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MEDIOEVO DOSSIER
EDIO VO M E Dossier
FEDE, POLITICA E CROCIATE: L’ INARRESTABILE ASCESA DEI PONTEFICI DA GREGORIO MAGNO AD ALESSANDRO VI
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UOMINI DI DIO
N°19 Marzo 2017 Rivista Bimestrale
IN EDICOLA IL 21 FEBBRAIO 2017 My Way Media Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.
UOMINI DI DIO
TUTTI I PAPI DEL MEDIOEVO a cura di Francesco Colotta 6 Presentazione L’imperatore di Dio 8 Gregorio I Magno L’uomo nuovo
72 Innocenzo III Il «papa-sole»
18 Leone III Il patto di ferro
82 Celestino V Gli enigmi dell’eremita
28 Silvestro II La leggenda del papa mago
90 Bonifacio VIII Sono io l’imperatore
di Francesco Colotta
di Francesco Colotta
di Francesco Colotta
di Domenico Caiazza
di Massimo Oldoni
di Agostino Paravicini Bagliani
38 Gregorio VII Il profeta della riforma
106 Benedetto XI Il vendicatore sottomesso
56 Urbano II «Dio lo vuole»
116 Pio II In nome dell’«uomo re»
64 Pasquale II Il grande pacificatore
124 Alessandro VI Una pietra divina
di Agostino Paravicini Bagliani
di Francesco Colotta
di Francesco Colotta
di Francesco Colotta
di Francesco Colotta
di Massimo Miglio e Anna Maria Oliva
L’IMPERATORE DI DIO «I
l vero imperatore è il papa». La citazione, contenuta nel commentario anonimo del XII secolo Summa Parisiensis, tratteggia un profilo a tinte forti del pontefice medievale. La conquista di una posizione dominante sulle istituzioni temporali da parte di chi allora sedeva sul trono di Pietro fu, però, il risultato di un’ascesa lenta che, nell’Alto Medioevo, sembrava impensabile. Fino alla prima metà dell’XI secolo, il papa non riusciva ad avere il pieno controllo nemmeno della Chiesa, della quale era solo il vescovo piú illustre, con una carica quasi onorifica: lontano da Roma, infatti, le sedi vescovili seguivano spesso una linea autonoma che poteva anche contraddire le direttive del pontefice. Solo con l’avvento di Gregorio VII il papato rafforzò la sua dimensione centralista, con l’ambizione di diventare un organismo di tipo monarchico nell’ambito della propria giurisdizione spirituale. In seguito, grazie al concordato di Worms (accordo stipulato il 23 settembre 1122 tra l’imperatore Enrico V e papa Callisto II, con cui si pose termine alla lotta fra papato e impero per le investiture: distinguendo tra investitura episcopale e investitura feudale, si convenne che la prima, conferita con anello e pastorale, spettasse esclusivamente al papa o a un suo rappresentante, mentre la seconda, conferita con lo scettro, competesse all’imperatore, n.d.r.), il papa si trovò in dote il dominio assoluto sulla cristianità, con la benedizione dell’impero che di lí a poco, però, avrebbe subito un ridimensionamento della propria autorità a opera della stessa Chiesa di Roma. Ma che cosa spinse i pontefici dell’età di Mezzo alla grande scalata al potere temporale? Non certo solo l’ambizione o un calcolo strategico, ma anche la necessità di riproporre nel corso della storia «l’incarnazione della Fede», rifiutando quelle tesi esclusivamente «spirituali» della funzione ecclesiale che in seguito ispirarono, per esempio, Celestino V, l’uomo del «grande rifiuto». I papi che ambivano al controllo del potere imperiale furono spesso definiti semplicisticamente «teocratici», senza
una rigorosa indagine sulla reale natura del loro progetto politico. Attraverso il governo laico, i successori di Pietro volevano, in sostanza, essere presenti nel loro tempo, immergendo la vocazione al trascendente in uno scenario in cui si decidevano davvero i destini dei propri fedeli. Senza cadere, però, nella tentazione di riprodurre i vizi tipici delle corti imperiali. Non a caso, due grandi teocrati come Innocenzo III e Gregorio VII si batterono strenuamente per liberare la Chiesa dalla corruzione e dalla secolarizzazione, propugnando forme di rigore morale di chiara derivazione mistica. La politica, per i pontefici, non era una materia sconosciuta. Fin dal V secolo avevano dovuto occuparsene, loro malgrado, in seguito al declino dell’autorità imperiale, nel periodo in cui infuriavano le invasioni barbariche: incombenze come l’amministrazione della giustizia, il trattare con nemici quali gli Unni e i Goti o il procacciare viveri per la popolazione rappresentarono in quel periodo un impegno pressoché costante per il vescovo di Roma. I vari pontefici lo assolsero con cognizione di causa, grazie alla loro provenienza da ambienti aristocratici, nei quali avevano appreso l’arte della gestione del governo temporale. Con l’invasione longobarda, un secolo dopo, il papato si trovò obbligato a firmare un’alleanza con il regno dei Franchi. Quell’atto fu il primo vero salto di qualità politico per i pontefici, i quali, appoggiandosi a un nuovo, forte impero assunsero maggior influenza sulla Chiesa Occidentale e piú autorevolezza anche nelle questioni secolari. Per giustificare il proprio diritto di governo, i papi cominciarono a utilizzare in quel periodo un falso documento apocrifo, il Constitutum Constantini, secondo il quale l’imperatore Costantino I aveva assegnato loro in età antica la sovranità sull’Impero Romano d’Occidente. Solo con Gregorio VII prese definitivamente forma il progetto di «papa-imperatore», padrone della cristianità investito direttamente da san Pietro e supervisore anche del potere politico. Grazie al contributo di Bernardo di Chiaravalle il progetto «assolutista» si affinò anche dal punto di vista dottrinale, giungendo alle estreme conseguenze: il papa traeva il proprio potere direttamente dal Messia (come Vicarius Christi), non piú solo da san Pietro, ed era ingiudicabile da qualsiasi autorità. Il pontefice, in pratica, gestiva il proprio mandato come lo avrebbe fatto Cristo in persona, anche se si occupava troppo spesso di questioni di mera natura giuridicoamministrativa. Nemmeno Federico Barbarossa, con i suoi sogni di restaurazione del Sacro Romano Impero a guida secolare, riuscí a fermare l’attuazione dell’ambizioso disegno del papato, che trovò la sua formulazione piú compiuta in Innocenzo III. Con lui il conferimento del potere all’imperatore rappresentava una sorta di «favore apostolico» diretto a un mero funzionario della cristianità, a un «dipendente». Il declino del primato temporale del papa, dopo lo scontro con Federico II, coincise con il proliferare delle moNella pagina accanto Firenze, basilica di S. Croce, Cappella Bardi di Vernio. Papa Silvestro I ritratto in una delle scene che compongono il ciclo con storie della sua vita affrescato da Maso di Banco. L’opera venne ultimata dall’artista poco dopo il 1340.
narchie nazionali in Europa. La Chiesa si era appoggiata al sistema imperiale per estendere il suo controllo territoriale e si trovava all’improvviso obbligata a trattare singolarmente con una pluralità di interlocutori. L’ascesa della borghesia, inoltre, comportò un processo di progressiva laicizzazione del potere politico, rendendolo spesso insensibile alle direttive provenienti da un’autorità spirituale. Dopo il tentativo di ritorno allo splendore perduto, operato da Bonifacio VIII, i pontefici cercarono, senza fortuna, di rallentare l’inevitabile inversione di tendenza del rapporto di forza tra papato e potere dei sovrani. Lo fece Clemente V, per esempio, che riuscí a non far condannare post mortem Bonifacio dal re francese Filippo IV il Bello, temendo di veder cancellato il principio della «ingiudicabilità del papa». Il declino, a ogni modo, si stava già compiendo. Fu proprio il regno d’Oltralpe a segnare il definitivo distacco della Chiesa dai fasti universalistici. Lo spostamento della sede del papato da Roma ad Avignone, nel XIV secolo, contribuí a provincializzare la figura del pontefice, riducendolo a referente del monarca di Francia e a titolare di un virtuale potere centrale sulla Chiesa. Il papa, per lungo tempo padrone assoluto della comunità dei cristiani, fu spogliato della sua identità di «monarca» e tornò a essere solo il vescovo di Roma, garante del depositum fidei. Figure di sterili «papi re», contemporanee all’incedere del Rinascimento, non incisero in un processo ormai avviato di distribuzione in senso orizzontale del potere ecclesiastico, che vide crescere d’importanza il concilio e il collegio dei cardinali. Anche i fedeli sembravano non subire piú il fascino del grande capo della Chiesa, aderendo invece a quella visione individualistica del rapporto tra credente e Dio, senza piú la mediazione dell’autorità ecclesiastica. Il Medioevo volgeva al tramonto con la scomparsa della personalizzazione dell’apostolato della Chiesa in una sola figura: quel pontefice, che qualora consacrato in modo canonico diventava «senza dubbio santo per i meriti del beato Pietro», come teorizzato da Gregorio VII. Una santità automatica, garantita dalla carica rivestita, che prescindeva anche da possibili malefatte compiute: «Gli eccessi e i crimini non tolgono nulla ai papi della santità e del potere insiti nella loro carica», sentenziava il Corpus Iuris Canonici nel XII secolo. Il Medioevo dei papi, tuttavia, non fu soltanto il lungo racconto di una vocazione gerarchica, lo spegnersi di un sogno teocratico e lo scatenarsi della repressione dell’eresia. A suo modo può essere definito anche un passo verso la modernità. Alcuni pontefici recepirono, per esempio, le istanze provenienti dal basso per una maggiore moralità di costumi da parte del clero e sostennero, seppur con alti e bassi, gli Ordini monastici. Altri diedero impulso alla diffusione della cultura, contribuendo in modo determinante alla nascita e allo sviluppo delle prime università: il clima era propizio anche in virtú del dominio incontrastato in campo teologico e filosofico della Scolastica, con il suo tentativo, forse insuperato, di conciliare scienza e fede. PAPI DEL MEDIOEVO
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San Gregorio Magno, tempera su tavola trasportata su tela di Antonello da Messina. 1470-1475 circa. Palermo, Galleria Regionale Palazzo Abatellis.
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GREGORIO I MAGNO
L’uomo nuovo
Alle soglie del VII secolo, in una Roma assediata dai Barbari e martoriata dalla peste, papa Gregorio I prende le redini non solo della Chiesa, ma anche del governo civile, gestendo gravose emergenze sociali. Con lui si apre il Medioevo, nel segno di un distacco del papato da Bisanzio che sancirà la supremazia dell’Occidente europeo nel mondo cristiano di Francesco Colotta
L’
«invenzione del Medioevo» fu opera di un papa che salí al soglio di Pietro nel 590, regnando in un periodo in cui l’età antica non poteva ancora definirsi tramontata. Eppure quel pontefice, che aveva scelto di chiamarsi Gregorio I, balzò subito alla ribalta con le qualità del precursore, come molti secoli piú tardi, nel 2006, affermò anche Benedetto XVI, nel corso di un Angelus estivo: «Con profetica lungimiranza – disse in quell’occasione Joseph Ratzinger –, Gregorio intuí che una nuova civiltà stava nascendo dall’incontro tra l’eredità romana e i popoli cosiddetti “barbari”, grazie alla forza di coesione e di elevazione morale del cristianesimo. Il monachesimo si rivelava una ricchezza non solo per la Chiesa, ma per l’intera società». Questa fu l’inventio che inaugurò l’età di Mezzo, ma in una prospettiva di «progresso» ben lontana da quell’oscurantismo con cui, sulla scia del Rinascimento, i «moderni» l’avrebbero dipinto.
Un aristocratico «pentito»
Il mondo romano aveva visto nascere Gregorio nel 540 in seno a una famiglia aristocratica di tradizione cristiana, cosí solida da aver dato alla Chiesa già un papa nel 483, Felice III, e due suore di clausura. Quest’appartenenza nobiliare, arricchita dall’eccellente formazione intellet-
Tiara della statua bronzea di san Pietro. XVII sec. Città del Vaticano, Basilica di S. Pietro, Museo del Tesoro. Copricapo di forma conica di origine orientale, la tiara fu adottata dai papi come emblema di potere, e, inizialmente, consisteva in un semplice elmo in tessuto bianco, con un fregio aureo alla base. Al tempo di Innocenzo II, cioè poco dopo il 1100, aveva già alla base una corona; Bonifacio VIII ne aggiunse una seconda e verso il XIV sec. ne comparve una terza. Composta di tre diademi sovrapposti, la tiara (o triregno) venne cosí a simboleggiare la triplice autorità papale: paterna, pontificia e temporale.
Nascita
Roma, 540 circa
Pontificato 590-604
Morte
Roma, 12 marzo 604
Sepoltura Roma, basilica di S. Pietro
tuale, lo portò presto a ricoprire importanti cariche nell’amministrazione imperiale romana, fino al vertice, come praefectus urbis, dal 572 al 573. Su Gregorio, tuttavia, piú che il carico eccessivo delle responsabilità, poté – secondo lo storico Ferdinand Gregorovius – il disgusto per «lo squallore politico di Roma»: abbandonò, infatti, la carica e la carriera per dedicarsi alla vita monastica secondo la Regola benedettina. La sua fu una dedizione integrale alla tonsura e PAPI DEL MEDIOEVO
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Gregorio I Magno
La processione di san Gregorio a Castel Sant’Angelo, olio su tavola di Giovanni di Paolo. 1465 circa. Parigi, Museo del Louvre. Il dipinto ricorda la leggendaria visione che Gregorio Magno ebbe nell’agosto del 590, anno in cui a Roma infuriava la peste, durante una processione verso la basilica di S. Pietro. Il pontefice e il corteo di appestati che lo seguiva, videro, in cima al mausoleo di Adriano, l’Arcangelo Michele nell’atto di rinfoderare la spada per annunciare la fine del flagello mortale. alla «solitudo». Non soltanto si sottopose alle pratiche di preghiera e digiuno imposti dalla Regola, ma fece dono all’Ordine del palazzo di famiglia sul Clivus Scauri (Clivo di Scauro, una strada che saliva dalla depressione tra Palatino e Celio, in direzione del secondo, lungo il cui tracciato sorse la basilica dei SS. Giovanni e Paolo, n.d.r.) per fondarvi un convento che intitolò a sant’Andrea. In seguito, il destino riservò a Gregorio un’ulteriore rinunzia. La ricca esperienza da lui acquisita come pubblico amministratore e il suo fervore di monaco indussero il papa regnante, Pelagio II, a chiamarlo presso di sé per affidargli nuove responsabilità. Dopo averlo consacrato diacono, gli affidò una delicata missione diplomatica inviandolo, col rango di «apocrisario» (ovvero, con terminologia di oggi, nunzio apostolico) a Costantinopoli, presso la corte imperiale bizantina. E, ormai lontano dal romitaggio conventuale, seppe intrattenere relazioni assai strette con i circoli imperiali, guadagnandosene il rispetto. Anche con lo stesso imperatore d’Oriente, Maurizio, che lo volle padrino di battesimo del figlio maggiore.
Quella missione fallita
Tuttavia, i risultati ottenuti nelle questioni spinose affrontate, quale rappresentante della sede pontificia, non furono altrettanto brillanti. Scottava, in quella seconda metà del VI secolo, la presenza in Italia degli invasori longobardi, malamente arginata dalle forze imperiali d’Oriente capeggiate dall’esarca di Ravenna, che avevano dovuto cedere Milano sotto l’attacco di Alboino. Fu cosí che i Longobardi dilagarono seminando il terrore con le violenze e le devastazioni, giungendo persino sotto le mura di Roma. Mentre l’apocrisario Gregorio, vista la debolezza dell’esarcato, premeva sull’imperatore perché intervenisse in forza sul territorio italiano, Maurizio cercava invece di non farsi coinvolgere nello scontro per le preoccupazioni procurategli dalla spina nel fianco dei Persiani, che minacciavano di aggredire l’impero da Est. Sul piano diplomatico la missione di ambascia-
tore non brillò, ma Bisanzio – asserisce lo storico Agostino Saba – «fu per lui scuola di politica e di lotte teologiche; il pallido monaco latino, in mezzo al lusso della corte bizantina, appariva strano rappresentante di una civiltà e di una fede che a Costantinopoli non esercitavano piú alcun potente fascino». Da teologo, inoltre, ebbe la gioia di studiare da vicino, in quei luoghi, i testi della Sacra Scrittura ricevendone l’impulso alla redazione del suo fondamentale commentario al Libro di Giobbe. È probabile che il deludente risultato della missione abbia indotto papa Pelagio a richiamare in curia Gregorio, il quale tornò volentieri nel suo monastero per dedicarsi alle dure pratiche devozionali. Dovette collaborare con il pontefice nello scongiurare lo scisma provocato dai vescovi di Venezia e d’Istria, ma inutilmente. I dissidenti non recedettero dalle loro posizioni oltranziste e la spaccatura nella Chiesa fu inevitabile. Fra il 589 e il 590, però, un’altra sciagura si abbatté sulla città dei papi, aggiungendosi alle devastazioni dei Longobardi: Roma fu vittima di una inondazione e di una conseguente epidemia di peste che sterminò buona parte della popolazione, non risparmiando nemmeno Pelagio. Con insolita e provvidenziale premura, sia il clero che il popolo unanimemente scelsero Gregorio quale successore. Se fu agevole l’elezione, non lo fu altrettanto la consacrazione, perché il prescelto si mostrò poco propenso ad accettare il gravoso compito. Tentò, anzi, in tutti i modi di evitare che l’imperatore, come d’obbligo, avallasse l’investitura papale. E giunse perfino a tentare la fuga. Da parte di Gregorio non si trattava della modestia imposta dalle circostanze in casi simili del Medioevo, come chiarisce lo storico Franz Xavier Seppelt: «La tristezza di Gregorio e la sua scarsa condiscendenza ad accettare l’importantissima carica erano dovute essenzialmente al dover abbandonare la vita di solitudine del monastero, in un’epoca piena di sconvolgimenti, che sembrava preannunziasse una prossima fine del mondo». Gregorio ne era convinto e vedeva nei barbari alcuni inquietanti segni premonitori.
La visione dell’Arcangelo Michele
Del resto, malgrado la ritrosia, durante la pestilenza non si era sottratto al compito, da capo della cristianità designato, di promuovere nella massa dei fedeli la speranza religiosa attraverso la preghiera. Dopo una fervida predica in S. Sabina, si pose alla testa di una processione durata tre giorni, la cui cronaca divenne, poi, oggetto di leggenda. L’enorme fiumana di oranPAPI DEL MEDIOEVO
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Gregorio I Magno
ti si snodava in una cornice da tragedia, circondata da appestati che morivano. Nel momento in cui Gregorio percorreva il ponte sul Tevere per dirigersi verso S. Pietro, il popolo vide l’Arcangelo Michele posarsi sul mausoleo di Adriano e rinfoderare la spada fiammeggiante, segno che la pestilenza era cessata. Cosí fu, e da allora il monumento prese il nome di Castel S. Angelo, che conserva in cima la statua-effigie del messaggero divino nell’atto in cui era apparso nel torrido agosto del 590. L’anno da cui si fa iniziare il pontificato di Gregorio, che meritò in seguito il titolo di «Magno» per l’opera grandiosa svolta nell’arco di 14 anni.
Assistenza ai fuggitivi
La lunga milizia come amministratore della cosa pubblica e l’essere erede di una cultura latina e patristica rendevano Gregorio conscio delle grandi sfide che attendevano la Chiesa di Roma. Appena intronizzato, per prima cosa pose mano alla corte pontificia, allontanandone laici e diaconi implicati nelle pratiche di simonia per sostituirli con monaci benedettini piú adusi a una vita cristianamente ispirata. L’assillo «internazionale», comunque, restava sempre l’aggressività dei Longobardi, che nella città dei papi aveva determinato una condizione caotica. A Roma si riversavano masse in fuga dalla violenza barbara, profughi disperati che contavano sulla misericordia del papa. Il governo di Gregorio Magno si sentí investito del problema dal punto di vista ecclesiale e civile: forniva ai fuggitivi assistenza morale e, nell’immobilismo delle autorità civili bizantine, affrontava i gravi problemi amministrativi della città. L’epistolario
Sulle due pagine frontale di elmo in oro sbalzato noto come Lamina di Agilulfo, re dei Longobardi, e re d’Italia dal 591 al 616. VII sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. A destra miniatura raffigurante san Giovanni, dai Vangeli Barberini, manoscritto iberno-sassone dell’VIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
LA CONVERSIONE DEGLI ANGLI L’avventura al di là della Manica ha come sigillo una leggenda. Gregorio, quando non era ancora capo della Chiesa Universale, avrebbe visto a Roma, al mercato degli schiavi, alcuni giovani dalle bellissime e angeliche fattezze. Appreso che si trattava di Anglosassoni pagani, si sentí spinto dall’impulso di evangelizzare quel popolo. Al di là della leggenda, sappiamo che scrisse al presbitero Candido, amministratore in Gallia, di comprare giovani siffatti da istruire nei monasteri per inviarli poi in missione nella loro terra di origine. Il papa scalpitava. A quanto aveva appreso, gli Angli avrebbero voluto convertirsi al cristianesimo, ma vescovi e preti a loro piú vicini non facevano alcunché per assecondarne il pio desiderio. Gregorio, evangelizzatore oltranzista, non poteva indugiare. A guidare lo scelto gruppo di neo-missionari in Inghilterra, una quarantina, chiamò l’abate Agostino dell’amato monastero di S. Andrea, e tutto procedette senza ostacoli, grazie anche all’aiuto di preti franchi che conoscevano la lingua dell’isola. In appena un anno, fra il 596 e il 597, 10 000 Angli ricevettero il battesimo. Solo in seguito l’espansione del cristianesimo in Inghilterra subí qualche battuta d’arresto, e ci vollero due secoli per una stabilizzazione della Chiesa in questo Occidente nordico.
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In basso testa femminile, detta «di Teodolinda». Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte. Grazie al sostegno della regina Teodolinda, moglie di Agilulfo, Gregorio Magno diede avvio alla conversione al cattolicesimo dei Longobardi, di fede ariana. di Gregorio, copioso e fortunatamente conservato, ce ne dà la misura. E ci dice come il pontefice si preoccupasse nel contempo di trovare soluzioni pacificatrici, rimuovendo cioè le cause del disagio collettivo. Successe nel 593, quando ottenne dal re longobardo Agilulfo la cessazione dell’assedio e l’armistizio in cambio del versamento annuale di 500 libbre d’oro. E all’imperatrice Costanza, che criticava l’onerosa accondiscendenza nei confronti di un nemico, il papa, per lettera, motivò cosí la decisione: «Sono ormai ventisette anni che viviamo in questa città circondati dai Longobardi. Non è qui il caso di elencare le somme di denaro che quotidianamente la Chiesa ha dovuto pagare perché fosse concesso ai Romani di poter vivere. In parole povere basti dire che i piissimi imperatori hanno in Ravenna, presso il primo esercito d’Italia, il loro sacellario che provvede alle spese necessarie ogni giorno; qui a Roma il loro sacellario sono io. E senza contare che questa Chiesa deve anche sostenere chierici, monasteri, poveri e popolo».
È un quadro, questo rilevato da Gregorio I, in cui la sua funzione spicca quanto quella di un capo politico, estensibile all’intera Penisola. Un «consul Dei», console, capo supremo per volontà di Dio. Ma l’appellativo encomiastico, che pure gli fu in seguito attribuito fino a riportarlo sulla sua tomba in S. Pietro, non si addiceva alla natura del monaco Gregorio, il quale per sé preferí riprendere l’antica formula di servus servorum Dei, «servo dei servi di Dio». «Magnus» certamente lo fu nella gestione economico-finanziaria già nel periodo successivo alla pestilenza, di fronte allo spettacolo del popolo di Roma stremato dalle privazioni. Di fronte alla prospettiva di una riduzione dell’approvvigionamento di grano siciliano, indirizzò un richiamo al pretore dell’isola perché l’evenienza fosse scongiurata. Vista poi l’insufficienza dei fondi dello Stato per i bisogni alimentari, il papa decise di avvalersi delle proprietà fondiarie ecclesiastiche disseminate in Gallia, Dalmazia, Africa del Nord, Corsica e PAPI DEL MEDIOEVO
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Gregorio I Magno A sinistra miniatura raffigurante san Gregorio Magno e il suo diacono, da un manoscritto dell’XI sec. Montecassino, Archivio dell’Abbazia. Nella pagina accanto statua in marmo di san Gregorio, dall’altare Piccolomini, opera di Michelangelo Buonarroti. 1503. Siena, Duomo.
Sardegna, le cui rendite erano fortemente diminuite per le confische longobarde e anche per la cattiva amministrazione. Lo sforzo immane di Gregorio fu quello di aumentare le entrate e per questo rimosse i nobili, oltre che i vescovi franchi, dimostratisi incapaci nella cura dei patrimoni. Li sostituí con rettori scelti fra i suddiaconi e funzionari della Chiesa romana. Sotto la severa sorveglianza papale crebbero le rendite e anche la produttività. Con i maggiori mezzi ottenuti dall’opera di 14
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risanamento si poté combattere la miseria della popolazione e sostentare il clero. Cosí Gregorio poté dire di se stesso che era «distributore di beni ai poveri».
I successi dell’evangelizzazione
Politicamente il vescovo di Roma si considerò sempre suddito dell’imperatore, nonostante i segni di un’insofferenza «italiana» nei riguardi del giogo bizantino e una spinta all’indipendenza si fossero manifestati in piú occasioni.
Nel contempo, si facevano piú marcate le divergenze con la Chiesa d’Oriente. Ma il campo in cui la personalità di Gregorio si affermò prepotentemente fu soprattutto quello dell’evangelizzazione dei popoli germanici. Con i Longobardi i tentativi stentavano a dare frutto almeno finché non si verificò una circostanza propizia: Teodolinda, moglie bavarese del re longobardo, era una cattolica fervente. Il papa, in una corrispondenza con lei, si adoperò per farne il tramite per la conversione del consorte Agilulfo, che professava l’arianesimo. Senza raggiungere lo scopo, ricevette piú tardi la grazia di vedere l’erede al trono, Adaloaldo, battezzato come cattolico. Piú laborioso fu l’approccio alla Chiesa regionale franca, nella quale allignavano residui di paganesimo. Anche in questo caso si instaurò una corrispondenza tra Brunechilde, reggente degli eredi al trono dopo la morte del sovrano Childeberto, e papa Gregorio, che la esortava a liberarsi di quei residui. Malgrado le critiche piovute sul pontefice per avere trattato, largo di elogi, con una donna dalla pessima reputazione, addirittura criminale, la lungimiranza di Gregorio vedeva, al di là di questi demeriti, gli scopi apostolici realizzabili nel rapporto con una potente regina, peraltro non priva di buone qualità. Nonostante la mancata concretizzazione di quegli scopi, il buon rapporto allacciato con la monarchia franca fu un ponte per l’impresa veramente grandiosa del papa, la conversione degli Angli.
Convertire con dolcezza
Ma la spedizione missionaria resta fondamentale per una conoscenza esaustiva della personalità eccezionale di Gregorio Magno. Soprattutto della sua strategia pastorale non aggressiva, veramente moderna, che dà senso ulteriore a quella «invenzione» fondatrice del Medioevo. Lo storico Seppelt osserva al riguardo che «le lettere del papa ci dimostrano con quale zelo e con quale larghezza di vedute egli favorí la missione in Inghilterra». In quanto testimoniano «che le direttive del papa ai missionari si distinguono per la loro grande affettuosa saggezza, perché ordinava di usare i piú blandi riguardi alle abitudini pagane delle popolazioni da convertire, di servirsi saggiamente di queste stesse abitudini e di trasformarle convenientemente, raccomandando di mantenere una giusta e comprensiva misura durante le conversioni». Ma all’occorrenza sapeva esortare all’uso della forza nell’atto di convertire, come nella lettera a PAPI DEL MEDIOEVO
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Gregorio I Magno L’INVENZIONE DEL GREGORIANO Gregorio aveva a cuore la fedeltà ai canoni ecclesiastici, ma, d’altra parte, voleva che anche le forme del culto fossero debitamente aggiornate. Per cui pose mano al formulario della Messa promulgando il Sacramentarium Gregorianum, cioè il messale insieme all’Antiphonarius nel quale figuravano i canti da eseguirsi durante il rito. Nacque cosí il «canto gregoriano», che unificava le liturgie musicali sorte fra i vari popoli cristiani, in uno stile e una notazione che resistettero in Occidente per secoli, influenzando le canzoni goliardiche dell’Alto Medioevo, la monodia profana, le laude, il canto dei giullari e quello trovadorico. Riscuotendo ancora interesse, soprattutto giovanile, nel Novecento, ristudiato e praticato ai nostri giorni.
in questo stesso spirito di venerazione della santità, da Gregorio fu incoraggiato il culto delle reliquie, ossia di parti anatomiche o oggetti relativi ai santi associati nella venerazione, una forma di devozione che resiste ancora oggi.
Scrittore instancabile
Etelberto, re del Kent. Questo e molto altro Gregorio aveva teorizzato nel suo Liber Regulae Pastoralis, in cui sosteneva che, per essere efficace, la predicazione deve raccontare fatti e non ricorrere ad artifici retorici. Di un’altra espressione dello spirito cristiano, l’apologetica, si può attribuire a papa Gregorio I l’«invenzione». Nell’opera Dialogi fu lui a raccogliere, quindi accreditare, le leggende popolari che enfatizzavano virtú eccelse e soprannaturali di santi italiani noti al tempo suo, dando origine, inconsapevolmente, a quel ricco filone di agiografie sacre su cui soltanto il concilio di Trento, dieci secoli dopo, farà scendere la scure della smitizzazione per far posto a biografie sufficientemente documentate. Gregorovius non risparmiò la sua critica alla qualità stilistica di queste «Vite», uno stile – diceva – «estremamente adatto a convincere l’animo infantile di popoli ancora tanto rozzi». Va detto tuttavia che, 16
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In alto san Gregorio Magno, dottore della Chiesa, particolare degli affreschi nella volta della cappella di S. Margherita d’Antiochia, attribuiti al Maestro di Crea. 1474-1479. Serralunga di Crea (Alessandria), basilica di S. Maria Assunta sul Sacro Monte di Crea. Nella pagina accanto la croce in oro, pietre e perle detta «di Agilulfo». Inizi del VII sec. Monza, Tesoro del Duomo, Museo Serpero.
Il cuore e la mente del monaco Gregorio rimasero sempre in quel monastero di S. Andrea, dove soggiornò meno di quanto avrebbe desiderato. In lui, pure oberato da funzioni altissime e assorbenti, covava continuamente la preoccupazione che l’ascetismo si accompagnasse all’osservanza della disciplina ecclesiastica. E la preoccupazione papale era che i vescovi per primi fossero ligi ai doveri e alla dignità dell’ufficio rivestito. In una mole cosí ingente di studi e di interventi, un ruolo fondamentale, di vero traino ebbe in Gregorio l’opera di scrittore. Oltre ai testi già citati, si ricorda una Vita di San Benedetto, mentre le sue lettere, quasi 900, furono raccolte nel Registrum Epistolarum. Dal Commentario a Giobbe, iniziato da apocrisario a Costantinopoli, Gregorio trasse i 35 volumi dei libri Morales, poi modificato in Moralia, compendio cosí ampio da essere considerato un manuale di etica. Dalle sue prediche innumerevoli furono tratte 40 omelie sui Vangeli. L’esistenza operosa del pontefice terminò il 12 marzo 604 e nella nuova vita fu proclamato Santo e Doctor Ecclesiae.
Da Sabiniano ad Adriano I
I papi dopo Gregorio I Dopo la morte di Gregorio I si assiste all’infuriare del conflitto tra il papato e Costantinopoli. Al centro della disputa c’è la la doppia natura di Cristo, che i teologi bizantini propongono di ridurre a una sola volontà (monotelismo), trovando una decisa opposizione dei pontefici. Un’altra questione dottrinale divide la cristianità: la proibizione del culto delle immagini sacre (iconoclastia) che i patriarchi e gli imperatori bizantini sanciscono con un provvedimento nel 754. I Longobardi, nel frattempo, insidiano i territori papali, costringendo la Chiesa romana a chiedere aiuto ai Franchi SABINIANO (604-606) BONIFACIO III (607) BONIFACIO IV (608-615) - SANTO ADEODATO I (615-618) - SANTO BONIFACIO V (619-625) ONORIO I (625-638)
Affrontò un problema scottante nel suo pontificato, esprimendo parere favorevole alla tesi di Sergio, il patriarca di Costantinopoli, affine al monotelismo. Il papa, pur non esprimendo un parere dottrinale definitivo, ex cathedra, pagò comunque le conseguenze della sua presa di posizione, subendo un anatema. SEVERINO (640) GIOVANNI IV (640-642) TEODORO I (642-649) MARTINO I (649-655) - SANTO Nel dibattito sul monotelismo si schierò dalla parte dei sostenitori della doppia volontà di Cristo e quindi contro gli imperatori d’Oriente. Il papa indisse un sinodo in Laterano nel 649 per condannare le tesi monoteliste. La reazione di Costantinopoli fu durissima e portò all’arresto del pontefice. EUGENIO I (654-657) - SANTO VITALIANO (657-672) - SANTO ADEODATO II (672-676) DONO (676-678) AGATONE (678-681) - SANTO LEONE II (682-683) - SANTO In continuità con la politica di Martino I combatté il monotelismo, confermando l’anatema nei confronti di Onorio I e dei sostenitori dell’eresia. Durante il suo pontificato venne introdotta la pratica dell’aspersione dell’acqua benedetta sui fedeli e del bacio di pace nella Messa.
BENEDETTO II (684-685) - SANTO GIOVANNI V (685-686) CONONE (686-687) SERGIO I (687-701) - SANTO
Un altro papa protagonista dello scontro con Costantinopoli, il quale si rifiutò di firmare le disposizioni del concilio Quinisesto del 692 indetto dall’imperatore Giustiniano II. A differenza di Martino I, il papa riuscí a scampare dalla persecuzione bizantina. Inserí all’interno della Messa la formula dell’agnus Dei («agnello di Dio»). GIOVANNI VI (701-705) GIOVANNI VII (705-707) SISINNO (708) COSTANTINO (708-715) GREGORIO II (715-731) - SANTO Un altro grande nemico di Costantinopoli, questa volta a causa dell’editto imperiale che tentò di imporre in Italia l’iconoclastia, ossia il divieto di rappresentare l’immagine divina. Promosse l’evangelizzazione della Germania. GREGORIO III (731-741) - SANTO ZACCARIA (741-752) - SANTO STEFANO II (752-757) Uno dei primi papi filo-franchi, che ritenne conveniente allearsi con i sovrani transalpini per fermare la pericolosa avanzata dei Longobardi verso Roma. Il papato si apre verso Occidente, dopo i dissidi con l’impero bizantino. Con lui nasce ufficialmente lo Stato Pontificio. PAOLO I (757-767) - SANTO STEFANO III (768-772) ADRIANO I (772-795) Fu il papa che costrinse i Longobardi alla resa definitiva, grazie all’aiuto militare del re dei Franchi, Carlo Magno. Pontefice interventista, passò alla storia anche per la sua battaglia contro l’iconoclastia e per aver instaurato una prima forma di nepotismo.
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LEONE III
Il patto di ferro Appena eletto al soglio di Pietro, Leone III stringe un’alleanza con Carlo Magno e lo investe del ruolo di difensore della Chiesa di Roma. L’accordo culmina con la celebre incoronazione del re in Vaticano nell’800, decretando la nascita del Sacro Romano Impero di Francesco Colotta
L’
identità di papa Leone III ha il profilo dell’enigma. Di lui non si conoscono il nome di battesimo, né la data di nascita. Quasi nulla si sa dell’infanzia, tranne il nome del padre, Azuppio. Ma il dubbio piú lacerante riguarda l’episodio che ne segnò la biografia: l’incoronazione a Roma di Carlo Magno, nella notte di Natale dell’800. Un evento cardine della storia medievale, sul quale gravano tuttora molti interrogativi: la corona fu posta dal papa spontaneamente o si sentí obbligato a compiere quel gesto? E l’imperatore lo apprezzò davvero? Per formulare qualche ipotesi verosimile occorre fare un passo indietro e tornare al 768, quando Carlo, alla morte del genitore Pipino, salí sul trono dei Franchi. Ne conseguí un ribaltamento della politica paterna, che era stata conciliante coi Longobardi. Il loro re, Desiderio, aveva dato in sposa a Carlo la bellissima figlia Ermengarda, ma lui la ripudiò, perché sterile. La storia stava per voltare pagina, mettendo fine all’era del frazionamento politico, prodotto dalla caduta dell’impero romano. All’orizzonte si profilava un’aggregazione europea intorno a una forte autorità, quella franca. Parallelamente, cresceva anche l’influenza politica del papato. I due poteri in un certo senso si coalizzarono. E Carlo Magno, in questo riprendendo il disegno paterno, ne fu il garante.
Una mossa strategica
Nel 795 a successore di Pietro venne eletto Leone III, oscuro prete formatosi nelle cancellerie del Laterano e divenuto cardinale di S. Susanna. Non aveva forti sostegni tra le potenti famiglie che contavano a Roma, quindi cercò alleati
Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Leone III che incorona Carlo Magno, nella notte tra il 24 e il 25 dicembre dell’800. La cerimonia si svolse durante la Messa celebrata dal pontefice nella basilica di S. Pietro in Vaticano. A destra la mano di san Pietro che impugna le chiavi, particolare della statua dell’apostolo scolpita da Giuseppe De Fabris nel 1840 e collocata davanti alla basilica vaticana.
Nascita
Roma, 750
Pontificato 795-816
Morte
Roma, 12 giugno 816
Sepoltura Roma, basilica di S. Pietro
altrove, puntando molto in alto. Una volta insediatosi in Vaticano, infatti, non tardò a inviare al re dei Franchi il resoconto dell’elezione e la notifica ufficiale del proprio avvento al soglio. Non era un semplice «biglietto da visita», nel tentativo di aprire un dialogo diplomatico, ma una concreta proposta di «affiliazione» nei riguardi del sovrano. I doni onorifici che accompagnavano la missiva, infatti, significavano qualcosa di piú di un formale contatto. Si trattava di due oggetti dalla forte carica simbolica: le chiavi del sepolcro di Pietro e il vessillo della PAPI DEL MEDIOEVO
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Leone III
IL TESORO DEGLI AVARI All’indomani dell’elezione di Leone III, Carlo Magno si preoccupò per l’avvento del nuovo papa, visti anche gli eccellenti rapporti maturati con il predecessore Adriano I. Incaricò quindi l’abate e futuro santo Angilberto di Centula di recapitare una missiva al neoeletto pontefice che, oltre alle congratulazioni di rito, conteneva anche alcuni ammonimenti. Lo esortò infatti a vivere onestamente, a fuggire dalle gioie terrene e a combattere l’eresia simoniaca. Sembra che il futuro imperatore fosse allarmato dalla presunta abilità e determinazione di Leone III nel rastrellare risorse per la Chiesa. Lo stesso Carlo Magno, però, contribuí a riempire le casse vaticane donando al papa una buona parte del tesoro espropriato agli Avari, un popolo nomade di razza mongola caduto sotto il suo dominio. Con queste ricchezze il pontefice poté in seguito attuare un progetto di ricostruzione delle chiese di Roma tra le quali S. Pietro, S. Paolo, S. Susanna e la basilica del Salvatore in Laterano.
città di Roma; ricevendoli, il re veniva confermato vero e proprio paladino della religione cristiana, pronto a proteggerne, anche in armi, il massimo rappresentante qualora in pericolo.
Un patto di ferro
Un caso simile a questa sacra alleanza risaliva a piú di quarant’anni prima. Allora sedeva sul trono di Pietro il papa Stefano II e su quello dei Franchi Pipino «il Breve», padre di Carlo. Minacciato dai Longobardi, il pontefice ottenne dal re l’impegno a intervenire qualora il pericolo si fosse tradotto in aggressione aperta. Un vero e proprio patto di ferro, in base al quale il re francese poteva considerarsi la guardia armata della sede papale. E che indusse Stefano II a conferire a Pipino il titolo di «patrizio dei Romani». Ora, Leone III puntava su Carlo anche per rafforzare il potere temporale della Chiesa. Si faceva già forte del vecchio accordo con Pipino, ma volle in piú prendere un’iniziativa fuori del comune per dare evidenza tangibile al senso «alto» del suo rapporto con l’alleato franco. In una sala del palazzo del Laterano, dove risiedeva, fece comporre un mosaico (conosciuto oggi come Triclinio Leoniano), nel quale si raffiguravano l’origine e la trasmissione dell’autorità. Da un lato Cristo consegna a san Pietro le chiavi del primato religioso (traditio clavium) e all’imperatore Costantino il vessillo sormontato dalla Croce quale emblema del potere politico. Dall’al-
In alto pianta di Roma, affrescata da Taddeo di Bartolo. 1415 circa. Siena, Palazzo Pubblico. Nella pagina accanto Carlo Magno in trono, con Leone III (a sinistra) e il vescovo Turpino di Reims. Particolare dello scrigno che contiene le reliquie di Carlo Magno, realizzato in oro, pietre e smalti. XII sec. Aquisgrana, Cattedrale, Cappella Palatina.
tro lato Pietro, a sua volta, affida a Leone il «pallio», simbolo dell’autorità spirituale e a Carlo Magno il vessillo. Un passaggio di consegne che, chiaramente, faceva discendere dall’Apostolo, quindi dalla Chiesa, il potere predominante.
Flessibile con gli sconfitti
È lecito affermare che questa concezione guidò il papa, quella notte di Natale in S. Pietro, quando pose sul capo di Carlo la corona imperiale. Quel mosaico oggi è ancora visibile a Roma, in piazza San Giovanni in Laterano, risparmiato dalla demolizione della sala nel 1733, e sistemato dall’architetto Ferdinando Fuga in un’imponente nicchia all’esterno, sul lato della Scala Santa. Carlo Magno sembrava rispecchiare in pieno il ruolo assegnatogli dal mosaico, anche nelle sue gesta passate. Aveva condotto e vinto una guerra di religione contro i Sassoni, avversari di vecchia data dei suoi avi. Uno scontro bellico atroce, in cui i Sassoni, pagani, sacrificavano alle loro divinità i nemici catturati, mentre i Franchi mettevano a morte i nemici che si rifiutavano di convertirsi al cristianesimo. Ma Carlo seppe anche essere flessibile con gli sconfitti e si adoperò perché fossero integrati nell’ambiente franco. Anch’egli volle lasciare un segno visibile a simbolo della pacificazione, promuovendo la costruzione di una città, Paderborn (nell’attuale Nord Reno-Westfalia), con un palazzo reale, una sfarzosa cattedrale e un vescovo di stirpe sassone. Nel 799, mentre il sovrano si trovava a Paderborn, impegnato nella conversione dei Sassoni della regione, gli giunsero notizie inquietanti da Roma. Vittima di un’insurrezione, Leone III era stato imprigionato e probabilmente mutilato. A Roma il pontefice stava subendo da tempo una campagna denigratoria poi sfociata in una vera e propria congiura. A ordirla erano stati alcuni nobili legati al predecessore Adriano I, che gli rimproveravano l’eccessiva sottomissione al monarca franco. Avevano anche rinnovato vecchie accuse di spergiuro e lascivia, ottenendo che assumessero forma giuridica piú concreta. Ma in seguito i congiurati passarono a vie di fatto piú radicali, aggredendo il papa mentre, a cavallo, partecipava alla processione per la festa di san Marco, che dal Laterano doveva arPAPI DEL MEDIOEVO
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Leone III
«IO SONO LA GIUSTIZIA» Nell’815, poco prima di morire, il papa sventò un’altra congiura ai suoi danni, ordita da esponenti dell’aristocrazia a lui ostili. Ma il piano fu svelato e tutti i responsabili vennero arrestati prima di poter mettere in pratica i loro proponimenti. In molti, circa trecento, subirono un processo sommario e una condanna a morte. Leone III compí un atto rivoluzionario, autoinvestendosi del diritto di giudicare per via definitiva in materia penale, nonostante la legge attribuisse questa competenza all’imperatore. In quel caso a Ludovico il Pio, successore di Carlo Magno, che comunque volle approfondire la questione, ordinando l’apertura di un’inchiesta. Il papa dovette giustificare il colpo di mano e, secondo gli storici, riuscí a farlo anche grazie all’abilità diplomatica dei suoi ambasciatori. L’ennesima rivolta però (in questo caso solo popolare) funestò gli ultimi mesi di vita del pontefice. Molti contadini e possidenti si mobilitarono per protestare contro la sua politica di esproprio di terreni pubblici, trasformati in domuscultae, ossia in aziende agricole apostoliche.
Ritratto di San Leone III, olio su tela attribuito a Giuseppe Franchi. 1617. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
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rivare a S. Lorenzo in Lucina. L’attentato fu opera dei piú facinorosi fra gli ecclesiastici, il primicerio Pasquale e il sacellario Campalo, i quali, effettivamente, disarcionarono Leone come comunicato a Carlo, col proposito di torturarlo. Il trambusto che si era scatenato, però, li indusse a spingere il prigioniero nel convento di S. Silvestro, dove i monaci bizantini, complici dell’attentato, lo presero in consegna, traducendolo poi in un altro monastero, al Celio. Ma, elusa la sorveglianza e soccorso da alcuni fedelissimi Franchi, il papa, alla fine, riuscí a fuggire, raggiungendo miracolosamente S. Pietro. L’azione quindi era fallita. E poco mancò che i congiurati avessero la peggio. Il pontefice, con calma, poté rifugiarsi a Spoleto, presso il duca Vinigi, che, trovandosi per caso a Roma, aveva assistito al tumulto.
Guarigione miracolosa
La versione dei fatti pervenuta a Carlo Magno presentava dettagli piú cruenti, tra cui l’agghiacciante ipotesi che a Leone III fossero stati inferti l’accecamento e il taglio della lingua. Carlo si tranquillizzò solo quando ricevette la visita a sorpresa del papa a Paderborn e poté constatare che non presentava alcuna mutilazione. Chiese perciò spiegazioni al pontefice, il quale rispose che, per un miracolo della Provvidenza, lingua e occhi erano tornati sani. Nessuno fece obiezioni per rispetto dell’ospite illustre. Neppure Carlo Magno, a cui stava a cuore non tradire il vessillo affidatogli, ossia la missione di difensore della Chiesa d’Occidente in un momento particolarmente delicato: a Oriente Irene, madre dell’imperatore Costantino VI, aveva preso il sopravvento sul figlio, facendolo arrestare e subentrandogli sul trono. Uno «scandalo» che rendeva propizio il tempo per il trasferimento della dignità imperiale in Occidente. Del resto anche il piú ascoltato dei consiglieri carolingi, il monaco Alcuino, esortava il re a comportarsi da defensor Ecclesiae e a non dar credito, per esempio, alla documentazione inviatagli nel frattempo dai congiurati di Roma, che chiedevano la messa sotto accusa del papa. Alcuino in proposito si sforzò di convincere il sovrano che una qualsiasi procedura nei confronti del capo della Chiesa era impossibile, inducendolo a evitare ogni mossa che avrebbe indebolito Leone. Il pontefice, dal canto suo, mostrò una certa tenacia in questa delicata situazione, rifiutando gli inviti a dimettersi provenienti dagli stessi ambienti ecclesiastici. In quell’estate del 799 a Paderborn, nei colloqui fra il papa e il re dei Franchi, fu ventilata un’idea
ambiziosa: Carlo doveva andare a Roma per farsi acclamare imperatore, assumendo il titolo di continuatore di Augusto e di Costantino il Grande, nuovo sommo sovrano dei Romani. Per studiosi illustri come Marc Bloch e Lucien Febvre si apriva, sotto la guida di Carlo Magno, uno spazio politico unitario dal quale, secoli dopo, maturò la nuova Europa. Ma su questo non tutta la storiografia concorda.
Il tribunale nella cattedrale
Carlo pianificò allora il viaggio nella città dei papi. Lo precedette, nell’autunno 799, Leone III, che rientrò a Roma con un ricco seguito di vescovi franchi e pari di Francia. Il sovrano arrivò invece nel fatidico 800, dichiarando pubblicamente di voler subito indagare sulle accuse che i nobili e parte della popolazione rivolgevano al papa. Allestí una sorta di tribunale nella cattedrale costantiniana di S. Pietro, dove aveva convocato l’assemblea di clero, nobili e cittadini franchi e romani. In tre settimane di dibattito, però, non emersero prove concrete sulla colpevolezza del pontefice. Per di piú, in consonanza con quanto teorizzato da Alcuino, prevalse la convinzione che il papa non poteva essere sottoposto a giudizio in
Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Stanza dell’Incendio del Borgo. Il Giuramento di Leone III. 1514-1517. L’affresco, realizzato in gran parte dagli allievi del maestro urbinate per papa Leone X (1513-1521), illustra un episodio avvenuto il 23 dicembre dell’800, quando, davanti al clero e al popolo riunito in S. Pietro, il pontefice replicò alle accuse di alcuni nobili romani, affermando di non aver commesso alcun crimine e sottolineando che il rappresentante di Cristo in Terra è tenuto a rispondere dei suoi atti solo davanti a Dio.
quanto «capo di tutte le Chiese di Dio», di colui cioè che ha il potere di giudicare, delegandolo solo al suo rappresentante in Terra. Abilmente, come forse era stato concordato a Paderborn, Leone III, dinnanzi al clero e al popolo, rese il suo «giuramento di purgazione», chiamando Dio a testimoniare di non aver commesso i crimini contestatigli. In seguito, gli accusatori furono condannati a morte, pena poi commutata, per intercessione papale, nell’esilio. Quel che avvenne nella notte fra 24 e 25 si presta, come già accennato, a piú resoconti e interpretazioni. Lasciando da parte la vulgata trionfalistica, una cronaca narra che Carlo, al termine delle funzioni liturgiche, nell’atto di alzarsi, quasi a sorpresa, ricevette sul capo la corona imperiale postagli dal papa, mentre questi scandiva a gran voce la triplice acclamazione di tutte le incoronazioni imperiali: «A Carlo, il piissimo Augusto incoronato da Dio, al grande imperatore apportatore di pace, vita e vittoria». Per alcuni storici, l’evento segna la nascita di quello che sarà chiamato il Sacro Romano Impero. Trionfalistico, ma interessante per i valori che esprime, è il racconto degli Annales Laureshamenses: «E poiché già allora dalla parte dei Greci era venuto meno il nome di imperatore, poiché PAPI DEL MEDIOEVO
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Leone III MARE DEL NORD
IRLANDA REGNI
REGNO DI DANIMARCA
DEGLI
L A F O R M A Z I O N E D E L L’ I M P E RO CAROLINGIO (768-814)
ANGLOSASSONI
OCEANO ATLANTICO
Colonia AUSTRASIA Metz Parigi Regensburg
BRETAGNA
Poitiers
MARCA DI SPAGNA
REGNO DELLE ASTURIE
Territorio appartenente alla Chiesa di Roma solo formalmente
Aree di influenza carolingia
BURGUNDIA
Cordoba
Valencia
Isole Baleari
Malaga Ceuta Tangeri
CALIFFATO IDRISSIDE
erano sotto l’impero di una donna, allora sia al pontefice Leone che a tutti i santi padri raccolti in concilio e al popolo cristiano sembrò giusto che si dovesse nominare Carlo, il re dei Franchi, imperatore. Carlo occupava Roma, che sempre era stata la residenza dei Cesari, e governava sull’Italia, sulla Gallia, sulla Germania; poiché Dio onnipotente gli aveva concesso il dominio di tutti questi territori, a essi sembrava giusto che, con l’aiuto di Dio e per invocazione di tutto il popolo cristiano, egli avesse anche il titolo imperiale. Lo stesso re Carlo non volle respingere questa richiesta, e cosí assunse il titolo di imperatore nel giorno di Natale, con la consacrazione del papa Leone».
La leggenda del dono misterioso
La corona, una regalia del pontefice, era segno di trasmissione del potere di istituzione divina. E ne costituiva un complemento politico-militare la spada che l’incoronato fece roteare tre volte in aria a mo’ di sfida nei confronti degli eventuali nemici. Secondo una tradizione verosimilmente leggendaria, l’imperatore ricevette in dono dal papa anche un libro misterioso: l’Enchiridion, un compendio di formule PAPI DEL MEDIOEVO
Arles
Salisburgo
REGNO DEGLI AVARI
CARINZIA
Milano
Narbona
Toledo
BAVIERA
Lione
AQUITANIA
Impero ereditato da Ludovico il Pio nell’814
ALAMANNIA
Orléans
Tolosa
EMIRATO DI CORDOBA (OMAYYADI)
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Conquiste di Carlo Magno
Aquisgrana
NEUSTRIA
Lisbona
Regno franco
Venezia
REGNO DEI BULGARI
REGNO Ravenna LONGOBARDO DUCATO
PATRIMONIO DI SPOLETO DI S. PIETRO Corsica Roma DUCATO DI BENEVENTO Gaeta Benevento Napoli Sardegna Salerno
MAR
ME
EMIRATO AGLABIDE
DI
Costantinopoli
IMPERO BIZANTINO
TE
RR
AN
Sicilia EO
CONTRO L’ADOZIONISMO Una delle operazioni sinergiche di Carlo Magno e Leone III in difesa della cristianità fu la lotta contro quelle tesi che consideravano Cristo non come il figlio naturale di Dio, ma solo un adottato. Si trattava di una forma particolare, «spagnola», della cosiddetta eresia adozionista, con cui si era già dovuto confrontare il precedente pontefice, Adriano I. Quest’ultimo ne sancí la condanna con i sinodi di Ratisbona del 792 e di Francoforte del 794. Sul banco degli imputati salirono due vescovi iberici, Felice di Urgel e Eliprando di Toledo. Leone III ribadí la condanna in un sinodo romano del 798, mentre Carlo Magno invitò uno dei due religiosi alla sua corte, ottenendo da parte del convenuto le scuse per il grave errore commesso.
magiche grazie alle quali ci si poteva difendere da qualsiasi nemico. Secondo il medievista Franco Cardini, quello di Carlo fu un «cristianesimo guerriero e trionfale, veterotestamentario e apocalittico ma forse poco evangelico». Il grande progetto imperiale del sovrano, però, «segnò qualcosa di nuovo, sia rispetto alla vecchia tradizione romana imperiale che in Occidente si era esaurita, sia rispet-
In alto l’assetto geopolitico dell’Europa negli anni a cavallo dell’avvento di Carlo Magno.
90-616 Agilulfo re dei 5 Longobardi. Matrimonio con la cattolica Teodolinda. Franchi e Romani d’Oriente attaccano insieme i territori longobardi. ● 590-604 Pontificato di Gregorio Magno. ● 591 Gregorio Magno pubblica la Regula pastoralis. Colombano fonda il monastero di Luxeuil. ● 597 Inizio dell’evangelizzazione degli Anglosassoni con la missione di Agostino di Canterbury. ● 603 Agilulfo espande il territorio longobardo in Italia. ● 610-641 Eraclio imperatore romano d’Oriente. ● 610 Maometto inizia la sua predicazione. ● 612-621 Sisebuto, re dei Visigoti. ● 622 Fuga di Maometto (Egira) da Mecca a Medina. Inizio della nuova era musulmana. ● 623-638 Regno di Dagoberto. Apogeo della potenza merovingia. ● 626 Gli Avari assediano Costantinopoli e vengono respinti. ● 627 Morte di Teodolinda. ● 630 Maometto occupa Mecca. ● 632 Morte di Maometto. ● 634-644 Califfato di Omar. Inizia l’espansione dell’Islam. ● 643 Editto di Rotari. I Longobardi conquistano la Liguria. ● 653-672 Recesvinto, re dei Visigoti. ● 661-750 Califfato degli Omayyadi.
CRONOLOGIA
●
63 I Longobardi 6 sconfiggono l’esercito imperiale di Costanzo II in Italia meridionale. ● 671-688 Pertarito, re dei Longobardi. ● 672-680 Wamba, re dei Visigoti. ● 680 Pace tra Longobardi e Impero romano d’Oriente. ● 690 Willibrod evangelizza la Frisia. ● 711 Gli Arabi conquistano la Spagna del sud. Crollo del regno dei Visigoti. ● 712-744 Liutprando, re dei Longobardi. ● 714-744 Carlo Martello maestro di palazzo dei re merovingi. ● 717-741 Leone III proibisce il culto delle immagini nell’impero. Gravi disordini nell’Italia bizantina. ● 732 Battaglia di Poitiers. Con la guida di Carlo Martello, i Franchi respingono l’avanzata dei musulmani. ● 741 Morte di Carlo Martello. Carlomanno e Pipino si dividono il regno dei Franchi. ● 744-749 Ratchis, re dei Longobardi. ● 747 Carlomanno abdica e si ritira a Montecassino. ● 749-756 Astolfo re dei Longobardi. ● 750 Inizia il califfato degli Abbasidi. ● 751 I Longobardi conquistano Ravenna. ● 751-768 Pipino il Breve, re dei Franchi. ● 752-757 Stefano II papa. ● 752 Pipino il Breve caccia i musulmani dalla Septimania. ●
54-756 Dopo 7 l’accordo di Ponthion tra Pipino e Stefano II, vengono realizzate due spedizioni dei Franchi contro i Longobardi. Creazione dello Stato della Chiesa in seguito alla donazione di Quierzy. ● 756 L’ultimo degli Omayyadi, Abd al-Rahman I, fonda in Spagna l’emirato di Cordova (dal 929 califfato). ● 756-774 Regno di Desiderio. Dal 759 Adelchi è associato al trono. ● 762 Fondazione di Baghdad. ● 768 Morte di Pipino il Breve. Carlo Magno e Carlomanno diventano re dei Franchi. ● 771 Morte di Carlomanno. Carlo Magno rompe con i Longobardi. ● 772-792 Papato di Adriano I. ● 773-774 Guerra tra Franchi e Longobardi. ● 774 Carlo Magno, re dei Franchi, conquista Pavia e depone Desiderio. Assume quindi il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi. Fine della dominazione longobarda in Italia. ● 783-805 Carlo Magno conquista la Sassonia. ● 785 Carlo Magno inizia la conquista della marca di Spagna e punta verso Barcellona. ● 788 Campagna di Carlo Magno contro i Bavari. Cattura del duca Tassilo. ● 791-795 Campagne di Carlo Magno contro gli Avari. ● 793 Prime incursioni vichinghe in Irlanda e Inghilterra. ●
95 Leone III papa. 7 796 Carlo Magno sconfigge definitivamente gli Avari e conquista la Pannonia. Costruzione di un palazzo reale ad Aquisgrana. ● 799-805 Sottomissione degli Avari da parte dei Franchi. ● 800 Incoronazione di Carlo Magno a imperatore del Sacro Romano Impero (25 dicembre). ● 812 Costantinopoli riconosce Carlo Magno imperatore d’Occidente. ● 814 Morte di Carlo Magno (gennaio). Gli succede il figlio Ludovico il Pio. ● 817 Ordinatio imperii: divisione dell’impero tra Ludovico il Pio e i suoi figli Lotario, Pipino e Ludovico il Germanico. La Regola benedettina si impone per le comunità monastiche all’interno dell’impero carolingio. ● 822 Ultima ambasceria degli Avari alla corte franca. ● 840 Morte di Ludovico il Pio. Lotario pretende il potere imperiale. Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo si alleano contro Lotario. ● 841 Battaglia di Fontenay-en-Puisaye: Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico sconfiggono Lotario. ● 843 Trattato di Verdun: l’impero carolingio è diviso tra Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. ● ●
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Leone III
to alle realtà romano-barbariche, le quali a loro volta si erano già profondamente cristianizzate». Senza Carlo Magno quindi «resta difficile immaginare l’Europa dei secoli che vennero dopo, quella delle cattedrali, delle università, delle Summae teologiche. Un’Europa che aveva una sua profonda identità». E, dopo l’800, le monete di Leone III recarono il nome di Carlo e il titolo di imperatore accanto al monogramma pontificio e al nome di san Pietro. Per la mentalità di quei tempi – nota lo storico Alessandro Barbero – il significato era chiaro: «Il papa riconosceva a tutti gli effetti la sovranità politica dell’imperatore sulla Città Eterna». Quale ruolo avevano avuto gli attori di quell’atto solenne e decisivo? Alcune delle risposte fornite a tale interrogativo sollevano non pochi dubbi. Se pure Carlo fu preso alla sprovvista, non poteva essere impreparato. Il papa appariva debole politicamente e non avrebbe potuto conferire all’incoronazione il valore di una supremazia del potere pontificio. Né convince la tesi di Eginardo, biografo e ministro di Carlo Magno, quando narra che lo stesso ne fu contrariato. Resta indubbio, comunque, che Leone III ne trasse vantaggio anche molto tempo dopo, ponendo, per esempio, una pesante ipoteca sul rapporto simbiotico fra «sacerdozio» e «regno». Nell’immediato – afferma lo storico dei papi Franz Xavier Seppelt –, Carlo «rimane la personalità dirigente come era stato anche prima dell’800, che interferisce in maniera autonoma e con la massima energia anche negli affari interni della Chiesa, anzi con l’incoronazione si rafforza sempre maggiormente la caratteristica teocratica del governo».
Discendenza divina
Questo aspetto della politica di Carlo Magno si manifestò persino in occasione di una disputa teologica. Nel «simbolo niceno-costantinopolitano» (il Credo) oggi infatti si recita: «Credo in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filioque procedit», facendo discendere, nella Santissima Trinità, lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. A quel tempo, nel regno franco e in Spagna, il Filioque era già inserito. Non cosí a Roma e in Oriente, se non fra i monaci di Monte Oliveto a Gerusalemme. Da qui scaturirono duri contrasti in Terra Santa fra le comunità franca e greca. Venne chiamato in causa il papa, ma fu Carlo Magno a intromettersi, indicendo un concilio nell’809 che deliberò a favore del Filioque. L’anno dopo Leone III convocò un’assemblea di vescovi e si 26
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In alto la cattedra papale della basilica di S. Giovanni in Laterano in Roma, decorata con motivi cosmateschi da marmi policromi. Nella pagina accanto icona portatile raffigurante l’Arcangelo Michele, da Costantinopoli. Produzione bizantina, XI sec. Venezia, Tesoro della basilica di S. Marco.
oppose all’inserimento, per non creare dissidi con la Chiesa d’Oriente. Non poté tuttavia costringere i vescovi franchi, e fece suo quanto l’imperatore aveva già deciso. Su altri fronti accesi da filosofie che deviavano rispetto alla dottrina già consolidata, Leone III fu inflessibile nell’imporre la regola della Chiesa di Roma, e, nel campo della cultura, fu veicolo per la grande rinascita letteraria e artistica esplosa poi nell’anno 1000. Quanto alla santità non risulta una canonizzazione ufficiale. Morí il 12 giugno dell’816. E in quel giorno dell’anno risulta presente nel Martirologio Romano. O meglio, lo era fino alla revisione del 2001, quando venne eliminata la sua festa. Fu, invece, canonizzato con tutti i crismi il suo protettore Carlo Magno, anche se dall’antipapa Pasquale III. In fondo già dopo la sua morte, nell’814, venne idealizzato a tal punto da diventare oggetto di culto ad Aquisgrana, dov’era il palazzo imperiale, dove se ne conservano le reliquie e dove viene venerato come patrono.
Da Stefano IV a Gregorio V
I papi dopo Leone III Grazie all’alleanza con Carlo Magno, la Chiesa di Roma cresce di prestigio a scapito di quella d’Oriente e del potere laico. Nell’867, a causa della nomina a patriarca di Fozio, che Roma non intende riconoscere, si consuma un primo scisma con Costantinopoli. Con il crollo dell’impero carolingio, i pontefici devono combattere contro nemici vecchi e nuovi: i Saraceni e i nobili romani STEFANO IV (816-817)
PASQUALE I (817-824) - SANTO
Promosse l’evangelizzazione della Scandinavia e firmò un’importante tregua con l’imperatore Ludovico il Pio sulla questione della lotta delle investiture. Nel corso del suo pontificato, per la prima volta, i papi acquisirono il diritto di incoronare gli imperatori a Roma. EUGENIO II (824-827) VALENTINO (827) GREGORIO IV (827-844) SERGIO II (844-847) LEONE IV (847-855) - SANTO Fu il papa che, preoccupato da possibili invasioni saracene, fece erigere una cinta muraria intorno al Vaticano, edificando la cosiddetta «città leonina». BENEDETTO III (855-858) NICCOLÒ I (858-867) - SANTO Aprí la strada al principio del primato papale rispetto agli altri poteri della Chiesa e affermò l’indipendenza del pontefice da ingerenze imperiali, nonostante lo stretto legame con i sovrani carolingi. Fu il primo papa a servirsi delle Decretali pseudo-isadoriane. ADRIANO II (867-872) GIOVANNI VIII (872-882) Papa molto energico, partecipò in prima persona alla resistenza armata contro le invasioni saracene, allestendo e guidando una flotta in battaglia. Il suo pontificato fu segnato da una politica filo-carolingia e dal sogno di costituire una forte lega antiaraba. MARINO I (882-884) ADRIANO III (884-885) - SANTO STEFANO V (885-891) FORMOSO (891-896) Convinto filo-germanico e accusato da Giovanni VIII di cospirare contro la Chiesa di Roma, incoronò obtorto collo imperatore Lamberto di Spoleto, rivolgendosi in seguito al sovrano tedesco Arnolfo al quale chiese di marciare su Roma. Formoso subí un celebre processo e una condanna, da morto, da parte di papa Stefano VI: il suo cadavere, vestito dei canonici paramenti sacri, venne orrendamente mutilato. BONIFACIO VI (896) STEFANO VI (896-897)
ROMANO (897) TEODORO II (897) GIOVANNI IX (898-900) BENEDETTO IV (900-903)
Molti storici fanno coincidere il suo pontificato con l’inizio di un periodo di decadenza morale della Chiesa, definito «l’età tenebrosa». Incapace di stringere le alleanze giuste, espose la Chiesa agli attacchi di alcune potenti famiglie romane. LEONE V (903) SERGIO III (904-911) Uno dei piú convinti assertori della linea antiformosiana, fece uccidere diversi suoi rivali alla carica papale. Alcuni storici lo descrivono come l’iniziatore di un periodo in cui i pontefici subivano l’influenza delle cortigiane nelle proprie decisioni. ANASTASIO III (911-913) LANDO (913-914) GIOVANNI X (914-928) Rivitalizzò il rapporto con l’impero per limitare l’influenza delle famiglie nobili romane sul Vaticano. Il suo pontificato fu segnato dalla brillante vittoria contro i Saraceni, che scongiurò definitivamente i rischi di altre invasioni. LEONE VI (928) STEFANO VII (928-931) GIOVANNI XI (931-935) LEONE VII (936-939) STEFANO VIII (939-942) MARINO II (942-946) AGAPITO II (946-955) GIOVANNI XII (955-964) LEONE VIII (963-965) BENEDETTO V (964) GIOVANNI XIII (965-972) BENEDETTO VI (973-974) BENEDETTO VII (974-983) GIOVANNI XIV (983-984) GIOVANNI XV (985-996) Fu il primo pontefice ad attuare un regolare procedimento di canonizzazione. Nepotista, si trovò costretto a chiedere aiuto all’imperatore Ottone III per difendersi dall’offensiva della forte famiglia aristocratica romana dei Crescenzi, alleati con Bisanzio. GREGORIO V (996-999)
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SILVESTRO II
La leggenda del papa mago Chi fu veramente Silvestro II? Di certo non quell’oscuro pontefice che per brama di potere si rivolgeva al diavolo attraverso pratiche esoteriche. Uomo coltissimo, il papa si impegnò in un’opera di restaurazione della Chiesa di Roma, appoggiandosi all’imperatore Ottone III
Nome
Gerberto di Aurillac
Nascita
Alvernia, 940 circa
Pontificato 999-1003
Morte
Roma, 12 maggio 1003
Sepoltura
di Massimo Oldoni
Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano
È
stato il primo papa francese della storia, e scelse il nome di Silvestro II, convinto di poter far rivivere la magica stagione dell’armonia fra la cattedra di Pietro e il trono imperiale, come era accaduto con Silvestro I e Costantino; era il massimo sapiente del suo tempo, dotato di un magnetismo nei rapporti interpersonali che lo rese famoso in tutta Europa; visse dal 940 al 1003, gli ultimi quattro anni da pontefice, tutti gli altri guidato da un inesauribile, precocissimo genio, che gli attirò inimicizie, ostilità, invidie e solitudini. Lo scrittore e moralista francese Michel de Montaigne (15331592) sapeva tutto questo e, giunto a Roma il 16 marzo 1581, si recò tre giorni dopo a S. Croce in Gerusalemme. Nel suo Journal de voyage en Italie (pubblicato solo nel 1774), cosí rievoca quella visita: «Il mercoledí della Settimana Santa ho fatto il giro delle sette chiese (...) In quel giorno sia in S. Giovanni in Laterano, sia in S. Croce in Gerusalemme, io ho letto la storia, scritta in un luogo ben appartato, di papa Silvestro secondo, storia che è la piú ingiuriosa che si possa immaginare».
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Nella pagina accanto papa Silvestro II, al secolo Gerberto di Aurillac, in una tavola a colori realizzata per l’opera Le Plutarque Français, di Édouard Mennechet. 1835. Salito al soglio pontificio per volontà dell’imperatore Ottone III, Silvestro II è stato il primo papa francese della storia.
L’iscrizione di S. Croce in Gerusalemme oggi è scomparsa ma, per fortuna, pochi anni dopo lo stupore di Michel de Montaigne, intorno al 1590, un erudito viaggiatore tedesco, Lorenzo Schrader, la trascrisse interamente. Vi si raccontava d’un papa asceso al soglio di Pietro forse non limpidamente, segnato da una predizione di morte che lo condusse a confessare in pubblico i suoi «crimini» prima che alcuni cavalli imbizzarriti ne trascinassero il corpo per il Laterano e venisse lasciato insepolto, quasi a scontare le sue colpe. L’altra iscrizione, quella di S. Giovanni in Laterano, è invece ancora lí, nella dodicesima colonna della navata destra sulla lastra marmorea del cenotafio di Silvestro II, dove si legge: «Chiunque tu sia a sostare dinnanzi a questa tomba...», ma il corpo di Silvestro (segue a p. 33)
A sinistra particolare di una miniatura raffigurante un astronomo che tiene una lezione, con l’aiuto di un globo celeste, che illustra i movimenti dei pianeti intorno alla Terra. XIII sec. Nella pagina accanto Salamanca. Rilievo raffigurante un diavolo sul portale della Cattedrale Nuova. XVI sec.
PATTO COL DIAVOLO Nel Liber Pontificalis, dove sono raccolte le biografie di tutti i papi, un diacono redasse, nel XV secolo, la Vlta di Silvestro II: «Si chiamava Gerberto, fu monaco nella diocesi di Aurillac; ma, abbandonato il monastero, rese omaggio al diavolo affinché ogni cosa gli riuscisse proprio come desiderava, e il diavolo promise». Sembra quasi che il biografo del Liber contraddica la bell’epigrafe dedicata a Silvestro in S. Giovanni in Laterano; ma già da tempo si narrava, in Europa, che Gerberto era diventato cosí illustre e cosí potente grazie ai favori del demonio. Scrittori inglesi del XII secolo gli attribuiscono il possesso di una magica testa di diavolo ch’egli avrebbe consultato prima d’ogni impresa; lo descrivono come uno sciamano in grado di aprirsi un misterioso passaggio per entrare nei sotterranei antichissimi di Roma e scoprirvi ambienti e abitanti d’oro; ne fanno uno schiavo delle metamorfosi del Maligno in forma di una donna che lo sedusse, Meridiana. Primo esempio medievale del mito dell’Aristotele «cavalcato», Gerberto, novello Salomone, subisce l’istupidimento dei sensi. La sua conoscenza delle artes mechanicae, dell’algebra, dell’astronomia, della geometria, della musica, preparano l’ideale caso della «trasgressione del sapiente» e i suoi seguaci vengono chiamati «gerbertisti», «abacisti», come per denunciare l’errore di eccedere i confini consentiti del sapere, creduti inospiti a Dio. Morto Gerberto, tutti i secoli della letteratura medievale e oltre, fino a Pascal, a Hugo, sono connotati dal perdurare del suo mito, sempre in equilibrio fra denuncia, condanna e incerte difese.
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Bennone di Osnabruck (morto nel 1098), suo primissimo accusatore, ostile all’episcopato di Francia e di Roma, scrive che Silvestro II «sentendosi venire addosso la morte, supplicò che gli fossero troncate le mani e la lingua, perché con esse, sacrificando ai diavoli, aveva disonorato Dio». Guglielmo di Malmesbury († 1141) gli attribuisce il possesso di un libro segreto che lo guidava negli studi di negromanzia. In Italia, fra il XIII e il XIV secolo, Martin Polono, Alberico delle Tre Fontane, Riccobaldo da Ferrara registrano questa fisionomia maligna. Nell’identico clima del Liber Pontificalis nasce la perduta iscrizione di S. Croce in Gerusalemme. Abaci, strumenti astronomici e musicali, sfere magiche gli sono attribuite con disinvoltura. Alla metà del Cinquecento, Arnoldo Vuion narra che «a Tivoli, a sedici chilometri dal Tevere, nei cosiddetti Orti Estensi, è ancora possibile ammirare un organo ad acqua costruito da Gerberto d’Aurillac, a Ravenna è ancora visibile una grande clessidra opera sua». Quasi due biografie: quella storica e quella del mito; un suo amico lo aveva profetizzato: «Non abacus, non te mathesis, Gerberte, iuvabunt» (Non l’abaco, non la scienza, o Gerberto, ti salveranno). L’abaco, quel piccolo rettangolo ligneo a scomparti in cui ogni «tessera» (digitus) esprime una quantità numerica, non sarebbe riuscito a mettere ordine nella furia negativa della leggenda; con l’abaco Gerberto tentò di mettere ordine nei calcoli delle cose umane, ma non riuscí a evitare le allucinanti sommatorie dei suoi detrattori. Intanto, sui modelli del mito di Gerberto, il Medioevo si apprestava a fabbricare il mito del Virgilio mago.
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Silvestro II
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Ottone III in trono tra i suoi dignitari. X sec. Monaco, Archivio di Stato. Anche il futuro imperatore tedesco fu tra gli allievi che accorrevano da ogni parte d’Europa per frequentare la scuola di Gerberto d’Aurillac, nella basilica di St.-Rémi, a Reims, di cui il futuro papa fu arcivescovo.
nella tomba non c’è! Il successore, Sergio IV, aveva voluto quell’iscrizione per salvare il ricordo di Gerberto, papa e scienziato: la Vergine l’aveva reso celebre nell’Universo; era stato metropolita di Reims, arcivescovo di Ravenna, poi l’imperatore Ottone III lo volle pontefice, ed egli illuminò il secolo con le sue doti, e l’età di Silvestro II fu età di pace e di sapienza. Eppure, cinque secoli piú tardi, il redattore dell’epigrafe di S. Croce in Gerusalemme, posta per volontà del cardinale spagnolo Bernardino Lopez de Carvajal intorno al 1521, sembrava aver già dimenticato quella fama, ereditando, invece, tutte le dicerie su Silvestro. E infatti Gerberto/Silvestro fece le spese della cattività avignonese, della rottura fra Roma e l’episcopato francese, fu considerato addirittura un antipapa. Quando ancora studiava, cercava libri, faceva politica impegnata per la successione al trono di Francia nella disputa fra Ugo Capeto e Carlo di Lorena. Gerberto aveva mandato messaggi nell’immaginaria bottiglia delle amicizie lontane; aveva scritto: «Ho preferito il sicuro “ozio” degli studi all’incerto impegno delle contese, ma poiché non ho saputo ripercorrere le orme della filosofia, non sono riuscito a reprimere tutti gli impeti d’un animo in tumulto» (gennaio 985, a Raimondo monaco d’Aurillac); «la vittoria dell’alunno è la gloria del maestro» (agosto 996, ai monaci di S. Geraldo d’Aurillac); «fra le gravi pene delle preoccupazioni solo la filosofia può essere di qualche giovamento» (agosto 988, a Tietmaro di Magonza); «i singoli giorni valgono per me come singoli anni» (estate 997, all’imperatore Ottone III). Messaggi disperati, che hanno punteggiato l’esistenza di Gerberto: il suo Epistolario è l’agenda d’un giorno-dopo-giorno di un personaggio straordinario per il Medioevo europeo, eppure estraneo e altrove rispetto al tempo suo.
Alla Scuola di Cordova
Una stagione di vita velocissima e intensa: nato nel 940 ad Aurillac, a vent’anni studia nell’abbazia di St.-Géraud con Gérard de Gère e Raimondo di Laveur; si distingue subito e i suoi maestri decidono di mandarlo a studiare a Vich, in Catalogna, centro di grande importanza. Da Vich, nel 967, il suo maestro Attone e il potente Borrell, conte di Urgel, decidono di fargli apprendere le scienze presso la Scuola di Cordova. Nella città spagnola Gerberto scopre le misure, le cifre arabe, la numerazione simbolica, l’abaco, l’astrolabio, il computo del tempo segnato su un quadrante (orologio a pesi e ad acqua), il calcolo dei volumi, i fondamenti della medicina. Tutto questo Gerberto trasmette all’Occidente
latino. Tre anni piú tardi, nel 970, il conte Borrell e Attone si recano a Roma, presso il papa Giovanni XIII, e incontrano l’imperatore Ottone I; hanno portato con sé quel giovane di eccezionale talento e dottrina. Gerberto si fa apprezzare per la vivacità della sua cultura, cosí vasta, che gli consente d’illustrare quanto la simbologia dei numeri e degli spazi aiuti a meglio comprendere la filosofia, la musica, la logica.
Un dibattito di altissimo livello
A Roma, in quei giorni, c’è il rettore della Scuola di Reims, Geranno. Mentre il conte Borrell e Attone tornano a Vich, Gerberto resta con Geranno e lo segue poi a Reims: comincia una nuova fase di vita; dal 972 Gerberto, a Reims, avvia un programma di studi e insegnamento che lo porta in breve tempo a diventare uno dei piú ricercati intellettuali del momento. La consacrazione di questo primato di dottrina, fede, qualità intellettive si ha nel 980, allorché a Ravenna ha luogo il dibattito pubblico fra Gerberto d’Aurillac e Otrico di Magdeburgo sul rapporto fra scienza e fede. Alla presenza dell’imperatore Ottone II e degli inviati pontifici di Roma, i due si misurano in un confronto che rappresenta uno dei massimi vertici dei «media» medievali; stenografi e amici, spettatori e dotti, presenti al dibattito, ne registrano i passaggi; un allievo di Gerberto, Richero di Reims, ne riporta la trascrizione integrale e, grazie a lui, sappiamo cosa si dissero Otrico e Gerberto, e sappiamo anche che Gerberto d’Aurillac vinse il confronto, costringendo Otrico ad ammettere che la scienza non può rispondere a tutti gli interrogativi sul fine ultimo degli individui. Gerberto torna a Reims e la sua scuola si allarga: giungono allievi da ogni dove; Costantino di Fleury, Adelbodo di Würzburg, Leuderico di Sens, Roberto figlio del re Ugo Capeto, Bernellino di Fleury, Remigio d’Auxerre, Ottone III, futuro imperatore, e tanti altri «fulgenti nel coro dei sofisti», come scrive nel XII secolo Orderico Vitale, a celebrare quell’inimitabile maestro. Da Reims, nel 982, Gerberto si trasferisce nel cenobio di Bobbio, dove diventa abate: quella biblioteca gli dà modo d’intrecciare una rete di scambi di codici, di commesse di copiatura, che rivestí un ruolo di primo piano nella trasmissione del sapere intorno al Mille. Ma le gelosie diventano tante: l’atmosfera di Bobbio, dove prevalgono interessi terrieri e patrimoniali, si fa insopportabile per un uomo di cultura. Nel 984 rientra a Reims e qui la scuola si arricchisce di nuovi allievi: Riccardo di Saint-Vanne, Gerardo di Cambrai, Fulberto di Chartres, Remigio di PAPI DEL MEDIOEVO
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Silvestro II
Mettlach, Erigerio di Lobbes, Adelbodo di Lobbes, l’abate Sigefredo, Richero di Reims, che diventerà il biografo del maestro e ne fisserà la memoria nelle sue Storie. Gli anni fra il 984 e il 991 sono carichi di questioni politiche ed ecclesiologiche riguardanti la successione all’arcivescovado di Reims, la piú prestigiosa sede di Francia, dove i re avevano sempre avuto parte decisiva nell’elezione del titolare. Ma il re Ugo Capeto sorprese tutti per la sua ingratitudine: non si curò d’appoggiare Gerberto e preferí dare spazio a un possibile avversario, Arnolfo di Laón, proprio per ingraziarsi l’opposizione. La manovra non riuscí: Arnolfo fu deposto e, nel 991, Gerberto diventò arcivescovo. Intanto, però, la sua vita si veniva segnando di rotture e contrasti profondi fra le diocesi del tempo. Nel 997 Gerberto è un uomo solo, salvato semmai dalla nomina da parte di Ottone III a proprio segretario politico. Abbandona Reims e si trasferisce in Germania, alla corte di Ottone III per due anni (997-999), poi l’imperatore lo elegge arcivescovo di Ravenna, mentre l’intera corte ottoniana si sposta a Roma (998). Da Ravenna gestisce le diocesi padane, compresa l’inospitale Bobbio d’un tempo; a Roma l’imperatore già prepara il domani del maestro di Reims: il 2 aprile del 999, Gerberto è eletto papa.
Quasi una rinascita
Ritorna l’età felice dei libri e della scrittura: il pontefice protegge biblioteche e archivi, riprende in mano i suoi lavori scientifici, denuncia come falsa la «Donazione di Costantino» e difende l’autorità imperiale di Ottone III. Morale, fede e politica diventano una cosa sola: la coscienza e la cultura devono guidare le scelte, il bene pubblico va anteposto al privato, le leggi di Dio, espresse dal potere del papa e dell’imperatore, devono prevalere sulle degradanti leggi degli uomini, ispirate dall’avidità e dall’interesse. Nel 1001 Silvestro II e Ottone III consacrano la Chiesa nazionale d’Ungheria sotto il regno di Stefano. È l’ultimo grande atto d’una grande amicizia. Il 24 gennaio 1002 Ottone III muore, a ventidue anni: il vecchio Gerberto perde il suo alunno piú splendido. Nei mesi seguenti il papa si occupa di questioni diocesane fino al 3 maggio 1003, quando, colto da malore mentre officia in S. Croce in Gerusalemme, muore. Fu sepolto in S. Giovanni, perché ormai da molti anni i pontefici non erano piú seppelliti in S. Pietro. La sua tomba, si diceva, aveva mostrato una strana vitalità, trasudava acqua risanatrice, qualcuno ne aveva avuto effetti miracolosi. Fin34
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IL GRANDE SCISMA Quello strappo separa ancora oggi due civiltà religiose lontane, eppure cosí affini. Il divorzio tra cattolici e ortodossi fu la conseguenza del cosiddetto Grande Scisma, ovvero la separazione della Chiesa di rito latino da quella bizantina consumatasi nel 1054. Papa Leone IX e il patriarca di Costantinopoli Michele I Cerulario arrivarono a scomunicarsi l’un l’altro dopo alcune dispute non solo di carattere politico. Alla radice del dissidio covavano beghe di potere, ma anche schermaglie su questioni di natura giurisdizionale, teologica e liturgica. Sul piano dottrinale pesava, per esempio, l’antica questione del filioque, ossia l’aggiunta da parte della Chiesa romana dell’espressione «e dal figlio» nel Credo-niceno-costantinopolitano, formula liturgica nella messa relativa all’unità e alla trinità di Dio. La Chiesa d’Oriente condannò la modifica, ritenendola contraria alle disposizioni stabilite dal primo concilio di Nicea (325). Il dialogo, però, era reso difficile soprattutto dalla pretesa dei papi di rappresentare in prima persona l’autorità piú elevata nel mondo cristiano, a scapito dei quattro patriarcati orientali (Costantinopoli, Gerusalemme, Antiochia e Alessandria). Fino al fatidico 1054 le dispute, seppur a tratti violente, erano state composte per preservare l’immagine e forse l’illusione di una Chiesa universale di Cristo unita e granitica da Oriente a Occidente. La prima grande crisi tra le due famiglie religiose, scoppiata nella metà del IX secolo tra papa Niccolò I e l’imperatore bizantino Michele III, si era risolta infatti con un accordo poi sancito dal concilio. Allo stesso modo, nel 1054, a fronte dell’ennesimo litigio, si cercò una mediazione, anche per la necessità di fare fronte comune contro la minaccia normanna. L’accordo saltò per l’intransigenza del patriarca di Costantinopoli Michele I Cerulario, che intravide una volontà prevaricatrice da parte di Roma nella nomina di Umberto di Silvacandida ad arcivescovo di Sicilia, in un’isola già di fatto sotto il controllo dei
ché, nel 1648, alcuni lavori nel portico del Laterano riportarono alla luce il sepolcro. Del momento dell’apertura, il canonico Cesare Rasponi ha lasciato questo verbale: «Quando si scavò sotto il portico, il corpo di Silvestro II fu trovato intatto, sdraiato in un sepolcro di marmo (...). Era rivestito degli ornamenti pontificali, le braccia incrociate sul petto, la testa coperta dalla sacra tiara; la croce pastorale pendeva ancora dal suo collo e l’anulare della mano destra portava l’anello papale. Ma in un istante quel corpo si dissolse nell’aria, che ancora restò impregnata dei soavi profumi posti nell’urna; null’altro rimase che la croce d’argento e la croce pastorale». Di Gerberto/Silvestro II piú niente. Eppure era cominciata una vastissima circolazione di storie su questo enigmatico ed eccezionale personaggio, che introdusse in Occidente l’abaco, la scrittura musicale, la simbologia numerica, che studiò i mantici e la dinamica, l’ottica e la nozione di «volume»; che costruí organi a vapore; che nel Libro sul razionale e sull’uso della ragione affrontò temi di logica dove si sintetizzano i mas-
Nella pagina accanto miniatura raffigurante Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli e papa Leone IX, i due protagonisti dello Scisma d’Oriente; la rottura tra la Chiesa Romana e quella Bizantina avvenne nel 1054. Palermo, Biblioteca Centrale della Regione Siciliana.
Saraceni. Il patriarca temeva la diffusione dei riti occidentali in una terra che riteneva bizantina. E per ritorsione decise non solo di chiudere le chiese e i monasteri di Costantinopoli, ma anche di lanciarsi in dispute liturgiche, contestando la canonicità dell’eucarestia occidentale (in quanto impartita con il pane azzimo). La reazione del papato portò il dibattito sul motivo di fondo dello scontro: quale tra le due Chiese contava di piú? Secondo il cardinale Umberto di Silvacandida, incaricato da Gregorio IX di rispondere alle accuse bizantine, la Chiesa romana non poteva essere giudicata da altre istituzioni religiose. Quindi era quest’ultima a dover impartire direttive in base al primato papale stabilito dall’apocrifo Constitutum Constantini, che stabiliva la supremazia del pontefice romano sui patriarcati. Non tutti a Costantinopoli, anche nelle alte sfere politiche, condividevano la linea dura del patriarca nei riguardi di Roma. I dissidenti, tuttavia, dovettero accettare, loro malgrado, la posizione intransigente di Michele I Cerulario, in quanto era proprio lui, allora, a detenere la piú grande fetta di potere nell’Impero bizantino. A onor del vero anche l’insistenza delle repliche papali sul tema del primato di Roma, sancito dal falso editto costantineo, contribuí a indispettire Costantinopoli, provocando la rottura definitiva tra le parti consumatasi il 15 luglio del 1054: in quel giorno il cardinale Umberto di Silvacandida, in missione diplomatica a Costantinopoli, recapitò nella chiesa di S. Sofia la scomunica contro il patriarca della città. Tutti i tentativi di mediazione erano falliti. Non restava altra soluzione, quindi, che ufficializzare il divorzio. Quasi istantaneamente, poi, giunse la controscomunica formulata da Michele I Cerulario nei confronti del cardinale Umberto e in sostanza di tutta la Chiesa di Roma.
l’ombra della sua scienza sui secoli dopo il Mille; diventò anche papa, ma il suo ruolo appartiene alla storia della scienza e della cultura intesa in senso piú ampio, filologico e filosofico. Gerberto/Silvestro II è un caso formidabile di unicità in un’Europa che, dalla fine del X secolo, è aperta a tutte le direzioni del sapere, proprio come Gerberto d’Aurillac aveva insegnato a tutti i suoi discepoli da tutte le cattedre che occupò. Un uomo di ars e mathesis espresse al massimo livello. Troppo rilevante la sua personalità perché, dall’XI secolo, non nascesse una leggenda che ha attraversato l’intera cultura europea fino ai nostri giorni: mille anni dopo, il suo Epistolario e le altre sue opere raccontano la parabola di vita d’un uomo acutissimo, partecipe, amato e odiato, esaltato da molti, infilzato da altri, intorno al quale sorsero storie incredibili che appartengono alla cultura e all’immaginario dell’uomo del Duemila, ma trasmettono dal Medioevo del Mille un singolare e altissimo progetto d’armonia.
simi livelli del sapere alto-e centromedievale. Queste le altre sue opere: Epistolario (219 lettere dal 983 al 997); Opera mathematica; Acta Concilii Remensis ad Sanctum Basolum; Geometria Gerberti; Libellus de corpore et sanguine Domini; Sermo de informatione episcoporum; Decreta et Diplomata.
Un protagonista della cultura europea
Gerberto/Silvestro II sta all’intersezione fra il Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e il Quadrivio (musica, geometria, astronomia e aritmetica), là dove la fede, la dottrina, la libertà interiore e il suo impegno d’uomo pensante e credente fanno di questo personaggio un modernissimo protagonista della cultura europea, il cui modello oltrepassa, come il suo mito, i confini cronologici del Medioevo. Gerberto d’Aurillac è un perfetto precopernicano, piú rilevante dello stesso Copernico se pensiamo che a lui si deve la teoria cosmologica delle sfere armillari. Prima di Ruggero Bacone, di Alberto Magno, di Dante Alighieri, di Giovanni Pico della Mirandola, Gerberto d’Aurillac proietta PAPI DEL MEDIOEVO
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PAPI DEL MEDIOEVO
Silvestro II
Da Giovanni XVII ad Alessandro II
I papi dopo Silvestro II Prosegue la lotta tra famiglie nobili all’interno del papato che porta alla concomitanza di tre pontefici, tra il 1044 e il 1046. Ma l’ascesa del re di Germania Enrico III fornisce alla Chiesa l’occasione di una nuova, forte alleanza. Di riflesso a Roma si susseguono papi tedeschi, nel segno di una rinnovata moralità. Dopo lo scisma definitivo con la Chiesa d’Oriente, i pontefici devono fronteggiare un altro nemico, i Normanni, con i quali scendono a patti in vista di una crisi di rapporti con gli imperatori germanici GIOVANNI XVII (1003) GIOVANNI XVIII (1004-1009) SERGIO IV (1009-1012) BENEDETTO VIII (1012-1024) GIOVANNI XIX (1024-1032)
Con il suo pontificato ebbe luogo un’altra tappa importante sulla strada del divorzio ufficiale tra Chiesa Occidentale e Orientale. Cercò di restituire influenza a Costantinopoli, offrendo il titolo di ecumenico universale al patriarca di Costantinopoli, in cambio di una contropartita economica. Ma l’accordo saltò per la ribellione dei vescovi italiani. BENEDETTO IX (1032-1044) Papa passato alla storia per aver regnato sulla Chiesa per ben tre volte, dopo essere stato scacciato dalla popolazione che lo riteneva indegno. Secondo il Gregorovius con lui «il papato toccò il fondo della decadenza morale», nonostante qualche apprezzato intervento riformatore nel riordino delle cariche ecclesiastiche. SILVESTRO III (1045) BENEDETTO IX (per la seconda volta) (1045)
REGORIO VI (1045-1046) G LEMENTE II (1046-1047) C ENEDETTO IX (per la terza volta) (1047-1048) B AMASO II (1048) D L EONE IX (1049-1054) - SANTO
Sotto il suo pontificato si consumò lo strappo definitivo tra Roma e Costantinopoli, in seguito ai dissidi con il patriarca Michele. Si batté per affrancare la Chiesa dall’Impero, specie nell’ambito della gestione delle questioni di pertinenza ecclesiastica. Combatté la simonia e diede forte impulso alla vita monastica. VITTORE II (1055-1057) STEFANO IX (1057-1058) NICCOLÒ II (1059-1061) Un altro grande riformatore. Stabilí che il papa doveva essere eletto solo dai cardinali, senza piú l’acclamazione popolare, escludendo di fatto l’ingerenza di qualsiasi laico, soprattutto delle famiglie aristocratiche, nella scelta del pontefice. Si alleò con i Normanni. ALESSANDRO II (1061-1073)
Nella pagina accanto Venosa (Potenza), abbazia della SS. Trinità. Particolare di un affresco raffigurante papa Niccolò II. 36
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GREGORIO VII
Il profeta della riforma Tutte le aspirazioni di rinnovamento morale e di supremazia della Chiesa sul potere temporale convergono sulla figura di Ildebrando Aldobrandeschi, eletto papa nel 1073 con il nome di Gregorio VII. Il pontefice accoglie le due istanze nelle enunciazioni del celebre Dictatus Papae e si scontra in seguito con l’imperatore Enrico IV sul problema delle investiture
Nome
Ildebrando Aldobrandeschi
Nascita
Sovana, fra il 1013 e il 1024
Pontificato 1073-1085
Morte
Salerno, 25 maggio 1085
Sepoltura
Salerno, Cattedrale
di Agostino Paravicini Bagliani
G
regorio VII, che sedette sul soglio di Pietro dal 1073 al 1084, fu uno dei papi piú importanti del Medioevo. Non a caso si è soliti parlare di Riforma Gregoriana quando si vuole ricordare il programma di riforme messo in opera dai pontefici della seconda metà dell’XI secolo. Un programma, profondamente influenzato da Ildebrando – questo fu il suo nome prima di essere eletto papa –, che si prefiggeva di conferire alla Chiesa romana una nuova centralità in seno alla cristianità, assicurarne la «libertà» dai signori laici, riformare il papato e affermare una rigida disciplina ecclesiastica, lottando contro la simonia e imponendo il celibato ecclesiastico. È difficile precisare la sua data di nascita, da situare comunque non prima del 1015 e non dopo il 1034, forse intorno al 1029, se aveva
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Nella pagina accanto ritratto di Gregorio VII (al secolo Ildebrando Aldobrandeschi), eletto papa nel 1073, olio su tela di Giuseppe Franchi. 1600-1624. Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
all’incirca vent’anni nel 1049, quando venne nominato suddiacono. Ma se crediamo al piú recente esame scientifico del suo scheletro, Gregorio VII avrebbe avuto 70 anni circa (tra i 65 e i 75 anni) alla sua morte, il che ci riporta al 1015 circa.
«Di nazione toscana»
Che sia nato a Sovana, un antico borgo medievale della Tuscia meridionale (oggi in provincia di Grosseto), lo afferma una fonte tarda. Nella Vita di Gregorio VII scritta dal cardinale Bosone († 1178) si legge che «Gregorio VII, di nazione toscana, originario di Sovana, del villaggio di Rovaco, figlio di Bonizo, regnò dodici anni, un mese e tre giorni». Rovaco è forse il castello di Roianaco, situato su un’altura che sovrasta il piccolo fiume Riana che si getta nel Fiora, ma si tratta di un’ipotesi.
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Gregorio VII
L’esistenza di legami con Sovana trova però conferma nel fatto che intorno al 1083 il papa vi insediò come vescovo un certo Davide. Conosciamo il nome del padre – Bonizo –, ma si ha ragione di credere che la sua famiglia non fosse di elevata posizione sociale. Un cronista inglese, Orderico Vitalis, scrive che l’abate di Cluny Ugo usava dire che il papa era «un omuncolo di statura gracile e di origine spregevole». Anche un abate della Lorena (Metz) scrisse che in una lettera che il papa era di origine «plebea». Che fosse di bassa statura viene messo in evidenza da Pier Damiani in un epigramma: Ildebrando era di «piccola statura, lui, davanti al quale tutti tremano, è l’unico a essere piú piccolo di me».
di Pietro di Leone con quello della famiglia romana dei Pierleoni, ne nacque una vivace – quanto inutile – discussione sulle eventuali origini ebree di Gregorio VII. Sappiamo invece con certezza che Ildebrando trascorse una parte della sua adolescenza a Roma. Scrivendo a Beatrice e a Matilde di Canossa (16 ottobre 1074), lo stesso pontefice dirà con enfasi: «Il principe degli apostoli [Pietro] mi ha nutrito fin dalla mia infanzia (…) con pietà singolare e mi ha ristorato nel grembo della sua clemenza». Piú tardi (25 luglio 1076), scrivendo al re di Mauritania Anazir ricorderà, forse per nascon-
In basso il palazzo lateranense in una incisione di Louis Rouhier. XVI sec.
Ipotesi senza fondamento
Poiché il nome di Ildebrando ricorre nella genealogia degli Aldobrandeschi, si è pensato che anche il futuro papa fosse imparentato con questa celebre famiglia nobile toscana con possedimenti a Sovana, ma si tratta di un’ipotesi senza fondamento. Secondo una cronaca tedesca del XII secolo (gli Annali di Pegau, una cittadina a sud di Lipsia), Ildebrando avrebbe avuto come zio un certo Pietro di Leone, che sarebbe stato imparentato con papa Gregorio VI (1045-46). A causa della vicinanza del nome
HABEMUS PAPAM Sovrano spirituale e temporale, il papa nel Medioevo celebrava riti e cerimonie che ritmavano la sua vita durante tutto l’arco dell’anno. Da questo punto di vista il XIII secolo è particolarmente interessante, perché comporta molte novità. Ogni nuovo pontificato iniziava con una complessa liturgia, ma le cerimonie erano sostanzialmente due: il papa prendeva dapprima «possesso» della basilica e del palazzo del Laterano, che nel Medioevo era la sua residenza ufficiale. Una settimana dopo si recava a S. Pietro per essere consacrato, quindi tornava al Laterano. Fino a Gregorio X (1271-1276), la «presa di possesso» del Laterano precedeva la consacrazione in Vaticano. Ma Gregorio X innovò, invertendo l’ordine di successione di queste due cerimonie. Diventando prioritaria, l’incoronazione acquistava un significato nuovo, assai piú importante di prima. Ma come si svolgeva il «possesso» del Laterano? Dopo la sua elezione, il papa riceveva innanzitutto il mantello rosso, poi doveva scegliere un nuovo nome. Cosí, per esempio, il primo papa del Duecento, il cui nome di battesimo era Lotario, una volta eletto scelse il nome di Innocenzo e, poiché vi erano già stati due pontefici con questo nome, divenne Innocenzo III (1198-1216). In Laterano, il nuovo papa doveva sedersi su tre seggi o cattedre. La prima, tuttora visibile nel chiostro della basilica,
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era di pietra ed era posta davanti al portico. Preso posto su questa sedia, l’eletto lanciava al popolo tre pugni di denari dicendo: «Questo argento e questo oro non mi sono dati per mio diletto; ciò che ho te lo darò». Il papa entrava poi nella basilica e andava a sedersi sulla cattedra in pietra posta nel coro, dove riceveva tutti i cardinali per il bacio della pace. Davanti al palazzo del Laterano, vi erano altre due sedie che all’epoca si credeva fossero di porfido, la pietra imperiale per eccellenza: erano, invece, di marmo rosso antico che proveniva dalle vicine Terme di Diocleziano. Una di esse fu portata da Napoleone a Parigi e si trova oggi al Museo del Louvre; la seconda è conservata nei Musei del Vaticano. Seduto su quella di destra, il papa riceveva le chiavi della basilica e del palazzo lateranense, mentre sull’altra veniva cinto con un cingolo rosso dal quale pendeva una borsa purpurea contenente dodici sigilli di pietre preziose e del muschio. Anche qui il papa lanciava del denaro, ripetendo per tre volte una frase che si legge in una lettera di san Paolo (2 Coro 9, 9): «Distribuendo diede ai poveri e la sua giustizia rimarrà nei secoli dei secoli». Il pranzo ufficiale che concludeva le cerimonie dell’avvento di un nuovo pontefice si teneva nel triclinio del Laterano. I cerimoniali ci dicono che il papa, con il suo mantello rosso sulle spalle, con al dito l’anello piú prezioso e con i sandali
Roma, basilica dei SS. Quattro Coronati, oratorio di S. Silvestro. Particolare del ciclo della Leggenda di Costantino e San Silvestro raffigurante l’imperatore Costantino che offre al papa la tiara imperiale, simbolo del potere temporale. 1246. Nella realtà, ogni nuovo pontefice riceveva «la corona che si chiama regno» dal primo dei cardinali diaconi, in S. Pietro, dopo essere stato ufficialmente consacrato e avere celebrato la Messa.
ai piedi, era seduto da solo a un tavolo, sul quale erano posti alcuni vasi d’oro. Alla sua destra era imbandito il tavolo per i cardinali vescovi e i cardinali preti, a sinistra quello per i cardinali diaconi. Altri tavoli erano riservati ai prelati e ai nobili. I laici nobili presenti avevano il compito di servire il papa e a quello piú elevato di rango spettava l’onore di porgergli il primo piatto. La domenica successiva, il pontefice si recava a S. Pietro, per essere consacrato. Qui riceveva il pallio, a cui venivano affisse tre spine d’oro. Dopo aver celebrato la Messa, il papa si recava alla porta o ai gradini della chiesa, dove il primo dei cardinali diaconi gli poneva sul capo «la corona che si chiama regno», ossia la tiara. Quindi il pontefice tornava al Laterano preceduto da un corteo imponente, la «cavalcata bianca», poiché tutti, cardinali, prelati e papa compreso, erano vestiti di bianco. Il corteo seguiva l’itinerario della via sacra o «del papa». In quattro punti, come davanti alle chiese di S. Marco e di S. Adriano al Foro, membri della curia gettavano monetine al popolo. Nel luogo del primo lancio, il papa riceveva l’omaggio degli Ebrei, che gli presentavano la loro Legge, affinché il «papa la adori», ma il pontefice doveva invece pronunciarne la condanna. La «cavalcata bianca» corrispondeva a una «festa della corona», poiché egli attraversava la città di Roma portando
sul capo la tiara. Queste feste avevano luogo diverse volte all’anno, ma la piú importante si celebrava il Lunedí di Pasqua. Gregorio IX (1227-1241) ebbe la fortuna di essere eletto in una data (19 marzo 1227) molto vicina alla Pasqua (12 aprile), evento di cui approfittò, attendendo il Lunedí dell’Angelo per intraprendere la tradizionale cavalcata attraverso Roma. Il suo biografo ci dice che il papa, come un «cherubino trasfigurato», in sella a un cavallo «ornato di tessuti preziosi», «Padre di Roma e del mondo» (pater Urbis et orbis) attraversò la città «incoronato con il suo diadema duplice» (diadema duplex, ossia la tiara), in compagnia dei cardinali «in porpora». Il senatore e il prefetto della città lo seguirono a piedi, tenendo la staffa del suo cavallo. La vita della corte papale era ritmata secondo un calendario che prevedeva una serie interminabile di cerimonie e processioni. In questi che per la curia erano giorni di festa – 77 in un anno – il papa non teneva concistoro. Se si pensa che anche i giovedí e le domeniche – 181 giorni all’anno – erano senza concistoro appare chiaro che i funzionari della curia romana lavoravano dunque ufficialmente soltanto la metà di un anno, e ancor meno se si considerano le vacanze estive, che si estendevano dal 29 giugno (festa di San Pietro) al 25 settembre (festa della Natività di Maria).
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Gregorio VII
La basilica e i palazzi del Laterano 1. La chiesa intitolata a san Giovanni sorse a opera dell’imperatore Costantino all’indomani dell’editto di tolleranza in un’area marginale della città antica, il Campus Lateranensis (già Horti Laterani), su terreni di proprietà imperiale, a ridosso delle Mura Aureliane. L’interno è a pianta basilicale a cinque navate, divise da colonne. L’aspetto attuale è frutto dei restauri eseguiti, alla metà del XVII sec., da Francesco Borromini. La facciata, realizzata su progetto di Alessandro Galilei, risale invece al 1732. 2. Il Palazzo Lateranense, edificato a pianta quadrata secondo il progetto di Domenico Fontana (1586-1589), fu costruito da Sisto V (1520-1590), in sostituzione dell’antico Patriarchio, distrutto da un incendio nel XIV sec.
3. La Loggia delle Benedizioni fu costruita da Domenico Fontana nel 1586, sul lato meridionale della piazza, in contiguità con il Palazzo Lateranense. La facciata è aperta da cinque arcate di travertino su due ordini ed è coronata da una balaustra. I due campanili gemelli sono del XlII sec., mentre le cuspidi furono aggiunte intorno al 1370.
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4. Il Battistero di S. Giovanni in Fonte, eretto da Costantino, ha pianta ottagonale e copertura a cupola. Sisto lII (432-440) aggiunse l’atrio; a llaro (461-468) e a Giovanni V (640-642) si devono le cappelle. Nel 1540 la cupola fu sostituita dal tiburio, e, nel XVII sec., si ebbero i restauri di Domenico Castelli e Francesco Borromini.
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In alto la pagina della Bibbia di Carlo il Calvo che reca la dedica dell’opera a «rex Carolus» da parte del suo autore, da identificare con un monaco attivo in un monastero di Reims, nel IX sec. Il prezioso volume si conserva oggi a Roma, nell’abbazia di S. Paolo fuori le Mura, alla quale fu probabilmente affidato da Gregorio VII prima della sua fuga a Salerno (1084). dere le proprie origini sociali, il nome di due Romani di antica e nobile stirpe, Alberico e Cencio, con i quali disse di essere stato educato in gioventú «nel palazzo romano».
Allievo di un maestro coltissimo
Ildebrando ricevette dunque la sua formazione nella prestigiosa scuola presso il Palazzo lateranense, tenuta dai canonici della basilica di S. Giovanni, ed ebbe come maestro il coltissimo Lorenzo arcivescovo di Amalfi. Molto meno sicura è invece la notizia secondo cui Ildebrando sarebbe stato educato da uno zio, abate di S. Maria del Priorato sull’Aventino. Molti anni piú tardi, in occasione del sinodo quaresimale del 7 marzo 1080, il papa ebbe a precisare di avere ricevuto gli ordini minori «non volentieri». PAPI DEL MEDIOEVO
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Gregorio VII
Un’affermazione che appartiene alla tradizionale retorica di umiltà e non va quindi presa alla lettera. Ciò permette comunque di supporre che Ildebrando fosse stato ordinato accolito (uno dei primi Ordini Minori) da papa Gregorio VI prima del suo esilio a Colonia (1046). Di Gregorio VI Ildebrando fu anche cappellano. Nel 1080, Gregorio VII ricordava anche di avere accompagnato senza entusiasmo il papa in esilio a Colonia, ma noi sappiamo che quel soggiorno renano lasciò tracce nella sua memoria: «Tra le tante Chiese occidentali abbiamo rivolto un amore particolare alla Chiesa di Colonia in ricordo alla “disciplina” (parola che significa vita conventuale, con riferimento ai canonici regolari, n.d.r.) con la quale siamo stati allevati all’epoca del nostro predecessore nella chiesa cattedrale».
La traslazione a Bamberga
A Colonia, Ildebrando avrà vissuto vicino ai canonici di quella cattedrale, come aveva fatto al Laterano, e avrà approfittato della loro ricca biblioteca per completare la sua formazione. Mentre risiedeva a Colonia, Roma fu teatro di eventi importanti. Il 9 ottobre 1047 a Pesaro morí Clemente II di ritorno dalla Germania; egli era stato intronizzato il 25 dicembre 1046, quando già Ildebrando era in Germania in compagnia del deposto Gregorio VI. Le sue spoglie mortali furono traslate a Bamberga e sepolte nella cattedrale in un sarcofago di marmo che si può ammirare ancor oggi. È l’unico papa sepolto in Germania. Che fosse stato avvelenato dai partigiani di Benedetto IX, come viene asserito da alcune fonti contemporanee, è accusa stereotipa da non prendere alla lettera. Un mese dopo la morte di Clemente II, Benedetto IX, che era stato allontanato da Roma dall’imperatore Enrico III perché accusato di simonia, irruppe nel palazzo del Laterano (novembre 1047), ma ne fu cacciato il 16 luglio 1048. Al suo posto fu eletto Damaso II (Poppone di Bressanone), che però morí già il 9 agosto a Palestrina. Dopo difficili negoziati, fu eletto a Worms nel dicembre 1048 il vescovo Brunone di Toul, che prese il nome di Leone IX. Con l’accordo di Enrico III e dei grandi del Regno ivi riuniti, e alla presenza di una legazione romana. È probabile che Ildebrando abbia conosciuto allora il nuovo papa, in compagnia dell’abate di Cluny, Ugo. Alcuni autori medievali (Bonizone di Sutri, 44
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In basso statua di san Paolo. Roma, Museo del Tesoro di S. Giovanni in Laterano.
Bruno di Segni, Ottone di Frisinga) affermano che Ildebrando si sarebbe recato a Cluny dopo la morte di Gregorio VI e lí si sarebbe fatto monaco. Ma si tratta di un’informazione alla quale viene oggi dato poco credito. Ildebrando si definí una volta «monachus», ma quel termine veniva allora usato anche per i canonici regolari, un movimento religioso al quale egli fu molto legato. Dopo avere atteso tre giorni prima di accettare l’elezione, Brunone di Toul partí per Roma il 27 dicembre 1048 vestito da pellegrino. A piedi nudi entrò nell’Urbe nel febbraio 1049. Il 12 fu consacrato papa in S. Pietro. Piú tardi, Gregorio VII ricorderà, ricorrendo di nuovo alla retorica dell’umiltà, che il nuovo papa, Leone IX, gli chiese di accompagnarlo a Roma: «Fui collocato molto indegnamente, senza averlo affatto desiderato, accanto al vostro trono, con molto dolore, gemito e pianto». Di ritorno a Roma, Ildebrando è nominato custode dell’altare di S. Pietro (probabilmente l’altare della Confessione nella Basilica Vaticana e non l’altare di San Pietro al Laterano) e rettore di S. Paolo Fuori le Mura. Questo duplice incarico lo metteva a contatto con le basiliche romane che conservavano le tombe dei due Apostoli Pietro e Paolo. Ai monaci di S. Paolo propose di unirsi con il monastero di S. Vittore a Marsiglia per creare un istituto direttamente dipendente dalla sede apostolica, alla stregua di Cluny. È molto probabile che le straordinarie porte di bronzo siano state donate all’abbazia sotto il pontificato di Alessandro II (1061-73) grazie al suo intervento. Ed è persino lecito pensare che la stupenda Bibbia di Carlo il Calvo, che si conserva a S. Paolo Fuori le Mura, fosse stata affidata all’abbazia dallo stesso Gregorio VII prima della fuga a Salerno (1084).
La porpora negata
Leone IX nominò cardinali diversi suoi stretti collaboratori (fra i quali Umberto di Moyenmoutier, che diventò cardinale vescovo di Silva Candida), ma Ildebrando dovette accontentarsi del titolo, peraltro prestigioso, di suddiacono papale, che gli permetteva di svolgere compiti liturgici e amministrativi in Laterano. Prima della sua morte (19 aprile 1054), Leone IX inviò Ildebrando legato in Francia, a Tours, per presiedere un concilio che doveva tra l’altro discutere le teorie eucaristiche di Berengario di Tours che i sinodi di Roma e di Vercelli (1050), nonché di Parigi (1051), avevano condannato. Durante questo sinodo, appresa la morte di Leone IX, Ildebrando partí subito per Roma
A sinistra il chiostro della basilica di S. Giovanni in Laterano, i cui canonici impartirono a Ildebrando i primi insegnamenti. In basso incisione che ritrae Gregorio VII, CLVII papa della Chiesa cattolica dal 1073.
dove arrivò probabilmente verso la metà di giugno. Ma dovette subito recarsi in Germania per prendere parte ai negoziati con l’imperatore circa l’elezione del nuovo pontefice, in compagnia dei cardinali Bonifacio d’Albano e Umberto da Silva Candida. La legazione romana sostenne l’elezione a pontefice del cancelliere dell’imperatore Enrico III, Gebhard di Eichstätt, il quale fu eletto papa Vittore II a Magonza nel novembre 1054. Gebhard diede però il suo consenso all’imperatore soltanto nel marzo 1055 a Regensburg. La sua consacrazione e intronizzazione avvenne a Roma nella Basilica Vaticana un mese dopo, il 13 aprile.
Giuramento sulle reliquie
Alcuni vescovi tedeschi affermano in una lettera al «fratello» Ildebrando (inizio 1076) che durante quel suo soggiorno tedesco egli avrebbe giurato su alcune reliquie, all’imperatore Enrico III, che, per tutta la durata del suo regno e di quello di suo figlio, non avrebbe accettato di essere eletto papa. L’aneddoto è probabilmente autentico. Lo stesso Gregorio VII scriverà qualche anno dopo la sua elezione a pontefice (1073) che «gli fu impossibile, contro il volere divino, di mantere il giuramento prestato». Vittore II affidò a Ildebrando responsabilità importanti alla guida della cancelleria papale. In
IDENTIKIT DI UN PAPA La tomba di Gregorio VII, nella cattedrale di S. Matteo a Salerno, fu aperta una prima volta nel 1578 per ordine di Marcantonio Marsili Colonna, arcivescovo di Salerno dal 1574. Il 25 dicembre 1605, la tomba fu aperta di nuovo. Se ne estrassero l’arto superiore destro e il cranio, che fu conservato a Salerno in un reliquiario d’argento. Il vescovo di Sovana, l’influente cardinale Metello Bichi (1541-1619), destinò una parte dell’arto, forse l’omero, alla cattedrale di Siena (città in cui era nato), mentre l’avambraccio e alcune ossa della mano furono inviate a Sovana dai canonici di Salerno. Nel 1984, in occasione del 90° anniversario della morte di Gregorio VII, la tomba fu aperta una terza volta affinché lo scheletro fosse sottoposto ad analisi scientifiche. L’esame rivelò che Ildebrando era di costituzione alpino-mediterranea e che doveva avere avuto circa 70 anni al momento della morte; la sua statura era compresa tra i 157 e 163 cm e la capacità cranica risultò di 1600 cc, valore molto elevato. Era lo scheletro di un uomo tutt’altro che sedentario, buon camminatore anche se usava animali da sella. La dentatura era completa, senza malattia parodontale. L’esame rivelò un’alimentazione di origine vegetale di quattro volte superiore alla media, ma non completamente vegetariana. Sono risultati che non coincidono perfettamente con le fonti medievali, che definiscono Ildebrando di corporatura gracile e di piccola statura.
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Gregorio VII calce a due privilegi papali del 9 novembre 1055 e del 2 gennaio 1056 troviamo, infatti, il nome di Ildebrando quale rappresentante dell’arcivescovo Ermanno di Colonia, arcicancelliere della Chiesa romana e teoricamente capo della cancelleria papale. Probabilmente su istigazione di Ildebrando, nella Rota che veniva disegnata in calce ai privilegi papali furono allora inserite, nei quattro riquadri, le parole Jesus Christus Petrus Paulus, un chiaro riferimento a quella che sarà la visione del papato di Gregorio VII: la Chiesa romana si fonda su Cristo e il papato sui due Apostoli romani Pietro e Paolo. Anche la bolla di piombo fu modificata: sotto Benedetto III (855-858) si era incominciato a scrivere il nome del papa regnante; ora appare sul retto per la prima volta la figura di san Pietro, al quale dal cielo la mano di Cristo porge la chiave; e sul verso la figura di Roma (Aurea Roma) circondata dal nome del papa (al genitivo): Victoris papae II. Piú tardi, sotto Pasquale II (1099-1118), sulle bolle verranno incisi sul recto ritratti di ambedue gli Apostoli tra una croce e le lettere SPA (Sanctus Paulus), SPE (Sanctus Petrus); e sul verso, il nome del papa al nominativo, accompagnato dal numero corrispondente.
Il vescovo che non riuscí a pregare
UNA DIGNITÀ SUPERIORE «Crediamo che alla prudenza vostra non possa essere ignoto che Dio onnipotente ha attribuito a questo mondo, perché ne venga governato, due dignità di gran lunga superiori a tutte le altre, cioè quella apostolica e quella regia. Come infatti ha disposto, per far comparire dinannzi agli occhi della carne nei diversi momenti la bellezza del mondo, il Sole e la Luna come lumi di gran lunga piú eminenti rispetto a tutti gli altri, cosí affinché la creatura che la sua bontà aveva creato in questo mondo a sua propria immagine non fosse tratta in pericoli di errore e di morte, ho provveduto che fosse retta, secondo diversi uffici, dalla dignità apostolica e da quella regia. Tuttavia, con questo minore intervallo fra maggiore e minore si muove la retta osservanza cristiana, che la dignità regia sia guidata e condotta, dopo Dio, dalla cura e dalla disposizione apostolica» (lettera di Gregorio VII a Enrico IV re di Germania, 8 maggio 108, traduzione di Glauco Maria Cantarella in Il sole e la luna, Laterza, Roma-Bari 2005).
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Vittore II invia una seconda volta Ildebrando legato in Gallia. Nel febbraio presiederà a Châlons-sur-Saône un sinodo alla presenza di vescovi e abati francesi, tra i quali Ugo di Cluny. Il sinodo doveva esaminare le accuse di simonia lanciate contro vescovi francesi. Pier Damiani racconterà di avere saputo dallo stesso Ildebrando che il vescovo di Embrun, invitato dal legato a recitare il Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto, fu incapace di pronunciare le due ultime parole, il che fu considerato come la prova che il prelato aveva peccato contro lo Spirito Santo… Quando Vittore II morí, ad Arezzo, il 28 luglio 1057, Ildebrando era già tornato in Italia. Secondo il cronista Leone d’Ostia, Federico di Lorena, abate di Montecassino e cardinale avrebbe preferito sottrarsi alla sua elezione a pontefice proponendo altri nomi, tra i quali quello di Ildebrando. Federico accettò finalmente l’elezione e prese il nome di Stefano IX; egli era fratello di Goffredo di Lorena, signore della Tuscia grazie al suo matrimonio (con Beatrice di Lotaringia, vedova di Bonifacio di Canossa e madre di Matilde, n.d.r.). Secondo una fonte tedesca la sua elezione avvenne all’insaputa dell’imperatore, che l’avrebbe approvata a cose fatte.
Durante il pontificato di Stefano IX, due fra i piú importanti protagonisti del programma riformatore del papato dell’XI secolo e della lotta per la «libertà della Chiesa» salirono alla vetta della gerarchia romana: Umberto da Silva Candida diventò cancelliere e Pier Damiani fu creato cardinale vescovo di Ostia. Ildebrando fu di nuovo inviato in legazione in Germania. Partito dopo la morte di Enrico III (3 ottobre 1056), è attestato a Natale a Goslar. Il 26 dicembre lo troviamo a Gandersheim impegnato in un arbitrato nel processo contro l’imperatrice Agnese. Il giorno dopo è a Pöhlde dove incontra il vescovo Anselmo di Lucca, il futuro papa Alessandro II, e l’arcivescovo Wido di Milano. Anselmo e Ildebrando ritornano in Italia soltanto dopo la morte di Stefano IX, il 29 marzo 1058. Ildebrando si sofferma a Milano, ma senza prendere veri e propri provvedi-
menti contro la pataria, un movimento considerato da tempo eretico dal papato. Nella primavera del 1058, Stefano IX, sentendosi vicino alla fine, avrebbe fatto giurare solennemente ai cardinali vescovi che in caso di vacanza della sede apostolica essi avrebbero atteso il ritorno di Ildebrando per procedere all’elezione del nuovo papa. Ma le cose andarono diversamente. Alla morte del papa, avvenuta a Firenze il 29 marzo 1058, un’importante fazione dell’aristocrazia romana condotta dal conte di Tusculum Gregorio, dal conte di Galeria Gerardo e da membri della famiglia dei Crescenzi, elesse papa il cardinale vescovo di Velletri Giovanni, che prese il nome di Benedetto X. Egli era figlio di Guido dei conti di Tuscolo, fratello di un altro papa, Benedetto IX. Questi importanti esponenti dell’aristocrazia romana volevano riprendere il controllo
In alto miniatura raffigurante papa Niccolò II che incorona Roberto il Guiscardo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante san Pietro in Cattedra, dal Breviario Grimani. XVI sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
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della sede apostolica, dalla quale erano stati allontanati da Leone IX. Informato degli avvenimenti durante il suo viaggio di ritorno dalla Germania, Ildebrando si mise immediatamente (prima del 16 di maggio) in rapporto con i cardinali vescovi che si erano opposti all’elezione di Benedetto X e riuscí a far eleggere papa il vescovo di Firenze Gerardo, che prese il nome di Niccolò II. L’imperatrice Agnese diede il suo consenso e ordinò a Goffredo il Barbuto di Toscana-Lorena di accompagnare il nuovo eletto a Roma con una scorta armata. Niccolò II poté entrare a Roma in compagnia di Guiberto di Ravenna, nuovo cancelliere imperiale per l’Italia e fu intronizzato in S. Pietro il 24 gennaio 1059. Ildebrando lo avrebbe incoronato con una «corona reale». «Quando i vescovi videro ciò, erano come morti» (dalla sorpresa). La ragione è che «si leggevano sull’ultimo diadema di questa corona queste parole: Corona del Regno dalla mano di Dio» e sull’altro: «Diadema dell’impero dalla mano di Pietro». Si trattava della corona che veniva posta sulla testa del pontefice dopo la sua consacrazione davanti al portico della basilica di S. Pietro in vista della processione che lo avrebbe portato al Laterano. Questo racconto viene proposto da Benzo d’Alba, oppositore accanito di Gregorio VII. La sua autenticità non può quindi non destare proble-
mi. Il racconto è del resto ricco di spunti satirici: Benzo chiama infatti Ildebrando «Prandellus» e dice che condusse il «suo Nicola», ossia il nuovo papa, al palazzo del Laterano «come un asino alla sua stalla». In assenza di testimonianze iconografiche è impossibile dire se già nel 1059 la tiara pontificia si fosse arricchita di un secondo diadema, una situazione che appare con chiarezza soltanto nel Duecento. Secondo il suo biografo, Gregorio IX (1227-41) sarebbe stato incoronato con una tiara duplex. Alla fine del Duecento, Bonifacio VIII, come è noto, aggiunse una terza corona alla tiara papale, trasformandola in un triregno. L’interesse di Ildebrando per la tiara è indirettamente attestato dall’articolo 8 del Dictatus papae, in cui si legge «che lui [il papa] solo può usare le insegne imperiali».
Nella pagina accanto ancora un ritratto di papa Gregorio VII, un una xilografia del 1870.
Il decreto di elezione
Benedetto X si rifugiò nel castello di Passarano presso Tivoli, poi nel castello del conte di Galeria Gerardo, dove fu fatto prigioniero qualche mese dopo (maggio-giugno 1059). L’operazione di conquista del castello di Galeria fu diretta dallo stesso Ildebrando con l’aiuto di 300 cavalieri normanni che era andato personalmente a chiedere a Capua, al conte di Aversa Riccardo. Secondo gli Annales Romani, Benedetto X sarebbe stato spogliato dei suoi pa-
IL PRIMATO IN 27 SENTENZE 1. La Chiesa romana è stata fondata soltanto da Dio. 2. Solo il pontefice romano si dica di diritto universale. 3. Egli solo abbia il potere di deporre e reintegrare i vescovi. 4. Durante un concilio il suo legato, anche se di grado inferiore, presieda a tutti i vescovi e possa pronunciare sentenza di deposizione contro di loro. 5. Il papa abbia il potere di deporre anche gli assenti. 6. Con chi è stato scomunicato da lui, tra l’altro non dobbiamo nemmeno rimanere nella stessa casa. 7. Solo a lui sia lecito, a seconda delle necessità del momento, istituire nuove leggi, fondare nuove pievi, trasformare in abbazia una chiesa canonicale e viceversa, smembrare un
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episcopato ricco e aggregare quelli poveri. 8. Solo il papa possa far uso delle insegne imperiali. 9. Al papa e solo a lui spetta che tutti i principi bacino i piedi. 10. Solo il suo nome venga proferito nelle chiese. 11. Il suo nome è unico in tutto il mondo. 12. Gli sia lecito deporre gli imperatori. 13. Gli sia lecito, qualora la necessità lo imponga, trasferire i vescovi da una sede all’altra. 14. Egli abbia il potere di ordinare chierici in ogni chiesa in qualsiasi momento lo voglia. 15. Chi è stato ordinato dal papa può essere preposto ad altra chiesa, ma non prestarvi servizio; costui non deve ricevere da un altro vescovo un grado superiore.
16. Nessun sinodo senza indicazione del papa deve essere chiamato generale. 17. Nessun canone e nessun libro siano da considerarsi canonici senza la sua autorità. 18. A nessuno sia lecito ritrattare le sue sentenze; lui solo possa trattare quelle di tutti. 19. Nessuno lo possa sottoporre a giudizio. 20. Nessuno osi condannare chi si appella alla sede apostolica. 21. Le cause di maggior importanza, di qualsiasi Chiesa, siano rimesse alla sede apostolica. 22. La Chiesa romana non ha mai errato né potrà mai errare, come testimonia la Scrittura. 23. Il pontefice romano, se è stato ordinato secondo i canoni, è indubitabilmente reso santo per i meriti del Beato Pietro, come
NIENTE DONNE, NIENTE EREDI L’ideale del celibato ecclesiastico risale ai primordi del cristianesimo. Già nel IV secolo, Epifanio parla del celibato come della «legge ecclesiastica del sacerdozio», che fa risalire agli Apostoli. Il concilio di Nicea (325) sostenne che il celibato non si doveva imporre ai vescovi, preti e diaconi, sposati prima della loro ordinazione, ma soltanto «in virtú di un’antica tradizione della Chiesa». Le due Chiese, orientale e occidentale, seguirono strade diverse. In Oriente, i vescovi erano tenuti al celibato, e, se già sposati, dovevano separarsi dalla moglie. I preti, diaconi e suddiaconi non potevano contrarre matrimonio dopo la loro ordinazione, e, se sposati, non dovevano abbandonare la propria moglie. In Occidente, il celibato fu affermato come ideale nel concilio di Granada (Elvira), verso l’anno 300, poi a Roma, nel sinodo del 386 presieduto da papa Siricio. Non mancarono però le resistenze. Secondo Gregorio di Tours (600 circa), in Gallia persino numerosi vescovi erano sposati. Dal pontificato di Leone IX la dottrina del celibato viene imposta con rinnovato vigore. Nel 1050, un sinodo romano ordinò ai preti di abbandonare la moglie e di vivere in continenza. Gregorio VII (1074) decretò che i chierici che non avessero abbandonato la loro moglie sarebbero stati deposti ipso facto. II concilio del Laterano (1123) sancí che i preti che coabitavano con donne (escluse la madre, la sorella o una domestica dall’età «canonica») dovevano essere privati del loro beneficio ecclesiastico. Oltre che ideali di origine monastica, di esaltazione della verginità, contarono motivazioni di ordine patrimoniale e sociale. La disciplina del celibato sosteneva il primato dello spirituale sul temporale e permetteva alla Chiesa, che lottava per la sua «libertà» dal potere laico, di evitare che le famiglie dei preti si appropriassero dei beni ecclesiastici.
ramenti pontifici e privato della dignità ecclesiastica. Secondo Bonizone di Sutri, invece, il papa deposto avrebbe ammesso le sue colpe spontaneamente, prima di essere degradato della sua dignità episcopale. In epoca imprecisata, tra l’estate 1058 e il gennaio 1059, Ildebrando svolse la funzione di Arcidiacono della Chiesa romana, primo personaggio dell’amministrazione pontificia. La
testimonia il vescovo di Pavia Ennodio, seguito in ciò dal parere di molti santi Padri e come è scritto nei decreti del Beato Simmaco papa. 24. Per suo ordine o con il suo consenso sia lecito ai gradi inferiori presentare accuse (contro i suoi superiori). 25. Egli abbia il potere di deporre e reintegrare i vescovi anche senza riunire il sinodo. 26. Non sia considerato cattolico chi non è d’accordo con la Chiesa romana. 27. Il pontefice può sciogliere i sudditi dal vincolo di lealtà verso gli iniqui.
(traduzione a cura di Glauco Maria Cantarella e Dorino Tuniz, in Il papa ed il sovrano, pp. 69-70).
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sua prima sottoscrizione autografa, in un privilegio papale del 14 ottobre 1059 a favore del monastero di S. Pietro a Perugia. Ma è molto probabile che egli fosse già in carica il 24 gennaio 1059, poiché fu lui a incoronare il nuovo pontefice in quel giorno nella Basilica Vaticana. Nel mese di aprile 1059, Niccolò II celebrò in Laterano un grande sinodo riformatore nel corso del quale promulgò il celebre decreto In coena Domini, riguardante l’elezione del papa, che porta il suo nome. La procedura doveva svolgersi in tre fasi: i cardinali vescovi iniziano la discussione e fanno partecipare in seguito i cardinali preti; il clero e il popolo acclamano. Pur riaffermando il diritto di conferma imperiale, il decreto affidava ai cardinali vescovi, ossia a un numero ristretto di elettori, il diritto di eleggere, in circostanze eccezionali persino
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Particolare di una miniatura raffigurante Il Potere spirituale e il Potere temporale. XII sec. Nel registro inferiore un chierico e una coppia di sposi rappresentano il popolo sottoposto alla giustizia.
fuori Roma, una persona che non doveva necessariamente appartenere alla Chiesa romana. Il nome di Ildebrando figura tra i sottoscrittori al decreto di elezione, ma in una versione che è ritenuta un falso.
Un candidato benvoluto dalla corte
Alla morte di Niccolò II (il 27 luglio 1061), i cardinali vescovi, i soli abilitati secondo il decreto del 1059 a iniziare le trattative per eleggere il papa, erano tutti riformatori. Il potente arcidiacono Ildebrando suggerí di eleggere il vescovo di Lucca, Anselmo, desiderando cosí imporre un candidato vicino al programma riformatore e nello stesso tempo ben visto dalla corte imperiale. All’elezione presero parte i cardinali vescovi riunitisi alle porte di Roma il 30 settembre 1061. Il nuovo papa prese il nome di Alessandro II e poté essere consacrato in S. Pietro il 1° ottobre, grazie all’esercito normanno e alla mediazione dell’abate di Montecassino. Anselmo di Baggio, discendente di una famiglia della nobilità milanese, era stato inviato adolescente a studiare nel monastero di Bec in Normandia presso il celebre maestro Lanfranco di Pavia. Tra il 1048 e il 1050 aveva vissuto alla corte dell’imperatore Enrico III. I legami con la corte imperiale, stretti grazie alla sua famiglia, facilitarono la sua ascesa ecclesiastica. L’imperatore lo fece nominare vescovo di Lucca, allora la piú importante diocesi della Marca di Toscana, un’elezione che doveva servire anche a controllare il troppo potente duca Goffredo di Toscana-Lorena. Il nuovo papa continuò ad appoggiarsi su quel ristretto gruppo di riformatori condotto dalla forte personalità di Ildebrando per proseguire sul cammino verso la «libertà della Chiesa» e la realizzazione del programma di riforma morale (lotta contro la simonia, contro le eresie, legislazione sul matrimonio). Nel 1063, Alessandro II inviò il vessillo di San Pietro al duca normanno Ruggero, vincitore della battaglia di Cerami contro i musulmani di Sicilia. Nel 1066, fece altrettanto nei confronti di Guglielmo, duca di Normandia, di cui sosteneva le rivendicazioni alla Corona inglese
resa vacante con la morte di re Edoardo il Confessore (5 gennaio 1066). Fu una decisione che il papa prese su suggerimento di Ildebrando e in contrasto con diversi cardinali, ma che si dimostrò lungimirante, poiché di lí a qualche mese, il 16 ottobre 1066, avrà luogo la battaglia di Hastings, che costituirà l’inizio della presa di possesso del Regno di Inghilterra da parte del duca di Normandia, Guglielmo.
Il tumulto censurato
Due tipi di fonti ci informano sull’elezione di Gregorio VII: il protocollo di elezione con il quale inizia il registro del pontificato e le prime quattro lettere scritte dal papa all’indomani della sua elezione (22 aprile 1073). Il protocollo non parla del tumulto che, al momento della sepoltura di Alessandro II, si sarebbe levato dal popolo per acclamare papa Ildebrando, il quale, incaricato, in qualità di arcidiacono, di governare la Chiesa romana durante la vacanza, aveva
Miniatura raffigurante Enrico IV in trono (a sinistra) e papa Gregorio VII, dapprima in preghiera (al centro) e poi cacciato da un soldato dell’imperatore, dalla Chronica sive Historia de duabus civitatibus (Cronaca delle due città) di Ottone di Frisinga. Metà del XII sec. Jena, Universitätsbibliothek.
ordinato un digiuno di tre giorni. Sostenuta apertamente dal cardinale-prete Ugo Candido, l’elezione fu approvata dal clero di Roma alla presenza dei cardinali vescovi e di numerosi abati. L’intronizzazione ebbe luogo nella chiesa di S. Pietro in Vincoli a Roma. Rapida, l’elezione rese inutile ogni trattativa preliminare dei cardinali-vescovi, come richiedeva il decreto di elezione di Niccolò II. Anche su un altro punto, ci si discostò dalla tradizione: Gregorio VII comunicò la sua elezione a vescovi, abati, re e principi, ma non a Enrico IV, un fatto che gli sarà rimproverato piú tardi, quando scoppierà la polemica con la corte imperiale. All’inizio del suo pontificato (primi mesi del 1073), le relazioni tra Gregorio VII e i Normanni furono tese con Roberto il Guiscardo, la cui minaccia sulle terre era costante. Un incontro con il duca normanno non ebbe, infine, luogo. Gregorio VII poté però contare sulla fedeltà di altri principi normanni, primi fra tutti Landolfo, PAPI DEL MEDIOEVO
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Gregorio VII In questa pagina la lettera scritta da Enrico IV a Gregorio VII per comunicargli la sua deposizione. Monaco, Bayerische Staatsbibliotek.
principe di Benevento, e Riccardo, principe di Capua. Questi furono d’accordo di rinnovare il loro giuramento di fedeltà (12 agosto e 14 settembre). Il papa sperava di risolvere il problema normanno lanciando un appello alla crociata che avrebbe permesso di liberare la Chiesa romana dai suoi nemici e nello stesso tempo di portare aiuto all’imperatore di Bisanzio, minacciato dai Turchi. Interpellati, il conte di Borgogna Guglielmo, Raimondo di Saint-Gilles, Amedeo II di Savoia e Goffredo il Gobbo non diedero ascolto alle istanze presentate ripetutamente dal papa. Questi non poté far altro che procedere alla scomunica di Roberto il Guiscardo (1074, sinodo romano di Quaresima), che rinnovò nel sinodo romano dell’anno successivo, estendendola al nipote Roberto di Loritello.
Missione in Germania
In quel primo concilio riformatore, convocato in S. Giovanni in Laterano tra il 9 e il 17 marzo 1074, il papa decretò importanti riforme, in particolare contro i simoniaci. I preti concubi52
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Nella pagina accanto particolare di una miniatura raffigurante Gregorio VII, da un’edizione della Vita Gregorii VII di Paul von Berneried. XII sec.
nari dovevano essere allontanati da ogni ministero ecclesiastico. In Germania inviò una legazione che fu accolta a Norimberga (aprile 1074) con tutti gli onori dallo stesso re Enrico IV, disposto a svolgere un ruolo di mediazione con i vescovi tedeschi. Il papa riuscí a convincere il re a prendere la Croce. Ma l’ostilità crescente dei vescovi ad accettare l’autorità di un concilio presieduto dai legati romani e la forte resistenza del clero minore verso i decreti riformatori del sinodo romano fecero svanire ogni possibilità di compromesso. A Roma non ci si lasciò impressionare da tali resistenze. Il sinodo riunitosi in Laterano durante la Quaresima del 1075 (24-28 febbraio) non si accontentò di rinnovare i decreti contro i preti simoniaci e concubinari, ma li minacciò di scomunica in caso di trasgressione. Il sinodo agí da assise giudiziaria lanciando condanne contro un gran numero di vescovi. Il piú importante decreto riguardava il cosiddetto «divieto di investitura laica». A ogni autorità secolare veniva vietato, con minaccia di scomunica, di nominare vescovi. Era la prima volta che il papato interveniva in una questione cosí importante. Nel registro di lettere di Gregorio VII, tra una lettera del 3 marzo al vescovo Opizone di Lodi e una lettera del 4 marzo 1075 all’arcivescovo di Reims Manasse, troviamo un testo famoso, introdotto dalle parole Dictatus papae, che significano, al singolare o al plurale, «dettato da un papa» o «testo scritto di un papa». Si tratta di ventisette affermazioni che riguardano la Chiesa romana e il suo vescovo, il papa. Già quando era ancora arcidiacono, Ildebrando aveva chiesto a Pier Damiani di comporre una raccolta canonica di testi sui privilegi della sede apostolica. È lecito pensare che questo elenco di tesi corrisponda a una raccolta di titoli in vista della compilazione di una collezione canonica simile, sui diritti del papa e le sue prerogative. Il Dictatus papae è un documento che ha suscitato discussioni infinite per le sue innumerevoli affermazioni, che non si ritrovano letteralmente in testi piú antichi.
La prima sentenza afferma che la Chiesa è stata fondata direttamente da Cristo; essa non può dunque errare (22) e coloro che non sono con essa sono nell’errore (26). Il papa, alla cui funzione sono riservate ben venti proposte, non può essere giudicato da nessuno (19), le sue sentenze sono irrevocabili (18), egli è l’unico ad avere una giurisdizione universale (2), e a poter creare diritto nuovo (7); egli può disporre o assolvere vescovi anche in loro assenza (3), può inviare legati a presiedere concili anche se il loro grado gerarchico è inferiore a quello dei vescovi presenti (4) e ha il diritto di disporre di privilegi in termini di simbolismo del potere (2, 8, 9, 10, 11, 23). L’universalità del suo raggio di azione non si limita al dominio spirituale, perché il papa può deporre l’imperatore (12) e sciogliere i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà (27).
Regnum e sacerdotium
Irremovibile sulle questioni di principio, Gregorio VII scrisse qualche mese dopo (25 agosto 1076) al vescovo Ermanno di Metz una delle sue piú importanti prese di posizione dottrinali sui rapporti tra regnum e sacerdotium. Il papa vi sosteneva che il potere di legare e di sciogliere, dato principaliter a san Pietro, includeva anche i re, che altrimenti sarebbero stati esclusi dalla Chiesa e quindi da Cristo. Se la sede apostolica, per volontà divina, ha il potere di giudicare il dominio spirituale, lo può fare a fortiori per le cose secolari. La dignità regale non è superiore a quella del vescovo perché la prima nasce dalla superbia umana, mentre la seconda è stata istituita dalla pietas divina. La sede apostolica deve poter reprimere le malvagità dei membra Antichristi, che antepongono i propri interessi a quelli di Dio, in opposizione ai membra Christi che obbediscono a Dio e ai suoi comandamenti. Questa lettera confermava l’alta concezione che il papa aveva della dignità pontificia, che si fondava su un concetto di obbedienza al pontefice, considerata come equivalente all’obbedienza a Dio. Disobbedire ai precetti del papa equivaleva per Gregorio VII negare Dio. Viceversa, obbedire al papa significava far parte della comunità dei fedeli, ossia della Chiesa, alla quale nessuno poteva sottrarsi, tanto meno i sovrani. La superiorità della dignità episcopale (e pontificia) su quella regale rompeva con le concezioni politiche di un Carlo Magno, che erano state riprese dagli Ottoni ed erano ancora ben presenti in Enrico III, secondo le quali i re avevano il diritto di intervenire nelle
I SACERDOTI DI CRISTO CONTRO LA SUPERBIA DEL POTERE «Chi potrebbe mettere in dubbio che i sacerdoti di Cristo debbano essere considerati padri e maestri dei re, dei principi e di tutti i fedeli? (…) Molti furono i pontefici che, forti di questi insegnamenti di queste autorevoli testimonianze, colpirono con la scomunica chi i re chi gli imperatori. (…) Ma poiché è nostro dovere esortare tutti secondo il loro ordine e grado, ci siamo dati cura di munire i re, gli imperatori e i principi di quelle armi dell’umiltà che permetteranno loro di vincere “le tempeste del mare e i flutti della superbia” (Salmo 92, 4). Sappiamo, infatti, come la gloria e le ambizioni terrene conducano spesso alla superbia, soprattutto chi esercita il potere: essi vogliono primeggiare sui propri fratelli e per la propria gloria trascurano ogni forma di umiltà. È utile, dunque, che re e imperatori, quando il loro animo è preso dal desiderio di dominare gli altri e di compiacersi della propria grande gloria, abbiano modo di umiliarsi e di provare timore per quanto era prima motivo di compiacimento (…) I re non cerchino di assoggettare o sottomettere la santa Chiesa come fosse loro schiava, ma siano riconoscenti a coloro che rappresentano i suoi occhi, cioè i sacerdoti, i maestri e i padri, e si sforzino di render loro ogni conveniente onore» (Gregorio VII, Lettera a Ermanno di Metz, 25 agosto 1076, traduzione da Il papa ed il sovrano. Gregorio VII ed Enrico IV nella lotta per le investiture, a cura di Glauco Maria Cantarella e Dorino Tuniz, Jaca Book, Milano).
elezioni dei vescovi e la dignità regia era considerata superiore a quella vescovile. Il decreto del 1075, che vietava l’investitura dei vescovi da parte dei laici, non suscitò in un primo tempo reazioni da parte di Enrico IV, che si dichiarò pronto a sostenere gli obiettivi della riforma. Lo stesso Gregorio VII aveva lodato il 10 luglio 1075 lo zelo che il re aveva manifestato nella sua lotta contro simoniaci e concubinari. Il re inviò a due riprese suoi rappresentanti a Roma per trattare di problemi rimasti in sospeso e per manifestare la sua riverenza a san Pietro e al papa. Questo fece però allora conoscere con durezza il suo rifiuto, forse per paura che si trattasse di manovra destinata a porre il problema della Corona imperiale e a rafforzare in Italia una «Chiesa imperiale» a lui fedele. Gli avvenimenti precipitarono la notte di Natale 1075. Cencio, il figlio del prefetto dell’Urbe, Stefano, sequestrò il papa durante la Messa, nella basilica di S. Maria Maggiore. Gregorio VII riuscí a liberarsi. Il gesto era isolato, ma si iscriveva in un contesto di crescente effervescenza e di rapporti esacerbati con la corte germanica. Un mese piú tardi, il 24 gennaio 1076, un’assemblea di vescovi tedeschi, riunita a PAPI DEL MEDIOEVO
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Gregorio VII orientale, controllati dai principi dell’impero, ma si recò in Borgogna e poi in direzione del Moncenisio che gli fu aperto da sua suocera, la marchesa Adelaide di Torino (in cambio di un buon gruzzolo di donazioni…). Gregorio VII, che si era già messo in viaggio per la Germania ed era arrivato a Mantova, sorpreso dalla notizia del prossimo arrivo in Italia di Enrico IV, si ritirò a Canossa, un castello fortificato e molto ben difeso, a sud-ovest di Reggio Emilia, appartenente alla contessa Matilde, molto legata al papato. Anche Enrico IV fu ospite di un castello di proprietà di Matilde (Bianello), e volle dar subito inizio a trattative con il pontefice grazie alla mediazione del potente abate di Cluny Ugo, suo padrino. Ma senza successo.
Umiliazione e perdono
Worms alla presenza del re, dichiarava il papa indegno delle sue funzioni e gli rifiutava l’obbedienza. I vescovi rimproveravano a Gregorio VII la sua ingerenza negli affari diocesani e il suo disprezzo per la dignità episcopale. I Romani erano invitati a procedere all’elezione di un nuovo pontefice. La risposta del papa non si fece attendere. Il sinodo lateranense del 14 febbraio depose e scomunicò il re all’unanimità, e sciolse i cristiani dal giuramento di fedeltà nei suoi confronti.
Una partenza inattesa
Di fronte a tale determinazione, Enrico IV decise, in un’assemblea dei grandi del regno tenutasi il 16 ottobre a Tribur (oggi Trebur), di inviare segni di pace al pontefice e propose di tenere una nuova assemblea del regno il 2 febbraio 1077 ad Augsburg alla sua presenza. Invece però di attendere in Germania questo nuovo appuntamento, il re si mise inaspettatamente in viaggio per l’Italia, dopo avere chiesto ai principi tedeschi l’invio di una scorta che lo accompagnasse al di là delle Alpi. È probabile che Enrico temesse un’intesa tra il papa e i principi tedeschi e preferisse quindi incontrarlo prima che questi toccasse il suolo germanico. Partito da Spira, dove si era recato per fare penitenza in compagnia di sua moglie Berta e del giovane figlio Corrado, il re preferí non attraversare i colli alpini sul versante 54
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Capolettera miniato raffigurante la benedizione di un vescovo. XI sec. Rouen, Bibliotheque Municipale de Rouen, Cabinet d’Estampes.
Non rimaneva a Enrico IV che la possibilità di sottomettersi e domandare perdono al pontefice. Ed è cosí che il re arrivò finalmente a Canossa il 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo, a piedi nudi, vestito da penitente. Durante tre giorni rimase in preghiera davanti alle mura del castello implorando il perdono del papa. Il 29 gennaio fu finalmente ammesso alla sua presenza: questi, dopo avere ottenuto il giuramento scritto del re di accettare l’arbitrato del papa garantendo il suo appoggio per la soluzione del conflitto con i vescovi tedeschi, aiutò Enrico che giaceva a terra davanti a lui con le braccia a forma di croce ad alzarsi, lo liberò da ogni censura ecclesiastica e lo accolse nuovamente nel grembo della Chiesa. Erano presenti i vescovi di Strasburgo, Basilea e Losanna. Durante la celebrazione della Messa, il papa diede personalmente la Comunione al re. Con la sua penitenza a Canossa, Enrico IV era riuscito a eliminare il pericolo di un’intesa tra il papa e l’opposizione dei principi tedeschi e a guadagnare tempo per la riconquista della Corona imperiale cui ambiva, ma a un costo molto alto, poiché il papa aveva avuto la possibilità di erigersi in modo eclatante a giudice dei principi laici e delle grandi questioni temporali. Le ragioni del conflitto con l’impero non erano scomparse con la sottomissione di Enrico IV a Canossa. Il sinodo romano del 19 novembre 1078 confermò i tradizionali decreti riformatori e chiese perentoriamente che l’azione dei legati romani non fosse ostacolata. Nel febbraio 1079, un nuovo sinodo romano tentò di trovare
una soluzione definitiva con l’invio di legati di grande prestigio (Pietro Igneo, cardinale vescovo di Almano, e Uldrico, vescovo di Padova). Ma i continui tentennamenti del re indussero Gregorio VII a pronunciare il 7 marzo 1080 una sua seconda scomunica, nel sinodo romano riunitosi per la Quaresima. Enrico IV reagí con forza e rapidamente. Il concilio tenutosi a Bressanone nel giugno del 1080 decretò la deposizione di Gregorio VII (atto controfirmato poi dall’imperatore) ed elesse papa Guiberto con il nome di Clemente III. Questi non riuscí però mai a ottenere un ampio riconoscimento al di fuori dei territori controllati dall’imperatore, dove fu considerato come un suo fantoccio, privo di qualsiasi autonomia. Guiberto discendeva dalla famiglia nobile dei Correggio, imparentata con i Canossa. Gregorio VII lo aveva deposto nel 1078 da arcivescovo di Ravenna, e ne confermò la scomunica nel 1080.
scritto probabilmente dopo la sua morte), interrogato in punto di morte dai vescovi e cardinali presenti a Salerno, su chi avrebbe desiderato avere come suo successore, Gregorio VII avrebbe indicato i nomi di Anselmo vescovo di Lucca, Odone vescovo di Ostia e Ugo, arcivescovo di Lione. A proposito di coloro che aveva scomunicato, il papa morente avrebbe precisato che Enrico dictus rex e l’arcivescovo Guiberto di Ravenna – ossia l’antipapa Clemente III –, e i loro consiglieri, avrebbero dovuto offrire piena soddisfazione canonica ai vescovi e ai cardinali del loro desiderio di essere reintegrati nella Chiesa; volle tuttavia assolvere e benedire tutti gli altri, a condizione che riconoscessero il potere spirituale del papa, vicario di San Pietro.
In basso particolare di una miniatura raffigurante l’abate di Montecassino, Desiderio, che offre a san Benedetto un lussuoso volume miniato, dal Codice Vat. lat. 1202. XI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
Roma addio
Enrico IV riuscí, assediando Roma, a far intronizzare Clemente III in Laterano il 24 marzo 1084 e a farsi incoronare imperatore (e sua moglie Berta imperatrice) dal nuovo pontefice sette giorni dopo, il 31 marzo, domenica di Pasqua. L’imperatore decise poi di tornare subito in Germania. Senza protezione, l’antipapa dovette abbandonare Roma all’annuncio dell’arrivo dell’esercito normanno condotto da Roberto Guiscardo. Il duca di Puglia e di Calabria riuscí a liberare Gregorio VII, che si era rifugiato in Castel Sant’Angelo non appena aveva appreso che Enrico IV aveva iniziato la sua marcia su Roma. Tredici cardinali lo avevano già abbandonato all’inizio del 1084. Il 27 maggio, il papa poté entrare solennemente in Laterano, ma i disordini e i saccheggi lo obbligarono a lasciare la città e a rifugiarsi, prima a Montecassino, poi a Salerno, dove stabilí la sua residenza. In autunno, in data non precisata, tenne un sinodo per rinnovare la scomunica di Enrico IV e di Clemente III (questi era riuscito a celebrare in S. Pietro in Vaticano le festività di Natale!). La fine lo colse in esilio a Salerno il 25 maggio 1085. Sul letto di morte avrebbe pronunciato parole divenute celebri: «Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, ed è per questo che muoio in esilio». Sono parole che sottolineano la sua convinzione di avere agito da pontefice, per attuare un programma di riforma al quale aveva consacrato la sua vita. Ma sono parole che rivelano anche una presa di coscienza del suo immediato insuccesso. Secondo il suo «testamento», conservato in due tradizioni diverse (e
Un continuatore della riforma
I papi dopo Gregorio VII VITTORE III (1086-1087) BEATO
Attese 10 mesi prima di accettare la nomina al soglio di Pietro. Successore di Gregorio VII, si mostrò servile nei riguardi degli imperatori e venne contestato dai sostenitori di Gregorio. Fu un continuatore della grande riforma ecclesiastica e regalò all’abbazia di Montecassino un periodo di grande splendore artistico e culturale. Indisse una vittoriosa pre-crociata contro i Saraceni in Africa. PAPI DEL MEDIOEVO
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URBANO II
«Dio lo vuole!» Con queste parole i partecipanti al Concilio di Clermont del 1095 avrebbero risposto al discorso di Urbano II. Tradizionalmente indicato come la causa scatenante della prima spedizione armata in Terra Santa, in esso il pontefice esortava la cristianità a combattere gli infedeli musulmani. Ma fu veramente il papa francese «l’inventore» della prima crociata?
Nome
Oddone di Lagery
Nascita
Presso Châtillon-sur-Marne, 1042
Pontificato 1088-1099
di Francesco Colotta
Morte
S
ei mesi dopo la morte di papa Vittore III, il 12 marzo 1088, i cardinali riuniti in conclave individuarono il suo successore nel vescovo di Ostia, Oddone di Lagery. Assunto il nome di Urbano II, il nuovo pontefice dovette però attendere quasi un anno prima di potersi insediare a Roma. La capitale della cristianità, infatti, era in mano all’antipapa Clemente III, sulla cui testa gravava già la scomunica. Tanto che l’assemblea conclusasi con la nomina di Oddone si era svolta a Terracina, e lo stesso pontefice si era dovuto fermare nella cittadina del Basso Lazio. Ma, dopo la fuga di Clemente III a Tivoli, Urbano II poté finalmente prendere in mano le redini della Chiesa e continuare l’opera del suo maestro: Gregorio VII. Per l’ex vescovo francese il pontificato si apriva dunque in «tempo di guerra» e nello stesso clima turbolento si sarebbe chiuso, con la pianificazione della prima crociata. All’indomani del suo insediamento, Urbano II trovò un’Ecclesia malata, una nave apostolica vecchia e paurosamente danneggiata, «in procinto di essere sommersa dalle onde», come scrisse all’abate Ugo di Cluny. Nato a Châtillon-sur-Marne, in Francia, e cresciuto in una famiglia di cavalieri, Oddone col-
Roma, 29 luglio 1099
Sepoltura
Roma, basilica di S. Pietro
Nella pagina accanto Urbano II consacra la basilica di S. Saturnino a Tolosa, olio su tela di Antoine Rivalz. 1715. Tolosa, Musée des Augustins.
laborò nelle riforme con il suo venerato Gregorio VII, divenendo arcidiacono della cattedrale di Reims. Entrò poi nell’abbazia di Cluny e percorse un rispettabile cursus honorum, fino a ricevere dal papa la berretta cardinalizia e il vescovado di Ostia. In realtà contava di succedere a Gregorio, che in punto di morte lo aveva investito come suo degno erede, insieme agli alti prelati Anselmo II di Lucca e Ugo di Lione. Ma, alla fine, la scelta era caduta, a sorpresa, sull’abate Desiderio di Montecassino, che governò la Chiesa con il nome di Vittore III. Una volta eletto, Urbano II si affrettò a far conoscere il suo programma di fedele «ripetitore» del grande Gregorio VII con una lettera per i principi e i vescovi tedeschi che piú avevano contribuito alla sua elezione. Quasi a voler garantire con quella identificazione la sua inflessibile volontà riformatrice: «Respingo ciò che egli PAPI DEL MEDIOEVO
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PAPI DEL MEDIOEVO Miniatura raffigurante Urbano II che consacra un altare dell’abbazia benedettina di Cluny, nella quale si era formato e aveva iniziato la sua carriera ecclesiastica. XI sec. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Urbano II
ha respinto; ciò che ha condannato condanno e faccio mio quanto egli ha amato; confermo e approvo quello che egli ha stimato giusto e cattolico, e penso anch’io come egli ha pensato; sono in tutto d’accordo con lui». Ma tanto fervore non era sufficiente per sciogliere i nodi che la morte di Gregorio VII, nel 1085, aveva lasciato irrisolti. Prima della consacrazione di Urbano II erano trascorsi tre anni, durante i quali la sopravvenuta crisi ecclesiale non aveva trovato risanamento col pontificato di appena quattro mesi esercitato da Vittore III.
Una Chiesa in tempesta
Come già ricordato, il nuovo pontefice riuscí a entrare a Roma nella primavera del 1089, ma rimase nella sua sede naturale solo per un anno, dopo il quale si rifugiò, per il nuovo precipitare degli eventi, in territorio normanno. A nulla era valsa la scomunica nei riguardi dell’antipapa. Urbano II, comunque, poteva ancora fare affidamento sugli amici della Germania e a loro si rivolse. Scrisse al vescovo di Costanza, Ghebardo, nominandolo legato pontificio con la precisa consegna di rinno-
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vare la scomunica a Clemente III, all’imperatore Enrico IV, alleato dell’antipapa, e a quanti li sostenevano. Tuttavia, agli inizi la mansuetudine e il rispetto per i diritti altrui non servirono nel contrasto con l’avversario principale – quell’Enrico IV fatto imperatore dall’antipapa e appoggiato da molti vescovi –, soprattutto nel momento in cui il monarca si accingeva a scendere in armi in Italia. Urbano II, inoltre, era isolato, non potendo contare neppure sui Normanni. Entrò allora in gioco Matilde di Canossa. La contessa, vedova di Goffredo il Gobbo, era reduce da una disavventura matrimoniale, indirettamente nociva per il papa: Urbano le aveva infatti suggerito di sposare Guelfo V, figlio del duca di Baviera, nemico storico di Enrico, ma il giovane la respinse non appena venne a conoscenza del fatto che aveva donato i propri beni alla Chiesa. A Urbano II veniva cosí a mancare quel baluardo a sua difesa, mentre per Enrico IV la situazione in Germania si faceva propizia, avendo potuto ottenere per il figlio Corrado la corona di re ed
essendo scomparsi alcuni antichi antagonisti dell’imperatore, come il margravio di Sassonia, Egberto di Meissen. Enrico, inoltre, poteva contare sulla fedeltà di molti vescovi, tutte condizioni favorevoli alla sua discesa in Italia, che fu intrapresa nel 1090, puntando innanzitutto a liberarsi di Matilde di Canossa, ormai fedele «partigiana» del papa. Dapprima la campagna punitiva sembrava volgere a favore di Enrico: nel 1091 occupò Mantova, una piazzaforte della contessa, e si spinse fino al Po, impadronendosi di vari castelli della nemica. Poi la fortuna sembrò abbandonare le forze imperiali, quando il neocoronato Corrado, deluso dal comportamento del padre Enrico, si uní a una lega di città – fra cui Milano, Cremona, Lodi e Piacenza – guidata dalla rinfrancata Matilde. La quale poté sdegnosamente respingere la proposta di pace dell’imperatore, per giunta accompagnata dalla pretesa di legittimare come vero papa Clemente III.
A Roma, finalmente
Il rovescio per Enrico fu amaro: suo figlio, che lo aveva tradito, fu incoronato re d’Italia dall’arcivescovo di Milano, e, nel 1095, entrò a Cremona a fianco di Urbano II reggendogli le redini del cavallo, secondo l’Officium Stratoris conferitogli dal pontefice, e prestandogli giuramento di fedeltà. L’imperatore, ormai in rotta, dovette rifugiarsi fra le mura di Verona, mentre Urbano faceva rientro a Roma, in Laterano. Il papa francese poteva finalmente mettere mano alle riforme e affrontare una serie di questioni irrisolte. Negli anni, Urbano II aveva mantenuto stretti rapporti di dialogo con i Normanni, ricevendone appoggi concreti. Già nel 1088, incontratosi a Troina con il granduca Ruggero I di Sicilia, era riuscito a rafforzare il collegamento con la Chiesa greca, avvalendosi anche dell’amicizia dell’imperatore bizantino Alessio I Comneno. Quest’ultimo, infatti, per tutelarsi contro il pericolo turco, aveva interesse a conservare forti legami con Roma. Ma nell’incontro di Troina fu stabilita anche la nuova organizzazione della Chiesa in Sicilia. Nell’isola il binomio papato-Normanni, già ben radicato, si rafforzò con una mossa di «politica matrimoniale» ideata dal pontefice. Urbano indusse infatti Ruggero a dare in sposa la propria figlia Costanza al re Corrado, sempre in pessimi rapporti con il padre imperatore: in questo modo, anche il fronte dei nemici di Enrico si infoltí ulteriormente. Ai Normanni, poi, il papa volle conferire una sorta di sigillo ufficiale della propria amicizia,
LA PROVA DEI PRODIGI Urbano II stabilí nel 1088 una procedura piú rigorosa per i processi di canonizzazione. Il pontefice, infatti, sancí il divieto di ascrivere persone nel canone dei santi se non vi erano testimoni in grado di dimostrare «che i miracoli siano stati visti con i propri occhi e sia confermato dall’assenso del sinodo». Nel tempo, l’accertamento di santità divenne ancora piú scrupoloso, a partire dal XIII secolo per esempio, ma soprattutto dal Cinquecento, con il Concilio di Trento, che dispose l’accentramento presso la curia papale delle cause di canonizzazione. Nello stesso secolo furono prescritte l’approfondita interrogazione dei testimoni e la richiesta di un parere medico-legale sulle guarigioni. Il giudizio finale, però, risultava di natura teologica ed era operato sempre da religiosi che non avevano gli strumenti per valutare le perizie scientifiche. Dal 1948, grazie a Pio XII, fu istituita una commissione medica il cui parere si affiancava a quello teologico, con maggiore forza vincolante.
non senza sollevare perplessità: nominò Ruggero, in qualità di suo vassallo, legato pontificio per tutti i possedimenti su cui regnava. Con la possibilità di trasmettere ereditariamente la dignità al figlio Simone. Un privilegio eccezionale, ben presto però ridimensionato dal successivo papa Pasquale II, con uno strascico plurisecolare di polemiche e dissidi a cui pose fine solo Pio IX, nel 1867. Per quanto irrituale, tuttavia, il titolo ricevuto da Ruggero produsse un effetto benefico sul piano ecclesiale, e non soltanto politico. In Sicilia la maggior parte dei suoi sudditi erano cristiani greci, con un clero influente che molto apprezzò la nuova e maggiore forza conseguita dal monarca «conte e legato», come si firmava nei documenti. Al punto da ammorbidire le annose controversie fra le Chiese greca e latina in materia dogmatica. Raggiunto l’equilibrio nel Meridione, per il papa era il momento di occuparsi dell’Occidente cristiano. Della sua Francia, per esempio, il cui re, Filippo I, non brillava per virtú: non solo incoraggiava la simonia, cioè il commercio di beni spirituali e di cariche religiose, ma aveva anche PAPI DEL MEDIOEVO
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Urbano II
lasciato la moglie Berta per unirsi a Bertrada di Montfort. Una scelta che, nel 1094, gli era costata la scomunica. E solo dieci anni piú tardi il papa poté vederli, ormai rassegnati, rientrare in seno alla Madre Chiesa.
Lo scontro con la corona inglese
Con l’Inghilterra i rapporti furono ancor piú turbinosi, ma ispirati al pragmatismo. Urbano aveva nominato arcivescovo di Canterbury un abate celebre, Anselmo di Le Bec (meglio noto come Anselmo d’Aosta), che adempiva coscienziosamente ai propri doveri, suscitando l’ostilità del re Guglielmo II il Rosso. La situazione si fece piú tesa quando Anselmo chiese di potersi recare a Roma per ricevere dal pontefice il pallio (paramento che rappresentava un’insegna di giurisdizione riservata a papi e arcivescovi), scontrandosi cosí con il sovrano, che non riconosceva l’autorità della Chiesa. Il monarca però, intenzionato a rimuovere ed esiliare l’arcivescovo, non ottenne il necessario assenso dei principi spirituali e secolari. Cercò quindi di aggirare l’ostacolo, chiedendo egli stesso al pontefice di fargli pervenire il pallio, che avrebbe poi consegnato all’arcivescovo. Con il segreto proposito, però, di porre ad Anselmo la condizione di sottomettersi all’autorità regia, pena il
Nella pagina accanto Pietro l’Eremita predica la crociata (particolare), olio su tela di Francesco Hayez. 1827-1829. Milano, Collezione privata. In basso miniatura tratta dalla Bibbia detta «dei crociati». 1250 circa. New York, Pierpont Morgan Library.
GUAI A PRENDERE LE ARMI Una delle innovazioni inaugurate nel corso del pontificato di Urbano II fu la «tregua di Dio», adottata a partire dal Concilio di Clermont del 1095. Con il provvedimento si vietava qualsiasi attività bellica in determinati periodi: dalla prima domenica dell’Avvento fino all’ottava dell’Epifania, dal primo giorno della Quaresima all’ottavo dell’Ascensione e talvolta pure dal mercoledí sera al lunedí mattina. A essere proibiti in questi periodi dell’anno erano anche gli atti di violenza in genere e le contese giudiziarie. I trasgressori rischiavano la scomunica. In realtà, una forma incompiuta di «tregua di Dio» esisteva già da tempo, come antidoto al dilagare delle guerre private che stavano dilaniando l’Europa. Le prime disposizioni in merito furono adottate dai Concili di Charroux (989) e di Le Puy (990). Con il Concilio di Elne del 1027 si vietavano attività militari dal sabato sera alla domenica mattina. I giorni in cui l’uso delle armi era proibito aumentarono in seguito al Concilio di Nizza del 1041, comprendendo anche alcune festività religiose come l’Avvento e la Quaresima. Fino alla disposizione canonica di Urbano II, che negli anni si diffuse in Francia e in Germania. Grazie alla «tregua di Dio», il fenomeno dei conflitti privati venne efficacemente combattuto.
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30 circa In seguito ai ritrovamenti che 3 la tradizione attribuisce a sant’Elena, madre di Costantino, vengono fondate a Gerusalemme e a Betlemme alcune basiliche per ricordare i principali momenti della vita del Cristo; inizia la devozione per i Luoghi Santi cristiani. ● 614 I Persiani del Gran Re Cosroe conquistano Gerusalemme; la basilica della Resurrezione, che ospita l’edicola del Santo Sepolcro, viene distrutta e la reliquia della Vera Croce portata a Ctesifonte come trofeo di guerra. ● 622 Ègira (hijrah, «migrazione») del profeta Muhammad da Mecca a Yatrib (piú tardi detta Medina, 15 giugno «la Città»). ● 629 L’imperatore bizantino Eraclio libera Gerusalemme dai Persiani, conquista Ctesifonte capitale del Gran Re e recupera la reliquia della Vera Croce; si restaura la basilica della Resurrezione. ● 632 Morte del profeta Muhammad a Medina. ● 638 Il califfo Umar conquista Gerusalemme. ● 639 Inizia la conquista araba dell’Egitto. ● 641 Gli Arabi conquistano Alessandria. ● 647 Inizia la conquista araba dell’Ifriqiyah (corrispondente all’antica provincia romana d’Africa), terminata attorno al 705. ● 732 25 ottobre Battaglia di Poitiers (la data è quella piú comunemente accettata). ● 750 Fondazione del califfato abbaside. ● 756 L’umayyade Abd ar-Rahman I fonda l’emirato di Córdoba. ● 762 Fondazione di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside. ● 797 Avvio delle relazioni diplomatiche fra Carlo Magno e Harun ar-Rashid. ● 801 I Franchi riconquistano Barcellona. ● 827 Inizio della conquista aghlabita della Sicilia (completata nel 902). ● 827-961 Emirato arabo nell’isola di Creta. ● 833 Conquista musulmana di Palermo. ● 844 Assalto normanno a Siviglia, respinto da cristiani e musulmani che combattono insieme. ● 846 Incursione araba su Roma. ● 847-871 Emirato arabo di Bari. ● 849 Battaglia di Ostia, conclusasi con la vittoria dei cristiani sugli Arabi. ● 859 I Normanni incendiano la moschea di Algesiras, in Spagna. ● 870 Occupazione musulmana dell’isola di Malta. ● 902 Conquista musulmana delle Baleari. ●
CRONOLOGIA
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60-961 I Bizantini riconquistano Creta. 9 969 Fondazione del Cairo. ● 982 A Capo Colonna, in Calabria, i Saraceni battono l’imperatore romano-germanico Ottone II di Sassonia. ● 997 Al-Mansûr, vizir del califfo di Córdoba, attacca e saccheggia la città di Santiago de Compostela. ● 1009 Il califfo fatimide d’Egitto al-Hakim fa distruggere la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. ● 1031 Fine del califfato umayyade di Córdoba. ● 1085 6 maggio Alfonso VI di Castiglia conquista Toledo. ● 1086 I Castigliani sono sconfitti dagli Almoravidi a Zallaqa. ● 1090 Ruggero d’Altavilla occupa Malta e Gozo. ● 1094 15 giugno El Cid conquista la città di Valencia. ● 1095 18-27 novembre Concilio di Clermont d’Alvernia. Discorso di Urbano II. ● 1096-1099 Prima crociata in SiriaPalestina. Vi partecipano quattro eserciti: Goffredo di Buglione, duca di Lorena, comanda i Lotaringi; Roberto, duca di Normandia, e Roberto, conte di Fiandra, capeggiano i cavalieri della Francia settentrionale; Raimondo, marchese di Provenza, guida i cavalieri della Francia meridionale; Boemondo d’Altavilla è alla testa dei Normanni venuti dall’Italia meridionale. ● 1098 giugno I crociati conquistano Antiochia, della quale si appropria Boemondo d’Altavilla. ● 1099 10 luglio El Cid Campeador muore a Valencia. ● 1099 15 luglio I crociati conquistano ● ●
Gerusalemme. 1100 Baldovino di Boulogne diviene il primo sovrano del Regno «franco» di Gerusalemme. ● 1102 Gli Almoravidi occupano Valencia. ● 1128 Concilio di Troyes: la fraternitas dei pauperes milites Templi salomonici trasformata in militia (Ordine religiosocavalleresco). ● 1145-1146 Papa Eugenio III emana, in due differenti successive redazioni (1° dicembre 1145 e 1° marzo 1146), la Quantum praedecessores, prima bolla pontificia regolatrice del movimento crociato. ● 1147 ottobre I crociati prendono Almeria e poi Lisbona. ● 1148-1152 Seconda crociata in SiriaPalestina. Vi confluiscono la crociata tedesca, guidata da Corrado III, e quella francese, al seguito di Luigi VII e della moglie Eleonora d’Aquitania. ● 1157 Gli Almohadi riconquistano Almeria. ● 1177 25 novembre Le truppe cristiane guidate da Baldovino IV di Gerusalemme sconfiggono l’armata di Saladino nella battaglia di Montgisard. ● 1187 Vittoria saracena a Hattin; Saladino conquista Gerusalemme. Papa Gregorio VIII promulga l’enciclica Audita tremendi. ● 1187-1192 Terza crociata. Vi partecipano l’imperatore tedesco Federico I Barbarossa, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. ● 1195 19 luglio Gli Almohadi battono i Castigliani ad Alarcos. ● 1202-1204 Quarta crociata, detta «dei baroni», riuniti sotto il comando del marchese Bonifacio di Monferrato; si conclude con la conquista di Costantinopoli ●
e la fondazione dell’impero latino. 209 Innocenzo III bandisce la crociata 1 contro gli eretici catari detti «Albigesi». ● 1210 Predicazione di una nuova crociata nella Penisola Iberica, causata dalla conquista almohade di Salvatierra. ● 1212 «Crociata dei fanciulli» (o «degli innocenti»). ● 1212 17 luglio Le truppe cristiane francoispano-portoghesi riportano una grande vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa. ● 1217-1221 Quinta crociata, organizzata da Andrea II re d’Ungheria e da Leopoldo VI duca d’Austria. Incontro tra Francesco d’Assisi e al-Malik al-Kamil, sultano d’Egitto. ● 1228-1229 Sesta crociata (crociata di Federico II); Gerusalemme è recuperata per mezzo di un accordo diplomatico con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. ● 1229-1231 Crociata aragonese contro le Baleari. ● 1232-1253 Crociata aragonese contro l’emirato di Valencia. ● 1244 Rogo degli ultimi difensori catari di Montségur; le milizie nomadi kwarizmiane occupano Gerusalemme. ● 1248-1254 Settima crociata (prima crociata di Luigi IX): spedizione in Egitto del re di Francia. ● 1258 I Mongoli conquistano Baghdad; fine del califfato abbaside. ● 1267 Completata la conquista cristiana del Portogallo. ● 1270 Ottava crociata (seconda crociata di Luigi IX, che muore durante l’assedio di Tunisi). ● 1291 Caduta di Acri. ● 1300 Giubileo proclamato da Bonifacio VIII. ●
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Urbano II
«O SOLDATI FORTISSIMI...» Secondo la storiografia tradizionale, Urbano II era convinto e motivato a rispondere militarmente alle violenze dei Turchi. Tuttavia, appare piú verosimile credere che intendesse soprattutto stimolare uno spirito unitario nell’Europa cristiana, attraverso una comune mobilitazione. La guerra ai musulmani fu poi una conseguenza non voluta, nel corso di una missione nata come un pellegrinaggio, seppur armato. Ecco comunque uno stralcio della predica di Urbano a Clermont del 1095. Le sue parole sono riportate da cronisti medievali che potrebbero averne in parte modificato il senso. Quella che qui presentiamo è la trascrizione curata da Robert le Moine (il quale, a sua volta, la copiò da opere precedenti): «Popolo dei Franchi (...) distinto da tutte le nazioni sia per il sito del vostro Paese che per l’osservanza della fede cattolica e per l’onore prestato alla Santa Chiesa, a voi si rivolge il nostro discorso e la nostra esortazione. Vogliamo che voi sappiate quale lugubre motivo ci abbia condotto nelle vostre terre (...). Da Gerusalemme e da Costantinopoli è pervenuta, e piú d’una volta è giunta a noi, una dolorosa notizia: i Persiani, gente tanto diversa da noi, popolo del tutto estraneo a Dio, stirpe dal cuore incostante e il cui spirito non fu fedele al Signore, ha invaso le terre di quei cristiani, le ha devastate col ferro, con la rapina e col fuoco e ne ha in parte condotti prigionieri gli abitanti nel proprio Paese, parte ne ha uccisi con miserevole strage, e le chiese di Dio o le ha distrutte dalle fondamenta o le ha adibite al culto della propria religione. Abbattono gli altari dopo averli vergognosamente profanati, circoncidono i cristiani e il sangue della circoncisione o lo spargono sopra gli altari o lo gettano nelle vasche battesimali; e a quelli che vogliono condannare a una morte vergognosa perforano l’ombelico, strappano i genitali, li legano a un palo e, percuotendoli con sferze, li conducono in giro, sinché, con le viscere strappate, cadono a terra prostrati. Altri fanno bersaglio alle frecce dopo averli legati a un palo; altri, fattogli piegare il collo, assalgono con le spade e provano a troncare loro la testa con un sol colpo. Che dire della nefanda violenza recata alle donne, della quale peggio è parlare che tacere? Il regno dei Greci è stato da loro già tanto gravemente colpito ed estraniato dalle proprie consuetudini, che non può essere attraversato con un viaggio di due mesi. A chi dunque incombe l’onere di trarne vendetta e di riconquistarlo, se non a voi cui piú che a tutte le altre genti Dio concesse insigne gloria nelle armi, grandezza d’animo, agilità nelle membra, potenza d’umiliare sino in fondo coloro che vi resistono? Vi muovano, e incitino gli animi vostri ad azioni, le gesta dei vostri antenati, la probità e la grandezza del vostro re Carlo Magno e di Ludovico suo figlio e degli altri vostri sovrani (...). Soprattutto vi sproni il Santo Sepolcro del Signore Salvatore nostro, ch’è in mano d’una gente immonda, e i luoghi santi, che ora sono da essa vergognosamente posseduti e irriverentemente insozzati dalla sua immondezza. O soldati fortissimi, figli di padri invitti, non siate degeneri, ma ricordatevi del valore dei vostri predecessori; e se vi trattiene il dolce affetto dei figli, dei genitori e delle consorti, riandate a ciò che dice il Signore nel Vangelo, “chi ama il padre e la madre piú di me, non è degno di me. Chiunque lascerà il padre o la madre o la moglie o i figli o i campi per amore del mio nome riceverà cento volte tanto e possederà la vigna eterna”».
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deferimento al tribunale della corte. E cosí fece, ma l’abate non si adeguò, dichiarandosi pronto a rinunziare piuttosto all’episcopato. Sembrava una sconfitta per la dignità papale, ma non per Urbano II, che comunque aveva accolto il presule offeso in Laterano con tutti gli onori, opponendosi alla sua minacciata rinunzia. Non pensò poi di reagire con la scomunica nei confronti del monarca d’Inghilterra, per un preciso calcolo politico: preferiva far decantare la situazione, con un compromesso che non avrebbe pregiudicato i rapporti con Guglielmo, nella prospettiva di un accordo soddisfacente per tutti. Che però, alla fine, non venne raggiunto. L’antipapa, nonostante le ripetute sconfitte, era ancora sulla scena quando il pontificato di Urbano II stava per entrare nella sua fase piú calda. Proprio in una terra dove Clemente III contava molti sostenitori, si poté celebrare un sinodo gravido di conseguenze: a Piacenza, nella primavera del 1095. L’importanza di questo consesso fu subito avvertita dall’alto numero di convenuti: centinaia di vescovi d’Italia, Borgogna e Germania. All’ordine del giorno c’era innanzitutto il problema dell’antipapa, che si pensava di risolvere proclamando l’anatema per Clemente e i suoi seguaci (oltre all’annullamento degli atti di consacrazione compiuti dopo la scomunica inflittagli da Gregorio VII). In piú, venne rinnovata la condanna della simonia.
La svolta di Piacenza
Ma qualcos’altro scosse l’assemblea: a Piacenza comparvero gli ambasciatori inviati dall’imperatore d’Oriente, Alessio, oppresso a Costantinopoli dalle minacce dei Turchi, che chiesero al papa «aiuti contro gli infedeli per la difesa della Santa Chiesa». E Urbano trasmise prontamente al sinodo l’invocazione dei messi orientali, accolta da un moto generale di solidarietà. Nell’aspettativa di Alessio c’era un contingente di truppe, ma il papa aveva concepito un disegno piú ampio: il soccorso a tutto l’Oriente cristiano. Progettò allora l’impresa che doveva dare inizio all’avventura delle crociate. In assemblea, con impeto oratorio e richiami alla Sacra Scrittura, spinse il popolo cristiano alla mobilitazione. In un altro sinodo, a Clermont, nel novembre 1095, con una nuova ardente perorazione ottenne larghi consensi anche da parte delle province romane. Ma quel che maggiormente sollevò entusiasmi fu l’accorrere di volontari, pronti, se necessario, a combattere, ai quali Urbano consegnò il contrassegno della militia Christi: una croce bianca da portare sulla spalla destra. La crema del contingente era costituita
Miniatura raffigurante papa Urbano II che indice la prima crociata, dall’Histoire des Croisades di Guillaume de Tyr. XV sec. Ginevra, Bibliothèque de Genève.
da principi cristiani e cavalieri, sotto il comando del vescovo di Puy, Ademaro di Monteil, in rappresentanza del papa. A tutti il pontefice concedeva l’indulgenza plenaria dai peccati, oltre all’esenzione dalle tasse e alla moratoria dai debiti civili per la durata del «pellegrinaggio», come la spedizione veniva considerata. I privilegi compensavano i disagi della chiamata alle armi, e forse per molti crociati erano il principale allettamento. Tuttavia lo spirito di rivalsa religiosa appariva autentico.
Un’invenzione moderna
Ancora oggi, comunque, non vi sono certezze su quali fossero le reali intenzioni di Urbano II: studi condotti in occasione del IX centenario dell’impresa mettono in discussione l’assunto che il papa, nel 1095, abbia davvero indetto una spedizione militare. D’altro canto, già in precedenza molti dubbi erano affiorati sull’effettiva volontà del pontefice di scatenare un conflitto, se non addirittura una guerra santa. A distanza di secoli risulta arduo accertare la verità, vista la mancanza di documenti che riportino con esattezza le parole pronunciate a Clermont. Il cele-
bre discorso è stato infatti trascritto da cinque cronisti diversi, che potrebbero però avere esacerbato i toni bellicosi del papa. Secondo Franco Cardini Urbano II non bandí mai una crociata: «La parola sarebbe nata solo parecchi secoli dopo – si legge in un articolo sul quotidiano Avvenire – ; e il diritto canonico che la regolava non sarebbe maturato prima della metà del Duecento». E anche la stessa prima crociata, intesa nella sua accezione tradizionale, probabilmente non è mai esistita: «Cominciò a diventare un modello tra Quattro e Cinquecento – osserva ancora Cardini –, allorché l’Europa cristiana minacciata dai Turchi cominciò a guardare alla sua storia passata cercando un modello di eroismo e di santità alla luce del quale opporsi alla rinnovata minaccia islamica». Rimane il fatto che il 15 agosto 1096 ebbero inizio le operazioni e il 15 luglio 1099 Gerusalemme fu conquistata. Urbano II non fece in tempo ad apprenderlo, perché morí qualche giorno dopo. Con la sua scomparsa, si chiudeva un papato d’assalto, su cui, seppure venato di temperanza, aveva aleggiato lo spirito battagliero di Gregorio VII. PAPI DEL MEDIOEVO
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PASQUALE II
Il grande pacificatore Costretto a fronteggiare l’offensiva del potere temporale sulla questione delle investiture, Pasquale II perseguí una politica di mediazione nei rapporti con gli imperatori. Sognava una Chiesa povera, come quella delle origini, un anelito che gli inimicò una parte del clero
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PAPI DEL MEDIOEVO
di Francesco Colotta
I
l 13 agosto 1099, dopo che i cardinali riuniti in conclave nella chiesa di S. Clemente lo avevano eletto, Raniero da Bleda, fuggí. Per professione di modestia, piú che per la troppa felicità, non voleva credere che proprio lui fosse stato designato come nuovo titolare della cattedra di Pietro. Scelse un nascondiglio sicuro per non farsi trovare, ma venne presto scovato da alcuni cardinali, che lo riportarono immediatamente davanti a un’assemblea ancora incredula per l’accaduto. Il nuovo papa, in sostanza, non si sentiva pronto ad assolvere alle sue funzioni, ma, alla fine, pontefice divenne davvero, richiamato all’ordine dai suoi elettori e anche dal proprio senso di responsabilità. Assunse il nome di Pasquale II e non fu una figura minore, come alcuni rilevarono. Una sorta di nemesi lo perseguitò in vita. Nel corso del suo mandato raggiunse obiettivi di grande portata storica, che però vennero frustrati, anzi gli si rivoltarono contro all’improvviso. Il piú rilevante fu la pace con l’impero e insieme la fine della lotta per le investiture (la storica contrapposizione del papato all’impero che aveva come oggetto, nell’XI e XII secolo, la prerogativa nella scelta e nell’ordinazione dei vescovi, n.d.r.).
In Francia e poi a Roma
Sconosciuta è la data di nascita precisa, comunemente posta fra il 1053 e il 1055. Sembra comunque certo che, giovanissimo, si fece monaco cluniacense, in una località della Francia meridionale. Ventenne era a Roma, «erudito nelle arti di coloro che praticano la filosofia», come precisa il Liber Pontificalis, entrando presto nelle grazie di papa Gregorio VII, che lo nominò abate di S. Lorenzo fuori le Mura. Sottolinea un biografo: «La gravità del suo essere monaco e l’onorevolezza dei costumi e la sua prudenza e solerzia circa l’incarico che gli era stato affidato lo segnalavano a papa Gregorio (…). Lo vide e lo sperimentò; gli piacque, lo trattenne e a tempo giusto lo consacrò prete nel titolo di San Clemente nell’Urbe». Raniero, dopo non molto, diventò cardinale, ma non sembrava confondere gli interessi personali con l’incarico ricevuto. Virtú decisamente rare a quei tempi. Per la Chiesa erano anni molto difficili, durante i quali imperversavano gli antipapi. Uno di questi, Clemente III, si era eretto addirittura contro tre pontefici succedutisi sul trono di Pietro, ossia Gregorio VII, Vittore III, Urbano II. Solo Raniero, da papa, riuscí poi a liberarsene, facendo
Nella pagina accanto ritratto di papa Pasquale Il, realizzato per l’opera Handbuch der allgemeinen Kirchengeschichte (Manuale di storia generale della Chiesa) del cardinale Joseph Hergenröther. 1876-1880.
Nome
Raniero da Bleda
Nascita
(?) Bleda, Emilia-Romagna 1053-1055
Pontificato 1099-1118
Morte
Roma, 21 gennaio 1118
Sepoltura
Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano
sí che la storia ricordasse lo scismatico semplicemente come «Guiberto di Ravenna». Vigeva allora il Dictatus Papae di Gregorio, che, nel 1075, aveva sancito la supremazia giuridica del pontefice romano su qualsiasi autorità spirituale e temporale. Un documento che doveva dare una svolta alla lotta per le investiture, ponendo un freno al potere dell’imperatore di conferire le cariche ecclesiastiche. In modo da spazzare via un residuo dell’epoca carolingia, che faceva del «regno» il difensore del «sacerdozio». Ma permaneva l’ambivalenza per la quale le strutture della Chiesa costituivano, in modo inversamente proporzionale, formidabili centri di potere politico, militare ed economico. Dopo lo scontro tra Enrico IV e Gregorio, culminato con la prostrazione del monarca a Canossa, era scoppiata la guerra civile. Arrivarono un nuovo provvedimento sanzionatorio papale e l’elezione irregolare di Clemente III, che incoronò illegalmente Enrico, costringendo Gregorio a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo. Per poco, comunque, grazie all’arrivo dei Normanni, i «liberatori» del papa, che morí poi a Salerno nel 1085. Questo il teatro era in cui Raniero muoveva i primi passi decisivi verso il pontificato. InPAPI DEL MEDIEOEVO
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Pasquale II
tanto doveva sciogliersi il nodo di Roma, delle divisioni nel collegio cardinalizio e dell’antipapa. I legittimisti, per cosí dire, della curia erano riusciti a eleggere un nuovo successore di Pietro, sembra anche col voto di Raniero, nella persona di Desiderio, abate di Montecassino, ovvero Vittore III, che presto morí anche lui. Dopo mesi di «sede vacante», nel 1088 fu eletto un Francese di Cluny, vescovo di Ostia, che prese il nome di Urbano II, dichiarandosi subito continuatore della politica di Gregorio VII.
Missione in Spagna
Significativamente, il neoeletto papa assegnò a Raniero due incarichi diplomatici delicati: quello di riportare all’ordine Velletri, che aveva dato filo da torcere alla Roma papale, e una pericolosa «missione» in terra di Spagna. La Penisola Iberica era infatti scossa da fermenti religiosi che avevano portato all’affermazione di un «cristianesimo spagnolo» (quello detto «mozarabico», da mozárabe, parola proveniente dall’arabo musta’rib, «arabizzato», che indicava i cristiani che vivevano nei domini musulmani della Penisola Iberica, n.d.r.) di antichissima tradizione per liturgia e cultura, avversato però da re e papi e sostituito col rito romano. La questione si connetteva alla crisi del trono, aperta con la 66
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In alto miniatura raffigurante Urbano Il che scomunica Filippo I re di Francia e la consorte Bertrada di Montfort in occasione del concilio di Clermont Ferrand (1095), da un’edizione de Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé. A sinistra miniatura raffigurante lo scontro tra Enrico IV ed Enrico V, da un’edizione della Chronica sive Historia de duabus civitatibus (Cronaca delle due città) di Ottone di Frisinga. Metà del XII sec. Milano, Biblioteca Ambrosiana.
CONTRO LA REINCARNAZIONE DELLA GRANDE BESTIA Sembra che Pasquale II soffrisse di una forma di superstizione patologica, legata a un noce piantato nei pressi del sepolcro dei Domizi a Roma. Il mausoleo si trovava allora nel luogo dove oggi sorge la basilica di S. Maria del Popolo, sotto le pendici del Pincio, e ospitava le spoglie di Nerone. Intorno all’edificio e all’albero erano soliti volteggiare alcuni corvi: per il papa erano creature demoniache che avrebbero dovuto sovrintendere alla reincarnazione di dell’imperatore. Quest’ultimo, secondo alcuni scrittori cristiani, rappresentava una sorta di Anticristo per la corrispondenza del numero delle lettere del suo nome in ebraico con le cifre 666, simbolo della Grande Bestia dell’Apocalisse. In realtà, il pontefice era infastidito soprattutto dal culto popolare che Nerone aveva conservato nei secoli: molti Romani, infatti, continuavano a rendere omaggio alla sua tomba. Per semplice superstizione o per un piú credibile desiderio di far sparire un simbolo pagano, il papa ordinò allora l’abbattimento del sepolcro e del lugubre noce.
Miniatura con Nerone in trono e la morte di Simon Mago, dal Liber Sacramentorum. X sec. Udine, Biblioteca del Seminario Arcivescovile. Pasquale II fece abbattere il sepolcro dei Domizi, che custodiva le spoglie di Nerone.
morte di Ferdinando di Castiglia. Fra i quattro figli del sovrano sembrava aver prevalso Alfonso VI, dopo il misterioso assassinio del fratello Sancho. Nel 1085 e nel 1087 le rivolte contro Alfonso VI avevano portato questi, dopo alterne vicende, a rimuovere il vescovo di Santiago e sostituirlo con l’abate di San Pedro de Cardeña. Il futuro Pasquale II non poté fare molto. Ma alcuni anni dopo, da papa, riportò l’ordine, in una situazione profondamente cambiata, che
stando la sovranità pontificia e la libera elezione del papa. Allora, in piena lotta delle investiture ebbe portata rivoluzionaria. E Pasquale II mostrava di voler replicare l’impresa. Uno dei primi atti di papa Raniero dà la misura dell’energia personale che voleva imprimere alla sua «politica interna». In una lettera all’abate di Cluny chiese ex autoritate di inserire il predecessore Urbano II nelle preghiere dei suoi monaci per i defunti. Sembre-
suggeriva atteggiamenti diversi da quelli adottati come incaricato di Urbano II. E venne, il 13 agosto del 1099, l’elevazione di Raniero al soglio pontificio con il nome di Pasquale II, adottato in segno di continuazione con il predecessore Pasquale I, che aveva regnato nel IX secolo. Quest’ultimo si era distinto per avere stipulato con l’imperatore Ludovico il Pio un trattato, in base al quale la massima autorità civile e il vertice della Chiesa avrebbero mantenuto un rapporto di collaborazione, ferma re-
rebbe un atto superfluo, protocollare. Secondo gli storici, però, aveva tutto il senso di affermare la subalternità dell’autonomia liturgica cluniacense al romano pontefice. Era il 1099, l’anno in cui i crociati conquistarono Gerusalemme. Pasquale II fu quindi il primo papa che poteva acquisire la Città Santa in seno alla cristianità. Un primato di tutto rispetto per un pontefice «di secondo piano». Morto nel 1100 lo scismatico Clemente III (Guiberto di Ravenna), il pontefice «legittimo» PAPI DEL MEDIOEVO
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Pasquale II
IL VESCOVO MISTERIOSO Pasquale II avrebbe nominato un vescovo «americano», piú di tre secoli prima del viaggio di Cristoforo Colombo. Lo ipotizza, tra gli altri, il saggio Ingen Grenser (Senza frontiere, 2000) scritto dall’esploratore norvegese Thor Heyerdhal e dal cartografo svedese Per Lillieström. Gran parte del volume ruota intorno alla tesi della presenza di una comunità vichinga stanziale nell’area di New York fin dall’XI secolo. Un’ipotesi che si affianca a quella ormai accertata del passaggio dei Vichinghi di Leifr Eiriksson nella cosiddetta Terra di Vinland (l’odierna parte settentrionale dell’isola di Terranova). Uno degli argomenti utilizzati dagli autori per dimostrare che gli Scandinavi si fermarono in America per un lungo periodo è proprio la visita, nel 1117, nel Nuovo Continente di un delegato apostolico, un tale Henricus, nominato vescovo di Groenlandia e Terranova proprio da Pasquale II.
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In questa pagina miniatura raffigurante Enrico V incoronato imperatore in S. Pietro da Pasquale II, il 13 aprile del 1111, da un’edizione de Le Miroir Historial di Vincent de Beauvais. XV sec. Chantilly, Musée Condé.
non può che dannarne la memoria: «Il misero Guiberto, non già papa giacché papa non fu mai, abbandonata la città ma non ancora al sicuro, si precipitò a Civita Castellana, e qui ebbe fine, e meritatamente. Infatti mentre agendo con superbia tenta di fuggire Dio che nei suoi servi aveva offeso ampiamente, lo sventurato, prevenuto da morte improvvisa, trovò il diavolo che aveva servito con contumacia». Una scomparsa che, in sostanza, contribuiva al consolidamento del primato di Pasquale II. In cima ai pensieri di papa Raniero, già in quest’anno, doveva esserci un proposito che perseguí spesso nel corso del suo pontificato: pacificare. Frattanto, però, nella stessa Roma non poteva esercitare il suo dominio a causa dell’ostilità di alcune famiglie. Nel 1105 Pietro Colonna, che prima era stato suo sostenitore, si era impadronito della rocca di Cave, che apparteneva al Patrimonio di San Pietro. Su ordine del pontefice, il castello venne recuperato manu militari, e anche Zagarolo. La stessa sorte toccò a Stefano dei Corsi con Giovannipoli, dove Pasquale stesso rientrò personalmente, in segno di riconquista.
Guerriero e mecenate
Il pontefice, tuttavia, non fu tutto spada e lotta, seppure per necessità. Anzi, con lui – ancora il primo – si instaura una promozione delle arti alla quale si devono, per esempio, gli affreschi a Roma nella chiesa inferiore di S. Clemente, e gli altri, purtroppo perduti, di S. Lorenzo fuori le Mura. E nella quale si inquadra, nel 1110, la consacrazione della chiesa dedicata a San Menna a Sant’Agata de’ Goti, in occasione della visita apostolica presso il conte normanno Roberto di Alife. Aleggiava sempre il pericolo che si riproducesse il sistema vietato delle investiture. Nel 1102 il Concilio tenutosi al Laterano ribadí il divieto per gli ecclesiastici di rendere omaggio ai laici, che implicava un giuramento di fedeltà. In altri due Concili (Guastalla 1104 e Troyes 1107) fu messa una pietra tombale sulla questione scottante. Per Pasquale II era una via verso la pace. Guardò in seguito alla Francia, dove il re Filippo prima, poi il successore Luigi avevano interesse a rapporti pacifici con la Chiesa di Roma. In Germania, cuore dell’impero, era invece
In basso particolare di una miniatura raffigurante un vescovo in trono, dal manoscritto Summa de Casibus Conscientiae del frate domenicano Bartolomeo da Pisa. XIV sec. Parigi, lnstitut de France, Bibliothèque Mazarine
morto Enrico IV, nemico storico del papa. E il successore, Enrico V, voleva essere incoronato imperatore a Roma. In Spagna, infine, Pasquale II riprese la trama del problema lasciato irrisolto da cardinale: autorizzò la consacrazione del vescovo di Compostella da parte degli omologhi di Maguelone e Burgos, e concesse privilegi come struttura soggetta direttamente a Roma.
L’accordo di Sutri
Nel 1110 Enrico V scese in Italia per stringere la pace con il papa e ricevere da lui la corona imperiale. Abbattuti gli ostacoli che si frapponevano (come la città di Arezzo, messa a ferro e fuoco), si fermò a Sutri, confine della città di Roma, dove si ergeva la fortezza simbolo del dominio pontificio. Una legazione imperiale sottoscrisse con i rappresentanti di Pasquale II una prima convenzione di pace. Vi si legge: «Il re rinuncerà per iscritto a ogni investitura di tutte le chiese nelle mani del signor papa, al cospetto del clero e del popolo, nel giorno della sua incoronazione. E dopo che il signor papa avrà fatto a proposito dei regalia ciò che si dice in altro documento, confermerà col giuramento che mai piú si intrometterà nelle investiture. E lascerà libere, con i loro patrimoni derivanti dalle offerte dei fedeli e i loro possessi, quelle chiese che manifestamente non erano di pertinenza del regno». Rimasto a Sutri, Enrico il 9 febbraio 1111 firmava e si accordava per l’incoronazione di lí a tre giorni. Trascorsi i quali fu accolto da Pasquale II sui gradini di S. Pietro. Un passaggio dello strumento di pacificazione soprattutto colpiva: «Vietiamo anche e sotto pena dell’anatema proibiamo che nessuno dei vescovi e degli abati, presenti e futuri, invada quei regalia, cioè: le città, i ducati, le marche, le contee, i diritti di monetazione, di teloneo (un’imposta che colpiva il transito o la circolazione delle merci, n.d.r.), di mercato, le avvocazie del regno, i diritti dei giudici chiamati centurioni e le corti che manifestamente erano del regno, con le loro pertinenze, l’esercizio delle armi e il servizio armato del regno, e finalmente non si intromettano piú nei regalia stessi, se non per grazia del re». Fra gli studiosi le interpretazioni dell’atto sono contrastanti: fu la proclamazione di una Chiesa povera com’era nata? Oppure la rinunzia alle regalie non intaccava comunque le offerte, talora doPAPI DEL MEDIOEVO
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viziose, che l’istituzione riceveva dai fedeli? Certo è che l’accordo non fu mai promulgato perché i vescovi tedeschi e quelli di parte papale si attardarono a discutere con Enrico V.
Nelle mani dei soldati imperiali
Ne emersero disaccordi profondi, che complicarono la situazione. Pasquale II e i suoi, quindi, furono messi dai soldati imperiali sotto sorveglianza armata, che si trasformò in prigionia o, se si vuole, sequestro. I Romani si ribellarono, ma non riuscirono a liberare il pontefice. Enrico lasciò quindi Sutri traendo con sé il papa, ormai rimasto solo, visto che non poteva piú contare sui Normanni. L’imperatore, il 12 aprile 1111, costringendo il pontefice a sottoscrivere l’accordo a lui sgradito, ottenne la corona. Le notizie su quella giornata non consentono di capire in profondità gli eventi istituzionali. Sulla via del ritorno, il neoincoronato ricevette lettere di Pasquale II nelle quali si descriveva la confusione che regnava in fatto di poteri e privilegi. Effettivamente era stata, sí, sancita l’illegittimità dell’investitura degli ecclesiastici, ma le eccezioni erano valutate caso per caso. Qui si appuntò il sospetto che il papa fosse stato complice di Enrico V. La pace in definitiva era stata raggiunta, ma 70
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Roma. La navata centrale della basilica superiore di S. Clemente, con la Schola Cantorum e il pavimento cosmatesco. XII sec.
sulla base di un compromesso: il papa aveva ottenuto la sovranità sulla Tuscia meridionale, sull’Umbria, sulla Romagna. Mentre il sovrano, condannando le investiture, aveva sul capo la corona imperiale e si era guadagnato la reputazione di uomo di pace.
La guerra interna
Non tardarono le proteste in seno alla Chiesa. Bruno, vescovo di Segni, parlò esplicitamente di eresia riferendosi al patto di aprile e accostandolo al precedente di Clemente III, l’antipapa che aveva incoronato Enrico IV. Cosí scrive in una lettera al pontefice. La difesa dell’accusato si appellava allo stato di necessità in cui Pasquale II si era trovato fra la violenza di Enrico, il pericolo per la città di Roma e la condizione di prigionia. Ma Goffredo di Vendôme, illustre canonista, porta un argomento piú insidioso: se pure dovette agire in stato di necessità, questa veniva da Dio che chiedeva di affrontarla con coraggio, anche a costo del martirio. Solo un Concilio poteva liberare la Chiesa dall’intrico e cosí fu, a S. Giovanni al Laterano, nel marzo 1112. La canonistica disponeva: la «prima sede» non sia giudicata da nessuno, il papa deve essere soggetto solo a Dio. E Gregorio VII l’aveva riba-
Da Gelasio II a Celestino III
I papi dopo Pasquale II Si risolve la questione della lotta per le investiture con il concordato di Worms del 1122, che assegna ai papi la nomina dei vescovi e agli imperatori l’investitura temporale per l’eventuale conferimento di feudi. Il papato esce vincitore dallo scontro con l’impero e si candida a potere dominante della cristianità anche sulle questioni temporali. L’incoronazione di Federico I Barbarossa riaccende gli attriti fra i pontefici e il potere secolare
ALESSANDRO III (1159-1181)
GELASIO II (1118-1119) CALLISTO II (1119-1124) ONORIO II (1124-1130) INNOCENZO II (1130-1143)
Cistercense, costretto a combattere con un fortissimo antipapa, Anacleto II, ebbe l’appoggio dei re di Francia, di Germania e d’Inghilterra. Riuscí ad avere la meglio, ma fu costretto a scendere a patti con i Normanni. CELESTINO II (1143-1144) LUCIO II (1144-1145) EUGENIO III (1145-1153) ANASTASIO IV (1153-1154) ADRIANO IV (1154-1159)
dito anche per il caso estremo che il pontefice perdesse la fede, in quanto santificato dalla canonicità della sua elezione. L’Actio concilii dice che, nell’ultimo giorno di assemblea, Pasquale II fece «professione di fede cattolica, acciocché nessuno dubitasse della sua fede», rifacendosi anche alle risoluzioni dei predecessori Gregorio VII e Urbano II. Ma evitò di tradire l’impegno assunto con Enrico V di non scomunicarlo e di non parlare piú di investiture.
Grande nemico di Federico Barbarossa. Per poterlo contrastare piú efficacemente, non esitò ad allearsi con i Comuni della Lega Lombarda, con i quali trionfò nella battaglia di Legnano del 1176. Introdusse modifiche al sistema di elezione dei papi, con il principio del quorum minimo dei 2/3 di favorevoli. LUCIO III (1181-1185) URBANO III (1185-1187) GREGORIO VIII (1187) CLEMENTE III (1187-1191) CELESTINO III (1191-1198)
Roma, basilica di S. Clemente. Particolare dell’affresco raffigurante il miracolo di san Clemente. Fine dell’XI sec. Secondo la tradizione, Clemente, era stato martirizzato annegandolo e, qualche tempo dopo, il mare si era ritratto, scoprendo una tomba. Una volta l’anno, le acque defluivano e il sepolcro poteva essere visto: una donna vi si era recata per venerare il santo, ma, al sopraggiungere della marea, era tornata sulla terraferma, dimenticando il suo bambino. L’anno dopo era tornata e aveva ritrovato il piccolo vivo, vicino alla tomba di san Clemente.
Secondo la canonistica giudicare il pontefice equivaleva a un tentativo di deposizione. Papa Raniero se ne fece forte, con il corollario della sua potenziale insindacabilità. Quindi in Concilio non ci fu giudizio – se si esclude la generica condanna dell’operato del pontefice –, né gli venne imposta alcuna penitenza, dal momento che nessuno poteva comminarla. Ancora una volta il compromesso lasciava spazio alle ambiguità, permettendo a Pasquale II di uscire rafforzato nel suo potere. A Roma in un altro Concilio, nel 1116, si risolse a chiudere la questione con un atto penitenziale di propria autonoma iniziativa e per volere di Dio. Dunque il papa non fu accusato di eresia. Ed Enrico V non venne scomunicato. Ancora una volta, però, la Chiesa di Roma aveva potuto affermare la sua superiorità. Il papa due anni dopo si ammalò. Ebbe tuttavia la forza di domare a Roma l’ennesima levata di scudi dei suoi nemici. Racconta il Liber Pontificalis: «L’uomo santo moriva e operava». Ricevuto l’olio sacro cantava ancora i salmi con gli astanti, e nella notte del 21 gennaio 1118 si spense dopo ben diciannove anni di pontificato. PAPI DEL MEDIOEVO
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INNOCENZO III
Il «papa-sole» Con Innocenzo III, eletto al soglio di Pietro nel 1198, il disegno teocratico papale assume una delle espressioni piú aggressive: il potere regio viene declassato a istituzione sterile, che vive solo di luce riflessa anche nelle questioni politiche. Negli anni del suo pontificato, Lotario dei conti di Segni si batté duramente contro ogni forma di eresia e si fece promotore della quarta crociata
Nascita
Gavignano o Anagni, 1160
Pontificato 1198-1216
Morte
Perugia, 16 luglio 1216
di Francesco Colotta
Sepoltura
I
cardinali si riuniscono in tutta fretta la sera, appena qualche ora dopo la morte di Celestino III. Si ritrovano nel Septizonio, un edificio-fortezza a piú piani situato ai margini del Palatino. Aprono un conclave storico, che per la prima volta prevede l’utilizzo delle schede per la votazione. Schede che, alla fine della conta, verranno bruciate, per ragioni di segretezza e per impedire al neopontefice di prendere nota dei nomi degli ecclesiastici che non gli avevano accordato fiducia. La fumata bianca arriva subito: quasi all’unanimità, l’8 gennaio 1198, i cardinali eleggono Lotario dei conti di Segni, che prende il nome di Innocenzo III. Anche il nuovo titolare della cattedra di Pietro non si perde in indugi: già pochi mesi dopo l’elezione, vuole lasciare il segno con un attacco frontale al potere imperiale. Il 30 ottobre vara la bolla Sicut universitatis conditor, un vero e proprio inno alla teocrazia. Innocenzo appare assai determinato nel suo radicale proponimento di rovesciare i rapporti di forza che in quel periodo dominavano il mondo: «Cosí, come la luna riceve la sua luce dal sole e per tale ragione è inferiore a
Nome
Lotario dei conti di Segni
Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano Nella pagina accanto Subiaco, monastero del Sacro Speco, Chiesa Inferiore. Affresco che ritrae papa Innocenzo III. XIII sec. Il cardinale Lotario dei conti di Segni era nato a Gavignano, nei pressi di Roma, nel 1160. Quando, alla morte di Celestino III, salí al soglio pontificio, aveva meno di quarant’anni. Era il 1198 e, per la prima volta, i cardinali riuniti in conclave utilizzarono le schede per esprimere il proprio voto.
lui, per quantità e qualità, dimensione ed effetti, similmente il potere regio deriva dall’autorità papale lo splendore della propria dignità, e quanto piú è con essa a contatto, di tanto maggior luce si adorna, e quanto piú ne è distante, tanto meno acquista in splendore».
Un decisionista ambizioso
Di ascendenza nobile, Innocenzo III nacque nel 1160 vicino Roma, a Gavignano. Venne elevato a cardinale dallo zio, Clemente III, e si distinse fin da giovane per doti intellettuali fuori dal comune. Prima di diventare papa scrisse il saggio De contemptu mundi, un violento manifesto «ascetico» che invitava al disprezzo totale per il mondo e per i vizi umani: «L’uomo è putredine e il verme è il figlio dell’uomo (…) L’uomo viene concepito dal sangue putrefatto per l’ardore della libidine, e si può dire che già PAPI DEL MEDIOEVO
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Innocenzo III
In questa pagina frammenti di mosaici raffiguranti episodi della quarta crociata (1202-1204). Inizi del XlII sec. Ravenna, chiesa di S. Giovanni Evangelista. Oggi disposti lungo i muri perimetrali, i mosaici, decoravano il pavimento della basilica in età medievale. Nonostante i numerosi rifacimenti, la chiesa, eretta nel V sec. da Galla Placidia, conserva vari elementi originali. Qui sopra i Veneziani, comandati dal doge Enrico Dandolo, conquistano e saccheggiano la città di Zara. In alto, a destra papa Innocenzo lII incontra il giovane Alessio Angelo, futuro Alessio IV.
Qui sopra un manipolo di soldati in battaglia. A destra la resa di Costantinopoli. Alla quarta crociata parteciparono signori francesi e italiani agli ordini di Baldovino IX di Fiandra, Teobaldo di Champagne e Bonifacio I del Monferrato. La rotta della spedizione fu deviata dal doge Enrico Dandolo a Zara e, poi, a Costantinopoli, che venne presa nel 1204 e saccheggiata.
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stanno accanto al suo cadavere i vermi funesti». Le sue tesi giovanili riecheggiavano in modo curioso posizioni dualistiche che poi egli stesso, da papa, combatté in modo severo. Come quelle dei Catari, per esempio, che similmente identificavano il bene nello spirito e condannavano ogni espressione di corporeità.
L’Urbe nell’orbita papale
Eletto pontefice, Lotario si adoperò per far sí che la Chiesa esercitasse un potere pieno, a cominciare dalla stessa Roma, dove le leve di governo erano nelle mani di un Senato virtualmente eletto dal popolo, ma rattrappito e impotente. Per il pontefice non fu difficile scompigliare, anche con elargizioni di danaro, quella classe dirigente inetta e riportare cosí l’amministrazione civile dell’Urbe nell’orbita papale. L’estrazione nobiliare gli permise di coinvolgere le grandi famiglie sue pari in un dominio oligarchico. A poco valse il colpo di coda degli Orsini e dei Poli: nel 1205 Innocenzo III aveva recuperato in pieno il suo ruolo dominante, riservandosi la nomina di chi doveva esercitare a Roma il potere esecutivo. Del resto questo estremo decisionismo è quanto ci si attendeva da lui: i cardinali in conclave lo avevano votato preferendolo a una personalità di alto spessore mistico, ma debole. Confidavano nella sua ambizione e nella sua energia giovanile. Da papa, tuttavia, non fece gravare su Roma una sua potestà regia, rispettandone l’autonomia. Il ciclone-Innocenzo III si abbatté, invece, sui territori che in precedenza Enrico IV aveva sottratto alla Chiesa. Una dietro l’altra il pontefice riprese città come Ancona, Sinigaglia, Fermo, Fano, Pesaro, Spoleto, Rieti, Assi-
IL SOGNO CHE VINSE LA DIFFIDENZA Innocenzo III nutriva qualche dubbio su san Francesco, pur non considerandolo affatto un eretico. La leggenda dice che il papa si convinse dell’ortodossia delle tesi francescane nel corso di una notte un po’ agitata. Sognò infatti il Poverello di Assisi che sorreggeva una pericolante chiesa di S. Giovanni in Laterano. Nel 1209 il pontefice incontrò il patrono d’Italia, concedendo oralmente l’approvazione per il suo Ordine Mendicante. La ratifica ufficiale, invece, fu sancita nel 1223 da papa Onorio III, il successore di Innocenzo. L’episodio del sogno è raffigurato nel ciclo di affreschi attribuiti a Giotto nella Chiesa superiore della Basilica di S. Francesco ad Assisi.
Assisi, Basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore. Innocenzo III vede in sogno san Francesco sorreggere il Laterano: è una delle ventotto scene che compongono il ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto. 1290-1295.
si, Foligno, Gubbio, Nocera, Perugia, Acquapendente e Montefiascone. Con Innocenzo III, dunque, prendeva corpo l’ideale teocratico che circa un secolo prima era già stato formulato e perseguito da un altro pontefice di vedute universali, Gregorio VII. Questo predecessore, basandosi sulla donazione di Costantino (della cui autenticità ancora si discute), nel Dictatus papae emanato nel 1075, aveva sancito la supremazia della Chiesa di Roma e del suo vescovo sull’impero. Ne discendeva che solo al papa spettasse il diritto di attribuire le cariche ecclesiastiche o di toglierle a chi si mostrava indegno, fosse pure un vescovo. Ma ne conseguiva anche ben altro: il pontefice soltanto poteva conferire le insegne imperiali e spogliarne con la deposizione gli imperatori «ingiusti», sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà prestato nelle loro mani. Innocenzo III mise in pratica l’istanza teocratica anche nel suo compito di tutore del figlio di
Costanza d’Altavilla, il futuro Federico II, erede al trono di Germania di appena 4 anni dopo la morte del padre Enrico VI. Papa Lotario aveva di che preoccuparsi guardandosi intorno. Per la successione all’impero, di cui il pupillo Federico era legittimo titolare, in Germania sussisteva un vuoto di potere. Nel partito degli Hohenstaufen i piú avevano deciso di offrire la corona al fratello del defunto Enrico VI, Filippo di Svevia, mentre la minoranza guelfa optava per Ottone di Brunswick. Il papa si schierò con quest’ultimo, che non accampava diritti in Italia, ma il potere d’influenza di Innocenzo III non otteneva granché in terra teutonica.
La corona sulla testa di un ragazzo
Presto però l’abilità politica del papa si manifestò in tutta la sua finezza. Non appena Filippo prese il sopravvento, cadde assassinato in un’imboscata nel 1209. Ottone IV, però, anziché ricongiungersi al pontefice, tradí la sua fiducia, allontanandosene, e inviando per di piú truppe in Sicilia, che quindi non fu piú vassalla della Chiesa. Il sovrano fu subito scomunicato e Innocenzo III giocò la carta del ragazzo Federico, ottenendo che i principi germanici lo accettassero come re, nonostante avesse appena 16 anni. Nel 1212, a Magonza, il giovane fu incoronato «re dei Romani» e la Sicilia poté tornare allo Stato della Chiesa. Intanto, mentre il papato si affermava in Europa come potenza teocratica e strumento di ordine, si moltiplicavano le eresie. Dal 1187, Gerusalemme era caduta in mano ai musulmani. Fu la PAPI DEL MEDIOEVO
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Innocenzo III
La basilica di S. Pietro nell’età di Mezzo
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Ricostruzione grafica dell’antica basilica di S. Pietro, a Roma, cosí come doveva apparire in epoca medievale. La tradizione vuole che il luogo del martirio di san Pietro sia «iuxta obeliscum», ossia presso l’obelisco del Circo di Caligola e Nerone (1). Fatto trasportare dalla città egiziana di Eliopoli da Caligola, l’obelisco rimase nel luogo originario fino al 1586, quando venne trasferito al centro della piazza di
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S. Pietro, chiusa dal colonnato del Bernini. Nei pressi dell’obelisco era il mausoleo di Teodosio (2), successivamente trasformato da papa Stefano I, su richiesta di Pipino il Breve, in cappella dedicata a santa Petronilla, vergine romana alla quale i Franchi erano particolarmente devoti. Due secoli e mezzo dopo la morte dell’Apostolo Pietro, l’imperatore Costantino fece costruire sopra la sua sepoltura la prima basilica di S. Pietro (3). L’edificio, iniziato nel 324 e consacrato da papa Silverio il 18 novembre del 326, venne portato a termine solo nel 349. La chiesa
costantiniana aveva le caratteristiche della basilica paleocristiana (120 x 60 m), divisa in cinque navate. Al centro del presbiterio era posizionata la tomba di Pietro (4). La basilica era preceduta da un quadriportico (5), con al centro una fontana (6) e una vasca per le abluzioni, abbellita da una pigna di bronzo (7), ora nei Palazzi Vaticani. Il campanile (8) fu innalzato nel 752. Nel 781, durante la sua seconda visita a Roma, Carlo Magno fece costruire un palazzo imperiale (9); intanto Leone III faceva allestire una nuova residenza pontificia.
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molla che spinse Innocenzo III a indire la IV crociata, già allestita da Enrico VI e abbandonata per la sua morte precoce. Alla guerra santa non aderirono i sovrani d’Europa, troppo impegnati a combattersi fra loro. Ma lo spirito di avventura, di conquista e di arricchimento personale portò sotto l’insegna papale molti cavalieri italiani e francesi. Luogo di raccolta fu Venezia, la cui Repubblica aveva tratto giovamento economico e commerciale dalle precedenti spedizioni in Terra Santa. Anche in questa occasione la città lagunare aveva il naviglio, mentre i crociati non disponevano di denaro sufficiente per noleggiarlo: 34 000 marchi erano davvero troppi per saldare l’ultima rata. Allora il doge Enrico Dandolo si dichiarò disposto a fornire ugualmente i battelli in cambio dell’aiuto a riconquistare Zara, ribellatasi ai Veneziani. Malgrado il parere contrario del pontefice, i cavalieri accettarono, e Zara fu recuperata. Subito dopo i crociati, invece di puntare verso Gerusalemme, fecero un altro colpo di testa. Decisero di partecipare anche all’assedio di Costantinopoli, per rimettere sul trono dell’impero d’Oriente lo spodestato Isacco II. Riconquistarono la città e vi fondarono un Impero Latino d’Oriente, che non ebbe però vita lunga. In tutto questo il Santo Sepolcro era rimasto trascurato. Innocenzo III, in un primo momento, scomunicò i cavalieri che non avevano rispettato il suo piano di azione. Ma poi revocò quasi subito il provvedimento, perché compiaciuto che il cattolicesimo fosse penetrato laddove dominava lo scisma ortodosso. Il suo potere politico stava crescendo ormai in modo inarrestabile, in gran parte dell’Europa.
Una guerra santa sul Baltico
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Di un’altra spedizione santa, piú fortunata delle precedenti, si parla assai meno nelle biografie di Innocenzo III: quella che vide un gran flusso di pellegrini convergere verso la Livonia, un territorio corrispondente a parti delle attuali Estonia e Lettonia e le città di Tallinn e Riga. Il papa intuí i vantaggi pastorali che poteva conseguire organizzando una «crociata» in quella terra fredda, bagnata dal Baltico. Con una lettera del 1195 ai «fedeli di Sassonia e Vestfalia» esortò i cattolici a recarvisi, considerando quei luoghi preziosi per la religione quanto la stessa Gerusalemme. Accordando perciò ai pellegrini le prerogative fruibili col viaggio in Terra Santa. In realtà la spedizione ci fu, ma ebbe i caratteri di una conquista difficile, in cui non mancarono crudeltà efferate, persino per iniziativa PAPI DEL MEDIOEVO
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degli stessi prelati. Una cronaca dell’avvenimento, ritrovata solo di recente, il Chronicon Livoniae di Enrico di Lettonia, documenta l’impresa che doveva «espugnare» un’estrema regione pagana del Nord-Est europeo. Il culto antico che vi si praticava era una sorta di panteismo animistico, di venerazione per tutte le creature animali e vegetali, essenza della divinità, ma il contatto forzato con la religione dei missionari occidentali allargò gli orizzonti culturali di queste popolazioni. E cambiò la loro storia. Scrive Armando Torno, che ha condotto studi su questa crociata e sul Chronicon: «Nel XII secolo inizia l’afflusso di mercanti, dietro i quali non mancano i missionari, seguiti poi da artigiani, quindi dai Cavalieri Portaspada (predecessori dei Teutonici), infine da qualche avventuriero, da prostitute, da tutto. La crociata è anche una migrazione oltre che una guerra».
I Palazzi Vaticani nel tempo Qui sotto sulla collina a nord di S. Pietro, Innocenzo III eresse una torre e un palazzo, inscritti in una cerchia fortificata e che costituiscono il primo nucleo degli odierni Palazzi Vaticani, corrispondente a parte del lato sud del cortile del Pappagallo.
Contro le eresie, con ogni mezzo
Molto discutibile fu la crociata con cui il papa teocratico iniziò a debellare le eresie. Lo angustiava quanto stava verificandosi nella Francia meridionale, dove movimenti popolari, incitati dai loro predicatori, si sollevavano contro gli abusi del clero e per il restauro della povertà e della purezza di costumi volute dal Vangelo. Papa Innocenzo cercò di usare con i ribelli la persuasione, ma ottenne soltanto che si irrigidissero, negando la verità dei Sacramenti e altri dogmi del cristianesimo. Decise allora di ricorrere alla Santa Inquisizione. Gli inquirenti dovevano accertare se gli accusati professassero l’ortodossia cattolica e, se giudicati eretici, venivano consegnati all’autorità civile, per subire la pena, generalmente capitale. Tuttavia, ad Albi (Francia meridionale) l’Inquisizione non bastò per riportare i ribelli all’ordine e contro gli Albigesi il pontefice scelse l’arma della crociata. Per i vassalli del re di Francia Filippo Augusto, la crociata fu soprattutto uno strumento per colpire i conti di Tolosa, vittime di rapine e stragi. Albi fu ridotta a un cumulo di rovine e gli Albigesi scomparvero, a un prezzo però troppo alto per la restaurazione religiosa del papa Lotario. Duecentomila morti furono il lugubre bilancio di una vera e propria carneficina. Per Innocenzo III le eresie che andavano prendendo piede «in casa» non furono meno preoccupanti della perdita di Gerusalemme e del Santo Sepolcro. Nel suo disegno di conservazione della vera Fede, esse costituivano comunque una sfida demoniaca da sventare. La rappresaglia fu energica, ma la valutazione 78
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In basso Niccolò III (1277-1280) conservò il nucleo di Innocenzo lII, ampliandolo verso ovest. Le nuove parti architettoniche vennero rinforzate con speroni (contrafforti).
Qui sotto a causa dell’esilio avignonese, i lavori furono interrotti e il palazzo rimase incompleto rispetto al progetto originario. Avrebbe dovuto infatti contemplare altri due lati, cosí da formare un quadrilatero corrispondente al cortile del Pappagallo: a questo progetto si attennero i papi fino al XVI sec.
In basso Niccolò V (1447-1455) e i suoi successori portarono a compimento i palazzi che formano il cortile del Pappagallo. Gli speroni di Niccolò lII furono trasformati in portici. I palazzi, pur mantenendo l’aspetto di residenza turrita e merlata, subivano all’interno un processo di trasformazione in reggia rinascimentale.
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da cui partiva peccava di prospettiva storica: da intellettuale della politica, il papa, di fronte al fenomeno eretico, evocò gli errori, gli sbandamenti dottrinali che avevano minato la Chiesa dei primi secoli dell’era cristiana. Nella sostanza, invece, gli eretici e gli altri movimenti pauperistici non mettevano in discussione la dottrina, ma si scagliavano perlopiú con lo stile succube del danaro, sfoggiato da molta gerarchia ecclesiastica. Il pontefice collocò nel suo libro nero in prima battuta movimenti come i Catari ovviamente, e poi anche i Valdesi, i Bogomili (precursori dell’eresia catara), i Patarini milanesi e gli Umiliati. Vide di buon occhio, invece, quelli che, senza sollevarsi contro i «vertici», si diedero una Regola e chiesero al papa di ratificarla. È il caso di san Francesco d’Assisi, per esempio. Piú vicino allo spirito battagliero del pontefice si dimostrò l’altro grande mistico privilegiato dalla cattedra di Pietro, san Domenico di Guzman: per il fervore ortodosso che il suo Ordine dei Predicatori spese anche nell’Inquisizione, il frate spagnolo poté agire come un braccio esecutivo del papato innocenziano.
La messa al bando degli Ebrei
Alla gloria del pontefice, guadagnata con la difesa «armata» della fede, contribuí anche una sorta di «rivoluzione teologica» di cui fu artefice. Si manifestò con il Concilio Laterano IV, aperto nel 1215 con una partecipazione veramente «universale»: centinaia fra patriarchi, vescovi e abati, accanto ai legati dei sovrani europei, con Federico II in persona. Innocenzo seppe condurre i lavori conciliari verso riforme liturgiche: al centro la transustanziazione, che considera l’ostia consacrata come corpo e sangue di Gesú, base mistica dell’Eucaristia. Questo però fu anche il Concilio che statuí la messa al bando degli Ebrei da tutti gli uffici. Imponendo inoltre l’obbligo per gli stessi di indossare una sorta di «uniforme» per rendersi riconoscibili. Un’ennesima emergenza chiamò all’azione Innocenzo III, la crociata contro i Turchi. Nelle more della preparazione, trovò il tempo di comporre un dissidio che separava due Repubbliche Marinare, Pisa e Genova. Riuscí nel suo intento diplomatico, in nome del superiore sentimento religioso che accomunava i contendenti. Ormai pronto a imbarcarsi nella nuova avventura missionaria, la morte lo colse a Perugia nel luglio 1216. Venne sepolto nella cattedrale della città umbra. In seguito il pontefice Leone XIII decise però di trasferire le spoglie dell’«Augusto del papato» (come lo definí lo storico Ferdinando Gregorovius) a Roma nella Basilica Lateranense. 80
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Da Onorio III a Niccolò IV
I papi dopo Innocenzo III Continua la guerra tra papato e impero con l’avvento al trono di Federico II. I pontefici temono le sue mire sull’Italia e gli dichiarano guerra. Il sovrano in un primo momento prevale sulla Chiesa di Roma, ma poi le sue truppe soccombono nelle battaglie di Parma e Fossalta, nel 1248 e nel 1249. Anche suo figlio Manfredi, re di Sicilia, cade sconfitto qualche anno piú tardi, a Benevento, segnando il trionfo della nuova alleanza tra papato e corona di Francia. Un sodalizio chiamato a fronteggiare subito tre emergenze: la reazione dei monarchi germanici, il tentativo di restaurazione dell’impero bizantino e la presenza aragonese in Sicilia
ONORIO III (1216-1227)
Cercò di favorire un accordo pacifico tra Impero e Comuni, senza però grandi successi. Come il predecessore. Innocenzo III, continuò la dura repressione delle eresie, specie quella albigese. Grazie a lui furono definitivamente approvate le regole francescane e domenicane. Incoronò Federico II, confidando nella sua determinazione a mettersi alla testa della quinta crociata per riconquistare la Terra Santa. GREGORIO IX (1227-1241) Il papa aveva ereditato dal predecessore Onorio III la promessa di Federico II di partecipare a una nuova crociata in Terrasanta, la sesta. L’imperatore partí nel 1227, ma, causa un’epidemia scatenatasi nel suo esercito, optò per un ritorno immediato a casa. Il papa lo scomunicò, convinto che il sovrano non si fosse impegnato molto nell’impresa. Canonizzò san Francesco. CELESTINO IV (1241) INNOCENZO IV (1243-1254) Eletto papa in un periodo turbolento di radicale contrapposizione con Federico II, fu subito costretto a fuggire a Genova per evitare la cattura da parte delle forze imperiali. Ma la reazione del pontefice, che trovò alleati in Francia, segnò il declino dell’imperatore, su cui gravava anche una scomunica. Intraprese la settima crociata. ALESSANDRO IV (1254-1261) URBANO IV (1261-1264) CLEMENTE IV (1265-1268) Francese, segretario di re Luigi IX, appena eletto fronteggiò l’offensiva sveva contro la Chiesa alleandosi con Carlo d’Angiò. Il suo nemico era Manfredi, che aveva conquistato il trono di Napoli in modo illegittimo. Gli storici lo considerano uno dei
papi dalla moralità piú specchiata, anche se forse troppo risoluto contro i suoi nemici. GREGORIO X (1271-1276) - BEATO Papa ambizioso che tentò di riunire la Chiesa d’Oriente con quella romana, sotto la sua guida. L’intento venne espresso nel secondo concilio ecumenico di Lione del 1274, ma la fusione restò solo un principio astratto senza trovare mai attuazione concreta. Rivide la normativa sul conclave, organizzandolo con le modalità con le quali si svolge tuttora. INNOCENZO V (1276) - BEATO ADRIANO V (1276) GIOVANNI XXI (1276-1277) NICCOLÒ III (1277-1280) MARTINO IV (1281-1285) ONORIO IV (1285-1287) NICCOLÒ IV (1288-1292) Primo francescano a diventare pontefice. Pur non essendo tagliato per la politica e amando la pace, mostrò una certa decisione nell’allestire una crociata contro i Turchi. Si sforzò di pacificare Angioini e Aragonesi in guerra tra loro nel Meridione d’Italia, schierandosi poi però dalla parte dei Francesi. Fu promotore di missioni evangelizzatrici in Estremo Oriente e aprí la strada a una maggiore indipendenza dei cardinali.
Nella pagina accanto particolare della statua che ritrae san Pietro scolpita da Giuseppe De Fabris e collocata davanti alla basilica vaticana in occasione della Pasqua nel 1847, in sostituzione di una piú antica scultura del XV sec. PAPI DEL MEDIOEVO
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CELESTINO V
Gli enigmi dell’eremita Piú di un mistero avvolge ancora oggi la figura di Celestino V, il pontefice benedettino che, nel dicembre del 1294, a pochi mesi dall’elezione, rinunciò a continuare il suo ufficio: rimase vittima di una congiura ordita dal successore Bonifacio VIII? E qual era il suo vero nome? di Domenico Caiazza
L
a vita di Celestino V, personaggio pienamente storico e molto noto anche prima dell’assunzione al papato e del «Gran Rifiuto», è tramandata da biografie e da cronache della fine del XIII-inizi del XIV secolo. Sono anche pervenute centinaia di testimonianze del processo di canonizzazione, rese da persone che lo avevano conosciuto, sicché unica incognita della sua esistenza sembrerebbe quella della morte, che si verificò in un’atmosfera di martirio visto che il santo, vissuto tra i luminosi monti d’Abruzzo, finí i suoi giorni prigioniero in una oscura segreta del castello di Fumone. Papa Bonifacio VIII, che la tradizione vuole interessato ispiratore delle dimissioni, fu incolpato di averlo fatto uccidere con un colpo di stiletto alla testa e, poiché sulla calotta cranica del papa, conservata nella badia aquilana di Collemaggio, compare uno strano foro, si è discusso a lungo sull’ipotesi di un suo assassinio (ma le ricognizioni effettuate sulle spoglie di Celestino nel 1998 e nel 2013 provano che il foro venne inflitto sul cranio post-mortem, su L’incoronazione di Papa Celestino V nell’agosto del 1294, olio su tavola di scuola francese. XVI sec. Parigi, Museo del Louvre.
Nome
Pietro Angeleri del Morrone
Nascita
Castello di Sant’Angelo di Ravecanina (Caserta), 1209 o 1215
Pontificato 1294-1294
Morte
Castello di Fumone (Frosinone) 19 maggio 1296
Sepoltura
L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio
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Celestino V
«osso secco» per usare termini anatomopatologici n.d.r.). Sono invece molte le zone d’ombra sulla sua vicenda umana: poco o nulla sappiamo delle sue origini, intese come luogo di nascita e condizioni sociali, e neppure è noto il monastero nel quale fece il noviziato, prese l’abito e professò i voti.
Il primo abito monastico
Le fonti concordano sul fatto che ricevette l’ordine sacerdotale a Roma, città nella quale si recò, dopo un primo esperimento di vita eremitica non lontano da Castel di Sangro, ma è un mistero come un giovane novizio, lontano dal luogo di nascita e dal suo convento, vissuto solitario per qualche tempo sui monti, abbia potuto ricevere gli ordini sacri nella capitale della cristianità. Data la grande prudenza della Chiesa nel somministrarli, doveva avere qualcuno che garantí nella curia pontificia i suoi studi, la sua moralità e preparazione teologica. L’unica risposta possibile su questo punto ci sembra quella che a Roma sia intervenuto in suo favore un alto esponente del suo Ordine monastico o forse qualche potente congiunto. E qui il mistero si infittisce, poiché sappiamo poche cose sia sulla famiglia d’origine sia su quella religiosa. Valga per tutte la testimonianza del suo biografo Lelio Marini, che fu abate generale dei Celestini, e quindi in grado di compiere ricerche accurate, il quale, nel 1630, doveva scrivere che «in tutto il corso della vita di lui non è cosa piú oscura, che il tempo o l’anno nel quale egli
CELESTINO V E IL FEUDATARIO RAPACE S. Maria a Faifoli era il nome di un’antica abbazia basiliana in Molise, latinizzata dopo la conquista normanna. L’abate conservava dall’antico rito baculo pastorale e mitra, ma i feudatari pretendevano di essere signori dei casali dell’abbazia e rapinavano bestiame e derrate. L’abbazia da poco restaurata era ridotta allo stremo quando l’arcivescovo Capodiferro di Benevento nel 1276 la affidò a Pietro del Morrone. Questi vi condusse suoi monaci e contrastò le pretese del rapace feudatario di Montagano, Simone di Sant’Angelo. Ottenne diversi provvedimenti in favore del monastero da parte di Carlo I d’Angiò, che ordinò agli abitanti dei casali di Corneto e San Benedetto di riconoscersi vassalli dell’abbazia. Ma l’ordine reale impartito nel 1278 al giustiziere di Molise di garantire l’incolumità dell’abate dimostra che il feudatario ne minacciava la persona. Comunque, finché Pietro vi restò come abate il monastero fu salvo, ma il suo successore, fra’ Filippo, e i monaci furono di diversa tempra e nel 1285 abbandonarono l’abbazia.
La chiesa di S. Maria a Faifoli, presso Montagano (Campobasso). L’abbazia fu affidata a Pietro del Morrone nel 1276.
entrasse nell’Ordine di San Benedetto, e dove, e quando vi facesse la professione». È certo che il futuro papa aveva assunto l’abito monastico benedettino, poiché una sua bolla dice che gli è caro quell’Ordine per avervi preso i voti, e anche Iacopo Caetani Stefaneschi (1270 circa-1341), che fu suo cardinale e ne scrisse la vita in versi (Opus Metricum), conferma la notizia. Ma questa certezza è ancora una volta generatrice di problemi, visto che nel XIII secolo esistevano i Benedettini con l’abito nero, per intenderci quelli di Montecassino – con innumerevoli dipendenze e abbazie filiate in tutta Europa –, ma esistevano anche i Benedettini con l’abito bianco, i riformati, da quelli di Cluny a quelli di Cistercium, che nel reame di Napoli avevano da poco tempo le abbazie di Fossanova, Casamari, della Ferrara. Vi erano poi i Verginiani e la Congregazione Florense fondata da Gioacchino da Fiore. E se meraviglia che nessun ramo benedettino abbia rivendicato il papa o il santo, è ancor piú singolare che nessuna delle fonti chiarisca quale fosse l’osservanza originaria di Celestino.
Il convento del noviziato
Il dilemma sul primo abito monastico è poi complicato dai misteri sul luogo di noviziato, vestizione e professione. Per questi nel 1630 il biografo don Lelio Marini (abate generale della congregazione dei Celestini), in via ipotetica, visto che alcune fonti riportavano Pietro del Morrone molisano e nato in un Castello Sant’Angelo, propose il monastero di S. Maria a Faifoli nel Comune di Montagano e oggi in 84
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Miniatura raffigurante la rinuncia di Celestino al trono pontificio. XIV sec. Avignone, Musée Calvet.
provincia di Campobasso. Ma l’unica cosa certa è che Celestino, in età assai tarda, fu abate a S. Maria a Faifoli; poi, per il solo fatto che questa abbazia dista poche decine di chilometri da Sant’Angelo Limosano, si è ritenuto verosimile che fosse anche il convento del noviziato, come il piú prossimo al luogo presunto di nascita. Ma si è obiettato che Marini stesso indica in via ipotetica come città di nascita Isernia e confessa di non aver potuto sapere dove fosse S. Maria a Faifoli, e che quindi è un mistero come abbia potuto stimarne la vicinanza al luogo di nascita. Ed è stato anche notato che divenire abate in un monastero non indizia ivi il noviziato e che se Celestino a 60 anni raggiunse Lione a piedi per ottenere l’approvazione papale del suo Ordine, e a 84 fu in grado di eludere la caccia degli scherani di Bonifacio VIII fuggendo sui monti e sino al Gargano, da ragazzo avrebbe potuto ben raggiungere conventi lontani. In ogni caso, anche a voler consentire alla tesi del noviziato a Faifoli, tutta da dimostrare (non è, tra l’altro, affatto sicuro che
«PER VILTADE FE’ IL GRAN RIFIUTO» Jacopo Alighieri, figlio di Dante e tra i primi commentatori dell’Inferno, e Boccaccio identificarono in Celestino V «colui che per viltade fece il gran rifiuto». Da secoli sorprende i commentatori la condanna di una vittima di Bonifacio VIII, sbattuto ancor vivo nell’Inferno da Dante, che avrebbe quindi dovuto solidarizzare con Celestino V. Ma forse il poeta era informato da esuli politici meridionali dell’educazione cistercense di Pietro del Morrone nell’abbazia piú ghibellina d’Italia e aveva sperato che papa Celestino, del quale erano noti la vocazione pauperistica e il disinteresse per il potere, fosse il papa angelico profetizzato da «lo calabrese abate Giovacchino», e cioè il pontefice che avrebbe dismesso la politica di intralciare il potere imperiale e ristabilito il corretto governo dualistico del mondo da parte dei Due Soli: imperatore e papa, ciascuno autonomo e sovrano nella propria sfera. Forse sapeva che era di nobile lignaggio ed educato in ambiente ghibellino e non perdonò all’uomo che aveva dato prova in tutta la vita del contemptus mundi e dell’amore della povertà sua e della Chiesa di aver abbandonato il soglio, tradendo il disegno provvidenziale.
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Celestino V
all’epoca della fanciullezza del santo la piccola abbazia fosse attiva), si consideri che l’abbazia di S. Maria non è annoverata tra le dipendenze di Montecassino o di altri rami benedettini, sicché non si fanno passi avanti in ordine alla formazione spirituale del santo.
Il mistero delle origini
E non è finita con i segreti di Pietro: infatti, piú ci si avvicina alla sua infanzia, piú le ombre si infittiscono. Da oltre sette secoli sono controversi l’anno di nascita (1209 o 1215?) e il luogo della stessa, per la quale si sono formulate innumerevoli ipotesi e, soprattutto, si ignora quale fu il suo status sociale e quali i suoi studi. Il segreto, probabilmente, è dovuto proprio a Pietro, che fu sempre elusivo riguardo alle sue origini, salvo che per i ricordi affettuosi della madre, che preconizzò e favorí la sua vocazione. Quando si strinsero a lui i primi discepoli, il santo aveva cambiato già piú luoghi di romitaggio e distava ormai piú di cento chilometri, da percorrere tra aspre montagne, dalla sua patria, e dunque per celare le sue origini gli bastava tacere o essere vago con i compagni. E poiché non si sarebbe vergognato di umili natali e li avrebbe palesati, probabilmente tacque o sminuí le sue condizioni sociali per umiltà. Per lo stesso motivo, e per evitare le polemiche laceranti che spesso seguivano l’abbandono di un abito monacale, potrebbe avere taciuto il fatto che aveva studiato e pronunciato i voti in un Ordine possidente. Ma andiamo per ordine. Quanto al luogo di nascita si è pensato, oltre a Sant’Angelo Limosano e a Isernia, Sulmona, Molise, Morrone del Sannio, Ausonia, Sant’Angelo in Grotte, Sant’Angelo del Pesco, Macchia d’Isernia. In sostanza, si sono scambiati i predicati di luoghi dove visse con il luogo di nascita o si è lavorato, in via di mere ipotesi, per identificare in Molise un luogo detto Sant’Angelo in qualche modo collegabile al santo. Va osservato però che solo fonti tarde, poetiche e dubbie, lo dicono molisano o di 86
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Statua raffigurante
papa Celestino V che regge la città dell’Aquila, opera di Girolamo da Vicenza. XVI sec. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo.
Sant’Angelo Limosano, mentre quelle piú antiche, ufficiali o attendibili, come la Bolla di Canonizzazione e un codice della Biblioteca Marciana di Venezia lo vogliono nato nel regno di Napoli, in Terra di Lavoro, in un Castel Sant’Angelo. Orbene nell’antica Terra di Lavoro, estesa dal Liri al Volturno, e ben distinta dal Giustizierato di Molise, esisteva nel XIII secolo un solo Castel Sant’Angelo, cioè il Castrum Sancti Angeli cognomento Rabicanum o di Ravecanina, presso Alife. È dunque qui, in Terra di Lavoro, e non nelle terre abruzzesi e molisane che lo rivendicano, che il santo poté nascere. E, poiché questo castello della Terra di Lavoro era una grancia della vicina abbazia cistercense di S. Maria della Ferrara, isolata su un colle presso la riva del Volturno, si è cercato di verificare l’ipotesi che il santo abbia qui studiato, e che qui abbia intrapreso la professione religiosa e vestito l’abito bianco dei Cistercensi (con il termine «grancia», dal francese grange, si indica una organizzazione economica di beni e persone esistente nel Medioevo presso le abbazie benedettine: originariamente si trattò di semplici edifici adibiti alla custodia dei prodotti agricoli; con lo sviluppo del lavoro manuale dei monaci, nel XII secolo, si trasformò in una comunità monastica sotto la direzione di un rappresentante dell’abate e di un monaco-amministratore, detto cellario, n.d.r.). È verosimile che egli, pur rivendicando l’appartenenza alla famiglia benedettina, viste le polemiche laceranti che avevano accompagnato l’allontanamento di Gioacchino da Fiore dai Cistercensi, abbia evitato sempre di proposito di dare peso al suo distacco dall’Ordine originario, con il quale perciò conservò buoni rapporti. Ve ne è qualche indizio: quando era giovane, dovette essere il suo Ordine a consentirgli l’ordinazione sacerdotale a Roma, quando lasciò l’abbazia si recò nell’eremo di un monaco di Fossanova, un Cistercense dunque, e al ritorno da Lione fu scortato da bianchi cavalieri, trasparente-
IL FUNERALE DI MALGERIO SOREL Pietro di Angelerio degli Angeleri fu dunque nobile e monaco cistercense dell’abbazia di S. Maria della Ferrara e da questa, a un tempo suo monastero e sua patria d’origine per la vicinanza col Castrum Sancti Angeli, egli, giovane Certosino, partí, non senza dubbi e timori, per recarsi in Abruzzo a compiere il suo primo esperimento di vita eremitica, in una grotta. E nella Ferrara tornò l’ultima volta, nel 1291, per il funerale di Malgerio Sorel, il magnate, forse suo antico compagno di studi, che fu signore di Torcino e Sant’Agata e che in vecchiaia dismise le pompe del secolo, si fece Cistercense e lasciò in eredità alla Ferrara
mente Templari, Ordine vicinissimo ai Cistercensi, quello stesso che probabilmente gli aveva aperto la porta del papa a Lione e sostenuto la richiesta di conferma del suo Ordine. Ma ciò che il santo tacque consapevolmente riaffiorò, poi, a livello onirico: non può essere un caso se nei sogni e nelle visioni di Celestino sono descritti monaci sempre in veste bianca, per esempio in quella del gran monastero di monaci bianchi dal quale il santo salí con un asinello verso Gesú. In un’altra visione, allorquando il santo dubitava di essere degno di dire Messa, gli apparve il suo antico abate «veste nimis alba indutus», il quale lo esortò a celebrare. È impensabile che un ex Benedettino Nero sognasse monaci bianchi, ma, soprattutto, solo presso l’abbazia cistercense di S. Maria della Ferrara Celestino, che intitolò tutti i suoi monasteri allo Spirito Santo e chiamò il suo Ordine «Fratelli dello Spirito Santo», apprese la devozione alla Terza Persona della Trinità.
Lo stemma parlante
Nell’universo monastico del regno di Napoli questa devozione fu condivisa solo da Gioacchino da Fiore, che fu alla Ferrara, e al quale spesso Celestino si ispirò, e da Placido da Roio. Il primo era ex Cistercense, come forse il secondo che, comunque, vicino alla morte, affidò ai Cistercensi il suo monastero: entrambi furono devotissimi allo Spirito Santo e fondatori di monasteri con regola piú rigorosa di quella originaria. Quella della Ferrara fu l’unica abbazia cistercense europea che, in deroga alle norme dell’Ordine, dedicò tutte le sue dipendenze allo Spirito Santo e non alla Vergine Maria ed ebbe anche vasti possessi in Isernia. Questi furono forse amministrati dal padre di Celesti-
i suoi feudi. I Cistercensi gli eressero una tomba monumentale e un affresco ci racconta il suo funerale: il catafalco col corpo del feudatario fattosi monaco in contemplazione della morte, come già aveva fatto Federico II di cui era stato falconiere, è vegliato da monaci bianchi che reggono rossi ceri. Ai margini assistono monaci con abito bianco e cocolla nera, cioè Celestini, tra i quali è un vegliardo canuto ed esile, che la comparazione con le uniche raffigurazioni realistiche del Papa Angelico dovute allo Stefaneschi ci consente di identificare con l’antico novizio della Ferrara: papa Celestino V.
no ed è provato che in questa città vivevano i suoi fratelli e nipoti. Si spiegherebbe in tal modo la cittadinanza, si badi non la nascita, isernina attribuita al papa da piú fonti. L’abbazia della Ferrara, come tutte quelle cistercensi, accoglieva tra i monaci i nobili e tra i conversi le persone di umile origine. Nobili e conversi vivevano assieme, ma non si confondevano: pregavano in cori diversi, dormivano in ambienti separati, e solo i conversi svolgevano lavori manuali. Celestino, che fu monaco e sacerdote, era dunque nobile. Del resto, il padre di Pietro apparteneva a una consorteria, visto che si chiamava Angelerio de Angeleris, e anche la madre, Maria de Leone, era nobile e ricca poiché, rimasta vedova con dieci figli, poté avviarne due alla vita religiosa. Tra l’altro, rifiutò l’adozione di Pietro offerta da un ricco signore, dunque un nobile o un alto borghese, probabilmente un congiunto: se davvero fosse stata una povera contadina (vedova, madre di dieci figli), difficilmente avrebbe potuto respingere una simile opportunità. Inoltre, non sarebbe stata dotata di cognome, che a quel tempo usava solo nei ceti piú elevati, né di stemma, e invece con ogni probabilità lo stemma papale di Celestino V, un leone rampante, era appunto lo stemma «parlante» dei Leone o de Leone che furono nobili in Alife e Venafro. Pietro di Angelerio degli Angeleri fu dunque nobile e monaco cistercense dell’abbazia di S. Maria della Ferrara e da questa, a un tempo suo monastero e sua patria d’origine per la vicinanza col Castrum Sancti Angeli, egli, giovane Cer-
In basso lo stemma «parlante» della famiglia materna di Celestino V, Leone o de Leone.
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Celestino V
ANTIPAPI: LA DINASTIA DEI RIBELLI Chi è il vero pontefice? Nel Medioevo monarchi, alti prelati, nobili e anche la gente comune si chiesero talvolta quale fosse davvero il titolare del soglio di Pietro tra coloro che si proclamavano tali. Succedeva infatti spesso che, dopo la regolare elezione di un papa, ne venisse nominato «abusivamente» un altro, dalle vedute politiche opposte e appoggiato da influenti gruppi di potere, da regnanti e anche da ecclesiastici scismatici. Non sempre, però, la sconfessione da parte della Chiesa cattolica ufficiale giungeva in tempi ragionevoli, in modo da evitare pericolose confusioni e sovrapposizione di ruoli. Il primo antipapa della storia fu Ippolito, teologo e scrittore romano che nel III secolo si fece eleggere pontefice dai suoi sostenitori, nonostante ufficialmente fosse già stato nominato Callisto. In seguito, malgrado il suo essere un irregolare, venne proclamato santo,
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perché morí comunque come martire, dopo la rinuncia al pontificato. Ma fu con l’esplodere della questione sulle investiture che il problema degli antipapi si manifestò in tutta la sua gravità: erano soprattutto i sostenitori del partito imperiale a investirli nella speranza di poter delegittimare i titolari del trono di Pietro o anche solo di spaventarli. Nella categoria degli usurpatori del ruolo di pontefice rientravano anche gli eletti in seguito a simonia o a pressioni violente da parte della piazza e della nobiltà. L’ultimo antipapa ricevette l’investitura dal concilio di Basilea alla fine del Medioevo, nel 1440. Gli storici non sono concordi nell’indicare con precisione quanti furono realmente gli antipapi nella storia, considerando la difficoltà di ricostruire elezioni e documenti non ufficiali. Il numero comunuque oscilla tra i 25 e i 40.
● Ippolito
● Teodorico
● Novaziano
(217-225) Santo (251) ● Felice II (355-365) ● Ursino (366-367) ● Eulalio (418-419) ● Lorenzo (501-505) ● Dioscoro (530) ● Teodoro (687) ● Pasquale (687) ● Costantino II (767-769) ● F ilippo (768) ● Giovanni VIII (844) ● Anastasio il Bibliotecario (855) ● Cristoforo (903-904) ● Bonifacio VII (974, 984-985) ● Giovanni XVI (997-998) ● Gregorio (1012) ● Benedetto X (1058-1059) ● Onorio II (1061-1072) ● Clemente III (1084-1100)
● Alberto
(1100-1102) (1102) ● Silvestro IV (1105-1111) ● Gregorio VIII (1118-1121) ● Celestino II (1124) ● Anacleto II (1130-1138) ● V ittore IV (1138) ● V ittore V (1159-1164) ● Pasquale III (1164-1168) ● Callisto III (1168-1179) ● Innocenzo III (1179-1180) ● Niccolò V (1328-1330) ● Clemente VII (1378-1394) ● Benedetto XIII (1394-1423) ● Alessandro V (1409-1410) ● Giovanni XXIII (1410-1415) ● Felice V (1439 - 1449) Nella pagina accanto l’antipapa
Innocenzo III, in una miniatura del XII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.
Sulle due pagine l’incoronazione dell’antipapa, miniatura da un manoscritto latino del XII sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. tosino, partí, non senza dubbi e timori, per recarsi in Abruzzo a compiere il suo primo esperimento di vita eremitica, in una grotta. E nella Ferrara tornò l’ultima volta, nel 1291, per il funerale di Malgerio Sorel, il magnate, forse suo antico compagno di studi, che fu signore di Torcino e Sant’Agata e che in vecchiaia dismise le pompe del secolo, si fece Cistercense e lasciò in eredità alla Ferrara i suoi feudi. I Cistercensi gli eressero una tomba monumentale e un affresco ci racconta il suo funerale: il catafalco col corpo del feudatario fattosi monaco in contemplazione della morte, come già aveva fatto Federico II di cui era stato falconiere, è vegliato da monaci bianchi che reggono rossi ceri. Ai margini assistono monaci con abito bianco e cocolla nera, cioè Celestini, tra i quali è un vegliardo canuto ed esile, che la comparazione con le uniche raffigurazioni realistiche del Papa Angelico dovute allo Stefaneschi ci consente di identificare con l’antico novizio della Ferrara: papa Celestino V. PAPI DEL MEDIOEVO
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BONIFACIO VIII
Sono io l’imperatore Verso la fine del XIII secolo la teocrazia medievale assume, dal punto di vista dottrinale, la forma piú estrema: a teorizzarla, con la bolla Unam Sanctam, è Bonifacio VIII, un papa dalla personalità energica e dall’indole crudele che professa nei riguardi di se stesso un culto della personalità cosí radicale da rasentare l’idolatria
Statua di Bonifacio VIII, eseguita da Arnolfo di Cambio per la facciata della cattedrale di Firenze. 1298 circa. Firenze, Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. 90
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di Agostino Paravicini Bagliani
U
n potente senza peli sulla lingua. Molti episodi prodotti quali prove d’accusa al processo post mortem intentato contro papa Caetani lo mostrano brusco, arrogante e sarcastico. Ma tanta violenza verbale non va attribuita solo a un brutto carattere; Bonifacio VIII è stato il papa piú denigrato del Medioevo. Contro di lui sono state lanciate le accuse piú inverosimili anche molti anni dopo la sua morte. Esse riguardano tutti i periodi della sua vita, le circostanze della sua elezione, la questione della sua legittimità: il papa è denunziato come «falso pastore» e «ladro», colpevole di aver indotto con l’inganno il suo predecessore a dare le dimissioni. Bonifacio VIII è accusato di non credere all’Eucarestia, di violare il segreto della Confessione, di non rispettare il digiuno e l’astinenza, di sollecitare con ogni mezzo la venerazione della propria persona, di adorare gli idoli, di possedere un demone privato, di essersi dato a pratiche magiche, come fumigazioni, invocazioni e consultazioni di demoni. Vi figurano tutti i vizi: l’orgoglio, l’ira, il fatto di essere attaccatissimo alla vita terrena, di non essersi curato minimamente dell’opinione altrui, di aver seminato la divisione tra fratelli per meglio appropriarsi dei loro beni, di aver accumulato denari spogliandone i poveri.
Nel 1311 lo stesso pontefice vuole invece chiudere il processo. Tutte le testimonianze nate in quella occasione servivano uno scopo preciso, dimostrare la buona fede e lo zelo di Filippo il Bello. Tutti coloro che vogliono tentare di capire Bonifacio VIII devono per forza di cose confrontarsi con questi documenti accusatori, anche se la loro stragrande maggioranza contiene affermazioni stereotipe e non credibili. Essi sono indispensabili per ricostruire l’operato del pontefice, tanto è vero che provengono da coloro – i cardinali Colonna, i legisti del re di Francia – con i quali papa Caetani si scontrò in conflitti che perturbarono piú della metà del suo pontificato, dal giorno in cui Stefano Colonna rubò il suo tesoro nei pressi della tomba di Cecilia Metella (3 maggio 1297) fino alla sua morte, sopravvenuta soltanto tre settimane dopo l’attentato di Anagni, durante il quale Bonifacio VIII fu fatto prigioniero dagli sbirri di Sciarra Colonna e di Guglielmo Nogaret. Alcune di queste accuse illustrano però anche tratti fondamentali della personalità dell’ultimo papa del Duecento.
Sul banco degli imputati
Grazie alle stupende ricerche di Jean Coste (1926-1994), sappiamo che questa enorme massa accusatoria nasce e si sviluppa gradualmente, tra il 1297 e il 1311, e obbedisce a finalità precise. Nel 1297 i cardinali Giacomo e Pietro Colonna si concentrano sulla non validità della sua elezione. A Parigi, all’assemblea del Louvre (14 giugno 1303), il legista del re Filippo il Bello, Guglielmo di Plaisians, sposta l’accusa sul terreno dell’eresia. Tre anni dopo la morte di Bonifacio VIII, nel 1306, Pietro Colonna commenta le accuse del Plaisians, aggiungendo affermazioni e dialoghi attribuiti al papa, nonché episodi che il cardinale asserisce di aver appreso da persone che lo avevano frequentato assiduamente. Nel 1308, svolta decisiva. Papa Clemente V accetta il principio di un processo; poi, durante l’estate del 1310, ordina che si prenda in considerazione la sola accusa di eresia.
Nome
Benedetto Caetani
Nascita
Anagni, 1235 circa
Pontificato 1294-1303
Morte
Roma, 11 ottobre 1303
Sepoltura
Grotte Vaticane
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Bonifacio VIII A sinistra miniatura raffigurante l’incoronazione di Bonifacio VIII, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto, in alto il verso di un sigillo di Clemente V, sotto il cui pontificato Bonifacio VIII fu processato. Città del Vaticano, Archivio Segreto.
LE DATE DI BONIFACIO VIII 1 230 circa Nascita di Benedetto Caetani ad Anagni. ●1 250 Canonicato di Anagni (?). ●1 252-60 Studi di diritto a Todi e a Spoleto. ●1 260 Canonicato di Todi. ●1 260-64 Studi all’Università di Bologna. ●1 264, 7 marzo Cappellano di Urbano IV. ●1 265-67 Membro della legazione francese del cardinale Simon de Brie. ●1 267 Membro della legazione inglese del cardinale Ottobono Fieschi. ●1 276 Notario papale. ●1 281, 12 aprile Cardinale diacono di S. Nicola in Carcere Tulliano. ●1 290-91 Cardinale legato in Francia. ●1 291, 22 settembre Cardinale prete di S. Martino ai Monti. ●1 294, 24 dicembre Elezione a pontefice con il nome di Bonifacio VIII (Napoli, Castelnuovo). ●1 297, 3-4 maggio Inizio del conflitto con i Colonna. ●1 297, 11 agosto Canonizzazione di san Luigi re di Francia. ●1 297, 14 dicembre Crociata contro i Colonna. ●1 298, 3 marzo Promulgazione del Liber sextus. ●1 299, maggio-giugno Distruzione di Palestrina. ●1 300, 22 febbraio Promulgazione del Giubileo (S. Pietro in Vaticano). ●1 302, 18 novembre Bolla Unam Sanctam. ●1 303, 12 marzo Assemblea del Louvre (Guglielmo di Nogaret denuncia Bonifacio VIII come eretico). ●1 303, 14 giugno Nuove accuse da Parigi (Guglielmo di Plaisians). ●1 303, 7 settembre «Attentato di Anagni» a opera di Sciarra Colonna e Guglielmo di Nogaret. ●1 303, 8-9 settembre Bonifacio VIII prigioniero. ●1 303, 11-12 ottobre Morte di Bonifacio in Vaticano. ●
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Perché, al di là della loro natura stereotipa, e dunque senza alcun valore di veridicità, si riscontrano elementi di verità, che, se vagliati correttamente e posti a confronto con le altre fonti disponibili, rivelano informazioni preziose sul carattere, i comportamenti, i gesti del pontefice, la sua propensione a utilizzare ogni strumento per affermare la sua legittima funzione di papa, e cosí via.
Tutto, fuorché un Francese
Facciamo un primo esempio. Molte accuse descrivono il linguaggio di Bonifacio VIII come sprezzante, sarcastico, insultante. Al Louvre, nel giugno 1303, Plaisians l’accuserà di non arrossire quando affermava «che egli avrebbe voluto essere un cane, un asino o non importa qual altro animale piuttosto che essere Francese; perché egli non credeva che un Francese potesse avere un’anima che potesse meritare la beatitudine eterna». Non si è obbligati di tenere per certa l’accusa. Ma ciò che conta è che il carattere rissoso e sarcastico di Bonifacio VIII affiora in ben altre fonti, tutte indipendenti da quelle delle accuse. È dunque un tratto del suo carattere che va preso sul serio. Qualche anno piú tardi, nel 1290, il Caetani fu inviato cardinale legato in Francia, insieme al suo collega Gerardo Bianchi. Essi dovevano tra l’altro confermare la bolla di Martino IV (Ad fructus uberes, 13 dicembre 1281) che aveva riconosciuto agli Ordini Mendicanti il diritto di confessare e di predicare, pur sapendo di dover vincere le fortissime resistenze dei vescovi e dei maestri dell’Università, ostili ai Mendicanti. Il
29 novembre, i legati li convocarono a un’assemblea, a proposito della quale possediamo un resoconto pittoresco. Punto sul vivo da una riflessione del vescovo di Amiens, il cardinale impose silenzio all’assemblea e poi, con sarcasmo, si lasciò andare a un ironico complimento nei confronti del vescovo, che aveva osato affrontarlo cosí apertamente, quindi aggredí frontalmente i maestri dell’Università: «Tengano essi anzi per sicuro che la curia romana non ha piedi di piuma, ma di piombo. Questi maestri credevano che noi li considerassimo dei sapienti: essi sono al contrario piú idioti degli idioti, dato che essi hanno sporcato se stessi e il mondo intero con la loro dottrina pestifera». A Parigi, Caetani si comporta come qualcuno che non teme di farsi dei nemici. Il suo è il discorso di un cardinale che si sente pienamente partecipe delle decisioni del papa ed è persino il discorso di un futuro papa: «Il mondo è stato affidato alla nostra cura».
Autoritario e senza remore
Analogo fu il suo comportamento proprio all’inizio del suo pontificato. Subito dopo l’elezione, egli avrebbe infatti tolto al cardinale vescovo di Ostia (il domenicano Ugo Aycelin) il diritto di usare il pallio. Ora, l’Aycelin era il prelato di rango piú elevato, colui che qualche settimana dopo avrebbe dovuto consacrarlo papa! Il gesto, risoluto e repentino, rispecchiava il desiderio del Caetani di imporre, com’era sua abitudine, la propria autorità, senza la benché minima paura di suscitare reazioni o di farsi dei nemici. Bonifacio VIII aveva, non vi è dubbio, modi bruschi e violenti. Gli Annales di Genova raccontano che il francescano Porchetto Spinola, venuto a Roma per avere la conferma papale della sua elezione ad arcivescovo di Genova, si presentò
dinanzi al pontefice il primo giorno di Quaresima (1299), per ricevere da lui le ceneri. Il papa, tenendo per fermo che Porchetto avesse dato ospitalità ai deposti cardinali Colonna, non gli avrebbe posto le ceneri sulla testa, come voleva il rito, ma gliele avrebbe lanciate negli occhi, giustificando il suo gesto con una parodia delle rituali parole: «Ricordati che tu sei ghibellino, e che coi ghibellini tu ritornerai cenere». Un giorno – probabilmente nel mese di febbraio del 1302 – ricevendo gli ambasciatori del re di Germania, Alberto, venuti per di-
BENEDETTO O MALEDETTO? Benedetto scelse il nome di un papa del VII secolo (Bonifacio IV), che aveva chiesto all’imperatore Foca il permesso di poter trasformare il Pantheon in chiesa cristiana. La sua tomba si trovava nella Basilica Vaticana in un posto molto accessibile e visitato. Ed è proprio in questo stesso luogo che Bonifacio VIII fece edificare la sua cappella funeraria, ordinando di trasferire l’antico sepolcro di Bonifacio IV sotto il portico della basilica, trattenendo però alcune ossa dell’illustre predecessore per deporle entro l’altare del proprio mausoleo. I contemporanei accostarono i nomi di Benedictus (colui che «dice bene»), e di Bonifacius (colui che «fa bene») per tessere l’elogio del nuovo papa. Il poeta Bonaiuto da Casentino si serví di questo paragone nei suoi versi: «Di nome egli si chiamava Benedictus, ora egli è di fatto un “Benefattore”». Ma altri capovolsero il senso di questi due nomi. Benedictus diventava Maledictus e Bonifacio, Malefacius. Si creava cosí un gioco di parole accusatorio, di cui troviamo l’eco in un cronista, Pipino: «I tuoi nomi significano “fai bene” e “dici bene”, o Benedetto, ma se li inverti, i tuoi nomi significheranno allora, o maledetto: “fai male” e “dici male”».
A sinistra la cosiddetta «sala dello schiaffo» nel palazzo di Bonifacio ad Anagni. Il palazzo, già della famiglia Conti e acquistato dai Caetani nel 1295, ospita oggi un piccolo museo e il Centro di Anagni dell’Istituto di Storia e di Arte del Lazio Meridionale.
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Bonifacio VIII
scutere sulla candidatura del loro re al trono imperiale, il papa vide il sottopriore dei Domenicani di Strasburgo inginocchiarsi dinanzi a lui per baciargli il piede e lo apostrofò con queste parole: «Oilà, girovago! Sei tu quello che vuole conoscere i segreti dei grandi principi?». Poi col suo piede colpí tanto forte il volto del povero frate, da farlo sanguinare. Non sempre il sarcasmo era dovuto a impulsività. Il Caetani pensava che la violenza verbale fosse uno strumento utile a far pressione sugli interlocutori. Lo afferma esplicitamente Bérenger de Pavo, procuratore aragonese alla corte pontificia. Egli racconta infatti che un giorno (13 settembre 1299) Bonifacio VIII «uscí in parole dure e taglienti» contro il re d’Aragona, «credendo forse farvi paura e indurvi a fermarvi». Le persone che circondavano il papa erano talmente abituate ai suoi modi che presero nota con sorpresa del fatto che «il pontefice avesse ascoltato con pazienza» e senza proferire nemmeno «una parola caustica» Carlo II d’Angiò (ad Anagni il 14 settembre 1301) «portare alle stelle» la sorella del re di Aragona; un avvenimento di cui il procuratore aragonese informò subito il suo re.
Sulla strada di Roma
Molte delle accuse secondo cui Benedetto Caetani avrebbe proferito eresie in modo audace e perentorio nascondono di fatto un qualcosa di molto interessante per l’analisi della sua personalità, ossia il suo piacere a organizzare dispute intellettuali nelle proprie dimore o presso quelle di suoi amici. Il monaco Giacomo da Palombara affermerà al processo di avere incontrato Benedetto a Santa Balbina, una località situata sulla strada che conduce da Rieti a Roma, nel maggio del 1288 o del 1289. Giacomo avrebbe sorpreso i familiari del cardinale nel corso di una disputa su argomenti teologici; a quelli tra essi che esprimevano il desiderio di andare in Paradiso, il cardinale avrebbe risposto: «Sciocchi, sciocchi, ma di che Paradiso parlate? Credete voi che ci sia un Paradiso, credete che gli uomini risusciteranno dopo la morte? Non lo crediate! Non c’è Paradiso e non c’è risurrezione, perché, quando si muore, anche l’anima muore col corpo». Le accuse sono generiche e riportate sotto forma di dialogo (come in tutte le testimonianze degli anni 1310-11, il che le rende molto sospette). Ma la passione per la disputa intellettuale è elemento che si può accettare, perché attestato in ben altre occasioni. Cosí, 94
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In questa pagina statua di Bonifacio VIII, opera dell’orafo senese Manno Bandini. XIV sec. Bologna, Museo Civico Medievale.
Sulle due pagine miniatura raffigurante papa Bonifacio VIII che presiede un concistoro, dalla trascrizione di un Decretale (costituzione pontificia, redatta in forma di lettera, contenente norme giuridiche) dello stesso Bonifacio VIII. XIV sec. Londra, British Library.
IL FURTO DEL TESORO Venerdí 3 maggio 1297, Stefano Colonna detto «il Vecchio» si impadroní di un «tesoro» che Pietro II Caetani, nipote del papa, stava facendo condurre da Anagni a Roma. L’imboscata ebbe luogo sulla via Appia, ad alcune miglia dall’Urbe, probabilmente all’altezza della tomba di Cecilia Metella. L’autore del furto era il fratello del cardinale Pietro e il nipote del cardinale Giacomo. Il Colonna con bestie da soma e cavalli fece portare al sicuro il prezioso carico a Palestrina, il centro dei possedimenti territoriali della sua famiglia; doveva trattarsi di un tesoro immenso, accumulato da Bonifacio VIII quando era ancora cardinale, se si deve credere a ciò che il papa affermerà alcuni giorni piú tardi. Vero è che per impadronirsi dei possedimenti degli Annibaldi, a Sermoneta, Bassiano, San Donato e Ninfa, i Caetani versarono agli antichi proprietari piú di 160 000 fiorini, cioè una somma prossima all’importo del tesoro rubato. I Colonna dichiareranno piú tardi che alcuni signori erano stati «gettati in catene in una durissima prigione, dove veniva negato loro persino il pane e l’acqua».
secondo altre testimonianze al processo, il 3 novembre 1294, a Napoli, durante il pontificato di Celestino V, il cardinal Caetani avrebbe sostenuto delle tesi eretiche nella casa del nobile cavaliere Marino Siginulfi, dove risiedeva: Benedetto avrebbe approfittato di una discussione con un chierico sui rispettivi meriti delle leggi del Cristo e di Maometto per mettere in luce gli errori contenuti in queste due; alla disputa sarebbero state presenti non meno di trentadue persone.
Il piacere di stupire
Questa «disputa napoletana» ha probabilmente avuto luogo veramente e ci si può immaginare che Caetani abbia allora proferito, e persino con una certa violenza verbale, come del resto in altre occasioni, affermazioni che travalicavano i ragionevoli limiti della prudenza, prossime al paradosso, per il piacere di stupire. Ma circa il loro contenuto, si deve essere piú che prudenti. La data della disputa di Napoli cade nel periodo in cui già si sapeva del desiderio di Celestino di dimettersi da pontefice, ed è quindi impossibile pensare che il Caetani, probabile candidato alla sua successione, abbia commesso l’errore di negare pubblicamente e perentoriamente i principali dogmi della religione cristiana! Lo stesso dicasi per la testimonianza di Nicola
di Berardo da Sulmona, il quale al processo si ricorderà che, poco tempo prima delle dimissioni di Celestino V, «maestro Giovanni di Tocco, medico» gli aveva fatto notare che, mentre celebrava Messa, il cardinal Caetani, all’elevazione, «non guardava l’Eucarestia», ma volgeva la testa da un’altra parte. Durante la Messa, alcuni membri del seguito del cardinale avevano cominciato a discutere su «chi rispettasse meglio la propria legge, i cristiani o i saraceni». Dopo la
Qui sopra una veduta di Palestrina, che Bonifacio VIII fece radere al suolo nel 1299 nel quadro delle lotte contro i Colonna, di cui la cittadina era la roccaforte.
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Bonifacio VIII
Busto di Bonifacio VIII, eseguito da Arnolfo di Cambio per il sacello del pontefice (1300 circa), smembrato nel XVII sec. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.
cerimonia il cardinale li avrebbe quindi invitati a salire nell’«aula» del suo palazzo per continuare la conversazione. Come pensare che il Caetani si comportasse in modo tanto imprudente in un momento cosí delicato? E come credere ad accuse cosí stereotipate? Non vi è però motivo di dubitare che il grande medico di Carlo II d’Angiò abbia frequentato la dimora del cardinal Caetani. Sempre secondo un suo accusatore, nel 1293, egli avrebbe ricevuto un medico di Parigi nel suo castello di Sismano e avrebbe ingaggiato con lui una «disputa». Il che permette veramente di pensare che il Caetani intrattenesse con i medici rapporti intellettuali di grande intensità.
Il male della pietra
Non ci sorprenderà allora di apprendere che egli fosse interessato a traduzioni di grandi opere mediche. Giovanni di Capua, un ebreo convertito, tradusse la Dietetica di Maimonide, su richiesta del medico pontificio Guglielmo da Brescia. Nella sua dedica, Giovanni prega il papa di ordinare che la sua opera sia depositata «negli archivi papali con gli altri libri di medicina»: veramente un bell’elogio per l’interesse che Bonifacio VIII nutriva per l’argomento. Un altro medico del papa, Accursino da Pistoia, tradusse a Roma, nel 1295, dall’arabo in latino, un trattato di Galeno sulle virtú degli alimenti. Gli interessi di Bonifacio VIII per la medicina 96
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L’ANELLO DEL DIAVOLO Il cardinale Pietro Colonna, acerrimo nemico di Bonifacio VIII, lo accusò di aver portato nel giorno della sua incoronazione (23 gennaio 1295) un anello, nel quale era imprigionato un diavolo, di aver avuto l’abitudine di evocare i demoni e di fare fumigazioni per ottenere oracoli da loro. Lo si sarebbe persino sentito spesso conversare coi demoni, i quali parlavano con la voce sottile di un bambino o con quella, cavernosa e rauca, di un vegliardo. Nel XIII secolo era diffusa la credenza che fosse possibile «rinchiudere» uno spirito in un anello mediante certi riti. Non si può escludere che Bonifacio VIII, nel giorno della sua presa di possesso del Laterano, abbia indossato un monile che fece scalpore. Forse si trattava di un anello ornato da una pietra talismanica ove figurava il simbolo di un pianeta, rappresentato sotto la forma di un dio greco-romano con tratti teriomorfi. Il pontefice stesso possedeva nella sua biblioteca due trattati di magia tra i piú importanti dell’epoca, l’Ars nova e l’Ars notoria. Poco dopo la sua morte, nel 1304, il cardinal Francesco Orsini aveva ordinato nel suo testamento che venissero bruciati e distrutti «tutti i libri di alchimia, d’astrologia o d’altre materie simili (di sua proprietà)».
sono da mettere in stretta relazione con la sua salute molto cagionevole, dovuta in particolare al «male della pietra» – ovvero i calcoli ai reni –, che lo fece soffrire per anni. Per nessun altro papa del Medioevo possediamo cosí tante notizie sulla sua salute. Per ogni anno del suo pontificato vi è sempre almeno una fonte che ci parla di sue infermità; e a parecchie riprese lo si vede soffrire anche di lunghe e gravi crisi morbose (1296, 1297, 1298, 1299, 1301). Solamente due volte (novembre 1300 e marzo 1302) si dice che egli gode di buona salute, ma appunto come se si trattasse di una circostanza non abituale. Egli stesso ha del resto parlato sovente del suo stato fisico. Nell’aprile del 1296, afferma che il male di cui soffre è «doloroso e pericoloso». Il 29 dicembre 1298 si confida col re di Francia: la malattia di cui ha sofferto «è stata lunga e grave» e del resto non si è ancora pienamente rimesso; egli «risente ormai del peso della vecchiaia». Il 14 novembre 1299, si riferisce alla sua malattia scrivendo al re d’Inghilterra in terza persona: «Una lunga infermità accompagnata da continua debolezza lo prostrò e lo oppresse». Bonifacio VIII ebbe al suo servizio ben sette medici, piú di ogni altro papa del Duecento. Il piú famoso fu il catalano
Nella pagina accanto, in basso Roma, basilica di S. Giovanni in Laterano, Cappella del Crocifisso. Figura di pontefice inginocciato identificato con Bonifacio IX o Bonifacio VIII.
Arnaldo di Villanova, che non era venuto a Roma per esercitare la sua professione ma per difendersi dalle accuse di eresia che i Domenicani di Parigi avevano lanciato contro di lui. Bonifacio VIII volle però trattenerlo presso di sé, a causa del suo prestigio di grande medico. Il Catalano sembra essere riuscito ad attenuare i dolori del pontefice, curandolo con un talismano.
Anfore avvolte da tappeti
Per alleviare le sofferenze, Bonifacio VIII era solito bere acqua di Fiuggi, che ogni settimana due corrieri erano incaricati di trasportare a Roma o ad Anagni, città natale del pontefice, distante da Fiuggi appena dieci chilometri. Per mantenere l’acqua piú fresca possibile, le anfore erano avvolte in rozzi tappeti o in tessuti di lana. Forse proprio a causa del suo stato di salute il papa passò tutte le estati, tranne una, ad Anagni. Da lí, il 13 settembre 1299 il procuratore del re d’Aragona scrisse che il papa aveva lasciato Roma per recarsi «nei suoi castelli», «per la salute del suo corpo». Dei nove anni di pontificato, Bonifacio ne
trascorse piú di tre nella sua città natale: persino nell’anno del Giubileo soggiornò sei mesi ad Anagni e la causa va probabilmente ricercata nel suo stato di salute, cosí precario già negli ultimi mesi del 1299. Ma vi è di piú. Il 14 settembre, l’ambasciatore d’Aragona scriveva al suo re: «Il papa non si occupa che di tre cose, alle quali dedica totalmente la sua attenzione, cioè: trovare il modo di poter vivere a lungo, accumulare denaro e infine arricchire e far potenti i suoi». Il giudizio, severo, fa in qualche modo pensare a un’accusa del cardinale Pietro Colonna (1306), secondo il quale il Caetani avrebbe spesso ripetuto che invece del saluto «Che Dio ti dia la vita eterna» rivoltogli dalle «devote donne di Roma» egli avrebbe preferito che esse gli dicessero: «Che Dio ti dia una buona e lunga vita». Il fatto è che anche Iacopone da Todi accusò Bonifacio VIII di avere pensato di prolungare la vita, e di averlo fatto «per augurio»: «Pensavi per augurio la vita perlongare / anno, dí né ora omo non pò sperare; / vedem per lo peccato la vita stermenare, / la morte appropinquar quann’om pensa gaudere»!
Miniatura raffigurante Bonifacio VIII che riceve un manoscritto contenente le leggi. XIII sec. Vicenza, Biblioteca Civica Bertoliana.
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Bonifacio VIII
LE LEGGI DELLA PERFEZIONE Bonifacio VIII ha promulgato una delle piú importanti collezioni di decretali del Medioevo, il Liber sextus. Una sola altra opera circolava allora in Occidente con un titolo simile, il Liber sextus naturalium o De anima di Avicenna, corrispondente al Liber sextus della Fisica avicenniana. Questo punto di contatto tra il papa e il grande filosofo e medico arabo Avicenna non sembra casuale: il Caetani aveva scelto il numero sei, perché numero perfetto (il 6 è infatti la somma dei suoi divisori: 1, 2, 3). Ciò confermava l’idea secondo la quale la legislazione pontificia, raccolta nel Liber extra e nel Liber sextus, era adatta a creare una «forma perfetta nelle azioni». Orbene queste concezioni si ritrovano in Avicenna, che nella prima parte della sua Metafisica aveva affermato che «tutte le scienze tendono verso una sola utilità: l’acquisizione della perfezione dell’anima umana». Secondo Avicenna, «il principio della perfezione si trova nel numero» e solamente due numeri sono perfetti: il dieci e il sei. E un profeta deve essere guida agli uomini nella ricerca della perfezione; per questa ragione egli deve dare a essi un codice e una legislazione. Anche questa è un’idea che ha potuto influenzare Bonifacio VIII, grande legislatore.
In alto illustrazione da un trattato alchemico del XVII sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal. In basso il medico catalano Arnaldo di Villanova, ritratto in una miniatura del XV sec.
La parola «augurio» è interessante perché significa «pratiche magiche», il che deve essere messo in relazione con l’impiego di elisir di cui ci parla, per esempio, il De vita philosophorum, un’opera che viene generalmente attribuita ad Arnaldo di Villanova.
Il maggiore e miglior segreto
L’autore, dopo aver fatto l’elogio dell’oro potabile quale medicina utile per la guarigione della lebbra, dei calcoli alla vescica, nonché per la rigenerazione e il ringiovanimento dell’organismo e la salvaguardia della memoria, prende a testimone due personaggi: il primo, un «signor Ugo», avrebbe giurato che l’oro potabile «è il piú grande segreto nelle medicine naturali»; il secondo, il «signor cardinale di Toledo», «avrebbe ingur-
gitato oro potabile durante i pranzi, insieme ai colleghi cardinali, durante l’intero cardinalato. Essi consideravano l’oro come il maggiore e migliore segreto a loro conoscenza e in loro possesso». Va detto, inoltre, che, secondo un’antica tradizione, Arnaldo avrebbe esercitato un’attività di alchimista alla corte pontificia. Chi lo afferma è un grande giurista, Giovanni d’Andrea: «Ai nostri giorni, noi abbiamo [la testimonianza di] maestro Arnaldo di Villanova, grandissimo medico e teologo (…). Egli fu anche un grande alchimista, che lasciava che si sottoponesse l’oro che produceva a qualsiasi controllo». Nessun documento relativo a esperienze alchemiche di Arnaldo è pervenuto sino a noi, ma parecchi trattati d’alchimia, di cui alcuni attribuiti al maestro, menzionano il nome di Bonifacio VIII.
UNA CURA MIRACOLOSA Il grande medico catalano Arnaldo di Villanova sarebbe riuscito con un talismano a curare Bonifacio VIII da dolori antichi, che lo perseguitavano da anni: i calcoli ai reni. L’ambasciatore aragonese presente in curia racconta che nel mese di luglio di quello stesso anno, «quando il sole si trova nel segno del Leone», Arnaldo fece portare a Bonifacio VIII un sigillo d’oro per curarlo del male della pietra. I cardinali espressero ad alta voce la loro sorpresa nel vedere un medico proporre tali rimedi a un papa. Il pontefice era però al settimo cielo.
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Egli avrebbe infatti detto a Carlo II d’Angiò: «Ho incontrato un Catalano che fa miracoli; egli mi ha fabbricato dei sigilli d’oro e una cintura che porto su di me, e che mi preservano dal dolore della pietra e da numerosi altri dolori; egli mi ha rimesso al mondo». Per un medico come Arnaldo, i sigilli astrologici erano strumenti che integravano la medicina ordinaria e agivano sui corpi «con le loro proprietà». Ma la reazione dei cardinali prova che una confusione tra la magia e la lecita medicina astrologica era allora possibile.
Le Questioni tanto essenziali che sostanziali contengono un dialogo tra un alchimista, che si dice essere Arnaldo di Villanova, e il papa. Un certo Alemanus di Boemia avrebbe scritto un trattato sulla pietra filosofale per Bonifacio VIII. Non si tratta di informazioni da prendere alla lettera, ma sono in un modo o nell’altro il riflesso di un particolare momento nella storia dell’alchimia occidentale, ossia l’emergere di un’alchimia a uso medicinale, che si servirà sempre di piú esclusivamente dell’oro ai fini del prolungamento della vita. Un’evoluzione che troviamo testimoniata in maniera precisa per la prima volta proprio nei circoli romani attorno all’anno 1300.
Il culto dell’immagine
Abbiamo visto che al Louvre, il 14 giugno 1303, il Plaisians lanciò contro Bonifacio VIII una nuova accusa, di eresia. E per sostenere una novità cosí importante, dovette ricercare prove un po’ dovunque. Egli affermò tra l’altro che il Caetani si sarebbe reso colpevole di idolatria: «Per rendere perpetua la sua dannatissima memoria», egli «fece erigere in alcune chiese delle statue d’argento che lo rappresentavano, e cosí induceva gli uomini a idolatrar(lo)». Anche questa volta, l’imputazione non viene dal nulla. I cardinali legati Bianchi e Caetani avevano richiesto nel 1290 al vescovo e ai canonici di Reims di realizzare due statue che li rappresentassero con i loro paramenti, ordinando loro di porle sull’altare maggiore della cattedrale a ogni grande cerimonia. Bonifacio VIII darà dieci anni dopo (4 dicembre 1301) un ordine analogo al vescovo e ai canonici di Amiens. Le statue avrebbero dovuto essere due, una raffigurante il papa, l’altra la Madonna. Nel 1306, Pietro Colonna accuserà inoltre Bonifacio VIII di aver fatto porre statue che lo rappresentavano «entro o sopra le porte delle città, là dove, nell’antichità, si trovavano abitualmente gli idoli, come nel caso di Orvieto e in molti altri luoghi». L’argomento è tendenzioso, dato che solamente a Orvieto sono state poste statue del papa sopra le porte della città. Ma, dobbiamo ora chiederci, Bonifacio VIII fu veramente idolatra? Il fatto è che le statuette di Reims e di Amiens, quelle italiane e di Orvieto, avevano la ben precisa funzione di perpetuare la memoria della promulgazione di un atto sovrano, giudiziario o politico. Certo, la frontiera tra la produzione di memoria personale e il desiderio di rappresentare la supremazia giudiziaria e politica della funzione pontificia è molto fluida, tanto piú che molte
In alto l’interno della cattedrale di Notre-Dame, ad Amiens, dove papa Bonifacio VIII fece porre due statue, raffiguranti se stesso e la Vergine. A destra vignetta raffigurante un papa a cavallo con un falcone. XV sec. Modena, Biblioteca Estense Universitaria.
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Bonifacio VIII
LE STATUE CHE CAMBIARONO NOME Il 4 dicembre 1301, Bonifacio VIII ordina al vescovo e ai canonici di Amiens (4 dicembre 1301) di far realizzare due statue. La prima doveva immortalarlo nelle vesti di pontefice romano, la seconda avrebbe raffigurato la Madonna. Entrambe le statue dovevano essere poste sull’altare maggiore della cattedrale in tutte le grandi cerimonie liturgiche. L’ordine del papa fu eseguito; ma l’inventario del Tesoro della cattedrale del 1347 non dice che la statua era quella di Bonifacio VIII, ma di Gregorio Magno! La spiegazione sembra ovvia: i canonici hanno dato un altro nome di papa alla statua, perché la memoria di Bonifacio VIII era divenuta particolarmente ingombrante dopo la sua morte, soprattutto nel regno di Francia. Il che è probabilmente accaduto anche a Padova. Il 6 marzo 1303, il consiglio maggiore del Comune aveva deciso di far erigere nel chiostro dei Domenicani una statua in onore di Bonifacio VIII e di celebrare ogni anno l’anniversario di una sua sentenza a loro favore.
A destra un leopardo in un giardino, dal Taccuino di Giovannino de Grassi. XIV sec. Bergamo, Biblioteca Civica «Angelo Mei». In basso la Loggia delle Benedizioni del Laterano, in un disegno cinquecentesco di Marten van Heemskerck. Berlino, Kupferstichkabinett.
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statue di Bonifacio VIII avevano i tratti fisiognomici del papa, e operavano quindi una fusione – entro l’immagine – tra la persona fisica e la dignità pontificale mai vista prima di allora; ed è senza dubbio su questa ambiguità che Plaisians e Pietro Colonna hanno potuto costruire la loro accusa di idolatria, che come tale non sussiste. Piú in generale, queste accuse denotano un elemento fondamentale della personalità di Bonifacio VIII, ossia la sua straordinaria propensione a organizzare, sempre e dovunque ciò fosse stato possibile, una sua autorappresentazione, un’immagine di sé, da lasciare alla posterità. Basti pensare alla cappella funebre che si fece costruire nella Basilica Vaticana, un progetto
che egli affidò al piú grande scultore e architetto italiano del momento, Arnolfo di Cambio, e che fece realizzare con sorprendente rapidità. La consacrazione ebbe infatti luogo la domenica 6 maggio 1296, ossia poco meno di un anno e mezzo dopo la sua elezione a pontefice. Il papa aveva del resto deciso – anche questa era una grande novità – di trascorrere l’intero inverno nel palazzo papale presso la basilica, forse per sorvegliare i lavori. Sigfrido di Ballhausen, l’unico dei contemporanei che ci abbia tramandato una descrizione della cappella funeraria, sottolinea lo splendore dei marmi e dei trafori dorati e ci fa sapere che
IN VIAGGIO COL LEOPARDO I viaggi di un papa nel Medioevo erano ritmati da gesti rituali. Nel corso dei suoi regolari e frequenti trasferimenti da Roma ad Anagni, Bonifacio VIII si attenne alla tradizione, facendo dono di un drappo di seta a tutte le istituzioni religiose che visitava, che si trattasse di una cappella o di un monastero, di una piccola chiesa di campagna o di una cattedrale; cosí, tra maggio e ottobre del 1299, egli arrivò a donare ben tredici drappi a chiese e monasteri. Nel mese di maggio 1302, in viaggio verso Anagni, fece tappa nel convento francescano di Valmontone, al quale fece naturalmente il presente del solito drappo. In alcuni dei suoi spostamenti, Bonifacio VIII era accompagnato da un leopardo incatenato, dono, forse, del re d’Inghilterra. La Camera fece costruire una cassa che permetteva di «portare il leopardo». Essa spendeva spesso somme considerevoli anche per il mantenimento di altre bestie, tra cui alcuni caprioli.
essa era a forma di baldacchino sormontato da una cupola ottagonale sostenuta da quattro colonne; sopra l’altare di marmo addossato al centro della parete di fondo incombeva il sarcofago di Bonifacio VIII che, infossato nel muro e ampiamente rimaneggiato, occupava quasi completamente la parte inferiore della nicchia. La figura distesa del papa è rivestita con i ricchi paramenti della dignità pontificale.
Lo stupore dei contemporanei
Il poeta Bonaiuto da Casentino fu sorpreso dal fatto che il papa si fosse fatto costruire il proprio sepolcro: «Già tu hai la tua tomba / già tu puoi rimirare le [tue proprie] spoglie»! La tomba di marmo – questa è la parola precisa usata dal poeta – che egli si è fatta costruire, permette a lui, che «è il padre dei padri» e «arbitro vigile di tutta la Terra», di «trattenere il tempo». Il fatto che il volto del giacente fosse ostensibilmente il ritratto al naturale di una persona ancora vivente fece scandalo e sollevò perplessità tra i contemporanei. Una eco di questo stupore si ha in una lettera (perduta) di Fra’ Dolcino del 1303: il «malvagio» papa Bonifacio si era fatto erigere un «monumento» (funerario) «e
INTATTO DOPO TRECENTO ANNI L’11 ottobre 1605, il sepolcro di Bonifacio VIII fu aperto, alla presenza di Pietro III, duca di Sermoneta. La cerimonia ebbe luogo, presenti i canonici della Basilica Vaticana, esattamente 302 anni dopo la morte. Grande fu la sorpresa quando la bara fu aperta: il cadavere era infatti «intatto e non corrotto, e ancora rivestito degli abiti sacri». Solo una parte del naso e delle labbra era danneggiata. Il defunto portava all’anulare destro un anello d’oro con un grande zaffiro, e sulla testa la mitra di damasco bianco. Abbigliata con le vesti pontificali piú solenni, la salma misurava 7 palmi e 3/4, pari a 1,74 m, il che fa dedurre che Bonifacio VIII era di statura relativamente alta per la sua epoca. I medici osservarono anche che era calvo, ma aveva ancora tutti i denti, salvo due «sotto il labbro superiore». Non portava barba, «perché se la faceva radere». Le mani erano lunghe e belle e si poteva osservare il sistema dei nervi e delle vene.
La figura giacente di Bonifacio VIII scolpita sul suo sarcofago, ora custodito nelle Grotte Vaticane.
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Bonifacio VIII un’immagine di pietra cosí perfetta da sembrare viva!». Tutto ciò ci ricorda che, per rappresentare se stesso, Bonifacio VIII ha sviluppato una creatività e un’inventiva che non sembrano conoscere limiti. È il primo papa a essere raffigurato con un busto – che egli fece posare proprio nella sua cappella funebre –, chiaro indice del suo profondo desiderio di apparire in pubblico in una forma vicina a quella degli imperatori romani. Nessun papa prima di lui aveva fatto porre il suo busto in una chiesa e nessuno si era appropriato delle chiavi nelle autorappresentazioni. L’inventiva e la creatività del papa riescono particolarmente feconde proprio quando si mettono al servizio della sua autorità e della sua immagine. E questo spiega senza dubbio la sua preferenza per la statuaria, una forma artistica tridimensionale che meglio della pittura assicura la messa in scena di un’individualità, nel suo duplice aspetto, personale e istituzionale.
Una sorprendente coscienza di sé
Ma anche i gesti, talvolta audaci e inediti, di Bonifacio VIII danno prova di una sorprendente coscienza di sé. Nel 1302, il Giovedí Santo cadeva il 19 aprile. La vigilia, Bonifacio VIII si era recato nella basilica di S. Pietro, poi era rientrato in Laterano. Orbene, secondo una lettera che un ufficiale del re d’Aragona, Arnau Sabastida, indirizzò al suo padrone, il papa pronunziò quel giorno un sermone dinanzi a «tutti i cardinali, i vescovi, gli abati e gli uomini di religione che si trovavano a Roma». Dette poche parole, il papa si mise a chiedere chi egli fosse, e lo chiese per ben tre volte; nessuno gli rispose, sino all’ultimo quando un cardinale si alzò e gli disse che lui faceva le veci di Dio in Terra, che sedeva sul trono di san Pietro e che qualsi-
PROGETTI DI FAMIGLIA Proprio nel momento in cui il conflitto con Filippo il Bello si inasprisce, all’inizio del 1302, Bonifacio VIII lavora a grandi progetti politici a favore della propria famiglia. Il prete catalano Lorenzo Martini, che soggiornò in curia nei mesi di gennaio-marzo del 1302, annotò nel suo diario che «da quello che ci dicono i cardinali, da un giorno all’altro dovremo vederne delle belle». A proposito dei progetti del papa, si raccontava in pubblico «che egli voleva nominare [suo nipote, il marchese Pietro II] patrizio di Roma», cioè conferirgli la piú alta dignità in Italia dopo quella dell’imperatore; carica che, in assenza di un imperatore, gli avrebbe
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permesso di essere ipso facto vicario dell’impero. Altri dicevano che il papa avrebbe creato Pietro re di Toscana; altri ancora, re dei Romani. Si diceva persino che per l’occasione fossero già stati preparati la corona d’oro, le coppe d’argento e «molti altri pregevoli paramenti». Vero è che Bonifacio VIII cercò di ottenere da Alberto d’Asburgo, re dei Romani, che egli rinunciasse alle sue pretese di sovranità su Firenze, il che fa pensare che il papa avesse progettato di trasferire il dominio di Firenze e della Toscana nelle mani del nipote Pietro II Caetani, al quale sperava forse un giorno di poter dare anche una corona reale.
Nella pagina accanto uno scorcio del castello Caetani di Sermoneta, cittadina acquistata dalla famiglia del papa nel 1297.
asi cosa legasse in Terra per ciò stesso era legato anche in Cielo. La scena è di grande effetto: si ha l’impressione che il papa abbia fatto questa domanda come Cristo ai suoi Apostoli. La missiva continua affermando che poi il pontefice subito si ritirò, per cambiarsi d’abito e cingersi di una spada: «E fatto questo, uscí da questa sala e disse loro di attenderlo un momento. Entrò in una camera e qui indossò delle brache di presset rosso, delle scarpe dorate, degli speroni dorati e una veste di presset rosso. Poi prese una spada, uscí e chiese a tutti se essi credevano che egli fosse l’imperatore e tutti risposero di sí».
Capo coronato e spada nella destra
Anche a Rieti, nell’autunno del 1298, Bonifacio VIII, nel ricevere gli ambasciatori di Alberto d’Asburgo, avrebbe brandito una spada! Secondo il cronista Pipino, che ripete due volte il racconto nella sua Cronaca, il papa sarebbe stato seduto sul trono, tutto armato e cinto di spada. Avrebbe avuto sulla testa il «diadema di Costantino», cioè la tiara, e colla mano destra «avrebbe brandito la spada». Rivolgendosi agli ambasciatori, avrebbe proferito queste parole divenute celebri: «Non sono forse io il sovrano pontefice? Questo trono non è forse la cattedra di Pietro? Non sono forse io in grado di difendere i diritti dell’impero? Sono io Cesare, sono io l’imperatore». Un altro cronista, Ferreto da Vicenza, aggiunge altri dettagli: il papa avrebbe convocato gli inviati di Alberto in un luogo ancora «piú appartato» e avrebbe ordinato ai suoi servitori di portargli «la spada e il diadema»; poi si sarebbe cinto della spada e con fierezza avrebbe posto sul proprio capo la tiara. Quindi, dopo essere restato solennemente seduto per un po’ di tempo, si sarebbe alzato e avrebbe con la mano sinistra brandito le chiavi di Pietro, «perché fossero venerate», e con la destra la spada. Alcuni dettagli possono certo essere stati amplificati ma, per quanto stupefacenti, queste relazioni sembrano perlomeno rispecchiare una certa propensione di Bonifacio VIII a porsi sulla scena, brandendo i simboli del potere pontificio. Abbiamo sovente incontrato papa Caetani rissoso, altero, sarcastico, persino impulsivo. Sono tratti di carattere che possono sconfinare nel desiderio di vendetta, e addirittura nell’incapacità di non oltrepassare certi limiti. Lo dimostra la distruzione di Palestrina ordinata da Bonifacio dopo che i Colonna erano venuti a prostrarsi ai suoi piedi, sottomettendosi. Si erano presentati dinanzi a lui nell’autunno del 1298 in
abiti da lutto, con la testa scoperta, senza calzature e con le corde al collo. La cerimonia si era svolta nel palazzo vescovile e papale di Rieti. Il cardinal Francesco Caetani ricorderà piú tardi che i Colonna avevano attraversato la città, «non a cavallo, ma a piedi» e si erano poi avvicinati al papa, che stava seduto sul trono e portava «la corona in testa», cioè la tiara, «che solo il papa vero e legittimo è solito e ha il dovere di portare». Essi si gettarono subito ai suoi piedi e li abbracciarono «devotamente», chiedendogli compassione e perdono. La totale sottomissione dei Colonna avrebbe dovuto indurre Bonifacio VIII a cessare ogni persecuzione; tanto piú che l’avvenimento era stato preceduto da negoziati, che ormai gli permettevano di avere Palestrina senza colpo ferire. Ma quando il capoluogo dei possedimenti colonnesi fu nelle sue mani, egli manifestò tutto il suo odio contro questa famiglia, di cui voleva distruggere persino ogni ricordo. Come i Romani avevano fatto a Cartagine, il papa fece passare l’aratro sul suolo di Palestrina e spargervi del sale «perché non vi resti nulla, nemmeno la qualifica o il nome di città», come lui stesso affermò in una lettera del 13 giugno 1299.
La Detestande feritatis
Anche la lettura di una delle sue piú importanti bolle, la Detestande feritatis, può confermarci che il Caetani era persona che non disdegnava di dare di sé l’immagine di qualcuno che esternava volentieri i suoi pensieri, e persino la sua emotività. Il papa vi proibiva qualsiasi procedura di smembramento del cadavere, che si rendeva alcune volte necessaria qualora la spoglia dovesse essere seppellita con una certa rapidità in una sepoltura lontana dal luogo del decesso. Per ben tredici volte Bonifacio VIII usa nella sua dichiarazione parole come «orribile, abominevole, inumano». Giunge persino ad affermare che l’offesa fatta all’uomo è «quasi» superiore a quella fatta a Dio. È la grande commozione che glielo fa dire? Si sarebbe tentati di pensarlo, anche perché la bolla conserva sul piano stilistico le tracce di una certa rapidità di stesura. È importante, ci pare, vedere come un documento cosí importante per l’affermazione del potere papale, agli occhi di Bonifacio VIII – dopo tutto il papa si erige qui a giudice non solo dei vivi ma anche dei morti –, contenga tracce ben visibili della sua personalità, intrisa di emotività e forse anche di impulsività, che interagiva sempre, in modo possente, marcato e risoluto, con il suo operato. PAPI DEL MEDIOEVO
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L’impero contro la Chiesa ●1 285
In Francia viene incoronato re il Capetingio Filippo IV, detto il Bello.
●1 294
Sale al soglio pontificio il romano Benedetto Caetani con il nome di Bonifacio VIII.
●1 295
Viene stipulato ad Anagni il trattato di pace tra Carlo II d’Angiò (sostenuto da papa Bonifacio) e Giacomo d’Aragona; l’accordo avrebbe dovuto mettere fine alla guerra dei Vespri Siciliani e restituire la Sicilia ai d’Angiò.
●1 298
Bonifacio VIII fa distruggere la rocca di Palestrina proprietà della famiglia Colonna che riteneva illegittima la sua elezione.
●1 300
Bonifacio indice il primo Giubileo.
●1 302
Filippo IV convoca per la prima volta gli Stati Generali (nobiltà, clero e borghesia) in cui si legge la dichiarazione di indipendenza della Francia e dei re dal potere spirituale; Bonifacio risponde con la bolla Unam Sanctam, che riafferma la concezione del primato della Chiesa sul potere civile.
●1 303
Filippo IV cerca di processare a Parigi il papa accusandolo dell’omicidio di Celestino V, di simonia e sodomia e di altri reati di abuso di potere; giunge a Roma il cancelliere francese Guglielmo di Nogaret per organizzare una congiura con il sostegno dei Colonna, capeggiati da Giacomo detto «Sciarra» Colonna. Viene dato l’assalto al palazzo pontificio di Anagni; il pontefice viene tenuto prigioniero e umiliato per tre giorni, sequestro che passa alla storia come lo «schiaffo di Anagni»; i cittadini di Anagni liberano il papa e cacciano i congiurati.
●1 303
ottobre
Morte del pontefice ed elezione del nuovo papa, Benedetto XI, al secolo Niccolò Boccasini.
In alto il re capetingio Filippo IV di Francia (il Bello), in una illustrazione tratta dal Recueil des rois de France, di Jean du Tillet. 1588. Parigi, Bibliothèque Nationale de France. Il ritratto del sovrano si basa sull’immagine incisa sul suo sigillo regale. Nella pagina accanto l’assetto geopolitico dell’Italia intorno al 1300, epoca in cui si sviluppa la vicenda di Bonifacio VIII.
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BENEDETTO XI
Il vendicatore sottomesso Il domenicano Benedetto XI gestí la difficile eredità del suo predecessore, Bonifacio VIII, con una politica arrendevole nei riguardi del regno di Francia. Ma nel suo pontificato diede anche prova di coraggio e determinazione, processando piú volte i responsabili dello «schiaffo di Anagni»
Nome
Niccolò Boccasini
Nascita
Treviso, 1240
Pontificato 1303-1304
Morte
Perugia, 7 luglio 1304
Sepoltura
Perugia, basilica di S. Domenico
di Francesco Colotta
N
iccolò Boccasini, il futuro Benedetto XI, nacque nel 1240 a Treviso e, rimasto orfano di padre, visse praticamente sempre nel convento presso il quale la madre lavorava come lavandaia. A quattordici anni entrò nell’Ordine dei Domenicani e, nel 1262, si trasferí a Milano, dove conobbe Tommaso d’Aquino e completò la sua formazione culturale. Il ritorno nella sua città d’origine coincise con l’accesso alla docenza teologica, esercitata in seguito anche a Genova. Poco piú che quarantenne, nel 1286, fu eletto provinciale di Lombardia (che all’epoca contava 51 conventi), assumendo cosí il primo incarico di responsabilità anche politica all’interno dell’Ordine. Governò imponendo un certo rigore disciplinare, in base a quanto emerge dalle deliberazioni dei capitoli da lui presieduti, che contengono richiami ai frati su una maggiore fedeltà all’etica conventuale, soprattutto nell’ambito degli studi e della gestione delle finanze. Ben presto, però, emerse la sua linea moderata, che prevalse nella gestione di vicende turbolente come per
esempio quella del convento di Parma, che nel 1287 fu preso d’assalto dalla cittadinanza inferocita in seguito alla condanna al rogo di alcuni eretici da parte degli inquisitori domenicani. Niccolò, con pazienza e abilità, calmò la popolazione e convinse i frati, nel frattempo fuggiti, a tornare nel monastero.
Conflitti politici e religiosi
Nel 1296, in occasione del capitolo generale di Strasburgo, Niccolò venne eletto maestro generale dell’Ordine Domenicano. La nomina cadeva in un periodo particolarmente delicato sia sul versante politico che su quello religioso: in Europa infuriava il conflitto tra Francia e Inghilterra, tra Filippo IV il Bello ed Edoardo I, mentre a Roma il contrasto fra il neopontefice Bonifacio VIII e la potente famiglia dei Colonna sembrava destinato a sfociare in una vera e propria guerra. Il papa appena eletto era infatti un Caetani e aveva favorito l’ascesa dei propri parenti anche attraverso acquisizioni territoriali attuate, sembra, con metodi non del tutto ortodossi.
Nella pagina accanto miniatura raffigurante papa Benedetto XI, da Vaticinia de Summis Pontificibus, una raccolta di testi profetici riguardante i pontefici, a partire da Niccolò III. XVI sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
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Benedetto XI
Lo scontro tra le due fazioni si inasprí nel maggio del 1297, dopo l’assalto e il saccheggio di un convoglio personale di Bonifacio da parte di Stefano Colonna il Vecchio. Pochi giorni dopo il pontefice dichiarò decaduti i cardinali Pietro e Jacopo Colonna, rei di avere sottoscritto il «Manifesto di Lunghezza», un documento con il quale si denunciava l’irregolarità dell’elezione del papa. L’attrito si trasformò in un conflitto che vide infine Bonifacio prevalere, e costrinse gli avversari ad abbandonare Roma, perdendo una buona fetta dei loro possedimenti.
Un intervento decisivo
Il pontefice si impegnò quindi in un ambizioso progetto diplomatico internazionale con l’intento di riappacificare Francia e Inghilterra attraverso un arbitrato. Decise di non agire in prima persona, ma di delegare la spinosa que-
COMMERCIANTI IN PENITENZA A Benedetto XI si deve l’approvazione definitiva dell’Ordine dei Servi di Maria, i cosiddetti Serviti, grazie alla lettera Dum levamus dell’11 febbraio 1304. Fondato nel Duecento da un gruppo di commercianti fiorentini, quest’Ordine Mendicante praticava un regime penitenziale che comprendeva gli aspetti tipici della vita eremitica. Il voto di povertà era un elemento fondamentale per l’ingresso nella comunità. I Serviti scelsero come luogo ideale per i loro ritiri spirituali il monte Senario, vicino a Firenze, dove costruirono un santuario. Con il passare del tempo gli aderenti all’Ordine, molti dei quali laici, decisero di optare per la Regola agostiniana. Dopo l’approvazione di Benedetto XI l’Ordine ebbe una notevole diffusione.
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BENEDETTO E IL BANCHIERE Recenti studi hanno evidenzito il ruolo di Benedetto XI nella realizzazione della Cappella degli Scrovegni di Padova, nota per i magnifici affreschi di Giotto. La traccia piú evidente è la concessione di un’indulgenza plenaria ai fedeli che avessero reso omaggio alla struttura appena innalzata. È il marzo del 1304. Il provvedimento di Benedetto XI fu in un certo senso sorprendente, se non eccessivo, nei riguardi di una cappella privata tra l’altro di proprietà di un laico, il banchiere Enrico Scrovegni. Si trattò, forse, di un favore personale che il papa concesse per gratitudine a chi si era adoperato in precedenza per agevolare il finanziamento necessario alla costruzione della basilica domenicana di S. Agostino, sempre a Padova. Fu proprio il pontefice, poi, a consigliare al banchiere di ingaggiare Giotto per gli affreschi della sua cappella; un particolare del Giudizio Universale ritrae lo stesso Scrovegni che dona alla Madonna un modellino dell’edificio (foto nella pagina accanto, in alto).
stione ai maestri dei due maggiori Ordini Mendicanti: a Niccolò Boccasini per i Predicatori e Giovanni Minio da Morrovalle per i Francescani. Secondo lo studioso domenicano Daniele Penone, il futuro Benedetto XI fu determinante per il successo della missione: «Il maestro generale Niccolò entrò in contatto con Filippo il Bello, re di Francia, che era intenzionato a costruire un monastero femminile a Poissy per ricordare San Luigi, che era stato battezzato in quel paese ed era stato tanto amico dei frati, che ne curarono anche la memoria. Forse proprio per questo legame dell’Ordine con la casa reale di Francia Niccolò riuscí a far accettare al re l’arbitrato di Bonifacio VIII tra lui e il re d’Inghilterra che portò poi a un’intesa di pace». Bonifacio VIII e il maestro generale dei Predicatori strinsero un rapporto di collaborazione e fiducia molto solido, che culminò con la nomina di Niccolò a cardinale, nel 1298. Nel frattempo i Colonna erano tornati a Roma per implorare il perdono dal pontefice. Sembrava quindi profilarsi, dopo anni di faide tra famiglie, alti prelati e governanti, un periodo di tranquillità per il papa e la città, ma non fu proprio cosí. Questa volta i problemi arrivarono dall’estero, dal sovrano francese Filippo il Bello, al quale Bonifacio tolse i privilegi nel 1301 con la bolla
In alto Anagni. La statua di Bonifacio VIII, predecessore di Benedetto XI, collocata su una parete esterna della cattedrale di S. Maria. A destra il santuario dell’Ordine dei Servi di Maria, i cosiddetti «Serviti», sul monte Senario, oggi in provincia di Firenze. L’Ordine fu approvato da Benedetto XI l’11 febbraio del 1304. Nella pagina accanto, in basso busto di Benedetto XI. Viterbo, Museo del Colle del Duomo.
Salvator Mundi. Il peggio doveva ancora arrivare. Il pontefice venne infatti di nuovo accusato di illegittimità, soprattutto all’indomani dell’emanazione della bolla «teocratica» Unam Sanctam, e cadde in seguito nelle mani degli uomini del monarca di Francia nel celebre episodio passato alla storia come lo «schiaffo di Anagni», nel settembre 1303.
Una svolta politica radicale
Alla morte di Bonifacio, un mese dopo, la Chiesa si trovava alle prese con un conflitto ormai totale contro i Francesi, senza contare i nemici romani che comunque avevano continuato ad avversarla. In un clima turbolento il collegio cardinalizio optò per una svolta politica radicale, pur indirizzandosi ai fedeli sostenitori del PAPI DEL MEDIOEVO
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Benedetto XI
LA «CATTIVITÀ AVIGNONESE» Tutto ebbe inizio a causa di un papa un po’ debole, Clemente V, e di un sovrano forte, Filippo il Bello. Il loro matrimonio politico, con la benedizione del collegio dei cardinali in prevalenza francesi, portò al trasferimento della sede papale da Roma in Provenza, ad Avignone, nel 1309. Al grande passo si era giunti, però, dopo un periodo turbolento per il papato, dopo la guerra di Bonifacio VIII contro le piú potenti famiglie nobili romane e il re di Francia. Proprio il monarca transalpino aveva addirittura minacciato di scatenare una diaspora nel clero, ipotizzando la creazione di una Chiesa francese autonoma, staccata da quella romana. Nel frattempo, i cardinali d’Oltralpe, dopo la morte di Gregorio, avevano conquistato maggior potere all’interno della curia e ambivano a eleggere un pontefice dal profilo politico diametralmente opposto a quello di papa Caetani. Il breve transito del moderato Benedetto XI sul soglio di Pietro rimandò la resa dei conti tra porporati pro e contro
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Gregorio solo di qualche mese. Il nuovo conclave, celebrato nel giugno del 1305, promosse il francese Clemente V, benvoluto da Filippo il Bello, proprio mentre a Roma e in altre zone dello Stato Pontificio stava infuriando una battaglia durissima tra famiglie aristocratiche rivali. Il neoeletto, spaventato dalle notizie preoccupanti che gli giungevano dall’Italia, preferí restare in patria e farsi incoronare a Lione anche per le precarie condizioni di salute in cui versava da tempo. In realtà, era stato soprattutto il monarca Filippo a fare pressioni affinché il pontefice rimanesse in terra francese, con il preciso intento di influenzarne in futuro direttamente l’operato. E cosí accadde, tanto che Clemente V, intenzionato a restare solo per un periodo in Francia, decise alla fine di trasferirvi in modo definitivo la sede del papato. Scelse Avignone come nuova Roma, una piccola città della Provenza, paragonata in senso dispregiativo dal poeta
Francesco Petrarca alla Babilonia biblica, capitale della lussuria, della corruzione e del vizio. Iniziò quindi il lungo periodo di «cattività» per la Chiesa occidentale nel corso del quale inevitabilmente il papato perse autonomia, seguendo un indirizzo politico affine agli interessi della monarchia di casa. Diversi pontefici avignonesi non si vergognarono, in quegli anni, di sfoggiare i propri lussi, ritenendoli espressione materiale degna di un compito spirituale cosí elevato: lo fece soprattutto Giovanni XXII, che polemizzò in modo violento con l’Ordine Francescano sul valore del pauperismo. Molti storici del passato giudicarono il periodo di Avignone come una delle pagine piú buie della storia della Chiesa, probabilmente a torto. In età piú recente, infatti, quei giudizi sommari vennero temperati da considerazioni piú obiettive, che evidenziarono anche gli indubbi meriti di alcuni tra i principali pontefici transalpini protagonisti della diaspora. Di certo il soggiorno in Provenza risparmiò, per
esempio, ai papi il rischio di venir coinvolti nelle lotte fratricide tra Orsini e Colonna a Roma e tra guelfi e ghibellini nel resto d’Italia. Dal punto di vista geografico, poi, la sede avignonese appariva piú strategica di quella romana: dopo il fallimento della crociate in Medio Oriente, la Chiesa guardava sempre piú a nord-ovest, dove grandi Paesi come l’Inghilterra, la Fiandra, la Scozia e la Boemia stavano crescendo dal punto di vista politico. Di certo ad Avignone le questioni dello spirito passarono in secondo piano, ma ne guadagnò l’assetto organizzativo della Chiesa, soprattutto le finanze. I papi transalpini si rivelarono dei buoni amministratori. Dopo le spese ingenti sostenute nel primo periodo, necessarie per la costruzione di edifici della corte pontificia in Provenza, i bilanci vennero sistemati, garantendo quella stabilità economica che poi avrebbe consentito investimenti massicci in campo architettonico durante il primo Rinascimento.
Avignone, Palazzo dei Papi. Scena di pesca da una vasca per la piscicoltura, particolare del grande affresco di Matteo Giovannetti (XIV sec.) situato nella Camera del Cervo. Nel Medioevo la stanza fungeva da studio privato dei pontefici.
pontefice appena defunto. La scelta cadde su Niccolò Boccasini, del quale era ben noto il carattere mite, conciliante e anche in un certo senso influenzabile, un personaggio che poteva porre fine al lungo periodo di conflitti. Il neoeletto, che scelse di chiamarsi Benedetto XI in omaggio al nome di battesimo del suo predecessore, si vide costretto a optare per una linea pacifista, spesso arrendevole, vista la sproporzione degli equilibri in campo. La Chiesa in quel momento, agli albori del XIV secolo, si trovava praticamente da sola a fronteggiare un conflitto contro un nemico potentissimo. E l’unico possibile alleato, la Germania, non mostrava alcuna intenzione di intervenire in una eventuale campagna antifrancese. I primi atti di governo di Benedetto XI non sembrarono a ogni modo orientati a passive concessioni nei riguardi dei nemici di Bonifacio, primi fra tutti i Francesi e i Colonna. Prova ne fu l’immediata istruzione di un processo contro i responsabili dello «schiaffo di Anagni», probabilmente con l’intento di far comprendere a quale partito lui appartenesse. Appena eletto, inoltre, nonostante le pressioni della corona francese, si era rifiutato di trattare l’organizzazione di un concilio generale di pace con il principale esecutore dell’attentato a Bonifacio, Guglielmo di Nogaret. Le nuove scomuniche comminate da Benedetto contro tutti i responsabili materiali dell’affronto di Anagni si rivelarono però provvedimenti solo formali e (segue a p. 114) PAPI DEL MEDIOEVO
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PRIMO PIANO
In alto pianta del primo piano del Palazzo dei Papi di Avignone: 1. torre di Trouillas; 2. torre delle Latrine; 3. torre delle Cucine; 4. torre St.-Jean; 5. cappella di St.-Martial; 6. sala dei Festini; 7. torre dello Studio; 8. anticamera del papa; 9. torre degli Angeli; 10. camera da letto del papa; 11. torre del Guardaroba; 12. torre St.-Laurent; 13. cappella di
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Benedetto XII; 14. chiostro di Benedetto XII; 15. sala da pranzo del papa; 16. corte d’onore; 17. cucina; 18. altare; 19. torre della Campana; 20. torre d’angolo; 21. finestra dell’Indulgenza; 22. torre della Gache; 23. cappella Clementina. Sulle due pagine veduta del Palazzo dei Papi e del circondario.
A sinistra trono episcopale della cattedrale di Notre-Dame des Doms (XII sec.) decorato dal leone di san Marco.
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PIANTERRENO
Nella pagina accanto, in alto il soffitto della cappella di S. Marziale, affrescato da Matteo Giovannetti. 1344-1346.
Qui sopra pianta del pianterreno del Palazzo dei Papi: 1. torre di Trouillas; 2. torre delle Latrine; 3. torre delle Cucine; 4. torre St.-Jean; 5. giardino di Benedetto XII; 6. cappella di St.-Jean; 7. concistoro; 8. torre di Urbano V; 9. torre dello Studio; 10. sala di Gesú; 11. torre degli Angeli; 12. torre del Guardaroba; 13. torre St.-Laurent; 14. Notre-Dame; 15. chiostro di Benedetto XII; 16. palazzo dei Congressi; 17. corte d’onore; 18. pozzo; 19. sala della Grande Udienza; 20. torre della Campana; 21. porta di Notre-Dame; 22. torre d’angolo; 23. porta dei Champeaux; 24. torre della Gache.
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transitori. Dopo poco, infatti, le sanzioni di Bonifacio VIII ai danni del re Filippo il Bello furono cancellate: con la bolla Tunc navis Petri del marzo 1304, Benedetto tolse la scomunica al sovrano transalpino e revocò anche alcune disposizioni punitive per il regno di Francia. La linea politica pacificatrice e accomodante del papa non tardò ad affermarsi in ogni atto ufficiale. Ma fu abilità strategica o solo sottomissione? Talento diplomatico o solo una manifestazione di impotenza? Gli storici Franz Xavier Seppelt e Georg Schwaiger non sembrano nutrire dubbi sulla natura arrendevole del suo operato, pur con tutte le giustificazioni del caso: «Questa larga indulgenza di Benedetto XI è stata ripetutamente biasimata. Ma non si è tenuta nel debito conto la difficile situazione in cui si venne a trovare il papa, che in Filippo il Bello aveva di fronte un monarca di risolutezza senza scrupoli, che poteva sostenere la sua politica ricattatoria con potenti mezzi di dominio e che era riuscito a rendersi acquiescente il clero francese». Piú severo è il giudizio, espresso un secolo prima, dello storico ottocentesco Ferdinand Gregorovius, celebre per i suoi studi sulla Roma medievale, che definisce le bolle «pacificatrici» di Benedetto XI come «la sentenza di morte del papato come organismo politico».
Le pretese dei Colonna
Anche con i Colonna, il pontefice trevigiano si comportò in un primo momento in modo inflessibile, eppure, alla vigilia del Natale del 1303, quasi tutte le sanzioni e le scomuniche a carico dei patrizi romani vennero revocate, con l’unica eccezione della conferma del provvedimento di destituzione dei due cardinali della famiglia. I Colonna, dal canto loro, nonostante le concessioni, pretendevano la restituzione di tutti i beni all’epoca confiscati da Bonifacio VIII. In piú, mal sopportavano i favoritismi del papa verso altre famiglie concorrenti, prima tra tutte quella dei Caetani. La ripresa a Roma delle ostilità tra fazioni spaventò il pontefice, criticato anche dai piú radicali sostenitori di Bonifacio VIII, che non avevano condiviso la parziale assoluzione dei Colonna. Per evitare il peggio decise allora di trasferirsi in un luogo piú tranquillo, a Orvieto prima e in seguito a Perugia. Anche nella nuova sede umbra, Benedetto si impegnò in una delle sue missioni di pace, questa volta con scarsa fortuna: intervenendo nella faida tra guelfi e ghibellini a Firenze. Negli ultimi giorni di vita, però, dimostrò come non avesse del tutto deposto le armi contro 114
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i vecchi avversari. Aprí infatti un nuovo processo contro i responsabili dello «schiaffo di Anagni», rinnovando la scomunica non solo verso Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna, ma anche verso gli altri favoreggiatori e, in modo tacito, Filippo il Bello. Nel luglio del 1304, ad appena un mese dalla sentenza, il papa morí in circostanze misteriose, secondo alcune testimonianze avvelenato da un piatto di fichi. Fu ucciso? L’ipotesi piú credibile appare quella della morte naturale o, quantomeno, accidentale di un pontefice molto amato dai fedeli, nonostante i soli 8 mesi di regno. In molti, tra i fedeli, vollero rendere omaggio anche alla sua tomba dove, secondo testimonianze, avvennero alcuni prodigi. Almeno una ventina di persone beneficiarono di miracoli, riacquistando la vista, la funzionalità degli arti, guarendo da ferite gravissime, dalla cefalea, dalla metrorragia e da oscure patologie psichiche, compresi casi di possessione diabolica. In virtú di questi riscontri, per Benedetto XI arrivò molti secoli dopo la beatificazione, nel 1736, grazie a papa Clemente XII. La sua ricorrenza è tuttora celebrata il 7 luglio.
In alto il Palazzo dei Papi ad Avignone, nel dipartimento di Vaucluse, in Francia. Nella pagina accanto La Vergine raccomanda Siena a papa Callisto III, olio su tavola di Sano di Pietro. 1456. Siena, Pinacoteca Nazionale, Palazzo Buonsignori e Brigidi.
Da Clemente V a Callisto III
I papi dopo Benedetto XI Dopo il periodo avignonese nella Chiesa si consuma l’ennesimo scisma. I cardinali francesi, nostalgici dei fasti del papato provenzale, eleggono un loro candidato, Clemente VII, in contrapposizione al pontefice regolarmente nominato, Urbano VI. Per la Chiesa romana si apre un altro fronte interno, in seguito allo scontro tra papi e cardinali che reclamano piú poteri. Si affermano, inoltre, tesi che individuano il concilio come luogo ideale dove esercitare il governo sulla cristianità: la riforma ecclesiastica si avvia, perciò, a essere compiuta attraverso un processo di democratizzazione. Il papato rinuncia alla sua identità universalistica e si concentra nell’amministrazione dello Stato Pontificio, attuando un progetto di sviluppo urbano e artistico in Italia CLEMENTE V (1305-1314) GIOVANNI XXII (1316-1334)
Amante dello sfarzo, si batté contro il pauperismo e i movimenti riformatori. Introdusse la processione del Corpus Domini, il tribunale della Sacra Rota e canonizzò Tommaso d’Aquino. Venne accusato di «eterodossia», dopo aver affermato che i morti non godevano della visione di Dio nella fase successiva alla morte, ma solo con il Giudizio Universale. BENEDETTO XII (1334-1342) CLEMENTE VI (1342-1352) INNOCENZO VI (1352-1362) URBANO V (1362-1370) Fu il papa che trasferí di nuovo la sede papale da Avignone a Roma, ma per un breve periodo di tempo. A causa dell’ostilità della curia francese e delle rivolte scatenatesi nello Stato Pontificio fu costretto presto a fare di nuovo le valigie e a tornare in Provenza. Benedettino di ferro, tentò di ripulire la Chiesa dalla corruzione e dall’avidità. GREGORIO XI (1370-1378) URBANO VI (1378-1389) Fu l’ultimo a essere eletto senza rivestire la carica di cardinale. Nel corso del suo pontificato si consumò la frattura con i porporati francesi, che elessero l’antipapa Clemente VII dando vita allo Scisma d’Occidente. BONIFACIO IX (1389-1404) INNOCENZO VII (1404-1406) GREGORIO XII (1406-1415) MARTINO V (1417-1431) Cercò di riaffermare la centralità del papa nel governo della Chiesa universale e inaugurò un periodo caratterizzato dal diffondersi del nepotismo. A lui si deve l’introduzione dell’apertura della Porta Santa della basilica di S. Giovanni in Laterano e il varo di una legislazione a
tutela degli Ebrei perseguitati dalle disposizioni dell’antipapa Benedetto XIII. EUGENIO IV (1431-1447) NICCOLÒ V (1447-1455) Papa umanista, contribuí non poco alla restaurazione di alcune basiliche romane, di ponti e di altri importanti monumenti. Fondò la Biblioteca Vaticana e aiutò molti letterati. In campo politico cercò di difendere Costantinopoli e la Chiesa d’Oriente dall’assalto dei Turchi, progettando una crociata che non ottenne i risultati sperati. CALLISTO III (1455-1458)
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PIO II
In nome dell’«uomo re»
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Figura controversa e affascinante, Pio II cercò di coniugare la passione per il mondo classico con lo spirito cristiano. Fu anche un grande letterato e trasse ispirazione dai primi fermenti del pensiero rinascimentale, concependo una filosofia che esaltava la grandezza dell’uomo e il ruolo centrale dell’erudizione di Francesco Colotta
E
ra affamato di prestigio, ma non di danaro. Adorava il mondo classico e contemporaneamente i valori cristiani, che cercò di conciliare in ogni modo con le proprie tendenze umaniste. Fu amico e in qualche frangente nemico della Chiesa, schierato a favore e poi contro gli scismatici. Che cosa non fu, insomma, Enea Silvio Piccolomini? Un Toscano dall’indole un po’ spigolosa, eppure capace di commuoversi fino alle lacrime quando venne eletto pontefice nel 1458, con il nome di Pio II. Figlio del Medioevo e anche personalità simbolo del Rinascimento, occupò un posto di tutto rilievo nella letteratura italiana del XV secolo, in virtú di una vasta produzione di novelle e poesie che in alcuni casi fecero scandalo. Fu, senza dubbio, un personaggio poliedrico, come prova il suo turbinoso cursus honorum. Il talento dell’intellettuale, lucido e aperto al nuovo che emergeva in quel ribollente epilogo dell’età di Mezzo, sovrastava per importanza la «carriera» del religioso. Destino volle che si trovasse a respirare l’aria culturale e letteraria della prima metà del Quattrocento. Da quando era morto Boccaccio, non fioriva poesia alta, ma, piuttosto, si sviluppavano gli studi critici e filologici, con il gusto rivolto all’antichità latina e greca e lo spirito proteso verso un rivolgimento della civiltà italiana ed europea.
La passione per le lettere
Enea Silvio Piccolomini nacque nel 1405 nel borgo di Corsignano, la futura Pienza. Era il primogenito di una prole numerosissima, 16 fratelli e 2 sorelle. Fin da giovanissimo, mostrò un’intelligenza vivace e capacità mnemoniche
Nome
Nella pagina accanto particolare della coperta in legno di una tavola di registro della Biccherna, raffigurante l’incoronazione di papa Pio II Piccolomini, opera di Giovanni di Paolo di Grazia. XV sec. Siena, Archivio di Stato. La Biccherna, attiva dal XII fino alla fine del XVIII sec., fu un’importante magistratura finanziaria del Comune di Siena.
Enea Silvio Piccolomini
Nascita
Corsignano, 18 ottobre 1405
Pontificato 1458-1464
Morte
Ancona, 14 agosto 1464
Sepoltura
Roma, basilica di S. Andrea della Valle impressionanti. Per questo il padre lo inviò, appena diciottenne, a Siena per istruirsi nella materia ritenuta piú adatta e prestigiosa per quel ragazzo prodigio: il diritto. Enea Silvio adempí i desiderata del genitore, ma si dedicava con profitto piú alle lettere classiche, consumando le risorse economiche che invece gli dovevano servire per mantenersi. Trascurò pertanto la detestata giurisprudenza, «divorando» invece i testi di Cicerone, Tito Livio, Virgilio. Alla fine tuttavia fu costretto a rassegnarsi alle pressioni paterne e completò a Siena il tirocinio giuridico. Ebbe la ventura di legarsi in amicizia con il già venerato (futuro santo) Bernardino, ascoltandone le prediche e ne restò talmente affascinato da meditare l’ingresso nella vita monastica. Alcune PAPI DEL MEDIOEVO
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Pio II
CARO MAOMETTO...CONVERTITI! Pio II presiedette la dieta di Mantova del 1459, indetta per incoraggiare i sovrani cristiani d’Europa a unirsi nella crociata contro i Turchi. Ma la riunione fallí, a causa degli interessi contrastanti che dividevano le teste coronate. Era il momento cruciale di un’impresa, che nella difficoltosa preparazione fiaccò lo stato di salute già precario del papa Piccolomini. L’angoscia per il pericolo turco perseguitava da tempo Pio II, rimasto il solo a paventare un attacco degli Islamici all’Occidente. L’impero, inoltre, ormai non esprimeva piú un potere in grado di imporsi sulle monarchie e convogliarle verso uno scopo comune. Tuttavia il pontefice volle, prima di imbarcarsi nell’avventura, compiere un gesto distensivo. E prese un’iniziativa che spiazzò tutti: scrisse una lettera a Maometto II, il sultano dell’impero ottomano, che aveva conquistato Costantinopoli. La lettera, del 1461, cosí esordisce: «Ci accingiamo a scriverti alcune cose per la tua salvezza e gloria e anche per la comune pace e consolazione di molti popoli». Segue l’invito al sultano a convertirsi al cristianesimo. A prima vista si direbbe un’iniziativa nata dall’ingenua ma commovente utopia di chi è in preda a un ardente spirito missionario. Il messaggio però non fu mai spedito e rimase fra le carte di Pio II. Eppure rappresenta ugualmente un documento fondamentale per capire il mondo di papa Piccolomini nelle sue mire e il contesto politico in cui si muoveva. Nella lettera, con argomentazioni analitiche degne di un trattato, il pontefice critica alla radice l’Islam appellandosi a ragione e fede. E, nell’invitare all’abiura tutti gli Ottomani, offre al sultano un compenso singolare e clamoroso per la conversione: abbracciando la religione del Cristo, Maometto II avrebbe potuto fregiarsi del titolo di imperatore romano. Incarnando, cioè, il novello Costantino che porta in seno alla Chiesa una massa di infedeli. Per essere piú convincente, papa Piccolomini aggiungeva un «altolà» (difficile da capire dopo il fallimento della dieta di Mantova): l’Occidente è forte e nell’ora del pericolo resisterebbe all’attacco degli invasori. Sul mistero della lettera bloccata si sono arrovellati gli storici. Una spiegazione plausibile potrebbe essere quella del ricercatore Luca D’Ascia che vede come reali destinatari del pensiero di Pio II non il sultano, bensí i principi italiani, fra i quali serpeggiava da tempo una sorta di partito filo-turco.
In basso veduta di Pienza, nelle colline della Val d’Orcia. La trasformazione del borgo di Corsignano, dove Enea Silvio Piccolomini era nato nel 1405, è un esempio significativo di «città ideale» del Rinascimento. Gli interventi per il rinnovamento del centro, ribattezzato Pienza, cominciarono nel 1459, subito dopo l’elezione a papa di Enea Silvio, che ne affidò la direzione all’architetto Bernardo Rossellino. La parte centrale del borgo fu demolita e riprogettata secondo criteri urbanistici razionali, mentre le vie secondarie mantennero l’irregolare impianto medievale.
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Pio II a Mantova, dalle Storie di Pio II – che illustrano in dieci riquadri la vita e le vicende di Enea Silvio Piccolomini – affrescate da Bernardino di Betto detto «il Pinturicchio». 1503-1508. Siena, Duomo, Biblioteca Piccolomini. La dieta di Mantova fu indetta da Pio II nel giugno del 1459 per esortare i sovrani cristiani d’Europa alla crociata contro i Turchi, che avanzavano nei Balcani e in Ungheria. Nel gennaio del 1460 la riunione si risolse con un nulla di fatto, a causa degli interessi discordanti dei principi. frasi del Francescano non sembravano poi cosí lontane dalla amata filosofia umanistica, come per esempio quelle dedicate al valore dell’erudizione: «Chi studia si diletta sempre in virtú», oppure: «Il maggior amico che abbia il diavolo è l’ignorante e l’ozioso». Il giovane Piccolomini, però, non sembrava tagliato per una vita contemplativa e rinunciò alla vocazione conventuale. In quegli anni cominciò a manifestarsi anche un’altra componente del suo temperamento: il culto per la bellezza femminile. Una «debolezza» contratta forse nel clima godereccio che si respirava nella Siena quattrocentesca, dove i costumi erano descritti dalle cronache dell’e-
A destra Veduta della Città Ideale, tempera su tavola. 1480-1490 circa. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche. Nell’opera – variamente attribuita a Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini, Francesco Laurana o Leon Battista Alberti – è rappresentato il modello urbano ideale secondo i canoni di perfezione dell’epoca rinascimentale. poca come eccessivamente liberi. Furono diverse le esperienze «piccanti» che il futuro Pio II visse, svelate senza tanti pudori nei suoi scritti. «Ego plures vidi amavique foeminas», diceva di sé in una lettera e con un certo orgoglio. Persino da papa, in seguito, ricordò alcune avventure erotiche senesi, nei suoi Commentarii rerum memorabilium, come di una primavera della vita. Questa ponderosa cronaca della propria esistenza, dettata in elegante latino e in terza persona fino a poco prima della morte, doveva essere, nella visione dell’autore, un racconto da «consegnare ai posteri», a chiunque volesse tracciare la sua biografia. Voleva essere ricordato in eterno, in modo da soddisfare la sua inclinazione «neopagana», che si nutriva di onori e successo. Al di là dell’intento autocelebrativo, si tratta di un’opera di notevole talento letterario che narra eventi, giudica fatti e uomini, vibra per lo spettacolo della natura. Quest’ultima, trasfigurata con le reminiscenze dei poeti latini e dei fantasmi mitologici: come nelle pagine dedicate a Viterbo, al monte Amiata, al lago di Nemi e al litorale di Ostia. Non disdegna, inoltre, di comporre anche un poemetto (Cinthia) per l’amata Angela Acherisi, nonché di misurarsi con una lunga novella latina, Historia de duobus amantibus, dagli accenti lascivi.
Intrighi al concilio
Fece il suo esordio nella vita pubblica nel 1431 quando, al seguito del cardinale Domenico Capranica, vescovo di Fermo, si recò al concilio di Basilea. Papa Eugenio IV non aveva riconosciuto la dignità cardinalizia a Capranica, che intendeva perciò rivendicare i suoi diritti in sede di assemblea conciliare. Enea Silvio gli fece da segretario e procuratore legale, levando alta la protesta quando il pontefice bloccò d’autorità i lavori del consesso. Capranica, però, aveva cambiato linea all’improvviso, cercando una riconciliazione con il suo nemico. Enea non poté che prendere le distanze, passando subito alle
dipendenze del vescovo di Frisinga e poi a Novara con il presule Bartolomeo Visconti, imparentato col duca di Milano. Proprio a quest’ultimo si attribuí l’iniziativa, non realizzata, di imprigionare Eugenio IV per ricattarlo. Smascherata la cospirazione, l’ancora inesperto Piccolomini rischiò di restarne coinvolto e, prudentemente, per un periodo si eclissò. Lo ritroviamo anni dopo nella segreteria del
PIENZA, LA MUSICA DI PIETRA A Pienza, nella Val d’Orcia lungo la strada fra Siena e Roma, si arriva sempre dal basso, perché sorge su un colle, in superbo isolamento, come si addice a un miracolo d’arte: una città ideale, che nei propositi doveva somigliare alla Città Eterna. Nelle reali dimensioni Pienza è principalmente un complesso monumentale costituito dal duomo e dal Palazzo Piccolomini, che con altri edifici racchiudono l’area trapezoidale di una piazza convergente verso la facciata della chiesa, punto focale di una prospettiva che fu modello per grandi architetti successivi. Ma Pienza è di piú. Qui lo spirito di innovazione e di conservazione riuscí nel miracolo di coniugare le basi urbanistiche medievali e l’istanza rinascimentale. Se l’architettura è «musica di pietra», essa ebbe tra i maggiori interpreti un papa, Pio II, Enea Silvio Piccolomini. Pienza, ovvero «la città di Pio», è il suo capolavoro, la piccola grande città da lui sognata e realizzata attraverso il disegno urbanistico di Bernardo Rossellino, seguace di Leon Battista Alberti. «Un’utopia collinare», la definirono alcuni, realizzata nel modesto borgo di Corsignano, in cui Silvio Piccolomini era nato nel 1405. L’impresa dunque può essere vista anche come segno, fra i tanti, di un personalismo esasperato, che Piccolomini esibí molto prima che il conclave del 1458 lo eleggesse al soglio pontificio. Altro segno di questo attivismo spinto, nell’affermazione di una propria «diversità», può cogliersi nel risvolto economico dell’«operazione Pienza», gravante sulle casse di Santa Romana Chiesa. Sembra storia di oggi. Dai preventivati 10 000 fiorini secondo i calcoli di Rossellino, la lievitazione in corso d’opera raggiunse quota 50 000. E l’architetto nascose al papa l’entità reale del costo. Quando il pontefice, a cose fatte, ne venne a conoscenza la sua reazione fu tutt’altro che preoccupata: «Hai fatto bene, o Bernardo, a nasconderci l’ammontare della spesa, perché se tu ci avessi detto la verità non ci avresti persuaso a spendere una cosí grave somma».
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Pio II
IL «RE DEI TRADITORI» Pio II combatté in tutti i modi Sigismondo Malatesta, signore di Rimini. Prima a suon di scomuniche, poi con due simbolici roghi a Roma, uno in piazza San Pietro e l’altro a Campo de’ Fiori. Era il 17 aprile del 1462. Il papa ordinò di dare alle fiamme alcune immagini dell’odiato condottiero, che giovanissimo aveva guidato l’esercito pontificio nelle Marche e in seguito invece era passato dalla parte degli avversari della Chiesa. Un traditore, insomma, agli occhi del pontefice, che con il passare degli anni mostrò di tollerare sempre meno certi virtuosismi politici da lui stesso utilizzati in gioventú. Nelle effigi di Sigismondo che papa Piccolomini fece bruciare spiccava una scritta derisoria, da alcuni paragonata a un fumetto: «Io sono Sigismondo Malatesta, figlio di Pandolfo re dei traditori, inviso a Dio e agli uomini, condannato al fuoco dalla censura del Sacro Senato». Contro di lui Pio II inviò successivamente l’esercito di Federico di Montefeltro, costringendo il
cardinale Albergati, presso la quale strinse amicizia con Tommaso Parentucelli, futuro pontefice Niccolò V. Per conto dell’alto prelato, nel 1435, Enea Silvio viaggiò a lungo visitando corti italiane, la Borgogna e la Scozia. Tornato a Basilea, dove i lavori del concilio proseguivano faticosamente, rimase in veste di alto funzionario. Quando poi il duca Amedeo VIII di Savoia fu eletto antipapa con il nome di Felice V, ne divenne il segretario personale.
Un ideale epicureo
Con i tre libri del De gestis Basileensis concilii, nei quali descrive un’assemblea alquanto travagliata per la nomina di Felice V, Enea Silvio si rivelò anche storico di ampio respiro. In un primo momento Piccolomini aveva condannato lo scismatico, ma poi cambiò opinione, mostrando una spregiudicatezza sorretta da un sensibile fiuto politico. Nel 1446 prendeva gli ordini sacri, diventando il braccio destro di Niccolò V e successivamente vescovo della «sua» Siena. Il suo sentimento religioso era però sopraffatto dalle suggestioni mondane. Nutriva una cieca fiducia nelle capacità umane, inseguendo un ideale di vita lontano da impegnative questioni spirituali e al riparo dalle passioni violente. Desiderava un’esistenza equilibrata e tranquilla, 120
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nemico alla resa e a subire condizioni pesantissime. Alcuni storici individuano l’origine dei contrasti tra i due anche in una non ben definita rivalità umanistica. In fondo si assomigliavano. Entrambi erano poeti, scrittori, nonché ideatori di capolavori architettonici attraverso i quali perseguivano quel sogno «neopagano» di conquistare la gloria eterna: Pienza per l’uno, e il Tempio Malatestiano di Rimini per l’altro. Anche nei Commentarii il pontefice maltrattò Sigismondo, definendolo «maestro di scelleratezze», «eretico», «usurpatore di terre», «malvagio» ed «empio». Alla fine comunque il papa e il detestato condottiero si ritrovarono insieme a combattere, senza successo, gli stessi avversari: i Turchi. Il papa con la sua crociata impossibile e Sigismondo tra le fila della marca veneziana.
immersa nelle letture classiche, nei piccoli piaceri. Ma il suo carattere focoso spesso rendeva inapplicabile questo modello filosofico vagamente epicureo. Si inalberava spesso, per esempio, con chi criticava le sue opere letterarie. Lo faceva comunque in punta di penna, come con l’amico tedesco Michael Pfullendorf, reo di aver «maltrattato» il suo poemetto Chrysis: «La differenza delle abitudini sta in questo: che a te piacciono le molte parole, a me le poche; tu cerchi di procurar denaro, io lo disprezzo; se ti dedichi a lavori letterari è a scopo venale, io per riposar-
A destra mitra di Pio II Piccolomini. XV sec. Pienza, Museo Diocesano. Nella pagina accanto, in alto ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta. 1451 circa. Olio e tempera su tavola di Piero della Francesca. Parigi, Museo del Louvre. Il condottiero, signore di Rimini dal 1432 al 1468, mecenate e poeta, fu aspramente combattuto da Pio II Piccolomini, che dopo averlo scomunicato nel 1460, ne fece bruciare simbolicamente alcune immagini nei roghi accesi in piazza San Pietro e Campo de’ Fiori a Roma. Sigismondo fu sconfitto nel 1462 dalle truppe papali condotte da Federico di Montefeltro. Nella pagina accanto, in basso piviale di Pio II Piccolomini. Pienza, Museo Diocesano. Donato dal papa alla cattedrale di Pienza nel 1462, il piviale è un prezioso paramento liturgico di manifattura inglese, realizzato tra il 1310 e il 1340, con un’accurata tecnica di ricamo con fili di seta policroma e argento, detta opus Anglicanum. Presenta scene della vita della Vergine, di santa Caterina d’Alessandria e di santa Margherita d’Antiochia. I ricami sono stati associati alle miniature della cosiddetta Bibbia di Holkam, oggi al British Museum di Londra.
mi; tu sei duro e crudele, io dolce e facile; tu preferisci i buoni pranzi a Venere, io Venere ai buoni pranzi; tu vorresti non andar mai a dormire la notte e al mattino non alzarti mai, io preferisco andare a dormir presto e alzarmi prima che spunti il sole. Tu sei illustre, io umile. Queste sono le differenze tra me e te». La sua ascesa continuò a partire dagli ambienti della dieta imperiale di Francoforte, dove era stato inviato nel 1442 dallo scismatico Felice V. In quell’ambiente la sua brillante personalità fece cosí colpo da spingere il sovrano Federico III d’Asburgo ad assumerlo nella cancelleria. Cosí Piccolomini si trasferí in Germania, dove si impegnò a fondo nel tentativo di far riconciliare impero e papato. Alla corte di Federico III si gettò in missioni diplomatiche, viaggi avventurosi attraverso Francia, Inghilterra e Scozia. Esperienze anche scabrose per un giovane entusiasta, intraprendente e fascinoso, che nella circostanza «produssero» due figlie, rispettivamente con una donna britannica e una bretone.
L’«uomo perfetto»
Come cultore dell’antichità classica era affascinato anche dall’eroismo, e formulò una sorta di profilo dell’«uomo perfetto» nel trattato De viris illustribus. Un identikit, però, insolito per chi si dichiarava nostalgico della tradizione classica, con le sue gerarchie sociali: «Enea Silvio pensava che in qualsiasi condizione si può arrivare alla gloria poiché un destino superiore non è privilegio dei nobili», sottolinea il biografo Laeto Maria Veit. E fu «tra i primi a introdurre un simile criterio, senza distinzione di nazionalità, di carriera o stato». Non gradiva, inoltre, gli eccessi nemmeno nella pratica politica e militare. In quest’ambito rigettava l’estremo rigore nella disciplina, utilizzato da celebri governanti-condottieri, uno fra tutti il sovrano Enrico V: «Preferisco fare a meno di lui che del vino…». Intanto l’ottimismo e la fiducia nelle cose terrene stavano per lasciare il campo ad angosce sul futuro, difficili da rimuovere. Fu in questo sofferto periodo che Enea mostrò il suo scarso talento come teorico e filosofo. L’amore per la cultura lo aveva dotato soprattutto di una brillante vena letteraria, ma non della capacità di sublimare o quantomeno arginare i disagi per le avversità della vita. Il pensiero della morte cominciò ad angustiarlo, insieme ai prodromi del decadimento fisico, e fece risvegliare in lui un piú profondo spirito religioso. Già verso la fine di ottobre del 1444 aveva parlato delle sue debolezze e di una ritrovata dimensione spirituale al segretario della città di Praga Giovanni Tu-
schek, con cui si scriveva spesso: «Sono già vecchio e non mi attraggono piú le lettere profane. Io, mio caro Giovanni, disprezzo i piaceri del mondo; vorrei servire unicamente Dio». Non è sicuro se questo avvicinamento al «trascendente» fosse frutto di una reale vocazione, o soltanto una reazione disperata all’immagine tetra del futuro che si era andata configurando nella sua mente. Secondo piú di un biografo, dietro l’incrementato fervore religioso si nascondeva l’atteggiamento «pagano» di disprezzo e fuga da una natura degradata, nella quale Enea Silvio non riusciva a rintracciare un disegno divino. Di certo non lo aiutò il suo carattere, che fin dagli anni giovanili si era manifestato troppo incline alla malinconia e all’eccessiva sensibilità.
Le insinuazioni di un rivale
Il conclave da cui uscí eletto, succedendo a Callisto III Borgia, non sfuggí al vaglio critico espresso nei Commentarii per i contrasti fortissimi fra cardinali. Tre giorni, dal 16 al 19 agosto 1458, bastarono per concentrare i suffragi su Enea Silvio. Ma per il primo e secondo giorno le votazioni e i conciliaboli, allestiti persino nelle latrine, non portarono a nulla di concreto. Il cardinale di Rouen, forse intuendo il vantaggio che il Senese guadagnava con quel silenzio, cercò di screditarlo con un colpo basso. Parlò PAPI DEL MEDIOEVO
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Pio II
pubblicamente della precaria condizione di salute del rivale, che sarebbe stata di ostacolo al buon governo della Chiesa. Non perse l’occasione ovviamente per denunciarne la cattiva fama di «poeta pagano» e di libertino. Per tutta risposta Enea fece una sua «campagna» contro l’avversario, prevedendo che da papa avrebbe favorito solo i connazionali transalpini. Ormai era un testa a testa tra i due candidati, in un groviglio di promesse di privilegi e ricatti.
Il conclave in stallo
Finché nell’ennesima votazione si giunse a una fase di stallo: nove preferenze a Piccolomini, sei al cardinale di Rouen. Ne occorrevano dodici, e due vennero al primo da altri presuli. Il voto decisivo arrivò, ma dopo una scena non degna della sacralità del consesso: Prospero Colonna, che si era dichiarato disposto ad aggiungerlo, fu redarguito dai cardinali di Nicea e Rouen, che passarono alle vie di fatto cercando con alcuni strattoni di metterlo fuori dal conclave. Colonna a ogni modo fu irremovibile, regalando a Enea Silvio Piccolomini la vittoria. In quel 19 agosto 1458 l’eletto scelse il nome di Pio II, in omaggio al pius Aeneas di virgiliana memoria. Le perplessità sul nuovo papa, emerse nel conclave, svanirono progressivamente nel tempo. Anzi fra i membri del collegio si era fatta strada l’idea che questa elezione rappresentasse lo specchio dei nuovi tempi di apertura all’Umanesimo, considerata la non provenienza dell’eletto dal chiuso di ambienti ecclesiali. Quanto a lui, l’homo novus, le cronache raccontano che appena proclamato si commosse dicendo, in plurale maiestatis: «Non conosciamo in noi alcun merito che ci abbia innalzati fin qui, anzi ci dichiareremmo affatto indegni, e non accetteremmo l’onore conferitoci se non temessimo il giudizio di chi ci ha chiamato». Dove l’umiltà si veste da timore di Dio, ma lasciando trasparire l’orgoglio. Da papa continuò a inseguire gli onori, la fama, disprezzando però profondamente la ricchezza e vivendo in modo modesto, senza sfarzi. Malgrado il suo temperamento «pacifista», il pontefice si trovò dinanzi il problema dell’avanzata dei Turchi nei Balcani e in Ungheria. La minaccia alla civiltà occidentale non poteva lasciarlo indifferente. D’altra parte, nei preliminari del movimentato conclave i cardinali avevano stretto un accordo sui punti di program122
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In basso stemma di Pio II sulla facciata di Palazzo Piccolomini, a Pienza. La realizzazione dell’edificio fu affidata nel 1459 dal papa all’architetto Bernardo Gambarelli detto «il Rossellino».
ma che dovevano vincolare l’eletto, chiunque fosse. E fra questi punti figurava proprio la crociata contro i Turchi. Inoltre, per essersi adoperato in particolare per questo obbiettivo, Piccolomini aveva ricevuto a suo tempo dal predecessore Callisto III la porpora cardinalizia. Appena diventato papa, poi, si era impegnato nella costituzione di un Ordine ad hoc (dedicato a santa Maria di Betlemme) con il compito militare di contrastare l’avanzata turca nell’Europa Orientale e Balcanica. Fu giocoforza quindi che, com’era d’uso a quel tempo, il papa assoldasse condottieri e armigeri per l’iniziativa di contrasto agli Islamici. Pio II si gettò egli stesso nell’impresa, arrivando addirittura ad assumere la missione di convertire i Turchi al cristianesimo. Con un gesto, la lettera al sultano Maometto II, che gli assicurò un posto d’eccezione nella storia travagliata dei rapporti con l’Islam. Vista l’urgenza di muoversi, il 22 ottobre 1463 il papa pubblicava la bolla Ezechielis prophetae in cui dichiarava guerra ai Turchi. E, nel contempo, mandava ambascerie ai re e ai popoli cristiani perché si unissero a Veneziani, Ungheresi e Borgognoni nell’aiuto alla crociata. La risposta non fu massiccia. Al papa non restava che recarsi ad Ancona, dove avrebbero dovuto convergere i partecipanti alla spedizione. Pio II l’avrebbe guidata personalmente impugnando la Croce, ma ormai andava perdendo le forze e doveva essere trasportato in lettiga. Mentre non spuntava alcun naviglio, si cercava di occultargli il triste spettacolo dell’affluenza ad Ancona di torme di sbandati, aspiranti crociati. Il 12 agosto 1464, comunque, le navi veneziane entrarono in porto. Il papa si fece condurre alla finestra per vederle e flebilmente riuscí a mormorare: «Finora mancava la flotta alla mia partenza, ora sono io che manco alla flotta». Le sue condizioni si aggravarono e due giorni dopo Enea Silvio Piccolomini morí nel modo in cui probabilmente desiderava. Vivendo «fino al delirio l’ideale pagano dell’uomo in arme soprattutto per la sua connessione al culto della bella morte», come nota lo storico Carlo Falconi.
Alti ideali e nepotismo
Pio II fu dunque un papa che coniugava gli ideali artistici e letterari con l’azione inerente al ruolo di successore di Pietro. La Chiesa per lui non si doveva distinguere dall’Umanesimo, come ebbe un giorno a sottolineare: «Le lettere
latine vivono e muoiono insieme con la Sede romana». Tanta altezza di ideali si associò purtroppo anche al nepotismo, che portò nella curia parenti del Piccolomini e altri a lui intimamente collegati. Tuttavia era questa una pratica assai diffusa in un tempo di insidie provenienti da nemici interni, quanto e piú che dall’esterno della Chiesa. Non sorprende perciò che sulla scia di queste tensioni si sia delineata nei propositi di Pio II la figura del cosiddetto «papa re», con un potere fondato sulla neutralizzazione delle forze militari ostili all’azione pontificia e contro le manovre conciliari che si profilavano a opera dei cardinali. In opposizione a queste ultime fu diretta la Bolla pontificia Execrabilis del 1460, con la quale si
stabiliva che le decisioni del papa prevalevano su qualsiasi delibera espressa dai concili. Ormai l’epoca «rivoluzionaria» di Basilea e il passato mondano erano stati quasi del tutto rimossi: «Dimenticate Enea e accogliete Pio II», disse una volta a chi gli chiedeva di rievocare i suoi trasgressivi anni giovanili. Nei Commentarii, il pontefice parlò di sé come pochi altri. Arrivando a spingersi oltre la propria morte. Enea Silvio Piccolomini – vaticinava egli stesso a chiare lettere – «sarà lodato e rimpianto quando poi estinto non lo si potrà piú riavere. Cesserà l’invidia dopo la sua scomparsa e, dimenticate le passioni che sovvertono il giudizio, risorgerà la fama vera e schietta che collegherà Pio tra i pontefici illustri».
Da Paolo II a Innocenzo VIII
I papi dopo Pio II Con il profilarsi del Rinascimento falliscono diversi tentativi di restaurare l’antica grandezza del papato universale. Non vanno a buon fine le crociate antiturche, né alcuni escamotage volti a ridare autorevolezza alla Chiesa, come per esempio la frequente celebrazione di Giubilei. Ai papi, sempre piú espressione delle lotte fra famiglie nobili romane, non resta che difendere i possessi territoriali e rafforzare la propria posizione attraverso la pratica del nepotismo
PAOLO II (1464-1471)
Amava l’arte, ma anche il lusso e le cose mondane, in particolare le feste popolari. Decise che l’Anno Santo dovesse essere celebrato una volta ogni 25 anni. SISTO IV (1471-1484) Molto sensibile alla cultura, incise nello sviluppo artistico della Roma rinascimentale. Fu lui a iniziare i lavori della Cappella Sistina. Si mostrò particolarmente pragmatico sul piano politico, seguendo la linea dei papi nepotisti del suo secolo e mostrandosi attivo sul piano militare. INNOCENZO VIII (1484-1492) Passò alla storia come il papa della lotta contro le streghe. A differenza dei suoi predecessori non investí risorse nello sviluppo artistico di Roma e fece una vita da libertino. Morí pochi giorni prima della partenza di Cristoforo Colombo per l’America.
Affresco di Melozzo da Forlí raffigurante papa Sisto IV che nomina l’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, primo prefetto della Biblioteca Vaticana, fondata dal pontefice pochi anni prima, nel 1475. L’affresco si trovava nella stessa biblioteca e, dopo essere stato staccato, è ora conservato nella Pinacoteca Vaticana. PAPI DEL MEDIOEVO
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Come la maggior parte dei pontefici d’inizio Rinascimento, Alessandro VI, il discusso e dissoluto papa Borgia, concepisce progetti architettonici imponenti, con il chiaro intento di divinizzare la propria personalitĂ
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ALESSANDRO VI
Una pietra divina di Massimo Miglio e Anna Maria Oliva
«M
estre Antoni, murador, ha començat lavorar ací la porta; segons diu, al desseneyo li ha manat vostra santedat. Lavora adagio, e diu és la causa per no haver dinés» («Mastro Antonio, muratore, ha cominciato qui a lavorare la porta; dice, secondo il disegno che gli ha mandato Vostra Santità. Lavora adagio, e dice che la causa è la mancanza di soldi»). Da Castel Sant’Angelo, il 25 novembre 1493, il vescovo di Agrigento, Joan de CastrePinós, scrive ad Alessandro VI, che è a poche centinaia di metri da lui, nei palazzi pontifici, una breve lettera tutta dedicata alla rocca. Sa di scrivere cose che faranno piacere al pontefice. Mastro Antonio lavora alla porta, secondo il disegno inviato dal papa. Non ha altro da scrivere e lo saluta con umiltà. Il vescovo data la sua lettera dal «vostro castel di Sant’Angelo». Precoce interesse per la maggiore struttura difensiva della città di Roma, da parte di un pontefice che conosceva bene i meccanismi di controllo della capitale. Il capomastro, mastro Antonio, impegnato nella realizzazione di una porta, forse Antonio da Sangallo, è sicuramente ben noto al destinatario tanto da non richiedere, a precisazione, un geonimico o un patronimico; poche righe per sottolineare la scelta personale di una committenza che interviene, sembra di capire, non su un elemento della struttura militare, ma su una struttura d’apparato. Una committenza tanto precisa nelle scelte da inviare un disegno. Un corrispondente tanto preoccupato delle attenzioni e delle volontà pontificie, da informare che il capomastro «sembra» stia lavorando secondo le indicazioni del committente.
I castelli del papa
Fortezze «che sieno la briglia e il freno di quelli che disegnassino fare loro contro» (in questo caso, in generale, contro i príncipi), «e avere uno refugio securo da uno subito impeto» (Prin-
Nella pagina accanto Alessandro VI Borgia ritratto in un particolare della Madonna dei Raccomandati, tempera su tavola di Cola da Roma, detto Cola da Orte e Giovanni Antonio da Roma (l’opera intera è riprodotta a p. 126). 1500. Orte, chiesa di S. Silvestro, Museo Diocesano d’Arte Sacra.
Nome
Don Rodrigo de Borja y Doms
Nascita
Játiva, forse 1431
Pontificato 1492-1503
Morte
Roma, 18 agosto 1503
Sepoltura
Roma, chiesa di S. Maria in Monserrato
cipe, cap. XX). Ma Machiavelli rifletteva che «sono dunque le fortezze utili o no, secondo e tempi; e se le ti fanno bene in una parte, ti offendano in una altra. E puossi discorrere questa parte cosí: quel principe che ha piú paura de’ populi che de’ forestieri, debbe fare le fortezze; ma quello che ha piú paura de’ forestieri che de’ populi, debbe lasciarle indrieto». Secondo la riflessione di Machiavelli, i pontefici avevano sempre avuto piú paura dei propri sudditi che delle potenze straniere; e la sua analisi avrebbe potuto essere confortata dall’attenzione pontificia per rocche e castelli, in tempi recenti, cosí come era confortata, per i suoi tempi, dall’esempio di Cesare Borgia e delle sue imprese. PAPI DEL MEDIOEVO
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Alessandro VI
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Nella pagina accanto la Madonna dei Raccomandati, tempera su tavola di Cola da Roma, detto Cola da Orte e Giovanni Antonio da Roma. 1500. Orte, Chiesa di S. Silvestro, Museo Diocesano d’Arte Sacra. Il dipinto alluderebbe a una sorta di pace che i sostenitori del papato e dell’impero stipulavano sotto l’egida della Madonna: si riconoscono il papa Alessandro VI (1), il re di Francia Luigi XII (2) e la relativa consorte Carlotta d’Albret (3), Lucrezia Borgia (4), Cesare Borgia (5) e una dama ammiccante (6) che, mentre tutti guardano estasiati la Madonna alla quale stanno raccomandandosi, fissa il volto del papa.
Qui sopra stemma marmoreo di Alessandro VI. Roma, Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo.
I documenti alessandrini ribadiscono che rifacimenti, restauri e costruzioni avvengono non solo per aumentare la fruibilità degli edifici, ma anche per renderli piú sicuri e potenti militarmente. Era avvenuto alla metà del secolo, per volontà di Niccolò V; cosí come «munitio» e «tuitio» saranno preoccupazioni costanti di Sisto IV nel secondo quarto del Quattrocento. Alla fine del secolo, nel 1499, e l’attenzione si può restringere ora a Civita Castellana e Nepi, Alessandro VI affida «due palazi et altri lavori» ad Antonio da Sangallo, Perino da Caravaggio, Giacomo Donnasano e Giacomo Scotto.
Quaranta maestri
I lavori dovranno essere terminati entro quindici mesi; i capomastri dovranno avere alle loro dipendenze venti maestri a Nepi e venti a Civita Castellana, che a loro volta dovranno servirsi di un numero sufficiente di manovali. Tutto dovrà essere realizzato «secondo li rascionamenti facti con loro» e secondo il «modello li serà dato», anzi, come si precisa, «secondo li serà commandato et ordinato». Questo per l’«utile». Per l’«honore» si aggiungeva che «se la prefata Santità o altra persona predicta volisse in dicti muri incollati et raschiati alcuna arme o fogliamenti o ornamenti, ipsi magistri siano obbligati a farli». La fortezza è anche un palazzo, del quale il pontefice ha molto ragionato con Antonio da Sangallo e con gli altri capomastri e di cui verrà anche fornito un modello. Come fortezza deve avere precisi requisiti; e allora si specificano spessore e altezza dei muri e come debbano essere realizzati. Come palazzo, deve avere «compartimenti et stantie» adatti al principe e alla sua corte. Come palazzofortezza, deve mostrare i segni e i simboli del potere e della cultura che l’hanno voluto. Su una delle epigrafi era scritto, a commento dello stemma del pontefice, dei suoi emblemi e dell’intera costruzione, con un intarsio di citazioni veterotestamentarie ma anche evangeliche: «A Domino factum est istud et est mirabile in oculis nostris» («È stato fatto da Dio ed è un miracolo ai nostri occhi»). Alessandro VI è Dio. La proposta di un papa-Dio era stata fatta precocemente. Appena eletto il pontefice, nella cavalcata del «possesso» del 1492, da S. Pietro a S. Giovanni in Laterano: arazzi dappertutto e palazzi ornati all’antica, per terra erbe e fiori; archi trionfali effimeri, colonne e capitelli, figuranti sulle colonne vestiti da baroni con le spade sguainate,
In alto lo stemma di papa Alessandro VI Borgia sulla rocca di Civita Castellana (Viterbo), la cui costruzione, iniziata sotto il pontefice, venne portata a termine dai suoi successori. le armi del pontefice ovunque, cornucopie e festoni. La lettura e l’imitazione delle fonti classiche è diretta, l’appropriazione dei modelli, «secondo l’uso antico», totale. L’equazione «papa/pontifex maximus/imperator» si realizza anche nell’effimero: agli angoli di un arco trionfale sono dipinte vittorie alate, tiare e croci pontificie «a proposto moderno»; sul cornicione dello stesso arco, dove erano disegnate le armi pontificie, vi era «era uno spacio grandissimo azurlo con littere d’oro in mezo che facilmente se leggevano de lontano e dicevano: Alexandro sexto pontifice maximo», mentre sotto la volta era dipinto un vaticinio e una tavola «a modo antiquo pendente con littere che dicevano Vaticinium Vaticani Imperii». Dall’altro lato era dipinta l’incoronazione con la legenda «Divi Alexandri Magni coronatio». L’iconografia effimera e quella dipinta su pareti e scolpita nel marmo tradiscono il rapporto tra umanisti e pontefice, e svelano come la scelta a favore degli artisti non sia solo legata a una personale preferenza pontificia per le arti visive, ma indica una forte consapevolezza dei mezzi da utilizzare per l’affermazione di un pontificato. Una cultura vissuta attraverso l’utilizzazione continua delle culture antiche, non soltanto quelle greca e latina. L’accumulo di mitografie che ogni affresco sugPAPI DEL MEDIOEVO
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Alessandro VI A sinistra veduta della rocca di Nepi. In basso lo stemma di Alessandro VI, al centro del soffitto della Sala dei Misteri, dell’Appartamento Borgia in Vaticano.
UNA VITA SPREGIUDICATA Nominato cardinale diacono nel 1456, Alessandro VI non disdegnò i piaceri della vita mondana, circondandosi di numerose amanti, dalle quali ebbe ben 7 figli. Eletto pontefice nell’agosto del 1492, non cambiò registro, restando legato a Giulia Farnese. Dal punto di vista politico, optò per una linea pragmatica, stringendo varie alleanze: in un primo momento con Venezia, i Turchi e il re Alfonso di Napoli, per arginare l’avanzata di Carlo VIII di Francia. Anche a Roma, però, il papa Borgia aveva nemici insidiosi, tra le piú potenti famiglie nobiliari. Si sentiva poco sicuro e quindi non esitò ad accordarsi con i nemici transalpini, ai quali aprí le porte dello Stato Pontificio, favorendone la marcia su Napoli. Dopo la disfatta di Carlo contro la Lega Santa, nel 1495, Alessandro decise di legarsi ancor piú saldamente al regno di Francia, accettando la proposta del nuovo sovrano Luigi XII di dare in sposa la principessa Carlotta d’Albret a uno dei figli del pontefice, Cesare Borgia. L’alleanza ormai strettissima tra la Chiesa di Roma e il re transalpino consentí a quest’ultimo di portare facilmente a termine alcune campagne militari in Italia, prima fra tutte la presa di Milano. Anche Cesare Borgia si lanciò in un progetto di invasione: la conquista
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dell’Emilia-Romagna, compiuta grazie alle risorse finanziarie assicurategli dal padre pontefice. Un’operazione analoga fu pianificata per la Toscana, mentre a Roma veniva scatenata una persecuzione contro i membri piú in vista della nobiltà. Il progetto politico del papa e della sua famiglia appariva chiaro: legare lo Stato Pontificio alla famiglia Borgia e non all’istituzioneChiesa, dando continuità al dominio con il ricorso al nepotismo. Il decesso improvviso del pontefice, nel 1503, fece fallire i progetti egemonici di Cesare, che si trovò sguarnito di risorse per mantenere il proprio esercito. La morte di Alessandro VI pose fine a una delle epoche piú buie della storia della Chiesa, durante la quale si consumò anche la condanna a morte per eresia di Gerolamo Savonarola, reo di essersi scagliato contro la condotta amorale e simoniaca del pontefice. Il papa Borgia passò alla storia anche per alcune iniziative lodevoli: come mecenate, per esempio, aiutò scrittori come Aldo Manuzio e Pomponio Leto, nonché artisti quali il Pinturicchio e Antonio da Sangallo. Tra i suoi sette figli, oltre al già citato Cesare, spicca l’altrettanto discussa e malvagia Lucrezia.
Europa e che dettavano «Cesare magna fuit nunc Roma est maxima / Sextus regnat Alexander, ille vir, iste deus» («Per Cesare Roma è stata grande, ora è grandissima: regna Alessandro VI; Cesare era un uomo, Alessandro un dio»), versi di un poeta d’occasione (il cui nome, a differenza di quello dei pittori, rimane anonimo), che esplicitano la divinizzazione del pontefice e una volontà precisa. Una volontà che si concretizza nelle immagini, ma che usa come veicolo la scrittura, e che tra le scritture privilegia i versi alla prosa. Versi e scritture che sembrano raggiungere la loro apoteosi al palazzo del protonotario Ludovico Agnelli, dove il pontefice e tutti i partecipanti alla processione, tutti gli spettatori di quell’apparato, avrebbero visto tavole ansate, stemmi clipeati e festoni di scritture, con motti e divise: «in campo azzurro littere d’oro, nel scuro littere bianche», che propongono il pontefice come re della libertà, della pace e dell’abbondanza; augurano un Alessandro invitto, pio, magnifico; esaltano i nuovi tempi, il ritorno dell’età dell’oro, una pace eterna, la vittoria del toro sull’agnello, la morte del serpente, Alessandro come Giove; ripercorrono sempre modelli antichi; mescolano fiori a incenso, Giove alle fiamme, riti cristiani a riti pagani.
I segni del potere In alto Resurrezione, affresco del Pinturicchio. 1492-1494. Città del Vaticano, Appartamento Borgia.
gerisce, l’intrico da bestiario fantastico che affolla marmi e travertini, l’incalzare di divinità pagane che definiscono l’immagine del nuovo pontefice non sono solo una conseguenza dell’affermazione di modelli artistici, ma trasmettono una precisa volontà pontificia. Già in occasione del «possesso» del 1492 vi è un grande utilizzo di pittori d’occasione, di artigiani dell’effimero e di artisti che hanno il nome di Antoniazzo, del Perugino e di Pier Matteo d’Amelia. Sono realizzati scenografie e fondali di un trionfo che oramai, dopo Biondo Flavio, sapeva dove leggere le sue fonti. Il «proposto» moderno delle iconografie si riempie anche di molta scrittura. Un incalzare di tabelle esplicative: «Oriens», «Occidens», «Liberalitas. Roma. Iusticia», «Pudicitia. Florentia. Charitas», «Eternitas», «Victoria», «Europa», «Religio», «Alexander VI Pontifex Maximus»; scritture che frantumavano nello spazio il dettato della pagina dello scrittore, perché poi la suggestione del lettore lo ricomponesse e articolasse nella propria intelligenza. Concetti espressi da una scenografia consonante con i versi che subito circolarono in Italia e in
Troppo ricorrente Giove, troppo iterata l’equazione Alessandro/Dio, troppo frequenti i temi politici come l’esaltazione della pace e della giustizia per poter pensare soltanto al «proposto» moderno della cultura del tempo, a contrasto, per esempio, con la maniera tradizionale delle biografie pontificie. Questa l’ideologia pontificia proposta nel primo giorno di pontificato di Alessandro. Negli anni successivi le premesse furono esaltate. Castelli e palazzifortezze furono costruiti e ricostruiti nello Stato Pontificio, modernizzati secondo le nuove tecniche difensive dell’arte militare e quelle dell’organizzazione del consenso; la configurazione urbana di Roma fu segnata dalla volontà pontificia; architetti, scultori, lapicidi e pittori lavorarono per Alessandro VI, dipinsero iconografie nei palazzi pontifici, scolpirono stemmi per le committenze alessandrine, costruirono altari e tabernacoli, palazzi e strade, disegnarono medaglie con il profilo del papa, realizzarono miniature per i suoi manoscritti d’apparato, plasmarono fregi per decorazioni. Iconografie, stemmi iterati e diversi, divise, scritture, segnarono sempre ogni realizzazione per dichiarare il potere del pontefice e trasmettere a tutti l’aspirazione ideologica di un pontefice imperatore. PAPI DEL MEDIOEVO
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VO MEDIO E Dossier n. 19 (marzo 2017) Registrazione al Tribunale di Milano n. 233 dell’11/04/2007 Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Realizzazione editoriale: Timeline Publishing S.r.l. Piazza Sallustio, 24 - 00187 Roma Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Lorella Cecilia (Ricerca iconografica) lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Gli autori: Domenico Caiazza è studioso di storia del Medioevo. Francesco Colotta è giornalista. Massimo Miglio è presidente dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo. Massimo Oldoni è stato professore ordinario di lingua e letteratura latina medievale presso l’Università di Roma «La Sapienza». Anna Maria Oliva è coordinatore scientifico delle ricerche in corso dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Agostino Paravicini Bagliani è professore onorario di storia medievale nell’Università di Losanna. Illustrazioni e immagini: il corredo iconografico dell’opera è stato realizzato grazie alla documentazione redazionale della rivista «Medioevo». Sono state inoltre utilizzate le seguenti immagini: DeA Picture Library: copertina (e p. 124) – Mondadori Portfolio: Electa/Antonio Quattrone: p. 6; AKG Images: pp. 41, 71; Electa: p. 55 – Bridgeman Images: pp. 82/83, 94/95 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 24, 104. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: papa Alessandro VI Borgia ritratto in un particolare della Madonna dei Raccomandati, tempera su tavola di Cola da Roma, detto Cola da Orte e Giovanni Antonio da Roma. 1500. Orte, chiesa di S. Silvestro, Museo Diocesano d’Arte Sacra.
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