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RO S M A AN C O RO IM PE RO
MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
SACRO ROMANO IMPERO
LA STORIA I LUOGHI I PROTAGONISTI
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SACRO ROMANO IMPERO
N°56 Maggio/Giugno 2023 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 18 MAGGIO 2023
SACRO ROMANO IMPERO LA STORIA • I LUOGHI • I PROTAGONISTI a cura di Francesco Colotta testi di Alessandro Barbero, Alessandro Bedini, Fabio Brioschi, Francesco Colotta, Franco Cardini,
Paolo Golinelli, Chiara Mercuri, Marina Montesano, Ludovica Sebregondi e Francesco Troisi
DALLE ORIGINI ALLA LOTTA PER LE INVESTITURE I CAROLINGI 8. Il Natale dell’Europa GLI OTTONI 22. Sogni e ambizioni del duca di Sassonia IL REGNO D’ITALIA 36. Il secolo breve di Berengario
L’IMPERO DEGLI HOHENSTAUFEN FEDERICO BARBAROSSA 52. Il re del mondo FEDERICO II DI SVEVIA 62. Quel sovrano «meraviglioso»...
L’IMPERO DEGLI ASBURGO MASSIMILIANO I 82. Il grande cacciatore
CARLO V 88. Il signore del sole perenne
LE CITTÀ SIMBOLO AQUISGRANA, PRAGA, VIENNA 112. Tre regine per un impero
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pesso le tracce del Medioevo conducono nel nostro tempo e si trovano impresse in temi di odierna discussione. Pensiamo al lungo cammino dell’integrazione europea, ancora in sofferto perfezionamento, un processo che – secondo alcuni storici – affonda le radici nel Natale dell’800, quando Carlo Magno venne incoronato nella basilica di S. Pietro… La domanda può apparire semplicistica, ma ricorre ancora con frequenza nei dibattiti tra studiosi: fu Carlo Magno il padre dell’idea di Europa? Lo storico Alessandro Barbero sostiene che il sovrano abbia concepito per primo il progetto di «uno spazio politico unitario», dal Nord della Germania al Mediterraneo, con asse commerciale nel Reno e nel Mare del Nord. Al contrario, Jacques Le Goff riteneva forzata tale attribuzione di paternità, in quanto il monarca non avrebbe guardato all’Europa come a un insieme di popoli, a un’unica civiltà. Precursore o meno dell’attuale integrazione europea, il re dei Franchi fu artefice di un vero miracolo politico. Dal giorno della sua incoronazione in Vaticano, il 25 dicembre dell’800, prese forma una confederazione tra Stati destinata a durare mille anni, fino all’avvento di Napoleone: il Sacrum Romanum Imperium (Sacro Romano Impero), inteso a restaurare i fasti dei Cesari nei secoli cristiani. Il primo assetto dell’istituzione fu costituito piú o meno dai territori degli odierni Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, gli stessi – solo una curiosa coincidenza? – che figurano come membri fondatori della primigenia Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951. L’impero generato da Carlo Magno visse presto un periodo di declino, piú propriamente di «anarchia feudale», e risorse nel X secolo con l’avvento al trono di Ottone I il Grande, anch’egli incoronato nella basilica di S. Pietro a Roma. La componente «sacra» dell’autorità di imperatore derivava senza dubbio dalla formale
investitura papale, ma negli anni acquisí una dimensione ancora piú potente. Si consideri la vicenda dell’«ossessiva» ricerca del corpo di Carlo Magno da parte di Ottone III, che nell’anno 1000 ordinò di scavare nella Cappella Palatina di Aquisgrana: il rinvenimento della salma incorrotta del sovrano svelò i segni di un prodigio – dando credito agli apologetici resoconti dell’epoca – e fu assunto come testimonianza di santità. Il sovrano sarà poi canonizzato, mentre di un altro grande imperatore, Federico I Barbarossa (1155-1190), si attenderà per secoli la resurrezione nelle montagne del Kyffhäuser in Turingia, un evento – secondo una leggenda – destinato a coincidere con il Giorno del Giudizio. In età moderna il grande romanzo del Sacro Romano Impero perse il suo carattere encomiastico e si andò secolarizzando. Voltaire affermò che non era stato «né sacro, né romano e neanche un impero», mentre per lo storico prussiano Leopold von Ranke fu una storia di lungo declino e fallimento. Gli studi piú recenti, di taglio monografico (James Bryce e Peter H. Wilson), hanno restituito a quel progetto politico una obiettiva dignità, ponendo in relazione il suo declino con il fisiologico affermarsi di fermenti nazionalisti: in un’epoca in cui ogni nazione doveva avere un proprio Stato, non c’era piú spazio per un’idea universalista. Ancora oggi nel Vecchio Continente si discute su quale sia il miglior modello di governo per una comunità cosí vasta, un confronto sfociato in serrata battaglia politica: sovranisti contro europeisti. Per comporre la disputa, un interessante contributo giunge dal mondo della cultura: secondo il filosofo Giorgio Agamben, per rafforzare il sentimento di appartenenza europea sarebbe auspicabile un potere simbolico piú affine al Sacro Romano Impero che al profilo delle odierne istituzioni. La storia, ancora una volta, si affaccia nel presente e il nuovo Dossier di «Medioevo» invita i lettori a riviverla. Francesco Colotta
Miniatura raffigurante Carlo Magno con il globo e la spada, da un Libro d’Ore di produzione francese. 1415 circa. Londra, British Library. 6
SACRO ROMANO IMPERO
L’incoronazione di Carlo Magno a «imperatore dei Romani» segna il destino dell’Occidente medievale. Prende infatti le mosse un progetto politico e culturale, destinato a investire l’intero continente europeo di Chiara Mercuri
L’ETÀ CAROLINGIA
Il Natale dell’Europa Busto reliquiario di Carlo Magno, in oro e argento. Metà del XIV sec. Aquisgrana, Tesoro della Cattedrale.
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RE ARTÚ
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orse la notte di Natale dell’anno 800, come avvertirono molti cronisti dell’epoca, fu davvero la piú importante vissuta dall’Occidente medievale. Il pontefice Leone III, nella chiesa principe della cristianità, S. Pietro in Vaticano, pose sul capo di Carlo Magno la corona imperiale, scandendo per ben tre volte la formula di incoronazione: «A Carlo augusto, coronato da Dio, grande e pacifico imperatore dei Romani, vita e vittoria!». Sebbene in tempi recenti alcuni storici abbiano cercato di mettere in evidenza i limiti di tale incoronazione e di non enfatizzarne le conseguenze, non si può sottovalutare la portata ideologica e culturale che tale evento ebbe. Un nuovo imperatore dei Romani veniva proclamato in Occidente a distanza di piú di trecento anni dall’ultima incoronazione, e il papa di Roma era il solenne sacerdote a cui era affidata la celebrazione di tale rito. Per Carlo, il re dei Franchi, discendente di una stirpe di guerrieri germanici, era l’avverarsi di un sogno durato – per il suo popolo – lunghi secoli. Ma anche per Roma quella cerimonia segnava un mutamento di portata gigantesca: era il suo ritorno sulla scena del mondo, nelle vesti di ritrovata capitale dell’impero. La men-
talità medievale, tanto sensibile ai simboli e alla liturgia percepí la cerimonia di quella notte di Natale come l’inizio di un nuovo corso della storia, che avrebbe mostrato i suoi effetti per millenni. E fu proprio ciò che avvenne.
Genti devote al pontefice
Ora, però, è necessario compiere un passo indietro e chiedersi chi fosse il nuovo imperatore. A partire dal 768, Carlo era divenuto re dei Franchi, la popolazione germanica che alla fine del V secolo si era impossessata dall’antica Gallia. All’epoca della conquista la maggior parte di queste genti era cristiana e devota al pontefice romano. Clodoveo, il capostipite del regno, si era convertito al cristianesimo e da allora la popolazione romanza e i guerrieri franchi si erano uniti, dando vita a uno dei piú solidi regni romano barbarici, quello della primitiva Francia. Alla base di tale costruzione politica vi era la salda alleanza religiosa: il re di Francia si considerò primo difensore del credo dei Romani. Ma il regno fondato da Clodoveo, nato dalla collaborazione tra aristocratici latini e militari franchi, conobbe grandi turbolenze, dovute soprattutto a cause dinastiche. Queste erano motivate anche dall’estrema arretratezza del diritto
Miniatura raffigurante papa Leone III che incorona Carlo Magno, nella notte tra il 24 e il 25 dicembre dell’anno 800, durante la Messa celebrata nella basilica di S. Pietro in Vaticano, da un’edizione della Chronique des Empereurs di David Aubert. 1462. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.
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I Carolingi
I PREDECESSORI S. Arnolfo (ca. 580-641) Vescovo di Metz dal 614 al 627. Sposa nel 611 Oda (o Doda).
S. Clodulfo (599-696) Vescovo di Metz dal 656.
Pipino il Vecchio (o di Landen) († 639) Maggiordomo di Austrasia. Sposa Itta d’Aquitania.
Ansegiso († 685) Maggiordomo di Austrasia. Sposa S. Begga († 698).
A destra elsa di spada, dalla necropoli longobarda di Nocera Umbra (Perugia). VI-VII sec. d.C. Roma, Museo dell’Alto Medioevo.
[1] Grimoaldo († 714) Maggiordomo d’Austrasia nel 696.
S. Begga († 698).
S. Gertrude (623-656) Badessa di Nivelle dal 651.
Grimoaldo († 656) Maggiordomo di Austrasia dal 642.
Childeperto († 656) Re usurpatore d’Austrasia nel 656.
Pipino II d’Héristal (635?-714) Maggiordomo di Austrasia verso il 679 e di Neustria nel 687. Sposa [1] verso il 673 Piectruda, ripudiata († post 714); [2] Alpaide (o concubina?).
[2] Childebrando
[2] Carlo Martello (689-741) Maggiordomo d’Austrasia e di Neustria. Sposa: [1] Crotrude († 724); [2] Sonnechilde (chiusa in monastero nel 741).
(† 743)
Conte.
Teobaldo († 715) [1] Carlomanno (715-755)
Maggiordomo d’Austrasia dal 741 al 747. Drogone
[1] Chiltrude († 754) Sposa nel 741 Odilone († 748), duca di Baviera.
[2] Grifone († 753) Duca di Baviera dal 749 al 753.
Altri figli la cui sorte è sconosciuta.
Carlomanno (751-771) Re di Borgogna, Provenza, Settimania e Aquitania orientale dal 768 al 771. Sposa nel 770 Gerberga figlia di Desiderio re dei Longobardi.
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[1] Pipino il Breve (715-768) Maggiordomo di Neustria dal 741 e d’Austrasia dal 747, re dei Franchi dal 751 al 768. Sposa Berta o Bertrada († 783).
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Carlo Magno (742-814) Re di Austrasia e di Neustria dal 768, di tutto il regno dal 771, re dei Longobardi dal 774. Imperatore dall’800. Dopo un rapporto di concubinaggio con [1] Imiltrude (†?), sposa: [2] nel 770 Ermengarda (o Desiderata) figlia di Desiderio re dei Longobardi, ripudiata nel 771; [3] nel 771 Ildegarda (758-783); [4] nel 783 Fastrada († 794); [5] post 796 Liutgarda († 800).
Gisella (757-811) Suora.
UN’INNOVAZIONE SIGNIFICATIVA Nel 751, all’atto della sua incoronazione, Pipino si fece ungere con l’olio santo dai vescovi delle Gallie, e, tre anni dopo, si fece nuovamente ungere da papa Stefano II, insieme ai figli Carlo e Carlomanno. Il rituale rappresentava una novità di straordinaria valenza ideologica, giacché fino ad allora i re dei Franchi salivano al potere per acclamazione; e se, oltre al consenso, godevano d’un carisma mistico, lo dovevano piuttosto al sangue regale che scorreva nelle loro vene. Facendosi ungere con l’olio consacrato, Pipino rimetteva in uso un rito attestato nell’Antico Testamento, in cui si legge (I Samuele, 10, 1) che Saul ottenne il regno dopo essere stato consacrato dal profeta Samuele; e dopo di lui erano stati unti, salendo al trono, Davide e Salomone. Nel mondo cristiano un rituale di questo genere era già
stato introdotto dai re visigoti di Spagna, il cui regno, però, nel frattempo era crollato sotto i colpi degli Arabi; Pipino fu il primo re franco, e il solo monarca cristiano del suo tempo, a introdurre nella propria incoronazione questa nota sacrale, benché i sovrani d’Inghilterra non abbiano tardato a imitarlo. L’unzione non si limitava a fare del re, genericamente, un essere sacro, ma conferiva alla sua persona un carattere sacerdotale, giacché proprio l’olio consacrato, fra i cattolici, era impiegato nell’ordinazione di sacerdoti e vescovi: perciò Carlo Magno avrebbe potuto presentarsi a buon diritto come «l’unto del Signore», e affermare la propria autorità sulla Chiesa oltre che sull’impero, come un semplice laico, per quanto incoronato, non avrebbe mai potuto fare. (red.)
franco, alla base del quale vi era il principio della legge Salica – dei Franchi Salii –, secondo il quale il patrimonio andava diviso tra tutti i figli maschi, e non spettava al solo primogenito. Per tale ragione la dinastia merovingia (i successori di Clodoveo) regnò spesso debolmente su un insieme di capi litigiosi.
Nuovi scenari
Nel 751, Pipino il Breve, maestro di palazzo (una carica paragonabile a quella di un alto ministro) del re merovingio Childerico III, costrinse quest’ultimo a ritirarsi in un monastero, e salí sul trono franco al suo posto. Una nuova dinastia si affacciava. Il mondo però, rispetto ai tempi che avevano visto il trionfo dei regni romano-germanici sul morente impero d’Occidente, era molto cambiato. Nel Mediterraneo si diffondeva la potenza araba, contrastata dall’impero bizantino che, pur proclamandosi erede dell’impero romano, non aveva con esso quasi piú niente a che spartire. Sempre piú greco per cultura e tradizione, orbitante per necessità nell’area balcanica e del vicino Oriente, esso esercitava una tutela sempre piú impotente e mal tollerata sul pontefice romano e sulla città di Roma. Quest’ultima era decaduta al rango di monumentale centro di provincia, con le sue campagne sempre piú minacciate dai Longobardi, per difendersi dai quali il papato accettava ancora la tutela bizantina. I Longobardi, infatti, sebbene si fossero convertiti al cristianesimo di rito romano, miravano a soffocare la sede pontificia, che rappresentava un ostacolo insormontabile ai loro piani di unificazione dell’Italia sotto il nuovo dominio. Il resto dell’Europa era diviso tra popolazioni
Miniatura raffigurante Pipino il Breve, re dei Franchi dal 751 al 768, tra due dignitari ecclesiastici, dal Sacramentario di Drogone di Metz. IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
ancora legate alla tradizione tribale – come i Sassoni, ma anche gli Avari e gli Slavi – e genti che avevano assorbito la tradizione giuridica e culturale romana, rielaborandone contenuti e valori con diversi gradi di sensibilità. E questi erano, principalmente, gli Anglosassoni in Britannia, i Visigoti in Spagna (impegnati in una durissima e perdente guerra contro gli Arabi) e i Franchi in Francia. SACRO ROMANO IMPERO
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I Carolingi
REALISMO POLITICO La notizia che a Roma un capo barbaro s’era attribuito la corona imperiale fu accolta a Costantinopoli con derisione e disprezzo. Tutti, infatti, a Oriente come a Occidente, credevano che al mondo ci fosse spazio per un solo impero, cosí come una sola era la cristianità; ai capi germanici gli imperatori romani avevano riconosciuto, con degnazione, il titolo subordinato di «rex», ma era impensabile che uno di loro potesse assumere quello di «imperator». Lo stesso Carlo Magno sembra essersi preoccupato delle reazioni ostili che il gesto di Leone III avrebbe potuto provocare a Oriente, e già nell’802 mandò un conte e un vescovo a Costantinopoli con la proposta straordinaria d’un matrimonio tra lui e l’imperatrice Irene, che avrebbe permesso di riunificare i due imperi. La proposta incontrò tuttavia la glaciale ostilità dei notabili bizantini, che con un colpo di Stato liquidarono Irene ed elevarono al trono uno dei suoi ministri, Niceforo I. Da allora, e per qualche anno, Bisanzio considerò i Franchi come un nemico; ne derivò una lunga guerra sul confine orientale d’Italia, che solo nell’810 si concluse vittoriosamente per i Franchi. Ma solo la morte di Niceforo, ucciso in battaglia l’anno seguente dal khan bulgaro Krum, costrinse il suo successore Michele I a cercare la pace con l’Occidente: nell’812 un’ambasceria bizantina raggiunse Aquisgrana e, sia pure a denti stretti, riconobbe a Carlo il titolo imperiale. Per salvare la faccia, tuttavia, i Bizantini evitarono accuratamente di rivolgersi a Carlo come all’imperatore dei Romani, e anch’egli preferí mantenere separate le qualifiche di imperatore e di governante dell’impero romano, dimostrando ancora una volta una buona dose di realismo politico. (red.)
Statua di Carlo Magno all’interno del municipio di Aachen, l’antica Aquisgrana, nella regione Nord Reno-Westfalia, in Germania.
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Con l’ascesa di Pipino, il regno dei Franchi trovò una nuova stabilità e diede anche avvio a un’ambiziosa «politica estera». Negli ultimi decenni, i Franchi si erano rivelati decisivi nel fermare l’avanzata araba che dalla Spagna minacciava ormai il cuore della Francia. La battaglia di Poitiers del 732 aveva visto come prota-
IRLANDA
OCEANO ATLANTICO
BRETAGNA
MARCA DI SPAGNA
REGNO DELLE ASTURIE
Lisbona
EMIRATO DI CORDOBA (OMAYYADI)
Toledo
Valencia
Cordoba Malaga Tangeri
Ceuta
CALIFFATO IDRISSIDE gonista Carlo Martello, padre di Pipino il Breve, ed era stata uno degli episodi di maggior successo della casata. Pipino cercò anche, consigliato dai suoi vescovi, di recuperare lo stretto legame che i re franchi avevano un tempo intrattenuto con la sede pontificia. Il papato – in lite con i Bizantini an-
REGNI DEGLI
IC
REGNO DI DANIMARCA
AQUISGRANA Carlo Magno vi stabilí la sua corte e fece costruire il palazzo imperiale e la Cappella Palatina. In età carolingia, la città, capitale dell’impero, divenne un importante centro culturale.
ANGLOSASSONI
Aquisgrana
MA
Colonia Colon Metz
NEUSTRIA Orléans
Regensburg
T
Regno franco
Conquiste di Carlo Magno
Territorio appartenente alla Chiesa di Roma solo formalmente
Aree di influenza carolingia
Impero ereditato da Ludovico il Pio nell’814
ALAMANNIA
Poitiers
BAVIERA
BURGUNDIA
R
L BA
L A F O R M A Z I O N E D E L L’ I M P E RO CAROLINGIO (768-814)
AUSTRASIA
Parigi
AQUITANIA
O
MARE DEL NORD
Salisburgo
REGNO DEGLI AVARI
Lione
CARINZIA Venezia Ravenna REGNO LONGOBARDO RDO O DUCATO Milano
Tolosa Arles
Narbona
REGNO DEI BULGARI
PATRIMONIO DI SPOLETO
Barcellona
Corsica DI S. PIETRO Roma
Isole Baleari
Gaeta Napoli
Sardegna MAR
ME
EMIRATO AGLABIDE
DI
ROMA Nella basilica di S. Pietro, la notte di Natale dell’800, Carlo Magno fu incoronato imperatore del Sacro Romano Impero.
DUCATO D UCA CAT AT TO T O DI BENEVENTO
Benevento
Costantinopoli
Salerno
IMPERO BIZANTINO
TE
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AN
Sicilia EO
che a motivo di aspri contrasti teologici, minacciato dagli Arabi che ormai assediavano la Sicilia, stretto dai Longobardi che miravano a rosicchiare l’autonomia di Roma – rivolse al nuovo regno franco uno sguardo supplice. Ma che cosa poteva mai offrire Roma con la sua guida disarmata – il pontefice – al nuovo regno che,
come un baluardo, si stagliava nel cuore dell’Europa? Poteva offrire l’immensa tradizione romana, il millenario patrimonio amministrativo e giuridico della cultura classica e, soprattutto, il sogno imperiale. Questa immagine fascinosa e prestigiosa, come un soffio, non aveva mai smesso di animare il cuore dei Germanici, sin SACRO ROMANO IMPERO
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dalla fase cruenta delle invasioni. Anche nei momenti piú drammatici, questi popoli emersi dai boschi posti oltre il limes renano avevano sempre aspirato a un’impossibile integrazione col mondo romano, detestato e vagheggiato al tempo stesso. Anche i discendenti di quegli invasori – come i Franchi di Pipino – non potevano non desiderare di essere accolti nel solco della tradizione romana e di ascendere di grado verso la piú prestigiosa costruzione che l’Occidente avesse mai prodotto, l’impero romano di Augusto. Solo il pontefice di Roma poteva designarsi suo erede spirituale, sia per via della continuità territoriale tra la sede dell’impero e la sede pontificia, sia perché il pontefice poteva parlare con una sola voce – la voce del successore di Pietro – ai regni cristiano-cattolici che andavano dalla Scozia alla Foresta Nera, dal Nord Africa alla Dalmazia. La Chiesa di Roma, tuttavia, viveva un momento di estrema debolezza a causa della situazione d’abbandono creatasi nella Penisola dopo la sconfitta dell’impero d’Occidente e la progressiva ritirata bizantina. In tale situazione fu stabilito un legame indissolubile tra il regno dei Franchi, desideroso di entrare nell’alveo della tradizione romana, e la sede pontificia, accerchiata dai Longobardi. Un legame, quello tra Franchi e Chiesa di Roma che si mantenne fino al 1870, quando la sconfitta inferta a Napoleone III dai Prussiani, permise alle truppe italiane di espugnare la Roma papalina, ponendo fine alla sua indipendenza millenaria.
Un intervento decisivo
Nel 754, su richiesta del pontefice, Pipino scese in Italia e condusse una prima spedizione contro i Longobardi. L’intervento si rivelò fondamentale per diminuire la pressione longobarda sul papato e per stabilire un’alleanza tra i Franchi e la Chiesa, ma Pipino fu presto distratto dalle rivolte interne e dalle spedizioni ai confini del regno. Fu il suo primogenito Carlo – il futuro Carlo Magno – asceso al trono nel 768 come unico erede dopo una breve coreggenza con il fratello, a proseguire con decisione e ancora maggiore energia la politica di espansione e rafforzamento già iniziata dal padre. La repressione delle rivolte divenne molto piú decisa e la politica estera piú ambiziosa. L’intera Francia 14
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Il «Talismano di Carlo Magno», in oro, rubini e smeraldi. IX sec. Reims, Palais du Tau. Contenente un frammento della Vera Croce, il reliquiario sarebbe stato donato dal califfo Hârûn ar-Rashid all’imperatore, e rinvenuto nel suo sepolcro nel 1166. In basso denario con il busto di Carlo Magno. IX sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France, Cabinet des Medailles.
del Sud e le regioni meridionali del Reno furono stabilizzate e annesse al regno franco. Il ducato bavaro cadde nell’orbita franca, cosí come tutti i territori dell’attuale Ungheria, abitati dagli Avari, di stirpe mongolica. Anche Cechi e Boemi, popolazioni slave, furono annesse al regno. Nel Nord, si svolsero le spedizioni piú feroci. I Sassoni erano una popolazione bellicosa e ancora pagana, e le iniziative militari di Carlo si colorarono presto di motivazioni religiose: alla fine ai Sassoni fu posta la spaventosa scelta tra convertirsi al cristianesimo o morire. Nel giro di pochi decenni, il nuovo regno franco acquisí territori enormi in Europa centrale. Ma uguale attenzione fu rivolta al Sud. Gli Arabi furono scacciati dalla costa meridionale dell’attuale Francia e costretti ad abbandonare l’estremità settentrionale della Spagna, fino al fiume Ebro. Intanto, nel 773, Carlo aveva passato le Alpi, deciso a distruggere la potenza longobarda. Con la conquista di Pavia, nel 774, i Longobardi furono sottomessi – rimasero sotto il loro controllo solo alcuni territori della Langobardia Minor, in Italia centro-meridionale – e il re franco assunse anche il titolo di rex Langobardorum. L’inclusione di tutti i territori oltre il Reno, la conquista dell’intera area dell’Europa centrale fino al Danubio e l’annessione del regno longobardo in Italia portarono a una sostanziale unificazione dell’Europa. Il passo successivo fu la decisione di spezzare l’ormai fragilissimo legame con l’impero bizantino, erede formale dell’impero romano. Ciò portò, nella notte di Natale dell’800, alla proclamazione di Carlo a imperatore dei Romani. Era il ritorno dell’impero romano nei territori d’Occidente, un giorno atteso da secoli. Come se non vi fosse stata alcuna frattura temporale, Carlo divenne imperatore dei Romani, in continuità con Augusto (occorre, però, qui ricordare che il termine con cui l’impero carolingio è spesso designato, «Sacro Romano Impero», va in realtà attribuito all’impero inaugurato, alla metà del secolo successivo, da Ottone I, primo imperatore di stirpe sassone). L’incoronazione imperiale nascondeva, tuttavia, una doppia e divergente volontà. Il papato romano vedeva nell’imperatore non solo un difensore dell’istituzione pontificia, ma anche colui che le avrebbe assegnato vaste porzioni di territori nell’Italia centrale, a suo tempo già promesse dagli ultimi re longobardi, ma ancora non affidate al diretto controllo del pontefice.
L’assegnazione a Roma di vasti territori ex bizantini e longobardi dell’Umbria, delle Marche e della Romagna segnò l’inizio dello «Stato temporale» della Chiesa. E proprio grazie al cerimoniale dell’incoronazione in Vaticano, il papa si riteneva anche il formale assegnatario del crisma imperiale. Non
a caso, secondo alcune fonti franche, Carlo avrebbe accettato con un certo fastidio l’imposizione della corona da parte del pontefice. Per Carlo l’assunzione dell’impero significava, invece, la possibilità di presentarsi al livello simbolico come l’unificatore dell’Europa cristiana, di assumere il ruolo prestigioso di difensore
In alto diploma di Carlo Magno, datato al 14 settembre del 774, con la cessione della foresta di Kinsheim al priore di Liepvre. Parigi, Musée de l’Histoire de France.
In alto particolare del sigillo di Carlo Magno. A sinistra particolare della firma in calce al documento.
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I Carolingi
LE DATE DA RICORDARE 754 Consacrazione di Pipino e dei suoi figli, Carlo e Carlomanno. 768 Morte di Pipino. Il regno franco è diviso fra Carlo e Carlomanno. 771 Morte di Carlomanno; Carlo unico re dei Franchi. 772-780 Prime spedizioni contro i Sassoni. 773-774 Conquista del regno longobardo. 778 Spedizione di Spagna; assedio di Saragozza e sconfitta di Roncisvalle. 781 Creazione dei regni d’Aquitania e d’Italia, affidati ai figli di Carlo, Ludovico e Pipino. 782-785 Prima sollevazione generale dei Sassoni. 791-796 Guerra contro gli Avari. 792-799 Seconda sollevazione generale dei Sassoni. 794 Inizio della costruzione del palazzo regio ad Aquisgrana. 800 Incoronazione imperiale di Carlo Magno in S. Pietro. 804 Ultima deportazione in massa dei Sassoni. 806 Programma di spartizione dell’impero fra i tre figli di Carlo Magno. 806-811 Guerra contro l’impero bizantino. 810 Primo attacco danese; morte del figlio Pipino. 811 Morte del figlio Carlo. 813 Ludovico, unico figlio superstite, associato all’impero. 814 Carlo Magno muore il 28 gennaio. del papato e, soprattutto, di uscire dalla carica angusta di capo-popolo di un territorio di provincia e divenire un pari dell’imperatore bizantino. Nonostante la comunanza dei fini, ognuno perseguiva però i propri disegni, e tale ambiguità – com’è immaginabile – si trasformò in un fattore di debolezza intrinseca per la nuova istituzione imperiale. Durante il regno di Carlo Magno tali aspetti non costituirono un problema reale, ma la situazione precipitò alla sua morte. Costantinopoli si sentí presto defraudata del proprio ruolo e solo dopo qualche decennio finí per accettare, con profonda irritazione, la presenza di un nuovo «imperatore dei Romani». La proclamazione dell’impero, però, non rappresentò solo una svolta istituzionale, ma anche una rinascita culturale ed economica. Intorno a sé, la corte franca cercò di riunire intellettuali, amministratori e tecnici. Tra i consiglieri del re non vi erano solo uomini educati all’idea di poter un giorno riconsegnare l’impero all’Europa cristiana, ma anche amministratori e tecnici con il ben piú ambizioso progetto di galvanizzare – insieme all’istituzione imperiale – una ripresa commerciale, economica e urbanistica. Come era avvenuto al tempo di Augusto con la fine delle guerre civili, si sperava che l’unifica16
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Nella pagina accanto, in alto, a sinistra miniatura raffigurante Alcuino (735-804) che presenta al vescovo di Magonza Ogtario, il suo scolaro Rabano Mauro, da un manoscritto del IX sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.
zione di province immense, tramite la macchina statale imperiale, potesse avere l’effetto di avviare il motore della ripresa del mondo occidentale dopo secoli di crisi e d’isolamento. Seppure fosse quasi analfabeta, Carlo volle circondarsi di uomini altamente istruiti, che si rivelarono fondamentali per ripensare l’organizzazione politica del nascente impero e per dotarlo di una propria cultura di riferimento. Cosí, intellettuali di prim’ordine accorsero da tutta Europa per partecipare al progetto di rifondazione dell’impero ed entrarono a far parte della prestigiosa élite nota col nome di «dotti palatini» (dal termine latino palatium, che indicava la corte regia). La loro stessa origine e provenienza rappresentarono appieno il disegno universalistico che Carlo cercò di porre a fondamento della nuova istituzione. Tra essi si possono ricordare il sassone Alcuino di York (vedi box alla pagina accanto), il longobardo Paolo Diacono, il visigoto Teodolfo d’Orleans, il cronista e futuro biografo di Carlo, Eginardo, il grammatico Pietro di Pisa. Attorno a tale gruppo di intellettuali si organizzò una vera e propria scuola, a cui fu dato il nome di Schola Palatina.
Una ventata di aria nuova
Una serie di riforme, promosse da Carlo e dai tecnici di cui s’era circondato, investirono l’Europa come una ventata di aria nuova, che finí per scuotere dalle fondamenta l’antico ordine altomedievale. Fu avviata una riforma monetaria che dette il primato alla moneta argentea – il denario – e assegnò il monopolio della zecca allo Stato. Da quel momento, fino alla ricomparsa delle monetazioni auree bassomedievali, il denario d’argento diverrà l’unica moneta della rinascente economia europea. Ciò provocò una frattura – o ne costituí il segno piú evidente – con il mondo commerciale ed economico del Mediterraneo, contraddistinto dalla moneta aurea bizantina e islamica. Come sostenne lo storico belga Henri Pirenne nel suo celebre libro Maometto e Carlomagno (pubblicato nel 1937), tale rottura dell’unità mediterranea (commerciale, economica e politica) coincise con l’effettiva fine del mondo antico. Per Pirenne, tale unità sostanziale non si era fino ad allora mai interrotta, nemmeno con la caduta dell’impero romano d’Occidente. Un altro fondamentale cambiamento fu raggiunto nel campo della scrittura. Nelle varie regioni d’Europa, durante i secoli dell’Alto Medioevo, si erano sviluppate scritture corsive di differente tipo che avevano soppiantato la capitale maiuscola in uso sotto l’impero romano. Tale fe-
PRINCIPE DI ELOQUENZA Come altri uomini della corte di Carlo Magno, Alcuino fu ricompensato – sebbene non fosse un religioso – con l’affidamento di importanti abbazie, prima fra tutte quella di S. Martino a Tours, la piú antica e ricca del regno franco. I possedimenti di queste abbazie erano cosí vasti che Alcuino, si diceva, avrebbe potuto viaggiare attraverso tutto l’impero fermandosi sempre a far tappa su proprietà di strutture da lui stesso amministrate. Si calcolava che per queste abbazie lavorassero 20 000 contadini, e, benché il surplus prodotto da un lavoratore agricolo, con i mezzi del tempo, fosse assai ridotto, moltiplicandolo per il numero di lavoratori, produceva rendite di una certa importanza. Alcuino, in realtà, era soprattutto un intellettuale e un appassionato di libri e biblioteche. Ancora giovane, si era recato a Roma per cercare testi con cui arricchire la propria biblioteca. Dopo qualche anno, nel 780, vi aveva fatto ritorno per seguire le scuole nella città dei papi. Appena l’anno dopo, Carlo Magno, affascinato dalla sua eloquenza e dalla vastità della sua cultura, decise di affidare proprio a lui, un dotto anglosassone, il progetto di riforma delle Scholae del regno.
nomeno aveva contribuito al generale decadimento dell’alfabetizzazione e, di conseguenza, alla rarefazione degli scambi culturali. Per iniziativa di Carlo, la scrittura fu uniformata, imponendo un nuovo tipo di grafia denominata «carolina», caratterizzata da caratteri semplici e di facile lettura e riproduzione. L’estrema chiarezza dei suoi caratteri la fece assurgere nelle epoche successive a scrittura base della stampa ancora oggi in uso e nota con il nome di «stampato minuscolo». L’attenzione verso la promozione di una politica culturale imperiale caratte-
A destra, in alto e in basso le due facce in avorio della coperta del Salterio di Dagulfo, illustrate con le Storie di David, che Carlo Magno fece realizzare nella Schola Palatina di Aquisgrana per papa Adriano I, intorno all’anno 795. Parigi, Museo del Louvre.
SACRO ROMANO IMPERO
I Carolingi
rizzò la nuova costruzione carolingia: furono aperte scuole in tutte le grandi città, e si assistette a una generale ripresa dell’architettura, dell’edilizia e a un tentativo di uniformare e rendere piú efficaci le tecniche agrarie. Tale generale movimento di riforma dell’Europa occidentale, fece coniare nel 1839 allo storico Jean Jacques Ampère la definizione di «Rinascita carolingia». Sebbene tale espressione sia oggi contestata da molti storici e ormai non piú usata a motivo della sua eccessiva enfasi, essa sintetizza efficacemente l’impulso che Carlo seppe dare alla cultura e alla società occidentale.
Nella pagina accanto particolare della decorazione dell’ambone della cattedrale di Aquisgrana. In basso spaccato assonometrico della Cappella Palatina, costituita da un nucleo centrale a pianta ottagonale, con copertura a cupola.
Uniformare il diritto
Certamente l’effetto di alcune delle riforme carolingie fu limitato: occorre tener presente che l’impero governava su un territorio vastissimo, nel quale gli abitanti vivevano dispersi in vaste aree agricole con una profonda difformità di etnie, credi, culture e tradizioni. Anche per superare tali differenze, la giurisprudenza carolingia cercò di rendere piú uniforme la base del diritto, fino ad allora ancora legato alla diversa tradizione etnica. Esisteva ancora un diritto romano che si applicava ai Romanzi, un diritto franco che si applicava ai Franchi, uno longobardo per i Longobardi. Con Carlo Magno si perse tale frammentarietà e la legge fu uniformata per tutti i sudditi, con effetti di enorme portata, che avviarono la nascita di veri e propri caratteri nazionali, non piú basati sul retroterra etnico. La gestione di regioni cosí vaste, oltretutto collegate tra loro in modo approssimativo, portò l’amministrazione carolingia a cedere la gestione di alcuni territori, soprattutto di con-
fine, agli uomini di fiducia dell’imperatore. Dapprima furono assegnate proprietà terriere in semplice gestione, via via, però, furono concessi diritti, benefici e privilegi definitivi. In cambio, gli assegnatari dovevano amministrare tali aree e, soprattutto, difenderle. Gli uomini scelti facevano parte della cerchia ristretta di collaboratori dell’imperatore – il comitatus – e perciò tali assegnazioni vennero in seguito designate con il termine di «contee». Se queste aree si trovavano in zone di confine, presero invece il nome di «marche». Le marche erano caratterizzate da una costante emergenza militare e per tale ragione divennero nel tempo sempre piú autonome. Il meccanismo delle assegnazioni dei diritti ereditari su porzioni di territori imperiali, dette di fatto inizio al processo noto come «feudalesimo». Tale processo – all’epoca di Carlo – era bilanciato dall’autorità centrale, che si esprimeva sia con la personalità del re, sia con riunioni annuali in cui venivano prese decisioni valide per tutto il territorio. Queste decisioni erano fatte rispettare in modo perentorio dai missi dominici, funzionari, vescovi o nobili che fungevano da ispettori per conto dell’imperatore. Essi assolvevano alla funzione di controllo e di raccordo dei pubblici funzionari dislocati nei vari territori che componevano l’impero. Con la morte di Carlo, nell’814, e, soprattutto, dalla metà del IX secolo, a causa di una serie di scontri tra i successori, il potere centrale perse d’autorità e l’aristocrazia feudale divenne sempre piú aggressiva. Riuscí progressivamente a espropriare diritti e privilegi alle istituzioni centrali e tale processo segnò
In basso il fronte occidentale del Palazzo e della Cappella Palatina di Aquisgrana. Il lungo portico collegava l’aula regia (1), a sinistra, con l’atrio della cappella, sulla destra (3). A metà circa della sua lunghezza era interrotto da una porta monumentale (2) che dava l’accesso al palazzo.
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l’intera storia dell’Europa medievale, fino all’affermazione del movimento comunale. La morte di Carlo determinò la crisi di una parte della costruzione imperiale da lui faticosamente organizzata. A Carlo successe il figlio Ludovico, detto il Pio, che però alla sua morte, nell’840, lasciò l’impero diviso tra i tre figli, che si affrontarono in una dura guerra di successione. Ludovico aveva tentato, con l’Ordinatio Imperii dell’817, di regolare la questione della successione, assegnando – secondo l’antica legge salica – territori a ciascun figlio maschio, ma affidando al contempo la sovranità sull’intero impero al solo primogenito. Ciononostante, gli anni successivi al suo regno furono funestati da conflitti sempre piú aspri tra i suoi pretendenti. Solo con il trattato di Verdun, nell’843, i discendenti di Carlo trovarono una «sistemazione» territoriale. Essa, però, decretò la fine dell’unità imperiale, con la creazione di regni distinti: la Francia occidentale (la futura Francia), la Francia orientale (la futura Germania), mentre l’Italia centro-settentrionale fu assegnata all’imperatore insieme a una serie di territori dell’Europa centrale (la Borgogna, soprattutto). L’Italia rimase legata a ciò che restava dell’istituzione imperiale e ciò ebbe conseguenze enormi sul futuro della sua storia.
E niente fu piú come prima
Si può quindi dire che, la notte di Natale dell’800, con tutta la sua valenza simbolica, segnò il destino dell’Europa. In primo luogo, a causa di quell’evento l’impero bizantino si vide strappare la palma di erede formale dell’impero romano e uscí in modo pressoché definitivo dalla storia dell’Europa occidentale. La Francia diede inizio al corso della sua storia nazionale e cercò sempre di mantenere il ruolo di protettrice del papato romano. L’Italia, divisa tra Nord
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I Carolingi
I DISCENDENTI Carlo Magno (742-814) Re di Austrasia e di Neustria dal 768, di tutto il regno dal 771, re dei Longobardi dal 774. Imperatore dall’800. Dopo il rapporto di concubinaggio con Imiltrude (†?), sposa nel 770 Ermengarda (o Desiderata) figlia di Desiderio re dei Longobardi, ripudiata nel 771; nel 771 Ildegarda (758-783); nel 783 Fastrada († 794); post 796 Liutgarda († 800).
Pipino il Gobbo (769-811) Si rivolta contro il padre nel 791. Rinchiuso in convento.
Carlo (772-811) Re d’Austrasia.
Pipino (773-810) Re d’Italia dal 781.
Bernardo (797-818) Re d’Italia dall’810 all’818.
Lotario I (795-855) Re d’Italia dall’840, imperatore dall’843. Sposa nell’821 Ermengarda di Tours.
Adelaide
Pipino I (803-839) Re d’Aquitania dall’817. Sposa Ingeltrude († post 836).
Pipino II (825-dopo l’864) Re d’Aquitania dall’838 all’843, spodestato dallo zio Carlo il Calvo. Senza eredi.
Rotruda (775-810)
Ludovico II il Germanico (806-876) Re di Germania dall’840. Sposa nell’827 Emma di Baviera († 876).
Carlo († 863) Arcivescovo di Magonza nell’856.
Ludovico II (824 circa-875) Re d’Italia e imperatore dall’855
Lotario II Carlo (?-863) (825?-869) Re di Borgogna Re di Lotaringia dall’855. nell’855.
Carlomanno (828-880) Re di Baviera dall’876, re d’Italia dall’877.
Ludovico III il Giovane (822-882) Re di Sassonia dall’876.
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Ludovico il Pio (778-840) Re d’Aquitania, di tutti i domini dall’814, imperatore dall’816. Sposa nel 794 Ermengarda d’Angiò († 818); nell’819 Giuditta di Baviera (805-843).
Berta Gisella (779/790-829) (781-?) Sposa Angilberto Rinchiusa in di Saint-Riquier convento dopo († 814). l’814 per corruzione dei suoi costumi. Numerosi figli e figlie naturali da differenti concubine.
Gisella (820/822-874) Sposa nell’836/840 Everardo duca del Friuli († 862). Berengario I († 924) Marchese del Friuli, re d’Italia dall’888, imperatore dal 915.
Giuditta (843-?)
Carlo III il Grosso (839-888) Re di Svevia dal’876, re d’Italia dall’880, imperatore dall’881, re di Francia dall’884. Deposto nell’887.
Luigi II il Balbo (846-879) Duca d’Aquitania dall’866. Re di Francia dall’877.
Carlo II il Calvo (823-877) Re di Francia dall’840, imperatore dall’875, re d’Italia dall’876. Sposa nell’842 Imiltruda (o Ermentruda) († 869); nell’870 Richilde sorella di Bosone († post 877).
Carlo (847/848-866) Re di Aquitania dall’855.
TUTTE LE LINGUE DEL NUOVO IMPERO Nell’840, dopo la morte di Ludovico il Pio, i suoi figli combatterono una guerra di successione che terminò solo con il trattato di Verdun dell’843. Nel luglio dell’842, due dei fratelli, Ludovico e Carlo (detto il Calvo), s’incontrarono a Strasburgo per giurare – a nome dei rispettivi regni della Francia orientale e della Francia occidentale – lealtà reciproca e, soprattutto, che nessuno dei due si sarebbe alleato con il terzo fratello, Lotario, re d’Italia e imperatore. Il giuramento avvenne alla presenza dei rispettivi eserciti e, per essere compreso da tutti, fu formulato nelle lingue delle rispettive regioni di provenienza, riportate anche dai cronisti dell’epoca. Tale giuramento è considerato la prima testimonianza della lingua protofrancese d’oïl (da distinguersi da quella d’oc, la lingua occitana tipica delle regioni del Sud) e prototedesca. Come già accennato, i Franchi, al pari di Alamanni, Turingi, Baiuvari e Sassoni (i popoli da cui nascerà la futura Germania), erano germanici e parlavano quindi una lingua d’impronta germanica. Il francese, invece, è una lingua di derivazione romanza e s’impose tra i Franchi solo con l’avvento della dinastia carolingia, quando i Franchi finirono con l’adeguarsi alla lingua parlata dalla maggioranza della popolazione celtica della Gallia, che, profondamente romanizzata, parlava un dialetto di derivazione latina. Genti romanze vivevano anche nelle attuali Svizzera, Austria e Germania meridionale, dove però costituivano una minoranza demografica, la cui emarginazione linguistica era stata causata dal declino della condizione sociale e giuridica. Con la fine dell’impero romano, infatti, queste popolazioni furono escluse dall’attività militare, e si dedicarono perlopiú all’attività agricola e artigianale. Nei regni germanici sorti in queste regioni dell’Europa centrale, il contadino germanico corrispondeva al guerriero, e quindi all’uomo libero. L’esclusione dalla carriera militare fece scivolare i contadini romanzi in una condizione di inferiorità rispetto ai germanici. Tali dinamiche portarono, in queste aree, alla progressiva
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Ludovico il Pio, da un’edizione del Liber de
laudibus Sanctae Crucis composto dall’abate di Fulda Rabano Mauro per il sovrano franco. IX sec. Torino, Biblioteca Nazionale.
scomparsa della presenza romanza, sia come etnia che come lingua e all’imporsi della lingua germanica. L’impero fondato nella notte di Natale dell’800 fu caratterizzato dall’unificazione della componente romanza e di quella germanica, presenti da tempo nell’Occidente europeo. Quando però, alla morte di Ludovico il Pio, l’impero fu diviso tra i figli dell’imperatore, il destino delle diverse regioni si differenziò, finché, alla fine del secolo, il processo di distinzione tra Francia (Neustria, Aquitania, Burgundia, parte dell’Austrasia) e Germania (formata da parte dell’Austrasia, l’area bavara, l’area sassone, l’antica Rezia) poté dirsi compiuto. Il trattato di Verdun dell’843, con l’assegnazione della Francia Occidentalis a Carlo – in sostanza la futura Francia – e della Francia Orientalis – la futura Germania – a Ludovico, segnò l’inizio della storia autonoma della Francia e della Germania. Anche per l’Italia tale trattato rappresentò un momento decisivo: l’area centro-settentrionale fu affidata – insieme alla corona imperiale – a Lotario, a cui fu assegnata anche parte dei territori tra Francia e Germania. Questa parte della Penisola rimase quindi legata al mondo nord-europeo germanico, e ciò creò un’enorme frattura con l’Italia centromeridionale. Qui, prima i Bizantini, poi gli Arabi e infine i Normanni crearono sistemi economici e di governo assai diversi da quelli dell’Italia centro-settentrionale. Rispetto a queste due macroregioni, Roma rimase invece autonoma, ma, per la sua funzione formale e istituzionale (l’incoronazione imperiale rimase una gelosa prerogativa papale), finí, come il Nord, per legarsi al destino dell’impero. Tale rapporto con il mondo germanico divenne ancor piú evidente quando, nel 962, con la rinascita dell’istituzione imperiale che avverrà con Ottone I, ebbe inizio una lunga successione di imperatori di dinastia sassone. Fu la nascita del vero e proprio Sacro Romano Impero. La Francia, a quel punto, era ormai uno Stato-nazione pienamente autonomo, che però conservò il titolo e la funzione di protettore del papato, eredità del passato carolingio.
europeo e Sud mediterraneo, vide sorgere al centro della sua penisola un territorio governato direttamente dal pontefice romano. La Germania avviò un processo di unificazione culturale, linguistica ed economica. Quando, nel giro di un secolo, quest’ultima assunse la corona imperiale, venne a stabilirsi un legame sempre piú saldo, ma nel contempo difficile, con la sede di Roma. L’imperatore, infatti, governò sull’Italia e pretese di far udire la sua voce nel corso della elezione papale. Allo stesso tempo ebbe bisogno del papa per veder riconosciuta la sua funzione imperiale. Tale dicotomia divenne la base dello scontro futuro tra papato e impero. Lo scambio vicendevole tra papa e imperatore, che si era stabi-
lito con Carlo Magno, aveva portato alla Chiesa protezione militare e concessioni territoriali. Ma si rivelò presto foriero di nuovi pericoli, soprattutto quando l’imperatore cercò di imporre la nomina dei vescovi e addirittura l’elezione dei papi. In compenso, il fatto che l’elezione imperiale dovesse di fatto essere ufficializzata con la venuta a Roma e l’incoronazione in S. Pietro, si tramutò per molti imperatori, soprattutto per i piú deboli, in un pesante fardello a vantaggio del prestigio pontificio. Per tale ragione l’aristocrazia germanica rimase, per lunghi secoli, profondamente legata all’Italia. Una dipendenza che poi, soprattutto nel Basso Medioevo, si trasformò in un rapporto conflittuale e complesso. SACRO ROMANO IMPERO
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L’ETÀ DEGLI OTTONI
Gli Ottoni
Sogni e ambizioni del duca di Sassonia
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Nel 962 sale al trono Ottone I e la sua consacrazione, a Roma, segna la rinascita dell’istituzione imperiale. Grazie a lui e ai suoi successori la formidabile esperienza politica del «Sacro Romano Impero» vive una nuova stagione cruciale di Chiara Mercuri
N
el capitolo precedente sono stati descritti la genesi e lo sviluppo di quello che è passato alla storia come «Impero carolingio» o «Sacro Romano Impero di Carlo Magno»; ovvero la creazione di un enorme Stato europeo, basato su una corona imperiale – cinta dal re dei Franchi, Carlo Magno – conferita dal papa di Roma. Da quell’impero continentale, che corrispondeva all’Europa occidentale, ebbero origine i tre grandi nuclei nazionali europei: la Germania, la Francia e l’Italia. Tali nazioni emersero come un insieme di caratteri culturali e sociali distintivi in un periodo ben preciso, e cioè nei difficili anni seguiti alla morte del figlio di Carlo, Ludovico il Pio, avvenuta nell’840. All’indomani della sua scomparsa, la delicata costruzione imperiale andò presto in crisi, sia a causa dei conflitti sorti tra gli eredi e i pretendenti, sia per le profonde differenze esistenti tra i territori e i popoli che li abitavano. Da tale crisi si poté uscire solo dividendo l’impero in tre tronconi. La Francia prese una strada autonoma e nazionale, e cosí avvenne – in parte – anche per la Germania e per l’Italia. Quest’ultima riprese, nell’estensione territoriale (l’Italia centro-settentrionale) e nell’espressione della sua capitale (Pavia), confini e ordinamenti molto vicini a quelli del regno longobardo a suo tempo annesso da Carlo Magno.
Al di sopra degli altri monarchi
Se alla morte di Carlo Magno la separazione dei vari territori che formavano l’ex impero carolingio fu un fenomeno quasi fisiologico, il problema dell’eredità imperiale restava spinoso. Solo la corona imperiale dava diritto a uno status «superiore», formale quanto ambiguo, garantito dalla vicinan-
za e tutela della sede pontificia. Nella cultura medievale, il papa era vicario di Cristo sulla terra, e la consacrazione dell’imperatore – che, seguendo la tradizione inaugurata da Carlo Magno, doveva avvenire proprio a Roma – era considerata una trasmissione di autorità, capace di elevare il sovrano al di sopra degli altri monarchi. Oggi una simile concezione simbolica e ideologica può forse risultare incomprensibile, ma appariva del tutto fondata nell’immaginario degli uomini medievali, educati alla suggestione della liturgia e del rito. Dai lidi scozzesi alle foreste balcaniche, l’uomo medievale riconosceva l’importanza dell’incoronazione di un imperatore da parte dell’autorità religiosa, e questo legame inscindibile, stabilitosi con l’incoronazione di Carlo Magno da parte di Leone III nella notte di Natale dell’800, rimase quindi indissolubile, anche quando l’impero carolingio vacillò e cadde in frantumi, e le strade dei diversi regni nazionali sembrarono prendere tracciati sempre piú divergenti. Il papa rivolgeva il suo sguardo verso l’imperatore; ne chiedeva la protezione, ne sollecitava l’intervento, ne criticava l’azione. Quest’ultimo, non poteva restare indifferente all’attività del pontefice, alle sue nomine, alle sue preferenze, al suo atteggiamento nella politica diplomatica europea e mediterranea. Ora, la crisi dell’impero carolingio fece perdere valore a tale scambio reciproco di facoltà; la corona imperiale divenne una preda che feudatari e pretendenti erano disposti ad assicurarsi con azioni di forza e prepotenze, e, quasi di conseguenza, anche sulla cattedra di Pietro salirono personaggi discussi e violenti. Finché, alla metà del secolo X, le cose cambiarono. L’indebolimento dell’impero e delle monar-
Particolare del pastorale di Erkanbald, abate di Fulda dal 997 al 1011 e arcivescovo di Magonza dal 1011 al 1020. Hildesheim, Museo Diocesano. Nella pagina accanto corona del Sacro Romano Impero, in oro, perle, smalti e pietre preziose, realizzata per l’incoronazione di Ottone I (912-973), nel 962 circa, con aggiunte di epoca successiva. Vienna, Hofburg (vedi anche il box e le foto alle pp. 32-33).
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Gli Ottoni
GLI IMPERATORI OTTONIANI E SALICI Enrico I di Sassonia
Editta = (1) Ottone I (2) il Grande d’Inghilterra (912-973) Re di Germania dal 936 e imperatore dal 962
l’Uccellatore (876-936) Re di Germania dal 919
=
Enrico I Duca di Baviera
=
= Adelaide di Borgogna
Enrico II Duca di Baviera
Liudolfo Duca di Svevia
Matilde
Giuditta di Baviera
Bruno I Arcivescovo di Colonia († 965)
Gerberga (1) = Gilberto di Lotaringia (2) = Luigi IV
Re di Francia
Gisella di Borgogna
Enrico II
lo Zoppo (o il Santo) (973-1024) Imperatore dal 1002
Ottone II
(955-983) Imperatore e re di Germania e Italia dal 973
=
Liutgarda
Teofano di Bisanzio
Ottone III = Adelaide
Enrico di Spira
Agnese di Poitou Berta di Savoia
=
Corrado II
=
Enrico III
il Nero (1017-1056) Imperatore dal 1039
Enrico IV
(1050-1106) Imperatore dal 1056
Enrico V
(1081-1125) Re di Germania dal 1106 e imperatore dal 1111
Magdeburgo, Cattedrale. Le statue che ritraggono Ottone I e la prima moglie Editta d’Inghilterra (o, secondo una diversa interpretazione, la Chiesa e Cristo). 1245 circa.
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= Corrado il Rosso Duca di Lorena
Bruno (papa Gregorio V dal 996) († 999)
il Salico (990-1039) Re di Germania dal 1024, re d’Italia dal 1026 e imperatore dal 1027
=
=
Ugo il Grande Ugo Capeto († 996) Re di Francia dal 987
Ottone di Worms Duca di Svevia e Carinzia
(980-1002) Re di Germania dal 983 e imperatore dal 996
Gisella di Svevia
Edvige
Corrado
Guglielmo Vescovo di Strasburgo
Nella pagina accanto, in basso fibula in oro e pietre preziose con aquila smaltata appartenuta all’imperatrice Gisella di Svevia, moglie di Corrado II il Salico (990-1039), sovrano del Sacro Romano Impero dal 1027 al 1039. XI sec. Magonza, Landesmuseum.
chie guidate dai successori di Carlo Magno non fu causato soltanto dai conflitti interni. Vi furono aggressioni provocate da popoli che si stavano affacciando per la prima volta sulla scena europea (vedi box a p. 29). Tra questi vi erano i Normanni, gli antichi Vichinghi scandinavi, che erano riusciti a creare un potere autonomo nel Nord della Francia (la Normandia); nell’area danubiana, si erano invece insediati gli Ungari (o Magiari), popolazione di stirpe asiatica che, dopo essersi aperta la strada tra i popoli slavi, minacciava la Germania meridionale e l’Italia settentrionale con scorrerie devastanti. Nel Sud dell’Italia e lungo le coste del Mediterraneo occidentale intanto, incombeva la minaccia araba che, sebbene avesse concluso la sua fase piú espansiva, rappresentava un pericolo soprattutto nelle aree costiere. A fronte di tanti complessi pericoli, il potere centrale si rivelò quasi impotente. La capacità di risposta militare di imperatori e re si mostrò debole e lenta, a causa della vastità dei territori amministrati e del decentramento dei poteri portato avanti con il feudalesimo. Furono invece i feudatari dei territori aggrediti a dimostrarsi in grado di mobilitare rapidamente la cavalleria, di fortificare i borghi e, soprattutto, di armare i «propri» contadini. Fu quanto avvenne a Parigi, dove i Normanni vennero fermati dal conte Eude da cui ebbe origine la dinastia destinata a sostituire i Carolingi sul trono di Francia, quella dei Capetingi. In Italia, Berengario, marchese del Friuli, si trovò a fronteggiare da solo Slavi e Ungari. Di lí a poco ascese al trono d’Italia – e poi a quello imperiale – con il nome di Berengario I. In modo simile, i feudatari del basso Lazio, i conti di Tuscolo (presso Frascati), impedirono agli Arabi – allora piú noti come «Saraceni» – di avanzare, dagli avamposti dell’Italia meridionale, verso Roma. Questi nobili non mancarono, poi, di far sentire il proprio peso sulla vita della città e sulle scelte della stessa Curia pontificia.
Una scatola vuota
L’autorità imperiale si era dunque trasformata in una scatola vuota. Persino i regni nazionali, in questo secolo di emergenza militare, sembravano macchine troppo lente per reagire agli
In alto miniatura di scuola italiana raffigurante Ottone I incoronato dalla Vergine, dal Sacramentario di San Varmondo. X sec. Ivrea, Biblioteca Capitolare.
attacchi provenienti dall’esterno. E proprio in questi decenni, tra i grandi proprietari terrieri (i feudatari) e i contadini che vivevano e lavoravano le loro terre, si stabilí un legame di protezione e fedeltà che si sciolse solo molti secoli dopo, giungendo in alcune regioni sino all’epoca moderna. Allo stesso tempo, questi feudatari finirono per convincersi che fosse inutile e perfino dannoso cedere parte della propria forza militare ed economica al potere centrale, considerato inefficiente e troppo distante per agire risolutamente. Per tale ragione si trasformarono nei peggiori nemici del proprio sovrano. Tale processo, quindi, complesso ma rapido, da un lato aveva indebolito il prestigio e il potere dell’autorità imperiale, e dall’altro aveva esposto la Chiesa ai capricci e alle azioni di forza della nobiltà laziale, che fu presto in grado di spodestare pontefici e nominarne di propri, trattando la cattedra di Pietro come un annesso del proprio feudo. Dopo la morte – nel 924 – di Berengario I, la stessa corona imperiale era divenuta vacante, e non aveva piú avuto pretendenti. Questo stato di anarchia e disordine andò avanti fino a quando sul trono dei Germani salí un uomo che, per qualità personali e capacità militari, seppe riprendere il percorso tracciato centocinquant’anni prima da Carlo Magno e resuscitare SACRO ROMANO IMPERO
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Gli Ottoni
L’ELEZIONE DEI PONTEFICI «Nel nome del Signore Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo. Io, Ottone, per grazia di Dio imperatore Augusto, e con noi nostro figlio Ottone, re glorioso, garantiamo e confermiamo con questo patto a te, beato Pietro, principe degli apostoli e clavigero del regno dei cieli, e per te al tuo vicario il signore Giovanni XII, pontefice supremo e papa universale». Cosí aveva inizio il Privilegio (o Diploma) Ottoniano, cioè l’accordo sottoscritto, a pochi giorni dall’incoronazione, da Ottone I con il papa Giovanni XII. Nel documento, il papa otteneva il riconoscimento e la definitiva concessione da parte dell’imperatore, dei territori che costituivano il dominio temporale della Chiesa, già a suo tempo concessi dai Carolingi. In cambio, il pontefice accettava una formula – ambigua e assai discussa – secondo la quale era necessario una sorta di benestare imperiale per l’elezione del pontefice. Tale formula diede presto vita a contrasti tra l’imperatore e Giovanni
XII, che si trovò costretto a fuggire da Roma. In tale occasione l’imperatore ne approfittò per procedere direttamente alla nomina imperiale, operando un’ulteriore interpolazione del documento, in base alla quale il benestare diventava – di fatto – una vera e propria nomina. In effetti, soprattutto intorno al Mille, alcuni ecclesiastici di piena fiducia della corte divennero pontefici per diretta volontà dell’imperatore. È il caso del discusso «papa dell’anno Mille», Silvestro II (999-1003), al secolo Gerberto d’Aurillac, precettore del principe Ottone III. Tale formula fu al centro di feroci opposizioni fin dal tempo di Giovanni XII, quando fu redatto il Privilegium originario. Occorre ricordare che lo stesso Giovanni era figlio di un nobile locale, Alberico di Spoleto, che lo aveva imposto – a soli 18 anni – sul trono pontificio. La nobiltà locale finí quindi per entrare in contrasto con i funzionari imperiali, provocando disordini in città. Ottone dovette
intervenire di persona e fece deporre Giovanni, proclamando al suo posto un altro pontefice, riconosciuto però solo da alcuni cardinali. Da quel momento, gli interessi autonomistici della Chiesa e quelli – assai piú particolaristici – della nobiltà romana finirono per coincidere, suscitando sentimenti nazionali cittadini contro l’imperatore. Gli inviati imperiali e i pontefici nominati dal sovrano vissero a Roma decenni assai difficili. La procedura del benestare imperiale – o addirittura la nomina diretta – nella elezione del pontefice fu vissuta come un’insopportabile prevaricazione, finché, alla metà del secolo successivo, Niccolò II riformò l’elezione papale (che a partire da allora sarebbe avvenuta tramite un’assemblea di cardinali) e la questione del beneplacito imperiale si poté considerare superata. Ciononostante la questione rimase teoricamente in vita fino al 1918, cioè fino alla scomparsa dell’Impero austro-ungarico, estremo erede del Sacro Romano Impero.
Papa Giovanni XII (955-964) si vendica di due cardinali avversari, accecandone uno e facendo tagliare la mano a un altro. Miniatura da un codice di scuola francese del XV sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La miniatura allude a un episodio avvenuto nel 964, nel quadro dei duri contrasti scatenati dal Privilegio Ottoniano. Dopo l’incoronazione (962), Ottone I fece rientro in Germania e Giovanni XII s’intese con i suoi rivali, per cui, a un nuovo intervento di Ottone a Roma, fuggí a Tivoli (963); presente Ottone, un sinodo depose Giovanni XII ed elesse un nuovo papa (Leone VIII). Allontanatosi di nuovo l’imperatore, Giovanni XII tornò a Roma, fu reintegrato e si vendicò degli avversari.
LE DATE DA RICORDARE
l’impero «dei Romani»: il suo nome era Ottone. Ottone divenne duca di Sassonia e re dei Franchi Orientali nel 936, ereditando il regno dal padre Enrico. La Germania corrispondeva allora all’antica Francia orientale: una congerie di popoli, per la maggior parte di lingua ed etnia germanica, frutto della divisione post-carolingia. Ottone seguí solo in parte le orme del padre: mentre quest’ultimo era rimasto quasi sempre ostaggio della grande nobiltà tedesca, egli mostrò da subito un’attitudine diversa. Sconfisse in battaglia i feudatari ribelli di Baviera e Turingia, e riuní sotto la propria autorità l’intero regno. Si impegnò in prima persona contro i nemici che si trovavano a nord ed est, e che, da tempo, saccheggiavano i villaggi e le città della Germania: i Danesi, di stirpe vichinga, gli Ungari e le popolazioni slave. Ottone sconfisse, uno dopo l’altro, i nemici dell’impero: impose tributi alla Polonia e alla Boemia, ricacciò indietro i Danesi e fermò per sempre le invasioni degli Ungari. Ciò gli permise, infine, di volgere il suo sguardo verso sud. Qui si estendeva il regno d’Italia, che corrispondeva all’intera Italia centro-settentrionale con l’aggiunta di alcune regioni alpine oggi appartenenti alla Svizzera e alla Francia. Un regno se-
814 Morto Carlo Magno, gli succede sul trono imperiale Ludovico il Pio (814-840). 840-855 Lotario I, figlio di Ludovico il Pio è re d’Italia e imperatore. 849 La vittoria navale della Lega Campana (formata da navi delle repubbliche marinare di Amalfi, Napoli, Sorrento e Gaeta) a Ostia sui Saraceni argina l’avanzata musulmana. 855-875 Ludovico II, figlio di Lotario I, è imperatore e re d’Italia. Gli succede, dopo un’aspra lotta, Carlo II il Calvo (875877), già re di Francia. 877 Carlo il Calvo emana il Capitolare di Quierzy, con il quale concede ai vassalli maggiori del regno l’ereditarietà delle terre detenute in beneficio. 881-887 Carlo il Grosso, ultimo imperatore carolingio, riunifica l’impero franco. 900 Ludovico, re di Provenza, chiamato dai signori italiani contro Berengario, è incoronato re d’Italia, ma è poi vinto da Berengario (905). 910 Fondazione dell’abbazia di Cluny in Francia. 915 Incoronazione imperiale di Berengario a Roma. Battaglia del Garigliano: una lega di forze bizantine, papali e longobarde condotte dal papa Giovanni X sconfigge i Saraceni e distrugge la loro base. 962 Ottone di Sassonia è incoronato a Roma imperatore del Sacro Romano Impero. Con il Privilegio Ottoniano l’elezione del papa è sottomessa all’approvazione dell’imperatore. 963 Giovanni XII viene deposto e viene eletto Leone VIII. 964 Berengario II, re d’Italia, viene deposto da Ottone. 967 Dopo aver fatto associare al trono il figlio Ottone II, incoronato a Roma da Giovanni XIII, Ottone I cerca di annettere l’Italia meridionale. 983-1002 Regno di Ottone III, figlio di Ottone II. 987-996 Con l’appoggio dell’arcivescovo di Reims, Adalberone, e di Gerberto d’Aurillac (il futuro papa Silvestro II), sale al trono di Francia Ugo Capeto, primo dei Capetingi. In alto placca in avorio raffigurante Cristo che pone due corone gemelle sul capo di Ottone II e della consorte, Teofano. 983 circa. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Age. Ottone II regnò sul Sacro Romano Impero dal 973 al 983.
gnato, oltre che dalla continua minaccia degli Ungari, da una lotta sfiancante coi Bizantini e con gli Arabi nel sud. Ma, soprattutto, un regno travagliato da crudeli e prolungate guerre interne tra grandi feudatari: la corte della capitale, Pavia, era preda di lotte feroci e continui tradimenti. Minacciata da uno degli usurpatori, Adelaide, giovane vedova del re d’Italia Lotario II, chiamò in suo soccorso Ottone: questi, col suo seguito militare, giunse a Pavia, sconfisse i feudatari locali e sposò Adelaide. Cosí, dopo decenni di anarchia, la corona di Germania e quella d’Italia si riunirono. Per i due paesi l’evento ebbe conseguenze epocali. Otto(segue a p. 31) SACRO ROMANO IMPERO
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CANOSSA Nel regno d’Italia si affermò, nel corso dell’XI sec., la dinastia di Canossa, che, con la contessa Matilde, raggiunse un eccezionale ma effimero potere politico e militare nell’area centro-settentrionale della Penisola.
GERMANIA Al tempo degli Ottoni, la Germania era divisa tra i ducati di Alta e Bassa Lotaringia a ovest del Reno, di Sassonia a nord, di Franconia al centro, di Svevia a sud e di Baviera a sud-est.
FRANCIA Sotto la dinastia dei Capetingi, il regno di Francia era diviso in grandi feudi semi-autonomi e indipendenti dal sovrano che dominava direttamente solo la regione centrale dell’Île-de-France, con capitale Parigi. Il sud-est della Francia, l’antico regno di Borgogna, passò all’impero germanico nei primi decenni dell’XI sec. 28
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I NUOVI POPOLI La creazione del Sacro Romano Impero fu motivata anche dalla necessità, per le popolazioni germaniche e italiane, di respingere le minacce portate da Ungari, Arabi e genti scandinave, che comparvero in modo quasi contemporaneo sulla scena dell’Europa continentale nei difficili decenni tra IX e X secolo.
UNGARI Detti anche Magiari, erano un popolo di ceppo asiatico, proveniente dalle steppe della Russia centrale. La loro prima incursione in territorio germanico risale all’862, ma la minaccia si fece piú forte da quando si stabilirono nella Pannonia, l’attuale Ungheria. Da qui, all’arrivo della buona stagione, il temibile esercito ungaro muoveva verso Occidente, dandosi a scorrerie e saccheggi. La loro prima incursione in Italia ebbe luogo nell’899, e fu disastrosa. Colpirono anche la Baviera, la Sassonia e la Borgogna.
VICHINGHI Le genti scandinave conobbero in questo difficile secolo una enorme espansione. Gli Svedesi (chiamati «Variaghi» o «Rus») si indirizzarono verso l’Europa orientale, dando vita all’embrione da cui sarebbero nate Ucraina e Russia. Danesi e Norvegesi si espansero invece verso Occidente, con incursioni, saccheggi e occupazione di territori in tutta l’Europa settentrionale. Chiamati dagli Inglesi «Vichinghi», cioè pirati, o «Normanni» (uomini del Nord), oltre che contro l’isola britannica rivolsero le loro armi contro i territori settentrionali di Francia e Germania. I Tedeschi riuscirono a ricacciarli verso l’attuale Danimarca, mentre in Francia i Vichinghi riuscirono a occupare il Nord del Paese dando vita alla Normandia, che poi, agli inizi del X secolo, fu ceduta loro in cambio del riconoscimento dell’autorità feudale del re francese.
ARABI Dopo l’espansione dell’VIII secolo, con la conquista della Spagna, nel IX secolo, l’unica occupazione araba significativa fu quella della Sicilia, strappata ai Bizantini. Gli Arabi, tuttavia, crearono, in Provenza e in Italia meridionale, piazzeforti costiere dalle quali facevano incursioni marittime. Nell’846 giunsero a saccheggiare la basilica vaticana, all’epoca fuori dal perimetro murario della città. Diedero inoltre vita a due importanti emirati in Puglia (Taranto e Bari), che durarono una trentina d’anni, fino all’871.
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LE RESIDENZE REALI Il regno teutonico non aveva una «capitale». Gli Ottoni erano re itineranti e si spostavano continuamente in palazzi regi o in abbazie che preservavano la loro memoria familiare. I loro spostamenti, però, erano limitati perlopiú a territori saldamente sotto il loro controllo, come la Sassonia e la
La cripta dell’abbazia di Quedlinburg, in Sassonia. All’interno del complesso di Quedlinburg – composto da due monasteri e da un castello, tra le principali residenze dei sovrani sassoni –, Ottone I convocò, nel 973, una Dieta in occasione della quale venne presentata la principessa Teofano, che l’anno prima era stata data in sposa al figlio, Ottone II.
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regione del Reno. Tra le loro residenze piú importanti, e maggiormente visitate, possiamo ricordare quelle di Quedlinburg, Magdeburgo, Francoforte, Ingelheim e Aquisgrana. In genere gli spostamenti erano legati alla convocazione delle assemblee generali dei grandi del regno, alla celebrazione di particolari festività religiose o all’incontro dei vari esponenti della «famiglia reale». I palazzi regi si trovavano in prossimità di importanti vie di comunicazione e di proprietà fondiarie regie, che dovevano garantire l’approvvigionamento della «corte» durante la sua permanenza.
ne, infatti, sulle orme di Carlo Magno, decise – invitato dal papa – di scendere a Roma. Dopo quarant’anni di «latitanza», la corona imperiale fu posta sul capo del re sassone da papa Giovanni XII, il 2 febbraio del 962. Il cronista milanese Arnolfo, nel suo Liber gestorum recentium, scrisse: «Egli fu il primo germanico a diventare imperatore d’Italia». Era l’inizio del Sacro Romano Impero di stirpe sassone, o di nazione germanica, come i cronisti lo avrebbero definito nei secoli successivi. Con Ottone, l’impero uscí dalla crisi seguita alla morte degli ultimi discendenti diretti di Carlo Magno: il loro regno, appena un secolo dopo la sua proclamazione, era stato lacerato soprattutto dalle lotte tra i grandi feudatari, spesso blandamente imparentati con gli ultimi Carolingi. Ma anche l’architrave centrale, la duplicità di poteri e autorità (civili e religiose) su cui si era basata la costruzione carolingia, si era dimostrato fragile. Ottone di Sassonia cercò di fare tesoro di tali limiti e attorno alla forza militare delle sue armate cercò di costruire un disegno politico assai piú ambizioso, capace di portare all’effettivo ripristino dell’impero: quello che poi, al tempo del suo discendente Ottone III, venne definito come Renovatio Imperii (rinnovamento dell’impero). Si trattava di una vera e propria adesione all’ideologia imperiale concepita da Carlo Magno: non piú intesa, come era avvenuto per altri effimeri imperatori precedenti, come discendenza di sangue dai Carolingi (né, tanto meno, dagli Augusti dell’antica Roma), ma come espressione della volontà di
impersonare – in un uomo e in un’istituzione – la difesa e lo sviluppo dell’intera cristianità; una vocazione universale, dunque.
Un territorio piú coeso
Ottone si trovava a governare su un territorio vasto, ma piú piccolo rispetto a quello controllato da Carlo Magno, perché non comprendeva piú la Francia occidentale, cioè l’attuale Francia, ormai autonoma. La Germania e l’Italia (l’area centro-settentrionale) costituivano il nucleo principale del suo impero, che piú avanti si ampliò con l’annessione dei regni di Borgogna e di Boemia. Tuttavia, rispetto a quella dominata dai Carolingi, si trattava di un’area con maggiore coesione territoriale. Al contrario di Carlo, legato all’arcaica tradizione che contemplava la divisione del patrimonio paterno tra tutti i figli maschi, egli avrebbe lasciato l’impero a un unico erede, garantendone l’unità e cercando di limitare, di conseguenza, le guerre di successione che avevano a lungo funestato l’Europa. Rispetto al passato recente, dunque, Ottone fece sí che l’impero, alla sua morte, restasse unito nelle mani di un unico, e designato, erede. E, nonostante gli innumerevoli problemi, tale proposito si realizzò. Meno efficace si rivelò invece la gestione del rapporto – assai complesso – con la Chiesa. Lo scambio di protezione e autorità tra i due poteri era vantaggioso per Reliquiario di Ottone I o «di S. Servazio», in avorio intagliato, oro e smalti, dal Tesoro di Quedlinburg. 870 circa, con aggiunte del XIII sec.
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IL TESORO DEGLI IMPERATORI Oltre alla corona, le insegne regali del Sacro Romano Impero sono oggi conservate a Vienna, nella Hofburg, il complesso in cui gli Asburgo, nel tempo, riunirono accessori liturgici d’oro e d’argento, monete, pietre preziose e ornamenti, ma anche documenti e insegne necessari per consolidare il proprio potere terreno, nonché numerose reliquie, come pegno spirituale di questa potenza. In particolare, gli oggetti riferibili al Sacro Romano Impero giunsero nella città austriaca nel 1796, da Norimberga, dove erano conservati dal 1424.
Per quanto riguarda i personaggi, David, re d’Israele e profeta, simboleggia la giustizia; Salomone è l’immagine della saggezza e del timore di Dio; Isaia preconizza altri quindici anni di vita per il re Ezechia, che giace sul letto di morte, grazie alle pie preghiere che ha rivolto al Signore. E Dio mostra pietà per il sovrano, prolungando la sua esistenza terrena e sbaragliando i suoi nemici. La corona è considerata un simbolo del potere imperiale della dinastia degli Ottoni, che ritenevano di sedere sul trono per diritto divino.
LA CORONA Seconda metà del X sec. (la croce è stata aggiunta agli inizi dell’XI sec.) La corona imperiale si compone di otto piastre fra loro incernierate. Quattro di esse, le piú piccole, in smalto cloisonné, raffigurano episodi del Vecchio Testamento. Le quattro piú grandi hanno dimensioni diverse e sono decorate unicamente con pietre preziose e perle, disposte in ordine di grandezza; osservandole, si può «leggere» il programma teologico dell’oggetto: le gemme della piastra centrale sono dodici, come gli Apostoli; altrettante pietre sono incastonate nell’elemento posteriore e recano incisi i nomi delle dodici tribú d’Israele. In origine, al posto dello zaffiro cuoriforme che si trova al culmine dell’arco della piastra frontale, vi era una pietra detta «Waise» (letteralmente, «l’Orfano»): la sua presenza è menzionata per l’ultima volta in un inventario del 1550, dopo di che se ne sono perse le tracce. Sulle placche in smalto vi sono figure di profeti che reggono stendardi con citazioni delle proprie parole, mentre i passi biblici che si leggono nelle iscrizioni sono tratti dalla liturgia dell’incoronazione. Fa eccezione la placca con la Maestà di Cristo, che reca una citazione dei Proverbi sulla rivelazione di Cristo, signore dell’universo.
LA SPADA (spada di San Maurizio) Spada, 1198-1218; fodero: seconda metà dell’XI sec. Il pomolo della spada reca un’insegna con l’aquila imperiale e lo stemma dell’imperatore Ottone IV (1198-1218): la forma dell’arma e i dettagli dell’iscrizione suggeriscono che sia stata fabbricata quando il sovrano era conte di Poitou e duca di Aquitania, anche se non si può escludere che la spada fosse già stata usata quando venne incoronato re dei Romani ad Aachen, nel 1198. Con ogni probabilità, lo splendido fodero, fu invece prodotto in Italia, intorno al 1084, per l’incoronazione di Enrico IV. Su entrambi i lati vi sono sette figure, che creano una serie di quattordici re e imperatori: si può immaginare che si volesse cosí rappresentare la sequenza ininterrotta di sovrani che si era avuta da Carlo Magno a Enrico III. Tuttavia, il numero quattordici, è anche il risultato del raddoppio del sette, numero sacro, e potrebbe perciò avere un significato simbolico. In ogni caso, la disposizione e l’orientamento di questi regnanti, raffigurati in lamina aurea, indicano che, in occasione di feste e celebrazioni, la spada imperiale veniva portata davanti al sovrano con la punta rivolta verso l’alto. A partire dal XIV secolo, l’arma fu ritenuta propria del patrono imperiale, san Maurizio, considerato il guerriero per antonomasia.
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IL GLOBO 1200 circa Il globo è formato da un nucleo resinoso rivestito con foglia d’oro. Le quattro fasce che si intersecano e il polo superiore, nonché la croce con le estremità gigliate, sono decorate con gemme e filigrana. Le file di perle che in origine ornavano la fascia equatoriale del globo sono andate perdute. In età antica la sfera aveva un triplice significato: era un’immagine del cosmo, della terra, ma anche un simbolo del concetto di potere universale. Con l’aggiunta della croce il simbolo del potere venne reinterpretato in senso cristiano. Il globo imperiale – come la corona e la croce – esprime l’idea centrale del Cristo come signore del mondo e dell’imperatore che ne è il suo rappresentante terreno. Per ragioni stilistiche questo globo può essere datato alla fine del 1100 e, con ogni probabilità, fu il prodotto di un’officina di Colonia. LA CROCE 1024-25 circa La croce imperiale fu realizzata durante il regno di Corrado II (1024-1039) ed è un capolavoro dell’oreficeria medievale. La faccia anteriore è decorata con pietre preziose e perle, mentre quella posteriore, lavorata a niello, presenta le figure dei dodici Apostoli, dell’agnello dell’Apocalisse e i simboli dei quattro Evangelisti. Al pari della corona, la croce imperiale ha un profondo significato: essa è simbolo del trionfo della cristianità, della vittoria (l’imperatore Costantino era uscito vittorioso dalla battaglia di Ponte Milvio combattendo sotto la sua protezione) e del potere imperiale. Questo prezioso oggetto era anche un reliquiario: parti della sua faccia anteriore, infatti, sono amovibili e chiudono spazi interni che un tempo custodivano alcune sacre reliquie: la lancia sacra e una particola della Croce. (red.)
entrambi, ma ambiguo e foriero di incomprensioni e contrasti. I discendenti di Ottone, Enrico IV e Federico Barbarossa su tutti, ne pagarono le amare conseguenze nel corso della lotta «per le investiture». Il rapporto tra Chiesa e impero rimase una questione aperta nella storia medievale europea, e accompagnò per secoli la politica italiana, segnata dalle divisioni tra guelfi e ghibellini, seguaci, rispettivamente, del potere pontificio e di quello imperiale. Quanto alla Germania, l’interesse per la vita dei Comuni italiani e il tentativo di influire sull’elezione papale – da cui dipendeva l’incoronazione dell’imperatore – si tramutò in una sorta di maledizione che finí per impedirle di svilupparsi come Stato-nazione. Generazioni di nobili e di guerrieri tedeschi morirono – di guerre e malattie – nel tentativo di pacificare le rissose città italiane, e l’indomabile e anarcoide Roma su tutte. La volontà di mantenere in piedi a tutti i costi l’impero sottrasse alla Germania energie e forze vitali, costringendo a sua volta l’Italia a convivere con un vicino fin troppo interessato alle sue vicende. Un vicino poco ar-
rendevole, e capace talvolta di grande ferocia. Sebbene ispirata alla rinascenza carolingia, la Renovatio Imperii ottoniana non poté accompagnarsi a significative riforme sociali, economiche e culturali, come invece era avvenuto al tempo di Carlo Magno. Si assistette, tuttavia, grazie alla pacificazione dei territori di confine, a una generale ripresa dei commerci, all’insediamento di nuovi monasteri – con annesse attività produttive – e alla conversione religiosa di intere popolazioni. Rimase però difficile, al di là dei progetti personali, promuovere riforme in grado di avere un impatto sui fondamenti dello Stato e della società, poiché il sistema feudale aveva provocato la frammentazione totale delle forme del potere.
Uomini di fiducia
L’imperatore non amministrava direttamente i suoi territori, ma era costretto ad agire quasi esclusivamente attraverso feudatari di sua fiducia, laici o ecclesiastici che fossero. Privo di una sua burocrazia intermedia, l’imperatore – quando gli era possibile – governava scegliendo gli
La corona, la spada, la croce e il globo che compongono il tesoro dei sovrani del Sacro Romano Impero, oggi conservato a Vienna.
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Hildesheim, chiesa di S. Michele. Particolare dei rilievi del battente destro della grande porta bronzea commissionata, nel 1015, dal vescovo Bernoardo. Sono raffigurate l’Adorazione dei Magi (in alto) e la Natività (in basso).
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uomini da porre nei luoghi di effettivo comando, cioè le contee e i marchesati. Le principali città – alla cui guida vi era il vescovo – cadevano sotto la giurisdizione delle contee; era quindi fondamentale, per l’imperatore, insediare anche alla guida delle Chiese locali un uomo di sua fiducia. Fu cosí che in quegli anni, soprattutto nell’area tedesca, Ottone promosse l’elezione di vescovi-conti, figure nelle quali l’autorità religiosa coincideva con quella civile, garantendo alla città una rappresentanza unitaria, una guida esperta e preparata dal punto di vista giuridico, ma capace di prendere decisioni anche in campo laico e militare. La figura del vescovo-conte, conobbe – anche successivamente – una grande diffusione nell’Europa settentrionale. L’interesse dell’imperatore nella promozione di tale figura aveva anche un altro obiettivo: impedire che il feudo divenisse ereditario, come invece accadeva quando veniva consegnato in gestione a famiglie laiche. Alla morte del vescovo-conte, infatti, la carica tornava all’imperatore. Non a
caso, in quegli anni si ebbe la formalizzazione definitiva del celibato del clero. È evidente che l’imperatore aveva quindi l’assoluta necessità di scegliere – e nominare – il vescovo. Se questo gli fu possibile, malgrado qualche contrasto, in Germania, in Italia la nomina imperiale dei vescovi sollevò un’assoluta opposizione: per i pontefici – anche quelli piú proni alla volontà imperiale – si trattava di una formula inaccettabile. Per ovviare a tale resistenza, gli imperatori ottoniani cercarono di promuovere nuove famiglie di nobili, che non fossero legate alla precedente epopea feudale: tra queste va ricordata la famiglia dei Canossa, di cui si troverà ampia traccia nella storia a seguire, a cominciare da uno dei suoi protagonisti principali, Matilde. Ottone e i suoi successori continuarono a credere che il potere civile dovesse avere la supremazia su quello religioso. E cosí come poteva esprimersi la loro scelta dei feudatari, doveva pesare il loro parere sulla nomina del pontefice, il vescovo di Roma. Dal canto suo, la Chiesa fece di tutto per depotenziare questa pretesa fino a renderla priva di ogni effetto. Fu una battaglia difficile, perché Ottone aveva formalizzato tale prerogativa nel «concordato» firmato, a pochi giorni dall’incoronazione imperiale, da papa Giovanni XII: il cosiddetto Privilegium Othonis (vedi box a p. 30). Il rafforzamento della figura del vescovo (conte o non) a discapito del potere feudale laico ebbe un effetto significativo: quello di favorire la formazione di élite cittadine, e quindi, in futuro, di costruire la base da cui presero forza i primi comuni. Per le città si rivelava infatti piú auspicabile subire l’ingerenza di un vescovo legato all’imperatore, piuttosto che dover riconoscere diritti e privilegi a nobili famiglie laiche, che si sarebbero trasmesse tali concessioni per generazioni. Per i comuni, infatti, l’imperatore rappresentava un potere accentratore ma distante. Da tale lontananza, le città italiane e il papato cercarono di trarre il massimo beneficio, in termini di autonomia e di indipendenza (salvo poi chiamare l’imperatore in soccorso quando le minacce esterne si facevano pressanti). In realtà, anche i feudatari traevano vantaggio dal fatto che l’imperatore fosse spesso «distratto», e dovesse accorrere in Italia o, viceversa, restare in Germania.
L’interesse per l’Italia
Per la nobiltà tedesca, l’incoronazione imperiale rappresentava il segno dell’egemonia germanica nel campo della difesa della cristianità e non era percepita come viatico per il reale esercizio
di governo; essa divenne una sorta di strumento di politica interna. Le cose però cambiarono con i discendenti di Ottone, i quali verso l’Italia mostrarono un interesse che andava al di là dell’assunzione della corona di Pavia. Il primo, Ottone II, salí al trono nel 973, dopo aver sposato, appena l’anno prima, una principessa bizantina, Teofano. Il matrimonio era avvenuto nell’ambito di complesse trattative che Ottone aveva intavolato per venire a capo della confusa situazione nell’Italia meridionale, all’epoca divisa tra Bizantini, Arabi e principi longobardi. Il nuovo imperatore, e ancor di piú il di lui figlio Ottone III, nato dall’unione con la principessa bizantina finirono per interessarsi sempre di piú all’Italia e sempre meno alla Germania, affascinati dall’irresistibile richiamo – intellettuale e culturale – del mondo mediterraneo. L’attrazione per Roma e per l’antica idea imperiale – secondo gli storiografi tedeschi – si rivelò fatale per Ottone III ed ebbe conseguenze tragiche per l’intera Germania. Intorno all’anno Mille, l’agiografo tedesco Bruno di Querfurt (nella Vita quinque fratrum eremitarum) scrisse di Ottone III: «Solo Roma gli stava a cuore; al popolo romano, piú che a tutti gli altri, aveva riservato onori e ricchezze, e con puerile fantasia aveva pensato – pensiero vano! – di rimanere a Roma per sempre e di riportare Roma all’altezza della sua antica dignità (…) Non aveva voluto piú vedere la terra che gli aveva dato i natali, quella Germania che avrebbe dovuto amare, tanto grande era la sua smania di abitare in Italia, dove la morte crudele colpisce con mille malattie, con mille uccisioni». Lo stesso fatale destino fu condiviso da molti altri imperatori tedeschi. Scesero in Italia – attratti dalla prospettiva dell’incoronazione sulla tomba di Pietro, oppure richiamati in soccorso dai pontefici (in genere minacciati dagli stessi Romani), o costretti a intervenire per riappacificare le riottose e litigiose città padane – e rimasero invece impigliati in spedizioni pericolose e sedizioni perniciose.
Tra attrazioni e pregiudizi
Si potrebbe osservare che proprio allora, nel corso del X secolo, ha origine il complesso legame di amore-odio tra Italia e Germania. In tale fase si vennero a formare le vicendevoli attrazioni e i robusti pregiudizi che furono poi consolidati nei secoli successivi. Gli Italiani litigiosi, ingovernabili, sleali. I Tedeschi disumani, crudeli, soggiogatori. Eppure, spesso, come nel caso del giovane Ottone III, l’interesse per Roma e per l’Italia era motivato da un amore puro e
Hildesheim. La chiesa abbaziale di S. Michele, fondata nel 996 dal vescovo Bernoardo, consigliere dell’imperatrice Teofano e precettore di Ottone III.
disinteressato per la sua storia, dal sogno di rianimare l’eredità dell’antico impero romano. La fondazione del Sacro Romano Impero, a partire dalle sue origini, attraversò quindi l’intera storia dell’Europa medievale e moderna e conobbe un successo formidabile. Portò a compimento il sogno del ritorno dell’impero, un sogno coltivato dai popoli europei sino dalla fine del mondo antico. Un impero cristiano, capace di difendersi dai propri nemici – Vichinghi, Greci, Arabi, Mongoli, Slavi – ma anche di integrarli. Un impero continentale in grado di rivitalizzare città e campagne, favorendo i commerci e la rinascita delle scuole, delle chiese, dei monasteri. Tale impero si basava sull’autorità del suo sovrano e sul prestigio del pontefice romano. L’imperatore, però, correva il rischio di rimanere prigioniero della volontà e dell’infedeltà dei grandi feudatari tedeschi. Mentre il pontefice era alla mercé di ignoranti famiglie nobili laziali, i veri padroni della piccola città di Roma, prestigiosa quanto si vuole, ma povera e disarmata. Presto queste due debolezze, in luogo di sorreggersi l’un l’altra, entrarono in conflitto, proprio quando al loro reggimento arrivarono due personaggi dotati di grande forza e personalità: papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV. Essi si dissanguarono nel corso della lunga lotta per le investiture, infliggendo un colpo mortale all’antica alleanza tra trono e altare voluta da Carlo Magno. SACRO ROMANO IMPERO
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Il regno d’Italia
IL REGNO D’ITALIA
Il secolo breve di Berengario Nel dicembre dell’888 una dieta di nobili riunita a Pavia pone a capo del regno d’Italia il marchese del Friuli. Ha cosí inizio una parabola destinata a durare poco meno di cent’anni, segnati da rapporti difficili e alterni con l’impero, la Chiesa e le piú potenti famiglie nobili della Penisola di Chiara Mercuri
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opo avere illustrato la nascita dell’impero carolingio e la creazione del Sacro Romano Impero da parte di Ottone I, è giunto il momento di affrontare le complesse e sanguinose vicende che contrassegnarono un’istituzione che trovò la sua origine e la sua precoce fine proprio nel periodo intercorso tra la nascita dei due imperi: il regno d’Italia. La sua formazione coincide con quella di uno Stato longobardo nell’Italia centro-settentrionale, tra la fine del VI e la seconda metà dell’VIII secolo. Il suo dominio si estendeva a tutto il Nord dell’Italia, comprendendo parte dell’odierna Svizzera, della Savoia e della Provenza. A Oriente, si spingeva fino all’area istriana e dalmatica. Dopo una dura lotta contro i Bizantini, eredi dell’impero romano, i Longobardi riuscirono a occupare le aree costiere liguri e venete e tutti i territori che si disponevano lungo l’asse segnato dalla via Flaminia, che collegava Roma con l’esarcato di Ravenna, il piú antico e solido bastione bizantino. Anch’esso, però,
Miniatura raffigurante Berengario I, re d’Italia, con un gruppo di monaci dell’abbazia benedettina di S. Clemente a Casauria (presso Torre de’ Passeri, Pescara), dal Chartularium monasterii Casauriensis di Giovanni Berardi. Fine del XII sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Il diadema gemmato piú noto come Corona Ferrea (vedi anche il box a p. 40). Manifattura ostrogota e carolingia, V-IX sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo. Formata da un cerchio costituito da sei placche d’oro collegate da cerniere, adorno di brillanti e pietre preziose, la corona è detta ferrea perché l’anello di ferro che reca all’interno sarebbe stato ricavato da un chiodo della Croce di Cristo. Donata, secondo quanto si tramanda, dalla regina Teodolinda al Duomo di Monza, sarebbe stata posta sul capo dei re d’Italia a cominciare da Berengario I (888); ma con certezza storica si sa che la prima incoronazione riguarda Enrico IV (1084).
finí per capitolare nel 751. Una volta eliminati i «Greci» dal Nord e dal Centro della Penisola, i Longobardi furono in grado di riunire attorno alla corona di Pavia, la fulgida capitale del regno, gran parte dell’Italia centrosettentrionale. Tuttavia, nel cuore dello stivale, come una fortezza inespugnabile, restava Roma, con i territori laziali controllati direttamente dal papa. Nel Sud la situazione era ancora piú complessa, perché, se si esclude il ducato longobardo insediatosi a Benevento, i Bizantini governavano ancora le popolose città costiere e gli immensi territori rurali delle Puglie e della Sicilia.
Carlo Magno piega i Longobardi
Il sogno degli ultimi re longobardi, cioè quello di riunire l’Italia sotto il loro scettro, s’infranse definitivamente contro l’abile diplomazia pontificia, in grado di chiamare in proprio soccorso la piú potente e dinamica realtà politica e militare dell’epoca, la Francia di Carlo Magno. Questi scese in Italia, sconfisse il re longobardo e assunse per sé, a Pavia, il titolo di Rex Langobardorum. Quindi si fece incoronare imperatore «dei romani» dal papa, in S. Pietro. Da quel momento, impero e regno d’Italia – come iniziava a essere chiamato il regno di Pavia – furono riuniti sotto il dominio di una sola persona. E il loro destino si saldò. Dopo la morte del figlio di Carlo, Ludovico il SACRO ROMANO IMPERO
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SACRO ROMANO IMPERO Pio, l’impero fu travagliato da scontri e disordini di natura dinastica che portarono alla sua stessa spartizione. Tali conflitti coinvolsero inevitabilmente anche il regno d’Italia, non solo perché esso faceva parte dell’eredità contesa, ma perché di tale bottino esso rappresentava una gemma appetibile e facile da conquistare. L’impero carolingio si fondava, infatti, su tre grandi pilastri territoriali: la Francia Occidentale, cioè l’odierna Francia; la Francia Orientale, ovvero l’odierna Germania, e il regno d’Italia. Quest’ultimo, però, si trovava in una condizione assai diversa rispetto alle altre due grandi entità. Innanzitutto, era limitato nella sua naturale estensione dalla sede pontificia e dal mondo greco bizantino che proiettava il suo controllo sulla parte inferiore della Penisola (salvo il già citato ducato di Benevento, superstite isola longobarda). Il fattore forse piú destabilizzante di tale composita frammentazione di poteri, stava poi nel fatto che, a seguito della divisione ereditaria dell’impero, la corona del re d’Italia aveva finito per coincidere col titolo imperiale. Un titolo che, dopo la morte di Ludovico il Pio, era divenuto puramente simbolico, ma che era ancora capace di esercitare un fascino enorme sull’immaginario collettivo. Simboli e riti mantenevano nella società medievale un’indiscutibile valenza e la qualifica imperiale poteva, da sola, mobilitare interessi, eserciti e intere comunità. Il regno d’Italia era quindi segnato da pesanti limiti: era un’entità relativamente piccola, disponeva di una limitata forza militare e si
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Il regno d’Italia trovava nell’impossibilità di sviluppare una propria autonomia nazionale come invece stava avvenendo in Francia e in Germania. Al tempo stesso rimaneva una preda ambita, sognata, vagheggiata. Esso conobbe, quindi, una vita assai stentata, che perdurò in forma autonoma solo fino al 961, quando il sassone Ottone I, attraverso la creazione del Sacro Romano Impero, riuní per sempre la corona regia con quella imperiale. Esse non furono piú separate per oltre otto secoli, finché Napoleone non pose fine all’illusoria eredità del Sacro Romano Impero custodita dagli Asburgo d’Austria. Non a caso, proprio Bonaparte fece risorgere – a motivo dell’intatto valore simbolico di quell’antica corona – il regno d’Italia. Dopo la breve parentesi napoleonica, esso dovette attendere ancora mezzo secolo prima di essere proclamato il 17 marzo del 1861, e poi ancora qualche anno, il 20 settembre del 1870, prima di aver ragione dell’ultimo fortilizio medievale, la Roma pontificia.
Il «secolo di ferro»
La vicenda del Regnum Italiae medievale si sviluppa nell’arco cronologico compreso tra l’887 e il 961; tra la deposizione dell’ultimo imperatore carolingio, che sedette anche sul trono di re d’Italia, Carlo il Grosso, e la definitiva assunzione della corona d’Italia da parte dell’imperatore sassone Ottone I. Un periodo breve, che ebbe però un peso determinante per il destino della Penisola. I drammi e le difficoltà di tale epoca fecero persino coniare la
Nella pagina accanto l’assetto geopolitico dell’Italia intorno all’anno Mille. In basso rilievo raffigurante uno scontro tra cavalieri, dalla chiesa di fondazione longobarda di S. Giovanni in Borgo (oggi non piú esistente). XII sec. Pavia, Musei Civici.
Territorio del regno d’Italia Patrimonio di San Pietro Ducati longobardi
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Stati dipendenti in teoria da Bisanzio, ma di fatto autonomi Territori musulmani
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Il regno d’Italia
STORIA E MISTERI DELLA «SACRA CORONA DEL FERRO» Conservata nel Duomo di Monza, nella cappella di Teodolinda, la corona ferrea è composta da sei piastre rettangolari decorate da mosaici a smalto, con rosette e gemme legate da cerniere e tenute insieme da una lamina di metallo. Il mistero di tale diadema è che esso è troppo piccolo per cingere una testa umana. Ciò potrebbe forse derivare dal fatto che, inizialmente, le piastre erano otto e non sei. La corona appare di fattura tardo-antica ed è stata datata all’inizio del V secolo; avrebbe però subito un intervento di restauro tra l’VIII e il IX secolo. È citata in un inventario del Tesoro di Monza del IX-X secolo e in uno successivo, datato 1275. Innocenzo VI (12821362), scrivendo ai patriarchi di Costantinopoli, Aquileia e Grado afferma: «Il re dei Romani quando è nominato imperatore prima che riceva il diadema imperiale, deve essere insignito di due corone, quella d’argento ad Aquisgrana per mano del vescovo di Colonia e quella ferrea nella chiesa di S. Giovanni a Monza, che va imposta sul capo del re dal vescovo di Milano». Nel Chronicon Modoetiense (XIV secolo), scritto da Bonincontro Morigia per celebrare la signoria dei Visconti, si dice che Teodolinda regina dei Longobardi fondò il duomo
La Corona Ferrea. V-IX sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.
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di Monza per custodire la sacra corona con la quale sarebbero stati incoronati i re longobardi fino a essere cinta per la prima volta da un imperatore, Ottone III, che designò Monza capitale del regno italico. Il duomo edificato da Teodolinda venne rifondato nel 1300 e nell’inventario del 1353 si parla di «corona aurea cum circulo ferri». Matteo Villani riporta che il 6 gennaio del 1355, Carlo IV di Lussemburgo, nipote di Enrico VII, venne incoronato re d’Italia nella basilica di S. Ambrogio a Milano dal vescovo Roberto Visconti con la «sacra corona del ferro». La particolarità di tale gioiello dell’arte medievale sta nel fatto che essa è venerata come reliquia. Infatti, la tradizione la identifica con la corona di Costantino, nella quale la madre, Elena, avrebbe fatto inserire un chiodo della Vera Croce. Lo proverebbe il fatto che le sei lamine del diadema sono tenute insieme da un anello in metallo (ricavato dal presunto chiodo fuso da Elena). Secondo la leggenda riportata da Ambrogio, Elena, madre di Costantino, in occasione del Concilio di Nicea, avrebbe deciso di intraprendere una campagna di scavi per ritrovare la Croce di Cristo, rinvenuta sotto la sua supervisione, insieme a due chiodi. Questi ultimi sarebbero stati inseriti, per volere dell’imperatrice, nel diadema imperiale e nel morso delle briglie del cavallo del figlio Costantino: «De uno clavo frenum fieri praecepit, de altero diadema intexuit» («Un chiodo fece porre nel freno,
definizione di «secolo di ferro» per indicare il X secolo. Si trattò, infatti, di un periodo caratterizzato da anarchia politica, rivolte militari, invasioni e guerre. Tale formula, come sempre, rende solo in parte giustizia delle figure e dei fenomeni, estremamente complessi, che segnarono quell’epoca. Non di meno, la vita indipendente del Regnum Italiae e di molti altri territori della Penisola fu effettivamente con-
l’altro fondere nel diadema»; cfr. Ambrogio, De obitu Theodosii, ed. O. Faller, in CSEL, t. 73, p. 396). Solo Ambrogio parla della trasformazione del chiodo in «corona», ed è l’unico a presentarlo come il simbolo del «praesidium» e della «potestas» dell’imperatore; gli altri scrittori cristiani parlarono di un chiodo fuso nell’elmo al fine di recare all’imperatore protezione in guerra. A seguito dell’associazione operata da Ambrogio, appare però evidente che solo chi avesse cinto tale corona si sarebbe potuto definire imperatore, iscrivendosi nella linea di continuità dello stesso Costantino.
traddistinta dall’esigenza primaria della guerra. Ciò non va negato, pur tenendo presenti i limiti di tale superficiale rappresentazione. L’anno 887, come abbiamo detto, fu quello della deposizione dell’ultimo discendente di Carlo Magno, Carlo il Grosso. Come altri troni, anche quello d’Italia si rese vacante, e di tale situazione approfittò il marchese del Friuli, Berengario. Quest’ultimo vantava una parentela con i Caro-
Cividale del Friuli, Tempietto Longobardo (noto anche come Oratorio di S. Maria in Valle). 760 circa. A oggi, si ignora la reale destinazione dell’edificio (che non è un tempietto, né un vero e proprio oratorio), ma, grazie a un diploma di Berengario I, sappiamo che nei suoi pressi si trovava la sede del gastaldo regio, amministratore del patrimonio fiscale e dei possedimenti del re a Cividale e nel ducato friulano.
lingi da parte di madre, e aveva difeso la marca orientale del regno dagli Slavi; inoltre, era un personaggio di notevoli doti e di riconosciuto valore. Scelto da una dieta – un’assemblea – di nobili del Nord Italia, riuniti a Pavia, assunse la corona di Rex Italiae. Era il dicembre dell’888. Nella sua tragica grandezza, Berengario è forse la figura che meglio di altre incarna le tortuose vicende del Regnum Italiae. Come già accennato, esso era troppo piccolo e debole per svilupparsi in nazione autonoma. Al tempo stesso, si ammantava di un alto valore simbolico, anche a motivo del legame col titolo imperiale, a cui si poteva ambire solo previa acquisizione della corona regia. Si trattava, dunque, di una corona che stimolava ambizioni smodate, e portava con sé un pesante fardello di lotte, crimini e complotti. Tali sanguinosi contrasti erano orditi da famiglie rivali, dotate di grandi feudi. Contro di esse il re non poteva agire solo in maniera repressiva e punitiva: essendo privo di un vero e proprio potere centrale, era costretto ad appoggiarsi sui propri feudatari e sfruttare le alleanze che essi erano in grado di intrecciare e mantenere. Fin da subito, quindi, la storia del regno fu sinistramente caratterizzata dalla fiera avversità tra le piú potenti casate feudali italiane: la casa di Spoleto, quella del Friuli, quella di Toscana e quella d’Ivrea.
Un complesso gioco di alleanze
Tali famiglie aristocratiche erano di origine franca, in quanto dello stesso lignaggio dei nobili a cui Carlo Magno – o i suoi discendenti – avevano assegnato le terre piú prospere al momento della conquista dell’Italia. Tra di esse le piú potenti erano forse quella dei marchesi di Spoleto, vasto feudo erede del ducato longobardo, e quella dei marchesi d’Ivrea, che però si affacciarono alla lotta per il trono solo in un secondo tempo; si trattava di nobili casate, legate da un intreccio complesso di rapporti e amicizie familiari ad altri esponenti delle aristocrazie europee, e quindi inserite in un sistema di alleanze che avvolgeva l’intero Occidente. È necessario, inoltre, considerare che le terre controllate dai marchesi erano assai piú vaste e ricche delle attuali entità regionali e cittadine. Da Ivrea si controllavano Piemonte e Lombardia settentrionali, oltre a parte della Svizzera e della Savoia; da Spoleto, l’intera Italia
Croce reliquiario in oro, gemme e perle di Berengario I, detta Croce del Regno. Officina carolingia, fine del IX-inizi del X sec. Monza, Museo e Tesoro del Duomo.
centrale lungo la dorsale appenninica fino all’Adriatico; il marchesato del Friuli andava dall’Istria al lago di Garda. Com’è immaginabile, Berengario dovette fronteggiare l’ostilità delle altre famiglie feudali, e tale contrasto finí per costituire la causa dell’estrema debolezza del regno e della sua fine precoce. Analizziamo ora il comportamento riottoso di questi signori feudali, che, a una prima analisi, potrebbe apparire al limite dell’ottusità e dell’insensatezza. Quei nobili, infatti, insieme al sistema feudale stesso, sono stati a lungo vittime di una comprensibile sfortuna storiografica. Dietro ai complotti, al ribellismo e alla crudeltà signorile, si leggevano la sfrenata ambizione e SACRO ROMANO IMPERO
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dere. I contadini che vivevano su tali terre dipendevano in tutto dai loro signori, che gli mettevano a disposizione la terra che coltivavano, la casa in cui abitavano, il mulino, la chiesa e, soprattutto, il castello nel quale rifugiarsi in caso di pericolo. In tempi difficili come erano quelli dell’età medievale – scorrerie, invasioni e saccheggi erano all’ordine del giorno – avere la possibilità di vivere sotto la protezione di un signore voleva dire sopravvivere. Tra feudatari e contadini si era quindi stabilito un profondo rapporto di lealtà e di interesse reciproco. L’intromissione del monarca, impegnato a sviluppare un sistema di amministrazione e di difesa nazionale, finiva per compromettere, invece, l’autorità del signore, ne rendeva superflua la presenza, ne offuscava il prestigio, sciogliendo – di fatto – il legame che egli aveva stretto coi suoi contadini. Di qui l’opposizione, in genere strenua, che nobili e signori terrieri fecero all’accentramento dei poteri monarchici e imperiali.
Lotte di retroguardia
aff id e ina la g car esti ich one i am di min terr istr ito ativ ri i
SOVRANO
(conti, marchesi, margravi, vescovi, abati)
Allo stesso modo, lo sviluppo dei comuni, che favorí l’afflusso dei contadini tra le mura delle città entro cui si poteva vivere liberi e sicuri, fu avvertito come un pericolo ancora maggiore. Da dietro le fortificazioni cittadine, i privilegi dei feudatari erano visti come insopportabili: ingiusta la tassazione, sbrigativa la loro giustizia, inefficaci i loro castelli dispersi nelle campagne. I feudatari, quindi, non ebbero altra strada che impegnarsi in durissime lotte di retroguardia, sia con i re che con i nascenti comuni. Da tali scontri uscirono sconfitti, non prima, però, di avere assestato colpi letali alla monarchia dell’Italia settentrionale e alle libertà comunali in Germania e nel Meridione d’Italia. La sensibilità moderna – forte-
aff id e ina la g car esti ich one i am di min terr istr ito ativ ri i
i zion ari fun ilit no e m lgo tive svo istra in amm
In alto Città del Vaticano, Sala Regia. Affresco di Marco da Siena raffigurante l’imperatore Ottone I che restituisce alla Chiesa, nella persona di Giovanni XII, le province occupate da Berengario II e da suo figlio Adalberto.
VASSALLI
i zion ri fun ilita no e m lgo ive svo istrat in amm
la volontà di conservare con ogni mezzo i propri privilegi. I feudatari medievali sono stati descritti come un contropotere (rispetto a quello del papa, del re o dell’imperatore) che cercava di affermare se stesso con la violenza; essi impedirono lo sviluppo delle monarchie nazionali prima, e delle autonomie comunali poi. Tuttavia, la pessima fama storiografica di tale ceto andrebbe ridimensionata: imperatori, re, vescovi e istituzioni comunali dovettero in effetti impegnarsi a lungo per limitare i diritti di questi superbi feudatari, i quali cercarono di avversare le due grandi conquiste dell’Europa moderna, lo Stato centralizzato e le libertà individuali. Si deve tuttavia considerare che i grandi latifondi erano stati ceduti ai feudatari, o ai loro antenati, dallo stesso monarca, come terre da amministrare e difen-
VASSALLI MINORI (valvassori, cavalieri, altri prelati minori)
protezione e distribuzione della terra da coltivare
tributi, tasse, decime,corvées
SERVI DELLA GLEBA
UOMINI LIBERI
(preti di campagna, artigiani, piccoli proprietari) 42
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SCHIAVI
Schema che illustra i rapporti di potere e di classe che vennero a crearsi con l’affermazione del sistema feudale. Una realtà con la quale Berengario fu obbligato a confrontarsi, anche duramente, nel tentativo di salvaguardare l’autorità del suo regno.
POTERI DELEGATI PER INTERESSE A causa della situazione di crisi ed emergenza provocata dalle scorrerie ungare e della debolezza del potere centrale, l’età di Berengario fu segnata da un massiccio processo di assegnazioni di proprietà, diritti pubblici e permessi di fortificazione. Le concessioni riguardarono feudatari laici e religiosi, e furono decise nell’intento di garantirsi l’appoggio in vista di alleanze politiche e di manovre tattiche. I diplomi regi dell’epoca illustrano bene tale fenomeno: al monastero di S. Cristina di Olona, oltre a una curtis (vedi box e disegno alle pp. 44-45) venne concesso il diritto di esercitare il districtus, cioè la giurisdizione sui sudditi. Al vescovo di Bergamo furono assegnate la ricostruzione e la cura delle mura, mentre a quello di Reggio fu concesso di costruire un castello fortificato e l’esercizio del potere sulle popolazioni viventi entro le sue mura. Il re Ugo di Provenza concesse la piena potestà alla Chiesa di Parma che la esercitò sulle sue terre, e il figlio Lotario fece lo stesso con quella di Trieste;
Pagina miniata del Digesto di Giustiniano (raccolta, in 50 libri, di frammenti di opere giurisprudenziali classiche) in cui si fa riferimento al pagamento delle imposte da parte dei contadini. XIV sec. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana.
il vescovo di Mantova ottenne addirittura il diritto di battere moneta. Tale processo, tuttavia, non favorí solo feudatari e istituzioni religiose. Anche le comunità cittadine finirono per beneficiare dello svuotamento dei poteri centrali. Fenomeno che si può considerare come il presupposto culturale del precoce sviluppo dell’autonomia cittadina nell’Italia centro-settentrionale. Tale dinamica favorí anche lo sviluppo delle città mercantili, prime fra tutte, quelle marinare. Fu infatti proprio Berengario II, in un diploma del 958, a riconoscere per la prima volta in modo formale, la comunità cittadina di Genova: «Confermiamo e corroboriamo a tutti i nostri fedeli e abitatori della città di Genova tutte le cose e proprietà loro (...) e che nessun duca, marchese e conte, sculdascio, decano o qualsiasi altra persona grande o piccola del nostro regno osi entrare a esercitare atti di autorità nelle loro case o pretenda il mansionatico o rechi loro ingiuria o molestia».
SACRO ROMANO IMPERO mente legata al concetto di nazione e di comune – ha per tale ragione relegato il feudalesimo al rango di componente arretrata e riottosa della civiltà medievale. Dobbiamo però chiederci: perché imperatori e re a lungo cedettero a questi signori i loro territori coi relativi diritti e privilegi? E perché una moltitudine di contadini liberi consegnò loro spontaneamente il proprio appezzamento di terreno e talvolta la propria libertà? In età medievale, l’impero e i vari regni non erano dotati di una amministrazione centralizzata efficace, come avveniva in epoca romana. La difficoltà nel muoversi attraverso territori immensi, di esigere le tasse, di organizzare centri di produzione e di reclutamento, di amministrare la giustizia, era enorme. Non c’era – soprattutto – la possibilità di disporre di un esercito capace di muoversi rapidamente verso i confini. E tali confini erano minacciati da guerrieri temibili, che provenivano dalle steppe asiatiche dove avevano spesso condotto una vita nomade, sempre in sella al proprio cavallo, pronti a sguainare la spada contro i molti pericoli delle strade malsicure dell’epoca: Slavi, Bulgari e Ungari.
L’Europa in balia dei Vichinghi
Dal Nord, poi, discendevano per improvvise scorrerie gli abili e velocissimi Vichinghi, mentre il Sud era vittima delle feroci incursioni dei Saraceni. A volte si trattava di interi popoli in movimento, piú spesso di temibili assalitori in grado di penetrare velocemente nei territori e saccheggiare qualunque villaggio non si fosse dotato di valide mura difensive. L’Europa, d’altra parte, si offriva loro come una sterminata distesa di appetibili villaggi e fattorie disperse tra pianure e montagne boscose, collegate da sentieri impervi e da poche strade sorvegliate. Solo le fortezze signorili, i castelli isolati e una fitta rete di torri di avvistamento servivano a dare l’allarme, il prima possibile, in caso di pericolo. Slavi, Ungari, Bulgari, Arabi, Vichinghi, Baschi, Lituani, Boemi, furono i veri protagonisti del «secolo di ferro». In caso di attacco, chi avrebbe potuto arginarli, chi sarebbe stato in condizione di farvi fronte? Non il potere centrale. Un messo che si fosse dovuto spostare nell’entroterra dalle zone di confine per portare notizia della minaccia avrebbe impiegato giorni per raggiungere la residenza del monarca. Al quale, d’altra parte, sarebbero occorse settimane per mobilitare un esercito, ovvero un numero sufficiente di cavalieri e di mercenari. Si aprí dunque una sola 44
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Il regno d’Italia
IL SISTEMA CURTENSE Nell’Alto Medioevo si sviluppò una forma di organizzazione dell’economia e del lavoro, definita «sistema curtense», che si affermò pienamente in epoca carolingia, tra l’VIII e il IX secolo. Essa trae nome da curtis (corte, in latino medievale), una unità aziendale suddivisa in due parti tra loro complementari: la «riserva» o «dominico» (pars dominica, da dominus, padrone) e il «massaricio» (pars massaricia, da massarius, contadino). Nel disegno si immagina un villaggio (caput curtis) appartenente alla pars dominica, cioè la parte dell’azienda gestita dal signore. 1. Magazzino; 2. Abitazione per i servi; 3. Stalla; 4. Abitazione per contadini liberi, legati al signore da un rapporto di dipendenza; 5. Cappella; 6. Dimora signorile con la torre ancora in costruzione.
strada possibile: affidare a guerrieri valorosi – e ai loro discendenti – i territori maggiormente esposti a minaccia, cioè le marche di confine, quelle piú difficili da gestire. Imperatori e re assegnarono il compito di difenderle a uomini di loro fiducia. All’assegnatario venivano quindi concessi la piena proprietà terriera e il pieno diritto sui sudditi, anche al fine di poterli arruolare. Furono perciò i feudatari a fermare Saraceni, Vichinghi, Slavi, Ungari, e salvo rari casi, a salvare le popolazioni europee dagli attacchi esterni, sostenendo la difesa di grandi regioni. In cambio essi pretesero di rendere ereditaria la successione su tali distretti, e per i monarchi non fu piú possibile, una volta tornata la pace, riprenderne il controllo. Laddove vi riuscirono, ciò avvenne a caro prezzo, a seguito di vere e proprie spedizioni militari che assunsero il peso di lotte intestine. Chi era stato lasciato solo a combattere nei momenti di difficoltà, non accettava, infatti, di essere privato di diritti e di privilegi che riteneva di avere guadagnato sul campo. Ciò anche a motivo del fatto che la codardia e la sconfitta venivano fatte pagare senza possibilità di appello. Emblematico è il caso dell’Istria, assalita nell’anno 828 dai Bulgari e difesa in modo giudicato insufficiente dal duca Baldrico: l’imperatore non esitò a togliergli il Friuli e a spartire l’Istria tra i feudatari confinanti. Conside-
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rato il pesante fardello che ricevevano unitamente all’assegnazione del feudo, è possibile comprendere anche i motivi della brama e dell’animosità dei feudatari, e forse giudicare con minore severità la caparbia cecità con la quale le élite italiche impedirono alla Penisola di conoscere uno sviluppo nazionale. Esse, infatti, erano costituite in prevalenza da guerrieri in perenne stato d’emergenza. Il marchese di Spoleto conteneva l’espansione saracena dal sud; il marchese d’Ivrea sorvegliava gli incontrollabili passi delle Alpi occidentali; sul marchese del Friuli, infine, incombeva la difesa della frontiera piú pericolosa dell’epoca, lungo la quale si stagliavano interminabili schiere di temibili arcieri ungari.
Berengario, divenuto re anche grazie al prestigio derivatogli dalla valorosa resistenza offerta (a cominciare dai suoi avi) nella guida della marca friulana, dovette subire presto la rivalità delle altre famiglie nobili. Prima fra tutte, quella dei duchi di Spoleto. Fu infatti Guido, duca di Spoleto, a ribellarsi contro di lui e a sconfiggerlo in battaglia nei pressi della città di Brescia, strappandogli la sua corona.
Di nuovo sul trono
La prematura morte del figlio di Guido, Lamberto, consentí a Berengario di rifarsi avanti e tornare, ormai cinquantenne, a sedere sul trono di Pavia. Nel marzo dell’899, dovette però affrontare una nuova emergenza. Dopo SACRO ROMANO IMPERO
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avere terrorizzato le popolazioni slave, gli Ungari si erano riversati in Friuli, puntando decisamente contro le popolose città della pianura veneta. «Il sole non aveva ancora lasciato la costellazione dei Pesci per entrare in quella dell’Ariete – racconta Liutprando nella cronaca scritta sessant’anni dopo questi eventi – quando, radunato un esercito immenso e innumerevole, gli Ungari si dirigono in Italia, passano oltre Aquileia e Verona, città fortificatissime e giungono senza alcuna resistenza a Ticino, che ora è denominata con l’altro nome, piú bello, di Pavia».
Un appello disperato
Di fronte all’immane pericolo, Berengario fu costretto a chiedere aiuto agli altri «nobili» d’Italia e ciò dovette rappresentare un duro colpo per l’orgoglio di questo re, da poco restituito al suo trono. Al fine di mobilitare le piú ampie risorse possibili, Berengario chiese aiuto ai Toscani, ai Beneventani e agli odiati Spoletini. I feudatari risposero all’appello e l’esercito dell’orgoglioso regno d’Italia riuscí a superare numericamente tre volte quello ungaro. Di fronte al mutato rapporto di forza, gli Ungari offrirono la pace, chiedendo di potersi ritirare in cambio del rilascio del bottino e dei prigionieri. Berengario e gli altri feudatari rifiutarono e vollero la battaglia. Gli Ungari cercarono di fuggire verso Oriente, inseguiti dalle avanguardie nemiche. Giunti al fiume Brenta, sia i loro cavalli che quelli degli Italici erano spossati. Gli Ungari chiesero nuovamente la pace, ma l’esercito italico la respinse per la seconda volta. Gli Ungari non ebbero allora altra possibilità che attaccare, nonostante l’inferiorità numerica. Fu una strage: sicuri di sé, i cavalieri italici erano appena smontati per rifocillarsi e molti di loro finirono «trafitti con tanta velocità che ad alcuni infilzarono il cibo in gola». L’enorme armata del regno d’Italia fu in breve sbaragliata. Liutprando da Cremona (vedi box a p. 48), a cui dobbiamo la cronaca del disastro, denuncia nelle sue pagine una verità atroce: alcuni «piú che combattere gli Ungari, desideravano che tra le proprie fila perissero in molti, perché in tal caso (…) essi avrebbero regnato piú liberamente. Cosí, mentre bramavano di vedere la morte di chi era loro accanto, incorrevano essi stessi nella propria». Dopo la battaglia, gli invasori ebbero spalancata 46
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IL PERICOLO MAGIARO Ricostruzione dell’abbigliamento e dell’armamento dei guerrieri ungari del X-XI sec. realizzata sulla base dei materiali rinvenuti in tombe delle necropoli di Karos-Eperjesszög (Ungheria nord-orientale). GIBERNA La giberna rappresentava un tratto peculiare dell’abbigliamento e dell’armamento degli uomini ungheresi del X secolo. Consisteva in una piccola borsa di cuoio, legata alla cintura, in cui erano conservati acciarini, esche per il fuoco e altri piccoli oggetti di uso personale. Il lato anteriore delle giberne era spesso decorato da elementi metallici e da fibbie per la chiusura. Piú rare e certamente riservate ai personaggi di alto rango erano invece le giberne su cui si applicava un’unica larga placca di metallo che ripeteva la forma della sacca in cuoio.
GORITHUS Prima del combattimento o della caccia, l’arco veniva armato e appeso al cinturone all’interno di una custodia di pelle rigida (gorithus), da cui l’arma sporgeva per essere impugnata in modo rapido.
COPRICAPO Gli uomini generalmente portavano un copricapo a punta, decorato in alcuni casi da una guarnizione di forma conica in metallo prezioso, come quella qui illustrata, realizzata in rame e argento dorato. Sugli abiti era indossato il caffettano, un’ampia veste a manica larga, lunga fino alle ginocchia e aperta sul davanti, spesso ornata da guarnizioni in metallo prezioso o da monete lungo i lembi e presso i polsi.
STIVALI Gli ampi calzoni venivano raccolti negli stivali di feltro a basso e largo gambale e suola morbida, particolarmente adatti per cavalcare.
SCIABOLA Quella utilizzata dagli Ungari durante il X secolo è un’arma leggera, impugnata a una sola mano e particolarmente adatta al combattimento da cavallo. L’impugnatura, leggermente ricurva, è costituita da due guancette di legno o piú raramente d’osso che rivestivano il codolo, ed era distinta dalla lama da un’elsa a croce in metallo a protezione della mano.
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Il regno d’Italia
LIUTPRANDO, TESTIMONE ILLUSTRE Liutprando da Cremona è il cronista che meglio ci permette di ricostruire il «secolo di ferro». Pavese di nascita, Liutprando nacque intorno al 920. Era dotato di vasta cultura, aveva una sicura conoscenza del greco e del tedesco e solide amicizie in ambito arabo e bizantino. Iniziò la sua carriera come funzionario e diplomatico sotto il regno di Berengario II. Nel 950, al ritorno da un’ambasceria a Costantinopoli, fu cacciato dalla corte italica e riparò in Germania, alla corte di Ottone I. Rientrò a Pavia solo quando quest’ultimo scese in Italia per assumere la corona di re d’Italia. In quell’occasione, Ottone assegnò a Liutprando il vescovato di Cremona. A Francoforte Recemondo, un chierico spagnolo al servizio del califfo di Cordoba, gli chiese di scrivere una cronaca in cui fossero narrate le complesse vicende del regno d’Italia. In risposta a tale richiesta nacque la sua opera piú importante, l’Antapodosis, cioè «contraccambio», o «ritorsione». Si tratta, in effetti, di una lucida vendetta storiografica, nella quale l’autore stigmatizza i vizi e i tratti della personalità di Berengario II. L’opera copre un arco cronologico che va dagli anni immediatamente successivi alla morte di Carlo il Grosso (888), fino alla definitiva presa del potere da parte di Berengario II. La narrazione è incentrata sulle vicende politiche e militari che riguardavano il regno d’Italia, ma si sofferma anche su vari accadimenti concernenti il Sacro Romano Impero e
l’impero bizantino. Lo stile di Liutprando è accattivante e restituisce un quadro realistico e vivace del mondo medievale. Occorre solo considerare che si tratta di una dichiarata e ragionata «vendetta» contro Berengario II che nelle pagine della sua opera subisce un’inappellabile damnatio memoriae. Tra i suoi scritti si ricordano anche l’Historia Ottonis, nota anche col nome di Liber de rebus gestis Ottonis Magni imperatoris, opera propagandistica favorevole a Ottone I, in cui sono descritti gli avvenimenti che vanno dal 960 al 964. Celebre anche la sua Relatio de legatione Constantinopolitana, cronaca della missione diplomatica che Liutprando guidò nel 968 per volere dell’imperatore. Vi si trovano le descrizioni piú efficaci e vivaci della corte bizantina dell’epoca e viene tratteggiato con arguzia il sentimento di disprezzo nei confronti dell’Occidente che vi aleggiava. Memorabile esempio ne sono le altezzose parole con cui l’imperatore Niceforo avrebbe accolto i legati dell’imperatore: «Voi non siete Romani, siete Longobardi», a cui Liutprando avrebbe prontamente risposto: «noi altri quando siamo in collera, per offendere i nostri nemici, li chiamiamo romani». Egli seppe descrivere anche con schiettezza e maestria la lascivia di alcuni ambienti pontifici e la crudele ottusità di Berengario II, sintetizzando il loro comportamento con la folgorante epitome: «gli Italici vogliono sempre avere due padroni per tenere a freno l’uno col timore dell’altro».
Particolare di una miniatura raffigurante Berengario II che rende omaggio all’imperatore Ottone I, dal Chronicon che il vescovo e cronista tedesco Ottone di Frisinga compose nel 1143-46 e rielaborò nel 1156. Milano, Biblioteca Ambrosiana. Considerandolo colpevole di aver cercato di sottrarsi agli obblighi feudali, l’imperatore germanico dapprima ridusse all’obbedienza (951) il re d’Italia, poi lo depose (961), e, infine, lo fece prigioniero e lo esiliò in Germania (964), dove finí i suoi giorni.
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la porta verso l’Europa. A parte qualche città ben fortificata, nulla poté resistere. La stessa Pavia venne saccheggiata e travolta. Gli Ungari sciamarono inarrestabili, infierendo ovunque, fino in Germania, in Svizzera, in Francia. Riuscirono a raggiungere, scendendo audacemente lungo la Penisola, la Puglia, solo per distruggere Otranto. Nel 904, una vergognosa e onerosa tregua, patteggiata dal vescovo di Aquileia, riuscí a ottenere la cessazione – temporanea – delle incursioni. Berengario uscí profondamente indebolito dalla cocente sconfitta e dal modo in cui essa era maturata; con lui la stessa istituzione regia subí un colpo mortale. Anche per tale motivo, quasi senza attendere la fine dell’emergenza, nel regno ripresero fiato le ambizioni degli altri grandi feudatari. I potenti marchesi d’Ivrea, di Spoleto e di Toscana cercarono di scalzare Berengario dal trono, promuovendo candidati forestieri come Rodolfo di Borgogna e Ugo di Provenza. Ciononostante, Berengario riuscí a resistere e a ottenere dal papa, nel 915, l’ambita incoronazione imperiale. Un titolo forse solo formale, che però riuscí ad ammantare nuovamente la sua casata di enorme prestigio. Dopo essere scampato per tutta la vita a complotti e tradimenti, il re fu sorpreso da un vassallo infedele e pugnalato a morte nella sua amata Verona, all’uscita della chiesa in cui aveva appena finito di pregare. Aveva 75 anni, era il 7 aprile del 924.
Ottone scende in Italia
Il regno cadde preda delle sanguinose lotte tra gli opposti pretendenti, sui quali prevalse, infine, appoggiato dai marchesi di Toscana e dai seguaci di Berengario, il feroce Ugo di Provenza. Salito sul trono nel 926, governò per vent’anni, sfuggendo a numerosi complotti e accecando diversi avversari. Egli abdicò infine, lasciando il regno al figlio Lotario. Quando quest’ultimo morí, nel 946, probabilmente vittima di un avvelenamento, si fece avanti Berengario II, potentissimo marchese d’Ivrea, nipote di Berengario I e probabile avvelenatore di Lotario. Per evitare che il partito avverso potesse organizzare un complotto, il nuovo re spinse la giovane vedova di Lotario, Adelaide, a sposarne il figlio. Fu cosí che Adelaide chiamò in soccorso il re dei Germani Ottone I, il quale approfittò della circostanza per scendere in Italia, assumere la corona regia a Pavia, sposare la stessa Adelaide, e farsi infine incoronare imperatore a Roma, nel 962. Qualche anno piú tardi, Ottone riassegnò la corona d’Italia a Berengario II, il quale la tenne fino
LE DATE DA RICORDARE 880 Carlo III, detto il Grosso, ultimo imperatore della dinastia carolingia, riceve dal fratello Carlomanno i diritti sull’Italia. 888 Morte di Carlo il Grosso; Berengario del Friuli gli succede come re d’Italia. 889 Guido di Spoleto sconfigge Berengario alla Trebbia ed è incoronato re d’Italia. 894 Muore Guido di Spoleto. 899 Prima discesa degli Ungari e sconfitta di Berengario I al Brenta. 900 Ludovico III di Provenza diventa re d’Italia. 905 Berengario I depone e acceca Ludovico III di Provenza. 916 Berengario I sconfigge i Saraceni al Garigliano. 923 Rodolfo di Borgogna sconfigge Berengario I a Fiorenzuola d’Arda. 923 Morte di Berengario I; Rodolfo di Borgogna diventa re d’Italia. Discesa degli Ungari e sacco di Pavia. 926 Ugo di Provenza re d’Italia. 950 Berengario II re d’Italia. 951 Ottone I re d’Italia; gli succedono nel 973 Ottone II e nel 983 Ottone III. 1002 Enrico II e Arduino d’Ivrea, rivali, incoronati re d’Italia. 1014 Deposizione e morte di Arduino. a quando l’imperatore, nel 961, disgustato dal comportamento anarcoide dei principi italiani, decise di riassumere il regno alla corona imperiale. Berengario II, dopo una resistenza disperata, fu catturato da Ottone e finí i suoi giorni prigioniero in Germania. Da quel momento l’impero germanico (poi austriaco) e l’Italia del Nord si unirono in un abbraccio fecondo – sotto molti punti di vista – ma segnato da continue rivolte. Un abbraccio che si rivelò a lungo andare anche una stretta soffocante, che perdurò fino al Risorgimento e all’Unità d’Italia. Qualche decennio dopo, un tentativo disperato di resuscitare il regno venne compiuto dal marchese Arduino d’Ivrea, il quale pensò di approfittare della morte dell’imperatore Ottone III, discendente di Ottone I, per scrollarsi di dosso il giogo imperiale e ricostituire l’autonomia del regno italico. Nel 1002, Arduino, discendente della potente casata a cui era appartenuto Berengario, riuscí a farsi incoronare re. In risposta, l’imperatore tedesco Enrico organizzò una spedizione in Italia e, di fronte all’armata imperiale, il marchese finí col riconsegnare la corona regia e ritirarsi in un monastero. Arduino fu l’ultimo re d’Italia, l’estremo rappresentante degli orgogliosi feudatari che l’avevano difesa e, forse, rovinata per sempre. Una nobiltà che presto, se ne sentivano già le avvisaglie, il vento delle libertà comunali avrebbe finito per spazzare via. SACRO ROMANO IMPERO
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Il regno d’Italia
L’ATTESA NELLA NEVE E, INFINE, IL PERDONO Che cosa fu l’incontro di Canossa? Se ci si attiene ai fatti e alla prassi medievale della penitenza, si trattò solamente del pubblico pentimento di un altrettanto pubblico peccatore, secondo i canoni in uso da tempo, e che nell’XI secolo prevedevano la pubblica ammenda per peccati o ribellioni che avessero appunto avuto una portata pubblica, e penitenza privata per i peccati individuali, che non avevano dato pubblico scandalo. Questo doppio regime aveva soppiantato la prassi penitenziale della tarda antichità e del primo Medioevo, imperniata sull’Ordo poenitentium e sulla riammissione nella comunità dei peccatori durante i riti del Giovedí Santo. A cavallo dell’anno Mille, la penitenza pubblica era divenuta una prassi rara, ma non desueta; per esempio, nel 1043, ne fu protagonista l’imperatore Enrico III in occasione dei funerali della madre, Gisela: «Lasciata ogni porpora regale, messosi l’abito lugubre del penitente, con le
braccia aperte a forma di croce, davanti a tutto il popolo si stese a terra, e rigò con le sue lacrime il pavimento. E cosí facendo penitenza soddisfece i sacerdoti del Signore e placò la misericordia divina». Sono i gesti penitenziali che compí anche Enrico IV a Canossa, secondo quanto riportano quasi concordemente le fonti coeve, con in piú la durata dell’evento e le aspre condizioni atmosferiche, che resero la penitenza piú dura, ma non dissimile nelle forme: la veste da penitente, i piedi nudi, il digiuno, le lacrime, la prosternazione a terra, nonché la presenza di altre persone e il loro intervento per la concessione dell’assoluzione. Quello di Enrico IV non fu altro che un atto penitenziale, compiuto per ottenere l’assoluzione secondo una prassi consolidata, destinata a protrarsi ancora per almeno un secolo; ma aveva un profondo valore politico, perché gli consentiva di riprendere il suo potere. LA LOTTA PER LE INVESTITURE Perché, allora, si parla tanto di umiliazione del re o di vittoria del papa? Perché si era nel pieno della lotta per le investiture e della «rivoluzione» di papa Gregorio VII. Per questo le fonti coeve ne enfatizzarono l’importanza. Tuttavia, l’episodio non fu che una «pausa oggettiva» nella lotta in corso. Come già ricordato, dopo quindici giorni, infatti, Enrico IV riprese la guerra contro Gregorio VII e i suoi sostenitori, prima fra tutti Matilde di Canossa, che si trovò abbandonata dalle città e da molti vassalli. A lei rimasero fedeli solo i castelli di Nogara, Piadena, Monteveglio e Canossa. Enrico IV cercò invano di assediare la bianca rupe, ma Matilde riuscí a prevalere, perché meglio conosceva queste cime e queste valli, e ottenne la vittoria di Madonna della Battaglia (1092). Nella Vita Mathildis, Donizone raccontò cosí il fatidico incontro di Canossa: «Comprendendo il sovrano che cosí regnar non poteva, domandò a Matilde, sua seconda cugina, di far sí che il papa da Roma venisse in Longobardia perché egli avrebbe impetrato il perdono e compiuto ogni sua volontà, senza piú esitare. Dinnanzi alla supplica della contessa Matilde, il papa concesse ciò ch’ella chiedeva: lasciò dunque Roma il degno pastore e venne a Canossa. Con dignità la Contessa accolse il vicario di Pietro, cogliendo dalle sue parole la rugiada della salvezza. Giunse poi il re Enrico, col seguito della contessa Matilde, e giunse una folla di gente, per l’evento solenne: una Roma novella si fece di me, dinnanzi ad eventi sí grandi. (…) Fecer discorsi di pace questi illustri signori, e poiché dopo tre giorni trascorsi a parlare di pace, la pace non era raggiunta, il re avrebbe voluto tornarsene indietro; si recò egli allora alla cappella del santo Nicola a pregare piangendo l’abate Ugo
Enrico davanti a Canossa, olio su tela di Eduard Schwoiser. Dopo il 1852. Monaco, Stiftung Maximilianeum. 50
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A sinistra incisione di Nicolas Lesueur raffigurante Enrico IV ai piedi di Gregorio VII, da un originale di Federico Zuccari. 1729. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A destra miniatura raffigurante Enrico IV che prega Matilde di Canossa e Ugo di Cluny, affinché intercedano per lui presso papa Gregorio VII, da un’edizione della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
di farsi garante per lui che la pace avrebbe tenuto. “Non m’è permesso” al re rispose l’abate; Matilde, presente sul luogo, rinnovò la preghiera, ma Ugo ad ella rispose: “Nessun potrà farlo, se non lo fai tu”. Allora, in ginocchio, il re si rivolse a Matilde: “Se tu non mi aiuti in questo momento, non potrò piú combattere, perché il papa mi ha condannato; o valente cugina, fa’ ch’egli mi benedica!” Ella s’alzò promettendo al re d’aiutarlo ed uscí a salire in alto alla rocca, mentre il re rimaneva giú in basso. Illustrò dunque al papa le intenzioni del re. Alle parole sincere dell’illustre Contessa; il papa credette, solo volle che il re in persona giurasse a lui fedeltà e alla Sede Romana. Il re fece quanto voleva il papa Gregorio. In quell’anno gennaio aveva portato piú neve del solito, ed un freddo pungente ed intenso. Sette giorni avanti la fine, il papa concesse che venisse al suo cospetto il sovrano, nudi i piedi, gelati dal freddo. A terra prostrato in forma di croce dinnanzi al papa, il re supplicò: “Perdonami, o padre beato; o pio, perdonami, te ne scongiuro”. Vedendolo sí lacrimare, il papa provò compassione: lo benedisse, gli diede la pace ed infine cantò una messa per lui, gli diede la comunione e sull’arce di me Canossa pranzò con lui. Poi dopo ch’egli ebbe giurato lo congedò» (Donizone, Vita di Matilde di Canossa, Jaca Book, Milano 2008; pp. 129-133). Per altri l’incontro di Canossa non fu un avvenimento cosí importante per la storia: per tutto il Basso Medioevo venne quasi dimenticato e la figura stessa di Matilde ridotta a protettrice del papato in forza della cosiddetta donazione dei
suoi beni alla Chiesa di Roma. L’affermazione dell’evento nella cultura e nella storiografia avvenne, invece, con la Riforma protestante, che ne fece un ideale polemico fin dal primo, diffusissimo pamphlet della propaganda luterana, il Passional Christi und Antichristi, del 1521. Qui l’episodio del Fusskuss, il bacio dell’alluce «gottoso» del papa da parte dell’imperatore, disegnato da Lucas Cranach il Vecchio, viene messo in parallelo col Füsse washen Christi, la Lavanda dei Piedi, che Gesú fece agli apostoli, durante l’Ultima Cena. NOI NON ANDREMO... Da allora la penitenza di Canossa è diventata uno dei principali motivi della polemica cattolico-protestante, sia nelle biografie di Enrico IV, sia nei Centuriatori di Magdeburgo (nome che designa gli autori di una storia della Chiesa fino al XII secolo, suddivisa in 13 volumi, uno per «centuria», o secolo, composta a Magdeburgo e pubblicata a Basilea dal 1559 al 1574, n.d.r.) e nelle storie della Chiesa di protestanti e anglicani, fino a divenire proverbiale nel discorso pronunciato da Ottone di Bismarck il 14 maggio 1872: «Noi non andremo a Canossa, né con il corpo né con lo spirito» («Nach Canossa gehen wir nicht – weder körperlich noch geistig»). Parole che trapassano fatalmente nella politica e anche nel modo di parlare, per cui «andare a Canossa» significa pentirsi e tornare sulle proprie decisioni, soprattutto da parte di grandi personaggi. Oggi «Andare a Canossa» vuol dire visitare uno dei piú bei paesaggi storici, nei quali la bellezza della natura si sposa con la storia, qui ben rappresentata dai castelli medievali eretti tutt’intorno, e dal ricordo di quel famoso incontro del gennaio 1077 tra il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, auspice la contessa Matilde di Canossa. Paolo Golinelli SACRO ROMANO IMPERO
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FEDERICO BARBAROSSA
Il re del mondo
Federico I di Hohenstaufen ascese al trono in un momento di grave sbandamento del regno germanico. Ciononostante, riuscí a riunificare le opposte fazioni nobiliari e, soprattutto, seppe rinnovare i fasti del Sacro Romano Impero di Alessandro Bedini
N
on fu facile per Federico di Hohenstaufen, duca di Svevia, in quel lontano 1152, convincere i grandi elettori tedeschi che la sua candidatura al trono di Germania, e dunque a quello imperiale, sarebbe stata la migliore e, soprattutto, l’unica in grado di riportare stabilità nei territori germanici, in preda da decenni alle scorrerie dei nobili perennemente in rivolta. Nelle sue vene scorreva il sangue delle due piú grandi casate del regno di Germania: quella dei Welfen (da cui «Guelfo»), duchi di Sassonia e di Baviera, e quella degli Hohenstaufen, proprietari del castello di Waiblingen (da cui «Ghibellino»), duchi di Svevia; e ciò gli procurava un vantaggio significativo. In ogni caso, la morte inaspettata del re Corrado III, zio di Federico, e la giovane età del figlio Enrico, accelerarono il ritmo degli eventi. Si doveva far presto e muoversi con grande prudenza. L’arcivescovo di Magonza, Enrico I, al quale spettava la reggenza nei momenti di vacanza del trono, era notoriamente avverso alla casa di Svevia: fedele al papa, non vedeva con favore l’ipotesi di un sovrano capace di regnare con mano ferma, e che avrebbe finito per condizionare tutta la politica ecclesiastica in Germania. Insomma, la situazione di instabilità favoriva i disegni del prelato e dei suoi alleati, in grado di fungere fino a quel momento da ago della bilancia nel complicato scacchiere politico tedesco. La dieta elettorale del regno si aprí il 4 marzo 1152, a Francoforte, città soggetta all’autorità dell’arcivescovo di Magonza. Il quale propose la nomina di una commissione composta dai grandi principi allo scopo di eleggere il nuovo re, ma, contemporaneamente, dagli 52
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Federico I di Hohenstaufen, meglio noto come Barbarossa, nella imponente statua ritratto (6,5 m di altezza) inserita nel monumento innalzato sulla sommità di uno dei colli della catena del Kyffhäuser, in Turingia (Germania). La scultura è opera di Nikolaus Geiger (1849-1897), che la realizzò fra il 1890 e il 1896, lavorandola sul posto. accampamenti militari si levò imperioso il grido «Fridericus rex!». Che risuonò dovunque. Fu cosí che il duca di Svevia divenne re di Germania e re dei Romani, titolo che gli conferiva il diritto di cingere a Roma la corona imperiale. Inoltre, dal X-XI secolo, il re di Germania godeva altresí del privilegio di ottenere le corone reali d’Italia e di Borgogna. Le proteste dell’arcivescovo di Magonza vennero prontamente tacitate e, dopo appena cinque giorni, Federico fu incoronato re di Germania ad Aquisgrana.
Il consolidamento del potere
Tra il 1152 e il 1154 il nuovo sovrano si dedicò agli affari tedeschi. Aveva intuito che solo costruendosi una base territoriale ed economica sufficientemente forte avrebbe potuto esercitare il potere, che nessuna delle corone conferitegli avrebbe di fatto potuto assicurargli. La politica di pacificazione della Germania seguiva due linee direttrici: la rifeudalizzazione del regno, imposta a Federico dal potere dei principi ai quali doveva la sua elezione – attuata però con il superamento della struttura dei ducati etnici che l’avevano caratterizzato –, e il rafforzamento del principio della superiore unità territoriale, garantita dal sovrano stesso. Il re svevo si prodigò quindi nel creare una nuova aristocrazia, i ministeriales, fedelissimi alla
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Federico Barbarossa
NOBILE E AITANTE Non sappiamo con precisione quando sia nato Federico di Svevia. Gli studiosi sono tuttavia d’accordo che egli sia venuto alla luce tra il 1120 e il 1126. Il padre, Federico il Losco, era duca di Svevia, la madre, Giuditta di Baviera, era imparentata per parte di madre con la casata dei Billung di Sassonia.
Dunque nelle vene del giovane Federico scorreva una miscela del piú nobile sangue tedesco. Non solo: suo zio materno era Enrico il Superbo, il piú gran signore di Germania, e lo zio paterno è Corrado, che sarà re di Germania. Non sappiamo molto dell’adolescenza del futuro imperatore; la descrizione fisica e le abitudini di Federico ci sono pervenute attraverso un altro suo congiunto, Ottone di Frisinga, prima abate cistercense del monastero borgognone di Morimond e poi vescovo della città tedesca. Ottone nei suoi Gesta Friderici, ispirati dallo stesso Federico, lo descrive di corporatura agile e robusta, con i capelli biondi e ricciuti, portati corti.
Il Barbarossa in un ritratto su lastra di rame eseguito da Christian Siedentopf. 1847. Secondo un suo congiunto, Ottone di Frisinga, Federico era di corporatura agile e robusta, con i capelli biondi e ricciuti, portati corti; aveva gli occhi azzurri e un portamento regale.
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Gli occhi azzurri e il portamento elegante completano il quadro regale. Federico ama la guerra, come tutti i cavalieri, ma persegue anche la pace. Si dedica spesso agli esercizi fisici, come la caccia coi cani e col falcone, oppure al tiro con l’arco. I suoi pasti non sono né troppo frugali né eccessivamente sontuosi. Quanto all’abbigliamento egli predilige i semplici costumi nazionali. Ottone prosegue la sua descrizione sottolineando come la giornata del re inizi con i servizi religiosi, dopodiché attende alle questioni di governo e siede in giudizio, «senza lasciarsi prendere dalla troppa condiscendenza né da rigida severità e tanto meno da cupa sete di vendetta».
corona, ai quali affidava i territori confiscati ai vassalli ostili alla sua linea politica. In tal modo si proponeva di controllare i suoi riottosi sudditi, e, al contempo, creare una classe dirigente che desse nuovo impulso all’amministrazione regia. Costoro, sebbene in gran parte di origine servile, venivano insigniti della dignità cavalleresca e presto imparavano a vivere e a comportarsi da gran signori. Nello stesso periodo Federico emanò una costituzione di pace da applicarsi in tutto il regno germanico: il Landfrieden (da Land, «terra», e Frieden, «pace»), che aveva lo scopo di riaffermare il potere regale contro ogni forma di anarchia e in cui si stabilivano le diverse pene per chi si fosse macchiato di reati quali l’omicidio, l’usurpazione dei poteri pubblici, la speculazione sui prezzi dei cereali, il furto e l’abuso nella riscossione dei pedaggi. Con il Landfrieden Federico intendeva colpire i fattori di disordine e di instabilità che attraversavano il regno, e riportare cosí pace e stabilità sociale all’ombra di un potere regio efficiente e attivo. Nel 1154 Federico scese in Italia per cingere la corona del regno e quella imperiale. I rapporti con il papa non erano certo idilliaci. Non bisogna dimenticare che la sua elezione era avvenuta contro il volere della maggior parte del clero tedesco e nella lettera in cui si comunicava a papa Eugenio III l’avvenuta elezione a re di Germania, Federico aveva volutamente omesso qualunque accenno all’approvazione pontificia, cosa che era avvenuta puntualmente fino ad
ANTENATI E SUCCESSORI Staufer Federico I duca di Svevia († 1105)
Babenberg Lotario
(1) = Agnese di Franconia (2) = Leopoldo III († 1143) di Babenberg margravio d’Austria († 1136) Corrado III imperatore († 1152)
Giuditta = Federico il Losco di duca Baviera di Svevia († 1147)
Enrico († 1150)
Welfen Enrico il Nero duca di Baviera († 1026)
(Süpplingenburg) duca di Sassonia imperatore († 1137)
Leopoldo IV Ottone Enrico detto (2) = Gertrude = (1) Enrico Guelfo VI Giuditta di Babenberg vescovo «Jasomirgott» († 1145) il Superbo di Toscana († 1132) († 1141) di Frisinga duca duca († 1191) di Baviera di Baviera († 1139)
Federico di Rothenburg († 1167)
Guelfo VII († 1167)
(da un secondo matrimonio)
Adela (1) = Federico I (2) = Beatrice di detto di Vohburg Barbarossa Borgogna imperatore († 1190)
Federico IV duca di Svevia († 1191)
Corrado conte palatino del Reno
Enrico VI = Costanza Corrado Filippo imperatore d’Altavilla duca di († 1197) († 1198) Svevia († 1208)
Clemenza (1) = Enrico il Leone (2) = Matilda (Zähringen) di Inghilterra duca di Sassonia († 1195)
Ottone
Federico II = (1) Costanza d’Aragona († 1222) imperatore = (2) Iolanda (o Isabella) di Brienne († 1228) († 1250) = (3)Isabella d’Inghilterra († 1241)
(1) Enrico (f. nat.) Enzo di Germania († 1272) († 1242)
(f. nat.) Federico (2) Corrado IV d’Antiochia re di Germania († 1254) († 1256) Corradino († 1268)
(f. nat.) Manfredi († 1266)
Ottone IV imperatore
(3) Margherita = Alberto di Turingia Federico († 1323)
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SACRO ROMANO IMPERO REGNO DI DANIM Schleswig
Mare del Nord
Lubecca
Bonn Namur Aquisgrana Liegi Coblenza Nassau
BASSA LORENA Treviri Reims
Golsar
Magdeburgo
DUCATO DI FRANCONIA
Spira
Heidelberg
DUCATO Vaucouleurs DELL’ALTA Strasburgo LORENA Troyes
Gnesen
ia
Posen
REGNO DI
POLONIA
Liegnitz
la Picco ia Polon
Breslavia
Ducato di Slesia
Cracovia
Praga
REGNO DI BOEMIA Marca Morava
Bamberga Norimberga
Brünn
Ratisbona Ulma
Masuria
Grande Polon
Marca Lusazia
Francoforte
Worms
Verdun Metz Chalons
REGNO DI FRANCIA
Marca di Brandeburgo
Thorn
A
DUCATO DELLA
Laon
Lünenburg
Brandeburgo
Kulm
DUCATO DI POMERANIA
DUCATO DI BAVIERA
DUCATO D’AUSTRIA
Linz
E R I
Paderborn
PRUSSIA
Wollin
Marca Landsberg Meissen Langravio di Turingia Marca Dresda Erfurt Assia Meissen Fulda
Neuss
Gand Arras Cambrai
Elbing Danzica
Stettino
Dassel
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Münster
Nimega
Anversa
Mar Baltico
Meclemburgo
Braunschweig
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Federico Barbarossa
Augusta Enns Vienna DUCATO DI SVEVIA Monaco Buda Ravensburg Basilea Salisburgo Digione Pest Bruck Costanza Zurigo Besançon Innsbruck Chalon Graz Contea Lucerna Berna del Tirolo Lienz DUCATO Losanna Coira Bressanone Friburgo Macon DI CARINZIA Ginevra Chiavenna Bolzano Locarno Klagenfurt Vescovado Bellinzona Como Cividale di Trento Lubiana Slavo Legnano Bergamo Trento Lione Gorizia nia Novara Treviso Aosta Vercelli Chambery Monza Brescia Milano Verona Vicenza Trieste Ivrea Grenoble Susa Mantova Venezia Torino Padova Croazia Cremona Valenza Asti Pavia Chioggia Piacenza Alba Ferrara Saluzzo Pola AlessandriaParma Modena R March. o Reggio Ravenna ast Genova Avignone Contea di Saluzzoh. del V Bologna Bosnia ca REGNO Savona Rimini c r di Zara Ma D’ITALIA Pistoia Ma d Da Arles Provenza Urbino Lucca i Firenze rca Ventimiglia V eSebenico l m a z i a Aix An Nizza Pisa Ancona ne Arezzo con Tuscia Marsiglia Tolone z i a Spalato REGNO Perugia Siena DI Assisi SERBIA Elba Ragusa Bastia Orvieto Spoleto Teramo Talamone Cattaro Chieti Viterbo Sutri Aquila
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L’impero al tempo degli Hohenstaufen
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SACRO ROMANO IMPERO
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Palermo
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Messina
Castrogiovanni (Enna)
Confini del Sacro Romano Impero
L’assetto geopolitico dell’Europa al tempo dell’impero degli Hohenstaufen.
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Bonifacio Torres
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Corsica
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Reggio Catania Siracusa
allora, e che il pontefice non mancò di rilevare nella sua, formalmente cortese, risposta. Tuttavia, la situazione politica spingeva verso un accordo tra Federico e il successore di Pietro. Normanni e Bizantini minacciavano l’integrità territoriale dei dominii ecclesiastici e a Roma, inoltre, era scoppiata una rivolta contro il papa,
Mar Ionio
UN DOVERE IRRINUNCIABILE Federico Barbarossa prese parte a due spedizioni crociate, che sarebbero divenute tre se, durante la terza, non fosse annegato nel fiume Salef. Quarant’anni prima il giovane Federico era partito per la Terra Santa al seguito dell’esercito tedesco guidato dallo zio, il re Corrado III. Edessa era definitivamente caduta nel 1144 e papa Eugenio III, sostenuto dalla predicazione di Bernardo di Clairvaux, aveva bandito la crociata. La spedizione si trasformò in un mezzo disastro, ma da quell’esperienza il futuro imperatore dovette imparare molto. Era entrato in contatto con i piú grandi signori d’Europa, aveva conosciuto le grandi città dell’Oriente, in primis Costantinopoli, aveva capito cosa fosse un impero, e, soprattutto, aveva potuto visitare Gerusalemme. Matura in questo periodo l’idea crociata di Federico, collegata con la sua visione imperiale. Egli infatti concepiva la difesa della Terra Santa come uno dei primi doveri dell’imperatore in quanto erede degli imperatori romani, ai quali era appartenuta la Palestina e dal momento che la stessa Gerusalemme era stata rifondata da Costantino il Grande. Inoltre, la sua condizione di monarca universale e di defensor ecclesiae lo poneva nella condizione di dover difendere a ogni costo i regni crociati d’Oltremare.
guidata dal monaco Arnaldo da Brescia, tanto che Adriano IV aveva dovuto abbandonare temporaneamente la città per ritirarsi a Orvieto. Nel 1153, alla vigilia della discesa in Italia di Federico, era stato stipulato presso Costanza un trattato fra il re tedesco e i legati del papa. Nel trattato si stabiliva che Federico, in quanto de-
fensor ecclesiae, avrebbe tutelato il Seggio di Pietro dai rivoltosi romani, non avrebbe fatto pace con il re normanno di Sicilia, Ruggero II, e avrebbe rintuzzato qualunque attacco da parte del basileus di Bisanzio. In cambio, il re otteneva mano libera sulla Chiesa tedesca, in particolare riguardo alle nomine vescovili e abbaziali, lo
Miniatura francese raffigurante una scena di battaglia alla quale partecipano cavalieri crociati. XV sec. Chantilly, Musée Condé. Federico Barbarossa, che già aveva affiancato lo zio Corrado III nella seconda crociata (1147), trovò la morte durante una nuova spedizione in Terra Santa, annegando nel fiume Salef, in Cilicia (oggi in territorio turco).
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SACRO ROMANO IMPERO
Federico Barbarossa
scioglimento del suo matrimonio con Adela di Vohburg, che non gli aveva dato eredi, e il «via libera» all’incoronazione imperiale.
Una cerimonia frettolosa
Varcate le Alpi, Federico, come prima mossa, attaccò i Comuni di Asti e Chieri, a lui ostili, e li consegnò al marchese di Monferrato, suo fedele vassallo. Nel 1155 il Barbarossa entrò in Roma, represse il libero Comune che si era nel frattempo formato e ne consegnò al pontefice Adriano IV l’animatore, Arnaldo da Brescia, che, dal 1143, aveva iniziato a fomentare il popolo romano contro il potere temporale dei papi. Arnaldo fu arso sul rogo, ma le cronache dicono che Federico non fosse «contento» di tale soluzione. Il 18 giugno lo Svevo venne solennemente insignito della corona imperiale in S. Pietro. La cerimonia fu piuttosto frettolosa, perché la popolazione minacciava disordini e la guardia regia faticò per tenere a bada i rivoltosi. 58
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Il disegno imperiale di Federico consisteva nel creare tra Italia, Germania e Borgogna, unitamente alle amate terre sveve, un nucleo territoriale forte e compatto, che, tra l’altro, avrebbe fatto da base di partenza per intervenire in ogni parte dell’impero. Vedremo in seguito come questo sogno fosse destinato a restare tale. Prima di raggiungere Roma, Federico aveva fatto tappa a Bologna, dove fu accolto dai professori della giovane Università, nella quale si andavano riscoprendo i fondamenti del diritto romano. A tale incontro si fa risalire il privilegio concesso dal Barbarossa, conosciuto come Constitutio Habita, con il quale egli prendeva sotto la propria ala protettrice professori e studenti bolognesi. Proprio dalla riscoperta del diritto giustinianeo, mutuato dalla tradizione classica, Federico traeva spunto per riaffermare le proprie prerogative in Italia, contro l’usurpazione messa in atto dai Comuni, per ribadire la propria autonomia rispetto al potere della Chiesa.
IN ATTESA DEL RITORNO Intorno alla figura di Federico Barbarossa sono sorte diverse leggende. Egli fu indicato alternativamente come «l’imperatore dei tempi ultimi», o come l’Anticristo, da parte della Chiesa durante il periodo della sua scomunica. Inoltre Federico, sulla scia di credenze presenti da sempre nel folklore europeo, sarebbe l’imperatore dormiente che «vive e non vive» e che, nascosto in un luogo inaccessibile, attende, pronto a ritornare sulla Terra alla fine dei tempi per combattere l’ultima battaglia. Nel corso del XIX secolo, la montagna turingia del Kyffhäuser divenne centro propulsore del culto federiciano, sulla scia della nuova spinta nazionalista tedesca. Secondo la leggenda si troverebbe lí l’imperatore dormiente. Dal ventre della montagna – come recita la celebre ballata del poeta Friedrich Rückert – Federico ogni cento anni chiama un suo servo perché guardi se i corvi volano ancora intorno al monte: «E se i vecchi corvi / stanno ancora volando / questo è il segno che io debbo ancora dormire / nell’incantesimo, per altri cento anni».
Il contatto coi giuristi bolognesi mostrava in nuce l’idea, cara a Federico, della Traslatio Imperii, già presente nella corte carolingia, secondo cui la sovranità del mondo sarebbe passata dai Greci ai Romani, da questi ai Franchi e dunque ai Tedeschi. L’impero romano-germanico non apparteneva quindi al capo della Chiesa poiché, sulla scorta dei dottori di Bologna, l’impero romano «precedeva» il sacerdozio e quindi non poteva essergli subordinato. Anche in virtú di tale convincimento, l’imperatore decise di mettere ordine nelle questioni italiane (dell’Italia centro-settentrionale), dove si era sviluppata una fiorente civiltà comunale. Pare che proprio in questo periodo a Federico sia stato dato il soprannome di Barbarossa. Il termine proveniva dal latino rubeus e, secondo alcuni, tra cui Guglielmo arcivescovo di Tiro, gli uomini rossi sarebbero stati infidi e tirannici. Probabilmente per questa ragione i Milanesi e i loro alleati cominciarono a chiamarlo Barbaros-
sa, con esplicito intento dispregiativo. Milano era la città che aveva catalizzato le forze comunali che si contrapponevano all’imperatore. Per questo, nel 1157, Federico decise di scendere per la seconda volta in Italia, anticipato da due suoi legati: Rainaldo di Dassel e Ottone di Wittelsbach, i quali ricevettero il giuramento di fedeltà da parte di Verona, Mantova, Cremona e Pavia, nemiche dei Milanesi. Dopo aver messo ordine in Romagna e in Toscana, il 10 luglio le truppe imperiali, ricongiuntesi sul Mincio, posero l’assedio a Brescia, la piú fedele alleata di Milano. Poi Federico pose sotto assedio il capoluogo lombardo che, stremato, cedette ai primi di settembre. Le condizioni poste da Federico ai Milanesi furono durissime.
Roma, basilica di S. Pietro, 18 giugno 1155: papa Adriano IV pone sul capo di Federico I di Hohenstaufen la corona imperiale. Miniatura francese del XV sec. Chantilly, Musée Condé. Stando alle cronache dell’epoca, la cerimonia si svolse in maniera piuttosto frettolosa, per via dei tumulti di piazza in corso nell’Urbe.
Recuperare i diritti
L’imperatore convocò quindi due successive diete, presso Roncaglia, vicino a Piacenza; nel corso della seconda, nel 1158, emanò la Constitutio de regalibus, nella quale si elencavano i diritti regi usurpati dai Comuni, e che l’imperatore, in quanto re d’Italia, intendeva recuperare. Federico, insomma, si presentava come un sovrano assoluto, slegato da ogni legge in quanto egli stesso fonte di diritto. A elaborare la lunga lista dei regalia furono i giuristi bolognesi, che l’avevano desunta in parte dal Corpus Iuris di Giustiniano e in parte dal diritto consuetudinario. Fu una politica, però, che procurò al sovrano svevo molti nemici. In primo luogo numerosi Comuni, i quali, dalla morte di Enrico V in poi, si erano appropriati dei diritti spettanti al sovrano; poi il nuovo papa, il senese Rolando Bandinelli, asceso al SACRO ROMANO IMPERO
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Federico Barbarossa
ERA DI LUGLIO... L’incontro tra l’imperatore Federico Barbarossa e papa Alessandro III rimase ben vivo nella memoria storica dell’Occidente. I due vecchi nemici si incontrarono nella basilica di S. Marco, a Venezia, il 24 luglio del 1177. Poche ore prima, nella chiesa di S. Nicolò del Lido, tre cardinali avevano provveduto a liberare l’imperatore dalla scomunica e, accompagnato dal doge, Federico era giunto nella basilica marciana. Durante la cerimonia, l’imperatore si prostrò
davanti al papa, che lo fece rialzare, abbracciandolo commosso per dargli il bacio della pace, mentre dalle volte della basilica si levava solenne il canto del Te Deum. Una certa aneddotica ha molto insistito su questo avvenimento. Federico, all’atto di rendere omaggio al papa, avrebbe bisbigliato: «Non tibi sed Petro» («Non è davanti a te che mi prostro, ma davanti a Pietro»), e di rimando il papa avrebbe risposto: «Et ego sum Petrus» («Ma io sono Pietro»).
soglio pontificio col nome di Alessandro III, che intendeva proseguire la politica ierocratica di Gregorio VII; e, infine, il basileus di Costantinopoli, Manuele Comneno, il quale considerava Federico un pericolo per il suo prestigio imperiale e un serio ostacolo alla politica di affermazione della sua autorità in Occidente. Papa e basileus si unirono dunque con i Comuni italiani in un fronte unico, la cui pericolosità non sfuggí al Barbarossa. Solo nel 1162, dopo un assedio estenuante, e, soprattutto, dopo aver ottenuto l’appoggio di alcuni principi tedeschi e delle città italo-settentrionali ostili a Milano, riuscí a sconfiggere definitivamente la città lombarda, che fu rasa al suolo. Per quanto riguarda il versante dei rapporti col papa, il sovrano svevo aveva cercato di scongiurare in tutti i modi l’elezione di Rolando
Bandinelli, e i cardinali a lui fedeli avevano addirittura eletto un antipapa, Vittore IV, provocando cosí uno scisma.
La ricostruzione di Milano
Nel 1167 si era costituita la Societas Lombardiae – che siamo soliti chiamare Lega Lombarda –, formata da sedici città, tra cui anche Lodi e Cremona, un tempo fedeli all’imperatore. Per prima cosa la Lega fece ricostruire Milano – distrutta cinque anni prima dal Barbarossa – e fondò una nuova città: Alessandria, in onore del papa Alessandro III. Nel frattempo, anche la situazione tedesca era andata complicandosi. Il perdurare dello scisma aveva alienato all’imperatore l’appoggio dei principi ecclesiastici, e il rapporto con suo cugino, Enrico il Leone (che, mentre Federico era in Italia, ave-
Siena, Palazzo Pubblico, Sala di Balia. Affresco di Spinello Aretino raffigurante l’episodio della sottomissione del Barbarossa a papa Alessandro III. 1408. L’episodio ebbe luogo a Venezia, nella basilica di S. Marco, il 24 luglio 1177, e, secondo alcune cronache, avrebbe fatto registrare un salace scambio di battute fra i due protagonisti. Nella pagina accanto monumento equestre di Federico Barbarossa, opera dello scultore tedesco Robert Toberentz (1849-1895). Goslar, Bassa Sassonia (Germania).
va tenuto al suo posto le redini della Germania), si era fortemente deteriorato. Quando Federico scese di nuovo in Italia nel 1174 per domare la rivolta dei Comuni, le truppe al suo seguito erano esigue, Milano aveva recuperato la leadership delle città lombarde e Alessandro III si era rafforzato, al punto da far apparire illusorio lo scisma. Solo il marchesato del Monferrato e la contea di Briadante erano rimaste fedeli all’imperatore, ma il loro potere andava declinando di fronte a un organismo forte come la Lega. Tuttavia, la discesa di Federico fu inizialmente coronata da alcune vittorie: Susa e Asti furono sconfitte e Alessandria posta sotto duro assedio. Comunque sia, le forze della Lega erano largamente preponderanti, soprattutto grazie alla fanteria, che pare ammontasse a 4000 soldati. Cosí, nel maggio del 1176, Federico dovette subire la cocente sconfitta di Legnano, dove le sue truppe furono sbaragliate e lui stesso fu creduto morto. Lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia dell’imperatore caddero nelle mani dei Milanesi. Quei superbi trofei di guerra vennero mostrati sul campo e in città. La situazione era grave, e l’imperatore, salvo per miracolo, capí che la prima mossa da fare sarebbe stata quella di incrinare il troppo vasto fronte avversario. Avviò dunque un intenso lavorio diplomatico, allo scopo di riconciliarsi con Alessandro III. Il Bandinelli, dal canto suo, desiderava porre fine allo scisma che lacerava la cristianità, e sapeva bene che ciò sarebbe stato possibile solo con l’approvazione dell’impera-
tore. I due raggiunsero un accordo a Venezia, nel 1177, in seguito al quale i Comuni abbandonati dal pontefice (che nel frattempo aveva ritirato la scomunica al Barbarossa), e la cui alleanza cominciava a mostrare vistose crepe, preferirono percorrere la strada dell’accordo con l’imperatore, il quale, nello stesso periodo, venne a patti anche con il re di Sicilia tramite il matrimonio di suo figlio Enrico con Costanza d’Altavilla, erede al trono siculo-normanno. Si trattava ora di regolare i conti con Enrico il Leone, al quale l’imperatore non aveva perdonato d’averlo abbandonato nel momento del bisogno e al quale attribuiva la colpa della sconfitta patita a Legnano. Il 25 luglio del 1180 Federico aprí la campagna contro il cugino; da Werla, in Sassonia, il sovrano emanò un’ordinanza con la quale scioglieva tutti i vassalli dell’ex duca Enrico dal giuramento di fedeltà. Dopo una breve resistenza in Turingia, il Leone dovette piegarsi; sconfitto, si presentò alla dieta di Erfurt in abito da penitente, supplicando il perdono dell’imperatore: gli vennero tolti tutti i diritti feudali e inoltre venne bandito per tre anni.
Quel bagno fatale
L’imperatore iniziò ora a guardare a Oriente, dove i Bizantini erano stati costretti a ridimensionare i loro sogni espansionistici verso i Balcani e l’Italia adriatica in seguito alla sconfitta subita presso Myriokephalon, in Turchia, per mano del sultano di Iconio (oggi Konya), Kilidji Arslan. Il quadro politico era dunque repentinamente mutato in favore di Federico. Ma, nel 1187, Saladino aveva riconquistato Gerusalemme, scatenando cosí una nuova crociata alla quale presero parte Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra, Filippo Augusto, re di Francia, e lo stesso Barbarossa. Durante l’attraversamento delle terre d’Oriente Federico I, detto il Barbarossa, incontrò il suo destino finale. In una calda giornata del giugno 1190, durante l’attraversamento dell’Anatolia, trovò la morte nel fiume Salef, tra le gole del Tauro, mentre prendeva un bagno. Forse un attacco cardiaco dovuto alla temperatura troppo fredda delle acque – sembra che avesse consumato il pasto poco prima di tuffarsi – ne causarono l’annegamento, gettando nella prostrazione piú profonda i crociati tedeschi e nell’incredulo sconforto la crisitianità occidentale. Lo storico bizantino Niceta Coniate, a lui duramente avverso, scrisse: «Lo zelo di quest’uomo fu degno degli apostoli; la sua intenzione religiosa non inferiore in niente alla santità (...) per questo la sua morte fu felice». SACRO ROMANO IMPERO
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FEDERICO II DI SVEVIA
Quel sovrano «meraviglioso»... I suoi contemporanei ribattezzarono Federico II di Svevia stupor mundi, «meraviglia del mondo». Ma chi fu veramente questo grande monarca, colto e poliglotta, figlio di un imperatore romano-germanico e di una principessa siculo-normanna? Dagli studi piú recenti emerge la figura di un uomo profondamente radicato nel suo tempo. Ma con una concezione dello Stato che alludeva al futuro… di Marina Montesano
F
ederico II Hohenstaufen è uno fra i non molti personaggi della storia medievale che attirano l’attenzione anche dei non addetti ai lavori; soprattutto nel mondo italo-meridionale, il mito federiciano sembra essere ancora estremamente vivo: sovrano «medievale» o «moderno»? Eretico o solo fautore di un governo laico, scevro dalle influenze ecclesiastiche? Su tali domande si è impiantata la cosiddetta «questione federiciana», un dibattito storiografico lungo, serrato, che potrà forse venir messo da parte, ma che, per sua natura, non sarà mai risolto, e che, in fondo, poggia su alcuni pseudoproblemi di carattere principalmente nominalistico: primo fra tutti quello, appunto, della «laicità» e «modernità» dell’imperatore e della sua opera. L’ascesa al potere di Federico II non fu agevole. Secondo quanto voluto dal nonno Federico I Barbarossa, suo padre Enrico VI era divenuto re di Sicilia nel 1186 in seguito al matrimonio con Costanza d’Altavilla e imperatore nel 1190, dopo la morte del Barbarossa. L’elezione imperiale non era stata contrastata: il principale contendente, Enrico il Leone (cugino di Federico Bar62
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Federico II in un olio su tela del pittore tedesco Philipp Veit. 1840. Francoforte, Römer, Kaisersaal. barossa, n.d.r.), era esule, e il Barbarossa, il cui prestigio era aumentato poiché caduto in crociata, aveva in Germania e in Italia vassalli e sudditi fedeli. Diversa era la situazione siciliana, dove il trono gli veniva conteso dal normanno Tancredi di Lecce, appoggiato da una parte delle forze locali. Nel 1194 due circostanze favorevoli consentirono a Enrico VI di impadronirsi concretamente della corona siciliana, alla quale ambiva e che rivendicava da otto anni: il fatto che in mano sua cadesse Riccardo Cuor di Leone (che come fratello della moglie di Guglielmo II di Sicilia e come parente di Enrico il Leone sosteneva i suoi rivali, sia nel regno siculo-normanno, sia nell’impero), e la morte di Tancredi di Lecce. L’incoronazione solenne ebbe luogo in Palermo, nel Natale del 1194. Proprio il giorno seguente, a Jesi, nelle Marche, l’imperatrice Costanza dava alla luce il piccolo Federico Ruggero, che riassumeva nei nomi il ricordo dei fondatori dell’impero svevo e del regno siciliano.
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Federico II di Svevia
DALLA DANIMARCA A PALERMO I Normanni erano arrivati agli inizi del X secolo dalla Danimarca in quella regione della Francia che, dal loro nome, si chiamò poi Normandia. Durante la prima metà dell’XI secolo, molti Normanni si erano diretti in Italia meridionale, in cerca d’ingaggi come mercenari o anche di nuove terre da conquistare. Di lí a poco, la famiglia normanna degli Altavilla, servendosi abilmente delle rivalità che agitavano quelle terre, era divenuta padrona di Puglia e di Calabria. La fortuna di questi avventurieri fu costituita dal fatto che essi si resero conto di come il papato, allora impegnato nella contesa contro l’impero, avesse bisogno di un alleato. Fu infatti il pontefice a concedere in feudo agli Altavilla l’Italia meridionale che, sotto il profilo formale, apparteneva agli imperatori di Bisanzio, ma che questi non avevano la forza di mantenere sotto il proprio governo. La felice impresa di Guglielmo il Conquistatore, che nel 1066 aveva conquistato l’Inghilterra, e la reconquista spagnola servirono quali modelli a un altro capo normanno, Ruggero, fratello di Roberto il Guiscardo, il quale, fra il 1061 e il 1094, condusse a termine la conquista della Sicilia, strappata ai Saraceni. I territori italo-meridionali vennero poi compresi in un regno unitario a partire dal 1130, sotto Ruggero II.
Danimarca
Mare del Nord
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Regno d’Inghilterra
Brandeburgo
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Puglia
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Cagliari
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Mar Mediterraneo
Palermo Sicilia
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Enrico VI lavorava per trasformare anche quella imperiale in una corona ereditaria nelle mani della casa di Svevia: ma ciò gli sollevava contro le inimicizie di molti nobili tedeschi, delle città comunali italiane e del papa. L’imperatore morí appena trentenne, nel 1197. Lasciava il figlio ed erede, di appena tre anni, circondato di avversari e insicuro riguardo all’intera sua ricchissima, ma anche composita, eredità.
Pomerania
Regno
Frisia
Bassa Lorena
Lubecca
Nella pagina accanto, in alto miniatura raffigurante la battaglia di Bouvines, tratta da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1335-1340. Londra, British Library. Il 27 luglio del 1214, a Bouvines – odierna località nel Nord della Francia, a quel tempo parte della contea di Fiandra –, gli eserciti del re Filippo Augusto, che per la prima volta comprendevano milizie comunali delle città francesi del Nord del Paese, sconfissero le armate dell’imperatore sassone Ottone IV di Brunswick, alleato e congiunto di Giovanni d’Inghilterra, in seguito noto come «Giovanni Senza Terra». La disfatta di Ottone, che dopo Bouvines venne deposto, portò all’elezione imperiale di Federico II, appoggiato, nel gioco delle alleanze da Filippo e da papa Innocenzo III. In basso l’impero al tempo degli Hohenstaufen.
Mar Ionio
Figlio di un imperatore romano-germanico e di una principessa siculo-normanna, Federico nasceva erede di molte corone. Anzitutto di quella imperiale. Essa, però, non era ereditaria: erano i principi tedeschi ad assegnarla, eleggendo i re di Germania, che a loro volta, come «re dei Romani», erano candidati anche alla corona imperiale. In quanto re di Germania, egli era anche erede della corona di Borgogna e di quella d’Italia. Tutte queste corone, però, assicuravano diritti e prestigio, ma non davano potere (vedi box a p. 68). L’impero era un’istituzione venerabile, ma soltanto formale; quanto ai regni tedesco, italico e borgognone, essi non avevano alcuna vera e propria consistenza istituzionale. Esserne re comportava potenza soltanto se si era già forti: perché, in caso contrario, era praticamente impossibile far valere i diritti regi sui feudatari tedeschi o sulle città d’Italia. Diverso era il discorso per il regno di Sicilia, che comprendeva tutto il Meridione continentale e la grande isola. Lí esistevano una forte compagine statale, una burocrazia e un’amministrazione regia efficienti, una tradizione di governo centralistico. Il regno era molto ricco, dotato di una fiorente agricoltura e di grandi centri urbani con buoni porti (Napoli, Amalfi, Bari, Messina, Palermo stessa); la sua posizione al centro
COME LA SCHIUMA DELLA STORIA Alla battaglia di Bouvines e alle sue fondamentali conseguenze per la storia europea, il grande medievista francese Georges Duby ha dedicato un libro da riscoprire (La Domenica di Bouvines, Einaudi, Torino 1977): «Il 27 luglio dell’anno 1214 cadeva di domenica. La domenica è il giorno del Signore e gliela si deve tutta intera. Ho conosciuto dei contadini che un poco ancora tremavano quando il cattivo tempo li obbligava a mietere di domenica: sentivano su di sé la collera del cielo. I parrocchiani del XIII secolo la sentivano molto piú minacciosa e il prete della loro chiesa non soltanto proibiva in quel giorno il lavoro manuale, ma cercava altresí di convincerli a purificarsi integralmente per tutta la durata della domenica, di tenerli lontani in tal giorno da tre cose indegne: dal denaro, dal sesso, dallo spargimento di sangue... Orbene, la domenica 27 luglio 1214, migliaia di guerrieri trasgredirono il divieto. Si batterono, e furiosamente, presso il ponte di Bouvines, in Fiandra. I campi mietuti a metà di Bouvines furono quel giorno teatro di un fatto memorabile. Gli eventi sono come la schiuma della storia, bolle grosse o piccole che si spaccano in superficie, e scoppiando suscitano turbini che si propagano piú o meno lontano. Questo evento ha lasciato tracce molto durature, che neppure oggi sono del tutto scomparse. Soltanto queste tracce gli danno vita, e senza di esse l’avvenimento non è nulla: di esse quindi questo libro intende essenzialmente parlare».
Statua di Federico II realizzata dagli scultori Benedetto Robazza e Herman Schwahn nel 1995 e collocata in largo Porta Bersaglieri a Jesi (Ancona). Federico II nacque nella cittadina marchigiana il 26 dicembre del 1194, da
Costanza d’Altavilla, figlia del re normanno Ruggero II, e Enrico VI di Hohenstaufen, re di Germania, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Sicilia e di Puglia. Secondo alcuni storici locali, l’imperatrice, in viaggio per raggiungere il
marito appena incoronato a Palermo, partorí in una tenda innalzata in piazza San Floriano, alla presenza delle autorità civili e religiose e della popolazione, per fugare, considerata la sua età avanzata, ogni dubbio sulla maternità.
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Federico II di Svevia
UNA RIVALITÀ PROVERBIALE Alla morte dell’imperatore Enrico V di Franconia, la nobiltà tedesca si divise in una fazione favorevole ai duchi di Baviera e perciò detta «Guelfa» (da un Welf ch’era il capostipite della famiglia ducale bavarese) e una favorevole, invece, ai duchi di Svevia, che avevano ereditato la politica degli imperatori della casa di Franconia, e detta perciò «Ghibellina» (dal castello di Weiblingen, uno dei piú importanti posseduti dalla famiglia degli Hohenstaufen, che, grazie al favore di Enrico IV, si era vista assegnare il ducato di Svevia). Nel 1152, i principi tedeschi scelsero come successore il giovane Federico, duca di Svevia, in Italia noto piú tardi come «il Barbarossa». Questi riuscí anche a garantire la pacificazione tra le fazioni, in quanto discendeva dagli svevi Hohenstaufen per parte di padre, ma dai duchi di Baviera per parte di madre. Federico, infatti, inaugurò in Germania una politica conciliante, che accordava ampio spazio alla grande nobiltà del regno.
In basso augustale di Federico II. 1231-1250. Cambridge, Fitzwilliam Museum. Gli augustali sono monete in oro coniate dall’imperatore Federico II presso le zecche di Messina e Brindisi dopo il 1231, e ispirate agli aurei imperiali romani. Sul dritto, le monete ne presentano il busto con corona d’alloro, mentre sul rovescio è raffigurata l’aquila imperiale ad ali spiegate, simbolo della dinastia sveva. del Mediterraneo ne faceva il perno della vita economica, politica e culturale di tutti i popoli che si affacciavano sulle sponde del mare. La dinastia degli Altavilla doveva la conquista del regno a se stessa, ma il titolo e la corona regali al papa, del quale era formalmente vassalla. Il sovrano di Sicilia, quindi, non era autonomo. Inoltre, v’erano nel regno forze tanto feudali quanto cittadine, che non avevano visto di buon occhio il matrimonio tra Enrico IV di Svevia e Costanza d’Altavilla, e, in particolare, avversavano quel che poteva derivarne: vale a dire l’unione fra il regno di Sicilia e la compagine imperiale romano-germanica. Per di piú, dal momento che le terre del regno di Sicilia erano separate da quelle del regno d’Italia (facente parte dell’impero) da una fascia di territori corrispondenti alle attuali regioni di Lazio, Umbria, Marche ed Emilia-Romagna – a 66
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LE DATE DA RICORDARE 1194 Nasce a Jesi il 26 dicembre 1211 Viene eletto re di Germania 1215 Viene incoronato ad Aquisgrana re dei Romani 1220 Onorio III lo incorona a Roma imperatore del Sacro Romano Impero 1228 Viene scomunicato da Gregorio IX 1229 Si incorona re di Gerusalemme 1231 Emana le Costituzioni Melfitane 1237 Vittoria di Cortenuova sulla Lega Lombarda 1245 Seconda scomunica a opera di Innocenzo IV 1249 Sconfitta di Fossalta 1250 Muore il 13 dicembre
vario titolo rivendicati dalla Chiesa come diretto o indiretto dominio temporale –, neppure il papa vedeva di buon occhio l’unione del regno siciliano all’impero. D’altronde, sulle terre pontificie l’impero vantava antichi diritti, che avrebbero potuto esser rivendicati da un sovrano deciso a stabilire l’unità territoriale fra i vari regni di cui egli era re.
Una rivalità mai sopita
Nel 1198 era salito al soglio pontificio Innocenzo III, deciso a giocare fino in fondo il suo ruolo quasi naturale di arbitro nell’insieme di queste vicende. Per la Sicilia, il papa appoggiò Costanza e Federico. Piú complessa la situazione in Germania. Lí erano in concorrenza Filippo di Svevia, zio di Federico e Ottone di Braunschweig, figlio di Enrico il Leone: si stava riproducendo il vecchio scontro fra «guelfi» e «ghi-
Miniatura raffigurante papa Onorio III che incorona Federico II, da un’edizione del Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
bellini» (vedi box a p. 66), che aveva già caratterizzato la vita tedesca all’indomani della morte di Enrico V. I principi tedeschi avevano scelto Ottone, che divenne imperatore con il nome di Ottone IV e che – per evitare che il papa appoggiasse il rivale Filippo di Svevia – dette tutte le piú ampie assicurazioni circa la libertà della Chiesa nel territorio imperiale. Ma, nel 1208, Filippo di Svevia fu assassinato: da allora, sentendosi libero da rivali e forte per l’alleanza con il re d’Inghilterra, Ottone cominciò a venir meno sistematicamente ai suoi impegni con il pontefice. A quel punto, il papa mutò di conseguenza politica e, intesosi con il re di Francia Filippo II Augusto – che temeva l’alleanza tra impero e Inghilterra –, decise di appoggiare i nobili tedeschi che stavano all’opposizione e che invocavano un nuovo re. Innocenzo III non ebbe difficoltà a indicarlo nella persona del figlio dell’imperatore Enrico VI: Federico II fu, quindi, eletto nel 1212 re dei Romani, e, nel 1213, garantí a sua volta al papa che mai si sarebbe ingerito nelle questioni ecclesiastiche tedesche, rinunziando anzi a controllare le elezioni episcopali in Germania. Gli promise, inoltre, che non avrebbe mai promosso una stretta unione tra il regno di Sicilia e l’impero, che anzi li avrebbe tenuti accuratamente separati. La questione dell’elezione imperiale si collocava in una situazione politica europea colma di controversie. Nel corso dei decenni centrali del XII secolo il re di Francia Luigi VII aveva lavorato al consolidamento del potere della monarchia. La sua opera fu continuata dal figlio Filippo II Augusto (1180-1223), che riorganizzò la cancelleria e la corte e diede ulteriore impulso SACRO ROMANO IMPERO
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Federico II di Svevia sia alla riorganizzazione amministrativa della corona, sia al rapporto fra questa e i ceti mercantili, che si sentirono privilegiati e protetti. Per lui era comunque prioritario risolvere il problema costituito dal fatto obiettivo che il re d’Inghilterra (duca di Normandia dall’XI secolo, conte d’Angiò e del Maine in quanto appartenente alla famiglia dei Plantageneti feudatari di quelle terre e duca d’Aquitania, Guascogna nonché conte del Poitou in quanto erede di Eleonora d’Aquitania) era signore effettivo di gran parte del territorio francese, e a lui guardavano tutti gli aristocratici che, in un modo o nell’altro, intendevano svolgere una politica autonoma rispetto al loro re.
Fratelli in conflitto
In Inghilterra, nel frattempo, il regno di Enrico II aveva posto fine a un periodo di torbidi, che tuttavia ripresero alla sua morte (1189). La situazione, comunque, si andò di nuovo deteriorando con i figli e successori di Enrico, cioè Riccardo Cuor di Leone (1189-99) e Giovanni Senza Terra (1199-1216). I due si erano ripetutamente ribellati al padre durante il regno di questi, ma erano anche in vivissima discordia fra loro; erano, inoltre, tutti e due caratteri labili e non dotati di quell’abilità politica che aveva invece distinto i loro predecessori. Riccardo, cavaliere coraggioso, ma capo militare crudele e mediocre, aveva partecipato alla terza
TRE CORONE PER IL RE DI GERMANIA Ai primi del XII secolo, il regno di Germania si presentava come composto essenzialmente di quattro grandi ducati «etnici», corrispondenti agli altrettanti popoli di stirpe germanica insediati sul territorio tedesco: i Bavari, i Sassoni, i Franconi e gli Svevi. Per tradizione, la corona reale di Germania si affidava elettivamente a un personaggio gradito ai quattro duchi, e che di solito era uno di loro: l’eletto, poi, veniva incoronato in Aquisgrana e assumeva il titolo di «re dei Romani», che significava ch’egli era legittimamente candidato alla corona imperiale. Per cingerla, però, bisognava scendere a Roma e farsi incoronare dal papa. Inoltre, dal X-XI secolo il re di Germania aveva anche diritto alle due corone reali d’Italia e di Borgogna. Questa somma di corone faceva del re di Germania il sovrano piú prestigioso dell’Occidente: in pratica, però, i suoi poteri erano molto limitati in quanto subordinati all’accordo fra i quattro duchi «etnici», i loro grandi vassalli e le stesse città, che in molti casi (per esempio i ricchi e fiorenti centri urbani del Reno) facevano una politica indipendente guidata dai loro vescovi.
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In questa pagina facsimile a stampa di una miniatura raffigurante Federico, da un Exultet conservato nel Museo Diocesano di Salerno. Nella pagina accanto, in alto Federico II in trono, raffigurato nell’arca reliquiario in oro, pietre e smalti, di Carlo Magno. XII sec. Aquisgrana, Renania. Cappella Palatina. L’immagine di Federico II, scolpita nel reliquiario di Aquisgrana tra quelle degli imperatori romani d’Occidente, ricorda la sua incoronazione a re di Germania e re dei Romani, avvenuta ad Aquisgrana, antica capitale carolingia, nel luglio del 1215. Nella pagina accanto, in basso scultura raffigurante l’aquila degli Hohenstaufen. 1230. Palermo, Museo Nazionale Archeologico. Lo stemma originario della casata sveva – consistente in uno scudo d’oro con tre leoni neri posti l’uno sull’altro –, venne modificato a partire dal regno del Barbarossa, attraverso la sostituzione dei leoni con un’aquila nera ad ali spiegate, posta su fondo oro. L’aquila, di tradizione romana, indicava l’assimilazione fra l’antico impero e la Germania, già esplicitata dal titolo «Sacro Romano Impero».
ATEO, ANZI NO. E FORSE... IMMORTALE La straordinaria personalità di Federico, la sua energia politica, il ruolo eccezionale che egli seppe coprire nel suo tempo, attirarono sulla sua figura molte leggende, che spesso resistettero alla sua scomparsa. I Guelfi lo descrissero come un empio che addirittura avrebbe preferito l’islam al cristianesimo, oppure come un ateo che avrebbe sostenuto che le religioni erano tutte delle imposture. Si giunse, specie da parte di alcuni ambienti eredi della tradizione profetica affidata ai testi di Gioacchino da Fiore, a vedere in lui la spaventosa e mitica figura che avrebbe preceduto la fine dei tempi, l’Anticristo. Per contro, l’opinione pubblica ghibellina e alcuni gruppi di eretici vi videro il possibile Reparator Orbis, colui che avrebbe punito i prelati indegni e restaurato la purezza della Chiesa. Nacque addirittura una leggenda secondo la quale egli non sarebbe mai morto, ma, sopravvissuto misteriosamente fino alla Fine dei Tempi, sarebbe tornato allora sulla terra a guidare i cristiani contro le forze del male. Leggende che vanno considerate soltanto come segni della straordinaria impressione che la personalità di Federico lasciò nei contemporanei e nelle generazioni successive.
crociata (1187-89): al ritorno da essa, si era trovato re per la sopravvenuta morte del padre, ma aveva anche dovuto domare una rivolta feudale a capo della quale si era posto il fratello. Questi, comunque, gli era succeduto nel 1199, e aveva seguito una politica priva di prudenza, inimicandosi al tempo stesso la nobiltà laica e le gerarchie ecclesiastiche: giunse addirittura a confiscare i beni ecclesiastici attirandosi per questo la scomunica di papa Innocenzo III; dopo di che, intimidito dalla reazione, corse ai ripari prestando omaggio feudale al pontefice. Filippo Augusto colse, tuttavia, l’occasione e, sfruttando l’obiettiva debolezza del sovrano inglese, nel 1202 lo dichiarò colpevole di «fellonia» (il delitto del quale si macchiava il vassallo infedele) e lo privò formalmente di tutti i suoi feudi francesi, Aquitania esclusa. Inizialmente Giovanni non cedette, ma con la capitolazione di Rouen, del 1204, finí con l’accettare di decadere da qualunque diritto feudale su tutto il territorio francese a nord della Loira. Beninteso, nella pratica il re inglese non aveva intenzione di abbandonare quelle ricche terre; tuttavia, pochi anni piú tardi, egli intervenne nella guerra civile scatenata di nuovo in Germania per la corona imperiale fra eredi della casa di Svevia e successori di Enrico il Leone. Si giunse cosí a una battaglia risolutiva, che ebbe luogo la domenica 27 luglio 1214 a Bouvines, una località nel nord della Francia, poco distante da Lille. Erano schierati gli eserciti contrapposti dei fautori del giovane re di Germania Federico II di Svevia, il cui alleato principale era, appunto, il sovrano francese, e del suo antagonista Ottone IV di Braunschweig, sostenuto a sua volta dal congiunto Giovanni d’Inghilterra e da alcuni feudatari francesi. Per quanto la battaglia di Bouvines decidesse SACRO ROMANO IMPERO
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Federico II di Svevia
anzitutto delle sorti del trono di Germania, vi si giocò come vera posta quello di Francia (vedi box a p. 65). La vittoria significò, per Filippo Augusto, la possibilità di avviare un discorso in prospettiva unitario, subordinando finalmente alla corona le forze feudali francesi e impedendo loro di guardare al di là delle frontiere del regno alla ricerca di sostegni esterni per la loro politica centrifuga. 70
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Dopo la battaglia di Bouvines, Federico restò unico padrone dell’impero, del quale tuttavia non aveva ancora ricevuto ufficialmente la corona. Finché visse Innocenzo III, Federico non si permise di condurre una politica personale troppo pronunziata; anzi, gli venne da piú parti rimproverata un’eccessiva acquiescenza alla politica del grande pontefice. Ma con il successore, il mite Onorio III (1216-
Lettera autografa inviata da Federico II ai Siciliani nel 1246. Parigi, Musée d’Histoire de la France. L’imperatore sollecita i suoi sudditi siciliani a fornire a un prezzo ragionevole cavalli, armi e viveri al re di Francia Luigi IX in occasione della settima crociata. È visibile la bolla d’oro con effigie di Federico. Nella pagina accanto miniatura raffigurante l’incontro tra Federico II e il sultano d’Egitto, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
27), le cose cominciarono a cambiare. Nel 1220 egli si fece incoronare imperatore, dopo aver indotto la nobiltà tedesca ad attribuire la corona di Germania al figlio Enrico, senza mostrare alcuna intenzione di abdicare al regno di Sicilia. Era la Germania che egli lasciava al figlio, pur mantenendo su di essa, in quanto imperatore, la suprema eredità; non intendeva, inoltre, abbandonare la Sicilia, anche perché vi era stato allevato e si sentiva culturalmente piú italo-normanno che tedesco. Ma, soprattutto, conosceva bene le straordinarie possibilità economiche del regno e ne valutava appieno la non meno straordinaria posizione geografica. Federico si dette quindi a un’azione di consolidamento delle istituzioni del regno di Sicilia, indicendone due grandi assise, a Capua e a Messina (1220-21), durante le quali ordinò che fossero immediatamente reintegrati tutti i diritti regi confiscati in passato dai feudatari. Introdusse il diritto romano, fondò l’Università di Napoli (1224) per disporre di un ceto di funzio-
nari fedeli formati all’interno dei confini (altrimenti i suoi sudditi avrebbero dovuto andare fino a Bologna per istruirsi) e favorí lo «Studio» medico di Salerno. Riorganizzato il regno di Sicilia, Federico passò a quello d’Italia, dove si trattava di ridurre all’obbedienza i Comuni. I quali, però, all’ingiunzione di riunirsi a Cremona nella Pasqua del 1226, risposero ricostituendo la Lega Lombarda. Solo l’intervento di Onorio III impedí per il momento che si giungesse a un nuovo scontro.
L’attrito con il nuovo pontefice
Nel 1227, alla scomparsa di Onorio III, salí al soglio pontificio l’anziano ma energico Gregorio IX, il quale dette segni di non tollerare oltre la politica di Federico II. I principali motivi di attrito fra l’imperatore e il pontefice erano due: innanzitutto, Federico non aveva mai adempiuto agli obblighi che si era assunto in ordine alla separazione tra impero e regno di Sicilia; secondo, egli aveva promesso al clero dei suoi domini una libertà che, nella pratica, era ben SACRO ROMANO IMPERO
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Federico II di Svevia
Ambone in marmo della cattedrale di Bitonto. Affiancato all’ultimo pilastro destro sotto l’arco trionfale, nella navata centrale, conserva l’iscrizione con la firma dello scultore, Nicolaus sacerdos et magister, e la data di lavorazione, il 1229. È interamente decorato a rilievo con sculture e marmi incrostati da vetri e smalti policromi, con la fronte ornata dalla scultura di un’aquila, sostenuta da una cariatide umana. La lastra triangolare sul fianco della scaletta di accesso mostra un bassorilievo in cui sono rappresentati gli imperatori svevi scolpiti a bassorilievo (da sinistra, Federico I Barbarossa, Enrico VI, Federico II, Corrado). In basso capolettera miniato raffigurante Federico II re di Sicilia, da un manoscritto spagnolo del XV sec. Lisbona, Academia das Ciencias.
lontano dal concedere; per esempio non esitava a intromettersi sempre nelle elezioni episcopali cercando di favorire persone a lui fedeli o di ostacolare nomine di suoi avversari. C’era, inoltre, la questione della crociata. Tra il 1217 e il 1221 era stata effettuata un’altra spedizione, che però non aveva raggiunto la Terra Santa ma si era impegnata nell’assedio al porto egiziano di Damietta: i capi della crociata – tra cui il legato pontificio cardinale Pelagio – erano certi che il sultano, colpito in quel porto che, con Alessandria, era la sua principale fonte di ricchezza, avrebbe reagito trattando con loro e cedendo Gerusalemme in cambio della pace e della sicurezza commerciale. Ma il sultano al-Malik al-Kamil, della stessa famiglia di Saladino, non aveva ceduto e l’impresa era fallita. In quel frangente Federico, che non aveva interesse a inimicarsi il sultano d’Egitto (i cui territori erano cosí vicini alla Sicilia, e con il quale, per giunta, era in rapporti di amicizia diplomatica), si era ben guardato dal venire in aiuto dei crociati. 72
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LA CATTEDRALE DELLA SCOMUNICA La cattedrale di S. Valentino fu eretta a Bitonto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, in stile romanico pugliese, su modello della basilica di S. Nicola di Bari. La facciata in pietra è tripartita da lisce lesene in corrispondenza delle navate interne. Presenta tre portali riccamente decorati, e, nel registro superiore, quattro bifore coronate da archetti e un rosone formato da una ruota a sedici raggi con cornice
strombata. Sul fianco destro si apre un loggiato formato da sei profonde arcate, ognuna con finestrella ogivale in fondo, esclusa l’ultima, che presenta un portale detto Porta della Scomunica. Qui, la tradizione ricorda la scomunica di Federico II da parte di papa Gregorio IX nel 1227. L’interno ha pianta a croce latina, con le navate, divise da colonne alternate a pilastri, concluse da tre absidi semicircolari.
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Federico II di Svevia A quel punto il papa pretese che Federico partisse immediatamente in crociata e addirittura, poiché una spedizione pronta nell’autunno 1227 non poté avere inizio a causa di un’epidemia scoppiata fra le truppe, lo scomunicò. La scomunica scioglieva i sudditi di un sovrano da qualunque obbligo di fedeltà nei suoi confronti: qualunque avversario politico di Federico in Germania, in Italia o in Sicilia avrebbe ora potuto sollevarsi in armi per i propri interessi, proclamando di farlo nel nome della fede. Ciò costrinse Federico a partire (1228), ma non senza aver preso alcune contromisure.
Un’incoronazione sgradita
Innanzitutto, aveva saputo guadagnarsi interessi dinastici in Terra Santa, sposando l’ereditiera della corona di Gerusalemme, IsabellaIolanda di Brienne; si presentava quindi in Palestina come legittimo pretendente alla corona, e, in quanto tale, prevedeva di mettere ordine tra i feudatari e i Comuni delle città In questa pagina miniature tratte dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In alto, l’esercito di Federico II sconfitto a Parma, nel 1248, dalle fazioni guelfe delle città fedeli all’imperatore; a destra, la sconfitta patita dai Milanesi a Cortenuova nel 1237, a opera delle truppe imperiali. Nella pagina accanto foglio di un’edizione manoscritta, corredata da numerose miniature nei margini, del De arte venandi cum avibus (Sull’arte di cacciare con gli uccelli), il trattato di falconeria composto da Federico II. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Gregorio IX puntò quindi sulla crociata. Era molto difficile modificare le linee di fondo delle scelte politiche di Federico, in merito al rapporto fra impero e Sicilia (era ormai impensabile che egli potesse cedere una delle due prestigiose corone) e alla sua politica ecclesiastica. Si poteva invece metterlo in difficoltà per le sue inadempienze crociate: nel diffuso sentire del tempo, la crociata era dovere di ogni sovrano fedele alla Chiesa; inoltre, si diceva che Federico avesse piú volte promesso a Onorio III l’organizzazione di una impresa militare.
costiere, dalle quali ormai il regno era costituito. Coglieva poi l’occasione per rinsaldare i suoi rapporti di amicizia con il sultano. Infatti, con al-Malik al-Kamil stipulò un trattato in base al quale Gerusalemme gli veniva di nuovo ceduta: ma priva di mura, e con l’esclusione dell’area della Cupola della Roccia (ritenuta dai cristiani il Tempio di Salomone), che era un luogo santo musulmano. E in Gerusalemme egli cinse solennemente la corona di quel regno (1229), nonostante l’opposizione del clero locale e di quasi tutti i feudatari. Poi rimase
alcuni mesi in Terra Santa, cercando – senza peraltro riuscirci – di mettere ordine nell’ormai tragica situazione del regno. Il pontefice era lungi dall’esser lieto del risultato, sebbene Gerusalemme fosse di nuovo cristiana. Un trattato amichevole invece di una conquista manu militari non era nei piani; inoltre, Federico aveva osato cingere una corona reale nella Città Santa, nonostante fosse ancora scomunicato. In verità, al di là di queste ragioni, c’era soprattutto la preoccupazione per il fatto che l’imperatore fosse riuscito a trasformare in un nuovo successo un’impresa che aveva come scopo, nelle intenzioni del papa, di metterlo in difficoltà. Il risultato di questa situazione fu paradossale. Il papa bandí una crociata contro lo stesso Federico, definito «peggiore dei Saraceni»: le forze cosí mobilitate invasero il regno costringendo l’imperatore a rientrarvi in fretta nell’estate del 1229. Egli riuscí ad arrestare l’offensiva nemica, ma dovette in cambio scendere a patti con il pontefice. D’altra parte, anche Gregorio era stanco della contesa. Nell’estate 1230, a San Germano-Ceprano, fu allora siglato un trattato secondo il quale Federico forniva ampie garanzie sulla libertà del clero nel regno e il papa, in cambio, lo liberava dalla scomunica.
Uno Stato «moderno»
L’imperatore approfittò di questo rinnovato periodo di pace per sistemare anche giuridicamente le questioni relative ai suoi regni. Quel che piú gli interessava e su cui fondava la sua potenza era senza dubbio la ricca terra di Sicilia, sulla quale, d’altronde, ricadeva il peso finanziario di tutta la sua politica. Nel 1231 emanò quindi per il regno un nuovo insieme legislativo, detto «Costituzioni di Melfi» (dalla sede imperiale da cui vennero emanate) o Liber Augustalis. Si tratta di leggi che dimostravano come Federico avesse appreso in pieno la lezione bizantina e tenesse nel massimo conto la tradizione normanna: le leggi, infatti, miravano a costituire uno Stato centralizzato, burocratico, tendenzialmente livellatore, insomma già avviato a concezioni che molti hanno reputato «moderne». Anche per il regno d’Italia, dove era vivo il problema del rapporto fra la corona e i Comuni, egli spingeva nella medesima direzione; mentre in Germania, con la Constitutio in favorem principum del 1232, assumeva posizioni opposte rispetto a quelle mostrate nel Liber Augustalis, riconoscendo e giuridicamente legittimando in tal modo il carattere policentrico tipico di tutta la successiva storia della Ger-
UN TRATTATO SISTEMATICO E «MODERNO» Federico II compose un trattato di allevamento degli uccelli da caccia e di falconeria, il De arte venandi cum avibus, nel quale immise il frutto della sua straordinaria capacità di osservazione. Il De arte venandi non ha nulla delle enciclopedie zoologiche del tempo, i «Bestiari», in cui gli animali erano considerati essenzialmente come simboli di vizi o di virtú: esso è un trattato sistematico veramente «moderno», in cui i problemi di ornitologia, di allevamento, di addestramento, ecc., sono esaminati per il significato autonomo che hanno, con assoluto spirito di indipendenza rispetto alla trattatistica precedente.
mania e che avrebbe costituito la premessa per l’assetto federale sia del «secondo Reich», sia dell’attuale repubblica. Alla luce di queste considerazioni, si può riprendere la questione di un Federico II «moderno» o, al contrario, nel solco della tradizione che l’aveva preceduto. A tale proposito, sono condivisibili le parole dello storico tedesco Wolfang Stürner, il quale ha scritto nel suo SACRO ROMANO IMPERO
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Federico II e l’apogeo dell’impero (2009): «Tra i tratti peculiari di Federico, molti evidenziano come fosse radicato nel suo tempo, come subisse l’influsso di concezioni e principi della tradizione medievale. Ciò vale per la sua religiosità cristiana e per la sua visione dualistica dell’ordinamento sociale, fondato sulla volontà di Dio. Sentimenti e inclinazioni conservatrici si rivelano anche nel modo in cui guardava ai propri poteri sovrani, deducendoli semplicemente da quelli dei predecessori, identificandosi con essi, e facendo dei rapporti che ne derivavano le norme per il proprio agire. Ma, al di là di questo legame consapevole con la tradizione, il progetto di Stato messo a punto dallo Svevo, con particolare riferimento al Regno di Sicilia, alludeva chiaramente al futuro, nei suoi aspetti piú caratteristici: considerando lo Stato responsabile del benessere dei sudditi e del rispetto del diritto, rifiutando ogni ingerenza e controllo ecclesiastico in questo specifico campo di attività, creando una gerarchia amministrativa subordinata alla corte, impegnata in un raffinato lavoro di scrittura e, infine, richiedendo ai suoi funzionari specializzazioni e qualità morali straordinarie. Di sicuro può esser presa a modello la convinzione fondamentale di Federico – da lui sostenuta con passione e trasposta nella realtà – secondo la quale esercitare la sovranità significa prima di tutto garantire il diritto e la giustizia, cosí da assicurare la pace». In tutte queste componenti della concezione dell’impero, la pace riveste in effetti un ruolo fondamentale. In quanto garante della giustizia
I LUOGHI DI FEDERICO Termoli Fiorentino
S. Lorenzo in Pantano Foggia Ordona
Lucera Capua
Barletta Trani
Benevento
Melfi Lagopesole
Napoli
Salerno
Mare Adriatico
Monte Sant’Angelo
Castel del Monte Bari Brindisi
GravinaGioia del Colle
Potenza Matera Palazzo San Gervasio
Oria
Taranto
Lecce
Mar Ionio
Mar Tirreno Cosenza Catanzaro
Milazzo Messina
Palermo
Reggio Calabria
Catania Enna Augusta
Agrigento Gela
Siracusa
I castelli e le residenze di Federico II castello residenza torre
Mar Mediterraneo
porta
Veduta aerea di Castel del Monte, in Puglia, il piú celebre dei castelli federiciani. L’edificio, realizzato entro la metà del XIII sec., sorge isolato su una collina nel territorio delle Murge, tra Andria e Corato, in provincia di Bari. Lo spazio interno è articolato su due piani, comunicanti attraverso scale a chiocciola, e si sviluppa intorno a un cortile ottagono con otto torri angolari, anch’esse a pianta ottagonale. Castel del Monte fonde la tradizione classica alla tecnica costruttiva cistercense con richiami al gotico franco-renano nella decorazione scultorea, oggi quasi del tutto scomparsa. La sua funzione originaria è ancora discussa, ma appare prevalente la destinazione residenziale e celebrativa dell’edificio. 76
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Castel del Monte. Veduta del portale principale, orientato a levante. L’ingresso è decorato con due colonne scanalate ai lati sulle quali si imposta un finto architrave sormontato da un frontone.
NEL SEGNO DELLE DUE PERFEZIONI? Non abbiamo prove, né ci resta alcun documento, che attestino una sia pur breve presenza di Federico a Castel del Monte. Non è comunque imprudente ritenere che la costruzione sia stata avviata attorno al 1240. La sua originale forma ha suscitato, e continua a suscitare, molte interpretazioni: qualcuna fin troppo ardita. Tuttavia, l’edificio federiciano – che Federico non ha mai veduto terminato – racchiude indubbiamente un potenziale simbolico straordinario. La sua pianta ottagonale è stata posta in rapporto con la forma dei battisteri cristiani, come pure con l’architettura imperiale. Ma il nodo interpretativo piú forte riguarderebbe la suggestione che Federico riportò dalla visita dell’ottagonale Cupola della Roccia a Gerusalemme (tradizionalmente considerata il Tempio del Signore). Il problema sembra comunque risiedere soprattutto nel valore simbolico del numero di base della forma ottagonale, l’otto, nella tradizione cristiana. La forma ottagonale, intesa come risultante dall’intersezione di un cerchio e di un quadrato concentrici, fu interpretata nell’architettura sacra cristiana come intermedia fra quella della perfezione divina, il cerchio, e quella della perfezione naturale e umana, il quadrato. Era dunque naturale considerare l’otto come il numero per eccellenza del Cristo, che, in quanto Vero Dio e Vero Uomo, compendiava le due perfezioni.
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A destra Melfi (Potenza). Veduta di Porta Venosina, una delle porte urbiche aperte nella cinta muraria della cittadina. L’apertura, di epoca sveva, fu realizzata sull’antico tracciato verso Venosa e la via Appia. L’arco ogivale è del XIII sec., mentre la torre fu aggiunta nel XV sec. In basso il castello di Federico II a Rocca Imperiale (Cosenza). La costruzione sorge sul colle Pancrazio e domina tutte le vie d’accesso alla città vecchia. Il castello, opera saracena su un nucleo romano, fu distrutto dal terremoto e ricostruito in epoca normanna, e in seguito ampliato e restaurato da Federico II. Presenta pianta quadrangolare con torri angolari, due quadrate e due ottagonali.
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tolineato come il bene supremo della pace fosse obiettivo primario della sua missione imperiale, congiunto sempre alla iustitia, senza la quale la pace – intesa in senso profondamente agostiniano – è una parola vuota. Riconsegnare Federico II al suo tempo, insomma, non significa negare i caratteri di eccezionalità, di lungimiranza, di profondità della sua visione politica.
La Germania fuori controllo
L’opera di legislatore dimostra l’intenzione di Federico II di governare direttamente in Sicilia e in Italia, lasciando gli altri territori dell’impero sotto la sua influenza, ma piú liberi dal governo diretto. D’altro canto, egli sapeva bene di non poter controllare la Germania dove, anzi, lo stesso figlio Enrico non tardò a porsi alla testa A destra il sarcofago in porfido rosso, sormontato da baldacchino, in cui sono conservate le spoglie di Federico II. Palermo, Cattedrale. Nella stessa chiesa sono custoditi anche i resti della prima moglie di Federico, Costanza d’Aragona e del padre, Enrico VI, morto nel 1197.
e custode del suo popolo, l’imperatore è fons iuris e lex animata in terris; a lui spetta dunque il ruolo, addirittura il dovere di guidare la societas christianorum verso la felicità terrena garantita dal bonum commune. Non casualmente, nel corso della «crociata diplomatica» che lo condusse a un accordo con il sultano a proposito del possesso di Gerusalemme, Federico aveva sot-
dei ribelli. Catturato e condotto in prigionia, lo sventurato principe vi morí nel 1242. Intanto, la corona tedesca era passata a un altro figlio di Federico, Corrado. Ma nemmeno questi riuscí a governare tranquillamente: i nobili della fazione opposta gli misero contro, l’uno dopo l’altro, una serie di «antiré», tanto da poter dire che la Germania degli anni Quaranta SACRO ROMANO IMPERO
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La corte di Federico II a Palermo, olio su tela di Arthur Georg von Ramberg. 1865. Monaco, Neue Pinakothek. Nel dipinto l’imperatore, accompagnato da Pier delle Vigne e da Hermann von Salza, gran maestro dell’Ordine Teutonico, riceve una delegazione di ambascatori orientali. La corte palermitana di Federico, che accolse scienziati, matematici e letterati provenienti da tutto il Mediterraneo, è ricordata per essere stata un importante centro di produzione culturale.
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Federico II di Svevia
POETI E SAPIENTI ALLA CORTE DEL RE La Magna Curia, la corte siciliana di Federico II, rappresentò un centro di sperimentazioni culturali. Un ruolo speciale dev’essere assegnato alla vera e propria «scuola» poetica (nel senso di circolo fecondo di intellettuali in rapporto fra loro) che vi sorse: la tradizione poetica francese vi venne fusa con influenze provenienti da varie culture, soprattutto quelle greca e araba, e dette vita a un modo di poetare nuovo che si espresse in un linguaggio aulico e purissimo, un siciliano di qualità davvero elevata. Le poesie della Scuola Siciliana, insieme con il Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi, sono tra i fondamenti della letteratura italiana. Tra i poeti della Scuola Siciliana hanno rilievo gli stessi Federico II e i suoi figli Enzo e Manfredi. Oltre che poetici, gli interessi di Federico furono altresí scientifici e filosofici. Anche
in questo, egli seguiva in gran parte la tradizione dei sovrani normanni, alla corte dei quali erano stati ospiti in passato scienziati illustri, anche musulmani. Alla sua corte convennero studiosi tra i piú notevoli del tempo, come il matematico, filosofo e astrologo inglese Michele Scoto, formatosi presumibilmente tra Oxford e Parigi e poi a Toledo, allora centro della cultura ispanico-moresca, dove aveva appreso l’arabo, il che gli permise di tradurre alcune opere di Averroè e favorire cosí la diffusione delle teorie di Aristotele in Europa. Fra gli altri studiosi si possono ricordare Teodoro, un arabo cristiano, e Juda ben Salomon Cohen, grande enciclopedista ebreo. L’imperatore inviava inoltre molte questioni scientifiche ai dotti sparsi un po’ in tutto il bacino mediterraneo, e ne accoglieva con interesse le risposte.
Miniatura raffigurante la morte di Federico secondo la tradizione leggendaria che lo vuole ucciso dal figlio Manfredi, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. In realtà, l’imperatore morí il 13 dicembre del 1250 a Fiorentino di Puglia, per una grave infezione intestinale.
del XIII secolo non ebbe mai pace. Anche in Italia la situazione andava di nuovo verso la destabilizzazione. Federico incoraggiava, contro i Comuni, alcune signorie in mano a feudatari «ghibellini», cioè a lui favorevoli. Tra queste, la piú potente era quella veneta dei Da Romano, che governava su Padova, Vicenza, Verona e Treviso. Alla nuova lega antimperiale l’imperatore rispose con le armi, riportando una grande vittoria a Cortenuova (1237). Ma, dopo questo successo, la sua politica divenne ancor piú aggressiva, al punto da fornire a Gregorio IX un pretesto per scomunicarlo nuovamente (1239) e per indire un Concilio, che avrebbe dovuto metterlo definitivamente al bando dalla cristianità. Una tempestiva azione dell’imperatore, i cui fedelissimi Pisani presero addirittura prigionieri alcuni prelati che si recavano via mare al Concilio, e la scomparsa di Gregorio IX ritardarono la riunione ecclesiastica che avrebbe decretato la condanna di Federico.
La riconferma della scomunica
Ma il nuovo papa Innocenzo IV (1243-1254) riprese il programma del suo predecessore e indisse il Concilio a Lione, città fuori dal raggio di potere effettivo dell’imperatore, anche se formalmente soggetta al suo dominio in quanto
parte del regno di Borgogna. Il Concilio in effetti si tenne, e Federico ne uscí riconfermato nella scomunica e deposto, sebbene non tutta la cristianità accettasse i deliberati di un’assise svoltasi in condizioni non troppo chiare. In effetti, il papa aveva finto sino all’ultimo istante l’intenzione di patteggiare con l’imperatore; e molti si chiedevano se fosse opportuno un provvedimento cosí grave contro un re cristiano mentre altre minacce si stagliavano all’orizzonte (l’offensiva mongola contro l’Europa era di poco precedente). Tuttavia, quello fu un colpo gravissimo per il prestigio dell’imperatore, che ne risentí in maniera profonda. Dopo il 1245 la situazione, tanto in Germania quanto in Italia, cominciò per lui a precipitare; dopo l’abbandono del figlio Enrico, subí addirittura il tradimento (o credette di subirlo) del suo piú fidato consigliere in Sicilia, Pier della Vigna. Gli ultimi anni di Federico furono tristi: la cattiva salute, le ombre dei rovesci politici e militari (le sconfitte di Vittoria e di Fossalta contro i Comuni, nel 1248-49), l’ossessione del tradimento ne incrinarono la figura di signore sereno e magnanimo. La sua morte, a Fiorentino di Puglia, nel dicembre 1250, se sembrò sancirne la sconfitta politica, aprí al contempo le porte alla nascita del mito. SACRO ROMANO IMPERO
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MASSIMILIANO I D’ASBURGO
Il grande cacciatore Deciso a dare una connotazione multinazionale alla monarchia asburgica, Massimiliano I non riuscí a pieno nei suoi intenti, ma ebbe comunque un ruolo di spicco nello scacchiere politico europeo. Uomo di vasta e aperta cultura, è ricordato anche per la passione per i tornei e l’arte venatoria di Ludovica Sebregondi
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ato a Vienna il 22 marzo 1459 da Federico III e da Eleonora del Portogallo, Massimiliano d’Asburgo riuscí – anche grazie a un’accorta politica matrimoniale – a consolidare il potere dapprima nei territori asburgici, poi in Germania, e a essere infine eletto imperatore. L’espansione fu resa possibile dalle nozze, avvenute nel 1477, del diciottenne Massimiliano con Maria, discendente ed erede del duca di Borgogna. Rimasto vedovo, per cercare di assicurarsi il possesso dell’Italia settentrionale, sposò Bianca Maria Sforza, figlia del duca di Milano; tramite le nozze dei figli si legò poi alla Spagna e, nel 1515, grazie a un doppio fidanzamento, pose le basi per la fusione dell’Austria con la Boemia e l’Ungheria. Questa espansione dei domini asburgici, ottenuta attraverso unioni matrimoniali – le guerre furono condotte essenzialmente per conservare territori, non per conquistarne di nuovi – suggerí una nuova lettura della citazione di Ovidio: «Bella gerant alii, tu felix Austria nube» («Lascia la guerra agli altri, tu, Austria felice, sposa»). Massimiliano divenne reggente in Tirolo nel 1490 e Innsbruck, la capitale, ebbe sempre un posto preminente nella sua politica e nei suoi interessi sia per la posizione strategica sia per la ricchezza di cacciagione della zona. Piú del politico è vicino alla sensibilità moderna l’uomo Massimiliano, appassionato di banchetti, mascherate e soprattutto di ciò che
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Nella pagina accanto ritratto di Massimiliano I d’Asburgo, olio su tavola di Albrecht Dürer. 1519. Vienna, Kunsthistorisches Museum. In basso ritratto di Bianca Maria Visconti, affresco (strappato trasportato su tela) della bottega di Bernardino Luini. 1525-1530. Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco.
gli valse, in epoca romantica, la definizione di «ultimo cavaliere»: caccia, pesca e tornei. Tra gli Asburgo erano frequenti gli amanti dell’arte venatoria, ma Massimiliano li superò tutti. In Borgogna, patria della prima moglie, aveva imparato a conoscere l’arte venatoria come parte integrante della rappresentazione regale e come espressione di usi cortesi: trapiantò nelle sue terre la caccia a inseguimento a cavallo, detta Parforcejagd, ai cervi e la cattura delle anatre col falcone, considerati intrattenimenti per la componente femminile della corte.
Sotto gli occhi delle dame
Nella caccia al camoscio e allo stambecco, che aveva luogo in Tirolo, Massimiliano trovò componenti nuove: il coraggio e l’impegno sportivo, perché piú che gioco cortese era un esercizio irto di pericoli cui egli si appassionò particolarmente in quanto consono al suo carattere ardito. L’azione del grande cacciatore avveniva di preferenza davanti agli occhi delle dame che assistevano dalla vallata: per questo motivo la valle dell’lnn, con le sue rocce a picco e i suoi strapiombi, divenne l’ambito di attività preferito. È stato calcolato che all’epoca vi fossero nella zona circa 5000 camosci, divisi in 172 bandite. Nella prima fase della caccia, i cani spingevano le prede sulle rocce: in genere gli animali non venivano abbattuti da lontano con balestre o archibugi, ma i cacciatori si arrampicavano sulle
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Massimiliano I d’Asburgo rocce reggendo uno «spiedo», una lancia inastata lunga fino a quattro metri e mezzo, con la quale trafiggevano la bestia o la facevano precipitare a valle. Questa tecnica venatoria sembra essere stata inventata da Massimiliano. La caccia al camoscio non era solo un’esibizione ma una lotta sportiva che richiedeva molto esercizio e la giusta attrezzatura. L’imperatore, rifornito di pane, carne, formaggio, frutta e vino, si avviava alle 3 di notte e tornava solo a tarda sera, e quando le battute si svolgevano in luoghi molto lontani pernottava in baite o presso contadini. L’abbigliamento adeguato – verde e grigio per permettere al cacciatore di mimetizzarsi – era costituito da pantaloni e da un farsetto con le maniche strette per evitare di restare impigliati, due paia di scarpe, un elmetto che riparasse dalla caduta di sassi, un cappello grigio con il risvolto ripiegato e, in inverno, da ghette di lana da indossare sopra pantaloni e scarpe. L’equipaggiamento consisteva in ramponi – sostituiti nella stagione fredda da racchette da neve – un coltello e due «spiedi» per la caccia. Nonostante l’accurata preparazione, il Theuerdank – un poema cavalleresco nel cui eroe Massimiliano raffigurò se stesso – descrive molti incidenti occorsigli durante le cacce: la sua vita, infatti, fu piú volte messa in pericolo da cadute di sassi, slavine, frane.
Cappucci e richiami
La falconeria costituiva invece – contrariamente a quella al camoscio – un tipo di caccia tipicamente femminile e una delle piú antiche forme di attività venatoria cortese. Al Kunsthistorisches Museum di Vienna sono tuttora conservati cappucci per falcone in cuoio pressato impreziositi da stemmi dorati, appartenuti a Massimiliano e a sua moglie Bianca Maria. Venivano messi sul capo dei falchi e non avevano aperture per gli occhi, affinché gli animali rimanessero quieti prima di essere aizzati. Nello stesso museo sono custoditi anche richiami di broccato dorato con ciuffi di piume a imitare un piccolo uccello, con i quali si attiravano i falconi dopo che avevano afferrato la preda e che venivano offerti in cambio dell’animale catturato. Sul corsetto indossato da Bianca di Savoia nel ritratto dipinto da Bernhard Strigel nel primo decennio del Cinquecento – oggi al Ferdinandeum di Innsbruck – è ricamata una scena di caccia agli uccelli acquatici con il falco, a dimostrazione del legame di questo tipo di arte venatoria con la componente femminile della corte. La caccia col falcone aveva luogo nei castelli 84
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SANO E SALVO GRAZIE A UN ANGELO Un’avventura occorsagli durante una caccia al camoscio è quella detta della «Martinswand»: nella foga, Massimiliano si era arrampicato sulla scoscesissima parete, da cui non riusciva piú a scendere, tanto che la corte, che assisteva dalla vallata, fece chiamare un sacerdote che gli mostrò da lontano come viatico un’ostia consacrata. Nel momento di maggior pericolo un angelo – o un cacciatore, a seconda delle versioni della vicenda – gli avrebbe indicato un sentiero prima non visibile. Come attestano cronache coeve, quest’episodio è avvenuto realmente, solo il salvataggio è arricchito di elementi leggendari. La parete detta «Martinswand» si innalza a ovest di Innsbruck quasi improvvisamente dalla pianura e poiché nei pressi vi era un piccolo castello di caccia, era particolarmente amata da Massimiliano, perché le dame della corte potevano assistere alle varie fasi della battuta dalle finestre dell’edificio. Sotto alla parete rocciosa passava inoltre la strada e si realizzava dunque un insolito connubio: la caccia al camoscio, di solito poco visibile a causa della impervietà delle zone in cui vive la specie, si trasformava in una caccia-spettacolo, cui potevano presenziare le dame della corte e i sudditi. A seconda delle diverse narrazioni, l’avvenimento avrebbe avuto luogo tra il 1504 e il 1607. Massimiliano stesso portò in seguito un crocifisso in un punto vicino a quello in cui era rimasto immobilizzato, quale ringraziamento per lo scampato pericolo. Nel Theuerdank è raffigurata una caccia al camoscio sulla scoscesa Martinswand, con Massimiliano che lancia lo «spiedo» mentre le dame assistono comodamente sedute nella vallata. La scena del pericolo corso da Massimiliano e del suo salvataggio ha offerto spunto per molti dipinti del romanticismo storico.
In alto L’imperatore Massimiliano sulla Martinswand, olio su tavola di Moritz von Schwind. 1860. Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. A destra la pesca in un’illustrazione tratta dal Tiroler Fischereibuch Kaiser Maximilians I. 1504. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. Nella pagina accanto ritratto di Massimiliano I come re, olio su tavola attribuito alla bottega di Bernhard Strigel. Post 1507. Augusta, Staatsgalerie in der Katharinenkirche.
facilmente raggiungibili da Innsbruck ed era rivolta soprattutto alle anatre, che si concentravano nelle zone paludose: per tal motivo fu spesso legata alla pesca, altro importante svago cortese. Massimiliano regolò la pesca, che non serviva solo come passatempo, ma anche per approvvigionare la corte nei giorni in cui la Chiesa prescriveva pasti «di magro». Un «maestro della pesca» doveva sovrintendere all’attività, provvedendo alla sua organizzazione come passatempo della corte, al rifornimento della mensa reale e all’allevamento ittico. Nei numerosi corsi d’acqua, stagni, laghi e laghetti artificiali era presente un gran numero di varietà di pesci quali trote, temoli, lucci e persici, variamente catturati per mezzo di ami, reti o nasse; grazie a un’idea dell’imperatore fu introdotto l’uso di botticelle con le quali i pesci catturati vivi venivano portati nelle cucine reali. I laghi preferiti di Massimiliano erano quelli di Heiterwanger e di Achen, incuneati tra le rocce di alte montagne: poteva perciò cacciare camosci e cervi e poi riposarsi pescando. Sul lago di Achen l’imperatore aveva fatto erigere un edificio per gli ospiti e trasportare barche sulle quali la corte poteva compiere gite e ammirarlo mentre era impegnato nella caccia. SACRO ROMANO IMPERO
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Massimiliano I d’Asburgo
L’IMPERO DI MASSIMILIANO Un sovrano dal profilo multiforme, descritto dai biografi come audace e astuto e, talvolta, come debole e ingenuo. Amante della cultura e nello stesso tempo degli svaghi piú frivoli, era noto nelle cancellerie europee soprattutto per la sua imprevedibilità. Di lui si ricorda anche l’inquietante giudizio formulato da Nicolò Machiavelli, che fu ambasciatore alla sua corte e che lo definí uno degli uomini piú bellicosi del mondo, riconoscendo, tuttavia, nel carattere del monarca doti di lealtà. Ma chi fu veramente Massimiliano I d’Asburgo? Al di là dell’indole contraddittoria, la sua ascesa segnò un mutamento significativo negli assetti politici continentali, a cavallo tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento. Le nozze con Maria, figlia di Carlo il Temerario duca di Borgogna, avevano inizialmente orientato la sua sfera d’azione in quella turbolenta regione, minacciata
dall’espansionismo dei reali di Francia; in seguito si trovò impegnato nei Paesi Bassi per fronteggiare le rivolte locali contro la sua reggenza, stabilita dalla pace di Arras del 1482. L’abilità nel mestiere delle armi – si dice che amasse coniare nomi per i propri cannoni – e una notevole intelligenza strategica facilitarono la sua affermazione e ne consolidarono il prestigio. Il suo tirocinio politico, quando l’età di Mezzo stava volgendo ormai al termine, poté ritenersi brillantemente completato, tanto da spingere il padre – il sovrano Federico III d’Asburgo – a investirlo della successione al vertice del Sacro Romano Impero. Siamo nel 1486. La futura incoronazione lo pose ben presto di fronte a sfide di portata epocale: la macchina amministrativa centrale, in virtú delle lotte tra particolarismi, andava riformata e Massimiliano la rese piú funzionale. Nel 1495 a Worms, sottoscrisse un trattato di
La famiglia di Massimiliano I, olio su tavola di Bernhard Strigel. Post 1515. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il dipinto fu voluto per commemorare il doppio matrimonio di Vienna del 1515 e il conseguente legame tra gli Asburgo e la famiglia reale jagellonica: vi compaiono, da sinistra, Massimiliano I e la prima moglie Maria di Borgogna (morta piú di trent’anni prima); fra i due, il figlio Filippo il Bello (morto nel 1506) e in primo piano i i nipoti di Massimiliano, i futuri imperatori Carlo V (al centro) e Ferdinando I (a sinistra), nonché, a destra Ludovico, erede dei regni di Ungheria e Boemia.
«compromesso» che istituiva una Camera dell’Impero (Reichskammergericht), alla quale fu dato il compito di risolvere le controversie tra governo centrale e poteri locali, sancendo il divieto di guerre private e una pace pubblica destinata a durare per molti anni. Secondo lo storico inglese Peter H. Wilson, il provvedimento fermò le violenze e spinse i proprietari dei feudi a un atteggiamento piú collaborativo per il bene comune dell’impero. Dal confronto con gli agguerriti rappresentanti dei territori il sovrano uscí da vero e proprio trionfatore, considerando il peso di altri provvedimenti che riuscí a imporre: con la ratifica di un’imposta generale comune e l’istituzione di un esercito permanente varò misure centraliste, che compensarono ampiamente alcune concessioni di autonomia introdotte. Sfruttò la Dieta di Worms, inoltre, per rastrellare risorse necessarie alla campagna militare in
Italia contro il re francese Carlo VIII, in virtú dell’appartenenza alla Lega di Venezia composta da Stato pontificio, Serenissima, regno di Napoli e Sforza di Milano. Iniziative belliche, sempre in funzione antifrancese, vennero poi replicate nel 1512 con l’adesione a una nuova Lega Santa, promossa da papa Giulio II, che comprendeva Veneziani, Spagnoli, Inglesi e i cantoni svizzeri. Sul piano della politica internazionale, nei primi anni del XVI secolo, Massimiliano si preoccupò di mettere in sicurezza i confini imperiali, stipulando trattati con i regni vicini. Per raggiungere tale obiettivo, mise in atto anche la celebre, già citata, strategia di matrimoni, immortalata dal motto sulle attitudini «diplomatiche» degli Asburgo: «Bella gerant alii, tu felix Austria nube» («Lascia la guerra agli altri, tu, Austria felice, sposa»). Francesco Colotta
Spesso venivano organizzati banchetti all’aperto, veri e propri picnic a base dei pesci catturati e della cacciagione uccisa. Seguivano balli e talora avevano luogo importanti colloqui politici. Anche la popolazione poteva, però, godere di qualche privilegio: fu proprio Massimiliano a stabilire che alle donne incinte che «avessero voglia» di pesce, fosse consentito di pescare in ogni lago utilizzando le lenzuola di casa. Nel corso delle battute di caccia la popolazione poteva poi sottoporre al sovrano qualsiasi genere di richiesta e i segretari dovevano seguirlo per annotare le petizioni dei sudditi.
Sessantaquattro duelli
Al pari dell’attività venatoria piú rischiosa, Massimiliano amava la pratica sportiva attiva: non l’assistervi, ma l’esercitarla e dunque i tornei occuparono un posto di rilievo nella vita di corte poiché rappresentavano insieme una festa cortese e una tenzone agonistica. Il Freydal è un’opera letteraria nel quale sono riportati, con disegni esplicativi e annotazioni, tutti i sessantaquattro duelli ai quali l’imperatore prese parte. Le armature erano appositamente realizzate per gli scontri: Norimberga e Milano erano tra i principali centri di produzione, ma Massimiliano creò a Innsbruck un’officina per la realizzazione di armature affidandola a Konrad Seusenhofer, il corazzaio di corte, costantemente impegnato a soddisfare le richieste dell’imperatore. Nonostante il suo grande amore per Innsbruck, Massimiliano – a causa degli enormi debiti che aveva contratto – dovette abbandonare il centro tirolese perché dalla cittadinanza gli venne ri-
fiutato un ulteriore diritto di soggiorno. L’imperatore morí sulla via per Vienna nel 1519 e fu sepolto a Wiener Neustadt; egli stesso, però, aveva progettato per sé e la famiglia un grandioso monumento sepolcrale nel quale la sua figura a grandezza naturale sarebbe stata circondata da quaranta statue di antenati e parenti, trentaquattro busti di imperatori romani e da un centinaio di piccole immagini di santi della famiglia Asburgo, tutti in bronzo. Alla sua morte, solo una parte delle figure era stata ultimata, ma il cenotafio fu poi condotto a termine quasi mezzo secolo dopo e per esso venne costruita la chiesa di corte del capoluogo del Tirolo.
Agosto (o Segno della Vergine o Il segugio), particolare dell’arazzo di produzione fiamminga noto come Cacce di Massimiliano. 1528-1533. Parigi, Museo del Louvre.
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CARLO V
Il signore del sole perenne Consacrato imperatore nel 1520, Carlo V si vantò d’essere arrivato a dominare un territorio cosí vasto da non vedere mai il tramonto. Nelle sue mani, in effetti, si concentrò un potere smisurato, ma difficile da conservare di Franco Cardini
P
er indicare l’insieme delle entità politiche, diverse ma non troppo, di cui furono a capo Carlo d’Asburgo e i suoi successori, si sono usate parole differenti. Carlo fu sia imperatore sia re; ne è celebre la firma usata in età matura e considerata arrogante, «Yo el Rey»: ma il numerale che segue il suo nome – «quinto» nella tradizione imperiale romano-germanica, «primo» in quella castigliana e aragonese, poi trasferita nella realtà spagnola quando essa divenne nazionale – sottolinea una sorta di ambiguità, un che d’incertezza al di là della chiara distinzione dinastico-istituzionale. La duplicità della denominazione è dovuta al fatto che nella linea dinastica dei regni di Castiglia e Aragona egli si trovava a essere il primo a portare questo nome, tanto che il suo successore omonimo sul trono madrileno, il suo trisnipote incoronato nel 1665, prese il nome di Carlo II. L’aggettivo «quinto», per il nostro Carlo, si riferisce invece all’ufficio d’imperatore del Sacro Romano Impero e non ha nulla a che fare con la congerie di regni e di principati che, da Filippo II al collasso della guerra di successione del 1700-14, qualcuno ha chiamato «impero spagnolo» o, come forse meglio sarebbe definirla alla maniera di Tommaso Campanella, «monarchia di Spagna». Si potrebbe sostenere che l’impero di Carlo V si sia costituito nelle sue dimensioni e nella
sua complessità grazie a una buona strategia matrimoniale e ad alcuni eventi tristi e luttuosi, morti e pazzie del tutto imprevedibili. La politica matrimoniale era considerata uno strumento di governo e veniva praticata da secoli con piena consapevolezza da tutte le famiglie regnanti. Ma ci voleva una certa fortuna perché essa funzionasse: e in pochi casi come questo, la rosminiana «eterogenesi dei fini» ha mostrato tutta la sua potenza.
Ascendenze illustrissime
Nell’anno 1500 la macchina familiare, che dominava ogni rapporto politico europeo, fece scattare il primo elemento di un congegno destinato ad aprire al Continente una grande possibilità: nacque a Gand Carlo d’Asburgo, figlio di Filippo «il Bello» d’Asburgo e di Giovanna «la Pazza» di Castiglia-Aragona (due epiteti non si sa fino a che punto giustificati). Comunque, soprattutto, il fanciullo nato nella bella città fiamminga era, appunto, nipote, per parte di madre, di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d’Aragona – i «re cattolici» signori, dopo aver eliminato l’ultimo emirato moro andaluso, di quasi tutta la Penisola iberica (regno del Portogallo escluso) – e, per parte di padre, dell’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I d’Asburgo e di Maria figlia di Carlo «il Temerario» duca di Borgogna. Un albero genealo-
Carlo d’Asburgo, olio su tela di Bernart van Orley. 1516 circa. Napoli, Museo di Capodimonte. Il futuro imperatore è qui ritratto all’età di quindici o sedici anni, prima d’essere incoronato re di Spagna (1516); sfoggia il prezioso collare del Toson d’Oro. Nella pagina accanto ritratto equestre di Carlo V, olio su tela di Anton van Dyck. 1620-1625. Firenze, Galleria degli Uffizi.
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Carlo V
A destra miniatura raffigurante i genitori di Carlo V, Filippo il Bello e Giovanna la Pazza, che ricevono da Pedro Marcuello il suo Devocionario de la reyna doña Juana. 1492-1504. Chantilly, Musée Condé.
In alto il Beffroi (torre civica) di Gand, la città belga che, nel 1500, diede i natali a Carlo d’Asburgo. gico impressionante, che ne faceva il discendente diretto, anche se non principale, di quasi tutte le case regnanti d’Europa. Benché alla sua nascita niente lo facesse prevedere, una serie di avvenimenti luttuosi e di crisi psicologiche – come la depressione della madre (la «follia») che si scatenò nel 1506 alla scomparsa del padre e che la costrinse a viver reclusa nel castello di Tordesillas fino alla morte, nel 1555 – fecero sí che in pochi anni, dal 1516 al 1519, si concentrassero sulla fronte del 90
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giovane principe le corone appartenute a tutti e quattro i nonni, cominciando dalla complessa eredità di Borgogna per finire con l’elezione imperiale. La macchina dinastica compí per successive selezioni un «casuale» capolavoro, riunificando in maniera del tutto pacifica buona parte del Continente. Ferdinando d’Aragona, che pur non riuscendo a unificare i due regni castigliano e aragonese sotto una stessa corona – come sarebbe pur stato suo auspicio – aveva ottenuto dalle Cortes
il diritto di governarli entrambi, data la morte dell’uno e l’inabilità dell’altra dei legittimi eredi del trono castigliano, scomparve nel 1516: e, sotto la reggenza del cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, francescano e arcivescovo di Toledo, l’irrequietezza della nobiltà fu severamente sorvegliata e la corona poté passare al sedicenne Carlo, appena divenuto maggiorenne – una provvidenziale tempestività –, secondo le norme e le consuetudini del tempo. Tre anni dopo, uscí dalla scena di questo mondo anche Massimiliano d’Asburgo, nonno paterno di colui ch’era già da tre anni Carlo I di Castiglia e d’Aragona: il quale ereditò gli estesi, avíti possessi familiari della dinastia il cui nucleo era costituito dalla corona ducale (arciducale dal 1453) ereditaria d’Austria nonché dai pretesi diritti su quella, parimenti ereditaria, di Borgogna; che tuttavia nel 1477, all’atto della scomparsa della duchessa Maria, consorte di Massimiliano, era stata unita da Luigi XI di Francia al suo regno. In effetti il ducato borgognone era stato istituito come «feudo d’appannaggio» nel 1363 – all’indomani della pace di Bretigny del 1360, che aveva segnato una battuta d’arresto nella guerra dei Cent’Anni – da Giovanni «il Buono» re di Francia per suo figlio Filippo, che nel 1369 aveva sposato Margherita, erede della contea di Fiandra. In linea giuridica, il diritto del sovrano francese di rievocarla a sé era sostenibile, anche se non si potevano escludere contestazioni dagli eredi della duchessa Maria: il vedovo Massimiliano d’Asburgo, il loro figlio Filippo, il nipote Carlo. Questi, a sua volta, non esitò a presentarsi come candidato al collegio dei sette principi elettori che, secondo il dettato della Bolla d’Oro emanata nel 1356 dall’imperatore Carlo IV, erano incaricati di scegliere l’erede alla corona regale elettiva di Germania, il quale – come «re dei Romani» – avrebbe avuto il diritto di cingere a Roma, ricevendola dal papa, quella imperiale del Sacro Romano Impero.
Un regno vasto come un continente
Quando Carlo V venne eletto imperatore, nel 1519, i suoi domini coprivano piú di metà del Continente e comprendevano almeno formalmente, al loro interno, tutti i suoi centri maggiori, con l’unica eccezione di Parigi. Dalla nonna materna Isabella, Carlo aveva ereditato la guerriera e pastorale Castiglia, che comprendeva il nord-ovest, ma anche le conquiste effettuate nel sud della Penisola iberica, dove era stato da poco sottomesso anche l’ultimo emirato musulmano, quello di Granada. Casti-
Ritratto di Carlo il Temerario duca di Borgogna, olio su tela attribuito a Joseph Kis. 1860. Trieste, Castello di Miramare.
gliane erano anche le terre scoperte oltreoceano, le Indie occidentali, dalle quali giungevano rimesse economiche sempre piú consistenti. Dal nonno Ferdinando, egli aveva ricevuto invece un complesso di regni che si affacciavano sul Mediterraneo occidentale e fondavano la propria economia sul commercio. Si trattava del regno d’Aragona, dal quale Ferdinando traeva la denominazione sovrana, nonché di quello di Valencia, della contea di Barcellona, dei regni di Sardegna, di Sicilia e di Napoli. Anche la Navarra era stata, quanto meno in parte (l’Alta Navarra), occupata e annessa fino dal 1512 ai domini aragonesi: ma il suo status non era ancora risolto, poiché il re di Francia ne contestava la legittimità. I Paesi Bassi – gli attuali Belgio, Olanda e Lussemburgo, allora suddivisi in una cinquantina di domini diversi – e la Franca Contea venivano SACRO ROMANO IMPERO
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Carlo V
consentí di intensificare. Infine veniva l’eredità asburgica: ossia l’Austria, la Stiria, il Tirolo, la Carniola e la Carinzia.
Un titolo formalmente elettivo
Jacob Fugger nel suo ufficio con il contabile Mattäus Schwarz. 1517. Braunschweig, HerzogAnton-Ulrich Museum. A destra, in alto incisione raffigurante l’incoronazione di Carlo V a imperatore, il 23 ottobre 1520, nella cattedrale di Aquisgrana, alla presenza dei sette principi elettori.
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a Carlo dalla nonna paterna, Maria di Borgogna. Ma la Borgogna vera e propria, dalla quale derivava il titolo ducale, mancava all’eredità, dato che il re di Francia – in base, come già s’è detto, a titoli abbastanza legittimi, sul piano giuridico – si era reimpadronito del ducato sfruttando la situazione di crisi creatasi al momento della scomparsa di Carlo il Temerario. L’eredità della nonna paterna di Carlo costituiva una delle aree piú ricche e avanzate d’Europa, nella quale fiorivano un opulento commercio e una brillante produzione artistica. L’unico parallelo possibile all’epoca era con le regioni dell’Italia centro-settentrionale, con le quali i Paesi Bassi avevano scambi intensi e continui, che la comune appartenenza alla monarchia
Diverso era il discorso relativo al titolo di imperatore del Sacro Romano Impero, appartenuto a suo nonno, ma ancora elettivo – tale sarebbe sempre rimasto dal punto di vista formale – e quindi non trasmissibile in linea dinastica ereditaria. Per ottenere anche la corona di re di Germania (cioè, come si diceva, «dei Romani»), che comportava per chi ne fosse titolare il diritto di cingere, ricevendola dalle mani del pontefice romano, quella d’imperatore del Sacro Romano Impero – dotata peraltro della prerogativa per chi la portasse di esercitare il ruolo di fons iuris, di conditor legis, cioè di poter emanare leggi nuove, ma caratterizzata altresí da poteri concreti piuttosto indeterminati –, fu necessario che Carlo V passasse attraverso un’elezione, che fin dalla Bolla d’Oro emessa nel 1356 da Carlo IV di Boemia spettava di diritto ai sette principi elettori (tre ecclesiastici e quattro laici), rappresentanti della nobiltà tedesca depositaria del diritto elettorale stesso. La dignità spettava al conte del Palatinato, al duca di Sassonia, al margravio di Brandeburgo e al re di Boemia, nonché agli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri. Durante la guerra dei Trent’Anni, il
seggio del Palatinato sarebbe stato trasferito nel 1623 a Massimiliano duca di Baviera. Carlo e i suoi collaboratori, in particolare i suoi banchieri, dovettero impegnarsi molto per ottenere i voti necessari all’elezione, in concorrenza con le pretese avanzate da Francesco I di Francia e da Enrico VIII d’Inghilterra. Carlo di Castiglia e Aragona aveva, come pretendente al trono imperiale, un concorrente temibile: il re di Francia Francesco I, deciso a non lesinare né il peso del suo potere e della sua autorevolezza, né l’oro dei suoi forzieri, per indurre i principi elettori a preferirlo al rivale. Tuttavia la memoria della casa d’Asburgo, cui i principi tedeschi avevano assegnato ininterrottamente la corona regale del loro Paese fino dal 1438, ben sostenuta dal denaro profuso dal banchiere Jacob Fugger in appoggio di Carlo, fece sí che quest’ultimo prevalesse nella dieta degli Elettori, riuniti, secondo la tradizione, nel palazzo del Römer di Francoforte nel giugno del 1519, a sei mesi dalla morte dell’imperatore Massimiliano. La diplomazia asburgica era riuscita anche a convincere i grandi Elettori che Carlo era «il piú tedesco» dei candidati, anche se in realtà egli era tale solo per un quarto (quello paterno del nonno Massimiliano) e, pur nato in una città fiamminga, proveniva da un ambiente culturale d’origine rigorosamente borgognona, quindi francese: e in quella lingua si esprimeva. I banchieri Fugger avevano provveduto a fornire la massa impressionante di denaro liquido necessaria a sostenere in modo concreto la pretesa, e del cui impiego ci è rimasta una meticolosa contabilità. Per ottenere i voti furono versati 852 189 fiorini. A ricevere la cifra piú consistente fu il principe elettore palatino – il piú esposto alle sollecitazioni francesi –, che ebbe 139 000 fiorini, oltre a 8000 usati per garantire l’atteggiamento favorevole dei suoi collaboratori.
UN’ALLEANZA INDISPENSABILE Tra Cinque e Seicento, Genova, fedele all’impero e all’alleanza con la Spagna, conobbe una nuova vita e un rinnovato splendore. La città non dipendeva se non in modo formale (in quanto città del regnum Italiae) da Carlo V e dai suoi successori: il rapporto della repubblica con la complessa realtà istituzionale che faceva capo al sovrano era piú simbiotico che gerarchico. Furono le armi a portarla dentro la compagine asburgica nel 1522: ma essa trovò senza difficoltà una collocazione al suo interno capace di offrire a tutti vantaggi e opportunità. Del resto, buoni rapporti esistevano già con i re cattolici, con i quali era stata stipulata nel 1493 una convenzione pacifica per la tutela delle attività dei mercanti e dei banchieri genovesi a Siviglia. Genova era necessaria alla monarchia: era il porto del Nord Italia. Il collegamento territorial-marittimo fra le quattro componenti dei possedimenti asburgici – iberica, borgognona, italica e tedesca – seguiva la rotta che da Barcellona portava a Genova (e da entrambe in Sardegna, in Sicilia e a Napoli) e quindi la strada che raggiungeva Milano al di là degli Appennini e poi attraversava le Alpi, dalla Valtellina in direzione delle Fiandre e dal Brennero verso l’impero. Ma Genova era molto piú di un porto di transito: era una potenza navale, commerciale e finanziaria, la capitale di un vero e proprio impero, che all’inizio del Cinquecento si trovava ad affrontare una crisi violenta. L’avanzata dei Turchi ottomani stava distruggendo il sistema coloniale che i Genovesi avevano creato in Oriente. L’appartenenza alla monarchia consentí di far corrispondere alla ritirata a est un rigoglioso sviluppo a ovest. Come ha detto lo storico Fernand Braudel, «Genova perde un Impero, e ne ricostruisce un secondo». Nuove colonie commerciali nacquero a Siviglia, a Lisbona, a Medina del Campo, ma anche ad Anversa; un potere che da commerciale divenne sempre piú finanziario, si sviluppò e crebbe insieme alla «monarchia asburgica di Spagna», e con essa conobbe la stasi e poi il declino. La repubblica di Genova sopravvisse di pochi decenni alla scomparsa della monarchia, ma il potere finanziario del suo ceto imprenditoriale era nel pieno del fulgore.
Sette voti su sette
Il 28 giugno 1519 avvenne l’elezione, con sette voti a favore su sette, per quanto in un clima non propriamente sereno. Il danaro, da solo, non era bastato. Altre forme di pressione erano subentrate all’ultimo istante. L’elettore del Brandeburgo fece autenticare una dichiarazione secondo la quale egli votava «sotto l’influenza della paura e non per certa coscienza»: ciò anche per lo spiegamento militare organizL’incontro del 1538 tra l’imperatore Carlo V, papa Paolo III e Andrea Doria di fronte a Genova, in un olio su tela di autore anonimo. Scuola fiamminga, XVI sec. Genova, Museo Navale di Pegli. SACRO ROMANO IMPERO
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Carlo V Carlo V ritratto con le insegne imperiali, olio su tela. Fine del XVI sec. Nella pagina accanto, in basso il castello dei conti di Fiandra a Gand, nel quale Carlo V s’insediò durante la repressione della rivolta scoppiata nella città nel 1539.
I FAUTORI DELL’UNIVERSALISMO CATTOLICO L’idea d’impero come respublica christiana, inquadramento della Chiesa latina in temporalibus, era stata espressa in maniera compiuta da Dante nel De Monarchia, riveduta da Marsilio da Padova nel Defensor Pacis, sancita in termini giuridici dalla riforma elettorale voluta da Carlo IV, che regolava l’accesso alla corona imperiale e aveva infine trovato conferma negli scritti di Pio II e di Erasmo da Rotterdam, punto di riferimento di tutti gli umanisti d’Europa. Anche nella riflessione politica il passaggio dal Medioevo alla modernità non fu brusco. Interpreti del pensiero universalistico cattolico presso l’imperatore Carlo V furono fra gli altri i gran cancellieri Jean de Sauvage e soprattutto Mercurino Arborio di Gattinara, un Piemontese nutrito di spirito rinascimentale, che era vissuto a Bruxelles alla corte di Margherita d’Austria, di cui fu consigliere dal 1518 al 1530. L’Arborio ne fu consigliere dal 1518 al 1530. Anche Adriano da Utrecht, che nei Paesi Bassi fu fra i precettori del futuro imperatore, poi governatore di Castiglia al tempo della rivolta dei comuneros e infine pontefice dal 1522 al 1523 col nome di Adriano VI, ultimo papa non italiano prima di Giovanni Paolo II, era un intellettuale formatosi all’interno di una concezione rinnovata e universale del cattolicesimo. Fra le molte figure che circondarono Carlo V fu comunque quella di Mercurino Arborio a rappresentare in maniera piú compiuta la concezione continentale del suo ruolo imperiale e a immaginare di collegarla all’obiettivo della ridefinizione della respublica christiana. L’incontro tra il futuro monarca e il dotto Piemontese portò all’elaborazione di un progetto che si basava – al di là delle dipendenze formali di territori appartenenti al regnum Italiae, la corona del quale era collegata a quella di Germania fin dalla riforma di Ottone I, nel X secolo – sul controllo effettivo del ducato di Milano, conquistato nel 1521, e della repubblica di Genova, acquisita all’area d’influenza imperiale nel 1522, per realizzare una «continuità territoriale» (in realtà territorial-marittima) dei domini di Carlo V sulla quale fondare ogni successiva espansione.
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zato dagli Asburgo al fine di accrescere la pressione sugli Elettori. Del resto l’elettore brandeburghese, il quale aveva garantito il proprio appoggio a Francesco I, non ottenne dai banchieri di Carlo V nessuna forma di ricompensa per il voto. Con l’elezione si completava la parte pacifica del progetto di riunificazione europea, che la politica matrimoniale degli Asburgo aveva realizzato. Ma si può parlare di progetto, cioè di obiettivo conseguito con consapevolezza all’interno di una strategia di largo respiro? O non si trattò piuttosto del frutto di una serie di avvenimenti casuali, che produsse una possibilità appena latente, che solo con gli occhi del futuro pretendiamo di riconoscere nella filigrana del tempo?
Sul modello dell’impero di Roma
Non si deve cadere in un anacronismo: la consapevolezza progettuale della quale andare in cerca nella riflessione dei responsabili politici della monarchia non può essere quella moderna, relativa alla costruzione di una realtà nazionale allargata, simile a ciò che sta (forse) nascendo con fatica e non senza battute d’arresto e perfino inversioni di tendenza in Europa a partire dal secondo dopoguerra. Né Carlo V, né i suoi collaboratori, avrebbero mai potuto pensare a qualcosa del genere. L’unità politica alla quale riferirsi non poteva che essere quella dell’impero romano, filtrata e trasformata da Carlo Magno – del quale Carlo V portava nome e titolo – nell’esperienza del cosiddetto Sacro Romano Impero, che aveva accolto i valori mo-
rali e spirituali del cristianesimo, limitati comunque alla cristianità linguisticamente, giuridicamente e liturgicamente latina. Nei numerosi scritti redatti da Carlo V di cui disponiamo, nei quali l’imperatore espone il suo pensiero strategico, o almeno delinea motivi e obiettivi delle sue scelte, non troviamo lucide presentazioni di progetti tesi alla costruzione di uno Stato cristiano che sia assimilabile all’Europa unita. Almeno non nel senso nel quale noi la intendiamo oggi, quando pensiamo a una costituzione, a un parlamento, a leggi e a un governo comuni. Né sarebbe stato possibile che qualche cosa di simile ci fosse. Carlo V era un uomo del Cinquecento, formatosi nell’opulenta ma tradizionalista corte borgognona, che viveva nella memoria delle imprese dei grandi duchi della dinastia e di Carlo il Temerario in particolare, imbevuta di etica cavalleresca. Neppure il concetto di governo nel senso moderno del termine era stato elaborato. La fase piú dinamica in assoluto del regno di Carlo V fu probabilmente quella iniziale, quando prese forma il sistema della monarchia (intesa appunto come sistema d’equilibrio tra la componente imperiale germanico-italica, le terre ereditarie austriache e fiammingo-borgognone e i regni iberici con gli annessi italomeridionali e americani) e si gettarono le basi per l’organizzazione di un complesso politico sul quale il suo iniziatore regnò per quasi un quarantennio. La maggiore età del sovrano, dichiarata nel 1516 al compimento del suo sedicesimo anno, gli conferiva il diritto di succedere ai troni dei quali erano titolari tre dei suoi nonni: si univano cosí nella sua persona i titoli
Allegoria dei domini di Carlo V, olio su tela di Johann Nepomuk Geiger. 1868. Trieste, Castello di Miramare.
di re di Castiglia al quale erano legati i possedimenti delle Indie occidentali – in tumultuosa espansione –, d’Aragona – collegato con le corone di Valencia, Sicilia, Napoli e Sardegna –, nonché di Navarra (sulla quale pendeva però una contestazione di parte francese), e infine il sistema di territori spettanti al detentore del titolo di duca di Borgogna (regione alla quale nel 1405 si era unita la contea di Fiandra, in seguito al matrimonio tra il duca Filippo l’Ardito e la contessa Margherita III). La situazione borgognona era particolare, dato che le guerre sfortunate e la morte prematura sul campo di battaglia di Carlo il Temerario avevano privato la dinastia del territorio d’origine del titolo, corrispondente a una
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IL SACCO DI ROMA Cosí Francesco Guicciardini racconta il Sacco di Roma, compiuto dalle truppe imperiali di Carlo V nel 1527: «Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all’autorità e degnità de’ prelati, ma eziandio a’ templi a’ monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre (...) Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e numero grande de’ prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da’ soldati, massime da’ fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne’ tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dí la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (...), eccetto quegli palazzi che, per salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e cosí le persone e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari: e alcuni di quegli che composeno con gli Spagnuoli furono poi o saccheggiati dai Tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro (...) Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da’ soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a’ mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi (...) erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi» (Storia d’Italia, XVIII, 8-14).
Francesco I re di Francia a cavallo, olio su tavola di François Clouet. 1540. Firenze, Galleria degli Uffizi. In basso Carlo III, duca di Borbone, guida le truppe imperiali che si danno al Sacco di Roma, che ebbe inizio il 6 maggio del 1527, incisione di Cornelis Boel, dalla serie dei Trionfi di Carlo V. 1614. New York, The Metropolitan Museum of Art. regione e a un principato sui quali il re di Francia continuava a rivendicare la signoria eminente. L’eredità che giunse a Carlo V dalla nonna paterna comprendeva regioni in differenti momenti aggregatesi al ducato di Borgogna, come la Franca Contea, lo Hainaut, la Fiandra, la Zelanda, l’Olanda, e la signoria su numerose città, spesso fiorenti. Non si trattava affatto di un sistema unitario, bensí del risultato storico della riunione di titoli diversi nella stessa persona. Le varie e disomogenee componenti del ducato di Borgogna erano un complesso di feudi e possedimenti ciascuno dei quali manteneva un proprio statuto giuridico, ma che a vario titolo, per diverse ragioni e in differenti circostanze si erano trovati riuniti sotto un solo principe, attraverso un meccanismo molto simile a quello che, in scala ben maggiore e con rapidità imprevedibile, portò Carlo V nel 1516 a essere il piú potente monarca d’Europa. Nel 1519, alla morte del nonno paterno Massimiliano, Carlo V
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ereditava anche i domini che gli provenivano della casa ducale d’Asburgo. Gli anni immediatamente successivi alla laboriosa acquisizione dei suoi titoli dinastici furono dedicati da Carlo V e dai suoi piú stretti collaboratori al consolidamento del potere acquisito e all’ampliamento dei confini dei territori controllati, in modo da garantirne una coerenza accettabile e la possibilità di un reciproco sostegno militare; caratteristica questa che in seguito si rivelerà preziosa. L’area d’intersezione delle linee di collegamento interne fra Paesi Bassi, territori asburgici ereditari e regni del Mediterraneo occidentale era costituita dalla repubblica di Genova, che assicurava il collegamento navale con la Catalogna, e dal ducato di Milano che, seppure in continua rivalità con gli Svizzeri, controllava i passaggi alpini attraverso i quali raggiungere l’impero e l’area borgognona. Nel 1521 venne presa Milano e nel 1522 le truppe imperiali entrarono anche a Genova; nello stesso anno venne sventato con la vittoria della Bicocca un tentativo di riconquistare Milano messo in campo dagli Svizzeri al soldo di Francesco I.
Onore e vita sono salvi
Un nuovo sforzo per riassumere il controllo dell’Italia settentrionale fu condotto personalmente dal re di Francia alla testa di un esercito che, dopo aver attraversato le Alpi e aver conseguito qualche successo iniziale, venne duramente battuto nella battaglia di Pavia il 24 febbraio del 1525. Francesco I stesso fu catturato («Tutto è perduto fuorché l’onore e la vita, che è salva», come scriveva egli stesso alla madre Luisa di Savoia); il re fu poi condotto prigioniero a Madrid dove venne costretto a firmare un trattato di pace, che fra l’altro riconosceva all’avversario i diritti sul conteso ducato di Borgogna, ma che Francesco denunziò non appena riottenuta la libertà. Ritenendo di avere le mani libere, Francesco I stipulò allora la Lega Santa, detta dal luogo della stipula «di Cognac», che univa il pontefice, la Francia e la repubblica di Venezia contro la monarchia. La guerra che seguí sfociò nel 1527 nell’episodio del sacco di Roma, quando un esercito di lanzichenecchi, in larga parte protestanti, al soldo di Carlo V, impose ai propri generali la conquista e il saccheggio della Città Santa per rifarsi del mancato ricevimento delle paghe. Solo due anni dopo, nel 1529, si giunse alla firma della pace di Cambrai, la «pace delle due dame». Ebbe questo nome per l’attività diplomatica svolta dalla zia materna
L’affissione delle 95 tesi di Martin Lutero alla porta della cattedrale di Wittenberg il 31 ottobre del 1517, incisione di scuola svizzera. XVI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
di Carlo V, Margherita d’Austria, e dalla madre di Francesco I, Luisa di Savoia, che erano legate da parentela acquisita, poiché Margherita aveva sposato in seconde nozze, nel 1501, il duca Filiberto II di Savoia. Anche in questa occasione la macchina familiare dimostrò di funzionare alla perfezione. Con questo accordo in forza del quale il re di Francia cedette al suo collega di Germania, cioè all’imperatore stesso, la sovranità sulla contea di Fiandra si arrivò a un equilibrio dei rapporti fra i due sovrani che si mantenne per quasi un decennio, ma non alla soluzione dei motivi di contrasto che li opponevano uno all’altro.
I comuneros in rivolta
Mentre fronteggiava la comunque persistente rivalità del re di Francia, Carlo V aveva dovuto affrontare altre due violente crisi scoppiate all’interno dei suoi territori. La prima, e solo apparentemente la piú grave, fu la rivolta dei comuneros in Castiglia. L’ascesa al trono di quello che, dominando le Indie occidentali, era ora il piú ricco e dinamico dei suoi regni, era infatti avvenuta in maniera piuttosto conflittuale. Il giovane sovrano che all’epoca non parlava neppure il castigliano, ma solo il francese utilizzato presso la corte borgognona aveva raggiunto il regno circondato da collaboratori e uomini di fiducia fiamminghi. Su di essi si era appoggiato per la gestione del potere, affidando loro le cariche di maggior prestigio, alle quali erano collegate le rendite piú consistenti. Questo attegSACRO ROMANO IMPERO
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LA STAMPA, VEICOLO DELL’ALFABETIZZAZIONE La diffusione dei libri a stampa e della capacità di leggerli aprí la strada anche a una nuova riflessione sui testi sacri. Il fatto che il primo libro prodotto sia stato una Bibbia testimonia l’interesse per una conoscenza diretta delle Scritture. La rottura del monopolio detenuto dalla Chiesa sulla conoscenza e l’interpretazione delle Sacre Scritture, monopolio che si fondava anche sulla disponibilità materiale del testo biblico, determinò le condizioni per il travagliato processo che avrebbe portato alla scissione del mondo cristiano di tradizione latina e alla nascita del protestantesimo. La stampa non solo permetteva un piú facile accostamento ai testi sacri, ma consentiva anche la creazione di uno spazio allargato per dibatterne l’interpretazione, dato che le riflessioni potevano adesso essere pubblicate e distribuite a costi ragionevoli. Si era passati dalle corrispondenze fra dotti all’esistenza di un ambiente culturale comune che coinvolgeva i membri del ceto dirigente di tutta l’Europa. Il dibattito teologico, politico e culturale aveva assunto un carattere di pubblicità mai conosciuto prima. La cronologia, la scienza delle comunicazioni e il buon senso dimostrano che non fu la
Riforma a promuovere e diffondere l’alfabetizzazione sulla spinta di un assunto teologico, ma semmai il contrario: l’aumentata disponibilità di testi scritti stimolò la capacità di leggerli e questo mise in crisi la forma di Chiesa esistente al momento dell’invenzione della stampa. La costrinse ad affrontare una società rinnovata dalla rivoluzionaria forma di comunicazione di massa. L’invenzione di Gutenberg incontrò subito un successo enorme e una diffusione rapidissima in tutto il Continente. Aldo Manuzio, il fondatore della celeberrima tipografia veneziana, il produttore delle «aldine», nacque nel 1450 e morí nel 1515. Lutero affisse le sue tesi alla porta della cattedrale di Wittenberg solo nel 1517, quando il primo libro a stampa era stato pubblicato da oltre sessant’anni e Manuzio era già morto. Il contributo del protestantesimo alla diffusione della lettura giunse in un momento successivo, quando esso divenne il promotore dell’uso delle lingue nazionali contro il latino, lingua di culto della Chiesa cattolica e fino ad allora lingua franca per i ceti colti di tutta Europa. Quella fu la stagione delle traduzioni della Bibbia in tedesco, inglese e francese.
giamento, insieme a quella che a molti appariva come la rapacità dei Flamencos (cosí i Castigliani chiamavano i Fiamminghi), attirò su Carlo V una certa ostilità sia da parte dell’aristocrazia locale, sia delle potenti borghesie cittadine presenti nei centri maggiori. Nel 1520, all’atto della sua partenza per cingere la corona di «re dei Romani», che molti interpretarono come un segno di scarso interesse per il titolo di re di Castiglia, il malcontento esplose in un’insurrezione che coinvolse tutto il Paese e che fu sedata solo dopo due anni, quando la grande aristocrazia castigliana si rese conto della necessità di appoggiarsi alla monarchia per mantenere l’ordine esistente, e quindi i propri privilegi, nel Paese. Durante la rivolta i ribelli avevano tentato senza successo di metteMartin Lutero nel ritratto ottocentesco realizzato da Henriette Rath. Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire.
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re sul trono di Castiglia la madre di Carlo V, Giovanna «la Pazza», che si trovava rinchiusa in un monastero a causa dei suoi disturbi mentali (veri o presunti) e che comunque rifiutò le proposte che le venivano rivolte. L’insurrezione terminò con la sconfitta militare dei rivoltosi: il che condusse a un deciso rafforzamento del potere e dell’autorità della corona in Castiglia, che da quel momento divenne, in termini di concessioni fiscali e di assegnazioni militari, il piú disponibile dei regni che la componevano. Questo le valse però una maggiore contiguità con il sovrano, che finí per stabilire al centro di essa la propria capitale, quando si decise ad averne una. Il legame che doveva portare la dinastia a divenire sempre piú castigliana, fino a perdere o comunque a mutare profondamente le caratteristiche universalistiche che aveva al momento della sua nascita, nacque quindi anche a seguito di una rivolta repressa.
95 tesi sulla porta della cattedrale
La seconda crisi che Carlo V dovette affrontare fu ben piú grave ed era destinata a divenire il grande problema endemico della monarchia, un problema capace di estendersi e di trasferirsi da un regno all’altro e di complicarsi fino a costituire la base politico-confessionale per l’opposizione alla corona. Il 31 ottobre 1517 Martin Lutero aveva affisso le sue 95 tesi alla porta della cattedrale di Wittenberg, dichiaran-
A sinistra frontespizio di un’edizione della Bibbia di Lutero. In basso dipinto raffigurante l’ingresso di Carlo V a Bologna, accompagnato da papa Clemente VII per essere incoronato nella città felsinea nel 1530, olio su tela di Juan de la Corte. 1660. Toledo, Museo de Santa Cruz.
dosi disposto a discuterle con chiunque volesse farlo, secondo l’uso medievale della disputatio. L’evento non destò nessuno scalpore: da molte parti si richiedeva un rinnovamento della struttura della Chiesa e della formulazione dei dogmi da essa professati. La situazione era però matura perché il problema esplodesse in tutta la sua gravità. Lutero, condannato dalla Chiesa con brutale e sbrigativa semplicità, trovò sostenitori potenti e seguaci convinti. Fra gli elementi di forza della sua predicazione c’era anche la richiesta di trasferire il controllo dei beni ecclesiastici situati in Germania dalla curia romana alla grande feudalità tedesca, cosa questa che i principi dell’impero ovviamente vedevano di buon occhio. La Riforma portò di fatto alla cancellazione degli Ordini regolari religiosi, di quelli canonici e dei privilegi connessi alle funzioni del clero in buona parte dell’Europa centrale e settentrionale. Nel decennio fra il 1521, quando Lutero fu ammesso a esporre le sue posizioni davanti alla dieta di Worms, e il 1530, quando fallí il tentativo di conciliazione tentato con la dieta dl Augu-
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Carlo V «protestanti»); e, nel 1531, si erano uniti in una Lega stretta nella città turingia di Smalcalda in difesa dei loro diritti religiosi e territoriali, temendo un intervento armato dell’imperatore ai loro danni e impegnandosi in un patto di reciproco sostegno. Frattanto, nuovi successi della compagine asburgica segnavano anche nuove risposte, nuove forme di resistenza. Nel 1526 era morto sul campo di battaglia di Mohacs, combattendo contro i Turchi, Luigi II Jagellone re d’Ungheria e di Boemia, il quale cinque anni prima aveva sposato Maria, una delle quattro sorelle di Carlo, e che aveva duramente contrastato l’avanzata del movimento riformatore nelle terre da lui governate. Mentre una parte della nobiltà ungherese sceglieva come suo successore suo cognato Ferdinando d’Asburgo (anche la corona ungherese era elettiva), e la Boemia veniva annessa come corona ereditaria all’Austria asburgica, i Tedeschi riformati e il re di Francia, in quel momento collegato al papa nella Lega di Cognac, incoraggiavano i Turchi (i quali fin dal 1521 avevano conquistato Belgrado) ad avanzare nei Balcani. Ai Turchi si rivolgeva anche il candidato della nobiltà ungherese nazionalista avversa agli Asburgo, Giovanni Szapolyai: ed essi rispondevano assediando tra il settembre e l’ottobre del 1529 la capitale di Ferdinando, Vienna.Nel 1533 si addivenne a un armistizio, che comportava la spartizione della Polonia tra l’Asburgo e lo Szapolyai: ma a quel punto l’egemonia asburgica sembrava consolidata anche sull’Europa centro-orientale, il che faceva della dinastia anche l’antemurale contro l’espansione ottomana.
Arbitro dei destini europei
Papa Clemente VII incorona imperatore Carlo V, dipinto a olio di Giorgio Vasari e Giovanni Stradano (Jan van der Straet). 1556-1562. Firenze, Palazzo Vecchio. Nella pagina accanto, in alto scudo da parata in acciaio dorato noto come Plus Ultra o Apoteosi di Carlo V. 1535 circa. Madrid, Real Armería. 100
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sta, Carlo V fece ogni sforzo per ricostruire l’unità della Chiesa tedesca ed esercitò tutte le pressioni di cui era capace sui papi che si succedettero a Roma affinché riunissero un concilio nel quale affrontare le questioni aperte, dibatterle e giungere a conclusioni condivise, in modo da ricomporre la frattura finché era ancora possibile farlo. Intanto, nel 1529, i principi (Giovanni di Sassonia e Filippo d’Assia) e le città aderenti alla Riforma avevano protestato nella dieta di Spira contro la condanna di Lutero (da questa protesta l’origine delle parole «protestantesimo» e
In effetti, già dopo la pace di Cambrai, Carlo V sembrava davvero definitivamente il padrone della situazione europea. Nel 1530 egli dette in moglie a Francesco I come conseguenza e pegno della pace combinata dalle «due dame» sua sorella Eleonora, rimasta vedova del primo marito Emanuele I del Portogallo. In quello stesso anno egli cinse in Bologna città italica soggetta al dominio della Chiesa la corona imperiale, che tradizionalmente avrebbe dovuto ricevere dalle mani del papa a Roma. Tuttavia, il ricordo del saccheggio di quella città tre anni prima da parte delle milizie luterane imperiali consigliò sia a lui, sia a papa Clemente VII, di non incontrarsi nell’Urbe. Il rinnovato clima di collaborazione tra pontefice e imperatore ricondusse in prima linea il progetto del concilio. Tuttavia, il timore che un’occasione conciliare potesse portare alla messa in discus-
sione e forse alla riduzione dell’autorità e del potere pontifici indusse i papi a rinviare la convocazione fino al 1545: quando, ormai troppo tardi, si aprí il concilio di Trento, città scelta per la sua posizione mediana fra il mondo tedesco e quello italiano. I lavori si protrassero, comprese lunghissime interruzioni, per diciannove anni, senza risolvere la questione per la quale l’assise era stata convocata. I problemi ormai erano altri. Quando nel 1564 il concilio si chiuse, Carlo V era già morto da cinque anni e ben prima si era spenta ogni speranza di ricomporre l’unità della Chiesa. Di fronte a questi avvenimenti non ha molto senso chiedersi se le intenzioni di Carlo V fossero orientate verso la creazione di una respublica christiana di sensibilità erasmiana o piuttosto verso la fondazione di una pace fra i cristiani di confessione diversa accompagnata dalla guerra agli infedeli (secondo la tradizio-
In basso la presa delle città di La Goletta e Tunisi da parte di Carlo V nel 1535, incisione di Franz Hogenberg. XVI sec. Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire.
ne propria della Reconquista). L’imperatore fece quello che poté e gli sembrò giusto fare di fronte ai problemi che lo incalzavano da parti diverse. Neppure nel lungo cancellierato di Mercurino Arborio, che dopo la morte non fu sostituito e rimane quindi l’ultima figura di interprete unico della politica della monarchia per tutto il regno di Carlo V, si può riconoscere un progetto che vada oltre lo sforzo di risolvere in maniera non conflittuale la questione religiosa. Questa fu la politica a cui Carlo V tenne fede fin quando gli parve ragionevole farlo. I dieci anni che seguirono la pace di Cambrai e la dieta di Augusta furono relativamente pacifici, almeno per ciò che riguarda la situazione interna europea. Ma si può sostenere con sufficiente sicurezza che proprio quel periodo vide l’inizio della sconfitta di un possibile progetto di unità politica del Continente, o – se questo progetto non esistette mai: non in
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Carlo V
RIFLESSIONI INTORNO ALLA PACE Dagli scritti di Carlo V appare con evidenza che secondo lui la finalità della monarchia era la pace per tutta la cristianità, considerata fine ultimo dell’attività del sovrano e sua massima aspirazione. Quando ancora non era a conoscenza dell’esito vittorioso della battaglia di Pavia, che fu combattuta il 24 febbraio 1525 ma la cui notizia giunse a Madrid solo il 10 marzo, l’imperatore scrisse di suo pugno una riflessione sulla situazione politica nella quale si trovava e sulle scelte che giudicava piú opportune. Non si tratta di un documento destinato alla divulgazione, ma di considerazioni personali, trasferite su carta per se stesso, con l’intenzione di mettere a fuoco il proprio pensiero. Nel testo, che ci è pervenuto in originale, troviamo un passaggio di particolare evidenza: «Mi sembra che la prima cosa che debbo ricercare, l’aiuto migliore che Dio potrebbe accordarmi, sia la pace». Piú di vent’anni dopo, il pensiero dell’imperatore non era cambiato. Nelle istruzioni al figlio scritte ad Augusta il18 gennaio 1548, in quello che viene comunemente chiamato «Gran Testamento» politico di Carlo V, leggiamo: «E perché la cosa che Dio maggiormente raccomandò è la pace, senza la quale egli non può essere ben servito, oltre agli altri inconvenienti che porta con sé la guerra e che da essa conseguono, dovete avere continua cura e sollecitudine di evitar la guerra e di rifiutarla per tutte le vie e i modi possibili: non entrate mai in essa se non sia forzosa e inevitabile e che Dio e il mondo sappiano e capiscano che non avete potuto in nessun modo evitarla». Si tratta di un’informazione assolutamente riservata, accompagnata dall’istruzione di non mostrarla a nessuno, nemmeno alla propria consorte. Attraverso la guerra, quando la combatteva, Carlo V si aspettava di conseguire un solo risultato: la pace. Né al re di Francia, né ai principi protestanti tedeschi, l’imperatore immagina di riuscire a imporre nient’altro che il rispetto pacifico dell’assetto europeo esistente. La pace di Crépy, stipulata con la Francia nel 1544 al termine di una marcia vittoriosa che aveva portato l’esercito imperiale fino alla Marna, in una posizione dalla quale minacciava Parigi, ne è una dimostrazione evidente. Le sue condizioni furono cosí miti per gli sconfitti da indurre qualche osservatore a sostenere che il trattato sembrava concluso con un esercito francese accampato in Castiglia, anziché uno imperiale in Francia. Carlo V si aspettava dalla pace piuttosto che dalla guerra il successo della sua politica. Il consolidamento del potere asburgico su larga parte dell’Europa e il suo ampliamento su nuovi territori dovevano derivare dall’avveduta politica matrimoniale alla quale non cessò mai di lavorare.
La spada di Carlo V. Madrid, Real Armería.
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modo esplicito almeno, né indirizzato al «Continente» quale noi lo intendiamo oggi – che proprio allora furono intaccate in modo significativo le premesse che gli avrebbero consentito di esistere e di venire messo alla prova. Costretto tre volte a piegare la testa sul piano del prestigio con la sua
sconfitta del 1519 nella contesa per la corona imperiale, su quello militare a Pavia nel 1525 e su quello diplomatico a Cambrai nel 1529 –, il re di Francia meditava la riscossa. Per questo si appoggiava al sultano ottomano, il grande Solimano il Magnifico, e al suo luogotenente mediterraneo, il principe-corsaro algerino Khair ad-Din detto «il Barbarossa», che tra il 1532 e il 1534 desolò con le sue incursioni i litorali italiano e spagnolo. Carlo V rispose conquistando nel 1535 Tunisi e celebrando la vittoria con uno splendido trionfo; ma falli, nel 1541, nella conquista di Algeri, mentre i Turchi occupavano tutta l’Ungheria.
Nuove guerre e nuove paci
Frattanto, nel biennio 1536-38, era scoppiata una nuova guerra contro la Francia, in seguito all’annessione diretta del ducato di Milano alla corona spagnola. Poco durò la tregua di Nizza del 1538, voluta da papa Paolo III. Una nuova guerra franco-asburgica, tra il 1542 e il 1544, si concluse con la pace di Crépy, nella quale Francesco I rinunziava alle sue residue pretese su Napoli (giustificate dall’eredità angioina), ma recuperava in cambio i suoi diritti sulla Borgo-
gna. In effetti, all’inizio degli anni Quaranta del XVI secolo tutti i problemi di Carlo V si erano aggravati, con le sole eccezioni dell’acquisita fedeltà della Castiglia e dei territori conquistati nell’Italia del Nord e di una riduzione del pericolo esterno costituito dall’impero ottomano. L’avanzata delle armate terrestri dei Turchi si era infatti fermata in Ungheria e la loro espansione lungo le coste del Mediterraneo rallentava, nonostante mancasse ogni coordinamento fra la resistenza a essi opposta dai Veneziani e quella organizzata dalla monarchia. Sul piano religioso, i dibattiti di Worms e di Ratisbona del 1540 e 1541 dimostrarono che la distanza fra le posizioni dei cattolici e quelle dei riformati era se possibile aumentata, anziché diminuita. L’ostilità del re di Francia era A sinistra, sulle due pagine Allegoria dell’Abdicazione di Carlo V, olio su tavola di Frans Francken II. 1635-1640. Amsterdam, Rijksmuseum.
L’armatura indossata da Carlo V nella battaglia di Mühlberg (1547), opera del maestro armaiolo Desiderius Helmschmid. 1544. Madrid, Real Armería.
piú vitale che mai e sembrava capace di coinvolgere il re d’Inghilterra e il pontefice in una lotta logorante con la monarchia, mentre nei suoi territori il protestantesimo si diffondeva in modo allarmante. Francesco I sosteneva con ogni mezzo la Riforma, che ormai si era estesa con successo anche nei Paesi Bassi. In questo caso, a differenza dei principati tedeschi, si trattava di territori direttamente dipendenti da Carlo V, che li governava attraverso la decisa personalità della zia Margherita. Quant’essa gli fosse cara è dimostrato dal fatto che con il suo nome battezzò la prima figlia, nata da una relazione borgognona: Margherita di Parma, anche lei figura di rilievo all’interno della famiglia, sarebbe andata sposa a Ottavio Farnese e piú tardi, nel 1559, sarebbe divenuta a sua volta governatrice dei Paesi Bassi per conto del fratellastro Filippo II; suo figlio Alessandro Farnese sarebbe stato egli stesso governatore della regione dal 1579 al 1585.
La parola alle armi
Se ci fu una svolta nella politica di Carlo V, essa si presentò proprio all’inizio degli anni Quaranta, di fronte alla nuova ostilità francese e alla crescente diffusione del protestantesimo. Allora l’imperatore decise di abbandonare l’atteggiamento conciliatorio mantenuto fino a quel momento, per tentare di risolvere attraverso la via militare i problemi che la monarchia si trovava a fronteggiare. Bisogna comunque aggiungere che non manca, fra gli studiosi che hanno analizzato la questione, il sospetto che la scelta possa essere maturata in relazione a contingenze materiali, ossia alla disponibilità delle risorse economiche necessarie per un’impresa del genere, esistenti in quegli anni forse per la prima e unica volta nel corso del suo regno. Si tratta però di un’ipotesi non molto fondata, dato il cronico deficit delle finanze della monarchia e il costo spaventoso della guerra, maggiore addirittura di quello odierno se proporzionato ai meccanismi finanziari sui quali essa si basava nel Cinquecento. I calcoli sulle riserve necessarie a stipendiare un esercito venivano fatti sulla base di mesi, a volte di settimane, e non era insolita l’interruzione di una campagna per la banale ragione che i fondi raccolti per sostenerla si erano esauriti. Né si deve dimenticare che la precedente, e unica, significativa impresa militare guidata personalmente dall’imperatore era stata rivolta contro i nemici della cristianità: la spedizione contro i Barbareschi dell’Africa settentrionale, almeno dal punto di vista formale vassalli del sultano, e SACRO ROMANO IMPERO
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SACRO ROMANO IMPERO culminata nel 1535 con la conquista di Tunisi della quale già si è detto. Nel 1542 Carlo V lasciò la Castiglia affidandone la reggenza a Filippo II e passando da Genova, Milano e attraverso il Tirolo si recò in Germania. Da lí lanciò una fortunata campagna che lo condusse a minacciare Parigi dopo aver battuto piú volte l’esercito francese. Conclusa nel 1544 la pace di Crépy, che concedeva condizioni molto generose a Francesco I ma bloccava per un decennio la pressione francese sull’Europa centrale, si rivolse contro le truppe dei principi protestanti riuniti nella lega di Smalcalda e le sconfisse pesantemente a Mühlberg, nel 1547. In quell’occasione i suoi tercios di fanteria castigliana si coprirono di gloria: ed egli rivolse loro un riconoscente omaggio facendosi ritrarre da Tiziano, in ricordo della splendida vittoria, a cavallo ma armato come loro, con il loro elmo e la loro lunga lancia. Dopo questa vittoria l’imperatore apparve per alcuni mesi come il padrone del Continente. Un’impressione del tutto fittizia, data la ristrettezza delle risorse e l’instabilità delle alleanze con i principi tedeschi sulla base delle quali era stata ottenuta la vittoria sui protestanti. La soluzione dei problemi religiosi europei non poteva essere affidata alle armi: Carlo V lo aveva sempre pensato. Dopo che i risultati della battaglia di Muhlberg si furono dissolti, i contrasti continuarono fino alla stipula della pace di Augusta, nel 1555, dove per la prima volta venne formulato il principio del «cuius regio eius religio».
Una questione irrisolta
La partita con la Francia era tutt’altro che conclusa. Scomparso nel 1547 Francesco I, suo figlio Enrico II abbandonò il fronte mediterraneo per spostare la contesa su quello continentale, strappando nel 1548 Boulogne agli Inglesi e occupando le città di Metz, Toul e Verdun, che rimasero alla Francia nonostante una guerra intrapresa da Carlo nel biennio 1554-56 per ricondurle sotto il suo controllo. La pace di Augusta e lo smacco ricevuto a proposito delle città alsaziano-lorenesi convinsero Carlo ch’era giunto il momento di abbandonare la scena del mondo. Ancora piú gravi e significativi furono tuttavia i suoi finali insuccessi riguardo all’elemento che si trovava alla base del suo sistema: la politica dinastica. Prima di trasferire i poteri regi castigliano-aragonesi a suo figlio Filippo II e ritirarsi nel 1556 nel monastero di Yuste, in Estremadura, per trascorrere in tranquillità gli ultimi due 104
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Allegoria di Carlo V come dominatore del mondo, dipinto di Peter Paul Rubens, da un originale del Parmigianino (1530 circa). 1604. Salisburgo, Residenzgalerie. Nella pagina accanto, in alto Filippo II di Spagna e Maria I Tudor in un dipinto del ritrattista fiammingo Hans Eworth. 1558. Woburn (Bedfordshire, Inghilterra), Woburn Abbey. Nella pagina accanto, in basso gruppo scultoreo in bronzo dorato raffigurante Carlo V e la sua famiglia, realizzato dallo scultore Pompeo Leoni per il monumento funerario dell’imperatore. 1590. Madrid, Escorial.
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NAPOLI, CAPITALE EUROPEA Lo sviluppo di Napoli nei due secoli della monarchia fu rapido e tumultuoso. Sotto Carlo V era divenuta la seconda città europea, dopo Parigi, ma la sua crescita era destinata a non interrompersi né rallentare fino alla metà del Seicento. Alla fine del Quattrocento la città aveva circa 100 000 abitanti, divenuti 200 000 alla metà del Cinquecento e addirittura 300 000 agli inizi del Seicento. Per quest’ultima cifra disponiamo della qualificata testimonianza del Capaccio, segretario della municipalità napoletana, che aveva potuto calcolare il numero degli abitanti sulla base delle cartelle che davano diritto alla distribuzione del pane in tempo di carestia. La burocrazia della monarchia era più efficiente di quanto la si suole considerare. Per il 1606 il calcolo porta a un totale di 304 900 anime. La crescita di Napoli non avvenne solo in termini di pura espansione demografica, sotto la spinta di quanti si trasferivano nella città per approfittare delle guarentigie fiscali, che rappresentavano il maggiore dei privilegi concessi agli abitanti della capitale del regno. Le colonie allogene, di non Napoletani, che organizzavano la propria vita nella forma di comunità fedeli a usi e costumi dei Paesi d’origine, erano molte e numerose, a testimonianza della ricchezza di scambi commerciali, finanziari e culturali di cui la città poteva godere. Dal punto di vista urbanistico, Napoli era la città dei «grattacieli», con i suoi edifici di quattro, cinque, sei e spesso sette piani, quando a Parigi raramente si superavano i tre. Le innovazioni non si limitavano all’edilizia.
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Il soddisfacimento delle necessità di tante persone che vivevano in un’area ristretta come mai era accaduto, prima spinse chi si trovava ad amministrare la città a importare nuove tecnologie, addirittura a imporre mode alimentari. È nel Seicento che i Napoletani diventano mangiatori di pasta, dei celebri maccheroni, in sostituzione della dieta a base di verdure che li faceva definire prima come «mangiafoglia». La pasta di grano duro era stata fino a quel momento una specialità siciliana. L’alimento venne introdotto nella dieta dei Napoletani perché rappresentava uno dei modi più agevoli per lo stoccaggio, il trasporto e la conservazione del grano,rimanendo di rapida fruizione in un contesto ricco d’acqua, proprio come quello di Napoli. La violenta inurbazione presentava però grossi rischi, dato che la struttura produttiva della città era legata in modo decisivo al suo inserimento nel sistema economico della monarchia, e neppure nei momenti più felici i problemi dell’alloggio e dell’occupazione trovarono completa soluzione; ogni fenomeno recessivo rischiava di trasformarsi in un disastro. Nel 1574 il cardinale Granvelle scriveva con stupore che a Napoli il popolo era più opulento della nobiltà, intendendo per popolo la borghesia di artigiani e commercianti, dato che definiva plebei i nullatenenti, ma la crisi economica che nella prima metà del Seicento accompagnò quella politica si rivelò devastante, tino asfociare nella rivolta di Masaniello nel 1647, e poi nella grande peste del 1656. Quando la monarchia soccombe, Napoli è in ginocchio come tutte le altre componenti del sistema.
Nella pagina accanto I Maccheronari, olio su tela di Micco Spadaro (al secolo, Domenico Gargiulo). XVII sec. Roma, Galleria Corsini.
anni di vita, Carlo V dispiegò un ultimo grande sforzo di diplomazia familiare e matrimoniale, risoltosi però in un fallimento. Anzitutto fece un tentativo per convincere il fratello Ferdinando, al quale aveva assicurato il trasferimento della corona imperiale attraverso l’elezione a re dei Romani, ad accettare a suo tempo che quella corona passasse, previo il solito accordo con i principi elettori, non al proprio figlio Massimiliano, bensí al nipote Filippo II, in modo da ricostituire in lui la figura del monarca dotato di un primato assoluto all’interno della famiglia e nello stesso tempo attribuire l’autorità sui riottosi principi tedeschi al piú potente degli Asburgo.
Purché la monarchia resti unita
Questo tentativo indica una precisa volontà di Carlo V, alla metà del secolo, di mantenere l’unità della monarchia, anche se resta difficile stabilire quale carica progettuale avesse il suo impegno a favore della nomina del figlio a re dei Romani; e ancora di piú quali esiti avrebbe potuto avere un suo successo. Certo è che, di fronte alla decisa opposizione del fratello, Carlo preferí non insistere nelle sue richieste e accettò che la monarchia imboccasse la via della divisione in termini piú netti di quanto avrebbe voluto, e che la sua integrità venisse affidata ai rapporti interni alla famiglia piuttosto che all’unicità della figura del sovrano. Il capolavoro finale del regno di Carlo V, e insieme il suo maggiore insuccesso, riguardò, ed era logico aspettarselo, la politica matrimoniale: le nozze nel 1554 di suo figlio Filippo con colei che dall’anno precedente era regina d’Inghilterra, Maria Tudor. A seguito di tale unione trovavano soluzione buona pane dei problemi della monarchia sul fronte atlantico, lungo la rotta di collegamento con le Indie occidentali come nei Paesi Bassi, che non avrebbero piú potuto contare sull’appoggio che giungeva loro d’Oltremanica. La cattolica Maria vedeva per parte sua rafforzata la propria posizione interna, per il sostegno che il matrimonio garantiva a lei e alla componente che le era fedele. Il grandioso progetto di Carlo sarebbe stato, all’atto dell’abdicazione, di veder splendere sulla fronte del figlio Filippo la corona imperiale e quelle regali castigliana, aragonese, germanica, boema, ungherese, italica e inglese, in un regno teso tra la costa occidentale del Pacifico e le rive del Danubio e della Moldava: un impero immenso, sul quale davvero non sarebbe mai tramontato il sole. In seguito alle nozze di Filip-
po con Maria, che rappresentavano per il momento anche un colpo durissimo per la riforma protestante, l’unione ispano-britannica era considerata cosí solida e la sua funzione strategica cosí importante che il 10 gennaio 1558 la caduta in mano ai Francesi, comandati dal duca di Guisa, della fortezza di Calais, tenuta da due secoli dagli Inglesi, fu considerata un vero disastro per la monarchia. La notizia non venne comunicata a Carlo V, che aveva già trasferito tutti i suoi poteri al figlio e si trovava a Yuste dove si era ritirato dopo l’abdicazione, per non mettere a rischio le sue già critiche condizioni di salute. Morí infatti di lí a poco, il 21 settembre dello stesso anno. La nuova scelta matrimoniale allargava la strategia fino ad allora sviluppata, fondata su un solido collegamento della casa d’Asburgo con i regnanti del Portogallo. L’intreccio delle parentele in quella direzione era molto complesso. Carlo V aveva sposato nel 1526 la bellissima Isabella, sua nipote acquisita in quanto figlia (di primo letto) di Emanuele I di Portogallo, che era dal 1519 marito di sua sorella Eleonora (con il divertente risultato che, quando nel 1530 Eleonora sposò in seconde nozze Francesco I, il re di Francia venne a trovarsi nella situazione di essere al tempo stesso cognato dell’imperatore e patrigno dell’imperatrice). Dalle nozze dell’imperatore con l’Infanta del Portogallo era nato l’anno successivo il futuro Filippo II, che avrebbe sposato in prime nozze la cugina Maria del Portogallo: da tale unione nascerà Don Carlos. Ma i legami erano ancora piú stretti. La sorella minore di Carlo V, Caterina, aveva sposato Giovanni III, il successore di Don Manuél, come veniva chiamato Emanuele I, il cui figlio aveva a sua volta sposato la figlia minore dell’imperatore, Giovanna. Dalla loro unione nacque Sebastiano, venuto al mondo dopo che il padre era già scomparso. Le maglie dell’intreccio dinastico erano cosí fitte da far attendere come prossima e naturale l’unione delle due corone, che si realizzò infatti nel 1580, alla morte di Sebastiano, che non aveva lasciato eredi.
Un matrimonio strategico
Il nuovo matrimonio inglese di Filippo II raggiungeva due obiettivi. Sul piano religioso faceva rientrare l’Inghilterra in ambito cattolico, dato che il sostegno offerto dalla monarchia al partito cattolico ne determinava di per sé il sopravvento sugli anglicani. In termini strategici collegava alla monarchia la nuova, anche se appena nascente, potenza navale atlantica, SACRO ROMANO IMPERO
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Copia su pergamena, colorata, del planisfero terrestre disegnato da Francesco Rosselli nel 1508. Greenwich, National Maritime Museum. Nella pagina accanto, in alto un pavone con le piume decorate dagli stemmi dei principali possedimenti degli Asburgo, particolare dell’Allegoria dei domini di Carlo V di Johann Nepomuk Geiger (vedi foto a p. 95, in alto). Nella pagina accanto, in basso Allegoria del regno di Carlo V, dipinto cinquecentesco di autore anonimo. Il sovrano è attorniato dagli avversari sconfitti: da sinistra, Solimano I, papa Clemente VII, Francesco I, Guglielmo, duca di JülichKleve-Berg, Giovanni Federico I di Sassonia e Filippo I d’Assia.
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privando nello stesso tempo il re di Francia di una pedina da giocare in chiave antiasburgica sullo scacchiere militare e diplomatico europeo. Purtroppo per la monarchia, il matrimonio durò appena quattro anni e non diede alcun erede attorno al quale potesse organizzarsi il partito cattolico e filoasburgico presente in Inghilterra; dove invece salí al trono la figura energica e aggressiva di Elisabetta I, sorella di Maria, che avrebbe fatto baronetto Francis Drake, come premio per i risultati conseguiti combattendo senza tregua contro la monarchia in Europa e nelle Americhe. Come di solito accade nelle vicende degli uomini, per la «sconfitta» (o meglio, per l’insuccesso) unica e indiscutibile, che possa essere mostrata con sicurezza a chi chiede conto dell’insuccesso della monarchia nel proporre e realizzare un modello di Stato diverso da quello nazionale, che invece si è affermato nel nostro Continente proprio a partire dagli anni della loro sconfitta. Esiste piuttosto una serie di concause, nessuna delle quali determinante o prevalente. A ciascuna si poteva porre rimedio; in alcuni casi non era neppure necessario farlo: dato che da sola non sarebbe stata in grado di impedire lo sviluppo della monarchia. Essa avrebbe potuto radicarsi attorno alle coste del Mediterraneo occidentale, fino alla stabilizzazione di una potente realtà politica capace di riunificare con cinquecento anni di anticipo almeno il Sud dell’Europa in una confederazione, della cui
possibilità storica la Svizzera costituisce insieme l’esempio e la testimonianza. A determinare il collasso della monarchia o comunque a privarla della sua forza espansiva fu l’incontro di molti fattori, alcuni occasionali, altri strutturali. La crisi economica del secondo Cinquecento e le applicazioni delle teorie mercantilistiche ebbero senza dubbio il loro peso negativo, ma alla sfida costituita dalla contingenza era davvero realisticamente possibile, allora, fornire una risposta di altro tipo? Le tesi di parecchi studiosi al riguardo hanno il sapore della profezia post eventum e sono in ultima analisi viziate da un pregiudizio anacronistico.
Rapporti mutevoli
Un grave insuccesso fu certo quello burocratico e amministrativo. Per chi vive in una società del tutto «terziarizzata», è difficile immaginare lo sforzo di fantasia e di capacità d’innovazione richiesto dall’unione in una sola persona delle corone di Borgogna, Castiglia, Aragona, Austria, con tutti i possedimenti collegati, e del Sacro Romano Impero. Concetti come quello di ministero o di bilancio pubblico non esistevano, la confusione tra proprietà del re e demanio era assoluta, i compiti stessi del sovrano venivano letti in chiave di privilegi e corrispettivi e non come direzione di un complesso organizzato. I rapporti di Carlo V e dei suoi successori con i loro sudditi non erano definiti in modo univoco: cambiavano da luogo a luogo, da persona a
UN MODELLO PER L’EUROPA La monarchia di Carlo V costituiva una base e un modello attorno al quale tutti i Paesi, i popoli e le regioni d’Europa avrebbero ben potuto raccordarsi, riuscendo a trovare un’unità piú rispettosa per le particolarità locali e le minoranze di quanto non si siano dimostrati gli Stati assolutistici e poi nazionali, implacabili nell’imporre con l’ausilio delle armi a ogni società geograficamente chiusa il modello culturale e linguistico posseduto dal gruppo che prevaleva all’interno del ceto dominante. La repressione dei particolarismi giuridici o linguistici e delle autonomie economiche, politiche o culturali, nonché la cancellazione delle tradizioni e dei collegamenti fra i popoli non organici a quelli dei vari Stati nazionali, sono state perseguite con determinazione assoluta. I domini che formavano la monarchia alla sua nascita erano diversi e gli strumenti con i quali la sua dirigenza politica esercitava il potere centrale erano differenti fra loro e si adeguavano a ogni particolarismo, al punto di privare di ogni senso qualsiasi progetto di cancellazione delle culture che la componevano. Solo la frammentazione del Continente poteva consentire politiche di forte centralizzazione autoritaria. La storia non è mai scritta, né tanto meno determinata in maniera meccanica, prima di segnare con gli
avvenimenti il suo corso: l’Europa non era obbligata da una macchina inesorabile alle vicende, alle azioni e alle scelte che hanno fatto nascere gli Stati nazionali, né tantomeno alle forme di nazionalismo esasperato che hanno portato alla sfrenata concorrenzialità coloniale, a uno sviluppo industriale basato sullo sfruttamento estremo dei ceti meno protetti, alla militarizzazione del Continente e a guerre sempre piú sanguinose, fino al disastro dei due conflitti mondiali.
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Carlo V zioni e di franchigie apparivano piú strumenti per acquisire disponibilità economica a breve che mezzi per indirizzare il sistema e sostenerne la crescita. Tutto questo in una società che separava momenti laici e momenti religiosi in un modo diverso da come si sarebbe fatto in quella postilluministica. La Chiesa partecipava con vigore a tutti gli aspetti della vita di ogni comunità; vescovi e cardinali erano uomini politici sotto ogni riguardo, gli Ordini religiosi erano vere potenze economiche.
Un compito arduo
Carlo V in armatura, olio su tela di Tiziano Vecellio. Metà del XVI sec. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
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persona, da titolo a titolo in base al quale veniva esercitato il potere. Le funzioni giudiziaria, amministrativa e legislativa erano confuse e affidate agli stessi organi che si immaginavano soprattutto come corti di giustizia, la cui attività era quindi indirizzata a dirimere i contrasti piú che a svolgere un’azione politica propositiva. Altrettanto confusi erano i rapporti fra il potere politico e il nuovo potere economico che si stava affermando in Europa, e si concentrava nelle mani di banchieri e mercanti la cui disponibilità in termini monetari oltrepassava spesso di molto quella dei sovrani. Una situazione nella quale il potere finanziario si contrappone e a volte sovrasta il potere politico, è molto meno recente di quanto siamo portati a credere. I meccanismi di controllo dell’economia fiscalità, dazi, emissione di moneta, concessione di agevola-
Governare una simile situazione dovendo inventare gli strumenti per farlo costituiva una sfida mai tentata prima in Occidente. L’ordine imposto con le armi da Ottaviano Augusto a un impero stremato da decenni di guerre civili era un risultato meno impegnativo di quello che avrebbe dovuto conseguire Carlo V, amalgamando la spumeggiante e complessa unione di società che si trovava a governare. Non ultimo si aggiungeva il problema delle comunicazioni, la cui lentezza dava alla monarchia dimensioni immense. La Terra non era mai stata e non sarebbe piú stata cosí grande. La notizia della vittoria di Pavia del 1525, evento grandioso che comprendeva la cattura di Francesco I, impiegò due settimane per raggiungere Carlo V, che si trovava a Madrid. A quella della morte di Sebastiano I del Portogallo occorsero nove giorni per arrivare dal Marocco all’Escorial. La scomparsa di Filippo II fu compianta nelle città della Vecchia Castiglia con parecchi giorni di ritardo, per la lentezza con la quale la notizia si diffuse. Quando usciamo dai confini europei, i tempi delle comunicazioni cominciano a misurarsi non piú in giorni e settimane, ma in mesi e persino in anni. Da Lisbona a Goa la percorrenza media di un viaggio di andata e ritorno per un messaggio era di diciotto mesi, per il Perú occorrevano due anni, che salivano a cinque per ottenere risposta a una comunicazione inviata a Manila, che veniva raggiunta da Oriente. Attraversare l’oceano non era solo questione di distanza, ma di stagionalità e di regime dei venti, ai quali si aggiungevano i problemi legati all’insicurezza delle rotte. La flotta dell’argento compiva il viaggio una volta l’anno, sempre in convoglio. Il sistema prese il nome di Carrera de las Indias, e si basava su un’organizzazione rigida che prevedeva la partenza di due squadre navali destinate a riunirsi in America per coprire insieme il percorso di ritorno. In marzo o in aprile salpavano le flotas dirette ai Caraibi, in
agosto o settembre prendevano invece il mare i galeones destinati a Portobello nell’istmo di Panama o a Cartagena. Effettuato lo scarico e imbarcate le merci, e soprattutto il metallo prezioso da riportare in Castiglia, le due formazioni si riunivano a Cuba e cosí ricongiunte facevano vela verso Siviglia, dove il loro arrivo rappresentava l’evento dell’anno.
Nuovi apparati amministrativi
Non appena consolidato il meccanismo in base al quale erano assicurati i trasporti e fissate le tariffe da e per le Indie occidentali, pur con un contrabbando endemico e con la continua, inevitabile minaccia dei corsari e delle tempeste, si cercò una risposta per gli altri problemi. Si istituirono nuovi consigli, che si aggiunsero a quelli già esistenti per la Castiglia e l’Aragona; ci si preoccupò della selezione e della formazione di nuovo personale; tutto questo ponendo particolare attenzione a mantenere intatte le prerogative del sovrano, al quale doveva spettare l’ultima parola nella soluzione di ogni questione di qualche rilievo. Le pratiche venivano istruite dagli appositi consigli territoriali o da quelli specializzati in vista della decisione del re, al quale erano riservate le nomine piú importanti e le scelte strategiche, oltre a una valanga di questioni in apparenza minori che però riguardavano personalità disposte ad accettare solo provvedimenti emessi dalla massima autorità. Le decisioni da prendere erano sempre troppe e il tempo per decidere non bastava mai: soprattutto allo scrupoloso ma irresoluto Filippo II, el rey prudente, come lo si chiamava non senza ironico eufemismo. Egli doveva riflettere, consultarsi, incaricare persone di fiducia di studiare i problemi, anche se ai piú fidati ed esperti dovevano per necessità essere affidati incarichi lontani, di viceré e di governatore. L’ordinaria amministrazione tendeva a prevalere sulle scelte strategiche, dalle quali del resto non era in nessun modo disgiunta. Il risultato di tanta accuratezza era, fra l’altro, paradossale:
Salvator Mundi (Cristo con il globo), olio su tavola di autore anonimo. 1537-1545. Berlino, Deutsches Historisches Museum.
il re veniva letteralmente assorbito dalle cure dell’ordinario e del quotidiano, che gl’impedivano di elevarsi a una visione d’insieme della sua realtà di governo; proprio a causa di quella sua puntigliosa e arcigna cautela i governanti periferici temevano di assumere iniziative personali e al tempo stesso si sentivano abbandonati, privi talvolta per lunghi mesi di una qualunque direttiva che, quando giungeva, era comunque troppo rigorosa e invecchiata, inaggirabile e insieme inutilizzabile. Non mancavano gli strumenti giuridici per opporsi a decisioni non condivise, soprattutto in tema di tutela delle prerogative personali e locali. Nell’assegnazione delle cariche, un aspetto della vita istituzionale sul quale pesava l’intrico delle venalità incrociate (e la «venalità negli uffici» era parte fisiologica e strutturale, non patologica e straordinaria, della vita della monarchia non meno che di altre compagini europee), grande attenzione veniva richiesta al rispetto per i diritti dei «naturali», dei sudditi, cioè, originari dei regni e dei territori sottoposti alla gestione dei vari consigli, ai quali erano riservate tutte le posizioni di prestigio e influenza con la sola esclusione delle attribuzioni di viceré, governatore e comandante militare. La suddivisione rigida creava spesso dei problemi, dato che i non naturali di alto lignaggio, inviati a governare domini lontani dalla loro madrepatria, finivano con l’imparentarsi con le grandi famiglie del luogo, cosí che diveniva difficile attribuire a ogni personalità una naturalità precisa, e gli stessi candidati finivano per concorrere a cariche destinate a provenienze diverse. Anche le investiture religiose, spesso molto redditizie, soggiacevano di fatto a questa regola. Si tratta della grande contraddizione della monarchia: il consenso di cui godeva si basava sul rispetto dell’equilibrio dei poteri locali, ma questo rispetto rallentava l’integrazione fra le sue componenti, soprattutto per quanto riguardava l’amministrazione, sulla quale la libertà d’azione del sovrano era molto limitata. SACRO ROMANO IMPERO
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LE CITTÀ SIMBOLO
Tre regine per un impero
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In alto Aquisgrana (Germania). Un particolare dei mosaici della Cappella Palatina. In basso Praga (Repubblica Ceca). Veduta panoramica del Ponte Carlo (XIV sec.) sul fiume Moldava e dell’antico quartiere di Malá Strana.
Stralsund Rostock Wismar
Lubecca
Koszalin
Amburgo Luneburgo
Brema
PAESI Münster Hildesheim BASSI
Goslar
Pila Berlino
POLONIA
Magdeburgo
Poznan
Paderborn
Aquisgrana
BELGIO
Colonia Bonn
Magonza
Treviri
Dresda
Erfurt GERMANIA
Francoforte
Praga
Bamberga
Worms Heidelberg
FRANCIA
Wroclaw
REPUBBLICA CECA
Norimberga
Brno
Ratisbona
Nancy
Stoccarda Tubinga Augusta
Linz
Monaco di Baviera
Salisburgo
Friburgo Basilea
AUSTRIA
SVIZZERA
Krems Vienna
Graz Maribor Maribor Maribor
ITALIA
SLOVENIA
In alto cartina moderna dei territori europei un tempo compresi nei confini del Sacro Romano Impero e nei quali sono dislocate le città simbolo di Aquisgrana, Praga e Vienna. A destra Vienna. Particolare della facciata del duomo di S. Stefano, cuore medievale della città, con le sue torri gemelle. Costruito a partire dal XII sec., subí una radicale ristrutturazione nel Trecento, assumendo la fisionomia tardo-gotica che conserva ancora oggi.
Da Aquisgrana a Vienna, passando per Praga, ecco i profili di tre centri nevralgici del Sacro Romano Impero. La loro rilevanza è, ancora oggi, testimoniata dalle magnifiche opere architettoniche promosse da Carlo Magno e dai suoi successori
AQUISGRANA di Alessandro Barbero
S
i è soliti affermare che Aquisgrana (in tedesco: Aachen) fu la capitale dell’impero di Carlo Magno; ma non tutti sono d’accordo che sia proprio cosí. Una capitale, infatti, è il luogo in cui risiede un’amministrazione stabile, con i suoi uffici, il suo personale e i suoi archivi, che rimangono sul posto anche quando il sovrano si allontana. Nell’impero carolingio non esisteva niente di tutto questo, perché il re conduceva un’esistenza vagabonda, e tutto il personale di governo si spostava con lui. Perciò la presenza fisica del sovrano era sufficiente per trasformare qualunque luogo, foss’anche un accampamento militare, nel centro decisionale dell’impero. Al ritorno dalle campagne militari estive e dalle cacce autunnali, Carlo Magno, per svernare e trascorrere le festività religiose, sceglieva uno qualunque dei suoi palazzi, Quierzy o Herstal, Worms o Thionville, che, fino alla primavera successiva, si trasformava nella capitale provvisoria dell’impero. È vero, però, che, a partire dal 794, il re cominciò a trattenersi di preferenza ad Aquisgrana, antica sede termale romana, dove già da qualche anno aveva intrapreso la costruzione d’un imponente palazzo. La nuova sede distava appena una giornata di viaggio da un’altra residenza favorita, Herstal, e non venne dunque scelta per ragioni geopolitiche, ma soltanto per l’attrazione delle acque, eccellenti per un uomo che invecchiava e doveva curare l’artrosi. Grazie, dunque, a quelle acque da cui prende il nome, Aquisgrana diven-
LE CASE PER I FAMILIARI E I NOTABILI Una serie di edifici minori, in legno e traliccio, riempivano gli spazi intorno al palazzo. Si trattava di scuole palatine, case per i familiari del sovrano, per i notabili di corte e per gli artigiani.
IL PALAZZO IMPERIALE A sinistra spaccato della Cappella Palatina, la costruzione piú grande e artisticamente rilevante del periodo carolingio. È un edificio molto complesso, formato da un nucleo centrale ottagonale, illuminato da otto finestre poste al di sotto delle imposte della volta. Le pareti sono perforate da archi a tutto sesto, i quali immettono in una galleria anulare che circonda il perimetro ottagonale formando un poligono a sedici facce.
UNA MAGNIFICA ECCEZIONE La sostanziale povertà dell’architettura carolingia, che usava il legno come principale materiale da costruzione, fa sí che non sia giunto fino a noi assolutamente nulla dell’edilizia abitativa, nemmeno d’un complesso imponente come il palazzo di Aquisgrana. I maggiori edifici ecclesiastici, per cui si impiegavano piú volentieri la pietra e il mattone, avevano maggiori probabilità di durata, ma nel corso dei secoli il cambiamento del gusto e la crescente disponibilità di risorse economiche hanno
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RESIDENZA PREDILETTA La Cappella Palatina è l’unico edificio superstite del complesso edificato intorno all’800, quale residenza prediletta, da Carlo Magno. Dalla sua struttura centrale si dipartono due ambienti molto ampi. In uno di essi, e piú precisamente nel matroneo, di fronte all’altare, si trovava il trono dell’imperatore, di fattura molto semplice, in lastre di marmo.
LE TERME A breve distanza dal nucleo centrale del complesso, sul lato est, sono emerse le strutture delle terme, alle quali Aquisgrana deve il privilegio di essere stata la residenza preferita di Carlo Magno.
LA GALLERIA PER LA GUARNIGIONE Una galleria a due piani, lunga circa 120 m, univa la Cappella Palatina all’Aula Regia. Vi era forse ospitata la guarnigione del posto di guardia. Alla sua metà, e disposto ortogonalmente rispetto a essa, si ergeva un edificio a due piani, dove si ipotizza venisse esercitata la magistratura.
fatto sí che fossero quasi sempre rifatti da capo a piedi. Aquisgrana, per fortuna, rappresenta una parziale eccezione, giacché qui è tuttora visibile la testimonianza piú importante dell’architettura carolingia, la Cappella Palatina. L’interno voluto da Carlo Magno è ancora in gran parte riconoscibile, nonostante il restauro compiuto già in età ottoniana, e i successivi rimaneggiamenti di età gotica. Le colonne e i capitelli saccheggiati in Italia sono ancora lí, come pure le balaustre di bronzo che racchiudono il trono di
candido marmo. L’alterazione piú vistosa è data dall’ambientazione dell’edificio, che in origine era inserito nel complesso del palazzo imperiale, e si apriva su un cortile capace, a quanto si dice, di contenere 8000 persone. Ora, invece, l’aggiunta della torre campanaria, di numerose cappelle e del grandioso coro gotico hanno trasformato la Cappella nella cattedrale di Aquisgrana, ed è necessario uno sforzo d’immaginazione per rappresentarsela nelle sue condizioni originarie.
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Le città simbolo
Aquisgrana (Germania). La splendida cattedrale di S. Maria costruita nell’VIII sec. per volere di Carlo Magno, che ne fece uno dei simboli del suo impero. Fin dall’Alto Medioevo venne utilizzata come sede della cerimonia di incoronazione dei re tedeschi. Il nucleo piú antico dell’edificio, la rinomata Cappella Palatina, conserva ancora in buona parte la fisionomia originaria.
A sinistra il coro della cattedrale di Aquisgrana con la pala dell’altare maggiore (XI sec.) composta da pannelli di lamina d’oro nella quale sono rappresentati in rilievo alcuni episodi della Passione di Cristo. Sullo sfondo, i finestroni delle vetrate policrome, i secondi piú alti d’Europa dopo quelli della cattedrale di Metz.
ne il luogo in cui sempre piú spesso si era sicuri di trovare l’imperatore. L’età avanzata del sovrano, che aveva sempre meno voglia di muoversi, fece il resto: dopo l’807 non lo vediamo piú lasciare Aquisgrana, né d’inverno, né d’estate, eccezion fatta per le irrinunciabili cacce nell’attigua foresta delle Ardenne. E proprio la vicinanza della foresta, da cui Aquisgrana era circondata, contribuí alla scelta di Carlo Magno, benché il luogo fosse piuttosto isolato e lontano dalle grandi vie di comunicazione. Aquisgrana, insomma, è una residenza imperia116
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le, piú che una capitale amministrativa: possiamo paragonarla a Versailles, piuttosto che a Parigi. E, del resto, non era nemmeno una città, nel senso tecnico del termine, perché non era sede di un vescovo; né Carlo Magno si preoccupò mai di rimediare, come avrebbe potuto fare con la massima facilità.
Tutto ruotava intorno al palazzo
A differenza della maggior parte delle città medievali, il cui cuore è la cattedrale, Aquisgrana era dunque organizzata intorno al palazzo. Questo si componeva, in realtà, di un insieme di edifici, di cui gli archeologi hanno ritrovato le fondamenta e ricostruito la pianta, benché non resti quasi piú nulla di visibile. A nord del complesso sorgeva la residenza imperiale vera e propria, protetta da un torrione; secondo l’abitudine germanica, essa si sviluppava intorno a una grande sala, in cui Carlo poteva ricevere e banchettare. A sud sorgeva la Cappella Palatina, consacrata alla Vergine, e dove i chierici di corte celebravano ogni giorno il servizio divino alla presenza dell’imperatore. Il collegamento fra i due edifici era assicurato da un portico ligneo, in cui, nell’801, fu eretta una statua bronzea di Teodorico, asportata da Ravenna. A est, le terme e i servizi, comprese le abitazioni dei domestici, degli artigiani, dei mercanti che servivano il palazzo;
tutt’intorno si affollavano le residenze private dei nobili e dei prelati. La costruzione del palazzo, personalmente voluta e diretta da Carlo, fu anche un atto politico, carico di connotazioni simboliche. Gli architetti avevano istruzioni precise: Aquisgrana doveva entrare in concorrenza con Roma e Costantinopoli, con Ravenna e Gerusalemme. Il re dei Franchi dichiarava la sua intenzione di emulare gli antichi imperatori romani e i re d’Israele, i re goti d’Italia, i moderni sovrani bizantini e anche i papi, edificando un complesso residenziale in grado di rivaleggiare con il palazzo imperiale di Bisanzio e con la sede papale del Laterano. La carica simbolica era concentrata soprattutto nella Cappella, di forma ottagonale, e dominata dal mosaico del Cristo Pantocratore. Sotto il mosaico era installato il trono del sovrano, in una posizione elevata che faceva di lui, agli occhi di tutti, il mediatore fra Dio e la comunità dei fedeli. Nel commissionare l’edificio, Carlo Magno s’ispirò forse al battistero del Laterano in Roma; ma l’ispirazione piú importante, e politicamente piú significativa, veniva dal cosiddetto Triclinio Aureo, al tempo stesso chiesa e sala del trono, eretto al centro del palazzo imperiale di Bisanzio. Carlo non era mai stato laggiú, benché s’informasse avidamente dai suoi ambasciatori; ma si sapeva che il Triclinio Aureo assomigliava alla chiesa di S. Vitale a Ravenna, e un architetto mandato a studiare quest’ultimo edificio tornò ad Aquisgrana con piani e misure sufficienti per costruirne uno simile.
Per la maggior gloria del sovrano
Naturalmente, non bisogna esagerare nell’attribuire all’imitazione dei modelli romani o bizantini un preciso intento programmatico. La statua bronzea di Teodorico eretta nel portico del palazzo può essere stata messa lí per far concorrenza alla celebre statua equestre di Marco Aurelio, che allora non stava, come oggi, in Campidoglio, bensí nel palazzo papale del Laterano, ed era creduta un ritratto di Costantino. Ma non si può nemmeno escludere che il possesso di quel capolavoro dell’arte antica fosse considerato in sé appropriato alla magnificenza d’un grande sovrano, senza alcuna implicazione programmatica; un po’ come l’elefante che arrivò l’anno dopo, mandato in regalo dal califfo di Baghdad, e che Carlo portò ovunque con sé, finché il bestione non morí nell’810. In altri casi, piú che d’imitazione si trattava semplicemente del desiderio di reimpiegare materiali antichi, la cui qualità non era piú raggiungibile dagli artigiani contemporanei: Egi-
Il trono dell’imperatore, collocato nel matroneo della grande chiesa.
nardo scrive che Carlo, non potendo procurarsi altrove le colonne e i marmi necessari alla costruzione, li fece venire da Roma e da Ravenna. Infine, non bisogna dimenticare che, rispetto all’epoca di Carlo Magno, quasi tutto quello che ancor oggi vediamo ad Aquisgrana è stato rimaneggiato: a lungo, per esempio, si è creduto che il trono imperiale fosse stato costruito a imitazione del trono di Salomone, cosí com’è descritto nella Bibbia, finché la scoperta di alcuni disegni non ha dimostrato che era stato rimodellato in quella forma nel XIX secolo! E tuttavia, è pur vero che un poeta di corte parla di Aquisgrana come d’una «nuova Roma», e che uno degli edifici del palazzo era soprannominato «il Laterano», mentre Alcuino paragona la Cappella Palatina al Tempio di Salomone, e Aquisgrana a una nuova Gerusalemme: la storia romana e l’Antico Testamento convergevano a designare nel re dei Franchi l’uomo della Provvidenza, caricando la sua residenza favorita di un’altissima portata simbolica. SACRO ROMANO IMPERO
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PRAGA di Fabio Brioschi
A
l centro della piazza della Città Vecchia di Praga (Staromestské námestí) si erge maestoso il monumento dedicato all’uomo simbolo dell’orgogliosa nazione ceca: Jan Hus. Il grande riformatore religioso, però, non è la sola grande personalità ad avere lasciato nella Boemia medievale una traccia profonda; un altro personaggio, senza il quale forse non si sarebbe prodotto l’ambiente culturale e politico in cui si sviluppò il movimento hussita, domina la storia di Praga: Carlo IV di Lussemburgo, re di Boemia dal 1347 e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1355. Nato nel 1316 a Praga da Giovanni di Lussemburgo, figlio di Enrico VII di Lussemburgo, e dalla principessa ceca Eliska (Elisabetta), ultima erede dei Premyslidi, sovrani autoctoni della Boemia, scelse Praga come sua residenza imperiale e ne fece una delle piú grandi corti d’Europa, risollevando il regno e la sua capitale fino all’apice della ricchezza e della prosperità dopo un periodo di crisi e di abbandono. Sul finire del XIII secolo, infatti, il progressivo indebolimento della dinastia premyslide – estintasi nel 1306 con la morte di Venceslao III – aveva gettato la Boemia nell’instabilità politica e sociale, causate dall’insanabile conflitto apertosi fra la borghesia di origine tedesca, che aveva il controllo della città di Praga, e l’inquieta nobiltà ceca, che aveva le proprie roccheforti nelle campagne boeme e che approfittò della debolezza della corona per impossessarsi di terre e ricchezze.
Rivalità di classe
Da sempre nell’orbita germanica, la Boemia contava numerosi abitanti di lingua tedesca, concentrati per lo piú a Praga e nelle piú grandi città del Paese, nelle quali costituivano l’ossatura dell’emergente patriziato cittadino. A Praga essi controllavano le magistrature della città e fra di loro venivano eletti i membri del consiglio municipale della Città Vecchia. Si trattava in gran parte di commercianti, di gestori delle ricche miniere d’argento e di grandi proprietari terrieri; attività che li ponevano spesso in conflitto con i medesimi interessi della grande nobiltà boema, mal disposta a sopportarne la concorrenza. Gli ultimi premyslidi – in particolare Ottocaro II Statua di Carlo IV di Lussemburgo (1316-1378) situata nella Križovnické námešti, la piazza antistante il ponte che porta il nome del monarca. 118
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Le città simbolo
Veduta di Praga, dal Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del mondo pubblicata tra il 1572 e il 1617. (†1278) e Venceslao II (†1305) – erano riusciti a stabilire un buon equilibrio politico all’interno del Paese, acquisendo l’ereditarietà della corona in cambio di alcuni importanti benefici concessi alla nobiltà. La consuetudine prevedeva che la corona divenisse elettiva solo in caso di estinzione della linea maschile della famiglia reale, il che si verificò, appunto, nel 1306. Il regno fu affidato in un primo tempo a Enrico di Carinzia (1307-10), sostenuto dalla ricca borghesia tedesca di Praga, ma la situazione instabile e i continui conflitti fra il patriziato e la nobiltà spinsero a cercare l’intervento di Enrico VII di Lussemburgo, appena eletto re dei Romani. Una delegazione di nobili cechi, patrizi praghesi e autorevoli religiosi chiese al Lussemburgo che il figlio Giovanni sposasse l’ultima erede dei Premyslidi, la principessa Eliska, con l’evidente prospettiva di incoronarlo re di Boemia e riportare il baricentro dell’azione politica regale verso il solco della tradizione premyslide. Giovanni di Lussemburgo divenne cosí il nuovo re di Boemia. Tuttavia, nonostante una certa prosperità economica e il sopimento degli antichi conflitti fra nobili cechi e patrizi tedeschi, le aspettative degli uni e degli altri rimasero ben presto deluse quando fu palese che Giovanni di Lussemburgo non avrebbe privilegiato la Boemia fra tutti i suoi
UN FASCINO DIFFUSO Uno dei libri piú famosi su Praga è Praga magica del grande slavista Angelo Maria Ripellino (Einaudi, Torino 1973¹) su cui si è costruito il mito di una città esoterica e profondamente pervasa da un costante simbolismo magico. Il libro, bellissimo e per certi versi commovente per il grande amore che legò Ripellino alla capitale boema, tuttavia, ha forse un po’ offuscato gli altri mille motivi di interesse di questa città. Praga nasconde il proprio fascino, storico e artistico, in ogni angolo, in ogni via dei suoi cinque quartieri antichi, il cui difficile nome in lingua ceca aggiunge ulteriore fascino: Staré Mesto (la Città Vecchia), Nové Mesto (la Città Nuova), Josefov (il Quartiere Ebraico), Malá Strana (la Piccola Parte), Pražský hrad a Hradcany (il Castello). Principale luogo simbolo della città è piazza della Città Vecchia, il cuore di Praga, spazio deputato allo svolgimento dei principali eventi cittadini e nazionali. Proprio qui, il 21 giugno 1621 – all’indomani della battaglia della Montagna Bianca, dalla quale uscirono sconfitti i protestanti boemi ribellatisi al dominio cattolico degli Asburgo – il boia Jan Mydlá giustiziò ben 27 signori cechi, capi della ribellione anti-cattolica. L’esecuzione fu talmente efferata da prostrare per secoli l’orgoglio della nazione ceca e colpire in profondità l’immaginario collettivo dei cittadini praghesi. Non è certo un caso se proprio in questa piazza nel 1915, nel 500° anniversario della morte di Jan Hus, sia stato posto il monumento dedicato al riformatore religioso: esso rappresenta gli hussiti vittoriosi e i protestanti costretti a lasciare la Boemia all’indomani della sconfitta, mentre una giovane donna rappresenta la rinascita della nazione ceca; su tutti domina la statua di Jan Hus, considerato il padre della patria ed eroe della rinascita del nazionalismo ceco. Tale è la considerazione di cui gode che, all’indomani dell’invasione nazista della Cecoslovacchia nel 1939, ignote mani della Resistenza gli posero un velo sulla testa per impedirgli di vedere l’atroce disgrazia che stava per abbattersi sulla nazione ceca.
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LA FONDAZIONE Una delle piú belle e note leggende ceche narra la storia di come la principessa Libussa e il contadino Premysl fondarono Praga. La bellissima giovane era dotata del potere della preveggenza e discendeva da Czech, una sorta di Mosè ceco che guidò la sua tribú dall’Est europeo fin sulle rive della Moldava. In uno dei suoi sogni premonitori, Libussa vide Premysl e decise che l’avrebbe sposato per farne il capo della propria tribú. Poco dopo Libussa ebbe un’altra visione e vide una grande città sulla sponda opposta del fiume, una città che avrebbe avuto grande fama e grandi onori. Si mise in marcia a capo del suo popolo finché si imbatterono in un uomo che stava intagliando la soglia (prah in ceco) della propria casa. Libussa, allora, ordinò che lí venisse edificato un castello che sarebbe stato chiamato «Praga» e che avrebbe costretto ogni principe a chinare la testa.
Le città simbolo La principessa veggente Libussa in un dipinto di Karl Vitezlav Masek, 1893. Parigi, Musée d’Art Moderne. Secondo la leggenda, la donna fondò nell’VIII sec. la dinastia boema dei Premyslidi e la città di Praga. Nella pagina accanto la casa occidentale del Municipio di Praga nella quale si apre la cinquecentesca finestra tirpartita sormontata dalla scritta «Praga caput regni». In basso l’orologio astronomico (XV sec.) situato nella piazza della Città Vecchia (Staromestské námestí). Ogni ora, dalle due finestrelle superiori si materializzano le figure dei 12 Apostoli. territori di famiglia e, anzi, l’avrebbe trascurata. Intrighi e gelosie ripresero il sopravvento, al punto che Giovanni fece imprigionare la moglie Eliska e il figlio Venceslao, per poi spedire la prima in Baviera e il secondo alla corte reale dello zio Carlo IV a Parigi (un evocativo caso di omonimia) per esservi convenientemente educato, ma, in realtà, per allontanarlo dalle trame della corte ceca. A Parigi, dove rimase per sette anni, Venceslao fu ribattezzato Carlo. Il padre cercò in seguito di tenerlo in ogni modo lontano dalla Boemia, mandandolo ora in Italia ora in Lussemburgo a trattare le proprie faccende e combattere le proprie guerre.
Nel solco della tradizione
Quando Carlo decise autonomamente di tornare a Praga, sua città natale, vi trovò i simboli del potere regio in rovina: le macerie del castello reale di Pražský hrad, sulla collina di Hradcany, e del castello di Vysehrad, il nucleo originale e piú antico della dinastia materna dei Premyslidi, dovettero fare una grande impressione al giovane, che, nel frattempo, era stato nominato margravio di Moravia dal padre. Carlo iniziò a operare nel solco della tradizione regale della famiglia materna, riallacciando relazioni con la nobiltà ceca e con la municipalità praghese, ristabilendo i contatti con la Chiesa boema e dimostrando interesse per le sorti del proprio Paese, ma non poté rendere definitivo il proprio ritorno in Boemia, perché re Giovanni, irritato dai successi che il figlio stava riscuotendo in patria, lo spedí nuovamente in missione: una missione che durò ben sei anni e che lo portò nuovamente in giro per l’Europa a curare 120
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gli interessi dei Lussemburgo. Il vecchio re, tuttavia, ormai al termine della propria vita, si decise infine a lasciare il trono al figlio. Giovanni morí nella battaglia di Crécy nel 1346, affrontando gli Inglesi al comando della cavalleria francese; Carlo fu eletto re dei Romani nello stesso anno, re di Boemia nel 1347, re d’Italia e imperatore del Sacro Romano Impero nel 1355. Il neoeletto confermò la scelta di Praga come sede della sua corte imperiale e vi si dedicò con passione e intelligenza, al fine di accrescerne la fama e la bellezza. Già sotto il regno del padre, ma solo grazie al suo impulso, la città fu sottratta all’arcidiocesi di Magonza ed elevata a sede arcivescovile (1344), un fatto importante che permise a Carlo di instaurare con la Chiesa boema un dialogo proficuo a sostegno della propria regalità, celebrato con l’avvio dei lavori di costruzione della nuova cattedrale, che sorse nei pressi del castello di Hradcany. Tenendo a mente le proprie origini premyslidi, che erano per il nuovo re un punto di riferimento assai importante, Carlo intervenne con acume e decisione nella struttura urbanistica e sociale di Praga.
Il restauro del castello
Contemporaneamente alla costruzione della nuova cattedrale e alla ristrutturazione del castello di Hradcany, Carlo si dedicò anche alla costruzione del castello di Karlstejn, a pochi chilometri da Praga, ma, soprattutto, procedette alla ristrutturazione del maniero di Vysehrad, il piú antico e piú significativo del regno premyslide, caduto in rovina negli anni bui successivi all’estinzione della dinastia e già in parte sostituito da quello di Hradcany, piú vicino e agevole rispetto alla Città Vecchia.
FAMIGLIE CHE CONTANO La preminenza della parte tedesca nel governo di Praga è desumibile anche grazie al fatto che, dal 1310 si cominciò a tenere un registro della Città Vecchia, in cui si annotavano i regolamenti, le ordinanze e i piú importanti avvenimenti cittadini. Fra le famiglie piú in vista si segnalarono i Wölflin (Wölfel in ceco), noti finanziatori del nuovo re Giovanni, gli Olbram, gli Stuck, i Fridinger, i von Stein, tutti di origine tedesca, e solo gli Junos e i Kokot di origine ceca. La progressiva importanza assunta da queste famiglie nel governo della città di Praga è testimoniata dal fatto che nel 1338 Giovanni di Lussemburgo autorizzò il consiglio municipale ad acquistare un palazzo sulla piazza della Città Vecchia, centro sociale e politico per eccellenza di Praga, per farne la sede di rappresentanza e il Palazzo
municipale. La carica simbolica della posizione scelta è comprovata, fra l’altro, dal fatto che la sede della municipalità praghese è tuttora ospitata nel medesimo palazzo. La restante parte del popolo praghese era costituita perlopiú da Cechi, che si dedicavano all’artigianato e ai lavori manuali, e, in gran parte, da poveri che vivevano alla giornata, come in ogni altra grande città europea. A partire dalla fine del XIII secolo i lavoratori delle arti e dei mestieri cominciarono a riunirsi in confraternite e gilde, dandosi un’organizzazione stabile e duratura e contribuendo a una notevole rinascita economica della città, che si avviava a diventare un centro propulsivo e commerciale di riferimento per tutta l’area dell’Europa orientale.
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Le città simbolo
UN TRIBUNO E UN POETA ALLA CORTE DI CARLO I legami di Carlo IV con l’Italia sono assai noti, per via dei suoi lunghi soggiorni e della sua predilezione per la città di Lucca, ma la presenza di alcuni Italiani a Praga è invece alquanto curiosa, come quella del tribuno romano Cola di Rienzo e di Francesco Petrarca. Il primo, appassionato ed eclettico sostenitore della riforma della Chiesa, giunse a Praga nel 1350 e fu introdotto a corte dal farmacista reale Angelo. Alla presenza del re cominciò a rivelare le proprie profezie sulla riforma della Chiesa romana, che si sarebbe potuta verificare grazie alla collaborazione fra Carlo e Cola stesso. Il Romano fu arrestato a causa delle sue idee circa la necessità di rinnovamento delle istituzioni ecclesiastiche e divenne presto una pedina di scambio nei travagliati rapporti fra la corte boema e la curia avignonese: in palio c’era l’incoronazione imperiale di Carlo. Rispedito a Roma,
Cola fu liberato da papa Innocenzo VI, ma venne poi assassinato in un tumulto di piazza nel 1354. Anche Petrarca in qualche modo sognava una rinascita dell’autorità e del prestigio dell’impero romano e aveva anch’egli individuato in Carlo re di Boemia colui che avrebbe potuto raggiungere questo scopo. I due si incontrarono una prima volta nei pressi di Mantova nel dicembre del 1354, mentre Carlo si recava a Roma per l’incoronazione imperiale, e una seconda volta nel 1356, a Praga, dove Petrarca fu inviato come ambasciatore dai Visconti di Milano. Il poeta fu accolto con tutti gli onori e fu addirittura nominato conte palatino. Carlo e Petrarca si incontrarono ancora in occasione del secondo viaggio dell’imperatore in Italia e le relazioni si mantennero cordiali per tutta la durata della loro vita.
In questa pagina la cattedrale praghese di S. Vito (XIV sec.) con l’entrata principale, la «Porta d’oro» (a destra), e un particolare delle decorazioni della facciata (qui sotto).
In quest’ottica decisamente imperiale Carlo promulgò nel 1348 due decisioni di portata storica per la città di Praga: la fondazione della Città Nuova (Nové Mesto), un progetto talmente grandioso che non fece in tempo a essere terminato prima della morte del re, e l’istituzione dell’Università, la prima dell’Europa orientale. All’epoca del ritorno di Carlo a Praga, la città era costituita dal nucleo antico della Città Vecchia, contornata da piccoli borghi sparsi intorno alle mura, dall’insediamento del 122
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castello di Hradcany, circondato da piccoli agglomerati di case, e dal piccolo nucleo di Malá Strana (Piccola Parte). Il suo progetto di rilancio della città prevedeva in un primo tempo la fondazione della Città Nuova, una superficie vasta tre volte quella dell’antico nucleo della Città Vecchia, circondata da bastioni imponenti che comprendevano nel proprio sistema anche il Vysehrad rinnovato. L’impulso sociale e urbanistico impresso dal re fu notevole: furono costruiti chiese e monasteri (S. Enrico nella parte settentrionale, S. Stefano in quella meridionale, il Karlov, in onore di Carlo Magno, al fine di sottolineare la continuità del potere imperiale); il commercio fu favorito con l’istituzione di numerosi mercati, che trovarono posto in piazze oggi molto note e significative di Praga, come piazza Carlo (mercato del bestiame) e piazza Venceslao (mercato dei cavalli). Il re ebbe cura di fare inserire nel perimetro delle mura tutti i borghi che si trovavano nei pressi o poco distanti dalle mura della Città Vecchia, acquisendo legitti-
Il monumento novecentesco innalzato in onore del teologo boemo Jan Hus, collocato al centro della piazza della Città Vecchia. Il religioso fu condannato al rogo per eresia nel 1415.
mamente i terreni e incorporandoli in un unico sistema urbano, i cui nuovi abitanti avrebbero goduto per dodici anni dell’esenzione dalle tasse. In un secondo tempo ordinò che tutti gli agglomerati di case sparsi sulla collina di Hradcany venissero incorporati nel distretto amministrativo del castello, sottoponendoli cosí alla propria giurisdizione regale.
La fusione mancata
Nel 1367 Carlo ordinò di abbattere le mura che dividevano la Città Vecchia dalla Città Nuova, con l’evidente intento di favorire la fusione dei due corpi urbani, ma i gruppi sociali delle due conformazioni erano troppo diversi e ormai sedimentati per fondersi, cosí la divisione fu ripristinata pochi anni dopo. Anche il ponte di pietra sulla Moldova (Karluv most) faceva parte della visione imperiale di Praga e andò a sostituire il ponte di legno preesistente che collegava la Parte Piccola (Malá Strana) alla Città Vecchia, ma Carlo non riuscí a vedere completata l’opera. Sul finire del suo regno, dunque, la città era SACRO ROMANO IMPERO
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Le città simbolo
La torre gotica attraverso cui dal versante della Città Vecchia si accede al Ponte Carlo. Realizzata nel XIV sec. riporta nella facciata gli stemmi di tutti i regni della Boemia e le statue di alcune grandi personalità della storia praghese. Nella pagina accanto uno scorcio del Ponte Carlo sul versante del quartiere di Malá Strana.
UNA COLLEZIONE DA SCOPRIRE Gli amanti dell’arte medievale non possono mancare la visita della Galleria Nazionale di Arte Medievale in Boemia, sede distaccata della Naródní Galerie, situata presso il convento di S. Agnese di Boemia. Il convento venne fondato nel 1233 per volere di Venceslao II in favore della sorella Agnese, suora clarissa, proclamata Santa nel 1989. Dopo secoli di abbandono, l’edificio è stato recuperato sul
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finire degli anni Novanta del Novecento e oggi ospita un museo di arte medievale molto ben strutturato e ricco di opere pregiate. Fra i reperti, sebbene probabilmente poco noti al pubblico italiano, meritano una menzione la predella lignea di Roudnice (inizi XIV secolo), parte del polittico del Maestro dell’Altare di Vyssi Brod, il ciclo della Passione del Maestro dell’Altare di Trebon (fine XIV secolo).
organizzata in quattro entità amministrative, che ancora oggi disegnano sulle cartine i confini dei distretti storici di Praga: la Città Vecchia (comprendente il quartiere ebraico di Josefov), la Città Nuova, Hradcany, Malá Strana. Nell’insieme, questi distretti contavano circa 30 000 abitanti (altre stime parlano di 100 000), con i Tedeschi concentrati perlopiú nella Città Vecchia e i Cechi nei restanti tre. L’altra grande invenzione di Carlo fu la fondazione dell’Università, autorizzata da papa Clemente VI nel 1347 e istituita nel 1348. Essa nacque dal comune interesse del pontefice, che voleva contrastare in tal modo l’azione condotta da Guglielmo di Ockham nell’Università di Monaco, e del sovrano boemo, strenuo sostenitore della Curia avignonese, ma anche genuinamente interessato alla gloria propria e della città.
Una piccola età dell’oro
DA LIBUSSA A SMETANA Sebbene dell’antico castello voluto da re Boleslav II (972-999) siano rimasti scarsi resti della cinta muraria, la collina del Vysehrad vale la visita. Dominato dalla chiesa dei SS. Pietro e Paolo, il luogo si trova al di fuori degli itinerari turistici piú comuni ed è facilmente raggiungibile in metropolitana. Dopo avere visitato la rotonda di S. Martino, la piú antica chiesa romanica di Praga, si può accedere alla spianata del colle, che accoglie opere ottocentesche dello scultore Josef Václav Myslbek, raffiguranti i piú noti personaggi della mitologia ceca: Premysl e Libussa. Proprio qui, infatti, la leggenda della fondazione di Praga a opera della principessa Libussa fa iniziare la storia della capitale boema. Sarà la suggestione della leggenda
stessa o forse il fascino delle poche mura che si affacciano sullo sperone roccioso a picco sulla Moldava, ma qui sembra di essere immersi nella storia di questa magnifica città. Adiacente alla chiesa dei SS. Pietro e Paolo è il cimitero delle personalità illustri della Boemia. Un tempo era un semplice camposanto parrocchiale, ma proprio per suggellare il valore che questo luogo ha nella storia del Paese, verso la fine del XIX secolo esso fu scelto per farvi riposare le spoglie delle personalità piú illustri della Cechia: vi si possono trovare le tombe degli scrittori Jan Neruda (1834-1891) e Karel Capek (1890-1938), dei musicisti Antonín Dvorák (1841-1904) e Bedrich Smetana (1824-1884) e di altri famosi personaggi.
Nelle memorie di Carlo, l’Università appare come un servizio necessario per i Boemi, costretti altrimenti a pericolosi e dispendiosi viaggi e soggiorni all’estero. Sotto questo punto di vista si può affermare che l’età carolina è stata una piccola età dell’oro per l’educazione nelle terre boeme. La sinergia con la Chiesa boema ne fece una delle istituzioni piú importanti del regno carolino e l’Università fu dotata anche di una facoltà di teologia, che ben presto cominciò a competere per fama dei propri docenti e studenti con Parigi e Oxford. Il raggio di influenza del nuovo ateneo si estese presto a tutta l’Europa orientale, attraendo studenti dall’Ungheria, dalla Polonia e dalla Slesia. Jan Hus ne fu prima studente e poi grande e scomodo docente. Una delle conseguenze piú significative delle attività universitarie fu la rivalutazione della lingua ceca, normalmente non utilizzata nei documenti ufficiali della corte e della municipalità praghese, a vantaggio del latino e del tedesco almeno fino alla seconda metà del secolo XIV. La fondazione dell’Università carolina fu di grande stimolo all’evoluzione dell’ambiente culturale praghese, di corte e non, grazie alla capacità di attrarre, ma anche di produrre nel proprio seno, un gran numero di intellettuali e artisti, e spingendo addirittura Francesco Petrarca a dire che il re e il suo seguito avrebbero meritato di godere di fama imperitura come se fossero nati nell’antica Atene. Carlo IV morí nel 1378, lasciando la sua amata Praga all’apice della fama e della ricchezza. In breve, tuttavia, sulla Boemia sarebbero calati nuovamente i tempi bui della guerra e della sottomissione alle potenze straniere. SACRO ROMANO IMPERO
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Le città simbolo
VIENNA di Francesco Troisi
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opo averli conquistati in età augustea, i Romani fondarono nei territori dell’odierna Austria due importanti presidi militari: Carnuntum e Vindobona. Quest’ultima sorgeva nella stessa zona in cui ancora oggi si ammira la parte vecchia di Vienna, l’Innere Stadt, conosciuta anche come primo Bezirk, nella cui area, accanto a monumenti gotici, barocchi e neoclassici, spiccano appunto ruderi di epoca romana. Nell’antico sito della capitale austriaca, teatro delle nozze di Attila e Crimilde nel poema Nibelungenlied, avrebbe trovato la morte l’imperatore Marco Aurelio, nel 180 d.C., durante una spedizione contro i Marcomanni. Verso la fine dell’età antica l’insediamento contava ben 20 000 abitanti ma, quando giunsero i barbari, si spopolò e cadde nell’oblio. La ricostruzione, lenta, seguí il tracciato delle mura dell’accampamento romano e si sviluppò intorno al Berghof, piú o meno nella zona in cui oggi transita la Salvatorgasse. È stato ipotizzato che i nomi dei quartieri Waehring, Dobling e Lainz derivino dallo slavo, parlato dalle popolazioni barbariche che risiedevano nella regione danubiana austriaca all’inizio dell’Età di Mezzo. Amplissimo appare l’arco temporale che, in pieno Medioevo, porta alla comparsa del primo toponimo, Wenia (forse dalla parola illiricoceltica Vedunja che significa «corso d’acqua in una foresta»), da cui derivò quello attuale: lo si legge in un documento dell’arcivescovado di Salisburgo datato 881. L’abitato si era già ingrandito rispetto al periodo successivo alle invasioni barbariche e non corrispondeva piú alla descrizione di piccolo agglomerato di case di pescatori sorto intorno a una piccola chiesa. Ancora nel IX secolo Carlo Magno, con i suoi Franchi, occupò il territorio a ovest di Vienna che fu denominato Ostmark, cioè Marca Orientale. Su quella regione si abbatté la furia devastatrice dei Magiari, gli antichi ungheresi, e solo l’imperatore Ottone il Grande riuscí ad averne ragione grazie alla vittoria nella battaglia di Lechfeld (955). Ristabilitasi la pace, la zona contesa passò al governo di Leopoldo I di Babenberg, membro autorevole della nobiltà bavarese, che detenne il potere per quasi tre secoli.
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Veduta della città di Vienna, realizzata anch’essa per l’opera Civitates orbis terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del mondo curata dai geografi tedeschi pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617. In basso particolare della vetrata del duomo di Vienna nel quale compare il ritratto di Rodolfo I (1218-1291), il sovrano con cui cominciò l’ascesa della dinastia austriaca degli Asburgo. 1340-50.
Il territorio intorno a Vienna si configurò, presto, come Stato sovrano ottenendo l’elevazione a ducato. Nella città danubiana il conte Enrico II vi trasferí il suo governo, nella zona ancora oggi denominata Am Hof, cioè «a corte», proprio per essere stata residenza dei potenti. Inoltre, per la sua posizione strategica al confine tra Oriente e Occidente, Vienna divenne un crocevia tra aree geograficoculturali che spesso avevano incrociato le armi tra loro: il mondo germanico, slavo, magiaro e italiano.
Una stagione di crescita
I Babenberg, con abile fiuto politico, riuscirono a imporre l’autorità sui nobili rivali attraverso una serie di accordi privati. Garantendosi la pace sociale, Vienna ebbe presto la sua prima, rilevante crescita economica, sfruttando l’intenso traffico marittimo sul Danubio alimentato dall’attività colonizzatrice e missionaria della Baviera. Nella futura capitale austriaca, che in quegli anni assunse il suo attuale nome di Wien, si verificò anche un boom demografico, mentre la rete urbanistica si arricchiva di opere dell’architettura sacra. Enrico II promosse nel 1155 la costruzione del monastero degli Scozzesi (Schottenstift) oggi situato nella zona della Freyung. Quasi un secolo dopo i Francescani Minori ottennero da Leopoldo V il possesso di un convento, e cosí anche i Domenicani.
Vienna divenne la piú grande città dell’Austria e i segni tangibili della prosperità e dell’accresciuto ruolo politico si manifestarono nel 1147 con l’edificazione dello Stephansdom, il duomo di S. Stefano (all’inizio in stile romanico poi, risorto da un incendio, in gotico) e di imponenti fortificazioni per difendersi dagli attacchi, soprattutto da est. Di lí a poco Vienna ottenne lo status di città libera, cosí preziosa e opulenta da sollecitare le ambizioni espansioniste della contigua Boemia. La ricchezza della città crebbe in modo ulteriore con la cattura di Riccardo I Cuor di Leone da parte dell’arciduca austriaco Leopoldo V, nel 1192, che intendeva cosí vendicarsi degli attriti intercorsi durante la terza crociata. Tenuto prigioniero a Dürnstein per ben due anni, il re inglese ottenne la libertà solo dietro il pagamento di un riscatto astronomico (si suppone circa 150 000 marchi), che serví per finanziare alcune importanti opere urbanistiche a Vienna, tra cui la cinta muraria. In un periodo di grande fervore culturale che coincise con la diffusione della poesia cortese tedesca, il Minnesang, la città divenne una delle capitali letterarie europee al tempo di Leopoldo VI. Il duca, però, favorí anche i mercanti, non solo la produzione di versi, consentendo cosí la diffusione delle gilde e stabilendo che i commercianti stranieri in transito nel territorio dovessero vendere sul posto le proprie merci.
In basso la corona asburgica di Rodolfo II (1552-1612). Camera del Tesoro della Hofburg. XVII sec.
Dopo la fine dell’era dei Babenberg, i destini di Vienna cambiarono di segno e il devastante incendio scoppiato nella primavera del 1276 sembrò costituirne l’avvisaglia. Il re boemo Ottocaro II, nel frattempo salito al potere, si accollò subito l’onere finanziario della ricostruzione. Il sovrano era molto amato dalla popolazione per essersi non solo impegnato a restaurare i palazzi bruciati, ma anche a fondare un ospizio e un lebbrosario. Cadde, però, in disgrazia per un peccato d’orgoglio: l’aver trascurato di giurare fedeltà all’imperatore del Sacro Romano Impero, Rodolfo I d’Asburgo, il quale gli dichiarò guerra e lo sconfisse pesantemente a Marchfeld nel 1278, dove Ottocaro trovò la morte.
Gli Asburgo al potere
Da quel momento il destino di Vienna si legò alla dinastia asburgica e per la città si aprí una nuova epoca di splendore sociale ed economico promosso da Rodolfo e dal figlio e successore Alberto I. Quest’ultimo, però, impose un regime di restrizioni commerciali e inasprimenti fiscali non graditi dai Viennesi che si ribellarono nel 1287 subendo, alla fine, una violenta repressione. Tra i dissidenti c’erano molti partigiani del vecchio re Ottocaro. Anche il XIV secolo si aprí in modo turbolento, con le ribellioni antiasburgiche scatenatesi contro il nuovo re, Federico I il Bello, e proseguí nel segno delle calamità naturali: nel 1338 SACRO ROMANO IMPERO
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Nella pagina accanto il pulpito settecentesco del duomo di S. Stefano, dedicato a san Giovanni da Capestrano (1386-1456). Proprio in quel punto della chiesa, nel XV sec., il francescano esortò i cittadini a partecipare alla crociata antiturca.
molti casi la vita, tra cui quella di quanti preferirono suicidarsi piuttosto che finire nelle mani degli armati asburgici. Eletto imperatore del Sacro Romano Impero, Federico III d’Asburgo, duca d’Austria, decise di lanciare il suo ducato alla conquista del mondo, in ossequio al motto «Austria est imperator orbi». Il monarca trascinò in guerra il re ungherese Mattia Corvino, ma il conflitto ebbe un esito disastroso: l’occupazione di Vienna da parte dei Magiari per cinque anni, dal 1485 al 1490.
La rinascita
In alto particolare del portale con, sulla sinistra, la statua di Rodolfo IV d’Asburgo, il duca che, nel XIV sec., avviò la ristrutturazione del duomo in stile gotico.
uno sciame di locuste invase il bacino di Vienna, qualche anno dopo arrivò la peste e infine un altro rovinoso incendio. La Morte Nera decimò la popolazione e molti cristiani accusarono gli Ebrei di aver diffuso l’epidemia, cosicché, pur godendo della protezione della monarchia, la comunità israelitica subí gravi persecuzioni. Dimenticata l’epidemia, Vienna trasse vantaggio dall’ascesa di Rodolfo IV, figlio del duca Alberto II che governava la città. Sposandosi con la figlia dell’imperatore Carlo IV di Lussemburgo, contribuí all’ascesa degli Asburgo sullo scacchiere politico internazionale. I matrimoni di convenienza divennero una delle prerogative della dinastia germanica, tanto che fu presto coniato il motto «gli altri fanno le guerre, tu Austria felice, sposati!». Ereditato il trono nel 1358, Rodolfo IV si rivelò un modernizzatore, capace di dotare la capitale di una propria università, di innovative norme sociali e di piani urbanistici piú razionali. Le difese militari, intanto, cominciavano a dare segni di cedimento. Si temevano, in particolare, gli assalti degli Ussiti e dei Moravi, in un’epoca in cui la crisi economica aveva contribuito all’indebolimento politico della città. Dei rovesci finanziari e di tradimento vennero incolpati, ancora una volta, gli Ebrei, contro i quali, nel 1420, il re Alberto V e la Chiesa organizzarono un violentissimo pogrom. L’accusa costò loro l’esproprio dei beni, la tortura e in
Piú abilmente si mosse suo figlio, Massimiliano I, il quale, grazie a nuovi matrimoni combinati, riuscí a impossessarsi della Borgogna. Non fu da meno il figlio, Filippo, che acquisí la Spagna con tutte le terre delle Americhe. E grazie a ulteriori nozze gli Asburgo poterono avere in dote la Boemia e l’Ungheria. Sotto il regno di Massimiliano I Vienna visse un’autentica rinascita culturale, che coincise con la diffusione dell’umanesimo in Europa. In città fiorirono gli studi e cosí la musica, con la fondazione della Hofmusikkapelle, poi divenuta Wiener Sängerknaben, il celebre coro dei «Piccoli cantori di Vienna». Tanto espansionismo esigeva un governo in grado di esercitare il potere su tutto il territorio in maniera duratura, e per questo l’area austriaca fu affidata a Ferdinando I, fratello dell’imperatore Carlo V, una scelta contro la quale i Viennesi insorsero. La ribellione fu però domata e il sindaco e i consiglieri vennero decapitati. Nel 1533 un altro evento epocale scosse l’impero fin dalle fondamenta: i Turchi diedero l’assalto alle mura di Vienna inducendo Ferdinando a rinforzarne le strutture. Le vicende successive della capitale asburgica si intrecciano con la Riforma protestante, con la conseguente Controriforma cattolica e la guerra dei Trent’Anni (1618-1648). Il fattore religioso incise in profondità, fra ondeggiamenti della monarchia austriaca pro e contro la sortita luterana, fino alla supremazia del cattolicesimo, di cui furono fautori l’arciduca Ernesto e soprattutto Leopoldo I, che lasciò nel tessuto urbano della città opere ancora oggi ammirate per lo sfarzo e per l’arte raffinata, a gloria dello stile barocco e rococò. Vienna divenne una vera metropoli solo nell’Ottocento, nel periodo del suo maggior splendore, quando regnava Francesco Giuseppe. Ma perse alcuni gioielli medievali. Proprio il grande imperatore, infatti, dispose l’abbattimento delle antiche mura che circondavano il centro storico, e dalle loro macerie nacque la moderna Ringstrasse. SACRO ROMANO IMPERO
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VO MEDIO E Dossier n. 56 (maggio/giugno 2023) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007
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