola coranica (medrese). Le celle della scuola coranica circondano la corte, intervallate da due stretti passaggi sui lati est e ovest, che conducono agli spazi di risulta retrostanti. Anche il raccordo tra i porticati della scuola e il portico della moschea a sette cupole è elegantemente risolto con i due portali sormontati da stanze per i muezzin.

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Il nuovo inizio

SINAN

ARCHITETTO «IMPERIALE» Mimar Sinan è senza dubbio il piú importante architetto della fase iniziale dell’impero ottomano e uno dei piú grandi architetti turchi. Nato nel 1489 a Cesarea (Kayseri) da una famiglia cristiana, morí nel 1578 o 1588 a Costantinopoli. Fu a lui che si rivolse Solimano al fine di completare la sua opera di glorificazione dell’impero e dell’Islam nel campo dell’architettura. Sinan svolse un’attività indefessa, costruendo 334 edifici di carattere religioso e profano: moschee, mausolei, scuole, bagni, ospedali, ponti, palazzi, non soltanto nella capitale e in numerose città della Turchia, ma anche a Budapest e a Damasco. Ispirandosi esplicitamente alla chiesa di S. Sofia a Istanbul, mise a punto nuove e grandiose soluzioni al problema della cupola, con interni vasti e armoniosi, sorretti all’esterno da un abile giuoco di contrafforti. Il suo stile ebbe per secoli un’enorme influenza e un’eccezionale diffusione in tutti i Paesi dell’impero turco. Nella costruzione delle moschee, egli utilizzò il modulo della cupola iscritta in un quadrato, preceduto da un cortile a porticati delle stesse dimensioni. Il suo primo capolavoro è la moschea Shazadeh a Istanbul (1543-48) nella quale, ispirandosi alle prime grandi moschee a cupola dell’architettura, riuscí a valorizzare considerevolmente la grandiosità dell’interno. Nella moschea Suleimaniye (1550-56) Sinan aggiunse ulteriori elementi come gli atri angolari, le gallerie e i due straordinari minareti, raggiungendo vertici di armonia e monumentalità mai toccati prima. E tuttavia, l’architetto considerava suo capolavoro la moschea Selimiye di Adrianopoli (1570-74), enorme edificio quadrato, sostenuto da otto pilastri, in cui l’apertura della cupola uguaglia quella della chiesa di S. Sofia. Promosso al rango di «architetto capo» (mimar bashi), Sinan controllò fino alla morte il progetto e la realizzazione dei monumenti principali di tutto l’impero. 122

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Busto del grande architetto Sinan.

All’interno delle mura di Istanbul si moltiplicano i settori abitati (mahalle), sempre intorno a una nuova moschea, passando da 182 (XV secolo) a 292 (XVII secolo). Sono quartieri per lo piú popolari, ma alcuni (soprattutto in prossimità dell’ippodromo, trasformato in piazza, della moschea Suleimaniye e del Topkapı) includono palazzi privati appartenenti a personalità della corte. Al di là delle mura, le zone abitate sono rare, mentre v’è un’ampia distesa di cimiteri. Le grandi arterie cittadine, spesso lastricate, ripetono il percorso degli assi viari bizantini; le vie piú modeste sono invece curve, strette, scure e profonde, e non di rado terminano in un vicolo cieco: ricevono una tale quantità di immondizia che vi si cammina a malapena; in caso di pioggia, si trasformano in pantani e nella stagione secca sono continuamente a rischio di incendio: tutte le case private sono infatti costruite in legno.

Arti e mestieri

Istanbul è una città multietnica e i non-musulmani sono raggruppati, in base all’appartenenza etnica e religiosa, in zone diverse della città. Tutti gli abitanti maschi adulti sono iscritti obbligatoriamente a una corporazione: in tal modo ogni cittadino è definito dalla sua etnia, dalla religione di appartenenza e dal suo profilo professionale. Le corporazioni si fondano su un principio gerarchico e sono divise in tre categorie: i capomastri, gli operai e gli apprendisti. In particolare, i capomastri formano una classe sociale molto attenta a conservare i propri privilegi e la propria supremazia; a essi si affianca un comitato direttivo che si assume il compito di difendere i membri della corporazione stessa. Il giudice di Istanbul esercita il suo controllo su queste associazioni per il tramite del muhtesib, incaricato di monitorare i prezzi ed evitare speculazioni. Tutto ciò che concerne il commercio della valuta è invece in mano agli Ebrei, che effettuano prestiti, e fungono da intermediari con gli importatori stranieri. Il XVI secolo è l’età d’oro di Istanbul, alla quale Solimano contribuí in maniera notevolissima. Le ricchezze accumulate nel corso delle sue imprese gli permisero di abbellire la sua capitale con straordinarie opere d’arte e architettura. L’arte ottomana, partita da Istanbul, si diffuse fino a Rodi, a Damasco, al Cairo e a Baghdad, suscitando lo stupore del mondo intero. Nel XVI secolo si sviluppò anche l’arte della miniatura, fortemente influenzata dalla pittura persiana, che permise di fissare vari aspetti della vita stambuliota, come feste e cerimonie di

corte. La capitale divenne notissima in Occidente, anche grazie alla presenza massiccia in città di Francesi, Inglesi e Olandesi, che affiancano stabilmente Veneziani, Genovesi e Pisani. L’impero ottomano è ormai una delle grandi potenze dello scacchiere politico globale. Tra la fine del XV secolo e l’inizio del secolo successivo, in Occidente si registra un’enorme curiosità per il mondo ottomano, che ha il suo epicentro a Venezia, legata a Costantinopoli/ Istanbul da stretti rapporti commerciali e culturali. Nelle molte relazioni di viaggio da Venezia a Istanbul che dal XV al XVII secolo fanno da contrappunto alle vicende di guerra e di pace che vedono protagoniste le due città, possiamo trovare una vasta messe di notizie e di giudizi sul mondo turco. Sono in primo luogo i baili, gli ambasciatori straordinari o personaggi del loro seguito che, per ingannare il tempo, per lasciare un ricordo di sé ai loro parenti o per imitare modelli classici, descrivono la loro esperienza sulle rive del Bosforo. Non di rado, queste memorie consistono in semplici notazioni dei fatti piú importanti della navigazione o del trasferimento nella penisola balcanica; talvolta, però, esse comprendono anche la descrizione di città e isole del Levante, si arricchiscono di citazioni da geografi del mondo antico e si concludono con il racconto dell’ingresso a Istanbul e un rapido profilo degli usi e costumi locali.

Un manuale per i mercanti

La conoscenza diretta di uomini e istituti del mondo ottomano raramente condiziona in senso piú obiettivo e aperto i giudizi dei viaggiatori che per lo piú osservano e descrivono gli istituti politici e religiosi secondo gli schemi mentali della civiltà europea e cristiana. L’interesse veneziano per il mondo turco conduce anche ad approfondirne la lingua: uno dei primi documenti della conoscenza del turco a Venezia è il cosiddetto Codex Comanicus, dei primi anni del Trecento, oggi conservato alla Biblioteca Nazionale Marciana. Si tratta di un repertorio di voci in dialetto turco usato probabilmente da mercanti per il commercio con i Cumani, un popolo stanziato sulle sponde settentrionali del Mar Nero. Tradizionalmente, si ritiene che il primo italiano ad apprendere il turco sia stato l’urbinate Bernardino Baldi (1553-1617), ma la sua fu una conoscenza di tipo libresco e letterario. In realtà, abbiamo la certezza che già nel XV secolo a Venezia esistevano persone che parlavano e scrivevano correntemente un turco appreso dall’esperienza diretta: è il caso, per esem(segue a p. 125) ISTANBUL

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Il nuovo inizio Acquerello di Jan van Grevenbroeck raffigurante un dragomanno, denominazione europea degli interpreti fra Europei e popoli del Vicino Oriente di lingua araba, turca e persiana, dalla serie Varie venete curiosita sacre e profano. 1754. Venezia, Museo Correr. Nella pagina accanto, in alto medaglione con il ritratto del nobile veneziano Antonio Barbarigo, contornato dalle personificazioni della Forza, della Giustizia e della Collera, incisione di Robert van Audenaerde (1663-1743).

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In basso una pagina del Codex Cumanicus, un manuale compilato probabilmente a uso dei mercanti per comunicare con i Cumani (Qipciaq), popolazione turca che, nel X sec., emigrata dall’Asia Centrale, occupò i territori a nord del Mar Caspio e del Mar Nero. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

pio, di Antonio Barbarigo (1471-1560), fatto prigioniero dai Turchi e poi bailo a Istanbul. Lo studio accurato dei prestiti linguistici dal turco nel dialetto veneziano ha rivelato un aspetto quanto mai suggestivo degli scambi e dei legami di lunga durata tra il mondo ottomano e la Repubblica Veneta. Le relazioni dei baili, i diari, le epistole dei mercanti e diplomatici veneziani sono ricchi di termini mutuati direttamente dal turco o assunti tramite il greco e le lingue slave. Può essere interessante ricordare che parole come «chiosco» o «caffè» hanno avuto la loro prima testimonianza scritta in relazioni diplomatiche veneziane e che non pochi turchismi sono passati nelle lingue europee grazie ai rapporti tra Venezia e l’Oriente. Le relazioni commerciali transmarine hanno lasciato la traccia piú duratura, come testimonia la presenza nel dialetto veneto di voci della marineria turca. Nel 1580 fu poi pubblicato un vocabolario quadrilingue italo-greco-turco-tedesco a uso dei mercanti di tessuti, con brevi dialoghi su alloggi, cibi, bevande, sistemi di pagamento, ac-

quisto e contrattazione dei panni. I membri dell’aristocrazia, che normalmente non possedevano alcun rudimento di lingua turca, si avvalevano invece dell’opera preziosa dei «dragomanni» (voce greca derivata dall’arabo turjiman, «traduttore»), che si occupavano delle traduzioni scritte e orali necessarie per i negoziati diplomatici e per le attività commerciali e politiche.

DA LEGGERE

·· · ·· ·· ··

Franz Babinger, Maometto il conquistatore, Einaudi, Torino 1967 Robert Mantran, Istanbul, Salerno Editrice, Roma 1998 Anna Calia, Costantino e Costantinopoli sotto Maometto II. L’eredità costantiniana dopo la conquista ottomana di Costantinopoli, in Enciclopedia Costantiniana, Treccani, 2013; on line su treccani.it Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Sansoni, Firenze 1975 Robert Mantran, La vita quotidiana a Costantinopoli ai tempi di Solimano il Magnifico, Rizzoli, Milano 1985 Paola Gennaro, Istanbul. L’opera di Sinan, CittàStudi, Milano 1992 Suraiya Faroqhi, L’impero ottomano, il Mulino, Bologna 2000 Klaus Kreiser, Storia di Istanbul, il Mulino, Bologna 2012 Alessandro Barbero, Il divano di Istanbul, Sellerio, Palermo 2015 ISTANBUL

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Il nuovo inizio

DA COLONIA A CUORE DELL’IMPERO

I SECOLI DI BISANZIO-COSTANTINOPOLI-ISTANBUL VII secolo a.C. Fondazione di Byzantion, colonia megarese.

1 93-195 d.C. Assedio di Byzantion da parte di Settimio Severo.

1 96 d.C. Ricostruzione della città. 2 62 d.C.: Nuova distruzione della città da parte dell’imperatore Gallieno.

326

di S. Sofia a Costantinopoli.

540 I Persiani Sasanidi, guidati da Cosroe I, conquistano Antiochia, in Siria. Epidemia di peste a Costantinopoli.

Gli Arabi conquistano Cartagine.

717-718

843

Gli Arabi assediano nuovamente Costantinopoli ma sono respinti da Leone III.

Dopo la morte dell’imperatore Teofilo (842), papa Gregorio IV abolisce definitivamente l’iconoclastia.

Inaugurazione ufficiale di Costantinopoli.

Viaggio del profeta Maometto da Mecca a Medina: l’evento, noto come ègira, segna l’inizio del calendario musulmano e la nascita dell’Islam.

Costruzione delle mura di Costantinopoli.

5 27-565 Giustiniano I riunisce di nuovo ampi territori dell’impero. Vittoria sui Vandali in Africa settentrionale e sugli Ostrogoti in Italia. Costruzione della basilica 126

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838

Mentre continuano le guerre tra Bisanzio e i Sasanidi, Avari e Slavi minacciano la frontiera dei Balcani.

622

4 08-413

Gli Arabi conquistano Creta e, entro il 900, anche la Sicilia.

La conquista della fortezza di Armorion segna l’apogeo del potere arabo in Asia Minore.

330

3 95 Alla morte di Teodosio si assiste alla definitiva separazione tra impero romano d’Occidente e d’Oriente.

I Bulgari si attestano nei territori dei Balcani orientali.

824

698

610-641

L’imperatore Teodosio I dichiara il cristianesimo religione di Stato.

679/680

proibisce nuovamente l’uso delle icone.

565-591

Nella città di Byzantion, sul Bosforo, Costantino pone la prima pietra della sua nuova capitale, Costantinopoli.

3 80

da parte degli Arabi musulmani è respinto grazie all’impiego del «fuoco greco».

L’imperatore Eraclio sconfigge i Persiani Sasanidi. Inizia il conflitto con gli Arabi.

626 Avari, Slavi e Persiani assediano Costantinopoli.

629 Fine della presenza bizantina nella Penisola iberica.

638-642 Conquista della Siria e della Palestina da parte degli Arabi musulmani che sottraggono anche l’Egitto a Bisanzio. Un incendio distrugge la Biblioteca di Alessandria.

730-787 Controversia intorno alla venerazione delle immagini sacre (iconoclastia): nel 730 Leone III proibisce l’uso delle icone, decisione poi ribadita da un sinodo nel 757. Nel 787 il II Concilio di Nicea reintroduce l’impiego delle immagini sacre.

792 A Markeli i Bulgari vincono sull’esercito bizantino.

800 A Roma, Carlo re dei Franchi viene incoronato imperatore.

811/813 I Bizantini sono di nuovo sconfitti dai Bulgari e nella battaglia cade l’imperatore Niceforo I.

674-678

813-820

L’assedio di Costantinopoli

Leone V «l’Armeno»,

856 Michele III conquista il potere con un colpo di Stato.

860 I Variaghi (Vichinghi) attaccano Costantinopoli.

961 Bisanzio riconquista Creta e parte dei territori in Asia Minore.

963 Fondazione del monastero di Megisti Lavra sul Monte Athos da parte del monaco Atanasio.

976-1025 Basilio II sottomette i Bulgari.

988-990 Lla principessa bizantina Anna sposa Vladimiro di Kiev: è l’inizio della cristianizzazione della Russia.


1054 Separazione definitiva tra le Chiese di Roma e di Costantinopoli.

causati dallo scontento popolare in seguito ai privilegi concessi a Genovesi e Pisani.

1071

1203/04

Nella battaglia di Manzikert i Turchi Selgiuchidi sconfiggono i Bizantini. I Normanni conquistano Bari, ultimo caposaldo bizantino nell’Italia meridionale.

Nel corso della IV Crociata, Veneziani e cavalieri conquistano la cristiana Costantinopoli e instaurano un regno latino. Nell’Epiro e a Nicea sorgono regni bizantini in esilio, mentre sulla costa del Mar Nero i Comneni fondano l’impero di Trebisonda.

1081-1118 L’imperatore Alessio I Comneno concede privilegi mercantili a Venezia. Nel 1111 estensione dei privilegi anche a Pisa.

1096-1099 I Crociata: i cavalieri sono costretti a sottomettersi alla supremazia bizantina.

1122 L’imperatore Giovanni II Comneno sconfigge i Peceneghi, una popolazione di nomadi delle steppe.

1138/1142/1158 Bisanzio attacca ripetutamente la normanna Antiochia.

1143-1180 L’imperatore Manuele I Comneno prevale nei Balcani, estende il suo dominio su Antiochia, ma nel 1176 viene sconfitto dai Turchi Selgiuchidi nella battaglia di Miriocefalo.

1438/1439

1516-17

Durante il Concilio di Ferrara e Firenze, l’imperatore Giovanni VIII riconosce la sovranità ecclesiastica del papa.

Conquista ottomana della Siria e dell’Egitto; fine del sultanato dei Mamelucchi; Mecca e Medina diventano città ottomane.

1444

1521

Gli Ottomani sconfiggono l’esercito crociato nei pressi di Varna.

Conquista ottomana di Belgrado.

1453 Gli Ottomani conquistano Costantinopoli (29 maggio), segnando cosí la fine dell’impero bizantino.

1522 Conquista di Rodi, occupata dai Cavalieri di San Giovanni

1529 Primo assedio di Vienna.

1259/1261

1460

Michele VIII Paleologo sconfigge i suoi rivali e si insedia a Costantinopoli

La fortezza di Mistrà (Peloponneso) si arrende agli Ottomani.

1551

1282

1461

Durante la rivolta dei «Vespri siciliani», fomentata anche da Bisanzio, gli Angioini vengono cacciati dalla Sicilia.

L’impero di Trebisonda si arrende agli Ottomani di Maometto II.

Inaugurazione della moschea Suleimaniye.

1354-1371 I Turchi Ottomani conquistano i Balcani. Nel 1369 cade Adrianopoli.

1389 Battaglia della Piana dei Merli (Kosovo Polje), combattuta il 15 giugno: la vittoria degli Ottomani sui Serbi rivoluziona gli equilibri della regione.

1396 Gli Ottomani assediano Costantinopoli.

1182

1430

A Costantinopoli, insurrezione e massacri

Conquista ottomana di Salonicco.

1470

Conquista di Tripoli (Libia).

1556

1566 Morte di Solimano il Magnifico.

Inaugurazione del complesso architettonico della moschea del Conquistatore (Fatih Cami).

1483 La disputa per il trono tra Bayazid II e il principe Cem, figlio di Maometto II, si conclude con la sconfitta del secondo e la fuga a Rodi.

1484-1491 Guerra tra Ottomani e Mamelucchi.

1514 Vittoria di Selim I sullo Shah Ismail nei pressi di Çaldiran (Iran). ISTANBUL

127


I MUSEI DI ISTANBUL UN RACCONTO LUNGO 1500 ANNI

MUSEO ARCHEOLOGICO Istanbul è una delle città a piú intensa stratificazione storica al mondo, la cui comprensione non può certo esaurirsi in un soggiorno di breve durata. Per approfondire la conoscenza di questo affascinate «universo» di storia culturale tra Oriente e Occidente è, d’altra parte, assai utile visitare almeno una parte dei suoi innumerevoli musei. Ecco una proposta di itinerario attraverso le dieci piú importanti raccolte della città sul Bosforo, tra cui alcuni monumenti storici musealizzati, di cui il lettore troverà una descrizione compiuta nei capitoli precedenti. Partiamo dal Palazzo del Topkapı (vedi box alle pp. 108-109) e del suo Harem. Dal 1985 iscritto nella Lista del Patrimonio UNESCO, la costruzione del Palazzo venne iniziata nel 1453, poco dopo la conquista di Costantinopoli da parte del sultano Mehmed II e, in seguito, piú volte ampliato. Il suo aspetto attuale risale agli inizi del Settecento. L’Harem rappresenta la parte piú spettacolare del Palazzo: in origine era composto da circa 300 camere, una parte delle quali è oggi visitabile. Il Museo del Topkapı (aperto dalle ore 9,00 alle 18,00, chiuso il martedí) si trova a breve distanza da S. Sofia e dalla Moschea Blu. Nelle immediate vicinanze del Topkapı si trova, inoltre, il Museo Archeologico di Istanbul. Fondato nel 1891 come istituzione centrale finalizzata a riunire tutte le testimonianze archeologiche dell’impero ottomano è il piú grande e importante museo archeologico della Turchia e una delle maggiori raccolte di antichità del mondo (aperto

MUSEO DELLA CERAMICA ISLAMICA tutti i giorni, orario estivo 9,00-19,30, orario invernale 9,00-17,00). La sua collezione riunisce circa 15 000 reperti databili dalla preistoria – attraverso il periodo delle civiltà mesopotamiche, dell’antico Egitto – fino all’età greca, romana e bizantina, e della cività araba preislamica e islamica. Il museo è suddiviso in tre grandi edifici: il Museo Archeologico vero e proprio, il Museo dell’Arte orientale, il Museo della Ceramica islamica (Çinili Kösk). Innumerevoli sono i capolavori riuniti in questo straordinario complesso, al quale nel 1991 è stato conferito il «Premio museo del Consiglio d’Europa». Il Museo dei Mosaici del Gran Palazzo si trova nei pressi della Moschea Blu, nell’area in cui un tempo sorgeva il Gran


Palazzo di Dolmabahçe, dal 1856 residenza dei sultani ottomani. Il Palazzo si estende su una superficie di 45 000 mq ed è composto da 46 sale, 285 camere, 6 hammam e 68 sale da bagno. Nello storico Palazzo trascorse i suoi ultimi giorni di vita il fondatore della Repubblica turca, Mustafa Kemal Atatürk, che vi morí il 10 novembre 1938. Il Palazzo ospita, inoltre, un Museo della Pittura e un Museo dell’Orologio (orario 9,00-18,00, chiuso il lunedí).

PALAZZO DI DOLMABAHÇE Palazzo, residenza dei dinasti bizantini. Il museo espone mosaici risalenti a un periodo compreso tra il 450 e il 550 d.C. (aperto tutti i giorni, orario estivo 9,00-19,30, orario invernale 9,00-17,30). Il Museo di Hagia Irene è un’antica chiesa bizantina situata nel quartiere di Sultanahmet, nell’area facente parte del Palazzo del Topkapı. Eretta da Costantino nel IV secolo, fu la prima chiesa della nuova capitale. Dopo la conquista ottomana del 1453 l’edificio venne utilizzato come arsenale dalla guardia di palazzo (orario estivo 9,00-17,00, orario invernale 9,00-16,00, chiuso il martedí). La Cisterna Basilica (conosciuta anche come Yerebatan Saraı o «palazzo sommerso») è una grande riserva d’acqua sotterranea, costruita dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo (vedi box a p. 40) a poca distanza da S. Sofia. Con i suoi 9800 mq, è la piú grande delle 60 cisterne sotterranee di Istanbul, sorretta da oltre 300 colonne in ottimo stato di conservazione (aperto tutti i giorni, orario 9,00-19,00). Il Museo della Torre di Galata offre la visita a uno dei simboli stessi di Istanbul. La torre (vedi box a p. 103) si trova nel distretto di Beyoglu, nella parte europea della città, a nord del Corno d’Oro. La visita alla torre medievale permette la vista a 360 gradi su tutta la città (aperta tutta i giorni, orario estivo 8,30-24,00, orario invernale 10,00-20,00). Lungo la riva europea del Bosforo si trova il magnifico

CENTRO CULTURALE ATATÜRK

Il Rumelihisarı (il Castello Rumeliano) è una fortificazione di epoca ottomana, costruita dal sultano Maometto II nel 1452, in funzione dell’assedio di Costantinopoli (vedi box alle pp. 100-101). Il museo espone reperti che illustrano la storia dell’assedio, tra cui cannoni e la catena con cui è stato bloccato l’accesso delle navi al Corno D’Oro (orario estivo 9,00-19,30, orario invernale 9,00-17,30, chiuso il lunedí). Nel 2004 è stato inaugurato Istanbul Modern, il primo museo di arte contemporanea della Turchia, nato con l’intento di farne apprezzare la creatività e l’identità culturale. A meno di vent’anni dalla sua fondazione, si è deciso di allestirlo in una nuova sede, nel quartiere di Karaköy, del cui progetto è stato incaricato il grande architetto italiano Renzo Piano. Il nuovo edificio, oltre agli spazi riservati all’esposizione della collezione permanente e a mostre tempornaee, includerà laboratori per attività didattiche, una biblioteca, una sala cinematografica, aree da destinare all’organizazzione di eventi, nonché un museum shop, un caffé e un ristorante. Sempre nel distretto di Beyoglu, infine, vale la pena visitare il Centro Culturale Atatürk, affacciato sulla centralissima piazza Taksim e a pochi passi dalla fermata della metropolitana di Istanbul. Inaugurato nel 2021 dopo lunghi anni di ricostruzione, l’AKM (Atatürk Kültür Merkezi) si estende su una superficie di 95 000 mq, che comprende un teatro, sale cinematografiche e da concerto, un centro mostre, una sala convegni, una biblioteca, un museo, una galleria d’arte, caffè e ristoranti (aperto tutti i giorni, orario 10,00-18,00).


VO MEDIO E Dossier n. 53 (novembre/dicembre 2022) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007

Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 - e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it L’autore Marco Di Branco è ricercatore in storia dei Paesi islamici presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini Shutterstock: copertina e pp. 6/7, 10/11, 13, 16-19, 24/25, 32/33, 34 (riquadri in alto e in basso), 35, 40/41, 46/47, 49 (alto e basso, a sinistra), 58/59, 61 (basso), 62/63, 66/67, 68, 88/89, 90/91, 92/93, 100/101, 102/103, 106/107, 108, 110, 120/121, 123 – Doc. red.: pp. 12, 15 (basso), 20-23, 24, 28/29, 31, 36, 38, 39 (basso), 42-43, 44 (basso), 48, 50/51, 52/53, 54/55, 55 (alto), 56/57, 59, 60, 61 (alto), 62, 63, 64-65, 69, 70-71, 72, 74-83, 84 (basso), 85, 86, 96-99, 104/105, 105, 111, 118/119, 119, 125 (basso), 128129; Giorgio Albertini: pp. 26/27 – Mondadori Portfolio: p. 90; Erich Lessing/K&K Archive: p. 14; Album/Quintlox: pp. 49 (basso, a destra), 125 (alto); AKG Images: pp. 95, 113, 117, 124; Image Source/Armand Tamboly: p. 103; SIPA-USA: p. 107; Album/ Oronoz: p. 112; Album/Prisma: p. 114; Fine Art Images/Heritage Images: p. 118 – Bridgeman Images: pp. 34 (piena pagina), 108/109 – Alamy Stock Photo: p. 44 (alto) – The Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 93, 115 – Cippigraphix: cartine alle pp. 8/9, 15, 30, 39, 55, 84.

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Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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